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Autore Discussione: LUCA RICOLFI -  (Letto 108581 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Novembre 19, 2011, 10:39:28 am »

18/11/2011

La ricetta che serve al Paese

LUCA RICOLFI

Sì, le parole pronunciate ieri da Mario Monti al Senato sono quelle che, da anni, aspettavamo di sentir pronunciare da un presidente del Consiglio. E questo non tanto per i temi che ha toccato, per gli obiettivi che ha indicato, per i principi che ha enunciato. Molte delle cose sentite ieri, negli ultimi dodici anni le avevamo già ascoltate da Berlusconi e da Prodi: la promessa di abbassare le aliquote, ad esempio, è stata la parola d'ordine di tutti i governi di centro-destra, mentre la formula trinitaria «rigore-crescita-equità» è stata il leit motiv dell'ultimo governo di centro-sinistra.

No, la novità del discorso di Monti è un'altra. La novità sta nell'assemblaggio, ben più che negli ingredienti. Quel che Monti ci ha offerto ieri è una visione dei problemi della società italiana al tempo stesso scontata e nuovissima. Scontata perché, come ha sottolineato egli stesso in un passaggio del suo discorso, le misure per uscire dalla crisi sono le stesse che «gli studi dei migliori centri di ricerca italiani» invocano da anni. Nuovissima perché mai, in nessun discorso dei precedenti presidenti del Consiglio, le priorità del Paese sono state enunciate con altrettanta forza, e in un ordine così preciso.

In questo senso la discontinuità c'è stata davvero, ed è stata una discontinuità con tutti i governi dell'ultimo decennio, non solo con l'ultimo governo Berlusconi.

Qual è il nucleo di tale discontinuità? Qual è l'idea forte, non ovvia, del governo cui il Parlamento si appresta ad accordare la fiducia?

Ognuno di noi, è chiaro, non può che aver provato un moto di gioia, per non dire di felicità, al solo sentir enunciare credibilmente, alcune idee-chiave: responsabilità, promozione del merito, lotta contro i privilegi, riduzione dei costi della politica, valorizzazione del talento dei giovani e delle donne. Però il punto cruciale, il punto che segna una vera svolta rispetto al passato, è la priorità assegnata alle misure per la crescita. Una priorità basata su una amara, per non dire spietata, constatazione riguardo al passato: «l'assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti». E al tempo stesso un messaggio di speranza, perché non si limita ad annunciare nuovi sacrifici, ma ci chiama tutti a raccolta, per far sì che i sacrifici servano a migliorare la nostra vita e quella dei nostri figli. Non a caso, cercando di definire il nuovo esecutivo, Mario Monti ha scelto l'espressione «Governo di impegno nazionale», a sottolineare il contributo attivo che spetterà ad ognuno di noi.

Nel suo discorso di insediamento Monti ha detto in modo piuttosto chiaro che il problema del nostro enorme debito pubblico non lo risolveremo né con una gigantesca imposta patrimoniale, né con lo smantellamento dello Stato sociale, né con la lotta all'evasione fiscale, ma adottando tutte le misure necessarie per modernizzare finalmente l'Italia e consentirle così di tornare a crescere. E fra tali misure ha indicato non solo quelle che producono effetti nel periodo mediolungo, come le liberalizzazioni, ma anche l'unica misura che ha qualche possibilità di produrre effetti significativi nel breve periodo: un significativo abbassamento delle aliquote che gravano sui produttori di ricchezza, ossia lavoratori e imprese.

L'idea centrale di Monti, in altre parole, pare essere quella di utilizzare sia i proventi della lotta all'evasione, sia i margini di manovra impliciti nella delega fiscale, per cambiare radicalmente la composizione del gettito: aliquote più basse su lavoratori e imprese, finanziate contrastando il sommerso e aumentando il prelievo su consumi e patrimoni. Sottostante a tale idea vi è la convinzione che la montagna del debito pubblico italiano - quasi 2000 miliardi di euro - non possa essere seriamente intaccata imponendo anni e anni di lacrime e sangue ai contribuenti, ma solo chiamando le migliori energie del Paese a far crescere un'altra montagna, quella della ricchezza prodotta. Tanto più che di tale ricchezza vi sarà sempre più necessità, visto che il nostro Stato sociale è largamente incompleto, privo com'è di ammortizzatori sociali universali e di politiche contro la povertà e la non autosufficienza.

«Vasto programma», avrebbe forse detto il generale De Gaulle. Ma è precisamente quello di cui l'Italia ha bisogno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9449
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« Risposta #136 inserito:: Dicembre 04, 2011, 04:49:31 pm »

4/12/2011

L'equità e la scommessa della crescita

LUCA RICOLFI

Domani Mario Monti esporrà in Parlamento le linee guida della nuova, ennesima, manovra economica, un pacchetto di misure che l’Italia è costretta a varare per salvare non solo se stessa, ma anche l’euro e le principali economie del mondo, che certamente non uscirebbero indenni da un collasso della moneta unica. L’attesa per quello che Monti dirà, e soprattutto per quello che farà, è accentuata dal particolare momento che l’Europa sta attraversando.

Anche se è ormai da diversi anni che, ad ogni piè sospinto, sentiamo ripetere che «siamo a un passaggio decisivo», che il Paese è «sull’orlo del baratro», che sta passando «l’ultimo treno», l’impressione è che questa volta si sia davvero a un bivio, a uno di quei momenti in cui, per riprendere un’immagine cara a Max Weber, il treno della storia può imboccare binari radicalmente differenti. Lo si capisce dall’attenzione quotidiana, quasi spasmodica, dei giornali stranieri alle vicende dell’economia italiana.

E lo si deduce dal clima di attesa per il Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi, un appuntamento il cui esito potrebbe precipitare l’Europa in una crisi definitiva, oppure - speriamo - aprire una fase sostanzialmente nuova, di rafforzamento accelerato delle istituzioni economiche europee, superando la fase di incertezza e paralisi che ci ha portato al marasma attuale.

In questo clima di preoccupata attesa colpisce la «piccolezza» del dibattito italiano, il consueto riproporsi delle preoccupazioni elettorali dei partiti che sostengono il governo Monti. L’attenzione sembra quasi interamente concentrarsi su questioni di equità, che naturalmente ognuno intende a modo proprio, nel senso che «equi» appaiono solo i provvedimenti che non colpiscono la propria base elettorale. Eppure la vera posta in gioco di questa manovra non è affatto l’equità, ma è il futuro del Paese. L’equità può essere importante per far accettare i provvedimenti più impopolari, ma la qualità della nostra vita futura non dipenderà da quanto la manovra sarà stata «giusta» (qualsiasi cosa ognuno di noi intenda con questo termine), ma da quanto sarà stata efficace.

Ma che cosa può rendere efficace la manovra?
Secondo diversi osservatori (fra i più autorevoli, Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera di venerdì scorso) il punto fondamentale non è l’entità della manovra, ossia il fatto che la correzione sia di 15, 20 o 25 miliardi, ma è la chiarezza con cui si riesce a comunicare ai mercati che l’Italia «ha capito l’origine dei suoi mali», che questa volta fa sul serio, che è disposta a cambiare rotta e a fare i necessari sacrifici. I mercati, e famigerati spread (il sovracosto del nostro indebitamento pubblico), «sono influenzati molto da aspetti psicologici, dalle aspettative sul futuro, dalla fiducia nel Paese». Di qui la speranza che, anche se le riforme liberali annunciate dal governo potranno produrre effetti reali solo fra qualche anno, il loro effetto segnaletico, o di annuncio, basti a calmare i mercati, ridurre gli spread, abbassare il costo del debito pubblico, liberare risorse per il credito alle aziende.

Io mi auguro che questa visione ottimistica del funzionamento delle economie si riveli sostanzialmente corretta. Mi auguro che il prestigio di Monti, il miglior presidente del Consiglio che il Paese poteva scegliere in questo momento, basti a convincere gli «altri», ossia istituzioni europee, mercati, investitori, a scommettere sull’Italia. Ma mi permetto di insinuare un dubbio: non si tratta solo di convincere, di persuadere, di lanciare segnali di affidabilità. Se l’Italia non cresce più, e anche per il futuro è destinata a non crescere, è certamente a causa delle riforme mancate (infrastrutture, liberalizzazioni, giustizia, burocrazia, eccetera), ma è anche - forse ancora di più - a causa di un problema semplice, elementare, che capirebbe anche un bambino: l’insostenibilità dei suoi costi di produzione.

Finché i nostri produttori di ricchezza avranno un handicap dell’ordine del 30% su tutte le voci di costo fondamentali (energia elettrica, imposte societarie, contributi sociali) il nostro tasso di crescita resterà sempre indietro rispetto a quello degli altri, anche dovessimo attuare tutte le riforme a costo zero che tecnocrati e professori predicano da decenni. Se quasi nessun produttore straniero investe in Italia, se anche chi già c’è e sarebbe disposto a rimanerci non si stanca di far intendere che potrebbe levare le tende (vedi le polemiche di questi giorni sulle dichiarazioni di Marchionne), non è solo perché in Italia non si può licenziare, c’è la cattivissima Fiom, la giustizia civile è lenta e il fardello burocratico è da manicomio. Il fatto che in Italia ci siano pochi posti di lavoro (specie per giovani e donne), e pochissimi investimenti stranieri, dipende pesantemente dal mero fatto che da noi produrre costa troppo.

Ecco perché, alla fine, la prima cosa che cercherò di capire della manovra che si sta per varare non sarà se è equa, o se dà più fastidio agli elettori di Alfano o a quelli di Bersani, ma se ha ragionevoli possibilità di far ripartire la crescita. Possibilità basate non solo sulla volubilità psicologica dei mercati (pronti ad apprezzare ogni segnale di serietà) ma, più prosaicamente e ragionieristicamente, sulla dura realtà dei conti aziendali. Quale che sia il saldo finale, la domanda cruciale è: quanto costerà la manovra in termini di provvedimenti (come la riduzione dell’Irap) il cui effetto sia di incidere direttamente sui costi di produzione?
Se la risposta sarà «solo 2-3 miliardi», mi sarà difficile, visto che la manovra sarà comunque una mazzata sui consumatori, non pensare che i suoi effetti recessivi siano destinati a prevalere su quelli di rilancio della crescita. Se la risposta fosse invece «più di 5 miliardi», con conseguente boccata di ossigeno a chi ha ancora voglia di lavorare e produrre in Italia, qualche speranza mi sentirei di coltivarla. Se non altro perché, per quanto suggestionabili, i mercati qualche calcolo lo sanno ancora fare.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9511
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« Risposta #137 inserito:: Dicembre 22, 2011, 12:39:39 pm »

22/12/2011

Abbiamo illuso i giovani

L'orientamento è pubblicità

Su La Stampa di lunedì 19 il lettore «Ermanno» raccontava il suo percorso scolastico, la scelta delle superiori, la delusione per il livello di preparazione e l’impossibilità di accedere a molte facoltà universitarie. Oggi fa il panettiere


Caro Direttore,
mi sono commosso e arrabbiato, leggendo la lettera di Ermanno pubblicata lunedì nella tua rubrica. Ermanno, che ha oggi 24 anni, proviene da una famiglia operaia e dice di avere fatto l’errore più grande iscrivendosi al liceo sociopsicopedagogico. Un liceo che gli ha insegnato ben poco, e proprio per questo gli ha sbarrato la strada alle facoltà universitarie «più quotate in termini di aspettativa professionale». Oggi fa il panettiere, e vorrebbe salvare almeno chi quella scelta non l’ha ancora fatta: per questo ti ha scritto, per questo conclude la sua lettera invocando la chiusura di quel tipo di liceo (oggi pretenziosamente ribattezzato «liceo delle scienze umane»).

Io insegno una materia difficile (Analisi dei dati) in una facoltà considerata relativamente facile (Psicologia), una di quelle facoltà cui dovrebbe preparare il liceo che Ermanno ha frequentato. Ebbene, a me da anni capita questo, durante gli esami: quando ho di fronte uno studente che ha capito poco o nulla della mia materia, è a disagio con le formule matematiche più semplici, non sa esprimersi nella lingua italiana né argomentare in modo logico, quasi automaticamente, alla fine dell’esame, mi scatta la domanda: «Scusi, che scuola superiore ha fatto?». E quasi sempre la risposta è: «Ho fatto il sociopsicopedagogico». Non conosco dal di dentro questo tipo di scuola, che avrà forse virtù che non so apprezzare, ma i risultati cognitivi che osservo direttamente sono questi.

A Ermanno vorrei dire che la situazione è ancora più brutta di quella che lui dipinge. Mediamente, il liceo sociopsicopedagogico non solo non apre le porte delle facoltà «toste», professionalizzanti, con il numero chiuso, ma non prepara bene neppure allo studio delle materie «leggere» di cui fornisce un’infarinatura. E infatti basta che una facoltà considerata facile (come sociologia, o psicologia) preveda anche solo un paio di esami difficili per rendere la vita impossibile a quegli sfortunati ragazzi che hanno scelto quel tipo di scuola superiore.
Tu a Ermanno rispondi che l’importante è l’orientamento, che le famiglie vanno «accompagnate» nella scelta delle scuole superiori o delle facoltà universitarie. Non so, a me quella dell’orientamento pare un’utopia. Prendetela come un’opinione personale e ultra-discutibile, ma lasciatemelo dire: l’orientamento oggi tende ad essere pubblicità. Nessuno può dire in pubblico la verità: quella facoltà è una buffonata, in quella scuola non si impara niente, il tale docente non sa spiegare, il tale corso di laurea è un’insalata di materie sconnesse. Esattamente come, nella sanità, nessuno può dire in pubblico - anche quando lo sa perfettamente - che un certo ospedale, un certo reparto, un certo chirurgo è pericoloso per la salute del paziente. Eppure, prima o poi, il coraggio della verità bisognerà che qualcuno se lo dia. Almeno quando si tratta dei nostri giovani, che troppe volte abbiamo illuso.

LUCA RICOLFI

Ringrazio il professor Ricolfi per avermi chiesto di intervenire rispondendo con schiettezza - da docente di una delle facoltà cui il liceo psicopedagogico dovrebbe essere propedeutico - al lettore che sulla «Stampa» di lunedì aveva sollevato il problema dell’orientamento professionale.

da - http://www.lastampa.it/_web/CMSTP/tmplrubriche/editoriali/hrubrica.asp?ID_blog=273
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« Risposta #138 inserito:: Gennaio 01, 2012, 06:48:55 pm »

31/12/2011

Come ragiona la mente dei mercati

LUCA RICOLFI


Anche ieri, come ormai succede da diverse settimane, i mercati hanno mostrato di non aver fiducia nell’Italia. Per prestare denaro a lungo termine al nostro Stato pretendono 5 punti percentuali di interesse in più (il famigerato spread) che per prestarlo alla Germania, e quasi 2 punti in più che per prestarlo alla Spagna. Ancora pochi mesi fa il nostro spread con la Germania era inferiore a 2 punti, e i mercati preferivano prestare soldi all’Italia piuttosto che alla Spagna.

E’ comprensibile che il governo e i suoi sostenitori cerchino di convincerci che lo spread non è poi così importante, che la situazione non va drammatizzata, che se dopo l’insediamento di Monti e la nuova manovra le cose non sono migliorate (anzi sono peggiorate) la colpa non è dell’Italia ma delle autorità europee.

Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ha dato la colpa alla Banca Centrale Europea, che ultimamente ha fortemente ridotto gli acquisti dei nostri titoli di Stato. Il presidente del Consiglio, per parte sua, ha chiamato in causa soprattutto il Consiglio Europeo dell’8-9 dicembre, colpevole di aver immesso troppo pochi quattrini nel fondo salva-Stati, e ha anch’egli menzionato la riduzione degli interventi della Bce a sostegno dei nostri titoli. Da più parti si continua a ripetere che la sfiducia dei mercati nell’Italia non ha riscontro nei fondamentali dell’economia, che sono molto migliori di quanto lo spread suggerirebbe.
So di avventurarmi su un terreno scivoloso, perché non ci sono abbastanza dati per valutare la plausibilità delle varie interpretazioni di quel che sta succedendo, ma vorrei egualmente porre alcune domande.

Domanda numero 1. Perché la sostituzione di Berlusconi con Monti, nonostante l’indubbia maggiore credibilità internazionale di quest’ultimo, si è accompagnata ad un aumento dello spread anziché a una sua diminuzione? Perché non si è realizzata la profezia delle opposizioni secondo cui la «discontinuità» politica rappresentata dalla rimozione di Berlusconi avrebbe ristabilito un po’ di fiducia sui mercati?
Certo si può dire che la credenza delle opposizioni era ingenua o strumentale, e che aveva perfettamente ragione Barack Obama quando diceva che i problemi dell’Italia non sarebbero certo svaniti d’incanto con la caduta di Berlusconi. E tuttavia un problema resta: perché le cose vanno peggio ora, visto che Monti è indubbiamente percepito da tutti i soggetti che contano (mercati e autorità europee) come più capace di Berlusconi di mantenere gli impegni presi?

Domanda numero 2. Se la ragione per cui il nostro spread non scende è davvero la riluttanza delle autorità europee a irrobustire il fondo salva-Stati, perché lo spread della Spagna oscilla senza una netta tendenza all’aumento o alla diminuzione, mentre il nostro mostra una chiara tendenza all’aumento? Perché fino a pochi mesi fa il nostro spread era migliore di quello spagnolo e ora è peggiore? Basta l’allentamento del sostegno della Bce a spiegare la svolta a nostro sfavore?

Domanda numero 3. Perché la situazione relativa di Italia e Spagna si è deteriorata drammaticamente nelle ultime quattro settimane, che hanno visto il nostro spread rispetto alla Spagna passare da 66 punti base a 174? Come mai questo deterioramento si è prodotto nel momento meno logico, ossia proprio quando, finalmente, un governo autorevole e nuovo di zecca varava una manovra di grande portata? Basta il comportamento delle banche spagnole, più manovrabili dal governo centrale, a spiegare la tenuta dei titoli di Stato iberici? O è il fatto di avere un’intera legislatura di fronte ad avvantaggiare il premier spagnolo, mentre il nostro presidente del Consiglio non sa se e quando i partiti che lo sostengono gli staccheranno la spina?

Non conosco la risposta a queste domande, ma un’ipotesi l’avrei. Più che un’ipotesi è un dubbio, o un tarlo. Detto nel modo più crudo, il tarlo è questo: non sarà che, ci piaccia o no, nei momenti di crisi la mente dei mercati funziona molto diversamente da come se la immaginano politici ed autorità europee?

Per essere più precisi. Non sarà che i mercati danno poca importanza all’entità degli aggiustamenti di bilancio (i saldi della manovra) e molta importanza alla sua composizione? Non sarà che, nella seconda metà di novembre, in Spagna e in Italia sono avvenuti due cambiamenti che i mercati giudicano in modo opposto?

In Spagna c’è stato un cambio di governo, da sinistra a destra, che promette di aggiustare il bilancio prevalentemente dal lato della spesa, alleggerendo vincoli e pressione fiscale sulle imprese. In Italia c’è stato un cambio di governo da destra a «non-destra» che, nonostante il contesto in cui operano le nostre imprese sia molto più sfavorevole di quello spagnolo, ha già dimostrato di puntare il grosso delle sue carte sull’aumento delle tasse (come succedeva con il precedente governo). E’ vero che la manovra Monti prevede sgravi fiscali sulle imprese per 2,5 miliardi, ma tali sgravi sono annullati dalle molte misure che aumentano i costi di produzione di lavoratori autonomi e imprese, come la maggiorazione delle aliquote contributive, le nuove imposte sugli immobili, gli aumenti del costo dell’energia.

Forse, se i mercati hanno punito l’Italia non è nonostante la manovra di Monti, ma - in un certo senso - a causa di essa. La credibilità di Monti, la sua serietà, il suo coraggio, non sono bastati per la semplice ragione che i mercati hanno colto l’impianto recessivo della manovra, nonché il carattere tuttora evanescente della cosiddetta «fase 2», quella che dovrebbe rilanciare la crescita. Spiace doverlo constatare, ma in fatto di crescita i mercati paiono credere poco agli annunci dei governi, e abbastanza alle previsioni dei grandi organismi internazionali, tipo Ocse o Fondo Monetario Internazionale.

E tali previsioni parlano chiaro: per la Spagna la crescita attesa del Pil nel 2011 è stabile a +0,8 e quella del 2012 resta positiva (+0,5). Per l’Italia la previsione 2011 è già stata ridotta di mezzo punto (da +1,1 a +0,6), mentre per il 2012 si prevede una contrazione del Pil, pari a -0,5 secondo l’Ocse e addirittura a -1,6 secondo il Centro Studi Confindustria.
Che sia per questo, perché hanno capito che in Italia - chiunque governi - la crescita è solo uno slogan, che i mercati continuano a non fidarsi di noi?

da - lastampa.it
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« Risposta #139 inserito:: Gennaio 05, 2012, 07:50:01 pm »

5/1/2012

E ora difendiamo chi produce

LUCA RICOLFI

Lo so, ci sono cose che oggi non si possono dire. Non si può parlare dell'articolo 18, non si può dire quel che ha detto Grillo, non ci si può sottrarre alla guerra santa contro gli evasori e gli speculatori, non si possono difendere i ricchi (un clima così pesante e antiliberale da indurre Alesina e Giavazzi a ricordare che la ricchezza non è una colpa). Abbiamo bisogno di certezze e di capri espiatori. La certezza di non perdere quel che abbiamo. I capri espiatori su cui scaricare ogni responsabilità per i tempi duri che viviamo.

Così, una plumbea nuvola di cecità e di conformismo sta lentamente avvolgendo un po’ tutto e tutti.

Il governo sta finalmente, faticosamente e meritoriamente aprendo il dossier delle liberalizzazioni, ma il clima che si respira è di prudenza e di sospetto, specie in materia di mercato del lavoro. Gli altolà e gli avvertimenti scattano automatici, non per quel che uno ha fatto effettivamente, ma già solo per quello che potrebbe aver pensato, o avere in animo di pensare (vedi quel che è successo al ministro Elsa Fornero, rea di aver osato dire che si doveva parlare di mercato del lavoro «senza tabù»).

In un clima siffatto, io vedo il pericolo che, nel dibattito pubblico dei prossimi mesi, si mettano da parte alcuni dati di fondo, che sono cruciali per prendere decisioni sagge, ma appaiono urticanti o «politically taboo» a quasi tutti i soggetti in campo. Quali dati? Il primo dato è che la pressione fiscale sull'economia regolare è la più alta del mondo sviluppato (intorno al 60%), e così il livello di tassazione sulle imprese, il cosiddetto Total Tax Rate (68.6%). Questo è un handicap di fondo dell'Italia, che è stato ulteriormente aggravato dalle manovre finanziarie di Berlusconi, e in misura ancora maggiore da quella di Monti. Questo livello abnorme di tassazione si accompagna da sempre a norme vessatorie nei confronti di qualsiasi violazione (anche solo formale, o di entità irrisoria) delle regole fiscali, per non parlare dei comportamenti arroganti, intimidatori, o semplicemente umilianti degli emissari del fisco, che ovviamente non sono la regola ma di cui esistono purtroppo innumerevoli testimonianze, talora drammatiche e commoventi. Mi spiace doverlo dire, ma mi sono convinto che oggi in Italia un sentimento di paura verso l'Amministrazione pubblica sia ampiamente giustificato anche quando non si sia commesso alcun errore, reato o violazione. E tutto mi fa pensare che, affamato da decenni di spesa pubblica in deficit, lo Stato stia in questi anni accentuando il suo volto rapace e intimidatorio.

Il secondo dato di fondo è la strabica selettività della repressione dell'evasione. Ci sono intere zone del Paese in cui quasi tutto è in nero, si sa perfettamente dove si annidano gli abusi più clamorosi (compreso il caporalato e varie forme di sfruttamento del lavoro degli immigrati che ricordano i tempi della schiavitù), ma si preferisce chiudere ipocritamente un occhio, concentrando l'azione sulle porzioni del Paese in cui l'evasione c'è, ma è molto più contenuta. Pur di salvare il principio astratto che il lavoro deve essere pagato decentemente e iperprotetto, Stato e sindacati tollerano di buon grado che in un quarto del territorio nazionale si possa operare in modo del tutto irregolare, non solo sul versante dei salari ma su quasi tutto il resto (dal mancato pagamento del canone Rai alla violazione di ogni norma igienica, di sicurezza, antinfortunistica, etc.). Il fatto è che se volesse intervenire contro l'illegalità, lo Stato dovrebbe militarizzare circa un quarto del territorio nazionale, e distruggere un paio di milioni di posti di lavoro, che si reggono sui bassi salari.

C'è un terzo dato di fondo, che mi pare fondamentale ora che si sta per aprire lo spinoso capitolo del mercato del lavoro: da un paio di anni l'Italia sta riducendo la sua base produttiva. Fallimenti, chiusure volontarie di attività, bassi investimenti, distruzione di posti di lavoro, si stanno susseguendo senza interruzione dal 2008. Un po' dipende da un fatto nuovissimo, e cioè che questa crisi è, dal 1945, la prima in cui si prende in considerazione non solo l'eventualità di un double dip (doppia recessione, la prima nel 2009, la seconda nel 2012), ma anche l'ipotesi che la crescita non tornerà mai più, come ha già tristemente sperimentato il Giappone negli ultimi due decenni. In queste condizioni a molti pare inutile resistere in attesa di una ripresa che forse non ci sarà né l'anno prossimo né mai. Un po', però, dipende anche da un altro dato che ci si rifiuta di vedere, e cioè che lavorare e produrre in Italia sta diventando sempre più proibitivo sul piano dei costi di produzione.

Quando dico costi di produzione, però, non intendo solo le voci che sono al centro della prossima trattativa governo-Confindustria-sindacati. E' chiaro che salari e profitti sono troppo tassati, è chiaro che le imprese medio-grandi hanno troppi vincoli, è chiaro che in Italia si fa troppo poca ricerca, è chiaro che c'è troppo poca concorrenza sul mercato interno, è chiaro che bisogna aumentare la produttività del lavoro. E tuttavia, attenzione, non possiamo esagerare con la colpevolizzazione dei produttori, siano essi le imprese (cui si rimprovera cattiva organizzazione e scarsa innovazione), i lavoratori autonomi (cui si rimprovera di evadere le tasse), o i lavoratori dipendenti (cui si rimprovera di non essere abbastanza produttivi). Come tutti, vedo anch'io diversi furbi e farabutti che evadono spudoratamente il fisco, ma sempre più frequentemente mi capita di incontrare persone per bene, che gestiscono in modo efficiente un'attività, ma si trovano ormai di fronte al dilemma se chiudere o «fare del nero», e per lo più - proprio perché sono persone oneste - scelgono di chiudere.

Il tasso di occupazione, la produttività e la competitività non dipendono solo dai rapporti fra capitale e lavoro, come sembra suggerire l'attuale enfasi sulle relazioni industriali, ma anche da alcune fondamentali condizioni esterne all'impresa: il costo dell'energia, il costo del credito, i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, il costo degli adempimenti burocratico-fiscali, l'efficienza della giustizia civile. E' ingenuo pensare che l'operaio tedesco, che guadagna di più di quello italiano, sia più produttivo essenzialmente perché più stakanovista o meglio attrezzato dal suo datore di lavoro. Il valore aggiunto di un'impresa è la differenza fra il valore della sua produzione e i suoi costi, e lo svantaggio dell'Italia su questi ultimi è abissale. Fatti 100 i costi unitari dei Paesi a noi più comparabili (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna), i costi dell'Italia sono circa 120 per la benzina, 170 per il gasolio, 250 per l'energia elettrica, 300 per i tempi di pagamento della Pubblica amministrazione, 400 per il rispetto dei contratti (senza contare gli ulteriori aggravi prodotti dalle recenti manovre «salva Italia»).

Se poi a tutto questo aggiungiamo la tassazione più pesante del mondo sviluppato, la rigidità del nostro mercato del lavoro regolare, l'enorme prelievo sul reddito e sulla ricchezza operato con le ultime manovre, il quadro si capovolge: la domanda non è più perché l'Italia non cresce, ma perché i produttori non hanno ancora gettato la spugna. Da questo punto di vista i governi che si sono succeduti negli ultimi anni mi paiono tutti molto simili. Sotto la pressione dei mercati, non hanno mancato di chiederci dei sacrifici, per «rimettere a posto i conti pubblici». Ma ben poco hanno fatto per abbassare in modo apprezzabile i costi di chi produce ricchezza, quasi a lasciar intendere che il problema della produttività riguardi essenzialmente le parti sociali. Temo sia stato un errore, e che la chiusura di tanti negozi, attività, imprese, che osserviamo così spesso oggi nelle nostre città, ne sia l'amara conseguenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9615
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« Risposta #140 inserito:: Gennaio 09, 2012, 05:42:11 pm »

9/1/2012

Occupati più italiani meno stranieri

LUCA RICOLFI


Forse non l’abbiamo ancora notato, ma nei dati su occupazione e disoccupazione comunicati pochi giorni fa dall’Istat c’è una grossa novità. Per capirla, tuttavia, dobbiamo fare un piccolo ripasso della crisi italiana.

Sul piano economico, le cose sono cominciate ad andare male nel 3˚ trimestre del 2007, con la crisi dei mutui subprime americani. Sul piano dell’occupazione, invece, la svolta negativa è intervenuta circa un anno dopo, verso la fine del 2008. In due soli anni, fra il 3˚ trimestre del 2008 e il 3˚ trimestre del 2010, sono andati in fumo circa 750 mila posti di lavoro (cui andrebbero aggiunti quelli rimasti solo nominalmente in piedi, grazie alla cassa integrazione).

Contrariamente a quello che molti credono, però, la crisi ha colpito più duramente gli italiani che gli stranieri. Nel «biennio nero» 2008-2009 gli italiani hanno perso circa un milione di posti di lavoro, mentre gli stranieri ne hanno guadagnati quasi 300 mila. In un certo senso si potrebbe persino dire che la recessione ha colpito solo gli italiani, visto che anche dopo lo scoppio della crisi l’occupazione degli stranieri non ha mai cessato di crescere, portandosi da 1 milione e 590 mila unità (inizio crisi, 3˚ trimestre 2007) a 2 milioni e 276 mila unità (ultimi dati Istat, 3˚ trimestre 2011).

Iniziata nel 3˚ trimestre del 2008, la distruzione di posti di lavoro occupati da italiani è proseguita ininterrottamente per 12 trimestri, ovvero per 3 anni pieni. Ed eccoci alla novità di cui abbiamo detto all’inizio: nell’ultima indagine Istat, relativa al terzo trimestre del 2011, per la prima volta da 3 anni l’andamento tendenziale dell’occupazione degli italiani ha riconquistato il segno «più». Nel 3˚ trimestre del 2011 (ultimo dato disponibile) il numero di italiani occupati, infatti, è aumentato di 39 mila unità rispetto a un anno prima, interrompendo una serie di variazioni negative che durava dalla seconda metà del 2008.

Ma come dobbiamo leggere questo dato? Dobbiamo leggerlo come un segnale positivo, di progressiva uscita dalla crisi?

Temo di no, ma per spiegare perché dobbiamo tornare sull’andamento rispettivo dell’occupazione straniera e italiana in questi anni, distinguendo più accuratamente le varie fasi della crisi. L’occupazione straniera è sempre cresciuta da quando esistono dati attendibili (2004) fino a oggi. L’occupazione italiana, invece, dopo essere cresciuta anch’essa negli anni pre-crisi, dalla seconda metà del 2008 (fallimento di Lehman Brothers) ha sempre perso colpi, anche se con un ritmo diverso nelle varie fasi della crisi. Fra il 3˚ trimestre del 2008 e il 3˚ trimestre del 2009 il numero di occupati italiano è diminuito a un ritmo via via più rapido. A partire dalla fine del 2009, invece, il ritmo di caduta è progressivamente rallentato, fino all’inversione di tendenza segnalata dall’ultima indagine Istat: nel 3˚ trimestre del 2011, per la prima volta da 3 anni e mezzo, al consueto aumento dei posti di lavoro occupati dagli stranieri (+120 mila) si affianca un sia pur modesto aumento di posti di lavoro occupati dagli italiani (+39 mila). Per parte loro, gli stranieri nel corso del 2011, pur continuando a conquistare posti, hanno visto assottigliarsi progressivamente i loro incrementi occupazionali: 276 mila unità nel primo trimestre dell’anno (rispetto a un anno prima), 168 mila nel secondo, 120 mila nel terzo.

Che cosa sta succedendo, dunque? Probabilmente sta accadendo qualcosa di inedito nei rapporti fra italiani e stranieri sul mercato del lavoro: dopo anni di crisi, gli italiani hanno cominciato a rendersi che non possono permettersi il lusso di andare in pensione in anticipo, accettare solo lavori qualificati, o vivere di rendita in attesa di tempi migliori. Certo non siamo ancora alla concorrenza diretta e generalizzata per i medesimi posti, ma pare abbastanza verosimile che molti italiani stiano reagendo alla crisi sia diminuendo la domanda di lavoro straniero (ad esempio licenziando colf e badanti, o diminuendone gli orari) sia cercando essi stessi di conquistare o non abbandonare posti di lavoro. Un processo di cui è forse un indizio il fatto che, negli anni della crisi, il tasso di occupazione degli anziani anziché diminuire sia aumentato, passando dal 33% al 38%.

L’impressione, insomma, è che nel mercato del lavoro le cose stiano cambiando molto rapidamente. Gli ultimi dati disponibili su base mensile (novembre) segnalano che la crisi, che nella prima parte del 2011 aveva concesso una tregua, sta tornando a distruggere posti di lavoro (-67 mila rispetto a novembre 2010). Nello stesso tempo, l’andamento rispettivo dell’occupazione italiana e straniera suggerisce che gli italiani non siano più intenzionati a stare alla finestra (non se lo possono più permettere!), e che probabilmente la fin qui inarrestabile conquista di posti di lavoro da parte degli stranieri è destinata a rallentare sensibilmente, se non a interrompersi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9628
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« Risposta #141 inserito:: Gennaio 23, 2012, 09:29:57 am »

23/1/2012

Due ragioni per essere ottimisti

LUCA RICOLFI

Con il decreto-legge sulle liberalizzazioni, che il governo preferisce chiamare «pacchetto di riforme strutturali per la crescita», è ufficialmente iniziata la «fase 2» del governo Monti, volta a far ripartire l’economia italiana. Nel giudicare l’efficacia delle misure fin qui delineate, tuttavia, sarebbe bene distinguere nettamente fra effetti a breve termine ed effetti di periodo medio-lungo.

Nel breve periodo sarebbe sbagliato aspettarsi grandi risultati. La realtà, purtroppo, è che la «fase 1» (la manovra di fine anno), con le sue pochissime riduzioni di spesa e i suoi moltissimi aumenti di entrata, ha avuto un impianto fortemente recessivo. Il che significa, in concreto, che le misure della «fase 2», più che far ripartire la crescita, si limiteranno ad attenuare la recessione preparata dalla «fase 1».

Altrettanto sbagliato, tuttavia, sarebbe non vedere la straordinaria opportunità che le misure delineate nel decreto-legge di venerdì scorso offrono all’Italia nel periodo medio e lungo.

Se quelle misure non saranno abbandonate o annacquate dal parlamento, e diventeranno invece il primo tassello di una strategia di scongelamento del sistema Italia, i loro frutti potrebbero essere generosi, anche se – realisticamente – credo sarà difficile raccoglierli prima di 2-3 anni.

Che cosa mi induce, contrariamente al mio solito, a un sia pure cauto ottimismo?

Essenzialmente due considerazioni. La prima è che, nonostante le previsioni di crescita dell’Italia nel 2012 si siano ancora deteriorate nelle ultime settimane, passando da –0.5% a –2.2%, il rendimento dei nostri titoli di Stato ha finalmente cominciato a scendere, non solo nel confronto con la Germania, ma anche in quello con paesi europei a noi più comparabili, come la Spagna, la Francia, il Belgio. Da circa due settimane lo spread italiano non si limita a beneficiare della boccata di ossigeno che i mercati stanno concedendo a diversi Paesi dell’area Euro, ma sta migliorando la sua posizione relativa rispetto a diversi paesi. Se anziché calcolare lo spread (rispetto alla Germania) calcoliamo lo «spread dello spread», ossia il nostro grado di penalizzazione rispetto alla media di Spagna, Francia e Belgio, non possiamo non registrare con soddisfazione che nelle ultime due settimane la nostra situazione è migliorata di 54 punti base, che salgono a 76 se il confronto è con la sola Spagna, un Paese rispetto al quale, fino a pochissimo tempo fa, eravamo invece in costante peggioramento. È difficile stabilire con certezza a che cosa si debba questa sorta di inversione del giudizio dei mercati, ma è difficile negare che gli ultimi segnali siano relativamente confortanti: la situazione è sempre gravissima (paghiamo oltre 4,3 punti di interesse più della Germania), ma il trend delle ultime due settimane è decisamente incoraggiante.

C’è anche un’altra considerazione che mi rende meno scettico del solito. Il decreto sulle liberalizzazioni, proprio perché è incompleto, pieno di limiti e di omissioni, offre a tutti gli attori in campo, e innanzitutto ai partiti, la possibilità di scegliere fra due strategie: prendere le distanze dal decreto perché si spinge troppo in là, facendo molto di più di quanto centrosinistra e centrodestra hanno saputo fare negli ultimi 15 anni, oppure andare oltre il decreto, combattere perché lo spettro delle liberalizzazioni sia più completo. Ferrovie, porti, aeroporti, mercato del lavoro, valore legale del titolo di studio, per fare solo qualche esempio, sono tutti ambiti su cui il decreto interviene poco o niente, e che invece meriterebbero di essere investiti da ulteriori ondate di liberalizzazioni.

Il presidente del Consiglio, con la sua dichiarazione di ieri sulla non intangibilità dell’articolo 18, sembra più che mai determinato ad andare avanti nella sfida delle liberalizzazioni, senza cedere alla retorica degli «opposti distinguo», secondo cui «questo si deve fare, quest’altro non è una priorità».

Più difficile è valutare le strategie di Pd e Pdl. Il Pd, almeno a parole, sembra criticare il governo perché non liberalizza abbastanza. Il Pdl, invece, sembra preoccupato che si liberalizzi troppo. Ma entrambi potrebbero scambiarsi i ruoli non appena si parlerà di mercato del lavoro e di articolo 18, con Bersani pronto ad isolare i riformisti à la Pietro Ichino, e Berlusconi tentato di sostenere una riforma radicale del mercato del lavoro.

Vedremo come andrà a finire. Però fin da ora almeno una cosa possiamo dirla. Il peggio per l’Italia sarebbe che i due maggiori partiti cercassero di riconquistare consensi cavalcando il malcontento delle rispettive basi sociali, con Berlusconi che soffia sul fuoco della protesta di taxisti e professionisti, e Bersani che legittima le resistenze sindacali a una riforma vera del mercato del lavoro. Il meglio per l’Italia sarebbe che Monti portasse fino in fondo la strategia delle liberalizzazioni, e i due maggiori partiti raccogliessero la sfida, pungolando il governo a fare di più e non di meno di quello che sta facendo.

Detto in modo più brutale, il peggio per l’Italia sarebbe che Pd e Pdl cercassero di arrivare alle elezioni con l’intento di cambiare nettamente rotta rispetto al governo Monti, interrompendo un’azione che ha disturbato troppi interessi. Mentre il meglio sarebbe che cercassero di arrivare alle elezioni competendo fra loro per portare il più avanti possibile un’opera che ha dovuto attendere la nascita di un governo di professori per essere avviata, ma che alla fine toccherà alla politica portare a termine.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9683
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« Risposta #142 inserito:: Febbraio 05, 2012, 03:54:45 pm »

5/2/2012

Disoccupati e la strada verso il nulla

LUCA RICOLFI

Disoccupazione giovanile, articolo 18. Prima di discuterne, forse bisogna ricordare alcune verità.

La prima è che i giovani disoccupati non sono affatto 1 su 3, come da mesi si sente ripetere senza tregua, ma 1 su 14. Per l’esattezza: non il 33%, bensì il 7,1% della popolazione nella fascia dai 15 ai 24 anni. Più o meno quanti erano nel 2006-2007 quando l’economia cresceva, molti di meno che negli Anni Novanta e nei primi Anni Duemila. In Spagna, i giovani disoccupati sono circa il triplo che da noi (20%), nel Regno Unito il doppio (14%), in Grecia e Portogallo sono il 12%, in Svezia e Danimarca il 10%, in Francia, Finlandia e Belgio l’8%.
Fra i Paesi con cui di solito ci compariamo, solo la Germania sta meglio di noi, con il suo 4,8% di giovani disoccupati.

Da dove salta fuori l’idea che «un giovane su tre è senza lavoro»? Deriva dal fatto che, anziché prendere come base il numero totale di giovani, si prende il numero di giovani «attivi» sul mercato del lavoro (occupati o in cerca di lavoro), che in Italia sono appena il 25% del totale, mentre in Paesi come la Germania o il Regno Unito sono più del doppio. Poi, nel fare i titoli su giornali e televisioni, ci si «dimentica» che si sta parlando di una minoranza attiva (1 giovane su 4), e si parla del tasso di disoccupazione giovanile come se descrivesse la condizione dei giovani in generale, anziché quella dei giovani che hanno scelto di lavorare.

E qui veniamo alla seconda verità che, a quanto pare, non incontra il favore dei media. L’anomalia dell’Italia non è che i suoi giovani non trovano lavoro, ma il fatto che non lo cercano. Fortunatamente non sono presidente del Consiglio, e quindi non sarò costretto a smentire quella che - detta da un politico - suonerebbe come una tremenda gaffe, ma che invece è la pura verità: nel confronto internazionale i nostri giovani si distaccano da quelli della maggior parte dei Paesi avanzati non certo perché più colpiti dalla tragedia della disoccupazione, ma precisamente per la ragione opposta: perché ritardano enormemente il loro ingresso nel mercato del lavoro.

Nei Paesi normali ci si laurea intorno ai 22-23 anni, e si comincia a lavorare relativamente presto, spesso contribuendo al bilancio familiare e alle spese dell'istruzione, che non sono basse come da noi. In Italia ci si laurea tardi, spesso in prossimità dei 30 anni, e si comincia la ricerca di un lavoro a un’età in cui negli altri Paesi si è accumulata una cospicua esperienza professionale. E quel che è ancora più drammatico è che, nonostante la loro relativa assenza dal mercato del lavoro, i giovani italiani sono molto indietro nei livelli di apprendimento già a 15 anni (vedi i risultati dei test Pisa), e hanno maggiori difficoltà a conseguire una laurea, per quanto a lungo ci provino. E infatti la gioventù italiana un primato ce l’ha: è quello del numero di giovani perfettamente inattivi, in quanto non lavorano, né studiano, né stanno apprendendo un mestiere (sono i cosiddetti Neet: Not in Education, Employment or Training).

Questo, sfortunatamente, è lo scenario sul quale si sta aprendo la discussione sul mercato del lavoro. Uno scenario di cui i giovani non sono direttamente responsabili, perché - come ha giustamente osservato Antonio Polito qualche giorno fa sul Corriere della Sera - se le cose sono arrivate a questo punto lo si deve innanzitutto «a noi, la generazione dei baby boomer, la prima generazione ad aver disobbedito ai padri e la prima ad aver obbedito ai figli».

Siamo noi che, con i nostri partiti e sindacati, abbiamo edificato un sistema per garantire il lavoro, l’inamovibilità, la pensione ai più organizzati fra noi stessi. Siamo noi che, nella scuola e nell’università, abbiamo permesso che si abbassasse drammaticamente l’asticella del livello degli studi, trasformando istituzioni un tempo funzionanti in vere e proprie fabbriche di ignoranza. E siamo sempre noi che, nella famiglia, «invece di fare i genitori ci siamo trasformati a poco a poco nei sindacalisti della nostra prole, sempre pronti a batterci perché venga loro spianata la strada verso il nulla» (sono sempre parole di Polito).

Ed eccoci al punto. Io spero e confido che il governo Monti non perda per strada la determinazione che finora lo ha indotto a promettere una vera riforma del mercato del lavoro. Ma nessuna riforma cambierà davvero le cose se anche noi, tutti noi, giovani e adulti, non ci renderemo conto che un intero modo di pensare, un’intera mentalità tipica del nostro Paese è giunta al capolinea. Continuare come in passato non è più possibile. Far credere ai giovani che potranno godere degli stessi privilegi della nostra generazione significa solo prolungare l’inganno che ci ha condotto alla situazione attuale. Una situazione retta da un patto scellerato fra due generazioni: la generazione dei padri e delle madri, iperprotettiva e per nulla esigente, e la generazione dei figli, spensierata finché l’età e le risorse familiari glielo consentono, e disperata quando deve cominciare a marciare sulle proprie gambe.

Il mercato del lavoro italiano, da decenni diviso fra garantiti e non garantiti, è il luogo nel quale il patto scellerato ha preso forma e si è cristallizzato. Di quel patto scellerato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è il tassello principale, ma solo il simbolo. Farlo lentamente evaporare non potrà produrre né le devastazioni previste dai sindacati, né la crescita immaginata dagli imprenditori. E tuttavia non toccarlo per niente, oltre a mandare un segnale negativo ai mercati, rischierebbe di rimandare ancora una volta il momento in cui - finalmente - cominceremo a fare un vero bilancio e ad affrontare a viso aperto i nostri figli.

I quali hanno tutto il diritto di entrare in un mercato del lavoro più dinamico e più equo, in cui ci siano più opportunità e l’inamovibilità dei padri non sia pagata dalla precarietà dei figli. Ma hanno anche il diritto di sapere quel che finora gli abbiamo nascosto: che studiare sotto casa, poco, male, e irragionevolmente a lungo conforta le loro mamme ma non spiana loro alcuna strada.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9736
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« Risposta #143 inserito:: Febbraio 25, 2012, 04:50:06 pm »

24/2/2012

Ma non siamo ancora fuori pericolo

LUCA RICOLFI

A 100 giorni dal suo insediamento, sembra naturale fare un primo bilancio del governo Monti. Ma non è facile, perché tutto dipende dalla prospettiva che si adotta. Perciò dichiarerò subito la mia: la mia prospettiva è il confronto con quel che c’era prima. Da questa angolatura, è difficile non tirare un sospiro di sollievo: finalmente abbiamo un governo non imbarazzante, e non mi riferisco solo all’ultimo Berlusconi, ma a quel cocktail di furbizia, incompetenza e immobilismo che - secondo diverse miscele e proporzioni - ha caratterizzato tutti i governi degli ultimi 15 anni. Nei suoi primi tre mesi di attività il governo Monti ha cambiato radicalmente lo stile della politica, ha preso alcune decisioni coraggiose (pensioni), e altre si appresta a prenderne (mercato del lavoro), se le cosiddette parti sociali non lo bloccheranno.

La stessa critica che più mi sentirei di muovergli, e cioè di non avere fatto abbastanza in materia di concorrenza, liberalizzazioni e pressione fiscale sui produttori, perde gran parte della sua forza se si pensa alla timidezza, all’opportunismo e all’impotenza dei governi precedenti.

Anche se i maggiori frutti dell’azione di questi mesi si potranno vedere solo fra qualche anno, resta il fatto che i segnali che il «governo dei tecnici» ha mandato al Paese sono di enorme importanza: gli italiani stanno capendo che un altro modo di fare politica è possibile, e in molti cominciamo a pensare che - alle prossime elezioni - nessuno riuscirà a farci ingurgitare la solita minestra, sia essa di centro, di destra o di sinistra.

Persino la decisione di ritirare la candidatura dell’Italia a ospitare le Olimpiadi del 2020, contestata da molti politici ma approvata dalla maggior parte dei cittadini, ha un importantissimo valore simbolico. Essa certifica che certi lussi del passato non possiamo più permetterceli, e che la situazione economica del Paese resta grave. Ma quanto grave? Su questo, e solo su questo, vorrei permettermi di sollevare qualche dubbio. A mio parere il clima di scampato pericolo che si respira in questi giorni, dopo l’ennesima toppa alla situazione greca, non è pienamente giustificato. Da più parti si sente affermare che, grazie al prestigio di cui il governo Monti gode, lo spread - questa misura della sfiducia dei mercati nell’Italia - è crollato di 200 punti, ed è destinato a cadere di altri 200 punti nel caso l’imminente riforma del mercato del lavoro risulti incisiva, con annessa abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Non so quanto sia giustificata quest’ultima aspettativa, né penso che lo sapremo mai, perché ritengo che Monti - a causa dell’opposizione dei sindacati - non potrà seguire i consigli dei suoi colleghi Alesina e Giavazzi, che da settimane lo implorano di intervenire sulle regole del mercato del lavoro in modo radicale, evitando di varare una riforma troppo timida e prudente, e perciò dannosa.

Sul primo punto, ossia sull’idea che il governo Monti abbia «tirato giù» lo spread di 200 punti, mi sentirei invece di sollevare più di una perplessità. Per valutare l’impatto del nuovo governo, la misura migliore non è lo spread dell’Italia rispetto alla Germania, che dipende anche dalla fiducia nell’euro e dalle preoccupazioni di un tracollo della moneta unica, ma è lo spread dell’Italia rispetto a quello dei Paesi a noi più comparabili, in quanto né virtuosi come la Germania, né sull’orlo del baratro come Grecia, Portogallo e Irlanda. Penso alla Spagna, ma anche a Francia e Belgio, i cui tassi di interesse sui titoli pubblici seguono uno schema non dissimile da quello dei titoli italiani. Ebbene, se si calcola questo secondo tipo di spread - una sorta di «spread dello spread» (SdS), ovvero di spread dell’Italia rispetto a Spagna-Belgio-Francia, si scoprono alcune cose interessanti.

La prima, molto positiva, è che a partire dalla metà di gennaio, e cioè da almeno 5 settimane, lo spread dello spread è in costante diminuzione: era a quota 263 nella settimana dal 9 al 13 gennaio, è sceso di quasi 100 punti (SdS=168) la scorsa settimana, ed è ulteriormente sceso nei primi giorni di questa settimana (ieri era a 164). Accanto a questo dato confortante, che ci fa sperare che il trend continui nelle prossime settimane, non si possono non registrare almeno tre motivi di preoccupazione. Il primo è che, rispetto al picco toccato a metà novembre, quando il presidente Napolitano e i mercati indussero Berlusconi a rassegnare le dimissioni, lo spread dello spread non è affatto sceso di 200 punti, ma solo di 70 punti (da 234 a 164). Il secondo è che, a tutt’oggi, lo spread dello spread resta peggiore che nella drammatica crisi di inizio agosto 2011, quando il Parlamento fu riaperto precipitosamente per fronteggiare un’emergenza finanziaria che poteva avere esiti drammatici: allora aveva toccato il livello record di 149, oggi - nonostante il netto miglioramento delle ultime settimane - resta a livello 164, ossia 15 punti peggiore di allora. Il fatto è che, contrariamente a quanto si è indotti a credere dal favore di stampa di cui gode il governo Monti, il momento peggiore degli ultimi 12 mesi non è stato né durante la crisi di agosto (SdS=149), né durante quella di novembre (SdS=234), bensì nell’ultima settimana dell’anno, quando - con il governo Monti insediato da cinque settimane - lo spread dello spread sfiorò i 300 punti (Sds=294), per poi iniziare la discesa che nelle ultime settimane lo ha portato vicino a 160.

C’è poi un terzo e ultimo motivo di preoccupazione. Fino a 6 mesi fa (prima settimana di agosto), il nostro spread rispetto alla Germania era sempre stato migliore di quello della Spagna che - nel giudizio dei mercati è il Paese a noi più comparabile. Ma da allora, né sotto Berlusconi né sotto Monti, siamo mai riusciti a riprenderci questo sia pure modesto primato. Questa settimana, nonostante quasi un mese e mezzo di costanti progressi, lo spread dell’Italia è ancora 39 punti-base sopra quello della Spagna. Ciò significa che, nonostante apprezzino gli sforzi del nuovo governo italiano, i mercati giudicano la situazione debitoria del nostro Paese tuttora più preoccupante di quella spagnola, dove il neoeletto governo di Rajoy sta tentando di varare alcune importanti riforme.

Questi motivi di preoccupazione, più che indurci al pessimismo, dovrebbero farci riflettere su quanto sia ancora lungo il cammino che sta davanti al nostro Paese. Un importante pezzo di strada è già stato percorso, i mercati e la comunità internazionale apprezzano quello che l’Italia sta facendo, ma sarebbe un errore - un tragico errore - fermarci qui, solo perché non siamo più sull’orlo del baratro.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9811
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« Risposta #144 inserito:: Marzo 19, 2012, 04:40:21 pm »

19/3/2012

Né destra né sinistra: meno tasse

LUCA RICOLFI

Ogni tanto se ne riparla. La settimana scorsa, poi, è stato un profluvio: quasi simultaneamente, Corte dei Conti, Banca d’Italia, Garante per la privacy l’hanno ripetuto: in Italia le tasse sono troppo alte, mentre le garanzie a tutela del cittadino onesto sono insufficienti, nonché in preoccupante declino.

Poi però, come è appena successo nei giorni scorsi, il tema rientra e si torna a dibattere delle solite cose, rimandando al futuro ogni intervento di riduzione delle aliquote.
Insomma, possiamo anche rallegrarci che ogni tanto se ne riparli, ma dovremmo essere coscienti che sono parole al vento. I governi hanno altre priorità, e i cittadini probabilmente anche.

Perciò, anziché lodare l’ennesimo effimero sussulto anti-tasse, vorrei cercare di rispondere alla domanda: perché, verosimilmente, non se ne farà nulla nemmeno questa volta?
Una prima ragione, a mio parere, è che il tema delle tasse ha un sapore ideologico troppo forte. Diciamolo brutalmente: se chiedi meno tasse sei bollato come uno «di destra», nella migliore delle ipotesi come un «vecchio liberale».

Sì, certo, c’è stato anche un tempo - dopo i successi delle rivoluzioni liberiste di Reagan e della Thatcher - in cui lo slogan «meno tasse» si era fatto strada nella cultura progressista, quantomeno nei paesi in cui la sinistra non era troppo conservatrice. Ma quel tempo ora è finito, e la sinistra di oggi è completamente rientrata nei ranghi: ridurre le tasse non è una sua priorità, e persino la destra - spaventata dalla crescita del debito pubblico - preferisce dedicarsi a temi meno scottanti. Ridurre le tasse è tornato ad essere uno slogan di destra, che - tuttavia - la destra stessa ha paura di agitare.

C’è però un’altra ragione, molto più importante perché più concreta, per cui i governi riescono solo a parlare di riduzione delle tasse, raramente passando dalle parole ai fatti: ed è che tutti i governi, quale che sia il loro colore politico, letteralmente vivono di tasse. È grazie alle tasse che possono spendere, ed è spendendo che si procacciano i voti degli elettori, ossia la base stessa del proprio potere. La macchina dei favori elettorali richiede sempre più soldi, e i soldi si possono trovare solo in due modi: facendo debiti e mettendo più tasse. Finita l’era dei debiti - perché i mercati hanno detto basta - restano solo le tasse.

Ma la ragione più insidiosa che rende permanentemente inattuale il programma della riduzione delle aliquote è, a mio parere, di natura culturale, per non dire teorica. Ed è che la teoria che dovrebbe stare alla base di un programma politico di riduzione delle tasse è oggi minoritaria, non solo in Italia ma nella maggior parte delle società avanzate. Non saprei dire perché sia così, ma è così.

L’unico argomento veramente forte a favore della riduzione delle tasse è che aliquote troppo alte soffocano la crescita e noi - con il debito pubblico che ci ritroviamo - non possiamo permetterci un altro decennio di stagnazione. Il problema è che questo tipo di analisi, che sarebbe parsa semplicemente ovvia anche solo una decina di anni fa, oggi non è più tale. Oggi il senso comune di osservatori, studiosi e analisti è completamente cambiato. Per molti vale l’ingenuo corto-circuito che collega le minori tasse alla rivoluzione liberista, e la rivoluzione liberista alla crisi degli ultimi anni: se il liberismo ci ha portati all’attuale disastro, pensano costoro, non è ripristinandolo che ne usciremo. Ma anche fra gli studiosi, che non si basano su impressioni ma su ricerche, le cose sono molto cambiate da allora. Oggi la teoria della crescita snobba le tasse, e punta tutte le sue carte su leve come capitale umano, innovazione, tecnologie informatiche, investimenti in ricerca e sviluppo, liberalizzazioni, concorrenza. Tutte cose che o non costano nulla (liberalizzazioni), o comportano più spese (capitale umano), non certo un minore prelievo fiscale.

Si potrebbe dire, semplificando un po’ per chiarire, che il pendolo ideologico della teoria della crescita si è spostato. La teoria della crescita ha avuto quasi sempre un’anima liberale, perché non ha mai smesso di credere nel ruolo cruciale del mercato, della concorrenza, del libero scambio, fino alla recente totale adesione al paradigma della globalizzazione. Ma accanto a questo nucleo teorico liberale (di cui molti esponenti dell’attuale governo italiano sono convinti assertori) nel dibattito sulla crescita degli ultimi cinquant’anni sono sempre stati presenti almeno due altri elementi portanti: l’idea della basse aliquote, e l’idea degli investimenti in capitale umano. Insomma un’anima che i più considererebbero di destra (meno entrate fiscali) e un’anima che considererebbero di sinistra (più spese per l’istruzione). Negli Anni 90 il pendolo della teoria oscillava verso destra, oggi oscilla verso sinistra.

Io penso però che sia sbagliato, in questo campo, scegliere secondo parametri ideologici. Non solo perché l’evidenza empirica disponibile suggerisce che tutti e tre i gruppi di fattori - istituzioni economiche efficienti, alta qualità dell’istruzione, basse aliquote sui produttori - hanno un impatto elevato (e di entità comparabile) sul tasso di crescita, ma perché un paese che vuole tornare a crescere dovrebbe partire - innanzitutto da un’analisi spietata dei propri ritardi. La prima cosa che un Paese dovrebbe chiedersi non è se preferisce una politica di destra o di sinistra, ma qual è la leva più potente che ha a disposizione, e quanto tempo ha di fronte a sé. Nel caso dell’Italia la risposta è che, se come termine di paragone si prendono le economie avanzate (Paesi Ocse), i suoi due ritardi fondamentali - e dunque le leve su cui ha maggiori margini di miglioramento - sono le mancate liberalizzazioni e l’elevatissima pressione fiscale sui produttori. Con un’importante differenza, tuttavia: che le liberalizzazioni non potranno produrre effetti apprezzabili prima di 5-10 anni, mentre una riduzione incisiva delle aliquote sui produttori può darci un 1% di crescita in più nel giro di 1-2 anni.

In breve, vorrei dire che sulla crescita sarebbe bello che si cominciasse a ragionare in termini più empirici e pragmatici. Si può essere di destra o di sinistra, ma si dovrebbero preferire le politiche di cui il proprio paese ha bisogno in un dato momento storico. Essere europei, forse, significa anche questo. Un cittadino europeo, oggi, dovrebbe preferire politiche «di sinistra» dove e quando la crescita è frenata dalla bassa qualità del capitale umano, politiche «di destra» dove e quando la crescita è soffocata dalle tasse che gravano su chi produce ricchezza. E l’Italia, che piaccia o no, non ha (ancora) il record dell’ignoranza, ma detiene saldamente quello delle tasse.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9899
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« Risposta #145 inserito:: Aprile 07, 2012, 11:55:37 am »

7/4/2012

Chi difende le ragioni del Nord

LUCA RICOLFI

In politica c’è sempre uno zoccolo duro di militanti «senza se e senza ma», completamente indifferenti ai fatti, del tutto impermeabili ai test di realtà. Per cui non si può escludere che, nonostante la vergogna di questi giorni, la Lega resista ancora un po’ di anni, come i nostri vari partiti comunisti, sopravvissuti quasi vent’anni alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’Unione Sovietica. E tuttavia, dal punto di vista politico, l’esperienza della Lega va considerata al capolinea.

Non solo perché il cocktail di nepotismo, arroganza e cialtroneria scoperchiato dall’inchiesta è difficile da digerire per qualunque palato, ma perché c’è una differenza anche politica - non solo morale - con i partiti comunisti duri e puri, alla Bertinotti e Diliberto.
Anzi, per molti versi il caso della Lega è l’esatto opposto di quello dei partiti comunisti. I partiti «falce e martello» sono scomparsi per eccesso di fedeltà all’utopia del comunismo, un’idea che ormai non reggeva più. La Lega è destinata a uscire di scena non solo per gli scandali di questi giorni ma perché ha tradito troppo presto il sogno federalista, un’idea più che mai attuale.

Per capire come e perché la Lega si sia allontanata dal suo sogno dobbiamo tornare un po’ indietro e mettere in fila alcuni fatti politici, tutti ben anteriori alle vicende di questi giorni.
Il primo in ordine di tempo è l’abbandono, poco dopo la vittoria elettorale del 2008, della proposta di legge federalista della Regione Lombardia, nonostante quel progetto - risalente all’estate del 2007 - facesse parte integrante del programma elettorale della Casa delle Libertà. La legge che ne prende il posto (legge 42 del 5 maggio 2009) è già un notevole passo indietro rispetto alla proposta originaria, perché ne annacqua tutti i meccanismi fondamentali, cancellandone gli automatismi e restituendo un ruolo centrale alla mediazione politica. Ma perché la Lega accetta di annacquare il suo disegno originario, e si imbarca in una estenuante trattativa con le forze che remano contro il federalismo?

Una ragione fondamentale è il ricordo dello smacco dell’autunno 2006, quando un referendum istituzionale indetto dall’opposizione aveva cancellato d’un colpo la «devolution», ossia la legge costituzionale che la Lega aveva imposto alla fine della legislatura 2001-2006 a colpi di maggioranza. Ma non è il solo motivo. Negli anni la Lega è cambiata, è diventata - al tempo stesso - sempre più ministeriale e sempre più attenta a preservare il potere locale dei suoi amministratori. Questo, in concreto, significa che i suoi dirigenti nazionali ormai si concentrano su due soli obiettivi: portare a casa una legge federalista purchessia, senza molta attenzione ai contenuti, e tutelare gli interessi del proprio ceto politico, che nel frattempo si è insediato in molti comuni, province e regioni del Centro-Nord.

E qui veniamo a un secondo ordine di fatti che scandiscono l’inizio della legislatura 2008-2013. La Lega non solo accetta di varare una legge meno incisiva di quella che aveva promesso in campagna elettorale, ma erige essa stessa una serie di ostacoli sul cammino del federalismo. Rientra in questa condotta frenante, ad esempio, il tentativo (riuscito) di annacquare la riforma dei servizi pubblici locali, un comportamento che all’inizio non riuscivo a capire, ma che mi venne chiaramente spiegato da un deputato del Nord, durante un fuorionda di una trasmissione televisiva. Quel deputato mi disse in sostanza: è vero, se introducessimo più concorrenza nei servizi pubblici locali le tariffe di luce, gas, acqua, trasporti, raccolta rifiuti potrebbero diminuire, ma a rischio di vedere molte nostre imprese (padane!) perdere gli appalti a favore di più efficienti imprese straniere. Un ragionamento che, presumibilmente, era sostenuto anche da un retropensiero meno confessabile: se introduciamo più concorrenza nei servizi pubblici molte imprese attualmente controllate dagli Enti locali potrebbero perdere gli appalti, e noi politici avremmo meno poltrone e posti di lavoro da distribuire.

Ma quella che abbiamo chiamato, forse un po’ eufemisticamente, la «condotta frenante» della Lega non si è purtroppo limitata ai servizi pubblici locali. Fin dalla primavera del 2010, di fronte ai tagli ai trasferimenti agli Enti locali, parte una mobilitazione dei sindaci del Nord, in particolare della Lombardia. I sindaci richiedono al governo centrale che i tagli non siano lineari, e tengano conto della maggiore efficienza delle amministrazioni del Nord. Guida la protesta Attilio Fontana, sindaco di Varese, presidente dell’Anci Lombardia e membro della Lega. Ma in quella occasione, come in altre mobilitazioni successive, i dirigenti nazionali della Lega non reagiscono difendendo «a Roma» le richieste degli amministratori del Nord, bensì cercando in ogni modo di dissuadere i sindaci dal manifestare il loro dissenso. Non solo. La Lega non si limita a ostacolare le richieste di «giustizia federalista» dei sindaci del Nord, ma si fa paladina delle peggiori istanze degli amministratori locali. Quando si riparla, finalmente, di ridurre i costi della politica e abolire o sfoltire le province (un altro punto del programma elettorale del centro-destra nel 2008), la Lega si batte contro i tagli al numero delle province e riesce a bloccare ogni cambiamento.

Il fatto che però, più di tutti, dà la misura dell’abbandono del sogno federalista da parte della Lega si consuma tra l’autunno del 2010 e la primavera del 2011, quando - con i primi decreti attuativi del federalismo - diventa chiaro che i tempi della riforma saranno lunghissimi: non più pochi anni come si riteneva all’inizio, non più cinque anni come si poteva desumere dalla legge 42 del 2009, bensì una decina d’anni, visto che tra decreti delegati, regolamenti, fasi transitorie varie si parla ormai di un’entrata a regime fra il 2018 e il 2019, un decennio dopo l’approvazione della legge delega sul federalismo (maggio 2009).

Ecco perché, dicevo, se la Lega scomparirà non sarà perché troppo estremista o radicale, bensì per la ragione opposta, perché troppo presto contaminata con i peggiori meccanismi della politica, e perciò dimentica della sua primaria ragione di esistenza. Chi è sempre stato anti-leghista ne gioirà, perché ha sempre considerato gli aspetti peggiori della Lega: l’ostilità al Mezzogiorno, il linguaggio volgare, la demonizzazione degli immigrati. Chi invece ha sempre visto anche le buone ragioni della Lega, ossia la critica del parassitismo e dell’eccesso di pressione fiscale, potrà solo consolarsi pensando che quelle buone ragioni la Lega le aveva ormai dimenticate da tempo.

Ma tutti, amici e nemici della Lega, almeno di un fatto dovremmo renderci conto: c’è una parte del Paese, quella più dinamica e produttiva, che continua a non riuscire a far sentire la sua voce, né con la Lega né senza, né prima di Monti né con Monti. Questa parte, ormai, era rappresentata dal partito di Bossi solo nominalmente, e in questo senso lo scandalo di questi giorni si è limitato a togliere di mezzo un equivoco. Ma il problema di dare una rappresentanza a quella parte del Paese resta, e diventa più grave ogni giorno che passa, perché è nei territori cui la Lega si rivolgeva che si produce la maggior parte della ricchezza di cui tutti beneficiamo. L’Italia può fare benissimo a meno della Lega, ma difficilmente tornerà a crescere se dimenticherà le ragioni da cui il «partito del Nord» ha preso le mosse.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9970
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« Risposta #146 inserito:: Aprile 13, 2012, 11:49:23 am »

13/4/2012

Il sogno svanito del federalismo

LUCA RICOLFI


Pubblichiamo un estratto della nuova introduzione della rinnovata edizione del libro di Luca Ricolfi «Il sacco del Nord» (Guerini editore). Il volume torna in libreria in questi giorni per la grande attualità del tema.

Sono passati solo due anni, ma a me sembrano un'eternità. Quando, nel 2010, uscì la prima edizione de Il sacco del Nord, la crisi sembrava in via di superamento, Berlusconi era ancora in sella, e io stesso - pur esprimendo tutto il mio pessimismo - non escludevo completamente la possibilità che il federalismo a un certo punto decollasse, in qualche versione più o meno incisiva.

Ora siamo nel 2012, e la situazione è completamente cambiata. Il posto di Berlusconi è stato preso da Monti, e dei tre scenari che avevo ipotizzato si è chiaramente imposto quello meno favorevole al federalismo, uno scenario che allora avevo battezzato "scenario A" perché lo consideravo il più probabile dei tre. In effetti, in soli due anni le probabilità che l'antico disegno della Lega vedesse la luce si sono praticamente azzerate. Dopo venti anni di progetti e discorsi inconcludenti, l'eventualità di vedere, finalmente, un'Italia rifondata e risanata dal federalismo è completamente evaporata.

Ma come siamo arrivati a questo punto? E soprattutto, perché le cose sono andate così? Si potrebbe pensare che l'eclissi del federalismo sia la naturale conseguenza della caduta di Berlusconi e della sua sostituzione con Monti. Una interpretazione che pare supportata da due circostanze:

a) il nuovo governo è nato senza l'appoggio della Lega, che è immediatemente divenuta la principale forza di opposizione;

b) l'unico tema importante accuratamente evitato da Mario Monti nel suo discorso di insediamento è stato proprio il federalismo.

Per quanto a prima vista plausibile, questa interpretazione è però profondamente sbagliata. Non perché Monti sia un fervente federalista, ma perché, di fatto, il federalismo era già stato sostanzialmente svuotato dal precedente governo e dalla Lega stessa. (....)

A forza di parlare di federalismo (è da vent’anni che lo si fa), rischiamo di dimenticare qual è la sua origine, ovvero quali sono i problemi per risolvere i quali il disegno federalista ha preso piede in Italia all'inizio degli Anni 90. Se andiamo alle radici e lasciamo da parte il folclore - Roma ladrona, i terroni, la Padania è piuttosto chiaro che la ratio principale del federalismo non era, all’origine, quella di rendere più efficiente la pubblica amministrazione, o di restituire alle Regioni settentrionali il maltolto (circa 50 miliardi di euro, secondo le stime più prudenti contenute in questo libro). No, la funzione e lo scopo del federalismo erano più semplici e più fondamentali: permettere ai territori più dinamici e produttivi del Paese di tornare a crescere a un ritmo ragionevole, liberandoli da un’oppressione fiscale che - nei primi Anni 90 - stava ormai soffocando l'economia italiana, sempre meno capace di espandere l’occupazione, reggere la concorrenza internazionale, innovare prodotti e processi.

Detto in altre parole: il federalismo non era principalmente un fine, un ideale politico, bensì un mezzo, un potente strumento di raddrizzamento dell’economia e della società italiana. E’ in quanto il sistema economico nazionale stava perdendo colpi, e le Regioni del Nord non riuscivano più a farsi carico degli sprechi e delle inefficienze di quelle del Sud, che il federalismo cominciò ad apparire a molti come una soluzione interessante e possibile. Anche se le cifre degli sprechi, dell’evasione fiscale, e soprattutto dell’immane trasferimento di risorse da Nord a Sud - 50 miliardi di euro l’anno - si conosceranno solo diversi anni dopo, fin da allora la diagnosi di fondo era più che chiara: se l’Italia vuole fermare il declino e tornare a crescere, di quei 50 miliardi almeno una parte deve rientrare al Nord, e deve servire a rimettere i produttori in condizione di fare il loro mestiere.

Ecco perché dico che, anche nell’ipotesi improbabile che fra una decina d’anni il federalismo dovesse essere entrato a regime, esso avrebbe comunque tradito la sua missione fondamentale: che non era di instaurare un assetto sociale o politico, bensì di ridare slancio all’economia e alla società italiane. Un compito che si pone da un ventennio, ma che negli ultimi anni era diventato urgente e improrogabile, e con la crisi internazionale del quinquennio 2007-2012 sta diventando una questione di vita o di morte per il nostro Paese. Perché tutti i dati dicono che da almeno 15 anni perdiamo colpi verso i Paesi a noi consimili, e che il nostro compito è di invertire un trend, non certo di rallentare ulteriormente il processo di modernizzazione del Paese. L’aver rimosso dalla riflessione politica questo compito, e avere accettato di spostare ancora in avanti l’entrata in vigore del federalismo, è probabilmente il più grave errore politico che la Lega abbia compiuto da quando esiste, perché - verosimilmente - esso condurrà alla scomparsa del federalismo dal centro della scena politica. Divenuto inutile, in quanto fuori tempo massimo, per risolvere il problema da cui era nato, il federalismo è destinato a entrare nel museo dei sogni politici del passato, che possono trastullare ancora a lungo i militanti, ma sono ormai fuori della realtà e del sentire comune.

Bruciato dai suoi stessi ideatori il sogno federalista, l’Italia dovrà trovare altre strade per risolvere i suoi problemi.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9989
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« Risposta #147 inserito:: Aprile 17, 2012, 11:58:48 am »

17/4/2012

Salvare il Paese non basta

LUCA RICOLFI

Il governo si appresta, per l’ennesima volta, a cercare di mettere insieme un pacchetto di «misure per la crescita». Il momento è molto difficile perché i mercati, dopo aver concesso fiducia all’Italia per quasi tre mesi (da gennaio fin oltre metà marzo), da qualche settimana sembrano non fidarsi più di noi.

Il segnale più negativo non viene dallo spread, che è tornato a salire ma in realtà risente sempre, e pesantemente, della irresolutezza delle autorità europee, bensì dallo «spread dello spread», cioè dalla differenza fra quanto i mercati pretendono dall’Italia e quanto pretendono dai Paesi a noi più comparabili come la Spagna, il Belgio, la Francia, Paesi cioè che non sono né formiche come la Germania né cicale come la Grecia e il Portogallo.

Ebbene, lo spread dello spread era sceso a 105 nella settimana centrale di marzo, ma da allora è risalito inesorabilmente settimana dopo settimana: 109, 121, 131, fino a 144, il valore medio della settimana scorsa. Perché? Perché per quasi tre mesi lo spread è migliorato, e ora peggiora di settimana in settimana?

Qui si entra, purtroppo, sul terreno delle opinioni, perché nessuno dispone di un modello della mente dei mercati sufficientemente affidabile. Qualche cosa, tuttavia, si sa del funzionamento dei mercati nei momenti di tensione. Le bestie nere dei mercati sono tre: il deficit dei conti dello Stato, il debito pubblico detenuto da investitori stranieri, le cattive prospettive di crescita. Se guardiamo a questi tre parametri, pare difficile non ipotizzare che quello che, negli ultimi tempi, ha scosso la mente dei mercati non è la tenuta dei conti pubblici - messi in sicurezza da un diluvio di tasse - ma il costante deterioramento delle nostre prospettive di crescita, che ormai si stanno cristallizzando intorno a un drammatico -2%, e sono peggiorate di più di quelle delle altre economie avanzate. Un dato che, se confermato, costringerà il governo a un nuovo giro di vite, senza il quale l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 non potrebbe essere raggiunto.

La crescita, dunque, è il nostro problema numero uno. Ma come vede il problema questo governo? Qual è la sua idea per tirarci fuori dal pantano?

La mia impressione, basata sugli atti fin qui compiuti, è che il governo abbia una visione del problema della crescita non molto dissimile da quella dei governi che lo hanno preceduto. Certo Monti è più credibile dei suoi predecessori di destra e di sinistra, e ha messo su una squadra che si è guadagnata - e merita pienamente - il rispetto del Paese. E tuttavia la «cultura della crescita» che questo governo esprime a me pare, mi si perdoni la crudezza, terribilmente vecchia e inadeguata alla drammaticità del momento. Perché vecchia? Vecchia, innanzitutto, perché persevera sul sentiero, battuto fin qui da tutti i governi di destra e di sinistra, della prima e della seconda Repubblica, di affrontare i problemi di bilancio con maggiori tasse anziché con minori spese. Non è questo il luogo per scendere in dettagli tecnico-contabili, ma non si può non ricordare che le varie manovre con cui nel 2011 siamo stati deliziati prima da Tremonti, poi da Berlusconi e infine da Monti, hanno avuto un contenuto di tasse, e quindi una spinta recessiva, inesorabilmente crescente (la manovra di Tremonti era composta per meno del 50% di nuove tasse, quella di Monti lo era per quasi il 90%). Vecchia, la visione di questo governo, anche perché la teoria della crescita su cui si basa, fatta di liberalizzazioni, riforme a costo zero, segnali ai mercati, è nata ed è cresciuta soprattutto per promuovere il decollo dei Paesi in via di sviluppo, ma ha molto meno da dire alle economie dei Paesi avanzati. Da questo punto di vista non è un caso che tanta attenzione sia stata dedicata a un tema ideologico come l’articolo 18, senza alcuna sensibilità per il problema - ben più rilevante al fine di promuovere crescita e occupazione - di alleggerire i costi dei produttori di ricchezza. Nella cultura di questo governo continua ad albergare la credenza che il problema centrale delle imprese sia poter licenziare, mentre la realtà è che il loro problema numero uno è un semplice, brutale, concretissimo problema di costi: tasse, contributi sociali, prezzi dell’energia, ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione.

Ma è vecchia, la cultura di questo governo, anche per la mentalità con cui affronta chi osa non allinearsi al clima di venerazione e gratitudine da cui è circondato. E’ vero, non ci sono alternative al governo Monti, se cadesse sarebbe un disastro per l’Italia, i mercati ci farebbero a fettine. E tuttavia questa consapevolezza non rende per ciò stesso ragionevole qualsiasi cosa questo governo decida. C’è un errore logico, mi pare. Se la mia caduta è un evento così catastrofico da provocare un disastro, questo non vuol dire che tutto quel che faccio sia giusto, o volto al supremo interesse del Paese.

Oggi, ve lo confesso, per me l’interesse del Paese è rappresentato di più dalle innumerevoli persone che tentano disperatamente di resistere sul mercato, senza arrivare al passo fatale di ritirarsi o chiudere le loro attività produttive, che non da un governo che non si cura di loro e preferisce - continua a preferire - l’ennesimo aumento della pressione fiscale piuttosto che toccare il totem della spesa pubblica. Perché, è vero, Mario Monti è stato chiamato per «salvare il Paese». Ma l’alternativa che ha di fronte non è quella che, comprensibilmente, preferiscono immaginare i nostri governanti: o noi o il disastro. No, accanto a quella alternativa ce n’è un’altra: l’alternativa fra salvare davvero il Paese, o semplicemente ritardare il momento del disastro. Oggi il rischio è che questo governo si senta così necessario, così migliore dei governi che l’hanno preceduto, così privo di alternative, da non capire che il fatto di non avere alternative non rende per ciò stesso buone le sue politiche. Che tali politiche siano buone o no lo vedremo alla fine, quando si saprà se il piccolo, prudentissimo cabotaggio di questi mesi sarà stato sufficiente a salvarci da un destino come quello della Grecia. Sono il primo a sperare che basti, ma - fin qui - non vedo solidi argomenti per crederlo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10005
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« Risposta #148 inserito:: Aprile 19, 2012, 04:52:04 pm »

19/4/2012

Il rischio delle buone intenzioni

LUCA RICOLFI

Non sono fra quanti pensano che cambiare l’Italia sia facile. Né mi sono unito a quanti, in questi giorni, hanno inondato la presidenza del Consiglio con liste di misure da adottare immediatamente per il bene dell’Italia, a partire dai tagli della spesa pubblica. E so perfettamente che è fin troppo facile fare i riformisti a parole, scrivendo libri, saggi e articoli sui giornali senza avere responsabilità di governo.

Per cui non dirò tutto quello che penso sul «topolino» partorito dal Consiglio dei ministri di ieri, ma mi limiterò a una domanda: avete fatto il massimo?

Perché se la risposta fosse sì, allora dovremmo essere davvero preoccupati, molto preoccupati. Quel che colpisce di più, nei documenti prodotti dal governo e nello stesso discorso pronunciato ieri da Mario Monti in conferenza stampa, è la completa mancanza di concretezza, anche nei pochi luoghi (ad esempio le infrastrutture e i pagamenti della Pubblica amministrazione) in cui si parla di cose e non di mere astrazioni, impegni futuri, intenzioni, auspici, tiratine d’orecchi ai cittadini e ai partiti. Una sorta di trionfo del modo «ottativo» ricopre tutto e tutti, in un linguaggio che meriterebbe di essere studiato già solo per l’audacia con cui ibrida due mostri del nostro tempo.

Il paludato gergo della burocrazia europea e i manifesti elettorali dei partiti, pieni di condivisibili intenzioni e meravigliosi obiettivi, mai accompagnati dalla indicazione dei mezzi che permetteranno di raggiungerli.

Dunque, proviamo a ricapitolare i punti effettivi. Il governo ci dice che nel 2013 i conti pubblici saranno ancora in rosso (-0,5%), ma che in realtà, correggendo il dato per il ciclo economico, quel piccolo deficit sarà in realtà un leggero avanzo (+0,6%). Poi ci dice che la pressione fiscale non diminuirà né quest’anno né l’anno prossimo, ma solo a partire dal 2014, ossia giusto quando questo governo non ci sarà più. Quanto al Pil, si prevede che quest’anno diminuirà dell’1,2%, e nel 2013 aumenterà dello 0,5%, due previsioni decisamente più ottimistiche di quelle della Confindustria, della Banca d’Italia e del Fondo Monetario Internazionale, che giusto ieri ha previsto un -1,9% per il 2012 e un’altra diminuzione (dello 0,3%) per il 2013.

Insomma, nessun meccanismo automatico che trasformi i risultati della lotta all’evasione in minori aliquote fiscali e contributive. Nessuna misura che alleggerisca ora, e non in un lontano e ipotetico futuro, i costi complessivi di chi lavora e produce ricchezza. Nessun taglio alla spesa pubblica improduttiva. E in compenso tantissime intenzioni, «tavoli di lavoro» che si stanno avviando, piani cui «si sta lavorando», ma soprattutto - come collante e come motore di tutto - una fiducia illimitata, quasi una fede, che l’Italia possa uscire dai suoi guai essenzialmente mediante processi immateriali, attraverso i segnali che la buona politica può mandare agli investitori e ai mercati finanziari. Di qui l’invito a rafforzare la coesione sociale, a combattere l’evasione fiscale, il lavoro nero e la corruzione, a promuovere la fiducia interpersonale e in chi ci governa, a riformare radicalmente la politica, a partire dalla legge elettorale e dal finanziamento pubblico dei partiti.

Tutti obbiettivi degni e sacrosanti, ma che tradiscono - a mio parere - una visione vagamente idealistica del funzionamento dei sistemi sociali. È strano, per me che faccio il sociologo, doverlo dire di un governo di economisti. Ma mi colpisce molto sentir tanto parlare di «capitale sociale», una delle più controverse e fumose nozioni della mia disciplina, e sentire così poche parole sui ben più solidi meccanismi che, nelle società avanzate, regolano la crescita. Spiace dovere battere così spesso sul medesimo ferro, ma mi pare davvero una generosa illusione quella di pensare che per uscire dalla stagnazione l’Italia abbia oggi bisogno innanzitutto di cambiare il suo software (il suo modo di pensare), e non sia invece il suo hardware (la macchina della sua economia) che è diventato un ferrovecchio. L’Italia è sempre stata priva di spirito civico, o capitale sociale, ma questo fragile software - fino a venti anni fa - non le ha impedito di crescere di più delle altre economie avanzate, fino a conquistare il benessere che ora stiamo cominciando a perdere. Quel che è venuto a mancare, dagli Anni 90, è invece l’hardware del Paese, ossia quell’insieme di condizioni materiali che permettono di fare impresa e competere con gli altri Paesi: buone infrastrutture, prezzi dell’energia competitivi, contributi sociali ragionevoli, basse aliquote societarie. Insomma, cose molto prosaiche, ma che fanno la differenza, ad esempio convincendo gli investitori stranieri a creare posti di lavoro nel nostro Paese.

È vero, i mercati sono diventati «animali molto sensibili», e i segnali, gli umori, le emozioni, sono diventate cose sempre più importanti nel mondo di oggi. Ma non tutta l’economia è finanza (per fortuna) e, alla fine, quel che conta davvero - quel che sposta i capitali e fa vincere sui mercati - sono i costi di produzione. Da un governo tecnico, per di più pieno di economisti, non mi sarei mai aspettato tanta attenzione alle impalpabili vicissitudini dell’animo umano, e tanto poca considerazione per la dura, concreta, pietrosa, realtà di chi produce e cerca di stare sul mercato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10012
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« Risposta #149 inserito:: Aprile 19, 2012, 04:53:34 pm »

Economia

23/04/2011 - DOSSIER: L'ITALIA A DUE VELOCITA'

Nord e Sud, lo sviluppo dipende soltanto dalle tasse sulle imprese

Il Mezzogiorno corre grazie all'autoriduzione: l'evasione resta più alta


LUCA RICOLFI

Se è vero che nel Sud funziona peggio la giustizia civile, ci sono meno infrastrutture, i servizi sono scadenti, scarseggiano gli investimenti stranieri, la qualità dell’istruzione è bassa, la criminalità organizzata inquina l’economia, perché nei dodici anni pre-crisi (dal 1995 al 2007) il prodotto interno lordo del Sud è cresciuto praticamente come alNord, e il suo Pil pro capite è cresciuto addirittura di più? A queste domande provavo a rispondere con una piccola provocazione: non sarà che il Sud cresce più del Nord grazie a una pressione fiscale effettiva molto più bassa? E se il segreto della crescita differenziale del Sud fosse semplicemente l’autoriduzione delle tasse, come del resto la teoria economica prevede? Insomma, per essere ancora più politicamente scorretto: mentre i leghisti cianciano da 20 anni di secessione fiscale, il Mezzogiorno la pratica da decenni.

Poiché alla mia provocazione hanno reagito in molti - a voce, per mail, sui giornali, alla radio - e poiché diversi interventi hanno sollevato obiezioni e osservazioni utili, ritorno volentieri sull’argomento, riprendendo almeno gli spunti più interessanti. Una prima obiezione suona così: il sorpasso del Sud rispetto al Nord è avvenuto solo dopo il 1995, ma non vi è alcuna evidenza che improvvisamente sia aumentata l’evasione fiscale nelMezzogiorno. Verissimo, infatti la mia idea non è che il sorpasso sia avvenuto grazie a un aumento dell’evasione fiscale, bensì che l’improvviso crollo del tasso di crescita del Nord abbia per così dire messo a nudo il ruolo della minore pressione fiscale gravante sul Mezzogiorno. Nei 25 anni fra il 1971 e il 1996 il Nord cresceva così rapidamente rispetto al Sud da occultare l’handicap del Nord (o il vantaggio del Sud) in termini di pressione fiscale. Quel che è successo, a metà degli Anni 90, è che la fine delle svalutazioni della lira ha inferto alNord un tale colpo da annullare tutti i vantaggi di cui godeva prima rispetto al Sud, rendendo improvvisamente visibile l’unico vero grande handicap delle regioni settentrionali, ossia la maggiore pressione fiscale di fatto (l’intensità dell’evasione al Nord è un terzo di quella del Sud).

E anche se, come alcuni suggeriscono, ragioniamo in termini di Pil anziché di Pil pro capite, il problema resta: se la minore pressione fiscale del Sud non contasse nulla, dovremmo comunque osservare una maggiore crescita del Nord, visto che su tutti gli altri fattori il Nord gode di un vantaggio considerevole rispetto al Sud. In breve, e per concludere su questo punto, lamia tesi non è che il Sud si siamesso improvvisamente a correre, ma che il Nord si sia improvvisamente «seduto» quando - a metà degliAnni 90 - ha perso lo strumento delle svalutazioni competitive, che molto aiutavano il nostro export, e quindi la crescita complessiva dell’economia (vedi grafico). Fino al 1995 il Nord cresceva quasi al 3%, dopo crescemeno dell’1%.

Qui però interviene un’altra obiezione. Secondo Marco Fortis il Nord, tutto sommato, se la sarebbe cavata abbastanza bene perché nel periodo da me considerato sarebbe cresciuto più omeno come la Germania. Anche questo è vero, ma vorrei ricordare due fatti. Per anni la Germania è stata considerata il «malato d’Europa» proprio perché cresceva poco, ossia meno di quasi tutti gli altri Paesi europei. Inoltre la Germania è uno dei pochi Paesi avanzati che, dopo la crisi, ha ripreso a crescere alla grande (+3,6% nel 2010). Sarà un caso che, fra i Paesi avanzati, la Germania sia quello che - fra il 2007 e il 2009 - ha ridotto di più le tasse sulle imprese? Un’altra osservazione interessante viene da Alberto Bisin. In un certo senso è l’esatto contrario dell’obiezione di Fortis: mentre per Fortis non è vero che il Nord vada così male, per Bisin non è vero che il Sud vada così bene. Quel che dovremmo chiederci, dunque, non è perché il Sud corre (più del Nord), ma perché corre così poco, «soprattutto rispetto al suo potenziale che èmolto elevato proprio a causa della sua povertà relativa in Europa». Già, perché il Sud - pur correndo più del Nord - corre comunque così poco rispetto al suo potenziale?

Qui le spiegazioni possibili sono molte,ma duemi paiono più plausibili delle altre. Una prima spiegazione è che la zavorra degli innumerevoli fattori di handicap è talmente pesante da rendere trascurabile il vantaggio fiscale di cui il Sud beneficia di fatto, grazie alla maggiore evasione. La seconda spiegazione, non necessariamente incompatibile con la prima, è che al Sud manchi il principale fattore di crescita delle economie povere: un mercato del lavoro con salari allineati alla produttività. Detto più brutalmente: le cosiddette economie emergenti corrono più in fretta delle economie mature non solo perché il punto di partenza è bassoma perché, finché il divario con le economie avanzate resta ampio, anche i salari e lo Stato sociale restano indietro rispetto a quelli delle società ricche. E’ triste riconoscerlo, ma sono anche i bassi salari e la flessibilità che spingono le economie emergenti.

Resta un’ultima obiezione, che mi sono spesso fatto io stesso: ma se una bassa pressione fiscale è così importante per sostenere la crescita, perché alcuni Paesi nordici ad alta pressione fiscale, come la Svezia e la Finlandia, sono ciononostante riusciti a crescere a un ritmo notevole (intorno al 3%)? La risposta, sostenuta da una notevole evidenza empirica, è che il fattore decisivo non è la pressione fiscale complessiva, che può benissimo essere alta se esiste un generoso Stato sociale, bensì la pressione fiscale sui produttori, a partire dalla regina di tutte le tasse, ossia l’imposta societaria (Ires più Irap, nel caso dell’Italia). La Germania, ad esempio, ancora nel 2000 aveva l’imposta societaria al 52%, mentre la Finlandia l’aveva al 29% e la Svezia al 28%. E nel 2007 la Germania era ancora ferma al 38%, mentre negli ultimi tre anni è scesa a livelli scandinavi. Né si può dire che quelle riportate siano solo eccezioni o casi singoli. Se consideriamo l’insieme delle economie avanzate dell’Unione europea, è difficile non essere colpiti dal legame inverso fra crescita e imposta societaria: i Paesi che sono cresciuti di più sono quelli con l’imposta societaria più bassa, quelli che sono cresciuti dimeno sono quelli con l'imposta societaria più alta. Un risultato coerente con la teoria economica, ma stranamente un po’ snobbato nel dibattito sulla crescita.

Conclusione. Urge una riflessione onesta, non ideologica, possibilmente sorretta da dati e analisi, sul nesso fra imposta societaria e crescita. La mia impressione è che quando ci chiediamo perché l’Italia non cresce più diamo troppa importanza agli innumerevoli fattori secondari e sottovalutiamo sistematicamente il fattore dominante, ossia la pressione fiscale sui produttori.

Come sociologo, non ne sono troppo stupito. La politica ha tutto l’interesse a occultare il ruolo frenante delle tasse, perché non ha il coraggio di ridurle. Le cosiddette forze sociali, d’altro canto, hanno tutto l’interesse a concentrare l’attenzione sugli altri fattori che limitano la crescita, perché ogni singolo fattore di handicap reclama più risorse pubbliche per i soggetti che lo controllano o se ne fanno paladini. Il risultato è che la spesa non diminuisce, la pressione fiscale resta quella che è, il Paese - sia pure molto lentamente, per fortuna - sprofonda nel sottosviluppo.

da - http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/399276/
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