DOMANISMO.
Arlecchino:
Che cos’è il vantaggio competitivo?
Come si fa a crearlo?
Dove si trova?
Scritto da Econopoly il 25 Ottobre 2018
L’autore di questo post è Silvano Joly, country manager di Centric Software Italia, che dal 1995 lavora in aziende high tech seguendo il mercato italiano e del Mediterraneo –
Si racconta che uno dei motivi per cui la Germania vinse i Mondiali del ’54 contro l’Ungheria fu proprio un Vantaggio Competitivo, che nella definizione accademica di Wikipedia è descritto come ciò che costituisce la base delle performance superiori registrate rispetto alla media dei concorrenti diretti nel settore di riferimento.
Ma quale fu il Vantaggio Competitivo che permise ai tedeschi di vincere la Coppa del Mondo contro ogni pronostico? La memorabile partita del 4 Luglio 1954, nelle cronache sportive descritta come Il Miracolo di Berna, si disputò appunto in Svizzera davanti a 64.000 spettatori, e venne preceduta da una forte pioggia che rese il terreno molle e scivoloso. Il Vantaggio Competitivo Germanico era proprio lì sotto, nelle scarpe con cui i tedeschi riuscirono a sentirsi ancora leggeri ed elastici mentre davanti a loro gli ungheresi, con due carri armati ai piedi, affondavano ogni minuto di più.
Il Miracolo di Berna ed il suo Vantaggio Competitivo
Gli scarpini Adidas avevano infatti una tecnologia allora unica: i tacchetti intercambiabili. Nel pantano d’erba e terra bagnata, avvenne così “il Miracolo di Berna”, i tedeschi avevano tacchetti lunghi e correvano e la partita finì a 3 a 2. L’Ungheria era più forte ma la Germania aveva un Vantaggio Competitivo che la fece prevalere.
L’episodio cambiò anche la prospettiva della calzatura da calcio e creò una nuova industria di cui anche l’Italia è oggi leader. Per giocare al football non bastò più una scarpa a protezione dei piedi ma si affermò il bisogno di un mezzo tecnico e tecnologico, per non scivolare in caso di pioggia, per un miglior controllo del pallone, stabilità nella corsa, tenuta e “grip” a terra dopo gli spostamenti più complessi (laterali, all’indietro, in ricaduta direbbe mio nipote Andrea, giornalista sportivo di belle speranze). La ricostruzione tedesca dopo la disfatta della II Guerra Mondiale, forse ricominciò proprio da lì, da un’inaspettata vittoria della Coppa del Mondo e grazie al Vantaggio Competitivo vero, consistente e fruibile che l’imprenditore Adi Dassler aveva inventato.
Ma non si po’ parlare di Vantaggio Competitivo senza parlare di Michael Porter.
Secondo le teorie del professore di Harvard, pubblicate dapprima in Competitive Advantage e poi in On Competition, due must read assoluti, la leadership di mercato si ottiene per tre vie:
– Il minor costo come Vantaggio Competitivo
la capacità dell’impresa di produrre prodotti simili o equivalenti a quelli offerti dai concorrenti ad un costo minore. I rischi connessi a tale strategia derivano dai mutamenti tecnologici che possono annullare i vantaggi precedenti; dai bassi costi di apprendimento per nuovi concorrenti; dall’incapacità di innovare poiché ci si concentra solo sul contenimento dei costi; l’aumento stesso dei costi.
– La differenziazione come Vantaggio Competitivo
la capacità dell’impresa di imporre un premium price per i propri prodotti superiore ai costi sostenuti per differenziarli, cioè dotarli di caratteristiche uniche che abbiano valore per i propri clienti al di là della semplice offerta di un prezzo basso. I rischi connessi a tale strategia possono derivare dal fatto che il consumatore non riconosca il fattore differenziale o non sia disposto a pagarlo, dalla contraffazione o l’imitazione.
– La focalizzazione come Vantaggio Competitivo
La capacità di focalizzare ogni sforzo ai costi oppure alla differenziazione. Nel primo caso per il perseguimento di un vantaggio di costo limitato ad uno o pochi mercati. Nel secondo caso, per identificare una clientela particolarmente sensibile alla qualità. I rischi connessi a tale strategia sono la massa critica della nicchia o l’incapacità di soddisfare le esigenze di tale nicchia.
Sino al 2002 sono stato un Executive presso la filale Italiana di PTC, un editore di software americano che ha rivoluzionato la progettazione meccanica assistita dal calcolatore, il CAD, e introdotto molte altre tecnologie come la prototipazione digitale, il collaborative engineering, la renderizzazione e molto altro ancora.
Michael Porter era membro onorario del nostro board, ho così avuto la possibilità di invitarlo ad una conferenza all’Università Bocconi e di scambiare con lui diverse opinioni, anche sul mercato Italiano e sull’Italica predisposizione – o meno – a dotarsi di strumenti e fare investimenti per creare il proprio Vantaggio Competitivo.
Sono passati 16 anni ma sono ancora considerazioni molto valide, ne elenco alcune.
La mia lezione con Michael Porter, Claudio De Mattè e Carlo Secchi, nel 2002
Anzitutto fermarsi a pensare, fare analisi, stilare un Activity System, come una mappa che aiuti a posizionare strategicamente l’impresa rispetto al mercato e quindi anche rispetto ai competitors. Il Made in Italy (già nel 2002) era sotto attacco, un attacco mondiale. La concorrenza in funzione di globalizzazione e internazionalizzazione è cosmica, le imprese si trovano in forte competizione le une con le altre, specie quelle che svolgono attività simili e che usano (ARGH!) l’efficacia operativa come metro di paragone, soffrono e spesso chiudono.
Porter, che si poteva ascoltare tranquillamente per ore, diceva che “Made in Italy is good” ma migliorare l’operatività, best practice, non è sufficiente.
E spiegava il perché:
– le best practice si diffondono, i competitors possono imitare sia brevetti che tecniche di gestione, tecnologie, i modi per soddisfare i clienti;
– a forza di migliorarsi si diventa simili ad altri. In un attimo ci si ritrova ad essere una commodity, che si paga un tanto al chilo. Allora che la ricetta sia essere meno italiani, parlare meno di Made in Italy? Per, invece, essere davvero differenti? Di nuovo i fondamentali della Teoria del Valore di Porter:
– varietà-unicità dell’offerta
– soddisfacimento (creazione?) di un bisogno
– modalità di accesso
E così che si diventa unici, perché la cosa difficile da copiare è il proprio Vantaggio Competitivo.
Prendiamo un caso concreto e attuale: la On Running, è un’azienda con cui la mia società collabora, che quindi conosco bene e stimo profondamente. È che ha una storia che piacerebbe a Michael Porter:
Nel 2010 una grande ambizione: cambiare il mondo della corsa. Tre amici, Olivier Bernhard, David Allemann e Caspar Coppetti, dopo il ritiro dalle gare di Olivier, campione mondiale di duathlon e pluri-vincitore Ironman, si impegnano a creare una scarpa da corsa che possa regalare una sensazione di corsa perfetta. In questa ricerca si imbatte un ingegnere svizzero con le stesse idee che ha in mente un nuovo tipo di scarpa da corsa. Negli anni a seguire, si perfeziona l’idea raggiungendo un binomio perfetto tra esperienza nella corsa ed esperienza tecnica.
Decine di prototipi, ma l’idea “atterraggio ammortizzato e decollo stabile” resta. Oggi, 8 anni dopo, le scarpe da corsa On vengono vendute in oltre 3.500 negozi specializzati in più di 55 Paesi. I prodotti On si aggiudicano riconoscimenti internazionali in fatto di design e tecnologia.
E questa tendenza positiva sembra non conoscere fine. Perché On Running ha un vantaggio competitivo, si è differenziata, ha creato un bisogno nuovo e unico che solo lei sa indirizzare. Come Adidas nel 1954…
Ma dove si trova il Vantaggio Competitivo? Come accaparrarselo?
Per un’impresa cercarlo da sola può essere difficile, costoso, lungo e probabilmente impossibile. Meglio affidarsi agli esperti o almeno farsi aiutare. I venture capital possono essere ottimi segugi.
Ad esempio io conosco bene il Club degli Investitori, un’associazione torinese (ma non si direbbe…) composta da imprenditori che investono direttamente in quote di partecipazione di startup e di piccole imprese innovative ad elevato potenziale di crescita. Ma soprattutto un Club che le aziende dove investire se le cerca. E ci mette i soldi solo se hanno il quid, il Vantaggio Competitivo. Così un investimento del Club è molto più che denaro: significa riconoscimento e permette di avere accesso anche ad altri tavoli, oltre al coinvolgimento di un gruppo di persone la cui rete di contatti ed esperienza vale molto di più del capitale stesso. Perché se hai un Vantaggio Competitivo ti viene riconosciuto sempre più.
Ad esempio uno degli investimenti del Club è Satispay un servizio di mobile payment alternativo alle carte di credito, libero, efficiente, gratuito e sicuro. Permette di scambiare denaro, pagare nei punti vendita ed e-commerce convenzionati come se si mandasse un messaggio. Un’altra idea dove il Vantaggio Competitivo ha fatto la differenza.
Satispay è infatti diverso dagli altri player, è localizzato, legato al conto in banca, permette di controllare il budget. Ed ha un modello commerciale semplice e chiaro che viene apprezzato dai negozianti. Anche quelli meno tecnologici che apprezzano semplicità e funzionalità: ad esempio il mio farmacista che – come la vetrina anni ‘30 fa pensare – certo non è un geek, ma li ha scelti, apprezzati e preferiti a più titolati sistemi di mobile payment.
E fin qui tutto bene, ma quanto Vantaggio Competitivo altrui c’è dietro il Vantaggio Competitivo stesso?
Avendo tanto detto di Porter, citerei anche Peter Drucker: che più o meno negli anni ’30 già diceva: “L’innovazione, strumento specifico dell’imprenditoria, è l’atto che favorisce il successo con una nuova capacità di creare benessere”.
E sì, l’innovazione, quindi gli investimenti, quindi la capacità di lasciare da parte i vecchi mantra, in primis “abbiamo sempre fatto così”, e imparare a confrontarsi con le altre aziende concorrenti non solo nella propria regione o solo in Italia ma nel resto del Mondo. E anche scegliendo fornitori moderni e potenti non quelli “di una vita”, gli amici degli amici che purtroppo non hanno una visione globale e vedono il mondo da un tubo di stufa. Bisogna imparare dal resto del Mondo che molto spende per migliorarsi. E molto fatica perché per innovare e costruire un Vantaggio Competitivo non basta spendere, bisogna anche faticare.
Non sono le mie opinioni o discussioni su Linkedin, ma le ricerche ISTAT analizzate da ICTBusiness a dirci che l’Italia spende troppo poco in Ricerca e innovazione, restando lontana dai target 2020 in modo abissale nella PA ma anche nelle Imprese, dove la situazione appare leggermente migliore sul fronte della ricerca cresciuta nell’ultimo decennio, ma rimane allo 0,75% del PIL, rispetto all’1,5% e al 2% di Francia e Germania.
Anche nel Global Innovation Index di INSEAD non va meglio ma almeno possiamo guardare e imparare.
La ricetta, infatti, c’è ed è semplice: la suddetta analisi (Activity System) della situazione, identificazione dei deficit dell’attuale proposta e vantaggio (o svantaggio) competitivo, piano di sanificazione con iniziative business mirate e feroci. Guardando anche a cosa fanno i competitor, non per copiarli ma per fare meglio.
In bocca al lupo Italia!
Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/10/25/vantaggio-competitivo/?uuid=96_OXKTXHyM
Arlecchino:
La vera sfida per l’Europa è l’Unione federale
Di Sergio Fabbrini 26 febbraio 2017
È probabile che la Dichiarazione di Roma del prossimo 25 marzo (per i sessant'anni dei Trattati) celebrerà il principio dell'Europa a più velocità. Dopo tutto, è un principio così ambiguo che può essere interpretato a seconda delle convenienze.
Serve ai quattro grandi Paesi (Germania, Francia, Italia e Spagna che si riuniranno a Versailles il prossimo 6 marzo) per dimostrare che non stanno con le mani in mano. Serve ai leader dei Paesi occidentali per condizionare i loro omologhi dei Paesi orientali, evocando la possibilità che siano lasciati indietro. Serve ai leader dei Paesi orientali per tranquillizzare le loro opinioni pubbliche anti-europeiste, rassicurandole che la velocità integrativa dell’ovest non sarà mai quella dell’est.
L’ambiguità è inevitabile quando la discussione sul futuro dell’Unione europea (Ue) continua a essere prigioniera di false alternative. Da una parte c’è chi sostiene che occorra andare avanti alla meglio, dall’altra chi avanza invece la necessità di un grande big bang. Per i primi, ciò che conta è far funzionare la macchina dell’Unione, generare qualche bene pubblico là dove è possibile, adattare il processo integrativo alle esigenze (o alle scadenze elettorali) dell’uno o dell’altro Paese. L’importante è rimanere dentro i Trattati esistenti. Per i secondi, invece, l’Ue deve andare verso una nuova Convenzione costituzionale che rilanci l’obiettivo di un’unione sempre più stretta tra i 27 Paesi, come risposta alle durezze che provengono da Washington e da Londra. L’importante è tenere aperta la possibilità di uscire dai Trattati esistenti.
Perché si tratta di false alternative? Per i sostenitori del primo approccio (presenti nei vari establishment tecnocratici europei), l’Ue si legittima attraverso i risultati delle sue politiche. Per quelle tecnocrazie, la legittimazione è una proprietà funzionale, non già politica, del processo integrativo. Per loro, ad esempio, è sufficiente che l’Eurozona stia uscendo dalla crisi (come sta avvenendo) affinché si ristabiliscano le condizioni di un nuovo equilibrio. Tuttavia, così non é.
L’Ue non è un’organizzazione internazionale che si legittima solamente attraverso la qualità dei suoi risultati (come, ad esempio, l’accordo di libero commercio tra Canada, Stati Uniti e Messico, il Nafta). Ovviamente, la qualità delle sue politiche conta, ma non basta. Né si può pensare di continuare a mascherare l’operato dell’Ue, come suggeriva Delors, per evitare di sollevare reazioni nazionalistiche. Da tempo è finito il consenso silenzioso al processo di integrazione. Marine Le Pen, Geert Wilders, Matteo Salvini, Frauke Petry sono lì a ricordarcelo. Alla loro sfida politica non si può rispondere con soluzioni tecnocratiche.
Per i sostenitori del secondo approccio (tra cui singoli leader ed esponenti di movimenti della società civile), l’Ue non potrà legittimarsi pienamente fino a quando non diventerà uno Stato federale parlamentare. Uno Stato funzionante sulla base della competizione tra partiti politici europei finalizzata a conquistare il controllo della Commissione, intesa come l’esclusivo governo europeo. Tuttavia, così non sarà. L’Ue non potrà mai diventare uno Stato federale parlamentare in grande, così da riassorbire al suo interno gli stati membri, trasformandoli in Laender come nell’esperienza tedesca. Gli Stati nazionali non si aboliscono con un tratto di penna, né si può pensare di trasformare le loro cittadinanze in un popolo europeo diviso esclusivamente dalle appartenenze politiche (di sinistra o di destra).
Per evitare la trappola delle false alternative, occorre rovesciare la prospettiva e cambiare il paradigma. Per quanto riguarda il paradigma, occorre recuperare l’idea dell’Unione federale, abbandonando sia quella dell’organizzazione internazionale che dello Stato parlamentare seppure federale. Sono i fatti, non già le cattive volontà dei governi nazionali, che impediscono all’Ue di diventare come la Germania. Sono i fatti, non già le cattive volontà degli elettori, che impediscono all’Ue di essere considerata come il Nafta.
Per quanto riguarda la prospettiva, occorre individuare le politiche da condividere in un’Unione federale, separandole nettamente da quelle che dovranno rimanere (o ritornare) a livello nazionale. Una volta individuate quelle politiche, poi si vedrà quali di esse potranno essere perseguite all’interno dei Trattati e quali invece richiederanno di uscire da questi ultimi. Quali sono le politiche che dovrebbero essere gestite da un’Unione federale? L’analisi comparativa delle unioni federali di successo (Stati Uniti e Svizzera), ci dice che esse sono limitate (ma con una valenza giurisdizionale generale, cioè non consentono opt-out). Esse rientrano in tre grandi aree di policy. La prima è quella della sicurezza, area che include la diplomazia, la difesa, l’intelligence e il controllo delle frontiere. Le unioni si fanno per difendersi da minacce esterne e interne. E noi ne abbiamo parecchie da affrontare (senza poter più contare sul sostegno americano). La seconda area è quella economica, area che include la gestione della moneta comune, ma anche la politica fiscale, di bilancio e sociale dell’Unione. Quest’ultima deve dotarsi di un proprio (seppure piccolo) bilancio, basato su una fiscalità autonoma e utilizzabile per sostenere politiche anti-cicliche e sociali, come l’assicurazione europea contro la disoccupazione giovanile o il sostegno alle regioni meno sviluppate dell’Unione. La terza area è quella dello sviluppo, area che include le politiche di investimento nei campi della ricerca scientifica, delle infrastrutture, dell’innovazione.
Queste politiche debbano fare parte di un unico e coerente progetto. Non si può aderire a una policy, ma rimanere fuori da un’altra. La differenziazione nelle politiche non consente ai cittadini di valutare coloro che prendono le decisioni e sostituirli se così ritengono. Contemporaneamente occorre dire che tutte le altre aree di policy dovranno rimanere sotto il controllo degli Stati nazionali che le governeranno sulla base dei loro processi democratici interni. Si dovrebbe anche aggiungere che alcune politiche attualmente gestite dalla Ue (come la politica agricola) è bene che ritornino una competenza nazionale (alleggerendo il budget europeo di 1/3 della sua spesa).
Un gruppo di Paesi (tra cui l’Italia) dovrebbe farsi carico di definire questo progetto e dargli una coerenza istituzionale. È probabile, anzi sicuro, che alcuni Paesi si opporranno a esso, preferendo l’Europa à la carte che rafforza il loro sovranismo. La risposta dovrà essere un rafforzamento del mercato singolo, luogo della collaborazione tra quei Paesi e gli altri. Insomma, invece di scegliere tra false alternative, varrebbe la pena di usare la Dichiarazione di Roma per individuare le politiche comuni che possono configurare l’Unione federale. Tra la miopia tecnocratica che vede solo il giorno per giorno e la presbiopia ideologica che vede solo l’infinito c’è una futura unione federale che si può costruire sin da subito.
© Riproduzione riservata
Sergio Fabbrini. Professore ordinario di Scienza Politica e Relazioni Internazionali e Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche presso la LUISS Guido Carli, dove ha fondato e diretto la School of Government ...
Da - https://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-02-26/la-vera-sfida-l-europa-e-l-unione-federale-111857.shtml?uuid=AEEXHYd
Arlecchino:
Si assiste a un risveglio. La politica tra i partiti e un nuovo «civismo»
La politica tra i partiti e un nuovo «civismo»
Giorgio Merlo - sabato 24 novembre 2018
Caro direttore,
la geografia politica, almeno così pare, sta nuovamente cambiando. In un contesto dove le ideologie sono state cancellate dalla storia, dove le appartenenze culturali non generano più adesione ideale e concreta scelta di voto e dove la volatilità elettorale è sempre più rapida e veloce. Del resto, dopo le lezioni del 4 marzo 2018 è cambiato l’intero panorama politico e difficilmente, almeno per qualche anno, si potrà ritornare indietro. E, nel frattempo, continua a crescere il ruolo dei leader, o dei capi e, specularmente, a scendere il peso e la funzione dei partiti. Certo, tutto questo è anche il frutto di una violenta e spietata personalizzazione e spettacolarizzazione della politica che ha, di fatto, contribuito pesantemente a ridurre il ruolo democratico e costituzionale delle formazioni politiche. A oggi, infatti, registriamo un crescente distacco e una rinnovata sfiducia nei confronti di partiti intesi come strumenti di elaborazione culturale e progettuale e, soprattutto, come veicoli di partecipazione politica attiva e militante. Ormai nei partiti personali e del capo è difficile respirare una vera democrazia. Di norma, come tutti sanno, prevalgono altri elementi: la fedeltà al leader e un gregariato diffuso, accompagnati da una scarsa – se non nulla – elaborazione politica e progettuale.
Ora, se purtroppo i partiti continuano a perdere credibilità e autorevolezza, c’è al contempo un ritorno di attenzione al ruolo e alla valenza delle culture politiche – tradizionali e no – e, inoltre, non possiamo non registrare un protagonismo del civismo. Le recenti iniziative di un gruppo di donne a Roma che contestano le scelte amministrative della giunta comunale Raggi e la manifestazione 'Sì Tav' a Torino per incalzare la sindaca Appendino confermano che c’è un risveglio politico che esula dai tradizionali canali politici. E questo per citare solo i due avvenimenti che hanno destato maggior attenzione nella pubblica opinione. Certo, è evidente a tutti che non mancano le contraddizioni e le zone d’ombra. Per quanto riguarda Torino, ad esempio, non possiamo non dire che dietro queste manifestazioni si nasconde anche un disegno di alcuni dirigenti politici dei partiti – nello specifico del Pd – che puntano attraverso altre modalità di raggiungere i medesimi obiettivi politici. Ma, al di là di questo malcostume politico pur sempre presente, è indubbio che sta emergendo in tutto il Paese una domanda di politica che non può essere respinta con indifferenza e qualunquismo. È la nascita di un civismo a cui va prestata forte attenzione e considerazione. A cominciare proprio dai partiti tradizionali.
Sotto questo profilo, il dinamismo e la vivacità che attualmente caratterizzano l’area cattolico democratica, sociale e popolare del nostro Paese conferma che il civismo può essere considerato, a pieno titolo, come un fatto politico reale. Che va ovviamente interpretato e a cui, però, va data una risposta politica, culturale e anche organizzativa. E, nello specifico, va avviata al più presto un’iniziativa ispirata a una convinta e motivata ricomposizione politica di un’area che oggi chiede, seppur in modo ancora un po’ confuso e disorganizzato, una rappresentanza politica che è andata sostanzialmente e progressivamente disperdendosi negli ultimi anni. E questo in particolare dopo il voto della scorsa primavera che ha visto l’esaurirsi, forse definitivo e irreversibile, dei due partiti che sino a qualche tempo fa erano largamente rappresentativi di quei mondi: e cioè, il Partito Democratico e Forza Italia. La necessità, però, di ricostruire una presenza politica organizzata di parte dell’area cattolica italiana passa anche, e soprattutto, attraverso la capacità di saper unire chi è più sensibile alla cultura e alla dimensione di partito a chi, invece, coltiva la vocazione di una presenza civica e meno riconducibile a una esperienza di partito.
Solo unendo le due esperienze in una feconda e costruttiva sintesi politica e culturale sarà possibile ricostruire e ridar voce a un mondo che attualmente è ai margini della vita pubblica italiana. Senza ulteriori timidezze e senza indugiare riproponendo vecchi schemi ormai superati dalla storia.
© Riproduzione riservata
Da - https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-politica-tra-i-partiti-e-un-nuovo-civismo
Arlecchino:
Domanismo perché abbiamo bisogno di tempo per capire che dobbiamo cambiare modo di pensare e agire diversamente da come abbiamo fatto sino ad ora.
Il nostro "Domani" non è un rinviare a dopo la soluzione dei problemi ma, al contrario, darsi molto da fare subito, per arrivare più presto possibile al “Nuovo Oggi”.
Il Domanismo è un luogo virtuale dove radunarsi per studiare come riuscire a cambiare modo di pensare per evolvere, senza negare, da un oggi che non è ancora per la gente e per il singolo Cittadino.
Nessuna negazione del passato o del presente cui siamo pervenuti ma soltanto un Progetto socio-politico da mettere a punto per governare il sorgere di una nuova Italia, perché si è cambiato il modo d’essere Italiani.
ggiannig
Arlecchino:
MONDO
06 Gennaio 2019 - Il Sole 24 Ore domenica
L’ANALISI
La new economy compensa il declino di comparti storici
«La scelta di Austin per il nuovo campus di Apple avrà effetti a catena, di investimenti, posti di lavoro, nuovo talento, imprese. Ci sarà crescita per l’intera area». A parlare è Adriana Cruz, direttore della Greater San Marcos Partnership, associazione per lo sviluppo economico di una regione a mezz’ora dalla capitale texana. È di passaggio a New York proprio per corteggiare aziende e investitori. E il suo invito è l’esempio di come i protagonisti della new economy, indipendentemente dalle peripezie di borsa, restino oggi il nocchiero dell’economia americana con i loro progetti di espansione, sia strategici, con l’ingresso rivoluzionario dell’hi-tech in crescenti campi, che fisici, con inedite enormi sedi. Accanto a Apple a Austin gli ultimi mesi hanno visto Amazon conquistare New York e Virginia per un secondo, sdoppiato, quartier generale. E Google di Alphabet raddoppiare la scommessa su Manhattan.
Comparti più tradizionali, in un’economia sempre più dominata da servizi e attività a maggior sofisticazione e valore aggiunto, hanno invece continuato a soffrire, nonostante la retorica sul loro riscatto. Il caso eclatante è il carbone. L’occupazione oscilla da tempo attorno ai 53mila addetti e ne ha aggiunti forse 2.500 da quando Donald Trump è presidente. Il trend epocale negativo è intatto: un declino decennale, culminato nel 2018 con il livello minore di uso del carbone dal 1979 mentre per produrre energia elettrica avanzano gas e fonti rinnovabili. Nel 2019 altri 20 obsoleti impianti dovrebbero chiudere. E se il carbone è punto dolente, anche segmenti manifatturieri, dai condizionatori ai vecchi stabilimenti di assemblaggio auto, faticano.
Le aziende tech, al contrario, inseguono nuove frontiere da sole o con partnership, dai servizi cloud a sanità e medicina, da vetture self-driving ai mille usi dell’intelligenza artificiale. Facebook, che ha aumentato i dipendenti del 45% in un anno, sta per insediarsi in una nuova torre a San Francisco diventando il terzo inquilino tech della città dietro Salesforce e Uber. La forza lavoro di Alphabet è cresciuta in un anno del 21%; i dipendenti di Amazon, mezzo milione senza i temp, sono triplicati in un triennio con il moltiplicarsi di magazzini e l’integrazione dei supermercati Whole Foods.
I nuovi e sbandierati progetti miliardari di espansione di Amazon e Google, ben oltre i confini di Silicon Valley, non arrivano insomma a caso. Amazon investirà cinque miliardi in vent’anni per assumere 50mila dipendenti tra New York e Arlington, coltivando media e pubblicità come la sicurezza cibernetica del Pentagono. Google raddoppierà gli occupati a Manhattan a ventimila per meglio catalizzare innovazione e contratti, e ha in programma un nuovo campus anche a San José. Hanno sicuramente le forze per farlo. Apple, Amazon, Facebook e Alphabet (Google) nel terzo trimestre dell’anno scorso - l’ultimo riportato - hanno messo a segno assieme un fatturato da 167 miliardi, in crescita di un quarto. E il destino dell’economia americana è sempre più nelle loro mani.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
M.Val.
Da - https://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&issue=20190106&edizione=SOLE&startpage=1&displa
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