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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318995 volte)
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« Risposta #615 inserito:: Aprile 01, 2016, 05:06:40 pm »

L'uomo perso nel suo eterno labirinto
Torna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari


Di PAOLO MAURI
01 aprile 2016

Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo "Il Labirinto “di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent'anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: "prende l'image e fassene suggello". L'immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l'autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal '94, anno di uscita di "Incontro con io". Ma perché scegliere la via del romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l'immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po' di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.

Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l'esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.

Scalfari tenta dunque una lettura dell'enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall'altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano. Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l'altro, come narra nel Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l'influsso letterario di un'altra illustre dimora: quella del Gattopardo. Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com'è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie. Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell'Io.

Del resto, scrive Scalfari nell'introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, "Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice". E molti dei Gualdo erano portati all'introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé. Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l'autore cerca una risposta. L'ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità. Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon. La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l'Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere... Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia?

È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d'altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga. Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall'altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall'amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c'è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l'umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere.

Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo.

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01 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/01/news/torna_in_libreria_con_una_nuova_introduzione_il_romanzo_filosofico_di_eugenio_scalfari-136660190/?ref=HRER2-1
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« Risposta #616 inserito:: Aprile 03, 2016, 04:27:13 pm »

Il fiammifero della Guidi e l'incendio che ora divampa
Da quando la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate (si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi dieci anni

Di EUGENIO SCALFARI
03 aprile 2016

DA QUANDO la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate (si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi dieci anni. Argomenti prima distinti si sono intrecciati: democrazia, partiti, rottamazione, riforme economiche, riforme costituzionali, elezioni amministrative, referendum abrogativi, referendum confermativi, clientele, questione meridionale, Europa confederata o federale, terrorismo, immigrazione, Libia, Turchia, un magma di problemi e un filo d'Arianna che nessuno riesce più ad impugnare per uscire da un labirinto che non è soltanto italiano.

Perché questa estrema confusione ha raggiunto il culmine in Italia da un episodio così microscopico? La ragione è evidente: quelle dimissioni hanno sottolineato un fenomeno la cui diffusione è ormai dominante in tutto il mondo ma soprattutto in Italia e non da ora ma da anni, anzi da decenni, anzi da secoli. Corruzione e mafie. Corruzione e trasformismo. Corruzione e rabbia sociale. Corruzione e potere.

Le dimissioni della Guidi sono stati il fiammifero che ha fatto divampare l'incendio. Non sarà facile spegnerlo e quando lo sarà, soltanto allora vedremo le rovine che ha lasciato. In una fase in cui stiamo vivendo la crisi di un'epoca, i problemi sono già numerosi ed estremamente complessi. Questo incendio è un sovrappiù che aggiunge un peggio al peggio, una ferita ad una ferita, una tempesta ad una tempesta, incertezza ad incertezza. Sicché il primo tentativo è quello di capire il senso di quanto sta avvenendo e districare i nodi di quel filo d'Arianna che ci porti a riveder le stelle.

***
Il tema di quelle dimissioni riguarda il giacimento petrolifero trovato a ridosso d'un piccolo paese della Basilicata e investe il dibattito sulle trivellazioni che si effettuano in alcune zone dell'Adriatico. L'Italia ha bisogno di petrolio e di gas e quando riesce a trovare nuovi giacimenti in casa propria ne ricava un indubbio arricchimento, maggiori investimenti e maggiore occupazione.

Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, ce ne sono altri negativi di carattere ambientale: possibile inquinamento con tutte le conseguenze che esso può arrecare. Abbiamo già visto gli effetti di queste due facce della medaglia a proposito dell'Ilva di Taranto. La zona è più o meno la stessa e lo scontro politico e sociale è analogo, con valutazioni spesso divergenti tra governo, Regione, magistratura, imprese pubbliche e private.

Era opportuno indire un referendum? Ed era opportuno che, una volta indetto, il governo e il partito che lo sostiene raccomandassero di votare scheda bianca o astenersi dal voto? Personalmente ritengo di no. Si tratta d'una materia molto complessa, risolvibile soltanto con un compromesso che consenta l'estrazione della materia prima e tutte le prevenzioni necessarie a tutela delle persone. Il referendum non risolve il problema, l'astensione rischia di dare la vittoria all'una o all'altra tesi per qualche voto di differenza purché sia raggiunto il quorum del 50 più uno per cento degli aventi diritto.

Il ricorso al referendum abrogativo ha aggiunto dunque un rebus al rebus. Speriamo in un'astensione di massa che annulli l'esito referendario e lasci lo spazio per il compromesso.

Il caso Guidi sembra aver aperto un caso Boschi, ma non è così: l'emendamento in discussione era pienamente accettabile e la Boschi non aveva ragione alcuna per respingerlo. Altra cosa sarà l'atteggiamento della ministra delle Riforme qualora suo padre sia rinviato a giudizio per il caso della Banca Etruria. Attendiamo che la Procura di Arezzo e il gip diano una risposta, dopodiché, allora sì, la posizione della Boschi diventerebbe insostenibile.

Il tema della democrazia è stato più volte riproposto da quando Renzi ha preso il potere nel 2013 come segretario del Pd prima e di presidente del Consiglio poi. Da allora Renzi comanda da solo con il suo cerchio magico composto da suoi più fedeli collaboratori. Ho più volte criticato questa tendenza autoritaria, connessa anche ad una riforma elettorale maggioritaria e ad una riforma costituzionale di trasformazione- abolizione del Senato. Fermo restando - per quanto mi riguarda - la più netta contrarietà a quelle due riforme (elettorale e costituzionale) ho invece rivisto la mia contrarietà al comando solitario. L'ho rivista per due ragioni: la prima riguarda l'estrema complessità dei problemi che oggi ogni governo deve fronteggiare nel proprio Paese, in Europa e nel mondo. La seconda sta nella constatazione che una società globale complica ancor più la complessità dei problemi e la maggiore rapidità necessaria per risolverli.

Ma c'è una terza ragione: in tutto l'Occidente democratico esiste un Capo che comanda da solo: il cancelliere in Germania, il premier in Gran Bretagna, il presidente della Repubblica in Francia, il presidente degli Stati Uniti d'America. Solo per ricordare gli esempi di maggiore importanza. Questi esempi non configurano dittature: esistono contropoteri adeguati: i Parlamenti, le Corti costituzionali, la Magistratura. Questi poteri ci sono e vanno comunque rafforzati. Entro questi limiti l'esistenza di un capo dell'Esecutivo che sia al timone non desta preoccupazioni.

Ho anche avuto modo di constatare che Renzi, dopo molte incertezze in proposito, ha scelto la via di sostenere in Europa la necessità di un unico ministro delle Finanze dell'Eurozona, con i poteri di pertinenza di quella nuova istituzione più volte richiesta anche da Mario Draghi. Più di recente, dopo i gravissimi episodi di terrorismo soprattutto in Francia ed in Belgio ma non soltanto, abbiamo sostenuto su queste pagine la proposta di un ministro dell'Interno europeo e di una polizia federale europea sul modello dell'Fbi americano. A questa proposta Renzi non ha ancora risposto. Gli rinnovo quindi la domanda perché il tema purtroppo è di stringente attualità e l'Italia, Paese fondatore dell'Unione europea, ha tutti i titoli per sostenerlo e dare battaglia a chi sarà contrario. Coloro che vedono la difficoltà del consenso per realizzare i vari passi del percorso che dovrebbe portarci agli Stati Uniti d'Europa, non dimentichino la definizione tra tempo breve e sguardo lungo che fu di Altiero Spinelli. Tanto prima Renzi si schiererà tanto meglio sarà.

C'è un altro tema che mi sono posto: a chi somiglia veramente Renzi? Non sono certo il primo a porre questa domanda. Molti hanno scritto che somiglia a Berlusconi, altri addirittura a Craxi. Anch'io ho colto alcuni tratti di somiglianza a Berlusconi e qualcuno anche con Craxi. Ma il vero personaggio cui somiglia molto credo che Renzi non lo sappia: si chiama Giovanni Giolitti. Mi direte che è un paragone di troppo alto livello e certamente è così, ma per alcuni aspetti fondamentali queste due figure che distano di quasi due secoli tra loro si comportano in modi analoghi.

Giolitti nacque nel 1842 e morì a ottantasei anni nel 1928. Dopo un lungo tirocinio nel ministero delle Finanze entrò decisamente nell'agone politico nel 1892. Da allora fu uno dei maggiori esponenti della politica italiana pur senza mai far parte di un partito. La sua posizione era ispirata genericamente ad un liberalismo progressista e la maggioranza di cui dispose alla Camera fu quasi sempre molto elevata. Per mantenerla tale cambiò spesso le sue alleanze. Guardò contemporaneamente al capitalismo industriale e alle classi lavoratrici, favorendo incentivi alle imprese e decenti livelli ai salari. Cercò di ottenere l'appoggio dei socialisti riformisti in genere, di Turati in particolare. Nel Mezzogiorno appoggiò clientele e proprietari terrieri guadagnandosi l'insulto politico di Salvemini che chiamò il suo governo "ministero della malavita" ed "ascari" i suoi sostenitori meridionali.

Quando il Partito socialista e le organizzazioni sindacali operaie sentirono sempre più un orientamento di sinistra, soreliano, massimalista e rivoluzionario, Giolitti si alleò con il primo gruppo di cattolici democratici gestito da Gentiloni (avo dell'attuale nostro ministro degli Esteri).

Quando gli operai della Fiat occuparono la fabbrica a Torino, tentò e riuscì a trovare un compromesso tra le due parti. Fu contrario all'entrata in guerra dell'Italia e neutralista, lasciò ovviamente il governo alla destra italiana ma lo riprese nel 1920. Fece sgombrare D'Annunzio da Fiume ma tollerò le violenze degli squadristi fascisti sperando di poterli assorbire gradualmente nella sua maggioranza politica. A questo fine favorì l'ingresso alla Camera nella sua maggioranza dei trenta deputati fascisti nel 1921. Ma si ritirò definitivamente dalla politica dopo la marcia su Roma e la nascita del Regime.

In conclusione un partito giolittiano fu un vero e proprio partito della Nazione, che oscillava tra una destra e una sinistra moderate, con ancoraggio sostanzialmente centrista e un Capo unico che era lui. Il giolittismo e il renzismo. Il primo al livello dieci, il secondo al livello cinque. Ma la vera analogia è quella del Paese. Il nostro è un Paese percorso da un fiume sotterraneo, sempre latente e spesso emergente dove domina una corrente su tutte le altre: purché ci sia libertà privata si accetta la dipendenza pubblica. E quindi corruzione diffusa, clientele diffuse, interessi particolari diffusi. Scarsi ideali, scarsi valori, fortemente sentiti ma da piccole minoranze.

Il Manzoni questa situazione la descrisse così: "Con quel volto sfidato e dimesso / Con quel guardo atterrato ed incerto / Con che stassi un mendico sofferto / Per mercede sul suolo stranier / Star doveva in sua terra il Lombardo / L'altrui voglia era legge per lui / Il suo fato un segreto d'altrui / La sua parte servire e tacer".

Lui sperava di farne un popolo sovrano e in parte quel popolo sovrano è nato. Non è più servo, è libero, tutela e lotta per i propri interessi, ma l'interesse generale lo vede assai poco e da lontano. Lo lascia ad altri, a chi comanda per tutti. Il problema è sapere se chi comanda tutelerà l'interesse generale o il proprio potere. Questo, alla fine, sarà solo la storia a dirlo.

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03 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/03/news/il_fiammifero_della_guidi_e_l_incendio_che_ora_divampa-136788761/?ref=HRER2-1
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« Risposta #617 inserito:: Aprile 11, 2016, 06:03:14 pm »

Repubblica.it
Politica

Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa
"L'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione.
Non credo che riguardi Renzi personalmente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato"


Di EUGENIO SCALFARI
10 aprile 2016
   
DELL'ESORTAZIONE apostolica post sinodale di papa Francesco diffusa venerdì in tutto il mondo cristiano con il titolo "Amoris Laetitia" sull'amore nella famiglia, il nostro giornale ha ampiamente parlato. Ne hanno scritto Alberto Melloni, Marco Ansaldo, Paolo Rodari, cogliendone gli aspetti essenziali che distinguono quelle pagine ancor più di altre che le hanno precedute nei tre anni di pontificato di Jorge Mario Bergoglio.

A me resterebbe ben poco da aggiungere perché condivido i resoconti di quel documento e l'analisi e l'interpretazione che quei colleghi ci hanno dato. Ma il significato, a mio avviso, è assai più ampio del tema ed è questo che desidero esaminare. Di papa Francesco sono amico e ancora quattro giorni fa ha avuto la bontà di telefonarmi poiché compivo i miei 92 anni e lui lo sapeva e ne ha detto delle parole molto affettuose; ma non è per questo nostro legame sentimentale che oggi scelgo la sua Esortazione come primo tema di cui occuparmi. Questo documento è un ulteriore passo avanti della Chiesa, che Francesco rappresenta e guida, verso l'ammodernamento, quello che lui chiama l'inculturazione. La citazione è questa: "Non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono esser risolte con interventi del Magistero. In ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate perché le culture sono molto diverse tra loro, sicché perfino il modo di impostare e comprendere i problemi, al di là delle questioni dottrinali definite dal Magistero della Chiesa, non può essere globalizzato...".

"Le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere, ma non possono assolutamente abbracciare tutte le soluzioni particolari che non si risolvono a livello d'una norma ". La prima e preliminare constatazione è che l'Esortazione parla il linguaggio dell'esperienza e della realtà così come Francesco la vede. Quasi tutti i suoi predecessori hanno usato lo stesso metodo ma, come la storia del Papato ci insegna, la loro realtà mirava soprattutto a rafforzare il potere di Pietro e l'episodio storicamente più rilevante lo dette Alessandro III quando ricevette Federico Barbarossa, da lui scomunicato nel corso della lotta per le investiture. Federico Barbarossa fu costretto a baciargli il piede in ginocchio davanti a lui e obbligato a quel bacio mormorò: " Non tibi, sed Petro " e Alessandro rispose: " Et mihi et Petro ". Ebbene, al contrario papa Francesco usa la sua esperienza a favore della Chiesa missionaria, dei poveri, degli esclusi, della struttura orizzontale e sinodale da lui ascoltata e guidata. Questa è la conclusione preliminare che emerge dalla sua Esortazione: ascolta, non comanda ma guida verso il futuro.

***

Il documento che stiamo esaminando parla molto della famiglia e di quest'aspetto che ha dato il tema ai due Sinodi del 2014 e 2015, i miei colleghi hanno già scritto ieri. Noterò soltanto, a questo proposito, che la famiglia ha una lunga storia, in parte biblica ed in parte scientifica e storica. Dalla Bibbia apprendiamo che Giuseppe e i suoi fratelli avevano due ed anche tre mogli. Quanto alle altre religioni, i musulmani prevedono due o tre mogli, i cinesi della classe dei mandarini prevedevano a quel tempo fino a cinque mogli.

Quanto alla scienza e alla storia, ricordo che il matriarcato, del quale si occupò anche Lévi-Strauss, prevedeva un "marito visitante" che metteva incinta la donna sposata, la quale viveva a casa della propria madre. Il figlio restava con lei e, avendo bisogno anche di un uomo che esercitasse la patria potestà, lo trovava nel fratello della madre. Il vero padre genetico poteva certamente vedere il proprio figlio ed amarlo, ma esercitava a sua volta la funzione di padre in favore dei figli della sorella, con il titolo di "avuncolo locato". Era insomma lo zio a fare da padre al nipote. Questo fu (e ancora in varie tribù aborigene in America del Sud e nell'Asia delle grandi isole) il matriarcato.

Quanto alla civiltà classica greco-latina, tra i coniugi esisteva la cerimonia del "ripudio", parzialmente analoga al divorzio con la differenza che soltanto l'uomo poteva ripudiare la donna, motivando con le più varie ragioni. La donna poteva coniugarsi ancora, ma non contestare il ripudio che aveva subito. La storia della famiglia, come si vede, è molto complessa. Quella sacramentale della Chiesa cattolica non somiglia a quella protestante così come i sacerdoti celibi non somigliano ai pastori che possono coniugarsi ed avere figli. Ma anche la famiglia cattolica, legata dal sacramento del matrimonio, non è quella dei primi secoli, dove infatti il celibato dei presbiteri non era ancora una condizione obbligata.

Infine voglio ricordare che Gesù di Nazareth aveva una singolare visione della famiglia. Ne parlava positivamente nella sua predicazione, ma per quanto riguardava gli altri e non se stesso. I Vangeli raccontano addirittura che un giorno, nei pressi di Tiberiade, mentre era riunito con i suoi seguaci in una casa ospitale fu avvertito che fuori di quella casa erano arrivati sua madre e i suoi fratelli perché da alcuni mesi lui aveva abbandonato la casa materna senza più dare notizie di sé. Gesù - dicono quei Vangeli - rispose che lui non aveva né madre né fratelli e che semmai i suoi parenti erano tutti quei seguaci lì riuniti e disse a chi l'aveva informato di rimandare a casa loro quelli che avrebbero voluto vederlo. In un'altra occasione - anch'essa riferita da alcuni evangelisti - ad uno dei suoi seguaci che gli aveva chiesto licenza di tornare a casa propria per un paio di giorni perché doveva partecipare al funerale di suo padre, negò solidarietà e volle che restasse con lui con la frase: "I morti debbono seppellire i morti".

Detto tutto ciò bisogna aggiungere che amò con grandissimo sentimento la madre quando anch'essa abbandonò la propria casa e lo seguì fino alla morte sulla croce. Fu infatti Maria, stando alla tradizione e ai Vangeli, che lo seppellì insieme con le altre donne che facevano parte dei suoi fedeli. Inutile dire che nessuna donna aveva partecipato all'Ultima Cena con gli apostoli. Tutto ciò è perfettamente comprensibile: Gesù fondava una religione e questo era il compito che aveva assunto, essendo Figlio di Dio per la tradizione ma anche Figlio dell'uomo o Messia per gli apostoli o semplicemente uomo per i non credenti. Comunque fondatore d'una religione, cioè d'un Regno in un altro mondo, come si racconta abbia detto nel suo dialogo con Pilato.

L'Esortazione di Francesco parla molto anche di Cristo in vari capitoli di quel documento, a cominciare dall'inizio, e vorrei dire perfino dal titolo che comincia appunto con la parola Amoris. E che cos'è per la Chiesa e per Francesco l'Amore se non Gesù Cristo? Ecco. Qui siamo ad un punto fondamentale. Cristo è Amore, Cristo è l'articolazione cattolica dell'Unico Dio. Un'articolazione trinitaria condivisa anche da gran parte delle chiese protestanti, ma non da tutte. E non condivisa da nessun'altra religione monoteistica, ebrei e musulmani. In che cosa consiste quest'affermazione, anzi questa fede, per la Seconda Persona della Trinità? Se è il Figlio che partecipa in modo distinto al Dio Unico denominato Padre, significherebbe che il Padre, oltre all'Amore rappresentato dal Figlio, ha anche altre funzioni, altri attributi. Quali? Giudice del bene e del male? No, perché secondo la tradizione al Giudizio universale i tre elementi della divinità partecipano al completo e semmai è proprio Cristo che giudica, in presenza del Padre e dello Spirito Santo. Allora il Padre è vendicativo? No, la religione esclude questo attributo. È dunque il Creatore? Sì, il Creatore è il Padre e non il Figlio. Ma se il Figlio è soltanto un'articolazione della Divinità trinitaria, non può non essere anche lui partecipe della creazione. Né si può separare il perdono dalla Misericordia. Tutti questi attributi stanno insieme. La Misericordia soprattutto e l'Amore che ad essa è strettamente collegato.

A questo punto - ma qui esprimo un mio pensiero che non so se posso attribuire anche a papa Francesco - Cristo è semplicemente un modo di chiamare l'Amore. Amore degli uomini verso Dio e Amore di Dio verso gli uomini e Amore degli uomini verso il prossimo. Lo chiamano Cristo, ma è soltanto un nome che significa Amore. Papa Francesco la pensa così? Non gliel'ho mai chiesto e mai glielo chiederò ma secondo me sì, pensa questo poiché la sua ovvia verità e fede è nel Dio Unico. Non solo per i monoteisti ma per tutte le religioni esistenti. Per tutto l'universo del quale facciamo parte. La sua fede è il Creatore e le cose create, dalle stelle alle particelle elementari, allo spazio e al tempo, all'eternità e al costante mutamento, alla nascita e alla morte. Il Creatore è tutto e la fede, per chi ce l'ha, è nel Creatore. Mi azzardo a dire che se leggete con attenzione alcuni passi dell'Esortazione, questo è il pensiero e la fede di papa Francesco. Ed è questo tipo di fede che a tutti lo rende caro.

Affronterò ora, più brevemente, il secondo tema di questo mio esercizio domenicale, interamente diverso dal primo ma forse più vicino a ciò che accade intorno a noi: Matteo Renzi dopo le dimissioni della Guidi e quel che le ha precedute e seguite. Renzi è sempre forte? Sempre insostituibile? Sempre imbattibile? Oppure sta attraversando una fase di turbamento e indebolimento? Una fase che potrebbe determinare gravi sconfitte alle prossime elezioni amministrative, con conseguenze importanti anche sui referendum, sulle riforme, sulla popolarità del Pd e del suo Capo?

Ricordo che domenica scorsa parlai a lungo di questi problemi e anche di altri: l'Europa, il terrorismo, la Libia ma anche la corruzione, l'affarismo, le clientele. E paragonai per certe assonanze manipolatorie Renzi a Giovanni Giolitti. Quest'ultima parte del mio sermone domenicale è stata molto criticata soprattutto per la statura di padre della Patria che alcuni (studiosi?) attribuiscono a Giolitti. Ho già risposto ad alcuni di loro, ma poiché non si sono fatti vivi pubblicamente, eviterò di rispondergli oggi e qui. Riservo le risposte se formuleranno in pubblico le loro obiezioni.

Dunque il Renzi di questi giorni. È più debole? Sì, lo è. Per quale motivo? Direi con una parola l'affarismo che viene attribuito al suo modo di governare. Ne ha parlato Stefano Folli sulle nostre pagine e Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri. Sì, l'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione. Non credo che riguardi Renzi personalmente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato e per di più con uno stile di comando molto diffuso nell'Occidente democratico ma con scarsi e deboli contropoteri.

Al Renzi dopo oltre due anni di governo che ha attraversato varie fasi nel bene e nel male, meritando giudizi positivi e negativi (più i secondi che i primi) faccio oggi le seguenti osservazioni e pongo le seguenti domande: 1. È al corrente del malaffare che pervade alcuni settori del suo governo e delle sue immediate vicinanze. E perché se è al corrente, non ha preso i necessari provvedimenti? Il caso Guidi è parlante da questo punto di vista e non basta relegarlo in un episodio ben risolto dalla stessa protagonista. Sarà forse senza reato, ma non è certo senza peccato e la politica i reati li lascia ai magistrati ma i peccati spetta a lei impedirli e sanzionarli.
2. La politica della flessibilità ha raggiunto punte molto alte ma ormai non oltrepassabili. Era sembrato di capire che Renzi avesse accettato la creazione del ministro del Tesoro dell'Eurozona, con poteri propri ed una politica orientata verso la crescita. Renzi aveva accolto quella proposta e l'aveva anche "consacrata" in un apposito documento, inviato a tutte le Autorità europee e illustrato al Partito socialista europeo. Ma poi non ne ha più fatto cenno proprio nei giorni in cui Draghi ne ha riproposto la necessità e insieme a lui il governatore della Banca centrale francese in un'intervista di ieri sul nostro giornale. Come si spiega questo silenzio renziano?
3. Il dilagante terrorismo del Califfato richiede con la massima urgenza una polizia federale europea sul solco del Fbi americano e con un ministro dell'Interno europeo con tutte le attribuzioni che quella carica comporta. Renzi, da me interrogato domenica scorsa, non ha risposto, sembra che il tema non lo interessi. Come mai? Continuiamo ad andare avanti alla cieca sul terrorismo?
4. Renzi ha insultato più volte in questi giorni la procura di Potenza che sta indagando su eventuali reati inerenti alle trivellazioni e agli scavi per il petrolio in Basilicata e nelle costiere della Puglia. È un buon comportamento insultare la magistratura?
5. Infine: le notizie più recenti sull'andamento del deficit di bilancio, sull'occupazione, sul debito pubblico, non sono delle migliori. Molte previsioni ottimistiche sono state smentite dai fatti. Per quali ragioni? Con quali provvedimenti che consentano una via d'uscita?
Personalmente avevo registrato alcuni miglioramenti della politica interna ed estera di questo governo e ne avevo dato atto. Oggi vedo un logoramento che non dipende dagli avversari che sono sempre gli stessi, ma da un auto-affievolirsi della forza di spinta. Auguro necessari interventi che ridiano forza al Paese e all'Europa di cui facciamo e dobbiamo far parte perseguendone l'unità e la federazione, almeno nell'Eurozona. Dobbiamo ampliare il respiro della nostra politica nazionale per poter dire che siamo europei e sempre lo saremo e che su questo terreno chi non è con noi peste lo colga.

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10 aprile 2016
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« Risposta #618 inserito:: Aprile 17, 2016, 10:54:08 am »

La politica renziana quando sbaglia e quando (ci) azzecca
L'Immigration compact merita consenso ma dovrebbe prevedere anche una polizia e un ministro dell'Interno europeo


Di EUGENIO SCALFARI
17 aprile 2016
   
IN QUESTI giorni il tema numero uno del nostro Paese è il referendum sulle trivelle e quello numero uno in Europa è la sua ri-nazionalizzazione.

Cominciamo dunque dal referendum in generale e in particolare delle trivelle: votare o astenersi? Qualcuno fa presente che la Costituzione vieta di fare propaganda per l'astensione (non vieta l'astensione) e non vieta di dichiarare alle singole persone di essersi astenuto così come non vieta di rivelare il proprio voto alle elezioni amministrative e politiche. Quel precetto costituzionale (cui non è seguita alcuna legge applicativa) è dunque praticamente inesistente.

È vero invece che l'affluenza ai referendum abrogativi, che prevedono un quorum del 50 più uno per cento dei cittadini con diritto di voto, è crollata a partire dalla fine del secolo scorso. E ancora più in questi ultimi anni. Questa minore affluenza del resto si verifica anche nelle elezioni dove ormai l'affluenza in tutti i Paesi democratici dell'Occidente oscilla intorno al 60 per cento degli aventi diritto; solo in casi rari arriva fino al 70 per cento ma non oltre.

Aggiungo a questa generale tendenza che ci sono referendum abrogativi su fatti specifici che riguardano soltanto abitanti di alcune zone del Paese mentre non interessano affatto a chi vive su territori diversi. Quello delle trivelle per esempio non riguarda chi vive in terre lontane dal mare e quindi del tutto disinteressate all'esito referendario. Non riguarda per esempio Piemonte e Lombardia.

E neppure gli abitanti dell'intera costa tirrenica visto che i giacimenti petroliferi sono stati individuati soltanto nella costa adriatica e ionica.

In queste condizioni sarebbe molto opportuno non estendere all'intero Paese questo tipo di referendum che ne riguardano soltanto una parte. Ci vorrebbe naturalmente una modifica o meglio una precisazione costituzionale che potrebbe perfino essere anticipata da un'opinione della nostra Consulta. Se invece i referendum del tipo di quello delle trivelle devono valere per tutti, è evidente che chi partecipa a quel voto lo fa per ragioni di politica generale che esulano del tutto dalla domanda referendaria. Si vuole incoraggiare oppure indebolire il leader di turno, Renzi in questo caso. E quindi si dà al referendum un significato ed una funzione del tutto diversa da quella che teoricamente gli è stata assegnata. È corretto tutto questo o è del tutto scorretto?

***

A causa di quanto precede è evidente che esistono delle connessioni, senz'altro improprie, tra il referendum sulle trivelle e quello del prossimo ottobre sulla Costituzione. Segnalo a questo proposito, come ho già fatto più volte nelle scorse settimane, che il referendum costituzionale non prevede alcun quorum. Un'ipotesi provocatoria ma teoricamente legittima è che ad un referendum senza quorum potrebbero partecipare soltanto una ventina di persone e in questo caso accadrebbe che undici di loro rappresentano la maggioranza e impongono il risultato referendario a tutti gli altri. Di questo l'amico Crozza ha fatto una delle sue divertenti barzellette, ma barzelletta è fino a un certo punto. Potrebbero andare a votare venti milioni di persone e undici milioni imporrebbero la loro linea ai quarantasette e passa milioni di aventi diritto al voto.

Perché Renzi ha voluto questo referendum? Evidentemente perché, non essendo ancora legittimato nella sua funzione di leader dal corpo elettorale, il referendum del prossimo ottobre dovrebbe avere proprio questo compito ma è difficile pensare che effettivamente ce l'abbia visto che non è previsto alcun quorum. Naturalmente si può rispondere che è un referendum bandito dopo che le Camere hanno già votato la legge in questione. Ma il referendum confermativo dovrebbe avere un quorum, altrimenti che cosa legalizza? Assolutamente niente, sia che approvi la legge in questione e sia anche se la disapprovi.

Bisognerebbe dunque stabilire con la maggiore rapidità possibile che il referendum confermativo deve avere un quorum. Temo che non ve ne sia il tempo e mi chiedo se avrebbe quantomeno un effetto di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica, una dichiarazione in proposito da parte della Corte Costituzionale o del suo presidente anche come opinione personale ma importante. Se vogliamo entrare nel contesto della legge in questione per il poco che conta dichiaro che io voterò "no" per vari motivi. Anzitutto il Senato viene privato di tutti i suoi poteri legislativi, salvo quelli che riguardano le leggi di natura costituzionale, i trattati o le direttive delle autorità europee e le leggi di pertinenze delle Regioni. Quanto al resto, il Senato di fatto è inesistente.

Questo risultato della legge in questione è comprensibile: in molti Stati europei una seconda Camera non c'è o non ha alcun potere se non consultivo o specifico su un numero limitato di materie. Quindi il sistema monocamerale è pienamente accettabile sempre che abbia un effettivo potere legislativo il che ci rinvia alla nuova legge elettorale. Così come è stata concepita e approvata quella legge non soddisfa affatto i requisiti oggettivi; il risultato politico sancisce dunque di fatto una schiacciante presenza del potere Esecutivo rispetto a quello Legislativo, sicché il capo del governo comanda da solo.
Ho più volte criticato questa situazione, ma poi mi sono arreso all'evidenza di una necessità che esiste da tempo nei principali Paesi europei: il Cancelliere tedesco, il Premier inglese, il Presidente della Repubblica francese comandano da soli e non da oggi. Del resto anche in Italia c'è stata molte volte questa situazione e non parlo affatto delle dittature che pure abbiamo conosciuto ma di un potere forte che abbia tuttavia contropoteri istituzionali e al suo fianco un'oligarchia. Attenzione: non un cerchio magico di collaboratori subalterni, ma una vera e propria oligarchia di personalità qualificate per preparazione politica e culturale che condividono insieme al leader la linea storico-politica lungo la quale il partito deve muoversi ma ne discutano le modalità di applicazione che sono di grande importanza e possono essere interpretate a suo modo da ciascuno di quelli che della classe dirigente del partito fanno parte.

Questo avvenne da De Gasperi in poi nella Democrazia cristiana e anche nel Partito comunista e in quello socialista. Cessò con l'arrivo in politica di Silvio Berlusconi e con il populismo che ne derivò fin da allora. Il vero compito di oggi dovrebbe essere quello di costruirla questa oligarchia, ma non mi pare di veder segnali che possano soddisfare a questo bisogno.

***

In Europa è in corso la ri-nazionalizzazione. Sempre più evidente. Il segnale è il ritorno dei confini europei aboliti dal patto di Schengen. L'Austria ha compiuto l'ultima violazione di quel patto tanto più incomprensibile per un Paese lontano dal mare e assai poco ambito come destinazione dalla massiccia immigrazione in corsa verso l'Europa.

L'Austria è guidata da un partito progressista ed ha tra pochi giorni l'elezione del Presidente, un sondaggio molto significativo per constatare come si sta muovendo l'opinione pubblica di quel Paese. Per competere con un populismo xenofobo che si va affermando con molta forza, il governo progressista austriaco ha deciso di adottare la medesima politica del suo concorrente avversario, sicché accade che una politica di xenofobia reazionaria venga gestita adesso da un governo progressista. Del resto analoghe situazioni si sono già viste in Danimarca e in molti paesi dell'Est a cominciare dalla Polonia, dall'Ungheria e a quasi tutti i Paesi balcanici.

Anche l'Italia ha cavalcato per molti mesi il tema della nazionalizzazione che, oltre ad essere motivato dagli interessi nazionali, mantiene il potere sovrano dei ventotto Paesi membri dell'Unione ed è questo in realtà il vero motivo della ri-nazionalizzazione europea.

Da un paio di mesi tuttavia Matteo Renzi ha cambiato posizione, si è spostato su una linea europeista non a chiacchiere ma con concrete posizioni su temi molto qualificanti: primo tra tutti l'appoggio da lui dato alla creazione d'un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona, secondo la richiesta più volte formulata da Mario Draghi e da Renzi recepita con un documento comunicato ufficialmente a tutte le Autorità europee e discusso anche col Partito socialista europeo del quale il Pd è la componente più forte.

In questi ultimi giorni c'è stato un altro passo importante del governo italiano verso l'Europa. È stato chiamato "Immigration compact" e chiede che l'Europa assuma una vera e propria sovranità sulle questioni delle immigrazioni, quale che ne sia la provenienza e la destinazione. Un accordo che coinvolga tutti i Paesi dell'Unione europea sugli obiettivi e sulle risorse organizzative e finanziarie, non solo come è avvenuto (più in teoria che in pratica) con la Turchia per quanto riguarda gli immigrati provenienti dalla Siria, ma anche per quelli che arrivano dalle altre aree di crisi. In particolare dalla Libia dove ormai si concentra una crescente moltitudine di migranti provenienti dai Paesi sub-sahariani, in una fuga che comincia dall'Africa occidentale e si svolge nel deserto libico-algerino fino al Sudan, per risalire da questo viaggio già schiavizzata, in Egitto e soprattutto in Libia, per poi affrontare la traversata di mare e approdare sulle coste italiane.

L'"Immigration compact" prevede interventi ed anche forze specializzate per operare sui Paesi di origine e su quelli di transito, con aiuti per creare posti di lavoro e sostegno socioeconomico, con campi di accoglienza sulla costiera mediterranea per tutti quei migranti che non si è riusciti a fermare prima, evitando al massimo i "viaggi del mare".

Una politica del genere merita consenso, ma per essere applicata dovrebbe anche prevedere la creazione di una polizia federale europea e di un ministro dell'Interno europeo che gestisca appunto la politica interna dell'Ue mettendo insieme i Servizi segreti, le informazioni, la lotta contro il terrorismo dell'Is. Si tratta di un tema non urgente ma urgentissimo. Renzi non ha ancora risposto a questa proposta che gli abbiamo fatto in queste pagine ma l'"Immigration compact" mi fa pensare che la risposta sarà positiva; varrebbe la pena che fosse data.

È vero che non sono obiettivi di rapida soluzione ma servono comunque a dare al nostro Paese una posizione della massima importanza e ne legittimano anche decisioni che in questo quadro non hanno affatto un aspetto di nazionalizzazione ma adottano con legittima autonomia alcune soluzioni che anticipano l'unità europea per la quale dobbiamo sempre più schierarci.

***

C'è un terzo tema, forse il più importante di tutti ed è quello delle periferie nelle città del mondo intero. Le città, le capitali politiche e storiche, si sono già estese e sempre più si estenderanno fin quasi a contenere gran parte della popolazione di quel paese. È così a New York, a Los Angeles, a Shanghai, a Pechino, a Nuova Delhi, a San Paolo del Brasile, a Londra, a Parigi e anche sull'asse Milano-Torino.

Ma l'urbanizzazione reca con sé la nascita delle periferie e il rapporto che hanno fra di loro e con il centro di quella città. Tra loro geograficamente comunicano poco, i loro insediamenti le pongono lontane l'una dall'altra e spesso molto diverse sono anche le provenienze di chi le abita e quindi i luoghi d'origine, le lingue e i dialetti che parlano.

Con il centro i rapporti possono essere per ragioni di lavoro, ancorché sia quasi sempre lavoro subalterno salvo poche eccezioni; ma di solito quei rapporti non esistono. Se guardate alle banlieue parigine e a quelle londinesi, vi accorgete che quegli insediamenti somigliano terribilmente ai ghetti, per responsabilità sia delle classi dirigenti che abitano il centro e sia degli stessi abitanti delle periferie che dei loro ghetti sono i padroni.

Questa situazione produce estraneità ma spesso anche rabbia sociale all'interno delle periferie e soprattutto nei confronti del centro. Quando questo avviene le varie periferie si uniscono e l'assalto al centro diventa generale.

Esiste però un problema di periferie che riguarda la gerarchia socio-politica di interi popoli. È sempre avvenuto nella storia del mondo da quando la nostra specie è nata. È sempre stata una specie migrante che naturalmente e proprio attraverso queste migrazioni ha cambiato modo d'essere, nascita di linguaggi, perfino connotati somatici e psichici che si sono via via evidenziati, ma la rapidità e l'intreccio attuale non è stato mai raggiunto prima ed è causato dalla globalizzazione ed anche dalla tecnologia. La mobilità coinvolge ormai tutto: merci, capitali finanziari, bisogni da soddisfare, diseguaglianze da colmare, mobilità e trasmigrazione continua dei popoli in tutte le direzioni.

Si direbbe, osservandone i movimenti e la predicazione che compie ogni giorno, che papa Francesco sia tra i più attenti testimoni di quanto avviene nel mondo e delle cause che hanno accentuato la mobilità dei popoli, le periferie del mondo, i fondamentalismi e la rabbia sociale che può essere diventata il terreno di coltura di potenziali terroristi, cellule ancora addormentate ma potenzialmente pronte ad attivarsi.

Uno degli antidoti è la religione unica che ha l'obiettivo di affratellare le diverse confessioni intorno all'unico Dio. L'esempio più recente è di ieri: il viaggio di Francesco a Lesbo e l'affratellamento non solo con la massa dei rifugiati in quell'isola ma l'incontro con il Primate ortodosso che insieme al Papa ha comunicato i rifugiati. La spinta verso l'affratellamento religioso è di grande importanza e se pensiamo alla carica esplosiva del fondamentalismo religioso ci rendiamo conto dell'importanza politica del suo contrario.
Fratellanza e libertà, è questo il vero obiettivo che dobbiamo far nostro.

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17 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/17/news/politica_renziana_scalfari-137795857/?ref=HRER2-1
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« Risposta #619 inserito:: Aprile 24, 2016, 03:57:44 pm »

Quei tre personaggi che contano nell'Europa a pezzi
"È molto importante esaminare le posizioni di Merkel, Draghi, Obama e soprattutto gli interessi che muovono ciascuno di essi, non parlo di interessi personali ma di quelli che ciascuno di loro oggettivamente rappresenta"


Di EUGENIO SCALFARI
24 aprile 2016

In questa fase drammaticamente agitata in Europa i personaggi che contano sulla sorte del nostro continente sono tre: Angela Merkel, Mario Draghi, Barack Obama, da posizioni diverse e talvolta contrapposte. Ma conta anche, sia pure a un livello minore, Matteo Renzi.

È molto importante esaminare le loro rispettive posizioni e soprattutto gli interessi che muovono ciascuno di essi, non parlo di interessi personali ma di quelli che ciascuno di loro oggettivamente rappresenta.

La Merkel, ovviamente, rappresenta l’interesse della Germania ma con un “però” grande come un grattacielo: l’egemonia tedesca sull’Europa che, se fosse unificata su un modello federale, non potrebbe esser guidata che dalla Germania.

Questo è il dilemma della Cancelliera: la Germania di oggi e quella d’un possibile domani, il pensiero breve e lo sguardo lungo. Una contraddizione non da poco che fino a qualche tempo fa Angela ha saputo gestire con sapiente abilità, ma che negli ultimi due mesi sembra esserle sfuggita di mano sotto la pressione di interessi di lobby estremamente potenti e con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale.

In questa situazione alquanto paradossale il partito socialista alleato con la Cdu comincia a muoversi con crescente autonomia critica contro la politica di rigore economico che la Cancelliera sostiene più che mai. È difficile capire dove potrà arrivare questa nuova posizione dei socialisti, anch’essa è probabilmente ispirata dall’imminenza elettorale.

Mario Draghi, presidente dalla Banca centrale europea, non ha le contraddizioni della Cancelliera sul ruolo "a breve e a lungo" della Germania. Ha una posizione chiarissima sui compiti della Bce: derivano dallo statuto della Banca ed anche dai modi di applicarlo e dalle conseguenze che ne possono derivare. Deve realizzare la stabilità dei prezzi ad un livello appena sotto il 2 per cento d'inflazione. Questo e non altro.

Sembra facile ma non lo è affatto in un'Europa ancora così nazionalistica e quindi divisa su quasi tutti i temi di fondo: i tassi d'interesse, i tassi di cambio, la gestione dei debiti sovrani, il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, la politica bancaria, la flessibilità economica, il neo-keynesismo e il suo contrario, la politica fiscale, le immigrazioni, la lotta al terrorismo e le risorse economiche necessarie per portarla avanti con efficacia.

Draghi è ben consapevole dell'entità di questi problemi e della loro interconnessione. È consapevole anche che la nazionalizzazione della politica è un handicap che favorisce soltanto le multinazionali. Infine è consapevole che la sua politica monetaria va ben al di là dello statuto che è in sua potestà. Nel suo caso il pensiero breve e lo sguardo lungo non creano contraddizioni, anzi aumentano la sua consapevolezza negli obiettivi finali. Del resto lo dice in modo felpato nella forma ma duro nella sostanza.

Si è creata così una dialettica poco amichevole, mentre fino a due mesi fa tra lui e la Merkel il rapporto era sostanzialmente concorde. Oggi non è più così. Passerà presto? Entrambi se lo augurano ma anche su questo tutto dipenderà dalle elezioni tedesche, vicine e al tempo stesso lontane secondo i punti di vista e gli interessi connessi al loro risultato.

Il vero solidale con Draghi è in questo momento il presidente Obama, che nel rafforzamento dell'Europa vede una delle questioni strategicamente essenziali della politica americana, di cui lascerà la guida nel prossimo novembre, ma nella quale per l'ultima volta è ancora in grado di esercitare tutta l'influenza della superpotenza Usa.

***

La tastiera sulla quale il presidente degli Stati Uniti suona la sua musica riguarda varie melodie: la geopolitica contro l'inquinamento dell'atmosfera e delle energie rinnovabili; il rafforzamento dell'Eurozona in senso federale; la lotta contro il terrorismo del Califfato; l'immigrazione; la situazione in Africa e le sue conseguenze su tutto il Medio Oriente mediterraneo a cominciare dalla Libia e dalla Tunisia; il Brexit inglese; i rapporti con la Russia.

Come si vede, la tematica di Obama coinvolge una serie sterminata di problemi e determina una grande varietà di alleanze. È alleato di Draghi, di Cameron, di Renzi, di Hollande, del presidente tunisino Essebsi, del presidente libico a Tripoli. Ma è in contrasto con Putin per quanto riguarda la politica neo-imperialistica e mediterranea.

Con la Merkel c'è e permane un'antica solidarietà anche se in questa fase non mancano le nuvole. Obama cerca di convincere la Cancelliera che sarà la Germania il principale punto di riferimento europeo degli Stati Uniti e che questo rapporto dovrebbe dunque far prevalere a Berlino una politica federale europea e una crescita economica sul modello della politica monetaria e occupazionale della Fed, la Banca centrale americana.

In questo quadro estremamente complesso esiste anche una posizione italiana e un rapporto tra Obama e Renzi certamente amichevole per la consonanza degli obiettivi.

***

Renzi ha avuto fino a pochi mesi fa una politica europea a sfondo nazionalista, non diversa su questo punto dalla grande maggioranza degli altri Paesi dell'Unione, dentro e fuori dall'Eurozona. Solo su un punto — tutt'altro che secondario — la politica renziana auspicava una posizione europea federalista: la gestione dell'immigrazione, la revisione del trattato di Dublino, la ripartizione degli immigrati per quote, il mantenimento del patto di Schengen sull'abolizione dei confini intra-europei.

Si tratta d'un tema di grande importanza, specialmente per i Paesi mediterranei e per l'Italia e la Grecia in modo particolare, dove la politica nazionalista dei governi europei coincide, per l'Italia soprattutto, con una posizione europeista. Così pure per quanto riguarda la politica economica fondata sulla crescita e non sul rigore.

Da un paio di mesi però Renzi ha cambiato cavallo. Improvvisamente ha imboccato una politica europeista che prevede un rafforzamento effettivo, con fatti e non con parole, dell'Unione europea, con alcuni tratti federali e una nuova architettura istituzionale europea.

Il primo di questi passi è stato il dichiarato appoggio da lui dato alla creazione d'un ministro del Tesoro unico, installato nell'Eurozona con i poteri inerenti ad ogni ministro del Tesoro: un bilancio sovrano, un debito sovrano, l'emissione di bond, una politica d'incentivazione degli investimenti pubblici e privati dell'Eurozona, con le responsabilità inerenti a poteri del genere.

Quest'apertura di carattere nettamente federalistico ha coinciso con l'analoga richiesta di Draghi, creando in tal modo una convergenza politica tra Bce e governo italiano.

Un'ulteriore conseguenza si è verificata sull'Unione bancaria. Anche in questo caso l'obiettivo è complesso e va dalla garanzia sui depositi bancari alla costante vigilanza sul sistema bancario europeo e infine sulla nascita di quel sistema amministrato in quanto tale dal ministro del Tesoro dell'Eurozona.

Infine c'è stato un passo ancora più recente e altrettanto significativo: si tratta d'un documento programmatico che porta il nome di Migration compact che propone non solo il pieno ripristino del patto di Schengen sull'abolizione dei confini intraeuropei, ma anche una politica comune europea sulla gestione delle immigrazioni provenienti dall'Africa sub-equatoriale, con l'obiettivo di trattenere gli emigranti nei Paesi d'origine, con contatti diplomatici con quei Paesi e allestimenti di campi di sostegno alla povertà ed educazione socio-professionale ai giovani.

Analoghi campi dovrebbero essere allestiti lungo il percorso di quelle masse di emigranti, nel costante tentativo di fermarli sia nei Paesi d'origine sia nel percorso intrapreso.

Infine, una serie finale di campi sulla costiera mediterranea con l'obiettivo di impedire ogni imbarco verso le coste europee, ma al tempo stesso di sottrarre quei migranti alla schiavitù cui sono attualmente sottoposti, ospitandoli degnamente. Insomma, bonificare socialmente ed economicamente i Paesi africani con investimenti adeguati europei. Questo ambizioso progetto presuppone un'Europa unita che dovrebbe assumere in futuro un ruolo euro-africano che ci compete per geografia e per storia, non più coloniale ma di civiltà, cultura, economia.

Questo è il senso del Migration compact che il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha fortemente appoggiato, altrettanto il presidente del Parlamento Martin Schulz e anche Obama.

La Germania l'ha contrastato opponendosi all'emissione di bond europei, sul resto ha ufficialmente taciuto, ma sembra difficile che possa contestarlo.

Renzi non ha ancora preso posizione (lo ripeto per l'ennesima volta) ad una nostra proposta di creare una polizia federale europea e un servizio di informazione comune per la lotta al terrorismo, con un ministro dell'Interno europeo che guidi la lotta contro il Califfato. Personalmente penso che Obama sarebbe molto favorevole a questo ulteriore passo federale. Lui in fondo vive con passione la nascita degli Stati uniti europei, limitata almeno per ora all'Eurozona come primo passo verso un futuro continentale.

Desidero richiamare l'attenzione dei lettori verso ciò che sta accadendo nella piccola ma importante Tunisia, il cui presidente, successore di Bourghiba, ha liberato le donne dalla sudditanza sociale che ancora le opprimeva, ha ottenuto una vera e propria libertà religiosa con la convergenza politica di musulmani e cristiani in favore di uno Stato laico e spinge verso l'educazione socio-professionale dei giovani, donne comprese.

Nel frattempo deve difendersi militarmente dagli attacchi dell'Is. Un esempio che dovrebbe mobilitare l'Europa intera in favore della Tunisia democratica.
   
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24 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/24/news/quei_tre_personaggi_che_contano_nell_europa_a_pezzi-138320758/?ref=HRER2-1
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« Risposta #620 inserito:: Maggio 02, 2016, 04:40:12 pm »

La corruzione in Italia e l'Europa spaccata e moritura
Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana

Di EUGENIO SCALFARI
01 maggio 2016
   
CI SONO molte magagne in Italia e in Europa ed una delle principali, specialmente nel nostro Paese, è l'affievolirsi della democrazia e l'accrescersi della corruzione. Sono due fenomeni diversi ma interconnessi. Per chiarire la natura del primo cito qui un passo del mio libro intitolato "L'allegria, il pianto, la vita", uscito un paio di anni fa. "La democrazia declina e declina anche la separazione dei poteri costituzionali che Montesquieu mise alla sua base.

Da noi quella preoccupante esperienza ebbe inizio nei primi anni Novanta e non si è più fermata. Quel declino ha colpito il potere giudiziario e quello legislativo, rafforzando il potere esecutivo che ormai accentra su di sé la forza del governare con il minor numero di controlli. Il processo è ancora in corso ma un primo obiettivo è già stato realizzato e consiste nel completo stravolgimento della democrazia parlamentare e dei partiti. I partiti sono ormai tutti "liquidi"; riflettono società ed economie altrettanto liquide: un Capo, un gruppo dirigente a lui devoto, un'attenzione particolare ai potenziali elettori, la scomparsa della democrazia politica all'interno dei partiti".

La corruzione diffusa purtroppo in tutte le classi sociali, dai più abbienti al ceto medio fino a quelli sulla soglia della povertà, ha come condizione preliminare il declino della democrazia partecipata. Di fatto è la scomparsa dello Stato come soggetto riconosciuto dai cittadini e quindi la scomparsa, nella coscienza delle persone, del concetto di interesse generale. L'effetto è il sovrastare degli interessi particolari, delle lobby economiche, delle clientele regionali, dei singoli e del loro circondario locale.

La corruzione dilaga, le mafie si affermano con le loro regole interne, i loro ricatti, il denaro illegale e gli illegali profitti che se ne ricavano, il mercato nero e il lavoro nero. Il popolo sovrano che dovrebbe essere la fonte dei diritti e dei doveri di tutti, ripone la sua affievolita sovranità nella corruzione. Corrisponde alla conquista d'un appalto, un posto di lavoro, un incarico importante nel mondo impiegatizio o imprenditoriale, si conquista insomma un potere.

Quel potere conquistato con la capacità di corrompere dà a sua volta la possibilità d'esser corrotti. I corruttori diventano corrompibili e viceversa: questa è la società nella quale viviamo. Non solo in Italia e non solo in Europa, ma in tutti i Paesi dell'Occidente. Negli Stati Uniti d'America si toccarono le punte massime nella Chicago del proibizionismo e del gangsterismo, ma c'era già prima ed è continuata dopo. È il vero e più profondo malanno della democrazia, fin dai tempi dell'antica Grecia che è all'origine della nostra civiltà.

L'impero ateniese fu la città della democrazia e contemporaneamente la culla della corruzione, molto più diffusa di quanto non lo fosse a Sparta e a Tebe. E così nella Roma antica, corrotta nelle midolla dai tempi della tarda Repubblica e a quelli dell'Impero. Accade talvolta che le dittature blocchino la corruzione. Quando il potere politico è interamente nelle mani di pochissimi o addirittura di uno soltanto, la corruzione scompare: il potere assoluto sopprime al tempo stesso la corruzione e la libertà.

Egualmente accade che la corruzione non c'è o è ridotta ai minimi termini quando il popolo è veramente sovrano. In quel caso - purtroppo poco frequente - il massimo della libertà, della separazione dei poteri, delle istituzioni che amministrano l'esercizio dei diritti e dei doveri, dello Stato di cui il popolo sovrano costituisce la base e che persegue l'interesse generale del presente in vista del futuro, della generazione dei padri che godono il presente e operano per le generazioni dei figli e dei nipoti; in quel caso l'onestà la vince. Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana.

Fasi tuttavia assai transitorie, specialmente in Italia e la ragione non è certo di natura antropologica. Gli italiani non sono per natura un popolo di corrotti e di ladri, ma è la nostra storia che ha ridotto a plebe il popolo sovrano. Machiavelli lo teorizzò nei suoi scritti e nel suo "Principe" in modo particolare. Le Signorie erano un covo di intrighi e quindi di corruzione. Per di più lo Stato non esisteva, fummo per secoli servi di potenze straniere che facevano i propri interessi e non certo quelli d'un popolo schiavo.

Ma ci furono anche dei periodi di luce, di lotta per la libertà e per la costruzione dello Stato d'Italia, di assoluta onestà privata e pubblica. Pensate al trio di Mazzini, Cavour, Garibaldi, in dissenso tra loro ma uniti da diverse angolazioni per la libertà e l'indipendenza del nostro Paese. Ed anche alla guerra partigiana e alla Resistenza che coinvolse l'intera Italia centro-settentrionale, dai nuclei combattenti a gran parte del Paese che ad essi faceva da scudo. E così pure, ai tempi della ricostruzione materiale, morale e politica sulle rovine che la sciagurata guerra ci aveva lasciato in eredità.

Conclusione: la corruzione è figlia della scomparsa d'un popolo sovrano e d'una democrazia non partecipata di partiti "liquidi", dell'affievolimento dell'interesse generale e dello Stato che dovrebbe rappresentarlo e perseguirlo. Questa è la situazione in cui già da molti anni ci troviamo e che con lo scorrere del tempo peggiora. E questa è anche la situazione europea dove i fenomeni deleteri sono per certi aspetti ancor più gravi.

***

Domenica scorsa scrissi a lungo sull'Europa "a pezzi", sul patto di Schengen violato da un numero sempre più esteso di Paesi membri dell'Unione, sulla situazione greca, sulla anomalia sempre più evidente della Turchia di Erdogan con l'Europa democratica e infine sulla Libia, la Tunisia e l'Is che imperversa sempre di più sulla costiera mediterranea e in particolare sulla Cirenaica che ci fronteggia. Ma dopo appena sette giorni da allora la situazione è ancor più grave e più chiara nella sua gravità: esistono ormai tre diverse Europa che si fronteggiano, alle quali va aggiunto il terrorismo del Califfato, potenziale soprattutto, che aggrava sempre di più i malanni e il solco che divide le tre parti del nostro Continente.

Esistente anzitutto l'anti-Europa: movimento di estrema destra, xenofobo e antidemocratico, con tinte razziste e nazionaliste, sia politicamente sia economicamente. Molti di questi anti-europei vigoreggiano in Paesi dell'Unione che non fanno parte dell'Eurozona, ma alcuni sono nati e stanno costantemente rafforzandosi in Paesi che hanno la moneta comune. Così avviene in Austria, in Danimarca, nei Paesi baltici, nei Balcani. Alcuni di questi movimenti sono ancora di modeste dimensioni, ma altri, per esempio in Austria, hanno raggiunto dimensioni preoccupanti e alcuni sono addirittura arrivati a raggiungere il primo posto scavalcando i partiti che avevano finora governato. L'esempio più lampante è quello austriaco, ma anche in Francia il lepenismo è il movimento che i sondaggi collocano in prima posizione.

La seconda spaccatura dell'Europa è tra il Nord e il Sud e il suo aspetto più preoccupante è rappresentato dalla Germania. È il Paese egemone dell'Unione e soprattutto dell'Eurozona e finora si era mostrato in equilibrio su alcuni temi fondamentali, a cominciare da quelli dell'immigrazione, della flessibilità adottata dalla Commissione di Bruxelles, sia pure con modalità moderate, e nel rapporto tra la Cancelliera Angela Merkel - ufficialmente sostenitrice del rigore economico - e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea e fautore d'una politica monetaria espansiva e anti-deflazionistica.

In questi ultimi giorni tuttavia la Merkel sembra aver abbandonato il suo equilibrio tra il rigore anche monetario della Bundesbank e la politica espansiva della Bce. Nei giorni scorsi Weidmann, governatore della Bundesbank, è venuto a Roma con un pretesto privato ma in realtà allo scopo di attaccare scopertamente la politica di Draghi, rendendo pubblico quell'attacco con un'intervista data proprio al nostro giornale.

Weidmann non è nuovo a quest'opposizione alla politica di Draghi, gli vota regolarmente contro in tutte le riunioni del Consiglio della Bce di cui la Bundesbank fa naturalmente parte; ma la novità di questa volta è che c'è stata l'approvazione piena delle dichiarazioni di Weidmann da parte del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, e nessuna parola di riequilibrio da parte della Merkel. Sarà la necessità di posizionarsi adeguatamente in vista delle prossime elezioni politiche tedesche, con una Cdu minacciata dagli xenofobi antieuropei e anche dall'alleato attuale, la Csu bavarese; ma comunque è un fatto nuovo e fortemente preoccupante questo atteggiamento "separatista" della Germania. Infine la terza spaccatura europea riguarda la politica estera, la guerra contro l'Is in Siria, l'amicizia senza remore di sorta con la Turchia, l'assoluta "neutralità" nei confronti dell'eventuale intervento europeo sulla situazione libica.

Queste tre spaccature sono micidiali per l'Europa: allontanano il suo rafforzamento istituzionale e quindi rinforzano il nazionalismo dei singoli Paesi membri, anche di quelli che non condividono le posizioni tedesche in tema di rigore economico e proprio per questo svalutano le regole comunitarie contribuendo così da opposte sponde alla disgregazione politica ed anche ideale dell'Europa unita.

Sono gli effetti delle democrazie non partecipate, liquide e senza alcun controllo dai diversi poteri costituzionali; è sempre meno esistente la parvenza d'un rafforzamento europeo e le prospettive pessime di questa situazione in una società globale. Barack Obama ha cercato nel suo viaggio europeo dei giorni scorsi, di patrocinare un radicale mutamento di rotta, ma non sembra sia stato molto ascoltato. L'Europa è a pezzi ma non cerca affatto di ricostruirli. Se continuerà così andrà dritta al cimitero e noi tutti con lei, Germania in testa. "Ave, Caesar, morituri te salutant".

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01 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/01/news/la_corruzione_in_italia_e_l_europa_spaccata_e_moritura-138823449/?ref=HRER2-1
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« Risposta #621 inserito:: Maggio 07, 2016, 11:40:59 am »

Un male antico e letterario che chiamiamo corruzione
Dai tragici greci a Manzoni, da Dante a Shakespeare.
Fino a "Le confessioni" di Roberto Andò con Toni Servillo. Ecco perché siamo destinati alla "caduta"

Di EUGENIO SCALFARI
   
DOMENICA scorsa tra i vari temi che ho esaminato e che gravi, anzi gravissimi, affliggono il nostro Paese ma anche l'Europa, ho indicato la corruzione. Oggi ritorno su questo argomento da un altro punto di vista, quello dell'arte e della cultura: non da millenni i romanzi, il teatro, la filosofia, il cinema da quando esiste, hanno creato personaggi dominati dalla corruzione e questo dimostra che non si tratta di cose occasionali, dovute soltanto a istituzioni difettose, mancanza di controlli, strutture politiche e giuridiche mal fatte che la rendono più diffusa o addirittura ne stimolano l'esistenza. La carenza di controlli certamente rende più facile quel malanno sociale, ma esso è intrinseco all'anima degli individui di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Se così non fosse gli autori delle più varie opere non ci racconterebbero le gesta di corrotti e di corruttori che hanno storicamente pervaso la società in tutto il mondo.

La tragedia greca ritrae la corruzione come uno degli elementi portanti dei protagonisti - Euripide, Sofocle e Aristofane in particolare. E altrettanto è accaduto nell'antica Roma e basta leggere Cicerone e Ovidio e Virgilio per cogliere questo fenomeno in tutta la sua dimensione. E se vogliamo osservare altre epoche ed altri autori vediamo la corruzione perfino alla corte di re Artù e poi nell'Eneide di Virgilio, nelle opere di Agostino, nella patristica cristiana.

Montaigne dedica ad essa molte pagine degli Essais, La Fontaine ne parla in parecchie delle sue poesie, La Rochefoucauld nelle sue Massime. Nell'Inferno dantesco i corrotti affollano le Bolge. Ma l'autore centrale che descrive e stigmatizza corrotti e corruttori è Shakespeare. In Italia dopo Dante, Boccaccio, Savonarola, Ariosto, ecco Manzoni quanto e forse più di Shakespeare. Leopardi nelle Operette morali e nello Zibaldone. Quindi Voltaire, Rousseau, Diderot, Victor Hugo, Stendhal, Pareto, Mazzini. Carlo Marx ne ha fatto addirittura elemento principale del capitalismo. L'elenco insomma è interminabile, i nomi che ho qui disordinatamente menzionato sono soltanto alcuni.

Ma se veniamo ai tempi nostri direi che la corruzione è sempre di più l'elemento centrale di moltissimi autori nel romanzo, nella saggistica, nello spettacolo teatrale e cinematografico. I nomi si rincorrono e si moltiplicano. Verga, I Viceré, Pirandello, Sciascia, Carducci, D'Annunzio, Pasolini, Ettore Scola, Umberto Eco, Saviano e la sua Gomorra.

Quanto al cinema americano, basterebbe il nome di alcuni attori che hanno impersonato di volta in volta i corrotti, i corruttori e quelli che rappresentano la lotta contro la corruzione - compito essenziale della loro vita: da Charlie Chaplin a Clark Gable a Michael Douglas a Robert Redford e soprattutto Burt Lancaster e Humphrey Bogart, protagonisti di film nei quali la corruzione e se necessario la violenza sono dominanti. Perfino Il Gattopardo ne è un esempio.

Il più recente dei film italiani che ne è una sorta di breviario dove la corruzione diventa addirittura omicidio è Le confessioni di Roberto Andò, con protagonista Toni Servillo travestito da monaco certosino. Si svolge in un elegante albergo in Svizzera dove si radunano i capi delle multinazionali che dominano il capitalismo, riuniti a congresso dal loro presidente. Alla riunione partecipa anche il monaco certosino che ha studiato a fondo il tema della corruzione, alla quale gli uomini d'affari lì riuniti si dichiarano non solo estranei ma addirittura mobilitati in nome d'un capitalismo robusto e sano, dedito a produrre profitti attraverso il lavoro socialmente utile e opere socialmente benefiche.

Il presidente di quel congresso tuttavia sente dentro di sé una sorta di rimorso che lo induce a confessarsi, spinto anche dalle esortazioni del monaco. Alla fine viene ucciso. L'ultimo che l'ha incontrato è il monaco ed è quindi su di lui che cadono i sospetti e un processo promosso da giudici anch'essi corrotti. Nel frattempo altri omicidi vengono commessi dai convenuti che si eliminano tra loro, i più forti contro i deboli per accentrare le risorse in poche mani. In conclusione sono tutti arrestati ed anche il monaco che però riesce a fuggire.

Il significato del film, reso benissimo da Toni Servillo, dimostra che la corruzione è un elemento che caratterizza la natura della nostra specie in ogni tempo, connesso con la ricerca altrettanto indefessa del potere e della guerra per ottenerlo. Merita d'esser visto quel film, con la speranza che riesca a curarci e guarirci (?) da una natura così perversa e ampiamente diffusa.

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/05/07/news/corruzione-139258216/?ref=HRER2-1
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« Risposta #622 inserito:: Maggio 13, 2016, 06:04:45 pm »

Matteo Renzi, la sinistra e l'Europa immaginata da Francesco
"Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta; quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno perché è proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque"

Di EUGENIO SCALFARI
11 maggio 2016
   
MATTEO Renzi è molto attivo in questi giorni come capopartito più che come capo di governo e la ragione è chiara: sta per affrontare due prove elettorali. Tra pochi giorni una amministrativa in molti Comuni italiani, alcuni dei quali di notevole importanza. L'altra, tra cinque mesi, è il referendum che dovrebbe approvare le riforme costituzionali già votate dal Parlamento. Alle spalle del referendum c'è la legge elettorale già esistente, che con la riforma costituzionale ha strettissimi legami.

Questa situazione Renzi la conosce bene e quindi la sta affrontando con l'abilità che deve essergli ampiamente riconosciuta. Domenica sera l'ha esibita in una trasmissione su Rai-Tre, "Che tempo che fa" di Fabio Fazio. È stato bravissimo e credo abbia convinto molte persone incerte su come votare.

Il giorno dopo ha riunito la direzione del partito e anche lì ha posto il problema referendario. Sapeva che gran parte della sua dissidenza era tentata di votare "no", ma ha convinto molti, anzi quasi tutti, che un referendum promesso da un partito e dal governo di cui quel partito è il nerbo non può vederli divisi. Ha illustrato i grandi vantaggi d'una riforma che elimina il bicameralismo perfetto, ha ricordato che la tesi del monocameralismo era sempre stata sostenuta dalla sinistra comunista e soprattutto da Napolitano e da Macaluso; infine ha offerto come contropartita alla sua dissidenza la convocazione immediata del congresso del Pd a referendum avvenuto e approvato.
 
A quanto pare questa offerta ha funzionato e la direzione sembra aver sancito l'accordo sulle basi da lui proposte.

Non c'è che dire, è bravo, ha un carisma che eguaglia e forse supera quello che ebbe Craxi ai suoi tempi. Gli italiani sono sempre stati affascinati dal carisma, che può produrre ottimi o pessimi frutti. Il più dotato nel carisma demagogico fu Benito Mussolini, con i risultati che conosciamo. Penso e spero che non sia il nostro caso attuale.

***
Personalmente non mi oppongo affatto al monocameralismo, esiste in quasi tutti i Paesi d'Europa. Non mi oppongo neppure a chi comanda da solo, con un ristretto cerchio magico di devoti: anche questa, in una società complessa come quella in cui viviamo, è diventata di fatto una necessità. Salvo un punto che tuttavia è fondamentale: ci dovrebbe essere una oligarchia invece del cerchio magico dei devoti.

Nella Prima Repubblica l'oligarchia democristiana comprendeva De Gasperi, Scelba, Fanfani, Moro, Andreotti, Colombo, De Mita, Piccoli, Rumor, Bisaglia, Segni, Gronchi, Dossetti, La Pira e molti altri.

Nel Partito socialista c'erano Nenni, Mancini, Giolitti, Pertini, De Martino, Lombardi, Brodolini, Craxi, Miriam Mafai, Signorile, De Michelis, Martelli.

Nel Pci Togliatti, Amendola, Longo, Ingrao, Barca, Terracini, Scoccimarro, Negarville, Napolitano, Reichlin, Pajetta, Nilde Iotti, Tortorella, Rodano, Occhetto, e infine Berlinguer e poi D'Alema e poi Fassino, e poi Veltroni. Il Pci non fu mai un partito dittatoriale e tantomeno guidato dai devoti del capo; fu oligarchico e costituzionale, con il solo ma drammatico errore d'essere per lunghi anni legato alla dittatura leninista- stalinista.

I piccoli partiti contavano molto poco ma alcuni dei loro esponenti ebbero un'importanza di grande peso nella storia del Paese: Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini, Malagodi, Calvi, Storoni, Mario Pannunzio, Cattani, Corbino, Valiani.

Ho fatto questo lungo elenco per dimostrare che la democrazia italiana negli anni tra il 1946 e il 1975-'80 aveva un personale politico molto qualificato e una struttura operativa che furono gli elementi essenziali della libertà democratica. E se volete dare a quel tipo di architettura gli artefici che la descrissero filosoficamente e politicamente dovrete ricordare i nomi di Platone, di Aristotele e in campo propriamente politico di Pericle.

Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta; quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno. Lo tengano a mente i giovani se riusciranno ad emergere dall'indifferenza verso il bene pubblico che, non solo in Italia ma in tutto il mondo, sembra averli colpiti. Se aspirano alla politica alta, ebbene è quella qui descritta. Altra fine fa prevedere l'interesse particolare e non quello generale ed è proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque. *** Comunque Renzi è bravo e allo stato dei fatti non sembra avere alternative. Vuole il comando; ebbene così sia. Vuole comandare da solo, e così sia. Se il referendum avrà una maggioranza di "sì" il successivo congresso del Pd lo confermerà nella carica di segretario del partito. Non si è mai visto un capo di governo boicottato da un partito del quale è segretario. Sarebbe battuto al congresso. S'è visto appunto con la coltellata inflitta da Renzi ad Enrico Letta, l'uno segretario e l'altro premier.
Quella coltellata getta ancora sangue e non vi è stato posto alcun riparo. Quando si dimenticano i torti inflitti è un pessimo segno verso l'onestà politica.
Renzi - lo ripeto con verità e senza ironia - ha carisma e l'intelligenza di saperlo usare. Quindi così sia. Ma, secondo il mio personale punto di vista, così sia soltanto ad alcune condizioni.

1. Modificare la pessima legge elettorale già esistente e adottare invece quella di De Gasperi del 1953, fondata sul sistema proporzionale.
2. Ammettere l'apparentamento tra varie liste, cioè un'alleanza pre-elettorale.
3. Introdurre un premio previsto ad una maggioranza che ottenga un voto del 50 per cento più uno. Una maggioranza talmente esigua da rischiare l'ingovernabilità. Il premio dovrebbe arrivare al massimo ai 55 seggi ottenuti dai partiti che hanno vinto.

Questa legge, ingiustamente definita "legge truffa", conserva la stabilità ad un governo sostenuto dai partiti che hanno ottenuto una maggioranza troppo esigua per assicurare una linea che duri almeno per l'intera legislatura.

La legge non dette la vittoria alla Dc e ai suoi alleati, ma sia pure cambiando spesso il titolare del governo, assicurò una linea di fondo che la Dc mantenne per molto tempo fino a quando dovette estendere le alleanze al Partito socialista intorno agli anni Sessanta e una quindicina di anni dopo addirittura al Pci di
Berlinguer proprio nel giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e dopo cinquantacinque giorni lo uccisero. Il seguito lo conoscete.

Questi contenuti della legge elettorale vanno emendati prima del voto referendario. Quando non ci fosse il tempo procedurale (ma c'è) si dovrebbe varare un documento ufficiale che s'impegna a modificarla nei modi suddetti e venga recapitato ufficialmente a tutte le Alte Autorità dello Stato in modo da evitare che l'impegno assunto sia tradito.

***

Questi temi e i segnali che ne derivano riguardano soltanto l'Italia. Problemi per noi assai importanti, ma per il resto dell'Europa abbastanza trascurabili. D'altra parte il problema europeo ci riguarda direttamente e vorrei dire drammaticamente e Renzi se ne rende conto forse anche più degli altri. Infatti si è messo abilmente in posizione.

Il suo vero ed essenziale compito da assumere è proprio quello di battersi per rafforzare l'unità europea nella direzione imboccata cinquant'anni fa da Adenauer, Schuman e De Gasperi e anticipata da Altiero Spinelli e dai suoi due compagni confinati a Ventotene ai tempi del fascismo: Europa unita, Europa federata. Lo chiede perfino papa Francesco che l'ha invocata venerdì scorso in occasione del Premio Carlo Magno che gli è stato conferito dalla fondazione che porta quel nome ed ha sede ad Aquisgrana.

Francesco lo ha accettato proprio per cogliere quell'occasione e quella dell'Europa. Non solo dell'affratellamento di tutte le religioni sotto il simbolo dell'unico Dio. Quell'affratellamento è inevitabile a cominciare dalle tre religioni monoteistiche in particolare dai cristiani e dai musulmani che sono i più numerosi residenti in Europa. Il fondamentalismo non può e non deve esistere né tantomeno il terrorismo orribile che ne deriva. Ma ben oltre questo piano religioso, Francesco ha affrontato la necessità di unificare, le istituzioni, la poetica e la cultura di uno dei continenti più importanti del nostro pianeta. Vale la pena di leggere quelle parole nella loro precisa letteralità: "Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell'uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?".

***

Se esaminate a fondo queste parole vedete che esse contengono i tre valori che a tutti noi, europeisti moderni ispirano l'opera nostra: libertà, eguaglianza, fraternità. Implicano scelte politiche, sociali, economiche e perfino (fraternità) religiose di quel tipo di religione che anche i non credenti propugnano e che riguarda soprattutto l'accoglienza dei poveri, degli immigrati e degli esclusi. Ama il prossimo tuo più di te stesso, questa è l'esortazione di Francesco e questo a me sembra che anche Renzi abbia ascoltato, o almeno che alcune sue mosse sul rafforzamento di un'Europa più forte e più unita possano avergli suggerito di assumere nuove posizioni in proposito.

Vada avanti coraggiosamente su questa strada e su di essa i suoi dissenzienti spostino la loro battaglia perché un'Europa federata con quei valori ideali e politici è la vera sinistra moderna. Un'Europa federata avrebbe come primo compito quello di praticare una politica sociale che elimini le più intollerabili diseguaglianze, crei nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro, nuove tecnologie, nuovi diritti insieme a nuovi doveri.

Francesco a chi gli obiettava d'essere un Papa comunista ha risposto: "Io predico il Vangelo. Se ai comunisti piace il Vangelo ben vengano e siano loro a venire da noi".

Caro Matteo, tu non sei un Papa e soprattutto non sei questo Papa. Ma devi essere il leader di un partito di sinistra. Ebbene sposta la sinistra e te stesso su questa battaglia che ti eleva ad un livello diverso e nuovo: adeguato almeno in parte a quello della Germania di Angela Merkel.

Se farai questo, gli europeisti d'ogni Paese del nostro continente saranno al tuo fianco. Altrimenti crollerai sotto il peso di errori economici, demagogici e politici che diffonderanno gli illeciti profitti d'una corruzione che ormai già minaccia profondamente l'interesse dello Stato, cioè di noi tutti.

© Riproduzione riservata
11 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/11/news/matteo_renzi_la_sinistra_e_l_europa_immaginata_da_francesco-139542308/?ref=HRER2-3

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« Risposta #623 inserito:: Maggio 16, 2016, 11:58:39 am »

A Renzi ricordiamo: l'Italia ha costruito l'Europa

Di EUGENIO SCALFARI
15 maggio 2016
   
Q UALCHE amico laico e miscredente mi ha avvertito alcuni giorni fa che io parlo e scrivo con troppa frequenza di papa Francesco e ad un pubblico come il nostro di Repubblica e dell'Espresso non piace.

Al mio pubblico io tengo molto, ma non si tratta né di una civetteria né d'un improvviso mutamento di opinione. E tantomeno d'una nuova linea del nostro giornale e del nostro editore. Si tratta invece di Francesco Vescovo di Roma e Capo di santa romana Chiesa. Dopo averlo conosciuto la prima volta sette od otto mesi dall'inizio del suo pontificato, a chiusura del nostro primo colloquio gli chiesi: "Santità, qual è la funzione delle donne nella vostra Casa? Non parlo soltanto delle suore che vivono in conventi, operano negli ospedali, coltivano la terra e soprattutto pregano; parlo delle donne in generale, dei loro sentimenti, dei loro pensieri e del loro istinto femminile ed anche, se mi permette, dei loro diritti. Per voi, presbiteri, vescovi, sono nulla? Sono una specie subordinata in compiti di moglie, madre, figlia obbediente alle decisioni dei genitori ".

"Le rispondo in un solo modo che rispecchia però la pura verità: la Chiesa è femminile".

Risposi che non capivo e Lui a sua volta, scandendo le sillabe, ripeté: "La Chiesa è femminile. Maria è la nostra madre che intercede per noi; ma non è solo questo. La Chiesa detesta la guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta. Non sono valori femminili?".
 
Lei lo dice ed è certamente vero, ma nella Chiesa dove pure questi valori ci sono, anche se non sempre, ma in tutte le epoche: e non da parte di tutti i suoi membri, le donne non hanno alcuna importante funzione. Neppure le suore dei vari ordini. Sono centinaia di migliaia in tutto il mondo ma contano niente. Dipendono da un presbitero o da un suo delegato. Non capisco il senso di tutto ciò se la Chiesa è femminile come Lei dice e pensa".

Stavamo salendo la breve scala che dalla sala di Santa Marta arriva al portale d'uscita ed eravamo fermi a metà. Fuori - ricordo - c'erano nuvole e lembi d'azzurro. Francesco disse: "Lei ha ragione. La tradizione dei secoli si è fatta lì, non è opera delle donne, e non riconosce i loro diritti nella Chiesa e nella vita".

"Non sarà una battaglia facile, Santità".
"Temo di no e non credo per cattiveria ma perché le tradizioni fanno parte della storia di ogni comunità e spesso diventano dottrina. Per aprire le porte ci vuole del tempo, questo del resto è uno degli obiettivi del Vaticano II. Quando venni insediato il compito che mi è stato assegnato fu proprio quello di portare a termine le indicazioni di quel Concilio, la principale delle quali è l'incontro con la modernità. Questo è ciò che mi sento di dirle. Lei però non parli di questo fino a quando l'opera che intendo svolgere non sarà cominciata". Fu in quel momento e su quel tema che diventammo amici. Francesco arrivò alla porta d'entrata e la mia automobile mi attendeva. Lui mi abbracciò ed io feci altrettanto, profondamente commosso, e fu in quel momento che capii che Francesco era un Papa rivoluzionario come pochi c'erano stati prima di lui. Ora è cominciato nella Chiesa il movimento affinché le donne partecipino alla liturgia nei limiti che sarà opportuno prevedere. Di queste cose non debbo parlare? Io non credo e penso che anche i miei lettori, tanto più se laici, vogliano i diritti per tutti e questa deve essere una battaglia laica per eccellenza, ne sono sicuro e perciò vado avanti.
***
Scritto questo prologo (che è per quanto mi riguarda il tema ben più d'un prologo) vengo ad un problema che ho già più volte trattato e recentemente nell'articolo pubblicato giovedì scorso: l'Europa, i suoi guai, la sua drammatica disarticolazione, la mancanza di uno spirito unitario che la rinsaldi e la faccia uscire dall'abisso in cui sta cadendo.

Mi rivolsi a Renzi e alla sinistra italiana (ed europea) affinché si dessero carico di questo difficilissimo compito. Dalla sinistra non ho avuto alcun riscontro salvo quello di Alfredo Reichlin che mi conosce e mi stima. Quanto a Renzi, mi ha telefonato (del tutto inconsueto) dicendo che il tema Europa è appunto centrale come lui ha già compreso e ad esso si dedicherà con il massimo impegno per risvegliare lo spirito dei fondatori (Adenauer, De Gasperi, Schuman) e l'ideale di Altiero Spinelli. Se i suoi dissidenti faranno altrettanto, come si augura, il partito marcia compatto verso un traguardo che, se raggiunto, risulterà una vittoria storica dell'Italia moderna. Poi si è parlato d'altro e spesso da posizioni contrastanti, ma su questo non ho da riferire, le comunicazioni sono private ed io questa la considero tale. Renzi del resto fa altrettanto.

A proposito del nostro ruolo in Europa ci sono però alcune cose della massima importanza storica che debbono essere ricordate. Gli italiani (e gli europei con un minimo di cultura) li conoscono ma spesso non ci pensano e di fatto se scordano. Dunque parliamone noi.

Anzitutto siamo tra i Paesi fondatori dell'unione della Comunità del carbone e dell'acciaio e tra i cinque Paesi che firmarono i trattati di Roma nel 1957. Ma c'è un precedente molto più antico che cominciò duemila anni fa ai tempi di Giulio Cesare, Augusto, Germanico, la conquista della Gallia e della Spagna, della costiera mediterranea africana, della Germania, fino a Traiano e poi Adriano che segnò i confini dell'Impero ivi compresa una parte meridionale dell'attuale Gran Bretagna, l'Egitto, il Medio Oriente, e ovviamente la Grecia, l'Illiria e i Balcani.

Prima di allora l'Europa era un continente percorso da popolazioni vaganti e selvatiche, prive di residenza e dedite al saccheggio di regni e città che venivano rase al suolo.

Da questo punto di vista è Roma ad aver costruito l'Europa. Sono passati i millenni, ma purtroppo in vario modo anche per la più becera demagogia destinata ad influire sulla conquista del potere. Questo accade sempre e dovunque, ma resta il fatto storicamente avvenuto che l'Europa è nata dall'esistenza di quell'Impero e delle sue propaggini civilizzate. Perfino il Cristianesimo diventò l'unica religione europea proprio nei medesimi territori imperiali. Tant'è che nell'800 d. C. Carlo Magno resuscitò il Sacro Romano Impero, votato dai principi tedeschi e della Renania ma legittimato dall'imposizione della corona sulla fronte dell'imperatore da parte del Papa dell'epoca in San Giovanni in Laterano.

Tempi remoti, ma è bene non dimenticarseli perché resta il fatto che l'Europa è nata dall'Impero dei Cesari.
C'è dell'altro però, più moderno e di non minore importanza. Si chiama Rinascimento e si svolge tra l'inizio del Quattrocento terminando all'inizio del Seicento diffondendosi dall'Italia in tutta Europa: cultura, reperimento di testi antichi (cardinal Bellarmino), diffusione della stessa lingua nelle sue trasformazioni locali in tutti i paesi latini (Italia, Francia, Spagna, Portogallo), scienza politica, scienza storica, scienza astronomica, pittura, musica. I nomi nei vari settori sono noti: al vertice trecentesco troneggia Dante. Esiste una triade che non si può eguagliare e in ordine di tempo si tratta di Omero (o chi per lui), Dante, Shakespeare.
Ma poi in Italia Petrarca, Machiavelli, i Medici, le corti d'Este e di Urbino, i comuni di Lucca e soprattutto di Firenze, Milano. E non dimentichiamo i nomi di Piero della Francesco, Raffaello Sanzio, Ariosto, Vico. Montaigne conservava molti dei loro volumi nella sua libreria e del resto dopo di lui la cultura moderna che sfocerà nell'Il-luminismo franco-inglese comincia con Vico. A quell'Illuminismo noi abbiamo partecipato con i fratelli Verri, con Cesare Beccaria e con l'abate Galiani.

In sostanza Italia ed Europa sono nate insieme e il nostro Paese ha dato uno dei contributi maggiori e forse il primario rispetto ad altri insieme alla Francia, alla Spagna e all'Inghilterra, senza ricordare le Repubbliche marinare di Venezia e di Genova, Cristoforo Colombo compreso.

Per questa ragione noi dobbiamo batterci e ne abbiamo pieno diritto e titolo per l'Europa unita; il risultato caro Renzi non sarà certo immediato ma dà al nostro Paese un ruolo che altrimenti non avrebbe e che può rendere l'intera politica italiana diversa da quella che finora è stata. Spero che tu te ne ricordi e ne tragga i frutti facendo risorgere il nostro continente dalle rovine nelle quali attualmente si trova.

© Riproduzione riservata
15 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/15/news/a_renzi_ricordiamo_l_italia_ha_costruito_l_europa-139823579/?ref=HRER2-1
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« Risposta #624 inserito:: Maggio 21, 2016, 04:34:47 pm »

Addio caro Marco.
Noi, i primi radicali sempre insieme per le battaglie civili

Di EUGENIO SCALFARI
20 maggio 2016
   
CI SIAMO conosciuti per un'intera vita ma siamo andati d'accordo poche volte, quando si lottava per la conquista di nuovi diritti: soprattutto il divorzio e l'aborto. Io accanto ai diritti vedevo anche i doveri; Marco i doveri li vedeva poco o niente, anzi per essere esatti vedeva i doveri dello Stato (anch'io ovviamente) ma assai meno o per niente quelli inerenti ai cittadini. Ora che la sua morte mi dia dolore è dir poco: come capita spesso è un pezzo della vita che se ne va. Ne resta la memoria, ma ciascuno ha la propria, che cambia di giorno in giorno e non coincide mai con quella degli altri.

Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola "radical" equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.

Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d'azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l'avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.

I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della "legione lombarda": i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com'era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.

Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.

Accadde poi che nel 1956 noi, "Amici del Mondo" fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell'associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel '58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall'inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un'ora l'inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un'assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo - come ho già detto prima - quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie.

Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte. Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell'apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.

Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell'aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall'altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.

Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c'è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell'aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l'amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.

Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l'ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all'interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L'obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.

Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c'era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c'era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.

Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente. Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c'erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.

A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.

Andai. La scusa era una mia opinione sull'andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. "Il rischio c'è, l'ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell'esistenza". "Lei sa qual è l'ostacolo, l'ho detto pubblicamente" "sì lo so, ma una via d'uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale".

Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava. Che sia stato un grande attore l'ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.

Non ci sono morti, l'ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.

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20 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/20/news/io_e_marco_i_primi_radicali-140186152/?ref=HRER3-1
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« Risposta #625 inserito:: Maggio 22, 2016, 12:06:30 pm »

Se Renzi diventerà padrone sarà per tutti un disastro
"L’appuntamento con il referendum è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni"


Di EUGENIO SCALFARI
22 maggio 2016

CE' MOLTA confusione in Europa e in Italia. Politica ed economica. Ma poiché da almeno dieci anni il mondo intero e non soltanto l’Occidente, che è casa nostra, sta attraversando una depressione che ricorda periodi altrettanto calamitosi, credo sia necessario cominciare dal secondo aspetto della crisi, cioè dall’economia.

Questa settimana le Borse, dopo una prolungata depressione, hanno registrato un miglioramento tuttavia lieve, ma non è questo un fenomeno di rilievo. La novità che riguarda in special modo l’Italia consiste in un improvviso mutamento della Germania, da una politica fin qui di costante rigore economico e finanziario ad una improvvisa e rilevante flessibilità. Questa parola ha ormai assunto vari significati, ma nella sua essenza consente un trasferimento di risorse in favore d’un Paese che ne ha urgente bisogno. Nel caso in questione in favore dell’Italia, che da mesi ne fa urgente richiesta con motivazioni che variano seguendo sempre nuove circostanze ma il cui obiettivo è comunque il medesimo: disporre di maggior denaro affinché la nostra economia riprenda fiato con conseguenze finanziarie, sociali e quindi anche politiche. Il presidente della Commissione di Bruxelles, Jean-Claude Juncker e il suo vice-presidente erano da tempo orientati in questo senso, ma la Germania si opponeva ed aveva perfino preso le distanze — sia pure in modo felpato — dalla politica espansiva della Bce.

Draghi da quell’orecchio non ci sentiva, ma se il freno nei suoi confronti fosse stato tenuto troppo a lungo avremmo probabilmente assistito ad uno scontro a dir poco drammatico. Per fortuna anche questo aspetto della questione è stato attenuato, anzi è scomparso del tutto, almeno per ora. La flessibilità, per tornare al nocciolo della questione, ammonta a circa 26 miliardi di euro, motivati dal nostro governo da tre capitoli di spesa: la necessità di spostare di un anno (dal 2016 al 2017) la riduzione del deficit rispetto agli impegni assunti con la Commissione; le crescenti spese per salvare gli immigrati che arrivano dal mare; le operazioni di accoglienza, accertamento di identità e motivazioni della loro fuga dai Paesi di origine, con annesse le spese derivanti dagli eventuali accordi con quei Paesi per riaccoglierli. Insomma una sorta di bonifica sociale da effettuare su una vasta zona sub-sahariana.

A fronte di questi problemi e della flessibilità che ne è derivata, ci sono però alcune condizioni poste dalla Commissione e dalla Germania ed anche per sua propria iniziativa da Mario Draghi: leggi sul lavoro che incentivino più efficacemente della tanto nominata panacea del Jobs Act; trasferimento di entità consistenti dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio; riversare tutte le risorse disponibili ad una diminuzione (sempre promessa ma mai realizzata) del debito pubblico e infine una consistente diminuzione del cuneo fiscale per quanto riguarda la parte contributiva delle imprese private. Quest’ultima ricetta l’avevamo più volte sostenuta da almeno un paio di mesi su queste pagine, ma il governo ha fatto orecchio da mercante rinviando al 2017 e non certo per importi significativi. Eppure sarebbe questa la vera panacea per nuovi investimenti e nuovi e veri posti di lavoro, con relativo aumento della domanda.

Questa è dunque la situazione attuale che Padoan dovrà trasformare nella legge di stabilità del 2017 in cui dovrà fornire le prime anticipazioni a Bruxelles entro il prossimo giugno. Il tempo è breve, il lavoro è molto. Ma nel frattempo che cosa sta accadendo nella nostra economia?

***

I problemi sono tre: il trasferimento del grosso delle imposte dal reddito al patrimonio. C’è di mezzo la riforma del catasto e non è uno scherzo da poco; l’andamento del Pil e la diminuzione del deficit entro il 2017 dal 2,4 all’1,8 per cento, l’emersione del mercato nero di imprese e lavoratori. Su quest’ultimo punto s’innesta ovviamente la lotta alle mafie e la corruzione che ne deriva. Qui cioè non si tratta più solo di economia ma entra in ballo anche la politica.

Ma entra in ballo anche il nostro rapporto con l’Europa perché qui la nostra capacità di negoziato si affievolirà di molto. La Commissione in questa occasione ha decisamente favorito l’Italia, mentre ha penalizzato economicamente sia la Spagna sia il Portogallo ed ha aiutato la Francia col contagocce, in una fase per lei socialmente molto difficile. Teniamo presente queste differenze di trattamento. La Merkel l’ha addirittura esplicitamente motivata: l’Italia — ha pubblicamente dichiarato — è uno dei Paesi fondatori dell’Europa e dobbiamo tenerlo presente. Non è un riconoscimento da poco, ma su quella strada dobbiamo proseguire, che la Merkel sia d’accordo o anche non lo sia. Noi siamo stati in tre diverse epoche fondatori dell’Europa: ai tempi di Cesare e poi da Augusto ad Adriano; nel Rinascimento tra il Quattrocento e i primi del Seicento, infine nell’Ottocento non però da soli ma in buona e solida compagnia. Ho già ricordato queste verità storiche qualche domenica fa, ma le ricordo ancora perché credo sia fondamentale. Spetta a Renzi muoversi su questo terreno. Capisco le imminenti elezioni amministrative; capisco molto meno il referendum di ottobre, ma questi appuntamenti elettorali non possono relegare in secondo o terzo piano quello di diventare uno dei protagonisti della politica europea.

La Germania ha detto che se le regole imposte dalla Commissione non sono rispettate dai vari Paesi membri, per i loro interessi nazionali, questi saranno giudicati in modo definitivo dal Consiglio dei ministri europeo, cioè dai 28 Paesi che lo compongono. Più nazionalismo di così. E chi dovrebbe combattere il nazionalismo dei disobbedienti? Ma dov’è la logica di tutto questo? Solo un’Europa federata può stroncare il nazionalismo dei singoli governi. Ed è questa la bandiera che Renzi deve impugnare. Se punta tutto sulle elezioni e sul referendum potrà avere cattive soprese e quand’anche fossero buone rafforzerebbero il suo potere personale. Per farne che cosa? Questa è la domanda cui deve rispondere. A se stesso, alla propria coscienza politica prima che agli altri.

***

I candidati delle principali città che voteranno il 5 giugno sono di modesta levatura. Difficilmente trascineranno le folle al voto. Renzi ha detto che si farà in quattro e ne ha certamente la capacità, ma Grillo anche lui ce l’ha, anche la Meloni e Salvini. Berlusconi l’aveva un tempo, anzi era imbattibile, e tuttavia Prodi lo sconfisse ben due volte su quattro. Oggi comunque Berlusconi è muto. Tutt’al più si occupa del Milan e di Mediaset, di politica no, a meno che…

Molti, che hanno buona memoria, pensano che negli ultimi giorni farà un colpo di scena. Conoscendolo abbastanza lo penso anch’io, ma il colpo di scena per esser tale deve sorprendere, e deve anche avere qualche chance di successo. Quella che avrebbe l’improvvisa alleanza con la Meloni e quindi anche con Salvini. La destra riunita potrebbe anche andare al ballottaggio con la Raggi o con Giachetti, e può persino vincere. Io penso questo. Certo non la voterò, ma molti invece sì. Giachetti è un radicale passato da tempo a Renzi ma ebbe gli insegnamenti da Pannella. Immagino che abbia seguito con commozione più che comprensibile le varie camere ardenti, piazza Navona, funerali laici, sfilate e celebrazioni. Pannella però di politica vera e propria non sapeva niente, non era quella la sua missione. Quindi Giachetti ha solo Renzi come maestro. Tuttavia il suo nome è pressoché sconosciuto ai romani. Spero bene per lui ma non sono ottimista. In realtà, tra le varie città in lista ce n’è una soltanto dove il candidato, che ha già governato la città con buonissimi risultati ed ora si è riproposto, è Fassino a Torino. Forse, così spera lui e spero anch’io, ce la farà al primo turno. Se dovesse affrontare il ballottaggio con i Cinque Stelle la battaglia non sarà facile, ma forse la vincerà. Le altre piazze, salvo Merola a Bologna, hanno tutte candidature modeste poiché modesta è la classe politica attuale. La speranza è nei giovani, sempre che abbiano voglia di politica.

E poi c’è il referendum. L’appuntamento è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente — l’ho già detto e scritto — voterò no, ma non tanto per le domande del referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho suggerito quella di De Gasperi del 1953) voterò sì, altrimenti no. E immagino che siano molti a votare in questo stesso modo. Pensaci bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai, come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese.

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22 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/22/news/se_renzi_diventera_padrone_sara_per_tutti_un_disastro-140326686/?ref=HRER2-1
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« Risposta #626 inserito:: Maggio 30, 2016, 06:03:45 pm »

Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Il ricordo del fondatore di Repubblica, che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano"

Di SIMONETTA FIORI
29 maggio 2016

"Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano". Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore di "Repubblica" scelse la monacchia.
"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?
"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?
"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare"".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del dopoguerra?
"Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant'anni?
"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?
"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di "Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?
"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

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29 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/29/news/referendum_1946_scalfari-140836071/?ref=HRER2-2
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« Risposta #627 inserito:: Giugno 17, 2016, 07:51:55 am »

Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Il ricordo del fondatore di Repubblica, che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano.
E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano"

Di SIMONETTA FIORI
29 maggio 2016

"Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano".
Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore di "Repubblica" scelse la monacchia.
"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?
"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?
"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare"".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del dopoguerra?
"Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant'anni?
"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?
"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di "Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?
"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

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29 maggio 2016

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I leader di domani
Si discute molto in queste ore su che cosa accadrà all'Inghilterra e che cosa accadrà all'Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit


Di EUGENIO SCALFARI
25 giugno 2016

Si discute molto in queste ore su che cosa accadrà all'Inghilterra e che cosa accadrà all'Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit. E mettiamo da parte il crollo dei mercati di tutto il mondo, la sterlina al punto più basso degli ultimi trent'anni. Non è questo il problema.

Il problema lo segnalò Winston Churchill in due discorsi rispettivamente del 1952 e del 1955. Disse: "L'Inghilterra ha due sole strade: o diventa la cinquantesima stella della bandiera americana oppure sceglie l'Europa e provvede a costruirne la nascita insieme a tutti gli altri Stati del continente".

Con il voto di ieri il risultato non è stato né l'uno né l'altro. Sfortunatamente l'Inghilterra è diventata (come avevamo già previsto domenica scorsa) una isoletta che la globalizzazione sconvolgerà, che l'America tratterà con gentile indifferenza e l'Europa tenderà a dimenticare salvo che come piccolo mercato di libero scambio. Ha vinto Farage e il suo movimento populista e xenofobo e questo è il risultato.

Naturalmente Farage trasmette l'effetto del voto inglese su tutti i populisti europei: Le Pen in Francia, Salvini in Italia, i paesi baschi in Spagna e poi gli interi Stati la cui fede europea c'è stata soltanto per liberarsi dalla minaccia post-sovietica di Putin: Polonia, Ungheria, Bulgaria, Balcani.

Il Brexit è una bomba a orologeria: distrugge l'Inghilterra, mobilita i Paesi fuori della moneta unica a rivendicare la propria indipendenza, mobilita i populismi dovunque, eccetto lo scontro americano tra i repubblicani di Trump e i democratici della Clinton. Peggio di così era difficile immaginare.

Ho già scritto più volte che, operando su livelli totalmente diversi, c'erano soltanto due persone che avevano le stesse finalità: Papa Francesco e Mario Draghi. Altri francamente non ne vedo. Ci sono, anzi dicendolo al condizionale, ci sarebbero, ma ancora non hanno deciso. C'è da augurarsi che lo facciano al più presto perché il tempo a disposizione è pochissimo. I nomi sono tre: Merkel, Hollande, Renzi. Il terreno sul quale costruire è l'Eurozona. Non più i 28 Paesi della Ue che dopo il Brexit inglese sono diventati 27, ma soltanto i 19 dell'Eurozona.

***

Finora l'attenzione dell'Impero americano aveva una duplice angolazione: l'Inghilterra e la Germania. Ora c'è soltanto la Germania e, secondo le mosse che farà, l'Italia. Non sembri una supervalutazione patriottica da parte mia: da tempo la mia Patria è l'Europa. Ma l'Italia può diventare un interlocutore importante per l'Impero americano. La Germania, altrettanto consultata prima continuerà ad esserlo sempre che la Merkel esca dall'immobilismo pre-elettorale che sembra averla paralizzata. Renzi ha deciso di incontrarla oggi. Mi auguro che sia convincente e possa parlare anche a nome dell'America.

La Cancelliera non può aspettare le elezioni, deve muoversi subito adottando una politica di crescita e di flessibilità economica. I destinatari principali sono la Francia, l'Italia, la Spagna, la Grecia e l'immigrazione. E poi, come tutti, la guerra contro il terrorismo dell'Isis.

L'incontro con la Merkel è il compito principale di Renzi nelle prossime ore. Mi permetto di suggerire che non passi ad altre cose, che pure ci sono e lo riguardano direttamente; pensi a convincere la Cancelliera di Berlino. Tutto il resto viene dopo.

Dopo, ma a poche ore di distanza; in situazioni così eccezionali il tempo corre alla velocità della luce e il dopo riguarda appunto la flessibilità e la crescita economica che direttamente ci riguardano. Dovrebbe rinascere un Keynes, ma si può imitarlo non scavando buchi nella terra ma creando nuovi posti di lavoro. Ci vuole un taglio nel cuneo fiscale di almeno 30 punti. Non è granché, ma aiuta. Ci vuole un taglio della pressione fiscale che sta crescendo di continuo. Inutile pensare al debito pubblico, quello verrà dopo, ma la pressione fiscale no, quella viene subito e si attua combattendo troppo stridenti diseguaglianze. Lo dice Papa Francesco, lo vuole la gente, quella che vota i Cinque Stelle oppure non vota.

E poi c'è il referendum, quello che può rischiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo simile? Io personalmente, e l'ho confermato persino nel colloquio che ho avuto con lui all'Auditorium di Roma lo scorso 11 giugno, voterò "No". Lo faccio perché trovo inaccettabile per la democrazia italiana l'attuale legge elettorale. Se Renzi modificasse in modo adeguato quella legge, io voterei il "Sì". Perché dunque non la cambia, e come dovrebbe cambiarla?

***

Basterebbe che invece di una lista unica come adesso è previsto, con un premio del 55 per cento per chi arriva al 40 per cento dei voti degli aventi diritto, Renzi prevedesse una coalizione di liste distinta ma precostituita: un partito di sinistra che si allea con formazioni di centro moderato. Partiti che portavano voti come erano quelli che seguirono De Gasperi alle elezioni del 1948: erano liberali, repubblicani, socialdemocratici. La Democrazia Cristiana ebbe circa il 40 per cento dei voti, i tre partiti minori un otto-nove. Il sistema era proporzionale, non c'erano premi ma liste pubblicamente apparentate. La Dc governò per 12 anni con questo sistema. Poi compì un salto in avanti e si alleò con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963. Quando De Gasperi si era ritirato e alla presidenza del consiglio furono messi un primo ministro all'anno o poco più. Ma la linea di fondo fu immutata: un partito di centro che guarda a sinistra.

Questa è la mossa che Renzi dovrebbe fare. Prima del Referendum del prossimo ottobre. Ormai non deve più rottamare, deve allearsi a sinistra e tra i moderati, trasformando il sistema tripolare in un sistema bipolare, che ottenga voti dal centro moderato, dalla sinistra più radicale e tra gli indifferenti ex Pd fondato da Veltroni del Lingotto. E apra la sua squadra, italiana ed europea, a persone come Prodi, Veltroni, Enrico Letta, Fassino. Non è più tempo di rottamare ma di ricostruire. Impari dal passato per costruire il futuro in Italia e soprattutto in Europa.

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/i_leader_di_domani-142765997/?ref=HRER2-3
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« Risposta #629 inserito:: Giugno 26, 2016, 12:21:31 pm »

L'Inghilterra e l'Europa, il destino segnato da Brexit
L'editoriale. L'uscita sarebbe una sconfitta per tutta l'Unione e una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare l'esistente

Di EUGENIO SCALFARI
19 giugno 2016

Noi oggi dobbiamo votare per le elezioni amministrative e questo è il tema dominante della giornata, ma è chiara la sua marginalità rispetto a quanto accadrà tra pochi giorni con il referendum britannico. Sarà quello un segno del nostro destino.

Ci sono molti motivi per i quali gli inglesi (ma non gli scozzesi) non si sentono europei. Uno in particolare lo spiega Bernardo Valli nel suo articolo di ieri su queste pagine, citando lo storico anglo-francese Robert Tombs: "Quando gli europei raccontano la storia d'Europa parlano dell'Impero romano, del Rinascimento e dell'Illuminismo. Raccontano una storia continentale che trascura la Gran Bretagna ed è questa la ragione per cui molti inglesi considerano l'Europa come un'entità con la quale bisogna mantenere le distanze".

In realtà le cose non stanno proprio così: l'Inghilterra anzi, per molti europei, fa parte integrante del continente e la sua storia è la nostra, strettamente connessa con quella italiana, francese, spagnola, tedesca. Del resto l'Inghilterra (quando ancora la si chiamava soltanto così) è stata il penultimo dei grandi imperi occidentali: quello romano, quello spagnolo, quello inglese e quello americano. Il colonialismo francese fu un'altra cosa e non può dirsi propriamente un Impero, anche se l'influenza politico-culturale della Francia è stata dominante per tutto il nostro continente.

La verità è che sono soprattutto gli inglesi a sentirsi storicamente, politicamente, culturalmente una Nazione, anzi una civiltà che ha determinato la storia europea. Il progetto attuale di un'Unione europea che, almeno in prospettiva, dovrebbe arrivare ad una vera e propria Federazione sul modello degli Stati Uniti d'America, non piace affatto agli inglesi. Questa è la vera radice dello scontro, anche se il Brexit ridurrebbe il Regno Unito a non esser più unito e a diventare un'isoletta come cantavano i fascisti degli anni Quaranta del secolo scorso: "Malvagia Inghilterra / tu perdi la guerra / lasciare Malta e abbandonare Gibilterra".

Non solo non perse la guerra ma riuscì da sola a fronteggiare Hitler prima che l'America intervenisse al suo fianco per difendere Londra e liberare tutta l'Europa dal dominio della Germania nazista.

Dunque l'Inghilterra o comunque vogliamo chiamarla appartiene alla nostra storia europea, geograficamente, politicamente, culturalmente. Il Brexit - se dovesse vincere - sarebbe una sconfitta per tutta l'Europa e per tutta la civiltà occidentale ed una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare tutto l'esistente cancellando il passato e lasciando il futuro sulle ginocchia del Fato, cioè di nessuno.

***

Ci saranno anzitutto ripercussioni economiche, e infatti le istituzioni di tutto il mondo sono mobilitate: il Fondo monetario internazionale, la City e Wall Street, la Borsa di Shanghai, le Banche centrali di Washington, di Londra, di Zurigo, di Francoforte, di Tokyo, di Pechino, di Mosca, di San Paolo del Brasile, di New Delhi e di Cape Town; i Fondi d'investimento, i Fondi-pensione, il sistema bancario mondiale che è ormai strettamente interconnesso.

Venerdì scorso le Borse di tutto il mondo hanno avuto una svolta improvvisa: dopo una settimana dominata dal ribasso, c'è stato un consistente rialzo generale connesso ai sondaggi sul Brexit e sulle quotazioni degli allibratori di Londra: l'omicidio di Jo Cox è diventato paradossalmente un elemento positivo per le reazioni d'una parte consistente del Partito laburista e della pubblica opinione liberale. Parrebbe da questi sintomi che l'esito del referendum si stia per la prima volta orientando verso la permanenza della Gran Bretagna nell'Unione europea, sia pure alle condizioni abbastanza pesanti che Londra ha imposto e le Autorità dell'Unione europea hanno accettato.

Se questo sarà l'esito referendario quale sarà alla lunga la politica dei 28 Paesi membri dell'Ue?

Personalmente credo sia chiaro: una politica monetaria di maggiore flessibilità, una politica dell'immigrazione più contenuta con l'obiettivo di trattenere il più possibile in Africa i flussi che provengono da quel continente, una maggiore apertura verso la Russia e soprattutto un aumento dell'egemonia politica della Germania, concentrata soprattutto sull'Eurozona.

Il nuovo equilibrio non può sfuggire a chi osserva il sistema che si verrebbe a delineare: la Gran Bretagna resta in Europa dando maggior peso ai Paesi che non appartengono alla moneta comune; in compenso la Germania tende ad accettare una politica di crescita concentrandola appunto sui 19 Paesi dell'Eurozona. Draghi rientrerebbe nel quadro della Merkel che probabilmente accetterebbe la sua pressione verso una politica espansiva e bancariamente attiva. Ad una condizione però: che la garanzia alle banche non sia estesa anche ai depositanti poiché i tedeschi non vogliono pagare per gli altri.

Insomma, se la Gran Bretagna resta il suo peso politico-economico aumenterà, la Germania diventa più aperta ad una crescita moderata da aumenti di progressività; Francia e Spagna sono alle prese con difficoltà notevoli ma saranno comunque aiutate da Bruxelles. E l'Italia?

***

Noi abbiamo molto da guadagnare dal "Remain" inglese: diventiamo il principale interlocutore della Merkel e al tempo stesso dei Paesi dell'Europa meridionale, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Ed anche di Draghi e di Juncker. Ma al tempo stesso del governo di Tripoli e perfino di Putin come si è visto nei giorni scorsi. L'Italia ha un vasto e variegato orizzonte dinanzi a sé. Sarà in grado di gestirlo convenientemente?

Qui giocheranno in modo purtroppo difficile le qualità e i difetti di Matteo Renzi. Come tutti, il nostro presidente del Consiglio è dotato delle une e degli altri e più il quadro è complesso più le contraddizioni aumentano. Tende a centralizzare la politica: è normale, tutti gli uomini politici tendono a questo.

È normale la sua politica se rispetta le origini e il ruolo di un partito di sinistra democratica, che deve porsi come obiettivo di spostare l'Europa verso una linea di sinistra riformatrice. Non è più il momento di rottamare bensì quello di costruire e la sinistra riformatrice deve puntare in Europa e in Italia sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull'aumento degli investimenti, sull'aumento della produttività, sull'aumento della domanda, sulla crescita delle zone depresse in tutta Europa a cominciare dal Mezzogiorno italiano. Un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona, una Fbi europea e un ministro dell'Interno europeo.

Questo è il programma da perseguire e questo ho avuto la possibilità di discutere con Renzi sabato scorso all'Auditorium di Roma. Mi è parso abbastanza interessato a questa diagnosi; in gran parte da lui stesso anticipata. Con una differenza di fondo: la legge elettorale attualmente vigente, che personalmente mi sembra del tutto inadeguata. Ma oggi non è questo il tema: è il "Brexit", puntando sull'ipotesi che vincerà il "Remain".

Se dovesse invece perdere, allora tutti gli scenari cambiano. In peggio. Speriamo che la vecchia Inghilterra si ricordi del liberale Churchill e dei laburisti dell'epoca. Gli uni e gli altri volevano l'Europa. Erano più moderni dei "brexisti" di oggi che la storia d'Inghilterra sembrano averla dimenticata.

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19 giugno 2016

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