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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278426 volte)
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« Risposta #480 inserito:: Giugno 26, 2016, 05:02:11 pm »

La fede politica che perde le radici

Di ILVO DIAMANTI
21 giugno 2016

Queste elezioni amministrative segnano, indubbiamente, una svolta. Annunciata da qualche tempo, ma oggi evidente. E irreversibile. La riassumerei in questo modo: in Italia il voto non ha più una geografia.

In altri termini: ha perduto le sue radici. E, quindi, i suoi legami con la storia, la società, le identità che gli garantivano senso e continuità. D'altronde, fino a pochi anni fa, la geografia elettorale in Italia riproduceva in larga misura il profilo emerso nel dopoguerra. Dove gli orientamenti di voto, in alcune zone, si riproponevano sempre uguali, nel corso del tempo. Nonostante il mutamento del clima politico e degli stessi partiti. Alcuni dei quali, scomparsi. In fondo, nel 1994, Silvio Berlusconi aveva "fondato" Forza Italia sull'anti-comunismo. Recuperando le fratture sociali e territoriali del passato. Questa geografia era stata ridisegnata, profondamente, dall'irruzione del M5s, alle elezioni del 2013. Matteo Renzi ne aveva seguito le tracce, alle elezioni europee del 2014. Il suo Pd aveva sfondato il muro del 40%, affermandosi, a sua volta, in tutte — o quasi — le aree del Paese.

Così le Italie politiche si erano confuse. Zone rosse, bianche, verdi, azzurre: tutte scolorite. Ebbene, queste elezioni amplificano queste tendenze. Infatti, se osserviamo il risultato dei 143 Comuni maggiori, risulta chiara l'impossibilità di individuare una chiave di lettura. Se non l'inutilità delle chiavi di lettura che utilizziamo per analizzare e interpretare il voto. Oltre un terzo delle amministrazioni — cioè, circa 50 — ha, infatti, cambiato colore.

Nello specifico, i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno.

A Roma e a Torino, peraltro, le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente.

Colpisce, soprattutto, il cambiamento che ha coinvolto le regioni dell'Italia centrale. Tradizionalmente di sinistra. Tradizionalmente le più stabili. Dove, però, oltre metà dei Comuni di centrosinistra hanno cambiato colore. Ciò conferma la non-chiave di lettura suggerita in precedenza. Sottolineata dal risultato del non-partito per definizione. Il M5s. Che fra il primo e il secondo turno ha allargato i suoi consensi da 650 mila a più di 1 milione e 100 mila voti. Cioè, di oltre il 70%. Un segno della sua capacità di intercettare elettori "diversi". Che provengono da partiti e da aree "diverse". Ma soprattutto da "destra", quando si tratta di opporsi ai governi di centrosinistra. Com'è avvenuto, in modo appariscente, a Roma e Torino, dove, nei ballottaggi, le candidate del M5s hanno allargato in misura molto ampia i loro consensi elettorali.

Per questo penso che il significato di questo voto vada oltre i contesti locali. Riflette una tendenza consolidata, che Matteo Renzi ha contribuito a rafforzare. Non tanto perché abbia personalizzato il voto amministrativo, anche se in qualche misura ciò è avvenuto. Ma perché ha accentuato il distacco fra politica e territorio. Enfatizzando la personalizzazione e la mediatizzazione. Il Pd, trasformato in PdR. E la campagna elettorale condizionata dal dibattito sul referendum "costituzionale". Pardon, "personale". Su Renzi medesimo. Così i sindaci e le città hanno perduto significato, importanza. E le elezioni amministrative sono divenute un'arena dove si giocano altre partite, con altri protagonisti. Dove il M5s, più di altri soggetti politici, è in grado di affermarsi. Nel passato, invece, il suo rendimento elettorale risultava molto superiore nelle scadenze nazionali, quando poteva riprodurre il disagio e la protesta. Mentre nelle elezioni amministrative non riusciva a ottenere risultati analoghi, in quanto non disponeva di figure credibili, come soggetti di governo. In ambito locale. Oggi, evidentemente, non è più così. Perché il M5s è presente, ormai da anni, sul territorio. E ha raccolto, intorno a sé, militanti e attivisti. Tuttavia, più degli altri attori politici, è in grado di canalizzare la "domanda di cambiamento". Meglio ancora: i sentimenti e i risentimenti "in tempi di cambiamento". Come quelli che stiamo attraversando.

Così questo voto rappresenta, al tempo stesso, una risposta e un segnale. Una risposta al dis-orientamento che ha investito molte zone del Paese. E, soprattutto, le aree urbane e metropolitane. In particolare: le periferie. Dove la "politica" ha perduto senso e radici. Ma anche un segnale, a modo suo, fragoroso, quanto il silenzio degli astenuti. Rammenta, infatti, che la "messa è finita". Le fedeltà si sono perdute. Liquefatte. Come i partiti. Non per nulla ne ha beneficiato un non-partito liquido come il M5s. Così, ogni scadenza elettorale diviene — e diverrà — un passaggio senza destinazioni precise. Senza mappe e senza bussole che permettano ai cittadini e agli elettori di orientarsi. E agli analisti, come me, di interpretarne — e prevederne — i percorsi. Le ragioni. Le destinazioni.

© Riproduzione riservata
21 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/21/news/la_fede_politica_che_perde_le_radici-142473244/?ref=HRER2-2
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« Risposta #481 inserito:: Luglio 01, 2016, 05:30:40 pm »

I Cinquestelle sorpassano il Pd, con l'Italicum gioverebbero. Di Maio più popolare di Renzi
Sondaggio Demos: al ballottaggio staccherebbero i Dem di quasi 10 punti. Crolla la destra. Gli italiani difendono la Ue: due su tre bocciano Brexit. Si riaccende la battaglia sull’Italicum

Di ILVO DIAMANTI
01 luglio 2016

LE RECENTI elezioni amministrative hanno lasciato il segno, anche sul piano politico nazionale. Il recente sondaggio condotto da Demos per l’Atlante Politico di Repubblica lo conferma. Infatti, secondo gli italiani (intervistati) alle amministrative di giugno c’è un solo vincitore. Il M5S. L’unico partito a essersi rafforzato in ambito nazionale (lo pensa circa l’80 per cento). Mentre gli altri si sono indeboliti. Più di tutti, il Pd di Renzi. Le stime elettorali riflettono queste valutazioni.

In caso di elezioni politiche, infatti, Demos attribuisce al M5S oltre il 32% dei voti validi. Circa 5 in più, rispetto alla precedente rilevazione, condotta in aprile. Mentre il Pd si attesta poco oltre il 30%. Stabile, rispetto ai mesi scorsi. Dietro queste due forze politiche c'è quasi il vuoto. Lega e Forza Italia non raggiungono il 12%. Anche se si coalizzassero, "costretti" dalle regole dell'Italicum, avrebbero poche possibilità (ad essere prudenti) di arrivare al ballottaggio. Gli altri partiti, tutti, arrivano a fatica al 5%.

LE TABELLE

Su queste basi, si rafforzerebbe ulteriormente il M5S, ma, soprattutto, si ridisegnerebbe il sistema dei rapporti di forza fra soggetti politici. Il tripolarismo imperfetto, emerso nel voto amministrativo, in ambito nazionale si ridurrebbe a un bipartitismo. Infatti, il Pd di Renzi e il M5S, insieme, intercetterebbero quasi i due terzi dei voti. Mentre il rimanente terzo degli elettori appare diviso e frammentato. Il M5S, peraltro, in caso di ballottaggio vincerebbe largamente. Come, d'altronde, è avvenuto, alle amministrative, nei comuni maggiori dove il M5S, è riuscito ad arrivare al secondo turno, riuscendo ad affermarsi praticamente dovunque. In 19 comuni maggiori su 20. Tra i quali, anzitutto, Roma e Torino. Il M5S, infatti, oggi appare il principale canale per raccogliere il dissenso contro i partiti "tradizionali". Ma, soprattutto, di intercettare il voto "anti-renziano" dall'intero arco politico. In particolare al centro e a destra.

Infatti, secondo il sondaggio, il M5S, in caso di ballottaggio, prevarrebbe di quasi 10 punti sul Pd (54,7 a 45,3). Mentre nel confronto con i Forza-leghisti non ci sarebbe storia. Quasi 20 punti di distacco. Si spiegano anche – soprattutto – così le crescenti perplessità, nella maggioranza, verso l'Italicum, la legge elettorale approvata da questo governo. Che entra in vigore proprio oggi. Riproduce, per molti versi, il dispositivo adottato per l'elezione dei sindaci. Con effetti sicuramente poco gradevoli e graditi per il PdR. E il suo leader.

Peraltro, echeggiando la nota definizione di Giorgio Galli, emerge un bipartitismo "meno" imperfetto di qualche tempo fa. Quando il M5S si proponeva come un'opposizione, ma non come un'alternativa. Appariva, cioè, un collettore e un contenitore del risentimento. Ma senza speranza. Senza possibilità di governare. Perché non veniva votato per questa ragione. Dopo le elezioni amministrative di giugno, però, le opinioni degli elettori, al proposito, sembrano cambiate. Oggi, infatti, quasi due elettori su tre considerano il M5S in grado di governare le città dove si è affermato. Mentre la maggioranza non lo ritiene ancora una forza di governo a livello nazionale. Tuttavia gli orientamenti stanno cambiando, anche sotto questo profilo. Visto che oltre 4 elettori su 10 pensano che il M5S sarebbe in grado di governare il Paese. Ancora una minoranza. Ma larga. Cresciuta di oltre 10 punti negli ultimi mesi.

La polarizzazione politica, che emerge a livello elettorale, si riflette anche sul piano della "fiducia" personale. Beppe Grillo, infatti, raggiunge – quasi – Renzi. Mentre Di Maio lo supera. E De Magistris, rieletto sindaco di Napoli senza problemi, lo affianca. Segno che anche a sinistra esiste un'area di dissenso nei confronti del premier. Tuttavia, nonostante i deludenti risultati delle amministrative, la fiducia personale verso Renzi, negli ultimi mesi, resta stabile. Intorno al 40%. E il consenso nei confronti del suo governo cresce di qualche punto. Fino al 42%, Probabilmente, per due ordini di ragioni. La prima, di natura politica interna, riflette la tensione bipolare, alimentata dalla sfida antipolitica del M5s. Che polarizza i consensi e i dissensi intorno ai due protagonisti: il M5s e Renzi. D'altra parte, vi sono altri fattori, che attraggono l'opinione pubblica intorno al governo. Di natura prevalentemente esterna. La domanda di sicurezza, in primo luogo. Alimentata dall'immigrazione, che continua a generare preoccupazione. Poi, la questione europea, drammatizzata dalla Brexit.

Gran parte degli italiani ne teme gli effetti. E per questo si assiste a una crescita di consensi verso la UE. E a un aumento del sostegno all'euro. Si tratta del riflesso di tendenze note. Fra gli italiani, infatti, anche in passato il timore dei possibili effetti dell'uscita dalla UE e dall'euro prevaleva largamente sull'insoddisfazione nei confronti di entrambe le istituzioni. Oggi che questa prospettiva non è più così ipotetica e che la costruzione europea scricchiola in modo preoccupante, il sentimento euro-peista si rafforza. Per reazione. Se venisse proposto anche in Italia un referendum Itæxit, sull'uscita del nostro Paese dall'Unione europea, secondo il sondaggio di Demos, i due terzi degli elettori italiani voterebbero contro. Cioè, per rimanere nella Ue. Solo fra gli elettori della Lega la maggioranza voterebbe per uscire. Tutti gli altri, compresi quelli del M5S, sceglierebbero di rimanere "uniti". Per prudenza, perché non si sa mai…

Il clima di tensione internazionale, l'instabilità europea, l'insicurezza interna, dunque, sembrano rafforzare, in qualche misura, anche il sostegno al governo nazionale. A chi lo guida. Nonostante tutto. Magari per reazione alle "minacce" che provengono dall'esterno. Ma anche perché, di fronte al bipolarismo tra politica e anti-politica, in questa fase il richiamo della "politica" diventa più forte. Più credibile.

D'altronde, in tempi tanto incerti, aggiungere altri motivi di incertezza: suscita ulteriore incertezza.

E il richiamo del "nuovo ad ogni costo", almeno quando si tratta del governo nazionale, diventa meno attraente. Sul mercato politico, molti preferiscono, per prudenza, affidarsi al semi-nuovo. Almeno per adesso. Domani è un altro giorno. Si vedrà.
   
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01 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/01/news/i_cinquestelle_sorpassano_il_pd_con_l_italicum_governebbero_di_maio_piu_popolare_di_renzi-143164287/?ref=HREA-1
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« Risposta #482 inserito:: Luglio 08, 2016, 04:11:07 pm »

Ricordare Rocard, per non arrendersi
Elogio di un socialista francese, lontano dalla politica dell'immediato.
Con una sua frase: "Se piantate un albero non vale la pena di spingere per farlo crescere più in fretta”.
Ma oggi in prima pagina vanno solo i populisti. O i pop

Di ILVO DIAMANTI
06 luglio 2016

Michel Rocard se n’è andato senza far rumore, come nel suo stile. A 85 anni. Dopo una lunga malattia. In Francia sono in molti a ricordarlo. Per la sua militanza socialista, per le sue esperienze politiche e di governo. E per il suo «parler vrai», con cui sottolineava l’esigenza morale di dire sempre la verità delle cose ai cittadini. Eppure in Italia la sua scomparsa ha sollevato poca attenzione. I nostri media gli hanno dedicato poco spazio. Me l’ha fatto osservare, deluso, Alessandro Giacone. Un collega – e amico. Franco-italiano. Professore all’università di Grenoble. Storico di valore. Studioso dell’Italia repubblicana. Giacone non si capacita di tanta distrazione. Di tanta svalutazione. E ha, sicuramente, ragione. Tuttavia, anche se conosce bene l’Italia, sottovaluta, a sua volta, la dissociazione dei nostri media di fronte alle vicende e alle biografie degli “altri”.  Paesi. Anche i più vicini.

Dei “cugini” francesi, per esempio, ci interessano soprattutto i protagonisti dello spettacolo e della cultura. Registi, attori, scrittori. Molto meno i “politici”. A meno che non si tratti di casi estremi. “Spettacolari”, appunto. Populisti di vario genere e tipo. In Francia: Marine Le Pen. D’altronde, anche in Italia i riflettori dei media sono puntati, a pieno tempo, su Grillo e Salvini. Al più, su Renzi. Perché è pop, come Berlusconi. Michel Rocard, invece, era un leader realista. Moderato. E socialista. In Italia, di socialisti non ce ne sono più. Da tempo. L’unico soggetto politico che conti è il Pd. Un post-partito che riassume post-comunisti e, soprattutto, post-democristiano. Guidato da un post-leader, come Matteo Renzi. Di fronte, a sfidarli, antipartiti. E antipolitici. M5s, Lega e FdI. Di Berlusconi si sono perse le tracce. Così, Michel Rocard non fa notizia perché è troppo “normale”. Come la sua biografia. Come la sua esperienza politica. D’altronde, in questi tempi veloci, nei quali, soprattutto in politica, conta l’immagine. Contano i media.  In questi tempi senza tempo, bloccati in un presente infinito: Rocard era, ormai, più fuori luogo. Perché privilegiava i tempi lunghi. Lo mostra in modo esemplare questa sua frase (che mi ha segnalato Eric Jozsef). “Le buone cose hanno bisogno di tempo. Sono lente a nascere. Se piantate un albero non vale la pena di spingere per farlo crescere più in fretta. In politica è la stessa cosa”.

Ricordare Rocard: spero che possa restituirci almeno un po’ di memoria. Un po’ di pazienza. E ci aiuti a non arrenderci alla politica dell’immediato.
 
 
 
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06 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/07/06/news/ricordare_rocard_per_non_arrendersi-143572487/?ref=HRER2-3
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« Risposta #483 inserito:: Luglio 12, 2016, 11:41:04 am »

Referendum costituzionale, i Sì avanti di un soffio ma in netto calo

Di ILVO DIAMANTI
11 luglio 2016

Il referendum sulla riforma costituzionale, che si svolgerà (probabilmente) nel prossimo autunno, ha cambiato e sta, progressivamente, cambiando di significato. Di contenuto. In origine, mirava a dare legittimazione sociale alla riforma costituzionale che si propone di superare il bicameralismo paritario. Un sistema istituzionale che ha, da sempre, complicato il processo decisionale del Parlamento. Limitando l'efficacia della nostra democrazia rappresentativa. La riforma ha goduto, all'inizio, di un largo consenso popolare. Così Matteo Renzi l'ha utilizzata per altri fini, oltre a quello originale e originario. In primo luogo: per caratterizzare l'azione del suo governo. Un governo "riformatore". In secondo luogo, per rafforzarne il sostegno, attirando settori di elettorato estranei e lontani. Non solo al PD, ma alla politica. Il ridimensionamento dei poteri del Senato e del numero di senatori, infatti, piace a molti italiani. Non solo per ragioni di "rendimento istituzionale". Ma, ancor più, per ragioni "antipolitiche". Perché tagliare una Camera e un buon numero di senatori, risparmiare sui "costi" dei "politici": intercetta la diffidenza diffusa verso il "Palazzo".

LE TABELLE

Annunciando l'intenzione di dimettersi, nel caso la riforma non venisse approvata, Renzi ha ulteriormente ri-definito il significato della consultazione. L'ha trasformata in un referendum (secondo Gianfranco Pasquino: un plebiscito) sul proprio governo e su se stesso.

In questo modo il premier ha inteso non solo esercitare pressione sugli elettori. Ma "rimediare" al deficit di legittimazione che lo angustia. In quanto governa con una maggioranza variabile, in un Parlamento nel quale non è stato eletto. In questo modo, però, come ho già scritto, Renzi ha politicizzato un referendum antipolitico. E ne ha eroso, in parte contraddetto, le ragioni che gli garantivano consenso.

Si spiega così l'in-voluzione degli orientamenti nei confronti del referendum rilevata da Demos, nel corso degli ultimi mesi. Lo scorso febbraio, infatti, si esprimeva a favore della riforma una maggioranza molto ampia: 50%. Mentre i contrari erano la metà, 24%. Poco meno di quanti non rispondevano, perché indecisi, oppure perché la materia risultava loro poco comprensibile. Oggi, però, la prospettiva appare molto più incerta. Il sostegno alla riforma, infatti, è sceso al 37%: 13 punti meno di 4 mesi fa. Mentre l'opposizione è, parallelamente, salita al 30%. Insieme, è cresciuta anche la componente di quanti non si esprimono: 33%. La distanza, a favore del Sì, dunque, è calata sensibilmente: da 26 a 7 punti. Ma tra coloro che si dicono certi di votare si è ridotta a 3 soli punti. Praticamente: nulla.
Le ragioni di questo cambiamento non si possono spiegare attraverso la "conversione" degli elettori favorita dalla comprensione dei temi posti dal referendum. La crescita dell'incertezza segnala, piuttosto, il peso assunto dall'incomprensione. Assai maggiori appaiono, invece, a mio avviso, le ragioni "politiche". Sottolineate, anzitutto, dalla distribuzione delle opinioni in base alla scelta di voto. Che riflette, in larga misura, i rapporti fra maggioranza e opposizione. In Parlamento e fra gli elettori. Il massimo livello di consenso alla riforma costituzionale si osserva, infatti, fra gli elettori del PD e dei partiti di Centro. In entrambi i casi, oltre il 60%. Più limitato risulta, invece, il sostegno alla riforma fra gli elettori di FI (42%). Comunque, superiore, seppur di poco, alla quota dei No (35%). All'inizio del percorso parlamentare, d'altronde, Berlusconi aveva dato il proprio appoggio alla riforma. Ritirato, successivamente, dopo il mancato coinvolgimento del partito nella scelta del nuovo presidente della Repubblica

L'opposizione più decisa e irriducibile viene, invece, dal M5s, dalla Lega e dalla Sinistra. Nella cui base il peso dei No al referendum supera largamente quello dei favorevoli.

La riduzione del consenso alla riforma, dunque, riflette, la riduzione del consenso ai partiti della maggioranza. Ma evoca, al tempo stesso, la "radicalizzazione" delle posizioni verso il premier. Che, oggi, divide anche il PD. Infatti, la quota di favorevoli alla riforma proposta alla consultazione referendaria oggi supera il 50%, fra chi esprime fiducia nel premier. Il doppio di quel che emerge fra chi lo guarda con diffidenza.

La politicizzazione del dibattito referendario ha, dunque, modificato l'atteggiamento degli elettori. Ben al di là delle critiche di merito, che hanno indotto, fino a poco tempo addietro, alcuni autorevoli opinionisti e intellettuali a dichiarare il loro sostegno al referendum, pur aggiungendo che "la riforma fa schifo". Oppure, al contrario, a schierarsi per il No, perché è una "finta riforma". Che non neutralizza il Senato, ma lo rende un corpo informe e opaco.

Così, l'opposizione a Renzi e al referendum si incrociano e si rafforzano reciprocamente. Tanto più dopo le elezioni amministrative. Che hanno avuto un esito non molto positivo per il premier e per il governo. Circa 8 elettori su 10 (Atlante Politico di Demos, giugno 2016) pensano, infatti, che il PD di Renzi esca indebolito dal voto delle città.

Lo stesso Renzi, d'altra parte, ha contribuito a confondere la scena, perché, in vista delle elezioni, ha spostato l'attenzione sul referendum. Rendendo, così, difficile ai candidati del PD e del Centrosinistra fare campagna sui temi locali. Così, ora, l'esito deludente del voto amministrativo condiziona le aspettative nei confronti del referendum. Il cui contenuto, presso gli elettori, appare complementare, se non subalterno, rispetto alla vera posta in palio. Il giudizio politico sul premier e sul governo. Dopo aver puntato in modo intransigente sul referendum per auto-legittimarsi, oggi il premier cerca, dunque, di "sopravvivere" al referendum stesso. Il cui esito appare sempre più incerto. E problematico. Così Renzi, da un lato, pensa ad allontanare la data del voto. Dall'altro, contrariamente al passato, appare disponibile a "spacchettare" i quesiti del referendum, per isolare i temi più critici.

Ma, in questo caso, Renzi, premier e segretario del PDR, che ambisce al ruolo di Riformatore di una nuova Repubblica, rischia di "spacchettare se stesso".

© Riproduzione riservata
11 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/11/news/nella_consultazione_politicizzata_i_si_avanti_di_un_soffio_ma_in_netto_calo-143819083/?ref=HREA-1
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« Risposta #484 inserito:: Agosto 15, 2016, 06:47:54 pm »

Se gli esami non finiscono mai
Docenti siciliani protestano contro i trasferimenti
Mappe. In questo periodo la scuola fa discutere per il maggior numero di voti alti alla maturità tra gli studenti meridionali e per i trasferimenti dei docenti dal Sud al Nord

Di ILVO DIAMANTI
15 agosto 2016

IN TEMPI di vacanze scolastiche, la scuola resta, comunque, un argomento di discussione. Nelle famiglie e nella vita quotidiana. D'altronde tutti hanno figli, nipoti, parenti che studiano. Frequentano scuole di vario ordine e livello. E, parallelamente, molti sono gli insegnanti. Così non sorprendono le polemiche che "accendono" questa pausa estiva. Fra un anno scolastico e l'altro. Riguardano, in primo luogo, i voti conseguiti alla maturità dagli studenti. In secondo luogo, i trasferimenti dei docenti, nella scuola primaria e nella scuola secondaria. In entrambi i casi, il "terreno" (letteralmente) del contendere coinvolge la storica differenza, meglio, frattura fra Nord e Sud.

Nel caso dei voti attribuiti negli esami di maturità, infatti, è emerso un evidente squilibrio di punteggi favorevoli, a tutto vantaggio del Mezzogiorno. I dati diffusi dal ministero dell'Istruzione, infatti, hanno sottolineato una vera crescita di 100 e lode, soprattutto a Sud. In Puglia, Campania, Sicilia. Tutte al di sopra della media nazionale. Mentre le principali regioni del Nord e del Centro - Lombardia, Veneto, Toscana - risultano indietro nella graduatoria nazionale. Si tratta di dati che contrastano con le indagini di Ocse Pisa e con i test Invalsi, a cui sono sottoposti gli studenti per verificarne il livello di apprendimento. In questo caso, infatti, si ripropone il divario fra Nord e Sud. Ma in senso inverso. In quanto le regioni del Sud ottengono risultati peggiori rispetto a quelle del Nord.

Come si spiega questa prospettiva rovesciata? Al di là delle riserve sui criteri adottati nei test di verifica dei livelli di apprendimento, appaiono legittime le perplessità sui metri di valutazione adottati dai docenti. In base al contesto. Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, alcuni giorni fa, ha sostenuto la tesi che "i professori del Sud, per una sorta di solidarietà meridionale basata sul comune sentimento di emarginazione e di abbandono, abbiano verso gli studenti la manica un po' più larga". Questa disparità di giudizi, peraltro, condiziona anche i canali di reclutamento, soprattutto nel pubblico impiego. Dunque, nella stessa scuola. Dove il punteggio ottenuto nella maturità assume importanza.

Si spiega anche così l'altra questione che scuote la scuola, in questo periodo. Riguarda l'assegnazione degli incarichi agli insegnanti, da parte del ministero. Un provvedimento che prevede numerosi trasferimenti. In larga misura, dal Sud verso il Nord. Al proposito, alcuni docenti e sindacalisti hanno parlato di "deportazione coatta". Tuttavia, le ragioni di questo "esodo" sono ben chiarite in un recente Focus preparato da Tuttoscuola. Che apre rammentando: "Lo spostamento del baricentro della scuola italiana: più studenti e più posti al Nord, sempre meno al Sud, dove però risiede l'80% di chi vuole insegnare". Così, ha commentato, ancora, Stella: "Non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti".

Queste polemiche intorno alla scuola riflettono le questioni storiche che attraversano il Paese. Anzitutto: la tensione fra Nord e Sud. In altri termini: la "questione meridionale". Tuttavia, tanta attenzione richiama, anzitutto, l'importanza della Scuola, per gli italiani. Non solo sul piano dell'organizzazione sociale, ma, prima ancora, della "reputazione" dei cittadini. La Scuola, infatti, è al terzo posto fra le istituzioni più stimate, secondo il rapporto "Gli italiani e lo Stato" realizzato, nel 2016, da Demos per la Repubblica. Riscuote, infatti, la fiducia del 56% dei cittadini. Superata solamente da papa Francesco e dalle forze dell'ordine. E gli insegnanti della Scuola pubblica, a loro volta, risultano tra le figure professionali che dispongono di maggiore prestigio sociale. Per primi, i "docenti universitari", superati solo dai medici. Quindi, gli insegnanti delle scuole elementari, superiori e medie. Ottengono, tutti, un credito superiore al 55%. In crescita significativa, negli ultimi anni. Segno che la scuola, per quanto criticata, per gli italiani, conta molto. Come, d'altronde, gli insegnanti. In tutte le aree del Paese. Nel Sud, infatti, la fiducia nei loro riguardi risulta superiore alla media nazionale. Ciò si spiega, a mio avviso, per la loro "funzione sociale". L'istruzione. Spesso svalutata, a parole. Mentre, nella realtà, gode di grande reputazione. Anche per questo ai "professionisti" della cultura e dell'istruzione è richiesta mobilità territoriale. Il problema, semmai, è che la considerazione sociale e il prestigio professionale non sono sostenuti adeguatamente dal punto di vista delle condizioni normative e di reddito.

Io, comunque, per insegnare, da 26 anni mi reco a Urbino. In auto. Da Vicenza. Con cadenza settimanale. Certo, un paio d'anni fa mi sarei potuto avvicinare. Ma ho preferito restare. Perché, nel tempo, ho "cresciuto" una scuola, con alcuni studiosi e ricercatori di valore. E perché mi trovo bene. Naturalmente, me lo posso permettere. Perché la mobilità "settimanale" non mi sarebbe possibile se insegnassi alle scuole medie o alle superiori. Tuttavia, insegnare, fare ricerca, scrivere sui giornali, insomma, poter fare quel che mi piace, nonostante la fatica: è un privilegio. Che io stesso ho "coltivato". Perché le valutazioni scolastiche contano. Ma non sanciscono il nostro destino. Per anni, a Padova, alla facoltà di Statistica, ho potuto seguire i lavori di Lorenzo Bernardi. Che se n'è andato, troppo presto. Si occupava, in particolare, dei percorsi scolastici-professionali. Dalle sue ricerche ho appreso che non c'è una relazione stretta e diretta fra il successo scolastico alle Scuole superiori e le performance in ambito professionale. Ma, francamente, me n'ero convinto prima. Anche senza condurre studi specifici. D'altronde, io e Gian Antonio Stella abbiamo fatto il liceo insieme. Per tre anni siamo stati vicini di banco. E agli esami di maturità siamo usciti, entrambi, con un voto basso. Fra i peggiori. Ci siamo rifatti più avanti. Perché gli esami, come ha scritto il grande Eduardo, non finiscono mai. Per fortuna.

Per questo, quando mi chiamano in qualche scuola, agli studenti dico: "Ragazzi, guardatemi. Io sono la prova che c'è speranza per tutti".

© Riproduzione riservata 15 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/15/news/gli_esami_non_finiscono_mai-146001372/?ref=HRER2-1
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« Risposta #485 inserito:: Agosto 23, 2016, 11:06:15 pm »

Senza Partito non c'è Festa
Non ci sono più i partiti di una volta. E neppure le feste di partito di una volta

Di ILVO DIAMANTI
22 agosto 2016

NON ci sono più i partiti di una volta. E neppure le feste di partito di una volta. Le feste dell'Unità, per esempio. Oggi sollevano interesse solo quando suscitano polemiche. Com'è avvenuto in questi giorni, dopo che l'Anpi ha deciso di non partecipare alle feste dell'Unità, a partire dall'appuntamento di Bologna.

Per una ragione esplicita. L'associazione dei partigiani, infatti, è stata invitata a non promuovere le ragioni del No al referendum costituzionale alle feste. Renzi sta peraltro tentando di ridimensionare le tensioni. Ha infatti proposto al presidente dell'Anpi un confronto sul tema del referendum la settimana prossima a una festa dell'Unità in Emilia-Romagna.

Al di là di valutazioni sul merito, questa polemica fornisce un segno significativo. Dei tempi che cambiano. Perché, come ha osservato, sulla Repubblica, la storica Anna Tonelli: "Le feste hanno sempre costituito un luogo aperto. Anche ai cosiddetti nemici e agli avversari, negli anni degli scontri più duri". Michele Serra lo ha rammentato ieri, senza mezzi termini: "Le feste dell'Unità sono per loro natura e da sempre il luogo classico della discussione a sinistra".

Naturalmente, non bisogna attribuire un significato paradigmatico a un episodio specifico. Ma le feste dell'Unità, forse più di altri aspetti della realtà politica, spiegano bene quanto siano cambiati i "partiti". Ammesso che sia ancora possibile definirli così. Perché i "partiti" di massa sono scomparsi 25 anni fa. Non per caso. Ma perché non avevano più senso. Il "senso", almeno, offerto dalla storia che li aveva generati. Nell'Italia del dopoguerra, la politica era strutturata dalla frattura fra l'anticomunismo, impiantato sul muro di Berlino, e, sul versante opposto, l'anticlericalismo, l'antagonismo verso la Chiesa. D'altra parte, uno slogan in occasione delle elezioni del 1948 recitava: "nel segreto dell'urna, solo Dio ti vede, Stalin no". Mentre un giovane veneto, in un questionario distribuito nei primi anni '50 (anche allora si facevano sondaggi...), accanto al marchio del Pci scriveva: "belve assetate di sangue. Con la falce ci taglieranno la testa e con il martello ci inchioderanno alla croce" (in Allum e Diamanti, ' 50/' 80: vent'anni. Due generazioni di giovani a confronto, pubblicato dalle Edizioni Lavoro nel 1986). Quanto alla Dc, lo stesso giovane ne definiva i dirigenti "ladri". "Lontani dai poveri e da chi lavora". Opinione condivisa da molti altri, nell'inchiesta. Eppure, il loro sostegno andava proprio alla "Democrazia" (implicitamente: Cristiana). Perché i "comunisti" erano servi della Russia. E nemici della Religion.

Cioè, del mondo cattolico. Il sistema di servizi, associazioni, valori che sosteneva la società locale. La Chiesa: il retroterra della Dc. E il Pci, insieme alle associazioni sindacali e della sinistra, offriva un'alternativa. Capace di evocare gli orizzonti di valore e di organizzare la realtà sociale. Di indicare grandi destini, ma anche le routine quotidiane. Per questo le feste dell'Unità sono importanti. Perché danno continuità a quella storia. Quando la politica era inserita nella vita quotidiana. E contava nel momento del voto, nel rapporto con il governo nazionale, ma anche nella socialità e nel tempo libero.

Certo, da allora è cambiato tutto. Più della politica oggi conta l'anti-politica. Eppure anche un tempo l'antipolitica era diffusa. Nei giudizi sui partiti espressi nell'inchiesta condotta negli anni '50, gli insulti si sprecano. I politici pensano tutti ai fatti e agli affari loro. Senza distinzione fra destra e sinistra. Anche perché allora esistevano solo comunisti e democristiani. La questione decisiva era il Contesto. La condivisione di un linguaggio, di un ambiente. Così eri e ti sentivi comunista oppure democristiano, meglio: anti-comunista, a seconda del luogo dove vivevi. E delle relazioni che intrattenevi.

Si tratta di cose note. A ripeterle si rischia di apparire nostalgici. Anche se la nostalgia è utile, perché spinge a rivisitare il passato in modo selettivo. A isolare gli aspetti più interessanti. Tuttavia, nel caso delle feste dell'Unità mi pare che il problema vada oltre. Perché si tratta di feste popolari ("di popolo") che riproducevano il legame della politica, ma anche dell'anti- politica, con la società.

Ma oggi "quel" legame sembra essersi spezzato. Perché "quei" partiti non ci sono più. Così, la festa dell'Unità è divenuta un'altra cosa. Non ne giudico, ovviamente, la qualità. Per rispetto della sua storia, almeno. Tuttavia, il cambiamento di clima sociale intorno all'unica Festa di partito sopravvissuta, insieme al giornale a cui fa riferimento, permette, più di altri segni, di ragionare sulle difficoltà del "partito" che la ispira. Oggi: il Pd. A differenza del Pci, non è un soggetto "unitario", come suggerisce la testata del suo storico giornale. L'Unità, appunto. Riassume, invece, due "popoli" per molti anni alternativi. Comunisti e anticomunisti. Post- comunisti e post-democristiani. Cioè, post-anticomunisti. Oggi, peraltro, il Pd deve fare i conti con una nuova distinzione. Post-ideologica. Perché al suo interno si è imposto il PdR. Il Partito di Renzi. Un soggetto, in parte, specifico. Distinto. Ma stare insieme a fini strategici è una cosa. Camminare e discutere insieme, perché insieme si sta bene, è un'altra. "Festeggiare", ascoltando pareri diversi su un referendum (fin troppo personalizzato), decisivo per il futuro della leadership e quindi del partito: è un'altra cosa ancora.

Per questo il Pd ha "senso". Futuro. Ma solo se riuscirà a trovare un equilibrio, anche instabile, con il PdR. E, viceversa. Oggi, però, ha poco da festeggiare. Perché l'Unità, più che un giornale, per gli elettori e i militanti del Pd-PdR costituisce un (difficile) obiettivo da conquistare. Con impegno e fatica. Ma anche per passione e "piacere". Perché, altrimenti, restano solo gli interessi. E allora, a far politica: che gusto c'è?

© Riproduzione riservata 22 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/22/news/senza_partito_non_c_e_festa-146414128/?ref=HREC1-2
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« Risposta #486 inserito:: Agosto 26, 2016, 08:54:26 pm »

Il dopo-terremoto sommerso di parole
La terra ha tremato in modo violento. Un'altra volta.
E ci siamo trovati di nuovo dentro un incubo

Di ILVO DIAMANTI
26 agosto 2016

Ho percepito in diretta la lunga scossa di terremoto, che ha sconvolto alcune zone dell'Italia Centrale. In questo periodo, da molti anni, mi trasferisco a Urbania. Al confine con Urbino - e anch'essa città ducale. Così, nella notte fra martedì 23 e mercoledì 24 agosto ho sentito muri e pavimento muoversi, le lampade oscillare e molti oggetti battere e scivolare. Ho cercato subito sui siti una notizia, un'informazione. Ma avevo capito. Troppo facile immaginare cosa fosse successo. Il problema era "dove". E con quali effetti.

Pochi istanti e la mia attesa veniva - per così dire - soddisfatta. La terra aveva tremato. In modo violento. Un'altra volta. Al crocevia fra le Marche, il Lazio e l'Umbria. Così ci siamo trovati, di nuovo, dentro un incubo. Assolutamente reale. Un altro terremoto che ha travolto molte località, molti borghi, molte abitazioni e, insieme, molte vite. Era già avvenuto altre volte, non tanti anni fa, non lontano da qui. E purtroppo avverrà ancora. In qualche altro paese, in qualche altra città. D'altronde, come si sente dire spesso, in questi giorni, si tratta di un evento prevedibile. Anche se non proprio in quei luoghi e in quei giorni. Perché il nostro è uno "Stato di emergenza". Permanente. Noi, per abbassare il rischio, dovremmo praticare la prevenzione, in modo sistematico. Nella realizzazione del patrimonio immobiliare. Nella gestione del territorio.

E qualcosa si è fatto, si fa. Ma in misura assolutamente inadeguata. Non intendo, qui, riprendere il dibattito sui motivi della nostra amnesia permanente, su questi problemi. Ma mi disturba assistere a un palinsesto già scritto. Delineato e sperimentato tante volte. Lo spettacolo del disastro e della tragedia. Lo spettacolo del dolore e dei soccorsi. Della solidarietà e della generosità. Del sostegno istituzionale, espresso da presidenti e uomini di governo in visita ai luoghi colpiti dal sisma. Questa narrazione, scritta, descritta e sceneggiata tante volte: mi disturba.

Anche perché, sui media, questa tragedia reale, tremenda, prende il posto di altre tragedie private, sceneggiate e replicate altre volte. Tante volte. Troppe volte. Omicidi e violenze familiari, tra coniugi, genitori e figli. Tra vicini, conoscenti e sconosciuti. Femminicidi. Li abbiamo visti e li vediamo, trasmessi da tanti anni. D'altronde, da noi i processi e le indagini non finiscono mai. Così, gli stessi spazi mediali oggi sono occupati dalle storie del terremoto e del dopo-terremoto. Riproposte, sugli schermi televisivi, di giorno in giorno, meglio ancora, di pomeriggio in pomeriggio. Poi, di sera, fino a notte inoltrata. La vita e la morte, assolutamente in diretta. I bambini deceduti e quelli salvati. Le polemiche sulle responsabilità dello Stato, dei Comuni e dei privati. Sulle risorse impiegate per gli stranieri e gli immigrati, invece che per aiutare i nostri cittadini.

Mi disturba il reality show che si svolge intorno al dolore. E solleva rumore, anche quando ci sarebbe bisogno di silenzio. Mi rendo conto, però, che è inevitabile. Come, purtroppo, il ripetersi delle tragedie che devastano il nostro territorio. Però, se i terremoti sono imprevedibili e, in Italia, non finiscono mai, proviamo, almeno, a non rassegnarci alla riduzione mediale del dopo-terremoto, sepolto da fiumi di parole. Per rispetto. Nei confronti delle comunità e delle persone colpite dal sisma. E verso noi stessi.

Tags Argomenti: terremoto 24 agosto 2016Protagonisti:
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Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/08/26/news/il_dopo-terremoto_sommerso_di_parole-146638118/?ref=fbpr
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« Risposta #487 inserito:: Settembre 02, 2016, 05:33:13 pm »

Terremoto, le due facce del volontariato
Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno 'assistito' a questi eventi non solo da 'spettatori'

Di ILVO DIAMANTI
29 agosto 2016

L'ALTRA faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti.

Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione.

Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti.

Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.

© Riproduzione riservata 29 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/29/news/terremoto_le_due_facce_del_volontariato-146799372/?ref=HRER2-1
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« Risposta #488 inserito:: Novembre 05, 2016, 10:39:51 am »

Urbino, cronache dalla periferia (universitaria) del terremoto

04 novembre 2016
Ilvo Diamanti

Urbino, cronache dalla periferia (universitaria) del terremoto Urbino è alla periferia del terremoto. Abbastanza lontana dagli epicentri da non aver subito danni rilevanti. Ma comunque dentro alla regione tellurica. L’area umbro-marchigiana. Città universitaria. Perché gli abitanti, gli urbinati, se ne sono usciti da tempo. E hanno ceduto, meglio, affittato le case e gli spazi pubblici agli studenti. E ai docenti. Un po’ quel che è avvenuto alle altre città universitarie dell’area. Penso a Macerata ma, soprattutto, a Camerino. Colpita in modo pesante dal terremoto.

Urbino, invece, è stata ripetutamente investita da scosse violente, ma senza conseguenze significative sulle abitazioni, i monumenti, le strutture universitarie. Eppure la sua immagine è rimasta impigliata nello sciame sismico degli ultimi mesi. Sono, infatti molti i colleghi e i conoscenti di altre città (e Paesi) che mi chiamano per sapere cosa sia successo qui. Io, d’altronde, ho ballato il 24 agosto, in piena notte. Quando ho visto saltare tutti gli oggetti appoggiati sulle mensole della mia casa. Mercoledì 26 ottobre, quando sono riprese le scosse, il tardo pomeriggio. Alla sera, dopo la seconda scossa, ho visto gli studenti scendere lungo le vie di Urbino con i loro trolley. E partire. Ad attenderli, sotto le mura, nella piazza del Mercatale, i genitori in auto. Per riportar(se)li a casa.

Ieri sera, giovedì, tradizionale festa (settimanale) di arrivederci degli studenti – e di altri giovani – Urbino era vuota e silenziosa. Anche a lezione, peraltro, gli studenti erano pochi. E non solo “per effetto” del ponte lungo di Ognissanti. Ma “per effetto” del terremoto. Le scosse ripetute, generate da epicentri fluidi e sempre più vicini, hanno invitato alla prudenza. Anche se non bisogna esagerare. Urbino, infatti, è un punto periferico, eppure esemplare, delle possibili conseguenze sociali del terremoto nelle città universitarie. Camerino, soprattutto, ma, in misura minore, anche Macerata. Colpite dalle scosse, minacciate dal terremoto: rischiano di venire svuotate di senso.

Perché, se per paura, gli studenti si allontanano, allora queste città perdono il loro significato. Diventano musei, silenziosi e malinconici. Mentre, fino ad oggi, sono stati - e ancora sono - luoghi centrali – anche geograficamente – della storia culturale del Paese. Per questo, anche per questo, non bisogna arrendersi. Alla paura. Per questo, anche per questo, io non me ne andrò.

Da Urbino.
© Riproduzione riservata 04 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2016/11/04/news/urbino_cronache_dalla_periferia_universitaria_del_terremoto-151316784/?ref=HRER2-3
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« Risposta #489 inserito:: Novembre 14, 2016, 05:55:40 pm »

Il trumpismo all'italiana e la destra senza leader

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Di ILVO DIAMANTI
14 novembre 2016

LEGA e Forza Italia, Forza Italia e Lega. Oggi sembrano distanti e distinte. Lega o Forza Italia. Forza Italia o Lega. La Lega di Salvini si è mobilitata per il No al referendum. A Firenze. La città di Renzi. Che una settimana fa, proprio a Firenze, alla Leopolda, ha presieduto la convention del PdR. Forza Italia, invece, si è riunita intorno a Stefano Parisi.
A Padova. Dove, il giorno prima, è stato sfiduciato il sindaco leghista, Massimo Bitonci. Per la defezione, determinante, di due consiglieri di Fi.

Così, Bitonci ha sostenuto che ci sono due Forza(e) Italia(e). Anche perché a Firenze, insieme a Salvini, manifestavano Toti, presidente — forzista — della Liguria. Ma anche Brunetta e la Santanché. Però è altrettanto vero che non c’è una sola Lega. Visto che Manuela Dal Lago, ex Presidente della Provincia di Vicenza, ex deputata, ex triumvira della Lega Padana, non ha rinnovato la tessera. Perché si sente lontana da questa Lega, che ha rinunciato all’indipendenza padana. E, per questo, lascia insoddisfatto il padre fondatore, Umberto Bossi. Una Lega Nazionale e lepenista. Antieuropea e anti-immigrati. Che, invece di marciare contro Roma, si è scagliata contro Bruxelles. Tuttavia, il problema di fondo, a Destra, appare proprio l’identità e la leadership. Della Destra. In particolare oggi, dopo la vittoria di Donald Trump negli Usa. Perché gli Usa costituiscono, comunque, la guida e il riferimento della politica globale. Tanto più in Italia. Per decenni, il confine dell’Occidente. Cioè, del Mondo ispirato e guidato dall’America. Alternativo al sistema socialista. Il baricentro impiantato a Mosca. Oggi non è più così. Da tempo ormai. Ma l’elezione di Trump ha accelerato e accentuato questo passaggio. In modo traumatico. Perché Trump guarda oltre l’Europa. E si rivolge direttamente alla Russia di Putin. Mentre marca maggiormente i confini interni. Nei confronti del Messico. E fra le popolazioni, vista l’importanza, per il risultato, del voto dei “bianchi”. Così, la distinzione fra Destra e Sinistra, in Italia, diventa ancor più problematica. Ma soprattutto nella Destra, dove convivono componenti e leadership molto distinte. Soprattutto dopo il declino di Silvio Berlusconi, in seguito alle dimissioni del suo governo, giusto cinque anni fa. Il 12 novembre 2011. Infatti, la Destra, meglio: il Centro-destra, in Italia, è stato improntato da Berlusconi. La sua “discesa in campo”, nel 1994, divise il (nostro) mondo in due. Fra Berlusconiani e Comunisti. Perché, sulle macerie del muro di Berlino, Silvio Berlusconi ricostruì il muro di Arcore. Puntualmente ricambiato — e confermato — dagli avversari. Che hanno diviso il mondo fra berlusconiani e anti-berlusconiani. In questo modo, peraltro, la Lega secessionista riuscì a divenire forza di governo. “Sdoganata” da Berlusconi. Che riuscì nell’impresa di “legare la Lega” con i post-fascisti di An. E di “unire”, così, il Nord con il Sud.


Oggi, però, è rimasto poco di quella stagione. Di quel progetto. Di quelle fratture. An si è disciolta nel PdL. Mentre il leader, Gianfranco Fini, è scivolato al Centro, insieme a Futuro e Libertà. Ai confini della Destra è rimasta Giorgia Meloni, con i suoi “Fratelli d’Italia”. Mentre la Lega e Fi faticano a tenere i loro elettori. Secondo i sondaggi — che, naturalmente, sbagliano, ma continuano ad essere considerati con timore dagli attori politici — Fi oggi si aggira intorno al 12 per cento. In crescita negli ultimi mesi. Ma 5 punti sotto il risultato delle europee. La Lega, invece, è stimata un po’ meno del 10 per cento. In aumento, rispetto alle Europee. Ma in calo significativo nell’ultimo anno, visto che a giugno 2015 il suo peso elettorale era valutato al 14 per cento. Il problema, per la Lega e per Forza Italia, è che la spinta anti-sistema, contro l’establishment e contro le èlite, in Italia, non è interpretata da loro. O meglio, non tanto da loro. Perché il posto di Trump, da noi, è già stato occupato da tempo. Dal M5s. Che, non a caso, nei sondaggi, è molto vicino al Pd, nel voto proporzionale. Ma, in caso di ballottaggio, prevarrebbe. Certo, fra gli elettori del M5s, Trump non appare popolare quanto presso la base della Lega e dei FdI. Perché l’elettorato del M5s è distribuito in modo trasversale da destra a sinistra passando per il centro. Mentre il sostegno a Trump, in Italia, fra gli elettori di centro-destra e di destra, (prima del voto Usa) appariva più che doppio, rispetto alla media (sondaggio Demos). Tuttavia, Trump non si è affermato perché ha attratto — specificamente — gli elettori di “destra”. Cioè, per ragioni “ideologiche”. Si è affermato, invece, perché ha intercettato il voto degli elettori “arrabbiati” (per usare un eufemismo) contro la politica, i politici e, soprattutto, le dinastie politiche — come i Clinton. Perché ha raccolto il consenso — e amplificato il dissenso — dei ceti medi in declino. E delle classi declinate da tempo. Insomma, per dirla “all’italiana”, Trump ha vinto perché si è presentato come l’anti- politico contro l’erede dichiarata della politica — tradizionale. Contro Washington, la capitale. Che, in Italia, non coincide più con Roma, dove, ormai, stazionano tutti i “politici”. Del Pd, ma anche di Fi, della Lega e del M5s. La capitale, ormai, è Bruxelles. Il nemico è l’Europa.
Per i soggetti politici di Destra, dunque, il problema è che, in Italia, lo spazio di Trump e del trumpismo risulta già occupato. Dal M5s. E da Grillo. Tuttavia, è probabile, anzi: certo, che tutti cercheranno di trarre spunto — e spinta — dalla “lezione americana”. Soprattutto in Italia. Così non mi sorprenderei se lo stesso Renzi tentasse di trumpizzarsi. Almeno un po’. Tanto più in caso di vittoria del No al referendum. In fondo, la “rottamazione” l’ha inventata lui. Potrebbe presentare Trump come un imitatore…

© Riproduzione riservata
14 novembre 2016.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/14/news/il_trumpismo_all_italiana_e_la_destra_senza_leader-151955810/?ref=HRER2-1
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« Risposta #490 inserito:: Novembre 20, 2016, 12:02:40 pm »

Referendum, il No avanza. Il Sì è indietro di 7 punti
Nell'ultimo mese i contrari cresciuti del 3%. Un italiano su quattro, però, è ancora indeciso. Un esame elettorale, Renzi forte solo al Nord

Di ILVO DIAMANTI
18 novembre 2016

A due settimane dal referendum costituzionale gli orientamenti di voto sembrano definiti. Infatti, nell'ultimo periodo, il No ha allargato il proprio vantaggio. Secondo il sondaggio condotto nei giorni scorsi da Demos per Repubblica, ha raggiunto il 41%, mentre il Sì è sceso al 34%. La distanza è, dunque, di 7 punti, mentre il mese scorso era di 4. E in settembre di 8, ma a favore del Sì. In due soli mesi, dunque, le posizioni si sono decisamente invertite. E il No ha recuperato ben 15 punti.

Ovviamente, occorre usare prudenza prima di considerare conclusa la partita. Meglio tener conto della "lezione americana", impartita in occasione delle elezioni presidenziali. D'altronde, gli elettori incerti e reticenti, in questa occasione, sono ancora il 25%. Uno su quattro. La decisione ritardata (o non dichiarata) e l'in-decisione potrebbero determinare variazioni profonde, nell'esito del voto. Fino a rovesciare le previsioni. Com'è avvenuto proprio la settimana scorsa negli Usa. Dove il successo di Trump è apparso imprevisto.

Anche se non era del tutto imprevedibile, visto che le distanze emerse dei sondaggi non erano così lontane dal margine di errore statistico. Nel caso del referendum, si aggiunge la complessità del quesito, che quasi il 45% degli italiani (intervistati) ammette di conoscere "poco o per niente". La geografia degli orientamenti, anche per questo, appare composita. Il "fronte del Sì", in particolare, è più esteso nel Nord, ma si restringe nelle regioni del Centro e del Sud. Mentre il No prevale fra i più giovani e nelle componenti sociali più istruite. Tuttavia, sul voto referendario, più delle motivazioni sociali ed economiche, pesano quelle politiche. Solo fra gli elettori del Pd, infatti, il Sì risulta (nettamente) maggioritario (75%). Mentre negli altri partiti (con la parziale eccezione dell'Ncd) prevale la posizione opposta. In modo più o meno largo.

Nella Lega e nel M5S, in particolare, il No è espresso dai 3 quarti degli elettori. Tra i Fratelli d'Italia: dal 60% - circa. I dati dell'Atlante Politico di Demos, però, evocano, soprattutto, l'idea di un voto marcatamente personalizzato. Da - e intorno a - Renzi. In modo coerente e conseguente alle scelte originarie del Premier. Il quale, attraverso il referendum, vorrebbe ottenere la legittimazione elettorale che ancora non ha avuto. D'altronde, oltre il 60% del campione nazionale (intervistato da Demos) considera il prossimo voto proprio così. Un referendum "a favore o contro Renzi e il suo governo", che sta assumendo un orientamento decisamente negativo. Anche perché il giudizio popolare, al proposito, si sta deteriorando in modo rapido e profondo.

Oggi, infatti, il 40% degli elettori attribuisce un voto positivo al governo. Dunque, 4 punti in meno rispetto al mese scorso e 6 rispetto a un anno fa. Questo giudizio, però, può essere letto anche in modo inverso e speculare. Che 6 persone su 10, dunque la larga maggioranza, valuta il governo negativamente. Peraltro, la stessa tendenza si osserva in rapporto alla figura e alla leadership di Renzi. Stimata positivamente nella stessa misura del governo: 41%. E in calo, anche in questo caso, di 4 punti nell'ultimo mese. Ma di 7 nell'ultimo anno. È una conferma del legame stretto fra il governo e il premier, nella percezione dei cittadini. Che si riflette sulle intenzioni di voto al referendum. Per questo una vittoria del No implicherebbe le dimissioni da Capo (del governo), secondo la maggioranza degli elettori: il 56%. In crescita di 3 punti nell'ultimo mese. Ma sancirebbe anche la fine della sua leadership nel Pd, secondo il 51% degli intervistati. Anche per questo il Pd, nelle stime elettorali, non cresce. Perché è, ormai, un partito personale. Il PdR. E ruota intorno alle sorti del Capo. Così, staziona intorno al 30%. Affiancato dall'unico soggetto di opposizione, oggi, plausibile. Il M5S. Che "rischierebbe" di vincere, in caso di ballottaggio. Mentre la Lega e Forza Italia sembrano riprendere quota. Ma volano basso. Intorno al 13%. A lunga distanza dai due rivali: Renzi e Grillo. PdR e M5S.

È come se la politica in Italia fosse sospesa. In attesa del referendum. Da cui dipenderà non solo la sorte di Renzi e del suo governo, ma anche degli altri principali partiti. Degli altri leader. Così, purtroppo, in pochi discutono della materia del referendum. Salvo i costituzionalisti e alcuni esperti. Oltre ai leader e ai militanti (schierati a prescindere). La posta in palio è un'altra. Il destino politico di Renzi. Il futuro - prossimo della politica, in Italia. E non ci sono parole per dire quel che sarà e saremo. Fra poco più di due settimane. Dopo il 4 dicembre. Ci mancano le parole perché non sappiamo. Quel che sarà e saremo.

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18 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/18/news/referendum_sondaggio_distacco_no_7_punti-152239357/?ref=HREA-1
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« Risposta #491 inserito:: Novembre 21, 2016, 11:41:29 am »

L'elogio della mediazione
Le mappe.
La democrazia rappresentativa al tempo dei social

Di ILVO DIAMANTI
21 novembre 2016

NON E' da oggi che, non solo in Italia, si accentuano le spinte verso un presidenzialismo di fatto. Verso una democrazia immediata, più-che-diretta, che rimpiazza ogni mediazione rappresentativa con i media. Ne ho scritto altre volte in passato. E non solo io. Ma oggi, in Italia, questa tendenza si è accelerata.

Fra meno di due settimane si voterà a un referendum, per decidere - anzitutto ma non solo - di ridimensionare i poteri del Senato. E, dunque, il bicameralismo paritario. Per rendere i processi decisionali più rapidi. Più diretti. Più immediati. Il referendum stesso è un metodo di democrazia immediata. Che affida la scelta e la decisione al "popolo sovrano". Ma la posta in palio di questo referendum va ben oltre la riforma costituzionale, peraltro, importante. Chiama in causa, in modo diretto, anzi, immediato, il premier, Matteo Renzi. Il quale, per primo, ha attribuito al referendum una finalità "politica" e "personale". Annunciando che, nel caso non fosse stato approvato dal voto popolare, si sarebbe dimesso. Così, per citare Gianfranco Pasquino, il referendum si è trasformato in un plebiscito. In un'investitura o, al contrario, una dis-investitura. Diretta. Anzi im-mediata. Questa "piega" è divenuta esplicita nelle ultime settimane. Perché, al di là di tutto e di tutti, il confronto pone, ormai, di fronte il Capo e il Popolo sovrano. Al quale Renzi si è rivolto. Saltando ogni mediazione. Così sarà difficile, in caso di approvazione, mettere in discussione i suoi poteri. La sua legittimità. Riconosciuta dal Popolo sovrano. Direttamente. Così, nei prossimi giorni, il premier si rivolgerà direttamente ai cittadini. Inviando ad ogni famiglia un opuscolo che spiegherà le ragioni del Sì. Al tempo stesso, Renzi ha denunciato "l'accozzaglia di tutti contro una sola persona". Lui. Solo. Di fronte ai nemici che operano contro di lui e contro la riforma.

Al tempo stesso, Renzi ribadisce che, se il referendum non venisse approvato, il governo seguirebbe il destino del premier. Cioè, le dimissioni. Ripeto e metto in fila cose note. A tutti. Perché espresse e comunicate pubblicamente. Tuttavia, non mi interessa tanto entrare nei contenuti del dibattito sul referendum. Ma, piuttosto, ragionare sulle dinamiche del rapporto fra società e politica che emergono in questa fase. In particolare, sulla rapida riduzione delle distanze fra autorità e cittadini. Insieme alla personalizzazione della politica e delle istituzioni. Oggi, infatti, ma non solo da oggi, il governo e i partiti sono personalizzati, in modo sempre più estremo. In Italia in particolare, il Pd, partito di maggioranza e di governo, appare iper-personalizzato. Direi quasi personale, com'era Forza Italia. Anche se Renzi ha "conquistato" democraticamente la guida del partito, attraverso le primarie. Tuttavia, anch'egli ha centralizzato decisioni e poteri. Si è circondato da una cerchia di persone fedeli e amiche. Ha, di fatto, rimpiazzato i congressi con la convention "personale" alla Leopolda. La stazione di Firenze vicino a casa. Sua. Per questo ho ri-definito il Pd: PdR. Partito di Renzi. D'altronde, Renzi interpreta in modo esemplare il tempo della "democrazia im-mediata". Oppure, per citare Nadia Urbinati, "in diretta". Certo, come Berlusconi, sa comunicare efficacemente attraverso i media tradizionali. Per prima la televisione. Ma, più e meglio di altri, utilizza i social media. Twitter e Facebook. I canali della "comunicazione im-mediata". Che bypassano ogni "mediazione". E mettono in relazione diretta, anzi, im-mediata, il Capo con il suo popolo. Non è un caso e non è per caso che il principale soggetto politico di opposizione sia il M5S. Fondato e guidato da Beppe Grillo, ispirato da Gianroberto Casaleggio. Il M5S ha utilizzato la rete come una nuova Agorà. Dove i cittadini possono deliberare direttamente sulle questioni di maggiore interesse pubblico. Come nell'Atene di Pericle. Il M5S: un soggetto e un progetto di democrazia diretta. Meglio: im-mediata. Senza mediazioni. Anzi: contro ogni mediazione e ogni mediatore. E, dunque, contro i "media" e i giornalisti. Visto che al tempo del digitale ogni cittadino può e dovrebbe discutere e decidere sulle questioni di interesse comune. Nell'Agorà digitale.

I canali e gli attori tradizionali della mediazione, d'altronde, si sono rarefatti. I partiti per primi, sempre più personalizzati e abbandonati dagli iscritti. Intorno a noi vediamo leader senza partiti e partiti senza società e senza territorio. Così i leader si rivolgono direttamente ai cittadini. Senza mediazioni. D'altronde, le mediazioni sono sempre più difficili da proporre e da imporre. Perché i cittadini appaiono, a loro volta, più soli. Visto che non solo i partiti, ma anche le associazioni tradizionali si stanno indebolendo. Il sindacato, le organizzazioni di rappresentanza degli interessi: hanno perduto la loro base sociale. E, insieme, la fiducia dei cittadini. Ormai, meno del 20% delle persone, in Italia, esprime fiducia nei sindacati. Mentre, fra le istituzioni, mantengono un buon grado di credibilità solo le Forze dell'ordine, il presidente della Repubblica. E Papa Francesco. Sintomi e segni della diffusa domanda di sicurezza. E di "fede". In qualcuno. In qualcosa.

Per questa ragione, in questi tempi di democrazia im-mediata, attraversati e interpretati da uomini soli al comando, chiamati a decidere subito e senza mediazioni, in rete o attraverso i referendum popolari, mi sento un po' a disagio. D'altronde, Evgenij Morozov ha insegnato a diffidare della visione ottimista di internet, (non sempre) canale di promozione democratica. E ha mostrato il "lato oscuro della rete". Così a volte provo un po' di nostalgia. Dei (buoni) partiti. Capaci di rappresentare la società. Capaci di indicare percorsi futuri, perché hanno un passato, una storia. E ammetto la mia preferenza per la democrazia rappresentativa. Per la "buona" mediazione, realizzata da "buoni" mediatori.

© Riproduzione riservata 21 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/21/news/l_elogio_della_mediazione-152437425/?ref=HRER2-1
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« Risposta #492 inserito:: Novembre 28, 2016, 08:34:38 pm »

Allarme bullismo, dalle aule ai social network: ne è vittima un adolescente su tre
Genova, un episodio di bullismo nel 2015: due ragazze di 16 e 17 anni si accaniscono contro una dodicenne
Mappe. L'avvento della Rete ha delineato un nuovo territorio per un fenomeno che, rivela il sondaggio Demos, preoccupa una parte sempre più larga della popolazione

Di ILVO DIAMANTI 28 novembre 2016

"Bulli troppo giovani per finire in tribunale, ma ci sono altre pene"
Torino: vittima delle vessazioni dei compagni bulli, diventa disabile a undici anni

Il bullismo è un fenomeno serio e odioso. Ma solo da pochi anni ha ottenuto un'attenzione pubblica adeguata. Anche se ha una storia lunga. Narrata dal cinema e dalla letteratura. Oggi, però, è oggetto di preoccupazione diffusa. E, per questo, numerosi istituti di ricerca conducono analisi e ricerche sistematiche, sul fenomeno. Dall'Istat all'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica, al Centro di ascolto di Telefono Azzurro.
 
Tanta attenzione riflette l'effettiva crescita del fenomeno, ma anche il diverso significato che ha assunto. In passato, infatti, era "accettato" come una sorta di rito di passaggio all'età adulta. Pochi lo definivano come un sopruso o un abuso. A scuola, ma anche nella vita quotidiana, nei gruppi, nei quartieri, il bullo era, spesso, la figura dominante. Il bullismo: un metodo di affermarsi attraverso l'umiliazione di altri giovani. Più deboli o, comunque, meno capaci di reagire. Meno disposti ad agire nello stesso modo. Tuttavia, per quanto serio e grave, il fenomeno appariva "circoscritto". O almeno localizzato, non solo nello spazio, ma ancor più nel tempo. Passati alcuni anni, il contesto cambiava. Tanto più e soprattutto se si cambiava, appunto, contesto. Residenza, località. E soprattutto: scuola. Perché la scuola ne è sempre stato l'ambiente privilegiato.
 
Oggi non è più così. Perché, da un lato, la "giovinezza" si è allungata. Come gli anni di studio. E, soprattutto, perché le distanze territoriali non contano più come un tempo. Anzi: non contano più. Perché l'avvento della rete, dei social media le ha vanificate. E, anzi, ha delineato e costruito un nuovo "territorio" nel quale il bullismo, anzi, il cyber-bullismo, si è affermato. E diffuso. Senza più limiti.

L'osservatorio di Repubblica.it sul cyberbullismo
Secondo un'indagine Doxa Kids svolta su tutto il territorio italiano, il 35% dei ragazzi dagli 11 ai 19 anni è stato vittima di episodi di bullismo. E il fenomeno appare in aumento, soprattutto negli ultimi anni. Anche se bisogna tener conto che, ormai, ogni "atto violento" commesso da giovani ai danni di altri giovani, presso l'opinione pubblica, tende a venir catalogato come "bullismo". Senza ulteriore specificazione.
 
Le vittime coinvolte, comunque, sono principalmente femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel 40,6% dei casi). Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti coinvolti è di nazionalità straniera.
 
L'Istat traccia un profilo ancor più pesante del fenomeno. Secondo le sue indagini, infatti, nel 2014, oltre metà dei giovani (e giovanissimi) compresi fra 11 e 17 anni è stato oggetto di episodi violenti ad opera di altri ragazzi o ragazze. Due su dieci, inoltre si dichiarano bersaglio di "offese" ripetute. Più volte al mese. Circa il 6% è stato vittima di questi episodi per via digitale. Sui social network. In questo caso si tratta, soprattutto, di ragazze. Il bersaglio privilegiato (si fa per dire) di cyber-bullismo.

Se questa è la "realtà" del fenomeno, il sondaggio di Demos, condotto nelle scorse settimane in Italia, ne conferma la gravità e la diffusione, nella "percezione" sociale. Infatti, 7 persone su 10 considerano il bullismo "inaccettabile". Rispetto al 2007 (cioè, quasi 10 anni fa) si tratta di oltre 5 punti percentuali in più. Nello stesso tempo, fra gli italiani, è cresciuta la convinzione che il fenomeno sia diffuso nella maggioranza delle scuole. Lo pensa, infatti, quasi un quarto della popolazione. Ed è interessante osservare come questa idea non sia concentrata in una specifica coorte d'età. Risulta, invece, trasversale. Distribuita ed estesa in diversi settori sociali e generazionali. Certo, la preoccupazione appare molto elevata soprattutto fra i giovani da 15 a 24 anni. E fra gli studenti. In entrambi i casi, la convinzione che il bullismo sia diffuso in gran parte delle scuole è condivisa da circa il 30% degli intervistati. Giovanissimi e studenti, d'altronde, in larga parte coincidono. E sono, per questo, il bersaglio (ma, spesso, anche gli autori principali) del fenomeno.

LE TABELLE
 Tuttavia, la diffusione del bullismo viene denunciata dai "giovani-adulti", fra 25 e 34 anni, in misura perfino più ampia: 33%. Si tratta dei "fratelli maggiori", che, presumibilmente, hanno appena concluso la loro "carriera" di studenti. E, per questo, percepiscono l'esperienza del bullismo in misura più intensa e diretta. Perché l'hanno lasciata alle spalle. Ma la diffusione del bullismo è denunciata, in misura esplicita ed estesa anche presso le generazioni successive. Soprattutto fra le persone fra 55 e 64 anni. Mentre fra gli "anziani" (oltre 65 anni) la percezione del fenomeno risulta decisamente limitata (12%). Probabilmente perché è stata metabolizzata nel tempo. Oppure perché, come si è detto, viene ritenuta inevitabile. Quasi un passaggio obbligato oltre l'adolescenza.
 
Infine, l'influenza esercitata dalla rete e dai social network sulla crescita degli atti di bullismo appare "data per scontata" da una quota maggioritaria della popolazione. Ne sembrano convinte, soprattutto, le persone più anziane, con oltre 65 anni d'età e livello di istruzione meno elevato. Le componenti sociali, dunque, che hanno meno confidenza e meno pratica rispetto ai media digitali. Così si conferma l'idea che il bullismo "spaventi" soprattutto chi ne ha notizia solo - o soprattutto - attraverso la radio e la TV.
Il "bullismo mediale", insomma, rischia di suscitare più paura di quello "digitale".

© Riproduzione riservata
28 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/11/28/news/mappe_allarme_bullismo-152982524/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_28-11-2016
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« Risposta #493 inserito:: Dicembre 06, 2016, 04:31:02 pm »

Referendum, così Renzi ha perso i giovani e il Sud
Dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi

Di ILVO DIAMANTI
05 dicembre 2016

Il referendum costituzionale, alla fine, si è tradotto in un referendum su Renzi.  Ma il risultato ha travolto anche il Premier, insieme alla riforma costituzionale. Perché il significato "politico" del voto è indubbio. Sottolineato, non solo dalla misura raggiunta dai No, circa il 60%, ma, anzitutto, dall'ampiezza della partecipazione elettorale. Quasi il 70%. Molto più elevata rispetto ai precedenti referendum costituzionali. Impossibile per Renzi non rassegnare le dimissioni, insieme al governo.

D'altra parte, sia l'affluenza al voto, sia il risultato del Sì riflettono quasi fedelmente ciò che era avvenuto alle elezioni europee del 2014. Il momento di maggiore affermazione per Renzi e il suo PD. Il problema è che da allora molte cose sono cambiate nel Paese ma anche a livello internazionale. La crisi, in particolare, ha generato incertezza. E ha aperto divisioni nel Paese. Non per caso si è riaperta la distanza rispetto al Mezzogiorno, l'area dove il No ha raggiunto risultati fra i più elevati. Ma anche nel Nord l'affluenza e il distacco nei confronti del referendum appaiono ampi ed estesi. Perché l'economia non funziona più come un tempo. Mentre, sul piano generazionale, è significativa la sfiducia espressa dai giovani, con il voto. Segno che oggi credono poco nel futuro di questo Paese. E per questo se ne vanno altrove, appena possono. L'analisi del risultato referendario, condotta a partire dalle elaborazioni di Demos e dell'Osservatorio elettorale del LaPolis, dell'Università di Urbino, non permette di produrre scenari politici. Che, peraltro, sono incerti. Di certo c'è solo il fatto che, dopo le dimissioni di Renzi, è venuto meno uno dei pochi elementi unificanti della politica nazionale. Il Capo del PD(R). E il "nemico", che ha permesso alle altre forze politiche di aggregarsi, in assenza di altri progetti e obiettivi unitari. Ma da domani tutto tornerà instabile. Quanto alla "riduzione" del Bicameralismo paritario e dei poteri del Senato, tutto rinviato. A data da destinarsi.

LA MAPPA DI ILVO DIAMANTI CON LE TABELLE DEMOS-LAPOLIS DOMANI SU REPUBBLICA

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« Risposta #494 inserito:: Dicembre 14, 2016, 04:51:54 pm »

La solitudine dei giovani elettori: ecco perché hanno votato No al referendum costituzionale
Il 70% tra 25 e 34 anni secondo un sondaggio Demos-Coop, ha dato un segnale di rifiuto a Renzi. Dal governo non ha ottenuto la svolta che era stata promessa

Di ILVO DIAMANTI
12 dicembre 2016

IL POST-referendum procede rapido. Dopo le dimissioni di Matteo Renzi, il premier incaricato, Paolo Gentiloni, ha già iniziato le consultazioni. E presto presenterà il programma e la compagine del nuovo esecutivo. Tuttavia, conviene valutare bene il voto referendario, prima di riprendere a governare. E a fare opposizione. Insomma, a "far politica". Perché il risultato ha, sicuramente, "punito" Renzi, che, per primo, aveva "personalizzato" questo voto. Ma è difficile individuare il vincitore. Meglio "un" vincitore. Visto che i partiti del No sono diversi. Anzi, diversissimi… per storia, progetto, identità.

Per questo, è impossibile, sulla base di questo voto, individuare una nuova e diversa maggioranza "elettorale". Conviene, invece, ragionare ancora – e di più - sul significato di questo voto. Da dove origina, che destinazione e che bersagli abbia. Oltre a Renzi. L'analisi del risultato ha già offerto alcune indicazioni chiare ed evidenti. Riguardo al "retroterra" – letteralmente – del No.

Le radici territoriali del rifiuto, infatti, affondano anzitutto e soprattutto nel Mezzogiorno. Nel Sud il No ha, infatti, superato il 70%, nelle Isole. E vi si è avvicinato altrove. In Campania e in Calabria, in particolare. Più del sentimento contrario al Pd e anti-renziano, in alcuni casi (come in Campania) difficile da sostenere, hanno pesato altre ragioni di ri-sentimento. Collegate al malessere sociale che pervade quelle aree. Sul piano economico e occupazionale. Si tratta di un'indicazione utile a valutare un'altra "frattura", che ha caratterizzato il voto referendario in modo evidente. Quella generazionale. Com'è già stato osservato, il No è stato espresso, in misura largamente superiore alla media, soprattutto dai giovani.

L'indagine dell'Osservatorio di Demos-Coop, condotta giusto alla vigilia della consultazione, lo conferma. Ma fornisce alcune ulteriori precisazioni. Importanti. In particolare, sottolinea come il dissenso verso la riforma e verso il Pd di Renzi sia meno ampio presso i giovanissimi, che hanno fra 18 e 24 anni. Mentre ha raggiunto il livello più elevato (7 su 10 No) tra i "fratelli maggiori", fra 25 e 34 anni. I "giovani adulti", come vengono spesso definiti. Per sottolineare la "difficoltà" di affrancarsi dai vincoli della giovinezza. In particolare, dalla dipendenza dalla famiglia. Sotto il profilo economico, ma anche "domestico".

Due su tre, fra loro, vivono (meglio: risiedono) ancora con i genitori. Il doppio rispetto ai coetanei francesi e tedeschi. Ricordo ancora quando, dieci anni fa, a Parigi, chiesi ai miei studenti i motivi della protesta giovanile – allora dilagante - contro la riforma sul Contrat première embauche (primo impiego), che agevolava alle aziende la possibilità di licenziare i giovani senza giustificazione, nei primi due anni. Gli studenti mi risposero, senza imbarazzo: «Non siamo italiani come lei. Quando andiamo a lavorare, poi non rientriamo. A casa e in famiglia. Andiamo a vivere – e ci manteniamo - da soli».

In realtà, anche in Italia i giovani vorrebbero diventare autonomi. Dalla famiglia. Come i coetanei di altri Paesi europei. Ma non se lo possono permettere. Perché la legislazione in materia non li aiuta. Mentre i tassi di disoccupazione giovanile non hanno pari, in Europa. Così, quando finiscono gli studi, spesso defluiscono nel mondo dei Neet. Quelli che non studiano e non lavorano. Non perché non vogliano, ma perché non trovano occupazione. Si muovono, invece, nella selva oscura dei lavori intermittenti e precari. Dove riescono a sopravvivere grazie all'appiglio familiare. Al quale ricorrono in caso di emergenza.

Cioè, spesso. Così si spiega la ragione per cui fra i giovani-adulti si osservino i picchi di incertezza nel futuro (62%), ma anche la convinzione generalizzata della necessità di "emigrare" all'estero, per fare carriera (73%). Mentre la maggioranza di essi (63%) è consapevole che difficilmente riuscirà a raggiungere – non dico a superare - la posizione sociale dei genitori. D'altronde, solo il 21% di loro pensa che esistano opportunità e possibilità adeguate.

Così, nonostante l'età, circa il 40% dei "giovani adulti" ammette di sentirsi spesso "solo". Molto più, rispetto ai genitori e ai nonni. Ma anche rispetto ai fratelli minori, che hanno meno di 25 anni. Sono "le pene del giovane adulto". Che, perlopiù, ha concluso gli studi, oppure li prosegue, per non sentirsi "disoccupato". Magari intermittente o precario. Come, inevitabilmente, avverrà. I giovani nati negli anni Ottanta. Sono divenuti "invisibili". Mimetici. In continua fuga. Alla ricerca di un lavoro. Un futuro.

Così, non è difficile comprendere le ragioni del No al giovane Renzi. Proprio perché "giovane". Perché aveva "promesso" di rottamare i vecchi e di dare più spazio ai più giovani. Ma i "giovani adulti" vivono sospesi. Non più giovani e non ancora adulti. Confusi. Perché nella nostra società, tutti, o quasi, si dicono giovani. E all'improvviso diventano vecchi. Senza mai conquistare l'età adulta. La maturità. Così "giovani adulti" si sentono vicini al M5s. E hanno votato No perché non hanno speranza. Non vedono il futuro. Ma senza speranza e senza futuro anche la famiglia diventa una prigione. Anche l'Italia. E a loro non resta che la speranza di "fuggire" dal Paese. E dalla solitudine che incombe. Tanto più quando vivono in mezzo ad altri giovani. In-sofferenti come loro. Ma senza dare loro risposta neppure l'Italia può avere un futuro. È destinata a restare un Paese "giovane adulto".

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12 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/12/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_5455560-153921732/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_12-12-2016
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