SOCIALESIMO. Perchè.

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Arlecchino:
Il liberalismo sociale è nel DNA del socialismo turatiano.
Gli esordi alla Critica Sociale
 
Il ricordo di Francesco Forte, allievo  scelto dal Maestro alla sua successione in  Scienza delle Finanze a Torino
 
di Francesco Forte

Il 30 ottobre del 1961, 60 anni fa moriva Luigi Einaudi. La notizia mi giunse mentre aprivo una sua lettera, in cui mi comunicava che la mia chiamata di successore, nella cattedra nell’Università di Torino era stata votata all’unanimità. Poiché si sentiva poco bene la sua relazione era stata scarna. Me ne chiedeva venia. Nel febbraio del 1961 nella telefonata in cui mi si annunciava che ero stato scelto da Einaudi come suo successore, mi si informava che la delibera sarebbe stata posticipata all’autunno , perché l’estate a Torino, per lui, era tropo calda e lui voleva essere il relatore. Nel frattempo, Einaudi desiderava incontrarmi a Roma. Io ero da poco rientrato in Italia dagli USA con mia moglie Carmen, incinta. Avevo 31 anni e Carmen 29 Da due anni accademici risiedevamo negli USA, ove insegnavo come professore associato all’Università di Virginia Avevamo accolto con grande gioia la notizia che Einaudi mi aveva scelto come suo successore. Egli mi ricevette a Roma, in estate, nella villetta a due piani con giardino, in una zona verde, distante dal centro. La signora Ida, la gentildonna moglie di Einaudi, che controllava le giornate del marito, onde non si affaticasse, aveva stabilito che l’incontro sarebbe durato un’ora. Einaudi per darmi il “benvenuto” mi ricevette, in piedi, appoggiato al bastone, sulla soglia del giardino. Sorridendo mi disse “sono un mostro di 87 anni”. Poi si sedette su una poltrona, a fianco della porta, nel verde. Il primo dovere a cui avrei dovuto adempiere, era di risiedere a Torino con la mia famiglia Non dovevo fare la spola da altre città, come spesso fanno i professori. La residenza della famiglia a Torino mi era richiesta anche perché dovevo dirigere Laboratorio di economia politica, in cui la presenza del direttore è necessaria anche nelle giornate in cui egli non insegna, ma coordina le ricerche e le riunioni. Nelle mielezioni io non avrei dovuto usare il suo libro di testo di “Scienza delle finanze”. Non era riuscito a fare un’opera sistematica. Ci aveva supplito con saggi e libri su singoli temi (a me venivano in mente soprattutto i “Miti e Paradossi della Giustizia tributaria”, il volumetto sull’Unione europea, Le “Lezioni di politica Sociale”, “le Prediche inutili) . A me il compito di fare un manuale sistematico. Poi aggiunse che alcuni suoi colleghi avevano obbiettato alla sua scelta del successore, che io non ero un puro studioso, facevo anche il giornalista. Einaudi disse che, per lui, quello non era un difetto, Lui aveva fatto il giornalista, sin dall’inizio della sua carriera., come me. E continuava a farlo, con gli articoli domenicali nel “Corriere della Sera”, intitolati “Prediche della domenica”. Facendo il giornalista, il professore a dà alle teorie un’applicazione pratica, comprensibile alla gente comune, come le prediche del parroco. Mi venivano in mente due “Predica della domenica” del gennaio, che avevo letto su “Il Corriere” quando ero in America, che riguardano la città brutta e la città bella. La città brutta è fatta di casermoni, in cui vivono individui che non formano una comunità perché ci sono imposte patrimoniali sull’edilizia, che rincarano i centri abitati e mancano strade e piazze in cui ritrovarsi. Invece nella città bella, ove le tasse sulle case sono moderate e ci sono buoni servizi, c’è una comunità. di persone. Donna Ida Einaudi mi disse che l’ora era terminata. E poi solo la lettera breve, del 30 ottobre per riaprire il dialogo che io da allora continuo, con Einaudi.

Economista, opinionista e uomo politico, Einaudi aveva ben chiaro che quella fra crescita e rigore è una falsa dicotomia. Contro l’inflazione keynesiana egli proponeva una politica di stabilità monetaria.
Desiderava un pareggio di bilancio attuato attraverso il taglio delle spese improduttive, l'eliminazione delle bardature all’economia e con il freno all'aumento di imposte, un ostacolo a risparmio e produttività. Per la capacità produttiva inutilizzata Einaudi proponeva investimenti, non una generica espansione dei consumi. Al contrario, l’idea di raggiungere il bilancio in pareggio con elevati aumenti fiscali, come accaduto in Grecia, è essa stessa un tributo al pensiero di Keynes.

Dal confronto emerge come sia più attuale la visione complessiva di Luigi Einaudi e come il suo pensiero ha ancora molto da insegnarci.

da - l'Avanti

Arlecchino:
Responsabile socialista del nucleo universitario di Torino scrisse per 10 anni
 
La formazione di Einaudi crebbe nella Critica Sociale
 
Stefano Carluccio

Nel marzo del 1894 Luigi Ei- naudi firma il suo primo arti- colo: si tratta di un pezzo per Critica Sociale. Il teorico del liberismo italiano, europeista ante-litteram, l’uomo che seppe far vivere costantemente la cultura in scelte quotidiane, allora era solo uno studente. Un giovane che, come egli stesso ebbe a dire, “si dedicava furiosamente alla lettura di migliaia di cose sociali ed economiche”.

A Milano, come molti altri giovani, suoi coetanei, egli aveva conosciuto Anna Kuli- scioff e Filippo Turati: la casa dei due sociali- sti era quasi una tappa d’obbligo per quanti s’interessavano di cose sociali ed economiche. Di quell’incontro in un suo scritto egli ricorda “il tremore reverenziale con cui entrò nel fa- moso sacrario dei portici settentrionali di Piazza Duomo” e il sorriso dietro cui “celava l’im- barazzo del giovane che si trovava davanti a due personaggi tra i primi del movimento so- cialista non solo italiano, ma anche europeo”.

La collaborazione di Einaudi alla Critica Sociale dura circa un decennio e prosegue fino al 1903 quando si distacca dai socialisti assu- mendo posizioni sempre più liberiste. Sono gli anni che segnano il primo decollo industriale italiano. Già da allora gli interessi del futuro Presidente della Repubblica (l’altro “collabo- ratore” della Critica Sociale che poi divenne Presidente della Repubblica fu Giuseppe Sa- ragat, anch’ egli piemontese) erano ben deli- neati.

La Critica Sociale già nel 1893 aveva fatto menzione di Einaudi in un articolo dal titolo “Epistolario di studenti” a proposito di una sua lettera sul Congresso dei giovani socialisti di Ginevra. La questione riguardava la polemica sorta a seguito della mancata adesione del Cir- colo socialista pavese all’appello degli studen- ti parigini per un Congresso internazionale. La posizione del rappresentante pavese ebbe una vasta eco poiché sembrava porre in discussio- ne la “intima alleanza del proletariato intellet- tuale con quello manuale”, cosa che scanda- lizzò moltissimo. In realtà egli intendeva l’ esatto contrario, ovvero l’ inutilità del Congresso per l’ inutilità dei Circoli universitari, essendo “socialisti” solo se redenti nel mescolarsi con gli operai. Interviene anche Einaudi, di cui la Critica Sociale riferisce la posizione quale dirigente del Circolo socialista di Torino: “Da Torino, Luigi Einaudi, studente (beato lui!) in attività di servizio – scrive la Critica - entra nello stesso ordine di idee (di un certo Pasquale Rossi di Cosenza che sosteneva come il socialismo degli studenti derivasse dallo studio e non da ristrettezze economiche, ndr). Anch’egli ritiene che un’organizzazione auto- noma degli studenti socialisti non possa servi- re ad una forte e determinata azione politica e professionale. Cionondimeno – prosegue il re- soconto della Critica – crede all’utilità dei Cir- coli socialisti universitari come strumento di selezione «per trarre i migliori giovani dalla neghittosità e dall’apatia a cui gli ordinamenti scolastici e la vacua vita universitaria predi- spongono gli studenti», per chiamarli «all’in- vestigazione scientifica del problema sociale» e farne degli apostoli convinti ed armati di pre- ciso materiale scientifico, che porteranno poi nelle sezioni del partito”. Un precoce elogio dell’autonomia della cultura dalla disciplina di partito, un Vittorini (vs. Togliatti ) ante-litteram.

Un anno dopo scrisse il suo primo articolo per la Critica Sociale, nella forma di una lettera al Direttore, sulla questione della propaganda socialista “nei paesi di piccola proprietà terriera”, un articolo presentato da Turati come degno di attenzione perché la divulgazione so- cialista nella piccola proprietà agricola era quanto mai difficoltosa. Per questo, nel pre- sentare lo scritto di Einaudi (“un egregio e col- to giovane di Dogliani (Cuneo) nostro abbo- nato”), la Direzione della Critica rivela come esso rimase “alcune settimane sul tavolino” per avere la meritata e ragionata risposta della Rivista.

A proposito di quel primo articolo  Einaudi ha scritto: “Non mi parve vero di mandare qualcosa di mio alla rivista che si intitolava al socialismo scientifico”.

La sua collaborazione più significativa e vi- stosa è stata una serie di saggi sulla politica ferroviaria italiana pubblicati del 1903, e uno studio sulla politica commerciale uscito in di- verse puntate tra il 1902 e il 1903: entrambi i lavori, fatti in collaborazione con Attilio Cabiati (*). Pur costatando gli indubbi vantaggi che sono derivati allo sviluppo dell’ industria dal protezionismo (inaugurato nel 1878 e raf- forzato nel 1887), Einaudi ne mette a fuoco i limiti e l’inefficienza in un mutato clima eco- nomico e sociale: “La politica doganale –af- ferma – ha garantito all’industrie manifatturie- re il mercato interno e i fabbricanti del Nord hanno su queste basi eretto industrie grandio- se”, ma aggiunge, “si è cagionato però un dan- no irreparabile all’industria agraria”.

“Gli operai – scrive Einaudi - come consu- matori hanno interesse a volere una politica doganale che ribassi il costo dei manufatti. Come produttori hanno interesse che i dazi protettori non indirizzino i capitali verso im- pieghi poco produttivi, e che i trattati di com- mercio siano negoziati in modo da aprire il più ampio mercato possibile all’ estero all’ agricol- tura e all’industria”, afferma dopo una minuziosa analisi della politica commerciale attuata in Italia dall’Unità ai suoi giorni.

Con i nuovi “Trattati di commercio” i dazi, infatti, hanno cessato di produrre i loro bene- fici a protezione delle manifatture in generale, per avvantaggiare solo pochi guppi di indu- striali del nord e, in agricoltura, i cereacultori, a causa di una errata – a suo giudizio – politica commerciale che sottopone l’Italia alla Ger- mania e all’Austria. Einaudi non vede obiezio- ni alla misura, che sollecita, della loro aboli- zione neppure “se consideriamo la cosa dal punto di vista della convenienza e dell’equità”. La lunga protezione concessa “alle nostre in- dustrie manifatturiere ha raggiunto pienamen- te il suo scopo: inutile quindi il conservarla”.

Per Einaudi il miglioramento delle condizioni sociali dei lavoratori è strettamente col- legato all’obiettivo del risanamento economi- co. “Coloro che vogliono seriamente intende- re ad una politica seria di elevazione delle condizioni del nostro proletariato – scrive sul- la Critica Sociale – devono soprattutto avere in mira questi due scopi: accrescere la produ- zione nazionale e ristabilire l’equilibrio fra i fattori di produzione”.

E, sotto questo profilo, date le nuove circostanze, sostiene che “un altro problema di equi- tà, non meno grave (dello sviluppo delle indu- strie manifatturiere favorite con i dazi, ndr) urge al pensiero degli italiani: e questo è il problema meridionale. Orbene, come ha dimostrato il prof. De Viti De Marco alla Camera e nel suo denso discorso di Lecce, la questione del Mezzogiorno non è questione di lavori pubbli- ci; ma è essenzialmente questione d’ imposte, di libertà commerciale e di tariffe doganali. Il Mezzogiorno, privo d’ industrie e travagliato da una terribile crisi, ha bisogno per vivere di vendere i suoi prodotti: e per vendere ha biso- gno che cessi questa tutela degli interessi dei pochi, che ora, per le indirette dichiarazioni dei più intelligenti tra quei pochi stessi, non avrebbe più ragione di essere, a meno che non si ritenga dovere dello Stato di stringere contratti per la garanzia di elevati profitti a favore degli industriali. Del resto, questi stessi riconoscono che è per essi questione di primaria importanza l’avere un Mezzogiorno ricco, che continui a comprare i loro prodotti”.

Detto questo, tuttavia non dimentica il necessario sviluppo dell’industria, ma collocato su un nuovo piano di conquista di mercati esteri di cui, in previsione di un certo contrac- colpo negativo a causa dell’auspicata abolizio- ne dei dazi, gli industriali del nord “essi subito si avvantaggerebbero dei grandi benefici nella nuova posizione favorevole dell’ Italia sui mer- cati internazionali, ed in particolare verso l’Argentina e la Russia”, partner più vantag- giosi per l’Italia rispetto allo scambio commer- ciale con la Germania e dell’Austria.

Che il teorico del liberalismo inizi la sua carriera su una rivista socialista non è assurdo: innanzitutto il liberalismo che cova nella for- mazione giovanile di Einaudi sembra trovarsi in sintonia con il socialismo di Turati che, dal canto suo, vede l’emancipazione dei lavoratori solo se partecipi, economicamente e politica- mente, dello sviluppo capitalistico dell’Italia, ma in un quadro di maggiori libertà democra- tiche, sia istituzionali che sociali, ispirate al “collettivismo”, che intendiamo oggi per as- sociazione, autogoverno, non comunismo. Fin qui la visione dei due è assai simile.

In secondo luogo in quegli anni l’Italia, da poco unificata in un unico Stato, sta diventan- do nazione europea attraverso lo sviluppo e la crescita di una società industriale, e la Critica Sociale promuove ed ospita un ampio e vivace dibattito tra differenti prospettive sulle misure da prendere in economia, in campo sociale, di libertà politiche e civili, e – sul piano teorico - insiste sul ruolo del movimento dei lavoratori all’interno dello sviluppo capitalistico del Pae- se e sulla condivisione e l’utilizzo della demo- crazia rappresentativa di matrice liberale da parte dei socialisti. L’ Italia sta diventando adulta a vent’ anni dal compimento risorgi- mentale, con Roma capitale. E l’intreccio tra progresso economico e progresso sociale è per Einaudi – come per Turati – inestricabile. Ciò vale per gli altri autori di scuola liberalsocia- lista della Critica Sociale, in primis Monte- martini, Cabiati, Griziotti, Vanoni (un filone oggi proseguito, anche nel governo Craxi, da Francesco Forte).

E’ questo il fondo del sentimento nazionale che si elabora nei decenni successivi al 1861 per realizzare il sogno dei democratici (socia- listi, liberali, repubblicani) per una società mo- derna e unita che si affacci, al pari delle altre grandi nazioni europee, nel Novecento.

Luigi Einaudi, come è noto, fu titolare della cattedra di Scienze delle Finanze all’Università di Torino, ruolo alla cui successione so- stenne il giovane Francesco Forte, il quale ora ha promesso di curare con un suo saggio in- troduttivo la pubblicazione degli scritti di Ei- naudi sulla Critica Sociale in occasione dei 120 anni della Rivista. Il prof. Forte ci assicura che tale scritti non sono compresi nelle Opere e dunque possono considerarsi inediti e, scien- tificamente, “una scoperta”. Sarà, è l’impegno comune, il primo di una serie di volumetti su- gli economisti liberalsocialisti e l’ economia pubblica nelle origine del capitalismo italiano, tratti dalla Critica Sociale e comparato con l’ altro grande filone europeo, quello tedesco dell’Economia sociale di mercato, entrambi in più punti affini e tutt’oggi utili a comprendere la realtà italiana e a governarla.

 
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Arlecchino:
Sarà che è novembre

Sarà che è novembre. Sarà che ho un’indole malinconica e una questione non ancora risolta coi congedi, che altri vedo affrontare con tenace fiducia nel futuro, beati loro. Sarà che la prospettiva di trascorrere i prossimi tre mesi a discutere di Berlusconi presidente della Repubblica (ci crede davvero? È un bluff che ci distrae dalla vera partita? Vuole solo essere il king maker di un candidato che poi dirà essere suo, e naturalmente anche di Matteo Renzi suo alleato?) insomma sarà che mi appassiona così poco ormai la prevedibilità dell’imprevedibile – in politica - che mi sono incantata nei giorni scorsi sui dettagli dell’ultimo viaggio di Angela Merkel.

Scusate. Lo so che è molto odiata, simbolo indiscusso della supremazia tedesca con tutta l’eco pesante che comporta nelle nostre familiari biografie, lo so che non è una romantica rivoluzionaria da stampare sulle magliette. Però dopo aver letto la biografia di Tonia Mastrobuoni sono diventata più indulgente, con lei: quel che voleva fare l’ha fatto partendo con handicap da zero, lo dico ai populisti anticasta. Certe volte costa fatica. Mi sono incantata, dicevo, su un paio di foto.

La prima, quella in cui alla Fontana di Trevi si china a toccare l’acqua. Lo fa solo lei, tra i leader, lo avrei fatto anche io.
Come si fa a non toccare l’acqua, come hanno fatto gli altri?
La seconda, quella in cui il marito scruta una cartina di Roma. Una cartina di carta, scusate il bisticcio. Che coppia.

Che ultima uscita noncurante, e ciao.

Ai più importanti bivi della nostra vita non c’è segnaletica, ho letto ieri nel congedo di Lia Capizzi, una brava giornalista che lascia. Davvero. Ai bivi importanti si torna quelli che siamo sempre stati.

DA - https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2021/11/02/sara-che-e-novembre/

Arlecchino:
CATEGORIA: NEOS LEX

Perché il federalismo senza responsabilità fiscale non funziona

  scritto da Econopoly il 05 Novembre 2021
NEOS LEX

Post di Andrea Pradelli, laurea magistrale in Economia e Scienze Sociali all’Università Bocconi, e PhD student in Economics and Management all’Università di Trento –
Politica valutata: Riforma federale belga (1993) e accordo Lambermont (2001)

Obiettivo: Transizionare con successo ad uno Stato federale.

Impatto: La riforma del 1993, che attribuiva agli enti locali autonomia di spesa ma non potere di riscossione delle imposte (Vertical Fiscal Imbalance), ha avuto un impatto negativo sulla crescita economica. Dopo la riforma del 2001, che attribuiva responsabilità fiscale agli enti locali, questo impatto negativo è svanito; anzi, l’accordo Lambermont sembra avere avuto un effetto positivo sulla crescita economica.
Dagli anni ’80 il federalismo è entrato di prepotenza nel dibattito pubblico italiano, prima con l’ascesa delle Leghe, poi con la discussa riforma del Titolo V del 2001. Nonostante ciò, una vera transizione da stato unitario a stato federale non è mai avvenuta. Nel frattempo, si è iniziato a parlare di federalismo anche a un livello superiore, auspicando un’Europa unita come federazione di stati. Dare un giudizio sul federalismo è complicato: per i sostenitori la concorrenza fra territori genererebbe efficienza e avvicinerebbe la politica ai bisogni dei cittadini, per i detrattori il federalismo favorirebbe la spesa clientelare e romperebbe la solidarietà fra regioni più ricche e regioni più povere.

Per rispondere a questa domanda, Alessio Mitra e Anastasios Chymis (2021) hanno analizzato l’unico Paese OCSE che negli ultimi 60 anni ha effettuato la transizione da Stato unitario a Stato federale: il Belgio. Paese multietnico e trilingue, in cui si parlano francese, olandese (fiammingo) e tedesco, il Belgio ha sempre faticato a trovare un’identità unitaria. Gli sforzi per trasformare il Belgio in un Paese federale iniziarono alla fine degli anni ’80: l’Atto Speciale dell’Agosto 1988 devolveva agli enti locali responsabilità su istruzione, sviluppo e spese per investimenti. La vera svolta, però, arrivò nel 1993, quando il primo ministro Jean-Luc Dehaene cambiò la Costituzione per trasformare il Belgio in uno stato federale. L’articolo uno del nuovo testo recita: “Il Belgio è uno stato federale composto da Comunità e Regioni”. La riforma portò all’elezione diretta dei parlamenti delle Comunità e delle Regioni e a un aumento della loro autonomia di spesa. Secondo il Comparative Political Data Set (Armingeon et al., 2020), il Belgio passò da “no federalism” a “strong federalism”.
La riforma, però, aveva un potenziale difetto: attribuiva ampia autonomia di spesa agli enti locali, ma senza responsabilità fiscale. In poche parole, Comunità e Regioni potevano scegliere come spendere, ma i loro fondi provenivano da trasferimenti dallo Stato centrale. Questa situazione in cui la spesa è decentrata e la tassazione è centralizzata si chiama Vertical Fiscal Imbalance (VFI). Con la riforma del 1993 la percentuale della spesa locale non finanziata da gettito fiscale locale arrivò al 70%. Nel 2001 il governo presieduto da Guy Verhofstadt tentò di correggere la rotta approvando l’Accordo Lambermont, che assegnava alle Regioni la responsabilità per la gestione e l’applicazione di 12 tasse regionali, prima di competenza di Bruxelles.

Nel paper “Federalism, but how? The impact of vertical fiscal imbalance on economic growth. Evidence from Belgium”, Mitra e Chymis hanno studiato l’impatto della riforma del 1993 e dell’Accordo Lambermont sulla crescita del PIL. Per farlo, hanno adottato un metodo relativamente nuovo, il Synthetic Control Method (SCM). Semplificando, questa strategia permette di paragonare l’andamento del PIL pro-capite belga (treated unit) prima e dopo la riforma del 1993 con quello di un gruppo di Paesi simili al Belgio per popolazione, economia e cultura, che non hanno effettuato la transizione federale (synthetic control unit). L’obiettivo è simulare quale sarebbe stato l’andamento del PIL belga senza la riforma del 1993, per condurre un’analisi controfattuale.
 
Belgio e gruppi di controllo hanno un andamento simile prima del 1993, ma dopo la riforma il gruppo di controllo ha risultati migliori di quelli del Belgio, soprattutto dopo le prime elezioni post-riforma, tenutesi nel 1995. Questo significa che senza la riforma federale il Belgio sarebbe cresciuto più rapidamente. Dopo l’accordo Lambermont, che ha ridotto la Vertical Fiscal Imbalance, l’effetto negativo della riforma è svanito, anzi, l’accordo ha avuto un effetto positivo sulla crescita del PIL, seppur meno consistente di quello della riforma.
 
Secondo gli autori, questi risultati confermerebbero che a frenare la crescita del PIL non sia stato il federalismo in sé, quanto la Vertical Fiscal Imbalance: l’effetto sparisce una volta che il governo interviene per correggere la VFI. Infatti, se le Regioni sono libere di spendere autonomamente ma non di finanziarsi con le tasse raccolte sul territorio, si crea il cosiddetto “common pool problem”: i benefici di un programma di spesa pubblica sono limitati agli abitanti della regione, ma i costi sono sopportati da tutto il Paese. In questo modo si crea un fortissimo incentivo alla spesa clientelare e improduttiva, spesso per scopi elettorali.
Il controllo dei cittadini sui politici, uno dei cavalli di battaglia dei sostenitori del federalismo, viene meno: i cittadini, infatti, “vedono” solo i benefici delle spese regionali, non i costi. Allo stesso tempo i politici sono consapevoli che, indipendentemente dai risultati economici del loro governo, potranno sempre contare sugli stessi trasferimenti dallo stato centrale. L’unica soluzione per rompere questo circolo vizioso è rendere le regioni capaci di autofinanziarsi. In questo modo, le regioni potranno spendere (al netto di eventuali trasferimenti di solidarietà) solo quanto ricavato dalle tasse regionali raccolte sul territorio. Questo, per gli autori, creerebbe un incentivo a spendere in maniera oculata, perché solo politiche favorevoli alla crescita possono aumentare i proventi della regione.

I risultati di Mitra e Chymis possono essere estesi ad altri Paesi federali, come Svizzera, Germania e Austria, che hanno avuto problemi nel controllo della spesa pubblica locale a causa del VFI e hanno provato a correggerli con riforme simili all’Accordo Lambermont. Allo stesso tempo, il caso del Belgio deve suonare come monito per tutti i Paesi dove una parte dell’opinione pubblica chiede la transizione al federalismo, come Italia e Spagna, ma anche per i sostenitori dell’Europa federale: il federalismo senza responsabilità non funziona. La sfida per i federalisti nazionali ed europei sarà disegnare un sistema in cui le entità subnazionali siano in grado di autofinanziarsi con i proventi delle tasse locali, senza che questo porti a divari regionali troppo ampi. Il federalismo è un’opportunità da non sprecare.
Twitter @neosmagazine

DA - https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/11/05/federalismo-tasse-locali-belgio/?uuid=96_1d7xsCXU

Admin:
Né la cattiva politica, né gli italiani assonnati anche dal post virus lo meriterebbero, ma Il Presidente Mattarella deve donarci il suo sacrificio, di alto valore, ancora per almeno un anno.

ciaooo

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Letta dice: tutto bloccato sino all’elezione del presidente (sic!)

Un motivo in più per chiedere al Presidente Mattarella la proroga del suo impegno, per almeno un anno.
Questi politici non si rendono conto che il "tutto bloccato" pesa sulla vita di tutti gli Italiani!
L'unico "tutto bloccato" che sarebbe accettabile, da noi cittadini, sarebbe quello per andare a votare il più presto possibile!
ciaooo

Io su Fb il 9 novembre 2021


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