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Autore Discussione: ILVO DIAMANTI -  (Letto 278038 volte)
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« Risposta #270 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:36:19 pm »

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I quattro dilemmi che lacerano il Pd

Obiettivi, alleanze, primarie, leadership: il Partito democratico affronta l'Italia post-berlusconiana in una situazione di disagio.
Da cui rischia di uscire dissociato. Un soggetto politico "impersonale" in un mondo di partiti personali e di Presidenti senza partito.
Che ora è costretto a fare i conti con i nodi rinviati e risolti al suo interno

di ILVO DIAMANTI


IL PARTITO Democratico è attraversato da un disagio profondo. Difficile da dissimulare, ma anche da sopportare a lungo.
Rischia di uscirne dissociato. Insieme a questo governo di "tregua nazionale".

E al sistema politico di questa Repubblica, post-berlusconiana. Montiana. Sono quattro le questioni - meglio sarebbe dire "dilemmi" - che lacerano il Pd. Gli obiettivi, le alleanze, le primarie e la leadership. In questa sede mi limito a tematizzarle in modo schematico.

GUARDA LE TABELLE 1 (su repibblica.it)

1) Anzitutto, gli obiettivi, l'orizzonte strategico. Il Pd oggi è diviso. Non solo al proprio interno, ma "intimamente". Nel senso che leader, militanti ed elettori con-dividono i medesimi orientamenti. Contrastanti. Sospesi e stressati fra laburismo e liberismo. Basti pensare, in primo luogo e soprattutto, al controcanto (contraddizione?) fra l'atteggiamento verso il governo e le sue politiche.

Gli elettori del Pd valutano le scelte del governo Monti, nell'ambito economico e del lavoro, in modo largamente negativo. Le considerano, eufemisticamente, poco eque. Sul provvedimento relativo all'art. 18 (come emerge dai dati del sondaggio di Demos) il dissenso degli elettori Pd è netto (67% contrari). Superiore a quello della popolazione (59 % circa).

Essi, tuttavia, sono al contempo, i più convinti sostenitori del governo (80%: quasi 20 punti più della media generale). Stimano Monti (84%: + 17 punti della media generale) ma anche i suoi ministri. Fornero (60%: 9 punti in più della media generale) e Passera (65%: addirittura 15 punti sopra la media generale). Insomma, la base del Pd e animata da sentimenti "lab" ma si affida a una squadra di "lib" convinti.

Peraltro, il 44% degli elettori Pd esprime "molta fiducia" nella Cgil, circa 20 punti in più rispetto alla media della popolazione. Mentre il credito verso Cisl e Uil scende al 27% (6 punti sopra la media) e verso le associazioni degli imprenditori scivola al 19% (2 punti meno della media). Difficile che uno sguardo così strabico non provochi malessere.

2) Un problema accentuato dalla questione delle alleanze. Pur di favorire la nomina di Monti al governo e, insieme, le dimissioni di Berlusconi, il Pd ha accettato di allearsi con l'Udc e, soprattutto, con il Pdl. Una "grossa coalizione". All'italiana - cioè: non ammessa e non dichiarata. In contrasto con l'intesa di centrosinistra, coltivata negli ultimi anni insieme a Idv e Sel. E sperimentata con successo, seppure con qualche sofferenza, alle amministrative del 2010.

Tuttavia, alle prossime elezioni (che dovrebbero svolgersi nel 2013, secondo regola) non sarà facile per il Pd (e per il suo gruppo dirigente) scegliere le alleanze. Certamente non potrà riproporre la "grossa coalizione" con il Pdl e l'Udc. Oltre metà degli elettori non lo seguirebbe. Preferirebbe, piuttosto, votare per la Sinistra. Oppure astenersi.

Ma neppure un'intesa "esclusiva" con l'Udc, quindi un patto di Centro-Sinistra, garantirebbe l'unità interna al Pd. La sua base elettorale si spezzerebbe. Un terzo opterebbe, egualmente, per la Sinistra. Con il risultato che prevarrebbe il Centrodestra (Pdl-Lega).

Resta, quindi, l'alleanza con la Sinistra. Con l'Idv e Sel. La più condivisa dagli elettori. Ma non priva di rischi. Perché, inoltre, accentuerebbe il peso degli orientamenti laburisti e di sinistra. Alimentando il disagio della componente "popolare" e "moderata" nel Pd.

3) C'è poi la questione delle Primarie. Non un semplice metodo di selezione del candidato alle elezioni (a diverso livello: nazionale e locale), ma un vero "mito fondativo", secondo la definizione di Arturo Parisi. Utilizzate anche per eleggere il leader del partito. Una procedura di mobilitazione degli elettori e dei simpatizzanti, progettata al tempo dell'Ulivo, soggetto politico "inclusivo" che mirava all'aggregazione delle forze politiche di centro-sinistra, sotto lo stesso tetto. Come l'Unione nel 2006.

Ma nel Pd, "partito" maggioritario ed "esclusivo", le Primarie, dopo il 2008, si sono trasformate in un metodo per scegliere il candidato di "un altro" partito. Nell'ultimo anno, è già avvenuto a Milano, Cagliari, Genova. Da ultimo a Palermo. E prima in Puglia. Naturalmente, il problema non è tanto le Primarie, quanto il Pd. Le cui divisioni si trasferiscono nelle Primarie. Occasione per regolare i conti interni, fra leader e componenti. Il che favorisce, ovviamente, i candidati di altre forze politiche.

Tuttavia, gli elettori di centrosinistra e del Pd si sono, ormai, "abituati" alle Primarie. Principale, se non unico, canale di partecipazione alle scelte del partito. Per cui, non a caso, i due terzi degli elettori del Pd si dicono disponibili a votare alle Primarie. Peraltro, il 35% le vorrebbe solo di partito. Una componente superiore (di circa 10 punti) a quella che si osserva nella base di Sel e Idv.

Il problema è che il Pd deve decidere cosa vuol diventare da grande. Un "cartello nazionale", in grado di aggregare molte forze diverse, come l'Ulivo. Oppure un Partito che mira ad attrarre gli elettori dell'area di centrosinistra, come il Pd nel 2008. Un'alternativa che condiziona l'ambito delle Primarie. A livello di partito o di coalizione.

4) Questi dilemmi si riflettono nella questione della leadership. Divenuta fondamentale al tempo della "democrazia del pubblico" (così definita da Bernard Manin), personalizzata e maggioritaria. Oggi, non esistono partiti senza leader che li impersonino. Semmai è vero il contrario. Presidenti senza partiti e, perfino, contro i partiti. È il lascito del Berlusconismo. E della sua crisi, colmata dal ruolo assunto da Napolitano e da Monti.

A questo proposito, è interessante notare come il leader che gode dei maggiori consensi, in vista delle prossime elezioni, fra gli elettori di centrosinistra, sia l'attuale segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Il quale prevale nettamente sugli altri possibili candidati. Degli altri partiti e dello stesso Pd. Bersani. Nonostante sia considerato un leader debole. Forse perché è, comunque, ritenuto competente. In grado di guidare il Governo meglio del partito. O forse perché proprio la sua "debolezza" lo rende adatto a interpretare i dilemmi del Pd.

Più che un soggetto coerente e strutturato: un aggregato politico, che raccoglie molte diverse storie, identità e culture. Senza riassumerle. Il che non gli ha impedito di divenire primo partito in Italia - per debolezza altrui. Ma gli ha permesso, anzi, di aggregare, con successo, altre forze politiche, in diverse occasioni recenti. Magari senza imporsi alla guida. Senza imporre la propria guida. Agli altri.

Un "partito impersonale", in mezzo a molti "partiti personali" e a due Presidenti senza partito. Può essere "impersonato", anzitutto e soprattutto, da una persona anti-carismatica. Un leader di buon senso. Un Bersani, insomma. (Detto senza ironia, né, tanto meno, con sufficienza.)

Ciò, semmai, solleva un altro dilemma. Riguarda il rinnovamento della classe dirigente. Tanto evocato quanto, fin qui, eluso e deluso. Impensabile e im-pensato dagli stessi elettori del Centrosinistra.

Il dubbio è se il Pd possa avvantaggiarsi della debolezza altrui - e propria - evitando di fare i conti con i suoi dilemmi, sin qui rinviati e irrisolti. Fino a quando gli sarà possibile? Non molto a lungo, penso.

(26 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/26/news/i_quattro_dilemmi_che_lacerano_il_pd-32207204/?ref=HRER1-1
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« Risposta #271 inserito:: Marzo 31, 2012, 10:28:50 pm »

La community degli individui che parlano da soli

Ilvo DIAMANTI

Dovunque, intorno a noi, persone che parlano da sole. Passeggiano e non guardano nessuno, gli occhi puntati di fronte a loro. Discutono, ridono, corrugano la fronte, alzano la voce. Ascoltano, rispondono piccate oppure divertite. Come fossero da sole. Perché effettivamente lo sono. Fisicamente. Sole in mezzo agli altri che sciamano intorno a loro. Ma insieme ad altre persone lontane, che parlano con loro. Anch'esse, sole. Con gli auricolari o i dispositivi blue tooth alle orecchie. Camminano. In centro o in periferia, per strada o in ufficio. Oppure se ne stanno a casa loro. Isolate dal resto della famiglia. Unite ad altre persone dal portatile. Dallo smartphone. Parlano oppure diteggiano. Mandano sms.

Da qualche tempo, sempre più spesso, sempre più numerosi: tweettano, inviano al mondo i loro messaggi, rigorosamente brevi e sincopati. Individui famosi e anonimi, senza differenze di classe, genere, ceto. Se hanno un po' di spazio, estraggono il tablet o il micropc, tanto micro da confondersi con un libro tascabile. E scrivono email. Si connettono a internet. Entrano nella loro "rete sociale". Su FB o altrove.
Non una Comunità, ma una Community. Dialogano attraverso un blog. Oppure partecipano a una riunione di lavoro. Tre, cinque, venticinque persone: distanti l'una dall'altra. Ciascuna in una città diversa, magari in un paese diverso. Dialogano in chat. Accedono a Skype e si guardano in faccia. Il viso slavato, le voci e le immagini che tremano un poco.

Un tempo, poco tempo fa, erano soprattutto i giovani a frequentare questa forma di community individualizzata. I ragazzi: maghi della comunicazione a distanza, attraverso il cellulare. Quando non erano in contatto con i loro pari, indossavano le cuffie e ascoltavano musica con l'iPod. Tanto per non rischiare il rapporto diretto con chi stava intorno a loro. Ma oggi le frontiere generazionali sono svanite.
Dovunque sciamano persone che parlano ad alta voce da sole, oppure dialogano con gli altri e con il mondo per sms. Le cuffie alle orecchie, non sentono e non vedono. Gli altri. Solo musica, magari un film.  Senza differenze né limiti d'età. Persone di ogni generazione.
Di ogni ceto. Affollano ogni luogo e ogni spazio. Le piazze, le strade, gli uffici, i treni, gli autobus. Una società autistica. (Con grande rispetto per gli "autistici" veri.) Dove  l'altro è una presenza lontana. Una voce incerta e intermittente. Un dito che batte su una tastiera. Una frase, qualche rigo, poche parole. Un volto sfocato e una voce asincronica. Un profilo. L'Altro: ipotetico e simulato.

(29 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/03/29/news/la_community_degli_individui_che_parlano_da_soli-32430154/
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« Risposta #272 inserito:: Aprile 02, 2012, 05:04:29 pm »

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Il principio del montismo

di ILVO DIAMANTI


NON HO mai pensato che il governo Monti fosse catalogabile come "governo tecnico", senza altri aggettivi. È un governo "politico".
Non solo perché ogni governo è, naturalmente, politico. Tanto più se, come in questo caso, è chiamato a gestire la crisi economica più grave del dopoguerra e la crisi politica più seria dopo il 1992. Ma soprattutto perché le ragioni che hanno portato al governo Monti e i tecnici sono "politiche". Legate alla fine di un ciclo durato quasi vent'anni: il Berlusconismo. Mario Monti, d'altronde, appare del tutto consapevole della propria "missione". Gad Lerner, nei giorni scorsi, ha parlato, non a caso, di ideologia" politica. Anzi, "biopolitica". E ha fatto riferimento, per questo, al "brutale disincanto" che connota la comunicazione di Monti. Alla cifra "liberal-liberista" della sua visione politica.

Poi, a una certa insofferenza spressa dal governo (cosiddetto) tecnico verso le logiche della concertazione e della mediazione. Tutto ciò è sicuramente vero. Tuttavia, Monti interpreta, prima ancora, l'insofferenza dei cittadini verso i soggetti della rappresentanza. I partiti, ma anche i sindacati. Lo fa in modo esplicito e consapevole.

E lo dichiara apertamente. Come a Tokio, alcuni giorni fa, quando ha rammentato che nei sondaggi "il governo ha un alto consenso e i partiti no". Un'affermazione difficile da contestare. Che può venire estesa anche ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali. In primo luogo Confindustria. Le proposte di riforma del mercato del lavoro e in particolare dell'articolo 18 hanno modificato questi orientamenti, riducendo il consenso verso il governo. Ma sicuramente non hanno alimentato la fiducia nei partiti e nei sindacati. Peraltro, secondo Ipsos di Pagnoncelli, l'azione del governo è tuttora valutata in modo positivo da oltre il 56% degli elettori. Una misura simile a quella rilevata dall'Ispo di Mannheimer: 54% (in risalita nell'ultima settimana). Un livello mai raggiunto dal governo Prodi dal 2006 al 2008, ma neppure dal governo Berlusconi negli anni successivi. Personalmente, inoltre, Mario Monti gode della fiducia del 60% dei cittadini. In altri termini: nonostante le scelte e le politiche del governo  -  ritenute poco eque, dal punto di vista sociale  -  abbiano suscitano l'insoddisfazione di ampi settori della popolazione, il sostegno verso Monti e il suo governo resta molto ampio. La maggioranza assoluta degli elettori si fida di lui assai più che degli altri leader politici. Del governo più che dei partiti e delle organizzazioni di categoria. Si fida, cioè, di figure non elette (anche se "votate" dal Parlamento) assai più che dei rappresentanti dei cittadini e degli interessi economici e sociali. Ciò solleva alcuni dubbi sulla legittimità della democrazia rappresentativa, in questa fase. D'altronde, mai come oggi sono apparsi tanto evidenti i limiti  della sovranità degli stati nazionali e delle istituzioni "democratiche" che li governano. Costretti ad adeguarsi ai vincoli imposti dai mercati e alle decisioni assunte dalle autorità sovranazionali. Politiche e istituzionali, ma soprattutto monetarie ed economiche. Mai come oggi gli "esperti" hanno assunto potere, a livello globale.

I partiti, d'altronde, risultano largamente "sfiduciati", anche perché essi, per primi, non riescono ad  autoriformarsi. Ma appaiono, invece, ulteriormente usurati da scandali e casi di corruzione che si ripetono. Mentre faticano a frenare la deriva oligarchica che li affligge. Infine, il rito fondativo delle democrazie rappresentative, le elezioni, appare anch'esso discusso e criticato. Vista l'insofferenza generalizzata verso l'attuale sistema elettorale. Vista la difficoltà di approvarne un altro, diverso, che restituisca ai cittadini maggiore possibilità di scelta e di controllo. Sugli eletti e sulle loro iniziative. Il risultato è che la sfiducia oggi intacca la legittimità dei partiti in quanto tali. Tanto che la maggioranza assoluta degli italiani (intervistati in un sondaggio Demos, marzo 2012)  -  per la precisione, il 52%,  -  approva l'idea che "la democrazia può funzionare anche senza i partiti". Cioè: 10 punti più di un anno e mezzo fa. Immaginare una democrazia senza partiti, però, significa mettere in dubbio l'utilità della democrazia rappresentativa, tout-court. D'altra parte, oltre il 60% dei cittadini, infatti, si dice favorevole a rinviare le elezioni del 2013, per far continuare Monti "fino a quando la crisi sarà risolta". Cioè: a proseguire con un governo non eletto, senza andare al voto. Fino a data da destinarsi. In ciò mi pare consista il segno essenziale del Montismo. Che va oltre lo "stile di azione e di governo". Al di là ell'ideologia delle politiche economiche e sociali intraprese. Il Montismo (come ho già scritto) mi sembra anzitutto una sorta di "aristocrazia democratica". "Democratica", perché dotata di consenso popolare e, comunque, sostenuta dal voto del Parlamento. Perché, inoltre, è temporanea e non ambisce a "riprodursi", come ripete spesso il suo artefice.

Tuttavia, si tratta indubbiamente di Aristocrazia. Perché la legittimazione di Monti e dei suoi ministri dipende da ragioni esterne al Parlamento e alla politica. Deriva dalle loro competenze "personali", adatte affrontare l'emergenza economica. Dalla credibilità loro riconosciuta presso le istituzioni economiche e monetarie internazionali. Presso gli altri governi. Deriva, al tempo stesso, dalla loro "diversità"  -  e alterità  -  rispetto ai partiti e ai politici "democraticamente" eletti. Per questo, quando sostiene che il "montismo non esiste" che, dopo le prossime elezioni, lui stesso sparirà, e torneranno governi "politici", Monti è sincero. Ma non per questo afferma il vero. Perché il "montismo" va oltre la sua persona e il suo governo. Al di là e oltre le intenzioni di Monti, il Monti riflette un sentimento popolare, in parte, antipolitico. Sicuramente antipartitico. L'assicurazione del premier che l'anno prossimo al governo torneranno i "politici", più che una promessa, a molti cittadini, appare una minaccia. Perché Monti e il Montismo, con le debite distanze e differenze, sono percepiti e concepiti da un'ampia parte degli elettori, come Tangentopoli vent'anni dopo. Cioè: uno strumento per "liberarsi" del sistema politico precedente. Allora: la Prima Repubblica. In questo caso: il Berlusconismo (e l'anti-Berlusconismo). Le logiche e gli attori che hanno guidato la Seconda Repubblica. Il Montismo, il "potere in mano ai tecnici", senza la mediazione dei partiti e senza la legittimazione elettorale, riflette, quindi, il disagio dei cittadini verso la nostra democrazia rappresentativa. Indica una domanda  -  confusa  -  di cambiamento, largamente condivisa. "Liberarsi" di Monti: eleggere un nuovo Parlamento e un nuovo governo, con queste regole, questi partiti, questi leader politici. Non basterà a superare il Montismo. Ma rischia di alimentare quella stanchezza della democrazia che si respira nel Paese.

(02 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/02/news/principio_montismo-32601764/?ref=HREC1-3
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« Risposta #273 inserito:: Aprile 06, 2012, 03:34:55 pm »


Bussole

Avanza l'Uomo Multitask

Ilvo DIAMANTI


AMMETTO che da qualche tempo, rileggendo le mie Bussole, mi scopro - di Bussola in Bussola - invecchiato. Perché vi leggo lo spaesamento.
Il "mio" spaesamento. Di fronte ai mutamenti che hanno stravolto il territorio e impoverito le relazioni sociali. Ma anche di fronte agli effetti sociali e soggettivi prodotti dall'innovazione. Insomma: ho difficoltà ad accettare il cambiamento.

Preciso: spaesamento non significa in-comprensione. Conosco - e in larga misura utilizzo - i nuovi strumenti dell'elettronica e della tecnologia comunicativa. Ne sono un consumatore affezionato e aggiornato. Da trent'anni almeno (per ragioni professionali, anzitutto.) Tuttavia stento ad accettarne l'impatto. Sul piano ambientale, sociale e della vita quotidiana. Ripeto: mi trovo anacronistico. Fuori tempo. Insomma: invecchiato.

Per esempio, io sono abituato a fare una cosa alla volta. Leggere o scrivere. Andare in bicicletta in mezzo alla campagna, al più, guardandomi intorno. Pensare. Preparare o ripetere, mentalmente, la mia lezione. Oppure il testo che intendo scrivere. E quando scrivo un testo, non riesco a fare altro che quello. E quando  sono a pranzo o a cena, posso, al massimo, dialogare con i miei familiari, con gli amici. O sbirciare il giornale  -  aiuta a non "affogarsi", a fare le cose con calma.

Dire: "sono" abituato, però, non è corretto. Meglio: "ero". Perché anch'io, ormai da tempo, ho cambiato abitudini. Perché sto diventando, a mia volta, un "Uomo Multitask". Per mimetismo con gli strumenti  -  tecnologici  - di cui mi servo. O che si servono di me. Come lo smartphone che mi accompagna fedele. Oggetto  -  e Soggetto  -  multimediale. E multi funzionale. Che fa, anzi: "è" molte cose, tutte insieme. Video e foto-camera, macchina fotografica, PC, riproduttore MP3, navigatore GPS, consolle per videogame, torcia elettrica, agenda, lettore di libri, sveglia, radio, tivù ...  E molte altre applicazioni, sempre nuove e sempre diverse, che si possono scaricare e installare con lo stesso mezzo. Attraverso lo smartphone. Con il quale è possibile, ogni tanto, anche telefonare (lo fanno solo i più anziani, appunto, come me) e inviare sms.

L'Uomo Multitask, coerentemente, è in grado di fare e di gestire molte cose insieme. All'ora - pardon: la mezz'ora - di pranzo con una mano mangia il panino più o meno caldo, o qualcos'altro, con l'altra scorre il giornale, mentre con lo smartphone e il blue tooth parla con qualcuno. Senza rinunciare a dare un occhio alle notizie che passano in tivù. I più virtuosi  riescono a utilizzare le due orecchie per funzioni diverse: ascoltano musica, oppure la radio e, insieme, telefonano magari accompagnando, con la voce, il ritmo della musica.

Allo stesso modo, nessuno corre, fa footing oppure va in bici senza fare, insieme, due o tre di queste attività. Telefonare, chattare, ascoltare musica, inviare sms, bere un integratore, mangiucchiare una barretta energetica... Alcuni, i più spericolati e pericolosi, per sé e soprattutto per gli altri, si dedicano a più attività anche quando guidano. Li vedi passare con una mano sul volante e l'altra che impugna il telefonino. Quando va bene. Perché a volte hanno due telefonini, due smartphone. E li usano contemporaneamente. Magari con uno messaggiano e con l'altro telefonano. Senza, ovviamente, viva voce né auricolare. Per cui li vedi passare "senza mani" sul volante. Lo orientano, nel caso, con i gomiti. Ogni tanto danno un'occhiata al giornale, appoggiato sul sedile accanto. Oppure alla tivù, che nelle auto più avanzate e lussuose è installata sul cruscotto. Insieme alla radio e al dispositivo USB per ascoltare musica. Sempre attivi.

L'Uomo Multitask segna una decisa svolta nel rapporto fra le persone e il mondo intorno. (D'altronde, l'Human Multitasking è un'area sviluppata da tempo in diversi settori scientifici). Senza pretendere di spiegare quel che io stesso stento a capire, mi pare però che da questa tendenza emerga (e si propaghi) un soggetto flessibile, sempre connesso. Naturalmente in grado di combinare luoghi, relazioni, attività differenti. Senza soluzione di continuità. Senza fermarsi. Senza fissarsi su uno specifico punto e su una specifica pratica per più di qualche minuto. In grado, per questo, di fare molte cose e nessuna in particolare. Con il rischio, per questo, di essere meno "connesso" con il mondo intorno. Di apparire e di sentirsi sempre di passaggio. Come se fosse lì per caso.

È ciò che provo anch'io, perché anch'io sto diventando così. Solo che, mentre cerco di gestire molti compiti e  molte funzioni, nello stesso momento, mi sento - e sono - imbranato. A disagio. Perché io resto, tendenzialmente, Unitask. Agire da Multitask mi costa fatica. Come muovermi in mezzo al cyberspazio immobiliare e sociale che mi circonda. Lo comprendo, lo conosco. Ma non mi ci riconosco.

(06 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/04/06/news/avanza_l_uomo_multitask-32834930/
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« Risposta #274 inserito:: Aprile 10, 2012, 12:02:59 pm »

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La Repubblica provvisoria

Lo scandalo che ha travolto il Carroccio, la fine del berlusconismo segnano la fine di un'epoca.

Che lascia la 'questione settentrionale' senza rappresentanza. E che necessità una legislatura costituente

di ILVO DIAMANTI

È FINITA un'epoca. Ripeterlo, come un mantra, serve a evitare di appiattirsi sulla cronaca (giudiziaria o di colore). Che ogni giorno riserva novità. Ieri le dimissioni del figlio del Capo  -  Renzo Bossi  -  dal Consiglio regionale della Lombardia. Oggi chissà.

Ma gli scandali che hanno travolto il milieu familiare  -  forse meglio: familista  -  di Bossi, insieme alla leadership della Lega (in parte coincidenti), rammentano quanto già si conosceva. Che la Lega è divenuta, da tempo, un partito come gli altri. Per alcuni versi: più esposto degli altri alle logiche di sotto-governo.

Perché ha occupato una catena infinita di posti di potere, centrale e locale, in tempi molto rapidi. E la sua classe politica è stata reclutata in base a criteri di fedeltà ai leader, non di coerenza con la "missione" del partito. Tanto meno di qualità.

Tuttavia la Lega non è - o almeno: non era - un partito come gli altri. È il soggetto politico che ha rovesciato la "Questione nazionale", storicamente identificata con il Mezzogiorno - l'area dello "sviluppo dipendente". Ha, invece, interpretato la cosiddetta "Questione Settentrionale". Espressa dalle province pedemontane del Lombardo-Veneto. Protagoniste, dopo gli anni Settanta, della crescita impetuosa della piccola e media impresa. La Lega ne è divenuta portabandiera. Ha interpretato la domanda di rappresentanza dei lavoratori autonomi
e dipendenti che popolano questo territorio di piccole città e di piccole aziende. La Pedemontania.

La crisi della Lega è avvenuta all'indomani delle dimissioni del Cavaliere. Non a caso. Perché Berlusconi ha rappresentato l'altra faccia della "Questione Settentrionale". Milano e il capitalismo dei "beni immateriali" (per citare Arnaldo Bagnasco): media, comunicazione, assicurazioni, finanza, servizi. Naturalmente complementare alla politica, per ragioni di "mercato", spazi, concessioni.

Due Nord alternativi al capitalismo metropolitano della grande produzione di massa. Alla Fiat, insediata a Torino e alleata con Roma. Milano e la Pedemontania erano destinati a incontrarsi. A stabilire un rapporto di reciproco interesse, per quanto concorrenziale. Com'è avvenuto. Dal 1994 fino a ieri. Con alterne vicende. La vittoria e l'esperienza di governo, insieme, nel 1994 e, dopo pochi mesi, la rottura. Berlusconi all'opposizione e la Lega verso la secessione. In caduta: dal 10% nel 1996 a poco più del 4% nel 1999.

Destinati, dunque, a tornare insieme. Per vincere, nel 2001, e governare per 10 anni, quasi ininterrotti. Insieme. Berlusconi e Bossi, l'Imprenditore e il Territorio. Milano e la Pedemontania: a Roma. Per cambiare l'Italia. Per riformarla a misura del loro popolo, dei loro elettori. Che chiedevano - e chiedono - di essere "liberati": dalle tasse, dalla burocrazia, dal peso del pubblico, dai privilegi della classe politica - "romana" e "meridionale". Dal centralismo.

Nulla di tutto ciò si è avverato. La pressione fiscale è cresciuta. Il federalismo: approvato a parole. Mai tradotto in regole e strutture amministrative efficienti. I privilegi politici: mantenuti e moltiplicati. Insieme alla corruzione. Infine, la crisi globale - a lungo negata dal governo del Nord - ha colpito pesantemente l'Italia. Ma anche il Nord. Il piccolo Nord, il Nord dei piccoli: punteggiato dai suicidi di artigiani che non ce la fanno. Il Nord di Berlusconi, dei media e dei servizi: alla ricerca crescente di protezione politica. (Il leader: impegnato a proteggere se stesso e le proprie imprese).

Così la Lega, da Sindacato del Nord, si è trasformata in un partito come gli altri. Centralizzato e personalizzato. Senza più guida e senza controlli, dopo la malattia del Capo. In balia di colonnelli, caporali e parenti. Mentre il Pdl, ultima versione del partito personale di Berlusconi, si è meridionalizzato. Il declino del Capo l'ha lasciato senza identità e senza missione.

Così è s-finita l'avventura dei partiti del Nord alla conquista di Roma. Anche se la decomposizione della leadership leghista non significa, necessariamente, scomparsa della base elettorale. Fino a ieri era stimata intorno al 10%. E il suo elettorato più stabile e fedele, circa il 4%, dagli anni Novanta ad oggi appare insensibile a ogni rovescio. Né, d'altronde, le dimissioni di Berlusconi significano la scomparsa del suo elettorato. Quel 25% di elettori che l'hanno votato per oltre 15 anni dove e a chi si rivolgerà?

Il Centrosinistra, che pure ha governato per circa 7 anni, appare, da sempre, attraversato da profonde divisioni interne. In grado di competere, nel Nord, alle elezioni amministrative. Molto meno alle elezioni politiche. Tuttavia, la rappresentanza dei partiti del Nord oggi si presenta molto indebolita.

Così si chiude l'epoca del Grande Imprenditore e del Piccolo Nord. Senza riforme memorabili. Quelle promesse di vent'anni fa ce le siamo dimenticate. Questo "Paese eternamente provvisorio" (per citare Berselli) oggi è provvisoriamente affidato a un Grande Tecnico. Nominato dai partiti (maggiori) per garantire i mercati internazionali e l'opinione pubblica nazionale. Contro se stessi. Cioè: contro la minaccia dei partiti.

Tuttavia, è impossibile immaginare un futuro per questo Paese, senza riforme profonde. In grado non solo di controllare i "costi" della politica. Ma di ridisegnare lo Stato e le istituzioni. E di ricostruire la Politica e i Partiti. Perché senza Politica e senza Partiti non è possibile riformare lo Stato e le Istituzioni. Inutile illudersi che Monti e i suoi Tecnici (perlopiù del Nord) ce la possano fare, da soli.

Basti pensare alle difficoltà incontrate nel modificare l'articolo 18. Figurarsi cosa avverrebbe se si affrontasse una revisione costituzionale sostanziale. Non è un caso che Monti continui a citare i sondaggi - per legittimarsi. Come un Berlusconi qualsiasi. Ma la democrazia rappresentativa non può fondarsi sul verdetto dei sondaggi. Sostituendo il corpo elettorale con un campione di persone intervistate dagli istituti demoscopici.

Così, la fine dell'epoca di Berlusconi e di Bossi non risolve i problemi di questa "Repubblica provvisoria". Li lascia sospesi. La "questione settentrionale": senza rappresentanza. E, prima ancora, la "questione nazionale". In attesa di riforme che il governo del Nord non è riuscito a fare. E che il governo dei Tecnici non è in grado di realizzare. Questo Parlamento non glielo permetterebbe. Appartiene al passato. Bisogna, per questo, attendere nuove elezioni. Un nuovo Parlamento. E, a mio avviso, una nuova "Assemblea costituente".

 
(10 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #275 inserito:: Aprile 27, 2012, 04:27:45 pm »



Ilvo DIAMANTI

Naturalmente, non tutti i tifosi sono ultrà. Al contrario, rispetto ai tifosi, gli ultrà sono una frazione. Quelli violenti, poi, sono pochi, pochissimi. A Genova: poche decine, al massimo un centinaio. Ma domenica scorsa hanno paralizzato l'intero stadio. Tenuto in ostaggio molte migliaia di persone. Imposto ai giocatori di svestire la maglia del club. La divisa, la bandiera. Davanti al pubblico di tutta Italia. Rilanciati più volte. In ogni rete, a ogni ora, in ogni trasmissione di informazione. Perché lo spettacolo dell'indignazione retrospettiva funziona sempre in Italia. La ricerca dei responsabili. Ma solo dopo l'evento. I giocatori, le società sportive, le federazioni, le forze dell'ordine, gli "altri" tifosi  -  pavidi. Tutti colpevoli, dunque nessun colpevole. Come tante altre volte, in tante altre occasioni. Difficile dimenticare il derby Roma-Lazio, nel 2004, sospeso a Roma, per volontà dei tifosi, in seguito alla morte di un bimbo, appena fuori dello stadio. Non era vero. Ma tant'è. Impossibile fermare la foll(i)a, quando esplode nei campi di gioco. Invece, era vero il sangue di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso da un proiettile sparato, in una piazzola di sosta autostradale, da un agente. Ed è vera la selvaggia guerriglia scatenata a Roma, in  serata, da centinaia di ultrà. Per celebrare il loro povero compagno.

 Ma gli episodi simili, piccoli, medi e grandi, sono molti. Troppi. In molti stadi italiani, di ogni area, di ogni serie. Al punto che quando capitano non ci sorprendiamo neppure più. Tanto in Italia non paga mai nessuno. I tifosi violenti condannati, al massimo, a guardare la propria squadra da casa. (Ma non giurerei che non riescano ad aggirare il DASPO.)  Le società "costrette" a giocare un paio di partite a porte chiuse. (D'altronde, anche quando sono aperte, gli stadi sono largamente vuoti.) Mentre le federazioni e la Lega sono troppo impegnate ad azzuffarsi per i diritti televisivi per perdere tempo dietro inezie come queste. E i calciatori che si levano la maglia poi tornano in campo, la settimana dopo. Con la stessa maglia. Negli stessi stadi. Davanti allo stesso pubblico. Senza pagare pegno.

Gli ultrà. Sono pochi, magari non pochissimi. L'1,8% si dichiara tale  -  secondo l'Osservatorio sul tifo di Demos-coop (nell'ultima rilevazione, del settembre 2011). Peraltro, non tutti "violenti", ci mancherebbe. Quelli che minacciano, sparano fumogeni in campo, cantano cori infami, esibiscono striscioni che mescolano razzismo, nazismo e idiozia: sono la minoranza minima di una minoranza. D'altronde, gli ultrà sono infiltrati da frazioni politiche estremiste, a cui interessa conquistare visibilità. Per sé e i propri odiosi messaggi di odio. Viceversa, vi sono ultrà che si infiltrano in manifestazioni violente, a sfondo politico. Così, per tenersi allenati. O perché i due estremismi si congiungono.

Il fatto è che il calcio, ormai, tutto è diventato meno che uno sport. È uno spettacolo e un gioco  -  ma d'azzardo. Un'arena dove si misurano, incontrano e scontrano minoranze. Allo stadio, d'altronde, non ci va quasi più nessuno. Tutti davanti alla TV. A vedere partite il cui risultato è sempre in dubbio. Nel senso che ti resta il dubbio: se l'incontro a cui hai assistito sia reale oppure taroccato.

Ma tutto ciò avviene dentro a una società connivente o comunque indifferente. Gli ultrà: sono il 2% ma il 33% li considera utili allo spettacolo (uno spettacolo nello spettacolo, come domenica scorsa).  Magari ne condanna le "intemperanze", ma con molta indulgenza.

D'altra parte, in Italia, il 50% si dicono tifosi. Tre quarti di essi:  caldi e militanti. In gran parte: ritengono gli scandali che da anni investono il calcio fondati. Il 55% dei tifosi, quando gli arbitri sbagliano, pensa alla malafede. Due tifosi su tre, inoltre, considerano "Calciopoli" un caso di giustizia sportiva viziata da molti errori. Oppure palesemente ingiusto. Quanto allo "scandalo scommesse", i due terzi dei tifosi ritiene che abbia coinvolto molti giocatori e molte società. Gran parte dei tifosi, quindi, ritiene l'ambiente del calcio inquinato. In-credibile. Ma ciò non costituisce un argomento sufficiente a squalificarlo. Ad abbandonarlo. Quel che conta, par di capire, è vincere, non partecipare. E se anche il calcio fosse davvero inquinato da scommesse, corruzione, condizionamenti arbitrali, intese tacite, ebbene, in Italia così fan tutti. Dappertutto. In politica, negli affari, nel lavoro.

Perché scandalizzarsi? Così è la vita.   
 

(26 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #276 inserito:: Aprile 30, 2012, 10:10:28 pm »


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Il Paese dei penultimi

di ILVO DIAMANTI

IL PRIMO maggio, quest'anno, rischia di essere una festa triste per i protagonisti. I lavoratori. Ma anche il lavoro. Come fonte di reddito. Come riferimento dell'identità e come risorsa di promozione sociale. Il lavoro. Principio della Repubblica, sancito dalla Costituzione. Oggi è divenuto incerto. Insieme alla struttura sociale, di cui è base e fondamento.

L'Osservatorio su Capitale Sociale di Demos-Coop 1, infatti, rileva come oltre metà degli italiani (il 53%) percepisca la posizione sociale della propria famiglia "bassa" o "medio-bassa". Il che significa: oltre 11 punti in più rispetto a un anno fa. E soprattutto: quasi il doppio rispetto al 2006. Detto in altri termini, in pochi anni, l'Italia è divenuto un Paese di "ultimi". O, al massimo, di "penultimi". Dove il 37% delle persone insiste a considerarsi parte della "classe operaia" (e il 15% delle "classi popolari"). Anche se pare che gli operai non esistano più.

La fine del berlusconismo ha, dunque, decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po' di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi,
sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito dell'imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%.

Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l'impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell'anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell'ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro.

Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l'ottimismo. Fino a un anno fa, era l'ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo "nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po') comunisti.

Nel 2003, circa il 40% degli italiani si diceva soddisfatto della condizione economica personale e di quella del Paese. Oggi quelli che esprimono la medesima convinzione sono poco più del 10%. In confronto all'anno scorso: la metà. D'altronde, nell'ultimo anno, il 45% degli italiani afferma di aver tirato avanti a fatica, con il proprio reddito, senza riuscire a metter da parte nulla. Oltre il 40% dichiara, anzi, di aver dovuto attingere ai propri risparmi oppure di aver fatto ricorso a prestiti. Insomma: di essersi impoverito. Non a caso, negli ultimi due anni, il 62% delle persone (intervistate da Demos-Coop) ritiene che la propria condizione economica sia "peggiorata".
Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi", coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno. Rispetto a qualche anno fa, il ritratto tracciato dall'Osservatorio di Demos-Coop descrive un altro Paese. Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il "prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri.

Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l'altro - credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L'arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l'avremmo fatta, comunque. Noi, che quando il gioco si fa più duro, abbiamo sempre dato il meglio. In grado di utilizzare come una risorsa perfino la povertà di senso civico, alimentata da un sistema pubblico poco efficiente. O meglio: un segno coerente con la storia del nostro Paese. Dove la società è tradizionalmente più forte dello Stato. Ed è sempre stata capace di affrontare sfide ed emergenze, con mezzi leciti e talora illeciti. Attraverso l'economia formale e quella sommersa. Il lavoro ufficiale e quello nero. La pressione e l'evasione fiscale. Oggi questo modello sembra in seria difficoltà. Perché i suoi fondamenti e i suoi meccanismi rischiano di logorarsi. La famiglia e il familismo, il risparmio, il localismo: non garantiscono più le stesse "prestazioni" di una volta. L'arte di arrangiarsi: non appare più reattiva come prima. Siamo meno convinti che, comunque, "ce la faremo" da soli. Con o senza lo Stato. La stessa riluttanza verso le regole, la fuga nel sommerso: appaiono, sempre più, un costo e perfino un danno sociale. E suscitano, per questo, insofferenza. Non a caso quasi 6 italiani su 10 considerano l'evasione fiscale un comportamento deprecabile. D'altronde, i controlli a sorpresa condotti dalla Guardia di Finanza in alcuni contesti particolarmente visibili, con finalità esemplari e spettacolari, hanno registrato largo consenso, nella popolazione.

Ma, soprattutto, ci penalizza il deficit di futuro e di comunità. L'incapacità di vedere lontano, di costruire relazioni con gli altri. Nessuno come noi, in Europa, guarda con sfiducia il futuro delle giovani generazioni. Forse perché nessuno come noi, in Europa, è invecchiato tanto e tanto in fretta. Così rischiamo di perderci. Perché la fiducia nello Stato, nel sistema pubblico e nella politica resta bassa. E, anzi, continua a calare. Ma le nostre tradizioni e le nostre istituzioni sociali non ci soccorrono più.

(30 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #277 inserito:: Maggio 02, 2012, 10:25:34 am »

Il Paese degli ultrà

Ilvo DIAMANTI

Naturalmente, non tutti i tifosi sono ultrà. Al contrario, rispetto ai tifosi, gli ultrà sono una frazione. Quelli violenti, poi, sono pochi, pochissimi. A Genova: poche decine, al massimo un centinaio. Ma domenica scorsa hanno paralizzato l'intero stadio. Tenuto in ostaggio molte migliaia di persone. Imposto ai giocatori di svestire la maglia del club. La divisa, la bandiera. Davanti al pubblico di tutta Italia. Rilanciati più volte. In ogni rete, a ogni ora, in ogni trasmissione di informazione. Perché lo spettacolo dell'indignazione retrospettiva funziona sempre in Italia. La ricerca dei responsabili. Ma solo dopo l'evento. I giocatori, le società sportive, le federazioni, le forze dell'ordine, gli "altri" tifosi  -  pavidi. Tutti colpevoli, dunque nessun colpevole. Come tante altre volte, in tante altre occasioni. Difficile dimenticare il derby Roma-Lazio, nel 2004, sospeso a Roma, per volontà dei tifosi, in seguito alla morte di un bimbo, appena fuori dello stadio. Non era vero. Ma tant'è. Impossibile fermare la foll(i)a, quando esplode nei campi di gioco. Invece, era vero il sangue di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso da un proiettile sparato, in una piazzola di sosta autostradale, da un agente. Ed è vera la selvaggia guerriglia scatenata a Roma, in  serata, da centinaia di ultrà. Per celebrare il loro povero compagno.

 Ma gli episodi simili, piccoli, medi e grandi, sono molti. Troppi. In molti stadi italiani, di ogni area, di ogni serie. Al punto che quando capitano non ci sorprendiamo neppure più. Tanto in Italia non paga mai nessuno. I tifosi violenti condannati, al massimo, a guardare la propria squadra da casa. (Ma non giurerei che non riescano ad aggirare il DASPO.)  Le società "costrette" a giocare un paio di partite a porte chiuse. (D'altronde, anche quando sono aperte, gli stadi sono largamente vuoti.) Mentre le federazioni e la Lega sono troppo impegnate ad azzuffarsi per i diritti televisivi per perdere tempo dietro inezie come queste. E i calciatori che si levano la maglia poi tornano in campo, la settimana dopo. Con la stessa maglia. Negli stessi stadi. Davanti allo stesso pubblico. Senza pagare pegno.

Gli ultrà. Sono pochi, magari non pochissimi. L'1,8% si dichiara tale  -  secondo l'Osservatorio sul tifo di Demos-coop (nell'ultima rilevazione, del settembre 2011). Peraltro, non tutti "violenti", ci mancherebbe. Quelli che minacciano, sparano fumogeni in campo, cantano cori infami, esibiscono striscioni che mescolano razzismo, nazismo e idiozia: sono la minoranza minima di una minoranza. D'altronde, gli ultrà sono infiltrati da frazioni politiche estremiste, a cui interessa conquistare visibilità. Per sé e i propri odiosi messaggi di odio. Viceversa, vi sono ultrà che si infiltrano in manifestazioni violente, a sfondo politico. Così, per tenersi allenati. O perché i due estremismi si congiungono.

Il fatto è che il calcio, ormai, tutto è diventato meno che uno sport. È uno spettacolo e un gioco  -  ma d'azzardo. Un'arena dove si misurano, incontrano e scontrano minoranze. Allo stadio, d'altronde, non ci va quasi più nessuno. Tutti davanti alla TV. A vedere partite il cui risultato è sempre in dubbio. Nel senso che ti resta il dubbio: se l'incontro a cui hai assistito sia reale oppure taroccato.

Ma tutto ciò avviene dentro a una società connivente o comunque indifferente. Gli ultrà: sono il 2% ma il 33% li considera utili allo spettacolo (uno spettacolo nello spettacolo, come domenica scorsa).  Magari ne condanna le "intemperanze", ma con molta indulgenza.

D'altra parte, in Italia, il 50% si dicono tifosi. Tre quarti di essi:  caldi e militanti. In gran parte: ritengono gli scandali che da anni investono il calcio fondati. Il 55% dei tifosi, quando gli arbitri sbagliano, pensa alla malafede. Due tifosi su tre, inoltre, considerano "Calciopoli" un caso di giustizia sportiva viziata da molti errori. Oppure palesemente ingiusto. Quanto allo "scandalo scommesse", i due terzi dei tifosi ritiene che abbia coinvolto molti giocatori e molte società. Gran parte dei tifosi, quindi, ritiene l'ambiente del calcio inquinato. In-credibile. Ma ciò non costituisce un argomento sufficiente a squalificarlo. Ad abbandonarlo. Quel che conta, par di capire, è vincere, non partecipare. E se anche il calcio fosse davvero inquinato da scommesse, corruzione, condizionamenti arbitrali, intese tacite, ebbene, in Italia così fan tutti. Dappertutto. In politica, negli affari, nel lavoro.

Perché scandalizzarsi? Così è la vita.   
 

(26 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #278 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:52:39 am »

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C'era una volta il Paese dei sindaci

di ILVO DIAMANTI


Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent'anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All'elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell'Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell'Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d'opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all'opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l'attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all'Udc. Spesso diviso in diverse liste. L'Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all'Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all'Udc, in competizione con Sel e/o l'Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un'occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po' semplicisticamente, nella formula dell'antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L'ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent'anni fa, nel 1993, la legge sull'elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent'anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall'emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l'esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

(06 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #279 inserito:: Maggio 07, 2012, 10:46:21 pm »

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C'era una volta il Paese dei sindaci

di ILVO DIAMANTI


Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent'anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All'elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell'Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell'Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d'opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all'opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l'attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all'Udc. Spesso diviso in diverse liste. L'Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all'Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all'Udc, in competizione con Sel e/o l'Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un'occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po' semplicisticamente, nella formula dell'antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L'ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent'anni fa, nel 1993, la legge sull'elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent'anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall'emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l'esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

(06 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/06/news/paese_sindaci-34533169/?ref=HREC1-7
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« Risposta #280 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:12:44 pm »

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La Terza Repubblica che non sa dove andare

Pdl e Lega senza leader e identità. Il Pd tiene, Grillo forte sul territorio. Il Carroccio resiste ma a fatica. La valenza politica del Movimento 5 Stelle. Eccoli, i verdetti del voto per le comunali. Con effetti politici importanti sul piano nazionale

di ILVO DIAMANTI

SI TRATTA solo di amministrative. Elezioni che hanno coinvolto una quota ridotta di popolazione e di Comuni. Un test, in fondo, limitato. Peraltro, molti giochi sono ancora aperti, visto che in tre quarti dei Comuni maggiori si andrà al ballottaggio. Eppure, i risultati del primo turno sono destinati a produrre effetti politici significativi sul piano nazionale.

Le prime elezioni nell'era del Montismo hanno, anzitutto, suggerito che, insieme a Berlusconi, stia uscendo di scena anche il suo "partito personale". Quasi per conseguenza automatica e naturale. Il Pdl. In caduta, dovunque. Da Nord a Sud passando per il Centro. Non è facile decifrare i dati di elezioni specifiche, come quelle amministrative. Caratterizzate dalla presenza di molte liste civiche.

Tuttavia, nei Comuni capoluogo, rispetto alle elezioni amministrative precedenti, il Pdl ha dimezzato il suo peso elettorale: è passato dal 30% al 14% (media delle medie). Governava in 95 Comuni (maggiori), insieme alla Lega. Al primo turno ne ha perduti 45 (inclusi quelli in cui è escluso dal ballottaggio). Ne ha mantenuti 5, conquistandone uno solo di nuovo. Negli altri 45 andrà al ballottaggio. In 16 Comuni, però, è in sensibile svantaggio.

A livello locale, peraltro, il Pdl non aveva mai avuto basi solide e radicate. Ma senza Berlusconi ha perduto identità, senso.
In qualche misura, speranza. Così ha travolto, nella slavina, anche il retroterra di An. Che, invece, fino a ieri, disponeva di una presenza diffusa in molti contesti. Soprattutto nel Sud.

2. La Lega resiste. Ma a fatica. Il risultato di Verona si deve, esclusivamente, a Tosi. È un voto "personale". Per molti versi, espresso "contro" la Lega di Bossi. Tosi, infatti, è il principale alleato di Maroni, come ha ribadito anche in questi giorni. Verona, d'altronde, non è una roccaforte storica della Lega, che si è insediata in città (e nell'area) solo nell'ultimo decennio. Prima era una zona di forza della Destra, da cui Tosi ha attinto molti consensi. Allargandoli in misura ampia, con la sua azione. E amministrazione.

Altrove, però, la Lega non ha fatto bene. Complessivamente, nei Comuni dov'era presente, la Lega ha perduto poco rispetto alle amministrative del 2007, ma ha dimezzato la percentuale del voto rispetto alle politiche del 2008 e le europee del 2009. Fra le 12 città maggiori al voto dove il sindaco uscente era leghista, la Lega ha perduto in 5 e in altrettante è al ballottaggio. Oltre a Verona, al primo turno ha vinto solo a Cittadella. Una roccaforte nel cuore del Veneto. Luogo quasi simbolico. Evoca la Lega che non è scomparsa, come alcuni ipotizzavano (e auspicavano). Ma "resiste" all'assedio. Ha reagito meglio nei Comuni più piccoli, inferiori a 15 mila abitanti (secondo l'analisi dell'Istituto C. Cattaneo).

Tuttavia, le sarà difficile, su queste basi, riproporsi come "partito del Nord". Tanto più perché perdere sindaci e peso nelle amministrazioni locali significa perdere radicamento nella società e nel (suo) territorio.
Dove oggi appare un soggetto politico minoritario.

3. Ne deriva che il Pdl e la Lega, al di fuori dell'alleanza di centrodestra, risultino perdenti. Su base locale e non solo. D'altronde, anche un anno fa, alle amministrative, anche se alleati, avevano subito un notevole arretramento e alcune sconfitte pesanti. Per prima: Milano.

Ma oggi, che Pdl e Lega corrono ciascuno per conto proprio, e anzi, uno contro l'altro, il loro futuro appare quanto meno difficile. D'altronde, solo Berlusconi era riuscito a coalizzarli, a farli stare insieme. Con argomenti efficaci. Per forza e/o per interesse. Il rapporto fra i due partiti, peraltro, era molto "personalizzato". Fondato sulle relazioni dirette fra Berlusconi e Bossi. Ma oggi il ruolo dei due leader si è ridimensionato e anche il legame fra i partiti si è sensibilmente allentato.

In concreto, nel centrodestra si è aperto un vuoto di rappresentanza politica che non è chiaro come e da chi possa venire colmato.

4. Nel centrosinistra la situazione appare migliore. Soprattutto perché i partiti che ne fanno parte hanno, perlopiù, confermato l'alleanza. Anche se con geometrie variabili. Punto fisso: il Pd, che ha costruito intorno a sé diverse intese. In prevalenza, con la sinistra, ma anche insieme all'Udc.

Al primo turno, nei capoluoghi di provincia ha tenuto, passando (in media) dal 19% al 17%: 2 punti in meno. Inoltre, nei 53 Comuni dov'era al governo, prima di queste elezioni, dopo il primo turno ne ha riconquistati 14 e altri 11 li ha strappati al Centrodestra. Eppure è indubbio che anche in quest'area emergano segni di sofferenza. Nel Pd - ma anche nel centrosinistra. Il quale non riesce a capitalizzare il crollo del centrodestra.

Subisce, nelle sue aree, il peso dell'astensione. Che raggiunge non a caso il massimo nelle zone rosse: in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.

E, ancor di più, è incalzato dalla concorrenza del Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. La sorpresa di questa consultazione. Dove i suoi candidati sono al ballottaggio in 5 Comuni oltre 15 mila abitanti (tra cui Parma). A Sarego, piccolo comune in provincia di Vicenza, è riuscito a fare eleggere il suo candidato sindaco. Il risultato del Movimento 5 Stelle, però, appare rilevante soprattutto per il livello dei consensi ottenuti un po' dovunque. Oltre il 10%, in media, nei Comuni capoluogo. Il 9% nell'insieme dei Comuni dove è presente. In alcuni contesti, peraltro, ha ottenuto performance importanti. Intorno al 20%.

5. La tendenza - e la tentazione - diffusa è di etichettarlo come un fenomeno "antipolitico". Equivalente e alternativo rispetto all'astensione. Una valutazione che mi sembra poco convincente.

A) Perché è comunque un soggetto "politico" che ha partecipato a una competizione democratica chiedendo e ottenendo voti. Facendo eleggere i propri candidati.

B) Poi perché il suo successo deriva, sicuramente, dalla critica contro il sistema di Grillo, ma anche dal fatto che il Movimento ha coagulato gruppi e leader attivi a livello locale. Impegnati su questioni e temi coerenti con quelli affrontati nel referendum di un anno fa. Collegati alla tutela dell'ambiente, ai beni pubblici. Alla lotta contro gli abusi. Progetti di "politica locale" promossi da persone a interessi privati e a lobby. Per questo credibili, in tempi scossi da scandali e polemiche sulla corruzione politica.

C) Infine, perché i loro elettori sono tutto fuor che "impolitici". Mostrano un alto grado di interesse per la politica (sondaggio Demos, aprile 2012). Certo, un terzo di essi, alle elezioni politiche del 2008, si è astenuto. Ma il 25% ha votato per il Pd e il 16% per l'Idv. Il Movimento 5 Stelle, per questo, rivela il disagio verso i partiti. Soprattutto fra gli elettori dell'area di centrosinistra. Ma non solo: un'analisi dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo sul voto di Parma, infatti, rileva una componente di elettori sottratti alla Lega (3% sul totale, rispetto alle regionali del 2010). Il Movimento 5 Stelle, dunque, offre a una quota di elettori significativa una rappresentanza, che può non piacere, ma è "politica".

Io, comunque, sono sempre convinto che sia meglio un voto, qualsiasi voto, del vuoto. Politico.
Nell'insieme, questi risultati rafforzano l'impressione che il Paese sia ormai oltre la Terza Repubblica, fondata da - e su - Berlusconi e il Berlusconismo. Ma non sappia dove andare.

Con questi partiti, questi leader, questi schieramenti, queste leggi elettorali e con questo sistema istituzionale: temo che passeremo ancora molto tempo a discutere di antipolitica. Per mascherare la miseria della politica.
 

(09 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #281 inserito:: Maggio 14, 2012, 04:10:20 pm »

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Che senso ha morire per il lavoro

di ILVO DIAMANTI

VIVIAMO tempi violenti, pervasi, come ha affermato ieri Mario Monti, da una "profonda tensione sociale". Di cui è indice - e fattore - il riemergere del terrorismo. Che usa la vita e ancor più la morte come un messaggio. Uno spot da proiettare nel circuito  -  e nel circo  -  mediatico. Senza il quale e al di fuori del quale: nulla esiste. Lo stesso avviene, d'altronde, nel mondo del lavoro. Dove togliersi la vita fa notizia. Molto più che perderla lavorando. I morti sul lavoro, infatti, sono un fenomeno antico, esteso e in costante aumento. (Ce lo rammenta la preziosa opera di documentazione e informazione svolta dall'Osservatorio Indipendente di Bologna di Carlo Soricelli). E, tuttavia, quasi invisibile, se non in casi eccezionali  -  quando muoiono in tanti in un colpo solo. Come nel caso della Thyssen Krupp di Torino, nel 2007.

I suicidi, invece, suscitano grande attenzione ed emozione, in questi tempi. I media li inseguono, giorno dopo giorno. Offrono l'immagine di un'onda anomala e senza fine. Anche se i dati raccontano una storia diversa. Infatti, come osserva Marzio Barbagli, sulla base delle statistiche dell'Istat: "I suicidi in questa categoria sociale c'erano anche negli anni passati, più o meno con la stessa frequenza". Anzi, dal 2009 ad oggi, sarebbero diminuiti. Tuttavia, la visibilità mediale di un fenomeno non è mai casuale. Basti pensare allo spazio riservato dai media alla criminalità comune, trattata come un serial, sceneggiato e riprodotto dai Tg
e dai talk del pomeriggio e della sera. Senza soluzione di continuità. Al di là di ogni variazione statistica del fenomeno, riflette, soprattutto, la passione dei media per la cronaca nera tradotta in "romanzo criminale". Basti pensare, ancora, allo spazio riservato dall'informazione all'immigrazione, negli anni fra il 2007 e il 2009. In seguito ridimensionato drasticamente. Una tendenza dettata da ragioni  -  e pressioni  -  politiche più che da mutamenti quantitativi dei flussi migratori. Penso, invece, che la visibilità riservata ai suicidi, in questa fase, oltre che dalla drammaticità dei singoli episodi, più che da ragioni "politiche", sia dettata  -  e moltiplicata  -  dall'angoscia prodotta dalla crisi economica. Il principale e vero motivo della "tensione sociale", a cui ha fatto riferimento il Presidente del Consiglio.

Per riprendere i dati dell'Osservatorio sull'In-Sicurezza (curato da Demos, l'Osservatorio di Pavia e la Fondazione Unipolis), le "paure economiche" sono considerate la principale emergenza dal 60% degli italiani (aprile 2012). Un sentimento degenerato in pochi anni. Insieme al senso di declino sociale. Rammentiamo: nel 2005 la quota di persone che si "sentiva" di classe sociale bassa o medio-bassa era il 25%. Oggi il 53%. I suicidi dei lavoratori e ancor più dei piccoli imprenditori "drammatizzano", in senso emotivo ma anche narrativo, questa "tensione sociale". Sul piano professionale e geo-economico. Lo "sciame dei suicidi" ri-prodotto dalle cronache, infatti, sembra inseguire le zone forti dello sviluppo degli ultimi decenni. Le province del Nordest e, in generale, del Nord. Le aree che, dopo gli anni Settanta, hanno conosciuto una crescita economica violenta. Dove si è affermato una sorta di "capitalismo dell'uomo qualunque", come l'ha definito Giorgio Lago. Un modello "postfordista" (per citare Arnaldo Bagnasco), che ha coinvolto e mobilitato la società in modo estensivo.

Perché, a differenza di altrove, le aspettative di reddito e di carriera non erano affidate al lavoro dipendente  -  nella grande fabbrica o nel pubblico impiego. Ma al lavoro in-dipendente. Al passaggio da operaio ad autonomo. "Paroni a casa nostra", in Veneto, non significa solo indipendenza territoriale. Ma vocazione all'indipendenza personale e familiare. Gran parte delle aziende, d'altronde, sono sorte e si sono sviluppate attraverso rapporti personali. Tra persone che si conoscono e si frequentano, prima durante e dopo il lavoro. Aspirano a migliorare la propria posizione e condizione, con lo stesso obiettivo. Diventando, a loro volta, "paroni a casa propria". Il passaggio da operaio a piccolo imprenditore, in questo mondo, è breve. La fatica, il rischio: gli stessi. Cambia il ruolo sociale. Come rammenta la vicenda dell'artigiano-muratore, raccontata da Gigi Copiello, che sul furgone da lavoro scrive: Bruno da Cittadella, dottore in malta. (Titolo del libro appena uscito per Marsilio). Cioè, artigiano, ma anche specialista. Per usare un termine di moda: tecnico.

Il successo leghista, negli anni Novanta, in queste zone e fra queste categorie professionali, si spiega anche così. Con la capacità della Lega di dare visibilità e voce a soggetti e territori divenuti, in breve, economicamente centrali, ma ancora politicamente periferici. Guardati  -  anche sui media  -  con sufficienza e ironia. L'enfasi suscitata  -  oggi molto più di ieri  -  dai suicidi dei piccoli imprenditori e nelle aree di piccola impresa riflette la sensazione, per alcuni versi la paura, che questo modello sia in declino. Oltre metà degli italiani, nel 2006, ambiva, per sé e i propri figli, a un "lavoro in proprio o da libero professionista". Oggi questa componente è scesa a poco più di un terzo (Demos-Coop, aprile 2012).

Le cause "materiali": la disoccupazione, il peso schiacciante delle tasse e la caduta dei mercati, dunque, alimenta sicuramente l'angoscia sociale che si respira. Ma c'è di più. C'è la paura del baricentro sociale, un tempo imperniato sulla grande fabbrica, spostatosi, poi, sul lavoro autonomo e sulla piccola impresa. Un modello fondato, comunque: sul "lavoro". Riferimento dell'identità e della coesione sociale, prima che fonte di reddito. Mi torna in mente la reazione di Giorgio Lago a un articolo nel quale, dieci anni fa, registravo la crescente stanchezza fra i lavoratori e i piccoli imprenditori del Nordest. Alla ricerca di altri motivi di soddisfazione, oltre il lavoro. Rispose, allora, Lago (sul Mattino di Padova): "Se sono stanchi si riposino. Vadano a dormire prima, la sera. E poi riprendano il lavoro. Perché senza il lavoro, senza la fatica: non hanno speranza. Non hanno futuro".

È questo che oggi rende così visibile ciò che fino a ieri non lo era. "Morire per il lavoro". In qualche misura, poteva essere un prezzo accettato e perfino necessario, per una civiltà laburista.

Ma se il lavoro e la fatica non bastano più: cosa terrà insieme la società? E, prima ancora, che "senso" ha la vita?

(14 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #282 inserito:: Maggio 22, 2012, 03:44:30 pm »

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Chi rappresenta il male del Nord

Le amministrative dimostrano la fine del blocco nordista formato da Lega e Berlusconi, ma rilanciano la questione settentrionale sotto nuove forme: quello di una rappresentanza politica largamente insoddisfatta. Una richiesta che il Movimento 5 Stelle riesce a interpretare

di ILVO DIAMANTI


I RISULTATI di queste elezioni "amministrative" segnano, in modo definitivo, la fine della Seconda Repubblica e del sistema partitico su cui si è fondato. Indicano, in particolare, la fine del "blocco nordista", l'asse forza-leghista (come l'ha definito Berselli), fondato sull'intesa e la contiguità elettorale tra la Lega e Berlusconi.

TABELLE I FLUSSI ELETTORALI NEI BALLOTTAGGI 1 (su repubblica.it)

Infatti, se osserviamo il bilancio dei comuni maggiori dove si è votato in Italia, il rapporto fra i due principali schieramenti, appare rovesciato a favore del Centrosinistra. Lega e Pdl escono, dunque, chiaramente sconfitti, da queste elezioni. Dal Pd e dal Centrosinistra. Ma anche dal malessere e dalla domanda di cambiamento, a cui ha dato visibilità particolare il Movimento 5 Stelle, guidato da Beppe Grillo.

È la fine della "questione settentrionale" alle origini della Seconda Repubblica. Ma, al tempo stesso, questo voto la rilancia, come specchio di una domanda di rappresentanza politica, largamente insoddisfatta.

1. La Lega esce ridimensionata. Nelle città maggiori (sopra i 15 mila abitanti) dove si è votato, prima di queste elezioni, aveva 12 sindaci. Ne mantiene solo 2. Tra cui Verona, conquistata al primo turno: da Flavio Tosi, più che dalla Lega. Nei comuni maggiori del Nord cosiddetto "Padano" (al
di sopra del Po), al primo turno, le sue liste hanno ottenuto il 7% dei voti, 12 punti in meno delle Regionali del 2010, meno della metà rispetto alle politiche del 2008. Se allarghiamo lo sguardo all'intera "zona rossa", dove la Lega era cresciuta molto negli ultimi anni, il crollo è più vistoso. Oggi, infatti, nel Centro-Nord, in queste elezioni ha totalizzato il 5,8%, ma aveva ottenuto quasi il 13% alle politiche del 2008 e oltre il 17% alle regionali del 2010.

2. Il PdL, ultima versione del partito personale di Silvio Berlusconi, va anche peggio. Dal punto di vista dei governi locali, anzitutto. Nei comuni maggiori del Centro-Nord, da 49 a 20 per il Centrodestra, dopo questo voto, si passa a 44 a 12 per il Centrosinistra. Ma lo sfaldamento appare ancor più sensibile dal punto vista elettorale. Il PdL, infatti, si attesta al 12-13%, nel Nord e nel Centro-Nord, mentre aveva ottenuto circa il 28% alle Regionali di due anni fa e il 33% alle Politiche del 2008.

3. Ne esce un quadro del Nord e del Centro-Nord largamente ri-disegnato. In un paio d'anni, ha quasi perduto i colori dominanti: il Verde e l'Azzurro. D'altronde, oggi i partiti del Centrodestra  -  o di quel che ieri si chiamava così  -  non governano in nessun capoluogo di regione nel Centro-Nord. Gli ultimi  -  Milano e Trieste  -  li hanno perduti un anno fa.

Uno scenario analogo emerge anche se consideriamo i capoluoghi di provincia. Prima del 2010, 22 capoluoghi del Centro-Nord erano governati dal Centrodestra, 16 dal Centrosinistra. Oggi 21 sono amministrati dal Centrosinistra e 14 dal Centrodestra (1 dalla Lega da sola e 2 da giunte di altro colore). Gli attori politici che avevano "inventato" la "questione settentrionale" oggi sono minoranza  -  e quasi periferici  -  nel Nord.

4. Parallelamente, è cresciuto il Centrosinistra, intorno al Pd. Che oggi è il primo partito: del Nord "Padano" e, a maggior ragione, nel Centro-Nord. Ma i suoi successi dipendono soprattutto dalla capacità di fare coalizione. Il Pd ha, infatti, perduto peso elettorale, rispetto alle Politiche e alle Regionali. Mentre in alcune fra le città più importanti ha contribuito, con i suoi voti, a eleggere sindaci espressi da Sel. Come Doria a Genova. E, un anno fa, Pisapia a Milano.

L'antico Triangolo Industriale, Milano-Torino-Genova, dunque, oggi è governato dal Centrosinistra. Ma (come ha osservato Gad Lerner) da uomini e soggetti politici, in prevalenza, "esterni" al Pd. In altre città, il candidato del Pd e del Centrosinistra è stato sconfitto da altre coalizioni. A Belluno, ad esempio, si è affermato il candidato sostenuto da liste civiche di Sinistra. A Cuneo il candidato del Terzo Polo.

5. Lo stesso è avvenuto in alcuni comuni dove lo sfidante era espresso dal Movimento 5 Stelle. Anzitutto a Parma, ma anche in altre città. Come Mira e Comacchio. Il risultato elettorale del Movimento 5 Stelle appare rilevante soprattutto nel Nord e nelle zone rosse del Centro. Dove si presenta, infatti, supera, mediamente, l'11% (alle Regionali del 2010 si era attestato intorno al 3-4%).

In una certa misura, il "partito di Grillo" è l'attore politico che oggi interpreta, più di altri, il "male del Nord" (ma anche del Centro). Espresso dalle aree territoriali e dalle componenti sociali coinvolte dalla crisi economica, dopo decenni di crescita. Soffrono di un profondo deficit di rappresentanza politica. Le promesse di Berlusconi e della Lega sono rimaste tali. Promesse, slogan. Mentre il Centrosinistra, imperniato sul Pd, è rimasto, a sua volta, coinvolto nel clima di insofferenza verso il sistema partitico. Afflitto dal vizio oligarchico e dal deficit etico.

6. Il successo del Movimento 5 Stelle sfrutta, dunque, il malessere generato dal governo, a livello centrale e locale. Ma intercetta anche la diffusa domanda di rinnovamento del ceto politico. E la crescente sensibilità intorno a temi legati alla tutela dell'ambiente e dei beni pubblici.

Naturalmente, una cosa è affermarsi su base locale. Altra è competere su base nazionale. Il bello  -  e le difficoltà  -  per il "partito di Grillo" cominciano ora. Perché dovrà governare, a livello locale. E dovrà organizzare la propria presenza nazionale, in vista delle prossime elezioni. Programmi, candidati, strategie e  -  perché no?  -  alleanze. Oggi, però, a nessuno è concesso di liquidare questo Movimento come antipolitico. Perché agisce da attore politico, sul mercato elettorale. Dove si sta ritagliando uno spazio molto ampio (alcuni sondaggi lo stimano, già ora, intorno al 20%).

7. Questa "piccola" consultazione amministrativa ha mutato profondamente le basi della "questione settentrionale". Nel Nord, infatti, si fanno strada domande di segno nuovo. Che non emergono da centrodestra ma da centrosinistra e, anzi, da sinistra. Esprimono istanze critiche verso il neoliberismo e i valori imposti dai "mercati" (finanziari) globali.

8. Dietro al voto, si scorge un Paese in cerca di rappresentanza politica. Se la Seconda Repubblica è finita, la Terza non è ancora cominciata.
 

(22 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #283 inserito:: Maggio 29, 2012, 11:06:20 am »

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L'appuntamento mancato di Montezemolo

di ILVO DIAMANTI

MAI COME oggi lo spazio politico, in Italia, è apparso tanto aperto. Almeno dai primi anni Novanta, quando la Prima Repubblica affondò. travolta dalla caduta del Muro di Berlino e da Tangentopoli. Così, mentre si consuma il declino di Berlusconi, molti soggetti politici premono alle porte, per fare il loro ingresso ufficiale sulla scena politica. Tra essi, Luca Cordero di Montezemolo. Una novità relativa, perché la sua "discesa in campo", in effetti, era attesa e annunciata da tempo. Da 5-6 anni almeno. Montezemolo, da parte sua, non aveva mai negato. Anzi. D'altronde, erano in tanti ad attenderlo. Da (centro) destra a (centro) sinistra. Oltre che, ovviamente, al centro (senza parentesi). La questione, mai chiarita, era se sarebbe sceso in campo da solo, come leader, al servizio di un governo o di una coalizione. Oppure alla guida di una formazione. Ha sempre rinviato. Per prudenza o per tattica. O per entrambi i motivi. Ha valutato che i tempi non fossero maturi. Che il rischio fosse troppo elevato. Nel frattempo, ha promosso un'associazione, Italia Futura, attraverso cui ha espresso  -  e marcato  -  la propria presenza sulla scena politica nazionale.

Ora, però, la (lunga) attesa sembra finita. Berlusconi si è spostato ai margini del gioco. Per scelta e, prima ancora, per costrizione. A centro-destra, così, si è creato un vuoto simile a quello del 1992. Perché nessuno, nel Pdl, è in grado di rimpiazzare Berlusconi. Mentre a centro-sinistra il territorio è, comunque, controllato dal Pd. E più in là non c'è spazio, per la sua offerta. Visto che, francamente, non ce lo vedo Montezemolo a contendere i voti a Vendola e Diliberto. Il centro, infine, resta uno spazio elettorale angusto. Peraltro, presidiato da leader politici  -  Casini e Fini su tutti  -  ben decisi a non cedere il comando a qualcun altro. Per quanto popolare, come Montezemolo. Il quale guarda, anzitutto, agli orfani del Pdl. Dispersi e sperduti, dopo il declino di Berlusconi. Ma anche ai "disorientati" di centro e agli insoddisfatti del Pd. Conta, dunque, sull'inadeguatezza di un sistema partitico imperniato su "imprenditori politici" incapaci di soddisfare la domanda del mercato elettorale. Come hanno dimostrato le recenti elezioni amministrative, segnate da alti tassi di astensione. Come, peraltro, segnalano, da tempo, i sondaggi, che rivelano l'esistenza di una quota di indecisi molto ampia. Pari a quasi metà degli elettori. Perlopiù, ma non solo, di centrodestra.

Tuttavia, ho l'impressione che l'annuncio di Montezemolo  -  peraltro non ancora ufficiale  -  arrivi comunque tardi. Non perché i concorrenti, nei settori del mercato elettorale a cui intende rivolgersi, siano più credibili di lui. Non è così, a mio avviso. Il problema è un altro. È finito il tempo dei "politici imprenditori". E degli "imprenditori politici" come alternativa ai "politici di professione". I quali sono, sicuramente, fuori gioco, in questa fase. Delegittimati dalla pessima immagine che hanno dato  -  e continuano a dare  -  di sé. Mai tanto impopolari fra gli elettori. Tuttavia, mi pare conclusa anche l'era degli imprenditori a capo dell'Azienda-Italia. Mito e modello di un Paese che aveva conquistato il benessere, ma anche un ruolo importante sui mercati internazionali. Berlusconi, prima e meglio di tutti, ha interpretato quella fase. Per quasi vent'anni. Il Signore dei media e dei sondaggi: si è rivolto agli italiani  -  molti, moltissimi  -  che sognavano di diventare come lui. Titolari di imprese, piccole e piccolissime. Oppure di partita Iva. Lavoratori autonomi e lavoratori tout-court. Ha attratto il consenso della gente "comune", che si identificava in lui. Nelle virtù ma anche  -  forse soprattutto  -  nei suoi vizi. Guardati, comunque, con indulgenza. (Perché siamo tutti peccatori... ).

Quei tempi sono finiti. Non è solo una questione di stile. Ma di rappresentanza. Ho l'impressione, infatti, che l'imprenditore non costituisca più un modello sociale  -  praticabile e realista. Ma neppure un riferimento, com'era nel passato recente, in tempi di economia affluente. Perché il tempo della crescita e delle attese di crescita infinita è finito. La crisi ha azzerato ogni attesa. E chi le aveva alimentate e incarnate contro ogni evidenza. Fino all'ultimo. Il declino di Berlusconi si spiega anzitutto così. Prima e più ancora che per motivi politici (e) personali. Perché è finita l'era delle promesse e dei partiti personali, guidata dagli Imprenditori Politici. Questo è il tempo degli imprenditori im-politici. È l'epoca degli "esperti". Dei governi tecnici e "senza passione". Come Monti. Algido interprete dell'emergenza dettata dai Mercati. Ma è anche l'epoca dei "Tribuni". Non in senso spregiativo, ma letterale (e storico): coloro che esercitano la rappresentanza delle domande  -  e delle insoddisfazioni  -  popolari. Che mobilitano le passioni "contro" i poteri politici ed economici. Come ha fatto Beppe Grillo. Il quale ha aggiunto, di proprio, una grande competenza nella comunicazione  -  nuova, ma anche tradizionale. Fra i primi ad andare nella Rete. Fra i più efficaci nel mobilitare le piazze e nel riempire i teatri. Grillo, infatti, non ha replicato la "forma partito" tradizionale. Ma neppure quella, recente, del "partito personale". Ha, invece, "personalizzato" e messo in comunicazione gruppi, esperienze e leader locali, attivi sulla rete e sul territorio. (Certo, per lui le difficoltà cominciano ora. Ma, intanto, ha imposto un marchio e un modello.)

Certo, Montezemolo è un imprenditore atipico. Alla guida di un'azienda storica e innovativa, al tempo stesso, come la Ferrari. Di grande appeal. Per non parlare della sua ultima impresa: Italo. Il treno ad alta velocità che sfida il Monopolio dello Stato. Egli, tuttavia, mi pare legato all'epoca precedente, quando ha fatto il presidente di Confindustria. Al tempo di Berlusconi. Di cui è apparso  -  di fronte agli imprenditori, ma anche agli elettori  -  un'alternativa possibile e verosimile. Per stile e retroterra economico. Montezemolo. Poco Pop. Legato alla tradizione della grande impresa industriale torinese. L'Anti-Berlusconi. Venne spiazzato dallo showdown di Vicenza, al convegno del 18 marzo 2006, vigilia del voto. Quando Berlusconi tornò ad essere il Caimano. E si riprese la piazza. Contro Prodi. Ma anche contro chi, come Montezemolo, pensava di isolarlo dal "suo" popolo. Gli imprenditori.

Ecco: penso che Montezemolo fosse adatto a interpretare, al meglio, l'alter-berlusconismo al tempo del berlusconismo. Ma al tempo del post-berlusconismo: mi sembra fuori tempo.

(28 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #284 inserito:: Maggio 29, 2012, 11:07:28 am »

La vita insicura di un uomo sicuro

di ILVO DIAMANTI


Mi chiamo Massimo, Per gli amici: Max. Ho quasi sessant'anni. Sono sposato e ho due figli. Ma vivo da solo, in una cittadina nei pressi di Verona. Mia moglie se n'è andata da tempo. Ha raggiunto sua sorella, che risiede vicino a Gallarate. Anche lei separata. Le due sorelle: possono con-vivere solo fra loro. I miei figli, invece, abitano per conto proprio. Anche se, formalmente, risiedono ancora con me. Giulia, la più vecchia (si fa per dire: ha meno di trent'anni), sta a Londra, dove è rimasta, dopo la laurea. Vi si era recata per un Master in Economia. Ha deciso di fermarsi là. Più che lavorare, fa lavori. Ma ha rapporti professionali con un'agenzia di Borsa. Fa esperienza. (E che esperienza, visti i tempi!) E poi a Londra sta bene. Ha un compagno, credo. Anche se con me parla poco della sua vita privata. Giacomo, il più giovane, ha poco più di vent'anni. Studia ancora. Ha quasi 25 anni. Vive a Bologna, dove frequenta il DAMS. Non so a che gli servirà. Ma si diverte. Ogni tanto passa per casa. Da me. Altre volte va da sua madre. Non pare intenzionato a tornare. E neppure a laurearsi troppo in fretta. Concludere gli studi ora significherebbe diventare improvvisamente precario. Così, invece, è "in formazione". In cammino. Instabile per scelta. Dal punto di vista dell'identità, pubblica e personale, è sicuramente meglio.

Per questo, "formalmente", risiedo con i miei figli. Ma, in realtà, sono solo. Quasi sempre. Nella casa dove risiedo. Una villetta a schiera, in un quartiere residenziale.  Dove svolgo la mia attività  -  consulente del lavoro. Certo, ho amici e amiche. Molto spesso passano e magari si fermano. Qualche giorno, qualche notte. Ma non di più. Non voglio vincoli, né rapporti impegnativi. D'altronde, io così sto bene. Convivo con me stesso senza troppi problemi. In effetti, proprio solo non lo sono mai. Oltre ai clienti, gli amici, i figli, ci sono i cani. Tre. Un meticcio, di taglia piccola, che scorrazza per casa. Mi fa compagnia. E due mastini  -  per la precisione, due rottweiler -  in giardino. Passano il tempo liberi. D'altronde, il mio giardino è chiuso. Inaccessibile. Non possono fuggire né creare fastidi agli altri. Ai passanti. Però mi fanno sentire sicuro. Più sicuro. In fondo, ripeto, vivo da solo. Quasi tutti i giorni. Quasi tutto il giorno. E la notte. Per cui qualche precauzione va presa. Meglio essere prudenti. Qui, nel mio quartiere residenziale, se ne sentono tante. Furti in abitazione, qualche scippo per strada. D'altra parte, è un quartiere tranquillo, ma agiato. Un bel bersaglio per i malintenzionati. Così mi sono attrezzato. Ho alzato ulteriormente il muro di recinzione e l'ho reso impraticabile, per chi intendesse scavalcarlo. La ringhiera, sopra il muro, è irta di punte aguzze. Poi, all'interno, il giardino è protetto da un sistema di allarme efficiente. Come, d'altronde, gli ingressi e le finestre. Quando scende il buio, si attiva un sistema di illuminazione sensoriale. Non resta un angolo buio. Salvo i "rifugi" dei miei mastini. È così dappertutto, nel mio quartiere. Perché così fan tutti. Per sicurezza. E per lo stesso motivo, nel quartiere, abbiamo ingaggiato un servizio di Security. Guardie giurate che passano, regolarmente, quasi ogni ora. Di giorno e di notte.

I miei vicini: praticamente non li conosco. E neppure li vedo. Manco li saluto, quando li incrocio. Perché dovrei salutarli? Non li conosco. E quasi non li vedo. Esco direttamente in auto. L'unica persona che incontro, con qualche frequenza, è il "delegato" di quartiere. Abita due strade più in là. Non mi ricordo neppure il nome della via. (E, per la verità, neppure il suo cognome.) Nel quartiere tutte le vie hanno nomi di musicisti. Un casino pazzesco. Il "delegato" si occupa dei problemi - piccoli e grandi - dei residenti. Sicurezza compresa. Anzi, la sicurezza prima di tutto. Perché io non nascondo di provare un po' di paura. In fondo, vivo quasi sempre da solo. E se ne sentono tante, nelle tivù e sui giornali locali. A volte, qualche vicino, fuori dal portone del garage, mi ferma un attimo per raccontarmi di qualche furto tentato, nei dintorni. Per fortuna sono al sicuro. Sì, al sicuro. Con la casa e la recinzione schermate da sistemi di allarme e telecamere, a ogni entrata e uscita, i due mastini che girano sempre per il giardino, ogni punto e ogni centimetro esterno illuminato, appena si fa sera  -  manca solo un fosso con gli alligatori e il ponte levatoio, all'uscita (ma ci sto pensando). E le strade intorno battute, con ritmo incessante, dalle Guardie Giurate (e armate). Come si fa a non sentirsi sicuri? E controllati?
Sto a casa mia, ma è quasi come abitare ad Alcatraz.

(29 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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