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Autore Discussione: Dario Di VICO.  (Letto 120520 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 31, 2010, 10:49:28 am »

Riforme contro l'evasione

Il lavoro sui redditi degli italiani e le tasse versate che il Corriere ha portato avanti consente una riflessione pressoché inedita di sociologia tributaria. Fino al 2008, quindi in un ambiente pre-Grande Crisi, se lo Stato ha continuato a pagare gli stipendi, se ha tenuto fede alla tradizione del welfare europeo, se ha supportato con incentivi e aiuti l'azione delle grandi imprese, se in definitiva non ha dovuto alzare bandiera bianca stroncato dall'evasione fiscale, lo deve allo spirito civico di quattro milioni di connazionali. Sono loro - in magna pars lavoratori dipendenti - che, pur rappresentando solo il 10% dei contribuenti, versano oltre la metà delle tasse incassate dal Tesoro.

Accanto a questo macro-fenomeno i dati 2008 ci segnalano altre due novità minori: un maggior contributo da parte dei professionisti e i primi sintomi di una difficoltà dei ceti medi (che vivono di lavoro autonomo) a tenere le posizioni in termini di reddito. A ripagare la fedeltà fiscale dei lavoratori dipendenti non è arrivata una maggiore equità del prelievo, ma paradossalmente è stata la crisi. Vuoi psicologicamente vuoi nei fatti, il lavoro dipendente è stato colpito in maniera meno traumatica dal downsizing dell'economia. Ciò non è avvenuto in maniera uniforme: i dipendenti pubblici hanno usufruito di un ricovero totale, mentre operai e impiegati finiti in cassa integrazione hanno subito una decurtazione di salari e stipendi. Per entrambi un sollievo è venuto, però, dal drastico calo dell'inflazione che nel 2009 è rimasta ancorata allo 0,8%.

Sui lavoratori autonomi che presentano un tasso di infedeltà fiscale assai marcato - e in molti casi clamoroso - si è abbattuta la legge del contrappasso. La crisi del 2009 si è accanita sui loro redditi, tanto che le partite Iva sono diventate più simili a un refugium peccatorum che a uno strumento di mobilità sociale. In più si è fatta sentire la loro esclusione dal welfare. Passare ai rimedi non è facile. Politica e opinione pubblica però non possono sottrarsi, lo devono ai contribuenti onesti. Da qui la necessità di una riforma fiscale non di soli palliativi che corregga le evidenti asimmetrie del patto di cittadinanza. Ergo: pagare meno, pagare tutti. Ridurre il carico che pesa sui 4 milioni di «fedeli» e aumentare le entrate sul versante degli autonomi evasori. Per rendere credibile quest'operazione occorre anche formulare nuovi strumenti di integrazione rivolti ad artigiani, partite Iva e giovani professionisti. Quadrare il cerchio non sarà agevole ma di compiti facili la politica moderna purtroppo non ne avrà più.

Dario Di Vico

31 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:33:05 pm »

IL GOVERNO E LE RIFORME NECESSARIE

Le scelte non rinviabili


Duole dirlo ma la ricreazione è f i n i t a . La campagna elettorale si è rivelata un’altra occasione perduta per migliorare il rapporto tra politica e società. La scaletta dei comizi è rimasta lontana mille miglia dall’agenda degli italiani. Si è inseguito il consenso a prescindere, mai si sono messi a confronto in maniera costruttiva problemi e soluzioni. Ai politologi l'ardua sentenza se sia ormai la regola delle democrazie post-moderne o se è stata l'ultima delle campagne condotte alla ricerca del consenso liquido. Certo è che dopo aver disquisito se fossimo entrati in una crisi pari al '29, al momento di prospettare agli elettori le possibili vie d’uscita si è preferito buttare la palla in corner. Duole sostenere che la festa è finita perché come conseguenza ci tocca vestire gli scomodi panni di Cassandra. La politica deve sapere che la crisi oggi ha il volto della «recessione umana» (copyright di Larry Summers): l'Italia si sta avvicinando ai 2 milioni di disoccupati strutturali e gli ultimi dati Istat sui consumi segnalano una forte contrazione persino degli acquisti di alimentari.

Le imprese, quelle che hanno resistito (e comunque la previsione di 2 mila aziende a rischio nel solo Varesotto, fatta 9 mesi fa, si è già avverata!) se la passano male, «la ripresa statistica» non l'hanno ancora vista e cresce di giorno in giorno l'area della concorrenza sleale. Il sommerso di origine asiatica sta lievitando e appena Polizia e Guardia di finanza accentuano i controlli trovano montagne di merci contraffatte e innumerevoli laboratori- dormitorio. Chiusi i seggi, spente le luci dei talk show post-elettorali, archiviate le immancabili risse della serie «urlo, ergo sum», bisognerà che la maggioranza metta in campo un’ipotesi di lavoro che vada oltre il giorno per giorno, che viva non del solo refrain sulle virtù del made in Italy. Se il governo non vuole chiamarle riforme, se per qualche motivo ha contratto una forma di idiosincrasia politico- lessicale, poco importa. Chiamiamole «interventi », «terapie» oppure coniamo un neologismo (siamo dei campioni), ma facciamo in fretta perché quelle «cose» non si possono rinviare all'infinito. Ci sono tutti i segni che l'Italia possa entrare in una lunga fase di stagnazione, fatta di disoccupazione alta, bassi consumi e crescente difficoltà dell'industria. A pagare il conto, forse più di altri, è uno dei mondi che più si rispecchia nel centro-destra. La piccola impresa, il lavoro autonomo, i professionisti, quel mondo che non è stato avaro di consensi dal '94 ad oggi verso Silvio Berlusconi, e che oggi chiede una forte discontinuità.

Si aspetta che il centrodestra liberi risorse dal giogo della spesa pubblica e pensa che il nodo delle pensioni vada affrontato. È proprio incredibile—e la maggioranza ha davanti a sé tre anni senza elezioni—un patto generazionale tra padri e figli che riequilibri le tutele e ripensi il sistema degli ammortizzatori sociali? È così ingenuo credere che si possa—passo dopo passo, per carità— avviare la riforma fiscale? Giustamente il governo vuole costruirla con un’ampia condivisione ma serve un timing stringente, altrimenti si finisce per contrapporre il meglio al bene. Finora gli italiani hanno affrontato la crisi con grande senso di responsabilità, le aziende si sono caricate la croce e i lavoratori hanno dato prova di maturità. La società è rimasta coesa anche quando la politica appariva rissaiola e inconcludente. Ma niente è per sempre.

Dario Di Vico

29 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #32 inserito:: Aprile 01, 2010, 11:02:08 pm »

Il commento

Ma il 2002 è lontanissimo

Diciamolo senza timore. Di una nuova snervante battaglia sull’articolo 18 l’Italia del 2010 può farne a meno.
Ieri il presidente Giorgio Napolitano è intervenuto, sulla base dei poteri che la Costituzione gli riserva, per richiamare il legislatore a una più puntuale formulazione delle norme in materia di arbitrato.

Il sistema dei contrappesi che regola le democrazie lo prevede ed è bene che ciò avvenga, soprattutto in tempi in cui i cittadini sono portati a formulare cattivi pensieri sulla salute delle nostre istituzioni. Detto questo, non si può non condividere l’orientamento del governo che parte da un’esigenza difficilmente smentibile. Il contenzioso davanti ai giudici del lavoro ha assunto proporzioni abnormi contribuendo a creare un altro paradosso italiano: chi chiede giustizia finisce per aumentare il traffico e rendere più difficile la risoluzione dei casi già in esame.

Una causa di lavoro in Italia dura in media 4 anni e l’arretrato di pratiche si misura ormai nell’ordine dei milioni! Un record europeo. Nei cassetti dei tribunali giacciono non solo il contenzioso sui licenziamenti ma anche le controversie su decisioni aziendali minori (cambio di mansioni, voci della retribuzioni, mobilità interna) contestati dai dipendenti. Di conseguenza istituire l’arbitrato serve a ridurre l’ingorgo e a favorire non solo le imprese ma anche il lavoratore che ha maggiori possibilità di venire ascoltato e ottenere un giudizio finale. Tanto più se, come chiede anche Napolitano, si garantisce la volontarietà del ricorso all’arbitro.

Anche per questa serie di ragioni sarebbe un errore cavalcare impropriamente le osservazioni del Quirinale e dare vita a un replay del 2002, quando la Cgil di Sergio Cofferati condusse una strenua opposizione ai provvedimenti del governo in materia di ridefinizione dei rapporti di lavoro. Da allora sono passati 8 anni ma per il mercato del lavoro italiano è come se ne fossero passati almeno il doppio. Già a quei tempi l’articolo 18 riguardava una minoranza di lavoratori, quelli alle dipendenze delle aziende oltre i 15 dipendenti. Oggi l’occupazione nelle cattedrali operaie è calata drasticamente e forse anche per effetto di quello scontro politico-sindacale l’isola dei garantiti si è ristretta, mentre al contrario il mercato del lavoro si è balcanizzato con un inverosimile aumento delle tipologie contrattuali. È evidente come questa situazione non possa protrarsi all’infinito ed esiste sia in campo politico sia tra i giuslavoristi un’ampia riflessione sulle azioni più opportune per riunificare il mercato del lavoro. Si attende da parte del governo un progetto di revisione dello Statuto dei lavoratori, che tra l’altro sarebbe bene che intervenisse sulle forme di lavoro dipendente mascherato, a partire dalle partite Iva in mono-committenza. Da sinistra viene invece proposta l’adozione di un contratto unico per tutti i dipendenti con garanzie variabili nel tempo.

Tutte queste proposte sono degne di considerazione al netto della Grande Crisi e delle sue conseguenze, ma proprio perché non sappiamo ancora come andrà a finire e quale sarà il conto che la recessione ci farà pagare in termini di taglio dei posti di lavoro nel manifatturiero e nel terziario, ogni revival ideologico ci aiuta solo ad andare in fuorigioco.

Dario Di Vico

01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 07, 2010, 09:32:13 am »

IL VOTO DEI PICCOLI

I pregiudizi sulla «società incivile»


Davvero si può spiegare il successo della Lega come il frutto di un sapiente incastro di escamotage fiscali e concessioni clientelari, come sostiene appassionatamente l’economista Tito Boeri sulla «Repubblica» di domenica? Qualcuno davvero pensa che il consenso che le piccole imprese e le partite Iva hanno riversato sulle liste del Carroccio si possa motivare con i benefici che avrebbero ricevuto da «trasferimenti occulti di cui non si ha traccia» (e non si capisce dunque come se ne abbia notizia)? Quindi sociologi e giornalisti che si sono arrovellati per capire il funzionamento della macchina politica di Umberto Bossi hanno perso tempo.

La soluzione era facile facile: il Carroccio vince perché ha creato una greppia del Nord. Sia chiaro, e va detto con il massimo di onestà, fare i conti con i fenomeni politici e sociali dell’Italia 2010 non è facile, si lavora «dentro» una crisi di cui non conosciamo gli esiti, si rischia di continuo il contropiede e non bisogna mai pensare di poter catalogare tutti i comportamenti sociali con un unico registro. Ma tentare di spiegare i mutamenti di un Paese con una teoria delle «mance elettorali» è un esercizio che non porta lontano, si finisce solo per piegare la realtà al proprio credo accademico.

Sul fronte della piccola impresa gli ultimi 10 mesi sono stati densissimi. Abbiamo visto nascere associazioni spontanee come «Imprese che resistono» e «i Contadini del tessile», a Torino e Firenze sono stati organizzati per la prima volta cortei di strada, nel Varesotto si è andati avanti al ritmo di un’assemblea ogni due settimane, le organizzazioni degli artigiani e dei commercianti — i cinque del club di Capranica — hanno deciso di rompere gli indugi e unificare la loro rappresentanza. L’unico partito politico che ha capito cosa stesse capitando ed è corso ai ripari è stata la Lega, aiutata dal fatto che l’epicentro del protagonismo dei Piccoli fosse nelle sue terre d’elezione. Gli esponenti del Carroccio sapevano di dover fare i conti con un’enorme contraddizione: la propria base voleva la riforma fiscale subito e il governo, nella persona del nordista Giulio Tremonti, sosteneva invece che i tempi non fossero maturi. Dopo che Gianni Letta aveva annunciato all’assemblea della Cna l’imminente riduzione dell’Irap chi se non il ministro dell’Economia aveva convinto Silvio Berlusconi a fare marcia indietro?

Per capire quanto la Lega fosse preoccupata per questa contraddizione bastava in questi mesi seguire gli interventi pubblici e le contorsioni dei vari Calderoli, Giorgetti o Garavaglia, costretti a difendere la logica dell’odiata Maastricht e a perorare lo slittamento di qualsiasi taglio delle tasse. Dovendo caricarsi questo handicap la Lega ha pensato di giocare altre carte. Una mossa-chiave è stata spingere perché prima delle elezioni fosse approvata la legge sulla tutela del made in Italy, una norma sottoposta ora al vaglio delle autorità di Bruxelles, ma che ha avuto un alto valore simbolico grazie al suo promoter, Marco Reguzzoni, abile nel farne una bandiera leghista. Anche Prato per la Lega è diventato un simbolo. Le amministrazioni comunali rosse avevano per anni e anni sottovalutato la crescita del sommerso cinese in Toscana.

Il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha giocato in contropiede, è andato a Prato, ha rafforzato i blitz nei laboratori e ha costretto l’ambasciatore cinese in Italia a far buon viso a cattivo gioco. Di esempi così se ne potrebbero fare diversi (basta analizzare la campagna di Luca Zaia dall’hamburger McItaly agli Ogm) ma la sostanza non cambierebbe. La Lega ha capito per tempo che il mondo dei Piccoli era in rapido mutamento, che stava per nascere una nuova rappresentanza politico-sindacale che nel medio periodo avrebbe intaccato il suo monopolio e bisognava dunque rispondere per tempo accentuando i toni della propaganda politica. L’ha fatto e ha avuto ragione anche perché il Pdl si è via via allontanato dalla sua base sociale e il Pd non è mai entrato in partita. Anche in Veneto dove ha candidato Giuseppe Bortolussi, cantore delle partite Iva, il risultato è stato modesto. La sinistra in Italia è uno spazio culturale, non un’offerta politica.

La Lega, dunque, non è stata premiata perché ha presentato un’exit strategy dalla crisi, tutt’altro. Si è esibita come partito antropologico, capace di ascoltare e di trasformare le istanze del suo popolo in un racconto collettivo, in una proposta identitaria. Con la globalizzazione — è la tesi leghista — la modernità è come se avesse operato un’inversione a U, non marcia più a braccetto con lo sviluppo, anzi lo minaccia. Bisogna dunque rallentarla con ogni mezzo, proteggere le comunità, salvaguardare l’iniziativa individuale e ogni tipo di tradizione che può fare da argine, inclusa quella religiosa. L’Italia, dunque, come un grande museo no global. Tutto ciò scalda i cuori ma non è un programma per uscire dalla crisi e infatti i leghisti glissano non solo sulla riforma fiscale.

Sono tiepidi persino sulle aggregazioni e le reti di impresa, sanno poco o niente su cosa sta avvenendo con la bolla delle partite Iva diventate in parte lavoro dipendente mascherato, sul terziario balbettano e sono totalmente all’oscuro del contributo che può venire dal mondo delle professioni. Ma questo dibattito post-elettorale non ci parla solo della capacità politica della Lega e della paradossale debolezza programmatica, ci racconta anche dei ritardi delle nostre élite, forse le più spocchiose del G8 e le più disancorate dalla realtà. Visto che il voto ha smentito le loro tesi, ora hanno preso a sostenere che la società del Nord «è incivile» o addirittura assistita grazie alla Cassa integrazione in deroga. Ma non sanno che i tempi di pagamento della pubblica amministrazione si sono allungati all’inverosimile (con un record di 700 giorni!) e le amministrazioni sono debitrici nei confronti delle imprese per una cifra stimata in 60 miliardi? Che cosa avrebbero dovuto fare gli imprenditori dei distretti per sperare di non finire nelle liste nere compilate dai campioni del politicamente corretto?

La «società incivile» ha resistito alla crisi, non ha ridotto il personale, in qualche caso ha pagato con la vita il proprio impegno, ha dato vita a una partecipazione sindacale e associativa che non si vedeva da tempo, ora si muove per aggregare le aziende creando delle reti e intanto si batte per essere presente sui mercati emergenti. Se non vivono sul mercato loro, non so chi in Italia si possa vantare di farlo. E poi se le nostre élite erano così preoccupate del degrado civile del Paese perché nessuno di loro si è mai indignato quando in Toscana, nella civilissima Toscana, i cinesi si sono liberamente organizzati sfruttando come schiavi i loro connazionali?

Dario Di Vico

07 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #34 inserito:: Maggio 11, 2010, 02:03:56 pm »

Le condizioni per ripartire

Il difficile viene adesso.
Rete Imprese Italia è nata appena ieri, ma il gruppo dirigente delle cinque organizzazioni dell’artigianato e del commercio che le hanno dato vita sa che purtroppo non avrà diritto a
un’infanzia spensierata. Tutt’altro.

Non siamo ancora usciti dalla più ampia recessione dal dopoguerra a oggi e il copione dell’economia globale ci impone, come in una gara di slalom, di affrontare un altro ostacolo, la crisi della finanza pubblica europea. Un’emergenza che sta scuotendo la costruzione comunitaria e che finirà per cambiare l’agenda della politica economica nazionale.

È possibile infatti che prima dell’estate il governo comunichi in anticipo la manovra prevista per il 2011, chiami il Parlamento a votare subito una correzione dei conti pubblici, rimandi ogni velleità di politiche espansive e metta le parti sociali di fronte alle proprie responsabilità. Nella lista nera europea dei Paesi indebitati abbiamo guadagnato in questi anni qualche posizione e non c’è dubbio che per mantenerla dobbiamo dimostrare il massimo della coerenza e del rigore. Anche perché è stato osservato che ogni qual volta i governanti italiani parlano di riforma fiscale lo spread tra i nostri Btp e i Bund tedeschi sale. Ma la necessità di non perdere il relativo vantaggio acquisito nei confronti di altri Paesi vuol dire che saremo costretti a rinviare sine die scelte come il fisco più leggero e il federalismo che corrispondono a quanto chiedono sia le piccole e medie imprese sia i territori?

Queste domande ieri nell’intervento che Carlo Sangalli ha fatto a nome della presidenza di Rete Imprese Italia sono rimaste sotto traccia. Per prudenza e per fair play. Chi le ha esplicitate è stato Giuseppe De Rita che ha sostenuto con forza le ragioni dell’economia reale e del nostro capitalismo di territorio, componente chiave della stessa identità italiana.
 
Con questa pressione fiscale, ha aggiunto, «non si fa ripartenza», per mettere gli imprenditori in condizione di battersi alla pari sui mercati internazionali c’è bisogno di maggiore libertà. Anche perché il dato (pessimo) sugli ordinativi delle piccole e medie imprese in aprile è un campanello d’allarme che non si può ignorare. Di conseguenza, la politica è chiamata ancora una volta a trovare una sintesi tra le ragioni del rigore e le esigenze della crescita, tra Maastricht e il Paese.

In questa chiave va segnalato il riemergere del tema del vincolo esterno, la predominanza degli impegni presi in sede europea che pone di nuovo in secondo piano le scelte formulate in ambito politico nazionale. Lungo tutti gli anni ' 90 la tesi del vincolo esterno servì a contenere il partito della spesa facile, riuscì a far capire agli italiani l’esigenza di adeguarsi agli standard europei, diede ai riformatori la forza per imporre cambiamenti che non avevano trovato sul piano elettorale i consensi necessari.

Stavolta è diverso.
Il vincolo esterno, «la canzone di Bruxelles», avrebbe come effetto il rinvio o il congelamento di provvedimenti largamente testati sul piano elettorale interno e che corrispondono pienamente alle richieste e agli interessi della constituency di centro-destra.

Un rischio, dunque.


Dario Di Vico

11 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #35 inserito:: Maggio 24, 2010, 03:52:49 pm »

Sprechi e furbizie


La crisi della politica nel nostro Paese si manifesta prevalentemente in due modi. Il primo, sul fronte delle relazioni interne, appare come una preoccupante incapacità di mettere in connessione i problemi e le soluzioni. Il bipolarismo, che in linea teorica avrebbe dovuto conferire maggiore autorità e fluidità alle scelte amministrative della maggioranza di turno, si è dimostrato solo un nuovo contenitore del sistema dei partiti. Non un salto di paradigma. Nel merito della concreta esperienza italiana non è riuscito (ancora) a innestare quella marcia in più di cui i governi hanno bisogno per programmare i cambiamenti strutturali e per giovarsi di una solida base di consenso nei passaggi chiave della loro azione.

In una sequenza che potremmo definire ottimale dovrebbe esserci all’inizio l’ascolto della società, poi la necessaria mediazione degli interessi e infine la capacità di decidere senza se e senza ma. Purtroppo questo itinerario da noi si ferma sempre più sovente nella stazione intermedia e il treno non arriva a destinazione. I dossier ministeriali nel frattempo si accumulano e la burocrazia impera. Con la riforma de facto dei meccanismi della legge finanziaria pensavamo di aver compiuto un significativo passo in avanti (penso ai tempi in cui Montecitorio veniva trasformato per settimane e settimane in un suk dell’emendamento), invece dobbiamo ammettere che ci eravamo, almeno in parte, illusi. Lo testimoniano le cronache di queste ore con il governo diviso al suo interno, sottoposto all’azione delle lobby pubbliche e private, desideroso di accontentare tutti e non scontentare nessuno e, in definitiva, incapace di dire la verità ai suoi elettori. I segnali del decadimento di un progetto politico ci sono tutti. I troppi ministri che possono parlare a ruota libera e affollare la scena perché chi doveva essere protagonista ha scelto di lasciare spazio ai comprimari.

La resistenza delle burocrazie di Stato e dei grand commis che, come raccontano Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, si sentono in guerra per la difesa dei loro privilegi e si rivelano come il vero «partito della spesa». La seconda cartina di tornasole della crisi della politica risiede nelle relazioni esterne, nel rapporto tra gli orientamenti di un governo e il giudizio dei mercati finanziari, decisivo - se non altro - per il successo del collocamento dei titoli di Stato. L’interdipendenza delle economie ha ridotto il potere assoluto dei governi nazionali e i leader devono essere coscienti che nel loro Consiglio dei ministri siede un convitato di pietra. È dura da accettare per la cultura politica del centrodestra italiano ma è così. È evidente poi che il Paese che vanta il terzo debito pubblico del mondo resta comunque un sorvegliato speciale, nonostante che persino l’Economist abbia riconosciuto all’Italia di aver riguadagnato qualche posizione e di aver perso l’assegnazione di quello che nel rugby si chiama «il cucchiaio di legno», la beffa per l’ultimo posto.

Dobbiamo però essere intellettualmente onesti e ammettere che la crisi dell’eurozona ci ha colto impreparati: la percentuale di spesa pubblica improduttiva è ancora troppo alta, le entrate dello Stato appaiono rigide per l’incapacità di ridurre l’area dell’evasione fiscale, la produttività del lavoro è bassa rispetto ai Paesi partner, non troviamo da anni la strada per crescere a ritmo sostenuto pur avendo avuto al potere coalizioni di segno opposto. Per tutti questi motivi è assai difficile che l’Italia possa uscire del tutto dal radar della speculazione, almeno nel breve periodo. Roma non può ignorarlo. Anche perché per molti provvedimenti la manovra di rientro garantisce nell’immediato il solo effetto annuncio, per la traduzione delle misure in maggior gettito sonante bisognerà comunque attendere che le novità siano implementate e vadano a regime. Ci aspettano quindi giornate ancora difficili e non possiamo concedere ai nostri avversari alcun vantaggio. Tanto meno di presentarci in ordine sparso. Ps. Ma che fine ha fatto la riforma Brunetta?

Dario Di Vico

24 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_24/sprechi-e-furbizie-editoriale-dario-di-vico_3c06ee80-66f2-11df-a510-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 28, 2010, 08:35:31 am »

MANOVRA E RIFORME

La linea di frattura tra la politica e l’economia


La proposta di riunire prima dell’estate una grande Assise dell’Italia delle imprese e del lavoro, avanzata ieri da Emma Marcegaglia, vale da sola un’intera relazione. Dietro quell’idea lanciata in un ambito «istituzionale» come è l’annuale assemblea degli imprenditori aderenti alla Confindustria, si intravedono molteplici riflessioni e una felice intuizione. C’è innanzitutto una visione moderna della rappresentanza degli interessi imprenditoriali che, in una fase di acuta crisi come quella che stiamo attraversando, si qualifica prima di tutto per la capacità di proposta e per come tende a far coincidere la difesa delle proprie legittime istanze con le esigenze generali del Paese. C’è poi una chiamata alle forze del lavoro — inclusa la riottosa Cgil — perché sappiano far fruttare il loro insediamento sociale, lo investano in scelte orientate alla soluzione dei problemi e non lo disperdano, invece, in iniziative di protesta sterile e senza sbocchi.

Ma c’è soprattutto la consapevolezza che la politica italiana ha le pile scariche. Potrà anche, come sta avvenendo lodevolmente in questi giorni, trovare la strada giusta per tamponare le falle, per evitare che la crisi dell’eurozona esploda e che travolga il nostro modello sociale, ma per le riforme strutturali (quelle che, per capirci, lasceremo in eredità ai nostri figli), per rilanciare stabilmente la crescita e l’occupazione, la politica appare senza idee, confusa, afona. E del resto quanto è avvenuto ieri in chiusura dell’assemblea confindustriale è una metafora illuminante della condizione di debolezza in cui versa la politica. Il presidente del Consiglio, grande ammaliatore di platee di industriali e non, più che proporre una sua ricetta di politica economica è andato sul palco cercando il colpo ad effetto. Voleva da giorni ingaggiare il presidente della Confindustria nella sua squadra di governo e non riuscendoci si è rivolto alla platea degli imprenditori presenti a Roma puntando a un plebiscito. Ma solo tre mani si sono alzate per chiedere a Emma Marcegaglia di cambiare opinione e tre mani per il più grande professionista del consenso che l’Italia repubblicana abbia conosciuto, per il premier- imprenditore che tante volte a Parma come a Vicenza non aveva faticato a portare i colleghi dalla sua parte, non possono che rappresentare una sconfitta.

Evidenziano una linea di frattura con le forze dell’economia che non sarà facile rimarginare, come testimoniano i ripetuti applausi degli industriali a tutti i passaggi in cui il loro presidente ha messo nel mirino le prebende e l’arroganza della politica. Per tutti questi motivi l’idea dell’Assise è una significativa novità. Ridisegna in epoca di grandi sconvolgimenti economici i rapporti politica-società, dimostra come fosse ingenua l’idea che una riforma tecnica del sistema politico potesse bastare per migliorare la qualità della nostra democrazia, scommette che un rafforzamento della rappresentanza finirà per produrre una nuova e persuasiva visione della modernità. Altro che «vecchi» corpi intermedi! Se l’Italia oggi non avesse le organizzazioni dell’impresa e del lavoro, le fondazioni bancarie e il volontariato, sarebbe ben poca cosa. Nei territori è ancora più evidente, la consistenza di queste realtà è tale da operare già in termini di supplenza nei confronti di un tessuto organizzativo dei partiti che definire fragile è un eufemismo. E la dimostrazione che il rilancio della rappresentanza è per Emma Marcegaglia lontanissimo da un’idea corporativa delle relazioni socio-politiche sta nell’abbinamento più volte sottolineato con il mercato e le liberalizzazioni.

C’è troppa allergia in giro verso la cultura di mercato, ha detto il presidente degli industriali e non ha torto. La Grande Crisi ha purtroppo scavato come una talpa e ha minato tra i politici ma anche tra i cittadini la fiducia nel merito, nell’apertura, nella concorrenza. Non è certo un caso che le forze politiche che si sono avvantaggiate in quest’ultimo scorcio sono quelle che più hanno sottolineato il valore delle tradizioni e delle protezioni. Non c’è da farne scandalo, bisogna prenderne atto serenamente e riprendere il cammino riformista, aggiornando però il vocabolario della modernità. Troppe parole suonano liberali all’orecchio di ristrette élite e darwiniste a quello dei Piccoli. Prendiamo le liberalizzazioni nella concreta realizzazione che hanno conosciuto in Italia. Dovevano essere uno straordinario fattore di crescita dell’economia e di moltiplicazione delle chance. Dovevano essere al servizio dei molti e abbattere i monopoli. Ma è andata davvero così? O hanno in tanti casi tradito il loro mandato e hanno gattopardescamente lasciato intatte le rendite di posizione? La percezione popolare ci dice questo e non possiamo non ripartire che da qui. Ps. È controproducente arruolare in toto il mondo delle professioni tra gli avversari del cambiamento, come ha fatto la Marcegaglia. Se non altro perché la crescita e l’occupazione «chiamano» il terziario. E c’è bisogno che qualcuno dall’altra parte ascolti.

Dario Di Vico

28 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_28/la_linea_di_frattura_di_vico_8408891a-6a16-11df-bd58-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #37 inserito:: Giugno 13, 2010, 11:11:59 pm »

POMIGLIANO E LE DEROGHE AI CONTRATTI

Il lavoro da salvare

Appena si prospetta un vero quesito il sistema italiano delle relazioni industriali imperniato su contratti nazionali e Statuto dei lavoratori appare per quello che è: irrimediabilmente datato. È fermo alla sua età dell’oro, costruito attorno a un’idea novecentesca della competizione economica. Non capisce come la globalizzazione abbia allargato il campo di gioco e spinga a delocalizzare. Non sa che le divisioni tra lavoro dipendente e autonomo hanno molto meno senso di prima. Impedisce alle piccole imprese di crescere per non incamerare nuovi vincoli.
Fa finta, infine, di non vedere che in Italia operano centinaia e centinaia di lavoratori asiatici in condizioni di schiavitù.

Non bastassero questi palesi segni di senescenza le relazioni industriali centralizzate dimostrano di non essere attrezzate a far fronte alla nuova emergenza, la disoccupazione. Nei prossimi mesi conosceremo un po’ di ripresa, ma non avremo occupazione in più. Gli americani la chiamano jobless recovery, vuol dire che crescita e occupazione non sono più sinonimi. Hanno divorziato. I posti di lavoro persi non verranno recuperati e la ristrutturazione delle imprese, pur virtuosa, taglierà gli addetti.

A tutt’oggi nel dibattito politico-sindacale questa novità non è stata metabolizzata. Non vogliamo convincerci che è finito il tempo delle vacche grasse e che siamo chiamati a ridiscutere conquiste che davamo per acquisite sine die. Per evitare il tracollo bisognerà sperimentare soluzioni innovative. Magari estranee alla nostra tradizione, ma che intelligentemente «tradotte» possono salvaguardare la coesione sociale.

È questo il contesto nel quale va collocato il rebus di Pomigliano, la scelta che sta di fronte al sindacato di consentire una deroga ai «sacri principi». Se applicassimo il mero buon senso la questione sarebbe già risolta. Può permettersi il nostro Sud, quello che teme di diventare una delle periferie povere dell’Europa, di «rifiutare » un investimento di 700 milioni di euro e 5 mila posti di lavoro? Ovvio che no. Ma questa considerazione non è sufficiente a convincere la Fiom votata a difendere il mito del conflitto più che la massima occupazione. Però per questa via — e la preoccupazione attraversa la stessa Cgil—si finisce per scambiare i mezzi per i fini e non si tiene conto che impedire la delocalizzazione degli investimenti rafforzerebbe il sindacato agli occhi dei lavoratori. Toglierebbe, infatti, alle aziende qualsiasi alibi per comportamenti corsari e rimetterebbe al centro la qualità della manodopera e del prodotto made in Italy.

Chi difende i sacri confini della contrattazione nazionale come una trincea in cui combattere o morire, dimentica poi (incredibilmente) che la negoziazione a livello aziendale e settoriale non equivale alla morte del sindacato. Anzi. Se ne parla troppo poco ma sono stati raggiunti a livello decentrato molti accordi innovativi, numerose intese che guardano coraggiosamente al domani senza paura di «sporcarsi le mani», come si dice in gergo. E proprio in virtù di queste esperienze condivise il ministro Sacconi ha potuto annunciare a Santa Margherita Ligure che il nuovo Statuto dei lavori prevederà esplicitamente la possibilità di derogare alla legge 300 in presenza di un’intesa tra le parti. Una novità non da poco.

Dario Di Vico

13 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #38 inserito:: Luglio 01, 2010, 11:54:19 am »

Una buona partenza


Con la riunione di ieri del Consiglio dei ministri il governo ha pigiato l’acceleratore sul federalismo fiscale. Lo ha fatto per onorare la scadenza del 30 giugno prevista dalla legge delega e per riallacciare il dialogo con le Regioni virtuose. I maliziosi potranno sostenere che la scelta è anche figlia delle polemiche seguite al caso del neo ministro Aldo Brancher (ieri assente) e alla necessità dell’esecutivo di riprendere quel bandolo della matassa che sembrava sfuggito di mano al premier e non solo a lui. Ma la decisione di dedicare quasi un’intera seduta del consiglio al federalismo è anche una rassicurazione offerta alle inquietudini del popolo di Pontida, che si conferma come il vero proprietario della golden share della politica italiana. E non è certo un caso che, in assenza di Silvio Berlusconi impegnato in Brasile, a presiedere i lavori—dalle 18.40 come recita il comunicato ufficiale — sia stato Umberto Bossi. Potenza dei simboli.

Fermarsi però ad analizzare in chiave esclusivamente politicista la novità di ieri sarebbe un errore. Non va dimenticato, infatti, che dietro la riunione e la relazione del ministro Giulio Tremonti c’è un anno di duro lavoro della commissione Antonini. In questi dodici mesi, almeno dal punto di vista conoscitivo, la finanza pubblica ha fatto importanti passi in avanti. Tanto da stupire, caso mai, che un’indagine di quel tipo non fosse stata programmata in precedenza. Basti pensare che i documenti di bilancio delle 15 Regioni a statuto ordinario vengono redatti con criteri l’uno diverso dall’altro. E in qualche caso c’è il legittimo sospetto che questa singolare contabilità à la carte serva in realtà a nascondere tecniche di derivazione greca.

La relazione Tremonti ha messo un punto fermo sul metodo che si seguirà per determinare i cosiddetti costi standard, ovvero quanto dovrà spendere ciascuna Regione per remunerare la stessa prestazione o acquistare lo stesso bene. Si batterà la strada praticata con gli studi di settore che, nonostante una certa letteratura avversa e qualche critica improvvisata, rimangono comunque lo strumento con il quale lo Stato gestisce da anni l’incremento del gettito fiscale del lavoro autonomo. Il tutto in accordo con le associazioni di categoria e non in conflitto. Qualcosa del genere avverrà anche con gli enti locali chiamati a definire un percorso condiviso che alla fine però dovrà produrre risparmi di spesa. Servirà a cancellare le anomalie più scandalose. Dovrà dimostrare che il federalismo o si rivela un vantaggio in termini di sostenibilità dei bilanci o altrimenti è un tradimento. In questo modo la regola per gli amministratori diventa che solo se spendi di più (dello standard) sarai costretto, a tuo rischio e pericolo, ad aumentare le tasse. E al contrario se spendi di meno potrai addirittura ridurle.

Lo stesso Tremonti ha messo comunque le mani avanti dicendo che l'avvio del federalismo sarà scandito da ulteriori dieci tappe ed è realistico sottolinearlo anche due volte. Perché di fronte a cambiamenti così radicali del modo di far politica e di produrre consenso la legittima domanda di chiunque non voglia chiudere gli occhi suona così: abbiamo una classe politica locale, specie al Sud, disposta a rimettersi totalmente in gioco, a far segnare una così forte discontinuità nel modo di amministrare la cosa pubblica? E ancora: la selezione che avviene nei partiti è orientata a produrre una tipologia di nuovo ceto politico? È vero che gli scettici non hanno mai cambiato la realtà ma le domande giuste bisogna pur continuare a farsele

Dario di Vico

01 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #39 inserito:: Luglio 28, 2010, 06:40:04 pm »

La pigrizia di un sistema


La tambureggiante iniziativa di Sergio Marchionne, dopo aver affrontato i temi della contrattazione sindacale e della localizzazione degli impianti, è giunta al nodo della rappresentanza. L’ipotesi di disdettare o, come sembra, di derogare al contratto è destinata ad esercitare un impatto dirompente sul sistema delle relazioni industriali e sulla stessa «costituzione economica» italiana, incardinata ancora sul binomio grande impresa-grande sindacato.

È evidente che quel format non tiene più, non fotografa un Paese che ha acquistato una maggiore articolazione delle competenze e del lavoro in virtù della presenza di quattro milioni e mezzo di imprese, otto milioni di partite Iva e due milioni di professionisti. Ora però la contestazione di quel format viene anche dall’interno, è la Fiat a picconarlo, forse definitivamente. Bisognava in qualche maniera presagirlo perché la figura e il curriculum di Marchionne segnavano una evidente discontinuità con i suoi predecessori e con la grande cultura industriale torinese del secolo scorso.
In linea di principio rimescolare le carte, porsi domande nuove, non può che far del bene a un sistema di regole e di valori divenuto anacronistico. Pensiamo ai bizantinismi di quei congressi sindacali che durano mesi e alla fine si concludono con l’approvazione di pasticciate e deludenti mozioni. Pensiamo anche a certi convegni confindustriali privi di indicazioni forti e retrocessi loro malgrado a test del gradimento del politico di turno. Molti di questi riti, di queste ipocrisie — e l’elenco potrebbe essere lungo — hanno fatto il loro tempo ma limitarsi a sostenere che oportet ut Marchionne eveniant, che è bene che le contraddizioni esplodano, non può bastare.

Per quello che i posti di lavoro nell’auto e nell’indotto rappresentano per un’Italia affamata di occupazione c’è bisogno anche di delineare una pars construens. I modernizzatori che vogliono lasciare il segno abbattono il vecchio ma contribuiscono ad edificare il nuovo. E francamente l’idea di una società totalmente liquida, in cui i decisori scelgono di volta in volta sulle convenienze del momento, non costituisce la ricetta vincente. In fondo non deve pensarlo neanche Marchionne, se ha imbarcato nell’operazione di rilancio di Detroit il sindacato Uaw direttamente come azionista. I soggetti della rappresentanza dunque contano e, se vogliono, possono spostare anche le montagne. Se poi dalle vicende dell’auto ci spostiamo a considerare più in generale l’evoluzione della competizione globale non è pensabile che alla sfida cinese— basata su un mix formidabile fatto di capitalismo illiberale, strenua difesa degli interessi nazionali, assenza di vincoli e diritti — si possa rispondere con società atomizzate, totalmente prive di un'idea sistemica. Sarebbe un suicidio.

È quindi più che legittimo chiedersi cosa c’è dietro la curva, cosa si deve attendere non solo il mondo delle tute blu ma anche l’intera industria della componentistica che— non va dimenticato — in Italia vale 3-4 volte il fatturato del solo settore automobilistico. Fortunatamente nella società italiana, complice la Grande Crisi, accanto alle pigrizie vanno registrate anche segnali di novità. La recessione ha mostrato come stia crescendo, principalmente nelle Pmi e nel Nord Est, una complicità tra aziende e lavoratori che già si è dimostrata una risorsa importante e sulla quale si può investire. Sperando che un giorno alla testa della Cgil arrivi un Lama delle piccole imprese. Conosco già l’obiezione. Il capo della Fiat un modello in verità lo sta indicando e l’obiettivo dell’operazione è creare in Italia un sindacato all’americana. Purtroppo però se per gli esseri umani i trapianti si sono dimostrati una straordinaria occasione di allungamento della vita, la stessa cosa non avviene per le società. L’innesto di una tradizione totalmente diversa assai difficilmente riesce a produrre risultati positivi, molto più spesso genera l’indistinto. Se proprio vogliamo cercare dei modelli, dei punti di riferimento, è evidente che dobbiamo guardare alla tradizione sindacale tedesca e a quel tipo di «complicità organizzata». Agli occhi di un manager globale, legato a un timing stringente di decisioni, queste potranno apparire digressioni ma le forze che più si sono battute per modernizzare, a cominciare da Cisl e Uil, hanno bisogno di capire. Alla peggio si può imparare a vivere senza la Fiat, ma non si può vivere senza sapere in quale direzione spingere.

Fortunatamente nella società italiana, complice la Grande Crisi, accanto alle pigrizie vanno registrate anche segnali di novità. La recessione ha mostrato come stia crescendo, principalmente nelle Pmi e nel Nord Est, una complicità tra aziende e lavoratori che già si è dimostrata una risorsa importante e sulla quale si può investire. Sperando che un giorno alla testa della Cgil arrivi un Lama delle piccole imprese. Conosco già l’obiezione. Il capo della Fiat un modello in verità lo sta indicando e l’obiettivo dell’operazione è creare in Italia un sindacato all’americana. Purtroppo però se per gli esseri umani i trapianti si sono dimostrati una straordinaria occasione di allungamento della vita, la stessa cosa non avviene per le società. L’innesto di una tradizione totalmente diversa assai difficilmente riesce a produrre risultati positivi, molto più spesso genera l’indistinto. Se proprio vogliamo cercare dei modelli, dei punti di riferimento, è evidente che dobbiamo guardare alla tradizione sindacale tedesca e a quel tipo di «complicità organizzata». Agli occhi di un manager globale, legato a un timing stringente di decisioni, queste potranno apparire digressioni ma le forze che più si sono battute per modernizzare, a cominciare da Cisl e Uil, hanno bisogno di capire. Alla peggio si può imparare a vivere senza la Fiat, ma non si può vivere senza sapere in quale direzione spingere.


Dario Di Vico

28 luglio 2010
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« Risposta #40 inserito:: Agosto 03, 2010, 06:50:43 pm »


LO SVILUPPO ECONOMICO ANCORA SENZA GUIDA

La scomparsa di un ministro

Sono 90 giorni che Silvio Berlusconi ha l’interim del ministero dello Sviluppo economico. In meno tempo Jules Verne sosteneva che si potesse girare il mondo. Il governo invece ha solo girato intorno al problema senza risolverlo. Dimessosi Claudio Scajola, la maggioranza non è riuscita ancora a sostituirlo. Non è stata capace di pescare al suo interno o nella società civile una personalità che avesse physique du role e competenze, che godesse della stima degli industriali, che non fosse limitato nell’autonomia di giudizio da conflitti di interesse. E’ incredibile, ma pur vantando l’Italia tra i quattro e i cinque milioni di imprenditori le manca un Mister Industria!

Come si spiega tutto ciò? L’impressione è che la politica non abbia capito cosa sia successo in questi mesi e cosa ci aspetti in autunno. Grazie alla forza e al radicamento territoriale delle imprese abbiamo evitato la deindustrializzazione, siamo rimasti un grande Paese «offertista» dell’Europa. Dentro la recessione una fetta consistente delle aziende (comprese le piccole) si è nuovamente riorganizzata, ha rivoltato le fabbriche come fossero calzini, ha rivisitato la struttura dei costi e in più ha cominciato a pensare che non si poteva più accontentare dei «vecchi» clienti. Tutto ciò ha creato le premesse perché l’export italiano ripartisse e iniziasse a conquistare quote di mercato laddove prima eravamo presenti solo simbolicamente. In parallelo si è aperta una vera discussione sul made in Italy, sulle norme per tutelarlo e sulle scelte da fare per riposizionarlo sui mercati globali.

Intanto i nostri partner non stavano con le mani in mano. Segnatamente la Germania, che rispetto a noi ha un vantaggio eccezionale: la sua industria è complementare ai cinesi e non diretta concorrente. Solo per fare un esempio, la Volkswagen, che ha già 9 stabilimenti in Cina, sta progettando il decimo e l’undicesimo. Dunque, applaudiamo le nostre performance nell’export ma dobbiamo sapere che c’è bisogno di qualche riflessione in più, di chiarirsi le idee sul futuro del sistema produttivo, in sintesi di darsi una strategia. Se non altro perché sono molti i Paesi che hanno scelto come via d’uscita dalla recessione proprio l’accelerazione delle vendite all’estero e quindi non ci sarà abbastanza torta per tutti. Non chiamiamola «politica industriale » perché l’espressione evoca anatemi, ma di sicuro un governo—di qualsiasi orientamento — non può apparire afasico come nel caso Marchionne-Serbia.

Invece in questi grigi 90 giorni il ministero dello Sviluppo è stato prima privato della possibilità di spendere e poi si è tentato in diversi modi di spogliarlo delle sue prerogative tramite uno spezzatino delle deleghe a favore di altri dicasteri. Per poco non si è arrivati a teorizzare che un Paese industriale può andare avanti senza un ministero che si occupi di industria. Ora non sappiamo se bisognerà aspettare settembre per conoscere il nome del successore di Scajola ma i dossier che si stanno accumulando sulla scrivania richiedono una presenza incisiva. E’ di ieri il dato-choc sul calo delle immatricolazioni di nuove auto e altrettanto preoccupante si presenta il secondo semestre 2010 della siderurgia. Per chi lo avesse dimenticato, auto e siderurgia sono i settori in cui operano le (restanti) grandi imprese italiane.

Dario Di Vico

03 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_03/divico-scomparsa-ministro_15573fd4-9ebe-11df-ad0c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #41 inserito:: Agosto 11, 2010, 10:42:33 am »

I dati della crescita

Serve uno scatto


Commentando i dati Istat sul Pil il ministro Renato Brunetta ieri ha avuto il coraggio di indicare implicitamente un target: da qui al 2011 dobbiamo crescere a un ritmo del 2%. Ha poi aggiunto che il +1,1% fatto registrare nel secondo trimestre 2010 dimostra che siamo già sulla buona strada. E proprio così? O Brunetta pecca di generosità? Francamente è presto per dirlo, perché senza voler sottovalutare (anzi) il dato del Pil e quello ancora più incoraggiante relativo alla produzione industriale di giugno (+8,2% rispetto a un anno fa), possiamo sì affermare che stiamo uscendo dalla crisi, ma non possiamo ancora sostenere di esser guariti da quella malattia che ci ha visto crescere per anni al ritmo dello «zero e qualcosa ». La velocità è dunque decisiva e la prossima settimana, quando avremo dall’Eurostat il quadro riepilogativo dei nostri partner, potremo fare le dovute comparazioni. Oggi, in base ai dati resi noti, sappiamo che stiamo uscendo dalla recessione più velocemente degli spagnoli e più lentamente di inglesi e americani. Qualcosa vorrà pur dire. Se non altro si conferma una certa attitudine del mondo anglosassone a vivere cicli di caduta e risalita più ravvicinati e intensi.

E’ giudizio pressoché unanime che il merito della ripartenza dell’economia sia innanzitutto delle imprese esportatrici, di quelle che si sono saldamente rimesse nella scia dell’industria tedesca, di quelle che hanno cominciato a vendere nei Paesi emergenti e di quelle che, approfittando del dollaro forte dei mesi scorsi, sono riuscite a portare a casa qualche buona performance negli States. Ma a dimostrazione che la via della ripresa è lastricata di contraddizioni basta ragionare sull’andamento dell’euro. Nei mesi scorsi scendendo nei confronti del dollaro ha aiutato il made in Italy, adesso però per effetto delle politiche di risanamento dei governi della Ue la moneta comune è risalita e la tendenza è stata interpretata positivamente dai commentatori, che hanno visto allontanarsi l’ombra della speculazione. Per le nostre aziende però è ridiventato difficile vendere negli Usa.

La metafora dell’euro ci porta dritto al nodo irrisolto dello sviluppo italiano. Come conciliare le sacrosante politiche del rigore con una crescita sostenuta, come quella indicata da Brunetta? Molti sono convinti che la coesione sociale — bene che va tutelato specie in vista di una forte turbolenza politica autunnale—dipenda proprio dalla combinazione di quei fattori e non a caso gli stessi guardano con una certa apprensione alle decine di crisi aziendali irrisolte, alle numerose aziende «lungodegenti». Sulla scia di queste preoccupazioni una tendenza che va prendendo piede in ambienti assai diversi tra loro chiede un mix di interventi tra politica industriale e liberalizzazioni. Il ministro Giulio Tremonti, dal canto suo, ha di fatto risposto che in fondo un ministro dello Sviluppo economico non serve, «c’è già quello della Semplificazione ». E ha subito dopo aggiunto che l’unico capitolo di spesa che riaprirebbe riguarda la ricerca. Ma quest’ultima, come del resto la politica delle infrastrutture, tra i mille pregi ha un difetto non trascurabile: i risultati arrivano dopo anni. E l’Italia ha bisogno di riprendere a correre presto, molto presto. Dopo le ferie varrà la pena discuterne, con la stessa passione oggi riservata ad altre materie.

Dario Di Vico

07 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #42 inserito:: Agosto 11, 2010, 05:42:11 pm »

DOPO IL CASO DI MELFI

Ma i pretori non ci salveranno


D'accordo. Le sentenze vanno rispettate e dunque tutti in piedi per far passare il collegio giudicante. Ma a costo di essere politicamente scorretti, anche in agosto, va detta una semplice verità. Se i pretori del lavoro tornano ad essere, come in anni che pensavamo passati, i protagonisti delle relazioni industriali italiane le ragioni dell'economia sono destinate inevitabilmente a soccombere.

L'errore che la vicenda di Melfi e i commenti entusiasti di tutte le sinistre ci portano a fare è quello di discutere solo e prevalentemente di relazioni industriali («la cornice») mettendo in secondo piano il futuro dell'industria italiana («il quadro»). Eppure la coesione sociale che tutti auspichiamo dipende dal quadro, da fattori come i livelli occupazionali, le retribuzioni, l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la competitività del made in Italy sui mercati stranieri, tutti legati alle scelte che da settembre sapremo fare in termini di politica industriale. Nessun pretore ci potrà venire in aiuto.

E allora partiamo dal quadro. Come ha sostenuto l'Istat solo una settimana fa la produttività nell'industria italiana ha addirittura innestato la retromarcia. Solo tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7% e siamo comunque da anni il fanalino di coda dell'Ocse. Nel frattempo la Cina si avvia a diventare una potenza industriale presente non solo nelle produzioni low cost ma addirittura nei progetti innovativi per l'auto elettrica. E la Germania con lo spettacolare risveglio della Volkswagen ha dimostrato come la sinergia tra una solida cultura industriale del Paese e un sindacato accorto e intelligente possa dare risultati strepitosi. La competizione, dunque, si fa sempre più dura e non solo con sistemi a bassa intensità di diritti sindacali, come sono ancora quelli asiatici, ma anche con i cugini tedeschi. Del resto gli enormi investimenti di capitale di un'industria come quella dell'auto «rendono necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile». Si tranquillizzino Maurizio Landini e Nichi Vendola, non sto usando frasi di Sergio Marchionne ma di Romano Prodi. Che in un articolo comparso sul Messaggero venerdì 6 agosto ha sostenuto come a Torino le automobili le sappiano ancora progettare molto bene ma non basta: vanno create le condizioni perché si possano fabbricare nel nostro Paese Italia e vendere in Europa. «La mancanza di accordo priverà l'Italia dell'ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane».

Ma allora perché con la Fiom non si riesce a discutere con costrutto di politica industriale e produttività? La verità è che in quel sindacato, sicuramente radicato in fabbrica, presente pressoché in tutta Italia e dotato di buone strutture di base, è prevalsa un'idea di supplenza nei confronti della politica. Orfano di una sinistra capace di tradurre in azioni concrete i valori del lavoro e spaventato dai meccanismi dell'economia globale, il gruppo dirigente della Fiom ha scelto la politica al posto dell'industria, la cornice invece del quadro. Si è fatto partito. La difesa ideologica del contratto nazionale è quanto meno singolare in un sindacato che non sarebbe certo penalizzato da uno sviluppo della contrattazione aziendale. I grandi sindacalisti della Cgil di un tempo a questo punto della vicenda italiana avrebbero sfidato imprenditori e politica sullo sviluppo e la produttività, la Fiom invece ha scelto la trincea. E davanti a un'economia sempre più interdipendente preferisce chiudere gli occhi e non vedere.

È però legittimo chiedersi se questa scelta sia utile a garantire più occasioni di lavoro, più reddito, più successi aziendali o invece non equivalga a un Aventino sindacale. Per quale motivo nelle aziende alimentari grazie a una disposizione prevista nel contratto sottoscritto anche dalla Cgil si può arrivare a 21 turni settimanali mentre a Pomigliano è uno scandalo contrattarne 18? E come mai nel recente passato anche i metalmeccanici discussero con la loro controparte di banca delle ore, ovvero di un calendario su base annuale che potesse rispondere alle esigenze di flessibilità delle aziende? Per carità, ogni proposta è opinabile e può essere sostituita con un'altra migliore, ma il terreno di gioco no. Non ce n'è un altro. Se si vuole salvare l'industria e il lavoro italiano bisogna sporcarsi le mani. Un sindacalista si dovrebbe sempre distinguere da un politico.

Dario Di Vico

11 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #43 inserito:: Agosto 25, 2010, 04:16:37 pm »

IL NO AGLI OGM, FALSITÀ, IPOCRISIE

L’ideologia a tavola


Nel caotico dibattito attorno agli Ogm (organismi geneticamente modificati) si va facendo strada l’idea che se c’è un Paese a cui conviene restare rigidamente fuori dall’innovazione transgenica, questo è il nostro. Accanto ai «critici a prescindere» sta crescendo una corrente di pensiero che motiva il no con considerazioni di ordine commerciale. Chi ha la fortuna di avere in casa il lardo di Colonnata deve comunque tenersi lontano mille miglia dal Frankenstein food. Il posizionamento e la qualificazione del made in Italy risulterebbero rafforzati dal no agli Ogm, mentre al contrario la tipicità delle nostre produzioni verrebbe inquinata da un orientamento pro ricerca. È veramente così?

Oppure partendo da presupposti quantomeno generosi questa tesi è solo un diversivo? Come attestano gli ultimi dati Ocse, l’Italia ha ripreso a crescere, la maledizione vuole però che si tratti ancora una volta di sviluppo lento, +1,1% contro il 3,7% della Germania. È accaduto anche in passato durante l’ultimo e lungo ciclo positivo, continuiamo ad essere se va bene «il Paese un po’ meno » e il lento pede è alla base di molte delle nostre contraddizioni economico- sociali. Sembrerebbe dunque che la storia tenda a ripetersi, senonché questa volta c’è stata di mezzo la Grande Crisi e francamente non sappiamo come andrà a riorganizzarsi l’economia mondiale, che ruolo avranno i vecchi Paesi industriali e quale divisione internazionale del lavoro si determinerà. Sappiamo di sicuro che al tavolo si siederà accanto a noi il gigante cinese, ma nel complesso le incognite superano le costanti. Nell’attesa di vederci meglio, una cosa possiamo farla. Proporci di utilizzare in questa competizione tutte le carte che abbiamo, proprio tutte. Non possiamo pensare che mentre il mondo si gioca al tavolo del poker le quote dello sviluppo, noi organizziamo un tressette tra amici con in palio una consumazione al bar. Fuor di metafora, l’industria alimentare è parte integrante dello sforzo italiano per crescere di più.

Non si può pensare di preservarla dalla competizione più agguerrita, di metterla in dispensa, di tenerla da parte solo per noi. La tambureggiante offensiva dei prodotti taroccati con brand italofono — i vari Parmesan o Parmizan —, così come l’invasione padana del pomodoro cinese, dimostrano come l’economia globale non preveda prigionieri. C’è di buono che nella crisi l’industria alimentare italiana ha mostrato di saper interpretare il suo ruolo anticiclico e, se vivessimo in un Paese meno rissoso e in cui l’espressione politica industriale avesse libero corso, ripartiremmo proprio da qui. Con quale obiettivo? Facile: esportare, esportare, esportare. Più che in altri settori abbiamo una struttura dell’offerta complementare, accanto ai distretti conosciuti in tutto il mondo ci sono fortunatamente anche aziende multinazionali tutt’altro che statiche. Quella che ci manca, forse, è una visione sistemica, la capacità di combinare qualificazione del prodotto e volumi, prestigio dei produttori con efficienza logistica e distributiva. Guai a pensare che il made in Italy debba per forza restare taglia small per offrire buona qualità. Avendo alle spalle queste riflessioni si può affrontare il tema Ogm senza timore e senza arroccamenti.

Chiedendosi se una economia che punta ad essere protagonista nel grande mercato del cibo possa pregiudizialmente chiamarsi fuori dalla ricerca e dalla sperimentazione. L’ormai leggendario pomodoro di Pachino, sostengono i filo-Ogm, è nato in un laboratorio israeliano e poi piantato in Italia perché qui c’erano le condizioni ottimali per il successo della coltivazione. Purtroppo, però, invece di discutere attorno a casi concreti e risultanze obiettive gli ultimi giorni hanno fatto registrare uno scadimento della discussione. L’ingresso in campo delle «volanti verdi», che si fanno giustizia da sé distruggendo le coltivazioni sospette e gli esuberanti governatori, che in nome del «popolo sovrano e contadino» dimenticano il lessico della legalità, contribuiscono solo ad aumentare il tasso di ideologia, a ridurre il peso dell’argomentazione scientifica e a oscurare le ragioni dell’economia. Eppure, i bovini da latte che sono alla base delle nostre più qualificate produzioni casearie, già oggi usano soia importata e proveniente da allevamenti Ogm. Se chiudessimo le frontiere a soia e mais non saremmo più in grado di produrre quei formaggi e quei prosciutti nelle quantità necessarie. È quindi quantomeno ipocrita sostenere che ci conviene restare lontani dalla ricerca e anche l’idea di qualificare il made in Italy aggiungendo il bollino «Ogm free» è illusoria. Può servire per la pubblicità estiva di qualche catena di supermercati, ma in ambito internazionale non avrebbe campo. Passeremmo per bugiardi, traslocando dalla ragione al torto. Molto meglio riprendere a riflettere sulla centralità e il futuro della nostra industria agro-alimentare. E pazienza se, per una volta, anche gli economisti dovranno occuparsi di latte, pasta e cioccolata.

Dario Di Vico

24 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_24/l-ideologia-a-tavola-dario-di-vico_7e4a7870-af3b-11df-bad8-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #44 inserito:: Settembre 26, 2010, 04:11:43 pm »

Ripartenze

Quel piccolo patto di Genova figlio della lezione di Marchionne

Emma Marcegaglia ha capito da tempo che il mondo dell'impresa e del lavoro, se continua a dividersi, rischia di rimanere completamente fuori dal gioco


Facciamo uso dell'antropologia positiva tanto cara al ministro Maurizio Sacconi e applaudiamo dunque il «piccolo patto di Genova». L'assemblea confindustriale sulla competitività convocata nella città ligure ha prodotto un risultato tutt'altro che disprezzabile, ha riaperto il dialogo tra i grandi imprenditori e la Cgil. Giorgio Cremaschi, dall'alto della sua carica (brezneviana) di presidente del comitato centrale della Fiom, l'ha già definita «una trappola», ma in realtà a dettare la svolta è stato soprattutto il buon senso.
Emma Marcegaglia ha capito da tempo che il mondo dell'impresa e del lavoro, se continua a dividersi, rischia - in questa tormentata stagione della vita politica italiana - di rimanere completamente fuori dal gioco, di condannarsi alla marginalità.

Ora sembra essersene convinto anche Guglielmo Epifani e, come da tradizione, il figliol prodigo è stato accolto a braccia aperte.
Siccome però non si può vivere a lungo di simboli il piccolo patto di Genova va tradotto in fatti concreti e saremmo ingenui se non vedessimo come restano ampie le distanze sia nell'analisi sia nelle proposte. Per ridurle bisognerà guardare in alto ovvero aiutare il Paese a prendere la strada della crescita e in parallelo guardare in basso, prendere come bussola gli operai e non le sigle sindacali. Perché, come ha avuto modo di sottolineare l'ex presidente Giorgio Fossa, «la crisi ha riavvicinato il lavoratore e l'imprenditore».

In fabbrica c'è voglia di soluzioni, non di conflitto. Proprio per evitare ambiguità d'ogni tipo, nel momento in cui si celebra il ritorno del figliol prodigo, va reso onore al coraggio politico di Luigi Angeletti, Raffaele Bonanni e Sergio Marchionne. Per quel che riguarda i sindacalisti forse il miglior tributo è ricordare, come ha fatto Sergio Chiamparino nel suo recente libro, che nella storia sindacale italiana tante volte la Cgil è arrivata dopo. Non è una novità. Quanto al capo della Fiat anche quei borghesi che l'hanno demonizzato potranno a questo punto riconoscere d'aver sbagliato. Non è «un sovversivo», ha aiutato la Confindustria e l'intera opinione pubblica a capire che il mondo non sta ad aspettare l'Italia. E se vogliamo che le multinazionali non ci cancellino dai loro piani di investimento dobbiamo fare i conti con le nostre pigrizie.

Dario Di Vico

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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