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Autore Discussione: Piergiorgio ODIFREDDI.  (Letto 82113 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:45:04 pm »

PIERGIORGIO ODIFREDDI

15
ott
2010

La legge della verità

La lezione negazionista del professor Claudio Moffa all’Università di Teramo ha sollevato feroci polemiche. Il commento più adeguato mi sembra un’osservazione di Borges nel suo saggio su Nathaniel Hawthorne: «Il proposito di abolire il passato fu già formulato nel passato, e paradossalmente, è una delle prove che il passato non può essere abolito. Il passato è indistruttibile: prima o poi ritornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato».

Il commento più inadeguato, invece, mi sembra l’odierna lettera del presidente della Comunità Ebraica di Roma, nella quale egli propone un rimedio peggiore del male: elaborare in maniera bipartisan un testo di legge,  da far approvare al Parlamento, che «renda reato il negazionismo e il ridimensionamento dei numeri della Shoah». La pretesa di poter stabilire per legge la verità dei fatti oscilla infatti pericolosamente tra il velleitario e il ridicolo.

Basta ricordare, ad esempio, la legge passata unanimemente (67 a 0!) dalla Camera dei Rappresentanti dell’Indiana il 5 febbraio 1897, nella quale si stabiliva che il valore corretto del rapporto fra la circonferenza e il diametro di un cerchio è 3. Come racconta la Storia di pi greco di Petr Beckmann, l’autore del testo di legge era un medico di nome Edwin Goodman, che sosteneva di aver quadrato il cerchio. Egli offrí il suo contributo come regalo gratuito allo Stato dell’Indiana, pensando forse che gli altri stati avrebbero dovuto pagare i diritti per la sua scoperta. Fortunatamente, al Senato dell’Indiana qualcuno si accorse dell’assurdità della cosa, e il 12 febbraio la discussione sulla legge fu rinviata a data da destinarsi.

Anche se il valore proposto per pi greco fosse stato corretto, la legge non sarebbe comunque stata meno assurda. Il motivo ovvio è che, come disse Antonio Labriola, «la verità non si mette ai voti». Anche perchè, quando i voti sono quelli dei parlamenti, si finisce non per stabilire la verità dei fatti, bensí per imporre una verità di stato. La quale, come ben sappiamo è tutt’altra cosa, e spesso si chiama semplicemente «menzogna».

Rendendo un reato il negazionismo, si finirebbe dunque per instillare il leggittimo dubbio che veramente esso sia una verità, che si teme di sentire e si vuol impedire di divulgare. E poi, diciamoci appunto la verità: su quante altre menzogne bisognerebbe preoccuparsi di legiferare? Non si dovrebbe anche mettere fuori legge l’astrologia, ad esempio? O le teorie del complotto sull’11 settembre? O, perchè no, il cristianesimo stesso? Anche perchè, mentre i dubbi sulla Shoah sono ridicoli, quelli sull’esistenza storica di Gesù Cristo sono serissimi. Perchè mai preoccuparsi di un isolato professore che la dice grossa, a fronte di un esercito di preti che la sparano ancora più grossa?

Scritto venerdì, 15 ottobre 2010 alle 13:29 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #16 inserito:: Ottobre 15, 2010, 10:45:49 pm »

PIERGIORGIO ODIFREDDI

12
ott
2010

Caro Papa, ti scrivo

Sembra sia passata un po’ in sordina la notizia che il presidente iraniano Ahmadinejad ha scritto una lettera a Benedetto XVI, in cui lo ringrazia per aver preso posizione contro il rogo del Corano, gli propone «una collaborazione fra religioni divine per fermare il secolarismo e la crescente tendenza dell’uomo a concentrarsi sulla vita materiale», e si preoccupa della «mancanza di riguardo dell’umanità per gli insegnamenti delle religioni divine».

La sordina dei media, che hanno dedicato alla missiva solo poche righe asettiche e senza enfasi, riflette l’evidente imbarazzo della Santa Sede. Il portavoce, padre Lombardi, si è limitato a confermare che la lettera è stata consegnata personalmente al Papa dal vicepresidente iraniano, e ha rimandato al comunicato della presidenza iraniana per un estratto dei contenuti.

L’imbarazzo è ovviamente giustificato. Le parole del fondamentalista Ahmadinejad riecheggiano infatti quelle che Benedetto XVI va ripetendo da tempo, nella sua donchisciottesca battaglia contro il mulino a vento del relativismo. Basta leggere Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, Islam (Mondadori, 2004), duetto dell’ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede con l’ex presidente del Senato Marcello Pera. O il suo discorso Pro eligendo Romano Pontefice, pronunciato il 18 aprile 2005 all’apertura del conclave che l’ha eletto papa.

La convergenza dei due fondamentalismi mediorientali, islamico e cristiano, nella battaglia contro la secolarizzazione è oggettiva: basta pensare alla recente istituzione del nuovo dicastero della Curia romana dedicato all’evangelizzazione dell’Occidente, affidato a monsignor Rino Fisichella e presentato proprio oggi in Vaticano. Che la convergenza sia anche giustificata dalla realtà dei fatti, lo dimostra un ponderoso studio su Ateismo e secolarizzazione curato dal sociologo Phil Zuckerman, il cui primo volume è stato recensito un paio di settimane fa sul Domenicale del Sole 24 Ore.

I dati riportati sono impressionanti. A fronte di 2,1 miliardi di cristiani e 1,5 di musulmani, nel mondo ci sono ormai 1,1 miliardi di non credenti: dunque, più dei 900 milioni di induisti, 380 milioni di buddhisti, 300 milioni di animisti, 23 milioni di sikh, 14 milioni di ebrei e 4 milioni di shintoisti. Inoltre, sembra che il numero di atei e agnostici aumenti al ritmo di otto milioni e mezzo l’anno: più nei paesi più avanzati, e meno in quelli islamici.

Nonostante le apparenze, le cifre riguardanti l’Italia sono consistenti con quelle mondiali: anche da noi i non credenti sono circa il quindici per cento della popolazione, benchè la cosa non sia affatto evidente dalla loro visibilità mediatica, che rimane praticamente nulla. E la percentuale coincide con quella degli studenti che si avvalgono dell’esenzione dall’ora di religione nelle scuole superiori, pur con tutte le difficoltà che la scelta comporta, a partire dal sistematico boicottaggio dell’offerta di ore alternative.

Quasi a confermare la caratteristica infantile della credenza religiosa, le cifre dell’esenzione scolastica scendono dal quindici per cento nelle superiori al sette per cento nelle medie, e al cinque per cento nelle elementari. Benchè, naturalmente, con l’età, alla crescita intellettuale dei ragazzi si assommi anche la diminuzione del potere coercitivo delle famiglie, massimo sui bambini indifesi e minimo sugli adolescenti agguerriti.

Lo studio di Zuckerman conferma anche il risaputo e sostanziale ateismo della comunità scientifica. I dati, riportati anche dall’Avvenire in un’inchiesta dello scorso anno, situano la percentuale degli scienziati credenti attorno a un misero sette per cento, con punte che variano tra il quattro per i biologi e il quindici per cento per i matematici. Anche se, a parziale giustificazione di questi ultimi, va detto che la loro religiosità sembra indirizzata più verso una divinità astratta e razionale, che verso una concreta e incarnata.

Fanno dunque bene a preoccuparsi, Benedetto XVI e Ahmadinejad. La loro è fede in declino, e fatica sempre più a mantenere la presa sui popoli sviluppati e sugli individui maturi. Facciano pure la loro Santa Alleanza per la sopravvivenza delle «religioni divine», ma sappiano che vanno contro la storia umana. E’ il progresso, bellezze!

Scritto martedì, 12 ottobre 2010 alle 12:07 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 25, 2010, 05:23:14 pm »


24
ott
2010

Sana e robusta Costituzione

Piergiorgio Odifreddi.

Le recenti dichiarazioni dei presidenti della Repubblica e della Camera spingono a riflettere, rispettivamente, sullo stato di salute della Costituzione e della legge elettorale.

Cominciamo dalla prima, che viene tirata in direzioni opposte dalle opposte forze politiche. La destra sembra considerarla ormai obsoleta e buona solo a essere stracciata, mentre il centro-sinistra la esalta e la difende in maniera acritica e aprioristica. Come sempre succede, le posizioni estreme rischiano di essere  entrambe sbagliate.

Se infatti la Costituzione non è certo tutta da buttare, sarebbe difficile sostenere che debba essere preservata intatta. A cominciare dal famigerato Articolo 7, che recepiva i Patti Lateranensi nella carta di quello che avrebbe dovuto essere uno stato laico, repubblicano e democratico. I Patti si aprivano invece con un’invocazione alla Santissima Trinità, proclamavano il cattolicesimo religione di Stato, facevano un esplicito richiamo allo Statuto Albertino del 1848, recavano la firma del Duce e il marchio del fascismo, e concedevano ai cattolici privilegi in aperta contraddizione con il resto della Costituzione.

Un articolo di tal genere, solo in parte rimediato dalla revisione dei Patti del 1984, non permette certo di considerare perfetta la Costituzione che lo contiene. E le modalità che hanno portato alla sua approvazione all’Assemblea Costituente, il 25 marzo 1947, grazie al tradimento dei comunisti, che unirono il loro voto a quello dei democristiani e della destra, dimostrano a sufficienza, nel caso ce ne fosse bisogno, che la Costituzione non è piovuta dal cielo come le Tavole della Legge. E’ invece “umana, troppo umana”: cioè, politica, troppo politica.

E se è politica, è non solo possibile, ma doveroso cambiarla quando le condizioni politiche cambiano, così come sono cambiate dal 1948 ad oggi. Naturalmente, l’unico modo democratico e corretto di cambiare la Costituzione sarebbe di farla riscrivere da una nuova Assemblea Costituente. Non certo di modificarla con colpi di mano quali le riforme a maggioranza, di cui si sono macchiati sia il governo Amato nel 2001, che il governo Berlusconi nel 2005.

Ma poiché un’Assemblea Costituente dev’essere eletta in qualche modo, si ripropone immediatamente il problema della legge elettorale. Il presidente della Camera si è finalmente accorto, bontà sua, che “il partito carismatico è il miglior strumento per vincere le elezioni, ma il peggiore per governare”. Magari un giorno si accorgerà che il problema è ben più grave, e in realtà non risiede nè nel partito carismatico, nè nel giustamente vituperato porcellum. Bensì, è ormai l’intero sistema democratico occidentale a far sì che le qualità (individuali o collettive) necessarie per vincere le elezioni non siano quelle necessarie per governare.

Anzitutto, perché il gioco e l’impegno politico richiedono ormai un coinvolgimento così totale, che possono impegnarcisi soltanto coloro che non hanno nient’altro da fare, o che non sanno fare nient’altro. E poi, perché i costi e le fatiche della competizione elettorale la rendono inappetibile a coloro che non ritengono di poter ricavare benefici dall’elezione. Il risultato è di fronte agli occhi di tutti, ed è misurabile dall’infimo livello intellettuale e morale della casta dei politici professionisti.

Ma ancora più grave è l’anacronismo del sistema democratico occidentale, che si fonda sulla delega in bianco del potere politico o amministrativo a rappresentanti eletti una volta ogni cinque anni. Lo dimostrano episodi traumatici come l’attentato dell’11 settembre 2001, quando nessuno dei governi occidentali aveva avuto mandato dagli elettori di dichiarare guerra all’Afghanistan e all’Iraq, e di invaderli militarmente. O la crisi economica del 2008, quando nessuno di quei governi aveva avuto mandato dagli elettori di spendere centinaia di miliardi di dollari per salvare le banche o ristrutturare l’economia mondiale.

La complessità globale dell’economia e la rapidità dei cambiamenti richiederebbero oggi un ripensamento dell’intero sistema di rappresentanza e di partecipazione politica. Ma invece di guardare a una nuova Bretton Woods e a una nuova Yalta, noi stiamo a discutere di lodi costituzionali e di leggi elettorali: anche sul Titanic si ballava, mentre la nave affondava…

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« Risposta #18 inserito:: Novembre 15, 2010, 05:34:15 pm »


15
nov
2010
Gli uomini preferiscono le Rosse

La Ferrari ha perso all’ultima gara il campionato del mondo, sembra per un errore di strategia della scuderia. In un mondo normale, non importerebbe a nessuno. Ma poiché il nostro mondo normale non è,  Calderoli ha addirittura chiesto le dimissioni di Montezemolo, perché “ci ha fatto vergognare tutti”.

Interessante, l’interessamento interessato del ministro leghista. Credevamo infatti che, nella loro ristretta visione a 36 gradi, i lumbard tifassero per le auto lombarde, appunto, mica per quelle emiliane. E, soprattutto, per i piloti italiani, mica per quelli spagnoli. In fondo, non erano stati proprio loro, attraverso uno dei loro pensatori di riferimento, a lamentarsi che nelle squadre di calcio giocano troppi giocatori stranieri, e soprattutto troppi neri?

E invece li scopriamo difensori delle glorie nazionali, e prede dei pregiudizi più stereotipati. Il primo dei quali è che a vincere, nello sport, non debba essere il migliore, bensì colui che parla la nostra lingua. O che vive dalle nostre parti. O che è ingaggiato da qualche capitalista nostrano. O che, in qualche modo più o meno diretto, è collegato a noi.

Naturalmente, da cattive premesse non possono che discendere pessime conclusioni. Ad esempio, che nella vita devono andare avanti non coloro che fanno qualcosa di buono, ma coloro che hanno come unico merito di essere figli, o parenti, o vicini di casa, o compagni di merenda, o conoscenti alla vicina o alla lontana di qualcuno. E infatti, così è, a destra e a sinistra, nel pubblico e nel privato, in una comunione molto poco spirituale che una volta accomunava i democristiani e i comunisti, e ora accomuna i berlusconiani e gli antiberlusconiani.

Questi sono motivi generici per non tifare per la Ferrari. O almeno, non soltanto e acriticamente perché è la Ferrari. Ma ce ne sono di specifici: primo fra tutti, quello che il circo della Formula Uno non è altro che una gigantesca pubblicità per l’auto. Cioè, per la produzione e il consumo di un bene antiquato e anacronistico come l’auto, che ha reso ormai invivibili le nostre città, e che dovrebbe essere rottamato e sostituito con trasporti ecologici e pubblici, invece che sostenuto e potenziato a scapito di essi.

Come se non bastasse, le prodezze dei piloti alla guida dei loro bolidi non fanno che istigare anche i travet e i cumenda che votano Lega, oltre che naturalmente tutti gli altri, a guidare incuranti delle regole del codice della strada. A passare col rosso come se fossero alla guida di una rossa: anche, e soprattutto, quando sono alla guida di una volante. Ad affrontare le rotonde come se fossero delle chicane, incuranti di chiunque cerchi di entrarci. A considerare gli altri guidatori come degli avversari da battere. A ritenere qualunque concessione di precedenza, soprattutto ai pedoni e ai ciclisti, ma anche agli automobilisti, come un affronto alla propria virilità.

Nel film di Benigni Johnny Stecchino, Paolo Bonacelli diceva che il nostro vero problema è il “ciaffico”. Era una battuta, ma le battute in generale, e quelle dei film di Benigni in particolare, rivelano spesso profonde verità. E la verità, nel caso dell’auto, è che niente spiega il successo politico di Berlusconi meglio del modo in cui tutti gli italiani guidano. Forse è questo che, inconsciamente, preoccupa Calderoli e gli alleati del capo: che la sconfitta della Ferrari e dell’automobilismo d’accatto rischi di diventare una metafora per la vittoria del codice della strada dapprima, e di quello morale poi. Il che, naturalmente, finirebbe per investire e travolgere il governo di cui egli fa parte.

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« Risposta #19 inserito:: Novembre 26, 2010, 05:37:56 pm »


26
nov
2010

San Fabio e San Roberto, invitate Darwin!

Divertente il contrappasso subíto dalla trasmissione di Fazio e Saviano! Agli inizi, erano loro a scalpitare per poterla fare, scontrandosi contro le resistenze dei vertici della Rai e dei loro protettori politici. Ora sono i loro oppositori a implorare o pretendere di andarci, subendo giustamente una sorte uguale e contraria.

Dopo il caso del ministro Maroni, questa settimana assistiamo a quello dei sedicenti «movimenti per la vita», che vorrebbero riaprire le polemiche sul «diritto alla morte» di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Chiedendo di contrapporgli, ovviamente, qualche tirata su un supposto «dovere alla vita», da loro inteso come condanna a subire i dettami della Natura a ogni condizione, per quanto inumana e disumana.

Nel gioco del contrappasso, anche questa volta sono i vertici della Rai e i loro protettori politici a cercare di imporre a Fazio e Saviano la scaletta del loro programma. Visto che però ormai tutti li tirano per la giacchetta, mi permetto pure io di dare loro qualche consiglio: domandando umilmente, come si addice a chi non ha potere, e dunque può solo proporre, senza poter pretendere di imporre.

Da Vieni via con me sono infatti completamente assenti la scienza e gli scienziati. Siamo abituati, naturalmente, a subire blackout mediatici ai confronti dei quali le resistenze subíte da Fazio e Saviano sono solo fastidi di mosche. Ma è possibile che sul loro palcoscenico sfilino tutti, dai politici ai comici, e non si veda un solo rappresentante del pensiero che caratterizza la nostra epoca tecnologica, televisione compresa?

Forse che glorie nazionali come Rita Levi Montalcini, Umberto Veronesi o Carlo Rubbia (in ordine di età) non potrebbero proficuamente leggere una lista dei valori della scienza? E forse che quei valori non sono altrettanto (o più) degni di essere declamati e ascoltati, di quelli che abbiamo sentito nelle precedenti puntate del programma?

La cosa sarebbe buona e giusta, equa e salutare (come si dice in altre parrocchie). Anche perchè i valori della scienza, a differenza da tutti gli altri, sono quasi completamente assenti dal video in generale, e dai programmi Rai in particolare. Quando non sono addirittura sbeffeggiati e insultati: ad esempio, in Voyager, un programma che grida vendetta, oltre che compensazione e par condicio!

Per cominciare a rimediare al silenzio e alle offese della Rai, oltre che per mostrarci per contrapposizione cosa si fa nei paesi civili, Fazio e Saviano potrebbero anche mandare in onda un trailer del programma Creation della BBC: un film sugli anni in cui Darwin maturò e scrisse L’origine delle specie, il libro che cambiò la storia della biologia e della nostra concezione della vita sulla Terra.

Si tratta di un film, appunto, non di un documentario. E trasmetterlo dopo anni di fiction di indottrinamento religioso e politico in prima serata, infonderebbe una boccata d’aria scientifica nell’apnea televisiva italiana. Per ora, lo si è visto soltanto una volta al Museo di Storia Naturale di Milano, a settembre, e un’altra al British Film Club di Trieste, una decina di giorni fa.

A parte queste anteprime, o anteultime, il film non e’ mai stato proiettato in Italia. E’ improbabile che i distributori italiani non l’abbiano comprato per ragioni economiche, perchè ha un cast hollywoodiano, non è didascalico, e fa commuovere con il racconto dello strazio di Darwin per la morte della piccola figlia Annie. Forse il problema è che racconta il conflitto interiore che travagliò Darwin, quando la scoperta dell’evoluzione per selezione naturale lo allontanò gradualmente e inesorabilmente dalla fede religiosa.

Capisco che Fazio e Saviano possano avere altri interessi. Ma ormai noi scienziati/scientifici non sappiamo più a che santo votarci. E poichè sembra che ormai loro siano stati elevati agli onori degli altari mediatici dalla Sacra Congregazione dell’Auditel, dovranno abituarsi a ricevere domande di grazie. Dunque, vi prego in ginocchio: San Fabio e San Roberto, pregate e intercedete per noi!

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22
nov
2010
Così parlò Zarathustra XVI

Fioccano le anticipazioni del nuovo libro del Papa, nel miglior stile di Bruno Vespa. E tutti i giornali ci cascano, nell’uno come nell’altro caso. Che dire? Beati i papi, della Chiesa o della Rai, che riescono ad attirare l’attenzione dei loro simili, pur non dicendo mai nulla di nuovo. Soprattutto il primo, le cui parole vengono addirittura presentate come «rivoluzionarie», quando non segnano neppure un passaggio dall’Alto al Basso Medioevo.

La prima supposta novità sarebbe la sua disponibilità alle dimissioni, quando ce ne fosse il bisogno. Disponibilità già manifestata sia da Paolo VI che da Giovanni Paolo II, che però si guardarono bene entrambi dal darle, quando ce ne fu effettivamente bisogno. Il secondo, in particolare, se ne stette col sedere attaccato alla cattedra di Pietro fino all’ultimo, continuando a ripetere che se ne sarebbe andato solo quando il Signore l’avesse chiamato. Salvo poi, quando il Signore lo chiamava per davvero, correre al Policlinico per ritardare la chiamata: beninteso, con un codazzo di telecamere al seguito.

Non parliamo della faccenda dei preservativi, sui quali Benedetto XVI sembra avere idee parecchio confuse. I media si sono eccitati perchè il Papa ha detto che «vi possono essere singoli casi in cui l’uso è giustificato». Ma bastava leggere la frase successiva per farsi una bella risata: secondo il Papa, un esempio di questi casi sarebbe infatti «quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere un primo passo verso una normalizzazione».

A chi si sarà domandato in che modo le prostitute dovrebbero usare il profilattico, la sala stampa ha precisato che si trattava di un errore di traduzione: il Papa aveva parlato di prostituti, al maschile. Bravo, cosí almeno si capisce dove essi possano metterselo. Ma rimane fitto il mistero su quale sarebbe la «normalizzazione», verso la quale tenderebbe il prostituto che indossa il profilattico. Forse, quella delle statue dei Musei Vaticani, con le pudenda impacchettate in foglie di fico? O quella del macho che preferisce non avere rapporti sessuali, invece che averli in maniera protetta?

Verrebbe da dire che sarebbe meglio per il Papa parlare di ciò che sa, se non fosse che questo rischierebbe di farlo tacere in eterno. Perchè il povero Benedetto XVI sembra ignaro persino dei fatti di casa propria. Ad esempio, sostiene che se avesse saputo che fra i lefevriani c’erano dei filonazisti, non avrebbe revocato loro la scomunica. Ma non era stato proprio lui, per ventisette anni, a guidare l’analogo dell’Fbi o del Kgb vaticano? E chi altro avrebbe dovuto accorgersene, se non il Grande Inquisitore tedesco?

Il vero mistero sembra essere l’eccesso di interessamento che i media hanno dimostrato per questo eccesso di sciocchezze. Nessun giornale si è invece interessato, o se qualcuno l’ha fatto io non me ne sono accorto, all’istruttiva risposta di Benedetto XVI alla lettera di Ahmadinejad, della quale abbiamo parlato qualche post fa. La risposta risale al 3 novembre, e conferma il sospetto che i due se la intendessero, nell’essenza.

Dice infatti il Papa romano, echeggiando il Presidente iraniano: «E’ mia profonda convinzione che il rispetto per la dimensione trascendente della persona umana sia una condizione indispensabile per la costruzione di un ordine sociale giusto e una pace stabile. Quando la promozione della dignità della persona umana è l’ispirazione primaria dell’attività politica e sociale che è rivolta alla ricerca del bene comune, si creano fondamenta solide e durature per costruire la pace e l’armonia fra i popoli».

Il che dimostra che il Papa non solo non capisce niente di preservativi e anticoncezionali, ma neppure di politica e di storia. In particolare, del ruolo fondamentale che le religioni sua e di Ahmadinejad hanno avuto nel fomentare la costruzione di ordini sociali ingiusti e guerre continue e durature, a partire dal Medio Oriente.

L’ovvia realtà è invece che la sparizione dei fondamentalismi di cui Benedetto XVI e Ahmadinejad sono i rappresentanti è una condizione necessaria per l’instaurazione della giustizia e il raggiungimento della stabilità. Non è certo sufficiente, ma fino a che ci sarà gente come loro e i loro seguaci, non andremo molto lontano sulla via che potrebbe condurre alla giustizia e alla pace.

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18
nov
2010

Vergogna a Guantanamo

Non si sa se ridere, o se piangere. Uno dei detenuti nel lager di Guantanamo ha finalmente potuto essere processato da un tribunale civile. E il risultato è stato che, delle 286 imputazioni a suo carico, 285 sono cadute. Una di esse accusava il povero Ahmed Khaifan Ghailani dell’esecuzione materiale degli attentati del 1998 contro le ambasciate statunitensi del Kenia e della Tanzania, in cui c’erano state 224 vittime.

L’unica imputazione rimasta in piedi riguarda la fornitura di esplosivi ai terroristi, con l’accusa di «aver cospirato per distruggere beni di proprietà degli Stati Uniti». Ma che sensibilità rivelano questi americani, quando si tratta delle cose loro! Ne avessero altrettante per le cose altrui, però, avrebbero lasciato da tempo la base di Guantanamo, che mantengono con la forza da quando Cuba si liberò del dittatore Batista, loro amico e alleato: cioè, da più di sessant’anni.

Il governo castrista, col quale gli Stati Uniti non intrattengono rapporti diplomatici, ha sempre chiesto agli Stati Uniti di abbandonare la base. Essi invece rivendicano il diritto di rimanerci, in base a una concessione perpetua estorta nel 1903 al primo presidente-fantoccio dell’isola, dopo che Cuba era passata sotto il loro dominio in seguito alla guerra Ispano-Americana del 1898.

Su questo territorio coloniale, gli Stati Uniti hanno impiantato nel 2002 il notorio lager per i prigionieri della cosiddetta «guerra al terrorismo», benchè la concessione di un secolo fa limiti l’uso del territorio alle attività minerarie e navali. L’illegalità formale del lager si sovrappone dunque alla prevaricazione sostanziale dell’esistenza stessa della base.

Le condizioni vergognose della detenzione nel lager hanno spinto Amnesty International nel 2005,  e le Nazioni Unite e la Comunità Europea nel 2006, a chiederne la chiusura. Il presidente Obama ha promesso di farlo, ma finora la sua presidenza non si è distinta da quella di Bush, in questo come in altri campi: ad esempio, la guerra in Afghanistan. Il lager resta dunque in funzione, e il Senato ha stabilito nel 2009 che tale rimanga per il futuro prossimo.

La vicenda di Ghailani rivela, se ancora ce ne fosse stato bisogno, i fini di propaganda e i mezzi di disinformazione dell’intera politica antiterroristica degli Stati Uniti, cosí acriticamente condivisa da tutto l’Occidente. Dopo essere stato infatti definito dall’FBI come uno dei «terroristi più ricercati», con una taglia di 5 milioni di dollari sulla testa, nel 2004 il ministro della Giustizia di Bush lo additò come membro di un commando di Al Qaeda in procinto di effettuare un attentato negli Stati Uniti.

I Democratici bollarono la rivelazione come una sospetta propaganda elettorale, in un anno di elezioni. Puntualmente, quando Ghailani fu arrestato in Pakistan, insieme alla moglie e ai figli, la notizia della sua cattura non fu divulgata per quattro giorni, e venne diffusa solo poche ore prima della conclusione della Convention Democratica, per rubare la scena al neocandidato presidenziale Kerry.

Dopo aver passato cinque anni nel lager di Guantanamo, come «nemico combattente», Ghailani fu trasferito a New York nel 2009, per il processo civile che oggi, finalmente, ha sollevato un lembo del grande velo sotto cui vengono da dieci anni spazzate le sporcizie della guerra al terrorismo. Anche con la nostra connivenza.

http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/?ref=HREC1-7
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 30, 2010, 11:16:27 pm »


30
nov
2010

Gli studenti sul tetto che scotta

Piergiorgio Odifreddi

La protesta studentesca infiamma l’Italia, e ci riporta con la memoria agli anni gloriosi del ‘68. Ben vengano le assemblee, i cortei, gli striscioni, le occupazioni, le proteste contro una riforma che, per il solo fatto di essere stata proposta da un ministro come la Gelmini, non può certo essere presa seriamente.

Anzi, mi stupisco che la Gelmini sia stata accettata seriamente come ministro, e che studenti e professori non abbiano fin da subito rifiutato di riconoscerle il ruolo che il suo curriculum (con e senza il prefisso) le aveva guadagnato. Non bisognava essere Sherlock Holmes per capire che una pivella di trentacinque anni, laureata in legge a Brescia e abilitata a Reggio Calabria, sfiduciata con un voto unanime e bipartisan come presidente del consiglio comunale di Desenzano del Garda per «manifesta incapacità», con un’esperienza parlamentare di due soli anni, poteva essere arrivata a far il ministro soltanto per motivi innominabili.

E’ un segno dei tempi e dei luoghi, cioè dell’Italia di oggi, che il Capo dello Stato non solo abbia accettato la nomina della Gelmini, cosí come della sua collega Carfagna, ma in seguito abbia trattato questi due cavalli di Caligola con rispetto «istituzionale», a volte addirittura elogiandone il lavoro, e legittimando in tal modo l’illegittimabile. Studenti e professori non avevano però obblighi di forma, e se si fossero tempestivamente rifiutati di riconoscere la Gelmini avrebbero potuto evitare di dover manifestare tardivamente contro la sua riforma.

Poichè io mi sono guadagnato un «lei fa schifo» in diretta tv dal ministro La Russa per aver detto queste cose il 1 ottobre 2009 a Porta a porta, credo di non poter essere sospettato di connivenza con la «signora-cavallo» se oggi manifesto un certo disagio nell’assistere a una protesta che accomuna studenti e professori, e se sospetto che i primi non abbiano ben capito che lo stato in cui versa l’università italiana dipende anche in buona parte dai secondi.

A me sembra che gli studenti dovrebbero richiedere a gran voce una riforma che tagliasse le teste dei baroni. Obbligasse i cattedrattici a un pensionamento a un’età equiparata a quella degli altri lavoratori. Risolvesse una parte dei problemi finanziari dell’università riassegnando i loro posti ai giovani ricercatori. Obbligasse i professori rimasti a sottostare a periodici e draconiani giudizi di efficienza e produttività. E rivedesse retroattivamente i criteri coi quali quei professori sono arrivati ad esserlo, eventualmente radiando i tanti che sono stati promossi per puro «demerito»: cioè, per nepotismo o per favoritismo.

Immaginare che una qualsiasi riforma dell’università possa avere successo senza intervenire radicalmente sui rapporti di forza esistenti, è analogo a pretendere di risanare un cesto di mele senza voler togliere quelle marce. O a sperare di poter sanare un organismo malato di cancro senza voler rimuovere quest’ultimo, col bisturi o con le terapie d’urto.

Le rivoluzioni non si fanno in maniera indolore, e le manifestazioni che uniscono ecumenicamente oppressi e oppressori sono sospette di manipolazione dei primi da parte dei secondi. Invece di accogliere baroni e politici sui tetti e sui monumenti dai quali manifestano, gli studenti dovrebbero inziare a buttarceli giù, insieme con la Gelmini.  In maniera metaforica, è chiaro, ma non per questo meno concreta ed efficace.

Scritto martedì, 30 novembre 2010 alle 11:27 nella categoria Senza categoria. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 06, 2010, 06:29:37 pm »


6
dic
2010

Le rivelazioni matematiche di Assange


Le rivelazioni di Wikileaks hanno scosso il mondo, e continueranno a farlo. Gli stati del globo hanno fatto quadrato, stracciandosi le vesti e rivendicando il diritto alla segretezza. Come se la trasparenza non fosse un dovere, almeno per le sedicenti democrazie, che invece adottano sistematicamente un doppio standard basato sulla sottile distinzione fra «legalità» e «legittimità».

La distinzione, in Italia, ha sostenitori che arrivano fino alle più alte cariche dello Stato, dai Ministri dell’Interno ai Presidenti della Repubblica. E non è certo un caso che molti di coloro che hanno ricoperto la prima carica, siano poi arrivati a ricoprire la seconda: da Segni e Cossiga, a Scalfaro e Napolitano.

 Lo stesso Cossiga mi ha spiegato una volta la distinzione fra i due concetti, in questi termini: «La legittimità è ciò che attiene alla natura degli interessi costitutivi dello Stato, mentre la legalità riguarda soprattutto i metodi per realizzare i fini dello Stato. Non esiste servizio segreto che non sia illegale, ma l’illegalità del servizio è giustificata dalla concordanza dei suoi fini con la legittimità».

E’ chiaro che, da queste premesse, non possono che derivare comportamenti duplici delle istituzioni, che sistematicamente dicono in pubblico ciò che la legge e la decenza richiedono loro di dire, ma fanno poi in privato ciò che la prassi e gli interessi consigliano loro di fare.

Solo i governi rivoluzionari possono sognare di scardinare i fondamenti di questa doppia morale, salvo poi rientrare nei ranghi non appena possibile. Ad esempio, quando Trotsky divenne ministro degli Esteri del primo governo bolscevico, dichiarò che avrebbe divulgato i termini dei trattati segreti firmati dal governo zarista, e avrebbe chiuso il ministero in poche settimane. Ma niente di questo successe, ovviamente.

Wikileaks oppone alla realpolitik della doppiezza un’ideologia della trasparenza che, almeno per quanto riguarda il portavoce Julian Assange, affonda le sue radici nel pensiero scientifico in generale, e matematico in particolare. L’uomo più ricercato del mondo, accusato di «terrorismo» per aver confermato coi fatti che la verità è rivoluzionaria, ha infatti un passato di studente di matematica e fisica all’Università di Melbourne, dal 2003 al 2006.

E nel suo blog di qualche anno fa, intitolato IQ come acronimo di Interesting Questions, questo passato affiora in molti post. Ad esempio, quello del 12 luglio 2006 testimonia che Assange partecipò al convegno dell’Istituto Australiano di Fisica, e che l’anno prima rappresentò la sua università alla Competizione Nazionale Australiana di Fisica. Altri post affrontano invece problematiche di filosofia o sociologia della matematica, dall’uso dei numeri immaginari, all’influsso del pensiero maschile nello sviluppo della disciplina.

Il post più interessante è però forse quello del 29 agosto 2007, intitolato «Irrazionalità nelle discussioni», che nota: «Potete provare che da A segue B, da B segue C, … , da H segue I, da I segue L, e accorgervi che la Giustizia annuisce e concorda. Ma se poi, con un colpo di teatro, affermate che allora necessariamente da A segue L, la Giustizia si tira indietro e rifiuta l’assioma di transitività, nel caso che L stia per Libertà». In altre parole, quando la Logica non fa comodo, la si rifiuta senza farsi problemi.

Il post continua cosí: «Spesso ci tocca sentirci ribattere che, se crediamo X, allora ne segue una certa cosa. Oppure che, se crediamo X, questo porta a un’altra cosa. Ma tutto ciò non ha niente a che fare con la verità di X, e dimostra che le conseguenze sono trattate con più reverenza della Verità». In altre parole, invece di preoccuparsi di quale sia la Verità, ci si preoccupa di quali possano essere le sue conseguenze.

La conclusione del post sembra una dichiarazione preventiva di intenti per ciò che Assange avrebbe incominciato a fare di lí a poco: «Proprio quando ci sembra che ogni speranza sia persa, accade un miracolo. La gente dimostra di voler vedere dove punta l’ago della bussola, di aver fame di Verità. Ed ecco la Verità che la libera dalle manipolazioni, che le toglie l’anello dal naso. Siano benedetti i profeti della Verità, i suoi martiri, i Voltaire e i Galileo, i Gutenberg e gli Internet, i serial killer della delusione, quei brutali e ossessivi minatori della realtà, che distruggono ogni marcio edificio fino a ridurlo a rovine su cui seminare il seme del nuovo».

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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 08, 2010, 05:34:31 pm »


6
dic
2010

Le rivelazioni matematiche di Assange


Le rivelazioni di Wikileaks hanno scosso il mondo, e continueranno a farlo. Gli stati del globo hanno fatto quadrato, stracciandosi le vesti e rivendicando il diritto alla segretezza. Come se la trasparenza non fosse un dovere, almeno per le sedicenti democrazie, che invece adottano sistematicamente un doppio standard basato sulla sottile distinzione fra «legalità» e «legittimità».

La distinzione, in Italia, ha sostenitori che arrivano fino alle più alte cariche dello Stato, dai Ministri dell’Interno ai Presidenti della Repubblica. E non è certo un caso che molti di coloro che hanno ricoperto la prima carica, siano poi arrivati a ricoprire la seconda: da Segni e Cossiga, a Scalfaro e Napolitano.

 Lo stesso Cossiga mi ha spiegato una volta la distinzione fra i due concetti, in questi termini: «La legittimità è ciò che attiene alla natura degli interessi costitutivi dello Stato, mentre la legalità riguarda soprattutto i metodi per realizzare i fini dello Stato. Non esiste servizio segreto che non sia illegale, ma l’illegalità del servizio è giustificata dalla concordanza dei suoi fini con la legittimità».

E’ chiaro che, da queste premesse, non possono che derivare comportamenti duplici delle istituzioni, che sistematicamente dicono in pubblico ciò che la legge e la decenza richiedono loro di dire, ma fanno poi in privato ciò che la prassi e gli interessi consigliano loro di fare.

Solo i governi rivoluzionari possono sognare di scardinare i fondamenti di questa doppia morale, salvo poi rientrare nei ranghi non appena possibile. Ad esempio, quando Trotsky divenne ministro degli Esteri del primo governo bolscevico, dichiarò che avrebbe divulgato i termini dei trattati segreti firmati dal governo zarista, e avrebbe chiuso il ministero in poche settimane. Ma niente di questo successe, ovviamente.

Wikileaks oppone alla realpolitik della doppiezza un’ideologia della trasparenza che, almeno per quanto riguarda il portavoce Julian Assange, affonda le sue radici nel pensiero scientifico in generale, e matematico in particolare. L’uomo più ricercato del mondo, accusato di «terrorismo» per aver confermato coi fatti che la verità è rivoluzionaria, ha infatti un passato di studente di matematica e fisica all’Università di Melbourne, dal 2003 al 2006.

E nel suo blog di qualche anno fa, intitolato IQ come acronimo di Interesting Questions, questo passato affiora in molti post. Ad esempio, quello del 12 luglio 2006 testimonia che Assange partecipò al convegno dell’Istituto Australiano di Fisica, e che l’anno prima rappresentò la sua università alla Competizione Nazionale Australiana di Fisica. Altri post affrontano invece problematiche di filosofia o sociologia della matematica, dall’uso dei numeri immaginari, all’influsso del pensiero maschile nello sviluppo della disciplina.

Il post più interessante è però forse quello del 29 agosto 2007, intitolato «Irrazionalità nelle discussioni», che nota: «Potete provare che da A segue B, da B segue C, … , da H segue I, da I segue L, e accorgervi che la Giustizia annuisce e concorda. Ma se poi, con un colpo di teatro, affermate che allora necessariamente da A segue L, la Giustizia si tira indietro e rifiuta l’assioma di transitività, nel caso che L stia per Libertà». In altre parole, quando la Logica non fa comodo, la si rifiuta senza farsi problemi.

Il post continua cosí: «Spesso ci tocca sentirci ribattere che, se crediamo X, allora ne segue una certa cosa. Oppure che, se crediamo X, questo porta a un’altra cosa. Ma tutto ciò non ha niente a che fare con la verità di X, e dimostra che le conseguenze sono trattate con più reverenza della Verità». In altre parole, invece di preoccuparsi di quale sia la Verità, ci si preoccupa di quali possano essere le sue conseguenze.

La conclusione del post sembra una dichiarazione preventiva di intenti per ciò che Assange avrebbe incominciato a fare di lí a poco: «Proprio quando ci sembra che ogni speranza sia persa, accade un miracolo. La gente dimostra di voler vedere dove punta l’ago della bussola, di aver fame di Verità. Ed ecco la Verità che la libera dalle manipolazioni, che le toglie l’anello dal naso. Siano benedetti i profeti della Verità, i suoi martiri, i Voltaire e i Galileo, i Gutenberg e gli Internet, i serial killer della delusione, quei brutali e ossessivi minatori della realtà, che distruggono ogni marcio edificio fino a ridurlo a rovine su cui seminare il seme del nuovo».

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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 10, 2010, 07:06:45 pm »


10
dic
2010

Lu Xiaobo e Assange, dissidenti


Il premio Nobel per la pace è stato consegnato a Liu Xiaobo in absentia. Il dissidente cinese, infatti, sta in carcere per aver ispirato Charta ‘08: un manifesto che chiede la democratizzazione e la riforma della Cina, ed è analogo all’omonima Charta ‘77 cecoslovacca, ispirata all’epoca da Václav Havel e altri.

La Cina naturalmente considera Liu Xiaobo un criminale comune, e in ritorsione ha istituito un anti-premio Nobel per la pace. Gli Stati Uniti, altrettanto naturalmente, lo considerano un eroe del libero pensiero, e il presidente Obama ha chiesto a gran voce la sua liberazione.

Nel frattempo, Julian Assange sta in carcere in Inghilterra, per aver ispirato e diretto Wikileaks: l’ormai famoso sito di controinformazione, che si propone la trasparenza dell’informazione e si oppone alla manipolazione delle notizie ufficiali.

Poichè le ultime rivelazioni di Wikileaks hanno riguardato gli Stati Uniti, questi lo considerano un criminale e chiedono la sua estradizione per poterlo processare per spionaggio. La Russia, altrettanto naturalmente, lo considera un dissidente dell’Occidente, e il premier Putin ha chiesto a gran voce la sua liberazione.

Non è surreale, la simmetria dei leader mondiali, tutti impegnati a vedere le travi negli occhi altrui, senza preoccuparsi di quelle nei propri? E non è terribile, la simmetria dei dissidenti mondiali, tutti perseguiti per aver voluto guardare le travi nei propri occhi, invece di preoccuparsi di quelle negli occhi altrui?

A scanso di equivoci, i dissidenti come Liu Xiaobo ad Assange espongono fatti, senza indulgere nel genere denominato «docu-fiction». In altre parole, non scrivono libri da dieci milioni di copie, nè fanno programmi televisivi da dieci milioni di spettatori.

Se lo ricordino, coloro che inneggiano ai nuovi guru di casa loro, credendo che siano i portabandiera della verità. Purtroppo, come ci insegnava Oscar Wilde, chi dice la verità prima o poi viene scoperto. E finisce in galera, come ci finí lui, e come ci sono finiti Liu Xioabo e Assang. Ma non certo nelle classifiche dei best seller, o in quelle dell’Auditel.

Scritto venerdì, 10 dicembre 2010 alle 14:40

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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 18, 2010, 09:33:50 pm »


15
dic
2010

PIERGIORGIO ODIFREDDI

Grazie, Veltroni e Di Pietro!

E cosí, dopo settimane di inutili e ingenue speranze, il governo Berlusconi ha ottenuto la fiducia della Camera per 314 voti a 311. E, per aggiungere le beffe al danno, l’ha ottenuta con due voti determinanti di due membri che appartenevano all’opposizione: Massimo Calearo al Partito Democratico, e Domenico Scilipoti all’Italia dei Valori.

La candidatura del primo nelle liste del Pd fu una delle storiche pensate di Walter Veltroni. D’altronde, uno dei motivi per cui la legge elettorale attualmente in vigore fu denominata porcellum, era appunto che permetteva e permette  porcate di questo genere. E Veltroni la sfruttò appieno, imponendo come candidati personaggi improponibili per vari motivi, da Marianna Madia (ex fidanzata del figlio di Napolitano) a Calearo (impreditore di destra), appunto.

Non era necessario essere dei politologi professionisti, per accorgersi dell’assurdità di queste candidature. Bastava anche essere dei dilettanti, entrati nel partito «nuovo» di Veltroni da poche settimane, com’ero io all’epoca. Appena viste queste «novità», me la battei dal partito a gambe levate, prima delle elezioni del 2008. E nelle urne molti altri mostrarono di non aver gradito i «ma anche» di Veltroni, e non abboccarono al richiamo delle sue sirene.

In seguito, entrambe le pietre dello scandalo veltroniano hanno dato prova di sè. Il 22 ottobre 2009 la Madia non andò a votare alla Camera, insieme ad altri ventidue deputati Pd, contro lo scudo fiscale: provvedimento che passò con un margine di venti voti. E ieri Calearo ha votato la fiducia al governo, passata appunto con un margine di tre voti.

Quanto alla candidatura di Scilipoti nell’Idv, non è meno imbarazzante per Di Pietro di quella di Calearo per Veltroni. In questo caso si tratta infatti di un truffatore, condannato in secondo grado a 200.000 euro di multa e al pignoramento di vari immobili per debiti non pagati. E si tratta anche di un ciarlatano, che pur vivendo nel terzo millennio non si vergogna di propagandare e professare la sedicente medicina «alternativa» e l’omeopatia.

Naturalmente, è inutile prendersela con miracolati come Calearo e Silipodi, che si sono semplicemente comportati da ciò che erano e sono sempre rimasti. La colpa non è loro, ma di Veltroni e Di Pietro. E poichè, se i due leader avessero scelto i loro candidati con un po’ più di intelligenza e di onestà, ieri il governo Berlusconi sarebbe stato sfiduciato per 313 voti a 312, non sarebbe il caso che traessero le conseguenze e si dimettessero dal Parlamento per vergogna?

Scritto mercoledì, 15 dicembre 2010 alle 16:04 nella categoria Senza categoria.

...

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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 26, 2010, 11:03:00 am »


24
dic
2010

Buon Natale (del Sole Invitto)

Piergiorgio ODIFREDDI

Buon Natale, si sente augurare in ogni dove, da grandi e piccini. Naturalmente, l’augurio nella maggioranza dei casi è una pura coazione a ripetere. Ma coloro che pensano a quello che dicono, credono di commemorare con i loro augùri la nascita di Gesù. E la maggioranza degli àuguri non sa, o ha dimenticato, che la scelta del 25 dicembre come giorno del Natale cristiano è mutuata dalla festa del Sol Invictus, “Sole Invitto”, il Dio Sole (El Gabal) che l’imperatore Eliogabalo importò nel 218 a Roma dalla Siria.

L’imperatore Aureliano ne instaurò il culto nel 270 e ne consacrò il tempio il 25 dicembre 274, durante la festa del Natale del Sole: il giorno, cioè, del solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano, quando il Sole tocca il punto più basso del suo percorso, si ferma (da cui il nome sol stitium, “fermata del Sole”) e ricomincia la sua salita, in un succedersi di eventi che si può metaforicamente descrivere come la sua “morte, resurrezione e ascesa in cielo”. Il 7 marzo 321 l’imperatore Costantino dichiarò poi il Dies Solis, che ancor oggi si chiama in inglese Sunday, giorno del riposo romano.

Dopo essere evidentemente stato notato dai fedeli dei due culti, anche grazie a pronunciamenti evangelici quali “Io sono la luce del mondo”, il collegamento fra Cristo e il Sole venne ufficializzato nel 350 da papa Giulio I, con l’invenzione del 25 dicembre come Natale di Gesù. Anche il Dies Solis fu adottato dai Cristiani come giorno di riposo, benchè col nome di Domenica, da Dominus, “Signore”.

Il culto di Cristo non riuscì però a rimuovere quello del Sole, come dimostra il Sermone di Natale del 460 di papa Leone Magno: “E’ così tanto stimata questa religione del Sole che alcuni cristiani, prima di entrare nella Basilica di San Pietro Apostolo, dedicata all’unico Dio, vivo e vero, dopo aver salito la scalinata che porta all’atrio superiore, si volgono al Sole e piegando la testa si inchinano in onore dell’astro fulgente. Siamo angosciati e ci addoloriamo molto per questo fatto,  che viene ripetuto in parte per ignoranza e in parte per mentalità pagana”.

Benché “ignorante e pagano”, il simbolismo solare permane comunque ancor oggi nei rituali della Chiesa: principalmente nell’uso dell’ostensorio, in cui l’ostia consacrata viene esibita come un Sole irradiante raggi dorati. Esso fu introdotto nella liturgia cristiana da Bernardino da Siena nel secolo XV, ma era di uso comune già nella liturgia egizia per il culto di Aton, il dio unico di Akhenaton rappresentato dal disco solare. Lo stesso dio, cioè, che potrebbe aver ispirato Jahvè a Mosè: in tal caso, veramente Gesù sarebbe il Figlio del Padre, e il cerchio si chiuderebbe storicamente.

Ma si chiude in ogni caso etimologicamente, perché non sono affatto casuali i legami tra le divinità indoeuropee e la luce: l’italiano dio, il latino deus, il greco theos e il sanscrito dyaus derivano infatti tutti da un’unica radice che significa “luminoso” o “splendente”, e identificavano variamente il giorno (da cui il latino dies) e il cielo. I nomi comuni sono poi stati personificati nei nomi propri Dyaus Pitar indù, Zeus Pater greco, Deus Pater latino e Dio Padre italiano, che significano semplicemente “Padre Cielo” o, con una ulteriore ipostatizzazione, “Padre che sei nel Cielo”.

Leone Magno aveva dunque ragione di essere addolorato, perché recitando il Padre Nostro i Cristiani si rivolgono semplicemente a Giove, il cui nome Iove non è altro che l’ablativo di Iuppiter, a sua volta contrazione del vocativo Dyeu Pitar. Un minimo di linguistica basta dunque a smascherare l’anacronismo della fede in Dio Padre: cioè, in Padre Cielo, quello stesso che nella religione naturalistica del Rig Veda era sposato a Prithvi Mata, la “Madre Terra”, e aveva come figli il fuoco Agni e la pioggia Indra.

E’ su queste oscure confusioni tra la luce e Dio da un lato, e tra il Sole e Cristo dall’altro, che si basa e prospera la mitologia cristiana. Ricordiamocelo e ricordiamolo, quando riceviamo e facciamo gli auguri di Buon Natale. In fondo, il vero significato del Natale è questo: non che “un bimbo è nato in noi”, ma che da oggi le giornate saranno sempre meno buie e sempre più luminose. E’ una bella notizia, e dunque Buon Natale a tutti: del Sole Invitto, naturalmente!

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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 03, 2011, 04:42:43 pm »

Piergiorgio ODIFREDDI.

29
dic
2010

Lavoratori, tiè!

Più che un capitano d’industria, Marchionne sembra Sordi ne I vitelloni di Fellini: uno strafottente che, quando passa vicino agli operai, fa loro il gesto dell’ombrello e urla “Lavoratori, tiè”! Ma coi tempi che corrono, con comparse come Fassino e Chiamparino a fargli da spalla, e capipopolo come Berlusconi e Obama ad applaudirlo, c’è poco da sperare che l’auto su cui viaggia Marchionne si fermi di botto e lui sia costretto a scappare come Sordi.

Che Berlusconi lo applauda, non stupisce. Basta leggere Giovanni Agnelli, la biografia che Valerio Castronovo ha dedicato anni fa al fondatore della Fiat, per capire come nacque la sua industria e come egli fece i suoi soldi: esattamente come Mediaset e Berlusconi, appunto. Cioè, con aggiottaggi, denunce, processi, corruzioni di giudici, tangenti ai partiti, speculazioni edilizie (Bardonecchia vs. Milano Due), controllo di una stampa addomesticata (La Stampa vs. il Giornale), fiancheggiamenti dell’uomo forte (Mussolini vs. Craxi), e infine discesa in campo: da primo senatore a vita nominato dal Duce l’uno, e da presidente del Consiglio l’altro.

Dopo la guerra la nascente democrazia trovò insostenibile che un tale malfattore mantenesse la proprietà di un’azienda che era prosperata sulla pelle dei lavoratori, e nel collaborazionismo coi fascisti. Agnelli e Valletta furono spogliati della presidenza e dell’amministrazione della Fiat, ma la sporca realpolitik ebbe presto il sopravvento sui puri ideali. Agnelli ebbe la compiacenza di morire, e Valletta fu reintegrato nel suo ruolo. Vent’anni dopo sarebbe stato nominato senatore a vita dal socialdemocratico Saragat, così come l’erede del vecchio senatore, il rampollo Gianni, lo sarebbe stato nel 1991 dal democristiano Cossiga.

E fu proprio l’avvocato a dichiarare una volta che “la Fiat è governativa”. Cioè, pronta a scendere a patti con qualunque governo, pur di continuare a praticare la politica del capitalismo d’accatto che ha dissanguato l’Italia: gli utili agli imprenditori, le perdite allo stato (e dunque, ai lavoratori). Se la Fiat ha prosperato nel dopoguerra, è stato grazie a una dissennata politica di privilegio dell’auto privata a scapito dei servizi pubblici. A una vergognosa assimilazione degli operai alle macchine, sfruttati quando serve e parcheggiati in cassaintegrazione altrimenti. A una compiacente concessione di incentivi e rottamazioni, per sostenere artificialmente un mercato terminale e inutile.

Naturalmente, i privilegi concessi dal governo venivano doverosamente pagati dalla Fiat. La sua corruzione dei partiti politici dovette essere ecumenica, visto che misteriosamente fu solo sfiorata da Tangentopoli. E quando servì, come già aveva fatto il nonno col vecchio fascismo, così rifece il nipote col nuovo. Da senatore a vita, insieme agli ex-presidenti Leone e Cossiga, fornì un voto determinante per la fiducia al primo governo Berlusconi, nel 1994: anche se poi, durante il secondo governo Prodi, la destra finse di dimenticarsi di aver già essa stessa giocato questo gioco.

E fu lo stesso Agnelli a sdoganare una seconda volta Berlusconi nel 2001, quando rispose alle perplessità internazionali dichiarando che l’Italia non era una repubblica delle banane, e mandando un suo uomo al ministero degli Esteri. In precedenza, quello stesso ministero era stato ricoperto da sua sorella, sempre all’insegna del conflitto di interessi: di nuovo, un’altro motivo di compiacimento per Berlusconi, che non ha mai negato di avere per l’avvocato una vera e propria venerazione, tanto da tenerne la foto sul tavolo come esempio, nei primi tempi della sua carriera.

Marchionne dovrebbe semplicemente avere la decenza di riconoscere la storia dell’azienda che si trova ad amministrare. Perchè, invece di accettare la sua carità di 360 euro lordi l’anno in cambio della rinuncia ai diritti sindacali, non lo si obbliga a restituire il maltolto e non lo si rimanda da dove viene? E, soprattutto, perchè quando si lamenta in tv che la Fiat non guadagna un euro in Italia, il conduttore non gli fa il gesto dell’ombrello e non gli urla: “Marchionne, tiè”?

Scritto mercoledì, 29 dicembre 2010 alle 20:31 nella categoria Senza categoria.

http://odifreddi.blogautore.repubblica.it/2010/12/29/lavoratori-tie/
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 13, 2011, 02:49:09 pm »


11
feb
2011

Lo scherzo (da preti) del Concordato

Nell’ambito delle celebrazioni per il centocinquantenario dell’unità d’Italia, l’11 febbraio le autorità civili e religiose festeggiano in pompa magna la firma dei Patti Lateranensi e del Concordato tra Stato e Chiesa. Cosa ci sia da festeggiare, lo sanno solo loro: i cittadini dovrebbero scendere in piazza, sull’onda delle rivolte nei paesi arabi, e chiedere a furor di popolo l’abrogazione di questa vera e propria vergogna nazionale.

Sarebbe però ingiusto e antistorico attribuire soltanto al regime fascista le responsabilità di questa vergogna. Lo stesso Duce, parlando il 13 maggio alla Camera, aveva infatti candidamente spiegato i vantaggi che gliene sarebbero derivati, facendo sua un’istruzione di Napoleone al Re di Roma: “Le idee religiose hanno ancora molto impero, più di quanto si creda da taluni filosofi. Esse possono rendere grandi servizi all’umanità. Essendo d’accordo col Papa si domina oggi la coscienza di cento milioni di uomini”.

Fu per questo che la Francia di Napoleone firmò col Vaticano un Concordato nel 1801. E lo stesso fecero l’Austria di Francesco Giuseppe nel 1855, l’Italia di Mussolini nel 1929, la Germania di Hitler nel 1933, il Portogallo di Salazar nel 1940, e la Spagna di Franco nel 1953. L’alleanza tra i regimi totalitari e la Chiesa ha dunque una lunga storia, e fu proprio la conferma di quest’alleanza a deludere gli oppositori democratici del fascismo nel 1929: non soltanto Benedetto Croce, uno dei 6 senatori su 316 che votarono contro, ma anche don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi.

Il giorno dopo la firma dei Patti, quest’ultimo scrisse sconsolato a don Simone Weber: “Insegnare a stare in ginocchio va bene, ma l’educazione clericale dovrebbe anche apprendere a stare in piedi”. Per tutta risposta, il 13 febbraio Pio XI indirizzò all’Università Cattolica di Milano un discorso passato alla storia, in cui disse: “Forse a risolvere la questione ci voleva proprio un Papa alpinista, immune da vertigini e abituato ad affrontare le ascensioni più ardue. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza ci ha fatto incontrare: un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale”.

In quei giorni del 1929 scese il sipario sulle speranze risorgimentali di Giuseppe Mazzini e Massimo d’Azeglio. Ma anche sulla realpolitik unitaria di Cavour, espressa dalla formula: “Libera Chiesa in libero Stato”. E addirittura sul laicismo di Giovanni Gentile, che sul Corriere della Sera del 30 settembre 1927 aveva inutilmente affermato: “Se, come notava il Manzoni, ci sono utopie belle e brutte, questa della conciliazione non è da mettersi fra le prime”. Nella sua dichiarazione di voto contrario al Senato, Croce si era invece limitato a dire più debolmente: “La ragione che ci vieta di approvare non è nell’idea di conciliazione, ma unicamente nel modo in cui è stata attuata”.

Il Concordato clerico-fascista era comunque storicamente comprensibile e politicamente giustificato, perchè di esso beneficiarono sia il clero che il fascismo. Molto più difficile da comprendere e giustificare è invece il recepimento di quello stesso Concordato nell’articolo 7 della Costituzione della Repubblica Italiana, che recita: “Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi”.

Nel suo discorso alla Costituente, e nell’istruttiva Storia quasi segreta di una discussione e di un voto pubblicata nell’aprile 1947 su Il Ponte, Pietro Calamandrei fece notare l’assurdità della formula iniziale, che fu attaccata in aula anche da Croce e Vittorio Emanuele Orlando. Una costituzione, infatti, dev’essere un monologo e non un dialogo, e sarebbe stato altrettanto ridicolo inserirvi una formula che proclamasse solennemente: “L’Italia e la Francia sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrane”. Calamandrei notò che però, sorprendentemente, a difenderla fu Palmiro Togliatti, nella seduta del 23 gennaio 1947, “con argomenti che per la loro ortodossia meritarono il pieno plauso della Civiltà cattolica”.

Anche il recepimento dei Patti Lateranensi nella costituzione di uno stato laico, repubblicano e democratico era incongruo. Essi si aprivano infatti con un’invocazione alla Santissima Trinità, e nell’articolo 1 proclamavano il cattolicesimo come religione di Stato. Inoltre, facevano un esplicito richiamo allo Statuto Albertino del 1848, e recavano la firma del Duce e il marchio del fascismo. Infine, concedevano ai cattolici privilegi in aperta contraddizione con il resto della Costituzione. In particolare, con l’articolo 3, che stabilisce che “i cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di religione”. E soprattutto con l’articolo 20, che afferma che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, nè di speciali gravami fiscali”!

Come è stato dunque possibile che il famigerato articolo 7 sia finito nella Costituzione? Come suggerisce Calamandrei, per capirlo bisogna andarsi a rileggere gli atti delle discussioni preparatorie, e soprattutto delle sedute plenarie tenutesi all’Assemblea Costituente dal 4 al 25 marzo 1947, culminate nelle dichiarazioni di voto di De Gasperi, Nenni e Togliatti.

Come si ricorderà, da oppositore del fascismo De Gasperi si era drizzato contro i Patti Lateranensi. Da capo del governo, aveva ormai appreso anche lui a stare in ginocchio. Prendendo per la prima volta la parola alla Costituente, dichiarò che “senza la fede e senza la morale evangelica le nazioni non si salvano”. E sostenne che bisognava approvare “una norma in cui si riconosca la paternità comune del Capo della Religione Cattolica, che ci protegge e che protegga soprattutto la Nazione italiana”. Gli atti registrano “vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra”.

Nenni ricordò la presenza della firma di Mussolini nei Patti, e “il sospetto di una collusione [della Chiesa col fascismo] che pesa ancora sulla coscienza di molti italiani, come una macchia e una vergogna”. Aggiunse che “lo Stato laico considera la religione come un problema individuale di coscienza, ma si mantiene nella sfera della sua sovranità”. E concluse dicendo che “per consolidare la Repubblica bisogna fondare lo Stato, e lo Stato non si fonda sul principio di una diarchia di poteri e di sovranità”. Questa volta, “vivi applausi a sinistra”.

Togliatti iniziò il suo discorso ricordando “le masse di lavoratori e cittadini che ci hanno dato la loro fiducia”. E poi, a sorpresa, spiegò che bisognava tradire questa fiducia, perchè così voleva il Papa: “Non vi è dubbio che ci troviamo di fronte a un’esplicita manifestazione di volontà della Chiesa cattolica, ed è questo il punto da cui dobbiamo partire”. Ammise che “cosa è destra e cosa è sinistra non è sempre facile dirlo in politica”. E finì “convinto che in un consesso di prelati romani sarei stato ascoltato con più sopportazione”.

L’articolo 7 fu approvato per 350 voti a 149, con l’apporto determinante del centinaio di deputati comunisti. Calamandrei espresse tutto il suo disgusto per la loro “resa a discrezione”, e ricordò che “quando fu proclamato il risultato, nessuno applaudì, neanche i democristiani”. Ma il giudizio allo stesso tempo più corretto e più insultante l’ha dato il 10 dicembre 2009 il Segretario di Stato, cardinal Tarcisio Bertone, paragonandolo il discorso di Togliatti a quello di “un padre della Chiesa”, e ricevendo un’immediata approvazione da Massimo d’Alema: cioè, dal peggior erede del Migliore.

E’ anche a causa di quei “comunisti” di allora, e di questi ex-”comunisti” di ora, che l’Italia continua a rimanere in ginocchio di fronte alla Chiesa e al Papa. E’ anche con la loro connivenza e complicità che qualunque governo, ecumenicamente e impunemente, sottrae ogni anno miliardi di euro ai poveri contribuenti e li elargisce ai ricchi preti. E’ anche la loro voce che oggi si unisce all’infausto coro che celebra questa triste pagina della storia italiana.

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« Risposta #28 inserito:: Febbraio 22, 2011, 12:34:09 pm »


21
feb
2011

Mubarak, Gheddafi e Berlusconi

PIERGIORGIO ODIFREDDI

C’é una singolare analogia, tra le dichiarazioni di Mubarak di qualche settimana fa, del figlio di Gheddafi di ieri, e di Berlusconi da sempre.
In tutti e tre i casi, di fronte al montare della protesta popolare, si promettono riforme e cambiamenti costituzionali. E in tutti e tre i casi, ci si dimentica che si é stati al governo da decenni, e che dunque quelle riforme e quei cambiamenti si sarebbero potuti fare prima, se veramente li si fossero voluti.

Il parallelo tra i tre leader non é balzano. Sappiamo tutti che Mubarak é stato tirato in ballo da Berlusconi stesso, nel suo sgraziato tentativo di coprire le sue fregole sessuali di fronte ai poliziotti che avevano arrestato una delle odalische del suo harem. Analogamente, anche Gheddafi é stato tirato in ballo da Berlusconi stesso, come il vero inventore iniziale di quel bunga-bunga di cui lui é stato l’utilizzatore finale nei suoi festini.

Ci dimentichiamo spesso, invece, che Berlusconi é  finora stato presidente del Consiglio per 3071 giorni. Solo Mussolini, Giolitti e De Pretis hanno governato piú a lungo di lui, nei centocinquant’anni dell” unitá d’Italia. E nessuno ha governato piú a lungo di lui, nei piú di sessant”anni della repubblica: nemmeno De Gasperi, che pur essendo stato a Palazzo Chigi per un anno di meno, aveva comunque trovato il tempo di fare riforme epocali, a partire da quella agraria.

Naturalmente, in tutti e tre i casi, quello che mancava ai tre leader non era il tempo per fare le riforme, ma la volontá o la capacitá di farle, troppo intenti com’erano a fare invece affari e festini. La pazienza popolare é esplosa in Egitto e in Libia, facendo cadere Mubarak e traballare Gheddafi. Anche la nostra pazienza popolare sta traboccando, ma é lecito sperare in un esito analogo?

Temo purtroppo di no. Mubarak e Gheddafi derivavano infatti il loro potere dall’esercito: é quest’ultimo che ha deciso le sorti del primo, e potrebbe decidere le sorti del secondo. Naturalmente, con l’appoggio piu o meno diretto e piú o meno discreto degli Stati Uniti e dell’Europa. Il dissenso popolare, in realtá, é servito solo da detonatore per il passaggio di mano del potere all’interno dell’esercito.

Berlusconi, invece, deriva il suo potere da un voto popolare. I questo caso, il gioco dela democrazia rivela tutta la sua debolezza intrinseca. Non ci si puó appellare al malcontento popolare, perché questo si puó appunto esprimere soltanto attraverso i voti diretti, nelle elezioni, e indiretti, nel parlamento. E la destra ha facile gioco a ricordare che la fiducia a Berlusconi é stata rinnovate sia nelle elezioni europee e amministrative tenute dopo le politiche, sia nei ripetuti voti di fiducia che il governo ha ottenuto alla Camera e al Senato.

Coloro, dunque, che vorrebbero far cadere il governo sulla base delle manifestazioni di piazza, rivelano una scarso spirito democratico. 
Ed é paradossale che sia la destra a rivendicare i principi della democrazia formale, mentre é la sinistra a invocare l’appello alla democrazia sostanziale, alla maniera di Cossiga.

D’altronde, quello democratico é un matrimonio di convenienza, che si tiene in vita fin che fa comodo, e dal quale si divorzia quando non lo fa piú. Basta pensare a cosa successe in Algeria nel 1990 e 1991, quando il fronte islamico vinse le elezioni con la maggioranza assoluta dei voti, e il parlamento fu sciolto dai militari, con la connivenza dei governi occidentali.

Per ora, noi siamo sposati. Il nostro destino é forse che, per liberarci da Berlusconi, dovremo anche divorziare dalla democrazia?

   
Scritto lunedì, 21 febbraio 2011 alle 19:35
da - odifreddi.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #29 inserito:: Marzo 02, 2011, 03:04:40 pm »


27
feb
2011

Mark Zuckerberg, più famoso di Gesù


In un’intervista del 4 marzo 1966 all’Evening Standard, John Lennon dichiarò: “Siamo più popolari di Gesù, e non so chi se ne andrà prima: il rock-and-roll o il cristianesimo”. Ora, sembra che Gesù non avesse un gran senso dello humour: secondo san Giovanni Crisostomo, piangeva spesso, ma non rise mai. Ed è certo che i suoi seguaci ne hanno ancor meno di lui: dunque, si inalberarono e bruciarono i dischi dei Beatles, costringendo John Lennon a fare marcia indietro e a rimangiarsi la battuta.

Anche Mark Zuckerberg non sembra avere molto senso dello humour, almeno stando al film The social network, che ne racconta la vita. Dunque, non direbbe mai di essere più popolare di Gesù. Il che non impedisce che lo sia, visto che la religione dei Vangeli ci mise secoli per attecchire nel mondo occidentale, mentre quella di Facebook ha avuto presa istantanea. In sette anni esatti, dalla sua consacrazione nel febbraio 2004, ha già conquistato seicento milioni di utenti: cioè, più di metà dei cattolici che la Chiesa può vantare nell’intero mondo, dopo due millenni di indaffarata predicazione.

Io non so chi se ne andrà prima: se i Vangeli o Facebook. Francamente, non me ne importa nulla, perché non frequento né gli uni, né l’altro. Certo mi diverto di più a sentire la storia del giovane hacker di Harvard, intelligente e brillante, che quella del giovane predicatore della Galilea, invasato e pedante. E preferisco il modo quasi indolore e quasi onesto in cui l’impresa del primo ha costruito una fortuna valutata a cinquanta miliardi di dollari, a quello cruento e disonesto in cui l’impresa del secondo ne ha ammassata una valutata a cinquecento miliardi, solo dieci volte maggiore di quella.

Da qualche settimana il nome di Zuckerberg è diventato noto a mezzo mondo: anche a coloro che usavano il suo prodotto, senza magari aver mai sentito niente di lui. A dicembre la rivista Time l’ha scelto come uomo dell’anno del 2010, preferendolo ad Assange: un altro informatico che ha cambiato il mondo, ma in maniera antagonista al potere costituito, invece che accondiscendente.

Il 17 febbraio scorso Zuckerberg ha letteralmente seduto “alla destra del padre”, cioè del presidente degli Stati Uniti, a una cena che questi ha offerto agli informatici della Silicon Valley. Stasera il film sulla sua vita si gioca ben otto Oscar: naturalmente racconta un sacco di storie esagerate o inventate, come d’altronde i Vangeli, ma proprio per questo piace al pubblico, e almeno nessuno si sognerà di costruirci sopra una religione. Coloro che trovassero anche i film troppo sofisticati, possono divertirsi col nuovo fumetto autobiografico che sta per uscire, e che sarà forse seguìto da un cartone animato.

Dimenticavo. Zuckerberg è ebreo, come Gesù, e compirà ventisette anni il 14 maggio: un’età in cui quest’ultimo, anticipando la moda attuale, viveva ancora con mamma e papà, e nessuno sapeva niente di lui. Il primo è ateo, e il secondo credeva in Dio (e, forse, anche di essere Dio). Ognuno tragga le conclusioni che vuole, e vada pure dove preferisce: in chiesa, su Facebook, al cinema a vedere The social network, o da nessuna parte.

Scritto domenica, 27 febbraio 2011 alle 18:27
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