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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 277893 volte)
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« Risposta #345 inserito:: Luglio 07, 2013, 11:29:57 am »

L'invasione dei fumatori elettrici

E' la moda dell'anno, ma anche un business. Un modo anche per ridurre la "dipendenza".

Ma da ex fumatore dico: "meglio l'astinenza, dà più piacere"

di ILVO DIAMANTI

È la moda dell’anno. Ma anche un business, con effetti visibili dovunque. La sigaretta elettronica. Ha contagiato il popolo dei fumatori. Più di uno su due l’ha sperimentata, secondo un sondaggio dell’ISPO.  D’altronde, basta guardarsi intorno per accorgersi dell’invasione dei “fumatori elettrici”. Li incontri dappertutto. Anche dove non osavano fumare, da tanti anni. Nei treni, nei locali pubblici. Perfino nelle nostre case. Ora hanno ripreso, timidamente. E-fumano, Incerti, in attesa delle reazioni degli altri.

Dovunque, peraltro, sono sorte botteghe di e-cigarette. Nei punti nevralgici di città – grandi, medie e piccole. Ampie vetrine, dove campeggiano e-cigarette di metallo e vetro colorato. Accanto ad essenze di diverso aroma, con differenti gradi di nicotina. Sempre bassi. Talora nulli. È questo, sicuramente, il principale motivo del successo delle sigarette elettroniche. Permettono di fumare senza avvelenarsi di nicotina. O, comunque, assumendone quantità modiche e limitate. Un’alternativa alla rinuncia totale, sempre difficile, per i fumatori.

Perché smettere è difficile. Costa molto. Sul piano psicologico e delle abitudini di vita.  Anche fumare, però, costa molto. Non solo in termini di reddito. Anche di salute. Comunque, inquina la vita, l’ambiente di vita, oltre ai polmoni, propri e altrui. E poi, le dita gialle, l’alito pesante, l’odore di fumo dovunque. In casa, in auto, nei luoghi di vita. I fumatori: ormai sono “socialmente emarginati”. E fisicamente stressati. D’altronde, la mattina, ci si alza incatarrati, la testa un po’ dolente. Eppure, non passa molto tempo prima di accendere la prima sigaretta. Dopo la prima colazione. Anzi, durante. Insieme al caffè.

Parlo per esperienza, come si può cogliere, probabilmente, dalle mie parole. Perché io ho fumato molto e a lungo. Fino a 60 sigarette al giorno. Forti e secche. Tre pacchetti – scritta nera su fondo bianco e rosso. Ho smesso il 4 aprile del 1984. Dopo averci pensato a lungo. L’ho deciso tre settimane prima. Il tempo di smaltire le stecche che avevo da parte. E di prepararmi “dentro”. Poi ho finito con il fumo. Non sopportavo più la mia dipendenza, che mi faceva fumare fumare fumare fumare. E ancora fumare. Anche se, ormai, non mi piaceva più. Non sentivo più il sapore né il gusto della sigaretta. Ma fumavo lo stesso, anche quando non stavo bene, gravato da raffreddori, bronchiti, catarro. Non mi sopportavo più. Così ho smesso. Quasi trent’anni fa: l’ultima sigaretta. Per alcuni giorni non ho dormito. Lo stomaco mi bruciava. Gridava. Alla ricerca di fumo. Per mesi ho faticato a scrivere e perfino a leggere. All’inizio non ne capivo la ragione.  Anche se era evidente: bastava fare attenzione ai tempi. Non riuscivo a tenere la concentrazione per più di un quarto d’ora. Il tempo fra una sigaretta e l’altra.

Appunto. Così ho smesso. E ho riscoperto i gusti e gli odori. Anche l’appetito. Il piacere del cibo. Venti chili in più, in un paio d’anni. Li ho persi dopo il 2003. Negli ultimi dieci anni. Anche in quel caso: ho deciso di smettere. Di mangiare e di bere. Cibi e bevande “sfiziose”. Io sono fatto così: quando decido, cambio vita e abitudini. Spezzo il filo con il passato e il presente. Per sfiducia in me stesso. Perché non riuscirei a “ridurre le dosi”. A moderarmi. A consumare in “modica quantità”.  Meglio smettere del tutto.

Perché la voglia di fumare mi è rimasta. Insieme al piacere della sigaretta dopo cena, magari fuori casa, in strada, magari a tarda sera, a parlare con me stesso. Io sono un fumatore che non fuma. Ma non mi è passato nemmeno per la testa di provare la sigaretta elettronica. Di riprendere l’antica abitudine abolendo il rischio e il danno del fumo. Senza nicotina. È che mi pare - e mi riesce - difficile scindere il piacere dal vizio e dal peccato. Perché il fumo è un male sottile. Che si consuma e ti consuma, una sigaretta dopo l’altra. Ogni volta si rinnova e ogni volta brucia. Ti brucia.

La sigaretta elettronica: è come la birra o, peggio, il whisky senz’alcool. È come i dolci per diabetici: senza zuccheri. Come il decaffeinato. In fondo, i divieti dei locali pubblici, che costringono a fumare fuori, in strada, hanno trasformato i “fumatori” in una comunità deviante. Una setta irriducibile alle regole della Salute Pubblica. E Privata. Così, la e-cigarette è come una trasgressione senza peccato. Un vizio senza rischi. Che fa bene alla salute (ma non è detto). Ma modifica la nostra identità.  La nostra immagine. Di fronte agli altri e a noi stessi. Humphrey Bogart, in Casablanca, con la cicca elettronica appoggiata sulle labbra. Ve lo immaginate?

Per questo, non capisco le sigarette elettroniche e chi le fuma. Meglio l’astinenza. Dà più piacere.

(03 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/03/news/l_invasione_dei_fumatori_elettrici-62293027/
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« Risposta #346 inserito:: Luglio 10, 2013, 11:57:47 am »


Abolite le Province ma non la mia

di ILVO DIAMANTI

È singolare, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent'anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente.
Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di "abolirle". Rimpiazzarle con altri enti intermedi.
Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell'appartenenza territoriale per le persone.

Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su Limes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.

Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale.
Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare.
Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.

Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo.
Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.

Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali.
Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro.
Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.

Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.

Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

(08 luglio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/08/news/abolite_le_province_ma_non_la_mia-62586581/
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« Risposta #347 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:57:13 am »

Figli di uno stato minore. A sua insaputa

di ILVO DIAMANTI


Ho una casa molto grande. Un villino, situato sui colli romani. D’altronde, per me, è un luogo di lavoro, non solo una residenza. Faccio il manager, mi occupo di servizi di ogni genere. E sottolineo: di ogni genere. Ho molti clienti importanti. Politici e finanzieri. Qualche imprenditore. Organizzo per loro incontri, confronti, seminari. Per negoziati, intese e contese di ogni genere. In condizioni di assoluta discrezione. Ci mancherebbe. Si rivolgono a me proprio perché hanno bisogno di confidenza e discrezione. Con alcuni “clienti”, poi, non mi posso permettere in-discrezioni. La discrezione è il mio mestiere.

Ogni tanto mi capita di finire in mezzo a polemiche. Contro la mia volontà e a mia insaputa. Come quando, qualche anno fa, i media hanno rivelato che il mutuo della mia residenza, in effetti, è pagato da un altro. Uno dei miei clienti. A cui ho permesso di entrare in una rete di relazioni preziose, per la sua professione. Ma, in effetti, la rivelazione ha sorpreso anche me. Francamente, non lo sapevo. Credetemi: l’operazione è stata fatta a mia insaputa. Dai miei consulenti e collaboratori, come compenso dei molti servizi che offro ai miei clienti. In fondo, la mia casa è anche la sua casa, visto che ci trascorre molto tempo, ogni settimana, insieme ai suoi sodali e collaboratori. Ci ha guadagnato molto frequentando me. E i miei amici.
D’altronde, io sono “discreto” e garantisco “discrezione”.

Ma non posso sapere tutto quel che succede a casa mia. In questa residenza grande come un ministero. Anzi, di più. Ci sono decine di uffici, sale, ma anche appartamenti e camere. Perché quelli che partecipano a riunioni e seminari, a volte, si fermano per più giorni. E invitano ospiti a loro cari. Amici e amiche. Famiglie e familiari. Così è più facile coltivare relazioni. Sei come a casa tua. Non hai l’urgenza del ritorno, della partenza. Gli ospiti, o ancora, i clienti: si mettono d’accordo con i miei collaboratori ed è sufficiente. Tanto basta. Così, quando mi muovo nella mia villa, lungo i corridoi, da un piano all’altro, per un appuntamento, un incontro o solo per sgranchirmi le gambe, e scendo fin giù in giardino, incrocio molte persone che non conosco. Che mi pare di non aver mai visto. D’altronde, perché dovrei conoscerle - oppure almeno riconoscerle – tutte? Sono lì a mia insaputa, anche se non contro la mia volontà. Anzi: per mia volontà. Così saluto tutti con un cenno del capo – anche quelli che mi risultano ignoti - e proseguo.

Per questo non capisco il baccano intorno a una vicenda avvenuta nelle scorse settimane, proprio qui. A casa mia. Ho scoperto anch’io dai giornali di una famiglia - una madre e due figli piccoli – prelevata, notte tempo, da una squadra di vigilanti e di agenti di polizia. Da casa mia. E poi sparita nel nulla. O meglio, ricomparsa nel Paese di provenienza. Un piccolo stato africano dal nome impronunciabile. Pare si tratti di “una” moglie del sovrano (e presidente). Una - delle tante. Fuggita con la complicità di un consigliere del sovrano. A sua volta fuggito – il consigliere - perché in disaccordo con il sovrano-presidente (o viceversa). Ma, da quel che ho capito, la ragione vera è la relazione “affettuosa” fra la moglie e il grande consigliere – del sovrano.

Così il presidente-sovrano, di questo piccolo stato africano, si è messo d’accordo con uno dei miei amici e clienti. Il più importante. Il mio “protettore” politico. E la moglie del presidente-sovrano è stata rispedita, insieme i figli, a casa. Del sovrano-presidente. Ma tutto ciò è avvenuto “a mia insaputa”. Mica mi dicono tutto quel che succede qui, in questa villa. Dove vanno e vengono in tanti. Io, d’altronde, non ho tempo né voglia di occuparmi di tutti gli affari di questo posto. Della mia villa. Dove vivo insieme a tanti altri.

Il “ratto” della donna e dei bimbi africani, a casa mia, comunque, è avvenuto senza il mio consenso e senza il mio dissenso. “A mia insaputa”. Né io mi sono preoccupato troppo di contestare e di recriminare, su quel che non so e non voglio sapere. Gli unici “fatti” che mi interessano sono i “fatti miei”. Perché io sono un italiano “vero”. Parte e partigiano di questo popolo di schettini, scilipoti e angelini. Dove si coltivano l’amorale pubblica e privata. E il senso cinico. Io, cittadino senza cittadinanza di uno Stato “a sua insaputa”. Dunque, figlio di uno “stato” minore. Minuscolo.
Non un Soggetto e neppure un complemento oggetto. Al massimo, un participio passato.

(19 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/07/19/news/figli_di_uno_stato_minore_a_sua_insaputa-63276951/?ref=HREA-1
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« Risposta #348 inserito:: Luglio 22, 2013, 08:39:35 am »


Tira una brutta aria sulla nostra democrazia

di ILVO DIAMANTI


Tanto rumore per nulla. I diplomatici kazaki  vanno e vengono dai nostri ministeri. E, complici i nostri servizi e le nostre forze dell'ordine, prelevano la moglie e la figlia di un dissidente. Le deportano nel loro Paese. E se ne vanno.

Senza che nulla accada, sul piano politico interno. In fondo nessuno sapeva. E tutto, comunque, è avvenuto all'insaputa del governo. In fondo era già capitato anni fa che i servizi americani, a Milano, prelevassero l'imam Abu Omar, sospettato di terrorismo. Per trasferirlo in Egitto e interrogarlo con metodi convincenti. Poi, i responsabili sono stati condannati. Ma erano già lontani. E quando un agente della Cia, condannato in Italia per quei fatti, è stato fermato a Panama, nei giorni scorsi, è stato immediatamente fatto rientrare negli Usa. Prima ancora che l'Italia perfezionasse la richiesta di estradizione.

Ora, come allora, nessun responsabile  -  istituzionale e politico  -  ha pagato. Si è dimesso. D'altronde, l'operato del governo, nel "caso kazako", non si presta a critiche. Non l'ha detto solamente il capo del governo, com'è ovvio. Ma anche il presidente della Repubblica. Tutto normale, insomma. A conferma di quella "normalità deviata" che, come ha osservato Stefano Rodotà nei giorni scorsi, su "Repubblica", regola il nostro sistema politico. D'altra parte, ormai, quasi più nessuno reagisce, salvo una ristretta élite di indignati, tanto definita da non sollevare più sorpresa. Mentre nella società  -  più o meno civile  -  non si colgono segnali di rivoluzione. Grillo e Casaleggio, d'altronde, hanno preconizzato rivolte popolari, nei prossimi mesi. Ma non per una reazione morale. Semmai, per l'impatto della crisi economica. Si tratta di ragioni analoghe a quelle addotte da Enrico Letta per spiegare le sue (non) scelte, compreso il sostegno ad Alfano. L'assenza di alternative a questo governo e a questa maggioranza. La necessità di rispondere agli accordi internazionali, agli imperativi dei mercati. Insomma, all'emergenza esterna.

Così, la "normalità deviata" che ha contaminato le nostre istituzioni e la nostra classe politica tende a degenerare. Diventa "normalità" etica e civile. Stato d'animo generale e generalizzato. Opinione Pubblica, sancita dai sondaggi che ancora vengono condotti, nel torrido clima estivo. (D'altronde, quest'anno la crisi ha ridotto notevolmente la quota di popolazione che va in ferie.) Secondo Ipsos, infatti, la maggioranza degli elettori (oltre il 50%) esprime ancora fiducia nei confronti del governo. Mentre più del 60% approva l'operato di Enrico Letta.

Certo, gran parte dei cittadini  -  secondo il sondaggio  -  avrebbe voluto le dimissioni di Alfano e, ancor più, di Calderoli. Autore "irresponsabile" di insulti razzisti contro la ministra Kyenge. Ma non la crisi di governo. Perché, nonostante tutto: meglio la stabilità. Considerata un "valore in sé". Che va oltre i comportamenti "deviati" dei leader politici e istituzionali. D'altronde, vent'anni di berlusconismo hanno mitridatizzato l'etica pubblica dei cittadini. Ormai poco sensibili  -  e quasi indifferenti  -  a scandali e processi. Compresi quelli ancora pendenti e imminenti.

È questo il rischio maggiore che vedo, nell'Italia dei nostri tempi. L'assuefazione all'anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale  -  e quasi unica  -  soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d'opinione che si traduce nel "non voto". Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L'assuefazione all'anormalità politica e istituzionale, d'altronde, alimenta il disincanto se non l'indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l'abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze "non politiche". Cioè, da larghe intese imposte  -  e, comunque, giustificate  -  dall'emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra. D'altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi. Il problema è che l'assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi "tautologici": in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative  -  a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c'è stata alternanza. Stesse forze al governo  -  Dc e alleati  -  e all'opposizione  -  Pci e sinistra.

Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta "localizzate", su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa). È una democrazia "eccezionale", dove l'eccezione è la regola. Dove, per l'Opinione Pubblica, l'anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un'onda anomala del voto o del "non voto". Mentre gli "anticorpi della democrazia", come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel "senso comune". Assai più diffuso e influente, in Italia, del "senso civico".

Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.

(22 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/22/news/tira_una_brutta_aria_sulla_nostra_democrazia-63441905/?ref=HREA-1
   
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« Risposta #349 inserito:: Agosto 06, 2013, 11:46:59 am »


La paura di andare a votare

di ILVO DIAMANTI

SONO tempi convulsi. Non lasciano tempo per progettare, né il tempo per immaginare. Quel che accadrà nei prossimi mesi. Domani. Che succederà domani? Il governo guidato da Enrico Letta pare appeso a un filo. La condanna in via definitiva di Silvio Berlusconi per frode fiscale, in Cassazione, sembra aver compromesso l’equilibrio instabile su cui si reggeva la strana e larga maggioranza di governo.

Il Pdl, in particolare, ha lanciato polemiche roventi per ottenere giustizia politica contro la magistratura nemica. Perché Berlusconi venga “graziato” dal presidente. Perfino Sandro Bondi, persona normalmente mite, ha agitato il fantasma della “guerra civile”. Mentre altri colleghi di partito hanno usato, al proposito, un linguaggio molto più esplicito e diretto. Intanto, ieri sera, davanti a Palazzo Grazioli, un Popolo è sceso in piazza per la Libertà. Di Silvio Berlusconi. Il quale, rispondendo all’appello dei fedeli, ha rivendicato la propria innocenza. E ha ribadito la volontà di “non mollare”. Di non piegarsi al potere illiberale dei giudici di sinistra. Dei giudici e della sinistra. Berlusconi, nella campagna elettorale permanente, di questi tempi convulsi, ha identificato il Nemico. I magistrati, che non sono un’istituzione, ma impiegati dello Stato. Che pretendono di rovesciare i poteri democraticamente eletti dal popolo.

Eppure, nonostante i toni violenti, contro le istituzioni dello Stato, Berlusconi, ieri, ha ribadito il sostegno del suo partito al governo. D’altronde, sa bene che il presidente Napolitano (peraltro, criticato esplicitamente da Berlusconi) non permetterebbe la conclusione dell’esecutivo guidato da Letta e, soprattutto, la fine della legislatura anticipata. (Lo ha chiarito bene Eugenio Scalfari nell’editoriale di ieri.) Almeno, prima che venga approvata una nuova legge elettorale. Ma a Berlusconi e il Pdl non conviene aprire la crisi di governo perché “fuori dalla maggioranza”, per loro, sarebbe molto peggio. Rischierebbero di finire isolati. Di “subire” leggi (elettorali e non solo) sgradite e svantaggiose.

E poi, perché mai il Pdl dovrebbe volere nuove elezioni proprio oggi, che non potrebbe candidare Berlusconi? E, senza Berlusconi, il Pdl semplicemente “non è”. Non esiste. Lo si è visto l’anno scorso, quando sembrava che il Cavaliere non si candidasse alla guida del partito e della coalizione. Allora, nei sondaggi, il Pdl era sceso intorno al 15%. Il ritorno in campo del Cavaliere ne ha determinato la rapida risalita. Per quanto relativa e limitata, visto che, a febbraio, il Pdl si è fermato al di sotto del 22%: circa 15 punti e oltre 6 milioni in meno, rispetto a cinque anni prima. Come potrebbe presentarsi al voto senza il suo Signore e Padrone? In condizioni più precarie del passato?

Certo, Berlusconi potrebbe giocare la carta del perseguitato in patria. (Come ha già fatto ieri.) Trasformare il voto in un referendum per la (propria) libertà. Ma rischierebbe di essere poco convincente. Difficile, per lui, proporsi come una nuova versione di Silvio Pellico. Paragonare Villa Grazioli o Arcore alla Fortezza dello Spielberg: sarebbe troppo, anche per un mago della propaganda, come lui. Ma, soprattutto, andrebbe contro il clima d’opinione. Infatti, come ha rilevato Nando Pagnoncelli in un commento scritto per l’Agenzia InPiù, «l’80% degli italiani ritiene che il Pdl dovrebbe continuare a sostenere il governo Letta».

Un’opinione condivisa da sette elettori su dieci nel Pdl. I quali, dunque, lo considerano senza alternative. Necessario, per non affondare in una crisi economica e sociale ancor più drammatica. Come potrebbero, Berlusconi e i leader del Pdl, spiegare agli elettori, anche ai propri, che gli interessi del Cavaliere vengono prima di quelli degli italiani? Che la “libertà” di Berlusconi e le questioni della giustizia siano prioritarie rispetto alle riforme dell’economia, del fisco, del lavoro? Di fronte alla necessità di rappresentare il Paese in ambito europeo e internazionale?

Per questo è difficile pensare che il Pdl e, per primo, Berlusconi vogliano davvero porre fine all’esperienza di governo per aprire una nuova stagione elettorale. Che potrebbe indebolirne ulteriormente non solo il peso elettorale, ma anche quello politico. oltre alla credibilità. È più probabile, piuttosto, che il Cavaliere, con i suoi interventi e le manifestazioni del suo Popolo, intenda modificare l’opinione pubblica. Trasformare una vicenda giudiziaria in una questione politica. Fra Berlusconi e i magistrati. Eterni duellanti. È probabile, inoltre, che le azioni del Pdl siano finalizzate a ottenere qualche via d’uscita, qualche  salvacondotto, per il leader. Ma è, comunque, certo che le mobilitazioni di questi giorni servano, comunque, a favorire il ritorno al nuovo (?) soggetto politico. Forza Italia 20 (anni dopo). E, forse, a preparare una successione alla leadership per via dinastica. Di padre in figlia. Come avviene nei partiti carismatici e personali.

L’impressione, peraltro, è che anche il Pd, il principale “avversario” politico del Pdl, viva questa vicenda con qualche disagio. E disorientamento. “Costretto” a un’alleanza sempre più contro natura. Perché, in primo luogo, i suoi elettori (oltre l’80%), più ancora di quelli di Berlusconi e di FI, ritengono il governo Letta “necessario”, in questa fase e nel prossimo futuro. Poi, perché attraversa anch’esso una transizione complicata. Le primarie: annunciate per fine novembre. I dubbi e le tensioni in merito alla segreteria del partito e alla premiership. Tra Renzi, Letta – e altri. Infine, anche il Pd appare in difficoltà nel concepire il proprio futuro “senza Berlusconi”. Perché il Cavaliere è il chiodo a cui sono appesi tutti i principali attori della Seconda Repubblica. Nel bene e nel male. Pro o contro. Ha condizionato le scelte e i comportamenti, ma anche i modelli organizzativi dei soggetti politici degli ultimi vent’anni. Ora che questo chiodo si è quasi staccato e, comunque, scricchiola, tutti – amici e nemici di Berlusconi – faticano ad attaccarsi altrove. Oppure a costruire e a offrire un appiglio diverso.

Per questo nessuno mette in discussione il governo Letta, nella maggioranza. Per questo, però, il governo appare sempre più fragile. In quanto è difficile che si possa reggere su partiti deboli, incoerenti, uniti per necessità e per paura.

Anche se l’idea di nuove elezioni, a breve termine, è difficile da accettare. Perché affrontare una campagna elettorale impostata da e su Berlusconi, ma senza Berlusconi: è un altro salto nel voto…

(05 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/05/news/la_paura_di_andare_a_votare-64294433/?ref=HREA-1
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« Risposta #350 inserito:: Agosto 19, 2013, 07:40:47 pm »


Prigionieri del presente. C'era una volta il futuro

di ILVO DIAMANTI


C'era una volta il futuro. Oggi è scomparso. Una parola inutile, comunque inutilizzata. Il futuro. Illuminava l'orizzonte sociale e personale.

Ispirava l'azione e, anzitutto, i messaggi della politica. I leader e i partiti erano tutti impegnati a scrivere programmi, progetti.
A fare promesse. Perché anche le promesse riguardano il futuro.

La politica della Prima Repubblica: era orientata da ideologie. Grandi narrazioni della storia, proiettate nel futuro. Che sarebbe stato migliore del passato e del presente. La politica della Seconda Repubblica ha, invece, affidato la produzione di immagini del domani agli esperti di marketing. Ha ricondotto le identità e i progetti alla personalità del leader. Così il tempo ha perduto significato. Come i progetti.

La figura di Berlusconi, modello e artefice di quest'epoca, ha riassunto in sé ogni promessa. Facendola apparire attuale e attuabile, se non oggi, almeno domani. La sua biografia "personale", in un tempo pervaso dal mito del mercato e della competizione individuale, ha comunicato alla società che tutti "ce la potevano fare". Tutti potevano diventare come lui. Egli stesso "prometteva" sviluppo e benessere al Paese. Perché il Paese, in fondo, è come un'azienda. E lui, il Grande Imprenditore, era l'unico in grado di farla funzionare. Così, del futuro, in politica, si è perduta ogni traccia. E noi ci siamo trovati incapsulati nel presente infinito.

Oggi, nessuno pare in grado di guardare lontano. Le utopie, gli ideali: non funzionano più neppure come slogan. Le promesse: si riducono all'abolizione dell'Imu sulla prima casa. Entro agosto, ovviamente, per non fare passare troppo tempo. Perché un mese è già un orizzonte troppo lontano, per la politica dei nostri tempi. D'altronde, l'ispiratore della Seconda Repubblica, Berlusconi, fatica ad alzare gli occhi oltre l'immediato. È lì, a casa, in attesa del prossimo 9 settembre, quando la Giunta per le elezioni si esprimerà sulla sua decadenza dallo status di senatore. Con il voto del Pd. In quel caso, ha avvertito  -  e minacciato  -  il ministro Gaetano Quagliariello, la vita del governo sarebbe a rischio. Il presidente, Giorgio Napolitano, tuttavia, ha ribadito, anche di recente, che, senza una legge elettorale diversa, in grado di garantire governabilità, dopo il voto, non scioglierà le Camere. Dunque, il "futuro" tracciato dal Pdl è lungo (si fa per dire) un mese. Poi si vedrà. Anche perché il Pdl, in realtà, non esiste più. È una sigla vuota. Rinnegata, più che negata, per primo, da Berlusconi stesso. Il quale, per guardare avanti, ha fatto un salto all'indietro. Di quasi vent'anni. Ha, infatti, deciso di rilanciare Forza Italia. La sigla del suo partito personale, insieme al quale è "sceso in campo". Nel 1994. Silvio Berlusconi, d'altra parte, è costretto a scandire il tempo e il calendario in una successione di scadenze, a breve distanza, l'una dall'altra. Per motivi politici e giudiziari. Possibili  -  e improbabili  -  elezioni. E nuovi gradi di giudizio, che lo attendono. Così, ieri, in un messaggio ai suoi sostenitori, non ha indicato un percorso. Si è limitato a dire: "Io resisto".

Il Pdl oppure Forza Italia e tutte le sigle che fanno riferimento all'universo politico di Berlusconi appaiono, quindi, sospese. Incapaci di dettare non una prospettiva, ma un'agenda per i prossimi mesi. Perché non hanno un nome certo. Perché la precarietà del loro leader  -  unico e insostituibile  -  si riproduce su di loro, moltiplicata.

L'altro soggetto politico che davvero conti, oggi, è il Partito Democratico. L'unico vero "partito", lo ha definito ieri Eugenio Scalfari. Di certo non il partito unico. Né unitario. Ma, semmai, incerto. Sulla leadership possibile. Da cui dipende la sua strategia, se non il suo futuro.

Il Pd è atteso da una stagione tesa e instabile. Il congresso, in settembre. Le primarie per il segretario di partito, a fine novembre. Probabilmente. Anche se molto dipende dal destino del governo. Che nessuno, nella maggioranza, ha voglia o, comunque, è in grado di far cadere. Ma neppure di sostenere in modo convinto. Così, il governo procede "per necessità". Ed è come se corresse sul filo. Sempre in bilico. Non può dare l'idea di avere un futuro. Né, per questo, può proporre un'idea di futuro. Gli altri partner di maggioranza, d'altra parte, il futuro l'hanno consumato in fretta. Scelta Civica, la formazione politica di Mario Monti, ormai, è poco rilevante, nell'opinione pubblica. Riavvicinata, nei sondaggi, dall'Udc. A causa del calo di Scelta Civica, assai più che per la ripresa dell'Udc. Così, dimostra un futuro corto non solo la prospettiva di un soggetto politico di Centro, capace di ancorare il sistema politico italiano. Ma anche l'idea di una Destra diversa, guidata da un Centro sicuramente affidabile. E, tuttavia, troppo piccolo per essere preso sul serio.

Peraltro, neppure le forze politiche di opposizione sembrano avere un futuro sul quale investire. Non la Lega, divisa all'interno. Impegnata, per sopravvivere, per avere ascolto, a ingaggiare battaglie di respiro corto e senza dignità. Come quella intrapresa contro la ministra Kyenge.

Neppure il M5S sembra interessato a progettare il futuro. Perché il suo successo è strettamente legato all'insuccesso degli altri. Di soggetti politici senza futuro. E, comunque, il modello di azione e di comunicazione interpretato da Beppe Grillo enfatizza il presente. L'immediato. È la politica come happening permanente. Sostenuta dalla Rete e attraverso la Rete. Un ambiente dove è possibile a tutti inter-agire, in modo diretto. E immediato.

Non a caso Enrico Letta, aprendo il meeting di Cl, a Rimini, ha "promesso" che a ottobre la legge elettorale sarà riformata. Si andrà oltre il "Porcellum". A ottobre. Perché è difficile guardare più in là di ottobre. D'altronde, anche con una nuova legge, al di là degli annunci, pochi sembrano disposti ad affrontare nuove elezioni. In Parlamento, ma anche fra i cittadini. Lo stesso Letta, non a caso, gode di un consenso personale elevato e gran parte degli elettori si dice contraria all'ipotesi che il suo governo cada. Non per "fiducia", ma per "timore". Di quel che potrebbe capitare poi. In fondo, anche noi ci siamo adattati. Alla scomparsa del domani. Così invecchiamo senza rendercene conto, perché, insieme al tempo, abbiamo abolito i giovani e la gioventù, dal nostro orizzonte. Stiamo diventando professionisti dell'incertezza. Navigatori dell'eterno presente. Ma proseguire in questa direzione ancora a lungo pare impossibile. Se il futuro è scomparso, restituiteci almeno il passato.


(19 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #351 inserito:: Agosto 27, 2013, 11:39:35 pm »


Il Cavaliere è entrato in campagna elettorale

di ILVO DIAMANTI


MAPPE - Siamo in piena campagna elettorale. Anche se non è chiaro se e quando si voterà. Ma non importa. Tutte le scelte e i comportamenti di Silvio Berlusconi, dopo la condanna in Cassazione per evasione fiscale, assumono un chiaro significato, in questa prospettiva. Mirano, cioè, a creare un clima d'opinione favorevole: a Berlusconi e al centrodestra.
In vista di una competizione elettorale che, se non imminente, appare, tuttavia, non lontana. Ed è, comunque, un'eventualità non prevedibile.

Perché nessuno, ormai, è in grado di controllare il corso della politica in Italia. Per questo a Berlusconi interessa imporre al centro dell'attenzione dei cittadini alcuni aspetti, alcune questioni che lo riguardano direttamente.

a). Anzitutto, il tema della giustizia. O meglio, dell'in-giustizia nei suoi riguardi. È il suo chiodo fisso. Da quando è sceso in campo e ha iniziato la sua contesa contro i magistrati. Anche se Berlusconi non è mai riuscito, fino ad oggi, a farne una priorità, intorno a cui aggregare una maggioranza ampia e solida. In Parlamento. Ma, soprattutto, nell'opinione pubblica. Un problema, per il Cavaliere, tanto più in questa fase. Perché oggi, per larghi settori sociali, le priorità sono, invece, legate alla recessione economica, alla disoccupazione, al reddito, al costo della vita. Una crisi di governo aperta per i problemi giudiziari "personali" di Berlusconi, in questa situazione, rischierebbe di apparire inaccettabile, oltre che incomprensibile, per i cittadini. Per questo il Pdl ha trasformato l'agenda di governo in una corsa ad ostacoli. Disseminata di trappole. L'Imu, per prima. Poi il decreto sui precari della Pubblica amministrazione. Ma i motivi di tensione, nella maggioranza, sembrano destinati ad aumentare. Di numero e di intensità. E rischiano di rendere inevitabile la crisi di governo.
Per auto-dissoluzione. Evitando responsabilità specifiche e dirette di un partito. In particolare, del Pdl.

b). Berlusconi, inoltre, cerca di imporre il proprio caso personale come caso esemplare  -  e se stesso come testimone  -  di un'emergenza democratica. Il leader del secondo schieramento politico costretto all'esilio  -  a casa propria. Non è un'impresa facile, considerato il grado di "agibilità" politica reale di cui dispone l'imprenditore mediatico più importante d'Europa. Tuttavia, le polemiche di questi giorni appaiono, comunque, coerenti con un obiettivo fondamentale della campagna elettorale di Berlusconi. Sollevarsi dalla posizione periferica in cui, a dispetto di molte letture del risultato, era stato spinto alle elezioni di febbraio. Certo, anche allora è riuscito quasi a raggiungere il centrosinistra. Contrariamente alle previsioni. Ma a causa della "rismonta" del Pd più che della "rimonta" del Pdl. Il quale ha perduto 6 milioni e 300 mila voti e 16 punti, rispetto a 5 anni prima. Lo stesso Berlusconi, nei mesi scorsi, non è riuscito a migliorare gli indici di fiducia nei propri confronti. Troppo bassi, per restituirgli il ruolo di un tempo. Una crisi di governo prodotta, in modo implicito o esplicito, dalle attuali vicende giudiziarie rilancerebbe di nuovo Berlusconi come protagonista della vita politica e sociale. Nonostante tutto. Nel bene e nel male.
(Come già sta avvenendo).

c). Cedere sulla questione dell'ineleggibilità, accettare la decadenza di Berlusconi da parlamentare, inoltre, significherebbe riconoscere e accelerare il declino di Berlusconi.
Non solo sulla scena politica nazionale, ma anche nel centrodestra e nel Pdl. Aprirebbe, dunque, ufficialmente la "guerra di successione", accentuando le divisioni fra i cosiddetti "falchi" e le sedicenti "colombe". In realtà, correnti e leader del Pdl, che ambiscono ad assumere la guida e il controllo del partito. Anche se, oggi, nessuno è in grado di governare e unire il centrodestra al di fuori di Berlusconi. La determinazione del Cavaliere nel denunciare la propria indisponibilità a farsi da parte serve, dunque, a rendere la questione del tutto inattuale. Comunica  -  all'esterno e all'interno del Pdl  -  che Berlusconi non ha alcuna intenzione di farsi da parte. E se il suo declino dovesse avvenire, coinvolgerebbe tutto il centrodestra. Dopo di lui, dunque, il diluvio. Per il centrodestra e per il Pdl, almeno.

d). Attraverso le polemiche e le minacce di questa fase, Berlusconi ha sottolineato, anzi, gridato che la propria esclusione dal Parlamento e dalla competizione elettorale potrebbe diventare politicamente rischiosa e costosa. Non solo per il centrodestra e per Berlusconi, ma anche per il Pd e per il centrosinistra. Perché proprio la sua "esclusione" potrebbe diventare un fattore di "inclusione". Invece di spingerlo nella penombra, gli offrirebbe ulteriore visibilità. Di certo, diverrebbe un argomento importante, in campagna elettorale. Fino a trasformarla in uno scontro istituzionale decisivo.

e). Infatti, se, dopo Enrico Letta, Giorgio Napolitano incaricasse ancora Enrico Letta. Se, in caso di impossibilità di trovare nuove maggioranze in Parlamento, Napolitano decidesse di dimettersi, affidando ad altri, dopo di lui, il compito di sciogliere le Camere. Per Berlusconi, in fondo, non cambierebbe molto. Anzi, potrebbe perfino rafforzare la propria centralità politica e sociale. Diverrebbe, infatti, il protagonista assoluto di uno scontro politico e  -  appunto  -  istituzionale irrimediabile e irresolubile. Lui, Berlusconi, da solo.
Contro tutti. La Sinistra, Letta. Ma, soprattutto, Napolitano. Il Presidente. Garante della Repubblica. E di questo governo.

Così, Silvio Berlusconi conduce la consueta guerra contro i magistrati e i giudici  -  che pretendono di applicare le leggi anche nei suoi confronti. Per questo si serve, come sempre, di tutti i mezzi e gli strumenti  -  politici, economici e mediatici  -  a sua disposizione. Tuttavia, allo stesso tempo e nello stesso modo, fa campagna elettorale. In vista del voto che verrà. Quando verrà.
La posta in palio è alta. Non solo per Berlusconi. Perché la sua parabola è alla fine. Ma quel che sarà dopo è ancora da scrivere. E, dopo avere scritto la biografia della Seconda Repubblica, Berlusconi vorrebbe lasciare il segno anche sulla Terza. 

(26 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #352 inserito:: Settembre 09, 2013, 08:58:14 am »


L'ultimo grado di giudizio

di ILVO DIAMANTI


Oggi si riunisce la Giunta per le elezioni del Senato per deliberare sulla decadenza  -  o sulla permanenza  -  di Silvio Berlusconi. Il quale, nel frattempo, ha fatto ricorso alla Corte di Strasburgo.

Silvio Berlusconi, dunque, invoca l'intervento di un tribunale europeo per contrastare le sentenze di altri tribunali, che rischiano di comprometterne il ruolo politico (e non solo). La sentenza dei giudici di Milano, d'altronde, è la prima che abbia esito definitivo, per Berlusconi. Per questo Berlusconi, i suoi consulenti legali e parlamentari, che in buona parte coincidono, si battono perché venga sospesa, derogata, rinviata. Perché il caso sia riaperto. Com'è normale, in questa Repubblica, nata vent'anni fa per effetto dell'azione dei magistrati. I quali, da allora, hanno mantenuto un ruolo di primo piano. Nella vita pubblica e in quella politica.

In realtà, le inchieste dei magistrati investirono un sistema politico e istituzionale largamente delegittimato. Privo di fondamenta e di consenso, come dimostrarono, da ultimi, i referendum del 1991 e del 1993. Il muro di Berlino era crollato e l'anticomunismo non era più in grado di giustificare il sostegno ai partiti di governo. Così, alle elezioni politiche del 1992 tutte le forze politiche tradizionali, di governo e di opposizione, persero voti e consenso, in ampia misura. Solo la Lega Nord si impose. A testimonianza che la Prima Repubblica era finita. I magistrati, allora, apparvero come eroi popolari. Più che al servizio della giustizia: giustizieri. Al servizio del popolo, che voleva voltar pagina. Uscire dal dopo-guerra fredda.

Più di tutti e per primo ne approfittò proprio Silvio Berlusconi. Che si presentò come l'Uomo Nuovo. Estraneo rispetto ai politici e ai partiti tradizionali. Li rimpiazzò con un partito personale. Un'azienda-partito. Impose la politica come marketing. Ma i magistrati non uscirono di scena. In parte, perché l'intreccio tra interessi privati e ruoli pubblici, e quindi tra affari e politica, divenne più stretto, se possibile. Impersonato, per primo, dallo stesso Berlusconi. Ma non solo da lui. In secondo luogo, perché il deserto politico prodotto da Tangentopoli, dalla scomparsa dei leader e dei partiti della prima Repubblica, non è mai stato colmato. Abbiamo assistito, negli ultimi vent'anni, al succedersi di leader senza partito, oppure di sedicenti partiti incapaci di esprimere leader forti e duraturi. Di certo, la politica è scomparsa dalla società, dai luoghi di vita quotidiana. Si è riprodotta sui media e soprattutto in televisione. Negli ultimi anni, ha conquistato nuovi spazi attraverso la rete e i nuovi media. Tuttavia, non vi sono più soggetti politici in grado di suscitare passione e sentimento. Semmai, protesta e risentimento. Mentre lo spazio pubblico è stato occupato da altri soggetti.

In particolare: il presidente della Repubblica. Ma anche i magistrati. Il cui peso "politico" si è riprodotto e moltiplicato anche dopo e oltre Tangentopoli. Antonio di Pietro per primo. Leader di un partito che, negli ultimi dieci anni, ha conosciuto il successo e la crisi. I magistrati hanno occupato parte dello spazio lasciato vuoto da partiti scomparsi dal territorio e dalla società. Sono divenuti "garanti della pubblica virtù", per usare una formula efficace di Alessandro Pizzorno. Le loro iniziative, le loro sentenze, veicolate dai media, hanno contribuito a sostenere o, più spesso, a delegittimare un leader o un partito. Berlusconi, in particolare, dopo aver beneficiato dell'azione dei magistrati, negli anni Novanta, ne è divenuto, in seguito, l'antagonista.

Più che tra Destra e Sinistra, la frattura che ha attraversato la Seconda Repubblica richiama l'opposizione fra Berlusconi e i Giudici. Le Toghe Rosse, nella semplificazione di Berlusconi. Che, in questo modo, ha riassunto e assimilato i due mitici nemici: i Comunisti e, appunto, i Giudici. Quelli che si occupano di lui. Naturalmente "di sinistra". I Magistrati, peraltro, negli ultimi anni hanno allargato di nuovo il loro grado di considerazione sociale. Trainati dal ritorno della "questione morale"  -  o, forse: "immorale"  -  nella politica italiana. Dopo le inchieste  -  non solo giudiziarie, ma anche giornalistiche  -  contro la Casta dei politici, degli amministratori. Che, negli ultimi anni, si sono moltiplicate e hanno enfatizzato la delegittimazione dei partiti e delle istituzioni. Al punto che la maggior parte degli italiani oggi ritiene che la corruzione politica in Italia sia maggiore che ai tempi di Tangentopoli. Se quasi metà degli italiani esprime grande fiducia verso i magistrati, tuttavia, fra gli elettori del Pdl e della Lega questo orientamento scende a meno del 20%.

Più che garanti della giustizia e della legalità, dunque, agli occhi di molti italiani, essi appaiono un freno allo strapotere della classe politica. E, in particolare, di Silvio Berlusconi. Ma, per questo, sono divenuti  -  o, comunque, vengono percepiti  - attori politici anch'essi. Mentre la vita politica e pubblica appare incatenata, più che intrecciata, ai diversi processi e alle molteplici indagini giudiziarie che si susseguono. In diversa direzione.

Così, l'Italia appare un Tribunale Permanente. Dove i processi proseguono e si riproducono. Uno dopo l'altro. Un grado di giudizio dopo l'altro. Da vent'anni e oltre. Con il rischio, davvero, che lo spazio della politica si minimizzi e scompaia. Naturalmente, non per colpa dei magistrati che fanno il loro mestiere e, comunque, tutelano il proprio spazio. Il proprio potere. Ma per i limiti della politica. Che latita. Si comprende bene, in questo scenario, lo sconcerto di Silvio Berlusconi, di fronte a una sentenza "definitiva", che lo inchioda "definitivamente" alle proprie responsabilità. E rischia di comprometterne "definitivamente" il ruolo politico. Berlusconi: non si rassegna. Per questo chiede, anzi rivendica ed esige: un'altra opportunità. Cioè: un altro grado di giudizio. Se in Italia non è possibile, in Europa. Contro l'Italia. Colpevole di tradire la propria storia e la propria vocazione. Perché in Italia, echeggiando il grande Eduardo De Filippo, non solo gli esami, ma anche i processi, non finiscono mai. In questo modo Berlusconi insegue l'appello dell'unica Corte a cui riconosca legittimità. L'ultimo grado di giudizio. Il voto.

(09 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #353 inserito:: Settembre 17, 2013, 11:15:51 pm »

Pd al 28 %, Pdl a 2 punti: ma è un'Italia senza maggioranza

di ILVO DIAMANTI


È SENZA maggioranze e senza certezze politiche, l'Italia di oggi. Forse, non solo da oggi. Un Paese "in bilico", l'ha definito Enrico Letta. A ragione. Perché si muove in equilibrio instabile, non solo di fronte alle tensioni globali. Anche di fronte ai problemi nazionali. Il sondaggio di Demos, condotto (per la Repubblica) nei giorni scorsi, riproduce in modo fedele questo Stato di Emergenza. Dove le “larghe intese” sono divenute la regola. L’unica soluzione possibile per comporre un elettorato diviso in tre grandi minoranze. Fra loro in-coerenti e poco compatibili. Le stime delle intenzioni di voto, oggi, d’altronde, riproducono fedelmente gli orientamenti emersi alle elezioni politiche di febbraio. Il Pd, con il 28%, circa, supera di poco il Pdl (26%). Segue il M5S, intorno al 21%. L’equilibrio tra i partiti appare, di nuovo, rilevante. E inquietante. Nulla che faccia presagire, in caso di voto anticipato, la vittoria chiara di uno schieramento.

D’altronde, oggi sarebbe difficile immaginare anche quali coalizioni si confronterebbero. L’esperienza delle grandi intese (obbligate) ha inciso sulle preferenze degli elettori. Metà dei quali è soddisfatto dell’attuale governo. (E quasi il 60%, secondo l’Ipsos, valuta positivamente Enrico Letta, come leader.) Ma il sostegno al governo cresce sensibilmente fra gli elettori dei partiti della maggioranza. Sale al 60%, nella base elettorale del Pdl, al 74% (cioè 3 elettori su 4) nella base del Pd e all’80% in quella dei partiti di Centro. Peraltro, il governo piace anche a gran parte degli elettori della Lega. Per cui, le uniche componenti insoddisfatte sono costituite da Sel e la Sinistra. (Il cui distacco dal Pd è, quindi, cresciuto.) E, soprattutto, dagli elettori del M5S. L’80% dei quali esprime un giudizio negativo sul governo. Il M5S, d’altronde, appare tutt’altro che finito. Alle amministrative ha pagato il limitato grado di radicamento e di presenza sul territorio. Ma su base nazionale sembra ancora capace di canalizzare la protesta dei cittadini. Che resta ampia. Come dimostrano, oltre al peso elettorale del partito guidato da Grillo, anche l’incidenza dell’astensione e dell’incertezza. Superiore a un terzo degli elettori.

Enrico Letta, dunque, guida una maggioranza divisa, più che condivisa. Animata da spirito di necessità più che da reciproca fiducia. La decadenza di Berlusconi, su cui si esprimerà la Giunta del Senato mercoledì prossimo, non a caso, è ritenuta conseguenza automatica di una legge, dagli elettori del Pd, del Centro, ma anche di Sel e del M5S. Mentre è considerata il “tentativo di eliminare un avversario politico” dalla quasi totalità degli elettori del Pdl – e della Lega. Tuttavia, anche se Berlusconi venisse sanzionato davvero dalla Giunta, la maggioranza degli elettori sia del Pd che del Pdl vorrebbe proseguire nell’alleanza. Nonostante tutto. Anche se, dal sondaggio di Demos, emerge una larga disponibilità a cercare l’intesa fra Pd e M5S, fra gli elettori dei due partiti. Per formare una nuova e diversa maggioranza. Soprattutto nel caso che il governo cadesse e, come chiede la maggioranza degli italiani, si dovesse procedere a nuove elezioni.

Tuttavia, in questo caso, cambierebbe poco, visti gli orientamenti di voto, simili a quelli emersi alle elezioni dello scorso febbraio. Anche se, ovviamente, potrebbero cambiare, in futuro. In seguito al destino di Silvio Berlusconi. E, ancor più, dopo le primarie e la scelta del segretario del Pd.

In questo momento, comunque, il governo, secondo gli italiani, appare destinato a durare. Sicuramente, fino a fine anno (57%). Ma, probabilmente, anche di più. Oltre 6 mesi o perfino un anno (40% circa).

La forza di Enrico Letta, dunque, sembra dipendere, soprattutto, dalla debolezza degli altri soggetti politici. I partiti della maggioranza – compreso il Pd, di cui egli fa parte. Ma anche quelli dell’opposizione. Lo stesso M5S. Abbastanza forte da esercitare pressione fuori e dentro il Parlamento. Ma non al punto di proporre un’alternativa. Anche perché al suo “portavoce”, Beppe Grillo, non interessa. Non intende promuovere – o partecipare ad - alleanze diverse. Mentre i suoi elettori, in maggioranza (40%), pensano che il successo del M5S dipenda principalmente dalla protesta contro tutti i partiti. Dunque, meglio lasciare ad altri il compito di affrontare i rischi e i costi dell’impopolarità, che derivano dall’impegno di governare. Per questo Enrico Letta può proseguire la sua opera fra molte difficoltà, ma anche con molte possibilità di resistere.

Perché le elezioni non sembrano dietro l’angolo. Nessuno, degli alleati, pare disposto ad affrontare le conseguenze di una crisi di governo. In piena emergenza economica. In uno scenario internazionale attraversato da venti di guerra.

L’unico che potrebbe avere interesse a voltare pagina, in effetti, è Matteo Renzi. Compagno (si fa per dire…) di partito di Letta. Un terzo degli elettori, infatti, lo vorrebbe futuro premier. Primo, fra i candidati proposti dal sondaggio agli intervistati. Supera di molto Enrico Letta (17%, al secondo posto, per numero di preferenze). A maggior ragione gli altri. Tuttavia, essere indicato da un terzo degli italiani costituisce un risultato significativo, ma non un plebiscito. Anche perché Renzi è largamente superato da Berlusconi (ma anche da Alfano), fra gli elettori del Pdl. E da Monti, fra quelli del Centro. Mentre è nettamente primo, con circa metà delle preferenze, nella base del Pd (dove, tuttavia, Letta ottiene quasi il 29%). Ma anche fra gli elettori del M5S. Con oltre il 40% delle indicazioni. Quasi il doppio rispetto a Beppe Grillo. Il quale, evidentemente, appare, ai più, un interprete straordinario della protesta contro i partiti e le istituzioni rappresentative. Ma pochi, perfino fra i suoi elettori, si azzarderebbero ad affidargli la guida del Paese. Del “nostro” Paese eccezionale.

Che, ormai da anni, è governato da tecnici o da maggioranze divise, a cui partecipano partiti, fra loro, alternativi. “Costretti” a stare insieme per emergenza, ma non per volontà. Da ciò un sospetto. Un dubbio. Che, contrariamente a quanto recita la retorica antipolitica del nostro tempo, i partiti e il Parlamento, non rappresentino il “peggio”, ma un riassunto attendibile del Paese. Siano, cioè, lo specchio fedele degli italiani. Di questo Paese in-deciso a tutto.
E su tutto.

******

L’Atlante Politico è realizzato da Demos & Pi per La Repubblica. La rilevazione è stata condotta nei giorni 10-12 settembre 2013 da Demetra (metodo CATI). I campioni nazionali intervistati sono tratti dall’elenco degli abbonati di telefonia fissa (Italia: N=1245, rifiuti/sostituzioni 4788), ed è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 2.8%). Documentazione completa su www.sondaggipoliticoelettorali.it

(16 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/sondaggi/2013/09/16/news/pd_al_28_pdl_a_2_punti_ma_un_italia_senza_maggioranza-66603741/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_16-09-2013
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« Risposta #354 inserito:: Settembre 20, 2013, 04:47:03 pm »


Pubblicato il 18 settembre 2013

Lavoro, equità, uguaglianza il nuovo lessico per costruire il futuro

Intervista al politologo per concludere la serie sui concetti chiave sull'identità del mondo progressista: ""L'occupazione resta decisiva anche se oggi non è più fonte di riconoscimento sociale. Mi colpisce il consenso per 'dignità'".
Nel sondaggio di Repubblica.it 'vincono' lavoro, equità, uguaglianza

Argomenti: interviste idee sinistra sondaggio dì qualcosa di sinistra.

Protagonisti:
    Ilvo Diamanti


"È vero, il lavoro vince, ma non stacca le altre opzioni. E in generale c'è una grossa dispersione nelle risposte. Segno che manca un'identità definita". Ilvo Diamanti guarda il risultato del sondaggio sulle parole della sinistra, arrivato ai 65mila voti su Repubblica. it.
Rilegge i dati e scuote la testa: "Non c'è il cleavage, la frattura identitaria, che divide la società sul piano politico", dice da politologo. "Lo vediamo anche nelle nostre ricerche: 7 italiani su 10 dichiarano senza difficoltà di essere di destra o di sinistra, ma poi non sanno riempire di contenuti queste due definizioni".

IL SONDAGGIO / GUARDA I RISULTATI su repubblica .it del 18/09/2013.

Va bene, la parola lavoro non stravince nel sondaggio. Ma ha avuto il 10 per cento dei voti, tra una trentina di diverse opzioni.
Quanto c'entra la crisi?
"Sicuramente ha un peso. Ma conta di più la storia. Il lavoro ha a che fare con la tradizione della sinistra: per il suo legame con il movimento operaio, per la sua radice laburista. Il problema è che oggi lavoro vuol dire tutto e niente, non solo perché manca ma perché può essere nero, precario, intermittente. Una volta era fonte di reddito, ma anche di riconoscimento e di gerarchia sociale. Era collegato a una comunità reale. Oggi non è più così. Anche per questo la sinistra ha tanti consensi tra i pensionati".

In seconda posizione la parola "equità", col 7 per cento. Preferita anche a "uguaglianza" (terzo posto). E sono tanti i voti per "redistribuzione". C'è una forte componente socioeconomica nelle risposte.
"In parte è vero, ma si tratta di parole comunque diverse. "Uguaglianza" è più radicale ed ha le sue radici nella rivoluzione francese. "Redistribuzione" ha a che fare con lo Stato sociale, con la socialdemocrazia, che mira a ridurre le diseguaglianze, attraverso l'intervento pubblico, attraverso le riforme. Certo, tutto questo richiama uno dei compiti storici della sinistra: fare i conti con il mercato, controllare e ridurre le sue conseguenze inegualitarie sul piano sociale. Ma attenzione a non usare troppo le lenti del passato. Oggi ci sono soprattutto impiegati pubblici e pensionati, nella base della sinistra. Gli operai da tempo guardano altrove. Mentre c'è un'attenzione crescente per la parola "merito". Io l'avrei inserita nella rilevazione. Il merito è egualitario perché è alternativo ai privilegi ereditari, alle chiusure corporative, alle caste".

 "Laicità" prende il 6 per cento. E questo nonostante la popolarità di Papa Francesco, anche a sinistra...
"Non mi stupisce. La laicità è una delle componenti da cui nasce la sinistra. Mi sembra sorprendente invece il 2 per cento per la parola "Resistenza". Significa che è scomparsa dalla memoria, forse perché è stata troppo mitizzata e poco coltivata come esperienza e come valore.
E poi mi colpisce il 3 per cento per "democrazia". E il 4 per "Bene comune": era il marchio dell'alleanza alle ultime elezioni, ora sembra dimenticato. Insomma, la sinistra ha tante parole perché ha tante anime. È Stato ma anche mercato, innovazione ma anche conservazione, lavoro ed equità ma anche legalità. E soprattutto negli ultimi 20 anni è stata troppo gregaria rispetto alla cultura berlusconiana".

A proposito, la libertà non è nelle prime posizioni. Una parola "scippata" dalla destra?
"Sì, e non solo perché Berlusconi l'ha scelta come parola chiave. Anche perché ha dipinto gli avversari come la casa delle illibertà, il campo dei comunisti".

Per tutta la durata del sondaggio "legalità" è stata tra il quarto e il quinto posto. Tanti voti anche per la parola "moralità".
La sinistra per molti è diventata una specie di deontologia civica? E anche questo ha a che fare con il berlusconismo?
"Inevitabilmente. Anche in altri paesi vicini, Francia e Germania, i magistrati hanno perseguito e talora condannato uomini politici importanti, capi di Stato e di governo. Ma qui i problemi giudiziari del Cavaliere sono diventati la questione che paralizza la politica. Anzi: il Paese".

Insomma, se avessimo aggiunto tra le parole anche "antiberlusconismo" ci sarebbe stato un picco di voti?
"Sì, berlusconismo e antiberlusconismo sono concetti che hanno ancora molta presa, sia tra i favorevoli che tra i contrari al Cavaliere.
Dividono la politica e gli italiani. Hanno inquinato la cultura politica e creato anche confusione. Non a caso molti antiberlusconiani non riuscirebbero mai a definirsi di sinistra. Ma votano a sinistra. Per disperazione".

Solo l'un per cento per la "pace". Cos'è successo alla sinistra che scendeva in piazza con le bandiere arcobaleno?
"Il pacifismo è solo una componente della sinistra, storicamente spesso minoritaria. Basti pensare al Mussolini socialista e interventista della prima guerra mondiale, a Obama e Hollande rispetto alla questione siriana, all'interventismo umanitario degli anni Novanta".

In bassa classifica anche sogno, coraggio, cambiamento. L'ottimismo non è virtù coltivata a sinistra?
"È così anche perché negli ultimi venti anni l'ottimismo è stato usato da chi era al governo come argomento contro gli avversari definiti pessimisti, disfattisti, in una parola comunisti. Ma certo è anche l'espressione di una sinistra senza passato e incapace di immaginare un futuro".

E invece, qualche segnale positivo?
"Mi colpisce il 5 per cento che ha votato per "dignità". Per me dignità vuol dire potersi alzare al mattino e guardarsi allo specchio, dritto negli occhi, senza abbassare lo sguardo. Non so se significhi essere di sinistra. Ma sogno un futuro vissuto con dignità da tutti, in cui questa parola possa essere un valore condiviso".

da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/09/18/news/lavoro_equit_uguaglianza_il_nuovo_lessico_per_costruire_il_futuro-66770373/?ref=HREC1-1
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« Risposta #355 inserito:: Settembre 24, 2013, 11:30:06 am »

E la chiamano estate


L’estate sta finendo. Ma forse non è mai cominciata. L’estate di una volta, intendo. La stagione del riposo. Quando si andava in ferie. Tutti. O quasi. Anche la politica e il calcio. In ordine inverso: le due passioni principali degli italiani. Quella stagione non c’è più. I periodi di ferie si sono accorciati. Per alcune persone e famiglie si limitano a qualche gita al mare nei fine settimana. Altre, ancora, vi hanno rinunciato del tutto. Colpa della crisi, ma anche dei modelli di vita che cambiano. La politica, quella, non va più in ferie. Neppure in Italia.

Agosto: è divenuto un mese di attività intensa e convulsa. Sono lontani i tempi in cui Marco Pannella approfittava del Ferragosto per organizzare le sue conferenze stampa. Quando, anni dopo, la Lega lanciava le sue campagne di lotta, le sue marce sul Po, le sue secessioni in estate. E soprattutto in agosto. Per sfruttare la domanda di informazioni dei media riempiendo il vuoto di notizie. Oggi non c’è più problema. L’estate è un ribollire di polemiche, crisi, scontri e provocazioni. Oggi, ad esempio, il governo è sospeso. Silvio Berlusconi, dopo la condanna in Cassazione, è determinato a contrastare la sua esclusione dal Parlamento. A conquistare l’agibilità politica. Intanto, Enrico Letta interviene in Italia e gira il mondo. Finge che il governo sia solido e stabile. Che le elezioni anticipate non incombano. Perché la crisi “sarebbe una follia”. Dentro il PdL si prepara il passaggio, meglio, il ritorno a Forza Italia. Fra lotte e divisioni. Falchi, colombe e pitonesse: si tendono agguati e si aggrediscono, senza troppi complimenti. Intanto, nel PD si affilano le armi in vista delle Primarie. Per eleggere il segretario di partito. O forse il candidato Premier. Dipende da quel che succederà. Renzi, Letta. Ma anche Cuperlo e Civati. Tutti pronti a scendere o a salire in campo. Tutto questo succede in estate. In questa estate.

Le feste di partito, le care vecchie feste di partito, l’unica attività “politica” consentita – d’estate. Sono cambiate anche quelle. D’altronde, l’unica vera festa di partito conosciuta e riconosciuta era la cara, vecchia, Festa dell’Unità. Affollata da militanti, simpatizzanti e tante persone. Di sinistra e non.  Ma oggi non c’è più. Perché l’Unità non è più quella di una volta. È un giornale fra gli altri che fanno riferimento allo stesso partito. Il PD. Per il quale evocare l’Unità è quantomeno ironico. Oggi, ci sono le Feste Democratiche. Ma non è lo stesso. Proprio no. Perché le Feste non possono essere Democratiche. Sono feste e basta.

Oltre alla politica e alle feste di partito, anche il calcio ci ha abbandonati. Proprio perché non ci abbandona mai. E’ sempre calciomercato, come recita una trasmissione di Sky, in onda tutte le sere. In tutte le stagioni. Anche d’estate. Ovviamente. Non a caso. Perché  sempre campionato. Già. Il campionato. Non fa tempo a finire Ferragosto che è già cominciato. E così rischia di secolarizzarsi. Di perdere il pathos di un tempo. Perché se si gioca sempre e sempre ancora. Se è sempre calciomercato e sempre campionato, allora la domenica non è più la stessa. Non c’è più festa. Non c’è più religione. D’altronde, il campionato è sempre. Dovunque. In ogni luogo e in ogni medium. Come il calciomercato. Non finisce mai. Così la politica, anzi, la crisi politica italiana.  Non finisce mai. Solo l’estate sta finendo. Finalmente. Questa estate: mi ha sfinito. Per me è una stagione faticosa. Perfino un po’ dolorosa. Ma l’autunno è alle porte. Meglio prepararsi. Dicono che sarà molto caldo.

(28 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/08/28/news/e_la_chiamano_estate-65400617/
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« Risposta #356 inserito:: Ottobre 28, 2013, 08:59:20 am »

Il grande equivoco del piccolo centro

di ILVO DIAMANTI
21 ottobre 2013

Al Centro non c'è posto, in Italia. Si tratti di neo oppure post-democristiani. O, ancora, di tecnici. Non importa. Per questo la "frattura" fra Monti e Casini, oltre che fra Monti e il suo stesso partito (in testa, il ministro Mauro), è inevitabile, ma politicamente poco rilevante.
Serve a rammentare quanto già si sapeva. Che lo spazio politico di Centro, per chi coltivi ambizioni di leadership, è troppo ridotto. Perfino asfittico.
Anzitutto dal punto di vista elettorale. D'altronde, alle recenti consultazioni, i soggetti politici centristi, insieme, hanno superato a stento il 10% dei voti validi. Intercettati, in larga misura, dal partito di Monti, Scelta Civica (8,6%, alla Camera). "Cannibalizzando" l'Udc di Casini, che non ha raggiunto il 2%. Mentre Fli, il partito di Gianfranco Fini, si è fermato allo 0,5%. Cioè: si è fermato. Ma oggi il loro peso elettorale, nei sondaggi, appare ulteriormente diminuito. Meno dell'8%. Principalmente a causa del declino di Sc (scesa sotto il 5%).
In definitiva: la "salita" in campo di Monti ha allargato di poco lo spazio elettorale del Centro (che, alle consultazioni del 2008, si era attestato intorno al 6%). Ciò riflette la tendenza "bipolare" che si è affermata nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica, fondata da e su Berlusconi. Dal 1994 in poi, infatti, gli elettori si sono abituati a votare per due schieramenti alternativi. Lasciando ai margini chi si poneva "nel mezzo". Mentre è cresciuto il peso dei soggetti politici esterni e contrapposti al sistema partitico. La Lega, ieri, ma soprattutto il M5S, oggi.
Non a caso, gli elettori che si posizionano al Centro dello spazio politico fra Sinistra e Destra sono, appunto, il 10% (Sondaggio Demos, ottobre 2013). Mentre la maggioranza si colloca a Centro-destra/Destra. Oppure a Centro-sinistra/Sinistra. Ma, soprattutto, "fuori" (oltre un terzo). In altri termini, i "centristi", i sedicenti "moderati", si schierano, prevalentemente, di qua o di là. A (Centro) Destra o a (Centro) Sinistra.
Per questo il sogno neo-democristiano, oggi, è irrealizzabile. Una nuova Dc non può sorgere. Perché le condizioni che ne hanno generato e consolidato l'esperienza, nel dopoguerra, sono improponibili. La Dc ha governato ininterrottamente, nel corso della Prima Repubblica, perché non aveva alternative, nel nostro sistema partitico. Dov'era presente il più forte Partito Comunista occidentale. Dove, inoltre, agiva il Msi, neofascista. Due partiti anti-sistema (come li definisce Giovanni Sartori). Così, per quasi cinquant'anni, abbiamo vissuto in un "bipartitismo imperfetto" (per utilizzare la formula di Giorgio Galli). Dove i due principali partiti "dovevano" giocare una parte pre-definita. Il Pci all'opposizione e la Dc al governo. Sempre e comunque. Per questo la Dc costituiva il Centro del sistema politico italiano, ma non rappresentava gli elettori di Centro. Raccoglieva anche l'elettorato di Destra e, per una certa quota, di Sinistra.
La fine della Prima Repubblica (e dell'Unione Sovietica) ha modificato le fratture politiche del passato. Ma solo in parte, perché Berlusconi ha rimpiazzato il muro di Berlino, erigendo, al suo posto, il muro di Arcore. Che separa Antiberlusconiani e Anticomunisti. Così il Centro ha continuato a svolgere un ruolo residuale. Poco rilevante. L'esperimento partitico di Monti, per questo, non è giunto a buon fine. Ben prima che egli entrasse in conflitto con gli alleati e i suoi stessi eletti. Perché Monti ambiva a occupare uno spazio ben più ampio fra gli elettori. E, a maggior ragione, in Parlamento, in particolare al Senato, dove pensava di svolgere un ruolo determinante, nella maggioranza, in coalizione con il Centrosinistra. Invece, si è trovato parte di una maggioranza di "larghe intese", dove il peso del Centro è limitato.
Monti, in effetti, ha equivocato il significato del consenso che lo ha accompagnato, a lungo, durante l'esperienza del suo governo. Ha pensato che potesse riprodursi anche sul piano elettorale, oltre e dopo il governo tecnico. Non era e non è così.
Il sostegno di cui disponevano Monti e il suo governo dipendeva dalla "paura" della crisi economica, nazionale e globale. Dipendeva dalla "paura" del vuoto politico. Dipendeva dallo "stato di necessità" in cui versava lo Stato. Ma dipendeva, in parte, anche dalla nostalgia democristiana depositata nella coscienza degli italiani. Che non significa nostalgia della Dc, ma di un Paese dove i conflitti non producevano lacerazioni. Non degeneravano in "guerra civile" permanente, per quanto a bassa intensità. Un Paese dove tutti erano coinvolti nel governo, anche i partiti che stavano - naturaliter - all'opposizione. Così è avvenuto nella stagione di governo tecnico. E lo stesso, in fondo, avviene oggi. Al tempo del governo di "larghe intese". Dove "quasi" tutti i principali partiti coabitano, senza amore. Anzi, in un clima di reciproca sfiducia. Ma, comunque, stanno insieme. Per Stato di necessità. L'eredità della Dc si riflette, semmai, nella presenza di molti post-democristiani nel governo. A partire dai due principali responsabili: Letta e Alfano. Uno di (Centro) Sinistra e l'altro di (Centro) Destra. Ma, per la stessa ragione, non esiste la possibilità, per un soggetto politico di Centro, peraltro "piccolo", di svolgere un ruolo critico, distinto e autonomo. Il Centro, in Italia, c'è già. Sta di qua e di là. È il Grande Centro delle Larghe Intese guidato da Enrico Letta. Verso il quale Monti, intervistato da Lucia Annunziata, ieri, non a caso, si è espresso con parole acide. Il Grande Centro evoca il desiderio di stare tutti insieme - uniti e divisi, al tempo stesso. Tutti al governo, ma senza impegno. Comunque, non è più il luogo della "mediazione". (Né, forse, lo è mai stato.) Ma, semmai, dell'interdizione reciproca. In nome di una stabilità, che rammenta l'immobilità. Una palude. Dove rischia di affondare il Paese.
© Riproduzione riservata 21 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/21/news/grande_equivoco_piccolo_centro-69069849/?ref=HREC1-2
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« Risposta #357 inserito:: Ottobre 28, 2013, 10:40:40 am »

Bussole

    Noi, vicentini a nostra insaputa

Può sembrare un paradosso: la Procura della Repubblica di Vicenza indaga sul mostro urbanistico di Borgo Berga. Insediamento immobiliare e commerciale dove sorge il Tribunale. In altri termini: la Procura indaga su se stessa. Per essere più precisi, sulla propria residenza. È l'esito dell'inchiesta condotta e pubblicata da Repubblica.it nei giorni scorsi, in seguito alla quale lo stesso procuratore capo, Antonino Cappelleri, ha affidato alla Guardia Forestale una serie di accertamenti per verificare se effettivamente le costruzioni abbiano violato "la norma".

Ma, in effetti, c'è poco di che sorprendersi. Perché la "norma" è il Blob immobiliare che si propaga intorno a Vicenza. Assimila la città al suo territorio. E lo rende progressivamente uguale. Omologo. Informe e, talora, deforme. Il Tribunale, in effetti, svetta. Altissimo. Imponente. Circondato da una plaga urbanistica - residenziale e commerciale - a ridosso del torrente (fiume) Retrone. Un nome ignoto a chi non abita a Vicenza. Come, d'altronde, il Bacchiglione. Salito agli onori della cronaca negli anni scorsi. In particolare, nel novembre 2010, quando esondò e alluvionò la città. Invase il centro storico. D'altronde, il Bacchiglione attraversa la campagna a Nord della città, dove tutti lo conoscono come Livelòn.

Il problema è che di campagna, ormai, ne è rimasta poca. Il terreno non assorbe più nulla. E la cura degli argini e del territorio, ormai, è sporadica. Così basta che piova forte per un paio di giorni e il torrente diventa un fiume in piena. Esonda. È avvenuto nel 2010, appunto. È capitato di nuovo l'anno dopo. E succederà ancora. Lì, oltre Ponte Marchese, entrato nel territorio di Vicenza, il Livelòn - oppure il Bacchiglione - costeggia l'area del Dal Molin. Fino a qualche anno fa un aeroporto civile. Dove ora sorge un villaggio costruito per accogliere i militari USA. Un progetto contro cui hanno protestato e marciato decine di migliaia di cittadini. Per anni. Inutilmente, visto che il villaggio è sorto ugualmente. E oggi si erge imponente. Una piccola Manhattan. A un quarto d'ora dal centro storico. Dalla Basilica palladiana, restituita, da un anno, all'antico splendore. Una meraviglia. Dalla terrazza domini la città e i dintorni. Puoi vedere il Dal Molin. E il nuovo Tribunale. Che sorge dall'altra parte della città. Verso il "basso vicentino". Non lontano dalla Basilica, appunto. E a due passi da Villa Capra Valmarana. La (famosa) Rotonda di Palladio. A conferma che a Vicenza, nel cuore del Nordest, i paradossi "ambientali" non esistono. Sono la "norma". Intorno al Bacchiglione e al Retrone, accanto alla Basilica e alla Rotonda: è tutto Dal Molin. È tutto Borgo Berga. Senza soluzione di continuità.

Vicenza e il suo territorio: progettati da Palladio e dagli immobiliaristi. Insieme. In modo indistinto. D'altronde, Palladio non è il nome di un centro commerciale? O forse no: di un impianto sportivo... Quanto alla Rotonda, in questa terra informe, "una" sola non basta. Non serve. Meglio 10-100-1000 "rotonde". Dovunque. Nei punti più impensati e impensabili. Piccole, medie, grandi e grandissime. Rotonde ovali e di molte altre forme diverse. Talora concatenate, come anelli di una collana. Rotonde finte e illusorie. (Qualche settimana fa ho imboccato una curva improvvisa contromano. Ero convinto fosse una rotonda...).

E allora perché stupirsi? Meglio non scandalizzarsi. Se la Procura ha sede in un Tribunale abusivo "a sua insaputa", anche noi viviamo in un territorio abusivo - a nostra insaputa. Siamo vicentini "a nostra insaputa".

(18 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2013/10/18/news/vicentini_a_nostra_insaputa-68840213/
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« Risposta #358 inserito:: Novembre 03, 2013, 06:20:48 pm »

Il sindaco e il Cavaliere: due destini incrociati

di ILVO DIAMANTI
28 ottobre 2013

Non è un caso che Berlusconi abbia sciolto il Pdl e rilanciato Forza Italia in coincidenza con la Leopolda. La convention organizzata da Matteo Renzi a Firenze. E non è un caso che la ri-nascita di Fi sia stata prevista nello stesso giorno delle primarie del Pd. L'8 dicembre. Berlusconi, in questo modo, intende, ovviamente, "trainare" la propria ri-discesa in campo. Utilizzando un evento di successo, in grado di mobilitare milioni di persone.

E l'attenzione dei media, com'è avvenuto un anno fa. Quando, all'indomani delle primarie, i sondaggi attribuirono al Pd stime di voto mai raggiunte, in passato. Ma neppure in seguito, visto il modesto risultato ottenuto alle elezioni di febbraio. (A conferma che le primarie non sostituiscono le campagne elettorali.)

A Berlusconi interessa associare le primarie del Pd e il ri-nascimento di FI. Ma anche le due leadership. Renzi e, appunto, se stesso. In un momento in cui la stella di Renzi è ancora luminosa. Quella di Berlusconi molto fioca, se non proprio spenta. Renzi, d'altronde, non ha parlato di Berlusconi perché intende guardare al futuro. Mentre Berlusconi ha rilanciato, consapevolmente, il passato. Perché tale è FI. Un soggetto politico fondato giusto 20 anni fa. D'altronde, la fine del Pdl sancisce ciò che, di fatto, era già avvenuto. La scomparsa di An. Il partito post-fascista che aveva rotto con la tradizione fascista, appunto. Guidato da Gianfranco Fini, era divenuto un partito democratico della Destra europea. An, alle elezioni del 2006, aveva ottenuto 4 milioni e 700mila voti, oltre il 12%. FI: 9 milioni e quasi il 24% dei voti validi. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, FI e An si erano riuniti dietro alle bandiere del Popolo della Libertà, "inventato" nel novembre 2007, da Berlusconi. Per rispondere (non a caso) alla fusione dei Ds e della Margherita nel Pd, guidato da Walter Veltroni. Il Pdl, in quell'occasione, riuscì a intercettare l'elettorato dei due partiti, oltre 13 milioni e mezzo. E ne rafforzò il peso percentuale: 37,4%. Un percorso concluso, alle ultime elezioni, 8 mesi fa. Nelle quali il Pdl ha perso 6 milioni e 300mila voti e oltre 15 punti percentuali. In altri termini: quasi 2 milioni e oltre 2 punti meno di FI da sola, nel 2006.

Berlusconi, dunque, ha semplicemente preso atto che An è scomparsa, insieme al suo leader, Gianfranco Fini. E ha tentato un "ritorno al futuro". Allo spirito dei padri fondatori. Cioè, lui stesso. Dietro a questa scelta, c'è, ovviamente, il proposito di "eliminare", insieme al Pdl, anche i traditori. Ma c'è anche l'intenzione, o almeno la speranza, di saltare sul "carro" di Renzi. Anch'egli, come altri dirigenti del Pd, divenuti, all'improvviso, tutti quanti e tutti insieme, "renziani". Berlusconi, "renziano" anche lui. Per rientrare in gioco, contro il più "berlusconiano" dei leader del centrosinistra - secondo molti osservatori, non solo critici. A Matteo Renzi, d'altronde, questo inseguimento al contrario, rispetto al passato (quando tutti imitavano Berlusconi), non dovrebbe dispiacere troppo.

Anzitutto, perché Berlusconi non è certo finito, come dimostra la sua reazione di questi giorni. Ma è, sicuramente, più "vecchio". In senso anagrafico e non solo.

Poi, perché, comunque, il rafforzamento di Berlusconi significa l'indebolimento di Enrico Letta e del governo di larghe intese. Il vero fortilizio dove agiscono gli oppositori di Berlusconi. Alfano e i ministri: del Pdl, non di FI. Il ritorno di FI, di conseguenza, significherebbe abbandonare al loro destino i ministri del Pdl. Ma anche il governo e il premier, Letta. La cui posizione appare in crescente contrasto con quella di Renzi. Perché, da un lato, Letta è l'unico leader, in Italia, che, per livello di popolarità e di consenso personale, possa competere con Renzi. E, anzi, nelle ultime settimane, sembra averlo superato. D'altra parte, comunque, il tempo gioca a sfavore di Renzi. La lunga durata, alla guida di un partito complesso, come il Pd, rischia di logorarlo. O, almeno, di appannarne lo smalto. "Mai più larghe intese", risuonato più volte ieri alla Leopolda, echeggia dunque come: "Mai più Letta".

Da ciò l'impressione che a Renzi, in fondo, il confronto con Berlusconi non dispiaccia. Perché evoca un modello di democrazia che gli piace e lo favorisce. Fondato sulla "personalizzazione". Un processo in atto in tutte le democrazie occidentali. Anche se in Italia è stata condizionata dalla costruzione di "partiti personali". Cioè, di partiti "privati", dipendenti dalle risorse - economiche, comunicative e organizzative - di una persona. Per prima e prima di tutti, Forza Italia. Appunto. Il Centrosinistra ha, invece, respinto la "personalizzazione", interpretando il ruolo del "partito impersonale". Senza personalità e senza persone in grado di "rappresentarlo". Nelle mani di "un'armata - poco gioiosa e molto disorganizzata - di micro-notabili" (come osserva Mauro Calise nell'acuminato saggio, emblematicamente intitolato Fuorigioco e appena pubblicato da Laterza).

Per questo la sfida lanciata da Matteo Renzi alla Leopolda non sembra rivolta tanto agli altri candidati, in vista delle primarie. Con i quali non c'è partita. Ma, soprattutto, al Partito Democratico in quanto tale. Cioè: in quanto "partito", erede di "partiti" - di massa. Non a caso non ha voluto bandiere di "partito". E ha dichiarato l'intento di "rottamare le correnti", per prima la propria. Perché ciò che gli interessa, soprattutto, è scardinare la logica del partito. O meglio, dei partiti da cui provengono il Pd, i suoi consensi e i suoi gruppi dirigenti - centrali e locali. A Renzi interessa andare oltre le tradizioni e la storia - di chi "viene da lontano". Oltre i post-democristiani e, prima ancora, oltre i post-comunisti. In altri termini: oltre il Pd. Per questo, in fondo, le strade di Berlusconi e di Renzi, per quanto percorse in direzione opposta, sono destinate a incrociarsi. Perché Berlusconi torna a FI per andare oltre il Pdl. Per restaurare il "partito personale". Mentre Renzi intende vincere le Primarie per rottamare il Pd. Insieme a ogni larga intesa e a ogni Mediatore legittimato dal Presidente. Renzi: vuole fare il Sindaco d'Italia. In nome di una democrazia diretta e personalizzata.

Prepariamoci. Dopo il prossimo 8 dicembre nulla resterà come prima.
© Riproduzione riservata 28 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/28/news/il_sindaco_e_il_cavaliere_due_destini_incrociati-69622674/?ref=HREC1-1
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« Risposta #359 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:07:04 pm »

Mappe: L'Italia degli spaesati

di ILVO DIAMANTI
11 novembre 2013

L'Italia al tempo delle primarie, di Beppe Grillo e del ritorno di Forza Italia: sta perdendo radici e identità. È un Paese spaesato, dove i cittadini non sanno più a chi "credere". Vent'anni fa eravamo in piena crisi di sistema.

E, mentre affondava la Prima Repubblica fondata sui partiti, gli italiani si "affidarono" ai sindaci. E, poi, ai governatori. Custodi delle autonomie territoriali, non contro l'Italia, come pretendeva la Lega. Ma in nome di un Paese "unito dalle sue differenze" (com'era solito rammentare Carlo Azeglio Ciampi). Territoriali e culturali. E, anche per questo, europeo. Anzi: il più europeista, in Europa. Oggi, però, questo profilo è cambiato. Irriconoscibile. L'Europa, anzitutto, è vista con diffidenza. Al pari, anzi, proprio a causa, dell'euro. Gli italiani: sono europei "nonostante tutto".

Perché fuori dall'euro, fuori dall'Europa si sentono più vulnerabili. Il problema è che, insieme, si è scolorita la mappa delle identità territoriali. Che ha perduto i suoi principali riferimenti. Per prima e soprattutto la "città", indicata come l'area in cui ci si riconosce maggiormente da meno del 15% degli italiani (intervistati). Il livello più basso da quando (quasi vent'anni) Demos (per Limes) conduce le sue indagini sul sentimento territoriale.

L'anno scorso, ad esempio, la città costituiva il primo riferimento per quasi il 21% dei cittadini. Certo, il rilancio dell'identità nazionale, promossa e sostenuta dal presidente Napolitano in occasione del 150enario dell'Unità d'Italia, ha prodotto risultati visibili. Nel corso del 2011, infatti, l'Italia è divenuta il primo riferimento per quasi il 28% dei cittadini. Ma oggi l'Italia costituisce il centro delle appartenenze territoriali per circa il 23% dei cittadini. È la conseguenza della crisi - economica e politica - che si riflette, pesantemente, sulla fiducia nei diversi livelli di governo.

D'altronde, il disincanto della società verso gli attori e i luoghi della politica, ma anche verso le istituzioni, in Italia viene da lontano. Ma, negli ultimi anni, ha assunto proporzioni impensate e impensabili. La fiducia nello Stato, fra il 2001 e il 2010, si è mantenuta stabile, intorno al 30%. Oggi è crollata al 15%. Detto in termini espliciti: poco più di un italiano su dieci ha fiducia nello Stato. Niente di nuovo e inatteso, forse. Ma, comunque, a me fa impressione. Dell'atteggiamento verso l'Europa abbiamo già detto. Nel 2001, quando la disillusione si stava diffondendo, gli italiani che mostravano fiducia nella Ue erano, ancora, la maggioranza: il 53%.

Nel 2010 l'impatto della crisi aveva ridimensionato questo sentimento, che comunque si attestava al 49%. Ma oggi la fiducia nella Ue è crollata al 33%. È una reazione al senso di vulnerabilità che riflette il declino di legittimità dello Stato e dell'Europa. Le cornici più ampie dentro cui ci collochiamo. Tuttavia, a differenza di venti o anche solo dieci anni fa, oggi i governi - e i contesti - territoriali non riescono più a soccorrerci. A offrirci protezione - almeno a livello di riconoscimento. Il "locale" non tutela dalla crisi "nazionale" e dalla minaccia "globale". La quota di quanti esprimono (molta o moltissima) fiducia nella Regione, infatti, dal 2001 al 2010 cala dal 39% al 33 (e mezzo) per cento. Ma oggi frana al 26%. L'andamento della fiducia nei Comuni segue un percorso diverso. Nel primo decennio degli anni 2000 appare sostanzialmente stabile. Oscilla, infatti, intorno al 40%. Ma dopo il 2010 scivola, anzi cade. E oggi supera di poco il 31%.

È lo specchio di un Paese che fatica a trovare appigli e punti di riferimento. Anche e soprattutto a livello locale. Dove, in passato, Comuni e Regioni avevano frenato la crisi di credibilità dello Stato e del sistema politico. La quota di italiani che dichiara di avere fiducia sia nei Comuni che nelle Regioni, invece, è, ormai, residua. Dal 30%, nel 2001, oggi si è ridotta al 17%. Questa deriva coinvolge e trascina tutti i soggetti politici, tutti gli schieramenti. Rende in-credibile il "federalismo delle Regioni": la bandiera della Lega. Che governa le tre principali regioni del Nord. Insieme al Pdl. L'Italia berlusconiana, d'altronde, coincide con il Lombardo-Veneto. Il cuore del Nord. Ma il disincanto avvolge anche l'Italia dei sindaci e dei Comuni. Fin dagli anni Novanta, il retroterra del centrosinistra. Che nel decennio passato ha candidato, come premier, due sindaci di Roma - Rutelli e Veltroni. Mentre il vincitore probabile, se non certo, delle primarie del Pd è Matteo Renzi. Anch'egli sindaco - di Firenze. (E il segretario uscente, Pierluigi Bersani, è stato governatore dell'Emilia Romagna).

Dietro alle tensioni che scuotono i principali partiti della Seconda Repubblica, dunque, si intuisce una profonda crisi di sistema, che si riflette nei diversi "luoghi" istituzionali e di governo. D'altronde, il centrodestra e il centrosinistra, in Italia, hanno sempre avuto un profilo territoriale definito. De-limitato. Mentre il successo del M5S non ha una geografia specifica. E, fin qui, non si è confermato alle elezioni "locali". È il segno, ulteriore, di una trasformazione profonda. Che marca una frattura con il passato. Di cui non si vedono gli esiti, i percorsi possibili. Perché mancano sponde e traghettatori. Lo stesso Presidente della Repubblica, negli ultimi mesi, ha perduto consensi. Il grado di fiducia di cui dispone, oggi, è di poco superiore al 50%. Ancora elevato, rispetto a tutti gli altri attori politici e istituzionali. Ma, comunque, in sensibile ripiegamento rispetto a un paio d'anni fa. Così, l'unica figura pubblica che nell'ultimo periodo abbia ottenuto grande, anzi, grandissimo consenso è, com'è noto, Papa Francesco. Che riscuote grande fiducia da quasi 9 italiani su 10. Tuttavia, per reagire alla perdita di "fede" nella politica, per rispondere alla crisi dell'Italia repubblicana, delle Regioni e dei Comuni, appare difficile affidarsi al Papa e alla Chiesa. Forse è meglio restituire autorità allo Stato, credibilità alla politica e autorità ai suoi territori. Con buoni leader, buoni amministratori, buoni sindaci. Capaci di testimoniare la buona politica e il buon governo.

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/11/news/mappe_l_italia_degli_spaesati-70706451/?ref=HREA-1
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