LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 08:28:48 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 7 8 [9] 10 11 ... 20
  Stampa  
Autore Discussione: FEDERICO GEREMICCA -  (Letto 158048 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #120 inserito:: Novembre 26, 2010, 11:59:13 pm »

26/11/2010

La tentazione dell'addio alle primarie

FEDERICO GEREMICCA

La preoccupazione che li ha spinti all’inatteso dietro front, non è affatto diversa da certi attualissimi timori italiani: ed è in fondo sintetizzabile con l’adagio secondo il quale errare è umano, ma perseverare è diabolico. E così, i socialisti francesi hanno deciso - se non proprio di cancellarle - certo di dare una sostanziosa «aggiustata» (per dirla con Bersani) alle primarie per la scelta del candidato che sfiderà Nicolas Sarkozy nella corsa all’Eliseo.

In due parole: Martine Aubry, Ségolène Royal e Dominique Strauss-Kahn - cioè i tre big favoriti per la vittoria nella sfida interna al Partito socialista d’Oltralpe - hanno annunciato che non gareggeranno l’uno contro l’altro. In primavera valuteranno i rispettivi consensi (e le possibilità di vittoria finale contro Sarkozy) e dei tre resterà in pista soltanto il candidato più forte. Martine Aubry, segretario del partito, ha spiegato la svolta così: «Dal passato abbiamo imparato delle lezioni, le lezioni della divisione, per esempio...». Dunque, basta continuare a farsi del male: a scendere in pista nelle primarie contro alcuni giovani e ambiziosissimi leoni del Psf, sarà solo uno dei big del partito (che a quel punto potrà contare sul sostegno dell’apparato e dell’intero stato maggiore socialista). Le primarie, dunque, non sono formalmente cancellate: ma svuotate e notevolmente addomesticate, di sicuro sì (tra le forti e ovvie proteste dei «giovani leoni» del Psf).

E’ facilmente prevedibile che la scelta dei socialisti francesi divenga oggetto di analisi e discussione anche nel centrosinistra italiano, e non solo per il fatto che le primarie furono importate in Francia nel 2007, proprio dopo la prima esperienza italiana (che vide Romano Prodi vincere quelle dell’Ulivo nel 2005 e poi battere Berlusconi). Infatti, i dubbi intorno alla circostanza che siano diventate uno strumento per «farsi del male» vanno crescendo molto anche qui da noi: e soprattutto nel partito che più di ogni altro le ha volute e che più di ogni altro - da un po’ in qua - ne sta pagando il conto, cioè il Pd. Le vittorie riportate contro lo stato maggiore del Partito democratico da Matteo Renzi, Nichi Vendola e in ultimo Giuliano Pisapia a Milano, sanguinano ancora: ed è nulla di fronte a quel che potrebbe accadere in occasione dell’annunciata sfida tra Bersani e Vendola per la nomination a candidato premier.

Tra le primarie francesi e quelle italiane le differenze, come è noto, sono molte e non di poco conto: Oltralpe sono «di partito» e qui da noi «di coalizione»; inoltre, in Francia possono votare per la scelta del candidato solo gli iscritti, mentre in Italia tale possibilità è garantita anche ai semplici elettori. Tradotto vuol dire, per esempio, che a Roma il Pd potrebbe magari decidere di far ritirare eventuali candidature interne e alternative al segretario (per esempio Chiamparino, Renzi o chiunque ci stesse pensando) ma non potrebbe certo fermare la corsa di Vendola.

E’ chiaro, comunque, che - annotate tutte le differenze - della scelta francese andrebbe colto e discusso il messaggio di fondo: che è un ripensamento dello strumento-primarie, del suo uso e delle sue degenerazioni. Che vi siano problemi crescenti, è evidente. Sergio Chiamparino ieri li ha riassunti così: «Non possono essere il modo per regolare i rapporti tra partiti, gruppi e correnti». Andrebbe aggiunto che, utilizzate per gli obiettivi denunciati dal sindaco di Torino, le primarie a volte non servono nemmeno a selezionare il candidato con le maggiori possibilità di vittoria finale.

Materia per riflettere in Italia sulla scelta dei socialisti francesi, ce n’è dunque a sufficienza. Resta da capire se oltre alla materia ce ne sia anche il tempo. Infatti, il precipitare della crisi verso le elezioni, renderebbe praticamente impossibile qualunque aggiustamento condiviso. E non resterebbe che mandare in scena e attendere l’esito dell’annunciata sfida tra Bersani e Vendola. Una sfida dal risultato sempre più incerto: e che, dopo la débâcle milanese, comincia a preoccupare seriamente l’intero stato maggiore del Pd...

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8135&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #121 inserito:: Dicembre 05, 2010, 12:26:57 am »

Politica

04/12/2010 - RETROSCENA

Lo sforzo del Colle per frenare il caos

Legittimo impedimento, si va verso lo slittamento

FEDERICO GEREMICCA

ROMA

Le Borse che tremano, i partiti che tramano, la Camera che chiude, gli studenti sui tetti, il Pd che va in piazza: e come se non bastasse, i micidiali report di Wikileaks che avvelenano i pozzi. L'Italia entra così - e non potrebbe dunque entrarci peggio - nella settimana che precede l'annunciatissimo big bang del 14 dicembre, martedì, festa di San Giovanni. Tensione e nervosismo che si tagliano a fette. Tensione, nervosismo e invasioni di campo: che hanno di nuovo costretto il Quirinale - ieri a tarda ora - a ricordare i propri poteri e le proprie prerogative in tempo di crisi.

Non tocca ai partiti, dunque, fissare la data delle elezioni; non tocca a loro stabilire se, come e quando sciogliere le Camere. E non tocca a loro nemmeno - Costituzione alla mano - indicare il nome del futuro ed eventualissimo nuovo presidente del Consiglio. Il Colle stavolta ha scelto la via soft della nota super ufficiosa («Negli ambienti del Quirinale si apprende...») perché non è questo il tempo di nuovi bracci di ferro e di ulteriori scontri. La parola d'ordine, anzi, è raffreddare il clima, abbassare la tensione e affrontare con calma e responsabilità l'atteso passaggio parlamentare del 13 e 14 dicembre. Certo che se altri dessero una mano...

La data fatidica dunque si avvicina e al Colle si annotano i segnali distensivi (pochi) e i continui lanci di benzina sul fuoco (molti e quotidiani). Tra i primi vanno annoverati - nulla ancora d'ufficiale, s'intende - il possibile slittamento a gennaio della decisione della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento, questioni sentitissima dal premier e fonte di sospetti e nervosismi. La coincidenza col dibattito parlamentare (la Corte ha fissato da tempo le sue udienze per i giorni 14 e 15 dicembre), il fatto che il premier ed i suoi legali saranno impegnati in Parlamento e la necessità di eleggere un nuovo presidente, pare stiano orientando i vertice dell'Alta Corte ad un rinvio della discussione alla prima seduta utile di gennaio. E' una decisione con la quale la politica non c'entra niente, naturalmente: ma se maturasse, sgombrerebbe temporaneamente il campo almeno da un problema. Il resto, invece, è un affastellarsi di polemiche grevi e di tensioni. Al Quirinale si considera il livello di guardia assai vicino. Del resto, quando un parlamentare e coordinatore del Pdl (Verdini) giunge ad affermare che «il presidente ha le sue prerogative ma noi ce ne freghiamo» c'è poco da aggiungere. Si continua a sperare, naturalmente, in una qualche iniziativa che riporti il confronto a livelli decenti; si continua a ripetere «non si può arrivare al 14 così, qualcosa accadrà»: ma anche al Colle - ormai - non ci sperano quasi più. Del resto, grazie ai pochi e m a l c o n c i “ambasciatori” rimasti a far la spola tra i due palazzi (Napolitano e Berlusconi di fatto non si parlano più) una via per riportare la crisi su binari “normali” era stata individuata. Ma il premier pare non volerne sapere...

Nella sostanza, una soluzione poteva (può) esser celata proprio nella contestualità non perfetta dei dibattiti e delle votazioni che avranno luogo al Senato e alla Camera il 13 e il 14. La prima aula a votare sarà quella di palazzo Madama, dove è certo che il premier otterrà una larga fiducia. A quel punto (ed evitando il voto di sfiducia praticamente certo dell'aula di Montecitorio) Berlusconi potrebbe salire al Colle per riferire al capo dello Stato la situazione, dimettersi e prospettare - però - l'intenzione di provare a formare un nuovo governo: in un caso così, un reincarico largamente possibile, se non addirittura certo. Ma Berlusconi (nonostante le insistenze di Gianni Letta, “consigliere” del quale il premier pare fidarsi sempre meno) non sembra intenzionato a seguire questa via, preferendo - come al solito - il muro contro muro.

Se nulla accadrà nella settimana che sta per aprirsi, dunque, in campo non resteranno che le compravendite di deputati, il voto della Camera praticamente al buio e possibili tensioni al momento difficili da immaginare. E in un caos fatto di minacce di elezioni, speranzedi governi tecnici e parole a vuoto, toccherà a Napolitano indicare la via. Saranno giorni certo non facili per il presidente: un presidente - questa è la sensazione - che alcuni temono forse troppo e nel quale altri forse sperano ugualmente troppo...

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/378608/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #122 inserito:: Dicembre 07, 2010, 12:09:59 pm »

7/12/2010

Le strategie dietro agli insulti


FEDERICO GEREMICCA

La Camera chiusa - ormai da una settimana - per sopraggiunta impraticabilità del campo; i canali di comunicazione all’interno della ex maggioranza irrimediabilmente ostruiti da tempo; l’insulto - di ogni tipo - che ha soppiantato ogni pur flebile tentativo di dialogo; e tutt’intorno il Palazzo di Montecitorio, l’apparire di manifesti forse più amari che offensivi: «AAA deputato meridionale si offre per votare la fiducia. Prezzi modici. No perditempo». A una settimana dal voto che deciderà le sorti (e il futuro) di Silvio Berlusconi e della legislatura, il quadro è questo: e il peggio, forse, non è ancora arrivato.

In fondo, l’assurdità della crisi in corso è sintetizzata tutta da due circostanze. La prima: l’assoluta assenza di un filo di dialogo capace - dalla rottura della maggioranza a oggi - di far fare un solo passo in avanti alla crisi stessa.

La seconda: il fatto che, a pochi giorni dai voti di fiducia (e di sfiducia) non si trovi un solo leader politico che abbia voglia di azzardare un qualunque pronostico circa l’epilogo della vicenda. Che siano ritenute ugualmente possibili soluzioni che vanno dallo scioglimento delle Camere a un nuovo governo Berlusconi che addirittura completi la legislatura (passando per esecutivi tecnici o nuovi governi di centrodestra non guidati dall’attuale premier) dice a sufficienza dello stato confusionale in cui pare esser caduta la politica: anche quella con la presunta P maiuscola. Alcune dichiarazioni recenti e i timori montanti di leader come Fini e Casini di tenere unite le rispettive truppe di fronte all’ipotesi di scioglimento delle camere stanno facendo risalire le quotazioni di un possibile Berlusconi-bis: ma si tratta di segnali forse ancora troppo deboli per affermare che in fondo al tunnel della crisi si cominci a vedere una luce.

E’ questo, in fondo - l’assenza della ricerca di una soluzione possibile e condivisa - ad aver lasciato campo aperto all’insulto: corollario inevitabile della politica del muro contro muro. Al «ce ne freghiamo del Presidente» (Verdini) hanno fatto seguito il «non lascerò mai a vecchi maneggioni» (Berlusconi) e il «se noi siamo vecchi, lui è catacombale» (Casini). Considerando che manca ancora una settimana al d-day che andrà in scena tra Camera e Senato, non è detto che si sia già visto il peggio. Ciò nonostante, i ben informati e gli analisti più ottimisti hanno una «lettura» di quanto va accadendo perfettamente in grado - a loro dire - di spiegare l’inarrestabile escalation polemica.

La chiave di tutto starebbe, naturalmente, proprio nell’appuntamento e nei voti di martedì 14 dicembre. Come è pensabile - spiegano - che mentre entrambi gli schieramenti sono impegnati in una disperata «caccia al voto» di questo o quel parlamentare, possano trovare spazio aperture al dialogo, offerte di trattativa e - magari - ipotesi di soluzioni condivise? Questo - argomentano - è il tempo dei messaggeri di guerra, non degli ambasciatori di pace. Quindi - è la conclusione - non fatevi illusioni e preparatevi a toni ancor più aspri: il dialogo potrà partire solo dopo i voti di Camera e Senato.

E’ un’analisi, naturalmente, condivisibile e che - per altro - non aggiunge nulla di nuovo a certi notissimi rituali della politica. Se non fosse per due non irrilevanti particolari. Il primo è del tutto evidente: così continuando, l’escalation di accuse e controaccuse potrebbe finire per consumare del tutto i margini per qualunque possibile intesa futura; il secondo è meno scontato, ma non per questo meno rilevante: dopo il voto dei due rami del Parlamento potrebbe esser troppo tardi per qualsiasi tentativo di ricucitura e salvataggio della legislatura (e non è detto che non sia questo, in fondo, l’obiettivo ultimo del presidente del Consiglio).

Comunque stiano le cose, scenario e prospettive non sono certo esaltanti: ed è inutile - e perfino retorico - ripetere che è ben altro ciò di cui il Paese avrebbe oggi bisogno. Ma se non è per gli interessi (il bene) del Paese che vale la pena di far appello ai partiti per un recupero di ragionevolezza, forse può avere un senso invitarli alla saggezza guardando ai loro stessi interessi. L’Italia ha già conosciuto crisi che hanno travolto, in conclusione, gli stessi partiti, i loro leader e perfino la loro possibilità di restare in campo. Stiano attenti, dunque, a giocare troppo col fuoco e con la pazienza degli italiani. Alla fine del percorso, infatti, oltre che la crisi e le elezioni, potrebbero trovare amare, anzi amarissime e impreviste sorprese...

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8176&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #123 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:19:59 pm »

12/12/2010

Bersani, la ricreazione finita e quelle urne da evitare


FEDERICO GEREMICCA

Nell’ottobre di due anni fa, il Pd a «vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni radunò il suo popolo al Circo Massimo per una delle più grandi manifestazioni che la Capitale avesse (e abbia) mai ospitato.

Tre mesi e mezzo dopo, però, il segretario fu costretto a gettare la spugna («Non ce l’ho fatta e chiedo scusa per non avercela fatta») e in qualche successiva intervista raccontò di aver sentito, su quel palco romano, la gelosia e l’invidia di molti dei dirigenti che gli erano affianco, in ragione del grande successo di quella manifestazione. Molta acqua - non moltissima, in verità - è passata sotto i ponti: ma se c’è una cosa della quale si può esser ragionevolmente certi, è che nessuno - ieri - sopra o sotto il palco di piazza San Giovanni, fosse animato da sentimenti d’invidia nei confronti di Pier Luigi Bersani.

Dall’ottobre del 2008 ad oggi, infatti, la crisi del Partito democratico è andata avanti senza soluzione di continuità: e se gli ultimissimi sondaggi lo danno in risalita dopo mesi di declino, è pur vero che lo stimato 25 per cento colloca il partito oltre otto punti al di sotto della soglia raggiunta nelle elezioni politiche del 2008. L’opera alla quale Bersani è stato chiamato giusto un anno fa, insomma, non sembra - come i fatti confermano - di quelle capaci di calamitare invidie: meriterebbe, al contrario, il pieno sostegno da parte degli iscritti e - soprattutto - di tutti i dirigenti. Appunto quel sostegno ieri invocato dal segretario con un appello inequivoco: «La ricreazione è finita anche per noi».

Il leader dei democrats, al contrario, sembra andare incontro ad appuntamenti decisivi per la sorte del governo, della legislatura e forse dello stesso Partito democratico in un clima di traballante solidarietà. Non che la sua leadership, naturalmente, sia oggi messa in discussione: ma il discorso già si fa diverso - e di molto - se invece il tema diventa la sua candidatura a premier (questione non oziosa, considerata l’alta possibilità di elezioni la prossima primavera). Scontata fino a ieri - essendo il segretario del maggior partito della coalizione che si opporrà a Berlusconi - da qualche tempo è messa seriamente in discussione: sia da destra che da sinistra, come si è soliti dire.

L’enorme folla che ieri ha riempito piazza San Giovanni ha forse chiaro solo in parte quanto avanti siano certi giochi: la partita, invece, è già avviata e non pare affatto semplice per il leader del Pd. Chi continua a insistere (D’Alema, ad esempio) affinché il Partito democratico si impegni per un’alleanza elettorale con il Terzo polo, sa bene che una delle implicazioni di tale scelta politica è la rinuncia - da parte del Pd - ad esprimere il candidato premier. Se, al contrario, si decidesse (magari di necessità) di puntare su un’alleanza elettorale «di sinistra» - con Vendola e Di Pietro - le cose non sarebbero certo meno complicate. Infatti, risorto dalle ceneri di quella sinistra radicale ridotta in polvere proprio dalle scelte del Pd a «vocazione maggioritaria», il governatore della Puglia è pronto a sfidare il leader dei democrats in elezioni primarie in quel caso difficilmente aggirabili. E non c’è pronostico che dia - nel migliore dei casi - Bersani in affanno a spuntarla su Vendola.

Si vedrà. Per ora il segretario del Pd tira dritto, a maniche rimboccate, sperando nella solidarietà del suo gruppo dirigente e avendo, nel breve periodo, due obiettivi tutt’altro che segreti: abbattere il governo di Silvio Berlusconi e allontanare le elezioni anticipate. Il voto va certo evitato per le condizioni in cui versa il Paese, e per la pessima legge elettorale che lo disciplinerebbe: ma è evidente che - per Bersani - uno dei risultati «collaterali», in caso di slittamento delle elezioni, sarebbe guadagnare tempo per rimettere su gambe più salde il Pd e perfino le sue legittime aspirazioni a guidarlo verso la riconquista di Palazzo Chigi.

Il leader dei democrats proverà con ogni forza a centrare entrambi gli obiettivi, e questo è certo. Al contrario, in caso di fallimento, c’è già chi ipotizza che piazza San Giovanni possa diventare, per lui, quel che il Circo Massimo fu per Veltroni: il canto del cigno.

Con la differenza che a rimetterci le penne, stavolta, non sarebbe solo un segretario, ma forse l’idea stessa che fu all’origine della nascita del Pd

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8191&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #124 inserito:: Dicembre 13, 2010, 04:04:41 pm »

Politica

13/12/2010 - IL CASO

Sulla legge elettorale si arena il fronte degli anti-Cavaliere

Dubbi dei finiani, no di Vendola: così è crollato l’asse Fli-Udc-Pd

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Doveva essere la madre di tutti gli argomenti, l’intesa a partire dalla quale provare a convincere il Capo dello Stato a dare il via libera a un governo tecnico: e invece, il possibile accordo su una nuova legge elettorale - al quale Pd, Udc e finiani hanno lavorato fino a qualche giorno fa - è finito miseramente in frantumi.

A far tramontare la possibilità di un’intesa ci hanno pensato - da una parte - gli uomini di Fini, avviando una trattativa parallela con gli emissari del Pdl; e dall’altra il “niet” di Nichi Vendola, che il Pd - in fondo - s’aspettava. Se a queste due posizioni si aggiungono le perplessità crescenti dell’Udc intorno al sistema cui si lavorava, il quadro delle ragioni del naufragio è completo.

L’effetto del fallimento è evidente, e pesante come mai in queste ore che decideranno dei destini del governo e - forse - della legislatura: viene a cadere, infatti, un argomento forte (e cioè l’esistenza di un accordo sul tipo di riforma da varare) a sostegno della richiesta - di fatto già prospettata da tempo al Capo dello Stato - di evitare il ritorno alle urne con il Porcellum, sistema elettorale oggi contestato anche da chi (Fini) diede l’ok in Parlamento sul finire della legislatura 2001-2006. Il fallimento della trattativa, com’è chiaro, indebolisce di molto la posizione di chi vede come il fumo negli occhi nuove elezioni anticipate disciplinate dall’attuale legge elettorale. E riduce non poco, di fatto, anche gli ipotetici margini di manovra del Presidente della Repubblica.

Lo schema d’intesa cui Pd, Udc e Fli hanno lavorato per settimane prevedeva l’assegnazione del 50% dei seggi della Camera con un sistema a doppio turno, il 45% in maniera proporzionale (collegio unico nazionale, al quale avrebbero avuto accesso i partiti che avessero superato una soglia di sbarramento fissata al 5%) ed il restante 5% dei seggi - come diritto di tribuna - alle forze che fossero rimaste al di sotto della soglia di sbarramento. In questo schema, l’indicazione del candidato premier sarebbe avvenuta al secondo turno di ballottaggio nei collegi uninominali.

Le perplessità degli ambasciatori di Pier Ferdinando Casini hanno riguardato, sin dall’avvio, la quota di deputati da eleggere col sistema proporzionale (infatti elevata dall’iniziale 40% fino al 50%) e la perdurante assenza del voto di preferenza. Ma non sono state le obiezioni dell’Udc - in verità - a far franare l’intesa, quanto il comportamento ondivago avuto dai finiani e il no molto netto arrivato dalla sinistra di Nichi Vendola. Due le obiezioni del governatore della Puglia: una confessabile, diciamo così, e l’altra tenuta sullo sfondo (seppur nota ai più).

L’argomento non messo esplicitamente sul tavolo dagli uomini di Vendola riguarda la circostanza che Sinistra, ecologia e libertà è contraria a governi tecnici o di responsabilità e preferisce - in caso di crisi del governo di Silvio Berlusconi - un immediato ritorno alle urne. L’obiezione avanzata esplicitamente agli “alleati” del Pd punta, invece, direttamente al cuore di una questione assai sentita da Vendola: e cioè le primarie. Naturalmente, non è sfuggito agli uomini del governatore della Puglia il fatto che il sistema elettorale in esame rendeva, di fatto, impossibile lo svolgimento delle primarie. Con l’obbligo dell’indicazione del candidato premier soltanto al secondo turno nei collegi, sarebbe risultato tecnicamente impossibile tenere la “consultazione” di iscritti ed elettori alla vigilia dei ballottaggi.

Sia come sia, il cumulo di distinguo ed obiezioni più o meno motivate ha condotto al naufragio della complicata trattativa. E la situazione, alla vigilia delle 48 ore che decideranno dei destini di governo e legislatura, è riassumibile più o meno così: su un piatto della bilancia c’è la posizione di Berlusconi che dice “o il mio governo o le elezioni”: sull’altro... Beh, sull’altro - a questo punto - c’è poco o nulla. Anche se la perdurante emergenza economica, naturalmente, resta pur sempre un’ottima ragione per chiedere a Napolitano il varo di un governo di "responsabilità nazionale"...

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/379721/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #125 inserito:: Dicembre 18, 2010, 09:35:54 pm »

15/12/2010

A sinistra la resa dei conti

FEDERICO GEREMICCA

L’obiettivo era «mandarlo a casa». E Bersani, in fondo, l’aveva perfino promesso alla folla di militanti radunati sabato a piazza San Giovanni.

Invece l’assalto è fallito: e come inevitabilmente accade ogni volta che si dichiara una guerra e poi la si perde, il contraccolpo nel campo degli sconfitti rischia di essere assai pesante. La mazzata è certamente dura per Antonio Di Pietro, che dopo essersi speso nella battaglia con tracotanza ed energia, ha subito lo smacco di abbandoni e defezioni nel suo gruppo proprio al momento del voto. Ma se per l’ex magistrato è dura, per il Partito democratico la mazzata potrebbe farsi addirittura terribile, in ragione della «resa dei conti» che pare già avviata e delle prospettive a breve termine, da ieri avvolte da una luce sinistra.

Non che non vi siano, come sempre, motivi di parziale (o apparente) soddisfazione. E senz’altro vero, infatti, che - a dispetto delle voci fatte circolare ad arte - il Pd ha «tenuto botta» in maniera granitica al momento del voto (206 sì alla sfiducia su 206 deputati componenti il gruppo); ed è ugualmente un fatto - come afferma Bersani - la circostanza che il campo delle opposizioni si sia allargato, mentre quello della maggioranza abbia perso pezzi e si sia ristretto. Ma se si vuol guardare avanti, bisognerebbe riconoscere che i motivi di soddisfazione finiscono qui: mentre la battaglia persa sembra destinata a ingigantire tre problemi dalla cui soluzione dipende il futuro delle opposizioni e del Pd in particolare.

La prima questione riguarda senz’altro la capacità delle forze che si oppongono a Berlusconi di raggiungere almeno un minimo comun denominatore in grado di farle apparire alternativa credibile. E’ un problema assai serio, manifestatosi in tutta la sua nettezza proprio nei lunghi mesi che hanno preceduto il voto di ieri. Quanto più il momento dello show down si avvicinava, tanto più emergeva l’incapacità delle opposizioni - dal Pd fino al Fli - di far fronte comune mostrandosi, di fronte al Paese, pronte al ricambio. Una babele di voci distinte e, alla fine, perfino il serpeggiare di reciproci sospetti. E non può essere un caso il fatto che il Pdl, in caduta libera da questa estate, abbia cominciato a risalire nei sondaggi proprio con l’avvicinarsi del fatidico 14 dicembre: probabilmente in ragione dell’assenza - agli occhi degli elettori - di un’alternativa seriamente praticabile. La seconda questione punta direttamente al cuore del progetto che fu alla base della nascita del Pd. Un minuto dopo il risultato del voto di ieri, le tradizionali (e ormai stucchevoli) polemiche sono ripartite, quasi non si aspettasse altro. Polemiche note: un Pd senza «vocazione maggioritaria» finisce per essere tanto subalterno da inseguire, senza prudenza, Fini e perfino la Carfagna; un Pd «troppo di sinistra» è destinato a non tessere alleanze e ad essere battuto nelle urne; un Pd dei «soliti noti» e incapace di aprirsi al rinnovamento interno - infine - non può che imboccare il suo viale del tramonto. E si potrebbe continuare. Con una complicazione da non sottovalutare: con le elezioni anticipate forse alle porte e il fantasma di Nichi Vendola ormai incombente, questi problemi - da irrisolti che sono - rischiano di diventare letteralmente esplosivi.

La terza questione investe direttamente Pier Luigi Bersani. Il segretario - dal quale si attendeva il consolidamento e il rilancio del Pd - è all’inizio di una serie di tornanti dai quali dipenderà non solo il suo personale futuro ma probabilmente quello del Partito democratico così come fin’ora noto. La voglia di rivincita dei veltroniani cresce e può nutrirsi degli impacci e delle cadute che vanno segnando il cammino del Pd «bersaniano»; l’insofferenza dei cattolici rischia di giungere al punto limite della rottura; e l’incalzare di Vendola - sfidante già in campo in vista di primarie difficili da liquidare - pare poter avere un effetto moltiplicante di quelle tensioni. La via di Bersani, insomma, oltre che tortuosa è in salita: considerato, tra l’altro, che il pallino è tornato nelle mani di Berlusconi che potrebbe decidere di precipitare il Paese verso il voto anticipato, cogliendo il Pd nel mezzo di un guado gelido e profondo.

Che fare? Difficile dirlo, naturalmente. Ma forse è giunto il tempo di smettere di temporeggiare e di accettare le sfide proposte. A cominciare da quella lanciata da Vendola, che sembra rappresentare un po’ il cuore delle tre questioni fin qui proposte. Bersani, dunque, abbandoni burocratismi e divagazioni, chiami a raccolta gli iscritti e gli elettori del centrosinistra e accetti la sfida delle primarie, che - decidendo del candidato premier - potranno quasi naturalmente sciogliere i nodi delle alleanze politiche da ricercare, della natura del Pd e perfino del suo essere o non essere «troppo di sinistra». E’ una sfida che Bersani può vincere. Del resto, se fosse battuto, nessuno potrebbe immaginare di cavarsela dicendo «ha perso Bersani»: a perdere, infatti, sarebbe l’idea stessa di Partito democratico e non certo solo il suo segretario. E’ una sfida rischiosa, è vero. Ma appare sempre più evidente che ancora più rischioso è restar fermi o continuare a tergiversare.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8200&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #126 inserito:: Dicembre 27, 2010, 05:00:05 pm »

Politica

27/12/2010 - IL RETROSCENA

Via libera condizionato al legittimo impedimento

Consulta, proposta del relatore sullo stop ai processi del premier

FEDERICO GEREMICCA

ROMA
Nemmeno i termini tecnico-giuridici, stavolta, riescono ad attutire la portata della notizia. Che è la seguente: con «sentenza interpretativa di rigetto», la Corte Costituzionale si accingerebbe a respingere il ricorso proposto dal pm milanese De Pasquale circa la costituzionalità della legge sul legittimo impedimento. Questa, almeno, è la soluzione che il giudice relatore del caso (Sabino Cassese) proporrà agli altri membri della Corte, che torneranno a riunirsi per la sentenza l’11 o il 12 gennaio.

La relazione istruttoria di Cassese dovrebbe essere già da qualche giorno a disposizione di tutti i membri della Corte, che la studieranno e ne discuteranno prima di dar via libera ad un verdetto dal cui tenore - secondo molti - dipenderebbero addirittura le sorti della legislatura. Ma che vuol dire «sentenza interpretativa di rigetto»? E qual'è - nella sostanza - il parere che la Corte Costituzionale starebbe maturando sul legittimo impedimento? Proviamo a spiegare nella maniera più semplice possibile l’orientamento maturato dal relatore e, quindi, quel che la sentenza di gennaio dovrebbe affermare. Nella sostanza, il sottile confine che fa del legittimo impedimento una norma costituzionale oppure incostituzionale, sta tutto in una parola-chiave: automatismo.

Secondo il relatore, infatti, se si ritenesse (interpretasse) che l’essere ministro o presidente del Consiglio costituisse di per sé un legittimo impedimento a rispondere alla convocazione in tribunale da parte dei giudici, questo equiparerebbe di fatto lo «scudo» ad una vera e propria (e automatica) «immunità» che, in quanto tale, andrebbe disciplinata con legge costituzionale. Se, al contrario, la valutazione del legittimo impedimento invocato dall’imputato (in questo caso si parla di Berlusconi) venisse di volta in volta affidata al giudice di competenza, allora nulla osterebbe a che la materia fosse regolata (come è nel caso, appunto, del legittimo impedimento) con legge ordinaria. Ed è precisamente così, secondo la «sentenza interpretativa» che la Corte si accingerebbe ad emettere, che la legge andrebbe dunque intesa e, quindi, applicata.

L’orientamento del relatore - se confermato dal «plenum» della Corte - potrebbe sembrare il solito bizantinismo giuridico o, peggio ancora, somigliare ad una decisione pilatesca, che rigetta la patata bollente nel campo in cui litigano da anni Silvio Berlusconi e i magistrati che provano a processarlo. In realtà, è possibile anche un’altra interpretazione: e cioè che si tratti del tentativo da parte dei giudici della Corte di tenere assieme diritti e doveri fondamentali e costituzionalmente garantiti. In sostanza: da una parte salvaguardare il principio secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, e dall’altra il diritto-dovere dei membri dell’esecutivo a governare e ad assolvere le loro funzioni senza impedimenti e turbative. In realtà, stante il fatto che il legittimo impedimento è regolato con legge ordinaria, è apparso fin da subito evidente che la sua applicazione avrebbe richiesto serietà di comportamento da parte dei soggetti in causa. Serietà o - meglio ancora - quello spirito di «leale collaborazione» tra autorità politica e giudiziaria invocato dal presidente Napolitano all’atto della firma della legge, nella primavera scorsa. Uno spirito di collaborazione che dovrebbe evitare che il premier o i suoi ministri invochino un legittimo impedimento in ragione di impegni irrilevanti e rinviabili; e che, contemporaneamente, porti il giudice a riconoscere serenamente il diritto a ricorrervi, nei casi seri e comprovati.

Nulla a che vedere, insomma, con quanto accadde nel caso di Aldo Brancher che, nominato ministro, invocò subito il legittimo impedimento in quanto occupato a «organizzare il ministero»: e dovette intervenire il Quirinale per affermare che, visto che si trattava di un ministero senza portafoglio, Brancher non aveva un bel nulla da organizzare... Occorrerà attendere ancora un paio di settimane per vedere come finirà questa spinosissima questione e se la Corte farà propria in toto l’impostazione proposta dal relatore. Quel che invece è certo fin da ora, è che i giudici sono attesi da un lavoro tutt’altro che facile, sottoposti come sono da giorni agli attacchi preventivi del presidente del Consiglio e sul cui capo si vorrebbe addirittura far pendere la responsabilità di una crisi di governo o addirittura di elezioni anticipate nel caso di bocciatura del legittimo impedimento. In un Paese normale, l’interpretazione della legge che la Corte si accingerebbe a proporre e lo spirito di «leale collaborazione» invocato da Napolitano sarebbero del tutto inutili: perché scontati e dunque superflui. Ma sono anni che l’Italia appare quanto di più distante vi sia da un Paese normale. E non è detto, purtroppo, che l’avvio del 2011 - con tutto quel che rappresenta quest’anno celebrativo - faccia uscire il Paese da questa insopportabile anomalia, piuttosto che tenerlo prigioniero della guerriglia politico-giudiziaria che lo soffoca da ormai vent’anni...

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/381383/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #127 inserito:: Gennaio 03, 2011, 04:38:20 pm »

3/1/2011

Il tramonto dei "duri" in politica

FEDERICO GEREMICCA

L'anno appena concluso ha di fatto arenato la legislatura in un pantano che ancora pochi mesi fa era difficile perfino da immaginare. E invece la situazione - sul piano della stabilità politica, certo, ma non solo su questo - è quella che è. L’eredità che il 2010 lascia all’anno che comincia, insomma, è pesante: ma nella lunga crisi politica che ha preceduto i voti di fiducia e di sfiducia del 14 dicembre, almeno un paio di questioni sono emerse con la forza dell’evidenza. E non sarebbemale tenerne conto per cercare di correre finalmente ai ripari.

La prima è certamente il naufragio dell’idea che una politica spiccia e muscolare sia sempre meglio che confrontarsi per poi, se possibile, scendere a patti: o almeno provare a cercarli.Da settembre in poi (mese in cui la crisi ha iniziato ad avvelenarsi) non un solo canale di comunicazione è stato aperto, non una posizione politica è cambiata, nulla si è mosso: «colombe » ed ambasciatori di pace sono stati subito additati come potenziali traditori ed il risultato è stato il finale thrilling cui abbiamo assistito. Una cosa a metà tra il codice penale ed un’amara commedia all’italiana. Da farci un film.Titolo: Il Venduto.

Partiti tutti lancia in resta - i luogotenenti di Berlusconi e i fedelissimi di Fini - e convinti di spuntarla col mero uso del diktat e della forza, hanno finito col mercanteggiare un cambio di campo o il rispetto della fedeltà appena giurata.

Comunque lo si guardi, l’epilogo rappresenta una sconfitta per i più duri tra i duri, da La Russa e Cicchitto, da Bocchino a Gasparri, passando per i colpi da cecchino di Maroni e Calderoli, poche uscite ma tutte distruttive: una gioiosa macchina da guerra - si sarebbe detto qualche tempo fa - che ora si lecca le ferite, prova a riaggiustare i pezzi e fa i conti con quel che è rimasto e che il mercato ancora offre. Mercato in tutti i sensi, naturalmente.

E’ stato - anche - un passaggio terribile per Silvio Berlusconi, avviatosi in battaglia con fanfare e minacce, per poi concluderla - più modestamente - con promesse e blandizie: ma non è che gli altri leader, nelle stesse settimane, se la siano passata granché meglio. Anzi, mai come stavolta, forse, i limiti e le debolezze del «leaderismo all’italiana» sono apparsi nella loro impietosa evidenza. Della rabbia impotente di Silvio Berlusconi abbiamo detto. E che aggiungere dell’incedere via via più barcollante di Gianfranco Fini o delle sentenze sempre più oscure di Umberto Bossi, che ormai parla come la Sibilla cumana e come tale viene interpretato?

E’ una difficoltà - una debolezza - che ha riguardato tutti: Bersani, nel suo zigzagare contraddittorio, condizionato ora da Vendola e ora da D’Alema; Casini, impegnato prima di tutto a evitare altre scissioni ed emorragie, dopo quella (dolorosissima) in terra siciliana; Di Pietro, il più duro dei duri, costretto a scoprire i «traditori» proprio nella sua agguerritissima falange, ed ora oggetto di sberleffi e di contestazioni. Mai come stavolta si è avvertito che il «leaderismo all’italiana» sta forse esaurendo le sue ultime cartucce. Lo spettacolo non regge più: e il potere che segretari e presidenti hanno fondato su risorse economiche illimitate, sul potere di decidere con un cenno chi entra e chi esce dal Parlamento e perfino sul fatto di aver stampato il proprio nome sulle insegne del partito, va inesorabilmente consumandosi, come la cera di una candela.

E’ evidente da anni che il sistema avrebbe bisogno di una profonda risistemata; e senza andare troppo indietro nel tempo, lo dimostrano le ultime due legislature: quella di Prodi, naufragata dopo due anni, e la terza di Berlusconi, quella attuale, avviatasi alla deriva appena giunta al giro di boa. Ed è ugualmente chiaro che sarebbe stato anche simbolicamente significativo che alla riscrittura delle regole si riuscisse a metter mano proprio in questo 2011, 150˚ anniversario dell’unità d’Italia. Sperare non costa nulla, naturalmente, ma gli ultimatum di Bossi e Calderoli - puntuali come i botti di fine anno - non paiono un gran viatico. L’ipotesi più probabile - purtroppo - è che leader sempre più deboli e partiti senza più radici, finiranno per continuare a galleggiare sulle loro promesse: nuova legge elettorale, fine del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari, abolizione delle province... E’ una filastrocca che si potrebbe mandare a memoria: e che - questo è il timore - continueremo magari a recitare anche in questo anno, che doveva essere di orgoglio e di celebrazione...

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8251&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #128 inserito:: Gennaio 19, 2011, 12:30:39 pm »

19/1/2011

Ma l'opposizione è nel pantano

FEDERICO GEREMICCA

Qualcuno gli ha chiesto di sgombrare il campo «per evitare al Paese ulteriore discredito internazionale». Qualcun altro lo ha invitato al passo indietro «per il suo stesso bene e per poter difendersi meglio». E c’è perfino chi lo ha sollecitato ad abbandonare Palazzo Chigi «per restituire l’onore a tutte le donne italiane». E’ vero: in alcuni casi, più che brusche richieste di dimissioni, quelle rivolte al premier sono apparse invocazioni, quasi preghiere.

Ma i numeri in Parlamento sono quelli che sono, e alcuni recentissimi rovesci nelle aule di Camera e Senato - per di più - fanno sì che le mosse delle opposizioni siano improntate, in queste ore, a un atteggiamento che si potrebbe definire di «aggressiva prudenza».

Si può naturalmente sorridere, di fronte a questo. Ed è certamente lecito dissentire. Ma la forzata prudenza cui sono inchiodate le opposizioni ha radici lontane - e motivazioni recenti - che non sarebbe corretto ignorare. L’azione del Pd, del Terzo polo e delle altre forze che avversano il governo è infatti frenata e condizionata da un pantano psicologico, strategico e politico evidente ormai da tempo: quanto meno dalla primavera scorsa, stagione della inattesa rottura tra Berlusconi e Fini.

A pesare, tanto per cominciare, c’è un dato psicologico (e in parte naturalmente politico) difficile da rimuovere: e cioè la convinzione che Berlusconi non sia vulnerabile sul piano giudiziario, a maggior ragione se le vicende contestategli riguardano «comportamenti privati» (deprecabili finché si vuole). Lo hanno già dimostrato almeno un paio di campagne elettorali e anche il responso di sondaggi successivi all’esplodere del primo caso-Ruby, hanno confermato una sorta di «indifferenza etica» degli elettori rispetto allo «stile di vita» del presidente del Consiglio. Una indifferenza che può certo non piacere (e che dovrebbe, anzi, allarmare) ma della quale occorre necessariamente tener conto.

Un peso non minore hanno, poi, le difficoltà politiche che attraversano - nessuna esclusa - tutte le forze di opposizione. Il «duro» Di Pietro è alle prese con le crescenti fibrillazioni seguite al passaggio di un paio di suoi deputati alla maggioranza di governo; la triade Fini-Casini-Rutelli è nel pieno di un faticoso lavoro di costruzione del cosiddetto Terzo polo, insidiato quasi quotidianamente dal rischio di nuove defezioni di parlamentari; il Pd, infine, resta preda dei suoi difficili problemi interni, acuiti dal sotterraneo lavorio di Nichi Vendola che continua a erodere consensi. E come se non bastasse, sull’opposizione intera pesa ancora l’indimenticabile sconfitta nel voto parlamentare del 14 dicembre, con l’inattesa bocciatura delle mozioni di sfiducia al governo.

Infine, il grumo di questioni strategiche o di prospettiva, che hanno condizionato e tutt’ora condizionano il fronte delle opposizioni. Il «che fare dopo» è la ragione, in fondo, che non ha permesso a Pd, Terzo polo e Idv di raggiungere almeno una intesa temporanea su ipotetici governi tecnici o di responsabilità, nei mesi roventi della rottura tra Fini e Berlusconi. L’idea di sostenere insieme al presidente della Camera un simile esecutivo ha scosso e sconcertato la base del Pd quasi quanto l’ipotesi di ritrovarsi alleati in campagna elettorale con l’ex segretario del Msi (e si può ipotizzare che analoghi imbarazzi determinerebbe tra gli elettori di Fli). L’Udc di Casini, del resto, non ha problemi minori nel far digerire al proprio elettorato l’accordo con Fini da una parte e Rutelli dall’altra; e analogo discorso si potrebbe fare a proposito dei partiti di Vendola e Di Pietro e della prospettiva di patti e alleanze col Terzo polo.

E’ evidente che di fronte a tutto questo un’avventura elettorale in tempi ravvicinati (ammesso che le opposizioni potessero determinarla: e non possono, come abbiamo visto) sarebbe assai rischiosa. Di qui l’«aggressiva prudenza» di cui si diceva all’inizio. Le dimissioni di Berlusconi sono chieste «ma senza che questo significhi elezioni anticipate»: ci si affida al Presidente della Repubblica ed alla sua richiesta di fare chiarezza in fretta. Una linea - una pretesa - certo comprensibile, ma che sa troppo del famoso desiderio di avere la botte piena e la moglie ubriaca. In un momento, per di più, in cui di vino ce ne è davvero poco, e di mogli (di donne) è forse meglio non parlare...

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8310&ID_sezione=&sezione=
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #129 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:24:56 pm »

Politica

20/01/2011 - RETROSCENA

Napolitano "sbigottito" dalla linea del Cavaliere

Irritazione al Quirinale: la stabilità non è un valore assoluto


FEDERICO GEREMICCA

Giorgio Napolitano non ci è rimasto di sasso solo perchè a quell’ora era a un concerto, e non ha dunque potuto apprendere in tempo reale le dichiarazioni rese dal presidente del Consiglio un paio d’ore dopo il loro faccia a faccia di martedì sera. Ma una volta informato, l’irritazione e soprattutto lo sbigottimento gli hanno rovinato la serata. Quasi non poteva credere a quel che i collaboratori gli riferivano. Infatti, aveva fatto precedere l’incontro con Silvio Berlusconi da una nota nella quale il Quirinale affermava, nella sostanza, due cose; la prima: il turbamento del Paese di fronte alle nuove accuse rivolte al premier; la seconda: che si facesse rapidamente chiarezza «nelle previste sedi giudiziarie». Solo che la risposta...

Al Quirinale tutto pensavano di potersi attendere ma non dichiarazioni di quel tenore. Il Paese è turbato? «Mi sto divertendo, sono assolutamente sereno», replicava Berlusconi. Sarebbe opportuno fare chiarezza di fronte ai giudici? «I miei avvocati mi hanno detto che non è logico che io vada». E prima durante e dopo, un non inedito rosario di accuse e contestazioni nei confronti dei magistrati (ripreso poi ieri, nel secondo videomessaggio in quattro giorni). Se l’avvio del nuovo casoRuby è questo, c’è da aspettarsi sicuramente il peggio...

La sorpresa del Quirinale era in qualche modo doppia, considerato il tenore dell’incontro tra i due presidenti. Certo, a confrontarsi erano «due mondi totalmente diversi, e forse inconciliabili», come annota uno dei collaboratori del capo dello Stato: ma i toni erano stati pacati, si era discusso a lungo del calendario delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia (in realtà il vero motivo del colloquio fissato da tempo) ed era stato proprio Berlusconi a tirare in ballo la questione dell’indagine milanese. Al capo dello Stato aveva garantito della sua totale estraneità ai fatti contestati, dichiarandosi indignato per le accuse e smanioso di dimostrare la propria innocenza rispetto alle accuse mosse. Se è così - aveva immaginato il presidente della Repubblica - allora troverà il modo di chiarire, magari recandosi dai giudici per fornire la propria versione dei fatti e difendersi dalle accuse. E invece...

E invece - questo è il timore che comincia ad aleggiare nelle stanze del Quirinale - forse c’è un equivoco da chiarire: e l’equivoco potrebbe riguardare i ripetuti appelli alla stabilità rivolti ormai da molte settimane dal capo dello Stato a tutte le forze politiche, e a quelle di maggioranza in primo luogo. «Che il presidente della Repubblica, per l’ufficio che ricopre e per la difficile situazione che il Paese sta attraversando, sia per la stabilità - chiarisce una fonte - non vuol dire che sia per la stabilità purchessia». Affermazione non difficile da decifrare. Se le condizioni per la tenuta dell’esecutivo e della maggioranza ci sono, bene; ma se non ci sono, vanno costruite: a partire - nel caso in questione - dalla necessità di fare chiarezza nelle sedi proprie, così da fugare le pesanti ombre che gravano sul premier.

E’ possibile, insomma - si ragiona al Quirinale - che qualcuno (Berlusconi, in questo caso) abbia confuso l’impegno del capo dello Stato per la prosecuzione della legislatura (se possibile) con la disponibilità del Colle ad accettare, se non coprire, qualunque scelta o decisione del presidente del Consiglio. E’ una sensazione che forse aveva sfiorato il presidente della Repubblica anche nella parte finale del colloquio avuto con Berlusconi martedì sera. Infatti, sollecitato a dire la propria, il premier non aveva in alcun modo spiegato come intendesse contribuire a fare quella chiarezza da lui stesso invocava...

La risposta, purtroppo, è arrivata una paio di ore dopo, e poi è stata ulteriormente inasprita con il videomessaggio di ieri sera: guerra aperta ai giudici e accuse alla magistratura di voler sovvertire l’esito del voto. E’ una linea - si ragiona - con la quale non si va lontano. Anche perchè l’idea di un presidente disposto a barattare la stabilità con comportamenti ai limiti - quando non oltre - della Costituzione, è un’idea sbagliata. Un equivoco, forse. Che magari è giunto il momento di chiarire...

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/385106/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #130 inserito:: Gennaio 28, 2011, 11:29:50 am »

28/1/2011

Il rischio-caos che minaccia il Paese


FEDERICO GEREMICCA

Un cumulo di macerie fumanti, circondate da miasmi venefici, mentre fango e melma ricoprono quel che non è stato ancora distrutto del tutto. Come se un terremoto si fosse abbattuto sulle istituzioni repubblicane, ecco quel che si osservava ieri, alle otto della sera, di uno dei giorni più neri che la Repubblica ricordi: un panorama sudamericano. In una sorta di resa dei conti finale, infatti, in questa guerra autodistruttrice di tutti contro tutti, non una istituzione - e non un uomo che la rappresenti - ha mantenuto intatto il prestigio e il decoro che dovrebbero legittimarla. Così, non è un caso se dall’alto del Colle del Quirinale - unico e preoccupato riferimento in questi giorni di convulsioni - filtri una sola e allarmata considerazione: «Una situazione ingestibile».

I giornali che stampano in prima pagina l’ennesima slavina di ricatti, bugie e miserie intorno alle notti e alle frequentazioni del presidente del Consiglio sono solo la premessa al peggio che sta per arrivare. E il peggio è presto raccontato, in una sequenza impietosa che mostra - soprattutto - come il senso di ogni limite sia stato superato, in una sorta di occhio per occhio dal quale non si salva più nessuno.

Si comincia al Senato, dove il ministro Frattini, rispondendo ad una interrogazione, produce in aula documenti provenienti dall’isola di Santa Lucia (già noti e giunti alla Farnesina oltre un mese fa) che proverebbero come la ormai famosissima casa di Montecarlo sarebbe di Giancarlo Tulliani, cognato del presidente Fini.

Le conseguenze della mossa - prevedibili e aspre - sono immediate: il partito di Berlusconi e la Lega di Bossi chiedono, con parole durissime, le dimissioni del presidente della Camera. Le opposizioni, al contrario, attaccano il presidente del Senato per aver permesso un simile dibattito e chiedono che si dimetta. Come se non bastasse, un elettore di Fli (il neo-partito di Fini) denuncia il ministro degli Esteri per abuso d’ufficio: lo annuncia in conferenza stampa il capogruppo Fli alla Camera, Bocchino, accusando il capo del governo di dossieraggio e spiegando che Frattini dovrà presto presentarsi di fronte al Tribunale dei ministri.

Intanto, miasmi e veleni irrompono in altri organismi parlamentari. La giunta per le autorizzazioni a procedere vota a maggioranza il rinvio a Milano di tutti gli atti spediti a Roma dalla procura meneghina e riguardanti l’inchiesta su Silvio Berlusconi. Viene eccepita la competenza della magistratura milanese: volano parole grosse, in attesa che sia ora l’aula di Montecitorio a dire l’ultima parola. Contemporaneamente, il terremoto investe anche il Copasir, l’organismo di controllo sui servizi di sicurezza presieduto da Massimo D’Alema. Nel pomeriggio era programmata l’audizione del sottosegretario Letta: Lega e Pdl, contestando con parole durissime tempi e procedure, abbandonano i lavori annunciando che non parteciperanno più ad alcuna riunione dell’organismo. Di fatto, è la paralisi.

Riassumendo. La maggioranza di governo torna a chiedere con accuse gravissime le dimissioni del presidente della Camera; le opposizioni contestano apertamente il comportamento del presidente del Senato, e ne sollecitano le dimissioni. Il ministro degli Esteri - rappresentante dell’Italia nel mondo - viene denunciato per abuso d’ufficio. Il Copasir - comitato dalle funzioni delicatissime - è messo nelle condizioni di non poter più operare. Inoltre, e per gradire, cascate di insulti investono la procura della Repubblica di Milano, una mail di minacce raggiunge il presidente dell’Anm, Palamara, e la giornata si conclude con risse dai toni inaccettabili in questo o quel talk show televisivo.

Il crollo generale del senso di responsabilità è evidente. Qualunque forma di rispetto verso le istituzioni e i loro rappresentanti è ormai venuta meno. E l’esempio - il messaggio - che dai palazzi romani raggiunge i cittadini e il Paese, è devastante. In tutto questo, il presidente del Consiglio - semisommerso da elementi fattuali e intercettazioni inequivoche e mortificanti - continua a rifiutare qualunque tipo di contraddittorio e di confronto circa le vicende che lo riguardano. Non un’ammissione, naturalmente: ma nemmeno giustificazioni, spiegazioni, mezze autocritiche che almeno provino a confortare i suoi elettori, ormai assai più che turbati. E’ un crepuscolo terribile, quello che accompagna l’ormai inevitabile fine della legislatura. Forse perfino più terribile di quello che accompagnò il crollo di Bettino Craxi, di Arnaldo Forlani e della mai rimpianta Prima Repubblica...

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #131 inserito:: Febbraio 09, 2011, 11:07:52 am »

9/2/2011

La palude è peggio del voto

FEDERICO GEREMICCA

C’è qualcosa di peggio delle elezioni anticipate nell’anno del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia e con l’economia in una situazione di profondo rosso? Forse sì, qualcosa di peggio c’è. E lo ha testimoniato - in fondo - perfino la giornata di ieri, una giornata «politicamente tranquilla» che il presidente del Consiglio ha però impegnato quasi interamente in interminabili riunioni col suo più sperimentato gabinetto di crisi: il ministro di Grazia e Giustizia e i suoi avvocati Ghedini e Longo (ai quali si è poi aggiunto a sorpresa uno dei legali della prima ora del premier, l’onorevole Gaetano Pecorella: a testimonianza, forse, dell’ora grave).

Il peggio, rispetto a elezioni anticipate, è la stagnazione, la palude, un governo inerte che annaspa e lentamente sprofonda nelle sabbie mobili. E’ un rischio che - da Emma Marcegaglia alle opposizioni più responsabili, fino a ogni statistica sullo stato del Paese - hanno segnalato in molti. Ed è un pericolo che, a onor del vero, lo stesso Berlusconi ha denunciato fino a non troppo tempo fa: «O abbiamo i numeri per governare e fare le riforme, oppure è meglio andare al voto».

Con la nascita del gruppo dei cosiddetti «responsabili», ora l’esecutivo i numeri li ha: ma non si sono osservate svolte, a riprova del fatto che in politica i numeri sono certo necessari, ma non sempre sufficienti. Un paio di accelerazioni, in verità, nelle ultime 24 ore ci sono state: ma non riguardano l’azione di governo sul fronte delle emergenze da affrontare e sono accelerazioni - entrambe - che non paiono promettere nulla di buono. La prima ha riguardato il cosiddetto «processo breve», rimesso in calendario e all’ordine del giorno in tutta fretta per la prossima settimana; la seconda ha per obiettivo un riequilibrio dei rapporti numerici tra maggioranza e opposizioni in molte commissioni parlamentari: a cominciare, naturalmente, dalla Bicamerale che ha in esame i decreti attuativi del federalismo.

Si dice che le due decisioni siano il frutto di un accordo - ma più correttamente sarebbe meglio dire di un baratto - tra il presidente del Consiglio e l’ultimo degli alleati rimastigli, Umberto Bossi: a te quello che è necessario per accelerare il varo del federalismo, a me quel che occorre per fronteggiare l’offensiva giudiziaria (vecchia e nuova) di cui sono oggetto. Si tratta, in tutta evidenza, di due pessime notizie: la prima, infatti, riporta al centro del dibattito politico (e dei lavori parlamentari) una iniziativa legislativa che, oltre a non esser avvertita come urgente e di interesse generale nella situazione in cui si trova il Paese, tornerà a surriscaldare il clima politico oltre ogni misura e con le conseguenze immaginabili; la seconda, invece - il riequilibrio dei rapporti di forza, a cominciare dalla Bicamerale per il federalismo - pare confermare l’idea di voler procedere, anche su questo delicato terreno, a colpi di maggioranza, lasciando intravedere un nuovo muro contro muro dal quale - e i fatti lo hanno già dimostrato - il governo ha poco o nulla da guadagnare.

E’ certo che anche di questo il Presidente della Repubblica avvertirà il leader leghista, atteso oggi al Quirinale per un incontro «chiarificatore» chiesto dallo stesso Bossi. Napolitano ne aveva già parlato qualche giorno fa a Bergamo, culla leghista, ripetendo che scontri all’arma bianca non avrebbero affatto favorito una più rapida approvazione dei provvedimenti tanto attesi da Bossi. Per tutta risposta, dal Quirinale hanno dovuto osservare il muro contro muro nella Bicamerale e il successivo, maldestro tentativo del governo di varare comunque il decreto legislativo, non controfirmato dal Capo dello Stato.

Non sappiamo se Napolitano riuscirà a persuadere Bossi dell’insensatezza di un agire «muscolare» non sostenuto - per di più - dagli ampi consensi necessari. Sappiamo invece - per cronaca più o meno recente - quali saranno le conseguenze del combinato disposto delle due scelte sulle quali il governo pare intenzionato a tirar dritto: clima d’inferno nella città della politica (e nel Paese), con conseguente paralisi di ogni altra attività che non siano, appunto, il processo breve e la composizione della Bicamerale. Il risultato? Un’altra fase di polemiche al vetriolo e di blocco dei lavori parlamentari, con conseguente stagnazione. Che davvero, al punto in cui è il Paese, rischia di esser peggio delle pur dannose - e da tutti temute - elezioni in primavera.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #132 inserito:: Febbraio 16, 2011, 04:52:07 pm »

Cronache

16/02/2011 -

Lampedusa: calcio, caffè e una parvenza di normalità

Partita di calcio a Lampedusa tra Italiani e immigrati tunisini

I tunisini sbarcati organizzano partite e cortei al grido di "Viva l’Italia"


FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Le ultime dall’Isola oggi sono migliori delle ultime dall’Isola ieri. Nessun nuovo sbarco (ed è la seconda notte che fila via liscia); due aerei decollati e 200 immigrati, dunque, portati altrove (il che significa che a Lampedusa ne restano ancora intorno a duemila, liberi di scorazzare a piacimento); arrivati un po’ di rinforzi (carabinieri e militari dell’Esercito) subito sistemati a pattugliare i punti strategici e a far da deterrenza verso possibili mal intenzionati; corteo di un gruppo di giovani tunisini che hanno sfilato lungo il corso principale dietro uno striscione «Viva l’Italia, grazie Lampedusa»: una ruffianeria, forse. Ma con l’aria che tira quaggiù, anche una ruffianeria può servire.

La sfida
Memorabile quella tra i soldati italiani abbandonati su un’isola greca in «Mediterraneo». Meno memorabile, forse, ma vera e significativa quella svoltasi ieri pomeriggio sul campo di calcio nella zona del porto: Lampedusa-Tunisia. Si sono confrontate due squadre un po’ rabberciate, ma generose oltre ogni limite: l’unica rissa, per ora, la si è fiorata proprio lì. Partita sospesa a metà del secondo tempo (col Lampedusa in vantaggio...) a causa dell’arrivo di un gruppetto di carabinieri che pretendevano addirittura di riportare la squadra ospite nel centro di accoglienza. Hanno protestato prima di tutto i calciatori lampedusani. Ma non c’è stato niente da fare. In più, stava calando il sole ed era quasi pronta la cena...

L’invalido
Si chiama Tarek e tra gli sbarcati sull’Isola è quello che ha colpito di più per la sua condizione: poliomelitico, è su una sedia a rotelle da quando era bambino. In questi giorni lo hanno ripreso tutti i fotografi e le tv. Gli abbiamo parlato l’altro ieri, per sentirne la storia e capire come era arrivato fin qui. «Grazie ai miei due fratelli minori, Hassan e Youssef, 15 e 17 anni. Sono loro che mi hanno caricato e scaricato dalla barca che ci ha portato qui. Non abbiamo più i genitori, a Tunisi è tutta una guerra tra bande e noi stiamo cercando di arrivare in Francia». Tarek è stato tra i primi, assieme ai due fratelli, ad esser trasferito in un centro d’accoglienza in Puglia. Ha 22 anni, E l’unica cosa che ci ha nascosto, è il lavoro che faceva a Tunisi per mantenere i fratelli minori: il borseggiatore nel mercato principale della città. Attività, diciamo così, per la quale ha scontato alcuni mesi di galera.

La sociologa
Silvana Lucà ha 52 anni, i capelli biondi raccolti sulla nuca e gestisce il Bar Mediterraneo su via Roma, proprio di fronte al vecchio Municipio. Per il lavoro che ha scelto di fare, nessuno lo direbbe: ma ha due lauree, in Scienze politiche e in sociologia. «Ho lavorato per anni a Milano, poi qualche anno fa ho rilevato questo bar essendo nata qui e avendo quest’isola nel cuore - dice -. Ho visto gli sbarchi passati, quelli terribili degli scafisti e dell’immigrazione clandestina. Stavolta è tutta un’altra storia. Questi fuggono davvero da una guerra civile, sono mediamente persone perbene, affollano il mio bar e pagano senza fare storie. I lampedusani all’inizio si sono spaventati, poi hanno capito. Hanno solo paura per le loro donne. Ma delle loro donne, e dei guai conseguenti, a questi migranti non importa nulla. E non importa nulla nemmeno dell’Italia: la maggior parte è diretta in Francia, qualcuno vuol raggiungere i parenti in Germania. Tra loro c’è gente colta, che sa quel che vuole e sa quel che fa».

L’imam
Tra i migranti sbarcati nottetempo sull’isola di Lampedusa, c’è anche un imam. E Simona Moscarelli, attivissima esponente dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ringrazia il cielo che ci sia. L’imam Al Sihary chiama i fedeli alle preghiere nell’ora stabilita e i volontari delle Ong presenti sull’Isola ne approfittano. «È l’unico momento in cui è possibile parlar loro mentre sono tutti assieme - spiega Simona - e noi naturalmente cogliamo l’occasione per spiegar loro cosa possono e cosa non possono fare. E come devono comportarsi per evitare che la situazione degeneri». Durante la preghiera l’imam impartisce ai fedeli indicazioni di comportamento. E invita loro a rispettare le regole imposte dagli italiani. «L’imam avrebbe potuto lasciare l’Isola tra i primi - racconta Simona - ma non ha voluto: dice che resterà qui, tra i suoi connazionali e fedeli, fino a quando non sarà tutto finito».

Il comandante
Il capitano De Tommaso è il comandante della stazione dei carabinieri di Lampedusa. E possiamo dire tranquillamente che si tratta di una persona eccezionale. Ha la pazienza e l’umanità di un carabiniere da film di Sordi o di De Sica. E non ha mai perso la calma nemmeno quando con i suoi soli trenta uomini ha dovuto fronteggiare migliaia di tunisini. «Io sono della scuola che la durezza non porta a niente: soprattutto se gli altri sono duemila e noi nemmeno trenta...», confessava l’altra sera alla fine dell’ennesima dura giornata. L’altroieri lo abbiamo sorpreso al telefono mentre sbraitava con uno degli albergatori dell’Isola. «Non mi far perdere la pazienza. Ti ho detto che arrivano sei carabinieri e che ho bisogno di due doppie e una tripla. Non fanno sette posti, scimunito! Nella tripla ci devono andare due marescialli e devono stare larghi. Se gli do una doppia come agli appuntati, s’incazzano. Per la miseria, te lo devo spiegare io che i carabinieri sono sempre carabinieri». In questo delirio che è l’avamposto di Lampedusa, vorremmo rivolgere i nostri complimenti al capitano De Tommaso. Non foss’altro che per l’irresistibile senso dell’ironia.

È soltanto qualche appunto, qualche cartolina da Lampedusa. Isolani e migranti hanno trovato un punto d’equilibrio e, per ora, la convivenza tiene. È evidente a tutti, però, che non può durare a lungo. Prima o poi i soldi dei tunisini finiranno, e allora addio cappuccini, arancine e shopping qui e là. Finiti i soldi, finita la vacanza. E allora chissà se torneranno in corteo dicendo «Viva l’Italia e forza Lampedusa»...

da - lastampa.it/cronache
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #133 inserito:: Marzo 03, 2011, 03:18:54 pm »

Cronache

03/03/2011 - QUI LAMPEDUSA

Mare calmo, l'incubo della Grande Invasione

Dopo sette giorni di burrasca sbarcate in poche ore 800 persone

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Alla fine sono arrivati. Dopo una settimana di falsi allarmi e mare in burrasca, sono arrivati.
Sull’isola l’attesa si era fatta ansiogena, spasmodica, tesa.

Lontano di qui, invece - in Italia, cioè - è difficile dire... Sono arrivati - di notte, all’alba e poi durante l’intero giorno - e su Lampedusa si riaccendono i riflettori, che vento a raffiche da nord e nubi nere avevano oscurato per una settimana intera. Quasi cinquecento, spalmati lungo 24 ore, e almeno altri trecento (già intercettati al largo dell’Isola) che dovrebbero giungere a terra nella notte appena trascorsa, quella tra mercoledì e giovedì: niente male, come avanguardia della temuta, sbandierata e inevitabile Grande Invasione. Per l’Italia gli sbarchi di ieri sono come un avvertimento: ma anche una sorta di cartina di tornasole per quel che sta accadendo e - soprattutto - per quel che accadrà.

Appena il mare si è fatto abbordabile, sono arrivati in 500: ed è sembrato perfino un piano studiato a tavolino. Infatti, mentre le motovedette di Capitaneria e Finanza si concentravano sulla grande imbarcazione intercettata di notte e proveniente dalle coste tunisine (a bordo 347 migranti, tra i quali 4 donne), altre due barche più piccole eludevano ogni controllo e approdavano indisturbate prima sulla piccola Linosa e poi a Lampedusa. Sull’isola maggiore, all’alba, i carabinieri hanno bloccato 44 tunisini (tra i quali tre donne) che avevano toccato terra giusto vicino al cimitero: provavano a riscaldarsi un po’, strizzando i vestiti, dopo la notte trascorsa tra onde e maestrale. Su Linosa, invece, sono sbarcati in 22: quasi tutti giovanissimi, ma fiaccati dalla terribile traversata. Poi, nel pomeriggio e in serata, altri due sbarchi «minori»: e così, altri circa 70 migranti si sono sommati a quelli già giunti sull’Isola, facendo salire il numero a quasi 500 (in attesa dei 300 e oltre che approderanno in nottata). Numeri che è inutile commentare: e in un solo giorno di mare calmo.

Gli arrivi - che hanno rituffato l’Isola nell’emergenza, come poi vedremo - rappresentano prima di tutto la mezza conferma di qualcosa che era già assai più di un mezzo sospetto: e cioè che dall’altra parte del Mediterraneo le faccende non vanno affatto meglio, nonostante la caduta o l’agonia di rais e colonnelli. Dal punto di vista più strettamente italiano, invece, i cinquecento e più fuggisaschi sbarcati a Lampedusa in questo martedì di inizio marzo, materializzano un pezzo della grande domanda alla quale dovremmo dare una qualche risposta: li aspettavamo, e ora che sono arrivati, che facciamo?

A Lampedusa fanno quel che hanno fatto fino ad ora. Anzi: quel che fanno da almeno 10 anni. Li hanno accolti, li hanno sfamati e rifocillati, li hanno condotti nel centro di identificazione ed hanno perfino regalato loro tabacco e sigarette: così che i carabinieri italiani devono esser sembrati ai migranti tunisini quel che i soldati americani sembrarono a noi, mentre risalivano l’Italia alla fine della guerra. Solo che, proprio come allora, finite le sigarette son cominciati i guai: sovraffollamento, paura e nervosismo tra la popolazione: quasi 6mila anime stufe di aver l’onore di rappresentare nel mondo la faccia buona dell’Italia, tutta generosità, disponibilità e accoglienza...

Il fatto che nella stessa giornata di ieri si sia comunque riusciti a evacuare dall’Isola un paio di centinaia dei migranti che erano ospiti nel Centro, ha permesso alle autorità di provare a riproporre il cosiddetto «modello Lampedusa»: cioè, massima assistenza ai migranti, ma una volta dentro il Centro, cancelli chiusi e non si esce più. A conti fatti, tra arrivi e partenze, ieri sera nella struttura sistemata poco lontano dal centro del paese, c’erano poco meno di 500 fuggiaschi. A loro, tra la notte e l’alba di stamane, se ne sono aggiunti altri trecento o poco più: il che vuol dire che il Centro è già saturo, potendo accogliere tra le 800 e le 850 persone. Se oggi dovessero esserci altri sbarchi, la situazione tornerà esplosiva: e la prima cosa sarà che risulterà impossibile tenere i migranti chiusi nel Cie.

E così, lo spettacolo cui potrebbero assistere il paio di delegazioni in arrivo a Lampedusa - la prima della Regione Sicilia, la seconda della Lega, pare guidata dall’onorevole Borghezio - potrebbe dunque essere quello al quale gli abitanti sono ormai abituati: un’Isola per metà siciliana e per metà tunisina, con i migranti ai tavoli dei bar e ad affollare negozi per acquistare cibo, sigarette e ricariche telefoniche. Il malessere tra i lampedusani, dunque, comprensibilmente cresce: un giorno sì e l’altro pure si tengono assemblee infiammate dalle parole del noto ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo - ex capo dei Cocer e maestro di musica - nominato assessore a Lampedusa e in prima fila «contro gli immigrati che mettono in pericolo le nostre donne e ci rovinano il turismo».

Non è l’unica stranezza - l’unica destabilizzantestranezza - della quale in queste ore di tensione si farebbe volentieri a meno, qui sull’Isola. Singolari sono apparse, infatti, anche un paio di iniziative della Procura di Agrigento che ha pensato bene, prima, di incriminare seimila tunisini senza nome per avviare un’inchiesta contro gli scafisti; e poi di mettere sotto accusa il sindaco dell’Isola - che non è certo scevro da responsabilità - addirittuta per «istigazione all’odio razziale» - in ragione di una delibera contro i bivacchi per strada e l’accattonaggio .

Ieri mattina, riferendo al Parlamento, il ministro Maroni ha dato i numeri dei migranti sbarcati a Lampedusa: 6mila in due mesi. Vuol dire cento al giorno, al netto degli ultimi arrivi (che sembrano essere solo l’avvisaglia di quel che accadrà). È una situazione pesante. E se ha ragione il capo dello Stato a chuedere di evitare vittimismi e allarmismi, è altrettanto giusto che da quaggiù si chieda una qualche forma di intervento di fronte all’annunciatissima invasione. Un intervento che rassereni gli animi. E che eviti, prima di possibili incidenti, un niente affatto impossibile precipitare della situazione...

da - lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #134 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:27:03 pm »

Cronache

05/03/2011 - LA STORIA

La fuga di Khaled, il doppio clandestino

Ha 12 anni, si è nascosto dentro un barcone che partiva per Lampedusa

FEDERICO GEREMICCA
INVIATO A LAMPEDUSA

Questa è la storia di Khaled, il doppio clandestino. Ai soccorritori del Centro di identificazione di Lampedusa, ieri, ha raccontato di esser nato nel 1995: 16 anni, dunque, non ancora festeggiati. Invece ne avrà 12 o 13, questo ragazzino dai capelli scuri e mossi, gli occhi nerissimi, magro e bello in ogni lineamento. È arrivato a Lampedusa l’altro ieri, a bordo di una vecchia barca lunga 8 metri. Erano in trentadue, stipati e sbattuti dal mare mosso. Per cinque o sei ore, Khaled ha viaggiato sottobordo, in un spazio angusto, di fianco al motore, seminascosto tra vecchie cime bagnate. S’era imbarcato di nascosto dai suoi stessi compagni di fuga: e s’è mostrato loro, uscendo dal suo rifugio, solo quando ha pensato che era passato molto tempo, e che non avrebbero mai invertito la rotta per riportarlo a casa. Allora è sbucato fuori, infreddolito e affamato.

Questa storia ce la racconta, con emozione inevitabile, un giovane eritreo che è qui a Lampedusa per «Save the children»: parla lui con i migranti, raccoglie le loro storie, spiega come andranno da quel momento in poi le cose. Ha sentito da Khaled quel che ci racconta: storia vera perché altri migranti l’hanno confermata. E perché ci crede lui, Tarek, fuggiasco anni fa dall’Eritrea, abbordato una prima volta in mare e riportato nelle galere libiche, ma la seconda volta no, la seconda volta ce l’ha fatta. E ora racconta la storia di Khaled come fosse la sua. O come fosse una favola. Khaled viveva sull’isola di Kerkennah, Tunisia, ha un padre pescatore e una madre che pochi anni dopo averlo messo al mondo ha perso la ragione. Il padre pescatore si risposa, ma la matrigna non ama affatto Khaled, che vorrebbe continuare ad andare a scuola come i compagni, e questo sembra una perdita di tempo in una famiglia di pescatori.

Sembra soprattutto alla matrigna. Che convince il marito a portare Khaled in mare, che così aiuta in barca, impara il mestiere e la smette con la storia della scuola. La vita del ragazzino cambia, niente più libri ma pesanti reti da pesca, da gettare e ritirare tante volte al giorno. Tarek racconta che la prima cosa che lo ha colpito di Khaled, quando lo ha visto al Centro, sono state le mani gonfie, rosse e rovinate. Il ragazzino vorrebbe continuare ad andare a scuola: la mattina guarda i compagni e la faccia si fa triste. Vorrebbe anche una mamma, forse, invece che una matrigna tanto cattiva. Nelle favole tante cose succedono per caso: e anche in quella di Khaled è proprio per caso che una gli fa battere il cuore e venire un’idea. Origliando i discorsi di due pescatori, scopre che si sta preparando una barca per andare in Italia. L’Italia, quel paese ricco e bello che ogni tanto vede in televisione. Khaled vuole studiare, vuole scappare, forse vuole la mamma e non la matrigna: comunque la vita che lo attende a Kerkennah non la vuole più fare.

Bisogna fuggire, ma ci vuole un piano per fuggire. Prima di tutto sapere quando si parte e qual è la barca. Khaled origlia ancora, sull’isola ormai della fuga sanno in molti: e scopre facilmente quel che gli serve. Perché nel suo piano una cosa è chiara: poiché sulla barca della fuga ci saranno pescatori che conoscono il padre, lui sulla barca deve salirci di nascosto. Doppiamente clandestino, appunto. Ci si intrufola una prima volta di giorno, per ispezionarla e cercare un posto buono. Ci torna una notte, poche ore prima della partenza. Si rannicchia nel nascondiglio scelto. È buio, bagnato, freddo. Quando si accendono i motori è un rumore d’inferno. Poi il fumo, la puzza e le cime che gli inzuppano i vestiti. Khaled batte i denti, ma il tempo non passa mai.

Deve aspettare che la barca si allontani molto dall’isola, deve essere sicuro di essere così lontano che a quelli non passerà nemmeno per la testa di invertire la rotta, tornare indietro e riconsegnarlo al padre. Perde un po’ l’idea del tempo, ma poi decide di venir fuori, gelato, spaventato, affamato. I migranti sono stupefatti, qualcuno ride, qualcun altro si rabbuia. Ma non succede quello che Khaled temeva, nessuno lo rimprovera: gli passano un maglione perché si cambi e si riscaldi un po’. Dopo qualche ora ancorapassata a battere i denti e a dormire, l’Italia è in vista: e qui l’Italia si chiama Lampedusa. «La prima cosa che ha fatto quando lo abbiamo portato al centro è stato telefonare al padre per dirgli che era vivo ma non sarebbe tornato più - racconta Tarek, mentre un vento leggero gli agita i foltissimi capelli, inconfondibili qui sull’Isola -. È minorenne, non può essere espulso: andrà in una comunità, o forse in una casa famiglia. È un ragazzino furbo e straordinariamente intelligente, vuole imparare l’italiano e lavorare qui». Khaled parte stamane con la vecchia e lenta nave che unisce Lampedusa alla Sicilia. Ce l’ha fatta, e al primo colpo. Perché le favole, per esser belle, devono avere un lieto fine: proprio come fu ed è per Tarek, «immigrato clandestino» prima di lui...

da - lastampa.it/cronache
Registrato
Pagine: 1 ... 7 8 [9] 10 11 ... 20
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!