L’Unione sovietica non è mai crollata davvero
Trent'anni fa l'accordo di Belovezhy ha formalmente messo fine all'Unione Sovietica. Con l'eccezione dei paesi baltici, l'URSS si è disintegrata, dando vita a piccole entità post-sovietiche che portano l'eredità del totalitarismo. Il futuro non è più radioso, al contrario, scrive l'autore russo Sergej Lebedev.
Pubblicato il 13 gennaio 2022 alle 13:40
• Sergej Lebedev
• Traduzione di Alessandra Bertuccelli
Trent’anni fa, l’8 dicembre 1991, nel villaggio di Viskuli quasi al confine tra Bielorussia e Polonia, i presidenti delle Repubbliche Sovietiche di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono il cosiddetto Accordo di Belaveža, che formalizzò la fine dell’esistenza dell'Urss.
A distanza di tre decenni, proprio in questi luoghi, nella regione di Brest, nella foresta di Belaveža, al confine bielorusso-polacco è scoppiato un conflitto che non ha precedenti in questa regione e, probabilmente, in tutto il blocco dei paesi europei post-socialisti.
Il dittatore bielorusso Aleksandr Lukašenko, con l’evidente assistenza tecnica e militare, nonché il sostegno politico, della Russia ha usato i migranti – attirati e condotti in Bielorussia dall’Afghanistan, dalla Siria e da altri paesi orientali – per creare un “conflitto ibrido” ai confini dell'Unione europea. L’asprezza del clima invernale, la violenza delle forze di sicurezza bielorusse, che usano i migranti come ostaggi e diventata palese nelle operazioni di repressione delle proteste di massa cominciate nel 2020, e la dura posizione del governo polacco che ha sprangato il confine, è più che probabile che le perdite di vite umane saranno enormi.
Penso che questo conflitto, ambientato nelle gelide foreste di un territorio di confine, si possa anche leggere così: la dissoluzione dell’Unione Sovietica è tutt’altro che conclusa.
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Archipelago Urss: a trent’anni dalla fine dell'Unione sovietica
L’accordo di Belaveža del 1991 stabilisce che “l'Unione Sovietica come soggetto del diritto internazionale e della realtà geopolitica ha cessato di esistere”. Oggi, più di un quarto di secolo dopo, la frase andrebbe ritoccata.
Come soggetto del diritto internazionale, l’Urss è in effetti scomparsa e questo nonostante Russia ne persistano residui: un movimento non ufficiale che nega la legittimità dell'accordo di Belaveža e che di conseguenza considera l’Urss un'entità ancora esistente (al suo interno si continuano a usare i suoi simboli, la moneta sovietica e i passaporti).
Tuttavia, come realtà geopolitica – intesa come l’insieme delle pratiche fondamentali della cultura politica, l’idea del rapporto tra i diritti dell’uomo e i diritti dello stato – l’Urss, come usavano dire di Lenin gli agenti della propaganda sovietica citando un verso majakovskiano, è più viva di tutti i vivi.
Penso che non sia un’esagerazione dire che l’Unione Sovietica, con l’ovvia eccezione dei tre paesi baltici (Lettonia, Estonia e Lituania) che si è sciolta nel 1990-1991 dando vita a diverse piccole repubbliche socialiste, abbia realtà creato un’Unione Sovietica di dimensioni minori, entità statali-nazionali che conservano il germe fatale della nascita, il marchio di fabbrica totalitario, repubbliche dove, nella maggior parte dei casi, si è mantenuta una continuità delle classi dirigenti e delle strutture precedenti, il che spiega il loro facile incorrere in derive autoritarie.
E, sempre ad eccezione degli stati baltici, a prendere le redini delle repubbliche ex sovietiche sono stati i rappresentanti delle élite sovietiche, persone del passato: segretari di partito, ministri sovietici, generali del Kgb, persone che sono portatrici di una coscienza autoritaria. Praticamente in nessuna di esse ci sono stati movimenti alternativi e democratici sufficientemente convincenti in grado di plasmare e realizzare un nuovo corso democratico.
Cominciamo dalle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan. In tutte e quattro vi sono regimi autocratici, diversi per grado di libertà, evidentemente caratterizzati da un dispotismo all’orientale: statue dorate dei regnanti che si improvvisano autori di libri sacri, città ribattezzate in loro onore etc.. .
Guardiamo alle Repubbliche ex sovietiche transcaucasiche: Georgia, Armenia, Azerbaigian. Tardive rivoluzioni liberali avevano già avuto luogo in Georgia e in Armenia nel Ventesimo secolo, ma la tensione generale nella regione e il coinvolgimento nei continui conflitti militari non hanno permesso loro di affrancarsi completamente dall’eredità dell’autoritarismo sovietico.
Arriviamo infine alle repubbliche ex sovietiche europee: Ucraina, Bielorussia, Moldova. In Moldova il conflitto territoriale con la Transnistria non è ancora risolto; l’Ucraina è in uno stato di guerra non dichiarata con la Russia da sette anni e la Bielorussia di Lukašenko, dittatore che un anno fa ha brutalmente represso le pacifiche proteste dei cittadini, sta gradualmente perdendo la sua indipendenza e sta diventando un’appendice politica di Mosca.
Possiamo quindi dire che l’Unione Sovietica esiste e opera ancora: come un insieme di opportunità mancate alla trasformazione democratica, come una persistente eredità della politica comunista del Ventesimo secolo; come la contaminazione radioattiva dei luoghi dopo il disastro della centrale nucleare di Černobyl, che si protrarrà per decenni. Probabilmente, gli imperi hanno il loro periodo di “semideclino”, essi non scompaiono nel momento in cui viene firmato un trattato come quello di Belaveža, continuano a esistere come un complesso di pratiche politiche, peccati non redenti del passato, crimini lasciati impuniti, apatia sociale generalizzata. Ed è perciò necessaria una grande opera di cambiamento per far sparire tutto questo una buona volta e per sempre.
Si dà quasi per scontato che il crollo dell’Urss sia avvenuto senza spargimenti di sangue, a costo della vita di pochi. Se così fosse, il putsch di agosto e il trattato del dicembre 1991 si andrebbero a collocare nel contesto e nella sequenza delle rivoluzioni di velluto dell’Europa orientale, che davvero non hanno causato spargimenti di sangue o, comunque, hanno mietuto poche vittime, come nel caso dei coniugi Ceaușescu.
Purtroppo, non è vero. La politica nazionale del Partito comunista, lunga settant’anni, ha lasciato un’eredità esplosiva.
Basta pensare alle deportazioni di interi popoli sotto la dittatura di Stalin (ceceni, ingusci, tartari di Crimea, carachi e molti altri) e al loro successivo ritorno in una patria distrutta, nelle case occupate e nei santuari devastati: questo generò un’esigenza di giustizia e autonomia che si sarebbe manifestata anni dopo, un salato conto da pagare per Mosca.
Inoltre, quando le autorità sovietiche hanno agilmente ridisegnato i confini storici in funzione del momento, quando hanno creato, abolito, risubordinato entità quasi-politiche come le repubbliche autonome dell’Urss, di rango inferiore rispetto alle repubbliche dell’Unione, non hanno fatto altro che generare future dispute territoriali e speranze di autonomia.
L’Unione Sovietica è stata un’incredibile produttrice di simboli, probabilmente l’unico settore in cui è sempre riuscita a superare gli obiettivi di produzione
Esistevano, inoltre, anche vecchi conflitti nazionali d’epoca pre-sovietica, come quello tra l’Azerbaigian e l’Armenia.
L’Urss ha creato questo campo minato di conflitti in più modi e, grazie al suo potere autoritario, li ha congelati fino alla fase finale della perestrojka, ovvero fino a quando sono cominciati i tumulti nazionali praticamente in ogni repubblica autonoma o dell’Unione.
Il crollo dell’Unione Sovietica ha portato alla luce e ha innescato questi conflitti, che continuano a esplodere con enorme facilità.
Proprio per questo la storia post-sovietica è una storia di guerre, scontri etnici, conquiste territoriali, massacri di civili. La guerra civile in Georgia (1991-1993); la guerra civile in Tagikistan (1992-1993); le guerre in Nagorno-Karabakh tra Armenia e Azerbaigian (1992-1994, 2020), il conflitto osseto-inguscio nel 1992 e due guerre in Cecenia (1994-1996, 1999-2009) avvenute direttamente sul territorio della Federazione Russa; le guerre in Abkhazia (1992-1993) e Ossezia del Sud (1991-1992, 2008), e la guerra in Transnistria (1991-1992) sono avvenute con l’ingerenza della Russia; l’annessione armata della Crimea (2014) e l’aggressione russa nell’Ucraina orientale (del 2014 e ancora in corso) sono solo un elenco incompleto dei conflitti armati post-sovietici.
Il loro costo si eleva a centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi; città distrutte, rapporti interstatali compromessi per decenni, il dilagare di una violenza che ha creato un circolo vizioso di impunità e che ha complicato ulteriormente già difficile passaggio verso la democrazia.
Per inciso, fin dalla presidenza di Boris Eltsin, la Russia era, per così dire, l’operatore e il beneficiario di molte delle guerre sopra citate; le usava per creare focolai di tensione controllata nelle sue ex repubbliche di recente indipendenza e per influenzare le loro politiche estere e interne.
Oggi tocca all’Unione europea sperimentare questo metodo sulla propria pelle. L’aggressione russa all’Ucraina è in corso a meno di mille chilometri dai confini europei; dalla Crimea ai confini del più vicino stato che fa parte della Nato, la Turchia, ci sono 260 chilometri. Una straordinaria vicinanza sia in senso militare che in senso socio-politico.
Penso sia plausibile dire che la cortina di ferro, come simbolo del conflitto tra occidente e oriente, sta tornando. Solo che ora si trova più a est: il confine tra Russia e Ucraina è un campo di battaglia, ci sono trincee, filo spinato, rapporti dal fronte, vittime nell’esercito ucraino; la Polonia sta rafforzando con manovre d’urgenza il confine con la Bielorussia, impone la chiusura dei posti di blocco alla frontiera, intensifica la fortificazione dei suoi confini e l’aumento di contingenti di polizia.
Il mondo europeo, di per sé già diviso, spaccato dal Covid che ha riattualizzato i confini europei, di cui ci si stava gradualmente dimenticando, si trova nuovamente in una situazione di tensione tra ovest ed est che non è pronto ad affrontare.
In Russia, inoltre, in questo momento si sta verificando un altro attacco, stavolta diretto non nello spazio, ma nel tempo. Lo scorso 28 dicembre la Procura generale della Federazione Russa ha chiesto la chiusura di Memorial, la più antica e di gran lunga più famosa e influente organizzazione in ambito civile in Russia.
Ci sono due Memorial: l’associazione storico-educativa, impegnata a preservare la memoria delle repressioni staliniane e di altri crimini del periodo sovietico e il Memorial Human Rights center, che indaga sulle violazioni dei diritti umani nella Russia di oggi, principalmente quelli commessi durante le due guerre cecene: esecuzioni sommarie, torture, rapimenti, pulizia etnica.
Creata nel 1989, Memorial è diventata il principale simbolo dell’impossibilità di un ritorno del passato repressivo sovietico e la più importante iniziativa civile russa che si prefigge di perpetuare la memoria delle vittime delle repressioni sovietiche. L’esistenza stessa di Memorial è stata percepita da molti come un segnale, la dimostrazione che le pagine della storia sovietica erano chiuse per sempre.
Memorial è diventata il principale simbolo dell’impossibilità di un ritorno del passato repressivo sovietico
Tuttavia, entrambi i Memorial sono stati dichiarati “agenti stranieri” in Russia già da diversi anni (il centro per i diritti umani lo è dal 2013, l’associazione dal 2016).
Questo termine è mutuato dal diritto statunitense, ma nel contesto russo ha una connotazione storicamente repressiva: molte delle vittime del tempo di Stalin venivano fittiziamente accusate di essere “agenti” dei servizi di intelligence stranieri e di forze politiche ostili all’Urss.
La Corte ha dato ragione all'accusa, che sosteneva che Memorial è colpevole di violazione sistematica della normativa sugli “agenti stranieri”, deliberatamente costruita in modo tale da essere persino tecnicamente e praticamente impossibile da adempiere (chi ne è accusato deve apporre la dicitura “agente straniero” su tutti i materiali, testi, lettere e pagine web prodotti), e per la cui assenza vengono inflitte multe gigantesche.
Memorial fu creato negli ultimi anni della perestrojka. La storia della sua creazione ha di per sé un significato sociale e simbolico: mostra le opportunità mancate di quell’epoca.
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La perestrojka e la glasnost svelarono l’esigenza, già da tempo soggiacente alla società sovietica, di far emergere la verità sul passato, di restituire giustizia alle vittime dei crimini sovietici.
Tuttavia, il Partito comunista dell’Urss (Pcus) e il Comitato per la sicurezza dello stato (Komitet gosudarstvennyj bezopasnosti, più noto come Kgb) si opponevano all’emergere di iniziative indipendenti in questo campo, non desideravano che questo processo diventasse incontrollabile, e perciò giocarono d’anticipo, impegnandosi ad arginarne il campo d’azione.
Furono concordi nel riconoscere l’esistenza di un gran numero di vittime, la necessità di rendere pubblici i loro nomi ed erigere monumenti, ma contemporaneamente fecero in modo di mantenere il discorso esclusivamente sui crimini sovietici del periodo stalinista, non sollevarono mai la questione della responsabilità legale degli organizzatori e degli esecutori dei crimini di massa sovietici, premendo loro, essenzialmente, la segretezza degli archivi del Kgb.
Si può fare la supposizione seguente: l’Urss è caduta non semplicemente a causa dell’erosione politica. È crollata sotto il peso eccessivo di un carico simbolico che gravava sulla coscienza individuale e generale
Alla creazione di Memorial, al suo punto cruciale, si aprirono due strade: tra i suoi iniziatori erano confluite anche persone che volevano instaurare una linea radicale e conflittuale, contrarie a collaborare direttamente con le autorità, favorevoli allo scioglimento del Kgb e al libero accesso ai suoi archivi, al perseguimento penale dei responsabili e alla politicizzazione del movimento. Proprio il libero accesso agli archivi, come dimostra la storia di molti paesi post-socialisti, è la chiave per ripristinare lo stato di diritto e attuare quel processo di identificazione ed esclusione dalla politica di chi aveva collaborato con i servizi segreti che prese il nome di ljustracija.
Ma in Russia non poteva che vincere la linea moderata: ci si sarebbe concentrati sugli aspetti commemorativi, sulla “rielaborazione del passato” ma secondo una versione mutilata e limitata, sulla ricerca storica e sull’istruzione, senza impegnarsi in politica. È interessante notare che questa linea non è stata rivista nemmeno dopo il 1991, dopo il crollo dell’Urss, quando si aprirono opportunità sociali e politiche molto maggiori, quando i sondaggi sociologici dimostravano l’esistenza di una significativa disponibilità da parte della società, il desiderio di punire legalmente i colpevoli e di fare i conti con il passato.
L’esempio dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (o Germania Est) – dove i dissidenti e non i politici della Germania Ovest divennero la principale forza che si batté per conservare gli archivi della Stasi (il ministero per la sicurezza statale), per vedere compiuto quel processo chiamato ljustracija e per punire penalmente i responsabili delle violazioni dei diritti umani – mostra quanto possano essere imponenti e decisivi gli atti di “elaborazione del passato” se si trasformano in impellenti priorità politiche.
In tre decenni Memorial ha compiuto un colossale lavoro per ristabilire la memoria delle vittime: le banche dati digitali contenenti più di tre milioni di nominativi sono diventate un fantastico strumento per semplificare le ricerche negli archivi, uno strumento che permette di riavvicinare passato e presente; Memorial, inoltre, ha promosso la celebrazione di cerimonie civili come quella del 30 ottobre, giornata della memoria delle vittime della repressione politica, ad oggi la più importante istituzione culturale che unisce la società civile.
Tuttavia, le principali opportunità di cambiamento che avrebbero potuto far emergere una cultura politica democratica in Russia e favorire l’alternanza al potere, furono mancate tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quando la società civile di fatto rinunciò a politicizzare e concretizzare legalmente la rielaborazione del passato, come insegnava la Germania Est. Se tale tentativo non fosse stato abbandonato, forse le élite sovietiche e gli organi di sicurezza dello stato non avrebbero ripreso il potere.
Al governo russo oggi serve una visione completamente diversa del passato sovietico: una visione idealizzata, uno strumento di legittimazione del regime di Vladimir Putin
Memorial disturba l’attuale regime autoritario russo non in quanto potenziale protagonista di cambiamenti politici, ma perché al governo russo oggi serve una visione completamente diversa del passato sovietico: una visione idealizzata, uno strumento di legittimazione del regime di Vladimir Putin.
Non è esagerato dire che il passato nella Russia di oggi è una questione politica.
L’eredità simbolica del passato viene strumentalizzata per consolidare la nazione, per creare non una maggioranza politica (non ci sono libere elezioni in Russia), ma una nazione ideologizzata, indottrinata e, in questo senso, apolitica.
Pertanto, torniamo alla frase principale dell’accordo di Belaveža: “L'Unione Sovietica come soggetto del diritto internazionale e della realtà geopolitica ha cessato di esistere”. Questa definizione ammette una terza realtà dell’Urss, non legale o geopolitica, ma simbolica, costituita da oggetti culturali ideologicamente sacralizzati. Una realtà non regolamentata.
L’Unione Sovietica è stata un’incredibile produttrice di simboli, probabilmente l’unico settore in cui è sempre riuscita a superare gli obiettivi di produzione. Monumenti, strutture architettoniche, canzoni, film, libri, cerimonie solenni: l’Unione Sovietica li ha prodotti in massa, creando un orizzonte culturale chiuso, composto di culti che si completavano a vicenda. Il culto della rivoluzione, il culto del socialismo, il culto della vittoria nella Seconda guerra mondiale: la religione sovietica era politeista, composta da molti altari e pantheon di eroi.
Verso la fine degli anni Ottanta tutto questo complesso non venne più nutrito, andava scarnificandosi sempre più, fino a crollare, morente.
Si può anche supporre che l’Urss sia caduta non semplicemente a causa dell’erosione politica. È crollata sotto il peso eccessivo di un carico simbolico che gravava sulla coscienza individuale e generale; l’esperienza viva dei simboli come risorsa psichica si era ormai esaurita e si era trasformata nel suo contrario, in cinismo: gli eroi dei testi un tempo considerati sacri diventavano protagonisti delle barzellette, l’ultima fede nel futuristico progetto socialista era morta nelle lunghe file fuori dai negozi, che negli anni Ottanta erano all’ordine del giorno in ogni città sovietica.
Il passato forniva la spiegazione per tutti i mali e i problemi del presente sovietico, in uno qualsiasi dei suoi presenti; il futuro, invece, era il serbatoio di tutto il bene, che pareva già realizzato, già avvenuto
Adesso, trent’anni dopo, l’apparato simbolico sovietico sta vivendo una seconda nascita, postmoderna.
Sugli scaffali dei negozi russi sono apparsi prodotti pseudosovietici a giudicare dalle confezioni: nostalgia della fantomatica qualità del cibo sovietico. Il culto della “grande guerra patriottica” è diventato la principale giustificazione della politica estera aggressiva e militarista attuale, una fonte di perversa morale pubblica che glorifica il diritto dei forti. Viene nuovamente creato il pantheon degli eroi sovietici, le cui gesta, avvenute nella realtà o inventate dagli agenti della propaganda, dovrebbero sacralizzare il passato, renderlo immutabile e indiscutibile.
Allo stesso tempo, le discussioni storiche sul passato sono criminalizzate, alcuni argomenti, come la Seconda guerra mondiale, stanno gradualmente diventando tabù, dominio commemorativo dello stato.
Perché sta succedendo?
Ci troviamo davanti a un paradosso interessante in cui confluiscono tempo, storia e politica. Il progetto sovietico (nell’ambito di ciascuna delle sue epoche) respingeva il passato e si legittimava attraverso il futuro, attraverso un obiettivo futuristico e profetico: l’edificazione del comunismo. Il passato forniva la spiegazione per tutti i mali e i problemi del presente sovietico, in uno qualsiasi dei suoi presenti; il futuro, invece, era il serbatoio di tutto il bene, che pareva già realizzato, già avvenuto.
Effettivamente, questa legittimazione attraverso il futuro (le cose più importanti è lì che avverranno) durò fino alla fine dell’Urss. Ma la Russia di Putin ha un approccio completamente diverso con il tempo. La Russia di Putin è un progetto conservatore. Del futuro fondamentalmente non si parla con chiarezza, esso non è definito e non è desiderato. Il futuro è un insieme di cose che non dovrebbero venire; porta la corruzione, l’epidemia del liberalismo, il virus dei diritti umani. Il futuro manca totalmente di tratti positivi e non lo si vuole raggiungere, non si vuole vivere nel tempo.
Al contrario, l’era sovietica acquisisce sempre di più le fattezze di un’età dell’oro, di un periodo di grandi vittorie, un periodo in cui l’Unione Sovietica, per così dire, aveva ottime carte da giocare negli equilibri geopolitici; e non è un caso che Vladimir Putin una volta abbia definito il crollo dell’Urss come “la più grande catastrofe geopolitica del Ventesimo secolo”.
In questa logica, qualsiasi repubblica dell’ex Urss che costruisce un discorso storico a parte, che parla di occupazione sovietica, di crimini, che ha condotto o conduce un processo di decomunistizzazione, come l’Ucraina, dove sono stati abbattuti migliaia di monumenti di Lenin, si ritrova inevitabilmente ad essere considerata nemica della Russia.
Ma non si tratta di rispetto per Lenin in quanto tale, ai politici russi non importa niente di Lenin, il punto è un altro: l’aspirazione all’unità dello spazio simbolico, all’assenza di ogni critica storica che rischia di indebolire o minacciare l’impostazione del discorso storico sull’autoritarismo, che è diventato uno strumento politico interno ed esterno. Probabilmente, avremo a che fare ancora per decenni con la post-esistenza dell’Urss, con il lungo crollo dell’impero nelle nostre teste e non solo sulla mappa.
Negli anni Novanta i riformatori dell’economia speravano che bastasse il libero mercato per portare la Russia alla democrazia, per creare una società libera. Invece ne è nata un’economia semifeudale, dove il diritto alla proprietà privata è condizionato e può essere negato in qualsiasi momento a discrezione delle autorità, in cui prima dominavano gli oligarchi, e poi i siloviki, uomini di potere, che hanno privatizzato la risorsa del potere statale. È qui che nasce il loro bisogno di creare la nostalgia politica dell’Urss, il ritorno ai simboli sovietici: essi sono un mezzo per formare una maggioranza filogovernativa e manipolare politicamente gli stati vicini.
Inoltre, la storia del crollo dell’Urss mostra che tali cambiamenti, di per sé, nonostante la loro gigantesca portata, non garantiscono un cambiamento del corso politico. Quello che serve è un complesso di misure per “una giustizia di transizione” che, trent’anni fa, la società civile russa non ha avuto il coraggio di intraprendere.
E chiedersi se l’avrà il futuro rimane una domanda aperta, poiché in Russia la lezione del 1991 non è ancora stata appresa.
Articolo originariamente pubblicato su Weekendavisen.
Da -
https://voxeurop.eu/it/urss-russia-lunione-sovietica-non-e-mai-crollata/