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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108583 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Novembre 09, 2010, 06:12:45 pm »

9/11/2010

Le elezioni divideranno l'Italia in due
   
LUCA RICOLFI

E’ comprensibile che il mondo politico sia eccitato. Fini sta consumando il suo strappo, e Berlusconi - dopo quasi vent’anni - potrebbe anche essere costretto a uscire di scena. Vedremo.

Sulla carta la fine del regno di Berlusconi presenta almeno un aspetto positivo: quello di togliere dalla scena la principale fonte di divisione degli italiani.

E’ lecito sperare che, venuto meno il pomo della discordia, si possa tornare a ragionare di politica in modi non dico un po’ meno incivili (su questo è inutile farsi illusioni), ma almeno un po’ meno partigiani. E tuttavia basta osservare con un minimo di distacco il modo in cui il regno di Berlusconi sta tramontando per spegnere non pochi ottimismi sul dopo. Già, perché la qualità del «dopo» dipenderà molto dalle modalità della deposizione del monarca.

C’è una prima possibilità, e cioè che sia Futuro e libertà, il partito di Fini, a far cadere il governo. In questo caso si aprirebbe una drammatica resa dei conti all’interno del centrodestra, perché il gesto di Fini - per le modalità con cui si sta consumando - non potrebbe non essere vissuto dai fedeli di Berlusconi come un tradimento, come Bruto che pugnala Cesare.

E questo per l’ottima ragione che quasi tutto ciò che oggi Fini rimprovera a Berlusconi (a partire dalla «vergogna» della legge elettorale), fino a ieri era condiviso da Fini stesso.
Ma un centrodestra spaccato fra seguaci di Fini e nostalgici del Cavaliere, fra antiberlusconiani e anti-antiberlusconiani sarebbe una sciagura per il nostro sistema politico.

C’è una seconda possibilità, ed è che a chiudere l’era di Berlusconi sia il temutissimo (da lui) governo tecnico, un Comitato di Liberazione Nazionale con dentro tutti i nemici del premier, da Di Pietro a Fini. Se Napolitano ne consentisse la nascita non farebbe che applicare procedure previste dalla Costituzione, ma è difficile non vedere che in un simile esecutivo, in cui chi ha perso elezioni governa contro chi le ha vinte, metà degli italiani scorgerebbe un tradimento del mandato popolare, mentre l’altra metà non potrebbe che vedervi l’ennesima conferma dell’incapacità dell’opposizione di battere Berlusconi politicamente, senza bisogno di magistrati, veline e ribaltoni parlamentari.

C’è infine un’ultima possibilità, e cioè che la caduta di Berlusconi, chiunque ne sia l’artefice, ci porti dritti a nuove elezioni, giusto in concomitanza con i festeggiamenti per l'Unità d’Italia. Ma anche questo scenario non è rassicurante. Non solo per la prevedibile reazione negativa dei mercati, con conseguente aumento del costo del nostro debito pubblico, ma per lo scenario politico che si aprirebbe davanti a noi. Che cosa potremmo aspettarci, infatti, da una competizione elettorale condotta dagli attori attualmente in campo?

La previsione più realistica mi pare quella di una polarizzazione del conflitto politico sull’asse Nord-Sud, con il Pdl e la Lega sostanzialmente schierati con il Nord, i partiti del terzo Polo decisi a fermare il già impervio cammino del federalismo, e la sinistra in mezzo, a bagnomaria fra la fedeltà al progetto federale e la necessità di allearsi con i suoi nemici.
In buona sostanza un match Bossi-Berlusconi-Tremonti contro Fini-Casini-Bersani.

Se così dovessero andare le cose, l’Italia ne uscirebbe più debole e divisa che mai, e questo a prescindere da quale dei due schieramenti dovesse prevalere nel confronto elettorale.
Quel che due schieramenti del genere avrebbero in comune, infatti, è precisamente la mancanza di una visione unitaria dell’interesse nazionale. Lo schieramento del Nord non vede i legittimi interessi del Sud, che sono innanzitutto di veder aumentare gli investimenti pubblici in infrastrutture. Lo schieramento del Sud non vede i legittimi interessi del Nord (primo fra tutti il federalismo), e interpreta come interessi del Mezzogiorno quelli che, in realtà, sono soltanto gli interessi di chi lo ha mal governato finora: i cittadini del Sud non hanno bisogno di meno federalismo ma, semmai, di una classe dirigente che ponga termine alla dilapidazione delle risorse pubbliche, e si metta finalmente in grado di erogare servizi all’altezza di un Paese moderno.

Ciò di cui oggi si avverte la mancanza è proprio questo: un partito, o un’alleanza, che non giochi sulla divisione Nord-Sud, ma sappia affrontare gli squilibri territoriali in tutta la loro complessità tecnica e istituzionale, al di fuori delle vuote formule con cui, in questi giorni, politici di ogni provenienza e colore stanno conducendo il loro misero gioco.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8059&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #106 inserito:: Novembre 28, 2010, 06:17:37 pm »

28/11/2010

Pdl e Pd, tramonti paralleli

LUCA RICOLFI


Non so se andremo a nuove elezioni presto, ad esempio il 27 marzo 2011, come ipotizzano in molti.
Però mi pare improbabile, molto improbabile, che la legislatura duri fino al suo termine naturale, nella primavera del 2013.

E questo a prescindere da come andrà a finire il B-day (14 dicembre), ovvero il giorno in cui, su Silvio Berlusconi e il suo governo, si pronunceranno sia la Corte costituzionale (sul «legittimo impedimento», l’attuale scudo giudiziario del premier), sia il Parlamento, con un doppio voto di fiducia (al Senato) e sfiducia (alla Camera).

L’attuale impossibilità di governare, infatti, sembra destinata a perpetuarsi quale che sia l’esito di quel voto: se Berlusconi dovesse essere sfiduciato potrebbe sopravvivere solo imbarcando Fini e/o Casini, con conseguente abbandono del punto più importante del programma di governo (il federalismo); se viceversa dovesse ottenere la fiducia, la situazione sarebbe ancora più precaria.

Perché il margine di voti in Parlamento sarebbe così piccolo e incerto da precipitarci in una nuova era Prodi, fatta di piccole manovre politiche e sostanziale paralisi.
Meglio nuove elezioni, dunque?

Non è detto, purtroppo. Il mero fatto di interrompere anticipatamente la legislatura potrebbe esserci fatale, perché nei molti mesi che intercorrerebbero fra la caduta di Berlusconi e l’insediamento del suo successore i mercati finanziari potrebbero disfare in poche settimane l’opera di tamponamento pazientemente compiuta da Tremonti in questi due anni. Un’opera su cui si possono avere opinioni diverse, ma che comunque ha finora permesso all’Italia di stare al riparo dalla speculazione internazionale, evitando una lievitazione del costo del debito pubblico.

Ma supponiamo per un attimo che un simile pericolo non esista e che, miracolosamente, l’Italia si possa permettere il lusso di affrontare i prossimi sei mesi in uno stato di apnea, in attesa che il ritorno alle urne ci restituisca un governo nuovo di zecca. Che cosa ci garantisce che, una volta tornati a galla dopo il voto, avremmo un tale governo?

Gli esperti di cose elettorali concordano almeno su una cosa: né il centro-destra né il centro-sinistra potrebbero ottenere la maggioranza dei seggi sia alla Camera sia al Senato. E questo, è importante sottolinearlo, non perché la legge elettorale è «una porcata» (come molti amano ripetere) ma, paradossalmente, perché non lo è abbastanza. La presenza del premio di maggioranza nazionale alla Camera rende la legge iniqua (si può avere il 55% dei seggi con il 35% dei voti), ma la sua assenza al Senato tende a produrre ingovernabilità, perché nessun meccanismo assicura che chi ottiene la maggioranza dei seggi alla Camera possa averla anche al Senato.

Se ne potrebbe concludere che il problema è la legge elettorale, e che dunque la soluzione è vararne una nuova. Ma non è così. La legge elettorale è un problema, se non altro perché allontana (comprensibilmente) i cittadini dalla vita politica. Ma non è il problema, perché nessuna legge elettorale può darci, nella stagione di tramonto del berlusconismo, quello di cui avremmo davvero bisogno. E cioè un’alternativa politica e culturale al berlusconismo stesso. Potrà sembrare strano dire quel che sto per dire, ma le vicende di questi mesi ci mostrano invariabilmente due tendenze apparentemente inconciliabili: la mesta fine del berlusconismo e l’appannamento di qualsiasi credibile alternativa ad esso. E, quel che è ancora più strano, ci mostrano inquietanti somiglianze fra i due modi dell’antiberlusconismo, quello di destra (guidato da Fini) e quello di sinistra (guidato da Bersani).

Entrambi oscillano fra il piccolissimo cabotaggio delle imboscate parlamentari, delle formule astratte, dei segnali in codice, e il demagogico sostegno alle proteste di piazza. Basta leggere le cronache di questi mesi per misurare in tutta la sua drammaticità l’assenza di una vera classe dirigente. Mentre tutta l’Europa si chiede come salvare l’euro, come evitare una nuova tempesta finanziaria, come tornare a crescere in una situazione in cui le risorse stanno diminuendo per tutti, i politici che aspirano a prendere il posto di Berlusconi si rivelano ancora più berlusconiani di lui. Anziché trovare il coraggio di dire agli italiani quanto è drammatica la situazione in cui versa l’Europa, e quanto sia stato irresponsabile da parte di Berlusconi minimizzare la gravità dei nostri mali, preferiscono cavalcare l’onda della protesta, sui tetti delle facoltà occupate, nelle piazze, sui giornali, nelle trasmissioni televisive. Come se oggi, in Italia, ci fossero le risorse per soddisfare le più che comprensibili richieste di tutti. Come se oggi, in Italia, non vi fosse innanzitutto un drammatico problema di dissipazione delle risorse pubbliche, dagli ospedali alle università, dalla giustizia alle (false) pensioni di invalidità.

Una deriva demagogica che, probabilmente, è inevitabile per gli uomini di Fini, il cui primo problema è esistere, non sparire dalla scena della politica. Ma che non è affatto obbligata per la sinistra, che esiste da sempre, e semmai ha un altro problema, quello di offrire al Paese un’alternativa per il dopo-Berlusconi. Qui davvero non capisco. Come è possibile che, in presenza della più grave crisi del berlusconismo, i dirigenti del Partito democratico passino il loro tempo a baloccarsi con riti identitari e ad almanaccare sulla politica delle alleanze, quando la domanda che gli elettori si fanno è una sola: ma voi, se andaste al governo, che cosa sareste in grado di fare di diverso e di meglio di quel che offre l’attuale governo?

Una domanda che ha sotto di sé tante altre domande, tanti altri dubbi. Qual è la vostra idea del futuro dell’Italia? Come pensate di far ripartire la crescita? Avete qualcosa di concreto da dire anche ai cittadini del Nord? Smonterete o manterrete quel poco di federalismo che ha messo in piedi la Lega? Dove li prenderete i soldi per fare le mille cose che rimproverate a Tremonti di non aver fatto? A quali gruppi sociali chiederete di pagare il conto? Ma soprattutto, domanda delle domande: visto che (per ora) non siete d’accordo su quasi nulla, che cosa ci garantisce che, una volta vinte le elezioni, non sarete paralizzati dalle vostre divisioni interne, come ai tempi del governo Prodi?

Finché Bersani non proverà a rispondere a queste domande, e per rispondere intendo rispondere sul serio, senza battute e formule vuote, non potremo che continuare ad osservare ciò che da un anno a questa parte osserviamo: che il partito di Berlusconi perde inesorabilmente consensi, ma nessuno di essi si dirige verso il partito di Bersani

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8142&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #107 inserito:: Dicembre 15, 2010, 05:23:10 pm »

13/12/2010

Il palazzo degli incredibili

LUCA RICOLFI

C’è qualcosa di surreale nel dibattito di questi mesi in Italia. Se provate a fare una statistica delle parole più ripetute da giornali e televisioni troverete che sono parole come Berlusconi, Fini, Bocchino, Fli, fiducia, sfiducia, maggioranza, voto. Da mesi l’Italia è appesa a un malsano sentimento di sospensione, di incertezza, di attesa. Prima l’attesa per il discorso di Fini a Mirabello (5 settembre), poi quella per il discorso di Berlusconi in parlamento (voto di fiducia del 29 settembre), poi quella per il discorso di Fini a Bastia Umbra (7 novembre), infine quella per il discorso che Berlusconi terrà domani, seguito dal doppio voto di fiducia (al Senato) e di sfiducia (alla Camera). In mezzo le esternazioni di Bersani, di Casini, di Bocchino, le decine e decine di interviste dei leader minori, per non parlare delle penose conferenze stampa dei parlamentari in procinto di cambiare bandiera.

E tutto questo per che cosa?
Per un voto che, comunque vada, servirà solo a decidere una manche della partita a tennis che Berlusconi e Fini da due anni stanno giocando sulla pelle di tutti noi. Vista dall’esterno, ad esempio da un qualsiasi Paese europeo, è una situazione ridicola, per non dire tragica.

Mentre il mondo vive una delle più drammatiche crisi dei rapporti internazionali dai tempi della caduta del Muro di Berlino, mentre le economie avanzate si trovano di fronte a rischi immensi (da una stagnazione di anni, fino al crollo dell’euro e del dollaro), mentre gli esperti si dividono sulle migliori terapie da adottare, noi - e dicendo noi parlo innanzitutto dell’informazione - perdiamo ancora del tempo e dell’attenzione a interpretare una frase di Bocchino, a decodificare una battuta di Bossi, a indovinare le intenzioni di un parlamentare «corteggiato» (per non dire altro). Un doppio provincialismo attanaglia il discorso pubblico: siamo provinciali perché parliamo sempre e solo dell’Italia, ma siamo provinciali anche perché, con gli immensi problemi economico-sociali che l’Italia ha di fronte, con le enormi difficoltà che ci attendono, permettiamo al nostro ceto politico di baloccarsi nei suoi giochi di palazzo, nelle sue vanità, nelle sue miserevoli rivalità personali, senza mai metterlo di fronte alle sue responsabilità vere. Che non sono di salvare un governo, o di costituirne uno nuovo, ma di offrire soluzioni credibili. Possibilmente più credibili di quelle che l’attuale governo ha fornito fin qui. A me non pare che i protagonisti dell’attuale tempesta in un bicchier d’acqua parlamentare lo stiano facendo. Non mi pare che siano minimamente credibili.

Non è credibile Berlusconi, che si è permesso il lusso di governare mediocremente in una situazione che avrebbe richiesto ben altre priorità (quanto tempo è stato dissipato sui problemi giudiziari del premier?) e ben altro coraggio (come si può pensare di combattere gli sprechi con i tagli lineari?).

Non è credibile Fini, la cui giusta battaglia per una destra moderna (e normale) è compromessa dai modi in cui viene combattuta e dai soggetti che la conducono. Agli osservatori non accecati dalla passione politica è fin troppo evidente che la scoperta dei limiti del berlusconismo è tardiva, strumentale e insincera. E ancor più evidente è la scorrettezza di combattere una rancorosa guerra politico-personale dalla posizione di presidente della Camera, una scorrettezza istituzionale che le opposizioni non stigmatizzano solo perché, in questa fase, fa loro gioco.

Ma non è credibile, purtroppo, neppure Bersani. Il quale ha perfettamente ragione quando dice che, con i mercati finanziari in agguato, con gli enormi problemi del nostro debito pubblico, non possiamo permetterci di andare alle urne ora. Ma dimentica di aggiungere che, altrettanto se non più pericolosa per la stabilità dell’economia, è la prospettiva su cui l’opposizione di sinistra mostra di giocare le sue carte: quella dell’apertura di una «fase nuova», una stagione di negoziati e manovre politiche il cui sbocco sembra essere un governo degli sconfitti alle ultime elezioni, pudicamente battezzato «governo di responsabilità istituzionale».

Non sono fra quanti assumono che siamo ormai fuori dal regime parlamentare, e che quindi la caduta di un governo implichi automaticamente il ritorno alle urne. Su questo la penso come Giovanni Sartori: la flessibilità dei regimi parlamentari, in virtù della quale, caduta una maggioranza, si può tentare di costituirne un’altra, non è un difetto ma semmai un pregio di tali regimi. Però est modus in rebus. Un conto è ritoccare una maggioranza, un conto è capovolgerla. E, anche ammesso che si voglia e si possa varare un governo degli sconfitti, il punto essenziale è uno solo: un governo per fare cosa?

E’ qui che l’opposizione rivela tutta la sua inconsistenza. Non solo perché è divisa persino sulla legge elettorale (l’unico suo vero cavallo di battaglia), ma perché nessuno ha finora prodotto risposte convincenti alle domande fondamentali. Ad esempio: sulla politica economico-sociale seguireste le idee di Ichino o quelle di Vendola? Quelle dell’ala riformista del Pd o quelle della Cgil? Ancora più sacrifici per ridurre le tasse sui produttori, o più spesa per salvare l’università, la ricerca, la cultura? Un federalismo più responsabile o più solidale? E soprattutto, visto che la torta non cresce più, dove trovare i quattrini di cui c’è bisogno?

Né basta rispondere con le solite formule: riduzione dei costi della politica, contrasto all’evasione fiscale, lotta alle rendite. Su quei versanti le risorse ulteriori che si possono reperire in tempi brevi sono molto scarse (costi della politica), o sono già contabilizzate fin troppo ottimisticamente nella manovra finanziaria (evasione fiscale), o sono armi a doppio taglio (che ne sarebbe delle aste sui titoli di Stato se, in questo frangente, l’Italia decidesse di tassarli di più?). Sono convinto anch’io che ci voglia una nuova agenda economica, e che il prudente attendismo di Tremonti non basti più. Ma il punto è che chiunque aspiri a guidare una nuova politica economica e sociale non può cavarsela con formule propagandistiche. Perché il primo problema di qualsiasi governo europeo in questa fase non è di convincere i propri cittadini, ma di convincere anche i mercati. La mia impressione è che molti critici di Tremonti semplicemente non si rendano conto degli ordini di grandezza in gioco: mentre si discute di alcune centinaia di milioni in più o in meno a qualche ente locale o ministero o istituzione, non ci si rende conto che un aumento anche di un solo punto del costo del nostro debito pubblico ci può presentare, di colpo, un conto da 18 miliardi di euro all’anno, una somma pari ad una Finanziaria e 50-100 volte superiore alle cifre di cui con tanto accanimento si parla e si negozia in questa stagione di tagli.

Per questo la vacuità dell’opposizione è un problema per l’Italia. Se cacciare Berlusconi, o «aprire una nuova fase», bastasse per avviarci a una soluzione dei nostri problemi, non troveremmo nulla di preoccupante nella deriva identitaria del Pd, nel tentativo di Bersani di «scaldare i cuori» più e meglio di Nichi Vendola. Ma purtroppo non è così. Il rischio non è che Berlusconi resti in sella, visto che al suo disarcionamento stanno già lavorando il tempo, la (non infinita) pazienza degli italiani, nonché la sua attitudine ad «autoribaltarsi», come causticamente ha fatto notare Bersani. Il rischio vero è che, nel momento in cui Berlusconi sarà costretto a farsi da parte, non ci sia nessuno abbastanza credibile, e abbastanza ferrato, da saper portare la nave dell’Italia al riparo dalla tempesta che l’attende.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8195&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #108 inserito:: Dicembre 18, 2010, 05:15:37 pm »

18/12/2010

Fini può essere un problema nel terzo polo

LUCA RICOLFI

Ora che il fumo e la polvere si sono un po’ diradati dai molti campi di battaglia - Parlamento, piazze, mass media - forse si può cominciare a trarre qualche lezione da quello che è successo martedì, quando è fallito l’ultimo tentativo di disarcionare il Cavaliere.

La lezione più importante mi sembra questa: forse non vedremo mai la sconfitta politico-elettorale di Berlusconi. Dopo l’ultima, infruttuosa, sfida di Veltroni (elezioni del 2008), i tentativi di porre fine alla stagione del berlusconismo sono stati solo di quattro tipi, non propriamente politici: giudiziario, mediante i processi; mediatico, mediante le campagne di stampa; fisico, mediante il lancio di oggetti contundenti; parlamentare, mediante il passaggio all’opposizione di deputati e senatori di maggioranza. Né le dichiarazioni delle opposizioni dopo la sconfitta suggeriscono che, per il futuro, le vie privilegiate si discosteranno dalle solite: spasmodica attesa per il verdetto della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, manovre di palazzo, imboscate parlamentari quotidiane. Il «vasto programma» dei principali leader di opposizione, infatti, si sostanzia essenzialmente in una sequela di annunci di guerra: ora ci divertiamo, aspettatevi un «Vietnam parlamentare», non potete fare niente se non trattate con noi.

Tutto ciò, a mio parere, allontana di molto l’eventualità che alle prossime elezioni vi sia un’alternativa credibile all’attuale centro-destra. E nondimeno il modo in cui il problema si pone nelle due opposizioni, quella di sinistra e quella del Terzo polo, è alquanto diverso. A sinistra il problema di fondo è la conclamata incapacità di un gruppo dirigente, ormai consunto dai propri riti e prigioniero della sua storia, di abbandonare rivalità interne, settarismi, riflessi condizionati, abitudini mentali, prima fra tutte quella di ragionare per alleanze e per formule astratte. Più che mai resta vero, quasi dieci anni dopo, quel che profeticamente ebbe a dire Nanni Moretti: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».

Nel caso del Terzo polo, invece, il problema non è quello di costruire un’alternativa al centro-destra, bensì quello di correggerne l’evoluzione o, se preferite, di pilotare la nascita della sua variante post-berlusconiana. Il problema di Fini e Casini, non da oggi, non è solo (e forse nemmeno prevalentemente) il legittimo desiderio di succedere a Berlusconi, ma è il tipo di centro-destra che Bossi e Berlusconi hanno costruito intorno a sé stessi. Un centro-destra cui, non senza motivo, vengono rimproverati il populismo, lo scarso rispetto per le istituzioni, l’ostilità verso gli immigrati, la disattenzione per il Mezzogiorno, e infine di aver tradito la promessa di una «rivoluzione liberale». Anche se quest’ultimo rimprovero non può certo essere riservato a Bossi e Berlusconi (in passato i partiti di Fini e Casini sono stati ancora più statalisti e spendaccioni), è vero che la maggior parte dei rimproveri non sono infondati. Si possono condividere oppure no le ragioni di Fini e Casini, ma resta il fatto che la loro visione della politica, la loro idea di centro-destra, i valori che essi difendono, sono perfettamente ragionevoli. Meritano una discussione seria. Hanno tutto il diritto di aprire una riflessione.

È qui, però, che interviene una complicazione non da poco. La credibilità di Casini e quella di Fini sono del tutto diverse. Casini ha iniziato la sua battaglia da molti anni, fin da quando era Presidente della Camera (legislatura 2001-2006). Il suo comportamento, sia come terza carica dello Stato, sia come leader dell’Udc, è stato sempre corretto, e fondamentalmente leale verso gli alleati. Quando non è stato più in sintonia con Berlusconi, ha scelto di correre da solo, ed è stato all’opposizione sia contro il centro-sinistra sia contro il centro-destra. La sua opposizione è stata quasi sempre costruttiva. Le cose che dice ora le ripete da molti anni.

Non così Fini. Il suo punzecchiamento nei confronti di Berlusconi è iniziato poco dopo lo scioglimento di An nel Pdl. I motivi del suo passaggio all’opposizione sono stati troppo evidentemente strumentali, tardivi, e difficili da conciliare con le sue scelte passate, sempre largamente in sintonia con quelle di Berlusconi. Una certa mancanza di pudore, o di buon gusto, gli ha impedito di arrossire al momento di denunciare cose da lui stesso ampiamente approvate (l’orribile legge elettorale) o giustificate (le leggi ad personam). Soprattutto, nessuno ha capito perché il suo nuovo partito, dopo avere dato la fiducia a Berlusconi sui famosi cinque punti (29 settembre), anziché spiegare in che cosa il governo li stesse tradendo, ed eventualmente aprire una battaglia sui contenuti, abbia preferito ingaggiare un confronto di principio, tutto interno al codice della politica, e come tale intraducibile nel linguaggio della gente comune: ci vuole una «discontinuità», non ci fidiamo di Berlusconi ma siamo «disponibili a un Berlusconi-bis», si deve «aprire una nuova fase», ci vuole «un governo che governi» (paradossale detto da chi lo paralizza da mesi).

Di qui un problema grande per il Terzo Polo. Molte cose che i suoi esponenti dicono sono più che sensate. Diverse critiche a Berlusconi e al berlusconismo sono preziose per uscire dalle secche in cui siamo incagliati. La loro visione della politica e del futuro dell’Italia merita rispetto e considerazione. Però il modo in cui i temi cari al Terzo Polo sono stati portati nel dibattito politico da Fini e dal suo partito rischiano di bruciarli. La spregiudicatezza dell’operazione condotta da Futuro e Libertà rischia di gettare discredito su una visione della politica e del mondo che tanti altri, con più pazienza e più rispetto per gli avversari, difendono da anni e anni.

Non resta che augurarsi che l’opinione pubblica non getti il bambino con l’acqua sporca. E che il bambino - l’idea di una destra diversa da quella che abbiamo conosciuto - riesca a fare qualche passo nella politica italiana.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8212&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 16, 2011, 11:04:54 am »

16/1/2011
 
Gli ostacoli che frenano il paese
 
LUCA RICOLFI
 
Come era prevedibile, un minuto dopo la vittoria dei sì nel referendum di Mirafiori, si erano già formati due partiti, entrambi convinti di aver vinto: i sostenitori del sì, contenti di averla spuntata (54% di sì), e quelli del no, contenti di essere stati sconfitti di misura (fra gli operai il sì è prevalso per appena 9 voti).

Ma è inutile chiedersi a questo punto che cosa sarebbe stato meglio, se una vittoria dei sì o una vittoria dei no (io ho tifato per il sì, ma è del tutto irrilevante). Quel che è importante adesso è fare i conti con la realtà, e la realtà è che i sì hanno vinto, e Marchionne dovrà mantenere l’impegno a investire su Mirafiori. L’interesse comune è che l’investimento si faccia, e dia i suoi frutti anche in termini di occupazione e di salari. Possibilmente, che inneschi un circolo virtuoso, aiutando l’Italia ad uscire da un decennio di stagnazione. E allora una cosa è bene dirla subito, in modo chiaro e forte: a questo punto sono gli altri, tutti gli altri, a dover fare la loro parte. Perché Marchionne la sua l’ha fatta. I sindacati anche (con la sola eccezione della Fiom). E, più di tutti, la loro parte l’hanno fatta gli operai e gli impiegati di Mirafiori, che hanno preso su di sé la responsabilità di una decisione difficile.

Andando a votare in massa, e a maggioranza hanno accettato la sfida.

È il resto del Paese, e innanzitutto la sua classe dirigente, che la sua parte non l’ha ancora fatta, o non l’ha fatta abbastanza. Ed è fondamentale che la faccia ora, per non vanificare né la scommessa della Fiat, né le speranze dei lavoratori che hanno votato sì. Perché il problema dell’Italia è di tornare a crescere, ma l’ostacolo che l’accordo Fiat si ripromette di rimuovere è solo uno dei quattro grandi ostacoli che, da ormai molti anni, ostruiscono il nostro cammino, scoraggiando imprenditorialità e investimenti. Marchionne ha agito sui turni, sulla pause, sugli straordinari, sull’assenteismo, sulle regole della conflittualità perché quelle cose si possono regolare con i contratti, indipendentemente da quanto pensano e decidono tutti gli altri soggetti in campo. Ma le relazioni industriali sono solo uno degli ostacoli, che non scalfisce l’enorme potere frenante degli altri tre. Quali sono gli altri tre? Il più importante, a mio parere, è costituito dai costi delle imprese. Sui bilanci delle imprese italiane, e quindi sulla loro competitività, gravano troppo tre voci di costo: il prezzo dell’energia, l’aliquota societaria (Ires e Irap), le tasse sul lavoro (contributi sociali e Irpef). E tutti e tre, anche i costi dell’energia, dipendono da un’imposizione fiscale eccessiva. È ora che gli sbandieratissimi successi della lotta all’evasione fiscale siano dirottati, almeno in parte, ad alleggerire la pressione sui ceti produttivi.

Il secondo ostacolo sono gli adempimenti burocratici, ossia scadenze continue, versamenti, certificazioni, scritture. Lo sanno i nostri politici che molte imprese italiane stanno delocalizzando non in Cina, non in Serbia, non in Romania ma in Svizzera (dove i salari non sono certo più bassi che da noi), perché quel governo promette tasse leggere per 5 o 10 anni, tariffe speciali per l’affitto dei terreni ma, soprattutto, garantisce di accollarsi interamente - e rapidamente: in 3 mesi - gli oneri burocratici connessi all’insediamento di un’impresa straniera su territorio elvetico? Dov’erano i nostri fautori di una rivoluzione liberale quando, giusto pochi mesi fa, il nostro governo varava una legge che obbliga tutte le imprese (anche piccole e piccolissime) a oneri di certificazione dello «stress lavoro-correlato», l’ennesimo adempimento che costerà tempo, denaro (e stress!), senza poter incidere né sulle situazioni in cui lo stress c’è davvero ma è ineliminabile, come alla catena di montaggio, né su quelle in cui il problema sono gli incidenti mortali, come in edilizia?

E infine, terzo ostacolo fondamentale, la giustizia, la sua inefficienza, la sua lentezza, la sua farraginosità, la sua incertezza. Quanti anni ci vogliono per un fallimento? Quanto costa, in tempo, denaro e arrabbiature, far valere le proprie ragioni in una causa civile? Quanta incertezza, nelle cause di lavoro, è connessa al potere discrezionale dei giudici? Quanti anni sono necessari per recuperare un credito? E quanti per far rispettare un contratto? Non per nulla l’Italia è in coda in tutte le classifiche internazionali che valutano competitività, libertà economica, e più in generale le condizioni per attrarre investimenti. Non per nulla siamo agli ultimi posti negli investimenti diretti esteri (Ide), un chiaro segnale che ci vuole molto coraggio per scegliere di produrre in Italia. Non per nulla i nostri giovani che possono permetterselo, perché hanno studiato più degli altri e hanno una famiglia agiata alle spalle, stanno prendendo sempre più la via dell’estero.

L’accordo Fiat ha richiamato, giustamente, l’attenzione di noi tutti sull’arretratezza delle relazioni industriali in Italia. La maggioranza dei lavoratori ha accettato l’accordo, ha raccolto la sfida, ha puntato sul futuro. Ora si tratta di non lasciarli soli. E il modo migliore per farlo è che chi ha le redini del Paese si decida, finalmente, a fare le altre cose che vanno fatte. A partire da quelle che sono necessarie, assolutamente necessarie, se vogliamo aiutare chi lavora e chi produce a interrompere il declino del nostro Paese. 

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« Risposta #110 inserito:: Gennaio 27, 2011, 12:05:35 am »

26/1/2011

Le armi a doppio taglio del Pd

LUCA RICOLFI


Da qualche giorno si torna a parlare di Walter Veltroni. C’è chi dice che la grande adunata di sabato scorso al Lingotto, con il tentativo di resuscitare lo spirito del «suo» Pd, sia il prologo di un’autocandidatura di Veltroni a guidare il centrosinistra, e forse un futuro governo in caso di vittoria elettorale. C’è chi dice che Veltroni stia per fare quello che Nenni fece nel 1976, allorché lanciò Craxi contro il segretario del Psi di allora, Francesco De Martino, spodestato nella «notte del Midas» (l’albergo nel quale i socialisti tenevano il loro Comitato centrale). Oggi la storia starebbe per ripetersi, con Veltroni che spodesta Bersani lanciando un giovane (Renzi, sindaco di Firenze) o un «non vecchio» (Zingaretti, presidente della Provincia di Roma).

C’è chi pensa che Veltroni sia semplicemente tornato a fare politica, riproponendo le sue idee di tre anni fa: riformismo radicale e vocazione maggioritaria. E c’è, infine, chi pensa che Veltroni sia l’unico leader riformista capace di far sognare il popolo di sinistra, sottraendolo all’attrazione fatale dell’altro sognatore, l’amatissimo ma assai poco riformista Nichi Vendola. Ho letto attentamente il lungo intervento di sabato al Lingotto e, confesso, mi sono ritrovato abbastanza nel commento di Pierluigi Bersani: «Nemmeno un Nobel riuscirebbe a trovare la differenza tra di noi». A dispetto di quanto affermano gli analisti più raffinati, che definiscono «introverso» il Pd di Bersani, e «estroverso» quello di Veltroni (così Roberto D’Alimonte sul «Sole 24 Ore»), a me i due Pd paiono molto simili. Il fatto stesso che, per cogliere le differenze, si debbano evocare categorie psicologiche, come l’estroversione e l’introversione, ma soprattutto il fatto che il destinatario della presunta critica (Bersani) si complimenti con chi la formula (Veltroni), ci rivela più di qualsiasi analisi politica: il Pd di Bersani e quello di Veltroni si somigliano come due gocce d’acqua, e si somigliano per la semplice ragione che sono entrambi vecchi. Due organismi vecchi e stanchi, appesantiti da un linguaggio che non se ne vuole andare, un linguaggio ormai logoro, fatto di formule generiche e messaggi in codice, così in codice che i due contendenti possono persino sembrare d’accordo su tutto. Lo sono davvero?

In un certo senso sì. Perché già solo il fatto di non darsi battaglia in campo aperto, dicendo in modo chiaro su che cosa non sono d’accordo, non fa che rafforzare nell’opinione pubblica l’impressione che il Pd non abbia nulla di veramente nuovo da dire.

Ma c’è anche un altro elemento di somiglianza, e di vecchiaia: proprio gli argomenti di cui si discute con più passione, come le primarie o la moralità del premier, hanno un inconfondibile sapore di strumentalità e di muffa. Di primarie, nonostante le accuse ricorrenti di brogli e voti pilotati (come in questi giorni a Napoli), si parla essenzialmente per trovare il modo di bloccare Nichi Vendola, che rischia di vincerle sia contro Bersani sia contro Veltroni. Quanto alla moralità del premier, né Veltroni né Bersani si mostrano capaci di resistere alla madre di tutte le tentazioni per un uomo politico: usare i guai extra-politici dell’avversario per «infilzarlo» politicamente, come ha mestamente rilevato Pierluigi Battista sul «Corriere della Sera». Ancora una volta, l’elettorato progressista deve amaramente constatare che il maggior partito della sinistra non è in grado di battere politicamente Berlusconi, e perciò ci prova con le armi di sempre: magistratura e scandali. Senza avvedersi che, su questo, l’elettorato è molto più avanti, molto più laico e maturo, del ceto politico. Contrariamente a quanto pensano gli osservatori stranieri, l’elettorato italiano non è indifferente agli scandali, ma semplicemente evita di politicizzarli oltre un certo limite. L’ultimo sondaggio di Renato Mannheimer lo certifica nel modo più clamoroso: il prestigio del premier è in calo, il numero di elettori che vorrebbero Berlusconi sempre in sella è diminuito, ma il consenso al suo partito, il Pdl, è addirittura cresciuto. Mentre il consenso al Pd non solo non è aumentato, ma sembra in ulteriore flessione. Come se gli elettori, a differenza dei media, fossero molto restii a mescolare morale e politica.

Accecati dal disprezzo per Berlusconi, i dirigenti della sinistra non sembrano rendersi conto che la loro scelta di cavalcare gli scandali sessuali per disarcionare il capo del governo è un’arma a doppio taglio. Non solo perché indirettamente rivela che essi non hanno molti altri argomenti da spendere, ma perché proprio la politicizzazione delle vicende private del premier può portare voti al suo partito, come Bossi - con il suo innato fiuto politico - ebbe immediatamente ad avvertire. Capisco che chi non è abituato ad entrare nella testa degli altri stenti a farsene una ragione, ma bisognerà pur rendersi conto, prima o poi, che quando il dispiegamento di mezzi («l’ingente mole di strumenti di indagine», come l’ha definita il cardinal Bagnasco) supera una certa soglia, e l’uso politico della morale diventa troppo spregiudicato, nel pubblico scattano reazioni diverse da quelle ordinarie. Se la magistratura avesse operato con mezzi più sobri, e i suoi avversari non avessero preteso di incassare subito il dividendo politico dello scandalo, lasciando che il Cavaliere consumasse da sé la propria parabola, oggi probabilmente l’opposizione sarebbe più forte. Avendo invece deciso di cavalcare un’azione giudiziaria già di per sé fuori misura, l’opposizione ha scatenato anche la reazione opposta: quella di chi vede Berlusconi come vittima, o semplicemente pensa che i giudici abbiano esagerato, e che quel che è toccato a Berlusconi potrebbe capitare a chiunque. Un’osservazione che Gianni Agnelli ebbe occasione di fare ai tempi dello scandalo Lewinsky, quando così ebbe ad esprimersi sul malcapitato Bill Clinton: «Un Presidente venuto dal nulla, che si è fatto da solo e che finisce maciullato nei verbali. Come capiterebbe a chiunque, intendiamoci, se le sue cose intime finissero squadernate, sezionate e amplificate da inquisitori, giornali, televisioni e Internet».

E un segnale che qualcosa del genere stia succedendo nel pubblico, lo rivelano - di nuovo - proprio i dati dell’ultimo sondaggio di Mannheimer. Da cui risulta che, contrariamente a quanto si poteva supporre, l’elettorato di centrodestra non si sta rifugiando nei partiti alleati, esenti dagli scandali (Lega Nord e Futuro e libertà), ma semmai sta rientrando nel Pdl, quasi a serrare le file. Un altro capolavoro degli strateghi del Pd.

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« Risposta #111 inserito:: Gennaio 31, 2011, 11:32:27 am »

31/1/2011

Federalismo, i nuovi oppositori

LUCA RICOLFI

«Item di tipo Thurstone». Nella disciplina alquanto esoterica che insegno all’università (Analisi dei dati) si parla di «item di tipo Thurstone» quando, su un certo tema, si può essere ostili a qualcosa per ragioni opposte. In politica, ad esempio, fascisti e comunisti erano entrambi ostili alla Dc, ma su sponde antitetiche. E oggi, per fare un altro esempio, chi è contro l’Unione europea può esserlo perché rimpiange gli Stati nazionali indipendenti, o viceversa perché vorrebbe un vero governo sovrannazionale, con più e non meno poteri dell’attuale Parlamento europeo.

Da qualche giorno questo genere di pensieri mi ronza nella mente, e non solo perché sto per iniziare il mio corso. È la traiettoria del federalismo che me li sta imponendo. Presi dal caso Ruby non ce ne stiamo accorgendo, ma sotto i nostri occhi si sta delineando un nuovo tipo di opposizione al federalismo. Un’opposizione diversa da quella classica, perché basata su argomenti non semplicemente diversi, ma del tutto antitetici a quelli degli anti-federalisti tradizionali. Il federalismo sta diventando un «item di tipo Thurstone».

Vediamo un po’. Finora il nucleo dell’opposizione al federalismo è sempre stato di matrice sudista-solidarista. I nemici del federalismo, più che combatterlo, cercavano di frenarlo, mitigarlo o temperarlo. Il timore era che il federalismo potesse funzionare fin troppo bene, con la conseguenza di spostare risorse dai territori attualmente privilegiati (Mezzogiorno e regioni a Statuto speciale del Nord) verso le grandi regioni del Nord, attualmente gravemente penalizzate dagli sprechi e dall’evasione fiscale di quasi tutte le altre.

Oggi non è più così. Da alcune settimane, accanto a questa opposizione classica al federalismo fiscale se ne sta costituendo una nuova, di segno del tutto opposto. Gli alfieri di questa nuova opposizione non sono i nemici storici del federalismo, ma alcuni fra i suoi più convinti sostenitori. Persone che da anni si occupano del problema, che hanno sempre difeso le buone ragioni del progetto federalista, ma ora vedono con raccapriccio che quello che si sta consumando a Roma, fra infinite riunioni, tavoli tecnici, negoziati non è l’ultimo passaggio di un lungo cammino, ma è una mesta, lenta e non detta agonia del sogno federalista. I dubbi degli studiosi sulla legge 42 e sui decreti delegati non sono una novità, e sono stati espressi più volte in questi anni nelle sedi più diverse (alcuni dei miei sono raccolti sul sito www.polena.net). A tali dubbi, nelle ultime settimane, se ne sono aggiunti molti altri, e due in particolare hanno allarmato un po’ tutti: il timore che l’esigenza, tutta politica, di ottenere l’ok dell’Anci (l’associazione dei Comuni) porti a un ulteriore aumento della pressione fiscale; l’obbrobrio anti-federalista per cui i comuni si finanzieranno con tasse pagate dai non residenti (imposta di soggiorno e Imu sulle seconde case), con tanti saluti al principio del controllo dei cittadini sui loro amministratori. Un frutto avvelenato, quest’ultimo, dell’abolizione dell’Ici sulla prima casa, provvedimento demagogico voluto dal governo Prodi e completato dal governo Berlusconi.

Dunque oggi fra coloro che si oppongono ai decreti sul federalismo ci sono, è vero, i «soliti noti» di sempre, a partire dai partiti del Terzo polo, tutti insediati più al Sud che al Nord, ma ci sono per la prima volta anche i veri federalisti, coloro che al federalismo hanno sempre creduto più della Lega stessa. Politici, amministratori, studiosi, commentatori politici, il cui timore non è che il federalismo possa funzionare, eliminando ogni forma di parassitismo e assistenzialismo, ma che il federalismo possa non funzionare affatto, lasciando le cose così come sono, o addirittura peggiorandole, ad esempio con più tasse e più spese, o semplicemente con una selva di norme ancora più barocche e intricate di quelle che cerchiamo di lasciarci alle spalle. Oggi capita sempre più frequente di leggere e di sentir dire, non già «sono contro il federalismo, quindi mi oppongo al decreto sul federalismo municipale», ma piuttosto, «sono federalista, quindi non posso votare questo decreto».

Naturalmente mi rendo conto che, dietro all’appoggio come dietro all’opposizione al federalismo, ci possono essere e ci sono le ragioni meno nobili. I comuni possono approvarlo solo perché sono riusciti a strappare più quattrini allo Stato centrale, il Pd può affossarlo solo perché la cosa può aiutare a far cadere Berlusconi (come ha velatamente riconosciuto Sergio Chiamparino in un’intervista a Repubblica). E tuttavia vorrei fare presente che, accanto a chi strumentalizza la questione a fini politici, esistono anche i federalisti sinceramente, disinteressatamente e motivatamente preoccupati.

Preoccupati che la riforma non passi, ma anche preoccupati che non funzioni, o che dia frutti perversi. Perché la novità è questa: oggi chi è veramente federalista non può non chiedersi se sia meglio (meno peggio) che il federalismo «à la Calderoli» passi, o sia meglio che tutto venga affossato per l’ennesima volta. Io, che ho sempre difeso il federalismo, il dubbio ce l’ho. E vi posso dire che altri federalisti convinti, almeno in privato, confessano di augurarsi che tutto si blocchi, tali e tante sono le concessioni che gli artefici del federalismo sono stati costretti a fare alla rivolta degli interessi costituiti e alla miopia del ceto politico locale.

È una conclusione amarissima. Perché non è dettata da alcuna convinzione specifica pro o contro l’idea federalista, ma solo dalla constatazione che la classe politica non è capace di discutere una riforma così cruciale per il futuro di tutti noi sollevandosi, almeno un pochino, al di sopra dei propri meschini interessi di bottega. Pensando per un attimo solo al bene dell’Italia, di cui pure si appresta a celebrare il 150esimo anno dall’Unità.

No, purtroppo i nostri parlamentari non ce la faranno a guardare un po’ oltre. È inutile farsi illusioni. Sia il decisivo voto di giovedì sul federalismo municipale, sia gli appuntamenti parlamentari successivi, saranno governati dai calcoli del governo per restare in sella, e da quelli delle opposizioni per disarcionarlo. È triste ammetterlo, ma anche su questo, su una riforma che aspettiamo da vent’anni, siamo nelle mani di Ruby.

da - lastampa.it
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« Risposta #112 inserito:: Febbraio 02, 2011, 05:30:25 pm »

2/2/2011

Il malgoverno pagato sempre dai cittadini

LUCA RICOLFI

Si torna a parlare di una patrimoniale, ma le proposte sul tappeto sono almeno quattro. In principio fu Giuliano Amato.

La sua idea era semplice: abbattiamo il debito pubblico di un terzo (600 miliardi di euro, su 1800), colpendo solo il ceto medio-superiore, ovvero il terzo più ricco degli italiani, con un’imposta media di 75 mila euro a famiglia. Poi venne il banchiere Pellegrino Capaldo, anche lui - riferiscono i giornali - vicino al centro-sinistra, con la proposta-monstre di prelevare qualcosa come 900 miliardi di euro (metà del debito, più di metà del Pil), questa volta però molto democraticamente spalmati su tutti i possessori di immobili: il che fa «solo» 50 mila euro a famiglia. Poi venne Walter Veltroni, che nel discorso del Lingotto riprese la proposta Amato, immaginando un governo di illuminati che - forte di altre misure di contenimento del deficit - chiedesse «al decimo più fortunato degli italiani» di aiutare il governo stesso a «far scendere il debito in modo rapido verso dimensioni più rassicuranti». L’idea era di abbattere il debito di 600 miliardi (proposta Amato), ma con due importanti varianti: colpendo solo i ricchi (il 10% di «fortunati»), e ricorrendo anche ad altre misure. Immaginando una patrimoniale che incidesse «solo» per 200 miliardi (anziché per 900 o 600, come nelle proposte Amato-Capaldi), farebbe 80 mila euro a famiglia. E infine (nei giorni scorsi) venne Pietro Ichino, che ci assicurò che la patrimoniale di Veltroni è solo una delle misure per abbattere il debito (le altre sono: dismissioni del patrimonio pubblico e tagli draconiani di spesa), e che quanto all’importo ci si poteva accontentare di 30-40 miliardi in 2 anni, concentrati su 2,5 milioni di famiglie ricche. Come dire una patrimoniale che «fa il solletico» al debito, visto che 30-40 miliardi lo limerebbero del 2%.

In breve: Capaldo vuole colpire tutti i possessori di case (80% degli italiani), Amato solo il ceto medio-superiore (33% degli italiani), Veltroni solo i «ricchi» (10% degli italiani). Non voglio qui entrare nel merito della giustezza o praticabilità di questo genere di proposte, su cui sono già intervenuti criticamente molti autorevoli osservatori, fra cui Franco Debenedetti, Dario Di Vico, Francesco Forte, Gilberto Muraro, Alessandro Penati, Michele Salvati. Il tema che vorrei sollevare è, per così dire, anteriore a ogni discussione di merito. E consiste in una semplice domanda: che cosa pensa realmente il Pd, visto che Veltroni e Ichino ne fanno parte, e Amato è una delle principali personalità del centro-sinistra?

Pierluigi Bersani, Enrico Letta e Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, si sono già precipitati a dissociarsi dalla proposta di imposta patrimoniale. Probabilmente si rendono conto che il solo usare la parola «patrimoniale» è il più straordinario assist che si possa fare a un Berlusconi in difficoltà sul caso Ruby. Una campagna elettorale contro «i comunisti che ci vogliono espropriare» è il più bel regalo che il Cavaliere potesse sperare dall’opposizione. Che, puntualmente, appena si sono delineate le elezioni anticipate, glielo ha offerto su un piatto d’argento.

E tuttavia ormai il problema di Bersani non è smentire, ma convincere. Non è chiarire, ma farlo in modo credibile. Perché ci sono due piccoli problemi di logica. Problema numero uno: come fa il Pd a dire che non vuole la patrimoniale, quando la sostengono con tanta convinzione esponenti così importanti del partito?

Si dirà che sono voci individuali, e su un problema così delicato conta solo la voce del segretario Pierluigi Bersani. Ma proprio qui interviene il secondo problema. Bersani si è già espresso a favore della patrimoniale almeno in due occasioni. Una prima volta un anno e mezzo fa, in un convegno dei Giovani di Confindustria, quando correva per diventare segretario del Pd; e una seconda volta un paio di settimane fa, in occasione del Lingotto 2, il grande raduno dei veltroniani a Torino. E’ lì che Veltroni fece sua l’idea di una patrimoniale sugli «italiani più fortunati», ed è lì che Bersani pronunciò la storica frase: «Nemmeno un Nobel riuscirebbe a trovare la differenza fra di noi».

Adesso quella differenza negata rischia di essere fin troppo visibile, o di sparire senza convincere. Perché il problema della sinistra è sempre quello. Con la nobile giustificazione che «fra noi si discute e si dibatte» non si capisce mai su che cosa i suoi leader siano davvero d’accordo, e su che cosa siano irrimediabilmente in disaccordo. Un male che ora, proprio sulla patrimoniale, si sta estendendo anche alle forze del nascente Terzo polo, con dichiarazioni che si suddividono equamente in favorevoli, contrarie, imbarazzate.

E’ una situazione avvilente, soprattutto per chi vorrebbe voltare pagina. Nel momento in cui la stella di Berlusconi declina, e in molti sentono l’esigenza di un cambiamento, il principale partito della sinistra si infila nella serie peggiore possibile di mosse autolesioniste. Prima salta sul caso Ruby con una veemenza che non aveva mostrato su temi ben più cruciali per la vita dei cittadini. Poi, quando finalmente qualcuno prova a toccare temi concreti, ripropone la più scivolosa, discutibile, controversa fra le misure di risanamento possibili. Una misura che, se anche fosse equa, sacrosanta, efficace (cosa di cui è più che lecito dubitare), inevitabilmente suscita nell’elettore la domanda: ma come, è da trenta anni che tutti, destra, sinistra e centro, dilapidate le risorse del Paese per conquistare voti e clientele, e ora chiedete a noi di riparare il disastro che avete provocato?

Su questo ha ragione Pietro Ichino. Sensata o insensata che sia, un’imposta patrimoniale straordinaria - che scarica sulle famiglie i debiti dello Stato - può permettersi di chiederla solo un governo che, prima, abbia fatto fino in fondo la sua parte, interrompendo risolutamente quel cammino di dissipazione del denaro pubblico che ci ha portati all’attuale disastro.

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« Risposta #113 inserito:: Febbraio 15, 2011, 10:58:56 am »

15/2/2011

Ma l'Italia è davvero berlusconiana?

LUCA RICOLFI

Da quando nella politica italiana è entrato Silvio Berlusconi, ossia dal 1994, la cultura di sinistra ha sviluppato un suo peculiare racconto dell'Italia. Secondo questo racconto chi vota a sinistra sarebbe «la parte migliore del Paese», mentre la parte che sceglie il centrodestra sarebbe la parte peggiore, evidentemente maggioritaria.

La teoria delle due Italie scattò subito, nel 1994, allorché la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto fu inaspettatamente sconfitta dal neonato partito di Silvio Berlusconi.

E da allora mise radici, costruendo pezzo dopo pezzo una narrazione della storia nazionale al centro della quale vi è l'idea di una vera e propria mutazione antropologica degli italiani, traviati fin dagli anni 80 dal consumismo e dalla tv commerciale. Una narrazione che, nel 2001, si arricchirà di un nuovo importante tassello, con la teoria di Umberto Eco secondo cui gli elettori di centrodestra rientrerebbero in due categorie: l'Elettorato Motivato, che vota in base ai propri interessi egoistici e a propri pregiudizi contro stranieri e meridionali, e l'Elettorato Affascinato, «che ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi».
Due elettorati cui non avrebbe neppure senso parlare, visto che non si informano leggendo i giornali seri e «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina».

Vista da questa prospettiva, la vittoria del 1994, come tutte quelle successive, non sarebbe un incidente di percorso, ma l'amaro sbocco di processi di degenerazione del tessuto civile dell'Italia iniziati molti anni prima. Uno schema, quello dell'Italia traviata dal consumismo e dai media, apparentemente nuovo ma in realtà già allora vecchio di trent'anni. Era stato infatti Pasolini, molti anni fa, a denunciare - ma senza disprezzo, e con ben altra umanità - la «scomparsa delle lucciole», immagine con cui soleva descrivere la dissoluzione dell'umile Italia fin dai primi anni 60, con l'estinzione delle culture popolari sotto l'incalzare del benessere e delle migrazioni interne.

Insomma, voglio dire che è mezzo secolo che «alla sinistra non piacciono gli italiani», per riprendere il titolo del saggio con cui, fin dal 1994, lo storico Giovanni Belardelli (sulla rivista «il Mulino») fissò la sindrome della cultura di sinistra, incapace di darsi una ragione politica dei propri insuccessi, e perciò incline a dipingere l'Italia come un Paese abitato da una maggioranza di opportunisti, di malfattori, o di ignavi. E tuttavia ora, forse per la prima volta, qualcosa si sta muovendo. Qualcosa, molto lentamente, sta cambiando. Non già nei piani alti della politica, nelle segreterie dei partiti, nei palazzi del potere, bensì fra la gente comune, e fra le energie più giovani del Paese. Roberto Saviano, ad esempio, l'altro giorno al Palasharp, alla manifestazione per chiedere le dimissioni del premier, ha sentito il bisogno di dire: «Smettiamo di sentirci una minoranza in un Paese criminale, siamo un Paese per bene con una minoranza criminale». Se Saviano ha sentito il bisogno di esortare il popolo di sinistra a «smettere di credere» di essere una minoranza, vuol dire che quella credenza ancora c'è, sopravvive, nelle menti e nei cuori: una sorta di «pochi ma buoni», una rabbiosa riedizione del «molti nemici, molto onore» di mussoliniana memoria.

La sindrome della «minoranza virtuosa» è tuttora molto radicata nella cultura politica della sinistra. Ma anche qui, persino fra i politici di professione, qualcosa si sta muovendo. L'alibi dell'indegnità degli italiani comincia a scricchiolare. Matteo Renzi, sindaco di Firenze, rimproverato da un po' tutti i suoi compagni di partito (compreso il giovane «rottamatore» Pippo Civati) per essersi contaminato incontrando Berlusconi ad Arcore, ha risposto ai suoi critici più o meno così: se vogliamo vincere non possiamo partire dall'assunto che l'altra metà degli italiani, quella che non ci vota, sia costituita da cittadini irrecuperabili, dobbiamo rispettarli e conquistarli.

Saviano e Renzi hanno ragione. Così come hanno ragione quanti, in piazza o non in piazza, non si stancano di ripetere che l'Italia non è quella che emerge dai festini di Arcore e dalle intercettazioni, o quella che la cultura di sinistra si figura ogni volta che l'esito del voto punisce i progressisti. L'Italia non è berlusconiana quanto si pensa sul piano del costume (un recente sondaggio di Mannheimer certifica che il sogno di una carriera nel mondo dello spettacolo attira effettivamente solo 1 ragazza su 100). Ma non lo è neppure sul piano del consenso elettorale. Contrariamente a quanto molti credono, il berlusconismo - inteso come fiducia incondizionata nei confronti di Berlusconi - è sempre stato un fenomeno marginale. Fatto 100 il corpo elettorale, il voto al partito di Berlusconi non è mai andato oltre il 20%, e il sostegno esplicito al leader, espresso in un voto di preferenza (come alle ultime Europee), si aggira intorno al 6%. Per non parlare del trend più recente, che mostra un Pdl che attira circa il 18% del corpo elettorale, e un premier che ottiene la sufficienza da meno di un cittadino su tre.

Se questa è la realtà, occorre che la sinistra faccia un serio esame di coscienza. Che provi a inventare un altro racconto degli ultimi trent'anni. Un racconto senza alibi e autoindulgenze, un po' più rispettoso degli italiani e un po' più abrasivo su sé stessa. Perché se l'Italia non è, né è mai stata, il Paese moralmente degradato tante volte descritto in questi anni. Se il consenso al leader Berlusconi non è mai stato plebiscitario. Se i suoi fan non sono mai stati tantissimi. Se oggi 2 italiani su 3 non danno la sufficienza a Berlusconi, e appena 1 su 20 lo promuove a pieni voti. Se, a dispetto di tutto ciò, i sondaggi rivelano che il giudizio dei cittadini sull'opposizione è ancora più negativo - molto più negativo - di quello sul governo. Beh, se tutto questo è vero, allora vuol dire che i problemi politici dell'Italia non stanno solo nei comportamenti del premier e nelle insufficienze del suo governo, ma anche nella difficoltà dell'opposizione di trovare, finalmente, un'idea, un programma e un volto che convincano quella metà dell'Italia che non è berlusconiana ma, per ora, non se la sente di votare a sinistra.

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« Risposta #114 inserito:: Marzo 16, 2011, 12:19:37 am »

UNITA' ITALIA

13/03/2011 - ANALISI

Mezzogiorno, le radici del nostro scontento


Deficit e tasse in continuo aumento: il patto tra Nord e Sud non regge più La mancata soluzione ha bloccato la crescita e mette in pericolo il futuro

LUCA RICOLFI

Nel 1861, al momento della proclamazione del Regno d'Italia, il 70% degli occupati lavorava in agricoltura, e il tenore di vita medio della popolazione era bassissimo. Oggi il 70% degli occupati lavora nei servizi, l'agricoltura assorbe meno del 4% della forza lavoro, e il nostro tenore di vita è uno fra i più alti del mondo. In mezzo c'è stato il lungo processo di industrializzazione del paese, poi la scolarizzazione di massa, l'esplosione dei consumi, la conquista di un benessere diffuso ancorché non generalizzato .

Eppure non siamo soddisfatti di noi. Un disagio sottile si è impadronito del paese, e col passare degli anni assume tratti sempre più mesti. Da dove viene questo sentimento?

Ovviamente da un mix di fattori, non ultimo il fatto che stiamo diventando un paese di vecchi, che ai giovani non offre un futuro di libertà e di autonomia, ma solo una rete di appoggi e benefit familiari, spesso fondati sul lavoro di un paio di generazioni. Ma se proviamo a guardare più indietro, ai cambiamenti strutturali dell'Italia, a me pare che il grande nodo del paese, il suo peccato originale, sia uno soltanto: la sua incapacità di risolvere la «questione meridionale». Una incapacità che, all'inizio degli anni '90, ci ha regalato l'improvvisa trasformazione della «questione meridionale» in «questione settentrionale», con la nascita della Lega Nord e il lento ma inesorabile diffondersi di sentimenti antimeridionali ben al di là del perimetro di quel partito. Sentimenti che ora, a 150 anni dalla nascita dell'Italia, hanno un loro puntuale contraltare nel Mezzogiorno, dove il disagio per i sacrifici imposti dal dissesto delle finanze pubbliche e dalla crisi rinfocolano i vissuti di privazioni presenti fra le popolazioni del Sud, per non parlare del revival neo-borbonico che si avverte in tanti libri recenti.

Perché l'incapacità di risolvere la questione meridionale è il nodo centrale dell'Italia di oggi?

Perché la maggior parte dei nostri guai vengono di lì. Le serie storiche del Pil procapite mostrano chiaramente che, contrariamente a quanto pensano molti storici, la questione meridionale non è stata ereditata dai Savoia, bensì in gran parte creata da essi, innanzitutto con le tasse e la politica doganale. Nei primi 90 anni della storia d'Italia, ossia dal 1861 al 1951, il divario del Mezzogiorno rispetto al resto del paese, assai modesto al momento dell'unificazione, è cresciuto ininterrottamente, con due drammatiche accelerazioni nell'ultimo ventennio dell'800 e sotto il fascismo. Poi, grazie alla riforma agraria e alla Cassa del Mezzogiorno, il trend si è invertito, consentendo al Mezzogiorno di risalire in parte la china, specie nel ventennio 1951-1971. Ma questa parziale risalita è stata attuata secondo modalità perverse: il recupero del Sud è avvenuto più in termini di reddito, consumo e potere di acquisto, che non in termini di prodotto procapite. Sicché oggi il tenore di vita medio delle regioni meridionali è comparabile a quello del CentroNord (secondo alcune valutazioni è addirittura superiore), mentre il loro contributo produttivo è drammaticamente inferiore, con un prodotto per abitante che non raggiunge il 60% di quello del Nord.

Il problema è che questo risarcimento tardivo e parziale del Mezzogiorno, per cui a una parte del paese veniva concesso il lusso di consumare, evadere il fisco, dissipare risorse pubbliche senza un apporto produttivo corrispondente, a partire dall'inizio degli anni '70 si è fondato su un meccanismo diabolico: l'espansione senza limiti del debito pubblico. Grazie al debito e alla spesa allegra, per trent'anni la classe politica è riuscita nella doppia impresa di alimentare clientele (specie al Sud, con i trasferimenti e i sussidi) e distribuire rendite (specie al Nord, con gli alti interessi su Bot e Cct). Questo meccanismo di espansione dei ceti parassitari entra in crisi verso la metà degli anni '80, quando la voragine del debito non basta più a nutrire il minotauro statale. Non sazia delle risorse rastrellate emettendo debito pubblico, la classe politica ora comincia a drenare quattrini anche attraverso l'aumento delle tasse. Nel giro di appena 8 anni, dal 1985 al 1993, la pressione fiscale passa dal 35% al 43%, mentre il debito pubblico, anziché diminuire, tocca il suo massimo storico, pari al 120% del Pil.

Il giocattolo è definitivamente rotto. Il patto fra Nord e Sud, mediato dal ceto politico della prima Repubblica, non regge più. Spesa in deficit e tasse non bastano a sussidiare il Mezzogiorno, ma sono sufficienti a frenare la crescita delle regioni più produttive del paese, alimentando un malcontento che solo nella Lega Nord sembra trovare un (parziale) sbocco politico. Dal 1990 l'Italia, che per mezzo secolo era cresciuta di più del resto dell'Europa, comincia a crescere di meno. Poi, a partire dai primi anni 2000, entra in stagnazione. E anzi, in termini di reddito pro-capite, addirittura fa qualche passo indietro, già prima della crisi del 2008-2009.

Ma il paese non reagisce. C'è amarezza, scetticismo, disincanto, ma non c'è una risposta. Una sorta di fatalismo, un malessere sottile e impalpabile, pervade tutto e tutti. Alcuni politici provano a consolarci dicendoci che, in fondo, il Centro-Nord è allineato sui migliori standard europei, e che il problema è solo il Sud, o il Sud ad alta presenza mafiosa. Ma in un certo senso è proprio questo il problema: in Italia non c'è una reazione, una risposta, un giusto livello di allarme, precisamente perché buona parte del paese è ancora a livelli europei. Siamo cresciuti troppo in fretta nei primi 45 anni della Repubblica (fino al 1990), e stiamo declinando troppo lentamente negli ultimi 15, per accorgerci veramente del piano inclinato su cui siamo incamminati. La ricchezza che abbiamo accumulato, le nostre rendite, le risorse della famiglia e del volontariato, ci consentono di reggere ancora per parecchio tempo, non benissimo certo, ma comunque senza traumi. Andando indietro, ma senza avvedercene troppo. Sciogliendoci come un ghiacciaio che si ritira di un metro l'anno, e ogni anno non sembra così diverso dall'anno prima. Di tutto ciò possiamo continuare a incolpare la classe dirigente del paese, politici, industriali, banchieri, sindacalisti.

Ma forse la realtà è più semplice: l'inerzia della classe dirigente, il suo ostinato conservatorismo, sono il riflesso del nostro attaccamento a ciò che siamo diventati, della nostra indisponibilità a rischiare e rimetterci in gioco. Più o meno divisi fra Nord e Sud, fra destra e sinistra, fra scettici e impegnati, ma unitissimi nella volontà di non cambiare le nostre vite. E' soprattutto per questo che i nostri problemi sono sempre lì, primo fra tutti quello dei rapporti fra ceti produttivi e parassitari. Un nodo la cui mancata soluzione ha ucciso la crescita, vent'anni fa. E ora, per responsabilità di tutti, rischia di compromettere il futuro.

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« Risposta #115 inserito:: Aprile 02, 2011, 09:47:01 am »

2/4/2011
 
Agli stranieri i nuovi posti di lavoro
 
 
LUCA RICOLFI
 
La situazione a Lampedusa si complica. Il mare grosso impedisce l’arrivo di nuovi migranti, ma anche il trasferimento sul continente delle migliaia di persone sbarcate nelle ultime settimane. Le navi che dovevano assicurare «in 48-60 ore» (parole di Berlusconi) lo sgombero dell’isola non riescono nemmeno ad attraccare, mentre i tunisini ammassati nella tendopoli pugliese di Manduria fuggono (o sono lasciati fuggire?) scavalcando esili reti di recinzione, o passando attraverso varchi lasciati aperti. Quanto alle Regioni che avevano dato la loro disponibilità a gestire i nuovi arrivati, una dopo l’altra fanno marcia indietro, o come minimo costellano di innumerevoli paletti e distinguo la loro volontà di accoglienza: sì ma solo i rifugiati politici, sì ma non nelle tendopoli, sì ma solo se nessun'altra regione si tira indietro.

Bruttissime figure, dunque, sono in arrivo per il governo in generale (l’ennesima promessa tradita) e per la Lega in particolare, pronta a fare la faccia feroce in campagna elettorale, ma impotente - come chiunque - al momento di affrontare il problema dell’immigrazione.
Già, ma qual è il problema? In questi giorni ho sentito due versioni. Una dice: se l’Europa se ne lava le mani, e noi italiani non riusciamo a rimandarli indietro rapidamente, il segnale di impotenza che inviamo a tutti i disperati del Nord Africa avrà conseguenze catastrofiche, perché i 20 mila migranti di questi mesi (tanti ma non tantissimi) potrebbero rapidamente diventare 50 mila, 500 mila, 1 milione. Per non parlare dei problemi di legalità: uno Stato serio non può accettare che sul proprio territorio circolino o transitino migliaia di persone non identificate, non tutte alla ricerca di un lavoro con cui campare.

C’è anche una seconda versione, che capita di ascoltare soprattutto in casa leghista: li vogliamo rimandare a casa perché in Italia c’è la crisi, manca il lavoro, e quel poco che c’è non basta nemmeno agli italiani. Insomma, i tunisini li vogliamo mandare via non perché siamo razzisti, ma perché c'è la disoccupazione. La prima versione del problema immigrati - un Paese ha diritto di limitare gli ingressi e far rispettare le leggi - pone un mucchio di problemi morali, giuridici, pratici, ma è comprensibile, al limite del puro buonsenso. Sulla seconda versione, che sottolinea la mancanza di lavoro, ho invece molti dubbi. Sembra logica anch’essa, ma lo è meno di quanto appaia a prima vista.

Giusto ieri l’Istat ha comunicato i dati definitivi sull’andamento dell’occupazione nel 2010, nonché i dati provvisori dei primi due mesi dell’anno. Ebbene, quei dati ci forniscono un quadro del mercato del lavoro tutt’altro che sorprendente per gli studiosi, ma in forte contrasto con molte credenze diffuse nel mondo della politica e dei media. Proviamo a sintetizzare. Nei primi tre anni della crisi, ossia fra la fine del 2007 e la fine del 2010, l’occupazione in Italia è diminuita di circa 400 mila unità (senza contare la cassa integrazione). Quella variazione, tuttavia, è il saldo fra un crollo dell’occupazione degli italiani, che hanno perso quasi 1 milione di posti di lavoro, e un’esplosione dell’occupazione degli stranieri, che ne hanno conquistati quasi 600 mila. Nel 2007, prima della crisi e dopo quasi vent’anni di immigrazione, gli stranieri occupati in Italia erano circa 1 milione e mezzo, tre anni dopo erano diventati 2 milioni 145 mila, quasi il 40% in più. Un boom di posti di lavoro nel pieno della più grave crisi dal 1929.

Come è possibile? In parte lo sappiamo: gli italiani, pur non essendo molto più istruiti degli stranieri regolarmente residenti in Italia, non sono disposti a fare tutta una serie di lavori che gli stranieri invece accettano. Ma questa non è una novità. La novità è che durante la crisi l’occupazione straniera è esplosa, e continua a crescere a un ritmo elevatissimo. Anche nell’ultimo anno, con i primi timidi segnali di ripresa, gli italiani hanno perso qualcosa come 166 mila posti di lavoro, mentre gli stranieri ne hanno guadagnati ben 179 mila (+9,1%).
È possibile che una parte dei nuovi posti di lavoro siano state semplici regolarizzazioni, soprattutto relative a «badanti» già occupate. Ma questo meccanismo può spiegare solo una parte dell’aumento, visto che - nonostante la drammatica crisi dell’edilizia - l’occupazione degli stranieri maschi è aumentata di quasi il 30% in soli 3 anni, e continua ad aumentare anche in questi mesi.

La realtà, forse, è un’altra, più difficile da digerire per noi italiani. Nella crisi, il nostro sistema produttivo è diventato ancor meno capace di prima di generare posti accettabili per gli italiani. È per questo che gli immigrati regolari stanno lentamente, ma implacabilmente, diventando uno dei segmenti più dinamici e attivi della società italiana, come mostrano l’andamento del tasso di disoccupazione (in calo per gli stranieri ma non per gli italiani), il contributo al Pil, il valore delle rimesse verso i Paesi d’origine, il moltiplicarsi in ogni parte d’Italia delle partite Iva e delle micro-imprese gestite da immigrati: negozi, bar, officine, aziende di trasporti e di servizi. È triste ammetterlo, ma gli stranieri occupati in Italia sono diversi da noi non già perché «loro» sono meno istruiti e meno ricchi, ma perché somigliano a quel che noi stessi eravamo negli Anni 50: un popolo uscito da mille difficoltà e determinato a conquistarsi un futuro a colpi di sacrifici e duro lavoro.

Visto da questa angolatura il problema dell’immigrazione assume contorni un po’ diversi. Sul versante del mercato del lavoro, il problema dell’Italia - per ora - non è di essere invasa dagli stranieri, ma di essere più adatta agli stranieri che agli italiani. Il nostro guaio non è che gli stranieri ci portano via i posti di lavoro, ma che ci ostiniamo a creare posti che né noi né i nostri figli sono disposti a occupare. Camerieri, pizzaioli, fattorini, autisti, badanti, muratori continuano a servire al sistema Italia. Molto meno ingegneri, tecnici specializzati, ricercatori, tutti mestieri per i quali - se si è davvero bravi - forse è meglio guardare alle opportunità che si creano negli altri Paesi avanzati che sulla scuola, la ricerca e la cultura hanno puntato più di noi.

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« Risposta #116 inserito:: Aprile 13, 2011, 11:29:59 am »

13/4/2011 - I LAMENTI DELLE IMPRESE

Il vero sforzo che serve all'Italia

LUCA RICOLFI

Gli imprenditori italiani si sentono soli, abbandonati dalla politica. Così lamenta Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. E come darle torto? Come non essere sensibili al «grido di dolore» che viene dalle imprese? E tuttavia c’è qualcosa, nel discorso degli imprenditori, che mi lascia vagamente perplesso. Non mi riferisco alle prese di posizione di questi giorni, ma a quelle degli ultimi anni. E non mi riferisco solo agli imprenditori ma anche agli studiosi, agli osservatori, agli analisti (me compreso) che si sono affaccendati intorno al malato Italia, e a più riprese si sono chiesti perché questo Paese da 15 anni cresca meno degli altri, e negli ultimi 10 abbia semplicemente smesso di crescere.

Ebbene, qual è stata finora la diagnosi prevalente? Nessuno si offenda, ma mi sembra di poter dire che - ormai - più che di una diagnosi si tratta di una litania, per non dire una giaculatoria. I nostri mali, o meglio i nostri handicap rispetto agli altri Paesi, sono stati minuziosamente individuati, e vengono ripetuti con impressionante monotonia da almeno un decennio: eccesso di pressione fiscale, di pressione contributiva, di adempimenti burocratici; inefficienza della giustizia civile; sprechi nella Pubblica amministrazione; insufficiente qualità e quantità dei servizi pubblici.

E poi ancora, bassa qualità del capitale umano; scarsi investimenti in ricerca e sviluppo; costi eccessivi dell’energia e dei servizi bancari; gravi deficit infrastrutturali, specie al Sud; mancate liberalizzazioni; corruzione dei funzionari pubblici; infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia; eccessiva protezione dei garantiti, insufficiente tutela dei nuovi entrati sul mercato del lavoro.

Una prima osservazione: se tutti questi fattori sono davvero importanti, i nostri imprenditori sono semplicemente dei superman. Un malato che riesca a sopravvivere con un simile cumulo di acciacchi deve avere una tempra eccezionale.

Seconda osservazione: alcuni di questi handicap sono nazionali, ma molti sono specifici del Mezzogiorno, penso in particolare al gap infrastrutturale, alla qualità dell’istruzione (test Pisa), al funzionamento della giustizia e della burocrazia, all’efficienza dei servizi pubblici, alla presenza della criminalità organizzata. Eppure, negli ultimi 10-15 anni, il Pil del Nord non è cresciuto di più di quello del Sud, e anzi, in termini pro capite, il Mezzogiorno è cresciuto più del Nord. Come mai? Forse nella nostra diagnosi c’è qualcosa che non va, forse stiamo sopravvalutando alcuni fattori e ne stiamo sottovalutando altri.

Ed eccoci al punto. Siamo sicuri che si possa «tornare a crescere» riproponendo la litania? Non siamo troppo d’accordo su tutto, e da troppi anni? Perché, se i mali sono così chiari, nessuna medicina è ancora stata somministrata al malato-Italia? Non sarà che manca una gerarchia, che mancano delle priorità? Anche ammesso che tutti i freni alla crescita appena enumerati siano importanti, non sarà arrivato il momento di fissare delle priorità?

Io penso che, se il mondo delle imprese non ottiene dalla politica le risposte che vorrebbe, è anche perché non ha le idee chiare, o semplicemente non può averle. Oggi non c’è una battaglia vera, una battaglia fatta di obiettivi concreti, su cui il mondo dei produttori abbia voglia di impegnarsi e di rischiare. Oggi imprenditori e sindacalisti ripetono parole stanche, parole passepartout, come meritocrazia, competitività, innovazione, fare sistema, puntare sul futuro. Ma non c’è né il coraggio di riconoscere quanto è drammatica la situazione in cui ci siamo cacciati, né la chiarezza di battersi per qualcosa di ben definito, di raggiungibile in tempi ragionevoli, e che sia considerato più importante del resto. Soprattutto, io sento la mancanza di domande vere, domande di fondo, rivolte al ceto politico.

Faccio degli esempi. Il governo vanta di aver contenuto la spesa pubblica e recuperato svariati miliardi con la lotta all'evasione fiscale. È accettabile che non un solo euro vada a ridurre le tasse sui produttori? Siamo tutti d’accordo che ogni euro risparmiato vada usato per colmare la voragine del debito pubblico? È ragionevole che non resti mai un centesimo per investimenti e riduzioni delle aliquote?

Se è così, le sole riforme possibili sono quelle a costo zero: liberalizzazioni e semplificazioni. Ma siamo sicuri che questo ceto politico possa fare le riforme a costo zero? E siamo sicuri che molte resistenze alle riforme a costo zero non si annidino proprio nel mondo dei produttori, sempre attenti a difendere i propri privilegi e le proprie rendite?

E ancora: ci sta bene un federalismo che, se tutto andrà dritto, partirà alla fine del decennio, quando l’economia italiana potrebbe essere implosa da tempo? Guidalberto Guidi, ex vicepresidente di Confindustria, avrà pure esagerato un po’, ma che ne pensiamo della sua previsione, secondo cui con questo fisco («da soffocamento») fra 7-8 anni metà delle imprese italiane sarà stata costretta a gettare la spugna?

E per finire. Non passa giorno che qualche mente illuminata riproponga il contratto unico (a tempo indeterminato) per i giovani che iniziano a lavorare, in cambio di minori tutele per gli attuali iper-garantiti. Che ne pensa Confindustria? È anche una sua battaglia, oppure tiene talmente alla pace sindacale da sacrificare il futuro delle giovani generazioni?

Insomma, forse sono eccessivamente pessimista, ma la mia impressione è che tutti gli attori in campo siano stati e restino troppo politici. Politici nel senso che non rischiano, non conducono battaglie alte e chiare, non sono disposti a pagare dei prezzi per quello che vogliono. Per tutti - governo, opposizione, sindacati, imprese - la posta è troppo alta, il rischio è troppo forte. Per questo ascoltiamo molti lamenti, assistiamo a mille scaramucce e negoziati, ma non vediamo mai una battaglia vera. Una battaglia in cui si capisca per cosa si combatte, ci siano delle priorità chiare, e i protagonisti si mettano in gioco fino in fondo. Finché a questo non arriveremo, temo che la ruota dell’Italia continuerà a girare a vuoto.

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« Risposta #117 inserito:: Aprile 18, 2011, 04:49:41 pm »

18/4/2011

Nord e Sud il paradosso della crescita

LUCA RICOLFI

C’è un’idea su cui sembrano d’accordo quasi tutti, e che ormai è diventata un ritornello: il problema numero uno dell’Italia è il Sud. Se si considera solo il Nord, siamo una fra le realtà più avanzate d’Europa, se si considera solo il Sud siamo una delle realtà più arretrate. Dunque il problema è di consentire al Sud di agganciare il resto del Paese.

Questa diagnosi è vera solo a metà: se guardiamo al reddito per abitante, al tasso di disoccupazione, ai livelli di apprendimento degli studenti, all’occupazione femminile, effettivamente il Nord (a differenza del Sud) se la cava più che bene nel confronto con i maggiori Paesi europei. Ma c’è un punto fondamentale su cui, contrariamente a quanto si crede, il Nord non è affatto in vantaggio sul Sud. Questo punto è la crescita: dal 1995 a oggi il prodotto interno lordo (Pil) del Nord non è affatto cresciuto più di quello del Sud, e in termini pro capite è cresciuto decisamente di meno. E questo è vero non solo per gli anni della crisi (dopo il 2007), ma per il lungo periodo che va dalla fine delle svalutazioni della lira (1995) all’ultimo anno pre-crisi (2007). In quel dodicennio il Pil pro capite del Sud è cresciuto a un tasso medio dell’1,4%, quello del Nord a un tasso compreso fra lo 0,7% e lo 0,8%, dunque circa la metà di quello del Mezzogiorno. Insomma è in parte vero, come spesso sentiamo dire ai nostri politici, che l’economia italiana si muove «a due velocità».

Ma non è vero che il Nord corre e il Sud arranca, semmai è vero il contrario.

Se i dati Istat non sono troppo lontani dalla realtà, e il Pil per abitante del Sud cresce più di quello del Nord, allora non possiamo non notare un paradosso. Per anni ci siamo raccontati che la crescita è frenata da fattori come la mancanza di infrastrutture, la lentezza della giustizia civile, la criminalità organizzata, l’inefficienza della Pubblica amministrazione, la bassa qualità delle istituzioni scolastiche. Per anni abbiamo ripetuto che tutti questi handicap sono tipicamente concentrati nel Mezzogiorno. Ma ora scopriamo che, nonostante tutti questi fattori che indubbiamente ostacolano la crescita, il Sud cresce più del Nord. Com’è possibile? Se è vero che il Nord è più attrezzato del Sud per crescere, come mai da quindici anni cresce di meno?

Prima di provare a dare una risposta, un’osservazione importante. Tornare a crescere di almeno il 2% l’anno (anziché dell’1% attualmente previsto) è assolutamente vitale per il nostro Paese. Per quanto una differenza fra una crescita dell’1% e una del 2% possa sembrare poca cosa, essa è invece decisiva: come ci ha ricordato qualche giorno fa il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, tornare a crescere sopra il 2% è l’unica strada che ha l’Italia per evitare un lungo periodo di implosione della sua economia. Solo così, infatti, possiamo sperare di ridurre il nostro enorme debito pubblico senza incamminarci in una lunga stagione di stagnazione e di sacrifici.

Torniamo ora all’enigma della crescita del Sud. A me sembra che l’apparente anomalia di un Sud che cresce più del Nord ci fornisca anche la chiave per capire qual è la strada che dobbiamo imboccare per tornare a crescere. Se il Sud cresce più del Nord nonostante tutti gli handicap che lo affliggono, vuol dire che - accanto a questi handicap - ci devono essere anche alcuni vantaggi. E questi vantaggi devono essere così importanti da compensare i moltissimi handicap di cui il Sud soffre. Più esattamente, devono avere un impatto (positivo) ancora maggiore di quello (negativo) dei fattori frenanti di cui il Sud è costellato. Se il Sud è frenato dai suoi handicap, come tutti gli studiosi affermano risolutamente, e ciononostante il suo Pil pro capite cresce di quasi 0,7 punti in più di quello del Nord, allora la forza contraria che sostiene il Sud deve essere molto potente. Supponiamo, a titolo di esercizio, che messi tutti insieme gli handicap del Sud valgano anche soltanto mezzo punto percentuale di crescita (-0,5%): se con un handicap di 0,5 il Sud batte il Nord di 0,7, la forza che sostiene la sua crescita deve essere di almeno l’1,2%. E, si noti, questo 1,2% è giusto la spinta di cui l’Italia avrebbe bisogno per crescere oltre il 2%, come auspica il governatore Draghi.

Ma quale può essere questa forza misteriosa che spinge il Sud ma non il Nord?

La teoria economica al riguardo ha una risposta canonica. Una risposta che, pur non condivisa da tutti gli studiosi, ha dalla propria parte una robusta evidenza empirica. La forza misteriosa che stiamo cercando di identificare non è altro che la pressione fiscale sui produttori. Una pressione fatta di due ingredienti fondamentali: la selva degli adempimenti burocratici, e i prelievi che più direttamente gravano sui fattori produttivi (Irap, Ires, cuneo fiscale e contributivo). Questo, a mio parere, è il solo terreno su cui il Sud gode di un vantaggio enorme rispetto al resto del Paese, e in particolare nei confronti del Nord. Non tanto a causa di agevolazioni e sgravi, quanto semplicemente per la diversa propensione a pagare le tasse. Si possono usare molti indicatori ma, quale che sia quello prescelto, la graduatoria è sempre la stessa: l’intensità dell’evasione fiscale è massima nel Mezzogiorno (intorno al 55% secondo le mie stime), intermedia nel centro (27%), minima nel Nord (19%). È come se, di fronte all’incapacità di tutti i governi, di destra e di sinistra, di ridurre in modo apprezzabile le aliquote fiscali che gravano su lavoratori e imprese, una parte del Paese se le fosse autoridotte senza aspettare alcuna riforma. Curioso, e sconcertante: la secessione fiscale, che Bossi minaccia da vent’anni di praticare in Padania, è già in atto da molti decenni nelle regioni del Sud. I nessi causali sono sempre incerti, ma i non molti dati disponibili sui tassi di crescita del Pil delle regioni e delle province italiane suggeriscono che l’autoriduzione delle aliquote è un fondamentale fattore di crescita: a parità di altre condizioni, crescono di più i territori in cui la pressione fiscale di fatto, grazie all’evasione, risulta più bassa che altrove.

C’è una conclusione?

No, soltanto una congettura. Forse, di tutti i numerosissimi fattori che vengono elencati per spiegare la non crescita dell’Italia, adempimenti burocratici e pressione fiscale sui produttori sono i due più influenti. Difficile dire quanto pesino, ma i numeri del confronto Nord-Sud fanno venire il sospetto che pesino più di quanto la politica sia disposta ad ammettere. Probabilmente influiscono sulla crescita per più dell’1%, anche a giudicare dall’esperienza dei Paesi che hanno abbassato significativamente le aliquote. Ma l’1% è precisamente l’accelerazione di cui avremmo bisogno per portare il tasso di crescita dell’Italia oltre il 2%, precondizione minima per cominciare ad affrontare con qualche probabilità di successo i nostri problemi economico-sociali, a partire da quello del debito pubblico.

Capisco che scommettere sul 2% di crescita sia politicamente rischioso. Usare i proventi della lotta all’evasione e i risparmi di spesa anche per ridurre le aliquote, anziché continuare a riversarli tutti nel grande calderone della riduzione del debito, può sembrare azzardato. Ma limitarsi a mettere delle pezze ai nostri conti pubblici, senza un obiettivo credibile di ritorno alla crescita, può rivelarsi ancora più rischioso. O meglio può rivelarsi prudente per i politici, sempre attenti a non creare tensioni sociali, ma disastroso per il Paese, cui forse - ben più che le solite rassicurazioni - servirebbero parole di verità e scelte coraggiose.

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« Risposta #118 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:30:06 pm »

29/4/2011 - LE IDEE

Destra-sinistra le paralisi incrociate

LUCA RICOLFI

E’ tempo di elezioni, fra poco si vota a Milano, Torino, Bologna, Napoli e altre città. Perciò i sondaggi elettorali si moltiplicano, spesso su campioni nazionali. Il voto dei prossimi mesi è solo amministrativo, ma la curiosità per l’esito di una eventuale consultazione politica spinge a commissionare sondaggi nazionali. E’ il caso del sondaggio del Cise (il centro studi elettorali dell’Università Luiss), condotto nei giorni scorsi per «Il Sole 24 Ore».

Un sondaggio interessante, perché non limitato alle solite domande sulle scelte di voto e molto attento alle percezioni degli elettori: problemi sentiti come prioritari, immagine del centro-sinistra e del centro-destra, rispettive capacità di affrontare i problemi del Paese.

Il sondaggio riserva qualche sorpresa.
Non per le percentuali di consenso ai vari partiti e coalizioni, che sono da molti mesi sempre le stesse: il centro-sinistra e il centro-destra valgono un po’ più del 40%, il Terzo polo (Casini-Fini-Rutelli) vale un po’ meno del 15%. Quel che colpisce, invece, è come gli elettori valutano i problemi dell’Italia, e quale fiducia hanno nella capacità delle forze politiche di risolverli. Per l’elettore italiano medio il problema numero 1 è il lavoro (55%), il problema numero 2 è lo sviluppo economico (10%), il problema numero 3 è l’immigrazione (9%), e tutto il resto - legalità e giustizia incluse - conta pochissimo. Ma quando agli intervistati viene chiesto chi sarebbe più capace di affrontare i due problemi principali dell’Italia, ossia lavoro e sviluppo economico, cominciano le sorprese. Secondo gli elettori italiani per affrontare il problema dell’occupazione funzionerebbe meglio il centro-sinistra (24,5% contro 13,1%), per affrontare quello dello sviluppo economico funzionerebbe meglio il centro-destra (24,6% contro 16,6%). In breve l’elettore percepisce il centro-sinistra come specializzato sui problemi occupazionali, il centro-destra come specializzato sui problemi della crescita. Come dobbiamo leggere questo risultato?

Fra gli studiosi prevale l’idea che, almeno per il futuro, occupazione e crescita economico siano strettamente legati: senza crescita non ci sarà nuova occupazione. Invece, a quanto pare, l’elettore sembra pensare che i due problemi siano distinti, tanto che per risolvere l’uno punta sul centro-sinistra, per risolvere l’altro sul centro-destra. E’ come se si credesse che possa esservi crescita senza nuova occupazione, o nuova occupazione senza crescita. Come se una parte degli italiani si preoccupasse solo dell’occupazione, l’altra solo della crescita economica.

Mi sembra preoccupante.
Non perché, in certe circostanze, i due aspetti non possano andare ciascuno per suo conto. Nel passato è già successo, anche se a protagonisti invertiti: gli anni del primo centro-sinistra (1996-2001) non furono certo anni gloriosi per l’occupazione, e quelli del secondo centro-destra (2001-2006) non lo furono per la crescita. Quel che è preoccupante è che i due schieramenti politici siano visti entrambi in modo così unilaterale, per non dire monco. A quanto pare l’elettore italiano si aspetta che la sinistra al governo si occupi essenzialmente di creare posti di lavoro (primato dell’occupazione sulla crescita), la destra di aumentare la produttività (primato della crescita sull’occupazione).

Ma sono entrambe prospettive fallimentari.
Occupazione senza crescita, infatti, significa una cosa soltanto: più assistenzialismo, più posti di lavoro fasulli, peggiori conti pubblici. Crescita senza occupazione significa perseguire guadagni di efficienza e di competitività senza allargare la platea dei percettori di reddito, con conseguente probabile aggravamento delle disuguaglianze. Non possiamo permetterci di imboccare solo la prima strada (quella attribuita alla sinistra) o solo la seconda (quella attribuita alla destra), perché la nostra unica via di uscita è di imboccarle entrambe. L’Italia ha bisogno di tornare a crescere a un ritmo così sostenuto (almeno il 2%) da garantire sia un aumento dell’occupazione, un’occupazione fatta di posti veri, sia un aumento della produttività. Solo così avremo qualche speranza di ridurre il nostro debito pubblico, solo così avremo qualche possibilità di tornare ai livelli di benessere anteriori alla crisi del 2008-2009.

Da questo punto di vista quel che dobbiamo augurarci è che la percezione che gli elettori hanno delle due coalizioni di centro-sinistra e centro-destra siano errate. Perché una sinistra incapace di promuovere lo sviluppo economico e una destra incapace di rilanciare l’occupazione non potrebbero che condannare l’Italia a restare nelle secche in cui è incagliata da oltre un decennio. Mentre una classe dirigente che si facesse carico di entrambi i problemi, l’occupazione e lo sviluppo, avrebbe qualche possibilità di riportarci in mare aperto.

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« Risposta #119 inserito:: Maggio 10, 2011, 12:02:35 pm »

10/5/2011

Troppi test banalizzano la scuola

LUCA RICOLFI

Le scuole di ogni ordine e grado sono in subbuglio. Il ministro Gelmini è riuscita (finalmente?) a far partire una prima massiccia ondata di test di apprendimento, i cosiddetti test invalsi, non solo nelle scuole elementari e medie inferiori, ma quest'anno per la prima volta anche nelle scuole superiori. Una parte degli studenti e dei docenti si sta ribellando, con gli argomenti più svariati. Ad esempio: i test sarebbero «una premessa alla valutazione e gerarchizzazione retributiva dei docenti» (tradotto: pagare meglio gli insegnanti ritenuti più bravi). Oppure: i test sono dannosi emotivamente (provocano «stress da quiz»). Oppure: violano la privacy, perché le prove non sono anonime. E ancora: sono un fallimento scientifico, trasformano dall'interno lo statuto delle discipline, esasperano la competizione, non misurano la buona didattica, trascurano i disabili, eccetera eccetera. Un vero e proprio fuoco di sbarramento ha accolto il decollo dei test, che nei prossimi giorni dovrebbero coinvolgere qualcosa come 100 mila classi e 2 milioni di alunni.

Insomma: il mondo della scuola ha paura dei test. Non è una novità e non è una prerogativa della scuola. E' sempre stato così, in Italia. Il sistema è abituato agli automatismi di carriera e all'appiattimento delle ricompense un po' in tutti i campi: scuola, università, magistratura, burocrazia.

Appena qualcuno, timidamente, prova a introdurre elementi di apertura e di meritocrazia si assiste immediatamente a una levata di scudi. E questo succede non solo quando il governo è di destra, ma persino quando è un governo amico: ricordate il «concorsone» per gli insegnanti voluto da Berlinguer, ai tempi del centro-sinistra? Il ministro fu travolto (e costretto alle dimissioni) dalla sua stessa base, incautamente toccata nell'interesse più caro: una carriera blindata, ermeticamente protetta dalla concorrenza dei nuovi venuti.

Insomma, il nucleo politico essenziale di questa protesta è il solito: la paura della meritocrazia, e il conseguente rifiuto di ogni forma di controllo dei risultati del proprio lavoro. Un'opposizione la cui ispirazione fondamentale è corporativa e conservatrice. Il fatto che i motivi dominanti della protesta siano essenzialmente autodifensivi, tuttavia, non significa che tutte le perplessità sollevate dagli insegnanti siano irragionevoli. Né che una parte dell'opposizione ai test non possa riflettere anche genuine preoccupazioni per il futuro della scuola. A costo di fornire io stesso altra benzina a una protesta di cui non condivido lo spirito, vorrei richiamare almeno quattro criticità dei test.

Primo. Il Ministero non ha mai chiarito (probabilmente perché non lo sa ancora) fino a che punto i risultati degli allievi ai test saranno usati per premiare in termini economici le singole scuole e i singoli insegnanti. Esistono gli strumenti statistici per farlo in modo appropriato, ma ci sono anche gravi insidie in un simile uso dei test, prima fra tutte il fatto che la precisione dei test (molto alta quando si confrontano regioni o province) può divenire piuttosto bassa quando si valuta la singola scuola, la singola classe, o il singolo allievo. Una valutazione dei singoli insegnanti mediante il loro «valore aggiunto conoscitivo» (ossia sui progressi dei loro allievi) si può fare, ma è dubbio possa raggiungere una precisione sufficiente a regolare stipendi e carriere.

Secondo. Per risparmiare il Ministero ha scelto di far somministrare la stragrande maggioranza delle prove direttamente agli insegnanti, anziché a personale specializzato dell'Invalsi. L'esperienza passata ha mostrato in modo incontrovertibile che questa pratica produce risultati distorti, perché una parte degli insegnanti (specie nel Mezzogiorno, ma anche in alcune regioni del centro-Nord) aiuta gli allievi a compilare il test, con la conseguenza di assegnare vantaggi e svantaggi indebiti agli allievi, non tutti così fortunati da avere un insegnante complice. Le «correzioni» matematico-statistiche adottate per tenere conto di questo effetto possono anche funzionare a livelli molto aggregati (per una regione), ma sono pericolose e potenzialmente inique a livello individuale.

Terzo. I test, non solo in Italia ma in tutta Europa, tendono a valutare capacità diverse da quelle che una buona scuola dovrebbe fornire, e comunque non corrispondenti a ciò che gli insegnanti trasmettono. Nel successo ai test oggi in voga pesano troppo la velocità mentale e troppo poco capacità come ragionamento, astrazione, organizzazione mentale, sensibilità estetica, senso critico.

Quarto. L'introduzione massiccia dei test produce una gravissima distorsione nel comportamento degli insegnanti, nonché differenze ingiustificate fra gli allievi. Alcuni insegnanti rinunciano a importanti contenuti del loro insegnamento per concentrarsi nella preparazione ai test, divenendo allenatori dei propri studenti. Altri insegnanti si rifiutano di fare gli allenatori, ma in questo modo mettono a rischio la prestazione dei loro allievi ai test, con conseguenze paradossali: tendenzialmente un allievo di un insegnante «normale» saprà più matematica e italiano dell'allievo di un insegnante-allenatore, ma in compenso andrà peggio ai test.

Quest'ultimo effetto dei test è a mio parere il più deleterio, ed è drammaticamente rinforzato dal fatto che - come già succede all'università da quando esistono i test di ingresso - nei mesi precedenti al test girino «manuali di allenamento» (i cosiddetti Alpha Test) con esempi di domande analoghe a quelle che verranno somministrate nelle prove reali. In prospettiva, quel che si delinea è una vera e propria mutazione delle materie, che - come ha documentato Giorgio Israel per il caso della matematica in Finlandia (Il Foglio, 23 aprile 2011) - sono tentate di evolvere per compiacere i test: non si fa la matematica che serve a diventare un buon matematico, ma si stravolge il contenuto della matematica per agevolare il superamento dei test.

Chi avesse qualche dubbio al riguardo può consultare i libri di preparazione alle prova di lettura (italiano) per rendersi conto che la mutazione è già in atto anche da noi: nelle domande che dovrebbero saggiare la cultura, la capacità di comprensione, la ricchezza lessicale, la finezza argomentativa, compaiono esercizi di problem solving come mettere i simboletti delle nuvole e del sole in una cartina dato un testo di previsioni atmosferiche, usare una piantina di Roma per andare a un concerto allo Stadio Flaminio, e simili amenità forse umilianti per un ragazzo di quindici anni.

Quel che sta succedendo sotto i nostri occhi è che i contenuti dell'insegnamento cambiano non perché qualcuno l'ha deciso consapevolmente e se ne è assunto la responsabilità, ma semplicemente per inseguire la logica dei test. Questo è molto pericoloso: ci sono capacità che in un test sono difficili o impossibili da accertare, ma non per questo meritano meno attenzione nella formazione di un ragazzo.

Ecco perché la protesta degli insegnanti non può essere liquidata con un'alzata di spalle. Nei termini in cui stanno prendendo piede nella scuola italiana, i test rischiano di accelerare lo svuotamento e la banalizzazione dei contenuti dello studio, già in atto da molti anni. Ma basta leggere i documenti e i volantini che circolano in questi giorni, per rendersi conto che la protesta degli insegnanti ha ben altre preoccupazioni. E' un peccato. La scuola italiana avrebbe bisogno di una vigorosa protesta degli insegnanti. Ma non di questa protesta. Perché il vero male della scuola non sono i tagli economici di questi anni, o i timidi tentativi di premiare gli insegnanti migliori, ma i tagli culturali di decenni e decenni. Una vicenda in cui troppi insegnanti (e genitori) non sono stati vittime ma protagonisti.

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