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Autore Discussione: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA  (Letto 127514 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:38:12 pm »

IL FUTURO DEI PARTITI / 1

La rimozione dell'Italia

I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti?



I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti? Questa è la domanda cruciale da qui alla prossima scadenza elettorale, qualunque essa sia.
Rispondere è impossibile essendo troppe le variabili in gioco. Ma di una cosa però mi sentirei sicuro. Che essi non potranno mai riacquistare un senso e un ruolo se nella loro identità politica non tornerà ad avere posto un elemento da troppo tempo assente: e cioè il discorso sull'Italia. Intendo dire la consapevolezza di che cosa è stato ed è il nostro Paese e di quali sono i suoi grandi e sempre attuali problemi: l'antica tensione tra pluralità dei luoghi e dissolvimento localistico, l'abisso multiforme tra Nord e Sud, la perenne e generale scarsa educazione alla legalità e alle virtù civiche, la forza degli interessi, delle corporazioni e delle camarille, sempre pronti a diventare dietro le quinte gli attori concreti di ogni realtà sociale e pubblica. Infine l'egoismo di chi ha e la triste condizione dei troppi che non hanno.

Questa è l'Italia vera con la quale i partiti e le loro culture e i loro programmi dovrebbero sentirsi chiamati a fare i conti. E con la quale per la verità ci fu un tempo in cui cercarono di farli. Accadde all'incirca fin verso gli anni 70-80 del secolo scorso quando ancora tenevano il campo le culture politiche del nostro Novecento: tutte nate, per l'appunto, da un'analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù. Da qui non solo programmi, ma soprattutto un'idea dell'interesse generale della collettività nazionale e di conseguenza una loro ispirazione autentica, e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio.

Ma con la fine della cosiddetta Prima Repubblica le culture politiche del nostro Novecento si sono disintegrate. Qualunque discorso sull'Italia è scomparso dalla vita pubblica italiana. Si è diffusa una sorta di stanchezza per il pensare in generale e magari in grande. Abbiamo provato come una noia, quasi un disgusto, per noi stessi e per una nostra storia che sembrava averci portato solo a Tangentopoli e al grigiore un po' torbido e inconcludente della stagione successiva. È accaduto così che ci siamo buttati a corpo morto sull'Europa. Per quindici anni e più il solo avvenire che è apparso lecito augurare al nostro Paese è stato quello di «entrare» in Europa, o, per restarci, di «avere i conti in ordine», di adottare le sue direttive, di «fare i compiti» a vario titolo assegnatici. Giustissimo, per carità, ma troppo ci è sembrato che a tutto dovesse (e potesse!) pensare l'«Europa»; che nel frattempo, peraltro, stava diventando sempre più evanescente. Troppo ci è sembrato che per essere europei fosse necessario buttarsi dietro le spalle l'Italia e il fardello della sua storia.

Superficialmente persuasi che ormai essa avesse fatto il suo tempo abbiamo guardato con sufficienza alla dimensione statal-nazionale. Non si decideva, tanto, tutto «in Europa»?

L'europeismo è diventato l'ideologia radio-televisiva del potere italiano, il pennacchio di ogni chiacchiera pubblica, il prezzemolo di tutte le minestrine dei Convegni Ambrosetti. Oggi ci accorgiamo che le cose stavano - e soprattutto stanno - un po' diversamente. La crisi paurosa del debito pubblico, e insieme la manifestazione di tutte le nostre innumerevoli inadeguatezza che essa ha causato, ci hanno ricordato, infatti, che esiste una cosa chiamata Italia, e che, ci piaccia o meno, tanta parte della nostra vita individuale e collettiva dipende da essa (e forse è servito a questo ricordo anche il concomitante anniversario della nascita del nostro Stato).

Ora è giunto il momento che se ne accorgano e se ne ricordino pure i partiti. L'origine della loro afasia degli ultimi anni, della loro perdita di senso e dunque di ascolto presso l'opinione pubblica, nasce per tanta parte dall'aver escluso dal loro orizzonte l'Italia e la sua vicenda, la sua realtà più intima. Nasce dall'aver cancellato ogni riflessione, ogni proposta di vasto respiro, ma credibile, capace di tener conto di quella vicenda parlando al cuore, alla mente, ma soprattutto alle speranze degli italiani. Siamo pieni di discorsi su ciò che è fuori dei nostri confini, su dove va il mondo, ma non abbiamo un'idea di dove vada o voglia andare l'Italia. Di che cosa essa debba volere. Nessuno ci dice, non sappiamo, a che cosa essa possa ancora servire. Sono i partiti che devono ricominciare a dircelo. Non ricordo più dove Antonio Gramsci ha scritto che si può essere realmente cosmopoliti solo a patto di avere una patria. Bene: è tempo che la politica, facendo sentire di nuovo la propria voce, torni a parlarci della nostra.

Ernesto Galli della Loggia

31 gennaio 2012 | 9:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_31/la-rimozione-dell-italia-eresto-galli-della-loggia_3fc5e248-4bd3-11e1-8f5b-8c8dfe2e8330.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Febbraio 28, 2012, 05:40:01 pm »

LA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA

Un club esclusivo di una certa età

Ciò che più colpisce nell'elenco dei grandi manager pubblici percettori di alti redditi, reso noto nei giorni scorsi, è sì l'ammontare di denaro che ognuno di essi intasca ma insieme, e forse soprattutto, è il loro sesso e la loro età. Non ce n'è uno che abbia meno di cinquant'anni (a dir poco: la media è senz'altro assai più alta) e, tranne un paio di eccezioni che confermano la regola, sono tutti invariabilmente maschi. È una situazione che non riguarda solo il settore pubblico. In generale, infatti, è tutta la classe dirigente italiana che corrisponde a questa caratteristica: un gruppo di maschi maturi, o più che maturi, con retribuzioni enormemente superiori alla media, ognuno titolare di una quantità straordinaria di incarichi. Non si tratta dunque solo dei politici che anzi, secondo me, possono essere annoverati da molti punti di vista tra i meno privilegiati. In misura assai più pronunciata presentano i caratteri di un'oligarchia di anziani colmi di benefici vari (non sempre monetari) pure i vertici delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, dell'università, della magistratura e al tempo stesso anche quelli del settore privato: dalla finanza (dove qualche tempo fa, non a caso, un novantenne si sentì vittima di una colossale ingiustizia perché invitato a lasciare il suo posto) all'industria, fino al giornalismo, dove spesso i direttori, i commentatori e i titolari di rubriche costituiscono un vero e proprio club esclusivo dei soliti noti.

Intendiamoci: parole d'ordine come «largo ai giovani» o «rottamiamo i vecchi» di per sé non hanno mai portato da nessuna parte, ma ciò non toglie che una società com'è per l'appunto quella italiana attuale, ai cui posti di comando non c'è neppure un quarantenne, sia inevitabilmente una società poco dinamica, incapace di rischiare, di misurarsi con il futuro. Cioè una società destinata alla decadenza oltre a essere una società profondamente ingiusta. Infatti - poiché è difficile pensare che l'eccellenza, guarda caso, corrisponda sempre e comunque all'età - nulla come un così diffuso dominio dei vecchi indica fino a che punto in Italia il merito non sia tenuto quasi in alcun conto come criterio decisivo per l'assegnazione di un qualunque incarico. Dappertutto sempre uomini di una certa età, accumulatori spesso a dismisura di cariche e incarichi sottratti ai più giovani: anche in questo modo il nostro Paese si è venuto privando di quella grande risorsa che in mille occasioni passate ha rappresentato il suo capitale umano.

Quanto detto riguarda anche i partiti. Stretti nella tenaglia del discredito pubblico che li colpisce dal basso e del commissariamento del governo Monti che li insidia dall'alto, non riusciranno a sopravvivere se non cambieranno profondamente. Innanzi tutto evitando di presentarsi con le stesse voci e gli stessi volti di sempre. In nessun Paese sono oggi al potere persone che già negli anni 70-80 occupavano posti di rilievo sulla scena pubblica. E di conseguenza in nessun Paese capita di sentire oggi sulla bocca dei politici affermazioni, proposte, enunciazioni programmatiche, che sono l'esatto contrario, o comunque diversissime, da quelle che i medesimi, con la medesima sicurezza, dicevano ieri. Uno ieri che in più di un caso era soltanto pochi mesi fa.

Ernesto Galli Della Loggia

27 febbraio 2012 | 13:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_27/club-esclusivo-di-una-certa-eta-della-loggia_13c57f70-610c-11e1-8325-a685c67602ce.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Marzo 07, 2012, 05:19:41 pm »

LA DEMOCRAZIA E GLI STATI NAZIONALI

Il contenitore indispensabile


La crisi economica sta mandando all'aria molti luoghi comuni di cui negli ultimi due o tre decenni si è nutrito il discorso pubblico di tutto l'Occidente, e in particolare dell'Italia. Forse il più significativo è quello che decretava la presunta fine dello Stato nazionale. Fine non solo presunta ma auspicata, in quanto ritenuta un progresso certo verso un futuro migliore. Da ciò, per esempio, gli inni sempre e comunque all'«Europa», a ciò che in qualunque modo avesse a che fare con la sua «costruzione», l'approvazione a tutto quanto sapesse di limitazione della sovranità statal-nazionale.

Limitazione, peraltro, sempre presentata lessicalmente come un «superamento» (e quindi come qualcosa di positivo).
Ci si è aggiunto, per buona misura, l'orientamento culturale diffuso, volto a dipingere ogni identità collettiva (purché beninteso non fosse quella «politicamente corretta» rivendicata da neri, donne o omosessuali) come l'anticamera del pregiudizio, del razzismo, della guerra: insomma, della violenza. Anche per questa via, quindi, nuovo pollice verso a quei potenti blocchi d'identità storico-culturale rappresentati dagli Stati nazionali.

La realtà sta però dimostrando che - pure ammesso (e niente affatto concesso) che lo Stato nazionale costituisca qualcosa di ormai intrinsecamente negativo, e pure ammesso (e di nuovo non concesso) che perciò è una fortuna se la globalizzazione e l'«Europa» si apprestano a liberarcene - pure ammesso tutto, dicevo, rimane però un problema non da poco con cui fare i conti. E cioè che lo Stato nazionale è pur sempre l'unico contenitore possibile entro il quale possa esercitarsi l'autogoverno di una collettività. In una parola, la democrazia. È accaduto così storicamente. E oggi pure è così: democrazia e Stato nazionale stanno insieme; se viene meno l'uno, appare destinata a venire meno anche l'altra.

Lo insegna quanto accade oggi. Appena una qualunque decisione, specie economica, esce dal singolo ambito statale ed è avocata dalla sede sovranazionale europea, essa esce dal circuito della discussione e del confronto interno alla collettività degli elettori di quello Stato. I suoi contenuti non sono più definiti dall'opinione della maggioranza esistente in quel Paese o dall'orientamento del suo governo (tutte cose che sopravvivono ma non hanno valore dirimente). E prendono invece la forma ultimativa, calata dall'esterno, del «prendere o lasciare».

Né è facile sostenere che tale cessione di sovranità è tuttavia accettabile perché - come prescritto anche dalla nostra Costituzione - essa avverrebbe su un piede di parità. Almeno per quanto riguarda l'Unione Europea tale parità appare ormai del tutto fittizia. Solo formalmente, infatti, la cessione di cui sopra avviene a favore di un'entità sovranazionale nella quale tutti i membri hanno eguale voce in capitolo. In realtà, essa avviene a favore di un organismo dove d'abitudine prevale costantemente la volontà di uno o più Stati nazionali (per esempio la Germania, o la Germania e la Francia). Cioè, guarda caso, del loro particolare interesse come Stati nazionali. E tale volontà prevale, com'è regola antichissima, perché è la volontà del più forte. La quale volontà si può sempre sperare, naturalmente, che finisca per accettare qualche sacrificio: ma se lo fa, lo farà certamente solo con la speranza di un vantaggio futuro in termini di potere.

Ernesto Galli Della Loggia

7 marzo 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_07/della-loggia-contenitore-indispensabile_de6ee90c-681c-11e1-864f-609f02e90fa8.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Marzo 12, 2012, 04:27:06 pm »

DEMOCRAZIA E SOVRANITÀ STATALE

Ma la nazione siamo tutti noi

Non è solo l'economia. Come ho detto in un precedente articolo ( Corriere del 7 marzo), il fattore che in specie nei Paesi del nostro continente sta mettendo nell'angolo la politica, rendendola in molti casi irrilevante, ancor più dell'economia è la perdita (consapevolmente quanto incautamente accettata) di sovranità da parte dello Stato nazionale. Perdita particolarmente sensibile in questa parte del mondo, dove essa avviene, come si sa, sotto la regia incalzante, e a favore, dell'Unione Europea.

Ma c'è di più: perché, alla lunga, l'assottigliamento della sovranità nazionale rischia di privare della sua ragion d'essere la stessa democrazia, la stessa sovranità popolare: dal momento che questa non è pensabile che nel quadro dello Stato sovrano. Perché esista la sovranità della nazione, infatti, e dunque l'idea dell'autogoverno, e quindi il meccanismo della rappresentanza, è necessario che esista preliminarmente uno Stato dotato degli attributi della piena autonomia e del comando. Alla fin fine - come ha spiegato bene uno studioso francese, Pierre Manent - il volere delle maggioranze non potrebbe nulla senza il potere dello Stato sovrano. Sia logicamente che storicamente la sovranità popolare presuppone quella statale, e si costituisce facendosene l'erede. Non basta: per capire quale intreccio vi sia tra democrazia e statualità si pensi solo al fatto che è proprio in relazione alla forza minacciosa dello Stato sovrano che si è affermata la necessità «difensiva» costituita vuoi dalla divisione dei poteri dello stesso Stato, vuoi dalla garanzia dei diritti individuali di libertà.

È sempre l'idea di nazione, infine, è sempre l'esercizio della sovranità popolare direttamente derivata da quella dello Stato, che ha rappresentato il presupposto storico che prima o poi è valso a porre all'ordine del giorno in tutti gli Stati nazionali il grande tema dell'eguaglianza delle condizioni tra tutti i cittadini. Come traguardo magari irraggiungibile, ma non per questo meno necessario, di ogni democrazia. Da sempre la domanda posta dalla «nazione sovrana» è: si può far parte su un piede di parità di un medesimo corpo politico senza godere al tempo stesso di condizioni eguali? E può la sovranità della nazione sottrarsi al dovere di creare tali condizioni?

Democrazia e Stato nazionale sono cose per più aspetti sovrapposte. La spinta all'autogoverno non può nascere tra individui sparpagliati, che semplicemente «si conoscono». Può sorgere solo all'interno di una comunità data, di un demos per l'appunto, che si riconosca preliminarmente come tale. Cioè come un insieme di persone le quali - consapevoli di condividere un territorio, una storia, dei costumi, dei valori, e del legame che tale condivisione crea - decidono di volersi rendere padroni del proprio destino. Essendo poi in grado di mettere concretamente in pratica un tale autogoverno disponendo dello strumento indispensabile, cioè di un medium comunicativo adeguato, rappresentato da un comune linguaggio. Nazione significa precisamente tutte queste premesse dell'autogoverno democratico: un «noi» che ci fa cosa diversa dagli «altri». Allora qualcosa che esclude? Sì, in un certo senso. Ma né più né meno come esclude ogni legame sociale tra gli esseri umani: una coppia, una famiglia, un vicinato. Vogliamo forse mettere al bando anche queste cose perché non in regola con il «politicamente corretto»?

Ernesto Galli Della Loggia

12 marzo 2012 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_12/ma-la-nazione-siamo-tutti-noi-ernesto-galli-della-loggia_f4ad7fb4-6c0c-11e1-bd93-2c78bee53b56.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:33:21 pm »

ELITE, SOLDI E SENSO DELLA MISURA

Le ostriche del potere

C'è qualcosa di eccessivo, di sottilmente smodato, nel rapporto tra la classe dirigente italiana e la dimensione del denaro e del lusso che il denaro consente. È una sorta di incontinenza e di esibizionismo senza freno; di compulsività acquisitiva. Sembra che in questo Paese per banchieri e imprenditori, per alti burocrati, professionisti di grido e parlamentari, per chi insomma conta qualcosa, ogni retribuzione non sia mai abbastanza elevata, ogni privilegio e ogni prelibatezza non siano mai troppo esclusivi, ogni manifestazione di ricchezza mai troppo smaccata.

La classe politica fornisce gli esempi se non più clamorosi senz'altro più noti. Intercettazioni, cronache giornalistiche, atti giudiziari restituiscono l'immagine di un gruppo di persone spesso proprietarie di ville su remote spiagge oceaniche o di case con viste strepitose sui più bei centri storici della penisola, intente appena possono a trascorrere vacanze in costosissimi resort esotici, a consumare pranzi e cene in locali da nababbi. Al senatore Lusi capitava di ordinare al ristorante piatti di spaghetti con non so che cosa, del costo di appena 180 euro. Viene da chiedersi: «Era sempre solo? E ai suoi ospiti sembrava ovvio andare in un posto del genere?». Evidentemente sì. Certamente appariva ovvio al sindaco di Bari Emiliano (e nel capoluogo pugliese non solo a lui, a quel che sembra) ricevere come regalo un intero acquario commestibile. Ogni anno, con le scuse più inverosimili, decine di delegazioni di consiglieri comunali e regionali (quelli della Sicilia in testa, di regola) si regalano a spese dei contribuenti viaggi in prima classe nelle mete più lontane e negli alberghi più costosi.

Ma non sono certo solo i politici. Don Verzé e i suoi collaboratori trascorrevano piacevoli (e frequenti) periodi di relax in alberghi e località di gran classe messi naturalmente a carico dei bilanci di enti nati per tutt'altri scopi ma che si ritrovavano non si sa perché ad averne la proprietà. Di espedienti più o meno analoghi si servono migliaia di italiani ricchi per i quali lo yacht o l'aereo privato sembrano ormai diventati necessari come l'aria. Per qualunque medio industriale scendere in un hotel come minimo (come minimo) a 5 stelle è ormai un'abitudine irrinunciabile. Così come in hotel come minimo a 5 stelle, o in favolose ville su qualche lago, o a Capri, o a Santa Margherita, si svolgono i loro convegni. Mai, chessò, in una bella sala dell'«Umanitaria» o alle «Stelline», no. E se proprio deve essere un postaccio come Milano, almeno il «Four Seasons».

È tutta l'élite italiana che ha perduto il gusto aristocratico della sprezzatura che è il contrario dell'affettazione, il piacere e il senso dell'eleganza fondata sulla sobrietà. La famosa mela che il presidente Einaudi chiese durante una cena se qualcuno voleva dividere con lui, forse neppure compare più nei menu del Quirinale. Così come non ha trovato molti imitatori il supremo snobismo, vagamente venato di tirchieria, che portava il suo altrettanto famoso figlio editore a scovare sperdute osterie dal cibo squisito (a suo dire) ma economicissime.
La moda è lo specchio di questo tracollo. I giovani della haute lombarda di una volta, vestiti d'inverno con i loden e le alte scarpe di Vibram; i vecchi tweed inglesi, che un tempo indossavano con nonchalance i signori della buona borghesia napoletana, hanno fatto posto alla tetra eleganza acchittata degli attuali trenta-quarantenni in carriera, abbigliati rigorosamente in nero come bodyguard o necrofori.

Queste odierne esibizioni e possibilità, così vaste, di lusso ostentato, di superfluo, questa mancanza di misura, dicono molte cose dell'élite italiana. Ci dicono per esempio di un gran numero di redditi occulti, di guadagni privati protetti da leggi compiacenti, e naturalmente di evasione e più ancora di elusione fiscale su grande scala, che la caratterizzano. Ci dicono, ancora, di una sua complessiva, forte diversità rispetto agli altri grandi Paesi europei con cui amiamo confrontarci. Nei quali, tanto per dire, almeno un buon numero di parlamentari italiani sarebbe stata già da tempo, per una ragione o per l'altra, costretta a furor di popolo a dimettersi; dove difficilmente sarebbero tollerati i cumuli di incarichi e di prebende con cui in Italia alti magistrati e grand commis si permettono tenori di vita elevatissimi; dove i rapporti incestuosi tra molti di loro e il mondo degli affari privati (conditi spesso e volentieri di cene, viaggi e vacanze insieme) sarebbero oggetto di censure e di provvedimenti severi.

Ma il rapporto della classe dirigente italiana con il denaro e con il lusso forse parla di qualcosa di più profondo. La sfrontata pervicacia con cui troppe volte essa esibisce entrambi sembra rispondere più che altro, infatti, al bisogno di occultare un intimo senso d'insicurezza. Quasi che sentendosi inadeguata al proprio ruolo, ai contenuti reali e impegnativi di questo, l'élite italiana pensasse di mostrarsi superiore nel modo più facile che le è possibile: con i soldi. Ma così agi e guadagni, invece di rappresentare in qualche modo una conferma della sua superiorità, alla fine sono solo la riconferma della sua inadeguatezza. Della sua lontananza dal Paese reale, della sua inettitudine a capire il bisogno che oggi esso esprime di essenzialità e di misura.

Ernesto Galli della Loggia

19 marzo 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_19/le-ostriche-del-potere-ernesto-galli-della-loggia_6093a4c4-718a-11e1-b597-5e4ce0cb380b.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Aprile 04, 2012, 05:20:06 pm »

IL LAVORO FRA REALTÀ E IDEOLOGIA

Le verità nascoste

La disoccupazione italiana, specie quella giovanile (dai 15 ai 24 anni) e femminile - e nel Mezzogiorno in modo particolare - ha raggiunto le cifre drammatiche di cui tutti i giornali ieri parlavano: in pratica un giovane italiano su tre e circa la metà delle giovani donne meridionali sono senza lavoro.

Molto meno si parla, invece, di altri dati, altre cifre, altre questioni, che riguardano il mercato del lavoro e che forse non sono così irrilevanti. Mi riferisco alle cose scritte negli ultimi tre giorni sulle colonne del Corriere dal senatore Pietro Ichino. A cominciare dal fatto, per esempio, che dal Lazio in giù (Lazio compreso) nessuna delle Regioni italiane, nonostante queste abbiano la totale competenza legislativa in materia di servizi al mercato del lavoro, nessuna Regione dal Lazio in giù, dicevo, si è messa in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio o qualunque altro dato indispensabile per conoscere, e quindi cercare di indirizzare, il mercato del lavoro. (Lo sanno, mi chiedo, i giovani meridionali che è questo il modo in cui i vari Vendola, Caldoro, Scopelliti, Lombardo si preoccupano del loro futuro?). Egualmente significativo, mi sembra, il dato della scarsa utilizzazione in Italia delle agenzie private di outplacement : le quali, dietro compenso, sembra invece che conseguano ottimi risultati nella ricerca di lavoro per chi non lo ha o lo ha perduto; ma, di nuovo, senza che in generale le Regioni si degnino di prestare il minimo aiuto finanziario a chi intenda ricorrervi.

Ma mi sembra che la questione centrale che viene fuori dall'analisi di Ichino, il vero punctum dolens di carattere strutturale del mercato del lavoro italiano - dunque verosimilmente non riassorbibile con un eventuale miglioramento della congiuntura economica - sia la questione dell'assunzione a tempo determinato, che ormai riguarda oltre i quattro quinti dei nuovi contratti di lavoro. Questione centralissima, perché è essa soprattutto che getta un'ombra cupa di precarietà e d'insicurezza sulla vita di milioni di nostri concittadini, che impedisce loro qualunque progetto per l'avvenire. E che quindi impedisce al Paese intero di credere nel suo futuro. Questione - cui si deve tra l'altro se l'Italia è drammaticamente fuori dagli investimenti stranieri - la quale con ogni evidenza dipende in particolar modo da una causa. Da «una legislazione del lavoro ipertrofica e bizantina», come scrive Ichino, che rende oltremodo problematico il licenziamento (e aleatorio il suo costo) «quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario». E che perciò scoraggia moltissimo dall'assumere se non a tempo determinato: presumibilmente anche se domani la situazione economica migliorerà.

Questo è il nostro problema: un tessuto produttivo nel quale chi è stabilmente dentro, difficilmente esce, ma in cui quasi mai chi è fuori riesce stabilmente a entrare. Dove la sola speranza dei disoccupati è al massimo quella di diventare precari. Mi chiedo se dopo settimane di estenuanti trattative sull'articolo 18 la Cgil si renda conto che è precisamente su questo punto, cioè sul diritto dei non occupati ad essere assunti stabilmente, che si gioca il vero futuro del nostro mercato del lavoro e in non piccola parte anche dell'Italia. Se si renda conto che blindare il diritto dei già occupati a conservare per sempre il proprio posto ha un solo inevitabile effetto: farne diminuire sempre più il numero, e basta.

Ernesto Galli della Loggia

4 aprile 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_04/verita-nascoste-ernesto-galli-della-loggia_3cf48f4e-7e17-11e1-b61a-22df94744509.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Aprile 09, 2012, 11:04:55 am »

RAGIONI ED ERRORI DI UNA STAGIONE

Il profondo Nord, illusione perduta

La crisi della Lega (e del berlusconismo) dimostra che serve un progetto nazionale non solo basati su interessi di parte


Dopo Berlusconi, Bossi; dopo la crisi del Pdl, quella della Lega: con gli avvenimenti di questi giorni si sta forse consumando definitivamente nella politica italiana quel ruolo centrale del Nord - lo definirei il Nord «ideologico», quello animato da un antico desiderio di rivincita e di primato, di cui per esempio il Piemonte non ha mai fatto parte - che, tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, mise alle corde la Prima Repubblica e poi cercò di ereditarne le sorti. È un ruolo che si chiude in modo fallimentare. In venti anni, infatti, quella che si presentava e per molti aspetti era un'iniziativa ambiziosa dal segno fortemente settentrionale - Lega/Forza Italia - non è riuscita ad aprire alcuna fase realmente nuova nella vita del Paese (tanto meno dal punto di vista economico), né a riformarne in meglio le istituzioni (il naufragio del cosiddetto federalismo è ormai sotto gli occhi di tutti) né a dar vita a una nuova età politica.

In un senso profondo, insomma, il Nord, quel Nord, non è riuscito a governare l'Italia. Non c'è riuscito soprattutto perché non è riuscito a unificarla politicamente. Non è stato capace, cioè, di imitare l'esempio della Democrazia cristiana, alla quale per un quarantennio, invece, riuscì di tenere insieme le roccaforti del cattolicesimo lombardo-veneto con il voto popolar-conservatore del Mezzogiorno. In circostanze storiche forse irripetibili, questo è vero. Ma è anche vero che il blocco partitico settentrionale non sembra aver mai compreso davvero che un Paese come il nostro, al proprio interno così vario e contraddittorio, non può essere guidato facendo leva esclusivamente su una sua parte. A meno che questa non s'impegni con successo in un'opera decisa di amalgama e di integrazione. Non ha compreso che da un secolo e mezzo, piaccia o non piaccia, in Italia è come se di continuo ogni governo dovesse ripercorrere l'impresa dell'Unità, dovesse ogni volta, per un certo verso, ricominciare dal 1860-61.

Un'impresa che però, per andare a buon fine, ha bisogno, come si capisce, di un elemento egemonico decisivo: di poggiare su un progetto politico nazionale, di essere animata da un'ispirazione forte e autentica. Il partito settentrionale ha invece creduto che per avere dalla propria il resto del Paese bastasse una pura sommatoria elettorale con la vecchia tradizione missino-corporativa (alleanza, peraltro, entrata quasi subito in fibrillazione) da un lato e dall'altro con nuclei più o meno consistenti di notabilato e/o di politicantismo centro-meridionali. Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all'altezza dei suoi propositi.

Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l'idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse. Le conseguenze? Nessuna o poca idea di nazione e di Stato, scarsa etica pubblica, noncuranza per le regole; e, come non bastasse, una leadership sempre incerta tra virulenza da capataz e un molto casalingo tirare a campare. I risultati li abbiamo visti.

Ernesto Galli della Loggia

8 aprile 2012 | 9:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_08/profondo-nord-illusione-perduta-ernesto-galli-della-loggia_8e3b83c6-8141-11e1-9393-421c9ec39659.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Aprile 20, 2012, 11:13:54 pm »

LUOGHI, SIMBOLI E POTERE

Foto di gruppo con centurioni

Un Paese senza regole, abbandonato a se stesso. Un Paese che si sfilaccia nella vitalità dei propri antichi vizi, avviandosi a una sciatta decadenza. Oggi è questa l'immagine dell'Italia che rimanda la sua capitale. Che rimanda la Roma dei finti centurioni con orologio e calzini (mentre non risulta che si aggirino finti gauchos per le vie di Buenos Aires, o finti sanculotti intorno a Place de la Bastille: sarà un caso?).

Lo sfilacciamento italo-romano comincia dentro e intorno ai Palazzi del potere, come mostra una piccola esperienza personale. Da settimane frequento la biblioteca del Senato. Un'importante biblioteca che dispone anche di fondi molto rari: per certe materie tra le primissime d'Italia. Come dovunque tutte le istituzioni di questo tipo, essa è riservata agli studiosi. Il che vuol dire che non può essere adibita a una sala di studio qualsiasi, ad esempio per studenti universitari i quali vengano a prepararci gli esami portandosi i propri libri e blocchi d'appunti (e se no le biblioteche d'ateneo che ci stanno a fare?). E infatti all'ingresso della biblioteca del Senato fa bella mostra di sé un cartello che vieta l'accesso a questo tipo di frequentatori. Risultato? Nessuno: perfino all'interno di una delle massime istituzioni della Repubblica le regole ci sono sì, ma non per essere rispettate. E così la sala di consultazione di cui dicevo è abitualmente affollata da ventenni con la loro brava bottiglietta di minerale appoggiata sul tavolo.

Ma forse, si potrebbe pensare, è la manifestazione di un lodevole spirito democratico delle istituzioni rappresentative. E già, peccato però che un tale spirito i medesimi presidenti del Senato e della Camera non lo dimostrino per nulla - ne mostrino anzi uno opposto: appropriativo e castale - accaparrandosi d'imperio, da anni, parti sempre maggiori dello spazio pubblico che circonda le loro auguste sedi (esse pure, peraltro, in costante, vorace e costosissima espansione): anche qui solo in forza dei propri comodi e dell'arbitrio. E così, intorno a Montecitorio e a Palazzo Madama, vie e spazi d'ogni tipo un tempo a disposizione dei cittadini come chi scrive (che a Roma è nato e ci vive da sempre), sono oggi sbarrate, riservate, chiuse, confiscate a uso dei privilegiati che solo loro possono passare e, chissà perché, devono per forza poter arrivare dappertutto con le loro automobili. Perfino a piazza Colonna, dove si trova l'ingresso di Palazzo Chigi, i sopracciò della Repubblica si sentono autorizzati, come se nulla fosse, a parcheggiare le loro grosse cilindrate intorno alla colonna Antonina (intorno alla colonna Antonina!) riversandole addosso i relativi scarichi di ossido di carbonio.

La parabola della Lega insegna. Ogni potere italiano che si installa a Roma vi trova lo specchio e la conferma di una propria intima e permanente vocazione: la vocazione all'assenza di regole e al rispetto solo di chi è più forte. Nella capitale dell'Italia delle corporazioni e delle lobby, per esempio, ogni negozio è libero di far caricare e scaricare le merci a qualsiasi ora del giorno, così come alla stazione Termini e a Fiumicino i turisti stranieri vengono regolarmente offerti in olocausto alla potentissima divinità dei tassisti abusivi.

Egualmente, il suolo pubblico è ormai di chi se lo prende: qualunque commerciante è libero di mettere sulla strada i tavolini, le sedie, le fioriere e gli ombrelloni che crede, per fare i propri comodi e i propri affari. Sicché in tutte le vie del centro - trasformate in un seguito ininterrotto di pizzerie e gelaterie di terz'ordine - si cammina solo in stretti corridoi strusciando da una parte e dall'altra piatti sgocciolanti di spaghetti al sugo e di tiramisù.

È qui anche, è sui Sette Colli sempre fatali (anche se nel frattempo il fato è cambiato), che l'Italia dei condoni e dello «scudo», dell'abusivismo e insieme del perdonismo universali, si mostra con il suo volto più compiuto. Qui, dove è virtualmente assente qualsiasi controllo su qualsiasi cosa (sui rifiuti, sul parcheggio in doppia fila, sulle assordanti movide notturne), dove sì e no un passeggero su venti paga il biglietto dell'autobus, dove i permessi taroccati o comprati per entrare nella Ztl sono migliaia; qui, dove il corpo dei vigili urbani - incaricato in teoria di controllare tutto ciò che si è ora detto - gode di una fama che solo la carità di patria e le leggi sulla diffamazione impediscono di indicare con il nome che merita.

E dove altro più che a Roma (forse solo a Gemonio), la Penisola assiste alle imprese del familismo antimeritocratico e delle consorterie di partito, che dal Pirellone al Palazzo dei Normanni la stanno portando alla rovina? È a Roma, infatti, che un'amministrazione disinvolta della cosa pubblica ha pensato bene di affidare tutte le principali aziende cittadine a personaggi improbabili che potevano vantare l'unico merito di essere amici a tutta prova del sindaco Alemanno. Forse, non a caso, finiti poi quasi tutti licenziati o indagati. È questo alla fine che non hanno capito i poveracci travestiti da centurioni: che per continuare a sguainare i loro gladi di latta gli serviva come minimo una tessera del partito dell'imperatore.

Ernesto Galli della Loggia

20 aprile 2012 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_20/foto-di-gruppo-con-centurioni-ernesto-galli-della-loggia_2479a542-8aa8-11e1-9df7-98e3d52d16a5.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Aprile 28, 2012, 10:39:04 am »

ISTITUZIONI, PARTITI, PERSONE

Nuovi scenari antichi riflessi

Forzando un po' le cose, ma solo un poco, la scena politica italiana si presenta grosso modo così: i vecchi partiti boccheggiano e i nuovi, sebbene annunciati, non si sa ancora se, quando e come vedranno mai la luce; alla ribalta sembrano così rimanere sempre più solamente le persone. Le persone-partito da un lato, le persone-istituzioni dall'altro. Da una parte, cioè, Vendola, Di Pietro, Pannella (in questo senso un vero antesignano), Grillo e Bossi (sia pure molto malconcio): tutti e cinque padri-padroni e mattatori di formazioni tutte all'opposizione che senza di loro molto probabilmente non esisterebbero, ma che oggi raccolgono, comunque, almeno un quarto dell'elettorato. E dall'altra parte - ad essi virtualmente contrapposti non per loro volontà, ma per il solo fatto di essere le ultime trincee del sistema politico - Mario Monti in rappresentanza dell'istituzione governo, e insieme a lui Giorgio Napolitano, titolare dell'istituzione presidenza della Repubblica.

I vecchi partiti, invece, se ne stanno più o meno tutti nascosti al coperto dietro Monti e Napolitano. Sentono che il futuro non è tanto nelle proprie mani, non dipende tanto dai loro tentativi più o meno credibili di «cambiare» (quasi sempre fuori tempo massimo), quanto piuttosto da ciò che succederà in tre ambiti cruciali, ormai, però, pressoché fuori dalla portata di ogni loro eventuale intervento modificatore: la dimensione dell'astensionismo, la misura del successo delle formazioni dell'antipolitica, infine ciò che deciderà Monti circa il proprio destino politico.

La realtà ultima del nostro sistema politico è questa. Con una precisa chiave di lettura che si impone su ogni altra: la forte tendenza alla personalizzazione leaderistica. Tendenza che percorre come un filo rosso l'intera crisi della Repubblica in corso da vent'anni; che si afferma irresistibilmente tanto nella politica che nelle istituzioni; che è conforme ai tempi e all'esempio delle altre maggiori democrazie; che è assecondata dal consenso di quote ormai maggioritarie dell'opinione pubblica. Ma che invece fa a pugni con i più radicati pregiudizi sia della nostra cultura partitica tradizionale, tutta imbevuta di un finto parlamentarismo, sia di quella della maggior parte dei costituzionalisti i quali, ideologizzati non poco e attratti dal miraggio di un sempre possibile ingresso alla Consulta, si sono sempre mantenuti su posizioni di rigido conservatorismo.

Accade così che mentre una larga maggioranza di italiani esprime la propria fiducia nell'orientamento decisionista a forte caratura personale rappresentato dalla coppia Monti-Napolitano; mentre la massima parte della protesta contro le degenerazioni del sistema politico si aggrega anch'essa intorno a figure individuali di leader; mentre tutto questo avviene, i vecchi partiti, invece, si mostrino assolutamente sordi alla voce dell'opinione pubblica. La nuova legge elettorale a cui stanno pensando in maggioranza i partiti, infatti, ripercorre con qualche correzione le vie del vecchio proporzionalismo, lasciando quello italiano tra i pochissimi elettorati europei destinati a non sapere, la sera delle elezioni, chi li governerà a partire dall'indomani. Anche se poi, per confondere le acque, qualche leader lascia trapelare che per il dopo elezioni potrebbe magari, chissà, pensare a un nuovo governo Monti sorretto da una maggioranza di unità nazionale. Come dire: intanto ripigliamo in mano il gioco alle nostre condizioni, poi eventualmente penseremo a convincere l'ostaggio necessario a tenere buono il popolo.

Ernesto Galli Della Loggia

27 aprile 2012 | 8:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_27/Nuovi-scenari-antichi-riflessi_17084204-9027-11e1-803b-373c4ae603d3.shtml
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« Risposta #129 inserito:: Maggio 06, 2012, 10:37:04 am »

IL CASO COMUNIONE E LIBERAZIONE

Il maso chiuso dei cattolici

C'è nella parabola di Comunione e Liberazione, nella crisi d'immagine e di senso in cui è precipitata, qualcosa in cui si rispecchia un nodo storico cruciale dell'intero cattolicesimo italiano.
Germogliata dal tronco inesausto della fede cristiana, alimentata e cresciuta per la speranza che questa ancora e sempre continua a recare con sé, Cl si è trovata a un tratto a dover fare i conti con la politica. Checché se ne dica e se ne pensi da parte delle anime belle che immaginano il mondo secondo quanto è prescritto dai principi, il destino della politica, la sua vocazione, sono iscritte nel Dna stesso del cristianesimo. Non si combatte impunemente per due, tre secoli l'impero romano; non si decide di uscire dalla dimensione della setta e dell'etnicità per diventare un'istituzione universale; non si decide di stare nella storia e di cimentarsi con il secolo ad ogni istante, sotto ogni cielo e in ogni ambito, senza fare i conti con la politica. Senza essere obbligati a entrare nella sua dimensione.


La scommessa cristiana, in modo specialissimo quella cattolica, è stata però quella di entrarvi senza perdervisi. Fare politica sì, ma salvando l'anima. Una scommessa quanto mai rischiosa, come si capisce.
Alla quale, poi, qui da noi se n'è aggiunta un'altra, non meno impegnativa: divenire parte politica, e addirittura governare lo Stato, l'Italia appunto, alla cui nascita si era stati tuttavia avversi, e alla cui stessa vita e modi d'essere si era sempre guardato senza troppa simpatia. È così che nella formazione del cattolicesimo politico italiano più che in quello di altri Paesi si sono iscritti due tratti tipici: l'orgoglio di un'identità diversa, e un intimo desiderio di rivalsa. Due tratti tipici che la vicinanza della Santa Sede non poteva che rafforzare, e che erano destinati a divenire due tentazioni permanenti: la tentazione della separatezza e quella dell'egemonismo. Apparentemente contrastanti. In realtà l'una la faccia dell'altra: come ha mostrato a suo tempo, in modo paradigmatico la parabola, per esempio, di certa sinistra cattolica, ma non solo. E trattandosi tra l'altro di tentazioni inevitabili per qualunque movimento a sfondo religioso costretto a muoversi in una società ultra secolarizzata, sentita perciò come totalmente ostile.


Comunione e Liberazione ha comunque incarnato entrambe le tentazioni in modo esemplare: la separatezza e l'egemonismo. Animatrice di mille iniziative e proposte lodevoli ma sempre più autoreferenziale, essa ha finito per rappresentare una sorta di «maso chiuso» cattolico piantato nel bel mezzo della società italiana (oltre che forse della stessa Chiesa). Con la quale società italiana essa ha avuto rapporti, naturalmente: rapporti assai vari e anche intensi, ma sempre più percependosi e mirando ad essere una potenza autosufficiente, mossa da una continua volontà di espansione. Ha un bel dire oggi don Carrón, il suo capo spirituale, che a peccare - cioè a commettere i gravi reati a sfondo finanziario per cui alcuni noti esponenti ciellini sono attualmente indagati in Lombardia - sono stati sempre e solo i singoli. È vero, ovviamente. Ma è solo una parte della verità.
L'altra parte è che quei peccati in tanto sono stati resi possibili in quanto i loro sospetti autori appartenevano a Cl, e come tali erano universalmente noti; che come appartenenti a Cl essi erano inseriti nell'ampia rete di relazioni facenti capo ad essa; e che da venti anni, infine - fattore assolutamente decisivo per chiunque non voglia mentire a se stesso - Comunione e Liberazione è parte di fatto ma a pieno titolo della maggioranza di governo della Regione Lombardia, e come tale notoriamente padrona assoluta del settore della sanità. Nella sanità lombarda da vent'anni non si muove foglia che Cl non voglia.


Tutto questo (sempre che non riguardi il codice penale) si chiama per l'appunto egemonismo e bisogno spasmodico di far valere la propria identità. È, come l'ho chiamata, la sindrome del «maso chiuso», che ben lungi dal riguardare solo Cl riguarda però, più o meno, l'intero cattolicesimo politico italiano. Ed è tale sindrome che a mio avviso costituisce oggi il principale ostacolo a che il cattolicesimo politico stesso riacquisti nella Penisola un ruolo effettivo di primo piano. Il voto propriamente cattolico, infatti, riguarda attualmente non più di un dieci per cento circa dell'elettorato. Il che vuol dire che qualunque iniziativa di quel campo che voglia mirare in alto ha la vitale necessità di coinvolgere forze diverse. Deve superare ogni egemonismo, spogliarsi di ogni abito di autosufficienza culturale, bensì avviare un dialogo alla pari con identità differenti dalla propria, insieme alle quali cercare significativi punti di convergenza. Ha bisogno in sostanza di riconoscersi in una autentica prospettiva federativa offerta in modo non strumentale a forze politiche d'ispirazione non cattolica (che siano di destra o di sinistra non cambia la natura del problema). Ha bisogno, sia pure in condizioni oggi diversissime, del realismo e del coraggio di cui seppe dare prova De Gasperi nel 1947-48, allorché mise insieme una coalizione di forze diverse, e la mantenne pure dopo la vittoria del 18 aprile, a dispetto dei fremiti egemonici e delle rivendicazioni identitarie di molti dei suoi. L'alternativa è il ghetto di un'autosufficienza magniloquente, ma in realtà sempre più insignificante e sempre più esposta a ogni degenerazione.

Ernesto Galli della Loggia

5 maggio 2012 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_05/maso-chiuso-cattolici-dellaloggia_a7056a92-9673-11e1-a8a2-11f8cf758d5e.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:53:42 pm »

L'austerità vuota dell'Europa tedesca

Il voto «antieuropeo», domenica scorsa, di quote importanti (in un caso la maggioranza) dell'elettorato francese, greco e italiano ripropone con forza un problema con il quale il nostro continente è alle prese da un secolo e più: il ruolo della Germania e la natura della sua supremazia.

Un ruolo di potenza-guida costruito su una straordinaria forza economica, che negli ultimi venti anni si è manifestato in una germanizzazione di fatto della costruzione europea. Germanizzazione culminata nell'adozione dell'euro, che non a caso è servita a sancire definitivamente quel ruolo.

È stata la Germania con la sua classe dirigente, infatti, che sempre più ha fornito all'Unione la sua politica economica di fondo, il suo impianto ideologico, i suoi paradigmi sociali e culturali, anche il suo insopportabile «europeisticamente corretto». In specie, a partire dal 2002 (anno di introduzione dell'euro) la macchina di Bruxelles è sostanzialmente una macchina tedesca: al più con le istruzioni per l'uso in francese.

Per l'appunto contro una tale macchina e la sua leadership - di cui la cancelliera Merkel è evidentemente nulla più che un simbolo - si sono espresse in modo massiccio le popolazioni chiamate alle urne da Parigi, ad Atene, a Palermo. Dopo che negli ultimi tempi, peraltro, segnali analoghi non erano mancati anche altrove, e sempre più andavano affiorando perplessità e dubbi sulla guida tedesca anche nelle classi politiche dei Paesi dell'Unione.

In tutto ciò si esprime, a me pare, un fatto di enorme importanza storica. Riassumibile in questi termini: la Germania, pur destinata da oltre un secolo ad un ruolo virtualmente egemonico in Europa, sembra avere, tuttavia, una grandissima e intrinseca difficoltà ad esercitare tale ruolo poggiandolo sulla costruzione di un adeguato consenso. Le risulta assai difficile, cioè, trasformare la propria potenza economica in una dimensione di effettiva e moderna egemonia politica: in altre parole dare vita a una sfera di opinioni e di sentimenti favorevoli alla sua supremazia, e capaci quindi di prendere la forma di un consenso democratico-elettorale. E forse proprio per questa ragione, non a caso, nel corso della sua storia unitaria essa ha ceduto ben due volte alla tentazione di esercitare la propria supremazia imponendola con altri mezzi.

Non penso affatto, sia chiaro, che allora dobbiamo temere che possa esserci una terza volta. Il carattere assolutamente pacifico della Germania odierna non può essere messo in dubbio. Ma dobbiamo prendere atto del problema vero che da tempo sta di fronte all'Europa: la Germania non riesce a fare con il continente ciò che invece riuscì agli Stati Uniti dopo il 1945 con l'intero Occidente: federare e dominare, ma insieme convincere e sedurre. Perché sono diversissime le condizioni storiche, naturalmente. Ma non solo. Molto di più perché mancano alla Germania quelle caratteristiche storico-culturali che hanno reso - e per tanti versi rendono ancora oggi - possibile l'egemonia americana.

Troppo simile a noi, Paesi e culture del resto d'Europa, le manca la capacità di incarnare una way of life libera e accattivante; di produrre universi mitico-simbolici capaci di tenere insieme in modo straordinario la prospettiva del sogno, dell'eterna illusione, e però anche quella del realismo, delle cose dell'esistenza quotidiana; di alimentare l'idea di una ricchezza a disposizione dell'intraprendenza di chiunque; di inventare oggetti, specie beni di consumo (dalla gomma da masticare, alla Coca Cola, ai jeans) che alludono irresistibilmente a forme di vita easy , ariose, disinvolte, aperte all'imprevedibilità delle occasioni. Tutto ciò che viene da lì, insomma, sembra andare - perlomeno nella dimensione dell'immaginario (ma non solo: le istituzioni giuridiche e politiche americane sono una realtà) verso l'individuo e la sua libertà. Cioè verso i due massimi valori dei tempi moderni. Nulla a che fare, come si capisce, con l'intrinseco antiindividualismo, con l'idea e l'immagine «pesanti» di organizzazione e di autorità che emanano, viceversa, dall'immagine della Germania; nulla a che fare con i dilemmi metafisici tanto spesso radicalmente eversivi, con la spiritualità austera e profonda della sua tradizione culturale. Senza contare il rapporto non certo semplice, e tanto meno limpido con la libertà e i suoi istituti che storicamente ha avuto la Germania.

Che cosa c'è di tedesco, insomma, al di là delle opportunità del mercato del lavoro e dello smagliante panorama urbano di Berlino, che possa conquistare l'immaginario di un giovane europeo del tempo presente? Che possa attrarre la fantasia delle masse europee, accenderne le speranze e i sogni? Ma senza queste cose nulla può nascere in politica. Senza queste cose tutto diventa soltanto burocrazia, convegni, «vertici» e tenuta in ordine dei conti. Tutto diventa, per l'appunto, l'Europa attuale, l'Europa tedesca, vuota e ripiegata su se stessa. Che quando la sera si addormenta, l'unico pensiero che può permettersi è quello sullo spread che l'attende l'indomani.

Ernesto Galli della Loggia

13 maggio 2012 | 10:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_13/l-austerita-vuota-dell-europa-tedesca-ernesto-galli-della-loggia_0c74d968-9cc2-11e1-9e47-40ef175b0d3f.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Maggio 31, 2012, 04:34:25 pm »

CASO BRINDISI E PROCURE DIVISE
 
Una dannosa concorrenza
 
«Strage semplice» o «strage a scopo terroristico»? Procura della Repubblica di Brindisi o Direzione distrettuale antimafia (e antiterrorismo) di Lecce? E dunque a dirigere le indagini quale dei due magistrati responsabili dei due organismi, Marco Dinapoli o Cataldo Motta? Per 48 ore le cronache sull'attentato di cui è rimasta vittima la povera Melissa Bassi hanno ruotato intorno a questa disputa tra le suddette sedi giudiziarie pugliesi, risoltasi alla fine solo per l'intervento deciso del ministro Severino. Una disputa che ha reso evidente a tutto il Paese alcuni dei mali gravi di cui soffre l'apparato giudiziario italiano.
 
Innanzi tutto un'estrema, talora parossistica, tendenza alla personalizzazione, che prende la forma della corsa dei singoli magistrati ad accaparrarsi l'inchiesta che «conta». La quale, poi, è sempre e soltanto una: e cioè quella che più colpisce l'opinione pubblica, vale a dire che riguarda clamorosi fatti di sangue o personaggi importanti, e/o ha addentellati con la politica; e di cui perciò si occupano con il massimo risalto giornali e tv. La grande maggioranza dei magistrati italiani, ma come è ovvio in modo specialissimo quelli delle procure, non sembrano quasi mai capaci di resistere alla tentazione della «visibilità», ne sono avidi, la cercano in ogni modo. Più di una volta, ahimè, subordinando ad essa i propri atti istruttori, a cominciare dai provvedimenti di custodia cautelare, vale a dire l'ordine di arresto e di detenzione in carcere a carico dei cittadini.
 
La visibilità significa principalmente visibilità per la propria inchiesta: da alimentare per esempio anche con l'accorta somministrazione alla stampa di verbali di intercettazioni telefoniche. Somministrazione che sarebbe vietata dalla legge, naturalmente, in quanto quei verbali, come si sa, sono coperti dal segreto istruttorio, ma della quale mai, in anni e anni, a mia conoscenza alcuna procura della Repubblica si è preoccupata di individuare e tanto meno di punire i responsabili.
 
La visibilità peraltro non serve solo a soddisfare una più o meno ingenua vanità personale. Per chi viene a goderne, essa, infatti, ha conseguenze ben più importanti e concrete. Serve molto, infatti, al proprio futuro professionale e no. È utile, ad esempio, per costruirsi una posizione di forza in occasione delle assegnazioni di sedi e di incarichi da parte del Consiglio superiore della magistratura. Per essere appoggiato in tali richieste dai propri colleghi di «corrente»; per mettere il Csm stesso nella condizione di «non poter dire di no» alla richiesta del «celebre» procuratore, del noto castigamatti del potere, del famoso inquirente che ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno. Ma non solo. La visibilità è utilissima per fare il salto, da molti ambito, fuori dalla carriera: per essere corteggiati dai giornali e dagli editori, per essere invitati ai talk show , a festival e convegni d'ogni tipo. E va da sé per entrare in politica.
 
La quale politica può essere quella vera e propria che si fa in Parlamento o alla testa di un Comune, ovvero quella diversa ma egualmente importante che si fa negli innumerevoli gabinetti ministeriali, in enti e organismi dalle denominazioni più impensate, ricoprendo incarichi per solito assai ben remunerati (tutti posti assegnati per l'appunto dalla politica): in cambio di nulla? Infine essendo eletti dai propri colleghi nel Csm di cui sopra.
 
Curiosamente, infatti, nessuna corporazione come quella dei magistrati a parole rifiuta con tenacia ogni rapporto con la politica, proclama a ogni piè sospinto la necessaria lontananza, che dico estraneità, da essa, ma al tempo stesso quasi nessun'altra come quella annovera tanti membri ansiosi, ansiosissimi, di avervi a che fare in un modo o nell'altro. Le polemiche tra i magistrati pugliesi di questi giorni - comprese le conseguenze negative che esse potrebbero avere avuto sulle indagini (vedi la divulgazione delle immagini televisive del supposto colpevole) sono solo l'ultimo capitolo di questa patologia personalistica del sistema giudiziario italiano. Nei cui confronti la classe politica e di governo nasconde la testa sotto la sabbia e non fa niente, nell'evidente paura di dispiacere alle toghe: in parte nella speranza che i propri avversari incappino prima o poi in qualche inchiesta della magistratura; in altra terrorizzata dall'idea che i suoi molti scheletri nell'armadio vengano prima o poi tirati fuori da qualche procura. Mentre ai comuni cittadini - che non hanno né avversari né scheletri nascosti - si continua ancora a chiedere, come se nulla fosse, di votare comunque per coloro che da decenni, anche in questo campo, lasciano andare le cose come vanno.
 
Ernesto Galli della Loggia

27 maggio 2012 | 8:38© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_27/una-dannosa-concorrenza-ernesto-galli-della-loggia_78d172da-a7c4-11e1-988e-2cac10a9ea60.shtml
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« Risposta #132 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:48:04 pm »

IL PDL TRA CONTENUTI E CONTENITORE

Molti sussurri e poche grida


Dopo aver goduto per tanto tempo i vantaggi del «partito personale», da qualche mese i deputati e i senatori del Pdl ne stanno, invece, avvertendo pesantemente il prezzo. Ma attenzione: partito personale può voler dire cose assai diverse. Può significare il partito stretto intorno al suo capo, il quale per l'appunto con la sua persona riesce a rappresentarne simbolicamente i valori, lo stile e i programmi, costruendo intorno a sé, legati alla sua figura carismatica e da essa ispirata, un seguito di massa e insieme un gruppo dirigente, entrambi fedeli a tutta prova. Oppure può significare semplicemente un partito che esiste solo in virtù delle risorse pratiche e simboliche di un singolo individuo, il quale, grazie all'uso di tali risorse unicamente a lui imputabili, e da lui solo gestite, riesce a conquistare il consenso elettorale e l'appoggio di un gruppo più o meno ristretto intorno a lui. Caso in cui, però, più che di «partito personale» è giusto parlare di «partito padronale».

Il Pdl è stato da sempre, per l'appunto, un partito del genere. E continua a esserlo nella sua crisi attuale: anzi, lo è tanto più da quando è stato costretto ad abbandonare il governo. In qualunque altro partito, infatti, pure il più carismatico immaginabile, dopo un insuccesso così clamoroso come quello che è occorso al governo Berlusconi, si sarebbe aperta comunque una discussione sui motivi, e naturalmente sulle responsabilità; su ciò che non si era capito e non si era fatto e sul perché; sugli errori o le insufficienze di questo e di quello. Magari arrivando perfino a discutere l'azione del leader. Nel Pdl invece niente. Sorprendentemente, nessuno o quasi, specie tra gli esponenti di qualche rilievo, sembra avere niente da dire. Nessuno sembra cercare o chiedere una spiegazione. Nessuno sembra porsi il problema di quanto è accaduto.

Eppure di queste cose, in realtà, nel Pdl si parla e come. Ma se ne parla dietro le quinte, di nascosto dal pubblico. E cioè in modo che quanto si pensa e si dice finisce per non avere alcun significato politico. La ragione è chiara: tutti sanno che il partito è letteralmente cosa di Berlusconi, che solo da lui dipende la sua politica, e che solo lui, pertanto, ha vero e unico titolo a parlare. Chiunque si azzardasse a farlo al posto suo - specialmente se con un discorso critico circa il passato (quando a decidere, di nuovo, era sempre e soltanto Berlusconi) - lo farebbe a proprio rischio e pericolo. Rischio e pericolo che però ben pochi hanno intenzione di correre.

Il silenzio attuale, insomma, è la riprova che i cosiddetti dirigenti del Pdl in realtà non hanno mai diretto nulla. In senso proprio essi non sono mai esistiti politicamente, non hanno mai avuto vera statura politica personale come conseguenza di una qualche forza o merito propri. In alcuni casi forza e merito ci sono pure stati, beninteso, ma il fatto è che nel Pdl non hanno mai contato nulla senza il favore del Supremo, senza l'assenso di Berlusconi. E così anche oggi come ieri è solo il gesto del Principe che conta. Dunque, acqua in bocca: in attesa che sia lui ad aprirla per primo.

E dire che invece proprio l'odierna situazione di crisi rende, o dovrebbe rendere, in realtà più facile ai rappresentanti del Pdl di parlare, di dire quello che pensano. Dal momento che se finora il silenzio poteva essere giustificato con il fatto che «i voti ce li ha solo Berlusconi», ora, viceversa, proprio ciò appare sempre meno vero. Come si è visto alle amministrative, gli elettori sembrano aver capito, infatti, che è proprio Berlusconi a non aver funzionato come leader, è lui per primo che ha fallito, e gli stanno negando i propri voti in dosi massicce che promettono di esserlo sempre di più. Ma non solo. Ai deputati e ai senatori del Pdl dovrebbe apparire preziosa l'occasione odierna di poter parlare, di aprire una vera discussione critica, anche per provare ad acquistare finalmente quella statura politica che finora non sono mai riusciti ad avere. Un'occasione che tra l'altro potrebbe rivelarsi anche l'ultima.

Invece ancora e sempre nulla. Sorprendentemente nel Pdl continua a non sentirsi alcuno dotato di qualche autorevolezza capace di parlare con la voce della verità. Ancora e sempre tutti aspettano, allineati e coperti, gli ordini di Berlusconi. E così tutti prendono sul serio, almeno all'apparenza, l'idea patetica che il problema sia quello del contenitore, quella di inventarsi un nome nuovo, o di mettere dei «giovani» al posto dei «vecchi»; tutti fingono di credere che sia ancora possibile, a tempo quasi scaduto, tirare fuori dal cappello il coniglio del presidenzialismo o l'idea pazza che l'Italia si metta a stampare euro in proprio. Tutti fingono volenterosamente che bastino espedienti simili per far tornare l'età dell'oro. La quale invece è finita per sempre, messa in fuga dagli errori di un anziano demiurgo che ormai ha smarrito i suoi poteri.

Ernesto Galli della Loggia

2 giugno 2012 | 9:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_02/molti-sussurri-e-poche-grida_3bf7e42c-ac72-11e1-9fc1-b5e83ca3680b.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Giugno 18, 2012, 04:47:32 pm »

NOI, L'EUROPA E LA CRISI DEI PARTITI

La politica senza leader


Dalla fine del Novecento l'Europa dei partiti non sembra più capace di produrre autentici capi politici, leader degni del nome (ne sa qualcosa la Grecia, che in queste ore sta decidendo del suo destino; e non solo del suo). È ormai solo un ricordo, infatti, l'epoca dei Mitterrand, dei Kohl, dei Gonzalez: uomini dotati di chiarezza di visione e di fiducia in se stessi, di capacità di comando e di convinzione. E così, proprio quando l'equilibrio europeo e l'intera costruzione dell'Unione si trovano ad affrontare la loro maggiore crisi, essi si trovano a doverlo fare senza guida.

L'assenza di figure di capi politici è tra i sintomi più evidenti dell'affievolimento-crisi della sfera politica europea come effetto della perdita di sovranità da parte degli Stati. Quando, infatti, una parte sempre maggiore delle cose che più contano, e che prima erano nelle mani della politica e perciò degli elettori, vengono invece a essere determinate ora dalla globalizzazione o dai mercati finanziari, ovvero decise dalle burocrazie «unioniste» di Bruxelles, o comunque sottoposte al placet di istanze collettive («vertici» vari, G8, G20 o quello che siano) - e sempre più o meno supinamente accettate dai governi - allora è inevitabile che la politica nazionale perda insieme al senso di sé anche ogni capacità di affermarsi per ciò che da sempre essa è: vale a dire l'ambito elettivo del comando pubblico e di coloro che lo esercitano. E dove c'è ben poco da decidere, è difficile che vi sia qualcuno realmente capace di comandare.

La crisi dello strumento partito non appare altro, al dunque, che un effetto di questa crisi della politica come decisione e comando. E non meraviglia che specialmente in Italia i partiti appaiano alle corde e la politica screditata: proprio perché da noi come in pochi altri posti la politica e lo strumento partito hanno svolto un ruolo di comando altrettanto centrale e pervasivo. La portata della loro sfortuna attuale è pari solo alla loro fortuna precedente.

Ma i guai dell'Italia, sebbene in forma accentuata, sono i medesimi delle democrazie europee. Le quali come tutte le società di questo tipo, proprio a causa dell'articolata ampiezza e autonomia dei centri di decisione che è loro caratteristica, necessitano vitalmente un luogo ultimo di coordinamento, di impulso e di comando. Cioè di leader, di un leader: a dispetto delle chiacchiere deprecatorie sulla «personalizzazione» che, soprattutto in Italia, abbiamo tanto sentito ripetere negli ultimi tempi. Tempi nei quali la suddetta personalizzazione - che c'è sempre stata - è apparsa quanto mai deprecabile: ma solo perché riguardava leader che in realtà erano delle mezze cartucce. Mentre quando essa riguarda leader veri, allora, invece, nessuno quasi la nota e tanto meno la depreca: se è vero come è vero che a nessuno verrebbe e - che io sappia - è venuto mai in mente, per esempio, di deprecare il ruolo (a suo modo anch'esso personale e leaderistico) di un Roosevelt o di un De Gasperi (e neppure di un Berlinguer, sia detto tra parentesi).

Ernesto Galli della Loggia

17 giugno 2012 | 9:38© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #134 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:20:40 am »

IL VUOTO TRA SOCIETÀ E POLITICA

L'irrilevanza dei cattolici

Da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_24/editoriale_d03b394c-bdc3-11e1-a8f4-59710be8ebe6.shtml

Non si avverte davvero bisogno di qualche nuovo partito cattolico (a proposito: ma l'Udc lo è o no? E se sì, come si spiega la sua latitanza dalla discussione che dura da circa un anno? Possibile che essa non si senta in qualche modo chiamata in causa?). Tanto meno, dunque, sembra aver senso stare a interrogarsi sul o sugli eventuali possibili leader del suddetto partito.

Ma se il sistema politico non ha bisogno di un partito cattolico, viceversa di una voce cristiana, e dunque anche cattolica, di un'iniziativa politica alta che rechi il segno di quell'ispirazione, l'Italia ha sicuramente bisogno. Oggi, infatti, davanti alla Repubblica sta una difficile via modellata su un abito nuovo di serietà e di sobrietà: una via fatta anche di rinunce a traguardi che sembravano ormai acquisiti per sempre, di spirito di sacrificio. Lo è già ora, ma ancor più nei tempi che si annunciano sarà questo il vero patriottismo. E sarebbe davvero singolare che l ' ethos cristiano - ma vorrei dire religioso in genere - che a dispetto di ogni secolarizzazione permea ancora di sé vaste masse di italiani, restasse estraneo proprio rispetto a questa sfida. Che alla fine è una sfida innanzi tutto culturale e ideale.

Non si tratta di politica, ma di altro. Si tratta di contribuire alla costruzione di una cultura civica, di rafforzare un insieme di valori pubblici, di costruire disposizioni d'animo collettivo orientate al bene comune. Ma insieme di ricercare le possibili vie d'uscita dalle strettoie in cui si trova immobilizzata da anni la società italiana. Ricordo solo quelle che mi sembrano le più gravi: un sistema d'istruzione dispersivo e programmaticamente indulgente, vittima di ridicoli conati aziendalistici; un'università che non conosce il merito e nella quale l'internazionalizzazione sta decretando la brutale retrocessione di tutto il sapere d'impianto umanistico; lo sperpero immane di risorse (con relativa corruzione dilagante) da parte di tutte le strutture pubbliche: per cui tutto, in Italia, costa tre o quattro volte più del dovuto, e per essere fatto ci mette tre o quattro volte il tempo realmente necessario, e dove lavorano inutilmente migliaia di persone; infine un'organizzazione della giustizia (dai codici alla deontologia dei magistrati, allo scandalo permanente delle carceri) che troppo spesso è organizzazione di vera ingiustizia. E come se già tutto questo non bastasse si tratta poi di capire come ricostruire su nuove basi la cittadinanza sociale e il sistema della rappresentanza parlamentare, rimettendo in riga le corporazioni e l'alta burocrazia «gabinettista» ormai governante in proprio.

Certo, alla fine tutto è politica. Ma prima c'è un grande spazio - vitalmente necessario, di mobilitazione, di ricerca, di analisi, di proposte - che è fuori della politica. Ed è qui proprio che però il silenzio cattolico è più alto. Non quello di singoli credenti, naturalmente, ma il silenzio di quella che si chiama la presenza cattolica nel Paese, del cattolicesimo organizzato (dalle Acli all'Azione Cattolica, ai tanti movimenti; e ci metterei pure la Cisl e l'Udc, sempre che essi accettino di avere qualche cosa a che fare con il cattolicesimo organizzato e sempre che si prescinda dalla loro quotidiana routine istituzionale).

È in questo ambito che si misura davvero in pieno l'irrilevanza dei cattolici nella vita pubblica. Non è un'irrilevanza politico-partitica, è un'irrilevanza prima di tutto d'opinione, di idee. Cioè assenza - sulle questioni che richiamavo prima, e su mille altre riguardanti la svolta profonda di cui ha bisogno il Paese - di approfondimenti significativi, di punti di vista forti, di effettive volontà di mobilitazione. È come se ormai da anni il combinato disposto della riduzione a ideologia di massa dei principi del Vaticano II da un lato, e della fine traumatica della Democrazia cristiana dall'altro, avessero spinto il cattolicesimo italiano non solo a disinteressarsi della «grande» politica (che è poi la sola, vera politica) ma anche a disinteressarsi dell'Italia. Dell'Italia come problema storico; come luogo di un passato che forse merita un futuro; come patria di una comunità che s'interroga sul proprio destino (se mai gliene aspetti uno...). La sola voce cattolica che oggi si fa sentire nello spazio pubblico sembra essere quella che si concentra sul tema (significativo, chi ne dubita?, ma certo non proprio generale) della «difesa della vita». Per il resto l'impressione è che nel campo cattolico tutto tenda a ridursi tra i fedeli a un certo astratto moralismo, e al vacuo, sempre prevedibile, precettismo delle relazioncine somministrate mensilmente nelle riunioni della Cei. La conclusione non può che essere una: con la fine della Dc il cattolicesimo italiano sembra aver cessato di essere matrice di una possibile cultura politica.

Quale mai novità dovrebbe o potrebbe dunque rappresentare in queste condizioni un partito di cattolici? E perché un tal partito dovrebbe essere capace di dire al Paese qualcosa di più e di diverso da quello che riescono - o meglio non riescono - a dirgli i non pochi cattolici che si trovano nel Pdl, nell'Udc o nel Pd? Come del resto - è fin troppo ovvio rilevarlo - non ci riesce neppure nessuna voce «laica». E proprio in questo consiste il dramma dell'Italia: per tornare a muoverci avremmo bisogno di respirare aria nuova, di ascoltare idee coraggiose, di scorgere nuovi orizzonti. E invece tutto appare immobilizzato in qualcosa che assomiglia sempre più al resto di niente. Mentre da lontano, ma già distintamente, echeggia il grido barbarico delle turbe di Grillo.

Ernesto Galli della Loggia

24 giugno 2012 | 8:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

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