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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120636 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Settembre 02, 2011, 09:56:08 am »

Attenzione ai saldi

È stato più laborioso del previsto, ma alla fine il lungo vertice di Arcore ha ridisegnato la manovra introducendo alcune novità che sarebbe omissivo non sottolineare. Non c'è stato l'ulteriore inasprimento fiscale che pure era stato ventilato, anzi è stato eliminato quel contribuito di solidarietà che finiva per tosare le stesse pecore, i contribuenti più fedeli allo Stato. Qualche passo in avanti è stato deciso anche in materia di lotta all'evasione, rafforzando il ruolo dei Comuni e intervenendo sulle società di comodo. Si è aperto poi il capitolo delle pensioni di anzianità, anche se il bisturi riguarda un segmento limitato, coloro che hanno riscattato la laurea e il servizio militare. Insomma dopo giorni in cui si erano rincorse le voci più disparate, il vertice governativo ha dato quantomeno prova di prudenza.

Certo le contraddizioni non mancano. Aver impacchettato la riduzione dei parlamentari e l'abolizione delle Province in un disegno di legge costituzionale sa di rinvio e di beffa nei confronti dell'opinione pubblica. E quanto al fisco, non è stata la Lega a condurre una campagna di delegittimazione di Equitalia invitando artigiani e commercianti a cacciare in malo modo gli esattori fiscali? E ora è la stessa Lega a chiedere all'Agenzia delle entrate di farsi protagonista della lotta all'elusione. Tutto sommato si tratta però di questioni accessorie, più rilevante sarà capire già da oggi quanto pesano le varie poste. I saldi sono stati veramente rispettati?

Perché se noi, magari solo per deformazione professionale, siamo attenti agli slittamenti di opinione all'interno dei partiti, non è detto che i mercati finanziari abbiano lo stesso gusto cronistico. Sarà decisivo, quindi, spiegar loro i dettagli delle novità pattuite ad Arcore affinché non pensino di trovarsi di fronte a una manovra-ballerina. I cui contenuti cambiano con grande velocità e solo per il prevalere delle posizioni del premier o del ministro del Tesoro. Insomma guai a dare la sensazione che invece di impostare una rigorosa manovra fatta di tagli e riforme strutturali - quella che avrebbe veramente tappato la bocca a tutti i critici - la politica italiana preferisce un bricolage finanziario, tante piccole manovre che si susseguono a scadenze temporali ravvicinate.

Se così fosse, non sconteremmo solo il parere negativo dei mercati, ma ne uscirebbe logorato lo stesso governo, alla fine non avrebbe per sé altra operatività se non quella di fare manutenzione dei decreti di rientro dal debito via via depositati in Parlamento. Un segnale in questa direzione, tutt'altro che rassicurante, viene dalla posta di bilancio che accompagna la delega di revisione dell'assistenza: sulla carta prevede un risparmio di 16 miliardi di euro. Un obiettivo ambizioso che lo stesso esecutivo non è sicuro di centrare, come testimonia la scelta di tenere da parte l'aumento dell'Iva per usarlo come paracadute. Non si può però vivere di escamotage e la politica del carciofo, staccare foglia dopo foglia, applicata a un Paese finisce per ammazzarlo.

Dario Di Vico
twitter@dariodivico

30 agosto 2011 08:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_30/divico-attenzione-ai-saldi_832b1aca-d2c6-11e0-874f-4dd2e67056a6.shtml
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 07, 2011, 05:31:08 pm »

l'editoriale

Mettete un Punto

Nessuno può offendersi se lo chiamiamo governo Penelope.
Come la sposa di Ulisse l'esecutivo di Berlusconi ha cucito, disfatto e ricucito la tela della manovra



Nessuno a questo punto può offendersi se cominciamo a chiamarlo governo Penelope. Come la sposa di Ulisse anche l'esecutivo di centrodestra presieduto da Silvio Berlusconi ha cucito, disfatto e ricucito la tela della manovra. Siamo arrivati al quarto restyling e a questo punto c'è solo da pregare che ci risparmino il quinto. E che approvino velocemente il provvedimento per tamponare la crisi di credibilità in cui siamo caduti. Già le nostre banche stanno pagando a caro prezzo l'allargamento dello spread e anche un solo punto in più di tasso di interesse del debito ci costa a regime l'1,2 del Pil.

È evidente, poi, che operando con continui rammendi le coerenze alla fine risultano impossibili e il governo messo di fronte al riproporsi dell'emergenza, e incalzato dal Quirinale, ha finito per fare la scelta più scontata: aumentare le tasse dirette e indirette. Il tutto condito da un incredibile balletto delle cifre che è continuato anche nel weekend di Cernobbio. Così ieri, nell'ennesima convulsa giornata in cui l'onore nazionale è rimasto appeso all'altalena del differenziale Btp-Bund, abbiamo dovuto subire persino lo sberleffo del portavoce del governo spagnolo, il signor José Blanco, che ha ironizzato sullo stop and go del nostro piano di aggiustamento e ci ha accomunati alla Grecia come affossatori dei mercati finanziari.

Sia chiaro: gli iberici stanno molto peggio di noi in quanto a tenuta dell'economia reale ma politicamente hanno fatto le mosse giuste. Hanno confezionato una manovra coerente e l'hanno approvata con voto bipartisan. Noi, da masochisti, abbiamo operato al contrario. Prendiamo le pensioni. Un esecutivo coraggioso avrebbe completato la riforma e avrebbe colto l'occasione per delineare una prima tranche di scambio generazionale, il governo di Roma invece prima ha ceduto ai veti di un singolo partito, poi ha rivolto i tagli verso un settore di pensionati salvo cambiare successivamente direzione e rivolgersi altrove.

Anche in materia di liberalizzazioni ci si è rimangiati qualcosa. La deregulation delle aperture del commercio era una delle poche misure rivolte a stimolare la crescita, ebbene nottetempo la maggioranza ha messo in atto un blitz amputando il provvedimento e circoscrivendolo alle sole città d'arte o turistiche. Stessa (perversa) logica è stata applicata alla liberalizzazione delle farmacie, con un emendamento il centrodestra ha reintrodotto il numero chiuso per evitare che prevalesse - testuale - «la logica della convenienza economica»!

Confidiamo, dunque, che la manovra venga approvata già oggi e che il Consiglio dei ministri domani, quando varerà il disegno di legge costituzionale di abolizione delle Province, operi con onestà intellettuale. L'iter è già di per sé lungo, tocca al governo scrivere un testo rigoroso e delineare un percorso accelerato. Un dubbio, però, resta: che fine ha fatto il dimezzamento dei parlamentari?

Dario Di Vico

07 settembre 2011 09:26© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 24, 2011, 04:12:22 pm »

Manifesto delle imprese

Se chi produce non ne può più

Emma Marcegaglia, pur giunta all'ultima tornata del mandato presidenziale, invece di tirare i remi in barca sta facendo per intero e in piena autonomia il suo mestiere.

Sta rappresentando l'ansia e lo sconcerto dell'imprenditoria italiana davanti a un governo che quando deve mettere nuove tasse comunque alla fine ce la fa, e quando invece deve occuparsi di crescita balbetta clamorosamente.

Che cosa volete che pensi un industriale italiano quando il martedì legge che a Roma stanno studiando un piano decennale (la propaganda dei regimi comunisti si fermava a 5 anni!) e il mercoledì invece viene a sapere che stanno simulando la quinta manovra? Oltre a dare voce all'amarezza («Ci prendono in giro pure in Madagascar» raccontava un industriale delle piastrelle) la Marcegaglia si è mossa per individuare le priorità e dare allo scontento la forma di un Manifesto.

Si può obiettare che l'iniziativa avrebbe potuto esser presa da tempo, che il deficit di competenze «sviluppiste» del governo era chiaro da mesi ma più che piangere sul latte versato a questo punto ha senso condividere il manifesto con il mondo della piccola impresa, del commercio, della cooperazione e persino con l'associazione bancaria. Più largo sarà il fronte, maggiore risulterà l'aderenza con le legittime aspettative di quegli italiani che ogni mattina tirano su la saracinesca e ogni sera vanno a casa chiedendosi cosa ne resterà dei loro sforzi.

Per quanto però il giudizio nei confronti del governo possa essere irrimediabilmente negativo (e lo è), dobbiamo sapere che siamo a un giro di boa della nostra economia. Sta iniziando un'altra storia e dovremo, con qualsiasi quadro politico, imparare a crescere senza spesa pubblica. Per l'Italia è una discontinuità senza precedenti e per le forze sociali una seconda vita. Non ci sarà più spazio per il lobbismo acchiappatutto, per aiuti alle imprese che non siano rigorosi e selettivi e ci sarà invece bisogno di rappresentanze snelle e responsabili. C'è materia per un secondo manifesto.

Dario Di Vico

24 settembre 2011 08:29© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_settembre_24/se-chi-produce-non-ne-puo-piu-dario-di-vico_6d3bb5ca-e672-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 27, 2011, 10:55:28 am »

Prima della frenata dell'economia si buttava fino al 30% del frigorifero

Meno sprechi e low cost la crisi cambia gli italiani

Giovannini (Istat): ma attenzione non è un modello che dura


Crolla la fiducia dei consumatori italiani e tocca il minimo dal luglio 2008 ma il sentimento di profondo pessimismo non si è ancora trasferito alle scelte operate dalle famiglie. Non siamo ancora a fine settembre ed è quindi difficile avere dati ufficiali, la sensazione però è che esistano degli stabilizzatori automatici che rallentano la caduta. Per dare un tocco di colore cominciamo dalla presenza degli spettatori alle partite di calcio. Confrontando i due mesi di settembre, 2010 e 2011, siamo grosso modo sugli stessi numeri, il numero dei biglietti staccati è sostanzialmente lo stesso (attorno a 22.500 per gara) eppure la serie A ha perso squadre piuttosto seguite come Bari, Samp e Brescia. Gli italiani, dunque, non hanno tagliato la voce «stadio» nei budget familiari. Il caso limite è quello del Napoli che a fine agosto ha visto 8 mila tifosi accollarsi il costo di una trasferta a Barcellona per seguire gli azzurri in un match amichevole.

Per rimanere in zona sport possiamo aggiungere che gli abbonati di Sky non sono diminuiti. Anzi. Mancano pochi giorni alla chiusura della trimestrale e le stime sono ottimistiche. La pay tv cresce al ritmo di 30-40 mila abbonati ogni tre mesi con un costo medio per abbonato pari a 43 euro al mese. Nel valutare questo dato gli esperti amano sottolineare l'ipotesi della compensazione, in sostanza la spesa per la pay tv può essere sostitutiva di una cena al ristorante o di un week end fuori città e per questo motivo a Sky la definiscono addirittura «anticiclica», si muove in direzione contraria agli indicatori economici.

Il presidente dell'Istat Enrico Giovannini sostiene che fino alla bufera di agosto gli italiani erano rimasti dell'idea che la crisi fosse transitoria, che si dovesse aspettare che passasse la nottata e che bastasse in qualche modo stringere di un buco la cinghia. Infatti prima della calda estate 2011 i consumi sono rimasti in linea in virtù però del prelievo che gli italiani hanno operato sui flussi di risparmio, tanto che la propensione - testata dall'Istat - ha toccato il suo punto più basso (9%). Giovannini pensa che nei prossimi mesi ci troveremo di fronte a una discontinuità, la portata della crisi apparirà nelle dimensioni reali e di conseguenza non è detto che i comportamenti adattivi, messi in atto dal 2008 ad oggi, si prolunghino. «Il modello non regge» pensa Giovannini e di conseguenza se ci fossero delle autorità lungimiranti sarebbe il caso di gestire un downsizing intelligente, piuttosto che subirlo. È chiaro che quando parliamo di un monitoraggio degli effetti della recessione tiriamo in ballo la percezione, quindi è più difficile accorgersi se in pizzeria restano vuoti tre tavoli in più. Mentre ci colpisce che quella pizzeria abbia ancora tanti clienti.

Per cercare di spiegare la lenta metamorfosi italiana Giuseppe Roma, direttore del Censis, racconta la storia de L'Aquila, una città che ha perso dopo il terremoto 20 mila abitanti, in cui la ricostruzione è sostanzialmente a zero e nella quale in virtù della defiscalizzazione sono sorte tante piccole attività tutte a basso valore aggiunto. Il paradigma aquilano è un tipico comportamento adattivo italiano, si ottimizzano le risorse esistenti e si nasconde l'assenza di un progetto socioeconomico vero. Si ha così la sensazione che questo aggiustamento stia evitando i traumi più dolorosi e tenga lontana una vera stretta di austerità o un degrado sociale tipo film di Ken Loach. Sul suo blog Luca Sofri ha messo in evidenza come domenica scorsa nel centro di Milano ci fossero le file per comprare le t-shirt di Abercrombie. Si può replicare l'ovvio, Milano non è l'Italia. Nella città del Duomo le grandi firme dell'abbigliamento mondiale devono comunque esserci, è come Wimbledon per un tennista e sono in diversi anche in queste settimane di annunciata recessione ad aver investito nella riqualificazione o nel lancio di nuovi negozi come hanno fatto Pirelli, Sisley, Louis Vuitton e Piquadro.
Milano è sociologicamente interessante anche per monitorare altri comportamenti adattivi. Un fenomeno interessante è quello legato all'espandersi dell'economia dei buoni pasto. Gli esercizi commerciali del centro puntano sempre di più sulla pausa pranzo degli impiegati. Sorgono nuovi punti di ristoro con un target ben preciso e i bar ristrutturano gli spazi in funzione della maggiore capienza di tavolini. Pur operando con prezzi contenuti, il margine di guadagno è buono anche perché la scena si consuma nel giro di un'ora con la massima concentrazione tempo/spazio. È una formula di low cost all'italiana, se vogliamo è la risposta a Mc Donald's e come da tradizione non avviene per impulso di un unico grande operatore ma lungo comportamenti imitativi che si diffondono a macchia d'olio. Non è tutto. La «capitale morale» richiama da tutta Italia giovani che vogliono cercare sbocchi nel terziario avanzato e che sono disposti a caricarsi di anni di stage e precariato per sfondare. Sbarcare il lunario con i prezzi milanesi e intanto non vivere reclusi è un bel rebus e così un altro comportamento adattivo che ha preso piede è quello dell'aperitivo lungo che inizialmente prevedeva un corredo di arachidi/olive e via via si è allargato fino a diventare un pasto serale con pasta fredda, tranci di pizza, tapas alla spagnola. Nello slang meneghino si chiama «ape» ed è diventata la cena di una fascia generazionale che va dai 25 ai 40 anni che così risolve il problema di un pasto a prezzi contenuti e per di più non rinuncia alla socializzazione.

Per capire come reagiscono gli italiani alla bufera economica il commercio è sicuramente un elemento chiave. I dati degli uffici studi delle associazioni segnalano la chiusura di 10 mila piccoli esercizi ogni semestre in Italia, aggiungono che questa cifra è destinata ad aumentare vertiginosamente e tuttavia esiste un buon tasso di rotazione. Perché se è vero che nelle vie delle grandi e medie città aumentano i locali vuoti, vanamente in attesa di chi li riempia, non si può dire che la recessione abbia desertificato le arterie commerciali. C'è ancora chi apre un piccolo negozio. È stata la Cna di Roma di recente a segnalare un fenomeno distorsivo che può indurre in errore le statistiche. Chiudono, infatti, le piccole imprese dell'artigianato e quasi in parallelo aumentano le ditte individuali e le partite Iva, così è vero che i numeri attestano la vitalità del territorio ma il saldo occupazionale è nettamente sfavorevole e poi spesso l'apertura di un nuovo esercizio copre anche tanta improvvisazione. Se passiamo ad analizzare i dati che vengono dalle grandi catene di distribuzione tutti esprimono preoccupazione per l'aumento dell'Iva che alla fine ha colpito assieme ai beni di lusso anche molti generi di largo consumo. Per ora comunque non si segnalano crolli delle vendite. Una cartina di tornasole può essere rappresentata dalla movimentazione dei camion di Esselunga che ha un sistema logistico abbastanza avanzato e che reagisce quasi in tempo reale agli input del mercato, ebbene dalla società raccontano come la movimentazione sia rimasta costante e, che pur di tenere le quote di mercato, Esselunga in questo momento stia sacrificando i margini di guadagno. Ma, ed è questa la cosa interessante, il cavallo beve, i clienti quelle merci se le portano a casa.
Quindi se il calo di fiducia non ha portato per ora i consumatori a disertare i negozi li ha spinti però a mettere in atto strategie adattive. Non si fa più la spesona che è stata sostituita da giornaliere visite al supermarket, ci si ingegna per ridurre gli sprechi (gli italiani buttavano fino al 30% del loro frigorifero) e quindi si attua una sorta di just in time di tipo familiare. Quello che si compra si consuma e le scorte sono ridotte al minimo. Sia chiaro, la sensazione resta sempre quella di un lento e inesorabile downsizing però non ci sono scaloni, è una discesa lenta e che i consumatori amministrano per evitare la sindrome della quarta settimana. Almeno finora. Giovannini dell'Istat invita però ad esser vigili.

Resta il risparmio. È chiaro che non se ne forma di nuovo, non ci sono però code davanti alle banche o alle società di gestione per ritirare i soldi già investiti. Del resto il portafoglio degli italiani è tra i più prudenti in Europa e l'investimento in azioni è circa al 20%. Gli addetti ai lavori concordano nel dire che in questo caso più che aver adottato una consapevole strategia di adattamento i risparmiatori sono rimasti bloccati. Non vogliono disinvestire per non contabilizzare le perdite e comunque perché non saprebbero cosa fare di nuovo. E, come in politica, gli italiani in mezzo alla bufera faticano a prendere decisioni.

Dario Di Vico
twitter@dariodivico

27 settembre 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #64 inserito:: Ottobre 04, 2011, 07:39:23 pm »

LE RAGIONI, E GLI ERRORI, DI FIAT

Una dannosa separazione

Le motivazioni con le quali Sergio Marchionne ha annunciato, con un certo clamore, di voler uscire dalla Confindustria sono comprensibili. La competizione globale non fa sconti a nessuno e vendere automobili nelle settimane in cui i mercati si muovono con l'incubo del double dip , della doppia recessione, è un autentico mal di testa. Il manager che guida la Fiat teme che quelle che sono le difficoltà del suo progetto, legate al dispiegarsi dell'avventura americana e all'attesa dei nuovi modelli, vengano acuite da un contenzioso giuridico-sindacale fitto di cause e di ricorsi che giudica insostenibile. Ma riconosciuto a Sergio quel che è di Sergio, va detto che la divisione del fronte imprenditoriale è un errore. Non è il momento. Viviamo una fase delicata della storia nazionale, da due mesi scrutiamo con angoscia l'andamento dello spread tra i nostri titoli e i bund tedeschi, la Bce ci ha scritto una lettera alla quale nessuno ha risposto, la politica attraversa uno dei momenti più bassi della sua credibilità, il governo un giorno annuncia provvedimenti per la crescita e il giorno dopo se li dimentica, le imprese si trovano a far fronte a un serissimo rischio di stretta creditizia che rischia di pregiudicare gli investimenti dei prossimi dieci anni.

Di fronte a quest'agenda la logica vorrebbe che il mondo delle imprese unisse i suoi sforzi, rinunciasse ai personalismi, spingesse nella stessa direzione. Non per creare un partito dei padroni destinato inevitabilmente a creare ulteriori equivoci e ad alimentare nuovi conflitti di interesse bensì per fornire al Paese un modello di coerenza nella risoluzione dei problemi. Il Manifesto delle imprese sostenuto dalle organizzazioni dell'industria, del commercio, dell'artigianato, della cooperazione e del credito è stato - con l'unica eccezione della proposta di istituire la patrimoniale - un piccolo contributo in questa direzione e ha indicato la strada giusta. L'economia deve custodire gelosamente la sua autonomia dalla politica.

Ciò che divide Marchionne da Emma Marcegaglia è una querelle attorno agli effetti dell'accordo del 28 giugno che onestamente si fa qualche fatica a comprendere. Da ambo le parti ci sono pareri di eccellenti giuristi ma la distanza tra le interpretazioni non giustifica una guerra. Anche perché altre multinazionali, che operano in Italia in settori altrettanto aperti alla concorrenza come l'auto, hanno concluso in questi mesi accordi sindacali innovativi, in qualche caso senza un'ora di sciopero. Le relazioni industriali vanno sicuramente modernizzate, fortunatamente però non siamo all'anno zero.

L'uscita della Fiat dalla Confindustria, al di là delle differenti opinioni che hanno in materia sindacale, costituisce sicuramente un trauma per l'associazione. Gli industriali di Bergamo ieri sera mentre ascoltavano il duro intervento della Marcegaglia versus Marchionne trattenevano a stento il loro stupore, toni così decisi contro Torino non se li sarebbero mai aspettati. Per non deludere la base e demotivarla la Confindustria, con o senza Fiat, ha una sola carta da giocare: avviare una radicale autoriforma. Del resto nell'epoca del budget zero e della crescita senza spesa pubblica la pratica del lobbismo per ottenere leggine e incentivi andrà in fuorigioco. Il focus della rappresentanza tenderà ad avvicinarsi ai territori e le imprese per sborsare 10 mila euro l'anno vorranno servizi più qualificati e moderni. Emma Marcegaglia questa riforma aveva promesso di avviarla, toccherà al suo successore realizzarla davvero.

Dario Di Vico

04 ottobre 2011 07:35© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_04/una-dannosa-separazione-dario-di-vico_8fc750aa-ee46-11e0-a09e-1525768cac3d.shtml
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 08, 2011, 11:08:25 am »

I candidati per il dopo Marcegaglia

La scelta di Bombassei: corre per Confindustria

Manca ancora l'annuncio ufficiale, ma di fatto la campagna è partita


Anche se il dado ormai è tratto, Alberto Bombassei si sta muovendo con molta cautela. Non ha ancora deciso la modalità dell'annuncio ufficiale di candidatura alla presidenza della Confindustria ma è chiaro che, dopo l' endorsement che in piena assemblea degli industriali di Bergamo gli ha indirizzato lunedì 3 ottobre Gianfelice Rocca, la campagna è partita de facto.

In una prima fase sembrava che il dopo-Marcegaglia potesse prendere i connotati del capo della Techint e lo stesso Bombassei si era prodigato a lanciare la candidatura. Ma Rocca non se l'è sentita e si è trasformato nel primo sponsor del collega. In questi giorni di attesa il patron della Brembo sta incontrando diversi imprenditori di rango e almeno due forti incoraggiamenti li ha già ricevuti da Luca di Montezemolo e da Franco Bernabè. Bombassei, oltre a essere uno dei principali fornitori della Ferrari, è stato il vice di Montezemolo nella squadra di presidenza Confindustria per quattro anni con un'autonomia di indirizzo sulle relazioni sindacali molto più ampia di quella di cui ha goduto con la Marcegaglia. Dunque non è una sorpresa che i due si stimino e che Montezemolo veda di buon occhio una presidenza Bombassei. La vox populi sostiene anche che una vittoria dell'imprenditore bergamasco sarebbe salutata con favore anche da Sergio Marchionne e che di conseguenza i rapporti Confindustria-Fiat potrebbero venir ricuciti già nel corso del 2012. Meno atteso era l'appoggio di Bernabè, che invece ha voluto essere tra i primi a incontrare Bombassei e a incoraggiarlo.

La domanda più interessante è un'altra: se Bombassei ha preso il testimone da Rocca ne ha anche ereditato la piattaforma di consenso che si era costruita attorno a lui? Non del tutto, perché se Rocca era sostenuto dalle associazioni lombarde e dai veneti non è affatto detto che vada in onda un replay. Il Nord-Est coltiva da tempo il sogno di esprimere il presidente della Confindustria e a metà del mandato della Marcegaglia il nome giusto era sembrato quello di Andrea Tomat, attuale presidente regionale del Veneto. Tomat adesso è totalmente concentrato sul business della sua azienda (la Lotto) ed è quindi fuori gioco. L'aspirazione del Nord-Est è però rimasta in piedi e sta prendendo in queste ore i contorni della candidatura del veronese Andrea Riello.

Non ancora cinquantenne, presidente del gruppo Riello Sistemi, Andrea è stato presidente dell'Ucimu (macchine utensili) e - prima di Tomat - della Confindustria veneta. A cavallo dell'estate ha condotto un'attenta offensiva diplomatica tra i suoi conterranei per ottenere semaforo verde. E ad horas le associazioni territoriali del Veneto dovrebbero candidarlo al dopo-Emma. Per arrivare fino in fondo o solo per marcare l'identità e la forza del Nord-Est? Le due cose, per ora, non sono in contraddizione e quindi in una prima fase Riello dovrebbe esserci e certamente giovarsi dell'appoggio di qualche categoria. Per ricalibrare l'obiettivo c'è tempo e comunque una candidatura veneta di bandiera restringe sul breve il perimetro del consenso da cui prende avvio Bombassei.

Sul fronte della candidatura di Giorgio Squinzi, il patron della Mapei nonché presidente europeo degli industriali della chimica, per ora non ci sono molte novità. Si dà per scontato che la prima sua sponsor sia Emma Marcegaglia, e il botta e risposta bergamasco con Bombassei sul caso Marchionne è stato interpretato dai maliziosi - che in Confindustria abbondano - come la conferma delle sue preferenze. Nel borsino delle alleanze si dà per scontato che sia dalla parte di Squinzi anche Aurelio Regina, presidente degli industriali di Roma e del Lazio, che qualche mese fa coltivava ambizioni da potenziale numero uno e che via facendo si sarebbe accontentato dell'idea di fare il vicepresidente.
Il cronista fin qui ha fatto il suo lavoro. Ha riferito dei nomi che circolano, dei primi schemi di alleanze che si vanno formando, ma non può tacere come questa corsa alla presidenza sia molto diversa dalle altre. Gli imprenditori sono delusi dalla politica e, come sostiene Nando Pagnoncelli, sono per la prima volta seriamente tentati dall'astensionismo. Qua e là cova la protesta, e quando un'assemblea finisce senza fischi e contestazioni gli organizzatori tirano un sospiro di sollievo perché il clima è quello che è.

Non ci saranno defezioni in massa dietro Marchionne (anche Mediaset aveva preso in esame l'ipotesi e poi ha deciso di restare), ma molte piccole e medie imprese potrebbero essere tentate dal tagliare l'iscrizione alla Confindustria prima di altre voci di bilancio.

La discontinuità è, dunque, all'ordine del giorno e stavolta questa richiesta riguarda anche il modus operandi dell'associazione. L'epoca del budget statale uguale a zero riduce la necessità di fare lobby e spinge la Confindustria a riformarsi. Ma come? In questi giorni ha ripreso a circolare tra gli addetti ai lavori una bozza di riforma elaborata da Marino Vago ai tempi della presidenza Montezemolo. Due erano i criteri individuati per la riorganizzazione: a) la divisione della rappresentanza dai servizi; b) la concentrazione delle strutture con il rafforzamento delle associazioni regionali. In sostanza le territoriali quando non hanno i numeri per giustificare il costo dell'apparato sono obbligate a fondersi con quelle vicine. Secondo le stime elaborate da Vago una riforma di questo tipo avrebbe ridotto da 140 a 40 le associazioni di Confindustria sul territorio. È chiaro che questo è solo uno degli schemi possibili di ristrutturazione e quindi i candidati potranno sbizzarrirsi, ma il risultato dovrà essere lo stesso. Chi vorrà subentrare a Emma Marcegaglia dovrà promettere di tagliare i costi, di fare a meno dei convegni inutili e nel contempo di dare agli associati servizi molto più qualificati di quelli offerti oggi. Auguri.

Dario Di Vico

07 ottobre 2011 08:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_07/divico-bombassei-confindustria_70d86508-f0a8-11e0-a040-589a4a257983.shtml
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 15, 2011, 11:43:14 am »

APPROFONDIMENTI - l'ESAME DEI MERCATI

La (difficile) svolta della fiducia

Ora si parla di «sciopero degli investitori»

E una pista porta alla Bce


Dopo spread dovremo forse fare l'abitudine a maneggiare un'altra espressione di derivazione anglosassone: investor strike, che in italiano suona come sciopero degli investitori. La si legge in molti report delle banche d'affari. Nel passaparola di lunedì tra gli operatori questa singolare forma di astensione è stata motivata così: «Sono caduti due governi in Grecia e in Italia, aspettiamo cosa succede dopo ma intanto non rinnoviamo i bond che scadono. È troppo rischioso». Ed è questa dunque l'amara verità con la quale deve fare i conti la gestazione del governo Monti. Non ci sono (finora) grandi firme della consulenza finanziaria pronte a spendersi per l'Italia, non ci sono mani forti disposte a comprare i nostri Btp, mancano soggetti economici di peso che abbiano interesse a incrementare le loro posizioni. Ed è un guaio destinato a non esaurirsi in un giorno. E comunque qualora ci fosse stato qualcuno incline ad acquistare i nostri bond, ci ha pensato Christian Clausen, numero uno della European banking federation, a metterlo in fuga. Con un'intervista ha mandato agli istituti di credito un input preciso: pensate a ridurre il vostro portafoglio se non volete «essere risucchiati nell'epicentro della crisi». Venerdì scorso il rimbalzo dello spread si era avuto perché operatori importanti come Soros o Fidelity si erano ricoperti, lunedì nessuno ha fatto altrettanto. E le banche italiane che magari avrebbero potuto comprare sono già così piene di titoli di Stato che caso mai accade il contrario, si mettono in moto meccanismi quasi automatici che impediscono loro di emettere ordini di acquisto.

Se le cose stanno così - e sono in molti sul mercato a giurarlo - non ci attendono giorni facili. I politici come Enrico Letta, vicesegretario del Pd, che negli ultimi momenti del governo di centrodestra si erano spinti a dichiarare pubblicamente che la caduta del Cavaliere ci avrebbe regalato «100 punti di spread» sono stati clamorosamente smentiti. E la destra può tranquillamente accusarli di aver ceduto alle lusinghe della propaganda, di aver raccontato una bugia. E con loro l'antiberlusconismo chic ha tradito anche quei banchieri da talk show che per strappare un applauso avevano addirittura raddoppiato il bonus di Letta fino a prevedere 200 punti in meno di spread! A far rinsavire gli uni e gli altri lunedì è arrivata la dura lezione del mercato e hanno preferito staccare il telefono per non dover rispondere delle loro imbarazzanti profezie. Così oggi, nel giorno fatidico in cui Mario Monti dovrebbe sciogliere la riserva, si partirà comunque da uno spread Btp-Bund non troppo lontano da quota 500. L'effetto Caimano dunque non c'è stato. Gli ottimisti sostengono che arriverà nei prossimi giorni quando il neo primo ministro illustrerà la composizione del nuovo governo e soprattutto il suo programma. E di conseguenza lo spread dovrebbe scendere. Ma di quanto? A questa domanda nessuno ora dopo la previsione sbagliata sul Cavaliere vuole rispondere e si trovano con maggior facilità operatori che dipingono il cammino del governo Monti come una via Crucis. Sostengono che con una maggioranza parlamentare larga ma non politicamente solida a ogni passaggio necessario per l'approvazione a Montecitorio-Palazzo Madama di questo o quel provvedimento assisteremo al teatrino degli spread. Insomma abituiamoci all'altalena anche se a Palazzo Chigi siederà un uomo stimato dalla City conosciuto e apprezzato nelle cancellerie europee che contano.

Più che il giudizio sul successore di Silvio Berlusconi contano severe note come quelle emesse dalla Barclays che considera l'Italia arrivata a un punto di non ritorno, appunti che i fondi pensione americani leggono avidamente e che certo non spingono i loro asset manager a investire nei Btp italiani nonostante gli ottimi prezzi che riuscirebbero a spuntare. Conta più il deterrente rappresentato dal rischio Italia che la possibilità di portare a casa un titolo decennale remunerato ben oltre il 6%. È pur vero che a complicare la giornata di lunedì sono arrivate le performance negative di due banche come Unicredit e Popolare di Milano, la prima ha presentato conti peggiori delle aspettative e la seconda sconta un pregiudizio negativo degli operatori sulla riuscita dell'aumento di capitale. Ed essendo il mercato finanziario italiano estremamente correlato i guai delle due banche si sono riflessi persino sullo spread.

Una ricognizione sul mancato effetto Cavaliere sarebbe però incompleta se non riferisse di ciò che pensa una agguerrita tribù di operatori. Senza scadere nel complottismo da operetta costoro sono convinti che l'obiettivo dei mercati vada ben oltre le nostre misere sorti. Nel mirino ci sarebbe la Banca centrale europea di Francoforte e l'idea di costringerla a cambiare statuto e a diventare a tutti gli effetti prestatore di ultima istanza. A stampare moneta come la Federal Reserve e la Bank of England. Ricostruendo la giornata di lunedì i sostenitori di questa tesi invitano a leggere l'altalena dei titoli del debito spagnolo, sono stati i bond iberici a determinare l'inversione della tendenza al ribasso del nostro spread. In sostanza le mani forti del mercato picchierebbero Spagna e Italia ma guardano alla Francia, giudicata una tripla A debole. Se Parigi dovesse entrare davvero nel mirino degli hedge fund allora Berlino, finora unica contraria al cambio di statuto della Bce, sarebbe costretta a cambiare posizione. Fantafinanza? Sicuramente no, visto che circolano tra gli operatori studi americani che sostengono proprio questa tesi e le dinamiche di mercato della giornata di ieri qualche argomento a favore lo forniscono con i titoli di Stato spagnoli arrivati a 434 punti di differenza dai Bund e con lo spread francese attestato a quota 165. Va da sé che se dovesse esser vera questa tesi noi rappresentiamo il classico vaso di coccio e anche il varo di un buon governo con un convincente programma non ci toglierebbe del tutto dalla peste. Non tutti gli operatori condividono la pista che porta a Francoforte ma la si sente ripetere sempre più spesso.

Dario Di Vico

twitter@dariodivico15 novembre 2011 09:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_15/divico_difficile-svolta-della-fiducia_c64a7d38-0f56-11e1-a19b-d568c0d63dd6.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 19, 2011, 10:44:41 am »

Dopo il voto di fiducia al governo Monti

I passi necessari

Da liberale e convinto sostenitore della società aperta Mario Monti ha scelto di intestare il suo governo ai giovani e alle donne. Ha sostenuto che la loro attuale marginalità non è solo un gigantesco spreco di capitale umano ma una delle cause della mancata crescita. Da qui l’enfasi che il primo ministro ha voluto mettere nel proporre la piena inclusione delle donne in ogni ambito lavorativo/ sociale e persino l’idea di una tassazione differenziata. Dalla scelta pro outsider è emerso anche l’impegno a combattere il dualismo del mercato del lavoro che vede una parte degli occupati ipertutelata e l’altra priva di diritti e condannata all’invisibilità. Con questa impostazione Monti nel suo primo messaggio ha parlato ai senatori ma idealmente si è rivolto al Paese reale identificando i segmenti della società più interessati al cambiamento. Gli stessi più volte evocati nei discorsi e nell’analisi di Mario Draghi nella sua veste di governatore della Banca d’Italia.

Spenta l’eco degli applausi è lecito però raccomandare al governo, in nome dell’efficacia dell’azione di contrasto all’emergenza finanziaria, di non limitarsi al consenso della platea sociale di intonazione riformista. Il successo del percorso di risanamento non può prescindere dall’orientamento del ceto medio e dai riflessi che ha sui comportamenti dei partiti dell’ex maggioranza. Non a caso il presidente del Consiglio ha escluso tra le misure indicate ieri quella tassa patrimoniale che avrebbe creato sconcerto in larghi settori dell’elettorato di centrodestra e non solo in un ristretto circolo di super ricchi. La stessa precauzione, però, è bene che valga anche in materia di liberalizzazioni delle professioni. Se per riformare il mercato del lavoro il primo ministro ha promesso di ricercare l’accordo con il sindacato, simmetricamente nel procedere alla riforma degli Ordini sarebbe vantaggioso scommettere sul coinvolgimento e la maturità del mondo dei professionisti.

Per portare a compimento anche solo una parte dei provvedimenti che Monti ha illustrato ieri, il nuovo esecutivo dovrà evitare che alle preoccupazioni e alle riserve largamente presenti nei gruppi del Pdl si saldi il mugugno di un ceto medio allarmato dalla somma di misure come la reintroduzione dell’Ici, l’abolizione degli Ordini e l’azzeramento dei privilegi nel trattamento previdenziale. Bisognerà porre, dunque, molta attenzione alla tempistica dei provvedimenti e all’efficacia della comunicazione. Ben venga il completamento della spending review ma i tempi del consenso non sono quelli dell’accademia e di conseguenza i tagli al budget statale e un segnale forte in materia di lotta all’evasione è bene che anticipino eventuali aumenti delle entrate.

Resta il grande tema della riduzione dei costi della politica che rappresenta quasi un impegno elettivo per un governo composto da tecnici. Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella hanno su questo giornale a più riprese identificato le aree sulle quali intervenire con celerità e in maniera tangibile. Sia l’elettorato del Pdl sia quello del Pd sono largamente favorevoli e quindi si tratta solo di agire.

Dario Di Vico

18 novembre 2011 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_18/di-vico-passi-necessari_c5c9315a-11aa-11e1-8aad-a8a00236e6db.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 22, 2011, 04:14:59 pm »

Approfondimenti

Gli stress test dell'industria Ristrutturazioni e pensionamenti

Settimana delle Crisi, un test di Governo

I tavoli al ministero dello Sviluppo. L'affondo su Termini Imerese


La prima settimana operativa del governo tecnico correrà parallela con uno stress test per l'industria italiana grande e piccola. Crisi aziendali che aspettano una soluzione, posti di lavoro in bilico tra ricollocazione e pensionamento. In qualche caso decisioni di politica dei settori che non sono più rinviabili. «Abbiamo da fronteggiare l'emergenza ma dobbiamo anche impostare una strategia di riposizionamento» sostiene Luigi Sbarra, segretario confederale Cisl. La sequenza comunque è da far tremare i polsi anche a ministri più collaudati, infatti nell'arco di pochi giorni bisognerà prendere decisioni importanti per la soluzione di vertenze come Fiat di Termini Imerese, Whirlpool (elettrodomestici), Adelchi (scarpe), Agile (informatica) e dell'intero made in Italy del materiale ferroviario. Buon per il governo che ieri intanto si sia raggiunto l'accordo per la soluzione del caso Antonio Merloni che si trascinava da anni.

La settimana si è aperta lunedì con una manifestazione di artigiani della Cna che hanno riempito piazza Farnese a Roma per dar vita a un rito simbolico della protesta imprenditoriale: la consegna delle chiavi delle aziende. Slogan prescelto: «Se non riparto io, non riparte l'Italia». Venerdì 25 sempre a Roma sarà la volta dei lavoratori del settore del materiale ferroviario che hanno proclamato otto ore di sciopero e una manifestazione in piazza Santi Apostoli. La Finmeccanica ha deciso infatti di vendere la Ansaldo Breda, la Firema è da un anno in amministrazione straordinaria, la Fervet è fallita e non se la passano bene la Ferro Sud, la Keller, la Rsi e le Officine Salento. Il paradosso è che la Ferrovie e le Regioni nel 2012 distribuiranno commesse per riparazione dei treni per 450 milioni di euro ma le ditte italiane non si presentano alle gare e così vincono le svizzere, turche e spagnole. La debolezza delle nostre imprese abituate al sistema delle commesse garantite sta esplodendo e ci sarebbe da impostare una seria politica di settore ma intanto se Ansaldo Breda va ai francesi della Alstom rischiamo un altro autogoal. Tipo Parmalat.

Mercoledì al ministero dello Sviluppo economico ci sarà da sancire il passaggio dell'impianto di Termini Imerese dalla Fiat al gruppo De Risio. «È stato un mezzo miracolo - commenta Vincenzo Scudiere, segretario confederale della Cgil - perché in un primo tempo sembrava che acquirente non fosse all'altezza dell'operazione». Saranno ricollocati nella nuova azienda 1.300 lavoratori e ne resteranno fuori circa 600. In casi come questo la ricetta del salvataggio/ristrutturazione si basa su tre elementi: un nuovo compratore, un accordo di programma che prevede incentivi nazionali e regionali variamente focalizzati e l'accompagnamento alla pensione degli operai in esubero. A Termini la Fiat dovrebbe garantire una sorta di buonuscita ma il nodo e il quesito resta: mentre il governo pensa di aumentare l'età lavorativa si può continuare a gestire le crisi aziendali con pensionamenti anticipati? La contraddizione è stringente anche se viene da lontano. La ristrutturazione della siderurgia è stata governata con i prepensionamenti e altrettanto si è fatto in casi di maxi-riorganizzazione come Alitalia e Telecom.

Intanto riprende la trattativa tra i sindacati e gli americani della Whirlpool per i 600 esuberi che hanno come epicentro Varese. In verità tutto il settore elettrodomestici è a rischio e viene da un record negativo: 4 mila posti persi negli ultimi tre anni. L'assemblaggio si sta spostando sempre di più verso Polonia e Turchia e manca il guizzo innovatore che possa dare nuovo smalto (la domotica?) a un settore che è stato fondante per lo sviluppo del manifatturiero italiano e che invece rischia di ripercorrere il cammino del tessile. Se si continua così rischiamo la politica del carciofo e gli esuberi di Varese sarebbero solo la prima foglia. I sindacati continuano a sperare che si trovi un imprenditore disposto a rilevare le lavorazioni che la Whirlpool vuole chiudere (frigoriferi) ma già tre incontri all'Unione industriali di Varese sono andati a vuoto. La soluzione, si confida definitiva, invece è stata trovata per la Antonio Merloni, un rebus irrisolto da tre anni. Il nuovo padrone si chiama Giovanni Porcarelli e lo schema è il solito: accordo di programma che in questo caso si avvarrà di fondi europei, 700 operai riassunti e 200 avviati al pensionamento. I sindacati accusano le banche di ostacolare la cessione però tutto sommato si respira ottimismo.

Un'altra vertenza che ha riempito le cronache dei giornali è quella della Agile (ex Eutelia). L'azienda è in amministrazione straordinaria e giovedì 24 è previsto un incontro romano al ministero. La novità è che c'è un compratore all'orizzonte, la triestina Tds specializzata nell'informatica medicale. Sono in ballo 1.500 posti di lavoro e anche in questo caso l'iter di soluzione prevede un piano di riassorbimento e un progetto di ricollocazione delle eccedenze gestito con le Regioni e il Fondo sociale europeo. Ulteriori nubi all'orizzonte, invece, per il calzaturificio salentino Adelchi. La Cgil sostiene che i licenziamenti sono stati sospesi in attesa di un incontro a breve presso la Regione Puglia che dovrebbe tenersi giovedì 24. Gli operai sono in cassa integrazione da anni, le prospettive di trovare un acquirente si fanno sempre più esili e l'unica speranza consiste in un nuovo accordo di programma su base locale. E più che una soluzione è un ulteriore rinvio.

Dario Di Vico

22 novembre 2011 | 14:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_22/divico_settimane-crisi-test-governo_7ff2532a-1509-11e1-9140-38f81e7faa5e.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Novembre 29, 2011, 04:09:38 pm »

L’EMERGENZA E LE VECCHIE ABITUDINI

Meglio decidere che concertare

Per dirla con lo slang giornalistico il governo Monti ha un solo colpo in canna. Vuoi per il peggioramento delle condizioni del contesto internazionale vuoi perché il tempo è una risorsa scarsa, l’esecutivo dei tecnici non può assolutamente sprecare la sua (vera) prima mossa. Deve assolutamente andare a segno. L’operazione non è delle più semplici, perché la politica ha lasciato marcire buona parte delle contraddizioni della società italiana senza avere il coraggio di affrontarle di petto negli anni della crescita. Basta leggere il contenuto delle decine di lettere aperte e di appelli che dalle categorie, e persino da singoli cittadini di buona volontà, sono stati indirizzati in forma pubblica al governo Monti. Da quei documenti viene fuori il ritratto di un Paese che vuole meritocrazia ma attende anche inclusione, che chiede di riprendere velocità ma si aspetta di veder ridotto il peso delle disuguaglianze. Attenzione però a illudersi, sommando tutte le domande di cambiamento si finisce per caricare sul nuovo esecutivo la palingenesi dell’Italia, la rimodulazione degli assetti socio-politici di un Paese che una volta era tra i membri del G7. Monti è un amministratore straordinario, non un taumaturgo.

Nell’ottica dell’unico colpo da sparare è da condividere la scelta del presidente del Consiglio di procedere con la tecnica del «pacchetto di provvedimenti» che dovrà avere al suo interno una stringente logica di ripartizione dei sacrifici tra le diverse platee. Nessuna di esse dovrà avere la sensazione di fungere da capro espiatorio. Un governo tecnico, del resto, ha dalla sua il vantaggio psicologico di non dover proteggere le proprie constituency elettorali e aggredire quelle dello schieramento avverso, non c’è dunque lobby che dovrebbe potersi vantare di avere un governo amico. Monti avrà operato con successo nella misura in cui si rivelerà alleato delle nuove generazioni e non degli industriali, dei banchieri, dei sindacati, dei professionisti, dei commercianti o dei taxisti.

La concertazione rappresenta un pezzo della storia recente d’Italia, in alcune e decisive circostanze (l’ingresso nell’euro, ad esempio) si è rivelata un acceleratore del cambiamento, in molte altre la giustificazione di un veto pregiudiziale. Non ci è dato sapere quanto peseranno le relazioni governo-parti sociali quando saremo usciti da quest’incubo, se e come avremo saputo innovare il modello dei corpi intermedi, in questi giorni però appare sempre più chiaro come la concertazione sia chiamata a fare un passo indietro. Così come ha fatto la politica, anch’essa dovrà operare una temporanea cessione di sovranità. La rappresentanza al tempo del rischio-default è dunque chiamata a una prova di maturità, se in passato la spesa pubblica extra budget è stato sovente il lubrificante della coesione sociale, la maniera più veloce per incassare applausi a destra e a manca, questa strada non è più percorribile. E le parti sociali sono chiamate oggi a elaborare un nuovo tipo di scambio, nel quale il dare è immediato e il ricevere è giocoforza differito nel tempo. La prova è difficile ma esistono gruppi dirigenti in grado di superarla. Dal canto suo il presidente Monti non abbia paura del dissenso e, se riesce, eviti di replicare i riti che hanno portato alla nomina dei sottosegretari.

Dario Di Vico

29 novembre 2011 | 8:04© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_29/di-vico-meglio-decidere-che-concertare_903212b0-1a50-11e1-a0da-00d265bd2fc6.shtml
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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 05, 2011, 11:00:37 am »

Un'amara medicina

Nella conferenza stampa che ieri sera ha fatto seguito al Consiglio dei ministri il nuovo governo presieduto dal professor Mario Monti ha dato una confortante prova di stile. Ha mostrato agli italiani che hanno potuto seguirla in tv o via Internet competenza e senso di responsabilità. E l'annuncio che il primo ministro rinuncerà ai compensi che gli spettano è un segno di compartecipazione ai sacrifici richiesti che va sicuramente apprezzato. Può servire a ricreare quel feeling tra il Palazzo e il Paese reale di cui avremo sicuramente bisogno nei giorni e nelle prove difficili che ci attendono. Del resto la settimana che si apre oggi si presenta decisiva per il futuro dell'Europa e il governo di Roma persegue l'obiettivo di presentare l'Italia dal lato delle soluzioni e non da quello dei problemi.

Siccome lo stile è importante ma i contenuti dell'azione di governo di più, è del merito del decreto approvato ieri che bisogna discutere senza timore di sottolinearne alcune evidenti contraddizioni. Il completamento della riforma previdenziale e la riduzione dei costi delle Province, solo per limitarsi a due esempi, sono sicuramente provvedimenti che vanno nella direzione giusta e che rispondono a esigenze complementari. Mettere in sicurezza il nostro sistema pensionistico ma nel contempo dimostrare la volontà di ridurre i costi della politica, di cominciare a tagliare quell'eccesso di intermediazione che prevede tra il cittadino e lo Stato ben tre livelli di rappresentanza politica (Comuni, Regioni e per l'appunto le Province). Il cuore della manovra però - purtroppo - non sta tanto in questi pur importanti provvedimenti, quanto in un'amara medicina: l'aumento della tassazione che colpisce duramente la casa e riesuma qua e là un vecchio armamentario di imposte e balzelli. Fortunatamente alla fine il Consiglio dei ministri ha scelto di soprassedere all'idea di dar corso a un aggravio delle aliquote Irpef che avrebbe sbilanciato ancor di più il decreto dal lato dell'imposizione fiscale. Certo è che rimarrà nel ceto medio italiano la sensazione di essere considerato dai governi di turno - politici o tecnici che siano - come una sorta di bancomat, un portatore sano di liquidità che può essere drenata con facilità.

Nei tempi ristretti che ha avuto a disposizione il governo dei tecnici non ha potuto produrre riforme incisive e strutturali per ridurre il dualismo del mercato del lavoro e rilanciare davvero la crescita. Alcune prime norme sono state previste, altre sono state annunciate e scadenzate per un prossimo e non lontano «secondo tempo». Se le aspettano le organizzazioni internazionali che avevano messo all'indice il governo Berlusconi proprio per questa carenza di iniziativa e se le aspettano le parti sociali. Imprenditori e sindacati sanno che almeno sul breve l'introduzione di nuove imposte, necessaria come tampone, non potrà che acuire i segni della recessione e aprire un pericoloso gap temporale tra i sacrifici richiesti agli italiani e la tenuta dell'economia reale.

Dario Di Vico

Twitter: @dariodivico

5 dicembre 2011 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_05/amara-medicina-di-vico_944e8b2a-1f0b-11e1-befb-0d1b981db5e8.shtml
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« Risposta #71 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:27:35 am »

PICCOLE IMPRESE E CREDITO DIFFICILE

Quel ritardo nei pagamenti

La cronaca innanzitutto. Oggi a Vigonza, uno di quei paesi che hanno fatto le fortune del Nord Est, si terranno i funerali di Giuseppe Schiavon, il titolare della Eurostrade che pochi giorni fa, a 59 anni, ha messo volontariamente fine alla sua vita. Sembrerà un paradosso ma Schiavon è stato strangolato dai crediti. Le pubbliche amministrazioni gli devono 250 mila euro per lavori che la ditta ha portato a termine ma non sono stati mai pagati. Lo Stato, gli enti locali, le Asl ormai liquidano i fornitori a mesi e mesi di distanza. Ci sono casi-limite di pagamenti non ancora effettuati dopo un anno e la media si aggira attorno ai 180 giorni, il doppio rispetto a quanto stabilito dai termini contrattuali. In queste condizioni, e con la recessione che dimezza la domanda, i piccoli imprenditori vanno sott'acqua.

Nell'ultimo mese, soltanto nel Veneto, si sono verificati altri due suicidi e le statistiche, impietose, parlano di 50 imprenditori che si sono tolti la vita nel solo Nord Est da quando, nel 2008, abbiamo importato dall'America la Grande Crisi. Dietro le scelte drammatiche di questi uomini e donne non c'è un'antropologia negativa, un cupio dissolvi ma, caso mai, un eccesso di etica. Dover licenziare i propri collaboratori, chiudere e/o fallire è considerato una vergogna nella cultura delle laboriose comunità del Nord Est, un venir meno alla responsabilità sociale dell'imprenditore.

La scomparsa di Schiavon ha avuto una forte eco e ieri il Corriere del Veneto ha ospitato in prima pagina l'appello rivolto al presidente del Consiglio Mario Monti dai leader delle associazioni industriali, dell'artigianato, del commercio e delle professioni. I Tomat, gli Sbalchiero, gli Zanon, i Bortolussi. «Faccia presto, Presidente - hanno scritto -. Le imprese hanno bisogno di ricevere tempestivamente quanto dovuto». Non sfugge a nessuno che le aziende creditrici sono quelle più deboli, tagliate fuori dai flussi dell'export e concentrate esclusivamente sul mercato interno. È vero che lo Statuto delle imprese, diventato legge ai primi di novembre, obbliga il governo a recepire in anticipo la direttiva di Bruxelles sui pagamenti ai fornitori, ma la norma non risolve il pregresso. Ci sono infatti 60 miliardi di euro di crediti - una cifra- monstre - che non sono stati pagati e lo Stato non sa come fare.

Il ministro Corrado Passera ha ventilato la possibilità di rimborsare gli imprenditori assegnando loro Btp e Bot. «Piuttosto che niente, è meglio piuttosto» hanno commentato i Piccoli chiedendo, nel caso, di poter scontare in banca i titoli assegnati. La strada individuata però non è facile da percorrere: i tecnici sostengono che si corre il rischio di sopraelevare la montagna del debito pubblico italiano. Bisogna trovare, dunque, un meccanismo differente. L'onorevole Raffaello Vignali in passato aveva proposto di utilizzare come pivot dell'operazione la Cassa Depositi e Prestiti che ha il pregio di non rientrare nel perimetro del patto di stabilità. Si vagli questa ipotesi ed eventuali alternative, lo si faccia però in tempi certi. E nel frattempo si garantisca pure che i 100 miliardi di euro che provengono dal dimezzamento della riserva obbligatoria (riconosciuto dalla Bce alle banche) si traducano in accresciuto credito alle imprese.
Agli Schiavon almeno questo lo dobbiamo.

Dario Di Vico

17 dicembre 2011 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_17/divico_ritardo-nei-pagamenti_8371ce80-2879-11e1-b2e0-62df0bde9a01.shtml
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« Risposta #72 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:57:21 pm »

dic
26

Come finanziamo la riforma degli ammortizzatori sociali?

di Dario Di Vico

La revisione dell’articolo 18, dunque, è stata accantonata.

Molti i motivi che hanno portato a questa decisione da parte del governo, a partire dal semaforo rosso di Pierluigi Bersani e dall’opposizione netta dei sindacati. Ma probabilmente la stessa Confindustria nutriva qualche dubbio e hanno destato sorpresa le dichiarazioni di Franco Bernabè che a nome di Telecom Italia ha sostenuto che l’articolo 18 non andava considerata assolutamente una priorità.

Ha pesato anche qualche errore di comunicazione da parte dei ministri interessati che non sono riusciti a spiegare sufficientemente come l’azione dell’esecutivo fosse – almeno nelle intenzioni – volta prima di tutto a superare il dualismo del mercato del lavoro. Piuttosto che a facilitare i licenziamenti.

Quel che è fatto è fatto e dunque conviene passare oltre. Quasi tutti coloro che si sono espressi sulla vicenda dell’articolo 18 hanno finito per sostenere che la vera priorità riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali, individuati correttamente come il punto di snodo tra politiche di flessibilità e nuove tutele.

Il ministro Fornero ha anche fatto sapere che “a titolo personale” sarebbe favorevole all’introduzione del reddito minimo garantito ma le perplessità in merito sono elevatissime. Il rischio che le risorse per il nuovo strumento di protezione sociale finiscano per essere assorbite da cinque-sei regioni è così elevato da sconsigliarne, almeno nell’immediato, il varo.

Sulla riforma degli ammortizzatori sociali e sul come disegnarla esistono ovviamente diverse scuole di pensiero e un buon numero di varianti tecniche, il nodo politico è però un altro. Come finanziarli. La strada più corretta passa dalla rivisitazione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria e soprattutto da quella in deroga.

E qui cominciano i dolori perché la cassa integrazione è stato lo strumento principe attraverso il quale il precedente governo ha agito (con successo) per tamponare le difficoltà del sistema industriale e il rischio di rattrappimento della base produttiva. In particolare la cassa in deroga è stata decisiva nell’evitare la chiusura a grappolo di piccole e medie imprese.

Che fare, dunque? Un buon sistema di ammortizzatori sociali, secondo l’ex ministro Tiziano Treu costa 8 miliardi di euro, grosso modo quanto “vale” la cassa in deroga. Ma le due poste sono scambiabili? Si tratta di discuterne in maniera trasparente ed evitare che, come nel caso dell’art.18, gli apprendimenti di merito non lascino il passo allo sventolio di bandiere e bandierine. Meno veleni, più confronti concreti sulle ipotesi e sui numeri.

twitter@dariodivico

da - http://nuvola.corriere.it/2011/12/26/come-finanziamo-la-riforma-degli-ammortizzatori-sociali/
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« Risposta #73 inserito:: Dicembre 30, 2011, 10:44:36 pm »

Una debole luce in fondo al tunnel

Vorremmo tanto poter dire che l’atteso segnale di inversione di tendenza è già arrivato, purtroppo non è così. Negli ultimi giorni il Tesoro ha pagato rendimenti più bassi per collocare i suoi titoli ma la novità è stata il frutto di un’intelligente operazione di tesoreria delle banche (alla spagnola) e non di un cambio di giudizio dei mercati. La verità è che siamo al centro dell’attenzione mondiale e non per le virtù che pure possediamo, bensì perché l’economia globale ci guarda per sapere se sarà scongiurata o meno la catastrofe dei debiti sovrani. Una tale considerazione basterebbe da sola a motivarci ad adottare comportamenti razionali ma vale la pena ricordare come in gioco ci siano le conquiste civili di cui andiamo fieri: il nostro welfare, lo stile di vita italiano, la forza delle nostre comunità.

Ha fatto bene, dunque, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio a citare il severo articolo che nei giorni scorsi ci ha dedicato il Washington Post e a richiamarci alla responsabilità che abbiamo nei confronti dell’opinione pubblica mondiale. Dobbiamo convincerli di esser cambiati, dobbiamo modificare i pregiudizi che mercati e governi hanno su di noi. Per farlo l’esecutivo di Roma ha ingaggiato una lotta contro il tempo e di questo ieri ha parlato Mario Monti. Chi si aspettava fuochi d’artificio non conosce il professore ed è rimasto sicuramente deluso, certo è che un rito che si protrae per 2 ore e 40 minuti sembra fatto apposta per diluire l’attenzione e stancare i protagonisti. Nell’epoca della comunicazione veloce non sarebbe male innovare i format della triangolazione politica-stampa- cittadini. Ma al netto della formula, dall’appuntamento di ieri alcune informazioni sono emerse. La prima/più importante è che gennaio sarà il mese delle riforme e il timing delle scelte che opereremo su liberalizzazioni e mercato del lavoro sarà scandito dagli appuntamenti già calendarizzati in sede Ue.

Tocca ai partiti e alle forze sociali, messi di fronte all’agenda Monti, decidere cosa fare. «Lavoreremo per tutti dispiacendo un po’ a ciascuno» ha promesso il premier e c’è da prenderlo come un impegno. Nella «fase uno» non è andata del tutto così. Stavolta il governo non dovrà dare l’impressione di essere forte con i deboli e debole con i forti, potrà agire per deregolare taxi e farmacie ma dovrà anche rivedere, ad esempio, i meccanismi che causano l’energia più cara d’Europa. Di fronte a una simmetria di comportamenti sarà più arduo per l’una o l’altra categoria chiamarsi fuori dal processo di risanamento dell’economia nazionale. Nella conferenza stampa il premier ha anche dichiarato di non escludere il varo di un fondo per tagliare lo stock del debito e ha fornito una ghiotta anticipazione. L’avanzo primario strutturale è arrivato al 5%, performance che ci riporta ai migliori risultati della seconda parte degli anni 90. Certo che produrre un avanzo primario del 5% pagando tassi sul debito del 2-3% sarebbe una manna, farlo dovendo sborsare il 7% annulla ogni beneficio.
E dimostra quanto sia urgente cambiare la percezione che hanno di noi i mercati per uscire dal tunnel ed evitare di continuare a pagare tassi da «usura globale».

Dario Di Vico

30 dicembre 2011 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #74 inserito:: Gennaio 05, 2012, 07:45:37 pm »

I CAMBIAMENTI E LA FIDUCIA NECESSARIA

Non lasciamo solo chi subisce la crisi

Una volta lo si chiamava Paese reale. Poi si convenne che sapeva troppo di vetero-sinistra e il termine è caduto in disuso. Ma in questi giorni convulsi e difficili vale forse la pena di rispolverare quel concetto perché indica il protagonista della nuova fase della vita politico-sociale italiana. Se fino a poco tempo fa interrogati dai sondaggisti i nostri connazionali rispondevano che l'Italia andava malissimo ma loro tutto sommato se la cavavano, oggi sta subentrando una percezione più realistica. E anche più drammatica. Pur senza aver frequentato la Bocconi gli italiani hanno capito che si stanno modificando i meccanismi di fondo del funzionamento della nostra società e tutto ciò sta avvenendo con inedita velocità.

Anche noi cronisti della crisi ci stiamo convincendo di vivere un pezzo della storia patria che in un secondo tempo rimasticheremo e studieremo a lungo perché avrà segnato profondamente il paesaggio sociale. Proprio perché il cambiamento è così profondo non bisogna però lasciare soli coloro che lo subiscono. Storicamente in Italia, e per tanti motivi che non è il caso di affrontare in questa sede, la cultura del mercato è stata minoritaria, confinata all'approvazione da parte di élite lungimiranti. Oggi per di più il mercato si presenta alla stregua di un abito rigido, confezionato a Bruxelles e non nelle nostre sartorie politiche, e che per giunta dobbiamo indossare in tempi di recessione e non di larghezza. Purtroppo i governi di ogni colore che hanno sostato a Palazzo Chigi negli anni della crescita hanno sempre rinviato le riforme strutturali e così siamo costretti a realizzarle nelle condizioni di contesto più difficili che ci potessero capitare. Per tutte queste ragioni bisogna evitare che dalla paura del cambiamento, di per sé legittima, si sviluppi un sentimento di estraneità e di rivolta, bisogna scongiurare che gli italiani maturino un convincimento antieuropeo e coltivino l'improbabile sogno di tornare ai tempi della liretta.

Su chi sta guidando, tra grandi difficoltà, il processo di modernizzazione (forzosa) dell'Italia ricade dunque la responsabilità di costruire attorno a quegli obiettivi l'indispensabile clima di fiducia. Non stiamo parlando di qualcosa di impalpabile ma chiediamo, ad esempio, che le banche sviluppino una policy amichevole nei confronti delle piccole e medie imprese bisognose di credito. Vorremmo anche che lo Stato per non apparire patrigno affronti una volta per tutte lo scandalo dei mancati pagamenti della pubblica amministrazione e definisca una formula per incominciare a restituire quel dovuto che altrimenti si trasforma in maltolto. Il Paese reale in quasi tutte le sue componenti sta affrontando uno stress senza precedenti, ma finora lo sta facendo in maniera composta. In risposta a una riforma delle pensioni incisiva e di standard europeo abbiamo registrato solo tre ore di sciopero generale. È vero che diverse categorie minacciano blocchi e azioni clamorose, però fin qui abbiamo letto per lo più appelli pubblicati sui giornali. Gli episodi più inquietanti di queste settimane riguardano la campagna terroristica di cui è bersaglio Equitalia ma in questo caso non si tratta di un'azione di lobby bensì di un fenomeno eversivo. Pur soffrendo, dunque, il Paese mostra di avere i nervi a posto e merita di avere un governo per amico.

Dario Di Vico

5 gennaio 2012 | 8:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
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