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Autore Discussione: AMEDEO LA MATTINA.  (Letto 118906 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Febbraio 07, 2017, 03:58:30 pm »

Emiliano: “Con banche e finanza ci siamo dimenticati di chi è rimasto escluso”
Il governatore della Puglia: l’Europa non è la causa di tutti i mali

Pubblicato il 07/02/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Michele Emiliano ritiene possibile scrivere una programma di sinistra che riesca a contrastare e battere i populisti. «È doveroso. È arrivato il momento farlo. Non possiamo lasciare chi soffre, chi è stato impoverito dalla crisi economica e dalle tasse alla mercé degli oratori di piazza, degli arruffapopoli. Dobbiamo essere vicini alle persone, difendere chi non conta nulla, dedicarci ai luoghi di sofferenza».
 
Il rischio non è di contrapporre un populismo di sinistra a quello di destra? 
«Esiste pure un populismo intelligente, concreto, non velleitario che una volta esprimevano partiti come il Pci e la Dc. Le loro sezioni erano luoghi dove non si facevano solo le liste elettorali. Si studiava, si insegnava a leggere a scrivere a chi non poteva andare a scuola, si discuteva e si faceva solidarietà. È ovvio che questo mondo non può tornare, ma è necessario ricostruire il senso di una comunità politica».
 
Comunità che il Pd non è più? 
«Peggio: è diventato il partito dei banchieri, dei finanzieri, dell’establishment. Un partito interessato solo ai potenti e non al popolo. Il governo Renzi ha usufruito di una grande flessibilità dall’Europa ma non ha saputo utilizzarla per invertire il ciclo economico». 
 
Ci dica cosa farebbe concretamente. Sul lavoro. 
«Intanto bisognerebbe riagganciare la formazione scolastica ad un percorso che porti alla certezza del lavoro. Lo Stato dovrebbe stringere accordi con le imprese affinché queste assumano almeno i più meritevoli. È quello che fanno le università private con le aziende».
 
Riduzione della pressione fiscale: cavallo di battaglia della destra e dei populismi di oggi. Anche la sinistra deve cavalcare questo tema? 
«Non c’è dubbio. Chi lo ha detto che sia un tema dei populisti e della destra? Attenzione però agli slogan e far finta che non ci sia un problema di debito pubblico. Si può abbassare la pressione fiscale riducendo i costi della Pubblica amministrazione. Vanno garantiti i diritti essenziali come la salute, la giustizia, la formazione, la sicurezza, ma se una multinazionale deve dirimere una complessa procedura, ad esempio di verifica ambientale, perché non dovrebbe pagare di tasca propria il servizio che gli offre la Pubblica amministrazione? Sarebbe stato possibile trovare molte risorse per ridurre l’Irpef e le tasse alle imprese, se Cottarelli con la sua coraggiosa spending review non fosse stato impacchettato e spedito a casa».
 
Le piace il reddito di cittadinanza dei 5 Stelle? 
«Sono d’accordo con il reddito di cittadinanza solo per i casi di povertà assoluta. Semmai bisognerebbe evitare che le famiglie cadano in stato di povertà o di precarietà a causa di una situazione debitoria. Ad esempio, di fronte a chi è in difficoltà a pagare il mutuo e non ce la fa più, il Comune, la Regione o lo Stato dovrebbero subentrare nel rapporto debitorio con la banca, diventare proprietario della casa dove quella famiglia in difficoltà potrà continuare a vivere. E magari in futuro riscattarla. Il Pd invece ha fatto una legge che accelera la procedura di vendita dell’immobile per chi è moroso».
 
Lei presuppone uno Stato pieno di soldi. 
«No, penso ad uno Stato che non faccia pagare le tasse solo ai lavoratori dipendenti e che compri beni e servizi agli stessi costi di un privato».
 
Immagino che lei ritornerebbe all’articolo 18 sui licenziamenti modificato dal Jobs act? 
«Sarebbe cosa sacrosanta ripristinarlo ed estenderlo a tutte le aziende. Non si può distruggere la vita di una persona, licenziandola senza giusta causa e dandole una manciata di soldi».
 
L’Europa è il focus di tutti i populismi. Hanno ragione a criticarla? 
«L’Europa, da meravigliosa costruzione di pace e benessere, sembra diventata origine di ogni nefandezza. Si rischia il sonno della ragione che in passato ha portato ai totalitarismi e alle guerre. Ecco perché deve tornare a parlare e difendere i popoli e non le banche e i finanzieri».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/07/italia/politica/emiliano-con-banche-e-finanza-ci-siamo-dimenticati-di-chi-rimasto-escluso-thNz3Ray8yuuF9aZWEmmeJ/pagina.html
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« Risposta #181 inserito:: Febbraio 26, 2017, 12:25:43 am »


Emiliano: “È Matteo a volere questa rottura. Ma per lui sarà una catastrofe”
Il governatore pugliese dopo la telefonata con l’ex premier: “Non mi rassegno”

Pubblicato il 18/02/2017
Ultima modifica il 18/02/2017 alle ore 07:08

Amedeo La Mattina
ROMA

Se Renzi non accetta la mia proposta significa che la rottura la vuole lui. Ma non posso credere che lui voglia veramente questo. Non ci posso credere e non lo voglio credere. Non mi rassegno. Io aspetterò fino all’ultimo secondo utile per evitare la scissione. Capisco che Matteo si trovi in un momento di confusione, che sia arrabbiato, ma per lui è arrivato il momento di essere lucido e di fermare la macchina del congresso, aprendo una discussione con la base del partito sulle questioni del lavoro, dell’ambiente, della scuola, della decarbonizzazione dell’Ilva...». Michele Emiliano sta viaggiando in auto da Lecce a Bari. La sua voce è carica di tensione e preoccupazione. Si rende conto che mancano poche ore per evitare il divorzio. Dice di non avere avuta ancora una risposta positiva dopo la telefonata di Renzi ricevuta attorno alle 13 mentre si trovava nel suo ufficio alla Regione.

In mattinata il governatore pugliese aveva postato sul suo profilo Facebook il video in cui Delrio, senza sapere di essere ascoltato e registrato, raccontava che Renzi non ha fatto una telefonata per evitare che la diga crolli. E poi Emiliano aveva scritto e postato: «Visto che Renzi non chiama nessuno, per evitare la scissione lo chiamo io». E invece ha chiamato Matteo. Telefonata lunga dai toni vivaci. Hanno ripercorso tutto quello che è accaduto, ognuno ha espresso il suo punto di vista. Renzi ha il dente avvelenato con la sinistra dem: è convinto che Bersani e compagni hanno il solo obiettivo di farlo fuori, di consumarlo a fuoco lento, rilanciando sempre con una nuova proposta. Emiliano gli ha proposto di rinviare il congresso a dopo le amministrative, gli ha consigliato di non avere fretta, di dare più tempo a chi vuole preparare un programma e un candidato alla segretaria alternativi. «Intanto facciamo insieme la campagna elettorale delle amministrative e una conferenza programmatica in cui confrontare le proposte politiche. Visto che anche tu dici che a giugno non si vota, che fretta c’è di fare il congresso di corsa?», ha chiesto il governatore a Renzi.

 Ma Renzi non si fida, vuole blindarsi, è convinto che Bersani e la sinistra dem abbiano già deciso la scissione. Soprattutto D’Alema che anzi la considera «un nuovo inizio». «D’Alema - dice Emiliano - l’ha già messa in conto ed è irritato dalle iniziative pacificatrici come la mia. Io invece considero la scissione una sciagura e farò di tutto per evitarla. Se Matteo accetta la mia proposta, io non seguirò nessuno fuori del Pd».

Emiliano per tutta la giornata ha atteso una buona notizia. È rimasto in contatto con Franceschini e Delrio. La giornata si è chiusa con poche speranze. C’è ancora tutto oggi per un colpo di scena che possa evitare il precipizio. 

«Mi sono impegnato ad evitare la scissione. Per Renzi sarebbe una catastrofe. Passerà alla storia come il segretario che non è riuscito a tenere unito il partito. Come se ad un sindaco gli venissero levati alcuni quartieri della sua città e rimanesse solo nel centro storico. In un partito non bisogna stravincere, piallando gli avversari. Il suo più grande fallimento sarebbe vincere il congresso ad aprile e poi perdere le elezioni. Sarebbe la sua rovina. Non ne vale la pena per tre mesi in più».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/18/italia/politica/emiliano-matteo-a-volere-questa-rottura-ma-per-lui-sar-una-catastrofe-J38AmHnC8p2MUUhIdtejpI/pagina.html
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 20, 2017, 10:35:41 am »

Oggi Alfano dà vita ad Alternativa popolare
Il partito è sempre lo stesso, non ci sono nuovi arrivi, il leader è sempre Alfano, ma il cambiamento del nome vuole essere una cesura con il passato
Pubblicato il 18/03/2017

AMEDEO LAMATTINA
Era da tempo che Angelino Alfano pensava di cambiare nome al suo partito per adeguarsi ai nuovi tempi politici. Deve rimettersi in gioco dopo l’esperienza di governo con il Pd di Renzi e soprattutto prendere le distanze dal vecchio centrodestra dove è cresciuta la stella dei sovranisti Salvini e Meloni. E nell’incertezza di Berlusconi che vorrebbe rifare la vecchia Casa delle Libertà, il ministro degli Esteri ha deciso di fare intanto un passo oltre i vecchi steccati, cancellando il Nuovo centrodestra, che nacque dal distacco da Forza Italia, e fa nascere Alternativa popolare. Questo il nuovo nome che debutterà oggi a Roma.

Il partito è sempre lo stesso, non ci sono nuovi arrivi, il leader è sempre Alfano, ma il cambiamento del nome vuole essere una cesura con il passato per mettersi sotto il vento del centrosinistra. Oppure di un nuovo centro nel caso in cui Berlusconi si staccasse dalla Lega e dai Fratelli d’Italia per virare nell’area più moderata. Ipotesi più difficile visto che i numeri dei sondaggi danno il centrodestra unito attorno al 30% e quindi molto competitivo: sarà difficile che non si mettano insieme. Allora c’è l’altra opzione, quella di un centrosinistra su cui puntano in molti tra i Democratici per evitare che vincano i 5 Stelle.
 
È chiaro che Alfano non può presentarsi all’appuntamento politico con il vecchio nome Nuovo centrodestra. Alternativa popolare è un’altra cosa, una nuova scelta di campo. «Ncd si evolve in nuovo soggetto politico - spiega l’ex ministro dell’Interno - che ne supera la denominazione ma che si conferma nella sua collocazione politica. Questo perchè in Italia è sorta essenzialmente una nuova destra che non intendo criticare ma che non ha nulla a che vedere con la ’D’ di quel centrodestra in cui abbiamo vissuto e abbiamo creduto in questi anni». 
 
Fabrizio Cicchitto spiega che molto probabilmente Alternativa popolare andrà alle elezioni da sola o con altre forze di centro, «ma non con il centrodestra e nemmeno con centrosinistra: questa è una novità. Ci auguriamo di intercettare il consenso degli italiani che non si riconoscono nei due schieramenti di centrodestra e centrosinistra». 
 
I compagni di strada non sono molti. L’Udc di Lorenzo Cesa ha virato verso Berlusconi. Raffaele Fitto è più vicino a Salvini. Chi invece potrà essere della partita centrista sono l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, che controlla un pacchetto di voti in Sicilia attraverso Giampiero D’Alia, di Verona Flavio Tosi e Stefano Parisi. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/18/italia/politica/oggi-alfano-d-vita-ad-alternativa-popolare-8ixvJNzjsLsKn6UuS7LFVJ/pagina.html
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« Risposta #183 inserito:: Marzo 22, 2017, 12:41:27 pm »


Manovra correttiva: rispunta l’aumento sulle accise di tabacchi e carburanti
Nel decreto di Gentiloni e Padoan niente tagli alla spesa pubblica

Pubblicato il 17/03/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Paola De Micheli, sottosegretario all’Economia, lo ha anticipato l’altra sera in commissione Ambiente della Camera: il governo intende inserire per decreto nella manovra correttiva alcune misure per la crescita. Un’anticipazione rispetto a quelle che ci saranno ad ottobre nella legge di stabilità. Adesso un antipasto, con un occhio particolare alla fiscalità di vantaggio per tutte le zone interessate al terremoto. Quello che però De Micheli non ha detto nella commissione presieduta da Ermete Realacci è che nello stesso decreto verrà previsto l’aumento delle accise su tabacchi e carburanti. Non sembra che ci sia invece un taglio alla spesa pubblica. La decisione è stata presa nei giorni scorsi dal premier Paolo Gentiloni e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che si sono visti ieri a Palazzo Chigi per mettere a punto il Def. 

Renzi dovrà dunque farsene una ragione: il rientro di 3,4 miliardi entro il 10 aprile, chiesto da Bruxelles per correggere i conti ed evitare la procedura d’infrazione, verrà fatto anche con l’aumento delle accise. E questo nonostante 37 deputati renziani, in un atto di indirizzo al governo, avevano precisato che le risorse per correggere i conti pubblici avrebbero dovuto essere reperite «unicamente dal taglio alla spesa pubblica improduttiva e dalla lotta all’evasione fiscale». Lo stesso Renzi, più volte pubblicamente, aveva posto dei paletti al Tesoro: nessun aumento delle tasse, nemmeno delle accise. «Non possiamo spremere ulteriormente i cittadini. Il tema di non aumentare le tasse - aveva detto nella Direzione del Pd a febbraio - è un principio di serietà nei confronti dei cittadini».
 
L’ex premier deve vincere il congresso e poi affrontare una lunga campagna elettorale che lo porterà al voto nel 2018, se nel frattempo non succederà qualcosa che faccia precipitare verso elezioni anticipate. Una volata, quella dell’ex premier, che non prevede aumenti di tasse di alcun genere, accise comprese: «Sarebbe un errore politico». Ma a via XX Settembre non trovano una soluzione migliore per reperire una parte delle risorse necessarie per centrare l’obiettivo che ci viene chiesto da Bruxelles. Ma allo stesso tempo Padoan anticipa, rispetto alla legge di stabilità, alcune misure di crescita che sono necessarie anche per abbattere il debito pubblico: quel macigno che non consente di liberare risorse da destinare agli investimenti. È il problema dei problemi che tutti i governi hanno dovuto affrontare, senza mai risolverlo, e che ieri Piero Fassino nell’intervista alla Stampa ha posto a Gentiloni come prioritario. Il punto è che l’ex sindaco di Torino, tra le possibili soluzioni, indicava le privatizzazioni, mentre nel Pd c’è una componente robusta che non le vuole. Nella stessa Direzione del partito dello scorso mese Matteo Orfini aveva detto che non si può ricominciare con «la stagione delle privatizzazioni: serve al contrario una grande strategia di investimenti pubblici». Anche il ministro Graziano Delrio ha bloccato ogni ipotesi di vendita di asset pubblici, in particolare delle Ferrovie dello stato: «Ho dei problemi a privatizzare le Frecce con dentro il trasporto pubblico regionale». Quel giorno ad ascoltarli in platea c’era proprio Padoan. 
 
Gli scissionisti demoprogressisti si godono lo spettacolo e il senatore Miguel Gotor parla di «braccio di ferro tra il partito di Gentiloni-Padoan e quello di Renzi che vuole una manovra elettorale: questo è visibile su molte questioni, compresa quella delle privatizzazioni». Se ora arriva pure l’aumento delle accise su tabacchi e carburanti non sarà una passeggiata approvare in Parlamento il decreto che serve alla manovra correttiva.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/17/economia/manovra-correttiva-spunta-laumento-sulle-accise-di-tabacchi-e-carburanti-taTGD6wcM4tGHg52Rx3RFO/pagina.html
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« Risposta #184 inserito:: Aprile 03, 2017, 04:59:02 pm »

“La Russia minaccia le nostre democrazie”
Documento del Ppe: supporto continuo a forze anti-europee. Alfano: dibattito aperto. Interrogazione del Pd al ministro degli Esteri sui timori Usa sui rapporti Mosca-M5S
Il congresso del Partito popolare europeo a Malta ha riunito i leader moderati del vecchio continente
Pubblicato il 31/03/2017

AMEDEO LA MATTINA
INVIATO A LA VALLETTA (MALTA)

È grande l’allarme nel Partito Popolare europeo per il tentativo di Putin di condizionare la politica e le elezioni nel Vecchio Continente. E ha voluto metterlo nero su bianco in una delle risoluzioni votate mercoledì dal congresso del Ppe. Il capitolo si intitola «la disinformazione della Russia mina la democrazia occidentale». Un atto d’accusa violentissimo. «Gli Stati membri dell’Ue si trovano attualmente dinanzi ad una minaccia senza precedenti. Propaganda, campagne di disinformazione e supporto continuo a forze politiche anti-europee da parte della Russia minano il progetto europeo, la cooperazione transatlantica e le democrazie occidentali. Questa crisi - si legge nella risoluzione - ha raggiunto un livello allarmante». Il Ppe considera inaccettabili «la cyber-minaccia rappresentata dalla Russia che supera di gran lunga quella cinese». Viene ricordata l’annessione della Crimea, «la guerra ibrida contro l’Ucraina, l’invasione della Georgia e le campagne russe contro i Paesi baltici».

Sono quasi tre pagine fitte di accuse a Putin e in cui viene sottolineata la necessità di un lavoro di controinformazione che deve coinvolgere i media europei e la stessa Nato. Non vengono citati i partiti sostenuti da Mosca e non viene neppure scritto che sono finanziati, piuttosto è dato per scontato. Ma quando vai a chiedere ad alcuni congressisti del Ppe e a certi leader un commento svicolano. Come ha fatto il premier ungherese Orban. «Russia? Non ho letto la risoluzione, sorry». Per non parlare di Berlusconi che non sapeva come aveva votato la delegazione di Forza Italia. Forse contro, forse astenuta, sicuramente contro le sanzioni alla Russia. Quello che invece è successo è che gli azzurri qui al congresso Ppe non hanno nemmeno partecipato alle votazioni per lavarsene le mani. Sembra che Tajani, presidente del parlamento europeo, l’abbia presa male.
 
E Berlusconi che ne pensa del sostegno dell’amico Vladimir ai 5 Stelle? «Conosco personalmente Putin ed escludo che interferisca e sostenga populisti. Escludo che sia questa la realtà». Berlusconi non tradisce imbarazzo di fronte alla domanda sulle manovre di Mosca per destabilizzare alcuni paesi europei. Difende lo zar del Cremlino e si rammarica che sia tornato il clima di un’altra epoca. «Io ho l’orgoglio di avere posto termine alla guerra fredda nel 2002, facendo stringere la mano a Putin e Bush a Pratica di Mare. Sarebbe assurdo ricominciare». 
 
Intanto in Italia la capogruppo Pd in commissione Esteri, Lia Quartapelle, presenta un’interrogazione ai ministri degli Esteri e dell’Interno chiedendo lumi sul piano di destabilizzazione da parte russa e chiede che le prossime elezioni si svolgano in maniera serena. «Esiste il forte sospetto - scrive Quartapelle - che alcune campagne elettorali siano state finanziate con soldi russi. Nel 2014, la vittoria di Marine Le Pen fu accompagnata, come denunciato dal premier Valls, da un prestito di 9 milioni di euro da parte della First Czech Russian Bank, a cui sarebbero dovuti seguire altri 27 milioni per le presidenziali». Un altro deputato del Pd Andrea Romano è convinto che Mosca finanzi i 5 Stelle: «Bisognerebbe indagare, ma sono certi i rapporti tra hacker russi e attivisti grillini».
 
Una risposta c’è l’ha data il ministro degli Esteri Angelino Alfano presente anche lui a Malta. «Si tratta di vicende sulle quali anche il Parlamento europeo ha acceso i fari con atti parlamentari. Ma al momento non ci sono riscontri e prove. È chiaro però che è una vicenda sulla quale si è aperto già un dibattito».
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/03/31/italia/politica/la-russia-minaccia-le-nostre-democrazie-xvs4AQMS0ZdVzDLT4tfJJJ/pagina.html
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« Risposta #185 inserito:: Aprile 28, 2017, 12:14:37 pm »

Tutti pronti (a parole) a tagliare le tasse
Sull'onda di Trump, parte la corsa a promettere riforme fiscali. Nel Def c’è l’impegno a intervenire sul reddito.
I candidati alle primarie del Pd si dividono sulla patrimoniale. Ecco come i partiti mettono a punto le loro ricette

Pubblicato il 28/04/2017 - Ultima modifica il 28/04/2017 alle ore 07:31

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

La battaglia elettorale prossima ventura sarà combattuta soprattutto su due argomenti: immigrazione e tasse. Sul fisco c’è una tendenza mondiale alla riduzione. Trump l’aveva promesso e in questi giorni ha annunciato (ancora è un annuncio) l’introduzione della flat tax al 15% per le aziende. In Francia il rush finale del ballottaggio è giocato tra Macron, che promette una sforbiciata della tassazione sulle imprese dal 33,3 al 25% e dei contributi sociali, e Le Pen che intende privilegiare una riduzione delle imposte sulle persone fisiche nelle fasce basse. 

E in Italia? Mercoledì alla Camera la maggioranza ha dato via libera al Def con una serie di raccomandazioni: a cominciare dall’impegno del governo a rivedere al ribasso l’Irpef. Impegni tanto generici quanto cavalcati da tutte le forze politiche da molti anni a questa parte. La rivoluzione fiscale è rimasta scritta nel contratto con gli italiani che Berlusconi firmò in tv nel 2001. Si è arrivati al bonus degli 80 euro che Renzi definisce «la più grande redistribuzione del reddito mai fatta in Italia. L’ha ripetuto l’altra sera su Sky durante il confronto sulle primarie. Emiliano ha bocciato la politica del governo Renzi tutta basata sui bonus: «Si è rivelata fallimentare». Orlando ha fatto un distinguo: «Bene gli 80 euro, ma è stato un errore chiederli indietro ad alcune fasce di contribuenti». I due sfidanti spingono sulla web tax e non escludono una sorta di patrimoniale: un contributo a chi guadagna cifre importanti. Renzi è invece contrario all’una e all’altra ipotesi. 
 
PD - PIÙ SOLDI ALLE FAMIGLIE CON TRE SOGLIE IRPEF 
Renzi pensa all’abbattimento delle tasse con tre sole aliquote Irpef. Il suo governo e l’attuale esecutivo hanno aiutato le imprese, ma oggi la vera questione è mettere più soldi in tasca alle famiglie. L’operazione degli 80 euro va ampliata tenendo conto del numero dei figli. Patrimoniale? No. Renzi sostiene che la vera patrimoniale è fare pagare le tasse a chi non le paga, cioè agli evasori. Ad una forma di patrimoniale pensa invece lo sfidante alle primarie Orlando, che parla in particolare di contributo di solidarietà dell’1% per chi ha ricchezze e redditi elevati. In particolare, sostiene il ministro della Giustizia, tutto quello che si ottiene dalla lotta all’evasione fiscale non deve essere destinata alla riduzione del debito pubblico ma ad abbassare Irpef dei redditi più bassi. Anche Emiliano insiste sul recupero della tassazione sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari. Propone la web tax sulle multinazionali che operano in rete e la riduzione dell’aliquota più bassa Irpef dal 23 al 20%.
 
M5S - DAI GRILLINI POCO SU IRPEF MA ABOLIZIONE DELL’IRAP 
Per il M5S la priorità è l’Irap, l’imposta sulle attività produttive. In tema di tasse i grillini hanno le idee chiare per quanto riguarda le imprese, meno sull’Irpef. Nel senso che non esiste ancora un disegno organico ma è in corso un ragionamento su scaglioni e aliquote. L’idea è di andare a sgravare i redditi medio-bassi, concentrandosi in particolare sui medi, quelli fino ai 55 mila euro - la stragrande maggioranza degli italiani - e che comprendono due scaglioni, il 27% e il 38%. Un salto che è troppo netto, e che, secondo il M5S, avrebbe bisogno di maggiore progressività. Ma per adesso è una discussione in itinere, anche perché insistere sul taglio all’Irpef rischierebbe di oscurare la proposta regina del M5S: il reddito di cittadinanza. Diverso il discorso sull’Irap. Il progetto sarebbe di recuperare il vecchio sogno di Silvio Berlusconi, di abolizione totale. Ma per adesso c’è la proposta del deputato Mattia Fantinati: abolizione per le microimprese, che hanno fino a 10 dipendenti.
 
FORZA ITALIA - ALL’INIZIO DUE ALIQUOTE POI FLAT TAX AL 22% 
Anche Berlusconi come Salvini pensa alla flat tax, ma non del 15%. Troppo bassa. Forza Italia pensa ad una percentuale di tassazione Irpef in una sola aliquota del 20-22%. Brunetta è convinto che alla fine sarà possibile mettersi d’accordo con la Lega. Il passaggio alla flat tax non potrà avvenire subito: l’arco temporale è almeno una legislatura perché bisogna prima di tutto creare le disponibilità finanziarie per un’operazione così radicale. E questo è possibile farlo attaccando il debito pubblico, con privatizzazioni e liberalizzazioni, e attraverso una politica rigorosa di spending review. Mano a mano che si liberano risorse è possibile far partire la tanto attesa riforma del fisco in Italia. Partendo dalla riduzione a due aliquote Irpef, per arrivare alla sola aliquota del 20-22%. L’obiettivo di legislatura, precisa Brunetta, è quello di portare la pressione fiscale complessiva, tra tasse e contributi, al di sotto del 40%. 
 
LEGA - TASSAZIONE SECCA AL 15%. OPERAZIONE SU EQUITALIA 
Il cavallo di battaglia di Salvini è la flat tax al 15% sia per le aziende sia per le persone fisiche. In questo la Lega è in sintonia con il presidente americano Trump, che però limita la flat tax alle sole imprese. I leghisti hanno anticipato questa proposta fiscale in tempi non sospetti. Da tempo ne parla Armando Siri, consigliere di Salvini, che spiega come sarebbe possibile compensare i buchi nelle casse dello Stato di una riduzione così imponente. Si tratterebbe di fare un’operazione di «saldo e stralcio» di tutte le posizioni di Equitalia. L’introduzione di una tassazione al 15% non verrebbe fatta subito, ma gradualmente. E non sarebbe, secondo il Carroccio, in contrasto con la progressività prevista dalla nostra Costituzione. Sarebbe vantaggiosa per il cittadino «strozzato dalle tasse». Sarebbe inoltre uno stimolo enorme alla domanda e ai consumi. Porterebbe ad aumentare il Pil, a fare emergere il sommerso e ad attrarre investitori stranieri.
 
ARTICOLO 1 - COLPIRE LE GRANDI RICCHEZZE E SANARE L’EVASIONE FISCALE 
I Democratici e Progressisti di Articolo 1 evitano di parlare di patrimoniale, di tassazione delle grandi ricchezze. Anche se tra di loro c’è chi non la esclude, preferendo però definirla un contributo di solidarietà da parte di chi ha di più. Su una cosa però sono tutti d’accordo: in Italia c’è troppa evasione fiscale, soprattutto dell’Iva che arriverebbe fino a 40 miliardi di euro. Ecco, per gli ex Pd deve essere aggredita questa montagna di risorse sottratte allo Stato e alla collettività per iniziare a ridurre effettivamente l’Irpef. Partendo dagli scaglioni più bassi per salire fino al ceto medio impoverito in questi anni. Un’operazione graduale che tenga sempre d’occhio il debito pubblico. Non è con i regali alle imprese, dalla riduzione dell’Ires ai super-ammortamenti, che si crea lavoro e maggiore benessere. Non è togliendo l’Imu sulle prime case ai ricchi che si redistribuisce ricchezza. La via maestra sono gli investimenti e un’effettiva progressività della tassazione: chi ha di più deve pagare di più.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/28/italia/politica/tutti-pronti-a-parole-a-tagliare-le-tasse-vLx5aI2poK0ObI9gsEIPrO/pagina.html
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 28, 2017, 12:18:01 pm »

Dietro lo stesso striscione una sinistra pronta a unirsi
Mossa in chiave anti Renzi. L’offerta di D’Alema: lista con Pisapia
I leader dietro lo stesso striscione ieri a Milano per la festa del 25 Aprile


Pubblicato il 26/04/2017 - Ultima modifica il 26/04/2017 alle ore 01:31

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

È ancora tutto da costruire, ma a sinistra del Pd si accelera sul progetto di unire le forze in una lista unica. Una corsa contro il tempo per non farsi trovare impreparati quando Renzi schiaccerà il tasto “fine legislatura”. «Ma non chiamatela lista Mélenchon», dice Roberto Speranza. «Sarebbe un progetto troppo stretto - spiega il coordinatore dei Democratici Progressisti - e poi la Francia non è l’Italia. Mélenchon ha posizioni con venature nazionaliste e anti-europee. Anche noi critichiamo le politiche neo-liberiste ma siamo europeisti convinti. Noi vogliamo creare un’area larga progressista e di governo, non di semplice testimonianza». 

La prima saldatura dovrà essere fatta con l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il suo Campo progressista. E non è un caso che ieri nel capoluogo lombardo, alla manifestazione dell’Anpi per il 25 Aprile, fossero tutti insieme dietro lo stesso striscione. C’erano i leader di Articolo 1 - Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Enrico Rossi, Roberto Speranza - l’ex Sel Arturo Scotto e il capogruppo Francesco Laforgia. 
 
Accelerare e unire se possibile anche Sinistra italiana. Come ha precisato D’Alema l’altro giorno in un’intervista all’Huffington Post, ricordando la lezione francese che impone l’unità. «La sinistra, anche in Italia, deve prospettare una svolta rispetto alle politiche neo-liberiste, altrimenti si disperde. Nell’esperienza italiana questo può voler dire che a sinistra del Pd non c’è spazio per tre, quattro liste. Sarebbe un suicidio collettivo». L’ex premier auspica una fase costituente che porti a «un movimento unico, aperto e plurale che unisca Articolo 1, Sinistra italiana, Campo progressista». In Italia, nonostante non ci sia un sistema elettorale con il doppio turno, «si può prospettare uno scenario analogo, con una forza neocentrista come il Pd di Renzi al 23% come Macron, e una forza alla sua sinistra che abbia una consistenza tale da consentirle di esercitare un peso effettivo nella vita politica italiana». D’Alema non lo dice ma pensa almeno all’8% . Ma bisogna fare presto.
 
Dalle parti di Mdp sono convinti che, dopo avere vinto le primarie, Renzi vorrà portare il Paese a elezioni in autunno. A quel punto non saranno certo gli scissionisti a proteggere e sostenere il governo Gentiloni proprio mentre il neosegretario del Pd comincerà la sua campagna elettorale. I demoprogressisti incalzeranno l’esecutivo sulla manovra economica, cominceranno a prendere le distanze sulle misure economiche e sociali, chiederanno una svolta. I fuoriusciti da Sel come Arturo Scotto vorrebbero un atteggiamento persino più duro, arrivando a chiedere le dimissioni di Gentiloni. 
 
Tutto però dipende dall'accelerazione che vorrà imprimere Renzi alla fine anticipata della legislatura. In ogni caso, l’area a sinistra del Pd non vuole farsi trovare in mezzo a guado. Lista unica e schema di gioco da mettere in campo: Renzi dice che si vince al centro, dunque si apre un ampio spazio progressista con Pisapia. E forse con Sinistra italiana, pronta all’operazione. «Oggi più che mai è necessaria una sinistra forte per contrastare la destra e il neo-liberista Renzi», dice Nicola Fratoianni. Purché siano chiare le premesse di merito: politiche a sostegno del reddito, riduzione dell’orario di lavoro, politiche di investimento. Fratoianni è disposto a dimenticare il passato di D’Alema, i contrasti sulla politica economica dei governi dell’Ulivo e dell’Unione. «Oggi - spiega - conta discutere cosa serve al Paese. Articolo 1 ha detto che occorre un cambio di rotta con una certa dose di radicalità. Io dico una buona dose di radicalità». 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/26/italia/politica/dietro-lo-stesso-striscione-una-sinistra-pronta-a-unirsi-BKOBYggaiQDlD1fkEIH8oI/pagina.html
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« Risposta #187 inserito:: Maggio 08, 2017, 10:41:57 am »

Parisi: “Se Berlusconi porta la sua dote a Salvini dà la vittoria a Grillo”

Il fondatore di Energie per l’Italia: «Dobbiamo dire che siamo pro Ue»


Pubblicato il 04/05/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Stefano Parisi teme che alla fine Berlusconi porti i suoi voti a Salvini, con il risultato di un centrodestra che resterà fuori dal bipolarismo Pd-5 Stelle. «Così la vittoria di Grillo è assicurata».

Cosa dovrebbe fare il Cavaliere? 
«Occorre rivitalizzare l’area che c’è tra il Pd e i 5 Stelle, fare scelte chiare, liberali, soprattutto in campo economico. Bisogna dire ad esempio che l’Alitalia è un’azienda decotta, che andrebbe chiusa e non darle 600 milioni dei contribuenti. Noi di Energie per l’Italia stiamo rivitalizzando questa area con una costituente che non è l’aggregazione della diaspora di Fi. Vogliamo recuperare quella parte di elettori che non vota più per il centrodestra. Non sono contrario alle primarie ma serve una legge per farle credibili. Abbiamo presentato una proposta di legge di due righe che si può approvare in poche settimane. Ma dal centrodestra nessun segnale».
 
Il Cavaliere pensa che sarà sempre lui la guida moderata del centrodestra. 
«La politica deve essere rigenerata. Spero che non porti la sua dote di voti in un listone guidato dalla Lega. Sarebbe un listone perdente. Berlusconi deve scegliere un’alleanza popolare che dia un taglio netto con le politiche renziane e prenda le distanze dai cosiddetti “sovranisti”. In un sistema proporzionale quest’area raccoglierebbe un consenso di gran lunga superiore al peso elettorale di Salvini e Meloni. Ma bisogna dire con nettezza che stiamo dentro l’Europa e che non usciamo dall’euro. Bisogna uscire dall’ambiguità. Il nostro popolo non capisce. È disorientato».
 
Energia per l’Italia non è rilevata dai sondaggi. Se la nuova legge elettorale dovesse introdurre la soglia di sbarramento al 5% come farete ad entrare in Parlamento? 
«Io sono convinto che possiamo raggiungere tra 8 e il 10%. Stiamo aggregando liste civiche, realtà locali, consensi che da anni hanno abbandonato il centrodestra. Bisogna candidare persone competenti e credibili, avere programmi nuovi, non moderati, ma di radicale rinnovamento liberale».

 
Quindi è favorevole ad una soglia del 5%? 
«Sì. Noi abbiamo sempre proposto il sistema proporzionale tedesco che prevede anche la sfiducia costruttiva e non il premio di maggioranza».
 
In Francia chi voterebbe? 
«Mi piaceva Fillon, ma voterei Macron. La vittoria della Le Pen sarebbe una grave danno per la Francia ma anche per l’Italia. L’uscita di Parigi dall’euro sarebbe un guaio per noi, basti pensare che gran parte delle grandi aziende italiane sono nella sfera di influenza francese o partecipate dai francesi. Tanto per fare alcuni esempi: Telecom, Generali, Unicredit. La stessa Mediaset ne risentirebbe molto».
 
Lei in Sicilia sostiene la candidatura di Nello Musumeci insieme a Salvini e Meloni. Fi è contraria. Lei così si contraddice. 
«In Sicilia c’è un sistema maggioritario e si elegge il presidente della Regione. Il Pd è ai minimi termini dopo la disastrosa esperienza di Crocetta. Se il centrodestra non si mette insieme, M5S avrà davanti un’autostrada e se vincono in Sicilia…».

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Da - http://www.lastampa.it/2017/05/04/italia/politica/parisi-se-berlusconi-porta-la-sua-dote-a-salvini-d-la-vittoria-a-grillo-R8slvqPULBRwbXPZ8L99yM/pagina.html

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« Risposta #188 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:58:59 am »

Piano di Renzi dalla Sicilia a Roma. “Così ribalteremo i pronostici”
Si lavora a una coalizione che va da Ap alla sinistra.
Ma non c’è ancora un candidato.
Il sindaco Orlando mette il veto su D’Alia e lancia il rettore dell’Università Micari

Pubblicato il 10/08/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Matteo Renzi parte per le vacanze soddisfatto. I dati dell’economia sono positivi, secondo l’Istat. La tensione tra i ministri Delrio e Minniti è rientrata anche grazie al suo intervento. L’alleanza in Sicilia con Alfano è in dirittura d’arrivo. Le vendite del suo libro Avanti vanno a gonfie vele (primo in classifica nella saggistica). Tuttavia ha davanti un autunno pieno di incognite e attorno tanti nemici, anche dentro il partito, pronti a fargli la pelle se le elezioni regionali nell’isola dovessero andare male. Quando è andato a Palermo, la scorsa settimana, Renzi ha messo le mani avanti affermando che non si rifà certo il congresso del Pd e non si cambia il segretario se si perde in Sicilia. Sarebbe un suicidio a pochi mesi dalle politiche del 2018, ma lui a quel voto ci arriverebbe ammaccato e in condizioni di debolezza. Certamente non farebbe le liste elettorali come vorrebbe. 

Nonostante l’intesa con Alternativa popolare, Renzi è molto prudente sul risultato siciliano. Non dà nulla per scontato e ricorre alla vecchia schedina di calcio: «È una partita da 1X2». A questa partita non vuole dare valenza nazionale. Eppure ce l’ha e il leader dem ne è ben cosciente. Non è un caso che abbia dato un mandato politico ben preciso a Graziano Delrio e Lorenzo Guerini: l’intesa non è solo locale e così ha sbloccato l’impasse. Per eleggere i senatori la coalizione Pd-Ap verrà estesa a tutte le Regioni. La Sicilia è solo il primo tempo della partita nel quale segnare un punto a favore di Renzi per non essere messo in discussione e per scendere in campo nel 2018 in vantaggio rispetto agli avversari interni e alla sua sinistra.
 
In Sicilia però sia Mdp che Sinistra italiana faranno parte della coalizione che sfiderà i 5 Stelle e il centrodestra. È molto probabile che andranno a comporre la «Lista dei Territori» a forte impronta civica: amministratori, sindaci, esponenti delle associazioni e, appunto, candidati bersaniani e vendoliani. A questa lista sta lavorando Leoluca Orlando, rieletto proprio con una coalizione che va da Ap a Sinistra italiana. Vengono dal sindaco di Palermo i maggiori problemi ad accettare una candidatura a governatore indicata dai centristi. 
 
Orlando spinge per il rettore dell’Università palermitana Fabrizio Micari, un nome fuori dai giochi dei partiti. Pone il veto su candidature dal profilo tutto politico, soprattutto se centrista come Gianpiero D’Alia, e sul nome dell’eurodeputata del Pd Caterina Chinnici, figlia del magistrato ucciso dalla mafia eletta a Strasburgo con oltre 130 mila preferenze. Sconta il fatto di essere stata assessore della giunta di Raffaele Lombardo.
 
Insomma, sulla poltrona più alta di Palazzo d’Orleans anche il centrosinistra ha diverse difficoltà a scegliere. Ma il punto sempre più certo è che Alfano ha voltato le spalle al centrodestra e punta alla costruzione di un’area moderata alleata con il Pd. Deve far passare questa scelta, che non è solo locale, nel partito, da Milano a Palermo. Fa girare la voce che non c’è ancora una decisione definitiva, ma le parole del suo coordinatore siciliano e uomo forte nell’isola Giuseppe Castiglione sono chiare. «Il dialogo con il Pd c’è, va avanti, è positivo. E ribadiamo la nostra richiesta di una candidatura centrista alla presidenza della Regione. Le elezioni in Sicilia - ha sottolineato Castiglione - sono chiaramente di carattere locale, ma a pochi mesi dalle politiche, con il Pd stiamo chiaramente facendo una riflessione per costruire un percorso anche a livello nazionale». 
 
La strada sembra ormai segnata. Anche dentro Ap i tasselli stanno andando a posto. Due giorni fa Castiglione ha riunito il gruppo parlamentare dell’Ars e nessuno ha sollevato problemi. C’è stato un via libera quasi unanime. L’annuncio dopo ferragosto.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/10/italia/politica/piano-di-renzi-dalla-sicilia-a-roma-cos-ribalteremo-i-pronostici-fcYox5HlRYhTrxkZ7kC7LL/pagina.html
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« Risposta #189 inserito:: Ottobre 09, 2017, 05:07:01 pm »

Referendum, rischio boom della Lega. E Berlusconi mette la sordina
Una vittoria farebbe crescere le richieste elettorali di Salvini
Roberto Maroni punta a superare il 50%, anche se in Lombardia non è previsto il quorum, a differenza del Veneto dove è necessaria la maggioranza degli aventi diritto. A Silvio Berlusconi sembra «una spesa inutile, una perdita di tempo»

Pubblicato il 06/10/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Anche a Silvio Berlusconi sembra «una spesa inutile, una perdita di tempo». Non lo dirà pubblicamente. Nelle ultime ore però lo ha confidato. Ha dato ragione a quei collaboratori e consiglieri che temono un risultato eclatante dei referendum sull’autonomia del 22 ottobre. Cominciano a crescere i dubbi ad Arcore per l’effetto che potrebbe avere la consultazione se le percentuali di affluenza andranno oltre le previsioni, centrando una netta vittoria dei Sì. Roberto Maroni punta a superare il 50%, anche se in Lombardia non è previsto il quorum, a differenza del Veneto dove è necessaria la maggioranza degli aventi diritto. Luca Zaia sta lavorando per il colpaccio: il 70% dei veneti alle urne e un formidabile mandato per trattare con Roma. Alla fine chi si intesterà la vittoria? La Lega, ovviamente, che batterà cassa non solo nella capitale ma anche nel centrodestra. 

Nelle regioni del Nord i leghisti farebbero l’asso pigliatutto o quasi dei collegi uninominali. Sempre che passi il Rosatellum. Ma inoltre si presenterebbero alle regionali, sempre nel 2018, con una notevole posizione di forza.
 
«Ecco - spiegano allarmati gli azzurri - a noi non conviene che i referendum passino alla grande. Va bene che vincano i Sì, ma una stravittoria ci penalizzerebbe». Si fanno già i calcoli. In Veneto ad esempio su 18 collegi a Forza Italia ne toccherebbero al massimo 3. Andrebbe meglio in Lombardia dove il partito è più forte nel territorio, ma nessuno ad Arcore si fa grandi illusioni. Il nuovo sistema elettorale inoltre sarebbe «un suicidio» sotto il Tevere, ma Berlusconi su questo tema, per il momento, non ascolta i catastrofisti: vuole evitare una legge con le preferenze e avere nella parte proporzionale le liste bloccate che gli consentono di decidere i candidati.
 
Il Cavaliere è in un vicolo cieco, stretto tra referendum sull’autonomia e riforma elettorale. Sul primo ha promesso a Maroni di sostenerlo, ma non ci metterà la faccia. Berlusconi non vuole risvegliare antichi istinti secessionisti padani, proprio in coincidenza con quanto sta accadendo in Catalogna. Nella sua agenda non sono segnati appuntamenti, iniziative pubbliche. Molto dipenderà dai rapporti con la Lega, da come andrà il vertice con Salvini. Parleranno certo di programmi, ma è chiaro che la vera posta in gioco è la leadership e il numero dei collegi da dividersi. Non è un caso che Giorgia Meloni, avendo capito il gioco di Silvio e Matteo, abbia sparato ad alzo zero sia sul referendum sia sul Rosatellum. Facendo infuriare Maroni che è arrivato a mettere in discussione la prosecuzione dell’alleanza con i Fratelli d’Italia alle prossime regionali lombarde.
 
È vero che un ottimo risultato referendario rafforzerebbe Maroni, che mantiene con il Cavaliere un solido rapporto e contrasta le «velleità» da premier di Salvini. Ma il segretario della Lega rimane Matteo e con lui Berlusconi dovrà sempre fare i conti. E allora il leader di Forza Italia non ha l’interesse che il successo delle due consultazioni per l’autonomia se li intesti la Lega in quanto tale. Tra l’altro ha visto alcuni sondaggi nei quali emerge che una grande maggioranza di elettori, in particolare nelle Regioni del Centro e del Sud, è contraria a questi referendum. E il consenso di Forza Italia è concentrato in queste Regioni.
 
C’è poi un altro elemento che sta valutando l’ex premier: gli è arrivata voce che la prossima settimana o pochi giorni prima che si aprano le urne referendarie del Nord, il governo concederà parte di quella autonomia che ha chiesto pure l’Emilia Romagna, senza avere chiamato al voto i suoi elettori. Un modo per depotenziare al massimo l’iniziativa leghista.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/06/italia/politica/referendum-rischio-boom-della-lega-e-berlusconi-mette-la-sordina-SuZbCvDFBgPuWFO3RNXVJK/pagina.html
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« Risposta #190 inserito:: Ottobre 12, 2017, 06:04:58 pm »

Uno schiaffo ai governatori leghisti. Berlusconi snobba il referendum
Maroni insiste e cerca di convincerlo, ma il Cavaliere non sarà in piazza.
Nel giorno della manifestazione a Milano, kermesse di Forza Italia in Campania
Maroni annuncia che telefonerà ad Arcore per far cambiare idea a Berlusconi

Pubblicato il 10/10/2017

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Non è chiaro a che titolo Roberto Maroni chiederà a Silvio Berlusconi di partecipare sabato prossimo alla manifestazione organizzata da Forza Italia a sostegno del referendum per l’autonomia. Ha però annunciato che telefonerà ad Arcore e, paradossalmente, lo «inviterà» ad andare ad un’iniziativa del partito dello stesso Berlusconi. «Sarebbe un bel segnale. So che è molto occupato, però ora non ha da fare con il Milan e magari un’oretta la trova», dice Maroni con una punta di sarcasmo che tradisce nervosismo sulla riuscita della consultazione. Non tanto sulla vittoria dei Sì, che sembra scontata, ma sull’affluenza alle urne: percentuali che faranno la differenza sulla forza che avrà il governatore quando dovrà trattare con Roma. 
 
Roberto ha bisogno di Silvio, del suo appello al voto. Ma l’ex premier non sarà a Milano: ha confermato la sua presenza a Ischia dove questo fine settimana si riunirà tutta la Forza Italia del Sud. Una sorta di stati generali voluta dal coordinamento campano. È vero che il leader azzurro sarà già da quelle parti. Venerdì andrà a Ravello per fare da testimone di nozze alla sorella della sua compagna Francesca Pascale (anche lei testimone). Una cinquantina di invitati, per lo più amici e parenti di Carlo Pasquale Gargiulo e Marianna Pascale, nel prestigioso hotel Caruso. Tutti lì si aspettano che il Cavaliere canti, accompagnato da Mariano Apicella. Sabato mattina lascerà la Costiera Amalfitana per sbarcare a Ischia, visitare la zona terremotata e poi nel pomeriggio parlare a quel partito del Sud che gli ha sempre dato grandi soddisfazioni.
 
«Altro che andare a Milano per dare una mano a Maroni», spifferano gli azzurri meridionali. I quali ci tengono a ricordare che i voti Forza Italia ce l’ha soprattutto nelle Regioni del Sud. In Sicilia, dove sono sicuri di vincere con Nello Musumeci. In Campania, in Puglia e in Calabria, dove Fi viaggerebbe su percentuali tra il 18 e il 20%. «Quanto ha invece Forza Italia in Liguria e nella stessa Lombardia? Attorno o sotto il 15%. In alcuni casi ben al di sotto del 10% come in Veneto e in Piemonte». Questo dicono e ricordano i “sudisti azzurri”.
 
Lo ricordano in particolare a Giovanni Toti e a Paolo Romani che nei giorni scorsi avevano sostenuto che al Sud Fi sia in caduta libera. Il governatore ligure aveva pure fatto riferimento ai sonori schiaffoni che Mara Carfagna e il coordinatore regionale Domenico De Siano avevano preso alle amministrative delle loro città, Salerno e Napoli. Che venga Berlusconi per loro è grande motivo di orgoglio. Soddisfazione doppia che il Cavaliere non vada a Milano per aiutare Maroni e la Lega che, in caso di forte affermazione del referendum, farebbero la voce grossa quando si tratterà di decidere gli equilibri nel centrodestra alle elezioni regionali e l’assegnazione dei collegi uninominali. Sempre che il Rosatellum riuscirà a passare le forche caudine del Parlamento. Maroni però preme, lo vuole al suo fianco. Salvini è più tiepido. Anche il leader leghista vorrebbe più autonomia per Lombardia e Veneto: non vuole però rafforzare troppo Maroni che è il suo vero avversario nel partito. Tra l’altro, l’incontro tra il Cavaliere e Salvini non dovrebbe tenersi questa settimana: il segretario del Carroccio attende prima l’approvazione del Rosatellum.
 
Cosa farà Berlusconi? In queste ore dovrà prenderà una decisione. Sabato manderà un messaggio alla manifestazione di Milano nel giorno in cui è a Ischia? Quanto si esporrà? Cercherà di sicuro di allontanare ogni accostamento con la Catalogna. Il Ppe ha le antenne alzate e a Ischia ci sarà pure il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani.
 
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« Risposta #191 inserito:: Febbraio 27, 2018, 05:41:56 pm »

L’asse tra CasaPound e Salvini imbarazza Berlusconi e alleati
I neofascisti: pronti a sostenere un governo con lui premier. Il leghista apre

Pubblicato il 27/02/2018

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

CasaPound tifa per un governo «sovranista» a guida leghista. «Se ci porta fuori dall’euro e dall’Unione Europea e blocca l’immigrazione, siamo pronti a sostenerlo. Dovrebbe essere un governo che non ha Tajani premier e Brunetta all’economia, ma Salvini premier e un Bagnai all’economia», precisa Simone Di Stefano. Intanto per sostenere un esecutivo di questa natura CasaPound dovrebbe eleggere qualche parlamentare e non sembra che il movimento che rivendica la sua identità fascista sia in grado di superare lo sbarramento del 3%. Ma quello che conta è il messaggio che il destinatario non disdegna per niente. Il leader leghista lascia la porta aperta. «Mi occupo di Lega e di centrodestra, lavoro perché gli italiani scelgano un governo di centrodestra a guida leghista. Tutto quello che accade fuori non mi interessa. Non vedo l’ora di essere messo alla prova, poi dal 5 marzo incontrerò tutti». Gli interessa far capire ad un potenziale elettore di CasaPound che, se non vuole sprecare il suo voto, c’è la Lega nazionale. 

Non è chiara la convenienza dell’endorsement fatta da Di Stefano, che guida una sua lista non coalizzata al centrodestra. Si tratta però di un riavvicinamento. Con le bandiere della tartaruga, CasaPound partecipò alla prima manifestazione del Carroccio a Roma, in Piazza del Popolo, il 28 febbraio del 2015. Durò poco la liaison: a novembre dello stesso anno i neofascisti non andarono alla manifestazione di Bologna, voluta da Salvini, sul cui palco salirono Berlusconi e Meloni. 

Adesso il riavvicinamento che imbarazza Forza Italia. «I gruppi di estrema destra - spiega Maria Stella Gelmini - sono lontani dalla nostra cultura. Noi guardiamo ai moderati, agli indecisi». In privato gli azzurri dicono che quelli di Matteo sono giochi elettorali: cerca di imbarcare dalla destra cattolica (a Milano ha giurato sulla Costituzione e il Vangelo con un rosario in mano) a quella neofascista . «Non ci sarà un governo sovranista guidato da Salvini, per cui i camerati di CasaPound si mettano il cuore in pace», sostiene uno dei più stretti collaboratori del Cavaliere. 

Gli azzurri non lo dicono, ma alla fine se questi «giochi elettorali» dovessero servire a vincere qualche collegio in più, soprattutto al centro e al sud dove si gioca l’esito elettorale, allora ben vengano. I più infastiditi sono quelli di Fratelli d’Italia. Meloni si è sempre tenuta alla larga da CasaPound che rappresenta un concorrente. Ancora peggio se una parte di quei voti di estrema destra andassero alla Lega che fa di tutto per caratterizzarsi come la nuova e vera destra italiana. Fratelli d’Italia poi non vuole che si continui a parlare di fascismo e antifascismo. E di essere schiacciato su posizioni di destra radicale. «I problemi veri e seri - dice Fabio Rampelli - sono altri». Chi prende con forza le distanze è Noi con l’Italia che ha ingaggiato una battaglia interna al centrodestra contro Salvini premier. «Chiusura netta senza sé e senza ma. Il centrodestra moderato e liberale - afferma Raffaele Fitto - non può dialogare né oggi né in futuro con forze politiche distanti e distinte totalmente da noi come CasaPound». 

Gli altri partiti parlano di «corrispondenza di amorosi sensi fra destra fascista e Lega sovranista» (il ministro della Giustizia Andrea Orlando). Un ex alleato come Fabrizio Cicchitto mette in evidenza «la bella compagnia nel centrodestra e la pericolosa copertura che Berlusconi sta dando a Salvini». Michele Anzaldi del Pd dice che «un governo Salvini-CasaPound è uno scenario da film horror: voti Berlusconi e ti trovi Casapound». 

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« Risposta #192 inserito:: Marzo 05, 2018, 12:12:49 am »

MATTEO SALVINI 

Una sola mano da giocare senza assi, vincere o diventare un comprimario 

(Di Amedeo La Mattina) 

I rivoluzionari, una volta al governo, si calmano. Diventano più pragmatici, fanno i conti con i numeri (quelli parlamentari e del bilancio pubblico) e gli alleati che non la pensano allo stesso modo. Potrebbe succedere pure a Matteo Salvini, che dice di voler fare la rivoluzione perché «quando prometti certe cose, guardando le persone negli occhi, senti una responsabilità enorme». Al governo, ancora di più se nel ruolo di premier, si gioca tutta la popolarità accumulata in questi anni nei quali ha sostituito il verde padano con il blu nazionalpopulista, il Dio Po e i riti pagani di Umberto Bossi con il Vangelo e il rosario. I «terroni» si sono un po’ convertiti e dovrebbero spingere Matteo verso le alte vette a due cifre per scavalcare Berlusconi e rispedire a Strasburgo il moderato europeista Antonio Tajani. Se non riuscisse nel sorpasso, diventerebbe un comprimario. Per far valere le sue posizioni sovraniste dovrebbe sommare i suoi seggi a quelli di Fratelli d’Italia, bilanciando l’asse dei moderati Forza Italia-Noi con l’Italia. Ma Giorgia ha il dente avvelenato con Matteo e non è disposta a spalancargli le porte della destra nazionale. 

Si gioca tutto Salvini nelle urne, da Milano a Trapani. Ha scommesso tutte le sue fiches su un solo colore nella roulette della politica. Lo dice lui stesso che ha una sola mano da giocare. «Gli italiani non mi darebbero una seconda occasione se fallissi». Se fallisse l’operazione Lega nazionale, se dovesse acconciarsi a una maggioranza e a un governo a trazione forzista, che guarda più alla Merkel che all’ungherese Orban, la pagarebbe a caro prezzo. La fila è lunga. Ad aspettarlo sulla riva del fiume sono in tanti. A cominciare da Roberto Maroni, che da domani è libero da impegni al Pirellone. 

Ma a fargliela pagare per le promesse non mantenute saranno gli elettori, soprattutto quelli meridionali che hanno cominciato a fidarsi del milanese che è andato a casa loro a promettere tasse al 15%, la protezione delle arance e dell’olio made in Italy dai prodotti nordafricani. E tanti rimpatri, a migliaia ogni mese. Petto in fuori, ha pure aggiunto che se Bruxelles dovesse mandargli una lettera con i compiti da fare a casa (come quella che arrivò a Berlusconi nel 2011), la butterebbe nel «bidone della carta da riciclare». I dubbi che possa farlo non mancano. 
Salvini si è imposto nel panorama politico italiano. Dalla notte delle scope dei Barbari sognanti che servirono a Maroni per far dimenticare lo scandalo Bossi-Belsito, la Lega di Salvini ha guadagnato più di dieci punti e la cavalcata continua. Ma sul tavolo della corsa al potere c’è un’infinità di promesse che da sola la Lega non può mantenere.

SILVIO BERLUSCONI 
Stanco e criticato dai suoi alleati, l’ex Cav teme il boom della Lega 
(Di Marcello Sorgi) 
Non è più lui. È stanco. Non sa più incantare il Paese. Ha fatto una campagna elettorale ripetitiva. Non ha saputo estrarre il coniglio dal cilindro come in tutte le campagne precedenti. Sembrava un disco rotto, sempre e solo «flat tax». Il contratto con gli italiani firmato per la seconda volta a Porta a porta s’è risolto in un’inutile parodia della geniale trovata di diciassette anni fa. È andato a rimorchio degli alleati, che, si vede, con lui non hanno alcun feeling e sono fin troppo più giovani di lui.

Il florilegio delle critiche - alcune delle quali indubbiamente motivate - è arrivato all’orecchio del vecchio Silvio. Qualche preoccupazione, inutile nasconderlo, ce l’ha anche lui: il timore che alla fine i 5 stelle prevalgano, che il crollo del Pd vada a ingrossare la lista di Di Maio, di ritrovarsi condizionato da un successo di Salvini e Meloni superiore alle aspettative, o che il Quirinale, in mancanza di una chiara maggioranza di centrodestra, che risulta ancora difficile da raggiungere, scelga altre strade. Queste idee frullano per la testa dell’ex Cavaliere, che ha scelto di trascorrere la vigilia del voto a Napoli, dove sempre gli è stata tributata un’accoglienza trionfale.

 Eppure basterà solo che stanotte il centrodestra si confermi primo come numero di voti, con un sensibile distacco sui pentastellati, e che Forza Italia superi, anche di poco, la Lega, per fargli cambiare umore. Silvio Berlusconi si era accostato alla settima campagna elettorale della sua ormai lunga vita politica con nelle vele il vento della vittoria alle regionali siciliane, ciò che gli aveva fatto immaginare possibile, anche se non garantito, la replica del risultato su scala nazionale. Di qui la sua testarda volontà di rimettere in piedi la coalizione - che non si può più definire «berlusconiana», ma di cui rimane tuttavia federatore -, anche con alleati che non fanno mistero di non riconoscere più la sua leadership, e puntano apertamente a disarcionarlo. 

Il florilegio di punzecchiature e vere e proprie polemiche con Salvini e Meloni, il dichiarato dissenso sull’Europa, specie quando, negli ultimi giorni, dopo il viaggio di Meloni a Budapest e l’incontro con Orbán, anche il leader leghista ha rispolverato gli slogan anti-euro, la scelta del presidente dell’Europarlamento Tajani come candidato-premier, hanno riaperto il solco delle divisioni interne al centrodestra. E nessuno è in grado di prevedere cosa succederebbe dopo il voto, se Berlusconi, in mancanza di una maggioranza parlamentare, dovesse strizzare l’occhio a Renzi. Il rischio vero è che non ci siano i numeri neanche per un governo di larghe intese e Salvini e Meloni, d’intesa con Di Maio, puntino a un ritorno alle urne.

 
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« Risposta #193 inserito:: Marzo 19, 2018, 11:08:34 am »

“Salvini troppo spregiudicato”. In Forza Italia scatta l’allarme
I timori di Gianni Letta: così rischiamo un esodo verso il Carroccio
Il leader della Lega è in tour per l’Italia per ringraziare gli elettori della Lega
Pubblicato il 17/03/2018

AMEDEO LA MATTINA
ROMA

Il termine più gettonato dentro Forza Italia per definire Salvini è «spregiudicato». Berlusconi conosce bene la logica che in politica guida i vincitori: non si fanno prigionieri, si impone la linea. E si rende conto di quanto il leader leghista sia tentato di assegnarsi il primo round post-elettorale, quello delle presidenze di Camera e Senato. Avendo già dato per scontato che Montecitorio vada a M5S, Salvini non intende cedere il più alto scranno di Palazzo Madama a Paolo Romani. Di lui non si fida. Ritiene che se diventasse la seconda carica dello Stato, avrebbe un peso rilevante nel secondo round quando si dovranno trovare una maggioranza e formare il governo. 

Cosa succederebbe infatti se Salvini non riuscisse nel suo intento e fosse costretto a passare la mano ad un altro? Romani, nella veste di presidente del Senato, sarebbe un protagonista istituzionale che potrebbe rendere la vita particolarmente difficile ad eventuali accordi governativi Lega-M5S. Salvini avrebbe un problema a far eleggere Roberto Calderoli alla presidenza del Senato perché non è un suo fedelissimo. È ciò che sostengono i berlusconiani e in parte dicono la verità, ma il leader leghista potrebbe puntare per quella carica sulla neo-senatrice Giulia Bongiorno. «Sarebbe un pugno in un occhio a Berlusconi», precisano ad Arcore.

Salvini minimizza l’agitazione forzista, assicura che con Berlusconi c’è «totale sintonia». «Come leader del centrodestra parlo e mi muovo a nome di tutti gli alleati. Con loro stiamo lavorando alla squadra e al programma di governo mentre vedo che il Pd litiga e i 5 Stelle non si capisce cosa vogliano fare». Per la verità dentro Fi è scattato l’allarme rosso. Molti temono che l’ex Cavaliere non riesca più a contenere lo «spregiudicato Matteo», non abbia la forza di vincere la battaglia del Senato. «Se questo accadrà, saremo travolti e comincerà un esodo verso la Lega, soprattutto nelle Regioni del Sud. Forza Italia diventerà un esercito in rotta». Sembra che questo sia il concetto che Gianni Letta abbia spiegato a Berlusconi in persona in maniera meno pacata del solito. Addirittura orecchie sensibili raccontano di averlo sentito urlare (cosa che ha dell’incredibile), mentre parlava al telefono, per la sua esclusione dal vertice del centrodestra martedì scorso. 

In effetti Gianni Letta non era stato nemmeno invitato. Accanto al grande capo c’erano solo Niccolò Ghedini e Licia Ronzulli nei confronti dei quali serpeggiano i malumori dei colonnelli. Il problema è che a pensarla come Letta ci sono pure due amici storici del leader azzurro come Fedele Confalonieri e Adriano Galliani. È un vasto fronte che ritiene già il primo round delle presidenze di Camera e Senato la trincea in cui resistere all’avanzata leghista. «Se la Lega aspira alla designazione di Salvini come presidente del Consiglio, allora la presidenza del Senato spetta a Fi. Non può un solo partito monopolizzare tutto», precisa Maurizio Gasparri. «Anche perché - aggiunge Osvaldo Napoli - una cosa è vincere con il 17%, un’altra è volere stravincere umiliando il 14% di Fi. Se si rompe la coalizione è un male per tutti». 

Tra martedì e mercoledì ci dovrebbe essere un altro incontro tra l’ex Cavaliere e Salvini. «Sarà l’occasione - sostengono ad Arcore - per reagire con forza». Il leader leghista, per la verità, non sembra per niente «terrorizzato» da questa reazione, anzi afferma che sono tutte paure di chi vorrebbe un’interlocuzione privilegiata con il Pd. E per evitare doppi giochi, chiede che al Quirinale per le consultazioni vada una sola delegazione del centrodestra. È un modo per evitare che con Berlusconi e Meloni si decida una linea e poi nello Studio della Vetrata, davanti al Capo dello Stato, si parli un’altra lingua. Proposta respinta al mittente. Fratelli d’Italia e Forza Italia andranno con la loro delegazione e i loro capigruppo. Con una piccola ma significativa premessa: con l’arrivo dei senatori eletti con di Noi con l’Italia, il gruppo di Fi raggiunge quota 63. Sarebbe il secondo gruppo del centrodestra, scavalcando la Lega. E siamo solo all’inizio.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/17/italia/politica/salvini-troppo-spregiudicato-in-forza-italia-scatta-lallarme-PtZ8YX41ZFQM5fPpB123HK/pagina.html
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« Risposta #194 inserito:: Marzo 25, 2018, 06:08:28 pm »

Salvini e il patto con Di Maio: braccio di ferro sulla premiership.

E spunta l’ipotesi di un terzo nome

Berlusconi stretto in un angolo: «Perché Luigi non mi chiama?».

Pubblicato il 21/03/2018

Amedeo La Mattina, Ilario Lombardo
Roma

Chissà se nei colloqui quotidiani con Silvio Berlusconi il leader della Lega gli ha spiegato tutti i suoi piani per trovare una maggioranza di governo. Compresi i piani B e C. Una cosa è certa: Matteo Salvini ripete come un mantra che «senza i 5 Stelle sarà difficile trovare una soluzione» al rompicapo post-elettorale. L’intesa deve passare per forza «dall’altro vincitore» che si chiama Luigi Di Maio. Il capo del Carroccio non sta facendo il doppio gioco, non intende cercare un accordo solitario e rompere con il centrodestra. In questa fase, Salvini lavora al piano A. E’ impegnato a trovare una maggioranza di governo insieme con Berlusconi e Giorgia Meloni. Oggi i tre leader si vedranno a Roma, per chiudere sulle presidenze di Camera e Senato. Ma è inevitabile che si parlerà pure di cosa fare dopo. 

Ecco, appunto: c’è un dopo, se il piano A dovesse fallire. «L’interlocutore del centrodestra - sostiene Salvini con i suoi consiglieri - è Di Maio». Il leghista proverà prima a muovere l’intera coalizione, cercherà un mandato, andrà a verificare se c’è una maggioranza, provocando Di Maio con le sue stesse argomentazioni. Chiederà il sostegno al M5S, richiamandoli al «senso di responsabilità», consapevole di poter fallire. È al limite dell’impossibile che i grillini possano votare un governo di destra, dove uno dei protagonisti è ancora Berlusconi, «il condannato», considerato nel Movimento il «male assoluto».

Ma questo è solo il primo round. Successivamente scatterebbe il piano B. Salvini ammetterà l’impossibilità di formare una maggioranza e lascerà spazio a Di Maio. «Toccherà a lui provarci» spiega. Entrambi sanno già che potrebbe andare così. In quel caso proveranno a sedersi attorno a un tavolo per scrivere programma e lista dei ministri. Sarebbe un governo fortissimo nei numeri ma complicato da comporre per le differenze programmatiche (difficile mettere insieme reddito di cittadinanza e flat tax al 15%), ma non impossibile. «Niente è impossibile», ripete Salvini, per nulla indifferente alle sirene dei 5 Stelle. Di Maio cercherebbe una maggioranza, avendo in tasca il patto con Salvini che, dopo il suo tentativo andato a vuoto, potrà disimpegnarsi dagli alleati in nome della responsabilità. Un’ipotesi sdoganata ieri anche dal leghista Giancarlo Giorgetti a Porta a Porta: «Se si trovano punti su cui concordare può essere una soluzione».

L’unico scoglio, che sia il leghista sia il grillino hanno ben presente, è la premiership. Chi farà il presidente del Consiglio? Salvini ha già detto che è «pronto a fare un passo indietro». Ma per lui è più facile, ha preso il 17% dei voti. Più complicata la rinuncia di Di Maio, forte del suo 32% e della disponibilità a sacrificare i ministri di peso. «Su Luigi premier non si cede» dicono nello staff. Nessun veto su Salvini ministro dell’Interno, ma è solo il premier che darà una garanzia politica ai 5 Stelle.

Dovesse saltare l’intesa, si arriverebbe alla terza ipotesi per sfinimento: un governo guidato da una personalità indicata dal presidente della Repubblica gradito a leghisti e grillini, che comunque manterrebbero le quote di maggioranza dell’esecutivo. Il premier sarebbe un traghettatore verso il nuovo voto. Ma come si sa, un governo può nascere istituzionale (e di breve durata) e poi diventare politico. «Niente robe alle Monti, però», avverte Salvini, trovando d’accordo Di Maio, convinto ormai che non convenga più tornare alle elezioni.

Davanti alle nozze grillo-leghiste, Fratelli d’Italia andrebbe all’opposizione. Forse pure Fi, ma c’è chi scommette che, pur di non misurarsi con una nuova gara elettorale a rischio per gli azzurri, Berlusconi potrebbe dar prova della sua adattabilità da manager. E in tal senso le ultime indiscrezioni sono sorprendenti. L’ex premier avrebbe ammesso con l’alleato leghista di avere sbagliato campagna elettorale, tutta impostata sui grillini che «non hanno mai lavorato, né hanno mai fatto una dichiarazione dei redditi». Ha capito di aver infilato due dita negli occhi ai giovani del Sud e a chi, nonostante una laurea, non trova un’occupazione. Di fronte allo stupore di tutti, e per primo di Salvini, il mago della comunicazione e della propaganda Berlusconi ha ammesso i suoi errori. Di più. Ha seguito Di Maio in tv e di fronte a Meloni si è sbilanciato in apprezzamenti: «Ha solo 31 anni ma è proprio bravo». Un complimento che è arrivato all’orecchio dello stesso leader grillino. Chi nel centrodestra conosce il fiuto di Berlusconi e la sua spregiudicatezza, crede però ci sia una precisa intenzione in queste confessioni, magari fatte uscire ad arte per aprire un impensabile canale di dialogo con i 5 Stelle. Quando un noto colonnello forzista ha consigliato a Di Maio di chiamare l’ex Cavaliere, il grillino è rimasto muto. Una telefonata che Berlusconi vorrebbe ricevere per un semplice motivo: «Sono io il leader di Forza Italia». Una telefonata che però, a sentire lo staff M5S, è impossibile. «Mai con Berlusconi», «noi con lo psiconano? (il nomignolo affibbiatogli da Grillo, ndr) Tutto ha un limite. Per molti di noi il M5S è nato proprio contro di lui». 

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/21/italia/politica/salvini-e-il-patto-con-di-maio-braccio-di-ferro-sulla-premiership-e-spunta-lipotesi-di-un-terzo-nome-XVTaRY4jZp1VB8YOXMbdVN/pagina.html
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