Al via la non-Convention democratica | Usa 2020 | Repubblica
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30 aprile 2020
Stasera alle ore 21 della East Coast (le tre del mattino di martedì in Italia) si apre la non-convention democratica, con i due candidati che restano a casa di Biden nel Delaware.
Ogni sera fino a venerdì si va in scena - online - nella stessa fascia oraria, con le superstar che parlano in modalità remota fino alle cinque del mattino italiane.
Molti opinionisti ironizzano sulla "convention in pigiama" che gli americani seguiranno restando a casa, ma c’è poco da scherzare: è un esperimento unico nella storia. Riadattare le modalità della comunicazione politica rinunciando a quei raduni di massa che avevano una potenza simbolica evidente, aiutavano a lanciare slogan e programmi, fornivano adrenalina anche ai leader meno carismatici.
Testo alternativo
Finora Joe Biden ha tratto solo benefici da una campagna virtuale e invisibile, perché gli è stata tolta ogni opportunità di farsi del male da solo con le sue leggendarie gaffe. Ma non può continuare. C’è ancora in palio un bacino di cittadini indecisi e il presidente ha degli strumenti per conquistarseli (“il potere logora chi non ce l’ha”...)
La nomina di Kamala Harris indica che i democratici vogliono passare ad una campagna più visibile e aggressiva. Facendo sempre i conti col coronavirus, però: uno degli argomenti di battaglia dei democratici è la loro serietà e senso di responsabilità nella pandemia, non è questo il momento di abbassare la guardia con eventi di massa.
Intanto Donald Trump riuscirà a far lavorare i parlamentari in agosto, creando un mare di sospetti attorno al servizio postale. E’ stata la presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, a richiamare i deputati dalle vacanze per reagire all’offensiva del presidente. L’accusa della Pelosi e di tutto il partito democratico è grave: Trump sta sabotando la Posta, per impedire che distribuisca tempestivamente le schede al domicilio degli elettori.
Il voto per corrispondenza ha sempre avuto un peso sostanziale, ma quest’anno sarà ingigantito dalle precauzioni sanitarie. 42 Stati – inclusi molti che sono governati dai repubblicani – hanno già autorizzato il voto per posta; sette lo promuovono attivamente inviando le schede a casa a tutti.
Il coronavirus ha accelerato una tendenza pre-esistente: nel 2016 votarono per posta 57 milioni di americani, il 40% del totale. Quest'anno potrebbero salire a 80 milioni.
Testo alternativo
CASA DEM
La senatrice della California Kamala Harris a 55 anni ha tutto quello che manca all’anziano vice di Barack Obama. Energetica, volitiva e competente, incarna tutti i sogni americani: quello delle donne, dei neri, degli immigrati. E’ una figura inedita che a fianco di Joe Biden potrebbe acquistare un ruolo molto speciale, più simile al primo ministro di una Repubblica parlamentare europea, o al suo capogabinetto: una policy-maker con vaste responsabilità nel preparare il programma di governo, e poi attuarlo.
Biden indica ai democratici il loro futuro, in questa donna che aveva 8 anni quando lui iniziava il suo primo mandato al Congresso. Tutti sanno che Biden, 78enne a gennaio del 2021 nell’Inauguration Day, sarà nella migliore delle ipotesi il presidente di un mandato solo.
Kamala è sul trampolino di lancio per succedergli. Già questo rivela la strategia del duo Biden-Harris: nelle loro biografie e nelle loro fisionomie c’è la promessa di un passaggio delle consegne, la costruzione di una nuova classe dirigente inclusiva, nella quale si riconoscano tutti coloro che erano rimasti ai margini del potere.
La strategia del ticket Biden-Harris ha una parte evidente, perfino plateale, e un’altra nascosta. Il primo aspetto è quello su cui si sta concentrando l’attenzione. La Harris è perfetta per chiamare a raccolta tutte le categorie più ostili a Donald Trump, motivarle e galvanizzarle, garantire che affluiranno in massa alle urne. Sono donne e giovani, afro-americani e immigrati. In quanto figlia di un giamaicano e un’indiana, Kamala unisce neri e stranieri di recente naturalizzazione, due categorie non sempre alleate. La senatrice californiana esaudisce le aspettative di rinnovamento di questi gruppi.
La loro avversione a Trump non comporta automaticamente che vadano alle urne il 3 novembre, o che spediscano le schede per corrispondenza nei due mesi precedenti.
Il passato (Bush-Gore, Trump-Clinton) insegna che proprio le fasce più radicali, quelle che riempiono le piazze, sono le più indisciplinate il giorno del voto. Sono leggendari i tradimenti dei giovani della sinistra radicale, quelli che regalarono la Casa Bianca a Bush nel 2000 perché votarono il Verde Ralph Nader.
Nel 2016 l’affluenza giovanile alle urne fu molto deludente, e questo danneggiò Hillary. Il fatto che fino a qualche settimana fa i giovani abbiano invaso le piazze per protestare contro il razzismo della polizia dopo la morte di George Floyd, è un “tranello elettorale” che Biden conosce bene.
Le manifestazioni eccitano le attese di un cambiamento epocale, ma dai cortei alle urne il cammino è lungo. Gli stessi che urlavano nei cortei possono sottrarsi a un dovere elettorale che giudicano poco rivoluzionario. Avere come vice una donna di colore è un omaggio evidente a quell’ala sinistra e movimentista, perché non tradisca il ticket democratico.
La strategia Biden-Harris però guarda anche ad un’altra categoria di elettori: gli operai bianchi. Furono loro a creare a sorpresa la presidenza Trump. Fasce di metalmeccanici, siderurgici, minatori, sindacalizzati ed ex-democratici, in alcuni Stati del Midwest si sentirono beffati da una sinistra globalista, pronta a fare accordi con la Cina e a spalancare le frontiere agli immigrati clandestini.
Recuperare consensi in questa classe operaia bianca è altrettanto importante che fare il pieno delle “sinistre arcobaleno”. Il vecchio Joe ha una storia personale che lo rende molto più vicino all’America operaia, rispetto all’élitaria Hillary.
La Harris nonostante la sua immagine personale “alternativa” ha una storia che parla chiaro: è una moderata, centrista come Biden. Quando era Attorney General della California, una carica che unisce il compito di un ministro della Giustizia a quello di un procuratore capo, non cedette mai al lassismo sull’ordine pubblico. Anzi per la sinistra radicale dei campus universitari la Harris era una giustiziera, troppo severa nell’applicare il codice penale. Questo suo passato le torna utile oggi.
Trump ha interesse a dare il massimo risalto a quel che sta accadendo a Chicago, New York, Seattle, Minneapolis: dopo i cortei di Black Lives Matter, dopo gli slogan “de-fund the police”, sono arrivati i tagli alle forze dell’ordine, e il risultato è inquietante. E’ in atto una “seconda fase del movimento”, gestita dalle gang, con saccheggi e razzie, aumenti di sparatorie e omicidi.
Trump può tentare di ripetere il colpaccio del 2016 descrivendo un’America che scivola verso il caos, l’anarchia e la violenza. Avere al suo fianco una “poliziotta” come Kamala è una scelta strategica per Biden.
Da stasera la convention deve affrontare l'eterno problema dei democratici: perfino l'unione sacra anti-Trump non basta a nascondere le profonde divisioni al loro interno. La coreografia della video-convention è un dosaggio preciso tra le correnti.
La prima serata mette in campo due superstar del calibro di Michelle Obama e Bernie Sanders, più il governatore di New York Andrew Cuomo e la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer. Già questo elenco è indicativo. Il socialista Sanders deve chiamare a raccolta la sua truppa radicale e indisciplinata – un quarto dei Bernie Boys nel 2016 si astenne o votò Trump, tanta era l’antipatia per Hillary Clinton – però è in minoranza in una serata dominata dai moderati. Questa blindatura degli equilibri del partito sarà ancora più appariscente domani quando la star dei rivoluzionari, Alexandria Ocasio-Cortez, avrà pochi minuti di video, schiacciata fra notabili dell’establishment come Bill Clinton, il capogruppo al Senato Chuck Schumer, e la moglie di Biden.
Mercoledì Kamala dividerà il video-palcoscenico con Barack Obama, mentre l’appello all’ala sinistra sarà affidato a Elizabeth Warren.
Nel gran finale di giovedì, sempre in Rete, Biden sarà preceduto da altri due giovani ex-candidati alla nomination: il primo gay dichiarato a correre per l’incarico, Pete Buttigieg; l’imprenditore digitale Andrew Yang (due innovatori, ciascuno a modo suo, ma distanti dalla sinistra movimentista delle piazze).
Teniamo d’occhio questi nomi perché molti in caso di vittoria entreranno nel primo esecutivo dell’era Biden. Fra i temi sui quali i democratici sono attesi al varco la pandemia resta al primo posto; il fatto che Biden da vicepresidente abbia collaborato alla riforma sanitaria di Obama rafforza il messaggio democratico sulle carenze del sistema americano; ma senza spaventare gli elettori con proposte di statalizzazione all’europea.
CASA TRUMP
Lo svantaggio di Trump nei sondaggi, pur restando consistente, si è ridotto: un mese fa era superiore al 10% e ora è sceso a 8 punti su Biden. Consiglio di guardare la media RealClearPolitics, la sintesi aggiornata di tutti i sondaggi.
Oltre al segnale di una mini-rimonta di Trump ce n’è un altro che deve tenere i democratici in allerta: per due indicatori cruciali (la situazione negli Stati-in-bilico; il “favorability rating”) il margine di Biden su Trump è leggermente inferiore a quello di Hillary su Trump nel 2016. Molti sondaggisti giurano di aver imparato la lezione e di aver corretto certi errori di ponderazione dei campioni di quattro anni fa, ma il timore di un’altra sorpresa è legittimo.
Che peso avrà l’economia sulla performance di Trump? Da quando ha avuto inizio la “pandemia economica”, cioè la depressione da lockdown, gli Stati Uniti sono stati fra le nazioni più energiche nelle manovre anti-crisi.
Il totale della spesa pubblica d’emergenza già erogata da Washington vale il 13,2% del Pil. Di più hanno fatto solo Giappone e Canada, in proporzione al loro Pil. Nessuna manovra europea ha raggiunto dimensioni paragonabili. Eppure non basta, la rete di protezione americana sta raggiungendo i suoi limiti.
La disoccupazione supera il 10% della forza lavoro. Le indennità di disoccupazione aggiuntive – 600 dollari settimanali di sussidi federali, da sommare agli aiuti statali là dove ci sono – sono scadute con la rata di luglio.
Il Congresso è diviso, la Camera a maggioranza democratica e il Senato a maggioranza repubblicana non hanno trovato finora un accordo per una manovra supplementare. In questo stallo, Trump pensa di aver trovato un’opportunità: presentarsi come un presidente che agisce mentre i parlamentari litigano e tergiversano.
Trump ha by-passato il Congresso firmando un decreto esecutivo che interviene su alcune emergenze sociali: estensione dell’indennità di disoccupazione (sia pure in misura ridotta: 400 dollari settimanali di cui 100 a carico degli Stati); sgravio della payroll tax che equivale al nostro “cuneo fiscale”; prolungamento del blocco degli sfratti; dilazioni sui ratei dei prestiti agli studenti.
L’intervento è di dubbia costituzionalità e tuttavia è abile. Mette in difficoltà i democratici. Nessuna delle misure contenute in quel decreto è contestabile in sé. Tutte si possono considerare “di sinistra”, in quanto rispondono a bisogni sociali acuti. Solo una è a favore delle imprese (la riduzione dei prelievi sulle paghe a carico dei datori di lavoro) ma indirettamente può favorire i dipendenti.
Sono interventi insufficienti vista la gravità della crisi ma sono meglio che niente. E dal Congresso finora è uscito il niente. Che l’atto sia incostituzionale è possibile: il presidente degli Stati Uniti ha scarsi poteri in materia di bilancio, entrate e spese le deve decidere il ramo legislativo; per erogare quei pagamenti Trump deve fare acrobazie spostando fondi da altre voci di spesa già approvate. Tuttavia quando la presidente della Camera denuncia l’incostituzionalità, si mette in una posizione vulnerabile. Ai disoccupati non interessa il dibattito sui poteri dell’esecutivo, vogliono sapere come arrivare a fine mese.
Trump sa che c’è una sola istituzione più impopolare di lui fra gli americani: è il Parlamento. Il presidente tenta una rimonta sull’unico terreno dove gli americani gli riconoscono una certa competenza: l’economia.
Gli ultimi segnali dal mercato del lavoro, dai consumi e dalla produzione industriale sembrano confermare che una ripresa è in atto: ci vuol tempo, però, perché i benefici siano percepibili per i lavoratori e le famiglie.
CONCLUSIONE
Visto dall’estero, il voto americano suscita aspettative meno unanimi di quanto possa credere un progressista italiano. Il viaggio del segretario di Stato Mike Pompeo in Europa è una rassegna degli alleati più fedeli, come la Polonia. Il recente accordo tra Israele e gli Emirati serve a ricordare che l'Amministrazione Trump non ha solo dei nemici. Bisognerà ricordare quanti nel resto del mondo hanno investito sul trumpismo e ne hanno ricavato dei benefici. La politica estera raramente sposta voti in una campagna elettorale americana (salvo grandi guerre ecc) ma stavolta Trump ha indicato che userà la "carta cinese" in modo aggressivo.
Non dimentichiamo il Senato e la Corte. Non si vota solo per la Casa Bianca. Il 3 novembre per i democratici non basta riconquistare il potere esecutivo. E' cruciale ottenere la maggioranza al Senato, dove devono passare tutte le nomine: a cominciare dai giudici della Corte suprema. Per ragioni di salute è ormai vicina al ritiro la decana democratica Ruth Bader Ginsburg, guai se a sostituirla andasse un altro giudice repubblicano, gli equilibri della Corte si sposterebbero ancora più a destra e questo sarebbe un ostacolo ulteriore per l'agenda progressista.
Nell’immediato la battaglia sulla Posta è destinata a incattivirsi, seminando nuovi sospetti sulla regolarità di queste elezioni. Già nel 2016, per giustificare il fatto che Hillary Clinton lo aveva superato con tre milioni di schede nel voto popolare (pur perdendo nei collegi elettorali) Trump parlò di frodi, accusò la sinistra di far votare i morti e gli immigrati clandestini. Dietro c’è quell’antica battaglia della destra che Barack Obama ha denunciato più volte: “Suppression”. E’ il termine con cui si designa la lotta al voto dei poveri; il tentativo di escludere dai seggi certe minoranze che votano in prevalenza a sinistra, come afroamericani e ispanici.
Negli Stati dove governa la destra, si moltiplicano i controlli amministrativi, le richieste di documenti che tendono a scoraggiare chi ha meno istruzione, meno mezzi economici e tempo da dedicare alle pratiche amministrative, meno consapevolezza dei propri diritti. Il voto per corrispondenza – tanto più in tempi di pandemia – facilita l’esercizio di questo diritto. In quanto al rischio di frode, è un’invenzione: le irregolarità sono una frazione statistica irrilevante, e non favoriscono in modo particolare i democratici. Ma alla tradizionale battaglia della destra per ostacolare il diritto al voto di alcune fasce di cittadini ora si sovrappongono dei calcoli tattici di Trump.
Quando la Posta ha diramato un avviso secondo cui non riuscirà a distribuire le schede in meno di 15 giorni, tutti hanno visto dietro questo annuncio la longa manus della Casa Bianca. I tagli al servizio postale (con conseguenti riduzioni degli straordinari, peggioramento del servizio, degrado della puntualità) sono uno dei nodi del contendere nel negoziato sulla manovra di bilancio; più il ruolo controverso del capo di quest’azienda pubblica, una delle ultime ad essere rimaste sotto la dipendenza diretta del governo. Trump di recente ha nominato alla direzione della Posta un suo fedelissimo, il businessman Louis DeJoy della North Carolina, già finanziatore della sua campagna elettorale.
La missione di DeJoy secondo il partito democratico è fin troppo chiara: impoverire e sabotare le poste, tagliare i fondi e le paghe dei postini, rendere sempre meno affidabile ed efficiente il servizio, accumulare montagne di corrispondenza non consegnata. Intanto Trump alterna gli attacchi al voto per corrispondenza con le critiche alle stesse Poste. in molti Stati Usa tra poco si comincia a poter votare per corrispondenza. 16 Stati, tra cui Pennsylvania Michigan e Florida che risultarono decisivi nel 2016, autorizzano il voto per corrispondenza ancora prima che si tenga il primo duello televisivo Trump-Biden (29 settembre). Milioni di elettori sono autorizzati a riempire la scheda il mese prossimo.
Dietro gli attacchi di Trump, che già tre settimane fa cominciò a twittare sulle “elezioni più corrotte della storia”, possono esserci diversi calcoli. Da un lato il presidente ha interesse a spostare la maggior parte dei voti a ridosso del 3 novembre, nella speranza che di qui a là migliori la situazione economica, e qualche prestazione nei duelli televisivi con Joe Biden gli faccia recuperare popolarità. D’altro lato la sua campagna contro il voto per corrispondenza precostituisce gli argomenti per lanciare una serie di contestazioni e ricorsi la sera del 3 novembre, se il responso delle urne fosse a lui sfavorevole.
da repubblica.it