LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Giugno 19, 2007, 10:47:57 pm



Titolo: EUGENIO SCALFARI.
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2007, 10:47:57 pm
IL VETRO SOFFIATO

Quella rivoluzione raccontata dal cinema
di Eugenio Scalfari

Bernardo Bertolucci lamenta l'assenza da parte della politica d'una visione e di una strategia che incoraggino autori e registi italiani. Basterebbe abbattere gli ostacoli che impediscono ai talenti, se ci sono, di farsi valere  
Su 'Repubblica' dell'11 giugno Bernardo Bertolucci ha scritto di cultura di cinema ('Cultura, la parola dimenticata dalla politica') di seguito lamentando l'assenza d'una visione e di una strategia che incoraggino autori e registi a produrre buone storie e buoni film.

Bertolucci è stato uno dei maggiori registi d'Italia e d'Europa ed è ancora in età di servizio perché l'anagrafe e l'immaginazione creativa glielo consentono ampiamente. Ma registra che intorno a personaggi da tempo affermati c'è il deserto. Il nuovo cinema non decolla. "Non per mancanza d'individualità creative ma per totale assenza della politica". Così Bertolucci e su questo aspetto vorrei soffermarmi.

Bernardo ha negli occhi della memoria il grande periodo del cinema italiano nel venticinquennio successivo alla guerra e al crollo del fascismo; un periodo che segnò l'egemonia mondiale (soprattutto europea) della nostra cinematografia, costellato dai nomi di Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Rosi, Scola, Pasolini e lo stesso Bertolucci. Altri certamente ne ho dimenticati in questo elenco affidato solo alla mia memoria, ma ci furono e ci sono.

La varietà dei soggetti e lo stile delle regie erano molto diversi: Rosi non era Visconti, De Sica non era Rossellini e nessuno di loro aveva granché in comune con Fellini. Così diversi tra loro debbono essere gli autori e i loro prodotti in un'arte che raggiunga pienezza di risultati e sia punto di riferimento e di confronto con le esperienze di altri paesi.

Ci fu tuttavia, in quella fioritura di iniziative durata almeno venticinque anni, un'ispirazione comune e fu il desiderio e anzi l'urgenza necessaria di raccontare storie che fossero, attraverso vicende individuali, rappresentative d'una intera società in profonda trasformazione, con i suoi aspetti positivi di crescita civile e negativi di malaffare, cupidigia, indifferenza, viltà morale. Pensate a 'Roma città aperta', al 'Generale Della Rovere', a 'Ladri di biciclette', a 'Le mani sulla città', a 'Rocco e i suoi fratelli', al 'Gattopardo', ma anche a 'La Dolce Vita', a 'Prova d'orchestra' e poi alla 'Passione secondo San Matteo' e infine a 'Novecento'.

Nessuno di quei personaggi, di quelle storie e di quei film, è immaginabile se non nel contesto della società italiana di quegli anni, ma se ebbero come ebbero una così rilevante risonanza internazionale fu perché la società italiana riproduceva in quell'arco di tempo una trasformazione che altri paesi avevano attraversato molto prima. Con una profonda differenza però: questa volta la trasformazione da paese contadino a paese industriale avveniva sotto l'occhio impietoso della televisione e del cinematografo, sotto un impatto mediatico formidabile rispetto alle analoghe rivoluzioni industriali che avevano trasformato molto prima l'Inghilterra, la Francia, la Germania, l'America.

Così l'Italia funzionò anche come lo specchio retrospettivo per rivisitare drammi ed epopee che l'Occidente aveva già vissuto senza la visibilità amplificata fornita dagli schermi del cinema e della televisione.

Qual è ora la situazione?

Anche adesso la nostra società attraversa una fase di trasformazione, come del resto avviene di continuo nelle vicende collettive. I nuovi protagonisti sono l'individuo, la folla, l'anonimato, la solitudine.

Non è una situazione soltanto nostra: percorsi analoghi sono in corso in tutto l'Occidente e non soltanto. Il solo modo di rappresentarli è l'approccio minimalista, il racconto individuale che nasce e muore in un ambito episodico la cui cifra non può che essere la ripetitività delle situazioni, la stanchezza e le nevrosi che ne derivano, la volgarità che spesso le pervade e la noia esistenziale che inevitabilmente le avvolge.

In queste condizioni un romanzo di formazione come sono stati i soggetti per 'Gattopardo' e 'Novecento' non sarebbe immaginabile. Non dico che tradurre in linguaggio cinematografico lo stato della società attuale sia impossibile, ma dico che è molto più difficile d'un tempo. I maestri che fanno da ponte tra lo ieri e l'oggi a ben guardare sono Fellini e Antonioni, la fantasia surreale del primo e la rappresentazione dell'incomunicabilità alienante del secondo. Ma ci vogliono appunto grandi maestri per proporre e far emergere da una ripetitiva serie di episodi minimali un'opera di poesia.

Non so se il sostegno pubblico possa aiutare. Penso che la richiesta da sostenere sia quella di abbattere gli ostacoli che impediscono ai talenti di farsi valere. Non facendosi sommergere dal solo criterio dell''audience' che ormai signoreggia in tv e nel cinema. Insomma aprire il varco ai talenti. Ma poi tocca a loro, ai talenti, di farsi valere. Se ci sono.

da espressonline.it


Titolo: Eugenio Scalfari Andiamo a lezione da Thomas Mann
Inserito da: Arlecchino - Luglio 04, 2007, 10:48:07 am
IL VETRO SOFFIATO

Andiamo a lezione da Thomas Mann
di Eugenio Scalfari


Leggano la sua Lectio specie coloro che oggi si vantano di incarnare la nuova borghesia, ma della quale non sanno nulla  Thomas Mann con la famigliaNon c'è come frugare svagatamente tra i libri di casa che può sorprenderti, come se la ricerca fosse guidata, come se in quel momento tu avessi bisogno di rileggere quell'autore, quelle pagine che non sfogliavi da anni e quel testo, sì, proprio quello, che non ricordi d'aver mai letto ma che ora, solo ora, ti appare come il cibo prezioso che 'solum è mio ed io son per lui' come scriveva il Machiavelli nella famosa lettera al Vettori.

Così mi sono imbattuto nell'undicesimo volume dell'opera di Thomas Mann e, alla pagina 612, nella conferenza da lui tenuta nel maggio del 1950 all'Università di Chicago, dal titolo 'Meine Zeit' (Il mio tempo). L'incipit è un esempio di eloquenza, un modo infallibile per prendere in mano la mente e il cuore del pubblico, la sua concentrata attenzione, e non lasciarlo fino all'ultima parola: "Del mio tempo voglio parlarvi, non della mia vita. Ho poco o punto desiderio di tenervi una conferenza autobiografica. Ma se parlo del mio tempo è necessario che io abbia in mente due cose: l'epoca storica in cui fu inquadrata la mia vita individuale e della quale sono stato testimone; è infatti il tempo che mi fu dato, la clessidra che mi fu assegnata... Dalla considerazione del mio tempo non si può scindere del tutto l'io autobiografico sicché, volere o no, il panorama del tempo diventa il panorama della mia vita".

Mann aveva allora 75 anni. Aveva già concluso la sua opera letteraria e saggistica con il libro della vecchiaia, il 'Doktor Faustus', ma ancora scriveva con una continuità tenace e a volte quasi furiosa perché (lo dice ancora una volta in questa conferenza) chi ha consegnato il senso della sua vita all'opera che ha scelto di intraprendere sente il bisogno di continuare "perché non c'è sosta, ed ogni nuova impresa non è che il tentativo di assumere la responsabilità per tutte le precedenti, di salvarle, di ripararne l'insufficienza".


Di qui ha inizio il racconto dei fatti - eccezionali - che accaddero nei 75 anni nei quali la sabbia della sua clessidra scivolò tra le sue dita. Era nato a Lubecca nel 1875 e in effetti gli eventi ai quali assistette da spettatore e da artista e i personaggi che fecero la loro comparsa sulla scena furono eccezionali. Dalla nascita dell'Impero tedesco costruito dalla brutale intelligenza di Bismarck, alla fine della Belle époque, alla prima guerra mondiale, al drammatico intervallo tra le due guerre, la nascita del fascismo, del nazismo e del comunismo sovietico, la seconda guerra, lo sterminio degli ebrei, l'emigrazione. Infine la vittoria della democrazia e la prima aspra fase della guerra fredda tra gli ex alleati che avevano insieme sconfitto Hitler.

Fatti eccezionali? si domanda Mann. Certo, ma non più eccezionali di quelli che costellarono la lunga vita di Goethe e che lui stesso enumera a Eckermann: la caduta dell'ancien régime, la rivoluzione francese, Napoleone, vent'anni di guerre che sconvolsero l'Europa, l'insorgenza romantica, il Congresso di Vienna e la Restaurazione, la nascita degli Stati nazionali e del nazionalismo. La conclusione di Mann su questo punto è che ogni epoca è eccezionale e quindi ogni vita, per chi la vive, per la semplice ragione che è la sua vita, che si concluderà con l'altro eccezionalissimo evento della sua morte.

Un mito comunque ha sorretto la vita (e l'epoca) di Mann e fu la borghesia e la libertà responsabile. A descrivere la 'sua' borghesia Mann ha dedicato l'intera sua opera, dai 'Buddenbrook' e da 'Tonio Kröger' alle 'Considerazioni d'un impolitico', alla 'Montagna incantata' e 'Morte a Venezia'. Infine il 'Doktor Faustus' e i grandi saggi de 'La nobiltà dello spirito'. Quella borghesia l'ha descritta nel suo fulgore e nella sua irresistibile decadenza e infine alla sua scomparsa.

La lettura di questa Lectio magistralis davanti al corpo insegnante e agli studenti dell'Università di Chicago io la raccomando ai giovani d'oggi ed anche - anzi soprattutto - agli adulti che in qualche modo fanno parte della nostra classe dirigente in quest'epoca che per noi vecchi s'intreccia per buona parte del percorso con l'epoca di Mann. È capitato anche a me d'esser spettatore e testimone del mio tempo. Quando Mann morì, a me accadde di lavorare alla fondazione de 'L'Espresso'. Alle pagine del 'Mondo' collaboravano la figlia Elisabeth e suo marito Antonio Borgese. L'aria di quel settimanale rendeva assai da vicino il mondo dell'autore della 'Montagna incantata'; la sua idea della borghesia liberale era anche la nostra pur sapendo che era una visione più del passato che del futuro malgrado gli sforzi che facevamo - ciascuno nel suo possibile - per risuscitarla. Dovrebbero leggerla, questa Lectio, soprattutto coloro che oggi si vantano di rappresentare la nuova borghesia, della quale non conoscono nulla; almeno così sembra poiché non basta anteporre il 'neo' per spiegarne una lontananza così profonda ed anzi una vera e propria antinomia tra il modello e la sua replica a mezzo secolo di distanza.

Per questo la lettura sarebbe utile e forse indurrebbe quei lettori a una riflessione critica. Anche i nostri vescovi dovrebbero leggerla e ne trarrebbero qualche insegnamento. Ci sono pagine dedicate alla religione e alla laicità che sembrano scritte oggi. Ne cito la conclusione: "La conquista del mondo è un sogno antichissimo; ogni fede vuol conquistare il mondo a rischio di diventare soltanto il mezzo per la conquista del mondo".

(03 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI Il sindacato, l'uguaglianza e lo scalone
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2007, 04:09:04 pm
IL COMMENTO

Il sindacato, l'uguaglianza e lo scalone
di EUGENIO SCALFARI


IL MIO ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni" ha suscitato vivaci reazioni da parte del segretario della Cgil, del segretario di "Rifondazione comunista" Franco Giordano e del presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Il giornale ufficiale del Prc, "Liberazione" mi ha dedicato tre pagine accusandomi di essere il capo del partito della nuova destra e sforzandosi di dimostrarlo. Tutte queste vivaci critiche mi imputano d'aver scritto falsità perché i sindacati non hanno mai sottoscritto accordi sullo "scalone" con l'allora ministro del Lavoro, Maroni.

Di solito non reagisco a chi contesta le mie opinioni e le mie interpretazioni dei fatti: contestazioni pienamente legittime delle quali, quando mi convincono d'aver sbagliato, prendo atto. Ma in questo caso penso sia doveroso rispondere: troppo aspre le critiche e molto qualificati gli autori perché io possa chiudermi nel silenzio. Del resto il tema è di grande interesse: si è trasformato il movimento sindacale e in particolare la Cgil in una corporazione che guarda soltanto agli interessi particolari dei suoi associati? Ha subito analoga metamorfosi la classe politica in generale e i partiti della sinistra radicale in particolare?

Questo è il tema vero del dibattito, del quale il problema delle pensioni e dell'età pensionabile rappresentano soltanto un aspetto che però tiene sotto scacco da molti mesi il governo e l'intera vicenda politica italiana. A me pare che su di esso si sia manifestata con clamorosa visibilità la natura corporativa di alcuni settori del sindacalismo e della sinistra politica, per difetto di una visione adeguata dell'evoluzione sociale e culturale della modernità.

Prima di passare all'esame delle questioni voglio qui citare il pensiero di Aldo Schiavone sull'eguaglianza; pensiero che interamente condivido e che rappresenta il nocciolo di questo dibattito.

Scrive dunque Schiavone su "Repubblica": "Oggi l'eguaglianza sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà) messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo non meno che dall'onda del capitalismo totale che sta dominando l'orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno per riuscire a sottrarre il futuro alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l'intreccio tra scienza e mercato nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisura rispetto alla quale le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più d'un pallido ricordo. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie e distributive, disparità "di accesso"; generate non direttamente dall'economia ma dal rapporto ancora oscuro tra l'avanzamento tecnologico e il suo uso sociale".

Disparità di accesso, le chiama Schiavone ed è un modo analogo e aggiornato di definire quella "eguaglianza delle posizioni di partenza" che è stata fin dagli anni Quaranta del secolo scorso il nucleo di pensiero del liberalismo europeo e di quello italiano di Croce e di Einaudi, di Salvemini e di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli e di Ugo La Malfa. Con buona pace dei miei attuali contraddittori mi metto anch'io in questo gruppo di persone, delle quali ho condiviso il pensiero e - con alcuni di loro - un percorso di vita e di azione mai smentito.

Mi ha fatto sorridere, ma con molta amarezza, l'accenno di un Croce che si starebbe rivoltando nella tomba se potesse aver letto il mio articolo di domenica scorsa; così l'altro accenno ad uno "Scalfari giovane" e uno "Scalfari vecchio" che avrebbe dirazzato da un liberalismo originario in favore di un liberismo totalizzante.

Io non sono così importante da meritare la distinzione tra una fase giovane e una fase vecchia del mio pensiero, che fu applicata al pensiero di alcuni grandissimi come Hegel e Marx. Ma se si vuole studiare l'evoluzione delle mie idee che certamente è avvenuta come accade a tutti quelli che compiono un lavoro intellettuale, si vedrà che essa ha portato un liberale a considerare la sinistra politica come uno strumento adeguato alla trasformazione di se stessa e dunque anche della democrazia italiana coniugando l'eguaglianza con la libertà. Spero, per dirla tutta e fino in fondo, che il nascituro Partito democratico sia l'approdo di questo percorso e quindi mi preoccupano gli ostacoli che gli vengono frapposti quando si fondano non tanto e non soltanto su differenti divisioni ideali ma su logori ideologismi dietro ai quali è facile avvistare istinti di sopravvivenze corporative, interessi ed egoismi particolari, persistenze di apparati e nomenclature ormai estenuati.

Tutto ciò chiarito per quel che mi riguarda, vengo alle poche questioni che hanno animato questo dibattito.

***

Epifani afferma con forza di non aver mai sottoscritto patti con Maroni sullo "scalone" pensionistico e ricorda i molti scioperi che la Cgil promosse, talvolta da sola e talvolta con le altre organizzazioni sindacali, per impedire che l'età pensionabile fosse aumentata.

In effetti non esiste alcun documento comune, redatto e firmato dalla Cgil insieme col ministro del Lavoro dell'epoca. Esiste invece il famoso "Patto per l'Italia" formalmente stipulato con il governo Berlusconi dalla Cisl (Pezzotta) e dalla Uil (Angeletti) che riguardava l'intera politica sociale su una piattaforma compromissoria di reciproche concessioni. Quel patto scatenò una durissima polemica tra le organizzazioni sindacali (la Cgil era ancora guidata da Sergio Cofferati) e di fatto non fu mai attuato.

Ma per quanto riguarda lo "scalone" previdenziale io non ho affatto affermato l'esistenza di un documento sottoscritto, bensì di un accordo sostanziale: i sindacati e la Cgil in particolare avrebbero di fatto consentito l'attuazione della legge delega e Maroni ne avrebbe posticipato di tre anni e mezzo l'entrata in vigore. Inoltre lo stesso Maroni avrebbe fatto slittare la verifica dei coefficienti applicati alle pensioni d'anzianità come previsto dalla riforma Dini; quest'ultima, giova ricordarlo, fu firmata da tutte e tre le organizzazioni sindacali confederali prima ancora che il governo la presentasse al Parlamento.

La data fissata per la verifica dei coefficienti era prevista dalla legge ma Maroni "se ne dimenticò". I sindacati anche. Padoa-Schioppa l'ha riproposta; i sindacati chiedono che sia rinviata ancora; ovviamente, per non turbare acque già molto agitate, la materia è stata affidata ad una commissione che... riferirà.

I sindacati confederali (Cgil in testa) affermano ora, da non più di quarantott'ore, che lo "scalone" non è né il solo e neppure il più importante delle questioni sociali in discussione con il governo. Più importanti sono l'aumento delle pensioni di anzianità al di sotto di una soglia minima, l'avvio di ammortizzatori sociali adeguati, la lotta al precariato, l'entrata in vigore del contratto del pubblico impiego il cui testo, già firmato dalle parti, è stato però oggetto di lunghe discussioni interpretative. Infine la detassazione dei contributi sul lavoro straordinario.

Gran parte di queste importanti questioni sono state risolte. Il round finale è avvenuto tra lunedì e martedì ed ha generato soddisfazione tra tutti gli interessati (un po' meno negli organismi internazionali). Non entro nel merito di questi accordi ma mi limito a constatare che se esiste un collegamento tra le questioni risolte e quella ancora aperta dello "scalone", dovremmo ora aspettarci che la via dell'accordo anche su quest'ultima parte sia in discesa. Invece non sembra così. Lo scalone, definito un aspetto non essenziale dagli stessi interessati, continua però a pesare e a turbare i sonni del governo e ad eccitare la combattività delle organizzazioni sindacali e della sinistra politica. Il governo cerca la quadratura del circolo ma i sindacati finora hanno risposto "niet".

Giordano e Bertinotti non vogliono scalini e scalette al posto dello "scalone": ne vogliono l'abolizione pura e semplice, che avrebbe un costo complessivo di circa dieci miliardi di euro e metterebbe l'Italia di nuovo sotto scacco di fronte alla Commissione europea; cosa che peraltro non preoccupa affatto né Rifondazione, né Diliberto, né Pecoraro Scanio, né il ministro Ferrero (Prc).

Epifani dal canto suo, in un'intervista al "Corriere della Sera" di lunedì scorso, ha ammonito i partiti a non interferire con i sindacati e con la loro autonomia di scelta. Ha perfettamente ragione. Ne sono seguiti incontri con la segreteria di Rifondazione che - hanno detto i partecipanti - si sono conclusi molto bene. Dopodiché la delegazione di quel partito ha ribadito che lo scalone deve essere abolito, punto e basta. Epifani ha ritirato l'ammonimento? Oppure i destinatari non erano i partiti della sinistra radicale? Lo vedremo tra pochi giorni.

Osservo che l'asprezza dello scontro è infinitamente maggiore di quanto avvenne sullo stesso argomento con il ministro Maroni quattro anni fa. Allora (era il 2004) lo scalone passò senza che la politica sociale e pensionistica fosse messa a ferro e fuoco dai sindacati. Ci fu un solo sciopero generale di quattro ore nel 2004, che i sindacati motivarono con la questione pensionistica. Tutti gli altri scioperi indetti tra il 2002 e il 2005 furono diretti contro l'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e contro le leggi finanziarie del governo Berlusconi. Nel frattempo la legge Maroni era stata approvata dal Parlamento ma la sua entrata in vigore come pure la revisione dei coefficienti pensionistici furono rinviati al gennaio 2008.

A questo punto le ipotesi sono due: o c'è stato l'accordo, tacito ma non meno evidente, tra Maroni e i sindacati, oppure i sindacati non davano al tema dell'età pensionabile il peso che adesso gli danno. Una terza spiegazione non c'è.

***

Sulle contumelie delle quali sono stato oggetto da parte dei leader di Rifondazione comunista ho già fatto cenno. Ribadisco che non è affatto vero che il programma elettorale dell'Unione preveda l'abolizione dello scalone "senza sé e senza ma". Lo condiziona invece a provvedimenti di gradualità e di compatibilità di bilancio. Questo aspetto è sottaciuto dai miei rissosi interlocutori contro l'evidenza dei testi.

Giordano ritiene incredibile, arrogante e ricattatorio l'invito da me fatto al presidente della Camera di dimettersi in caso di crisi di governo. Non ho affatto scritto questo. Ho scritto che Bertinotti dovrebbe dimettersi qualora il governo andasse in crisi a causa di un voto contrario di Rifondazione motivato dai contrasti previdenziali sui quali il presidente della Camera ha espresso un'opinione che male si concilia con il suo incarico istituzionale. Non c'è né arroganza né tantomeno ricatto. Onorevole Giordano, ricatto è una parola che riguarda un ricattatore e un ricattabile; né Bertinotti è ricattabile né io sono un ricattatore. Lei mi deve dunque delle pubbliche scuse. Io ho semplicemente constatato che Bertinotti interviene troppo spesso su questioni che riguardano la sua competenza "neutrale" di presidente della Camera e che - ove i suoi suggerimenti inducessero il suo partito a provocare la crisi - una persona perbene come lui dovrebbe dimettersi. Punto e fine.

(12 luglio 2007)
 
da repubblica.it


Titolo: Eugenio Scalfari. A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2007, 12:41:22 pm
IL VETRO SOFFIATO

A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion
di Eugenio Scalfari


Sesso, denaro, tecnologia, hanno scacciato l'eros dalla nostra società: è la tesi del filosofo cattolico francese nel suo trattato 'Il fenomeno erotico' che ha fatto discutere in Francia e ora in Italia. Perché Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave  Papa Ratzinger"Amo, dunque sono": è un libro appena tradotto in italiano, l'autore è un noto filosofo francese (editore Cantagalli) che insegna alla Sorbona, si chiama Jean-Luc Marion, il titolo del volume 'Il fenomeno erotico'. In Francia è già un best-seller ed ha suscitato un dibattito molto intenso. Marion professa la fede cattolica e infatti una parte sostanziosa delle 380 pagine del libro è dedicato all'amore mistico verso Dio e ad una dell'encicliche di Papa Ratzinger sull'amore visto come carità, verso il prossimo e quindi verso Dio.

La tesi centrale dell'opera di Marion è comunque quella parafrasata dal 'Discorso sul metodo' di Descartes. Questa poneva nel pensiero l'evidenza esistenziale dell'io; Marion la colloca nell'amore, anzi per esser più precisi nell'amore erotico, nell'eros, che non si esaurisce soltanto nell'atto sessuale ma in una serie di altri comportamenti altrettanto erotici e forse di più, a cominciare dalla castità dei mistici che amano Dio e/o Gesù non solo con l'intelletto e con la fede ma soprattutto con il corpo, anzi con la carne.

La tesi di Marion è certamente interessante e potremmo anche definirla 'trendy' contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi sostenitori. Nel dibattito che il libro ha suscitato in Francia ma ora anche in Italia si confrontano infatti varie tesi. La prima è che nella nostra società, dominata dalla scienza e dall'economia, non ci sia più posto per l'amore ma soltanto per il sesso. Sesso, denaro, tecnologia: sarebbero questi gli idoli del presente che avrebbero scacciato l'eros. Questa è comunque la tesi di Marion e di chi sostiene le sue affermazioni.

A me non sembra che le cose stiano così. A me sembra invece che l'amore erotico abbia una parte crescente nella nostra modernità. Il corpo e la carne hanno una parte crescente, la carità ha una parte crescente, le varie forme di misticismo religioso hanno una parte crescente. Sarei perciò molto cauto nel sostenere che la società moderna sia sessualmente ricca ma eroticamente povera. A me sembra piuttosto vero il contrario. Se c'è un aspetto in netto declino è piuttosto quello dell'amore intellettuale e della conoscenza disinteressata. Questo sì, sta quasi scomparendo: la filosofia, l'amore per la sapienza e per il sapere.

Un altro punto di confronto nel dibattito suscitato dal libro di Marion riguarda un problema più propriamente filosofico: la felice formula "amo, dunque sono" avrebbe liquidato, dopo quattro secoli di incontrastata egemonia, il "penso, dunque sono" cartesiano ed anche la polarità cartesiana che contrappone o per lo meno distingue la 'res cogitans' dalla 'res extensa'. Saremmo cioè in presenza di una vera e propria rivoluzione nella storia delle idee filosofiche.

Ho usato prima la parola 'dibattito' ma mi correggo: sulla radicalità delle tesi di Marion non c'è stato dibattito ma una sostanziale unanimità. Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave. Ebbene, una posizione di questo genere dimostra soltanto a mio modo di vedere la pochezza del sapere filosofico dell'epoca nostra. La tesi cartesiana che definisce la bipolarità tra il corpo e il pensiero era già stata superata da Baruch Spinoza pochi anni dopo la pubblicazione del 'Discorso sul metodo'. Da allora cessò di egemonizzare la storia della filosofia pur essendole perennemente riconosciuta l'importanza d'aver detronizzato l'egemonia della 'Scolastica' aprendo la strada al pensiero moderno.

Diverso il giudizio che si deve dare sul 'Cogito, ergo sum'. La sostituzione di Marion dell'Io amante all'Io pensante costituisce certamente una variante che si affianca all'evidenza cartesiana senza tuttavia spossessarla della sua validità. D'altra parte non è la sola variante possibile dell'evidenza del soggetto; se ne potrebbero indicare parecchie altre di eguale evidenza e validità, tratte dai requisiti essenziali che caratterizzano la nostra specie. Per esempio: "rido, dunque sono", "gioco, dunque sono", "uccido, dunque sono", "sono nato, dunque sono" e infine, forse la più decisiva di tutti, "morirò, dunque sono".

(13 luglio 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: E. SCALFARI Credo che il governo Prodi continuerà a realizzare obiettivi e ad...
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 10:34:56 pm
POLITICA

Credo che il governo Prodi, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti

Mediare per il paese e non per il potere

Che altro c'è di buono in questa intesa?

L'aumento delle pensioni d'anzianità l'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani

di EUGENIO SCALFARI


Mi sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio. In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d'agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi.

Se inquadriamo l'attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d'un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c'è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell'immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale.

Andreotti - tanto per proseguire nell'esempio - governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell'Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci. Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell'Ariete, perciò lo capisco.

Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell'apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell'opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l'appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra.

Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno.
Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi.

* * *

Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l'altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: "Pensioni, l'accordo è vicino" "Scontro feroce sulle pensioni" "Il governo è spaccato" "La sinistra all'attacco" "Il contrattacco per i riformisti" "Berlusconi: governo in crisi" "Resta lo scalone" "Via lo scalone senza se e senza ma".

Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d'un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. "Devi dirmi sì o no. Adesso" gli ha detto il presidente del Consiglio. "Per me l'accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina". "Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo".

Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola "per presa d'atto" scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l'ha dato lo stesso segretario della Cgil in un'intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell'intervistatore sull'accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente "il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell'ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi".

Poche righe più in là il giornalista gli chiede: "Il governo reggerà la prova parlamentare dell'intesa?". Risposta: "Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c'è di buono in questa intesa". Esatto. Che altro c'è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C'è l'aumento delle pensioni d'anzianità a 3 milioni di pensionati, l'avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi.
Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l'aumento graduale dell'età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l'età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi.

Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi - che dovranno essere approvati dai lavoratori - salterà per aria insieme al governo. Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom?

* * *

Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l'accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l'età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a frà Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l'indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: "Verrà un giorno... ".

Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa. Negativa - moderatamente - la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l'oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi.

Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l'agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori.

Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell'avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all'ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze.
Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l'anima sua e sono di conforto per i suoi parenti.

Nel caso Welby invece l'ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l'accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari. Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un'organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un'organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un'infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell'amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell'ipocrisia. Questo è tutto.

(22 luglio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI Breve lezione sulla felicità
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2007, 06:24:22 pm
POLITICA

Breve lezione sulla felicità

di EUGENIO SCALFARI


Mi permetterete, cari lettori, di uscire oggi dal seminato e di trattare un tema che potrà sembrare non pertinente alla stretta attualità. L'ho già sfiorato più volte ma ora vorrei prenderlo di petto e vedrete che non è poi così lontano dalle tematiche quotidiane così noiosamente ripetitive.

Il mio tema coinvolge tre concetti: il tempo, il senso, la felicità, strettamente connessi tra loro nel nostro agire quotidiano. Ma forse non ce ne accorgiamo, eppure ogni nostro atto, desiderio, comportamento, sono motivati e determinati da quei tre elementi. Ciascuno di noi vuole anzitutto sentirsi felice o meno infelice di quanto non sia; questo suo obiettivo si colloca ad una certa distanza dall'attimo presente e promette una certa durata e qui interviene l'elemento temporale. Il percorso tra la decisione che ci procurerà felicità e il tempo necessario per realizzarla dà senso a quel percorso e poiché la vita altro non è che la ricerca continua di felicità che si ottiene e si perde un attimo dopo averla raggiunta, ecco che il senso viaggia senza soluzione di continuità a cavallo di quei percorsi che ci accompagnano in modi variabili fino al nostro ultimo appuntamento.

Incito i nostri attori, politici professionali economici culturali, a riflettere su queste considerazioni. Ne indico qualcuno, tanto per fornire concreti esempi, precisando che indico in questi casi risultati di felicità connessi a obiettivi di natura pubblica e non privata, che pure ci sono e per la maggior parte delle persone hanno anzi caratteristiche dominanti.

Mi viene in mente, tanto per dire, Luca Montezemolo. Quando la Ferrari vince una gara è felice e lo si vede. Così pure quando la Fiat di cui è presidente realizza risultati positivi. E ancora quando la Confindustria centra un suo obiettivo di politica economica. Queste sue attività plurime gli costano (anche questo si vede) molta fatica, ma è fatica appagante e dà senso alla sua vita fino a quando riuscirà a ghermire qualche brandello di felicità.

Me ne vengono in mente moltissimi altri. Per esempio Silvio Berlusconi. Che sia felice ogni volta che si trova in un bagno di folla plaudente è un fatto evidente. Traspira gioia da tutti i pori. Bacia volti di bambini, stringe centinaia di mani. Lancia battute eccitanti, divertenti, esalta entusiasmi. Non c'è niente di falso né di studiato in tutto questo.

Prima d'entrare in politica la sua felicità dipendeva dai bilanci delle sue aziende, dai contratti pubblicitari che riusciva ad ottenere dagli inserzionisti. Era una felicità di qualità minore rispetto al bagno di folla. Perciò sarà un triste giorno per lui quando dovrà rinunciarvi. Farà di tutto perché arrivi il più tardi possibile, di questo si può star certi.

Ma prendete anche (scelgo a casaccio dal mazzo dell'attualità) il giudice Clementina Forleo. Fa un mestiere difficile e anche avaro di felicità: chi giudica tra parti in causa e si asside come arbitro neutrale in mezzo a loro ricava felicità solo dal fatto di garantire un'applicazione appropriata della legge. Ha fatto il suo dovere e tanto dovrebbe bastarle. Ma i suoi provvedimenti passano poi al vaglio di successivi gradi di giurisdizione, possono essere confermati o cancellati. Ammetterete che la felicità arriva col contagocce. A meno che il giudice non si sporga e non sprema la spugna fino all'ultima goccia.

E' ciò che ha fatto nel caso delle intercettazioni telefoniche su alcuni membri del Parlamento. Non entro nel merito della sua ordinanza perché non ne ho né titolo né voglia. Ma l'irruenza del giudizio che ha anticipato un'incriminazione prima ancora che la Procura della Repubblica la formulasse, non ha altra motivazione che una ricerca maggiore di felicità. Come il bagno di folla di Berlusconi. Il nostro presidente della Repubblica - ben prima che l'attualità facesse esplodere il caso Forleo - aveva indicato tra i malanni della giustizia anche quelli d'una eccessiva ricerca di visibilità. Ma parole sagge non riescono quasi mai a frenare una natura.

Mi ha stupito invece la posizione di Borrelli, che fu procuratore a Milano all'epoca di Tangentopoli. Ha detto che il "sovrappiù" della Forleo è un elemento marginale rispetto al merito del problema che riguarda la possibilità di indagare presunti colpevoli. Ha ragione e torto nello stesso tempo. I sospettati siano al più presto indagati, ma chi si occuperà del "sovrappiù" di Clementina? Potrà ancora fare l'arbitro d'un procedimento nel corso del quale è scesa tra i giocatori calciando impropriamente la palla? Borrelli è stato anche procuratore della Federcalcio e ha sospeso fior di arbitri. Dovrebbe dunque avere ben presente quell'esperienza.

Tanti altri esempi potrei addurre per spiegar bene quanto pesi nelle azioni umane la ricerca di felicità. Ma spero d'aver chiarito a sufficienza e proseguo nel ragionamento.

* * *

La durata delle singole felicità ha un tempo breve. Ma esistono anche felicità collettive e la loro durata è più lunga. A volte molto più lunga.

Quando dico felicità collettiva penso a soggetti collettivi, comunità locali, comunità nazionali, comunità internazionali che si vivano anche come veri e propri soggetti e come tali siano vissuti dai popoli che ne fanno parte.

I percorsi necessari per dare durata e stabilità alla felicità che abbia soggetti collettivi come destinatari sono notevolmente lunghi. Di solito operano di rimbalzo, come le biglie del biliardo che spesso debbono fare il giro delle sponde per realizzare l'obiettivo di ottenere punti e lasciare l'avversario in posizione incomoda.

Anche qui qualche esempio, dal mazzo dell'attualità. La sinistra radicale si sente a disagio; ha la sensazione che Prodi stia privilegiando la linea riformista e che questo spostamento la penalizzi. Perciò promette battaglia. E' chiaro il perché: il soggetto che si riconosce nei partiti della sinistra radicale pensa che la felicità propria, dei movimenti che vorrebbe rappresentare, della classe operaia della quale rivendica la rappresentanza politica, si realizzi spostando a sinistra la politica del governo. Questo è il dichiarato obiettivo dei suoi leader. I quali tuttavia sanno (e lo dicono) che una crisi del governo penalizzerebbe fortemente i loro veri e presunti rappresentati.

I leader dei partiti di quella sinistra sostengono di costituire un terzo della coalizione, ed è vero. Perciò pongono la domanda: si può governare contro un terzo della maggioranza? A questa domanda i leader del centrosinistra oppongono la contro-domanda: si può governare contro i due terzi?

Rifarsi al programma è un puro alibi: un programma di 280 pagine è interpretabile e ognuno lo fa a suo modo. Sicché non c'è che affidarsi al capo del governo e della coalizione, Romano Prodi. Altro metodo non c'è. Ma i leader della sinistra radicale dovrebbero anche sapere che i loro continui strappi, che poi finiscono (finora) con il rientrare, provocano reazioni crescenti nei due terzi riformisti e disincanto ulteriore nel corpo elettorale.

Questa ricerca sussultoria di due felicità che si contrappongono configura una scomodissima situazione. Il solo risultato finora conseguito è stato quello - ottenuto principalmente dalla stessa sinistra radicale - di autoproporsi come capro espiatorio di tutto ciò che non va nella gestione della cosa pubblica. Debbo dire: non è un gran risultato.

* * *

La classe dirigente di uno Stato deve proporsi come obiettivo quello di procurare felicità agli abitanti e assicurarla per quanto possibile ai loro figli e nipoti. Diciamo tre generazioni. Andare al di là mi sembra azzardato; starne al di qua denota corta vista ed è ciò che di solito caratterizza regimi populisti e demagogici. La classe dirigente di uno Stato deve dunque avere una visione del paese dinanzi a sé e deve anche - anzi come primario obiettivo - attuare in corsa la riforma delle inefficienze dello Stato.

Si moltiplicano gli allarmi su questo punto, che viene chiamato di volta in volta questione settentrionale o questione meridionale, ma che più appropriatamente dovrebbe essere chiamata questione dello Stato.

La classe dirigente deve necessariamente darsi carico di tutto ciò. In una recente intervista al nostro giornale Giuliano Amato, per spiegare il suo punto di vista su alcuni temi d'attualità, ha avuto la cortesia di riprendere un'immagine da me usata un anno fa, quella dello specchio rotto. A terra sono rimasti i frammenti di quello specchio che non riflettono più l'intera realtà ma soltanto alcuni suoi parziali aspetti.

Bisogna dunque che la classe dirigente si dia carico di recuperare uno specchio capace di riflettere l'intera realtà nazionale e operi avendo di mira la felicità dei padri, dei figli e dei nipoti. Una felicità duratura, che dia sollievo subito ad alcuni bisogni impellenti ma nel contempo ponga le condizioni affinché speranze e attese che si proiettano nel futuro siano salvaguardate anche a prezzo di alcune rinunce oggi necessarie.

Una classe dirigente che sia capace di questo trova in questa visione e nel realizzarla, anche la propria felicità e il senso del proprio percorso e della propria funzione.

Post Scriptum. Rientro nel seminato (dal quale peraltro ho potuto allontanarmi assai poco) per spendere due parole sulla legge elettorale e sul referendum parzialmente abrogativo.

Stefano Rodotà segnala che la legge che dovesse uscire dal referendum sarebbe un mozzicone di legge, un dispositivo assai imperfetto che lascerebbe in piedi le liste bloccate senza preferenze e inciterebbe partiti e partitini a far blocco per intascare il premio di maggioranza.

Personalmente non do gran valore al sistema delle preferenze. Ricordo il trionfo del referendum Segni che restrinse le preferenze da quattro ad una soltanto e passò a furor di popolo.

Concordo invece con Giovanni Sartori che sul Corriere della Sera indica tra le soluzioni "buone" oltre al doppio turno alla francese anche la legge vigente in Germania. Purché sia conservata nel modello attuale e non ricucinata in salsa italiana, osserva Sartori. Anche su questo punto sono d'accordo con lui come pure sul gonfiarsi e sgonfiarsi dei partiti di centro, dovuto alla pressione moderata o esorbitante dei partiti estremi.

In materia pensiamo e scriviamo le stesse cose, caro Sartori, sperando con scarsa fiducia di essere ascoltati.


(29 luglio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: SCALFARI pensiero.
Inserito da: Admin - Agosto 06, 2007, 10:04:43 am
POLITICA

Ahi Costantin di quanto mal fu madre

di EUGENIO SCALFARI


Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c'è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere.
Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l'arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l'Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell'America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.

Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L'"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale.
Tutto ciò va evidentemente al di là d'una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.

Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.

La questione cattolica è dunque quella che spiega più d'ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell'opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza.
"Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".

La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.

Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall'Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.

Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l'emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.

La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall'Austria e da alcuni paesi cattolici dell'America meridionale. Le capacità finanziarie dell'episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l'esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.

A fronte di quest'offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d'intransigenza che sfiorano l'anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l'antica diffidenza di togliattiana memoria.

Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un'avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell'ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell'elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.

* * *

Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.

Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".

L'obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.

Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l'hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un'altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.

* * *

Un elemento decisivo della questione cattolica e dell'anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l'articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un'organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d'un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c'è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d'un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.

Questa doppia elica non esiste in nessun'altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell'impossibilità di realizzare l'unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.

Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all'interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell'episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.

Negli scorsi giorni l'atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.

Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l'otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all'episcopato italiano quell'otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.

* * *

Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.

Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata.
Quanto al grosso dell'opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.

Perciò sperare che la democrazia possa diventare l'"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.


(5 agosto 2007) 

da repubblica.it


Titolo: L'ombra della crisi del '29 sui nostri risparmi
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2007, 06:38:37 pm
IL COMMENTO

L'ombra della crisi del '29 sui nostri risparmi

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO state molte altre crisi finanziarie negli ultimi vent'anni del Novecento, dovute all'improvviso sgonfiarsi di bolle speculative. La crisi del rublo, quella dell'insolvenza messicana, quella dei "bonds" argentini, quella (e fu la più violenta e diffusa) che travolse i super-investimenti nell'industria informatica. E naturalmente le crisi petrolifere che portarono alle stelle i prezzi del greggio con ripercussioni non solo sulla finanza ma sull'economia reale. E tutte, ovunque fosse il loro epicentro iniziale, coinvolsero il centro finanziario del mondo: Wall Street, le grandi banche d'affari americane, l'immenso ventaglio dei loro clienti internazionali e multinazionali, chiamando in causa inevitabilmente anche la Federal Reserve, la Banca centrale americana, supremo regolatore del sistema monetario e finanziario del pianeta.

Ma nessuna di queste "fibrillazioni" somiglia a quella di questi giorni. Forse proprio perché nel caso attuale l'epicentro è nel sistema bancario americano, nei mutui immobiliari facili, nel loro piazzamento in titoli "derivati" e nella loro diffusione in molte istituzioni finanziarie internazionali.

La finanza Usa e la Fed questa volta non giocano di rimessa, ma giocano in proprio. Il sisma nasce lì, a Manhattan, nel cuore della Grande Mela e ciò aumenta la sua potenza diffusiva e le sue devastanti capacità.
C'è però un precedente cui la crisi attuale può esser confrontata ed è il terremoto finanziario del 1929. Lo si nomina poco in questi giorni, anche gli analisti che inclinano piuttosto al pessimismo fingono di dimenticarsene, forse per scaramanzia. Ma, pur nelle grandi differenze di contesto rispetto a ciò che accadde ottant'anni fa, le analogie sono impressionanti.

Consiglio ai lettori di procurarsi e di leggere un libro diventato fin dal suo primo apparire un classico in materia: "Il grande crollo" di Kenneth Galbraith. E' una lettura paurosamente affascinante. Intanto la crisi di oggi e quella del '29 cominciano allo stesso modo: una gigantesca bolla immobiliare, mutui facili, esposizione di istituti bancari specializzati in questo settore, fame di case concentrata soprattutto in California e in Florida, emissione di azioni da parte di società-fantasma, cieca fiducia dei risparmiatori, rifinanziamenti a breve da parte del sistema bancario, interventi (inutili) della Banca centrale e delle principali istituzioni finanziarie, in particolare le banche d'affari che facevano allora capo ai Rockefeller, ai Morgan, ai Rothschild.

Nel '29 vigeva il sistema aureo, non esisteva alcuna disciplina sul mercato dei cambi, New York, Londra, Berlino, Parigi erano in accesa competizione tra loro. Ciò aggravò e moltiplicò gli effetti del sisma che da una crisi di Borsa si estese al dollaro, dalla moneta americana alla sterlina e al marco tedesco e a tutto il sistema aureo, cioè a tutte le monete del mondo.
Per fortuna il sistema monetario mondiale è oggi completamente diverso, l'amplificazione dei fenomeni si verifica agevolmente ma è entro certi limiti governabile. Siamo più attrezzati di allora. Ma le analogie restano e i rischi sono tutt'altro che lievi.

Non starò ora a ripercorrere le tecniche dei mutui immobiliari, della loro cartolarizzazione in titoli, dei tassi di interesse prossimi allo zero per invogliare la clientela, dell'assenza di valide garanzie e infine nella diffusione anche fuori dal mercato Usa dei titoli - spazzatura e dei relativi rischi. Nei giorni scorsi tutto questo perverso meccanismo è stato ampiamente descritto e quindi lo do per noto.

Ricordo soltanto ai lettori che il mercato immobiliare e il suo enorme indotto coprono almeno un quarto dell'economia Usa. A loro volta i consumi privati rappresentano i due terzi della domanda interna di quel paese e gran parte di essi, specie tutta la fascia dei beni durevoli, è strettamente connessa alla costruzione di nuove abitazioni. Stiamo insomma discutendo di uno dei gangli vitali del sistema America e del "business" ad esso collegato.

Questo sensibilissimo settore è entrato in crisi di insolvenza. I clienti che hanno contratto mutui sono insolventi, non hanno soldi per pagare le rate; di conseguenza i loro creditori diventano man mano insolventi anch'essi; i risparmiatori che hanno affidato i loro risparmi a fondi d'investimento che hanno in portafoglio anche titoli immobiliari, ritirano i loro capitali; i fondi più deboli e più presi di mira cominciano a congelare le quote della clientela e creano in questo modo altri punti d'insolvenza. Purtroppo tra i fondi coinvolti ci sono anche alcuni fondi-pensione che sono tenuti dai loro statuti a corrispondere con periodica frequenza i dividendi ai pensionati. Per ora non si ha notizia di insolvenze in questo delicatissimo settore. Auguriamoci che i gestori dei fondi-pensione non siano stati troppo aggressivi nella ricerca di rendimenti superiori alla media.
Si tratta comunque di un'insolvenza abbastanza diffusa. Il governatore della Fed, in una recentissima dichiarazione, l'ha valutata a cento miliardi di dollari. Per ora le insolvenze acclarate ammontano a cifre molto minori, eppure sono state sufficienti a terremotare i mercati finanziari in Usa, in Europa, in Canada, in Australia. L'Asia, Giappone compreso, sembra al riparo dalla tempesta. Ma se e quando dovessero venire allo scoperto le insolvenze preannunciate da Bernanke, gli effetti potrebbero essere assai più micidiali.

Proprio per impedire che ciò accada e soprattutto per recuperare la fiducia dei risparmiatori e degli operatori, le Banche centrali hanno deciso di concerto di iniettare liquidità nei mercati con prestiti a breve e brevissimo termine ai sistemi bancari, accompagnando queste operazioni con inviti alla calma e solenni assicurazioni che la crisi è circoscritta, le insolvenze limitate, la liquidità comunque garantita e i "fondamentali" senza alcun contraccolpo. Non avevano altra strada, le Banche centrali, che stanno facendo egregiamente il loro lavoro. Riassorbire l'eccesso di liquidità quando non sarà più necessario non è tecnicamente difficile. Non è detto invece che il recupero di fiducia avvenga rapidamente.

Nella crisi del '29 non avvenne, anzi durò per molti mesi fino a creare effetti depressivi sulle economie reali. Abbiamo già detto che le autorità monetarie e le istituzioni finanziarie sono oggi molto più attrezzate di allora. Tuttavia la fiducia è un elemento immateriale e estremamente volatile. L'ostentata tranquillità delle Banche centrali e delle autorità monetarie può non esser sufficiente a ripristinarla.

Se poi prendesse corpo la speculazione ribassista con l'obiettivo di deprimere fortemente i listini di Borsa per poi ricoprirsi realizzando favolosi guadagni, come spesso avviene in situazioni del genere, non c'è Banca centrale che possa reggere né fiducia che possa esser recuperata. E' tuttavia difficile (o almeno così ci auguriamo) un intervento massiccio al ribasso. La situazione dei mercati si è fatta di colpo così delicata che un intervento speculativo al ribasso potrebbe produrre effetti di tale magnitudine da render poi impossibile per lungo tempo l'esito positivo per gli speculatori. C'è insomma un deterrente psicologico, e speriamo che basti a fermar la mano della speculazione.

La Borsa italiana ha preso nell'ultimo mese e in particolare negli ultimi tre giorni potenti scoppole, più o meno in misura analoga a quella degli altri mercati europei. Più per contagio che per reali insolvenze. Di queste ne sono finora venute alla luce assai poche. Quella, di circa 700 milioni, dei tre fondi della Paribas parzialmente congelati. Altre sulle quali per ora circolano soltanto voci.

Il contagio comunque si può propagare come il "venticello" della calunnia cantato da Don Basilio nel "Barbiere di Siviglia". Ma se non è sostenuto da evidenze concrete può essere rapidamente dissipato. Il caso italiano non sembra dunque particolarmente esplosivo. C'è un punto tuttavia che merita di esser considerato e riguarda i fondi pensione nei quali sono recentemente affluiti oltre un milione di pensionandi che hanno versato i loro Tfr col metodo del silenzio-assenso.

Si è fatto un gran can-can da parte della "setta" degli economisti liberali perché il collocamento del Tfr nei fondi non era stato sufficientemente incoraggiato dal governo. Era una menzogna e il risultato delle sottoscrizioni lo dimostra. Ma ora ci sarà chi rimpiangerà, tra i pensionandi che hanno scelto la previdenza complementare, di non aver versato i propri Tfr ai fondi aziendali gestiti dai sindacati o addirittura di non aver conservato il vecchio sistema della previdenza pubblica dell'Inps. Gli investimenti arrischiati di alcuni fondi - pensione americani ci dicono che anche la via della previdenza alternativa non è cosparsa di rose e fiori e che il mercato non è mai stato e mai sarà il paese di Bengodi se non per i pochi che possono manovrarlo a danno dei molti.

C'è un altro aspetto italiano che vale la pena di considerare. E' opinione diffusa che l'eventuale rallentamento della crescita della nostra economia, aggravato dai possibili effetti della crisi in atto, spingerà in alto l'onere del debito pubblico sul bilancio dello Stato. Personalmente credo sia un marchiano errore fare simili previsioni. La crisi finanziaria in atto ha aumentato e ancor più aumenterà la propensione dei risparmiatori a investire in titoli pubblici, Bot o pluriennali. Questa propensione produrrà un aumento della domanda di quei titoli e quindi un'occasione per il Tesoro di spuntare condizioni più favorevoli nel momento dell'emissione.

L'aspetto più preoccupante della situazione italiana sta invece nei possibili effetti di rallentamento sulla crescita del Pil che la crisi può esercitare. Rallentamento dovuto ad un calo nei consumi, allo sgonfiamento della bolla immobiliare che anche da noi è in corso e quindi nell'occupazione, nel reddito e negli investimenti nell'ampio indotto dell'industria edilizia.
A fronte di questi temuti effetti recessivi si ripete il suggerimento di accelerare le riforme. Ma quali?
Bisognerebbe specificare un po' di più se si vuole evitare la ripetizione giaculatoria della parola "riforme".

Le liberalizzazioni, certo. Ma non bastano, agiscono con ritardi tecnicamente inevitabili, non possono comunque essere effettuate tutte insieme in dosi massicce senza sconvolgere mercati alquanto sinistrati.
Il rallentamento nella crescita impone di concentrare l'azione del governo su quell'obiettivo. E quindi: favorire gli accordi governo-sindacati in favore della produttività; concentrare la spesa pubblica sui lavori pubblici e le infrastrutture; procedere a ulteriori sgravi fiscali sul lavoro e all'ulteriore sostegno dei bassi redditi.

Le crisi finanziarie hanno, come la loro storia ha invariabilmente dimostrato, l'effetto di accrescere la responsabilità e il ruolo dello Stato nel rilancio dell'economia. Così accadde nell'America del '29, dove la crisi spazzò via la lunga dominanza dei conservatori e aprì la stagione dei riformisti, dai tre mandati di Roosevelt, a Truman, a Johnson, a Kennedy, a Carter, a Clinton.

La ragione è evidente: le crisi determinano rallentamento nella domanda. La ripresa avviene rifinanziando la domanda. E quando è in sofferenza il settore delle costruzioni, affiancando all'investimento privato un massiccio e organico investimento pubblico. Tanto più in un paese come il nostro dove le infrastrutture sono carenti al Nord quanto al Sud. Su questa politica il governo può ritrovare compattezza ed efficacia. La situazione è già abbastanza seria per smetterla con i tiri alla fune e gli strappi per esibire una forza che isolatamente nessuno possiede.

(12 agosto 2007)

da repubblica.it


Titolo: Le paure di Silvio i dubbi di Walter
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2007, 11:50:18 pm
IL VETRO SOFFIATO

Le paure di Silvio i dubbi di Walter

di Eugenio Scalfari


Berlusconi teme Veltroni e deve allargare i giochi. Ma anche il sindaco di Roma ha molti nodi da sciogliere. Commenta  Tra le tante bizzarrie estive alcuni giornali hanno anche lanciato quella d'un nuovo partito che Silvio Berlusconi avrebbe in animo di fondare e del quale avrebbe già pronto il nome e il programma. Dovrebbe chiamarsi Partito delle libertà e dovrebbe radunare tutti i moderati italiani. La pseudo-notizia è stata vivacemente smentita dai diretti interessati, ma qualche cosa di vero ci deve essere.

Non un partito, che provocherebbe l'ostilità dei 'colonnelli' di Forza Italia e anche di Alleanza nazionale, ma un movimento imperniato sui Circoli della libertà, quelli promossi da Dell'Utri ma soprattutto quelli in concorrenza, promossi dalla Michela Brambilla.

Il centrodestra sente il bisogno di movimenti. È in gestazione quello di Savino Pezzotta che ha come base le famiglie cattoliche. Questo dei Circoli della Brambilla sarebbe parallelo al pezzottismo; invece che far leva sulle famiglie avrebbe riferimenti di natura economico-professionale: i commercianti, l'imprenditoria minuta, le famose partite Iva del lavoro autonomo. Lo scopo di questi movimenti ancora allo stato nascente è chiaramente rivolto a pescare nell'elettorato di An e dell'Udc convogliandone i consensi verso Forza Italia. In prospettiva, se la legge elettorale restasse quella attualmente vigente, i Circoli della libertà potrebbero dar luogo a una lista 'civetta' apparentata con Forza Italia e con quanto resterebbe dei seguaci di Fini e di Casini.

Bizzarrie estive, ma fino ad un certo punto. Perché mai Berlusconi, che è indubbiamente un uomo intuitivo, sente il bisogno di allargare il gioco e di introdurre nuovi giocatori nella partita in corso da tempo nel centrodestra? La risposta riguarda il Partito democratico e il candidato a guidarlo, Walter Veltroni. La leadership di Veltroni preoccupa Berlusconi. Stando ai sondaggi più recenti, in
uno scontro testa a testa il sindaco di Roma prevarrebbe su di lui di quattro punti, 52 contro 48 per cento. Il confronto tra le due coalizioni, sempre secondo quei sondaggi, vede ancora in testa il centrodestra, 53 a 47 per cento, ma sta di fatto che il centrosinistra con queste cifre sembra rientrato in partita. Infine il Partito democratico sarebbe in grado di raccogliere il 39 per cento dei voti contro il 29 di Forza Italia. Ecco perché Berlusconi è preoccupato. Di Casini e di Fini non si fida, la Lega è una mina vagante. Veltroni può ancora guadagnare molto terreno proprio nei settori centrali del corpo elettorale. Ma basteranno i Circoli della Brambilla ad arginare una possibile frana?

Queste considerazioni spostano l'attenzione sul Partito democratico e sulle sue dinamiche interne. Finora l'estate ha tenuto 'surplace' i vari partecipanti, ma d'ora in avanti si dovrà entrare nel merito: contenuti, strutture, liste alternative e liste collegate. Il nuovo partito è ancora una nebulosa, le elezioni del 14 ottobre configureranno la leadership nazionale, le strutture locali, la composizione dell'assemblea costituente, la consistenza numerica del partito e il bacino del suo potenziale elettorato.

Qui si pongono alcune domande. La prima: quante persone andranno a votare il 14 ottobre? Le previsioni in materia sono estremamente difficili. Si azzarda la cifra di un milione. Non è molto. Alle primarie semiplebiscitarie su Prodi, due anni fa, votarono 4 milioni e 300 mila, ma allora non si trattava di creare un partito, bensì di insediare il leader che avrebbe guidato tutto il centrosinistra nello scontro elettorale. Qui voteranno soltanto gli iscritti ai due partiti promotori e quanti nella società civile vogliono partecipare alla nascita del Pd. Un milione tuttavia supera di poco gli iscritti ai Ds e alla Margherita. Se si resta su quella cifra o addirittura se ne sta al di sotto, ciò significa che l'apporto della società civile sarebbe pressoché irrilevante. Un vero successo si avrebbe se i votanti si attestassero sul milione e mezzo. In quel casoil peso dei simpatizzanti rispetto alle strutture e alle nomenklature dei due partiti promotori sarebbe soverchiante. Un esito di questo genere è in diretto rapporto con la forza di attrazione della candidatura Veltroni.

Il sindaco di Roma è infatti il solo dotato di un carisma capace di mobilitare interessi e valori al di là delle appartenenza di partito e di corrente. Accanto a lui, specie nell'area del Centro-nord, ci sono altri sindaci, presidenti di Provincia e di Regione, che possono convogliare consensi aggiuntivi a quelli dei due partiti promotori. La dimensione di questo potenziale afflusso è il vero punto interrogativo delle cosiddette primarie del 14 ottobre.
(24 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - La nevrosi tutta italiana delle tasse da pagare
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2007, 09:40:32 pm
POLITICA

La nevrosi tutta italiana delle tasse da pagare
di EUGENIO SCALFARI


Ieri ho telefonato a una decina di amici della generazione dei cinquantenni, variamente inseriti nelle professioni e in incarichi manageriali e ho fatto due domande: qual è secondo voi il tema più importante della vita pubblica italiana in questi giorni? E poi (seconda domanda): qual è - secondo voi - il tema che gli italiani ritengono più importante?

Ho posto ai miei amici queste due domande perché - dai fuochi che stanno bruciando mezza Sicilia e devastano terre e boschi in molte altre regioni, alle tasse, al Partito democratico, all'investitura berlusconiana di Michela Brambilla - gli argomenti non mancano e sentivo anch'io il bisogno di ascoltare un mio piccolo campione di fiducia.

Le risposte sono state le seguenti. Cosa pensano i miei amici:

1. Una statistica europea ha collocato il sistema sanitario italiano al secondo posto in Europa. Per noi, che in genere parliamo della nostra sanità come un sistema pessimo, questa è una notizia che dovrebbe stare nella prima pagina dei giornali e delle televisioni.

2. Le tasse. E qui non c'è bisogno di spiegarne il perché.

3. Il governo, il Partito democratico e il futuro del centrosinistra.

4. Il laicismo, i Dico, la bioetica.

Quali sono - secondo i miei amici - i temi che più appassionano in questi giorni gli italiani:

1. Il delitto di Garlasco.

2. Le tasse.

3. I piromani.

4. Michela Brambilla detta la Rossa.

Lascio ai lettori di valutare le risposte a queste due domande. Dal canto mio, poiché il tema delle tasse figura al secondo posto di tutte e due le indicazioni, dedicherò le mie osservazioni di oggi a questo argomento ringraziando gli amici per la loro collaborazione che, nella sua varietà, può stimolare l'attenzione del pubblico.


* * *


Comincerò dalla sortita in favore dello sciopero fiscale fatta pochi giorni fa da Massimo Calearo, presidente della Federmeccanica e vicepresidente degli industriali di Vicenza. Per le due cariche che ricopre, Calearo è uno degli esponenti di primo piano della Confindustria. Non risulta che sia un leghista. La sua dichiarazione è stata dunque fatta in nome e per conto delle associazioni imprenditoriali da lui rappresentate. Perciò è assai più seria e grave dei proclami politici di Bossi e di Calderoli.

È vero che a distanza di poche ore il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, ha vivacemente redarguito il suo collega vicentino e che quest'ultimo dal canto suo ha detto che la sua era stata una "provocazione per smuovere le acque". Ma il giorno dopo è intervenuto Montezemolo e a quel punto l'intera questione ha cambiato livello. Ha fatto, come si dice, un salto di qualità.

Che cosa ha detto Montezemolo? Nella sostanza ha detto due cose: anzitutto che la "provocazione" di Calearo rispecchia i sentimenti di gran parte degli italiani; in secondo luogo ha detto che gli industriali non pagheranno un soldo di tasse in più a meno che non vi sia in contropartita una drastica riduzione delle imposte che gravano sulle imprese.

Il tono è stato molto brusco e decisamente "radicale" nel senso che di solito si attribuisce alla sinistra massimalista che usa quel tono per affermazioni di opposto contenuto. È vero che Montezemolo, per bilanciare politicamente la sua perentoria dichiarazione, ha aggiunto che essa suona come condanna sia della politica economica del governo attuale sia di quella del precedente governo Berlusconi-Tremonti. Ma questo bilanciamento si risolve in un incitamento antipolitico che un'organizzazione semi-istituzionale come la Confindustria non dovrebbe fare se conservasse il dovuto senso di responsabilità e di misura.


* * *


Il ministero dell'Economia ha diffuso ieri gli ultimi dati sulle entrate fiscali dello Stato dopo l'autotassazione di agosto di Irpef, Ires e Irap. Sono dati molto positivi, al di là delle aspettative. In percentuale l'aumento dei primi otto mesi dell'anno confrontati con l'analogo periodo dell'anno precedente è stato del 21 per cento. A parità di aliquote e di reddito. In cifre assolute sono entrati 4 miliardi in più di quanto previsto nel Dpef dello scorso giugno e 8 miliardi in più delle previsioni del marzo. Il risultato sarebbe stato ancora maggiore se non fosse già stata scontata la spesa di 4 miliardi per la restituzione dell'Iva sulle automobili delle imprese, decisa dalla Comunità europea.

Il presidente del Consiglio, commentando queste cifre, le attribuisce al senso civico degli italiani che smentiscono con i loro comportamenti gli irresponsabili appelli allo sciopero fiscale. E preannuncia che la prossima legge finanziaria affronterà il tema dell'alleggerimento del peso fiscale sulle imprese e sulle fasce di reddito più deboli.

Il vice ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, dal canto suo ha liquidato la posizione di Montezemolo come "vacua retorica" ed ha aggiunto ai dati sulle entrate un'analisi della situazione che merita attenta riflessione.


* * *


Dice Visco che il vero problema italiano è quello dell'evasione fiscale di massa che egli definisce una vera e propria "pandemia". Dice che l'aumento delle entrate fiscali - a parità di reddito e di legislazione - è interamente dovuto al recupero di evasioni ed elusioni fiscali e che il suo ammontare dall'inizio del governo Prodi è stato di 20 miliardi. Dice che la lotta all'evasione va dunque mantenuta con lo stesso rigore fin qui applicato. Dice che il governo Berlusconi-Tremonti ci aveva lasciato in eredità una finanza pubblica prossima ad una situazione Argentina. Dice che le maggiori entrate non hanno affatto accresciuto la pressione fiscale proprio perché ottenute con recuperi dell'evasione, ma che comunque è venuto il momento di abbassarla, quella pressione fiscale, in favore delle imprese, delle micro-strutture artigianali e dei redditi più deboli. Dice infine che molti dimenticano che l'Italia ha un debito pubblico enorme che ci costa ogni anno 5 punti di Pil in più di quanto avvenga negli altri paesi europei. Questo debito si formò nel decennio 1982-'92 balzando dal 57 al 120 per cento del Pil.

Vi ricordate quegli anni? Erano quelli della "nave va" e della "Milano da bere". In realtà dell'"Italia da bere", innaffiata dal debito e dall'inflazione, una Bengodi che ha scaricato l'onere sui figli e sui nipoti senza che nessuno vigilasse e desse l'allarme salvo pochissime Cassandre (tra le quali questo giornale) inascoltate e vilipese.

Queste cose ha detto il ministro Visco, anche lui come Prodi e Padoa Schioppa tra gli ultimi in classifica nell'opinione degli italiani. Ed ecco un altro tema che non figura nelle risposte dei miei amici ma figura in una mia personale classifica della disinformazione ed anche della propensione del pubblico a fermarsi alla prima osteria senza far la fatica di approfondire e di scegliere con più attenzione le vivande delle quali cibarsi.


* * *


Io penso che il vero grave errore del governo e della maggioranza che lo sostiene (o dovrebbe sostenerlo) sia l'endemica disparità dei giudizi e la molteplicità delle ricette proposte a getto continuo da ministri, sottosegretari e capi partito, ciascuno dei quali si richiama a qualcuna delle 281 pagine di un programma elettorale in cui c'era tutto il generico dello scibile politico sciorinato con l'intento di tenere insieme una coalizione troppo lunga e strutturalmente disomogenea.

Ricordo a me stesso - come si dice per sfoggio di umiltà lessicale - d'esser stato tra i primi a segnalare questo serio anzi serissimo inconveniente dopo i primi trenta giorni dal suo insediamento parlando di "governo sciancato", il che non mi ha impedito di riconoscere i molti meriti su gran parte dei provvedimenti presi da allora ad oggi. Ma quel difetto purtroppo permane, come pure l'eccesso di annunci che sarebbe assai meglio evitare parlando soltanto dopo aver deciso e attuato le decisioni.

La rissosità governativa del resto - come ha chiarito assai bene domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera" - è stato proprio anche del centrodestra che, pur disponendo di maggioranze bulgare in Parlamento, non è riuscito a muovere neppure un piccolo passo avanti nell'attuazione del suo programma "liberale" che Berlusconi vorrebbe rilanciare oggi fondando il nuovo "Partito della libertà", anch'esso di pura plastica poggiata sulla figurina di Michela la rossa.

Queste considerazioni ci portano al tema della legge elettorale e del Partito democratico.


* * *


Walter Veltroni, in recenti e ripetute dichiarazioni, ha detto che il Partito democratico nella sua visione dovrà rinnovare l'alleanza con gli altri partiti dell'Unione ma al tempo stesso privilegiare l'omogeneità della coalizione stilando un programma chiaro, concreto, sintetico.

Ove questi due obiettivi risultassero incompatibili tra loro, quello dell'omogeneità dovrebbe avere la meglio secondo Veltroni. In tal caso il Partito democratico sarebbe costretto a presentarsi da solo, rinviando a dopo le elezioni il problema delle alleanze.

Credo che questo modo di ragionare sia interamente condivisibile. L'antipolitica è un vizio antico degli italiani, ma non c'è dubbio che essa tragga nuovo e nutriente alimento dalle risse interne alle coalizioni, amplificate come è inevitabile dal circolo mediatico che vive anche di questi scontri adempiendo al suo compito di controllo in nome e per conto della pubblica opinione.

Naturalmente se questo modo di ragionare è giusto, esso dovrebbe essere applicato anche all'interno dei partiti. Le correnti sono inevitabili e anche utili nei partiti di ampia dimensione, a condizione che esprimano diversità di posizioni e di tonalità, compatibili tuttavia entro ambiti di condivisione di obiettivi e di principi.

Da questo punto di vista a molti osservatori - ed anche a me come ho già più volte scritto - non pare che le candidature alternative a quella di Veltroni siano portatrici di posizioni differenziate. Finora queste diversità non risultano, il che conduce a pensare che si tratti piuttosto di posizionamenti per acquisire maggior voce e presenza nel quadro dirigente del futuro partito. E' un obiettivo più che legittimo in un partito democratico, ma va chiamato per quel che è.

Ci sono però due temi specifici che il nuovo partito deve con urgenza affrontare e sui quali è opportuno richiamare l'attenzione del candidato principale: uno è quello dell'elezione dei segretari regionali, se debba esser fatta il 14 ottobre insieme a quella del leader nazionale o se debba invece avvenire successivamente, quando la Costituente del partito sarà stata insediata e dovrà appunto occuparsi anche dell'organizzazione. Si può sottrarre alla Costituente un tema così importante come è il quadro regionale e i modi della sua elezione?

Il secondo tema è quello dei partiti territoriali la cui federazione darebbe vita al partito nazionale. Finora sembra di capire che Veltroni sia favorevole a questo schema federativo. Come osservatore esterno ma interessato mi permetto di dissentire. Le istituzioni dello Stato è giusto che abbiano articolazioni federali provviste di ampie autonomie culminanti nel Senato federale e nel federalismo fiscale. Ma proprio per questo i partiti debbono avere una propria personalità nazionale. Le articolazioni territoriali sono ovvie e sempre esistite, ma non possono dare luogo a partiti autonomi di scegliere alleanze non compatibili e politiche proprie come se si trattasse di altrettanti Stati confederati.

I grandi partiti esprimono convinzioni, principi, consensi su base nazionale. L'Italia è stata e ancora in gran parte è uno spezzatino di interessi e di costumanze. Non spetta ai partiti di perpetuarle e di accentuarle. Essi anzi dovrebbero avere il compito di smussarle e ricondurle ad un concetto di unità della nazione e di visione dello Stato. Si vorrebbe conoscere in proposito l'opinione dei vari candidati alla leadership e in particolare quella di Walter Veltroni.

Post scriptum. Ho letto sui giornali di ieri che Vittorio Feltri è stato insignito dal Circolo Mario Pannunzio di Torino del premio, intitolato appunto a Pannunzio. Come vecchio collaboratore del Mondo sono molto stupito: Vittorio Feltri è senza dubbio un buon giornalista ma non ha niente a che vedere con la figura professionale morale e politica di Mario Pannunzio e del Mondo. Anzi è quanto di più lontano possa mai immaginarsi rispetto al premio dato in nome del fondatore di quell'ormai epico settimanale.


da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Quel pianto di Bush sulla spalla di Dio
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2007, 09:26:41 pm
IL VETRO SOFFIATO

Quel pianto di Bush sulla spalla di Dio

di Eugenio Scalfari


Retorico? Ipocrita? Sconveniente? Io credo che la confessione del presidente americano sia stata sincera. E questo è il guaio peggiore  George BushSembra che George W. Bush attraversi una fase di intenso e sincero pentimento politico. Si è reso conto che il suo interventismo militare, l'unilateralismo delle sue decisioni, il suo sogno di esportare la democrazia nell'Oriente di mezzo, il disprezzo verso l'Europa e verso l'Onu, il bagno di sangue in Iraq, hanno creato un isolamento pauroso dell'America, la rivolta sempre più accentuata della pubblica opinione americana, il rilancio dell'opposizione democratica.

Mancano ancora 500 giorni alla fine del mandato presidenziale. Il periodo finale della presidenza è di solito quello durante il quale l'uomo più potente del mondo - come tutti pensano che sia il presidente degli Stati Uniti - cerca di passare alla storia con comportamenti che illustrino l'opera sua e diano un significato epocale alla sua politica. Un lascito di solidarietà disinteressata. L'espressione d'un sentimento morale che prevalga sugli interessi lobbistici affermando al di sopra di essi ideali di giustizia e di solidarietà.

Ma Bush difficilmente riuscirà a 'immortalare' i suoi otto anni di presidenza. Il tentativo in corso sembra dunque ridotto a limitare i danni, a disfarsi del team di consiglieri e di collaboratori che l'hanno spinto su una via rovinosa e ad ammettere con sincerità gli errori compiuti confessandoli al paese senza invocare attenuanti.

Così sembra che stia accadendo. Il verbo sembrare è d'obbligo perché i segnali che questa sia la strada intrapresa da Bush sono ancora molto ambigui e contraddittori. È vero che una buona parte del suo staff è stata mandata a casa, ma i rimpiazzi non brillano per caratteristiche che esprimano una linea politica opposta a quella fin qui seguita. Nella maggior parte dei casi si tratta di sostituzioni incolori. D'altra parte il vicepresidente Cheney - rappresentante numero uno della politica conservatrice, degli interessi petroliferi e dell'intervento militare in Medio Oriente - si è visibilmente rafforzato negli ultimi mesi e resta un alfiere della continuità senza alcuna disponibilità a pentimenti e a tardivi scrupoli.

Non è tuttavia di questa possibile inversione di marcia bushana che vogliamo qui discutere, quanto di una frase, anzi d'una immagine assai suggestiva contenuta in un'intervista autobiografica anticipata qualche giorno fa dal 'New York Times'. "Ho pianto a lungo sulla spalla di Dio". Non è bellissima? Non è poetica? Non è l'espressione sincera di un ravvedimento operoso che dovrebbe servire di incitamento e di esempio a tutti gli americani?

Non sappiamo ancora quali saranno le reazioni dell'opinione pubblica di quel Paese; nella peggiore delle ipotesi (per Bush) gli si potrebbe obiettare che avrebbe potuto pentirsi prima; un'altra ipotesi, più ottimistica, si esprime con la frase "meglio tardi che mai". Infine una terza: si commuoverà e piangerà insieme a lui assicurando un lieto fine ad una oggettiva catastrofe politica e ad una tragedia umana documentata da migliaia di vittime militari e da molte decine di migliaia di vittime civili (ma c'è anche chi parla di centinaia di migliaia).

Vedremo nelle prossime settimane come evolverà la catarsi di George Bush, ma intanto vorrei proporre ai nostri lettori una domanda: come sarebbe accolta in Italia e in Europa una confessione come quella compiuta da Bush nella sua intervista autobiografica? "Ho pianto a lungo sulla spalla di Dio" è una frase che si può dire oppure è una frase inaudita, inaudibile, scandalosa da parte di un uomo che è assiso al vertice del potere americano e mondiale?

Io credo che in Europa un'espressione simile verrebbe presa - come si suol dire - con le molle. Retorica, certamente. Accettabile da un poeta o da un sedicente profeta, da un uomo di religione, ma non da uno statista. Ipocrita, detta da chi è responsabile di eccidi e crimini paurosi. Espressione di luciferina superbia perché Dio non è uno scendiletto o un inginocchiatoio privato al quale ci si può avvicinare per fare un piantino riparatore come fanno i bambini sulla spalla delle mamme.


Infine gli europei sono in maggioranza laici anche se credenti; utilizzare Dio per un'operazione politica credo sarebbe giudicato sconveniente da una larghissima maggioranza. Forse ad eccezione di Clemente Mastella, di Pier Ferdinando Casini e, perché no, di Silvio Berlusconi che ne dice tante e poi tante da non stupirsi di nulla.

Dal canto mio penso che Bush non sia stato né ipocrita né blasfemo. Penso anche che alla maggior parte degli americani quella frase non sia sembrata inaudita. Non dimentichiamo che Bush è un 'cristiano rinato', con tutte le ingenuità e le forzature del neofita. E non dimentichiamo neppure che la religione in America è vissuta assai diversamente che in Europa. La Bibbia e il fucile: questo era il simbolo dei pionieri.

Insomma, credo che Bush sia stato sincero. E questo in realtà è il guaio peggiore che possa capitarci.

(07 settembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - La trottola impazzita che affossa i mercati
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2007, 07:40:15 pm
POLITICA

A proposito della crisi immobiliare-finanziaria che non si è affatto spenta come alcuni ottimisti ritenevano e come tutti speravamo

La trottola impazzita che affossa i mercati

Tra la finanza e la domanda-offerta di beni e servizi non esiste più alcuna barriera

di EUGENIO SCALFARI

 

PURTROPPO bisogna di nuovo tornare sul tema della crisi immobiliare-finanziaria che non si è affatto spenta come alcuni ottimisti ritenevano e come tutti speravamo al di là e al di qua dell'Atlantico. Non si è spenta per varie ragioni e sta tracimando sulla cosiddetta economia reale. In realtà la globalizzazione finanziaria ha cancellato questa distinzione scolastica; tra la finanza e la domanda-offerta di beni e servizi non esiste più alcuna effettiva barriera e chi si ostina a pensare come se quella barriera esistesse sbaglia sia la diagnosi sia la terapia.

Fin dall'inizio, ai primi d'agosto, a noi sembrò chiaro che il terremoto che aveva come epicentro la bolla immobiliare americana avrebbe rapidamente coinvolto non solo alcuni fondi "aggressivi" e alcune istituzioni impegnate nel settore dei mutui ipotecari, ma anche le aspettative di investimento nell'edilizia e nel vastissimo reticolo di aziende che lavorano nell'indotto edile.

Le aspettative negative avrebbero avuto ripercussioni sulla domanda di investimenti e quindi sull'occupazione. Le Borse avrebbero registrato questi fenomeni attraverso strappi al ribasso sempre più forti in tutte le voci del listino.

Tutto ciò è regolarmente avvenuto. Ma si sperava - irragionevolmente - che il calo di domanda per investimenti non mettesse in discussione la domanda di consumi. E poiché i consumi nelle società opulente rappresentano una quota molto più consistente degli investimenti, l'irragionevole fiducia nella loro tenuta alimentava un moderato ottimismo.

Ancora una volta, cioè, ci si aggrappava ad una distinzione puramente scolastica, inesistente nella realtà. La domanda di consumi era già falcidiata dallo sgonfiamento disordinato della domanda di case e di beni e servizi connessi con il mercato edilizio e dalle insolvenze di molti fondi. A questo primo taglio della domanda si è aggiunto quello proveniente dai ribassi delle Borse (particolarmente importante nei paesi dove l'investimento del risparmio in valori mobiliari rappresenta un fenomeno di massa).

Infine i primi licenziamenti e le mancate nuove assunzioni nel mercato del lavoro, che hanno accentuato le aspettative negative di ulteriori tagli nella formazione del reddito e quindi un crescente trend a monetizzare il risparmio.

Tutti questi fenomeni strettamente connessi tra loro hanno rotto le briglie con sorprendente rapidità, specie nei paesi dove la flessibilità del lavoro è pressoché totale. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: languono gli investimenti edilizi, i consumi indietreggiano, la liquidità sul mercato è in diminuzione, aumentano le insolvenze, le banche non si fidano delle altre banche, i tassi overnight (a brevissimo termine) sono rincarati di almeno 40 punti-base, i prestiti interbancari a tre mesi di 70 punti base.

Le Banche centrali in Usa e in Europa hanno per fortuna seguito una linea comune iniettando liquidità con ampie operazioni. Ampie, ma con velocissimi rientri. Molti osservatori ed esperti (?) continuano a commettere l'errore di sommare le varie immissioni di liquidità arrivando a totali di centinaia di miliardi di dollari e di euro. Totali inesistenti quando si parla di prestiti tra Banche centrali e banche ordinarie della durata di 24-48 ore, salvo quelli trimestrali che hanno infatti tassi molto più alti e rappresentano una massa assai minore delle operazioni complessive.

L'immissione di liquidità, indispensabile per costruire attorno ai sistemi bancari internazionali una rete di relativa sicurezza, ha tuttavia scarsi effetti su una crisi che si protrae coinvolgendo i cosiddetti "fondamentali". Scarsi effetti poiché le aspettative negative degli operatori e dei risparmiatori si stanno orientando verso la monetizzazione. Vengono cioè chiuse le posizioni rischiose e vengono aperte posizioni in impieghi liquidi. Un tempo si mettevano i risparmi "sotto il materasso"; oggi si collocano in fondi "monetari", in titoli pubblici, in obbligazioni di massima garanzia e di tipo assicurativo, di immediata negoziabilità.

Movimenti di questa natura hanno l'effetto di far sparire il capitale di rischio dal mercato facendo dimagrire fortemente i flussi di finanziamento alle imprese. Non è la liquidità che manca, ma gira su se stessa senza sbocco come una trottola impazzita. Gira da un fondo all'altro, da una banca all'altra, dalle Banche centrali agli istituti di credito ordinari, appunto come una trottola che si avvita su se stessa. Nessun imprenditore oggi sarebbe in grado di lanciare tra il pubblico un aumento di capitale della sua impresa o un'Opa. Le fusioni tra imprese restano possibili solo attraverso scambio reciproco di titoli. I take over sono diventati rari. Quanto al "nanismo" delle aziende - fenomeno particolarmente diffuso in Italia - tentare di spingerlo verso dimensioni aziendali più ampie e ottimali è diventata nelle attuali condizioni del mercato e delle aspettative un'impresa impossibile.
Questo, dopo un mese e mezzo dall'inizio della crisi, è lo stato dei fatti. Scrivemmo ai primi d'agosto che il solo paragone possibile era con la crisi del '29. Gli esperti (?) dissero di no, che il paragone era sbagliato. Ma sono loro che continuano a sbagliare. La crisi del '29 - che trasse origine anch'essa dallo sgonfiarsi improvviso d'una bolla immobiliare e borsistica - creò un blocco degli investimenti, un'insolvenza diffusa, il crollo dell'occupazione, del reddito e dei consumi.
Naturalmente in situazioni diverse: c'era guerra tra le Banche centrali, guerra tra le monete, erraticità dei cambi. Oggi siamo meglio attrezzati da questo punto di vista ma la natura del sisma è assolutamente identica. Se poi si decide di non nominare il '29 per non spaventare la gente, è un altro discorso; e se si decide questo tipo di autocensura per non risvegliare il ricordo dei rimedi proposti allora da Keynes e praticati da Roosevelt, è un altro discorso ancora. Discorsi ipocriti che producono solo chiacchiere senza formulare alcuna valida diagnosi e terapia.

* * *

Il tema della crisi immobiliare-finanziaria ci riporta a questo punto in patria per esaminare la congruità della manovra di politica economica che il nostro governo sta elaborando, delle varianti sostenute dalla sinistra radicale, dell'opposizione a tutto campo preannunciata dal centrodestra e dalla martellante campagna di Montezemolo sull'abbattimento delle imposte che gravano sull'industria italiana.

Sembrerebbe che vi siano dissensi anche in campo riformista. Si dice che la manovra ammonterà a 14 miliardi a costo zero: ogni spesa in più dovrà essere finanziata con risorse proveniente da tagli di altri spese. La pressione fiscale non dovrà aumentare, quindi niente inasprimenti e niente nuove tasse. Le maggiori entrate già in cassa o in corso di entrarvi serviranno a finanziare provvedimenti già decisi come il bonus di 300 euro a 3 milioni di pensionati che stanno sotto ai 500 euro al mese e l'accordo con i pubblici dipendenti per quanto riguarda il contratto firmato in luglio e scaduto nel 2006. Ma ci sarà anche un ribasso dell'Ici con modalità allo studio. A ciò si aggiunga il taglio di 3 punti di cuneo fiscale per complessivi 4 miliardi e mezzo, già operativo, il cui finanziamento fa parte della legge finanziaria 2007.
Questi provvedimenti, pur apprezzabili e apprezzati dalla sinistra radicale da un lato e da Montezemolo dall'altro, sono giudicati insufficienti. La sinistra radicale vorrebbe emendare l'accordo sulle pensioni, propone altri sgravi sui redditi bassi e sui salari dei lavoratori dipendenti. La Confindustria chiede un taglio drastico di almeno 5 punti sulle imposte che gravano sull'industria, pronta a scambiarlo con l'abolizione degli incentivi alle imprese tuttora vigenti.
L'opposizione dice di no a tutto senza finora proporre nulla. Ma Tremonti sta studiando...

* * *

Padoa-Schioppa vuole trasferire una parte della spesa improduttiva agli investimenti più carenti: infrastrutture, scuola, ricerca, sanità, sicurezza. Ha preparato un "libro verde" che segnala una serie di vistose distorsioni. Vuole cominciare a dare qualche concreta prova di questo risanamento qualitativo mai sperimentato da alcuno negli ultimi vent'anni. È invece contrario a riduzioni immediate di imposte. Lo scambio proposto da Montezemolo non si effettuerebbe a costo zero perché l'abolizione degli incentivi coprirebbe a stento un terzo della somma necessaria per ridurre di 5 punti le imposte sulle imprese. Veltroni dal canto suo vorrebbe uno sforzo in più, ma Padoa-Schioppa non vede da dove prendere i soldi necessari. Se verranno fuori qualche cosa si farà, altrimenti si rinvierà ai prossimi esercizi. Prodi ci spera ma non abbandona il suo ministro del Tesoro.

In proposito ecco quattro riflessioni su questi controversi temi:

1. Bisognerebbe sempre premettere, quando si fanno confronti con altri Paesi, che il nostro bilancio è gravato da un debito pubblico che pesa per 70 miliardi all'anno. Non c'è Paese al mondo con un debito e un onere di queste proporzioni. Sinistra radicale e Confindustria si dimenticano sempre questo non piccolo dettaglio. Un debito che fu fatto durante il decennio degli anni Ottanta dalla Dc con l'attivo concorso di socialisti, comunisti e partiti laici minori.

2. Le imprese hanno ottenuto un taglio di 3 punti dell'Irap, già in corso di realizzazione, per un complessivo ammontare di 4 miliardi e mezzo. In Germania la Merkel ha fatto molto di più ma il debito pubblico tedesco è meno della metà del nostro.

3. La sinistra radicale sorvola sia sul debito sia sull'aumento delle pensioni minime per 3 milioni di pensionati sia sull'abolizione dello scalone sui pensionandi con un costo di 10 miliardi per il bilancio dello Stato. (Rossanda vuole sapere se il bilancio delle gestione contributiva dell'Inps sia in pareggio. Lo è, ma va in largo passivo con le uscite di tipo assistenziale. Se quelle uscite vengono tolte all'Inps bisognerebbe pagarle con altre tasse o abolire i servizi. Rossanda ha suggerimenti in materia?).

4. Padoa-Schioppa ha stabilito che il rapporto deficit/Pil vada mantenuto al 2.2 per cento nel 2008 come da impegni assunti a Bruxelles dal governo Berlusconi e confermati da quello attuale. Il proposito del ministro del Tesoro è encomiabile ma quando quell'impegno fu preso la crisi finanziaria mondiale non era scoppiata e le previsioni sul Pil erano migliori di quelle di oggi. Se i governi debbono sostenere la domanda globale con un'azione che compenserà gli effetti recessivi della crisi, credo che il rapporto deficit/Pil potrebbe essere portato fino al 2.5 senza danno e anzi con vantaggio. Del resto anche la Bce s'era impegnata ad innalzare i tassi di interesse a settembre ma ha cambiato politica, quindi potrebbe cambiarla su un punto abbastanza marginale anche il governo italiano.

La conseguenza sarebbe un aumento del fabbisogno che si potrebbe però compensare con tagli di spese maggiori del previsto e/o con alienazioni di patrimonio pubblico prefinanziate dal sistema bancario. In totale si tratta di uno scostamento di 5 miliardi di euro, che non è la fine del mondo.

Nell'eventualità che quest'ipotesi sia percorsa e percorribile si pone il problema di come usare quella cifra. Forse in parte per ridurre ancora Irap e Ires. Un'altra parte per sostenere i redditi degli incapienti, dei giovani e delle famiglie.

Vorrei anche far notare che negli undici anni dal '95 al 2006 le imposte riscosse dal fisco sono aumentate del 12 per cento in termini reali; nello stesso periodo il Pil è aumentato del 20 per cento e le imposte riscosse dagli enti locali sono aumentate del 111 per cento. E' vero che alcuni trasferimenti dal centro alla periferia sono stati ridotti o cancellati, ma non in quelle dimensioni. Non è questione da poco quella di tirare la briglia alla finanza locale. Una buona parte della pressione fiscale e del debito pubblico viene proprio da lì.

Post Scriptum. Molti emeriti collaboratori del Corriere della Sera si susseguono a recensire il libretto di fresca pubblicazione scritto da altri collaboratori di quel giornale (nel caso specifico Giavazzi e Alesina) con il titolo "Il liberismo è di sinistra". Pare, stando ai recensori, che sarà il libro più importante di questa stagione editoriale con robusti effetti anche sul dibattito politico e sulle decisioni del governo.
Avendolo letto anch'io per ragioni d'ufficio, non vi ho trovato granché da discutere. Mi è sembrato un tessuto di domandine retoriche che, per come sono formulate, contengono già le risposte. È di destra o di sinistra liberalizzare i mercati? È di destra o di sinistra favorire i figli anziché i padri e i nonni? È di destra o di sinistra assicurare la legalità? Far funzionare meglio e con minori costi la sanità, la giustizia, le infrastrutture?

Siamo ai dibattiti che satiricamente si tenevano nel salotto di Arbore nella trasmissione Quelli della notte. Ebbene non è né di destra né di sinistra risolvere questi problemi che rappresentano le condizioni per un funzionamento normale della società. In Italia vige un sistema corporativo. Da quando? Da sempre. Perché? A questo bisognerebbe rispondere. Noi ci abbiamo provato più volte.

Il libro di Alesina-Giavazzi considera il mercato come uno strumento al quale bisognerebbe rimettere la soluzione dei problemi. Ma i due economisti non ignorano - visto che insegnano una disciplina che si chiama Economia Politica - che il mercato fornisce risposte in presenza di una data distribuzione della ricchezza. Se quella distribuzione fosse diversa anche le risposte del mercato lo sarebbero.

Luigi Einaudi ipotizzò teoricamente una società nella quale gran parte della ricchezza accumulata e trasmessa per eredità fosse redistribuita ad ogni generazione. Tutta la struttura dei prezzi e l'allocazione delle risorse ne sarebbe risultata rivoluzionata. Quindi ragionare sul mercato e affidarsi ad esso come fosse uno strumento neutrale è un'assoluta sciocchezza.

Infine gli autori del libro si domandano perché i governi non operino per favorire i consumatori anziché le lobby che rappresentano i produttori. C'è ovviamente del vero in quella domanda, ma non va ignorato che non esiste un consumatore allo stato puro che non sia allo stesso tempo anche un produttore; con una mano consuma e con l'altra lavora per procurarsi il reddito destinato a farlo vivere. Sicché i provvedimenti che favoriscono alcuni consumi sono accolti con favore dagli utenti o consumatori di quei beni e di quei servizi, ma non da chi li offre sul mercato. Tutti gli altri poi sono indifferenti.
Micro esempio: le licenze dei tassisti e le tariffe dei taxi. Gli utenti dei taxi sono lieti di provvedimenti che liberalizzano quel mercato. I tassisti invece sono furibondi. Le persone che dispongono di automobile e autista se ne infischiano. La massa dei poco abbienti va a piedi o con i mezzi pubblici e anch'essa se ne infischia. Così più o meno avviene in tutti i settori e questa è la vera ragione per cui non esiste un partito dei consumatori in nessun Paese dell'Occidente.
Può dispiacere. A me personalmente dispiace. Ma con i dati di fatto è inutile polemizzare. Per dire che il liberismo ha pochi fautori perché parte da premesse del tutto irreali. Quanto al liberalismo, quella è un'altra cosa.

(9 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... L'invasione barbarica di Grillo
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2007, 06:56:15 pm
CRONACA

IL COMMENTO

L'invasione barbarica di Grillo

di EUGENIO SCALFARI


HO VOLUTO aspettare qualche giorno prima di scrivere su Beppe Grillo e sul "grillismo". Ho letto le cronache, i commenti, le domande e le risposte. Ed ho riflettuto e ricordato. Infatti il fenomeno della piazza Maggiore di Bologna non è affatto una novità. In Italia c'è una lunga tradizione di "tribuni" e capi-popolo, un germe che ha messo radici da secoli e che rimane una latenza costante nell'"humus" anarcoide e individualista della nostra gente.

Quel filone - per fortuna - è mescolato con molti altri elementi: la nostra è una gente laboriosa, paziente, capace di adattamenti impensabili, generosa. Ad una cosa non si è mai adattata: a pensare e a comportarsi come partecipe d'una comunità, d'una struttura sociale con leggi e regole da rispettare anche quando sembrano danneggiare il proprio particolare interesse.

L'anarco-individualismo è un virus che corre sotto traccia ma spesso emerge ed esplode in superficie. I suoi avversari sono inevitabilmente sempre gli stessi: il potere costituito e il potere immaginato, quelli che fanno le leggi e quelli che le propongono e le attuano. L'anarco-sindacalismo è per definizione il nemico dell'autorità. Può rappresentare una necessaria valvola di sfogo quando provoca l'insorgenza contro regimi autoritari e dittatoriali (ma avviene di rado); ma diventa anacronistico in regimi di diffusa democrazia dove esistono forme di opposizione e di denuncia più efficaci e molto più civili di quella di radunarsi o marciare dietro cartelli con su scritto "Vaffanculo".

Non sono affatto d'accordo su quanti dicono che il "Vaffa-day" è solo un dettaglio folcloristico dovuto alla dimensione comica del primo attore. La forma - specie nella vita pubblica - è sostanza e chi inneggia al "Vaffanculo" partecipa consapevolmente a quelle invasioni barbariche che connotano gran parte della nostra mediocre e inselvaggita attualità.

* * *

È vero che la classe dirigente nella sua interezza ha reso plausibili anche le critiche più radicali. Soprattutto quella di non aver fornito alla società un esempio e un punto di riferimento capace di orientare il pubblico verso la ricerca del bene comune e della felicità propria e altrui.

Ho letto il commento di Fausto Bertinotti al raduno dei "grillisti" e ai tavoli per la raccolta della firme sotto la proposta di legge sponsorizzata da Grillo. Bertinotti ha sempre privilegiato la società rispetto alle istituzioni, la piazza rispetto al governo. Ma tenendo fisso il criterio dell'insostituibilità dei partiti, che lui vede come laboratori ideologici specializzati nella cultura dell'ossimoro. Che però volesse cavalcare il "grillismo" - sia pure con tutti i distinguo - questa è un'assoluta novità. Bertinotti esalta "l'esistente" affermando che è inutile polemizzare con esso. Fossero vivi i fratelli Rosselli ed Ernesto Rossi, avrebbero di che rispondergli su questo delicatissimo argomento.

All'entusiasmo "grillista" di Di Pietro non c'è invece da far caso. L'ex sostituto procuratore di Milano confonde - e non è la prima volta - Mani pulite con il giustizialismo di piazza e non si accorge che così facendo fa un pessimo servizio alla lotta che il Tribunale di Milano impegnò nel '92 contro la pubblica corruttela e contro i corruttori, i concussori, i corrotti che erano diventati da singoli casi giudiziari reati di massa pervadendo e deformando l'intero sistema degli appalti e insidiando le basi stesse della democrazia.

Ma Di Pietro, si sa, non va per il sottile. Non c'è andato neppure nella scelta dei candidati del suo partito, come purtroppo si è visto. Cerca sgabelli sui quali salire. Ma Grillo - questo è certo - non è sgabello se non di se stesso, come mezzo secolo fa capitò a Guglielmo Giannini: quando il suo "Uomo qualunque" mandò in Parlamento trenta deputati furono in molti a tentar di mettervi le mani sopra, la Dc, i liberali, i monarchici. Non ci riuscirono e ben presto tutto si ruppe in tanti pezzetti.

* * *

Movimenti d'opinione di natura antipolitica, come quello di cui stiamo discutendo, e rompono dal seno della società e poi declinano rapidamente. La politica non è un'invenzione di qualche mente corrotta o malata, ma una categoria della vita associata. Il governo della "polis", cioè della città, cioè dello Stato. L'antipolitica pretende di abbattere la divisione tra governo e governati instaurando il governo assembleare. L'"agorà". La piazza. L'equivalente del blog di Internet. Infatti la vera novità del "grillismo" è l'uso della Rete per scopi di appuntamento politico (o antipolitico).

Ma nella Rete si vede più che mai il carattere personalizzato dell'"agorà"; di ogni "agorà". Da quella di Cola di Rienzo a quella di Masaniello, da quella di Savonarola a quella di Camillo Desmoulins. Il blog ha infatti un'intestazione ed è l'intestatario che indica la via, che formula gli slogan, che produce gli spot. E' lui insomma il padrone di casa che guida e domina l'assemblea.

In realtà il governo assembleare è sempre stato una tappa, l'anticamera delle dittature. La storia ne fornisce una serie infinita di conferme senza eccezione alcuna. Proprio per questo quando vedo prender corpo un movimento del tipo del "grillismo" mi viene la pelle d'oca; ci vedo dietro l'ombra del "law & order" nei suoi aspetti più ripugnanti; ci vedo dietro la dittatura.

Non inganni lo slogan "né di destra né di sinistra". Si tratta infatti di uno slogan della peggiore destra, quella populista, demagogica, qualunquista che cerca un capo in grado di de-responsabilizzarla.

Il più vivo desiderio delle masse, cioè dell'individuo ridotto a folla e a massa, è di essere de-responsabilizzato. Vuole questo. Vuole pensare e prendersi cura della propria felicità delegando ad altri il compito di pensare e decidere per tutti. Delega in bianco, semmai con una scadenza. Ma le scadenze, si sa, sono scritte con inchiostri molto leggeri che si cancellano in breve tempo. Il potere, una volta conquistato, ha mille modi per perpetuarsi.

L'antipolitica è sempre servita a questo: piazza pulita per il futuro dittatore. Che non sarà certo uno come Grillo. Il dittatore quelli come Grillo li premiano e poi li mettono in galera. E' sempre andata così.

* * *

Spero che molti abbiano letto il discorso pronunciato da David Grossman all'apertura del Festival della letteratura a Berlino, che Repubblica ha pubblicato nel numero di mercoledì 5 settembre. E' un testo di grande significato e di grande stile e mi permetto di raccomandarne la lettura ed anche la rilettura perché merita d'esser meditato e possibilmente trasformato in propria sostanza.

Mi spiace rimescolare l'alta prosa di Grossman a questioni tanto più mediocri e volgari come il raduno dei sostenitori di "Vaffa". Ma quel pensiero e il testo che lo contiene toccano tra le tante altre cose anche il tema della riduzione dell'individuo a massa, lo schiacciamento dell'individuo, il suo divenire succube di slogan inventati per imporli a lui che inconsapevolmente li adotta e se ne compiace.

Quel tema è l'aspetto drammatico della civiltà di massa, della società di massa e dei "mass media" che ne diffondono l'immagine sovrapponendola all'immagine individuale. Un aspetto al quale è difficilissimo sottrarsi perché ci invade e ci pervade quasi in ogni istante della nostra esistenza. La modernità porta con sé questo virus micidiale: la riduzione dell'individuo a massa, materiale malleabile e plasmabile, materia per mani forti e dure. La massa riporta gli adulti all'infanzia e alla sua plasmabilità. Alla sua manipolazione. Questo - in mezzo a molte virtù innovative - è il delitto della modernità, il virus dal quale bisogna guardarsi e contro il quale bisogna mobilitare tutti gli anticorpi di cui disponiamo.

Ma ascoltiamo Grossman.

"Ci fa comodo, quando si parla di responsabilità personale, far parte d'una massa indistinta, priva di volto, d'identità e all'apparenza libera da oneri e colpe. Probabilmente è questa la grande domanda che l'uomo moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento io divento massa?"

"Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di sé. Io ho l'impressione che ci trasformiamo in massa nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri".

"I valori e gli orizzonti del nostro mondo e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo "mass media". Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Ci rendiamo conto che gran parte di essi trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trasformando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un'atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce rendendo "kitsch" tutto ciò che tocchiamo: le guerre, la morte, l'amore, l'intimità. In molti modi, palesi o nascosti, liberano l'individuo da ciò di cui lui è ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni ed omissioni. E' questo il messaggio dei "mass media": un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni ad essere significative ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo "zapping"".

Mi perdonerete, cari lettori, la citazione forse è troppo lunga, ma questo brano del discorso di Grossman è così attuale al nostro tema che credo ne sia l'indispensabile compimento. Egli inoltre addossa una parte rilevante di quanto accade nello schiacciamento dell'individuo sulla massa ai mezzi di comunicazione, al loro funzionamento che ormai ha preso la mano a quasi tutti quelli che operano in quel settore, al "sistema" che tutti insieme hanno costituito, dove la moneta cattiva scaccia la buona e la concorrenza paradossalmente funziona più per peggiorare il prodotto che per migliorarlo.

Chi che come me ha dedicato una parte della vita ai giornali ed ha vissuto da giornalista tra i giornalisti conosce bene questa realtà ed anche l'estrema difficoltà di sottrarvisi. Eppure è uno sforzo che a questo punto occorre fare. Ne verrebbe un forte miglioramento alla qualità della vita pubblica, una vera e non fittizia attenzione alla moralità e anche la gratificazione d'aver innovato un modo di comunicare in direzione contraria ai "Vaffa" che ormai ci serrano da ogni parte trasformando il linguaggio in un dialetto da taverna.

* * *

Mi resta ancora da esaminare i tre quesiti proposti ai tavoli delle firme da Beppe Grillo. Molti che hanno firmato distinguono infatti la firma di quei quesiti dall'adesione al "grillismo".

La distinzione è assolutamente legittima: si può firmare anche valutando il movimento dei "Vaffa" per ciò che è. Ma esaminiamoli nella sostanza quei tre quesiti.

Il primo stabilisce che tutti i cittadini che concorrono a cariche elettive debbano essere scelti attraverso elezioni primarie preliminari. Questo principio mi sembra meritevole di essere accolto. Il Partito democratico, tanto per dire, ha deciso di farlo proprio. Tutto sta a come saranno organizzate queste primarie. Grillo per esempio ha definito una "mascalzonata" l'esclusione di Pannella e di Di Pietro dalle candidature per la leadership del Pd, ignorando che entrambi fanno parte di altri partiti e anzi li guidano e non hanno accettato di abbandonarli all'atto della candidatura. Come se un nostro condomino, invocando questa qualifica, pretendesse di decidere assieme a noi e ai nostri figli questioni strettamente familiari. Dov'è la logica?

Il secondo quesito vieta ai membri del Parlamento di farne parte per più di due legislature. Questo divieto è una pura sciocchezza. Ci obbligherebbe a rinunciare ad esperienze talvolta preziose. Forse anche a molti vizi acquisiti durante l'esercizio del mandato. Ma quei vizi non possono essere presupposti e affidati all'automatismo di una norma. Spetta agli elettori discernere tra vizi e virtù e decidere del loro voto. Per di più una norma automatica del genere sarebbe incostituzionale perché priverebbe l'elettore di una sua essenziale facoltà che è quella di poter votare per chi gli pare. Che cosa sarebbe successo per esempio se nei primi anni Cinquanta fosse stato impedito agli elettori democristiani di votare una terza volta per De Gasperi, a quelli comunisti per Togliatti, ai socialisti per Nenni e ai repubblicani per Pacciardi o La Malfa?

Il terzo quesito - impedire ai condannati fin dal primo grado di giurisdizione di far parte del Parlamento - sembra a prima vista ineccepibile. Per tutti i reati? E fin dal primo grado di giurisdizione? La presunzione d'innocenza è un principio sancito dalla nostra Costituzione; per modificarlo ci vuole una legge costituzionale, non basta una legge ordinaria. I reati d'opinione andrebbero sanzionati come gli altri? Quando Gramsci, Pertini, Saragat, Pajetta, furono arrestati io credo che gli elettori di quei partiti li avrebbero votati e mandati in Parlamento se un Parlamento elettivo fosse ancora esistito e se quei partiti non fossero stati sciolti d'imperio. Personalmente ho fatto un'esperienza in qualche modo consimile: entrai alla Camera dei deputati nel 1968 sull'onda dello scandalo Sifar-De Lorenzo nonostante o proprio perché ero stato condannato in primo grado dal tribunale di Roma. Lo ricordo perché è un piccolissimo esempio di una proposta aberrante.

Questioni complesse - ha scritto il Grossman sopracitato - quando sono semplificate sopprimono la responsabilità personale dell'individuo e ottundono le sue capacità critiche. Ma è proprio a quelle capacità che è affidato il nostro futuro.

(12 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... Il popolo che cerca il giudizio universale
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2007, 12:24:25 pm
CRONACA

IL COMMENTO

Il popolo che cerca il giudizio universale

di EUGENIO SCALFARI


DICONO che Prodi, a chi gli faceva osservare con disappunto che il consenso attorno al suo governo non dava alcun segno di ripresa nonostante il discreto andamento dell'economia e alcuni provvedimenti del governo senz'altro positivi, avrebbe risposto: "Non ti preoccupare. Già la Finanziaria del 2007 comincia ad esser giudicata in modo più favorevole dei mesi scorsi. Abbiamo ancora quattro anni di tempo. Alla fine della legislatura la maggioranza degli italiani darà un giudizio favorevole sul nostro operato".

Può darsi che Prodi abbia ragione e che le cose andranno così. Come cittadino e anche come giornalista che ha sempre riconosciuto al presidente del Consiglio una tenacia a prova di bomba, me lo auguro. Però non sono d'accordo. Per due ragioni. La prima è che l'attuale consenso riscosso dal governo è tecnicamente troppo basso, come un aereo che è sceso talmente verso terra da correre ad ogni attimo il pericolo di avvitarsi su se stesso rendendo inutile e anzi impossibile ogni tentativo di recuperare la linea di volo.

Ma la seconda ragione è ancora più decisiva della prima: cresce la quantità di cittadini che rifiutano in blocco questa classe politica.

Che questo atteggiamento si possa definire antipolitico (come personalmente ritengo) oppure politico al massimo grado perché non è frutto di indifferenza ma di partecipazione attiva e combattiva (come sostengono rabbiosamente tutti quelli che hanno risposto all'appello del "Vaffa-day") è questione opinabile, ma non cambia la sostanza nelle cose. C'è un crescente rifiuto di "questa" politica di "questi" partiti, di "questi" uomini politici.

Tutti, nessuno escluso. Loro e tutto il mondo che - secondo le persone che condividono quello stato d'animo - ruota intorno a loro.

Rifiuto totale. Su tutti i piani e a tutti i livelli: le tasse, la sicurezza, la legalità, le disuguaglianze, la libertà. Pollice verso su tutto. Se ne devono andare.

Dopo il mio articolo su Grillo ho ricevuto 57 lettere tutte dello stesso tenore. Alcune, non tutte ma parecchie, scagliano il loro "Vaffa" declinato nella versione completa contro di me e la riga sotto concludono con un "cordiali saluti" in omaggio alla buona educazione d'un tempo.

Argomenti? Pochi. Uno in realtà ed è quello già citato: dovete andarvene, si deve ricominciare da zero, la nuova "agorà" sarà la rete, il metodo della democrazia rappresentativa non rappresenta nessuno, la forma non è sostanza ma pura e semplice ipocrisia, l'Italia non è quella che vedete dai vostri salotti ma quella di chi lavora e non guadagna abbastanza da poter campare.

Insomma tutto il male da una parte e tutto il bene dall'altra, le menzogne da una parte e la verità dall'altra, l'illegalità di qua e la legalità - quella autentica - di là. Questo è il modo di pensare di molti ed è in crescita.

Dubito molto che un taglio dell'Ici o dell'Ires o dell'Irpef possa modificare la situazione anche se bisogna continuare a lavorare come se si vivesse mille anni, guardando al domani e non solo all'oggi.

Dubito che serva spiegare e spiegarsi. Quando il pollice della folla è rivolto all'ingiù ci vogliono colpi di scena per fargli cambiare posizione. Ci vogliono emozioni che capovolgano emozioni di segno opposto. Questa équipe politica tutto può fare salvo che suscitare emozioni in proprio favore.

Per queste ragioni credo che sia molto difficile riportare l'aereo governativo a livello di crociera anche perché pochissimi del personale navigante mostrano di aver capito quello che sta accadendo.

E' probabile che tra sei mesi o tra un anno la gente sia stufa di esibire il pollice verso. Questo genere di ventate passa presto ma dietro di sé lascia un terreno devastato.

Il mitico Sessantotto insegna. Dopo arrivarono gli anni di piombo, l'indifferenza, il richiamo all'ordine. Una parte dei sessantottini di allora rientrò nel mondo della realtà concreta di tutti i giorni; altri finirono nella clandestinità, nel sangue e in galera; altri ancora fecero carriera nei percorsi che avevano vilipeso e desacralizzato.

Di solito va così. Ma qui non siamo in una situazione che consenta lunghe attese. Il tempo passa presto, come dice la canzone. Il distacco tra la città della politica e i sentimenti delle persone è diventato difficile da colmare.

Veltroni ci sta provando ma anche per lui le difficoltà aumentano.

Dicevo che ci vorrebbe un colpo di scena, un segnale preciso che inverta il "trend". Per esempio il taglio del numero dei ministri e dei sottosegretari.

Non annunciarlo ma farlo. La politica degli annunci è deleteria.

L'operazione del taglio dei ministri è difficilissima, come voler prendere il miele da un alveare mentre le api sono tutte nelle loro cellette e non hanno alcuna intenzione di volar via. Ma, se fatta con saggia incisività, sarebbe un colpo di scena coi fiocchi. Scommetto che non si farà. Quand'anche il presidente del Consiglio si convincesse alla bontà dell'operazione, non avrebbe i poteri per imporla.

Avrebbe bisogno che tutti i ministri e i partiti che sono dietro di loro fossero d'accordo; che ciascuno gli affidasse la sua lettera di dimissioni e si rimettesse alle sue decisioni. Ma saremmo nel mondo dei sogni e non ci siamo.

* * *

Il sondaggio fatto pochi giorni fa da Ilvo Diamanti dice che dei 300 mila cittadini che hanno firmato la proposta di legge Grillo il 58 per cento ha opinioni di sinistra e centrosinistra. Solo il 30 per cento si dichiara di centrodestra. Si sapeva che la sinistra è più sensibile della destra a queste sollecitazioni ma le percentuali sono assai eloquenti.

Una sinistra militante ha dentro di sé il mito della politica, l'ideale della politica. Della politica "alta".
Della politica nobile. Della politica delle mani pulite. Se la presa del potere si impelaga nel lavoro sporco la sinistra militante si sente tradita.

La legalità è tradita.

Gli ideali sono traditi. La rivoluzione è tradita. La palingenesi è tradita.

Anche la destra estrema coltiva questo tipo di mitologia e il tradimento contro di essa: la guerra tradita, la vittoria tradita, la nazione tradita.

La reazione a questi supposti tradimenti è il rifiuto di tutto l'esistente e la sua sostituzione con un nuovo esistente virtuale.

Il riformismo non funziona in questo modo; si accontenta di un passo per volta. Purché non sia un passetto, ma un passo deciso. Uno per volta va bene, ma che incida e lasci una traccia. Se non è un passo ma solo un passetto anche il riformismo militante entra in crisi. I compromessi saltano, le ambizioni individuali prendono il sopravvento, la compattezza degli intenti si disgrega, lo specchio del bene comune si rompe.

Solo il 30 per cento del centrodestra è sensibile agli appelli di Grillo, perché il centrodestra il suo Grillo ce l'ha già e se lo tiene ben stretto. Si chiama Silvio Berlusconi, che da 15 anni fa politica in nome dell'antipolitica, che guida il più grosso partito italiano in nome della lotta ai partiti, che di battute ce ne ha una più di Grillo. Le fa perfino su stesso e ci si ride addosso contagiando quel riso a tutti i suoi fedeli. Lui è ben contento che ci sia Grillo che il danno lo fa a sinistra. A lui, a Berlusconi, i "Vaffa" gli rimbalzano. Colpiscono i suoi nemici, non lui.

La sinistra radicale forse non lo prevedeva, ma buona parte dei seguaci del "Vaffa" provengono proprio dalle sue fila.

E perfino dalla Lega. Dai Ds. Da tutti quelli che si sentono traditi. Si sentono offesi. Si sentono feriti. Li volete riconquistare con le detrazioni fiscali? Col poliziotto di quartiere? Con la confisca dei patrimoni mafiosi? Con la lotta alla prostituzione stradale? Con il recupero dei parametri di Maastricht? Ma via! Vogliono ben altro. Vogliono un giudizio universale. Una purificazione collettiva. Il regno dei giusti dopo le devastazioni dell'apocalisse che punisca i corrotti e i malvagi.

Attenzione: non è la rabbia degli esclusi e degli ultimi. Non è la protesta dei mendicanti di Brecht nell'"Opera da tre soldi". I protestatari non sono né esclusi né tantomeno ultimi. Ma non si sentono riconosciuti. Si sentono impoveriti nel portafoglio e negli ideali e questa è una miscela esplosiva.

* * *

Leggerete in queste stesse pagine gli esiti del sondaggio effettuato nei giorni scorsi sulle intenzioni di voto, confrontati con quelli del giugno scorso e con i dati delle elezioni 2006. Essi registrano una situazione drammatica per il centrosinistra rispetto ai risultati di un anno fa e un leggero recupero nel confronto col giugno scorso. Quanto al Partito democratico, migliora di un punto e mezzo rispetto a giugno ma non decolla. Non ancora. Spiccherà il volo dopo il 14 ottobre?

Intanto si moltiplicano gli appuntamenti di piazza. Alleanza nazionale in ottobre, Pezzotta e il "Family Day", Grillo anche lui in ottobre (ma ieri sera ha già fatto il suo show alla "Festa dell'Unità" di Milano), Berlusconi il 2 dicembre e vuole portarci due milioni di persone.

Senza contare il grande referendum dei lavoratori sul Welfare, decisivo anche ai fini della Finanziaria e della tenuta del governo.

Se si votasse oggi, dice il sondaggio, il 65 per cento degli interpellati dà la vittoria al centrodestra, solo il 12 al centrosinistra. Si possono certo opporre a questo sondaggio altri con esiti alquanto diversi, ma la visione comune è quella di un paese agitato, percorso da emozioni e incertezze, speranze e paure. Domina - così mi sembra - un'attesa di palingenesi con sfumature vagamente messianiche.

Quanto di peggio.

(16 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... La prova d'orchestra di pifferi e tromboni
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2007, 04:05:26 pm
POLITICA

COMMENTO

La prova d'orchestra di pifferi e tromboni

di EUGENIO SCALFARI


La pessima esibizione del Senato nel dibattito sulla Rai di giovedì scorso è stata in realtà una sorta di prova generale di quanto potrà avvenire nell'appuntamento parlamentare con la legge finanziaria 2008. La sessione di bilancio: così si chiama quell'appuntamento che ha inizio con la presentazione del disegno di legge al capo dello Stato e al Parlamento e si conclude tassativamente entro la fine dell'anno sgombrando in quei tre mesi ogni altra iniziativa legislativa salvo i casi di urgenza e la conversione in legge di eventuali decreti pendenti.

Una prova generale assolutamente "sui generis". Infatti - a differenza delle prove generali vere - qui non c'era un regista. Ciascuno recitava a soggetto e ciascuno aveva un soggetto proprio e mai come in questa deplorevole occasione è utilissimo riandarsi a vedere "Prova d'orchestra", uno dei più bei film di Federico Fellini, indimenticabile lezione artistica, umana, politica.

In "Prova d'orchestra" un gruppo di orchestrali che fino a quel giorno avevano lavorato insieme sotto la guida d'un celebre direttore, decidono di fare da loro. Il direttore tenta in tutti i modi di battere il tempo con la sua bacchetta e di far rispettare a ciascuno il suo ruolo e la corretta esecuzione dello spartito, ma ogni suo sforzo è vano, i violini vanno per conto loro e così i bassi, il clarinetto, l'oboe, i timpani, i tromboni. Finisce in una vera e propria rissa a colpi di archetto e di tamburo.

Ero amico di Fellini e un paio di volte andai ad intervistarlo a Cinecittà durante la lavorazione dei suoi film. Gli chiesi in una di quelle interviste quale fosse il film che gli era più caro. Ci pensò un po' e poi - tipico suo - mi rispose: "Mentre li giravo mi piacevano, dopo il montaggio rivedevo tutte le imperfezioni e ne ero scontento. E poi non li ho mai più rivisti". Tutti? gli ho chiesto. Scontento di tutti? "Tutti salvo uno: Prova d'orchestra. Ogni tanto me lo rivedo".

Suggerisco ai membri del Senato che hanno mandato in scena uno spettacolo vergognoso per inconcludenza e dimostrazione d'ignoranza dell'argomento di cui dibattevano, di comprarsi la cassetta di quel film e meditarci sopra. Ne trarrebbero certamente diletto ma soprattutto sgomento, lo specchio gli rimanderebbe infatti l'immagine che tutti noi spettatori abbiamo visto ma che le loro mediocri vanità e personali ambizioni insieme all'ossessiva contemplazione del proprio ombelico gli hanno nascosto. Se avessero un briciolo di senso di responsabilità ne sarebbero sconvolti come noi spettatori e cittadini ne siamo rimasti.
* * *
Comunque la singolare prova generale di quanto potrebbe accadere ad ottobre nel dibattito sulla Finanziaria c'è stata. E' stata commentata da Prodi in Consiglio dei ministri, da Berlusconi e da tutto il teatrino politico, come se gli attori parlamentari fossero persone diverse da quelle che il giorno seguente commentavano quanto è avvenuto. Queste dissociazioni rispetto al proprio operato sono frequenti quando la politica si avvita su se stessa dimenticando il suo alto ruolo e le sue responsabilità. Miserie, che gettano discredito su tutto incoraggiando le urla degli istrioni di ogni genere e conio.

Il disegno che emerge è chiaro e si può riassumere così:
1. Il dibattito sulla Finanziaria sarà il momento culminante della strategia della "spallata ".
2. Il governo non reggerà a causa delle interne divisioni della maggioranza e dunque imploderà, almeno in Senato dove ormai anche l'esiguo margine di vantaggio del centrosinistra è scomparso.
3. Dini ha in mente la presidenza del governo interinale che sarà inevitabile quando Prodi sarà stato sfiduciato dal Senato. Perciò troverà mille modi per votare contro e sfiancare la maggioranza, articolo dopo articolo.
4. Mastella vede con crescente preoccupazione l'avvicinamento di Dini al centrodestra, verso il quale anche lui è da tempo in movimento. Chi ci arriva prima (nella visione di questi due "statisti") meglio alloggia. Di qui i loro ambigui e ondivaghi comportamenti.
5. Di Pietro ha scoperto Grillo e ambisce a rinverdire i fasti di "Mani pulite". Il leader dell'"Italia dei valori" è affascinato dalle insorgenze in nome della "legalità". Cantavano nel nostro Risorgimento: "Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / la sua folgore gli dà". Di Pietro pensa di poter esser lui quella folgore relegando Grillo al ruolo maieutico ma non politico. Le sue preannunciate dimissioni da ministro e l'uscita dei suoi parlamentari dalla coalizione servirebbero egregiamente a consolidare la sua fama di difensore della legalità disinteressato, mettendo nelle sue mani un seguito per ora valutabile al 17 per cento che la sua leadership (secondo lui) potrebbe portare oltre il 20. Insomma un grande partito alla faccia di Veltroni che gli ha impedito di candidarsi per la guida del Partito democratico.
6. Il quale Veltroni (e Rutelli con lui) non può assistere inerte a questo sfascio dell'Unione e alle difficoltà che si ripercuotono anche sul nascituro Pd. Quindi dovrà prendere qualche iniziativa spettacolare. Ma poiché nelle condizioni attuali ogni iniziativa spettacolare rischia di accrescere la litigiosità della maggioranza, ecco che i rischi d'implosione possono venire anche dal sindaco di Roma.
Questa è la diagnosi di quelli che lavorano per la spallata. Ed ora vediamo chi sono.
Anzitutto il centrodestra al completo. Su questo punto la Casa delle cosiddette libertà è compatta da Bossi a Casini, passando anche per Tabacci. Tutti puntano sulla cacciata di Prodi. Dopodiché si dividono: Berlusconi e i suoi fedeli vorrebbero le elezioni immediate; Casini punta su un governo istituzionale che prepari la nuova legge elettorale con tutto il tempo necessario, almeno un anno, per intraprendere la creazione di un piccolo-grande centro.
Questo disegno d'altra parte è condiviso anche da forze di diversa provenienza, economiche, editoriali, culturali: cacciata di Prodi, governo istituzionale che duri almeno fino al 2009, scomposizione degli attuali schieramenti bipolari, aggregazione centrista con Udc, la parte moderata dei Ds, i cattolici di Pezzotta, le comunità di Cl e di Sant'Egidio alle ali, la Confindustria alle spalle e i grandi giornali di proprietà banco-industriale ai fianchi.

Questo disegno prevede anche, oltre alla cacciata di Prodi con disonore - la giubilazione di Berlusconi con premi e medaglie e la nascita d'una nuova leadership non centrista ma centrale. E qui il ventaglio è largo e va da Montezemolo a Draghi, a Mario Monti, e perché no a Veltroni.

Grillo ha un ruolo in questo disegno: il lavoro sporco. Deve spazzar via i disturbatori di professione, la sinistra radicale, i diessini non abbastanza flessibili, il potere della Cgil e dei sindacati in genere. Poi - come ha scritto il buon Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera" - non servirà più. Butteremo l'acqua sporca (Grillo) ma non il bambino che in quell'acqua ha emesso i suoi primi vagiti.
* * *
Spero d'esser stato chiaro nell'esporre i vari elementi di crisi che dovrebbero produrre l'implosione del governo e della maggioranza. Elementi diversi ma tutti convergenti su quell'obiettivo.

Ci sono però alcuni elementi avversi e anch'essi vanno considerati. Uno anzitutto: affinché l'implosione si verifichi deve avvenire sulla Finanziaria, che è la regina di tutte le battaglie parlamentari. Se la Finanziaria dovesse invece passare indenne, la strategia della spallata di fatto risulterebbe sconfitta.

Provocare la crisi con la bocciatura della Finanziaria avrebbe tuttavia come conseguenza l'esercizio provvisorio, il declassamento del debito pubblico italiano sui mercati internazionali, un terremoto nei nostri rapporti con l'Unione europea, il fallimento della riforma delle pensioni e il ritorno dello "scalone", la rivolta dei sindacati, la fine della pace sociale.

Chi si prenderà una così drammatica e storica responsabilità? Mastella? Lamberto Dini? Rifondazione? Diliberto? Pecoraro Scanio? Cesare Salvi? Di Pietro? Bordon? Mandare il paese ai margini dell'Europa, azzerare i timidi accenni di crescita economica, aprire la guerra sociale? E' vero che si vedono in circolazione molti irresponsabili, ma fino a questo punto?

Il disegno suddetto si fonda anche sulla giubilazione di Berlusconi. Ma il "patron" di Fininvest e di Mediaset ha la vittoria a portata di mano. Vi pare che si farebbe mettere in soffitta proprio adesso? Vi pare che si separerebbe dalla Lega, che è carne della sua carne e costola del suo corpo? Berlusconi è certamente un uomo di pulsioni improvvise che lui stesso non riesce a controllare, ma è anche guidato da un fortissimo istinto di sopravvivenza. Sa che un governo istituzionale per lui sarebbe una soluzione a perdere. Ma sa anche che questo è l'obiettivo di gran parte dei suoi alleati. Potrebbe anche operare in modo che la spallata sulla Finanziaria sia tentata ma non abbia esito, seguendo i suggerimenti moderati di Gianni Letta e di Marcello Dell'Utri.

Infine, piaccia o non piaccia, c'è "testa di ferro", cioè Romano Prodi. Chi lo sottovaluta commette un grave errore. Chi pensa che sia svagato, distratto, sonnacchioso, bravo soltanto nel tirare a campare, sbaglia ancora di più.

Prodi ha molti difetti. Non è un principe della comunicazione (ma da Vespa andò benissimo) è sospettoso. E' rancoroso. Ma è riuscito a governare in mezzo ad un'incessante tempesta dovuta in gran parte a quella "porcata" della legge elettorale imposta dal precedente governo.

In un anno nel quale la sua popolarità è crollata al 26 per cento (ma quella di Berlusconi non supera il 32) insieme a Padoa-Schioppa, a Visco e a Bersani è riuscito a rimettere a posto i conti con l'Europa, a far emergere da zero a 2 punti l'avanzo primario, a realizzare un recupero dell'evasione di molti miliardi e un super-gettito tributario senza nessuna tassa in più.

Ha diminuito l'Irap di 5 miliardi a beneficio delle imprese e dei lavoratori. Sta per decretare il bonus per le pensioni minime e il loro aumento stabile. Nella Finanziaria semplificherà il pagamento delle imposte per le micro-aziende (sono tre milioni e mezzo) istituendo un'imposta unica senza nessun altro adempimento; abbatterà l'Ires di 5 punti stimolando la crescita come e forse più di quanto la Merkel abbia fatto per le imprese tedesche.

Per uno che è stato definito Mortadella, Valium, Prozac e - secondo l'ultima diagnosi di Grillo - Alzheimer, direi che non c'è male.

Io non sono nella sua testa e perciò non so prevedere che cosa farà nei prossimi giorni, ma di una cosa sono certo: non resterà esposto ai colpi senza reagire. Se deve implodere, sarà lui ad esplodere. Anticiperà i tempi. Andrà magari a dimettersi al Quirinale. O qualche cosa del genere. Oppure sfiderà avversari esterni o interni ponendo la fiducia sulla sua Finanziaria. Con l'appello nominale e le eventuali assenze, tutto sarà chiaro e ciascuno si assumerà le sue responsabilità. Ivi compresi noi giornali e giornalisti. Ci vuole almeno un po' di grandezza quando si affronta la bufera.

Post scriptum. Nel corso di una trasmissione televisiva (Speciale Tv 7) cui ho partecipato venerdì, andata in onda all'una di notte,) ho ascoltato gli insulti e alcune falsità indirizzatimi dalle urla del comico Giuseppe Grillo. Poiché la mia risposta non sarà stata ascoltata da molti a causa della tardissima ora, la riferisco qui di seguito.

Grillo ha detto che ho ricevuto venticinquemila "email" di protesta contro un mio articolo critico nei suoi confronti. In realtà le lettere a me indirizzate sono state in tutto - fino ad oggi - sessantanove, sette delle quali in mio favore e sessantadue contro.

Ho anche ricordato, in cortese polemica con Giovanni Sartori in studio con me insieme al direttore del Tg1 Gianni Riotta, che nel 1919 i fasci mussoliniani nacquero più o meno con un programma analogo, eccitando gli italiani ad insorgere contro la decrepita classe politica, contro i partiti esistenti, contro la monarchia costituzionale, per far vincere l'Italia dell'ordine e delle persone perbene.

Dal '19 al '23 personalità come Benedetto Croce e Luigi Albertini, che hanno dedicato la propria intelligenza e la propria vita alla difesa della libertà, appoggiarono quel movimento o perlomeno non ravvisarono i rischi cui esso sottoponeva la fragile democrazia italiana. Giudicarono che poteva essere utile per recuperare "legge e ordine". Poi Mussolini e i suoi sarebbero stati rimandati a casa con tanti ringraziamenti per il lavoro sporco che avevano effettuato.

Anche i grandi filosofi e i grandi giornalisti possono commettere gravi errori e questo fu il caso di Croce e di Albertini.

Nella trasmissione di venerdì mi sono limitato, senza proporre alcun confronto improprio, a ricordare quanto accadde 88 anni fa e gli effetti che ne derivarono per questo sempre immaturo Paese.



(23 settembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... Traditi dal traduttore
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 04:26:05 pm
IL VETRO SOFFIATO

Traditi dal traduttore
di Eugenio Scalfari


Fino a che punto i testi tradotti sono fedeli agli originali? O sono diversi a tutti gli effetti?  Ho letto con interesse e diletto la 'Bustina di Minerva' che Umberto Eco su questa stessa pagina ha dedicato la settimana scorsa ai traduttori. Un mestiere impervio e un ruolo assai poco gratificante quello di chi è chiamato a tradurre nella propria lingua testi scritti in lingua straniera e per un pubblico diverso dal nostro, con diverso apprendimento e diversa sensibilità. Si va - osserva Eco - verso un'unica lingua predominante, quindi verso una semplificazione del linguaggio resa necessaria in un'economia globale che accresce l'intensità delle comunicazioni e si serve sempre più del supporto tecnico della Rete al posto della parola scritta sulla carta.

Ma accanto a questa semplificazione è proprio l'aumento delle comunicazioni a rendere indispensabile il ruolo del traduttore: la gente continua infatti ad esprimersi nei linguaggi locali, i dialetti entrano anch'essi nell'area della traducibilità, la quale si applica ormai anche alla parola parlata oltreché a quella scritta. Di qui le traduzioni simultanee nei convegni d'ogni genere e tipo. Per districarsi dal rischio d'una Babele entra in scena il traduttore che cessa di essere un'opzione e diventa una necessità.

I traduttori si sono resi conto di questa trasformazione e hanno cominciato a porre con energia le loro rivendicazioni. Il livello medio della loro retribuzione è in aumento e così pure la valorizzazione del loro ruolo: il nome del traduttore, finora indicato quasi sempre in una nota o addirittura del tutto omesso, viene sempre più spesso collocato nella pagina d'apertura del libro o addirittura in copertina e così per gli articoli di giornale che passano la frontiera e per ogni altra operazione di trasferimento da un linguaggio all'altro. Ma resta una domanda: fino a che punto i testi tradotti rispecchiano quelli originali?
O sono invece da considerare diversi a tutti gli effetti? Il traduttore rende un servizio subalterno oppure creativo e autonomo? Fornisce una copia conforme o un originale che meriti a sua volta d'esser tradotto creando un terzo e un quarto originale fino a perdere qualunque corrispondenza con il testo dal quale partì quell'infinita schiera di prototipi?

La domanda è antica e non facilmente risolvibile. Ricordo che quando lessi e studiai per la prima volta 'l'Iliade' in seconda ginnasiale il testo a quell'epoca usato nelle scuole era la traduzione di Vincenzo Monti: "Narrami o musa del Pelide Achille l'ira funesta", con quel che segue. La mia generazione, come quella di mio padre e di mio nonno, studiò su quel testo il poema omerico sebbene fosse noto a tutti che il Monti ignorava il greco e utilizzò come originale il testo latino meritandosi l'insulto letterario di essere "il traduttor dei traduttor d'Omero". Non è che un esempio, ma la letteratura e in particolare la narrativa sono piene di traduzioni di terza o di quarta mano, frequenti in particolare per lingue poco diffuse al di là dei loro confini territoriali. Il russo, per esempio: i grandi romanzi e il grande teatro russo si diffusero nell'Ottocento in Europa per merito delle edizioni francesi dalle quali vennero poi tradotti in tutte le altre lingue del continente.

Questi procedimenti sembrano comunque più accettabili per le opere narrative. Certo lo stile è lo stile e rischia di trasformarsi o addirittura di scomparire nella traduzione, ma resta pur sempre la trama del romanzo a render più prossima la somiglianza con l'originale. È vero anche per la poesia? Molto meno. La poesia, almeno fino ai primi anni del secolo scorso, era vincolata anche a forme metriche costrittive e addirittura al rispetto della rima. Pensate alla 'Commedia' dantesca sulla quale si fondò la costruzione della lingua italiana; pensate a quelle terzine a rima alternata di undici battute per riga, versi che sembrano scolpiti più che scritti, molto più efficaci se affidati ad una voce recitante che ne scandisca la sonorità anziché letti e trasmessi silenziosamente al proprio pensiero.

A me, tutte le volte che mi è accaduto di leggere liriche italiane tradotte in altra lingua da me conosciuta o viceversa, è sembrato di leggere un'opera del tutto diversa. Spesso ridicola o grottesca rispetto all'originale, ma talvolta invece d'una intensità analoga o superiore, comunque lontana e altra.

Valgano come esempio i lirici greci nella traduzione di Quasimodo: altissima poesia italiana ma molto diversa dall'originale e, a mio avviso, d'una qualità e intensità poetica assai maggiore delle liriche del poeta Quasimodo.

Non conosco l'ebraico e tanto meno l'aramaico. So però che le traduzioni di Ceronetti del libro di Giobbe e degli altri testi sapienzali della Bibbia hanno una forza poetica imparagonabile alle altre traduzioni 'ufficiali' accreditate dalle autorità religiose. Non sono in grado di dire quali siano più fedeli ai testi originali, a loro volta passati attraverso infiniti e discordanti codici, ma non ho dubbi sulla qualità estetica e sulla forza poetica di Ceronetti. Il quale fece del suo Giobbe due diverse edizioni, peggiorando - secondo me - nella seconda i versi che aveva mirabilmente reso nella prima. Forse per aderire più fedelmente al testo ebraico a scapito dei requisiti poetici del suo italiano?

Concluderò accennando alle traduzioni simultanee di dibattiti politici o filosofici o culturali ai quali mi è capitato di partecipare. Malgrado la bravura dei traduttori, costretti a seguire in corsa i discorsi dei vari oratori, la corrispondenza tra il parlato originale e quello tradotto è enorme. Se non conosci la lingua altrui e ti metti la cuffia per ascoltarne la traduzione, ti trovi quasi sempre di fronte ad un referto pressoché incomprensibile e inutilizzabile.

Resterà celebre il caso - più volte menzionato - di alcuni discorsi di Aldo Moro in convegni internazionali, durante i quali i traduttori ad un certo punto dichiararono in cuffia che non erano in grado di seguire l'oratore perché non riuscivano a comprendere e quindi a tradurre il significato del suo dire. Questo episodio è diventato il simbolo dell'astrusa difficoltà della politica italiana, delle sue spesso inesplicabili contraddizioni e ossimori, della strutturale mancanza di trasparenza che si esprime con un linguaggio oscuro e quindi non traducibile in lingue animate da pensieri limpidi e non contraddittori.

(05 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... Quando la posta decide chi vince
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2007, 06:37:40 pm
IL VETRO SOFFIATO

Quando la posta decide chi vince
di Eugenio Scalfari

Come nel poker anche nel mercato si avvantaggia chi dispone di maggiori capitali da rischiare. Determinando non solo i prezzi ma anche l'allocazione delle risorse e quindi gli investimenti  Dedicherò oggi questa pagina ai giochi d'azzardo; non alle tecniche che li disciplinano ma al loro valore simbolico e metaforico rispetto alla vita e al carattere degli individui. Personalmente non sono un giocatore, amo il rischio purché sia calcolabile e calcolato.

Di giochi ne conosco molti, dalla roulette ai dadi, dagli scacchi al 'trente et quarante', dallo 'chemin de fer' al poker. Se debbo dire quali siano quelli che più rivelano il carattere dei giocatori metterei il poker in cima alla lista, immediatamente seguito dagli scacchi. Sia nell'uno che nell'altro ci vogliono abilità, conoscenza di strategia per stancare e ingannare l'avversario, forte tenuta dei propri nervi e delle proprie reazioni. E, sia nell'uno che nell'altro, capacità di mettere in campo le 'finte'; negli scacchi le finte sono manovre che sembrano mirare ad un certo obiettivo e servono invece a ingannare l'avversario e indurlo a scoprirsi; nel poker si chiamano 'bluff', trappole per far credere di avere in mano una combinazione di carte vincente e mettere in fuga l'avversario.

Ma c'è un altro elemento che influisce fortemente sull'andamento del gioco ed è il tempo di permanenza al tavolo verde. Per spiegare meglio l'importanza del fattore tempo farò l'esempio del 'trente et quarante', che è uno dei più in uso nelle case da gioco ed anche il più gradito ai clienti della casa perché non prevede alcun apparente vantaggio per il 'banco'. Nella roulette c'è lo zero, nel 'trente et quarante' i giocatori e il banco si confrontano alla pari, salvo una sola differenza che è appunto l'elemento tempo: il banco è fisso nelle mani del gestore della casa da gioco il quale, a differenza dei giocatori, non si alza mai dal tavolo della partita. L'orario di gioco dall'apertura alla chiusura del tavolo è stabilito dal gestore il più lungamente possibile, proprio perché nel calcolo delle probabilità la continuità e la durata sono elementi decisivi sull'esito della partita.

L'ultimo ma fondamentale elemento determinante è la 'posta'. Il suo ammontare limita l'accesso alla partita. Quando non è previsto un limite e la posta è lasciata all'arbitrio dei giocatori, se ne avvantaggia chi dispone di maggiori capitali da rischiare al tavolo verde. Un pensionato con la sola risorsa del suo magro reddito si troverebbe molto sfavorito se giocasse a poker con l'erede di un Agnelli o con Marina Berlusconi.
Poi, naturalmente, c'è la fortuna e quella come sappiamo è una dea bendata. Tuttavia, secondo la mia esperienza, la fortuna è assai meno blindata e quindi assai meno casuale di quanto sembri. La fortuna premia chi sa giocare; alla lunga chi vince è il giocatore bravo che abbia tempo e disponga di adeguata ricchezza.

Spesso mi sono chiesto se il mercato, sì, quello dove s'incontrano le persone che vogliono scambiare tra loro una qualsiasi merce, abbia anch'esso alcune caratteristiche che lo facciano assomigliare ad un gioco. La mia risposta è affermativa: il mercato somiglia ad un gioco in numerosi aspetti, il più importante dei quali è la 'posta'. Chi ha più mezzi e più ricchezza accede al mercato molto più facilmente e ampiamente di chi dispone di risorse minori. I soggetti che sono al di sotto della soglia di povertà al mercato non arrivano proprio, ne sono di fatto esclusi. Quando gli economisti ci spiegano le leggi che governano il mercato e il sistema di formazione dei prezzi, usano una frase di scuola che nella maggior parte dei casi passa inosservata. La frase è questa: "Data una certa distribuzione della ricchezza...", etc. etc. Ma che cosa vuol dire quella frase buttata lì come le controindicazioni d'un medicinale stampate in corpo piccolissimo sul foglietto delle avvertenze?

Vuol dire che la distribuzione del reddito e della ricchezza è determinante nel formare il sistema dei prezzi, l'allocazione delle risorse e quindi degli investimenti. In una società con redditi fortemente diseguali i beni e i servizi richiesti sono quelli desiderati dai soggetti presenti sul mercato con maggiori mezzi; se cambiasse la distribuzione dei redditi nel senso d'una maggiore eguaglianza nel potere d'acquisto, l'intero sistema si capovolgerebbe e beni e servizi fino a quel momento poco richiesti e quindi poco offerti potrebbero invece essere domandati massicciamente provocando mutamenti radicali nell'allocazione degli investimenti. Insomma la frase "data una certa distribuzione del reddito" non è da prendere sottogamba, anzi è il centro dell'economia politica la quale, non a caso, abbina quel sostantivo a quell'aggettivo.

(19 ottobre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... Quei dieci voti comprati e venduti
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2007, 10:51:22 pm
POLITICA

"Quello che Prodi chiama complottone per far cadere il governo sulla Finanziaria è compravendita di voti.

Secondo il codice penale, voto di scambio"

Quei dieci voti comprati e venduti

di EUGENIO SCALFARI

 
C'È un complottone, come sospetta Prodi, per far cadere il governo sulla Finanziaria? Io non lo chiamerei così. L'immagine del complottone evoca un gruppo di cospiratori animati da un ideale o da un interesse comune, ma nel caso nostro di ideali non ne vedo neppure l'ombra, interessi sì, ma nient'affatto comuni, anzi spesso contrapposti uno all'altro.

No, non lo chiamerei complottone; lo chiamo invece col nome giusto che rispecchia la realtà: si tratta, né più né meno, d'una compravendita di voti che nel lessico della legge penale si chiama "voto di scambio".
Di solito si verifica nelle campagne elettorali, quando un candidato si rivolge a chi dispone di voti clientelari acquistabili; l'acquirente offre una cifra e/o benefici graditi a quella clientela ed ottiene in contropartita tutti i suoi voti. Le mafie hanno sempre agito in questa ottica e così si è creata intorno alle varie famiglie mafiose quella zona grigia che ha permeato o addirittura condizionato il funzionamento delle istituzioni.

Anche le logge massoniche segrete hanno operato in questo modo: tu dai una cosa a me, io do una cosa a te, scambio di voti e di favori. Ma il caso nostro è diverso e viene praticato con minore frequenza; nel caso nostro - cioè, per esser chiari, nel caso di Silvio Berlusconi - non si tratta di voti elettorali in vendita bensì di voti di senatori che si preparano a passare da un partito ad un altro, anzi da uno schieramento ad un altro e, nella fattispecie, dalla maggioranza all'opposizione. Insomma un ribaltone in piena regola. Sì, proprio quell'operazione che tutto il centrodestra con in testa proprio Silvio Berlusconi ha demonizzato come la più diabolica operazione politica che si sia mai vista e contro la quale sono anche stati escogitati appositi deterrenti legislativi, come lo scioglimento automatico delle Camere, nel momento stesso in cui si verificasse in Parlamento un cambiamento di maggioranza.

Naturalmente è del tutto inutile accusare un uomo e una parte politica di incoerenza. Ieri il ribaltone era il diavolo, oggi diventa un obiettivo salvifico. Certo, è un'incoerenza evidente, ma la politica è il mondo dell'ossimoro, se lo scopo è la conquista del potere tutti i mezzi sono buoni e vada a quel paese anche il principio di non contraddizione.

Però è anche vero che c'è ribaltone e ribaltone. Prendiamo quello della Lega del 1994-'95, che determinò la caduta, a pochi mesi di distanza dalla vittoria elettorale, del primo governo Berlusconi e la nascita del governo Dini. In quel caso la Lega, dopo una convivenza agitata con Alleanza nazionale e dopo avere mandato invano segnali di crescente malcontento, decise di uscire dal governo determinandone la caduta.

Fu un ribaltone? Certamente sì. Una compravendita di voti? Certamente no. La Lega aveva obiettivi politici di federalismo molto spinto che cozzavano con il nazionalismo missino del Fini di allora. La mediazione di Berlusconi tra le due opposte sponde a lui alleate non fu efficace e il governo cadde. Nessuno comprò i voti della Lega, Bossi decise di testa sua. Non ci fu nessun "vulnus" costituzionale perché il presidente della Repubblica ha il potere-dovere di verificare se in Parlamento vi sia una maggioranza prima di decretarne lo scioglimento e così correttamente fece Scalfaro. Il governo Dini fu l'esito parlamentare di quella verifica e durò fino al '96, quando le Camere furono sciolte. Tutto legittimo, tutto regolare, tranne che per Berlusconi che gridò sui tetti alla vergogna costituzionale, politica, morale del ribaltone. Fino ad oggi. Ognuno giudichi come gli pare ma, lo ripeto, oggi il caso è completamente diverso anche se un ribaltone sembra alle viste. Perché lo ripeto ancora, questo che sembra profilarsi non è un ribaltone politico ma una compravendita di voti. Cioè un reato penale.

* * *

Vediamo più da vicino questa compravendita. Con i comportamenti e le dichiarazioni di Berlusconi e le ghiotte indiscrezioni di un altro singolare personaggio "informato dei fatti", Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica e senatore a vita. Berlusconi, nel corso d'una colazione riservata con il presidente emerito, gli comunica che "l'operazione" è ormai conclusa, che i senatori d'accordo con lui sono già una decina; su richiesta dell'interlocutore gli mostra la lista. Cossiga la legge, commenta con un "lo sapevo già" (e figurarsi se avrebbe dimostrato sorpresa) esce e passa la notizia alle agenzie. Alcuni dei "comprati" hanno confermato con lo schiaffo della mano, un paio hanno addirittura firmato un accordo scritto (si dice).
Berlusconi offre posti. Posti da ministro, posti da sottosegretario, presidenze di enti pubblici che ingolosirebbero perfino un anoressico, e anche denaro. Denaro finalizzato a sostenere campagne elettorali, spese politiche, apertura di sedi, assunzione di personale. Insomma denaro.

I venditori sono gelosi l'uno dell'altro. I posti appetitosi non sono moltissimi e ciascuno teme che un altro gli sia preferito. Ma anche dentro "all'inner club" berlusconiano scoppiano gelosie. Formigoni si preoccupa, Scajola si preoccupa e si preoccupa anche Dell'Utri, già molto allarmato dalla stella nascente di Michela Vittoria Brambilla. Ognuno corre ai ripari come può. Alla fine, tre o quattro giorni fa, il "puzzle" berlusconiano si realizza. Il compratore fissa la data: prima metà di novembre. E dichiara: "Non sono stato io a contattarli, sono stati loro a venire da me, io ho solo cercato di trovargli un posto adatto". Appunto, voto di scambio, compravendita.

* * *

Resta da vedere se il "puzzle" sia stato veramente compiuto o se almeno in parte sia ancora in dubbio; se darlo per fatto sia reale o faccia parte della guerra dei nervi. Personalmente penso che sia compiuto. Stando alle sue più recenti dichiarazioni così pensa anche Prodi ed anche Mastella. Certo è che la maggioranza si sfarina ogni giorno che passa. Quasi mille emendamenti presentati dal centrosinistra alla Finanziaria, metà dei quali da parlamentari ulivisti, anzi ormai democratici. La sinistra radicale in piazza a chiedere di più sul piano sociale, al di là del referendum sindacale. Non è contro il governo? E allora contro chi? Contro il Partito democratico? Contro Padoa- Schioppa? Contro la Ragioneria dello Stato? Chi sono quei mascalzoni che lesinano il pane ai lavoratori? Quali che siano quei nomi, la piazza di sinistra non fa sconti alla Finanziaria di Prodi e di Padoa-Schioppa, vuole molto di più.

Ieri è accaduto un fatto strano: per la prima volta dopo un anno e mezzo il "Corriere della Sera" ha pubblicato un articolo di fondo nel quale il vicedirettore del giornale, Dario Di Vico, elogia Prodi, elogia la sinistra radicale, elogia il "feeling" tra Prodi e Rifondazione.
Di Vico è un bravo collega e ovviamente ha scritto ciò che pensano lui e il suo direttore. Solo che da un anno e mezzo in qua ha scritto esattamente il contrario infinite volte. Io aborro la dietrologia, ma non la logica. Se si verifica un mutamento così improvviso e così totale una causa ci dev'essere, questa non è stagione da colpi di sole.

La logica mi dice che le cause possono essere due: 1. Placare lo scontento notorio e reso pubblico di Bazoli nei confronti del "Corriere" di cui Banca Intesa è azionista. 2. Valorizzare l'asse Prodi-Bertinotti per tagliar fuori Veltroni nel momento in cui il neo-leader del Pd è entrato in campo balzando in testa nei sondaggi d'opinione. E nell'imminenza di una possibile crisi di governo e delle consultazioni per risolverla in qualche modo. In proposito le intenzioni del Pd veltroniano avrebbero un peso notevole sui colloqui del capo dello Stato. Può condizionarle un articolo di giornale? Pro o contro elezioni immediate? Berlusconi è pro. Veltroni parlerà quando sarà consultato, ovviamente d'accordo con Prodi. Ma Prodi?

* * *

Prodi finora ha detto e ripetuto che se cade il suo governo non c'è che andare alle urne. Meglio ancora se alle urne ci si va con l'attuale governo in carica per far svolgere le elezioni. Probabilmente la posizione di Prodi è un deterrente per evitare la crisi. Ma se non fosse un deterrente sarebbe a mio avviso un grave errore. Le elezioni a primavera con questa legge elettorale darebbero partita vinta al centrodestra che ancora una volta si presenterebbe compatto dietro Berlusconi, tutti per uno uno per tutti.

Veltroni dovrebbe fare un miracolo. E forse potrebbe anche farlo, il Pd potrebbe arrivare al 40 per cento, ma dovrebbe presentarsi da solo e questo, con l'attuale legge elettorale e il premio di coalizione è manifestamente impossibile. Per contrastare il Berlusconi "ter" e i suoi alleati bisogna andarci con lo stesso schieramento di centrosinistra attuale, ma con la frana dell'area centrista. Una frana di scarso peso elettorale ma di forte peso politico perché arginerebbe quel deflusso di voti moderati verso il Partito democratico sul quale punta Veltroni. Senza quel deflusso ed anzi con un sia pur modesto deflusso di segno contrario, la vittoria del centrodestra è scontata, non c'è miracolo che possa evitarla, checché ne pensino Ferrero e Diliberto.

Questi sono i dati del problema. Noi, vecchi liberaldemocratici, rischiamo di morire sotto Berlusconi. E' vero che abbiamo altre risorse e altri interessi da coltivare per il tempo spero lungo che ci resta, ma per l'amore che portiamo a questo Paese vederlo sottoposto ad un ulteriore degrado morale ci riempie di tristezza.

Qualcuno mi rimprovera il mio pessimismo, ma io non sono pessimista; cerco di vedere la realtà e la realtà non è né buona né cattiva se non per come ciascuno di noi la vive. Questa realtà io personalmente la vivo male. Non mi piace. Non mi ci sento. Ma non è affatto detto che altri non ci si troveranno bene. "Goodbye and farewell".

(21 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI... Il nuovo partito che rompe con il '900
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 03:54:33 pm
POLITICA

Il nuovo partito che rompe con il '900

EUGENIO SCALFARI


FACEVA senso assistere ieri all'assemblea costituente del Partito democratico avendo ancora negli occhi l'aula del Senato riunita per dodici ore di seguito e scossa da un piccolo ma continuo maremoto di voti e controvoti. Faceva senso la nascita d'un partito fondato da 3 milioni e mezzo di persone - fatto mai accaduto nella storia europea - rispetto alle pervicaci rissosità di partiti-mosca che stanno devastando la maggioranza parlamentare e che, tutti insieme (sono poco meno d'una dozzina) rappresentano il 5 per cento dei consensi elettorali.

All'assemblea costituente di Milano (quasi metà dei suoi delegati erano donne) aleggiava una richiesta di unità, onestà, competenza, innovazione. Si è parlato di passato e di presente ma soprattutto di futuro. Prodi e Veltroni, in concordia tra loro, hanno confermato che con la legge elettorale vigente è impossibile andare a votare; riecheggiando le parole e il giudizio più volte ripetuto dal Capo dello Stato hanno detto che votare con la "legge-porcata" di Calderoli sarebbe una beffa per gli elettori e renderebbe per la seconda volta il Paese ingovernabile.

In Senato si votava il decreto fiscale ma i pensieri dei guastatori erano altrove. Vedevano quel voto come l'occasione per regolare i conti tra loro e nello stesso tempo lavorare "al corpo" Prodi e lo stesso Partito democratico la cui nascita è vista come minaccia all'esistenza dei micro-partiti e dei loro grotteschi apparati.

Gran parte dei "media" l'altro ieri hanno titolato sulla sconfitta parlamentare del governo, messo in minoranza per sette volte dal voto variamente congiunto dell'opposizione e dei senatori "nomadi" o "apolidi" che dir si voglia. Almeno in apparenza avevano ragione di aprire con quella notizia.

Avrebbero tuttavia dovuto valutare che l'esito parlamentare della giornata non era quello. Il decreto fiscale è stato convertito in legge senza alcuna variante rispetto al testo governativo, dopo 350 votazioni in 12 ore che l'hanno interamente confermato. Le sette votazioni incriminate sono avvenute su emendamenti marginali presentati durante il dibattito in commissione e approdati in aula, su cinque dei quali il governo si era rimesso all'assemblea per la loro irrilevanza. Nel voto finale sulla conversione in legge la maggioranza ha vinto con i soliti due voti di scarto.

Sono pochissimi e a rischio continuo di incidenti di percorso, ma questi sono appunto gli effetti nefasti della legge - porcata approvata nello scorcio della precedente legislatura dalla maggioranza di allora, ivi compresa l'Udc di Casini che oggi giustamente reclama una legge diversa.

Faccia almeno le sue scuse agli elettori l'Udc di Casini e dichiari d'aver sbagliato e di essersi pentita. Invece no, si dichiara vittima della legge che ha voluto e si dice pronta a votarne un'altra migliore ma solo se prima Prodi si sia dimesso. Dove stia la coerenza non si capisce, ma sono tante le cose di Casini che non si capiscono.

* * *

Sul voto in Senato di giovedì scorso si è per l'ennesima volta innestata la polemica contro i senatori a vita e in particolare contro l'ultranovantenne Levi-Montalcini, bersaglio di insulti definiti giustamente indegni dal Presidente della Repubblica. Indegni perché scagliati contro una donna, contro una scienziata insignita di altissime onorificenze al merito e contro un membro del Senato che ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di tutti gli altri componenti di quel ramo del Parlamento.

Credo che la migliore definizione di questo problema inventato dal centrodestra l'abbia data Oscar Luigi Scalfaro nell'intervista di ieri al nostro giornale: il voto dei senatori a vita non appartiene ad alcuno schieramento ma agli interessi generali del Paese e alla salvaguardia della Costituzione. Sta dunque a ciascuno di loro giudicare quali siano i temi che richiedono la loro presenza in aula e determinano il loro voto.

Ha perfettamente ragione Scalfaro. I senatori a vita Andreotti, Colombo, Levi-Montalcini ritengono evidentemente che l'approvazione della Finanziaria e dei suoi collegati sia un esito conforme all'interesse generale e per questo partecipano a sedute snervanti. Penso che così debbano fare anche gli ex Presidenti della Repubblica che siedono a vita in Senato a meno di eccezionali motivi di impedimento.

Dovrebbero farlo anche per solidarizzare con la senatrice Levi-Montalcini; affiancarla nel voto è la maniera più efficace per manifestarle solidarietà. Mi auguro perciò che non deluderanno le nostre attese; dopo tutto è in gioco una legge fondamentale per l'economia del Paese; la sua caduta produrrebbe danni assai gravi all'economia italiana e al credito di cui per fortuna ancora godiamo in Europa e nel mondo.

* * *

Il discorso di Veltroni all'assemblea del Pd ha, mi sembra, ha soddisfatto pienamente le aspettative di milioni di cittadini che hanno votato per lui e per il nuovo partito e per i tanti altri milioni che guardano con fiduciosa attesa alla sua crescita nella realtà sociale e politica. Ha ribadito il programma già toccato al Lingotto di Torino quando accettò la candidatura; ha riaffermato che il Pd si muoverà nel segno dell'innovazione e della discontinuità; infine ha ricevuto da Prodi e dall'assemblea il mandato di negoziare con tutte le altre forze politiche una nuova legge elettorale che ci liberi dalla situazione attuale.

Ma è evidente che d'ora in avanti le posizioni del Pd e di Walter Veltroni avranno un peso determinante sulle decisioni del governo, sulle delicate questioni dell'economia, della fiscalità, della giustizia, delle liberalizzazioni, dell'istruzione. Nonché sulle questioni eticamente sensibili, come oggi si definiscono quelle che coinvolgono anche il rapporto tutt'altro che facile tra lo Stato e la Chiesa.

Certo Veltroni non deciderà da solo; avrà una squadra e avrà addosso gli occhi di quei tre milioni e mezzo di cittadini che hanno votato Pd per poter partecipare alle decisioni.

Qui viene acconcio parlare della discontinuità evocata dal nuovo segretario. Che cosa voleva dire Veltroni con quella parola? Discontinuità rispetto a chi e a che cosa? Veltroni l'ha chiarito ma giova ripeterlo perché si tratta di un punto essenziale. Discontinuità del Pd rispetto all'organizzazione dei partiti di massa del Novecento: la Dc, il Pci, il Psi e i partiti piccoli e piccolissimi che con questi tre maggiori hanno convissuto intrecciando con essi le loro vicende.

I partiti del Novecento erano costruiti sul territorio, avevano una struttura gerarchica piramidale, le correnti proliferavano e si finanziavano autonomamente assumendo forme di sotto-partiti veri e propri sia pure nell'ambito d'un contenitore comune. Questa è stata la storia della partitocrazia, della cosiddetta costituzione materiale con la quale i partiti soffocarono lo spirito e la lettera della Costituzione repubblicana degradando e occupando le istituzioni, nessuna esclusa, a cominciare dalla massima carica dello Stato. Gran parte delle cause che portarono alla fine di quel sistema fu proprio la degenerazione partitocratica, i finanziamenti illeciti, la corruzione elevata a metodo accettato e legalizzato.

La Seconda Repubblica nacque per ricostruire l'effettiva rappresentatività dei partiti e il loro nesso tra la società e le istituzioni, ma ha mancato questo obiettivo.

Gli errori sono stati tanti e vanno equamente ripartiti, ma l'errore di fondo è stato per l'appunto la persistenza della vecchia forma-partito gerarchica, burocratica, correntizia.

Questo è dunque il punto sensibile sul quale Veltroni ha deciso di operare una sorta di rivoluzione riservando ai tre milioni e mezzo di cittadini-fondatori del Pd un ruolo di decisiva partecipazione attraverso la scelta dei dirigenti regionali e di tutte le candidature ad incarichi pubblici nazionali, regionali, locali. Accanto ad essi una rete di "volontari della politica" cioè di militanti dedicati all'organizzazione esecutiva e all'attivazione di associazioni tematiche per l'approfondimento degli argomenti e la proposta di nuove idee e iniziative.

Se come sembra questa sarà la forma-partito dei democratici è lecito prevedere che anche altre forze politiche saranno indotte a farla propria creando una generale e benefica innovazione nella società politica italiana e probabilmente europea.

* * *

Debbo, per finire, dedicare l'attenzione che merita al discorso pronunciato venerdì dal Governatore della Banca d'Italia all'Università di Torino; un discorso sull'economia italiana pieno di dati e di riflessioni.
I resoconti giornalistici e i primi commenti si sono concentrati su alcuni punti salienti di quel discorso: crescita frenata e insufficiente dei consumi negli ultimi quindici anni; salari ai lavoratori dipendenti troppo bassi rispetto ai livelli salariali di Francia, Germania, Gran Bretagna; troppa bassa produttività; disparità salariali tra vecchi e giovani; troppo lunga permanenza dei figli nelle case paterne; cattiva istruzione nelle scuole superiori; necessità di investire nel "capitale umano"; età pensionabile troppo bassa; maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

Su alcuni di questi punti c'è stata una convergenza molto ampia, su altri i sindacati hanno eccepito. Montezemolo ha plaudito su tutto, compreso il punto sui bassi salari e sui loro effetti negativi nella crescita del Paese.

Una sola osservazione sull'importante adesione di Montezemolo al Draghi-pensiero: il presidente della Fiat poteva risparmiarsi di portare come esempio ai governi la vittoria della Ferrari. Anche Berlusconi si avvale spesso delle Coppe vinte dal Milan come strumento di pressione politica. Speravamo che Luca Montezemolo fosse consapevole che usare lo sport come asset politico è populismo allo stato puro.

Ma torniamo al Draghi-pensiero. Ci sono molti altri elementi e cifre che il Governatore ha offerto alla riflessione pubblica. Per esempio: il reddito dei giovani è migliore di quello dell'età di mezzo (33-55 anni); tuttavia i salari d'ingresso italiani sono nettamente più bassi degli altri Paesi europei presi come riferimento; gran parte dell'aumento della produttività, peraltro insufficiente, è stata assorbita dai profitti anziché dai salari.

Ma il punto più importante riguarda la precarietà. Draghi punta ad una maggiore flessibilità del lavoro ma aggiunge che la precarietà è la causa principale della insufficiente crescita dei consumi. Sì alla flessibilità dunque, ma no alla precarietà: sembra il ricalco del programma di Prodi, anche se Draghi non l'ha detto.

Infine: dove trovare le risorse per rendere praticabile il Draghi-pensiero? Il Governatore esclude ovviamente ulteriori aumenti della tassazione e raccomanda un taglio radicale della spesa, ma in un altro punto del suo discorso afferma che un'altra delle cause che frenano la domanda interna deriva dal timore di tagli di spesa che diminuiscano i servizi fondamentali e l'occupazione. Allora dove bisogna tagliare? Se le tante esortazioni fossero anche confortate da indicazioni concrete di terapia ciò sarebbe utile alla discussione che, fatta in questo modo, finisce per somigliare a invocazioni a Padre Pio e a miracolosi santi consimili.

Post scriptum. Sono stato ieri al funerale di Pietro Scoppola svoltosi nella chiesa di Cristo Re a Roma in viale Mazzini. C'erano almeno mille persone, intente e commosse. Officiava il cardinal Silvestrini insieme a tutto il capitolo della parrocchia.

Non entravo in quella chiesa da settant'anni; la frequentai da bambino e mentre assistevo alla messa funebre e pensavo all'amico scomparso sono anche riandato a quegli anni così lontani della mia infanzia devota.

La folla assiepata nei banchi e nelle navate rappresentava un campione autentico di cattolici ferventi, animati dalla fede e da un impegno civile ammirevole. Lo dico perché conosco molti di loro e so di quell'impegno e di quella fede responsabile e non bigotta.

Si sono tutti comunicati. L'intera folla presente ha preso l'eucaristia. Più d'uno si è avvicinato a me per dirmi che preferiscono frequentare i non credenti sinceri piuttosto che i falsi cattolici.

Il cardinale ha parlato benissimo e così pure, con brevi parole, il parroco della chiesa. Figli e nipoti del morto si sono avvicendati con letture e pensieri appropriati e commossi.

Ho avuto la sensazione di stare con persone perbene, moralmente, intellettualmente e professionalmente perbene. Da non credente mi ci sono trovato a mio agio. Mi hanno dato fiducia nel futuro. Per questo rinnovo il mio ringraziamento alla memoria di Pietro Scoppola, sicuro che i cattolici presenti in quella chiesa e i tanti simili a loro proseguano l'opera sua.

(28 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il non senso del poeta impegnato
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2007, 08:12:25 am
IL VETRO SOFFIATO

Il non senso del poeta impegnato

di Eugenio Scalfari


Ritorna la polemica sugli scrittori e gli artisti 'organici' o comunque schierati. Basata su una serie di equivoci in parte voluti in parte inconsapevoli  Eungenio ScalfariEnnesima polemica sugli scrittori e sugli artisti politicamente impegnati, sugli intellettuali 'organici' e comunque schierati. Rappresentano una fase di crisi e mettono la parola fine al libero pensiero, alla libera creatività, alla forma che dovrebbe esser sovrana indiscussa di ogni opera di poesia e che invece viene soverchiata da contenuti ideologici e propagandistici?

Questa discussione è ripetitiva. Da una parte e dall'altra si sfoderano sempre gli stessi argomenti, si va avanti per un po' su giornali e riviste, si pubblica qualche saggio sul tema e poi ciascuno dei partecipanti al dibattito rinfodera la spada, nessuno ha convinto nessuno a modificare o addirittura a rinunciare ai propri argomenti e tutto finisce lì, salvo riprendere il tema alla prossima puntata.

Vorrei esortare gli abituali duellanti a cessare una volta per tutte di rimettere in scena lo stesso copione: è frusto e non interessa. Vedo però che la coazione a ripetere è irresistibile. Penso che in gran parte ciò sia dovuto all'uso improprio delle parole e delle definizioni. Insomma, secondo me, la coazione a ripetere deriva da una serie di equivoci lessicali, in parte voluti e in parte inconsapevoli. Chiariti quegli equivoci e ridato alle parole il loro significato proprio, credo che il dibattito avrebbe fine per 'mancanza di oggetto'.

Quando il contenuto si sovrappone alla forma il risultato è, dal punto di vista estetico, lo zero assoluto, ma la stessa cosa avviene quando la forma riproduce la forma. In questi casi, come quando si propugna l'arte per l'arte, si scrive sull'acqua e niente più.

Un'altra parola da mettere sotto esame è la definizione di 'intellettuale'. Che cosa vuol dire? Vuol dire produrre opere affidate all'intelletto, esclusivamente o prevalentemente.

Un docente è senza dubbio un intellettuale e così un avvocato, un giudice, un medico, un filosofo, un architetto, uno studente. Ed anche un giornalista. Un dirigente d'azienda. Un uomo politico. Sono tutte persone che lavorano prevalentemente con l'intelletto e quindi meritano l'appellativo di intellettuale.


Non è questo però il senso semantico con cui viene usato quel sostantivo. Esso vuole designare una persona specializzata nel prevedere gli effetti di certe cause. Esamina una situazione e indica i comportamenti necessari a modificarla nel modo voluto. Insomma è un consigliere. Può mettere questa sua capacità a frutto senza necessità di schierarsi, può dar consigli a Prodi come a Berlusconi. Un capitano di ventura che sta sul mercato.

Ma può anche schierarsi. Se ha delle sue proprie convinzioni offrirà i suoi servizi non a chi paga meglio, ma a chi è più vicino ai suoi ideali politici, sociali, culturali.

Un'altra parola da mettere a fuoco è 'artista'. Si può schierare politicamente senza tradire la sua vocazione? Credo che nessuno possa impedire ad un artista di avere opinioni proprie da cittadino. Può alimentare con quelle opinioni anche la sua creatività artistica? Sicuramente sì e faccio un esempio: l'importanza della 'committenza' nella pittura, nell'architettura e nella musica. Ci furono, soprattutto nel Quattrocento e nel Cinquecento, committenze religiose e committenze laiche, committenze domenicane e francescane. Per fermarci a queste due, dalle committenze domenicane nacque il gotico fiorito, da quelle francescane il giottismo e tutto quello che ne derivò. Potrei moltiplicare gli esempi all'infinito, ma concludo su questo punto dicendo che l'artista crea opere esteticamente valide tutte le volte che dà forma artistica ad un soggetto, non importa se sia la nascita di Venere o l'annunciazione a Maria vergine. Tutto può essere artisticamente trasfigurato. Se la trasfigurazione non ha luogo l'opera giace inerte, aborto senza vita.

Impegno o disimpegno sono dunque parole senza senso se applicate ad artisti, a poeti, a compositori, a romanzieri e in genere alla letteratura. Poesia e letteratura vivono, come ci ha ricordato Claudio Magris in un suo recente e bellissimo articolo sul 'Corriere della sera': "Come la rosa che non ha perché e fiorisce perché fiorisce".

Più oltre Magris conclude con appassionata lucidità il tema che qui ho cercato di svolgere e con il suo pensiero anch'io concludo: "Se mettersi al servizio d'una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica quella causa con la vita, allora anche l'impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. È questo l'impegno morale e di conseguenza l'impegno politico della letteratura, che non predica bensì mostra".

(02 novembre 2007)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il socialista solitario
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2007, 11:28:49 am
CRONACA

Il socialista solitario

di EUGENIO SCALFARI


NON parlerò di come e quando l'ho conosciuto, di come e quando io lavorai per lui e lui lavorò per me qui, sulle pagine di "Repubblica" che per alcuni anni fu la sua casa giornalistica. La morte di un amico porta sempre un pezzetto di noi sottoterra insieme con lui, sicché è inevitabile personalizzare il compianto.

Cercherò di resistere a questa tentazione. Enzo Biagi ha avuto centinaia di migliaia di lettori dei suoi articoli e dei suoi libri e milioni di telespettatori delle sue apparizioni televisive.

Dunque di amici, le persone che condividevano le sue parole, i suoi pensieri, il suo stile. Uno stile asciutto, intessuto di proverbi, di citazioni, di luoghi comuni elevati a dignità letteraria. Uno stile corroborato da fatti precisi e circostanziati che di solito si concludevano con un giudizio tagliente e definitivo.

Non è mai stato fautore della regola che vuole i fatti separati dalle opinioni; per lui valeva una regola diversa: mai un'opinione senza un fatto e viceversa, poiché sono le due facce della stessa medaglia e quindi vanno insieme.

Questa massima non ha significato faziosità e spirito di parte; la sua ricerca di imparzialità era un'ossessione per lui e lo sanno bene i suoi collaboratori che lo aiutarono a raccogliere il materiale per quella rubrica televisiva che gli valse la scomunica berlusconiana e l'estromissione dalla Rai. Si può essere imparziali e neutrali oppure imparzialmente partecipi.

Biagi non fu mai la prima cosa, fu sempre la seconda.

Nonostante la moltitudine di amici lettori e telespettatori, Enzo è stato un solitario. Non so se per scontrosità o innata timidezza o per superbo orgoglio di sé. Propendo per la timidezza e per un pizzico di diffidenza verso l'umana natura. Questo mostro sacro del nostro giornalismo non si è mai trovato a suo agio in veste direttoriale. Quando ha diretto "il Resto del Carlino" e il telegiornale Rai ai tempi del monopolio televisivo, l'ha fatto con sicura professionalità ma facendo forza alla sua natura. Infatti furono tutte brevi le sue esperienze direzionali e cessarono più per suo desiderio che per decisioni editoriali. La sua vocazione era quella del cavaliere solitario e l'ha realizzata per più di mezzo secolo come grande cronista, grande intervistatore, grande commentatore. I suoi libri erano lo sviluppo del suo giornalismo e furono seguiti in massa dai suoi abituali lettori.

Aveva alcuni punti di riferimento molto chiari e direi elementari nella loro semplicità. Era di idee socialiste, d'un socialismo all'antica, quello che riscaldava i cuori dei lavoratori agli inizi del Novecento, la solidarietà delle leghe cooperative, delle Case del popolo, delle associazioni di mutuo soccorso nella Bassa Padana e nelle Romagne.

Quello era il socialismo che gli piaceva e che ha continuato fino all'ultimo a ricordare nelle sue pagine: il socialismo di Treves e di Turati, il socialismo di Pietro Nenni, delle scuole serali e delle università popolari.

Tutta roba che ormai non c'è più e di cui è stato l'ultimo cantore.

Biagi non era e non si riteneva un intellettuale. Ha voluto essere un giornalista, punto e basta. Non a caso il suo esempio preferito e da lui spesso citato era Giulio de Benedetti, direttore per dieci anni della "Gazzetta del Popolo" negli anni Venti e della "Stampa" dal 1948 fino al '68.

Erano fatti della stessa pasta, perciò si capirono e si piacquero a prima vista.

I suoi affetti profondi sono stati la famiglia e la professione. Un giorno senza scrivere era per Enzo una penitenza. Scrisse anche nei giorni di malattia e di interventi chirurgici e quando usciva dalla narcosi già aveva in mente la sua rubrica e come avrebbe ricominciato a raccontare.

Non so che cosa scriveranno sulla sua tomba ma penso che cosa avrebbe voluto lui: Enzo Biagi, giornalista.

Riposa in pace, caro amico.

(7 novembre 2007)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il non senso del poeta impegnato
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:52:12 pm
IL VETRO SOFFIATO

Il non senso del poeta impegnato
di Eugenio Scalfari


Ritorna la polemica sugli scrittori e gli artisti 'organici' o comunque schierati. Basata su una serie di equivoci in parte voluti in parte inconsapevoli  Eungenio ScalfariEnnesima polemica sugli scrittori e sugli artisti politicamente impegnati, sugli intellettuali 'organici' e comunque schierati. Rappresentano una fase di crisi e mettono la parola fine al libero pensiero, alla libera creatività, alla forma che dovrebbe esser sovrana indiscussa di ogni opera di poesia e che invece viene soverchiata da contenuti ideologici e propagandistici?

Questa discussione è ripetitiva. Da una parte e dall'altra si sfoderano sempre gli stessi argomenti, si va avanti per un po' su giornali e riviste, si pubblica qualche saggio sul tema e poi ciascuno dei partecipanti al dibattito rinfodera la spada, nessuno ha convinto nessuno a modificare o addirittura a rinunciare ai propri argomenti e tutto finisce lì, salvo riprendere il tema alla prossima puntata.

Vorrei esortare gli abituali duellanti a cessare una volta per tutte di rimettere in scena lo stesso copione: è frusto e non interessa. Vedo però che la coazione a ripetere è irresistibile. Penso che in gran parte ciò sia dovuto all'uso improprio delle parole e delle definizioni. Insomma, secondo me, la coazione a ripetere deriva da una serie di equivoci lessicali, in parte voluti e in parte inconsapevoli. Chiariti quegli equivoci e ridato alle parole il loro significato proprio, credo che il dibattito avrebbe fine per 'mancanza di oggetto'.

Quando il contenuto si sovrappone alla forma il risultato è, dal punto di vista estetico, lo zero assoluto, ma la stessa cosa avviene quando la forma riproduce la forma. In questi casi, come quando si propugna l'arte per l'arte, si scrive sull'acqua e niente più.

Un'altra parola da mettere sotto esame è la definizione di 'intellettuale'. Che cosa vuol dire? Vuol dire produrre opere affidate all'intelletto, esclusivamente o prevalentemente.

Un docente è senza dubbio un intellettuale e così un avvocato, un giudice, un medico, un filosofo, un architetto, uno studente. Ed anche un giornalista. Un dirigente d'azienda. Un uomo politico. Sono tutte persone che lavorano prevalentemente con l'intelletto e quindi meritano l'appellativo di intellettuale.


Non è questo però il senso semantico con cui viene usato quel sostantivo. Esso vuole designare una persona specializzata nel prevedere gli effetti di certe cause. Esamina una situazione e indica i comportamenti necessari a modificarla nel modo voluto. Insomma è un consigliere. Può mettere questa sua capacità a frutto senza necessità di schierarsi, può dar consigli a Prodi come a Berlusconi. Un capitano di ventura che sta sul mercato.

Ma può anche schierarsi. Se ha delle sue proprie convinzioni offrirà i suoi servizi non a chi paga meglio, ma a chi è più vicino ai suoi ideali politici, sociali, culturali.

Un'altra parola da mettere a fuoco è 'artista'. Si può schierare politicamente senza tradire la sua vocazione? Credo che nessuno possa impedire ad un artista di avere opinioni proprie da cittadino. Può alimentare con quelle opinioni anche la sua creatività artistica? Sicuramente sì e faccio un esempio: l'importanza della 'committenza' nella pittura, nell'architettura e nella musica. Ci furono, soprattutto nel Quattrocento e nel Cinquecento, committenze religiose e committenze laiche, committenze domenicane e francescane. Per fermarci a queste due, dalle committenze domenicane nacque il gotico fiorito, da quelle francescane il giottismo e tutto quello che ne derivò. Potrei moltiplicare gli esempi all'infinito, ma concludo su questo punto dicendo che l'artista crea opere esteticamente valide tutte le volte che dà forma artistica ad un soggetto, non importa se sia la nascita di Venere o l'annunciazione a Maria vergine. Tutto può essere artisticamente trasfigurato. Se la trasfigurazione non ha luogo l'opera giace inerte, aborto senza vita.

Impegno o disimpegno sono dunque parole senza senso se applicate ad artisti, a poeti, a compositori, a romanzieri e in genere alla letteratura. Poesia e letteratura vivono, come ci ha ricordato Claudio Magris in un suo recente e bellissimo articolo sul 'Corriere della sera': "Come la rosa che non ha perché e fiorisce perché fiorisce".

Più oltre Magris conclude con appassionata lucidità il tema che qui ho cercato di svolgere e con il suo pensiero anch'io concludo: "Se mettersi al servizio d'una causa diventa passione, potenza fantastica che identifica quella causa con la vita, allora anche l'impegno può diventare poesia, estro, libertà immaginosa. È questo l'impegno morale e di conseguenza l'impegno politico della letteratura, che non predica bensì mostra".

(02 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il passo doppio Prodi-Veltroni
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:28:59 pm
POLITICA

Il passo doppio Prodi-Veltroni

di EUGENIO SCALFARI


GIOVEDI' 15 novembre, alle ore 22.30 il quadro elettronico nell'aula del Senato ha registrato l'approvazione della legge finanziaria (senza voto di fiducia) con una maggioranza di quattro voti. Venerdì 16 novembre Walter Veltroni ha presieduto una riunione alla quale erano stati invitati i rappresentanti di tutti i partiti per discutere le riforme istituzionali e una nuova legge elettorale.

Gli invitati c'erano tutti. I rappresentanti di Forza Italia hanno opposto il solito "niet" all'apertura del dialogo. Fini, Casini e Maroni per la Lega, si sono dichiarati disponibili.

Prodi dal canto suo, nell'intervista rilasciata ieri a Ezio Mauro, ha sponsorizzato l'iniziativa di Veltroni ed ha lanciato un appello al paese e a tutte le forze politiche, nessuna esclusa, per collaborare alla fase delle grandi riforme che ora, dopo il varo della Finanziaria, è finalmente possibile aprire.

Chi dava il governo per morto dovrà ancora una volta ricredersi. Chi critica, impropriamente, il voto dei senatori a vita e lo sottrae dal risultato numerico, arriva tuttavia alla conclusione che la maggioranza, sia pure con un solo voto, è ancora lì mentre l'opposizione, subito dopo la sconfitta parlamentare, si è spaccata in due: da una parte Berlusconi e Storace, dall'altra - pronti al negoziato - An, Udc, Lega.

Questo è dunque lo stato dei fatti. Il negoziato sulle riforme andrà avanti speditamente con un'alta probabilità di successo. Ai nastri di partenza i pilastri sui quali si cercherà di costruire una buona legge elettorale sono condivisi da tutte le principali forze politiche: il principio della proporzionalità che evita le "ammucchiate" non omogenee tra forze politiche di diversa e spesso opposta identità culturale; il principio della governabilità; il rifiuto del premio di maggioranza; il principio d'un rafforzamento dei partiti di maggior dimensione numerica implicito sia nel modello tedesco sia in quello francese, in quello britannico e in quello spagnolo.
il doppio passo prodi-veltroni

Maggiori poteri al primo ministro e poteri di controllo più penetranti al Parlamento. Senato federale.
Questa è la piattaforma condivisa. Ora bisognerà chiarire qualche punto controverso e passare dai principi alle norme, operazione non facile ma nient'affatto impossibile.

Se non vi saranno incidenti di percorso il lavoro potrebbe compiersi entro luglio o entro ottobre al più tardi.

Comunque in tempo per le elezioni europee del 2009, alle quali potrebbero essere abbinate quelle politiche.
Ma c'è l'incognita Dini e - al seguito - l'incognita Bordon. Vorranno impedire con i loro cinque voti che questa strategia si compia? E potranno farlo?

* * *

Voci maliziose quanto anonime sussurrano di un vero e proprio contratto che sarebbe stato stipulato tra Dini e Berlusconi. Personalmente non ci credo. Non per ragioni di tempra morale che, per quanto riguarda il secondo, sarebbe rischioso invocare, ma per quanto riguarda Dini per ragioni di convenienza. Vendersi l'anima? Essere schiavo per tutta la vita? Non è credibile. Convenienza politica allora? Ma quale?

Elezioni nel 2008 non ci saranno. Se il governo entrasse in crisi nei prossimi mesi ce ne sarà un altro "di scopo": per attuare le riforme istituzionali e una nuova legge elettorale. Sarebbe sostenuto dal Partito democratico ed anche da Fini Casini e dalla Lega.

Se la crisi fosse provocata da Dini evidentemente non potrebbe esser lui a presiederlo né ad insediarsi in un ministero importante. Dovrebbe dunque aspettare le elezioni future quando saranno. Campa cavallo. E con un futuro quanto mai incerto. Non si vede alcuna convenienza in questa strategia.

Dini ha in mente, se la crisi comunque ci fosse, di ricavarsi uno spazio politico radunando i liberl-moderati.

Non sono moltissimi i liberal-moderati e sono già sotto varie bandiere: Casini, Tabacci, Mastella. Anche Rutelli.

Anche una parte dei Popolari. Fuori ruolo anche Pezzotta.

Ma sono divisi e difficilmente accorpabili. Ciascuno segue un proprio vessillo e un proprio leader. Nessun leader di questi raggruppamenti cederebbe il suo posto a Dini.

La sua sola convenienza è restare dov'è acquistando più spazio e più peso, se potrà.

Può darsi che questa analisi sia sbagliata. Può darsi che Dini faccia un colpo di testa. Francamente non mi pare il tipo ma non si può escluderlo. Staremo a vedere e non ci sarà molto da aspettare perché per votare a marzo-aprile quel colpo di testa bisognerà farlo non oltre febbraio.

* * *

Restiamo tuttavia ancora per qualche riga al tema del mercato politico così vivacemente sollevato nella sua dichiarazione di voto al Senato dal capogruppo dei Democratici, Anna Finocchiaro.

A dibattito già chiuso domandò la parola il senatore De Gregorio, presidente della Commissione Difesa, eletto nelle liste di Di Pietro e trasmigrato dopo breve tempo allo schieramento di centrodestra.

Il presidente Marini gli chiese quale fosse il tema sul quale voleva intervenire. Rispose che voleva controbattere le parole "infamanti" della Finocchiaro. Nei due minuti che gli furono concessi riempì di insulti la senatrice affermando che quanto a lui aveva la coscienza a posto, a prova di bomba. Tutti capirono che si trattava di una autodifesa anche se la Finocchiaro non aveva fatto alcun nome.

Perché dunque l'intervento di De Gregorio? Parecchi giornali hanno pubblicato qualche tempo fa una notizia desunta dall'analisi dei bilanci dei partiti depositati in Parlamento. È risultato che una cospicua somma fu versata da Forza Italia ad un'associazione-partito fondata da Di Gregorio. Il versamento seguì di poco il piccolo ribaltone personale del medesimo. La notizia è stata pubblicata da "24 Ore" e poi da "Repubblica" e dal "Corriere della Sera". Bisognerebbe approfondirla.
Forse è soltanto la punta di un "iceberg".

* * *

Abbiamo già segnalato la stretta sequenza tra l'approvazione della Finanziaria e l'iniziativa di Veltroni di aprire il confronto su riforme e legge elettorale tra tutte le forze politiche. Questa iniziativa apre la stagione del nuovo partito e del suo segretario. Il fatto nuovo è questo: il Partito democratico ha dettato per la prima volta l'agenda politica dei prossimi mesi. Prima ancora di farsi le ossa l'iniziativa è ora nelle sue mani.

Intanto si sono insediati o stanno per esserlo alcuni suoi organi nell'ambito della Costituente: una segreteria provvisoria, una direzione provvisoria, la commissione per lo statuto, la commissione per il programma.

In particolare l'indicazione dei valori e delle strategie per tradurre quei valori in atti politici.

Il dibattito attorno a questi temi parte da una domanda: qual è il fondamento del nuovo partito? L'unione di due culture, quella socialista e quella cattolico-democratica?

Oppure qualche cosa di più e di più complesso? Elementi di liberalismo? Elementi di liberismo economico? È un partito che guarda a sinistra o che guarda piuttosto al centro?

Liberale di sinistra? Reincarnazione post-moderna del Partito d'azione?

Questo dibattito merita di esser seguito con attenzione. Mi permetto di dire la mia opinione di testimone interessato.

Io penso che il fondamento del Pd sia quello di avere come punti di riferimento le opportunità positive offerte dal processo di globalizzazione mondiale, i pericoli che esso comporta, i diritti che suscita e i doveri che si accompagnano ad ogni diritto, la necessità di garantire a tutti l'efficienza dei servizi pubblici indivisibili, a cominciare dalla scuola, e poi dalla sanità dall'assistenza dalla formazione dalla ricerca dalla giustizia rapida dall'inserimento dei giovani. Una pubblica amministrazione efficiente e snella. Ammortizzatori sociali adeguati.

Sicurezza. Meno Stato e più società. Mercato libero da monopoli e corporazioni. Manutenzione attenta della libera concorrenza.

Sono parole? Tante, troppe volte ripetute e scarsamente e spesso raramente attuate. Ebbene, il nuovo partito dev'essere il cane da slitta e da guardia di quelle parole, del loro autentico significato, della loro duratura attuazione. Cane da slitta per portare avanti il carico e da guardia per custodirlo. Per concludere con un'immagine direi che dovrebbe essere un partito che viene da sinistra e guarda in avanti.

Ho letto pochi giorni fa sul "Corriere della Sera" un articolo di Pietro Ichino su una politica economica di sinistra liberale. Con le sue tesi concordo pienamente. Ho letto le tante pagine di Gustavo Zagrebelsky sulla democrazia e la laicità ed anche con lui concordo. E con Claudio Magris quando scrive di analoghe questioni e parla delle loro interazioni con la letteratura. Ho letto le riflessioni del professor Toniolo sulla politica economica necessaria nell'Italia e nell'Europa di oggi. Infine Ilvo Diamanti e le sue analisi sui giovani e la politica.

Ricordo ancora i convegni degli "amici del Mondo" che fornirono all'allora nascente centrosinistra la base culturale della sua politica. È un buon esempio da tener presente. Gli autori che qui ho citato a titolo di esemplificazione confermano l'esistenza di un deposito culturale ed etico-politico di prim'ordine con cui il nuovo partito dovrebbe attingere e che darebbe agli italiani maggior sicurezza e fiducia nel futuro.

* * *

Credo doveroso che l'opinione pubblica esprima gratitudine - al di là delle convinzioni politiche - a quei senatori a vita che si sono sobbarcati ad una scelta di campo non per sostenere un governo ma per assicurare al paese quel minimo di stabilità possibile nelle condizioni esistenti, evitando rischiosissime avventure. Spesso sono stati ricoperti di insulti che hanno affrontato con dignitosa sopportazione.

Nel loro comportamento non c'è e non ci poteva essere alcun tornaconto e alcun calcolo personale né retropensieri di sorta né capricciose meschinità da soddisfare ma soltanto il diritto-dovere di salvaguardare le istituzioni e il tessuto connettivo della nostra società.

Ne faccio i nomi: Andreotti, Ciampi, Colombo, Levi Montalcini, Scalfaro. Ad essi il nostro rispettoso saluto e augurio di buona vita.

(18 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - La miscela esplosiva che incendia il cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2007, 11:41:51 am
POLITICA

IL COMMENTO

La miscela esplosiva che incendia il cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


L'ACCUSA che da sempre e ora più che mai viene lanciata contro Silvio Berlusconi è di essere populista.

Non dico che non corrisponda a verità, ma dico che è soltanto una parte della verità anche perché c'è populismo e populismo. Mazzini - in ben altro modo - era un populista. Anche Garibaldi. Anche Bakunin. Ma a nessuno verrebbe in mente di paragonare Berlusconi a queste figure del passato.

Per meglio definire il signore di Arcore è preferibile rifarsi a due grandi poeti romaneschi, Belli e Trilussa. Il primo, nel sonetto sull'"Editto" esordisce: "Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo / sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto". L'altro, ne "L'incontro de li sovrani" pone una domanda e dà una risposta del re: "E er popolo? Se gratta. E er resto? Va da sé".

Il populismo del re (o del demagogo aspirante dittatore, affetto da bulimia del potere) è cosa del tutto diversa dal populismo del rivoluzionario. Berlusconi appartiene a questa categoria. Vellica gli istinti peggiori che ci sono in tutti gli esseri umani. Impastando insieme illusorie promesse, munificenza, bugie elette a sistema, tentazioni corruttrici, potere mediatico. Una miscela esplosiva, capace di manipolare e modificare in peggio l'antropologia d'un intero paese. Ottant'anni fa Mussolini fece altrettanto; non a caso il suo giornale, affidato alla direzione di suo fratello Arnaldo, fu chiamato "Il popolo d'Italia". Il popolo?: "Se gratta e guarda la fregata che sul mare scintilla" scrisse Trilussa. E purtroppo di quel suo grattarsi non pare abbia conservato sufficiente memoria.

Quest'atteggiamento del "boss" spiega tante cose, a cominciare da quel suo "vibrare" davanti alla platea radunata da Storace che lo accolse con le braccia levate nel saluto romano scandendo il "duce duce" d'infausta memoria.

La sua operazione politica del nuovo partito è da questo punto di vista perfetta: lo sottrae ad una cocente sconfitta, realizza i bagni di folla di cui ha perenne bisogno come dell'aria che respira, aggancia la sua demagogia e il suo populismo alla destra fascista e alle sue pulsioni; infine scatena la sua vendetta contro i "traditori" che lui (sono parole sue) "ha tirato fuori dalle fogne e nelle fogne li rimanderà".
Ineccepibile, non c'è che dire.

* * *

Veltroni lo incontrerà venerdì dopo aver visto domani Fini, poi Casini e per ultimi, lunedì 3 dicembre, quelli della Lega. Tema: una nuova legge elettorale, ma anche modifiche istituzionali e costituzionali, riforme dei regolamenti parlamentari, Senato federale.
Berlusconi ha posto una condizione: la trattativa dovrà riguardare soltanto la legge elettorale, votata la quale la legislatura si chiude e il popolo è chiamato al voto che dovrà avvenire entro la primavera del 2008. Veltroni ha già risposto che questa condizione è inaccettabile, abbinare il negoziato alla caduta del governo Prodi non è nelle sue intenzioni oltre ad essere un accordo di natura anticostituzionale, quindi nessuna elezione politica fino a quando il governo sarà legittimamente in carica.

Con queste premesse i due si incontreranno. Berlusconi punta ad una legge proporzionale (alla tedesca) come del resto vorrebbe anche Casini; Veltroni preferisce un proporzionale corretto in senso maggioritario, come vorrebbe anche Fini.
Come finirà? Penso che Berlusconi accetterà di negoziare abbandonando la pregiudiziale della caduta del governo Prodi. Negoziato lungo. Tanto - pensa lui - Prodi cadrà egualmente, pugnalato da Bruto, cioè da Lamberto Dini. Questione di giorni.

* * *

Però, a pensarci bene, mandare Prodi a gambe levate non conviene al signore di Arcore. Il Quirinale a quel punto ha l'obbligo di cercare una nuova maggioranza. Ebbene, la nuova maggioranza per un governo "di scopo" che porti avanti la legislatura fino a quando le riforme istituzionali ed elettorali siano state realizzate ed attui la Finanziaria e i suoi collegati, è sulla carta disponibile: la maggioranza attuale più An e Udc. Per un governo "di scopo". Maggioranza di emergenza.
Conviene a Berlusconi? Sarebbe di fatto una sua piena sconfitta. Se non ha del tutto perso la ragione, a lui conviene tenersi Prodi e andare avanti nella trattativa rinunciando all'appuntamento elettorale. Sarebbe una sconfitta anche questa ma almeno senza l'onta di vedere i suoi ex delfini traditori riprender confidenza con il potere. Dalla padella alla brace. Scelta difficile ma obbligata: la padella è meglio.

Quanto a Dini, se il governo non gli offre un pretesto valido non può esser così scriteriato da fare la parte di Bruto che non ha mai portato fortuna a nessuno. Ma poi quale Bruto? Quali ideali? Quale prospettiva politica? Andrebbe a far compagnia a Schifani e a Cicchitto, a Dell'Utri e alla Brambilla; una compagnia già troppo numerosa per lasciare spazio ad un nuovo venuto, ex traditore anche lui. Non sembra credibile. Andrebbe forse con Casini mentre Casini tratta a sua volta con Veltroni? Sarebbe imbarazzante. Per un piatto, anzi un piattino di lenticchie e senza primogenitura.
Dini può condizionare soltanto Prodi. Col risultato di rafforzarlo. Oppure di farlo cadere se la sinistra dovesse votargli contro sul voto di fiducia.
Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio come Bruto? Mentre anche loro sono chiamati a negoziare sulle riforme? Tutto questo per ottenere qualche briciola sui lavori usuranti e sullo "staff leasing"? Ma siamo seri!

* * *

Quale legge elettorale? Alla fin fine sarà la proporzionale tedesca con qualche (modesta) correzione maggioritaria che favorisca i partiti di maggiori dimensioni.
Entreranno in Parlamento sei partiti: il partito del popolo berlusconiano, il partito democratico, An, Udc, Lega, Sinistra radicale (Cosa rossa). Verdi, socialisti, radicali, dipietrini dovranno accasarsi a sinistra in qualche modo.
A guardare le cose così - e non vedo in quale altro modo guardarle - non esisterebbe una maggioranza. A meno che i berlusconiani e/o il Pd non riescano a sfondare portandosi in vista del 40 per cento dei voti.
È possibile un esito elettorale del genere? Possibile sì, probabile non direi. I berlusconiani al 40 per cento dovrebbero aver risucchiato almeno metà dei voti di An costringendo Fini a rientrare nei ranghi insieme alla Lega. E il Pd?

* * *

Qui si apre un discorso molto serio che va oltre le contingenze emergenziali dettate dall'attualità. Riguarda i tanti lavoratori e pensionati che hanno votato Berlusconi, i tanti giovani che non votano, i tanti delusi di sinistra che non votano più. I tanti imprenditori di piccola e media dimensione che stanno tra il leghismo e il riformismo. Le tante "casalinghe" che pensano al futuro dei loro figli. Insomma il paese spaesato che vuole onestà ed efficienza, innovazione e laicità religiosa. Che vuole fare da sé ma in un quadro politico che lo orienti e lo aiuti a fare da sé.
Il Partito democratico ha la potenzialità per compiere questo miracolo se saprà esprimere, interpretare e dare concrete risposte ai bisogni, ai desideri e ai sogni di questo settore maggioritario del paese.
Politologi e sondaggisti travestiti da politologi pensano che i voti fluttuanti capaci di cambiare partito tra un'elezione e l'altra siano un piccolo settore del corpo elettorale e questo è vero quando si fronteggino due solidi blocchi con solide appartenenze in mezzo ai quali si interponga uno strato sottile di elettori "centrali" che di volta in volta si muovano verso destra o verso sinistra.
Ma non è più vero quando il quadro è frammentato, i blocchi e le appartenenze sono fragili e la politica cosiddetta dei due forni non è possibile.
Non concordo con quanti sostengono che un ritorno al proporzionale significhi ritorno alla Prima Repubblica. Allora c'era un partito di centro - la Democrazia cristiana - largamente dominante. La politica dei due forni era lei a farla, scegliendo di volta in volta i suoi alleati. Il sistema proporzionale (come ha scritto giustamente Giovanni Sartori) funzionava di fatto come un sistema bipolare: Dc da una parte, Pci dall'altra. Bipolare ma senza alternanza.

Oggi il problema è quello di costruire un partito di maggioranza sul quale convergano riformisti seri e liberali altrettanto seri. Ceti che abbiano capito il valore democratico delle istituzioni, il valore di agire in un quadro europeo, il valore di collocare l'Italia nel processo di globalizzazione cogliendone i vantaggi e limitandone i danni. Riconquistando la fiducia del Nord e rilanciando il Sud come investimento nazionale e internazionale.

Questa mi sembra essere la vocazione del Partito democratico e ad essa dovranno dedicarsi quelli che l'hanno voluto e i tanti che hanno compreso e partecipato al progetto.

Berlusconi ha detto l'altro ieri ai suoi ex alleati "Voi tenetevi il progetto, io mi prenderò i voti". Sembra una battuta più o meno felice, ma il dramma dell'ex centrodestra è che quella battuta corrisponde esattamente al pensiero e alla personalità del suo autore. Il quale vede gli italiani come un popolo da accalappiare a forza di battutacce, barzellette grevi e carisma personal-mediatico.

Con questi ingredienti non si va da nessuna parte, il paese resta fermo o regredisce, come di fatto è avvenuto.
Il centrosinistra ha anch'esso rilevanti responsabilità nello stallo in cui ci troviamo da anni. Ma - non scordiamolo mai - ha compiuto una riforma di inestimabile valore portando l'Italia in Europa e nell'area della moneta europea, senza la quale a quest'ora saremmo rimbalzati in una condizione da Terzo Mondo.

Ora ci vuole uno scatto di qualità e di quantità, al quale sono chiamati tutti gli italiani. Riguarda infatti il Partito democratico ma anche la sinistra e i cittadini che sentono con maggiore sensibilità tradizioni liberali e moderate. Tutti sono interessati a far emergere le potenzialità delle quali l'Italia dispone. Questa è la vera maggioranza e questo dev'essere il progetto comune delle persone di buona volontà. I voti, quali che siano le battute della demagogia berlusconiana, verranno insieme al progetto, motivate dal progetto e con la volontà di attuarlo.

* * *

Non ho nulla da aggiungere a quanto ha già scritto il direttore di "Repubblica" sullo scandalo Rai-Mediaset, sull'operazione "Delta", sulla sua eccezionale gravità e sulla necessità di affrontarlo con appropriate terapie. Affrontarlo subito, perché è in gioco il mercato dell'informazione, la sua qualità e i suoi effetti sulla formazione della coscienza nazionale.

Aggiungo a quanto hanno scritto Giovanni Valentini, Michele Serra e Giuseppe D'Avanzo due considerazioni. La prima riguarda la cosiddetta "fuga di notizie" a proposito delle intercettazioni telefoniche nel processo per bancarotta della società controllata dall'ex sondaggista di Berlusconi. La fase istruttoria è chiusa da tempo, tutti gli atti relativi sono stati depositati nella cancelleria del Tribunale di Milano a disposizione delle parti e quindi sono pubblici. La cosa stupefacente è che vi siano ancora recriminazioni sulla "fuga" di queste notizie che non sono più soggette ad alcun obbligo di secretazione.

La seconda osservazione riguarda la terapia affinché la Rai cessi di essere un corpaccione dominato dai partiti e dalle camarille interne e divenga invece un'azienda indipendente, incaricata di compiere il servizio pubblico dell'informazione. Non parlo ovviamente della necessità di accertare i fatti e sanzionarne severamente gli autori: è un atto dovuto. Parlo della necessità di trasformare l'azienda scrostandola dalle camarille interne e dalla pressione esterna-interna dei partiti.

C'è un solo modo per farlo: trasferire la proprietà dell'azienda dal governo ad una Fondazione i cui dirigenti siano designati dal Presidente della Repubblica e da altre Autorità indipendenti. La Commissione di vigilanza dev'essere a mio avviso abolita perché ha la sola funzione, non più accettabile, di tutelare i partiti. La Fondazione avrà il potere di nominare l'organo di amministrazione dell'azienda e questo nominerà i direttori delle reti e dei telegiornali oltre che gestire le risorse e gli investimenti.

Non è cosa difficile e non richiede molto tempo ma soltanto volontà politica. E urgenza.
Una volta che la Rai sia di proprietà d'una Fondazione indipendente dalla politica, anche il problema del conflitto d'interessi sarà risolto, almeno per questa parte che è poi quella essenziale.
Non aspettate, per favore, neppure un minuto di più.


(25 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Nietzsche ultimo moderno
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2007, 11:26:13 pm
Eugenio Scalfari.

Nietzsche ultimo moderno

Dopo di lui un confuso balbettìo.

Nel quale emergono anche figure di grande peso e validità artistica, ma non tali da configurare una 'poetica'


Un libro recentissimo di Alfonso Berardinelli, 'Casi critici', apre e chiude la discussione sul post-modernismo, cioè sulla letteratura, la poesia e l'arte fiorite (si fa per dire) nella seconda metà del Novecento come omologazione e distacco dalla modernità. Stando all'analisi di Berardinelli il post-moderno sarebbe cominciato già negli anni Quaranta del secolo scorso e avrebbe dunque coinvolto anche scrittori e poeti come Moravia, Calvino, Pasolini, il secondo Montale (quello di 'Satura' e delle opere ultime), i 'Cent'anni di solitudine' e perfino un poeta come Auden che ha illuminato la poesia del XX secolo.

Berardinelli si pone, ovviamente, la domanda di che cosa sia e in che cosa consista il post-modernismo e abbozza una risposta. Anzitutto ciò che non è: non è moderno ma neppure avanguardia; non è un 'ritorno all'ordine'; non è invenzione innovativa. Invece è barocchismo, citazionismo, lontananza dalla modernità senza la potenza necessaria ad indicare una strada nuova e diversa. Pensiero debole, lo definisce in conclusione l'autore senza necessariamente dare a questa definizione un significato dispregiativo.

Questo, se ho capito bene, sarebbe il post-modernismo del quale comunque Berardinelli annuncia la fine. Una fine, direi, per estenuazione, dopo la quale non si intravedono altri inizi.

Non faccio il mestiere del critico e quindi non voglio invadere campi di scrittura che non sono i miei; tuttavia sono un lettore di professione, come avrebbe detto Paolo Milano che di critica se ne intendeva. Lettore di professione. Come tale mi arrischio a dire la mia sul tema sollevato da Berardinelli e comincio dall'inizio, cioè dalla modernità.

Ho la sensazione che non si abbia un'idea chiara della modernità, di che cosa si intenda per pensiero moderno. Che riguarda anche, e produce effetti, sulla letteratura, la poesia, la pittura, l'architettura, la musica, la scienza. Insomma su tutte le manifestazioni della vita perché il pensiero è la principale modalità che caratterizza il vivere della nostra specie nel mondo.

Ebbene, il pensiero moderno nasce nel momento in cui la personalità individuale si autopropone come soggetto centrale e autonomo di coscienza e di creatività. Rompendo con i canoni tradizionali dell''ipse dixit', con l'imitazione del passato, con la fissità dei generi letterari e artistici.

La modernità rappresenta cioè la grande rottura rispetto all'antichità classica. Una rottura che coinvolge anche il costume e la politica, l''ancient régime' e la Chiesa da un lato, i moderni dall'altro. Se dovessi scegliere qualche nome direi Caravaggio, Donatello, Michelangelo, direi Mozart, direi Cartesio, Machiavelli, Shakespeare, Galileo e Newton, direi Pascal ed anche Rabelais e Cervantes.

Questo è l''incipit' della modernità, che non comincia tutta insieme e dovunque ma si espande gradualmente a macchia di leopardo per abbracciare alla fine l'insieme della civiltà occidentale.

Il culmine della modernità è raggiunto agli inizi del XIX secolo, a cavallo tra l'Illuminismo e il Romanticismo. Con qualche riserva su quest'ultimo, che regredisce verso il 'Gotico' ma con un'altra parte di sé irrompe ancor più avanti nella creatività soggettiva, soprattutto nella musica, nel romanzo e infine nelle arti figurative e nella poesia.

Fino a quando dura la modernità? Questa sì che è una bella e difficile domanda. Ad essa non si può dare un'unica risposta se non dicendo che la modernità dura fino a quando permane la sua creatività o, se si vuole dirlo in altro modo, la sua forza propulsiva.

Brahms, Mahler, Wagner, sono certamente moderni romantici; ma anche Stravinskij e Debussy fanno parte della modernità sia pure in chiave di avanguardia.

In pittura la modernità arriva fino a Picasso e a Matisse. Ma perfino a Rothko. Avanguardia moderna. Creativa. Innovativa. Che viaggia sull'ascissa del tempo e sull'ordinata della classicità perché la grande modernità è classica, duratura, dinamica. Mi viene da dire eraclitea. Forse aiuta a capire ciò che intendo per modernità se faccio i nomi di Leopardi, Keats, Flaubert, Stendhal, Tolstoj ma poi anche Proust, Joyce, Faulkner, Auden, Rilke, Kafka.

Questa è la modernità classica per dire la più matura e avanzata. Nella scienza la creatività moderna si fregia dei nomi di Einstein, Max Planck, Freud. Poi comincia la 'décadence'. È una fase assai complessa, quella della decadenza. Sopraggiunge quando la modernità raggiunge la pienezza ed è presa da una sorta di languore creativo, dubbiosa sulle proprie capacità e ripiegata su sé stessa. Infine estenuata anzi stremata. Con discontinui bagliori di ripresa che ben presto si spengono in un balbettìo sempre più opaco e insignificante.

Su questo panorama si erge la figura di Federico Nietzsche che è insieme filosofo, poeta, profeta. E chiude, lui sì, definitivamente la modernità poiché la porta al suo punto di estrema radicalità e di nichilismo. Se questo è stato il percorso, e così io penso sia stato, ciò che viene dopo è un confuso balbettìo nel quale emergono figure di grande peso e di grande validità artistica ma non tali da configurare una 'poetica'. Perciò andare a caccia di scuole e di definizioni è tempo sprecato. Dopo la modernità ci sono i contemporanei, che sono inclassificabili. Nasce il linguaggio della fotografia e quello del cinema. Poi quello di Internet. Qualcuno lancia l'immagine delle invasioni barbariche. Perché no?

(30 novembre 2007)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Bertinotti e il dovere del silenzio
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2007, 11:15:01 pm
POLITICA IL COMMENTO

Bertinotti e il dovere del silenzio

di EUGENIO SCALFARI


HA ragione il capo dello Stato che si dichiara "perplesso" delle parole dedicate dal presidente della Camera a Prodi e al governo da lui presieduto, nell'intervista pubblicata qualche giorno fa dal nostro giornale. Perplesso è l'aggettivo giusto. Fossimo alla Camera dei Comuni l'aggettivo appropriato sarebbe "scandalizzato", ma qui da noi da tempo i presidenti della Camera e del Senato hanno cessato di essere considerati e da considerarsi semplicemente gli "speaker" delle rispettive assemblee. Sono uomini politici che parlano di politica dalle più alte sedi istituzionali, con la sola cautela di astenersi dalle singole votazioni.

Ma anche se questa è la prassi invalsa, questa volta Fausto Bertinotti l'ha visibilmente oltrepassata. Augurarsi, anzi prevedere, anzi dichiarare che il presidente del Consiglio "è morente", che il centrosinistra ha fallito, che l'opinione pubblica l'ha abbandonato e che il suo partito (di Bertinotti) si propone di dissociarsi dalla coalizione e avere "le mani libere", raffigurano un leader politico a tempo pieno che crea un vero e proprio conflitto istituzionale di inaudite proporzioni. Ne era consapevole il presidente della Camera? Ne aveva valutato gli effetti? Oppure si è fatto prendere la mano mettendosi in una posizione che definire imbarazzante è dire assai poco? Ho grande stima per le capacità suggestive del suo linguaggio e per la sua immaginazione politica. Un po' meno per quanto riguarda il suo senso delle istituzioni.

Ma il problema ora è di capire perché Bertinotti ha detto ciò che ha detto e poi vedere qual è la via - se ce n'è una - per ricomporre il devastante conflitto istituzionale che si è creato.

Capire ciò che ha detto significa anche valutare ciò che non ha detto. Non ha detto che tra gli sconfitti della situazione politica attuale il primo è proprio lui. La pretesa sconfitta del centrosinistra è in realtà l'isolamento della sinistra radicale e il suo ritorno a quel ruolo di semplice testimonianza antagonista dal quale proprio lui, Fausto Bertinotti, ha tentato di liberarla affidandole una funzione di presenza politica governante e concretamente riformatrice.

Nell'idea di Bertinotti la sua sinistra avrebbe dovuto rappresentare una sorta di affluente nel grande fiume del riformismo italiano. Un affluente di grande importanza e di ampio volume di acque, che avrebbe potuto e dovuto modificare in modo significativo il corso del fiume senza proporsi di invertirlo.
Quest'operazione era molto ambiziosa. Il suo partito era infatti nato non per affluire in un fiume riformista ma per dar vita ad un fiume autonomo. Magari parallelo per una parte del percorso, ma poi orientato verso un altro punto cardinale e sospinto da un'altra pendenza.

Superare questa concezione originaria è stato, fin dal 2004 e sempre più con l'approssimarsi delle elezioni politiche del 2006, l'obiettivo di Bertinotti. Per raggiungerlo si è "inventato" il partito transnazionale della sinistra europea. Per la stessa ragione ha accettato la leadership di Prodi, cioè di un leader senza partito; per dare corpo alla sua strategia ha chiesto la presidenza della Camera, mettendosi oggettivamente di traverso alla candidatura di Massimo D'Alema.

So (l'ho saputo dallo stesso D'Alema) che nella "spiegazione" che ci fu tra loro due, D'Alema gli manifestò il timore che Rifondazione, perdendo il suo segretario, avrebbe rischiato di sbandarsi. Fu rassicurato da Bertinotti su questo punto e - come ricordato da Benigni con l'irresistibile comicità che gli è propria - "fece un passo indietro", ma la sua diagnosi si è dimostrata giusta. Rifondazione ha accettato con molto disagio i nuovi compiti politici che gli venivano assegnati, ha accentuato la necessità di distinguersi all'interno del governo, ha alimentato lo scontro anche se alla fine di ogni "round" decideva poi di riallinearsi per evitare la caduta del governo.

La perdita di consenso di Prodi si deve in gran parte alla permanente rissosità che i ministri della sinistra radicale hanno via via accresciuto, dando agli italiani la sensazione che il governo non fosse in grado di governare. Un giudizio che non corrispondeva alla realtà: il governo in un anno e mezzo e malgrado la situazione numerica al Senato, ha governato. Ha varato due Finanziarie importanti, ha recuperato un accettabile risanamento finanziario, ha dato inizio ad una politica redistributiva non trascurabile, ha svolto un ruolo importante nella politica estera.

Eppure tutto è stato reso invisibile dalla rissa continua all'interno dell'Unione e all'interno del governo. Sui "media" non c'era giorno che non vi fossero titoli su quella rissa, se ne fornissero i retroscena, se ne raccontasse lo svolgimento. La gente ha perso progressivamente fiducia, l'opposizione ha puntato tutto sull'implosione della maggioranza. Chi si è assunto la responsabilità dei danni creati da questa continua ricerca di visibilità? Gli attori mai stanchi di rilanciare lo scontro interno sono stati i gruppi di Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi, oggettivamente coadiuvati sull'opposto versante da Mastella, Di Pietro, Dini. La nascita del Partito democratico ha accelerato questo percorso: dal momento in cui il fiume riformista veniva personificato da un partito e da un leader la situazione degli affluenti non poteva che risultare sempre più disagevole.

Concluderei su questo punto con il vecchio adagio: chi è causa del suo mal pianga se stesso. I "cespugli" della sinistra radicale e Rifondazione non si sono accontentati di correggere il corso del fiume riformista, hanno tentato di invertirne il corso o almeno di dare l'apparenza di questa operazione. Di qui l'apparenza di un governo che galleggiava anziché governare, d'un Prodi Re Travicello travolto dai marosi della sua coalizione.

C'era un'alternativa per la sinistra radicale? Non ce n'era altra che tornare al suo vecchio ruolo di testimonianza antagonista. Bertinotti ha resistito finché ha potuto, poi ha mollato. L'intervista a "Repubblica" è la testimonianza del fallimento della sua politica. Purtroppo porta con sé, a scadenza più o meno breve, la fine dell'esperimento prodiano. A meno che Bertinotti innesti ora la retromarcia. Ma il suo partito lo seguirà?

C'è un punto che va chiarito: la citazione di Riccardo Lombardi che nelle parole di Bertinotti a "Repubblica" risulta essere il modello della sua azione politica. Bertinotti come Lombardi? Rifondazione come la sinistra lombardiana?

Non posso credere che Bertinotti non conosca a fondo il pensiero e la biografia politica di Lombardi, perciò o ha travisato volutamente o vuole fornire un'immagine di sé e del suo partito che non collima con la realtà. Lombardi apparteneva allo stesso ceppo riformista di Pietro Nenni. Veniva dal Partito d'azione. Non ebbe mai indulgenze verso l'ala filo-comunista e filo-sovietica che nel Psi era rappresentata da Vecchietti e da Valori. Aveva una solida conoscenza dell'economia, non amava il piccolo cabotaggio riformista e puntava invece sulle riforme da lui definite strutturali: quelle che potevano modificare appunto la struttura del capitalismo senza però impedirne il funzionamento ed anzi rivitalizzandone la concorrenzialità, la trasparenza, l'efficacia e rafforzando la sua scelta democratica.

Le riforme alle quali lavorò quando ebbe inizio il centrosinistra nel 1962, erano quattro: la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la nominatività dei titoli azionari, l'abolizione del segreto bancario, la nazionalizzazione dei suoli edificabili. Conosco bene questa storia perché la seguii assai da vicino. Assistetti anche ad un incontro decisivo su tutta questa tematica tra Carli e Lombardi che avvenne in casa mia nel 1963 su richiesta di Riccardo.

La conclusione fu - per dirla molto in breve - che Carli convinse Lombardi sull'impossibilità politica, sociale ed economica di fare quattro riforme di quella portata in un breve spazio di tempo. Avrebbero provocato il panico di tutti i ceti sociali, una crisi nei depositi bancari, una gigantesca fuga di capitali e reazioni politiche di segno autoritario. L'incontro durò fino alle due del mattino. Alla fine Lombardi si convinse. Stralciò la nazionalizzazione dei suoli e l'abolizione del segreto bancario. Concentrò l'azione del Psi sulla nazionalizzazione dell'industria elettrica e sulla nominatività non dei titoli azionari ma delle cedole e dei dividendi all'incasso.

Il suo riformismo cioè riuscì a correggere il corso del fiume riformista senza precipitare in un antagonismo sistemico che serve soltanto a mantenere in vita la ditta dei cespugli grossi e piccoli. Perciò il modello lombardiano è forse quello cui Bertinotti aspirava ma che il suo partito non ha condiviso.

Quanto alla crisi istituzionale, è evidente che essa deve essere immediatamente ricomposta. Sulla carta ci sono due modi di affrontarla: le dimissioni di Bertinotti dalla presidenza della Camera oppure una sua stagione di stretto riserbo politico nei limiti d'uno scrupoloso esercizio del suo ruolo istituzionale. La prima soluzione - quella delle dimissioni - è di gran lunga la peggiore. Aggraverebbe drammaticamente la crisi anziché risolverla; forse sarebbe possibile in un Paese diverso e in una diversa situazione. La seconda dunque è in realtà la sola strada, ma deve avere rilievo pubblico, deve essere esplicita e non implicita.

Non si deve certamente chiedere a Bertinotti ciò che nessun politico è disposto a dare, non gli si può chiedere di smentire se stesso. Ma si ha ragione di chiedergli che dica che d'ora in avanti non farà più esternazioni politiche visto che esse provocano disagio e contrasti accrescendo la confusione.

Prenda atto del dato di fatto e cominci la sua nuova stagione di "speaker", lasciando che il suo partito e gli organi che lo guidano orientino da soli il loro cammino senza bisogno del suo patrocinio. Così avrebbe dovuto essere fin dall'inizio. Lo sia almeno da ora. E lo sia soprattutto per quanto riguarda la riforma della legge elettorale. Sarebbe grottesco e assolutamente intollerabile che il presidente della Camera fosse di fatto uno degli interlocutori degli altri partiti in causa su una materia che troverà in Parlamento la sua sorte. Mai come in questa occasione l'arbitro non può giocare in campo con i giocatori, né nella forma né nella sostanza. Perciò si turi le orecchie, si bendi gli occhi e abbia di mira esclusivamente la corretta applicazione del regolamento parlamentare.

(7 dicembre 2007)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Cade, non cade, magari ce la fa
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2007, 04:54:31 pm
POLITICA IL COMMENTO

Cade, non cade, magari ce la fa

di EUGENIO SCALFARI


CADRÀ a gennaio. No, cadrà prima. Non durerà fino al 2009. I pareri sono discordi, le scommesse impazzano. Perfino i cronisti e i notisti politici dei giornali ne sono stati contagiati e invece di raccontare e di analizzare quel che accade si impigliano in vaticini, spesso orientati dagli uffici stampa dei partiti in barba all'oggettività deontologica della professione.

Se il governo cadrà prima di gennaio, cioè nei prossimi giorni, la causa scatenante sarà stata l'emendamento del decreto sulla sicurezza che prevede pene detentive contro chi incita alla discriminazione razziale e omofobica. Cioè il caso sollevato in Senato dalla cattolicissima Paola Binetti.

A gennaio invece si parlerà di verifica: la vuole Prodi per sapere se Rifondazione ha deciso di uscire dall'Unione e la vuole Rifondazione per imporre al governo una politica economica più impegnata nel sociale, per aumentare il potere d'acquisto dei salari e per contrastare il lavoro precario.

Se questi appuntamenti saranno superati il governo avrà guadagnato un anno. Poi si vedrà. Su questi diversi scenari bisogna riflettere. E poi, magari, anche scommettere, ma con cognizione di causa.

* * *

Paola Binetti è senatrice cattolica. Ultracattolica. Di tanto in tanto porta il cilicio (l'ha detto lei) per mortificare il corpo e offrire a Gesù il suo sacrificio.
Questa prassi, ormai desueta, suscita rispetto ma fa anche impressione. Nello smaliziato mondo di oggi può perfino provocare comicità. Infine la Binetti è seguace dell'Opus Dei. Ma si è iscritta al Partito democratico o meglio: viene dai Popolari di Marini, quindi dalla Margherita, per avvenuta fusione è infine approdata al partito di Veltroni.

Sembra che ci si trovi a suo agio. Fa piacere saperlo, la democrazia pluralista del Pd non può che essere rafforzata da questa "contaminazione".
Per i valori che rappresenta, la Binetti è stata inserita nella commissione di quel partito e incaricata di redigere il "manifesto", cioè appunto la carta dei valori. Il presidente della commissione è Alfredo Reichlin, una vita da dirigente del Pci, un intelletto fervido e rispettoso delle diversità, ma certo non un baciapile.

La Binetti e i valori da lei rappresentati saranno indubbiamente contaminanti (utilmente contaminanti) ma dovranno a loro volta venir contaminati dai valori della laicità (utilmente a loro volta contaminanti). Insomma ci dovrà essere una sintesi. Da subito perché il caso Binetti è già scoppiato, rischia di provocare la caduta del governo, il Pd deve dunque prendere una decisione. È evidente che la Binetti non può essere espulsa dal partito: un partito democratico non può, per definizione, sanzionare i casi di coscienza.

Da parte sua la senatrice ultracattolica deve rispondere a due domande. La prima: è vero che alla vigilia del voto ha ricevuto una telefonata dal segretario della Conferenza episcopale che le raccomandava di votare contro? Se è vero, il fatto è molto grave. Non tanto per lei, che avrà certamente seguito la sua coscienza, quanto per monsignor Betori. Lo spazio pubblico di cui la Chiesa gode in abbondanza le dà titolo a propagandare i suoi principi di dottrina, di fede e di morale. Spesso sconfina - e non dovrebbe - nella politica. Ma assolutamente non può intervenire direttamente per condizionare il voto di un membro del Parlamento.

L'intervento del segretario della Cei raffigura una macroscopica lesione delle norme concordatarie. Se l'intervento c'è stato, il ministro degli Esteri della Repubblica italiana dovrà chiedere spiegazioni e scuse formali alla Segreteria di Stato vaticana. Perciò la Binetti ha l'obbligo di dirci la verità su questo punto essenziale.

C'è però una seconda domanda cui deve rispondere. La Costituzione italiana prescrive in modo esplicito che non vi possano essere discriminazioni nei confronti dei cittadini, eguali di fronte alla legge indipendentemente dall'età, dal sesso, dalla religione. Perciò parlare, o peggio ancora legiferare, discriminando gli omosessuali è un atteggiamento anticostituzionale.

L'emendamento inserito nel decreto in questione tende a dare attuazione con legge ordinaria ad un principio essenziale stabilito dalla Costituzione. La senatrice Binetti contesta la stesura di quell'emendamento (che può essere modificato) o contesta il principio sancito in Costituzione? Nel primo caso è giusto che operi per emendare l'emendamento; nel secondo è doveroso che si dimetta dal Partito democratico che tutti può ospitare salvo chi anteponga i suoi principi a quelli della Costituzione.

Non mi pare che sul caso Binetti ci sia altro da dire. C'è solo da attendere le risposte dell'interessata. Se vorrà darle a noi le saremo grati. Comunque le deve dare al suo partito e, più ancora, al Senato della Repubblica.

* * *

Se non cadrà sul caso Binetti, supererà il governo la verifica di gennaio? Io credo di sì.
Rifondazione chiede un robusto impegno sul potere d'acquisto dei ceti più deboli, sul precariato, sulla chiusura dei contratti di lavoro ancora aperti. Per mettere altra carne al fuoco, i ministri della sinistra radicale chiedono anche a Prodi un ripensamento sulla base militare americana a Vicenza.

Il ripensamento violerebbe un accordo internazionale già firmato e confermato. Perciò la richiesta mi sembra più provocatoria che sostenibile. I contratti riguardano la controparte dei sindacati e non il governo, il quale può soltanto auspicarne la chiusura e offrirsi come mediatore se richiesto dalle parti contraenti.

Quanto alla politica redistributiva e al precariato, si tratta di obiettivi che fanno parte integrante degli impegni programmatici del governo il quale ha già dato inizio al loro adempimento e ha già dichiarato la sua ferma intenzione di andare avanti su quella strada nella Finanziaria del 2009. Se anticiperà i tempi sarà ben fatto e penso che lo farà.

Il limite sta esclusivamente nelle risorse disponibili. Cioè nella copertura finanziaria, che dovrà tener conto del vincolo europeo. Già nella Finanziaria del 2008 il governo si è mosso in un'ottica di rispetto di quel vincolo dandone però un'interpretazione intelligente e flessibile, anche se ne è derivato un conflitto con la Commissione di Bruxelles, poi superato in sede Ecofin.

Immagino che la stessa interpretazione sarà mantenuta ferma anche nel prossimo esercizio finanziario. Ma nella sostanza quel vincolo permane ed è interesse del Paese rispettarlo. Per di più, in una materia che investe la politica sociale, è evidente che la verifica politica dovrà svolgersi in parallelo con la verifica con le parti sociali, che del resto l'hanno già chiesta anche loro.

Comunque: non c'è alcuna contrapposizione sugli obiettivi, che sono comuni del governo, della sinistra, dei sindacati. Ed anche della Confindustria e della Banca d'Italia. Altrettanto comuni sono (o dovrebbero essere) gli obiettivi riguardanti la pressione fiscale, la spesa corrente, il disavanzo, il debito pubblico, che dovrebbero tutti diminuire, e l'avanzo primario che dovrebbe invece aumentare.

Non vedo dunque come e perché il governo dovrebbe cadere sulla verifica, sempre che Rifondazione non sia a caccia di pretesti e non abbia già deciso di mettere in crisi il governo.

Se l'ha deciso, se ne assumerà le responsabilità. È vero che la crisi del governo Prodi non significa necessariamente la fine della legislatura. Berlusconi, a quanto si sa, ha assunto l'impegno con Veltroni di continuare il negoziato sulle riforme e lo stesso proposito hanno manifestato Fini e Casini. Tuttavia lo stesso Veltroni ha poi dichiarato che, nonostante questo impegno, una crisi del governo Prodi aprirebbe una fase di precarietà generale che rischierebbe di chiudersi con le elezioni anticipate fatte con l'attuale legge elettorale.

Perciò ci pensi bene la "Cosa rossa" prima di giocare a dadi sulla sorte di Prodi. Ci pensi molto bene perché con quella giocata mette contemporaneamente a rischio gli interessi del Paese e anche i propri.

* * *

Dovrei ora esaminare lo stato della trattativa sulle riforme e il tipo di legge elettorale che potrà risultarne.
Da quanto sappiamo si va verso una legge proporzionale, con uno sbarramento del 5 per cento, qualche specifica normativa per i partiti ad insediamento regionale, la sfiducia costruttiva come prevista dal modello tedesco.
Forse anche una dichiarazione preventiva di alleanze ma non impegnativa rispetto a risultati che richiedessero altre soluzioni.

All'interno del Pd questo risultato (probabile ma nient'affatto facile da raggiungere) ha incontrato finora la netta ostilità di Parisi e della Bindi che rivendicano il sistema maggioritario con premio di coalizione. Perché si aggrappino a questa soluzione è un mistero. Non certo per difendere il bipolarismo, che esiste in ogni caso visto che alla fine, in un regime democratico, ci deve essere una maggioranza che governa e un'opposizione che la contrasta.

Non è dunque il premio di maggioranza che crea il bipolarismo ma la differenza dei programmi e delle forze sociali che i partiti rappresentano. Il premio obbliga a comporre coalizioni non coese, alle quali la pubblica opinione si ribella dopo averle viste all'opera con Berlusconi prima e con Prodi dopo.

Parisi e Bindi fanno finta di ignorare questo generale rifiuto dell'opinione pubblica, ma ne sono perfettamente edotti. Allora qual è la ragione della loro contrarietà? A questa domanda non hanno dato alcuna risposta. Nei fatti la loro ostilità sembra mirare ad un'operazione di indebolimento di Veltroni. Essi lo negano, ma la logica politica porta a questa conclusione. Perciò si spieghino.

Ne hanno il diritto ma soprattutto il dovere.

* * *

Sull'opposto versante, non si riesce ancora a capire la qualità dei rapporti politici tra Fini e Casini e tra i loro rispettivi partiti. Casini dice che sono rapporti improntati al massimo rispetto reciproco, ma questa frase non dice assolutamente nulla. Si stanno avviando verso una federazione elettorale? Un patto di unità d'azione necessario per far loro raggiungere una massa critica numericamente rispettabile, anche al netto di probabili incursioni berlusconiane nel loro elettorato?

Se così fosse e se la legge elettorale fosse proporzionale, il panorama post-elettorale potrebbe essere il seguente: due partiti maggiori - il Pd e i berlusconiani comunque si chiameranno - intorno al 30-35 per cento ciascuno; due partiti di medie dimensioni (Fini-Casini da un lato e Cosa rossa dall'altro) intorno al 15-17 per cento. La Lega e altre formazioni minori di natura locale.

Questo panorama è probabile. Una variante potrebbe essere il rientro di Fini nell'ovile berlusconiano. A quali condizioni? Ancora un lungo e sempre incerto delfinato?
Tutto è possibile ma, allo stato, largamente improbabile.

Intanto la politica, stando agli ultimi rilevamenti del Censis, ha raggiunto il massimo della disistima nella pubblica opinione italiana. Non la destra o il centro o la sinistra, ma la politica complessivamente considerata.
La società civile - ha sentenziato De Rita, ispiratore e fondatore del Censis - è diventata una poltiglia, priva di principi di struttura sociale, di convinzioni radicate. Ed ha illustrato doviziosamente, con analisi e tabelle, questo degrado della nostra società.

Purtroppo sapevamo da un pezzo, molto prima del rapporto Censis, che i blocchi sociali si erano dissolti, la scomparsa delle ideologie aveva dato campo libero alle "lobbies", alle corporazioni, alle clientele ed avevano trasformato le masse in folla anonima, emotiva, dentro la quale ogni individuo è solitario e non chiede altro che di uscire, sia pure per un attimo, dal pozzo nero dell'anonimato.

Questo è lo stato miserevole delle nostre società, di quella italiana in particolare.
Non è un buon segno la disistima verso la politica. Magari meritata, ma non è un buon segno. Come dice Celentano, il nostro lavandino non funziona. Non è con le grida e gli insulti antipolitici che si possa riparare. Ci vuole un buon idraulico. I buoni idraulici non mancano. Qualcuno l'abbiamo già conosciuto, altri possono farsi luce. Bisogna aver fiducia e investire sul futuro.



(9 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2007, 05:04:05 pm
Eugenio Scalfari


A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion

Sesso, denaro, tecnologia, hanno scacciato l'eros dalla nostra società: è la tesi del filosofo cattolico francese nel suo trattato 'Il fenomeno erotico' che ha fatto discutere in Francia e ora in Italia.

Perché Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave


"Amo, dunque sono": è un libro appena tradotto in italiano, l'autore è un noto filosofo francese (editore Cantagalli) che insegna alla Sorbona, si chiama Jean-Luc Marion, il titolo del volume 'Il fenomeno erotico'. In Francia è già un best-seller ed ha suscitato un dibattito molto intenso. Marion professa la fede cattolica e infatti una parte sostanziosa delle 380 pagine del libro è dedicato all'amore mistico verso Dio e ad una dell'encicliche di Papa Ratzinger sull'amore visto come carità, verso il prossimo e quindi verso Dio.

La tesi centrale dell'opera di Marion è comunque quella parafrasata dal 'Discorso sul metodo' di Descartes. Questa poneva nel pensiero l'evidenza esistenziale dell'io; Marion la colloca nell'amore, anzi per esser più precisi nell'amore erotico, nell'eros, che non si esaurisce soltanto nell'atto sessuale ma in una serie di altri comportamenti altrettanto erotici e forse di più, a cominciare dalla castità dei mistici che amano Dio e/o Gesù non solo con l'intelletto e con la fede ma soprattutto con il corpo, anzi con la carne.

La tesi di Marion è certamente interessante e potremmo anche definirla 'trendy' contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi sostenitori. Nel dibattito che il libro ha suscitato in Francia ma ora anche in Italia si confrontano infatti varie tesi. La prima è che nella nostra società, dominata dalla scienza e dall'economia, non ci sia più posto per l'amore ma soltanto per il sesso. Sesso, denaro, tecnologia: sarebbero questi gli idoli del presente che avrebbero scacciato l'eros. Questa è comunque la tesi di Marion e di chi sostiene le sue affermazioni.

A me non sembra che le cose stiano così. A me sembra invece che l'amore erotico abbia una parte crescente nella nostra modernità. Il corpo e la carne hanno una parte crescente, la carità ha una parte crescente, le varie forme di misticismo religioso hanno una parte crescente. Sarei perciò molto cauto nel sostenere che la società moderna sia sessualmente ricca ma eroticamente povera. A me sembra piuttosto vero il contrario. Se c'è un aspetto in netto declino è piuttosto quello dell'amore intellettuale e della conoscenza disinteressata. Questo sì, sta quasi scomparendo: la filosofia, l'amore per la sapienza e per il sapere.

Un altro punto di confronto nel dibattito suscitato dal libro di Marion riguarda un problema più propriamente filosofico: la felice formula "amo, dunque sono" avrebbe liquidato, dopo quattro secoli di incontrastata egemonia, il "penso, dunque sono" cartesiano ed anche la polarità cartesiana che contrappone o per lo meno distingue la 'res cogitans' dalla 'res extensa'. Saremmo cioè in presenza di una vera e propria rivoluzione nella storia delle idee filosofiche.

Ho usato prima la parola 'dibattito' ma mi correggo: sulla radicalità delle tesi di Marion non c'è stato dibattito ma una sostanziale unanimità. Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave. Ebbene, una posizione di questo genere dimostra soltanto a mio modo di vedere la pochezza del sapere filosofico dell'epoca nostra. La tesi cartesiana che definisce la bipolarità tra il corpo e il pensiero era già stata superata da Baruch Spinoza pochi anni dopo la pubblicazione del 'Discorso sul metodo'. Da allora cessò di egemonizzare la storia della filosofia pur essendole perennemente riconosciuta l'importanza d'aver detronizzato l'egemonia della 'Scolastica' aprendo la strada al pensiero moderno.

Diverso il giudizio che si deve dare sul 'Cogito, ergo sum'. La sostituzione di Marion dell'Io amante all'Io pensante costituisce certamente una variante che si affianca all'evidenza cartesiana senza tuttavia spossessarla della sua validità. D'altra parte non è la sola variante possibile dell'evidenza del soggetto; se ne potrebbero indicare parecchie altre di eguale evidenza e validità, tratte dai requisiti essenziali che caratterizzano la nostra specie. Per esempio: "rido, dunque sono", "gioco, dunque sono", "uccido, dunque sono", "sono nato, dunque sono" e infine, forse la più decisiva di tutti, "morirò, dunque sono".

(13 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Le mie riflessioni su alcuni saggi dell'ultimo libro di Eco..
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2007, 05:53:14 pm
Il fatto e la verità

Le mie riflessioni su alcuni saggi dell'ultimo libro di Umberto Eco 'Dall'albero al labirinto' 

DI EUGENIO SCALFARI


Pochi giorni fa è arrivato nelle librerie un nuovo libro di Umberto Eco. Si intitola 'Dall'albero al labirinto' con un sottotitolo che è una sorta di didascalia: 'Studi storici sul segno e l'interpretazione' (l'editore è Bompiani, le pagine sono 536, l'indice e i testi sbalordiscono per erudizione, acutezza mentale, capacità metaforica, chiarezza di scrittura).

Queste mie riflessioni non vogliono certo essere una recensione. Confesso umilmente che non ne sarei capace. Solo un sapiente di semiologia può affrontare un testo di tal genere. Chi, come me, non possiede questo sapere e ne sa soltanto per ciò che ha letto intorno ad esso, non può cimentarsi se non cogliendone alcuni aspetti dei quali anche lui abbia cognizione e frequentazione non episodica. Ed è quello che qui mi propongo di fare anche perché solo su alcuni dei saggi lì raccolti mi sono concentrato per affinità e curiosità diciamo elettive. Così ho letto 'L'Arbor Porphyriana', le 'Ontologie', le pagine dedicate a Kant, quelle sull''Estetica' di Croce (una stroncatura senza appello ma insieme un inno alla suggestione letteraria della prosa crociana), il capitolo dedicato ai 'Promessi sposi' e infine quello sul pensiero debole e l'interpretazione.

Ho enumerato i limiti quantitativi della mia lettura che corrispondono tuttavia ad una mia selezione qualitativa. La mia mente cioè ha scelto ciò che riteneva di poter comprendere nel vasto arcipelago del sapere d'un autore che non a caso è considerato tra i più fertili della nostra modernità. La mia mente cioè ha deciso autonomamente e preliminarmente in che modo affrontare il testo pretendendo di capirlo e magari giudicarlo non nella sua interezza ma assumendone alcune parti come decisive e simbolicamente rappresentative del tutto. Il lettore avrà compreso che faccio queste precisazioni per entrare a far parte della metodica con la quale l'autore pone la Mente di fronte al Mondo in questo caso la Mente è la mia e il Mondo è il libro che ho tra le mani.

Esaurito questo preambolo vengo a quello che per me è il tema centrale dei saggi qui raccolti e cioè il rapporto tra i fatti e le interpretazioni. Si potrebbe dirlo in vari altri modi. Per esempio: oggettività e soggettività, oppure incomunicabilità della cosa in sé, e altre ancora.

Perché dico che questo tema - che Eco affronta con la sapienza e l'equilibrio che gli sono propri - è centrale? Perché pone al centro la questione della verità. Se vi sia una verità assoluta. Se possa concepirsi e se sia correttamente pensabile una verità assoluta. E quindi se sia correttamente pensabile l'Assoluto, che in questo caso va scritto con la lettera maiuscola perché rappresenterebbe l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine, la Causa prima dalla quale tutto discende e che tutto comprende.

Eco si è confrontato molte volte con questo tema, anche nei romanzi dove assume una funzione essenziale l'enigma, la lettura ambivalente, il 'giallo' raccontato come coesistenza di molte soluzioni possibili, il cavallo alato sulla cui groppa vola la fantasia dell'autore.

Ho segnalato prima l'equilibrio di Eco, per dire che egli evita di radicalizzare le tesi verso le quali propende. Propende ma fino a un certo punto. Propende ma con buon senso. È fedele alla sua tesi ma anche alle 'resistenze' che essa incontra. Fa addirittura l'elogio di quelle resistenze.

Questa sua prudenza, equilibrio e perfino ambivalenza risultano evidenti nelle pagine dedicate al rapporto tra i fatti e le interpretazioni, che chiamano in causa il pensiero di Nietzsche. Il mondo come moltitudine di interpretazioni è infatti la parte essenziale della visione nietzschiana. Servendosi di quello strumento Nietzsche ha messo la parola fine al capitolo della metafisica, che ha dominato la filosofia occidentale da Platone fino all'autore di Zarathustra. Duemila anni di metafisica si sono conclusi nel momento in cui l'interpretazione dei fatti ha detronizzato la verità assoluta. Eco condivide - in parte? - la posizione di Nietzsche che altri filosofi hanno arruolato nel cosiddetto 'pensiero debole'. A me pare invece un pensiero forte, anzi fortissimo per le implicazioni che ha comportato e comporta, ma accantoniamo le definizioni.

Nel ragionamento di Eco, tuttavia, le interpretazioni non possono prescindere dai fatti. I fatti resistono alle cattive interpretazioni. I fatti (è sempre Eco che parla) costituiscono il canone di se stessi nel senso che rappresentano la sola fonte autentica cui si può fare ricorso per scoprire le interpretazioni non pertinenti, non appropriate, insomma fuorvianti.

Debbo dire che Eco non spiega però in quale modo i fatti possono intervenire sulle interpretazioni. Chi parla per conto dei fatti? Chi è il loro 'speaker'?

I fatti (questo penso io) sono muti proprio perché materia interpretabile. I fatti sono una cosa. Una cosa che appare. Fenomenologia. Oggetto di sguardo. Lo sguardo è di per sé un'interpretazione né può essere altra cosa perché è il mio sguardo e non quello di un qualsiasi altro; io guardo quel fatto e leggo quel testo dalla posizione in cui mi trovo in quel momento e in quel luogo; nessun altro individuo può guardare quel fatto dalla mia stessa posizione, nello stesso istante e nel medesimo luogo dal quale la guardo io. Ecco perché la realtà è relativa. Ed ecco perché non esiste alcuna possibilità che il fatto opponga resistenza alla mia interpretazione se non con un'altra interpretazione. Non a caso Nietzsche scrive che "il centro non esiste". Esiste una moltitudine di centri perché ognuno di noi si sente ed è al centro del mondo. Intorno a ciascuno di noi il mondo è una sterminata periferia, dunque il centro è dappertutto, cioè in nessun luogo.

Lo spazio, caro Umberto, è tiranno e qui debbo fermarmi. Spero d'aver scritto abbastanza per stimolare le tue riflessioni come tu hai intensamente stimolato le mie.

(14 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: La Chiesa non può influenzare le scelte del Parlamento.
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2007, 03:52:09 pm
Sinistra poco laica

di Daniela Minerva

La Chiesa non può influenzare le scelte del Parlamento.

E se lo fa, le istituzioni hanno il dovere di reagire.

Il giudizio del fondatore di 'Repubblica'.

Colloquio con Eugenio Scalfari 

 
Nel momento in cui la senatrice Paola Binetti, il 6 dicembre scorso, dopo aver invocato lo Spirito Santo, vota contro il governo sostenuto dal suo partito, si consuma lo strappo. Lei afferma che la sua coscienza le impedisce di voler punire la violenza indotta da omofobia. E squaderna il conflitto che sia Romano Prodi sia Walter Veltroni hanno accuratamente evitato nascondendolo sotto l'oscura etichetta di 'temi eticamente sensibili', e affidandolo, in buona sostanza, alla coscienza dei singoli. Così, all'indomani del voto della Binetti sulla discriminazione degli omosessuali, nella settimana in cui il comune governato da Veltroni deve decidere sulle unioni civili, i temi eticamente sensibili acquistano concretezza, e si rivelano per quello che sono: carne viva del popolo del Pd. Che, a questo punto, si chiede, che razza di partito sta nascendo. E quali compromessi debba trovare con la Conferenza Episcopale per conquistare il diritto di esistere. Noi lo abbiamo chiesto a Eugenio Scalfari.

Il Pd nasce evitando accuratamente i temi cosiddetti etici. Veltroni ha parlato di tutto tranne che di unioni civili, di testamento biologico, di fecondazione assistita. Le pare un buon inizio? O solo un inizio inevitabile?
"È un inizio inevitabile. In quel partito convivono vari nuclei di pensiero tra i quali c'è quello dei cattolici, degli ex popolari, che non vogliono essere stranieri in patria. E vogliono che i propri valori si affermino, insieme a quelli degli altri. Quindi occorre trovare una sintesi. Non solo: questo Pd, a vocazione maggioritaria come ripete il suo leader, vorrebbe espandersi sia verso la propria sinistra sia verso il centro. Ma al centro si imbatte innanzitutto in una formazione moderata cattolica, l'Udc. Pertanto, se si presenta con un volto accesamente laicista, avrà sicuramente molta difficoltà a espandersi verso destra. E verso sinistra, non è su questi temi che trova consensi".

Perché?
"Perché la sinistra radicale non ha una propensione spiccata verso il laicismo. Non è quello il suo terreno: preferisce il terreno sociale. Quindi io penso che il Pd coltivi chiaramente in sé lo spirito di laicità forte. Ma, specie nel muovere i suoi primi passi, lo risolve sul piano definito dal documento che rappresenta la base del Partito democratico su questi temi: quello che fu firmato dai 40 deputati della Margherita guidati da Enrico Letta e Rosy Bindi. In quel testo i 40 dicono che loro, in quanto cattolici, sono molto rispettosi del magistero della Chiesa. Ma aggiungono che non è bene che questo magistero morale entri nella politica, o addirittura nelle normative della politica. Perché a quel punto si pone un confine: l'autonomia dei cattolici entrati in politica e, in particolare, l'autonomia dei parlamentari eletti. Questa è la linea di demarcazione".

Il problema che sembra insormontabile è proprio quello di definire un crinale certo tra le competenze della Chiesa e quelle dello Stato. La Chiesa non può non avere diritto di parola su quelli che sono, da sempre, gli ambiti del suo magistero (la famiglia, la vita, la morte). Non può, insomma, rinunciare al suo mandato di formare le coscienze. Quando questo diritto diventa intromissione inaccettabile?
"Faccio un esempio preso dall'attualità, che mi serve per definire concretamente il limite. Si dice che il segretario della Conferenza Episcopale, monsignor Giuseppe Betori, abbia telefonato a Paola Binetti raccomandandole di votare come poi ha votato. Alcuni però dicono che il monsignore ha telefonato dopo il voto per congratularsi della scelta. Domenica scorsa, scrivendo su 'la Repubblica', ho chiesto alla senatrice di dire chiaramente com'è andata, ovvero se questa telefonata è avvenuta e, eventualmente, quando è avvenuta. La senatrice Binetti è liberissima di non rispondere a me, ma dovrebbe certamente rispondere se a farle la domanda fosse il suo segretario. O se fosse un'interrogazione presentata al Senato. E questa è una questione centrale se parliamo del confine: è necessario che si sappia come è andata e può dircelo solo lei. Allora, se la senatrice dichiarasse che monsignor Betori le ha telefonato prima del voto: questo sarebbe stato un tentativo di condizionare il voto di un parlamentare dichiaratamente cattolico. E quindi sarebbe una lesione macroscopica delle norme concordatarie che dovrebbe indurre, se accertata, un governo serio a inviare alla Santa Sede, tramite il suo ambasciatore in Italia, una nota diplomatica del ministero degli Esteri. E il leader del Partito democratico dovrebbe sollecitare il governo a imboccare la strada di questa procedura".

Tuttavia la Chiesa non può essere ridotta alle opinioni di alcuni grandi prelati. Insomma, sembra legittimo il dubbio che Bertone o persino Angelo Bagnasco non rappresentino la Chiesa nel suo complesso. Lei ritiene che l'interlocutore del Pd sia la Chiesa di Roma o la Chiesa dei credenti?
"Il Pd non ha interlocutori nella gerarchia ecclesiastica. Che può essere interlocutore ufficiale del governo, della presidenza della Repubblica. Delle istituzioni, insomma".

Quindi quando il Pd dice che deve guardare al mondo cattolico, a chi si riferisce: alle gerarchie o alle coscienze?
"Chiaramente alle coscienze. Le gerarchie sono delle istituzioni, le quali colloquiano con la loro gente e con le istituzioni civili del paese di cui fanno parte. Perché, non dimentichiamolo, i vescovi sono cittadini italiani, con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani".

Sembra, però, che Veltroni e il Pd abbiano molto a cuore il dialogo con monsignor Bagnasco...
"Veltroni può incontrare chi vuole, ed è bene che incontri Bagnasco. Il problema nasce non nel dialogo con le istituzioni ecclesiastiche, ma quando esse dicono cose che violano i patti. Se la Conferenza Episcopale insiste su una linea che viola la sostanza, e talvolta addirittura la lettera, del Concordato, allora le istituzioni italiane devono opporre resistenza".

Giuliano Amato, nel commentare su 'L'espresso' come il Pd deve affrontare i nervi scoperti del rapporto con la Chiesa, ha detto che dovrà essere "la classica formazione collettiva di un'area di consenso comune", come fosse una trasformazione "di elementi chimici diversi", la tradizione cattolica e laica. Il che non mi pare diverso da quanto lei scriveva su 'la Repubblica' nel riferirsi ai valori della senatrice Binetti che sono "giustamente contaminanti" e che devono venir "contaminati" dai valori della laicità. Ora, oggi pare che l'ala teodem del Pd non abbia molta voglia di farsi contaminare. Che ne pensa?
"Non la metterei così. Alfredo Reichlin, che è il presidente della Commissione incaricata di stendere il Manifesto dei valori del Pd e di cui Paola Binetti fa parte, mi ha raccontato che nell'ultima seduta della commissione, avvenuta dopo il voto del 6 dicembre, c'è stato uno scambio di battute vivace che però si è concluso con un abbraccio".

Come hanno trovato la sintesi sui gay i saggi della Commissione?
"Cominciamo a dire che la non discriminazione nei confronti degli omosessuali, come di chiunque altro, è sancita da un principio della Costituzione. E a dire che essa è, peraltro, un principio cristiano, parte del patrimonio della predicazione evangelica: ama il prossimo tuo come te stesso. La senatrice Binetti in commissione ha detto che, ovviamente, lei non discrimina nessuno, e neppure gli omosessuali. Ma che ritiene gli omosessuali siano devianti rispetto alla Natura, e che si riserva il diritto di dire che, in quanto tali, non possono accedere a certe istituzioni, fatte per l'uomo e la donna insieme, come il matrimonio o l'adozione. Allora il problema nasce davanti a una legge in cui il diritto sancito dalla Costituzione è detto molto male, tanto male che un giudice, nell'interpretarla, potrebbe condannare un religioso o un laico che sostenga la devianza degli omosessuali e neghi loro matrimonio e adozione. Quindi, secondo la senatrice Binetti questa legge non va bene, e lei non la vota. E questo è un suo diritto. Ma è anche un punto di vista che il Pd deve considerare perché questo articolo è malscritto, e così come è configura un reato d'opinione. Noi democratici, possiamo accettare un articolo che configura un reato d'opinione? Certamente no".

Come le pare questo paese senza morale che, però, si esalta a parlare di etica? E, conseguentemente, cosa pensa di questa epidemia di devozioni? Oggi sono davvero in molti a sentire il 'fascino della fede'. Le pare genuino?
"La maggior parte degli italiani è credente. I non credenti sono una minoranza infima. I credenti veri sono un'altra minoranza. I credenti fai da te sono una maggioranza larghissima. Questa è la situazione del paese, quindi anche la situazione del Pd. I credenti fai da te sono dei laici, non dei laicisti, vagamente credenti. E certamente non sono molto interessati a chiedersi se monsignor Bagnasco possa o non possa intervenire nel dibattito politico. E a dire il vero non sono nemmeno molto interessati a cosa monsignor Bagnasco abbia da dire. È come se dicessero: 'se parla lasciatelo parlare', tanto noi ci comportiamo secondo la nostra coscienza".

(17 dicembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - L'Italia non è triste ma è solo schifata
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2007, 11:03:12 pm
POLITICA

L'Italia non è triste ma è solo schifata

di EUGENIO SCALFARI


La discussione sulla legge elettorale non è molto popolare. Le tv quasi non ne parlano salvo che in qualche salotto televisivo riservato ai pochi appassionati del politichese. I giornali e gli editorialisti si accostano all'argomento con toni sopraccigliosi (con l'eccezione di Giovanni Sartori che è uno specialista in chiarezza sulla materia). Il Paese ha bisogno di ben altro, scrivono, e giù l'elenco dei bisogni insoddisfatti e delle speranze tradite, che sono tanti e anche tanto antichi.

Lo stesso presidente della Repubblica - che pure ha fatto della riforma delle legge elettorale uno dei temi principali della sua predicazione democratica - l'altro giorno ha manifestato il suo malcontento nei confronti del governo per i troppi voti di fiducia ai quali è stato costretto a ricorrere, del resto nel solco aperto dal governo che l'ha preceduto e che peraltro disponeva nelle due Camere di maggioranze numericamente imponenti.

Ma il presidente della Repubblica sa benissimo che il voto di fiducia più volte reiterato al Senato, non è altro che la risposta necessaria all'avvelenamento dei pozzi operato dalla legge-porcata, il "porcellum" proposto dal leghista Calderoli sullo scorcio della passata legislatura e approvato da tutto il centrodestra, Casini in prima fila. I due voti, anzi ormai uno soltanto, di maggioranza al netto dei senatori a vita, non consentono la sopravvivenza del governo senza il ricorso alla fiducia. Perciò è inutile prendersela col termometro, bisogna invece curare la febbre, i sintomi e soprattutto le cause.

È sicuramente vero che il Paese ha bisogno di ben altro, ma è altrettanto vero che una buona legge elettorale costituisce la premessa necessaria e indispensabile affinché quel "ben altro" abbia almeno un inizio. Se c'è bisogno di acqua serve un secchio per trasportarla, ma se il secchio è sfondato bisogna anzitutto ripararlo.

Come si vede, la discussione sulla legge elettorale è tutt'altro che oziosa. Allo stato dei fatti è anzi la questione da risolvere se si vuole che la democrazia italiana possa ancora sopravvivere alla crisi che la sta squassando.

* * *

Una riforma dunque. Ma poi bisogna anche dire quale riforma e perché. Non sono uno specialista, ma la sostanza delle cose è abbastanza semplice da spiegare e da capire.

Non abbiamo in Italia due soli partiti che si contendano il potere di governare. Il Partito democratico di due ne ha fatto uno, ma ne restano ancora troppi, a sinistra come a destra. A sinistra ce ne sono a dir poco sei (senza contare Dini e alcuni "cani sciolti"). A destra quattro (senza contare Storace). Forse ne dimentico qualcuno ma il quadro in sostanza è questo.

Gli elettori sono stufi di questa polverizzazione che accentua il distacco crescente tra l'opinione pubblica e le istituzioni. Sono stufi dei poteri di veto diffusi, delle risse continue, della continua ricerca di visibilità. Un accorpamento è quindi necessario ed è questo l'obiettivo principale della riforma elettorale.

Si può raggiungere in vari modi. Con una legge proporzionale con soglia di sbarramento di almeno il 5 per cento. Chi resta sotto a quella soglia è fuori dal Parlamento. Oppure con il doppio turno e i collegi uninominali. Oppure con una proporzionale con piccole correzioni che premino i partiti di maggiori dimensioni.
Il risultato comune a tutti questi diversi meccanismi è comunque di ridurre i partiti a non più di sei: a destra Berlusconi, Fini, Casini e Bossi; a sinistra il Pd e la sinistra radicale. Più alcune minoranze "linguistiche" come gli altoatesini. Sarebbe già un buon risultato.
Il proporzionale fotograferebbe i consensi ricevuti da ciascuno.

Il proporzionale corretto in senso maggioritario darebbe un premio aggiuntivo ai partiti maggiori: quello di Berlusconi da un lato, quello di Veltroni dall'altro. Rendendo tuttavia necessarie le alleanze dopo il voto poiché nessuno dei due da solo potrà raggiungere il 51 per cento dei seggi parlamentari.
Quali alleanze? Problema difficile da risolvere prima di conoscere dove andranno i voti degli elettori. Se i partiti maggiori supereranno ciascuno il 40 per cento dei voti sarà più facile comporre il "puzzle". Se si attesteranno intorno al 30-35 si rischia l'ingovernabilità.

Ecco la ragione che suggerisce un proporzionale con qualche elemento correttivo in senso maggioritario, visto che bisogna pure che un governo ci sia ed abbia la forza di governare e la capacità necessaria per affrontare pochi ma essenziali temi.

L'interesse del Paese richiede qualche sacrificio alle varie "ditte" partitiche. Gli elettori hanno comunque il potere di concentrare i voti se la governabilità è l'obiettivo per riparare il secchio sfondato. Lo usino, quale che sia il meccanismo della legge. Se non saranno capaci di usarlo non si lamentino poi di ciò che accadrà.

Per un giorno almeno il potere sarà nelle loro mani.

* * *

Quando arriverà quel giorno?
Molti danno per conclusa l'esperienza del governo Prodi. La previsione è che entro gennaio ci sarà la crisi. Provocata da un voto di sfiducia cui basterebbe la diserzione di Dini e gli altri senatori "extra-vagantes".
È possibile che ciò avvenga anche se non è affatto
certo.

Prodi si accinge a varare un pacchetto di iniziative in campo sociale che dovrebbe far aumentare in misura consistente il potere d'acquisto dei lavoratori e dei redditi più bassi. Non sembri strano, ma la copertura finanziaria di queste misure c'è ed è anche abbondante. La spesa pubblica infatti negli ultimi mesi ha rallentato il suo flusso. Il deficit è diminuito dal previsto 2,4 sul Pil niente meno che all'1,5. Nove punti in meno. Basterebbe darne un paio all'ulteriore rafforzamento dei parametri europei attestandoci sul 2,2; resterebbero comunque 7 punti per sostenere i salari e i redditi bassi.

Se il governo affronterà questo tema, reclamato perfino dal governatore della Banca d'Italia e dal presidente della Confindustria oltre che dai sindacati confederali, sarà difficile licenziarlo su due piedi. Tecnicamente può accadere, i cespugli del Senato sono in grado di farlo, ma senza alcuna apprezzabile motivazione di fronte al Paese. Tanto più che la permanenza in carica del governo non impedisce (anzi) il negoziato sulla riforma elettorale. Neppure la pronuncia della Corte costituzionale sul referendum la impedisce. Fino a marzo il Parlamento è in grado di approvare la riforma quale che sia e bloccare il referendum.

Ci sono perciò tutte le condizioni affinché il governo resti in carica e governi.

Un consiglio al presidente Prodi (da uno che è stato tra i pochi a ravvisare più i suoi meriti che i suoi difetti): non si occupi della legge elettorale. È un tema che riguarda il Parlamento e non il governo. Pensi a governare, ce n'è già abbastanza per occupare il suo tempo e quello dei suoi ministri, nessuno escluso a cominciare dai vice-presidenti del Consiglio.

"Lasci il mestiere a chi tocca, Vostra Signoria" disse il padre provinciale dei cappuccini al conte zio che reclamava il trasferimento di fra Cristoforo e suggeriva una sede molto lontana da Milano. Il mestiere in questo caso è dei partiti. I ministri facciano i ministri.

* * *

È chiaro che comunque resta il tema del disagio del Paese e del suo distacco profondo dalle istituzioni. Dalla sfera pubblica. Il suo chiudersi nel privato. Le sue incertezze, le sue paure. La sua indifferenza.
Non è vero che gli italiani siano improvvisamente diventati pigri e tristi. Non è vero che solo piccole minoranze siano ancora animate dalla voglia di intraprendere e di farsi largo nel mondo. Questa è una rappresentazione distorta della realtà, affidata alle rozze domande di rozzi sondaggi.

Gli italiani di provincia e di città hanno voglia di fare e anche di ridere e divertirsi. Di pensare con la propria testa e di non farsi imbonire.

Ce ne sono anche disposti ad essere manipolati, a ricevere passivamente gli slogan, le ideologie, perfino i lazzi dei tanti Dulcamara e dei tanti buffoni di corte che li attorniano. Ma quegli italiani, loro sì, sono minoranza. Tre, quattro, cinque milioni tra manipolati, furbetti, furboni. "Clientes". Non è questa la maggioranza del Paese.

Ma un punto resta fermo: la maggioranza del Paese ha rigetto per gli spettacoli che gli vengono inflitti da chi, maggioranza od opposizione, dovrebbe rappresentarli. Un rigetto crescente, che sta superando i limiti di guardia.

Una magistratura che ricama sgorbi sulle sue toghe aggrappandosi al cavillo della norma senza capacità né voglia di coglierne la sostanza. Magistratura pubblicitaria, così dovrebbe chiamarsi la parte ormai largamente diffusa che insegue la propria visibilità non meno dei Diliberto e dei Mastella.

La vicenda Forleo è il sintomo palese di questa devastazione pubblicitaria che sta sconvolgendo l'Ordine giudiziario e, con esso, il corretto esercizio della giurisdizione. Ho grande rispetto per Franco Cordero, nostro esimio collaboratore, e capisco anche le motivazioni giuridiche che l'hanno indotto a difendere il Gip milanese.

Secondo me quel Gip andrebbe censurato dal Csm non per la procedura che ha seguito ma per l'esibizione di volta in volta vittimistica e sguaiata, con la quale ha invaso teleschermi e giornali. Disdicevole. Aberrante per un magistrato. Falcone, tanto per dire, non ha mai usato quel metodo né lo usarono il magistrato Alessandrini, l'avvocato Giorgio Ambrosoli e tutti coloro che del mondo della giustizia caddero sotto il piombo del terrorismo o della mafia.

Ma la maggioranza degli italiani è anche schifata per la vergognosa commedia che si continua a recitare alla Rai, tra il capo di Mediaset e i suoi servi inseriti in servizio permanente nell'azienda pubblica.

Ha scritto ieri Giovanni Valentini su queste pagine commentando la telefonata tra Berlusconi e Agostino Saccà: "Così la Rai, già greppia e alcova di Stato, viene ridotta al rango d'una filiale di Mediaset, una società controllata, una "dependance" e un "pied a' terre" del Biscione".

Bisogna averla ascoltata oltre che letta quella telefonata, quelle due voci, la voce del padrone di volta in volta annoiata e imperativa, e quella del servo, omaggiante, inginocchiato, pronto ad anticipare i voleri del padrone cercando di riceverne qualche briciola e qualche osso per andarselo a rosicchiare in cucina. Disdicevole. Anzi stomachevole. Ma i politici, tutti senza quasi eccezione, hanno avuto come reazione quella di accelerare il decreto che bloccherà le intercettazioni e la loro pubblicazione. Sul merito, sui contenuti, hanno sorvolato come se fosse ininfluente che il pubblico li conoscesse. Solo Prodi, voglio dargliene atto, ha frenato lo zelo assai mal riposto del Guardasigilli.

Non parlerò del Tar del Lazio. Le sue pronunce parlano da sole. In una doppietta di sentenze ha stabilito nella prima il principio che l'azionista della Rai, che ha il diritto di nominare un solo membro del consiglio d'amministrazione dell'azienda su nove, non può revocarlo dopo averne messo alla prova per un anno intero l'obiettività o la partigianeria. E, secondo colpo della doppietta, aver stabilito l'altro incredibile principio che il ministro che ha la responsabilità politica della Guardia di Finanza non può revocarne il Comandante quando il rapporto fiduciario sia venuto meno per scorrettezze gravi e fondati elementi di negativo giudizio a carico del Comandante in questione.

Come si deve valutare un Tribunale che è una delle più importanti istituzioni giudiziarie e che sentenzia in modo anti-istituzionale? L'opinione pubblica che riceve questo tipo di esempi dai presidi dello Stato, come può riconoscersi nello Stato?

No, colleghi del "New York Times" il nostro non è un Paese né triste né inerte. Semmai è un Paese indignato che non si sente rappresentato oggi come ieri come l'altro ieri e più indietro ancora, fino ai Viceré di triste memoria. L'hanno fatto diventare un Paese anarcoide e allo stesso tempo pronto a farsi cavalcare dai potenti di turno. Ma ci sono ancora - e sono tanti - che rifiutano questi attributi e si aspettano un cambio di marcia e nuove speranze.
Noi siamo tra questi.


(23 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Non nominate il nome di Dio invano
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2007, 04:32:37 pm
POLITICA COMMENTO

Non nominate il nome di Dio invano

di EUGENIO SCALFARI


MI HANNO molto colpito i pensieri e le parole scritte nei giorni scorsi dalla senatrice Paola Binetti e da lei affidate in una lettera al "Foglio" che, a quanto lei stessa scrive, è ormai il suo giornale di elezione. Il testo di quella lettera è stato poi integralmente ripubblicato dal "Corriere della Sera". E di nuovo la senatrice ha ripetuto e ancor più estesamente formulato i suoi pensieri in un dialogo sulla "Stampa" con Piergiorgio Odifreddi.

Il tema di questi interventi è singolare. Viene affrontato per la prima volta nel mondo e per la prima volta nella Chiesa cattolica da parte d'un cattolico militante che si riconosce in un partito ed ha un seggio nel Senato della Repubblica. Si tratta dell'intervento di Dio nella formulazione delle leggi, sollecitato dalle preghiere della senatrice devota.

Ricordo il caso per completezza di informazione. Si votò pochi giorni fa in Senato la conversione in legge del decreto sulla sicurezza. Tra le varie norme ce n'era una che configurava come reato di razzismo la discriminazione nei confronti degli omosessuali effettuata con atti o parole di istigazione a discriminare. La Chiesa si allarmò per timore che la sua predicazione che considera l'amore tra omosessuali una devianza contro natura venisse giudicata reato penalmente perseguibile. Reclamò la cancellazione di quella norma e invitò esplicitamente i parlamentari cattolici a votare contro di essa.

Si trattava con tutta evidenza d'un intervento e d'una interferenza che violavano in modo grave le disposizioni concordatarie. Talmente scoperta - quell'interferenza - da richiedere una protesta formale del governo nei confronti della Santa Sede. Protesta che invece e purtroppo non c'è stata.

Il governo però, a sua volta allarmato dai possibili effetti di quell'interferenza clericale, pose la fiducia sul decreto e sui singoli articoli. I molti parlamentari cattolici che fanno parte della maggioranza votarono la fiducia pur con qualche disagio di coscienza. La Binetti, anch'essa con qualche disagio di segno opposto, votò invece contro la fiducia, cioè contro il suo partito e il suo governo, in obbedienza al dettame della gerarchia ecclesiastica romana.
Il Partito democratico nel quale la senatrice milita decise di mostrare comprensione per il suo voto di dissenso e di non applicare nei suoi confronti alcuna censura politica.

Quanto alla norma concernente l'omofobia, essa fu approvata per un solo voto. Quello contrario della Binetti (e l'altro egualmente contrario del senatore a vita Giulio Andreotti) furono infatti compensati da altri voti. Forse ispirati, questi ultimi, dal demonio. Non si sa e non si saprà mai.

* * *

Fin qui il caso Binetti. Niente di speciale: un caso di coscienza che avrebbe potuto far cadere il governo il quale riuscì tuttavia ad ottenere la fiducia e passare ancora una volta indenne in mezzo a tante traversie.

Trasferitosi l'esame della legge alla Camera, dove il governo dispone d'una più solida maggioranza, si scoprì però che proprio quell'articolo sull'omofobia era affetto da un errore di redazione. Si menzionava infatti come punto di riferimento della norma una direttiva dell'Unione Europea contenuta in un trattato che risultò non essere quello citato ma un altro. Insomma una citazione sbagliata, un errore di sbaglio come si dice in casi analoghi con qualche ironia.
Per evitare che l'emendamento dovesse nuovamente implicare un voto del Senato, il governo decise alla fine di far cadere l'articolo in questione per poi ripresentarlo in altro modo e con altro strumento legislativo.
Normale gestione d'una situazione parlamentare complicata.

* * *

Ma ecco a questo punto insorgere un secondo caso Binetti. Ben più clamoroso del precedente, anche se per fortuna senza effetti parlamentari immediati. E sono appunto le lettere al "Foglio" e il dibattito sulla "Stampa" dove la senatrice sostiene la tesi del miracolo. L'errore di sbaglio, la citazione incomprensibilmente sbagliata non si può attribuire, secondo la Binetti, ad una trascuratezza umana. Quella trascuratezza c'è indubbiamente stata, ma non è né dolosa né colposa. E' talmente macroscopica e impensabile che non può che essere stata effetto d'un "intervento dall'Alto" - così testualmente scrive la Binetti - stimolato dalle sue preghiere.
La senatrice enumera altri casi di leggi e norme da lei ritenute indispensabili per il bene della comunità e della morale, che sono state approvate in Parlamento e da lei attribuite ad altri "interventi dall'Alto", anch'essi stimolati dalle sue preghiere.

Altre norme da lei desiderate e altre preghiere da lei elevate al cielo non hanno invece trovato ascolto (è sempre la senatrice che parla) ma ella non dispera che lo troveranno in un prossimo futuro.

Siamo di fronte ad un caso che, come ho prima accennato, non ha riscontro nella storia né parlamentare né religiosa di nessun Paese. Leggi e norme sull'approvazione delle quali si sarebbero verificati interventi di Dio in accoglienza di preghiere di parlamentari. Come giudicare simili affermazioni? Una presunzione inaudita? Un disturbo mentale? Una fede capace di muovere le montagne e quindi nel caso specifico di ottenere risultati parlamentari altrimenti inspiegabili? Una forma di fondamentalismo ideologico che può suscitare un anti-fondamentalismo di analoga natura ma di segno diverso?

* * *

Mi permetto di segnalare alla senatrice Binetti che il tipo di preghiere da lei elevate a Dio affinché intervenga nella legislazione italiana sono decisamente in contrasto con la costante dottrina della religione da lei professata.

E' curioso che la senatrice non se ne renda conto. È ancor più curioso che sia io a segnalarglielo. Ciò crea una situazione a dir poco comica. Divertente. Paradossale.

La dottrina cattolica infatti ha costantemente incoraggiato la preghiera dei suoi fedeli. La preghiera privata ma soprattutto quella liturgica, tanto meglio se effettuata pubblicamente e coralmente nelle chiese o in qualsiasi sede appropriata.

Ha anche indicato - la dottrina - quale debba essere l'oggetto della preghiera. Non già invocare Dio a compiere miracoli su casi concreti come la guarigione da una malattia o, peggio, un beneficio immediato, una promozione, una vincita alla lotteria, l'ottenimento d'un posto di lavoro e simili.

L'approvazione di un articolo o di un comma o la vittoria d'un quesito referendario non sono state mai contemplate in questa casistica, ma ritengo che possano logicamente rientrarvi. Impegnare il nome e l'intervento di Dio in questi "ex voto" avrebbe piuttosto l'aria d'una provocazione e sfiorerebbe la blasfemia violando il comandamento mosaico che fa divieto di "nominare il nome di Dio invano".

L'oggetto della preghiera deve essere solo quello di chiedere a Dio che la sua grazia discenda sull'orante, che lo aiuti a sopportare il dolore e la sofferenza, che non lo induca in tentazioni, che lo liberi dal Male (cioè dal peccato), che fortifichi il suo amore per il prossimo.
Perciò lei fa benissimo, senatrice Binetti, a pregare affinché la grazia discenda su Giuliano Ferrara (nella sua lettera al "Foglio" c'è scritto anche questo) volendo, potrebbe anche cimentarsi a chiedere che la grazia divina scenda su di me. Non me ne offenderei affatto e sarebbe carino da parte sua.

Ma coinvolgere Dio nella discussione parlamentare, questo, gentile senatrice, è una bestemmia di cui forse lei dovrebbe confessarsi. Però da un sacerdote scelto a caso. Se va da sua eminenza Ruini sarebbe sicuramente assolta in terra. In cielo non so.

Post scriptum. "Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze".

Queste parole si leggono nell'enciclica "Spe Salvi" di Benedetto XVI, a pagina 64 nell'edizione dell'"Osservatore Romano". Le rilegga, senatrice, e cerchi di capirne bene il senso. Soprattutto non si autogiustifichi: il Papa, nella pagina seguente, ne fa espresso divieto.

(27 dicembre 2007)
 
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Adesso qualcuno dall'alto aiuti Lamberto Dini
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2007, 12:27:16 pm
POLITICA

Adesso qualcuno dall'alto aiuti Lamberto Dini

di EUGENIO SCALFARI

 
ROMA - Il 2007 si chiude. E' stato l'anno del distacco. Se vogliamo sintetizzarne l'elemento dominante rispetto a tutti gli altri, questo si impone per la sua coralità, al Sud come al Nord, tra gli uomini e tra le donne, tra i giovani e i vecchi: distacco, indifferenza, riflusso. Insicurezza. Precarietà psicologica prima ancora che professionale. Sensazione di impoverimento, in basso come in alto. Perdita di senso.

Quando una società si ripiega su se stessa e si rifugia nel suo privato, scompare uno dei suoi requisiti essenziali che è appunto quello della socievolezza.
Subentra solitudine. La scelta di fare da sé alla lunga non paga se non c'è più lo sfondo pubblico entro il quale collocare il proprio talento e la propria intraprendenza. L'anno che sta per chiudersi è stato terribile da questo punto di vista, ma ci consegna almeno quest'insegnamento: la dimensione privata distaccata da quella pubblica non produce ricchezza morale né materiale. Siamo diventati amorali e asociali. Fiori finti invece che fiori freschi, senza profumo, senza polline, senza miele.

Penso e spero che nel nuovo anno la gente metta a frutto questa lezione; butti alle ortiche l'indifferenza, riacquisti l'impegno civile. Le nazioni prosperano quando hanno coscienza di sé, altrimenti declinano. Da questo stato larvale dobbiamo uscire. Sta a noi farlo, a ciascuno di noi, per ritrovare socievolezza, creatività, allegria. Fiducia in se stessi e negli altri. Amore di sé e amore del prossimo. Credetemi, non c'è altro modo per uscire dall'apatia della volontà, dalla bulimia delle richieste corporative, insomma dal pantano.

Ho ascoltato la conferenza di fine d'anno del presidente del Consiglio. Aveva la voce rauca per un'infreddatura di stagione. Che ha dato maggior risalto alla fermezza e al senso delle sue parole. Ha rivendicato i risultati raggiunti nell'anno e mezzo trascorso da quando il suo governo si è insediato.
Questi risultati ci sono, sul fronte dell'economia lo dimostrano le cifre che non sono opinioni ma fatti.
L'opposizione ripete ogni giorno che questo è stato il peggior governo dell'Italia repubblicana ma le cifre non dicono questo, dicono anzi il contrario. Il deficit che fu ereditato nel maggio 2006 era al 4,3 quando Prodi prese il posto di Berlusconi e Padoa-Schioppa quello di Tremonti; ci eravamo impegnati a portarlo quest'anno al 2,4 e siamo attualmente al 2, viaggiamo cioè con un anno di anticipo rispetto agli impegni presi con l'Europa.

Probabilmente il deficit nei prossimi mesi scenderà ancora. La spesa corrente è rallentata. La lotta all'evasione ha fruttato finora 20 miliardi di maggiori entrate. Questi miglioramenti hanno già consentito una Finanziaria che ha avviato un processo di ridistribuzione del reddito e di rilancio della crescita. Nei prossimi mesi bisognerà fare di più. L'8 gennaio ci sarà il primo incontro con le parti sociali. Riprende la concertazione a tre, con i sindacati e la Confindustria. Per stipulare un patto, accrescere la produttività e il reddito, sostenere il potere d'acquisto dei ceti in sofferenza, chiudere i contratti di lavoro. Eppure questi risultati non si sono tradotti in un ritorno di fiducia.

Il governo viaggia ancora con un consenso bassissimo, sotto al 30 per cento. E' esposto al rischio di crisi ogni giorno. Ma non cade malgrado i cupi vaticini dell'opposizione. Il prossimo appuntamento di questa "via crucis" lo avremo il 21 gennaio quando si voterà la mozione di sfiducia contro il ministro dell'Economia, colpito da due sentenze del Tar del Lazio, rispettivamente sulla revoca di un consigliere di amministrazione della Rai e del Comandante generale della Guardia di Finanza.

Ho già scritto domenica scorsa su queste inquietanti sentenze della giustizia amministrativa, ma voglio tornarci ancora perché esse sono rappresentative d'una palese distorsione d'un principio essenziale dello Stato di diritto e della divisione dei poteri. La giustizia amministrativa è nata centotrenta anni fa per tutelare gli interessi dei cittadini nei confronti di eventuali decisioni arbitrarie del governo. Ma negli anni più recenti la debolezza politica dei governi ha incoraggiato i tribunali amministrativi a proclamare la propria competenza anche sugli atti politici.
Quest'interpretazione estensiva da parte dei tribunali amministrativi non ha alcun riscontro né nella Costituzione né nell'ordinamento giudiziario e crea una situazione abnorme: si sottopone a giudizio un atto politico, si invade la sfera politica, si vieta ad un ministro politicamente responsabile dell'operato di un corpo militare posto alle sue dipendenze di esonerarne il Comandante pro tempore che ha perso la sua fiducia.
La cosa ancor più paradossale è che l'opposizione parlamentare, anziché unirsi alla maggioranza per riportare le competenze dei tribunali amministrativi nel loro alveo naturale, ne tragga invece spunto per sfiduciare quel ministro accettando e strumentalizzando un'invasione di campo molto grave.

So che il governo non ha ancora deciso se ricorrere in appello contro il Tar del Lazio al Consiglio di Stato. Ma non è il Consiglio di Stato, a mio avviso, a dover essere interpellato con un ricorso poiché qui non si tratta di rivedere ed eventualmente correggere una sentenza, bensì di mettere sotto esame uno sconfinamento della massima gravità da parte della giustizia amministrativa. E' dunque materia per un verso della Corte di Cassazione e per un altro della Corte Costituzionale per dirimere un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato.

* * *

Mi sono soffermato su questa inquietante vicenda perché essa è simbolicamente rappresentativa della devastazione avvenuta nella vita pubblica e nei rapporti tra i poteri costituzionali. Ma un altro esempio altrettanto simbolico lo si può ravvisare nel caso Alitalia. Sappiamo quali siano stati i torti e gli errori dei governi succedutisi negli ultimi dieci anni per quanto riguarda la nostra ex compagnia di bandiera. Dieci anni fa l'Alitalia poteva ancora essere rilanciata, poteva unirsi in condizioni di forza con altre compagnie europee, poteva esser venduta a privati in grado di gestirla meglio. Non fu fatto allora né negli anni e dai governi successivi. I sindacati dell'azienda dal canto loro fecero la loro brava parte per appesantire il bilancio. Le società di gestione dei servizi aeroportuali fecero il resto sulla pelle degli utenti. Adesso siamo arrivati al punto finale, il consiglio di amministrazione della società ha scelto all'unanimità l'Air France tra i contendenti rimasti in gara. Il governo dopo breve riflessione ha confermato quella scelta. Ci saranno ancora due mesi per metterne a punto le condizioni, ma la decisione è avvenuta e sembra la migliore. Air France è la più grande compagnia internazionale di trasporto aereo; l'Alitalia può trovare in quel quadro un suo ruolo, una sua vitalità e un suo rilancio.

A questo punto insorge la questione Malpensa che diventa una bandiera politica nelle mani di Bossi e di Formigoni. Il capo della Lega, con la brutalità lessicale che gli è propria, minaccia insorgenza armata, blocchi stradali, occupazione di aeroporti in nome della Padania mortificata e offesa. Il governatore della Lombardia appoggia quelle minacce e mette il suo veto alla decisione del governo in nome della difesa di Malpensa. Ma nessuno dei "protestanti" ricorda che il flop di Malpensa ha un nome ben preciso; si chiama Linate. L'aeroporto di Malpensa ha perso ruolo e possibilità di successo in due fasi: la decisione, tutta lombarda, di conservare a Linate la tratta più redditizia del traffico aereo italiano, cioè Milano-Roma e, seconda fase, l'apertura e il potenziamento di decine di nuovi aeroporti proprio nella Padania a cominciare da Bergamo, da Padova, da Verona. Da questi aeroporti i passeggeri di voli intercontinentali partono a migliaia saltando Malpensa e dirigendosi direttamente a Parigi, a Francoforte, a Zurigo, dove trovano coincidenze in vari orari della giornata verso tutti gli scali del pianeta. Chi ha vanificato gli investimenti fatti a Malpensa non è stata Roma, è stata Milano. Né Bossi né Formigoni misero un dito per contrastare quelle circostanze, a creare le quali hanno anzi collaborato per quanto stava in loro.

* * *

Dicevo che il governo ha dimostrato di voler rilanciare il proprio programma puntando sulla crescita senza abbandonare il rigore e discutendo questi suoi propositi con le parti sociali nei prossimi giorni. Ma si trova esposto continuamente al rischio d'esser battuto al Senato.Lamberto Dini e una cinquina di senatori hanno ora lanciato l'ultimatum definitivo: elaboreranno un loro programma alternativo e lo presenteranno a Prodi; se lo accetterà integralmente, bene, altrimenti lo sfiduceranno unendo i loro voti a quelli dell'opposizione. Qui si pone il tema (filosofico e psicologico), di interpretare il personaggio di Lamberto Dini.

E' stato da giovane un brillante direttore del Fondo monetario internazionale. Stanco di vivere a Washington tornò in Italia dove entrò nella Banca centrale diventandone il direttore generale. Quando Ciampi lasciò l'Istituto, chiamato da Scalfaro alla presidenza del governo, Dini avrebbe voluto prenderne il posto, al quale tuttavia Ciampi non lo ritenne idoneo. Le ragioni non si sono mai sapute, ma debbono essere state piuttosto serie per indurre un personaggio come Ciampi a pronunciare il suo veto.

Si aprì allora per Dini la carriera politica che non fu certo avara nei suoi confronti: ministro del Tesoro con Berlusconi, fu autore della migliore riforma pensionistica tuttora in atto; poi presidente del Consiglio per due anni guidando un governo appoggiato dal centrosinistra e dalla Lega, che guidò con efficacia e discrezione. Eletto al Senato nelle liste dell'Ulivo è attualmente presidente della commissione Esteri. Ha 77 anni. Non li dimostra, ma li ha. Che cosa vuole Lamberto Dini? Pare che aspiri alla presidenza del Senato. Oppure al Tesoro. Oppure, a tempo debito cioè tra cinque anni, alla presidenza della Repubblica.
Ripercorrere il "cursus honorum" di Ciampi ad un'età ancora più tarda di lui: questo sembra il desiderio di Dini.

Desiderio arduo e tuttavia legittimo. Solo che la strada imboccata non è moralmente e politicamente la migliore. Fabbricare a tavolino un programma quando si è stati eletti appena un anno e mezzo fa su un altro programma suffragato dal voto di molti milioni di elettori, è un comportamento bizzarro. Contrapporre il suo documento a quello che l'ha portato in Parlamento e che ha ottenuto risultati non disprezzabili, approvati anche dal Fondo monetario e dalle autorità europee, non dimostra doti di coerenza etica e logica, rivela anzi una subordinazione ai desideri berlusconiani. Subordinazione preoccupante dopo le notizie trapelate sulla compravendita di senatori da parte del Cavaliere.
Dini non fa parte (così si spera) della campagna acquisti di Berlusconi, ma dovrebbe preoccuparsi delle apparenze. Non dovrebbe favorirne la circolazione facendosi lui promotore d'una crisi di governo qualora non sia approvato un testo da lui redatto e approvato da due senatori suoi amici. E' ragionevole questo modo di procedere? Riapre la strada a cariche istituzionali?
Fossi in lui, manterrei più "aplomb", se mai cercherei di ottenere le preghiere della sua collega Binetti e l'intervento della Provvidenza per ascendere al Senato in una prossima legislatura.

Abbia pazienza, senatore Dini. Lei ha 77 anni ma, come ho già detto, non li dimostra. Vedrà che dall'Alto qualcuno si muoverà in suo favore se lei troverà gli intermediari giusti. Come lei ben sa, è sempre questione di maniglie...

(30 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il sacro e il profano
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2008, 04:34:27 pm
Eugenio Scalfari.

Il sacro e il profano

Ieri il conformismo imperava. Oggi ha un segno diverso ma ce n'è a piene mani.

Con Babbo Natale e le renne in testa al corteo. È di Gesù bambino non si parla più


I miei primi ricordi delle Feste mi riportano ad abitudini molto diverse da quelle di oggi. È vero che sono trascorsi ottant'anni da allora e il mondo intorno a noi è molto cambiato, ma vale la pena di raccontarle, quelle abitudini e questa diversità, non fosse che per confrontarla col presente. Se siamo mutati in meglio o in peggio non so. Dico soltanto che sono un'altra cosa.

Le Feste con la effe maiuscola per noi bambini e per i nostri genitori erano le due settimane che vanno dal 23 dicembre fino all'Epifania che infatti (lo si dice ancora) tutte le feste le porta via. Allora non esisteva il 'week-end', il finesettimana. Il sabato e la domenica pochi si muovevano, la seconda casa era un lusso che le famiglie della piccola borghesia e degli operai non si potevano concedere. Ci si riposava, si passeggiava. Magari si andava al cinema e questo era tutto.

Dunque le Feste. Attese. Vagheggiate. Gioiose.

Cominciavano con le letterine, indirizzate ai genitori, cara mamma e caro papà, sempre le stesse con scarsa fantasia. Piene di buoni propositi: sarò buono, sarò obbediente, vi voglio bene, eccetera. Ne conservo ancora qualcuna insieme alle pagelle della prima e della seconda elementare.

L'apertura ufficiale arrivava la sera del 24 dicembre. Il cenone della vigilia. E il presepe. Anzi presepio. Ci avevano lavorato a lungo, bambini e genitori. Avevano raccolto la vellutina in campagna e nei giardini delle città. I personaggi del presepio venivano conservati da un anno all'altro e così le casette dei contadini, le pecore dei pastori, i tre Re magi, la Madonna col suo manto azzurro e San Giuseppe che non so perché risultava calvo, forse per dargli un sembiante da persona anziana e senza le tentazioni della carne. E il bambino. Il bambino Gesù, un corpicino nudo o appena velato per nascondere il sesso.

Da un anno all'altro il teatrino veniva arricchito con nuovi acquisti: un pozzo, un pastore in più, un'altra casupola.

Finita la cena, i bambini recitavano una poesiola o leggevano la letterina. Poi andavano a dormire e venivano svegliati pochi minuti prima della mezzanotte. Si formava un piccolo corteo col bimbo più piccolo in testa che portava il bambino Gesù e lo deponeva nella culla vigilata dalla mucca e dall'asino. La cerimonia finiva lì e si tornava a dormire, ma non era facile riprender sonno anche perché si sapeva che al risveglio avremmo trovato i regali.

I regali del Natale erano tuttavia leggeri. Una bambolina per le femmine, ai maschi un gioco dell'oca o il meccano che allora era in voga, abituava a una manualità molto incoraggiata dai maestri della scuola.

I grandi, genitori e altri parenti e amici, non si scambiavano regali tra loro, non era uso. L'albero di Natale ci era del tutto sconosciuto e lo stesso Babbo Natale - almeno nelle regioni del Centro e del Sud - non esisteva. Qualche vaga eco ce ne arrivava da conoscenti che abitavano a Milano e Torino. Da Roma in giù di papà Natale non si aveva notizia.

I giorni successivi della Festa i bambini giocavano alla guerra. Avevano, eccezionalmente, zona franca in gran parte della casa e ne approfittavano. Costruivano accampamenti con vecchie coperte fissate al muro e appoggiate sulle sedie e si sparavano fagioli e ceci con pistolette a molla. Le femmine, all'interno della tenda, reclamavano un loro spazio destinato alla cucina. Il gatto (c'era sempre un gatto) si tentava di introdurlo in tenda, ma lui non gradiva, graffiava e fuggiva mettendo in pericolo il fragile equilibrio di quella costruzione.

Poi si giocava all'oca. O al nascondino. O a moscacieca. Così passavano i giorni aspettando con impazienza la Befana perché era lei che portava i regali veri.

La sera del 5 gennaio l'attesa raggiungeva il culmine. La Befana sarebbe arrivata a notte fonda e non ci era permesso di aspettarla, ma i bambini erano all'erta, sorvegliavano ogni entrata e ogni uscita. I grandi mostravano un'aria insolitamente misteriosa. C'era un punto della casa con la porta chiusa a chiave. Lì, evidentemente, si nascondeva un mistero.

Alla fine ci addormentavamo ma il risveglio era anticipato da un rumore di coperchi e di pentole battute una con l'altra che ci buttava dal letto. I regali erano allineati davanti al presepio ma non era Gesù ad averceli fatti. Il sacro non veniva mescolato col profano.

Sull'identità della Befana non s'è mai fatta chiarezza. Escluso che fosse una strega. Altrettanto escluso che fosse una zia o comunque una parente della Madonna e di San Giuseppe. Faceva parte di un altro mondo, fiabesco e per noi piccoli più affascinante di quello religioso. Un mondo fatato, popolato di principi, cavalieri, fate benevole, folletti burloni, contadinelle, bestiole amorevoli.

Nessuno di loro ci imponeva comportamenti edificanti né richiedeva preghiere e fioretti. Semplicemente, animavano la nostra immaginazione. Credevamo anche che la notte, quando tutti dormivamo, gli oggetti della casa si animassero e vivessero una loro vita allegra e protettiva vegliando su di noi che dormivamo. E sognavamo.

Queste erano le Feste per noi. Purtroppo gran parte delle famiglie di allora non se le poteva permettere e le riduceva al minimo. Le famiglie d'altra parte non erano tutte così amorose come i bambini avrebbero voluto. Però le tradizioni erano rispettate e chi trasgrediva era cattivo.

Il conformismo imperava. Perché, oggi no? Avrà un segno diverso ma ce n'è a piene mani, con Babbo Natale e le sue renne in testa al corteo. Di Gesù bambino non si parla quasi più, ve lo dice un laico come me. Si direbbe che il trasgressivo sia diventato lui.

(04 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - La montagna di "monnezza" che sfiora la luna
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2008, 04:18:02 pm
CRONACA L'EDITORIALE

La montagna di "monnezza" che sfiora la luna

di EUGENIO SCALFARI


LA SETTIMANA che oggi si conclude con la festa (religiosa?) dell'Epifania offre alla nostra riflessione di cittadini italiani e cittadini d'un mondo globalizzato almeno cinque argomenti di primaria importanza: l'inizio delle primarie americane con il sorprendente sorpasso di Barack Obama su Hillary Clinton, il timore della recessione economica in tutti i paesi dell'Occidente, la "monnezza" napoletana, il tentativo di rilancio del governo Prodi sui temi della politica sociale, lo scontro intorno alla legge elettorale.

Per completare il quadro ci sarebbe anche da esaminare il dibattito sull'aborto, improvvisamente aperto dall'accoppiata Ruini-Giuliano Ferrara dietro ai quali si staglia la figura di papa Ratzinger con tutto il corteggio di cardinali e vescovi, la cosiddetta "gerarchia" al gran completo con zucchetti rossi e paramenti d'occasione.

Sei argomenti sono troppi per essere affrontati tutti insieme, anche se denotano un'effervescenza insolita in un mondo che pure in questi ultimi anni dà prova di crescente agitazione, frutto al tempo stesso di alacrità e ricerca del nuovo ma, insieme, di distacco, ripiegamento, declino.

Alcuni di questi temi hanno un fondamento autonomo. Ma altri sono profondamente interconnessi, specie se li guardiamo dalla nostra visuale domestica. Così la "monnezza" napoletana ci richiama al problema dell'incapacità decisionale nostrana e questa alle malformazioni delle nostre istituzioni. Infine la minaccia della recessione e della "stagflation" (inflazione-depressione) diffonde la sua ombra sul faticoso rilancio del governo Prodi e della sua politica sociale.

Perciò cerchiamo di chiarire qualche aspetto di queste sequenze e individuare il "trend" che configura la nostra pubblica opinione.

Comincio con la "monnezza" napoletana, non a caso seguita con foto e cronache dai principali giornali del mondo e perfino dalle autorità europee di Bruxelles allarmate da quanto accade.

Lo scrittore Roberto Saviano ne ha diffusamente scritto ieri sul nostro giornale con la conoscenza di "persona informata dei fatti", indicando i colpevoli, i profittatori, l'inerzia irresponsabile delle istituzioni locali, la pessima gestione tecnica e politica d'un fenomeno che resterebbe incomprensibile senza l'oggettiva congiura di tutte queste circostanze che configurano una serie di aggravanti e non di attenuanti come invece ci si vorrebbe far credere.

Il problema dello smaltimento dei rifiuti riguarda le città di tutto il pianeta ma ha trovato da tempo la sua normalizzazione. Se ne sono occupati gli amministratori, i tecnici e perfino i romanzieri. Don DeLillo gli ha dedicato uno dei suoi romanzi più significativi. I rifiuti hanno dato vita ad una delle industrie più prospere del capitalismo post-industriale, producono profitti ingenti e occupano milioni di persone.

Ma lo spettacolo di una grande città sepolta da tonnellate di schifezze con effetti gravi sulla salute degli abitanti si è visto e si continua a vedere soltanto a Napoli e in tutta la Campania. Nulla di simile è accaduto a New York, a Los Angeles, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Tokyo, a Shanghai, al Cairo, a Rio de Janeiro e in nessun altro angolo del pianeta.
A Napoli sì. Da quindici anni. Non è e non può essere un problema antropologico. Semplicemente: le istituzioni non funzionano, la camorra ne approfitta, non funziona la Regione, non funziona il Comune, non funziona il Commissario ai rifiuti, non funzionano le imprese addette a quel servizio. Celentano avrebbe detto: non funziona il rubinetto di casa mia.

Dovevano puntare sui termovalorizzatori e sulla raccolta differenziata. Le discariche avrebbero dovuto essere una valvola "tattica" per ospitare alcune punte stagionali, come accade in tutte le altre regioni italiane e nel mondo intero. Invece le discariche sono diventate la soluzione preminente e permanente facendo la ricchezza dei proprietari di quei terreni e l'infelicità dei loro abitanti.

Solo adesso, con almeno dieci anni di ritardo, si è deciso di costruire un termovalorizzatore che - si dice - entrerà in funzione tra un anno, ma più probabilmente ce ne vorranno almeno tre. Dovrà smaltire l'accumulo di rifiuti che nel frattempo sarà stato stoccato nelle discariche riaperte con l'ausilio della forza pubblica in tenuta da sommossa.

Chi ha commesso questo macroscopico errore? Forse i Verdi hanno qualche responsabilità, ma i responsabili principali sono il governatore Bassolino e il sindaco di Napoli, Russo Iervolino.

Ho avuto in passato simpatia e stima per entrambi, ma adesso sia la stima che la simpatia si sono molto attenuate. Penso che dovrebbero andarsene. Scusarsi e andarsene. Mi auguro che il presidente del Consiglio glielo chieda. La loro uscita di scena non è certo la bacchetta magica per far sparire la montagna di rifiuti che ammorba la città e i paesi del circondario, ma rappresenta comunque la doverosa punizione dell'errore strategico compiuto e nel quale per anni hanno perseverato.

La disistima della gente per la politica si deve principalmente ad un sistema perdonatorio che premia l'insipienza e le clientele. Il contrario di una democrazia efficiente e trasparente.

* * *

La "monnezza" napoletana riflette le malformazioni più generali della nostra democrazia, in ritardo di molti decenni rispetto ai mutamenti nel frattempo avvenuti in tutti i Paesi equiparabili al nostro.

Noi abbiamo un Parlamento irretito dal voto di fiducia, senza alcun correttivo che vi ponga riparo. Crediamo anzi tentano di farci credere che la fiducia parlamentare rappresenti il culmine della sovranità popolare delegata ai rappresentanti del popolo che siedono (fin troppo numerosi) sui banchi di Montecitorio e di Palazzo Madama. Ma non è così, anzi è il contrario di così.

L'istituto della fiducia non rappresenta affatto un potere del Parlamento sull'Esecutivo ma piuttosto il guinzaglio con cui l'Esecutivo tiene il Parlamento per il collo.

Il presidente degli Stati Uniti non ha bisogno della fiducia del Congresso; in Usa non sanno neppure che cosa sia il voto di fiducia: il Presidente eletto dal popolo ha nelle sue mani tutto il potere esecutivo, nomina i ministri segretari di Stato e li revoca, propone disegni di legge, può mettere il veto a leggi non gradite. In compenso il Congresso, depositario del potere legislativo federale, ha poteri formidabili di controllo sull'operato dell'Amministrazione che li esercita senza scrupoli di sorta. Nessuna nomina può esser fatta senza la sua approvazione, i dirigenti e i ministri debbono riferire periodicamente alle commissioni del Congresso e del Senato.

Il potere non è acefalo ma bicefalo. Non è affatto indenne da errori e disfunzioni ma da più di duecento anni guida un Paese che ormai da tempo ha le dimensioni d'un impero mondiale.

In Europa le democrazie più solide hanno impianti diversi da quello americano ma il tema dell'efficienza decisionale è stato affrontato e risolto da tutti, in Francia in Gran Bretagna in Germania in Spagna.
In Italia no. Governo e Parlamento sono legati a doppia catena con le conseguenze d'una debolezza congenita e di una lentezza decisionale esasperante. La stessa che ha tolto dignità e peso alla magistratura. La "monnezza" è di casa a Napoli, i fascicoli accumulati nei Tribunali civili e penali sono di casa in tutti i Palazzi di giustizia italiani. E' la loro (e la nostra) monnezza.

Ho letto che se i rifiuti di Napoli fossero tutti accatastati con un base di trentamila metri quadrati, raggiungerebbero oggi un'altezza di quasi quindicimila metri, il doppio dell'Everest. Analoga e gigantesca montagna la si potrebbe costruire accatastando i fascicoli dei processi in attesa di sentenza; forse anche più alta.

Per risolvere almeno in parte la disfunzione democratica ci vuole una legge elettorale adeguata e alcune riforme costituzionali. Veltroni si è preso in carico la soluzione del problema che non è di forma ma di sostanza e non riguarda solo i politici ma tutti i cittadini, visto che siamo noi, almeno per un giorno, il popolo sovrano. Ci riguarda tutti; riguarda anche il tema della "monnezza" napoletana, anche la Tav in Val di Susa, anche il testamento biologico, anche i Dico o come diavolo si chiamano. Riguarda la legislazione, la giurisdizione, l'amministrazione e l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E anche l'aborto e la pillola RU 486.

Veltroni e i dirigenti del Partito democratico hanno indicato nelle elezioni uninominali con ballottaggio tra i candidati che al primo turno non abbiano raggiunto la maggioranza assoluta ed abbiano almeno ottenuto il 12 per cento dei voti, il sistema adatto purché combinato con l'elezione popolare del presidente della Repubblica e col rafforzamento dei suoi poteri in chiave presidenzialista.

Si tratta d'una riforma complessa che potrà rappresentare il tema dominante della futura campagna elettorale. Nella sua intervista di ieri al nostro giornale il segretario del Pd ha citato un passaggio importante che Cesare Salvi (sinistra radicale), allora relatore alla Bicamerale del 1997, scrisse proponendo il sistema presidenziale ed elettorale francese. Da allora, ha aggiunto Veltroni, questa è stata la posizione costante del riformismo italiano.

Ma per ora si tratta soltanto di una prospettiva. Per ora così Veltroni si deve andare verso un sistema elettorale a base proporzionale con un ragionevole correttivo maggioritario che dia più forza ai partiti di maggiori dimensioni e induca i minori a raggrupparsi tra loro.

Perché questo è l'obiettivo attuale? Perché è il solo capace di darci governabilità. Senza di esso non c'è che la cosiddetta Grande Coalizione: Pd e Forza Italia insieme.

Veltroni ha dichiarato (e non ce n'era neppure bisogno) che il Partito democratico non è disponibile a questa soluzione. Ma chi lavora per un proporzionale puro vuole in realtà arrivare a questo risultato. I numeri gli danno pienamente ragione.

Per il poco che possa valere, penso che Veltroni abbia scelto la posizione più adatta a risolvere i problemi della governabilità e penso anche che essa potrà passare soltanto se ci sarà l'accordo con Forza Italia e con Rifondazione, più tutti gli altri che vorranno uscire dal pantano attuale.

* * *

Per portare a termine questo primo blocco di riforme elettorali e costituzionali, comprensive del Senato federale e della riduzione del numero dei parlamentari nella prossima legislatura, Veltroni pensa ragionevolmente che ci voglia un anno di tempo. E la prosecuzione fattiva del governo attuale con l'obiettivo di ridare fiato ai ceti economicamente più deboli, insidiati sempre più dall'aumento dell'inflazione e da un probabile rallentamento nella crescita dei redditi.

In realtà in Usa si parla ormai esplicitamente di recessione. Molti economisti affermano che è già in atto da almeno tre mesi, accompagnata da un'inflazione che ha rialzato la testa e da un netto aumento della disoccupazione.

Pensare che l'Europa e l'Italia non risentano di quanto sta avvenendo nell'economia americana è pura illusione. Alla crisi devastante dell'industria e della finanza immobiliaristica si aggiunge ormai il ribasso di Wall Street e di tutte le Borse mondiali, l'indebolimento dei consumi, l'aumento dei tassi sui mutui e una liquidità più severa.

In queste condizioni il bilancio italiano si trova, una volta tanto, in migliori condizioni per quanto riguarda l'andamento delle entrate e la diminuzione del fabbisogno.

Ma abbiamo pur sempre la palla al piede del debito pubblico che ci mangia ogni anno 70 miliardi di interessi.

Per ridare fiato ai cittadini e ai lavoratori ci vorranno più o meno 8-10 miliardi di euro. In teoria la copertura c'è e non è esatto dire che il ministro dell'Economia si opponga a questa manovra che dovrebbe prender l'avvio tra il marzo e il giugno prossimi.

L'obiezione di Padoa-Schioppa non è tanto sui numeri ma sui modi. Probabilmente sarebbe d'accordo se quelle cifre fossero erogate con provvedimenti "una tantum" in attesa di vedere che cosa avverrà nel mondo e in Europa nel corso di un anno così incerto come questo. Se il buon tempo tornerà, nel 2009 e negli anni successivi i provvedimenti "una tantum" potranno diventare strutturali ed essere ulteriormente migliorati.

Queste diverse impostazioni saranno comunque l'oggetto della nuova concertazione tra governo e parti sociali, insieme al tema dei contratti di lavoro da chiudere.

La "stagflation" dev'essere tenuta ben presente perché configura l'imposta più iniqua sul potere d'acquisto dei lavoratori e dei pensionati. Una rincorsa tra salari nominali e costo della vita dev'essere dunque il primo argomento da esaminare tra le parti concertanti, insieme a quello della produttività.

* * *

Mi resta da parlare dell'aborto, sul quale tuttavia non c'è da dire se non ciò che è stato già detto da me domenica scorsa e da altri man mano che l'offensiva clericale si articolava con i vari interventi della "gerarchia".

I laici - credenti e non credenti che siano - sono favorevoli alla libera manifestazione di tutte le opinioni e a tutti quegli interventi legislativi, amministrativi e giurisdizionali che tutelino i diritti di libertà quando non ledano diritti altrui. Per quanto riguarda la legge sull'aborto i laici ritengono che essa tuteli la maternità consapevole e la libertà di scelta delle donne. Sono anche favorevoli ad aumentare il flusso di informazioni che debbono essere fornite alle donne sui possibili effetti dell'interruzione di gravidanza nonché sulla fecondazione assistita.

Tutto il resto, a cominciare dalla cosiddetta moratoria, è del tutto aberrante. E' un puro strumento propagandistico equiparare l'interruzione di gravidanza, consentita solo in determinati tempi e circostanze, alla pena di morte.

Si tratta in realtà di un'operazione mediatica con due precisi obiettivi. Uno, di carattere culturale, per stringere i laici alla difensiva e per preparare l'affondo vero e proprio contro la legge vigente. L'altro, temporalistico, di rilanciare la potestà della gerarchia ecclesiastica come unica e sacrale depositaria del pensiero e della dottrina della Chiesa, confiscando sempre di più al laicato cattolico la sua attiva partecipazione all'elaborazione della dottrina relegandolo in un ruolo di platea passivamente e silenziosamente consenziente, cinghia di trasmissione dei voleri dell'episcopato e del Vaticano fin nelle aule comunali, regionali e parlamentari. Proprio per questo suo contenuto temporalistico ho usato prima l'aggettivo "clericale": i chierici all'offensiva contro il laici. Di questo si tratta. A questo bisogna reagire. E' auspicabile che il Partito democratico non sottovaluti la questione. Penso e scrivo da molto tempo che libertà e laicità sono sinonimi vedo con piacere che la Bonino concorda su questa sinonimia, del resto non ne dubitavo.

Laicità e democrazia senza aggettivi. Non ne hanno alcun bisogno.

(6 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Una Chiesa che scambia il sacro col profano
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2008, 12:16:55 am
POLITICA

IL COMMENTO

Una Chiesa che scambia il sacro col profano

di EUGENIO SCALFARI


E' durato ventiquattr'ore il gelo tra Vaticano e Campidoglio, tra il Papa e il sindaco di Roma. Poi c'è stata la marcia indietro guidata dal cardinal Bertone, Segretario di Stato, e Roma da città in "gravissimo degrado" come aveva affermato Benedetto XVI di fronte a Veltroni, Marrazzo e Gasbarra allibiti di tanta inattesa severità, è diventata di colpo una "città godibile e accogliente" e le istituzioni locali "alacremente impegnate a migliorare la socievolezza e il benessere diffuso".

Le due diplomazie parallele hanno lavorato sotto traccia senza risparmiarsi, ottenendo infine il risultato desiderato da entrambe (quella di Veltroni e quella di Bertone): correggere la "gaffe" di papa Ratzinger, ristabilire rapporti amichevolmente corretti tra le due sponde del Tevere, mettere allo scoperto l'ultimo colpo di coda di Ruini, autore del dossier cui si era ispirato il Papa per la sua improvvida sortita. Ruini sta facendo i bagagli, tra poco lascerà il Vicariato (per limiti d'età).
Al suo posto andrà il prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica, candidato del Segretario di Stato.

Quanto all'assalto antiveltroniano scaturito dopo l'intervento papale dell'altro giorno, la correzione effettuata dal cardinale Segretario di Stato ha avuto l'effetto di un "boomerang": per l'ennesima volta gli statisti del centrodestra - con la sola eccezione di Casini - si sono esposti con strepiti e sceneggiate clericaloidi per poi trovarsi spiazzati e beffati.
Una vittoria non trascurabile per Veltroni, derivante da un appuntamento che in condizioni diverse avrebbe avuto dai "media" l'attenzione di poche righe e che si è invece trasformato in una prova di forza del sindaco di Roma e leader del Partito democratico.
Tutto è bene quel che finisce bene, ma è proprio così?

Dipende dai punti di vista. Per i laici-laici (adesso si usa definirli così) restano molti punti interrogativi dopo questa vicenda, ma problemi ancora maggiori si pongono al laicato cattolico.

Non che siano nati dalla "gaffe" di Benedetto XVI; esistono da molto tempo e precedono di anni l'incoronazione dell'attuale pontefice. Ma quest'ultima sua sortita ha avuto l'effetto di riproporli tutti, insoluti e sempre più urticanti.

Al di là della palese inconsistenza politica e culturale di papa Ratzinger, che da Ratisbona in qua si comporta come un allievo di questo o quel dignitario della sua corte spostando la barra del timone secondo i suggerimenti che gli vengono da chi di volta in volta lo consiglia, esiste più che mai un disagio profondo nella Chiesa e nel laicato cattolico. La Chiesa di Benedetto XVI, ma anche quella di Giovanni Paolo II, non riesce ad entrare in sintonia con la cultura moderna e con la moderna società. Questo è il vero tema che dovrebbero porsi tutti coloro che si occupano dei rapporti tra la società ecclesiale e la società civile all'inizio del XXI secolo.

La gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero si sono da tempo e sempre più trasformati in una "lobby" che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall'attività pastorale e dall'approfondimento culturale. Il "popolo di Dio" soffre di questa trasformazione; i laici non trovano terreno adatto al dialogo se non sul piano miserevole di comportarsi anch'essi come una confraternita pronta a compromessi e patteggiamenti.
Quando un Papa arriva al punto di bacchettare un sindaco di Roma e un presidente di Regione e reclama maggiori aiuti finanziari per il Gemelli e il Gesù Bambino e per le scuole cattoliche; quando il Vicariato di Roma e il vertice della Conferenza episcopale intervengono direttamente sui membri del Parlamento e del Consiglio comunale romano per bloccare una legge o mandarne avanti un'altra; quando questa prassi va avanti da anni di fronte a problemi mondiali che chiamano in causa civiltà e culture, bisogna pur dire che siamo in presenza di spettacoli desolanti.

Aggiungo che si tratta di responsabilità condivise. La gerarchia cattolica baratta da anni (o da secoli?) il sacro con il profano; le istituzioni politiche l'accompagnano su questa strada di compromessi al ribasso per cavarne improbabili tornaconti elettorali; lo stuolo sempre più vociante degli atei devoti affianca o precede il corteo.
Verrebbe spontaneo di voltar la faccia dall'altra parte per non vedere.

* * *

Veltroni ha fatto bene a protestare sottotraccia e portare a casa la vistosa correzione di rotta vaticana.
Zapatero, in una situazione per molti versi analoga, ha scelto una strada diversa. L'Episcopato spagnolo guidato dal primate vescovo di Madrid aveva pochi giorni fa portato in piazza un milione di fedeli per protestare contro la legge sul matrimonio dei "gay"; la vicepresidente del governo, signora Fernandez de la Vega, ha ufficialmente commentato quella manifestazione con queste parole: "La società spagnola non è disposta a tornare ai tempi in cui una morale unica era imposta a tutto il Paese né ha bisogno di tutele morali. Tanto meno ne ha bisogno il governo che non le accetta".

Capisco che Madrid non è Roma e il vescovo di Madrid non è il Papa. Ma la Chiesa è la stessa in Spagna come in Italia. I laici-laici italiani avrebbero probabilmente preferito che la protesta del leader del partito democratico fosse stata simile a quella del suo collega spagnolo, ma in Italia non si può. L'Italia è una provincia papalina, Porta Pia è una data caduta in disuso, il Concordato fu voluto e firmato da un altro ateo devoto come Benito Mussolini e inserito nella Costituzione con il voto determinante di un altro ateo come Togliatti per ragioni esclusivamente politiche.
In Italia ci sono oggi due minoranze, quelle dei cattolici autentici e quella degli autentici laici. In mezzo c'è un corpaccione di laici e di cattolici "dimezzati", che ostentano virtù civiche e religiose che non praticano affatto. Quella è la maggioranza del paese. Il resto viene da sé.

Il guaio è che la gerarchia ecclesiastica e il Magistero non sono affatto turbati da questa situazione paganeggiante. La loro preoccupazione è l'otto per mille, i contributi pubblici agli oratori, la costruzione di nuove chiese e parrocchie, l'esenzione dall'Ici, l'insegnamento del catechismo nella scuola pubblica, il finanziamento di quella privata. E naturalmente la crociata antiabortista, la moratoria.

A loro interessa non già di usare lo spazio pubblico per propagandare la dottrina e il Vangelo ma entrare nelle istituzioni politiche per guidare il voto dei parlamentari e condizionare i partiti. L'attuale Segretario di Stato, che rimpiange il Togliatti dell'articolo 7 della Costituzione, è comunque un progresso rispetto al suo predecessore, cardinal Sodano che, alla vigilia di ogni elezione, esaminava i leader dei vari partiti per vedere chi offriva maggiori garanzie alla Santa Sede. E quelli si facevano esaminare, felici quando il "master" toccava ad uno di loro invece che all'altro.
Serve a qualche cosa una Chiesa così? Fa barriera contro le invasioni barbariche del terzo millennio o invece apre loro la porta?

* * *

Risponderò con una citazione quanto mai attuale: "La Chiesa sembra porsi di fronte allo Stato e alle forze politiche italiane come un altro Stato e un'altra forza politica; l'immagine stessa della Chiesa risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta e per tanti aspetti lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. La sorpresa e il disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Concilio Vaticano II su una Chiesa popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma anzi è al servizio di un laicato che ha proprie e specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della vita politica e della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. E' legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti ma questo diritto dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. E' in questa complessa dinamica che si esprime la responsabilità dei cattolici nella vita politica. Urgente si è fatta l'esigenza della formazione del laicato cattolico alle responsabilità della democrazia. Perché mai l'Italia e i cattolici italiani debbono sempre esser trattati come "il giardino della Chiesa"?".

L'autore di questa pagina è Pietro Scoppola e la data è del febbraio 2001, nel pieno d'una campagna elettorale che si concluse con la vittoria di Berlusconi e del suo cattolicesimo ateo e paganeggiante. Ma potrebbe essere stata scritta anche oggi con la stessa attualità. Purtroppo l'autore è scomparso, la sua voce non parla più e la perdita è stata grave per i laici ma soprattutto per i cattolici.

Scoppola si rendeva conto che solo il dialogo tra la minoranza dei veri laici e la minoranza dei cattolici autentici avrebbe ridotto il peso di quell'indifferenziato corpaccione di finti devoti e di finti laici "appiattiti sullo scambio dei benefici e dei favori, impoveriti di slancio profetico e pastorale, dominati dalla gerarchia e dalle oligarchie".

Questo era il problema di allora ed è ancora quello di oggi. Di esso il Partito democratico, la sinistra radicale, i cattolici moderati, gli uomini e le donne di buona volontà, dovrebbero discutere; su di esso dovrebbero dialogare. La gerarchia occupi tutto lo spazio pubblico che vuole ma non interferisca nell'autonomia dei laici e delle istituzioni civili. I rappresentanti di queste ultime impediscano le interferenze anziché assecondarle o nel caso migliore tollerarle fingendo che non vi siano state. Queste finzioni non fanno bene né alla Chiesa popolo di Dio né alla democrazia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono di intervenire a proposito della campagna per una moratoria sull'aborto.

L'ho già fatto nei miei due ultimi articoli domenicali e non mi sembra di dover aggiungere altro. Mi chiedono anche un'opinione sulla disponibilità di Veltroni a dialogare su questi temi con Giuliano Ferrara, l'ateo devoto che ha promosso quella moratoria. Non ho opinioni in proposito.

Anche a me capita talvolta di dialogare con il conduttore di "Otto e mezzo" in qualcuna delle sue trasmissioni. Certo Veltroni è un capo partito, ma questo non cambia molto le cose. Mi permetto semmai di incitare Veltroni a discuterne con le donne che sono le vere protagoniste, anzi le vere vittime di questa campagna di stampa regressiva. Il corpo delle donne, dal momento in cui è stato fecondato dal seme maschile e quali che siano le circostanze di quella fecondazione, dovrebbe diventare di proprietà della legge, cioè dello Stato? Questo sarebbe l'illuminismo cristiano di cui si scrive sul "Foglio"? Se questo è il tema, credo e spero che Veltroni avrà usi più utili per impiegare il suo tempo.

(13 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Atei devoti nel giardino del Papa
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2008, 04:56:13 pm
ESTERI IL COMMENTO

Atei devoti nel giardino del Papa

di EUGENIO SCALFARI


NON CI sarebbe, secondo me, alcun bisogno di tornar a scrivere sull'agitato rapporto tra laici e cattolici, tra laicità sana o malata, tra spazio pubblico e spazio privato.

Questi e altri temi strettamente connessi sono infatti della massima importanza per il rafforzamento delle regole di convivenza sociale in uno Stato democratico, ma si evolvono e maturano con il passo lento dei processi storici. È quindi, o almeno così sembra a me, inutile e forse dannoso dibattere quotidianamente temi che sono già chiari alla coscienza di molti anche se le risposte di una società complessa non sono univoche ma plurime.

Capisco la voglia di farle convergere, capisco anche il legittimo desiderio dei credenti e di chi li guida a spingere i non credenti verso le loro convinzioni di fede per guadagnar loro la salvezza, ma capisco meno la petulanza ripetitiva che talvolta accoppia lo slancio missionario con un'attività pedagogica fondata sulla ferma credenza di chi depositario della verità considera come inferiori intellettualmente e spiritualmente quanti dissentono dal suo zelo religioso o ne accettano alcuni principi ispiratori respingendone la precettistica che l'accompagna.

Il dibattito sulla presenza-assenza del Papa all'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza ha rinfocolato alcune differenze sui modi di pensare e sui comportamenti pratici che ne derivano.
Il Vicario di Roma, cardinal Camillo Ruini, ha lanciato da giorni l'appello ad un'adunata di massa all'"Angelus" di oggi in piazza San Pietro. L'adunata ha preso inevitabilmente la forma politica che è propria delle manifestazioni di massa, dove è più il numero che la qualità a determinare gli esiti di una politica "muscolare".

Così bisogna di nuovo affrontare quei temi, precisare il significato di gesti e di parole, capire, se possibile, il senso di ciò che accade. La storia dello Stato italiano è fortemente intrecciata con quella della Chiesa. In nessun altro Paese questo intreccio è stato tanto condizionante e la ragione è evidente: siamo il luogo ospitante del Capo della cattolicità. Siamo stati e siamo il "giardino del Papa", ci piaccia o no. Questa condizione ha determinato in larga misura la nostra storia sociale e nazionale. Nel positivo e nel negativo, nelle azioni degli uni e nelle reazioni degli altri. Le persone ragionevoli non dovrebbero mai dimenticare queste condizioni di partenza, ma spesso purtroppo accade il contrario.

* * *

Metto al primo posto del mio ragionare l'incidente della Sapienza. Su di esso si è già espresso il nostro direttore ed io concordo interamente con lui: una laicità malata ha suggerito ad un gruppo di docenti e di studenti comportamenti di contestazione in sé legittimi ma divenuti oggettivamente provocatori. Di qui la necessità di garantire la sicurezza dell'insigne ospite, di qui la possibilità di tumulto tra opposte fazioni, di qui infine il fondato timore che Benedetto XVI dovesse parlare nell'aula magna mentre sotto a quelle finestre i lacrimogeni e i manganelli avrebbero potuto esser necessari: spettacolo certamente insopportabile per il "Pastor Angelicus" che predica pace e carità.

La contestazione "stupida", tuttavia, non è nata dal nulla ed è l'effetto di varie cause, anch'esse ricordate nell'articolo di Ezio Mauro: l'invito incauto del Rettore nel giorno, nell'ora e nel luogo dell'inaugurazione dell'anno accademico. Non dovrebbe essere un evento mondano e mediatico bensì l'indicazione delle linee-guida culturali e dei problemi concreti della docenza e degli studenti.

Il Rettore, evidentemente, ha un altro concetto, voleva l'evento. E l'ha avuto col risultato di dividere l'Università, la società, la cultura, le forze politiche, in una fase estremamente delicata della nostra vita pubblica.

Un esito catastrofico da ogni punto di vista, di cui il Rettore dovrebbe esser consapevole e trarne le conseguenze per quanto lo riguarda. Ci saranno tra breve le elezioni del nuovo Rettore. Quello attuale vinse la precedente tornata per una manciata di voti. Questa volta si presenterà come quello che voleva che il Papa parlasse alla Sapienza e ne è stato impedito. Un "asset" elettorale di notevole effetto.

Mi auguro che il Rettore non se ne renda conto, ma in tal caso la sua intelligenza risulterebbe assai modesta. Se se ne rende conto, il sospetto di un invito con motivazioni elettoralistiche acquisterebbe fondatezza.
Per fugarlo non c'è che un rimedio: protestare la sua ingenuità e non presentarsi in gara. I guelfi e i ghibellini nacquero anche così.

* * *

La risposta della gerarchia, guidata ancora da Ruini, è stata l'adunata di stamattina. Mentre scrivo non so ancora quale sarà l'esito quantitativo ma prevedo una piazza gremita e un mare di folla fino al bordo del Tevere. È un evento da salutare con piena soddisfazione? È una "serena manifestazione di affetto e di preghiera" per testimoniare l'amore dei fedeli al Santo Padre? Certamente è una manifestazione più che legittima.

Certamente le presenze spontanee saranno robustamente rinforzate dalle presenze organizzate, treni e pullman sono stati ampiamente mobilitati senza risparmio di mezzi dal Vicario del Vicario. La motivazione è esplicita: dimostrare al Papa l'amore del suo gregge dopo l'offesa subita.

Se questa non è una motivazione politica domando al Vicario del Vicario che cosa è. Se questo non avrà come effetto di acuire la tensione degli animi, la lacerazione d'un tessuto già usurato e logoro, ne deduco che il Vicario è privo di intelligenza politica. Ma siccome sappiamo che invece ne è ampiamente provvisto, ne consegue che il Vicariato di Roma si prefigge di accrescere la tensione degli animi e di annunciare venuta l'ora di rilanciare il partito guelfo che ha sempre avuto in cuore.

La Segreteria di Stato vaticana è dello stesso avviso? La Chiesa è unanime in questo obiettivo?

* * *

Abbiamo celebrato giovedì scorso in Senato il senatore, lo storico, il fervido credente Pietro Scoppola, da poco scomparso, alla presenza di molti cattolici che hanno condiviso il suo pensiero e la sua fede e si propongono di continuare nell'impegno da lui auspicato.

Scoppola aveva scavato a fondo nella storia dei cattolici italiani e nell'atteggiamento di volta in volta assunto dalla gerarchia e dal magistero papale. Distingueva il popolo di Dio dalla gerarchia; sosteneva che la gerarchia è al servizio del popolo di Dio e non viceversa.

Mi ha fatto molto senso vedere, proprio alla vigilia del mancato intervento del Papa alla Sapienza, la messa celebrata da Benedetto XVI nella Sistina col vecchio rito liturgico rinverdito a testimoniare la curva ad U rispetto al Concilio Vaticano II: il Papa con la schiena rivolta ai fedeli e la messa celebrata in latino.
Qual è il senso di questa scelta regressiva se non quello di ribadire che il mistero della trasformazione del vino e del pane in sangue e carne di Gesù Cristo viene amministrato dal celebrante senza che i fedeli possano seguire con gli occhi e in una lingua sconosciuta ai più? Il senso è chiarissimo: l'intermediazione dei sacerdoti non può essere sorpassata da un rapporto diretto tra i fedeli e Dio. Il laicato cattolico è agli ordini della gerarchia e non viceversa. Lo spazio pubblico è fruito dalla gerarchia e - paradosso dei paradossi - dagli atei devoti che hanno come fine dichiarato quello di utilizzare politicamente la Chiesa.

* * *

Si continua a dire, da parte della gerarchia e degli atei devoti, che i laici-laici (come vengono chiamati i credenti veramente laici e i non credenti che praticano la laicità democratica) vogliono relegare la religione nello spazio privato delle coscienze.

Questa affermazione è falsa. Chi pratica la laicità democratica sostiene che tutte le opinioni dispongono legittimamente di uno spazio pubblico per esporre e sostenere i loro modi di pensare.

La libertà religiosa è una, e direi la più importante, da tutelare sia nel foro della coscienza che in quello pubblico. Non mi pare che difetti quello spazio, mi sembra anzi che la gerarchia lo utilizzi pienamente anche a scapito di altre religioni e massimamente di chi non crede e potrebbe in teoria reclamare uno spazio più confacente.

Ma noi non abbiamo obiettivi di proselitismo. Facciamo, come si dice, quel che riteniamo di dover fare, accada quel che può. Tra l'altro cerchiamo di amare il prossimo e riteniamo che la predicazione evangelica contenga grande ricchezza pastorale quando non venga stravolta in strumento di potere, il che è accaduto purtroppo per gran parte della storia del Cristianesimo da parte non del popolo di Dio ma della gerarchia che l'ha guidato con l'obiettivo del temporalismo e del neo-temporalismo.

La lettura della storia dei Papi insegna molte cose e, quella sì, andrebbe fatta nelle scuole pubbliche. Papa Wojtyla ha chiesto perdono per alcuni di quegli episodi, ma non poteva certo chiederlo per tutti: avrebbe certificato che per secoli e secoli la gerarchia si è messa sul terreno della politica, della guerra ed anche purtroppo della simonia piuttosto che praticare nello specifico il messaggio di pace e di povertà della predicazione evangelica.

* * *

Ci saranno modi e occasioni per riprendere questo discorso che tende a chiarire ciò che non sempre è chiaro.

Mi restano due osservazioni da fare. Giornali di antica tradizione laica sembrano aver perso la bussola e si schierano apertamente accanto agli atei devoti.
Di atei devoti la storia d'Italia è purtroppo gremita.
L'ultimo nella fase dell'Italia monarchica fu Benito Mussolini. In tempi di storia repubblicana gli atei devoti fanno ressa e la faranno anche oggi alle transenne di piazza San Pietro.

Questa prima osservazione mi conduce alla seconda.
L'onorevole Mastella nella sua conferenza stampa di Benevento, mentre gli grandinavano addosso pesanti provvedimenti giudiziari, ha fatto come prima affermazione quella relativa alla sua presenza oggi a piazza San Pietro.

Dopo averla fatta si è guardato fieramente intorno con sguardo lampeggiante e ha scandito: "Io sono con il Papa e andrò a testimoniarlo in piazza".
Ne ha pieno diritto. Personalmente mi auguro che i pretesi reati di Mastella, di sua moglie, del suo clan, si rivelino per una montatura. Ma il problema è sul comportamento politico e morale di Mastella, di sua moglie del suo clan.

Un comportamento clientelare e ricattatorio che non ha scuse di sorta, rappresenta una deviazione molto grave dalla democrazia. Non è assolutamente valida la giustificazione proveniente dal fatto che si tratta di un male diffuso.

Negli stessi giorni della "mastelleide" abbiamo assistito anche alla "cuffareide": il popolo non di Dio ma di Totò Cuffaro si è radunato in preghiera nelle chiese della Sicilia; il "governatore" ha pianto di gioia e si è fatto il segno della croce quando ha ascoltato la lettura della sentenza dalla quale è stato condannato a cinque anni di reclusione (che non farà) e all'interdizione dai pubblici uffici che non rispetterà.

Il capo del suo partito, Casini, e il capo della coalizione di centrodestra, Berlusconi, si sono immediatamente complimentati con lui.

Che cos'ha di cattolico il comportamento di Clemente Mastella e di Totò Cuffaro? Nulla. Anzi è il contrario dello spirito cristiano.

Fossi nei panni del Vicario del Vicario farei discretamente e con mitezza sapere a Mastella, a Cuffaro, a Berlusconi, a Casini, che i loro comportamenti sono a dir poco imbarazzanti per la Chiesa e forse farebbero bene a non presenziare manifestazioni di testimonianza cristiana. Ma se poi si venisse a sapere che anche Camillo Ruini è un ateo devoto? Del resto sarebbe l'ultimo in ordine di tempo di un'interminabile sfilata di papi, cardinali, vescovi, abati, che tradirono - devotamente - il messaggio celeste del Figlio dell'uomo, da essi rappresentato.

(20 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Quanto briga Tony Blair
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 04:22:49 pm
Quanto briga Tony Blair

Mi piaceva poco prima, ma da quando non è più a Downing Street l'ex premier inglese mi piace ancora meno.

Con Sarkozy fa un tandem perfetto. Con Berlusconi avremmo la più famosa terzina 

DI EUGENIO SCALFARI

Mi è capitato più volte, nel corso del suo lungo periodo trascorso come 'premier' alla guida del governo britannico, di scrivere su Tony Blair.
Un personaggio certamente notevole per intelligenza politica, gusto dell'innovazione, tenacia, pragmatismo.

In Italia per molto tempo c'è stata simpatia nei suoi confronti, sia da parte della sinistra riformista sia da parte del centrodestra.
Il suo 'new labour' è stato preso come esempio dagli uni e dagli altri. Per i riformisti del centrosinistra la simpatia ha sconfinato addirittura nell'entusiasmo almeno fino allo scoppio della guerra irachena di cui Blair fu uno dei più convinti sostenitori e partecipi.

Dal canto mio ho apprezzato parecchie delle sue iniziative politiche. Anzitutto la tenacia con cui riuscì a mettere la parola fine sotto all'interminabile e drammatica guerra irlandese tra cattolici intransigenti e protestanti. Poi per la politica economica di liberalizzazione e nel contempo di sostegno sociale. Infine per l'azione di rinnovamento del partito laburista che lo riportò alla vittoria e al potere.

Mi insospettiva però l'eccessiva flessibilità del suo modo di governare. Passava con estrema naturalezza da una posizione al suo opposto se questi mutamenti di rotta servivano a rafforzare la sua popolarità interna e internazionale e poiché era dotato d'una grande capacità mediatica, le sue 'trasformazioni' riuscivano ad essere accettate come esempi di coerenza oltre che di fiuto politico.

So benissimo che la prontezza decisionale, la facoltà di comunicare e il pragmatismo costituiscono elementi essenziali dell'uomo politico. Ma anche la misura è un ingrediente dal quale un leader non può prescindere. La misura è anzi il requisito che fa di un uomo politico uno statista.

Le mie riserve su Blair riguardavano proprio questo punto: la misura gli faceva difetto, i cambiamenti di linea erano repentini, bruschi e clamorosi, la tenacia diventava spesso testardaggine, l'amore del potere per il potere fin troppo evidente.

Ricordo che queste mie riserve determinarono un certo disagio professionale tra me, che ero allora direttore di 'Repubblica', e il nostro corrispondente da Londra Antonio Polito. Lui era tra quelli che avevano preso una vera e propria cotta per Tony Blair di cui non faceva mistero nelle sue corrispondenze.
Io ovviamente le pubblicavo senza alcuna censura ma non mancavo di esprimergli le mie valutazioni spesso divergenti dalle sue.

Blair non è più a Downing Street ormai da parecchi mesi. Ha lasciato la 'premiership', la guida del partito e la vita politica pur essendo ancora molto giovane, come è tradizione per chi ha esercitato il massimo potere per molti anni. Era stato abbandonato dal consenso della pubblica opinione e la situazione, da questo punto di vista, è ulteriormente peggiorata con il suo successore Gordon Brown.

Debbo dire che il Blair che abbiamo visto dopo la sua uscita dalla scena politica sembra più scadente del Blair precedente: ha brigato scopertamente per ottenere dall'Onu un incarico di visibilità internazionale; sta brigando altrettanto esplicitamente - a destra e a sinistra - per essere nominato 'mister Europa' dall'Unione europea; contemporaneamente ha messo in vendita al miglior offerente la sua consulenza finanziaria e bancaria nel mondo delle banche d'affari anglo-americane ed ha ottenuto un incarico assai ben pagato da una di esse. Infine, avendo evidentemente altre valenze vitali scoperte, ha accettato di affiancare ed aiutare Sarkozy nella sua politica 'bipartisan', per averne l'appoggio per le sue aspirazioni europee.

Il tandem Sarkozy-Blair è perfetto: sono i più flessibili al mondo, i più capaci di comunicare, i più capaci di incantare, i più bravi a vendere la patacca dell'innovazione politica, i più esperti nel conquistare il potere e tenerselo con tutti i mezzi democraticamente possibili.

Blair ha detto: se fossi stato francese, mi avrebbero scelto al posto di Sarkozy. Qui in Italia, li avrebbero scelti tutti e due in accoppiata. Forse facendoli coordinare da Berlusconi che tanto ce l'abbiamo già. Invece di un ambo avremmo avuto la più famosa terzina.

(21 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - La rotta per salvare il paese dei naufragi
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:17:47 am
POLITICA

La rotta per salvare il paese dei naufragi

di EUGENIO SCALFARI


IL GIORNO in cui ha deciso di staccare la spina e mandare a casa il governo e forse la legislatura, Clemente Mastella ha recitato la poesia d'una poetessa brasiliana che concludeva con il verso "Lentamente muore" riferito ovviamente al destino politico di Romano Prodi. Una civetteria letteraria? Un modo elegante di annunciare il suo voto negativo da parte d'un personaggio nei cui comportamenti l'eleganza è piuttosto rara?

Direi soprattutto una citazione sbagliata. E' vero che l'esperienza politica del governo Prodi si è conclusa esattamente in quella seduta del Senato, non molto lentamente poiché la sua vita è stata abbastanza breve. Ma non è stata soltanto l'esistenza del governo Prodi a concludersi. E' terminato un ciclo e sono di colpo invecchiati tutti i protagonisti e i comprimari che lo hanno animato, quale che sia la loro età anagrafica e professionale. Tra di essi anche Mastella.

Traslocando al centrodestra forse avrà i collegi pattuiti con Berlusconi, ma non avrà più (per nostra fortuna di italiani) quei poteri di interdizione che il suo uno per cento gli dava in una maggioranza friabile e microscopica. Il Mastella degli ultimatum manterrà la signoria di Ceppaloni rientrando nel rango dei vassalli di paese dal quale era inopinatamente uscito in forza di una legge elettorale ("la porcata" votata dal centrodestra nello scorcio della scorsa legislatura) che ha reso il suo uno per cento essenziale come altrettanto essenziali sono diventati gli altri microscopici per cento dei Diliberto, dei Pecoraro, dei socialisti e perfino i voti individuali dei Dini, dei Turigliatto, dei De Gregorio.

La citazione giusta doveva dunque essere un'altra. Sta in "Allegria di naufragi" di Ungaretti e suona così: "Si sta come d'autunno/sugli alberi le foglie". Riguarda tutti, insigne Mastella, non soltanto Prodi.

Adesso si discute sulle vere cause della crisi. Giuliano Ferrara sostiene che sia il contrasto pluridecennale tra magistratura e classe politica; altri ne fanno carico alla nascita del Partito democratico; altri ancora al bombardamento mediatico o al cardinal Ruini e ai vescovi italiani o al fatto che il governo mancava di una missione, a differenza del Prodi del '96 che si propose di portare l'Italia nell'Eurolandia e ci riuscì.

La tesi di Ferrara non ha alcun riscontro probatorio: Prodi non cadde nel '98 per cause di giustizia, né il centrosinistra cadde nel 2001 per contrasti con la magistratura, né Berlusconi nel 2006. Il bombardamento mediatico c'è stato (e molto intenso) contro Prodi ma ci fu anche, sia pure assai più ridotto, contro il Berlusconi della precedente legislatura; comunque non basta a spiegare una crisi di queste proporzioni.

Quanto alla mancanza di una missione, che Angelo Panebianco gli imputa sul "Corriere della Sera" di ieri, si tratta di un argomento a mio avviso inesistente. La missione era duplice e fu dichiarata esplicitamente durante la campagna elettorale: risanamento dei conti pubblici, ereditati in pessime condizioni dal governo Berlusconi/Tremonti; rilancio della crescita economica e perequazione delle intollerabili disuguaglianze sociali in essere. Il primo punto è stato realizzato con la Finanziaria del 2007, il secondo aveva preso l'avvio con quella del 2008 e aveva già dato frutti importanti.

Restano le pretese responsabilità del Partito democratico, delle quali manca tuttavia qualunque traccia. Veltroni e il gruppo dirigente del Pd hanno concordato e appoggiato completamente l'azione del governo. Il dissenso c'è stato non con il governo ma con la maggioranza su un punto soltanto anche se essenziale: il rifiuto del frazionamento insopportabile dei partiti, dei veti, della rissa continua, delle estenuanti mediazioni, del rallentamento esasperante di ogni decisione, dell'immagine desolante che rimbalzava su un'opinione pubblica insicura, impaurita dalla globalizzazione, frustrata dalla Babele che i "media" non potevano non registrare e che la potenza mediatica berlusconiana esasperava con ogni mezzo.

Il Pd ha denunciato questo stato di cose e si è impegnato per quanto stava in lui di porvi riparo. Ha creato una nuova forma-partito basata sulle primarie. Ha annunciato che alle future elezioni si sarebbe presentato da solo e che le alleanze le avrebbe stipulate sulla base d'un programma semplice, abbandonando la prassi universalmente diffusa di programmi che hanno il solo scopo di metter d'accordo sulle parole ma non nella sostanza il diavolo con l'acqua santa.

Su questo punto, è vero, il Pd di Veltroni è stato netto. Sarebbe possibile rivedere sullo stesso palcoscenico affratellati per sole due ore Mastella, Pecoraro, Boselli, Giordano, Ferrero, Padoa-Schioppa, Dini, Diliberto? Sarebbe possibile, senza che quelle presenze e quelle persone fossero non solo fischiate ma disprezzate sia dalla destra sia dalla sinistra sia dall'antipolitica becera sia dagli italiani responsabili e maturi?

Questo ha detto il Partito democratico e su questo ha promesso di tener ferma la barra del suo timone. Speriamo che mantenga l'impegno. Se perderà, sarà con onore e potrà continuare la sua battaglia. Ma solo a queste condizioni potrà giocare la sua partita con molte speranze.

* * *

Dopo la sconfitta di Prodi al Senato Ezio Mauro ha scritto che questo governo è stato assai migliore di quanto apparisse, "ha razzolato bene e predicato male".
Sono anch'io del suo stesso parere e cominciano a dirlo anche quelli che finora l'hanno avuto come bersaglio fisso sul quale sparare. L'ha biascicato a mezza bocca perfino Berlusconi, che è tutto dire.

Mi ha dato un senso di sincera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l'aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell'immagine.

Non so se e quando il Senato riaprirà le porte, ma a quel guitto da due soldi dovrebbe esser comminata dalla presidenza la sanzione massima. Quanto al suo partito, dovrebbe espellerlo su due piedi, ma sono certissimo che non lo farà. C'è una parte (non tutta per fortuna) della classe politica che si diverte e festeggia personaggi come Strano e come Cuffaro, "vasa-vasa", che festeggia con i cannoli una condanna a cinque anni di reclusione. Quella politica ha i Beppe Grillo che si merita. Purtroppo su questi lazzi e questa vergognosa giungla di clientele affonda lo Stato, ciò che ne resta.

* * *

Si dice da parte di alcuni che Prodi avrebbe forse fatto meglio a dimettersi senza formalizzare la sua sconfitta al Senato. Si attribuiscono analoghe riflessioni al Presidente della Repubblica ma senza un minimo di riscontri verificabili.

Credo invece (e ancora una volta sono con lui) che Prodi abbia fatto pienamente il suo dovere interpellando entrambi i rami del Parlamento. La sconfitta a Palazzo Madama era più che certa ma doveva essere certificata dal voto e il voto doveva avere la firma di chi lo dava. L'assunzione di responsabilità di chi votava il sì o il no.

Così è stato ed ora almeno questo punto è chiaro. L'ombra d'un eventuale reincarico avrebbe accresciuto tensioni e confusioni. Personalmente ho visto con amarezza la caduta di un uomo forte delle sue convinzioni che ha accettato il voto contrario con dignità repubblicana. Senza quel passaggio senatoriale, senza la sofferenza di quella sconfitta, le dimissioni date dopo la fiducia ottenuta alla Camera avrebbero avuto l'aria d'un sotterfugio. Così prevede la Costituzione e Prodi ad essa si è attenuto semplificando per quanto stava in lui il fardello pesantissimo che ora è sulle spalle del Capo dello Stato.

* * *

Il Presidente si è preso oggi una giornata di riflessione dopo aver iniziato le consultazioni che entreranno nel vivo domani e si concluderanno con l'incontro con i partiti maggiori dopodomani. Si parla anche di possibili incarichi esplorativi nel tentativo di convincere Berlusconi, Fini e Bossi all'idea di un governo "di scopo" che abbia il compito di varare la legge elettorale e gli altri adempimenti connessi e nel frattempo sia in grado di fronteggiare l'emergenza economica e finanziaria che sta scuotendo il pianeta.
Ho la sensazione che gli incarichi esplorativi abbiano poco senso. Non c'è niente di recondito da scoprire.

Quanto alla "moral suasion" nessuno ha maggior titolo per usarla del Capo dello Stato. Ci si domanda quante divisioni (nel senso militaresco del termine) abbia a sua disposizione il Presidente della Repubblica, di quali strumenti operativi disponga per realizzare quello che è il suo dichiarato convincimento: andare al voto dopo aver cambiato il sistema elettorale e non prima. E a questa domanda la risposta è pressoché unanime: pochissime divisioni, pochissimi strumenti, forse soltanto l'opera di convincimento da esercitare su chi non è del suo stesso parere.

Ebbene, uno strumento il Presidente ce l'ha, deriva direttamente dal dettato costituzionale ed ha anche a suo sostegno qualche importante precedente. La Costituzione prevede che il Presidente, in presenza d'una crisi di governo, "dopo avere ascoltato le opinioni dei presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta i ministri. Il governo, dopo aver prestato giuramento, si presenta entro quindici giorni alle Camere per ottenerne la fiducia".

Fin qui la Costituzione. Tutte le altre formalità sono state introdotte dalla prassi ma non sono scritte negli articoli della Carta. Nulla vieta, anzi così è prescritto, che mercoledì o quando egli decida, il Presidente convochi la persona da lui scelta e la nomini senza altri indugi alla guida del governo e che entro poche ore riceva dal nominato i nomi dei ministri. Firmati i decreti, i ministri giurano e il governo entra nel pieno possesso dei suoi poteri in attesa di ricevere la fiducia dalle due assemblee parlamentari.

Due settimane dopo vi sarà il voto di fiducia. Se sarà positivo il governo avrà adempiuto a tutte le condizioni previste, se sarà negativo il governo si dimetterà e il Capo dello Stato avrà motivo di sciogliere il Parlamento.

Quali vantaggi possono venire da questa correttissima procedura? Non sarebbe il governo presieduto da Prodi ad "accompagnare" le elezioni, ma un nuovo governo istituzionale. Berlusconi e Fini preferiscono avere Prodi ancora in carica per poter scaricare pugni a volontà su un "punching ball" che non ha titolo né mezzi per rispondere. I pugni sferrati su Prodi colpirebbero inevitabilmente il Partito democratico che anziché presentarsi come l'unica novità in campo verrebbe incastrato sotto il patronimico prodiano.

L'arrivo in campo d'un governo composto interamente da personalità indipendenti e tecnicamente competenti metterebbe il Parlamento nelle condizioni migliori per votare o negare la fiducia, senza doversi far carico di proporre questa o quella soluzione. Al governo del Presidente i partiti e i singoli parlamentari debbono solo rispondere sì, no, astenuto, o disertare la riunione.
Nessuna forza politica rinuncerebbe a nulla. La conta non si fa in piazza ma in Parlamento dove ognuno risponde di sé "senza vincolo di mandato".

* * *

Conosco la possibile obiezione: se attorno ad un simile governo si formasse una inedita maggioranza, saremmo in presenza di un ribaltone. Obiezione che non ha alcun sostegno. Infatti il ribaltone, o cambiamento di maggioranza, non è previsto né vietato in nessun articolo della nostra Costituzione ed è in palese contrasto con la libertà del singolo parlamentare di comportarsi come meglio ritiene nell'interesse del paese.

Del resto di ribaltoni e ribaltini è piena la storia della nostra Repubblica parlamentare. Il governo berlusconiano del '94 esordì con il ribaltino di Tremonti che passò dal centro al centrodestra a pochi giorni di distanza dalla sua elezione. Pochi mesi dopo fu la Lega a lasciare l'alleanza di centrodestra determinando la crisi e la nascita del governo Dini. Nel '98, caduto Prodi, D'Alema incassò i voti di Mastella rimpiazzando con lui quelli perduti di Rifondazione. Adesso è Mastella che abbandona la coalizione in cui è stato eletto e passa dall'altra parte. Chi vituperava i ribaltoni applaude oggi i ribaltati. Perciò questo tipo di obiezione non ha senso alcuno con la legislazione vigente.

Per quanto riguarda i precedenti governi istituzionali, ne ricordo i tre più clamorosi: quello di Pella del 1953, nominato dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi senza che il suo nome fosse stato indicato da alcun gruppo parlamentare e meno che mai dalla Dc; quello del sesto governo Fanfani, nominato da Cossiga nell'aprile del 1987, sfiduciato dalle Camere e in particolare dal suo partito, che portò alle elezioni anticipate nel giugno dello stesso anno. Infine il governo Dini del '95, nominato da Scalfaro, che trovò in Parlamento il consenso del centrosinistra e della Lega.

Una procedura del genere ha dunque dalla sua cospicui precedenti oltre che le norme della Costituzione. Aggiungo per quel che vale - e vale molto - che anche ha dalla sua l'appoggio di tutte le parti sociali, dai sindacati ai commercianti e alla Confindustria. Cioè dall'insieme del paese che produce, lavora e consuma. Forse quel paese non ama i politici, ma sa che della politica nessuna società può fare a meno, salvo i paesi (e i paesetti) tribali.


(27 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il complesso mazzafionda
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2008, 09:59:29 am
Eugenio Scalfari

Il complesso mazzafionda

Ne sono afflitti un bel po' di politici: da Turigliatto a Rotondi, da Pecoraro a Diliberto. Ma non solo loro. Anche intellettuali come Ferrara e Galli della Loggia  Franco TurigliattoAlcuni anni fa andava di moda la barzelletta della mazzafionda, che metteva in burla un disturbo mentale purtroppo abbastanza diffuso: quello dell'idea fissa, ossessiva, che cancella tutte le altre possibili idee, speranze, obiettivi, riducendo il soggetto che ne è affetto ad un monomaniaco. Un giovane - così raccontava quella barzelletta - era ammalato di monomania della mazzafionda: voleva a tutti i costi costruirsene o procurarsene una e non appena ci riusciva ne voleva un'altra e poi un'altra ancora per arricchire la sua collezione. I genitori erano disperati, il ragazzo aveva abbandonato gli studi e non aveva altro impegno che quello di realizzare il suo maniacale obiettivo. Fu indotto infine a consultare uno psichiatra che cercò di prenderlo per il verso giusto e scoprire le vere intenzioni del giovane.

"Facciamo l'ipotesi", esordì il medico, "che io le presenti una bella ragazza e che a lei piaccia. Che cosa farà?". "L'inviterò a cena", rispose il paziente. "Benissimo", disse il medico, incoraggiato da quell'esordio. "E poi?". "Ceneremo insieme e l'inviterò a prendere un caffè in casa mia". "Bravissimo. E poi?". "Poi le dirò parole dolci e cercherò di baciarla". "Magnifico, e poi?". "Se lei sarà d'accordo l'aiuterò a spogliarsi". "Ma bravo! E infine?". "Infine prenderò le sue giarrettiere e ci costruirò una mazzafionda". Qui finiva la barzelletta tra le risate degli astanti.

L'ho raccontata perché ho la sensazione che buona parte degli uomini politici siano profondamente disturbati dal complesso della mazzafionda. Prendete il senatore Turigliatto, eletto nelle liste di Rifondazione e poi espulso da quel partito quando, infrangendone le direttive, votò contro un provvedimento del governo. Turigliatto dopo quella vicenda ha fondato un partito del quale è un dei 'venticinque' iscritti, che ha come obiettivo la rivoluzione comunista mondiale. Per muovere i primi passi in quella luminosa direzione ha pensato bene di votare, insieme a Fini, Storace e Berlusconi, contro la fiducia a Prodi, contribuendo col suo voto alla caduta del governo. D'ora in poi Turigliatto potrà concentrarsi sulla prossima rivoluzione mondiale di cui questo è solo il primo passo.

Ma sono molti i politici ispirati dal complesso della mazzafionda. Per esempio il leader dei Verdi, Pecoraro Scanio. Il suo problema è quello di poter esser presente per almeno 15 secondi ogni sera sul Tg1 delle ore 20. Farebbe qualunque cosa per non mancare a quell'appuntamento durante il quale non ha mai nulla da dire che sia di qualche rilievo. Non importa, non è quello che dice il suo problema ma quello di esserci. La cosa incredibile è che il redattore che compila il palinsesto del Tg1 gli dia regolarmente ogni sera accesso diretto al video. Le ragioni di questa apparizione non si conoscono ma devono ben esserci.

Lo stesso complesso e la stessa facilitazione nel palinsesto riguardano un certo Rotondi, il quale non rappresenta neppure un partito ma semplicemente un marchio e cioè lo scudo crociato della vecchia Dc. Ricostruire le vicende attraverso le quali quel marchio, dopo mezzo secolo di vita che coinvolse nel bene e nel male l'intera Italia, sia diventato proprietà del Rotondi, non ci è stato possibile, ma resta il fatto che anche lui, come Pecoraro, appare ogni sera sui teleschermi per commentare con parole sue quanto è accaduto in Italia in quel giorno. La mano d'un buon samaritano impiegato al Tg1 compie questa buona azione e noi ascoltatori ne godiamo.

Analogo è il caso dell'onorevole Diliberto, segretario del partito dei Comunisti italiani. Diliberto vuole superare e 'far succhiare la ruota' come si dice in gergo ciclistico, ai suoi rivali di Rifondazione comunista. La sua presenza quotidiana sui teleschermi ha questa sola motivazione. Le sorti del Paese, del comunismo, della classe operaia, per lui sono obiettivi del tutto secondari; conta il suo duello personale con i 'rifondaroli'. Quelli vogliono dieci e lui rilancia 50, quelli vogliono la luna e lui vuole il sole, quelli sono riformisti e lui è per la rivoluzione, ma sei poi quelli sono tentati dal messaggio della rivoluzione, allora lui si sposta verso il riformismo. La sua mazzafionda è questa e Diliberto fa un lavoro da facchino per costruirsela tutti i giorni.

La politica italiana è piena di mazzafiondisti e questo è il nostro punto di eccellenza nei confronti del mondo intero. Ma non sono soltanto i politici ad essere affetti da monomania. Anche nella categoria dei 'petits maîtres' vi sono casi degni di segnalazione. Giuliano Ferrara, per dire, vede nei magistrati l'origine di tutti i mali della nazione e destina buona parte del suo tempo a denunciarne i complotti permanenti contro tutti e contro tutto. Ernesto Galli della Loggia è invece posseduto da un'altra mania: non c'è articolo o saggio da lui pubblicato in cui tutti i mali d'Italia sono dovuti al mancato o insufficiente pentimento di quelli che in tempi ormai lontani aderirono al Pci. Questo mancato o parziale autodafé spiega tutto e della Loggia lo vede come causa esclusiva anche dell'immondizia napoletana e della mancata visita del papa alla Sapienza.

Per me anche questo è un caso tipico di mazzafiondismo.

(01 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Battetevi bene e buona fortuna
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2008, 03:50:30 pm
POLITICA IL COMMENTO

Battetevi bene e buona fortuna

di EUGENIO SCALFARI


ZAPATERO e i Vescovi di Spagna.
Anche lì sono imminenti le elezioni dopo un quadriennio di ininterrotto governo. Le faranno all'inizio di marzo, un mese prima di noi che andremo a votare a metà aprile se come sembra tra lunedì e martedì Marini tornerà al Quirinale per comunicare al Presidente che non c'è altra via al di fuori del voto anticipato con questa schifosa legge elettorale.

Perciò Zapatero e i vescovi di Spagna possono essere utili come esempio.
In Spagna votarono quattro anni fa con una buona legge che ha dato maggioranze solide e stabilità di governo. Zapatero prese impegni con gli elettori e li mantenne rigorosamente, dal ritiro del corpo di spedizione in Iraq ai matrimoni omosessuali, dalle trattative con l'Eta all'educazione civile nelle scuole, alla struttura federale dello Stato, a provvedimenti economici di stimolo alla crescita del Paese. Adesso presenta il suo bilancio per essere riconfermato o sostituito.

I vescovi di Spagna, dopo aver mobilitato la piazza, nei giorni scorsi hanno diffuso una sorta di manifesto politico nel quale, dopo aver premesso che i programmi elettorali non sono neutrali rispetto ai problemi della fede e della morale e che quindi la Chiesa è autorizzata a giudicarli, hanno elencato uno per uno tutti i punti di dissenso da quanto il governo ha realizzato e da quanto si propone di fare nella prossima legislatura. A conclusione di questo severissimo esame hanno invitato i cattolici a votare contro quei partiti e quei candidati che condividano quello "scempio" delle coscienze cristiane.

La risposta di Zapatero è stata al tempo stesso sobria, rispettosa e fermissima.

Ha detto che i vescovi hanno diritto e libertà di parola, ha ribadito il suo rispetto verso la Chiesa ed ha concluso con la riaffermazione di tutto quanto ha fatto e si propone di fare se vincerà, ricordando che le leggi approvate dal governo e dalle Cortes sono vincolanti per tutti indipendentemente dalla fede religiosa e da altre differenze di genere e di luogo. Il popolo sovrano deciderà perché questa è la democrazia.

Presumo che sua eminenza Ruini si sia congratulato con i suoi colleghi di Spagna che sono entrati a piede dritto nella politica del loro Paese dando indicazioni esplicite di voto. Presumo che anche il Papa si sia compiaciuto della combattività dell'episcopato di Spagna; infatti la Santa Sede non ha manifestato alcuna riserva sulle sue iniziative.

In Italia il linguaggio dell'episcopato è stato appena più cauto. Le interferenze politiche non sono mancate, abbiamo anzi assistito al loro moltiplicarsi anche se non siamo ancora arrivati ad una vera e propria dichiarazione di voto elettorale. Non ancora. E la ragione è facilmente spiegabile. Qui da noi la classe politica è molto più malleabile in confronto alla nettezza del governo socialista spagnolo. Qui basta ed avanza che la Cei aggrotti il sopracciglio per indurre all'obbedienza il laicato, cattolico e non cattolico. Ma si può stare certi che se ci fosse alla testa di un governo e di una maggioranza uno Zapatero italiano, sarebbe guerra aperta con la gerarchia vescovile assai più acerba di quanto oggi non avvenga.

Mi domando se sia un bene od un male. Abbiamo già tanti problemi e tante anomalie da sconsigliare un fronte caldo con la Chiesa. Ma per converso mi domando anche se i compromessi al ribasso con le pretese della gerarchia ecclesiastica non indeboliscano la coscienza democratica lasciando che i diritti civili abbiano una protezione così limitata e precaria quando non siano semplicemente impediti e negati. Sono anche convinto che i cattolici debbano sentirsi a casa loro nella democrazia italiana a condizione che i laici non ne divengano estranei e marginali.

La democrazia senza i cattolici sarebbe impensabile in un Paese come il nostro, ma senza i laici cesserebbe di esistere se è vero che laicità e democrazia sono sinonimi.

Incito perciò i laici ad affermare e sostenere a testa alta e a piena voce i propri valori e le proprie ragioni e le forze democratiche a non vergognarsi di esserlo. Anche questo è un modo di porsi nella campagna elettorale che sta per cominciare.


* * *

La campagna elettorale di Berlusconi e dei suoi soci avrà i toni consueti e la consueta distribuzione delle parti. La voce dominante sarà, come sempre è avvenuto e come è giusto che sia, quella del Capo. Gli argomenti sono scontati: il disastro del governo Prodi (utilissimo per loro il fatto che Prodi sia ancora e fino a dopo il voto il titolare di Palazzo Chigi), le tasse da abbattere a cominciare dall'Ici, i comunisti da espellere dal circuito politico, la Chiesa da soddisfare in tutte le sue richieste, l'economia da rilanciare.

Ma ci sarà un tema nuovo sul quale sia Berlusconi sia Casini (gli altri non so) batteranno molto; un tema seduttivo: la nuova legislatura guidata dal centrodestra avrà caratteristiche "costituenti". Farà le riforme istituzionali, farà una nuova legge elettorale, assocerà l'opposizione sul modello Sarkozy-Attali. Chiamerà a collaborare i cervelli migliori e le migliori energie senza badare ai colori di bandiera. Gianni Letta come vessillo.

Il programma è questo. I soci maggiori si sono già spartiti le cariche: Fini alla presidenza della Camera, Casini agli Esteri. Letta dove la sua presenza "pacificatrice" sarà più utile. Alla presidenza della Rai un uomo "morbido" di centrosinistra con maggioranza targata centrodestra. Tutto come prima, ma in clima "bipartisan".

C'è da credere? Me l'hanno chiesto l'altro giorno anche i colleghi del New York Times che stavano lavorando proprio su questo tema: un Berlusconi nuovo di zecca, ravveduto, mite, senza vendette, dedito una volta tanto all'interesse del Paese prima che alle leggi "ad personam". Un Berlusconi liberale nei fatti e non solo nella parole. Ci credete? Ci crediamo? Vorrei accantonare le antipatie e le simpatie e rispondere sulla base di analisi dei fatti e dell'esperienza.

E' difficile che un uomo di settant'anni cambi carattere. Difficile anche se non impossibile. Berlusconi vuole essere amato, questo è sempre stato il tratto distintivo del suo carattere. Lui si ama molto ma l'amore degli altri gli è indispensabile. Il suo populismo e la sua innata demagogia sono nutriti dall'amore verso di sé e dal bisogno di conquistare gli altri. E' anche molto furbo e perciò consapevole di questi suoi istinti che sa guidare e mettere a frutto. Perciò non prenderà mai provvedimenti impopolari.

Volete i fatti? Eccone qualcuno. L'immondizia a Napoli è esplosa durante i diciotto mesi del governo Prodi ma ha radici più antiche che risalgono al quinquennio berlusconiano. La Tav e l'insorgenza in Val d'Aosta è tutta nata sotto il governo 2001-2006; la stessa cosa per la base Usa a Vicenza. Stessa cosa per la crisi dell'Alitalia. Non parliamo delle liberalizzazioni: non ne ha fatta nemmeno mezza. E non parliamo della finanza pubblica: è andato avanti a botte di condoni. La Banca d'Italia una settimana fa ha esaminato il risultato di quei condoni e la sentenza di Draghi è stata questa: nel periodo considerato il reddito dei lavoratori autonomi è aumentato il doppio di quello dei lavoratori dipendenti. Inutile dire il perché di questo colossale spostamento di risorse.

Riformare questo stato di cose è difficile, suscita malcontento e quindi impopolarità. Ecco perché queste riforme Berlusconi non le farà se vincerà nel 2008 come non le ha fatte nel quinquennio 2001-2006.
Neppure Sarkozy le farà, che per alcuni rilevanti aspetti gli somiglia anche se il suo potere è molto più ampio e solido di quello di Berlusconi.

Sarkozy ha nominato una commissione di studio presieduta da un uomo intellettualmente fascinoso e socialista. La commissione Attali ha presentato pochi giorni fa il suo dossier al presidente della Repubblica francese. Le farà quelle riforme? Seguirà quei suggerimenti? Tra di essi campeggia quello di abolire la "funzione pubblica", che significa abbattere uno dei cardini dello Stato francese e della pubblica amministrazione. Non sarà una passeggiata perché anche Sarkozy come Berlusconi vuole essere amato. E non soltanto da Carla Bruni.


* * *

Ho ascoltato l'altra sera nella trasmissione del Tg1 il mio amico Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera in un dibattito con Pisanu, Rutelli e Casini. Solite schermaglie sul governo Prodi e sulle elezioni ad aprile oppure a giugno.

Non entrerò in questa ormai stucchevole disputa della quale tutto è stato detto salvo una cosa peraltro evidente: al centrodestra conviene votare al più presto, quando ancora l'emozione "liberatoria" suscitata dalla caduta del governo Prodi è intensa. Tre mesi di più sembrano pochi ma possono far sbollire quell'emozione e fare emergere una realtà ancora nascosta: che quel governo ha operato molto meglio di quanto non sia apparso. Il commissario europeo Almunia ha già cominciato ad ammetterlo.

Il tempo è galantuomo e anche tre mesi in più rappresentano in questo momento un rischio per Berlusconi.

Comunque non è di questo che voglio occuparmi ma di un'opinione del direttore del Corriere su una questione molto importante: quella della continuità della politica economica e finanziaria.

Ha detto Mieli che i risultati in questo essenziale settore realizzati da Prodi e da Padoa-Schioppa (bisognerebbe aggiungere il nome di Vincenzo Visco che è l'autore di interventi tecnici decisivi) sono stati molto positivi; ha citato anche lui il favorevole giudizio della Commissione europea; ha aggiunto che questi risultati si sono anche giovati di quanto aveva fatto in precedenza il ministro del Tesoro Tremonti conducendo una politica economica e finanziaria analoga a quella poi attuata da Padoa-Schioppa ed ha continuato infine affermando che ci sarà piena continuità tra Padoa-Schioppa e il futuro Tremonti così come ci fu continuità tra il Tremonti della precedente legislatura e il Padoa-Schioppa che seguì.

Caro Mieli, amico mio, la continuità si può auspicare ma non inventare.

Se c'è un settore dove la discontinuità è stata pressoché totale è proprio quello tra Prodi e Berlusconi, tra Padoa-Schioppa e Tremonti. Le consegne del maggio 2006 furono un avanzo delle partite correnti azzerato, un'evasione fiscale al massimo livello, un debito pubblico accresciuto, un deficit rispetto ai parametri di Maastricht del 4,1 per cento, una crescita del Pil a livello zero.

Le consegne che Padoa-Schioppa farà, se Berlusconi vincerà, saranno: una diminuzione del debito pubblico e del fabbisogno finanziario, la ricostruzione dell'avanzo delle partite correnti, il deficit ridotto dal 4,1 al 2 per cento (attualmente siamo addirittura scesi all'1,3), una pacificazione mai raggiunta finora tra il fisco e alcuni milioni di piccoli e medi contribuenti con nuovi studi di settore e nuove semplificazioni burocratiche; infine una riduzione cospicua dell'evasione fiscale. Le tasse? Il gettito è aumentato senza una sola nuova imposta né modifica e rialzo di aliquote, anzi con sei miliardi di euro in favore delle imprese con l'abbattimento dell'Irap e dell'Ires.

Come vedi, caro Mieli, la discontinuità è stata totale nella politica economica dei due governi. Non so se Tremonti si sia convertito alla linea Padoa-Schioppa-Visco. Non mi pare, purtroppo. Tremonti è uno di quelli che crede di avere sempre ragione e lo spiega in ogni occasione. Anche lui si ama moltissimo ma non riesce ad essere amato per mancanza di umiltà.


* * *

Domani o al massimo dopodomani Marini rinuncerà. Le Camere saranno sciolte. La vittoria del centrodestra ad aprile è già scritta.

Ne siete sicuri? Per la terza volta la maggioranza degli italiani sarà con lui? E' vero che il centrosinistra ha fatto il possibile e l'impossibile per rimetterlo in sella, ma nonostante tutto non sono così convinto che vincerà.

Credo che il Partito democratico e Veltroni siano pienamente in partita sul terreno di gara ed abbiano carte forti da giocare. Si presentino da soli con un programma di pochi punti, concreti e precisi. Procedano con coraggio, onestà, trasparenza. Facce giovani e nuove senza rinunciare all'esperienza dei vecchi quando sia stata positiva.

Se saranno sconfitti cadano in piedi e lavorino per il futuro. E buona fortuna.

(3 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI Quando Casini fa rima con Ruini
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:35:36 pm
Eugenio Scalfari

Quando Casini fa rima con Ruini


Dall'avvento di Benedetto XVI sono cadute le cautele della Chiesa nell'interferire sulla politica italiana. Dal referendum sulla fecondazione assistita all'annunciata lista di Ferrara per la moratoria sull'aborto  Pierferdinando CasiniDue settimane fa ho raccontato su questa pagina la barzelletta della mazzafionda per sviluppare, partendo da quella, un ragionamento su alcuni 'tic' che affliggono molti politici e alcuni giornalisti. A giudicare dalle tante lettere che ho ricevuto, i lettori hanno gradito, perciò ne racconterò altre due e su di esse ragionerò.

La prima. La santissima Trinità decide di fare un viaggio sulla terra per vedere come vanno le cose quaggiù. Il Padreterno propone agli altri due di andare a Gerusalemme, culla della cristianità, ma Gesù è perplesso. "Io ci sono già stato una volta - dice - e non mi sono trovato bene". "Hai ragione - ammette il Padreterno - cerchiamo un posto migliore. Potremmo andare a Roma, è una città splendida e ci abita il nostro Vicario. Ci accoglierà benissimo. Andiamo a Roma". "Meravigliosa idea - interviene lo Spirito Santo. Mi fa un gran piacere a andare a Roma perché io non ci sono mai stato".

Forse è un po' dissacratoria ma rende l'idea perché in effetti, dopo due millenni di storia cattolica, a Roma città papale non si può proprio dire che lo Spirito Santo si sia sentito spesso.

Anche la seconda barzelletta riguarda tangenzialmente un analogo argomento. Questa volta il protagonista è Giuliano Ferrara, l'ateo devoto per eccellenza. Il quale è sempre stato credente. Quando era giovane credeva in Stalin e in Togliatti; poi col passar degli anni e delle esperienze credette in Craxi, poi in Berlusconi. Infine, ormai deluso da tutti, ora crede in Dio. È vero, no?

Faccio una prima osservazione: si stanno moltiplicando le barzellette su temi religiosi. Di solito questa forma di satira prende di mira poteri consolidati. Si sono sprecate barzellette e vignette (clandestine) su Mussolini ai tempi del Regime; poi sulla Dc; poi sul Pci e su Berlinguer. Adesso è il turno della Chiesa e dei Vescovi. Evidentemente sono sempre più considerati come un potere mondano più che religioso e per questo vengono messi alla berlina.

L'argomento merita tuttavia una più seria considerazione. Finora la Chiesa e in modo particolare il papa Benedetto XVI hanno occupato con crescente vigore il cosiddetto spazio pubblico, cioè la pubblica manifestazione delle idee e nel caso specifico della dottrina cattolica, della morale e delle implicazioni politiche che questi temi comportano.

La democrazia garantisce, perché questa è la sua essenza, che tutte le opinioni possano esprimersi liberamente e la Chiesa ha utilizzato questo diritto. L'ha utilizzato molto ampiamente: i media italiani sono diventati una vera e propria cassa di risonanza del pensiero della Chiesa, cosa che non accade in questa misura in nessun'altra democrazia occidentale.

Fino a qualche tempo fa tuttavia la Chiesa stava attenta a salvare le forme, agiva sulla politica ma di sbieco, mai direttamente. Dall'avvento di Benedetto XVI tuttavia queste cautele stanno cadendo una ad una. La prima grave interferenza e la violazione palese del principio "date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" avvenne in occasione del referendum sulla legge delle fecondazioni assistite, quando l'allora presidente della Cei, Camillo Ruini, predicò l'astensione dal voto facendo così fallire i quesiti referendari. Poi ci fu la vicenda dell'articolo di legge sull'omofobia e la telefonata del segretario della Cei ad una senatrice cattolica di cui i Vescovi si vollero assicurare il voto che infatti fu conforme ai loro desideri nonostante che il governo avesse messo la fiducia su quel passaggio parlamentare.

Nei giorni scorsi le residue cautele sono interamente cadute. Casini, maltrattato politicamente da Berlusconi, è ricorso al consiglio e all'aiuto del cardinale Ruini; quest'ultimo è intervenuto tramite Gianni Letta affinché Berlusconi scendesse a più miti consigli poiché era interesse della Chiesa che nel raggruppamento berlusconiano vi fosse - come finora è stato - il partito cattolico di Casini con il proprio simbolo e la propria autonomia.

Su un altro ma analogo versante Giuliano Ferrara sta promuovendo una lista che abbia come obiettivo la moratoria sull'aborto. La lista rappresenta scopertamente la proiezione elettorale della Cei e il pensiero del Papa che ha pubblicamente ringraziato Ferrara per la sua campagna sulla moratoria. Non si sa se quella lista si farà, i rischi sono più dei vantaggi. Ma se ne parla e la Cei non l'ha sconfessata, anzi.

A me sembra chiaro, vedendo simili dissennatezze, che lo Spirito Santo a Roma non c'è mai venuto.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI Walter, il Cavaliere e l'Italia al bivio
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 03:48:28 pm
Walter, il Cavaliere e l'Italia al bivio

di EUGENIO SCALFARI
 

Walter Veltroni all'Assemblea costituente al Palafiera di Roma
Mancano 56 giorni da oggi al 13 aprile, quando gli elettori andranno a deporre il loro voto nelle urne. Nei paesi democratici quello è un momento importante: il popolo esprime la propria sovranità, sceglie chi dovrà guidarlo, gli delega la sua rappresentanza, gli affida per qualche tempo il suo destino.

In tempi di ideologie dominanti e totalizzanti le elezioni non producevano grandi cambiamenti, i confini tra le parti politiche erano netti, i flussi elettorali tra un partito e l'altro impercettibili, ma nonostante questa stabilità di superficie la società era in perenne cambiamento. Così nei primi vent'anni della Repubblica scomparve la società contadina e prese corpo quella industriale; nei secondi vent'anni emerse la consapevolezza dei diritti civili; nella terza fase avvennero fenomeni regressivi: prevalsero gli interessi di corporazione e di clientela, le forze politiche si chiusero in se stesse perdendo la capacità di rappresentanza, la corruttela pubblica diventò sistema, le istituzioni furono occupate dai partiti, l'esercizio della democrazia fu deturpato e svuotato dei suoi contenuti, sentimenti antipolitici latenti emersero impetuosamente, specie tra le generazioni più giovani.
Ora siamo arrivati al capolinea e forse sta per cominciare un'altra storia.

Dico forse perché pesano ancora i gravami del recente passato di declino e di regressione. Ma qualche cosa di nuovo si intravede ed è questo che sta dando il tono alla campagna elettorale appena iniziata. Cinquantasei giorni per capire da che parte stiamo andando e per decidere come ci comporteremo in quel breve ma decisivo momento della nostra sovranità popolare.

Ci sono due slogan o meglio due immagini lanciate dai due candidati principali ai nastri di partenza della gara.
Quello di Berlusconi è: "Alzati Italia", e quello di Veltroni: "L'Italia è in piedi ma la politica si deve alzare". Sembrano abbastanza simili, invece sono profondamente diversi.

Berlusconi chiede che gli italiani si alzino fino a lui, lo raggiungano e seguano il suo sogno e il suo carisma nel mondo dei miracoli, come avvenne nel '94, nel 2001, nel 2006 quando mancò per un soffio l'obiettivo.
Veltroni pensa invece che gli italiani siano più avanti dei politici e che spetti a questi di rinnovarsi, rompere il muro dietro il quale si sono rinserrati, abbandonare i privilegi che difendono la loro separatezza e raggiungano il Paese che anela soltanto a rimettersi in movimento. Dietro queste due diverse immagini ci sono due diversissimi approcci.

Berlusconi propone il ritorno al già visto, Veltroni vuole che tutto cambi nei programmi e nelle persone. Cambia il candidato "premier", cambiano i suoi più diretti collaboratori, cambiano i candidati al Parlamento. Berlusconi ripresenta tutti i parlamentari uscenti, Veltroni ne lascia a terra la metà ed apre la porta alle donne, ai giovani, agli imprenditori, agli operai, a volti nuovi e sconosciuti. Il partito di Berlusconi è quello di sempre, il partito di Fini allinea i soliti Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli.

Il partito di Veltroni è nato dalle primarie di pochi mesi fa, dal voto di tre milioni e mezzo di persone e gli iscritti hanno già superato il milione in appena un mese dall'apertura dei "circoli", un fenomeno mai visto prima. Berlusconi ha dalla sua i sondaggi con uno scarto del 10 per cento, ma il recupero del Pd procede con una velocità notevole. Da quando ha deciso di presentarsi da solo ha guadagnato due punti. Gli ultimi sondaggi lo danno entro una forchetta tra il 33 e il 35 per cento dei consensi; l'alleanza con Di Pietro potrebbe portare quella forchetta al 37-39.
 
Silvio Berlusconi

Il bacino potenziale dei due maggiori contendenti copre il 90 per cento dei consensi. Il restante 10 per cento dovrebbe andare alla sinistra radicale ed altri raggruppamenti minori. Ma in quel 90 per cento di potenziali elettori dei due partiti principali, quasi il 12 sta ancora sulla linea di confine, è disponibile a votare sia l'uno che l'altro e non ha ancora deciso tra i due.
L'esito finale sta tutto lì, in quel 12 per cento ancora combattuto tra l'astensione o il voto per l'uno o l'altro dei contendenti. Quattro milioni, in gran parte giovani e donne, il cui voto determinerà l'esito della gara.
Questo è lo stato della situazione ai blocchi di partenza.

* * *

Fuori dal recinto di gioco infuria nel mondo una tempesta economica di notevole gravità. Calano le Borse, rallenta la produzione e la domanda, la liquidità ristagna nei depositi e in impieghi a breve durata e si restringono i prestiti e i mutui. I prezzi aumentano falcidiando i redditi reali, specie quelli dei pensionati e dei lavoratori dipendenti, per conseguenza sale il livello dell'inflazione, soprattutto per quanto riguarda le materie prime e le derrate della catena alimentare.
Il 2008 sarà un anno difficile per l'economia mondiale, per l'Europa e per noi. Bisognerà preservare il discreto andamento dei conti pubblici ma contemporaneamente adottare coraggiose misure di rifinanziamento della domanda e degli investimenti trovando il giusto equilibrio tra i due pedali del freno e dell'acceleratore.

Giulio Tremonti è diventato strenuo sostenitore d'un governo di larghe intese, chiunque sia il vincitore della competizione elettorale. Secondo lui una politica economica così difficile non può esser intrapresa se non con la condivisione delle responsabilità da parte dei due partiti maggiori. Il personaggio non è tra i più gradevoli e porta sulle spalle un pesante carico di errori precedentemente compiuti, ma la sua visione del futuro è purtroppo realistica. Non altrettanto la terapia da lui proposta.

Egli è sicuro che la vittoria arriderà alla sua parte; il suo appello alla condivisione del potere sconta un futuro di difficoltà che una alleanza di governo diluirebbe. L'ordine delle priorità e la distribuzione dei carichi trova tuttavia discordi i due partiti contrapposti, sicché la gestione comune potrebbe risultare paralizzante anziché incisiva.

Il tema è comunque prematuro, specie se proposto da chi, volendo profittare d'un vantaggio elettorale, ha imposto il ricorso immediato alle elezioni facendo perdere almeno quattro mesi proprio nel momento più delicato della crisi economica internazionale.

Ormai non c'è che da aspettare i risultati del voto ma è giusto tenere sott'occhio il tema della recessione. Una cosa si può dire fin d'ora: quel tema ha sempre accresciuto il ruolo che incombe alla politica e alla mano pubblica; così è sempre avvenuto in tutto il mondo in fasi analoghe del ciclo economico. Lo tengano ben presente i dirigenti del Partito democratico che non a caso hanno Franklin Delano Roosevelt nel pantheon degli spiriti fondatori.

* * *

C'è un altro tema che sovrasta la competizione elettorale ed è quello della laicità. È cosa saggia evitarne le asprezze e respingere le provocazioni miranti a farne uno strumento incendiario con l'intento di inferocire il confronto. Se fosse soltanto questo, sarebbe facile disinnescare le bombe-carta della moratoria anti-aborto e procedere oltre misurandosi con argomenti e problemi di ben maggior peso.
Purtroppo c'è dell'altro.

Le iniziative provocatorie fungono da avanguardia ad una "reconquista" condotta dalla gerarchia ecclesiastica "versus" le istituzioni per condizionarne il funzionamento e la legislazione che ne ispira i comportamenti.

La gerarchia alterna momenti di moderazione a momenti di intervento diretto sul delicatissimo terreno della politica, dettando alleanze tra partiti, comportamenti dei parlamentari cattolici, sentenze inappellabili sulle questioni definite "indisponibili", lusinghe e minacce spesso implicite ma in misura crescente pubblicamente esplicitate.

Questo alternarsi di fasi dipende spesso dal fatto che a guidare sia il Segretario di Stato, cardinal Bertone, o il Vicario di Roma, cardinal Ruini, il primo in veste di diplomatico, il secondo di guerriero delle armate (spirituali naturalmente) pontificie. Benedetto XVI dal canto suo sembra lasciar mano libera all'uno e all'altro anche se nei documenti e nelle dichiarazioni da lui direttamente emanati appare assai più vicino al dio degli eserciti che a quello della misericordia.

Aldo Schiavone ha efficacemente descritto su questo giornale quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi come una sorta di "ondata guelfa" che starebbe rinascendo nel nostro Paese. Stefano Rodotà ha segnalato un'offensiva clericale in atto contro i diritti civili, Francesco Merlo, Edmondo Berselli e Natalia Aspesi sono intervenuti prendendo lo spunto dal vergognoso episodio avvenuto giorni fa a Napoli, con la polizia nelle corsie ospedaliere e una donna che aveva praticato un aborto terapeutico pienamente legale, sotto interrogatorio mentre si era appena risvegliata dalla narcosi.

Le ragioni per preoccuparsi di questa deriva clericale purtroppo ci sono tutte. Bisogna certamente guardarsi dal cadere nelle trappole della provocazione ma al tempo stesso non è sopportabile che la Chiesa occupi un terreno che non le è proprio e anzi le è esplicitamente vietato, nella politica, nelle istituzioni e addirittura all'interno dei partiti.

Se il cardinal Ruini ha voglia di cimentarsi politicamente la strada è molto semplice e nessuno gliela vieterà: lasci le sue cariche ecclesiali e concorra alle elezioni con un proprio partito o dentro un partito che lo accolga. Una soluzione del genere avrebbe il pregio della chiarezza, pregio che dovrebbe essere prezioso per un cattolico e per un sacerdote.

* * *

Attendevamo da molti giorni che finisse la telenovela Berlusconi-Casini, canticchiata dai due protagonisti sui versetti di "Vengo anch'io? No tu no. Ma perché? Perché no". Adesso si è conclusa: andranno alle elezioni separati.

Il Cavaliere ostenta calma e disprezzo, si sente più sicuro senza l'Udc in casa. Fini se l'è mangiato in un boccone, operazione facile perché i colonnelli di An erano già tutti al suo servizio. Con Casini era più difficile per via di Ruini.

L'Udc ha davanti a sé una strada in salita. Forse ha aspettato troppo, forse il buon momento sarebbe stato quello scelto da Follini quando si dimise da segretario e se ne andò dal partito. Un anno fa tutto era diverso e molte cose sarebbero andate in altro modo, ma con i se e i forse non si fa storia. D'ora in avanti Casini navigherà in mare aperto e sarà la prima volta nella sua vita. Può darsi che gli piaccia. Magari senza Mastella, che sarà pure credente e ruiniano come lui, ma non sembra un "asset" appropriato al rinnovamento della politica italiana.

(17 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: L'inseguitore accelera l'inseguito perde colpi
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2008, 11:54:22 am
POLITICA

L'inseguitore accelera l'inseguito perde colpi

di EUGENIO SCALFARI


IL 2 MARZO si concluderà l'inevitabile giostra delle candidature e delle alleanze e la campagna elettorale entrerà nel suo pieno, ma i suoi lineamenti sono già chiari e profilati: Berlusconi conduce nei sondaggi, Veltroni insegue accelerando il recupero. Per la prima volta in questa settimana il recupero dell'inseguitore ha prodotto un regresso nello "share" dell'inseguito. Se i sondaggi rispecchiassero l'effettiva realtà questa novità sarebbe della massima importanza; significherebbe infatti il profilarsi d'un deflusso dal Popolo della libertà verso il Partito democratico e quindi il dimezzamento aritmetico del distacco tra l'inseguito e l'inseguitore.

Sin d'ora comunque si va diffondendo nella pubblica opinione e nei "media" la sensazione del dinamismo di Veltroni e della staticità del suo avversario. In un paese bloccato da decenni che aspira a liberarsi dalle bende e a rinnovarsi, questa sensazione può tradursi in un capovolgimento di tutti i pronostici che fin qui sembravano certi: il Partito democratico, già ora, non ha più come obiettivo massimo quello di pareggiare al Senato, ma addirittura quello di vincere nelle elezioni per la Camera incassando così il premio di maggioranza che la legge elettorale prevede. Chi l'avrebbe mai immaginato appena un mese fa? Naturalmente questi ragionamenti simulano una realtà virtuale e vanno quindi presi con molta cautela.

* * *

I temi dell'economia mordono invece più da vicino la vita quotidiana dei cittadini, lavoratori, consumatori, famiglie, imprese e sono ormai balzati in primissima fila. I prezzi soprattutto perché è con essi che tutti abbiamo a che fare ogni giorno. E di conseguenza i salari e le retribuzioni. L'occupazione, la cui tenuta comincia a suscitare preoccupazioni. L'inflazione. Il livello ufficiale che registra una media si colloca in questo momento al 2,9 per cento, ma l'ultima notizia di due giorni fa indica nel 4,8 l'aumento dei prezzi relativi a generi di larga diffusione.

Non è una sorpresa, l'inflazione infatti è la peggiore delle imposte perché ha carattere regressivo, colpisce i redditi più bassi in misura nettamente maggiore di quelli più elevati, risparmia i ricchi e deruba i poveri, falcidia i percettori di redditi fissi (lavoratori dipendenti e pensionati) consentendo qualche recupero ai lavoratori autonomi, ai professionisti, ai settori che operano su mercati protetti rispetto alla concorrenza. Ecco, la situazione dell'economia occidentale e quindi anche dell'Europa e in particolare dell'Italia si trova a questo punto. Gli Usa sono in piena recessione.

L'Europa registra un sensibile rallentamento e l'Italia è il fanale di coda. Le previsioni delle agenzie internazionali danno il nostro prodotto interno lordo allo 0,7 per cento nell'anno in corso con una tendenza ad appiattirsi ancora.

In queste condizioni la politica economica dovrebbe reagire adottando misure anticicliche. La teoria suggerisce infatti che, quando la congiuntura rallenta e addirittura volge verso lo zero, la domanda venga sostenuta con acconci interventi di spesa. In questo senso si muovono i programmi presentati dai partiti nei giorni scorsi; le differenze riguardano le modalità ma non la sostanza. Tutti infatti hanno in animo di sostenere i salari, i giovani, le famiglie, gli investimenti in infrastrutture.

Il problema è quello della copertura finanziaria e reale di queste politiche: dove trovare le risorse necessarie? Dove concentrare lo sforzo? Come evitare ricaschi dannosi sull'inflazione? Come impedire contraccolpi sul deficit? Infine, a quanto deve ammontare il complesso dei provvedimenti di sostegno per esercitare un effetto sensibile sulla domanda interna e sulla crescita reale?

* * *

Comincio da quest'ultima domanda: a quanto ammontano le risorse da mobilitare per ottenere risultati apprezzabili? Direi: non meno di un punto del Pil, cioè in cifra tonda 15 miliardi di euro da investire entro e non oltre l'esercizio in corso e dei quali almeno un terzo entro il prossimo giugno.

Da questo punto di vista è grave il rifiuto di Berlusconi di inserire i provvedimenti a favore dei salari nel decreto definito "mille proroghe" che sarà approvato dal Parlamento entro il 29 febbraio prossimo. Se avesse accettato, quelle misure valutate a circa 2 miliardi, avrebbero potuto beneficiare i salari fin dal prossimo aprile dando un sensibile sollievo ai redditi medio - inferiori e sostenendo il consumo.

L'autore di quel provvedimento era il famigerato governo Prodi e questa è la sola ragione per cui il leader del centrodestra ha opposto il suo rifiuto. Così tutta la politica destinata alla crescita viene spostata in avanti di almeno quattro mesi se non di più, con effetti negativi che è difficile sottovalutare. Il governo (quale che sia) che uscirà dalle urne il 14 aprile, sarà operativo al più presto ai primi di maggio.

Anche se i leader dei due maggiori partiti si sono impegnati a far partire la propria politica fin dal primo Consiglio dei ministri, gli effetti richiederanno un tempo tecnico di almeno due mesi per farsi sentire. Se ne parlerà dunque ai primi di luglio per le misure di più pronto impiego. Il danno di questo scriteriato comportamento è evidente e dispiace che l'ottimo Mentana, che ha lungamente intervistato a Matrix dell'altro ieri il principale azionista di Mediaset, non gli abbia posto questa elementare domanda.

Resta comunque il problema di dove reperire risorse da destinare alla crescita per un ammontare pari a 15 miliardi. Ebbene, ci sono spese in attesa di copertura già previste entro il 2008, pari a 7 miliardi. Gli stanziamenti sono già stati indicati da Padoa-Schioppa. Una parte delle destinazioni sono coerenti con il sostegno della crescita; quelle che non lo sono possono esser rinviate e il loro ammontare utilizzato diversamente.

Le risorse restanti vanno, a mio avviso, mobilitate lasciando lievitare il deficit dal 2,2 preventivato dal governo Prodi al 2,8. Il commissario europeo Joaquin Almunia manderà alti lai, poiché una politica del genere allontana inevitabilmente il pareggio del nostro bilancio che Padoa-Schioppa aveva previsto per il 2010. Resteremmo tuttavia al di sotto della fatidica soglia del 3 per cento.

L'obiezione, lo so bene, riguarda gli effetti negativi sullo stock del debito pubblico. A questo riguardo però si potrebbe (a mio parere si dovrà) mettere in pista una robusta operazione di vendita del patrimonio mobiliare posseduto dallo Stato. Il Tesoro detiene ancora un largo pacco di partecipazioni mobiliari che possono essere collocate dal sistema bancario gradualmente sul mercato quando esso sarà uscito dalle attuali difficoltà.

Le partecipazioni in mano al Tesoro riguardano aziende di prim'ordine che fruttano anche cospicui dividendi. La loro privatizzazione rientra nei progetti dei due maggiori partiti. Del resto l'operazione potrebbe essere contenuta entro i limiti richiesti dai maggiori oneri sul debito pubblico derivanti dall'aumento del disavanzo. In pratica: un "deficit spending" neutralizzato da alienazioni di patrimonio, con l'obiettivo di imprimere uno scatto anti - recessivo che potrebbe fruttare almeno mezzo punto di Pil dal previsto 0,7 a qualche decimale al di sopra dell'1 per cento. Freno e acceleratore, appunto.

* * *

Dove concentrare lo sforzo. Capisco la necessità sociale di un piano per gli asili nido. Capisco e condivido i maggiori investimenti per la ricerca, indispensabili per riqualificare le Università. Capisco i fondi per la scuola superiore, punto nero anzi nerissimo del nostro sistema scolastico. Qui necessitano piani di riforma che si estendono su un arco di tempo pluriannuale. Si tratta di mettere in moto i processi che esulano però da interventi anticiclici di immediato impiego.

A mio avviso il grosso del "deficit spending" ipotizzato dovrà esser destinato al potere d'acquisto delle fasce deboli, allo stipendio minimo del lavoro a tempo determinato e alle infrastrutture. Lo Stato si deve far carico d'un piano di investimenti pubblici che inneschi processi virtuosi di collaborazione con il capitale privato, superi le lentezze burocratiche, riduca al minimo il tempo delle gare d'appalto.

Questo tipo di investimento rappresenta un braccio di leva o meglio un motore d'avviamento con un elevato moltiplicatore; sostiene l'occupazione, accresce le dotazioni infrastrutturali e migliora per questa via la produttività di tutto il sistema.

Berlusconi, che anche lui ha formulato alcune proposte, ha indicato un programma informatico a vasto raggio per snellire e ridurre i costi della pubblica amministrazione. Credo sia una strada da seguire con l'avvertenza però che anche questo è un intervento che richiede un arco di tempo per dare frutti concreti.

* * *

Insomma "si può fare". La crisi internazionale è purtroppo fuori dal controllo dei singoli governi nazionali, ognuno dei quali tuttavia ha la possibilità anzi il dovere di attivare tutte le risorse disponibili per migliorare la propria economia e contribuire per questa via al rilancio complessivo del ciclo.

Larghe intese? Berlusconi le propone in caso di parità elettorale. Veltroni ne ha delineato rigorosamente il campo. La maggioranza, quella che uscirà dalle urne, deve avere il diritto e la responsabilità di governare. D'altra parte, per quanto riguarda la Camera, basta un solo voto elettorale in più per far scattare il premio di maggioranza. Quanto al Senato, una maggioranza comunque ci sarà e sarebbe sufficiente che l'opposizione avesse il "fair play" di non perseguire la politica delle "spallate" voluta da Berlusconi per tutta la durata del governo Prodi e nel frattempo varasse le riforme costituzionali, queste sì "bipartisan", tra le quali la nuova legge del Senato regionale. L'obiettivo si sposta dunque su chi si aggiudicherà un voto in più alla Camera. "Si può fare".

Post scriptum. Ancora una volta voglio dare lode a Romano Prodi, Tommaso Padoa-Schioppa, Pier Luigi Bersani, Vincenzo Visco, per il positivo lavoro sui conti pubblici e sul programma di rilancio di cui la loro politica ha posto le necessarie premesse. Tre di loro hanno passato la mano in obbedienza ai propositi di rinnovamento da essi stessi condivisi. Ma meritano di essere salutati con onore. Gli aspetti negativi non sono dipesi dalla loro azione ma da una coalizione discorde e rissosa che Veltroni ha il merito d'aver finalmente e definitivamente liquidato.

(24 febbraio 2008)

da repubblica.it


Titolo: Il dollaro ha perso il dominio del mondo
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2008, 11:15:33 am
POLITICA

Il dollaro ha perso il dominio del mondo

di EUGENIO SCALFARI


Alcuni "guru" della finanza americana fanno previsioni catastrofiche sull'evoluzione della crisi scatenata dai "subprime" immobiliari; altri, in America e in Europa, usano toni meno drammatici e prevedono che al massimo entro un anno la tempesta si placherà e rivedremo il sereno.

Nessuno può giurare sull'una o sull'altra tesi, le scommesse fanno parte del gioco e del funzionamento del mercato, ma bisogna esser ben consapevoli che si gioca a testa o croce, o al rosso e nero: cinquanta per cento di probabilità di vincere o di perdere.

Ciò premesso, ribadirò quanto scrissi nel giugno dell'anno scorso di fronte ai primi segnali dell'uragano: questa non è una crisi come le altre, non si limita ad un settore geografico del pianeta ma lo coinvolge tutto, non ha soltanto carattere finanziario ma dilaga nell'economia reale e intacca inevitabilmente i cosiddetti "fondamentali", cioè gli elementi di fondo che sorreggono l'economia. Merita quindi d'esser chiamata "grande crisi", definizione fin qui riservata a designare quella che cominciò a Wall Street nel 1929, si diffuse in Europa nel 1931 e non cessò di incombere sull'intero pianeta fino allo scoppio della guerra del 1939, nonostante che nel frattempo ci fosse stato il "New Deal" rooseveltiano e i fascismi europei.
Siamo dunque di fronte ad una grande crisi. Forse sbollirà tra un anno, forse si aggraverà ancora di più e si prolungherà. Forse intaccherà le strutture portanti del capitalismo e della democrazia oppure - a tempesta passata - tutto tornerà come prima. Ma a quest'ultima ipotesi, francamente non credo.

Mario Deaglio in un bell'articolo sulla "Stampa" di qualche giorno fa, ha spiegato quali sono i mutamenti più che mai reali che stanno fin d'ora modificando le strutture del sistema economico mondiale. Concordo completamente con la sua analisi che segnala i tre fattori della mutazione in corso.

Primo: una massa sterminata di nuovi consumatori si sta affacciando sul mercato delle derrate alimentari di base, soprattutto i cereali e il grano in particolare. Quantitativamente si tratta di almeno un miliardo di persone e nei prossimi anni questa cifra è destinata a raddoppiare a parità di abitanti del pianeta; ma sappiamo già che il tasso demografico è destinato ad aumentare di molto la popolazione mondiale con gli effetti nutrizionali che ne deriveranno.

Secondo: le nazioni emergenti (Cina, India, America Latina) hanno fame di energia e premono sulle risorse esistenti, in particolare sul petrolio. La ricerca di nuovi giacimenti e di nuove fonti sarà certamente stimolata, ma non abbastanza da ridurre l'effetto della domanda sui prezzi.

Terzo: il dollaro sta perdendo una parte del suo ruolo di moneta esclusiva sia per quanto riguarda le transazioni commerciali sia come unica moneta di riserva del valore.

La grande crisi non è responsabile di queste mutazioni, ma funziona come acceleratore. Spinge avanti i tre fenomeni in atto e li diffonde ovunque rendendo più difficile il contenimento e la gradualità.

* * *

Nouriel Roubini, il maggior catastrofista tra gli economisti che disegnano gli scenari del prossimo futuro, valuta a mille miliardi di dollari le perdite causate dai "subprime" immobiliari, dai debiti dei proprietari di case, dai debiti "in sofferenza" causati dagli strumenti finanziari "derivati", dai debiti dei titolari di carte di credito, dai debiti delle imprese fallite o minacciate da fallimento, dalle perdite che le banche e le compagnie d'assicurazione non hanno ancora iscritto nei loro bilanci e, infine, dall'andamento negativo delle Borse mondiali e dall'andamento altrettanto negativo dei margini di copertura degli operatori finanziari.

Mille miliardi di perdite sono una cifra enorme. Anche se non tutti i ragionamenti di Roubini sono condivisibili, la sua valutazione delle perdite complessive sembra abbastanza ragionevole. Essa incide soprattutto sul terzo degli elementi di mutazione del sistema e cioè sul ruolo del dollaro e sulla tenuta del "dollar standard" in vigore fin dai primi anni Settanta.

Le istituzioni monetarie internazionali e cioè il Fondo monetario, le Banche centrali (comprese quelle di Pechino, di New Delhi, di Brasilia, di Buenos Aires e di Città del Messico) e i rispettivi governi dovrebbero prendere l'iniziativa di una riforma del sistema monetario mondiale.

Capisco che una proposta del genere ha il sapore di un'ipotesi priva di fattibilità politica, ma in mancanza di un tentativo convinto in quella direzione tra pochi anni saranno i governi e le Banche centrali asiatiche a dettare la legge. Il grosso del finanziamento del Tesoro americano e delle attività finanziarie denominate in dollari è da tempo nelle mani di Cina, India e Giappone. Per cifre minori ma altrettanto cospicue, a quelle attività finanziarie monetarie dei tre grandi paesi asiatici vanno aggiunti i petrodollari in mano ai paesi arabi e alla Russia.

Una situazione del genere è estremamente squilibrata, può creare oscillazioni dei cambi molto gravi, delle quali l'attuale apprezzamento dell'euro rappresenta soltanto una pallida anticipazione. Una riforma del sistema non può che andare verso meccanismi di ridistribuzione dei valori monetari e dei tassi di cambio che ne sono l'espressione, connessa con il reddito reale delle varie aree economiche del pianeta, con le rispettive quote di commercio internazionale e con la stabilità dei bilanci dei singoli paesi.

Nel 1945 problemi analoghi furono esaminati da esperti e governi dei paesi vincitori, soprattutto da Stati Uniti e Gran Bretagna. Sulla visione più equilibrata suggerita da Keynes prevalse il "dollar exchange standard" sostenuto dal governo americano. Mi azzardo a dire che una rilettura aggiornata e politica del piano Keynes potrebbe fornire idee di attuale interesse. Non varrebbe la pena di promuovere un'iniziativa di questa natura?

* * *

Su scala infinitamente minore ma per noi molto più vicina alla nostra vita quotidiana, si pone il tema della politica economica italiana nell'ambito della campagna elettorale in corso, delle proposte avanzate dalle forze politiche e di ciò che potrà avvenire quando dalle urne uscirà una nuova maggioranza e nuove opposizioni.
In proposito non ho che da ribadire quanto già scritto nelle scorse settimane: credo necessario mirare - nei limiti del possibile - ad una strategia anticiclica che sostenga una crescita purtroppo appiattita e in progressivo rallentamento. I margini per una linea di questa natura esistono. Si tratta a mio avviso di mobilitare risorse pari ad un punto di Pil (1.500 miliardi in cifra tonda) concentrando l'azione sul rifinanziamento della domanda interna di consumi e di investimenti, capace di contenere il rallentamento del Pil creando nuove risorse cui attingere negli esercizi 2009-2010.

Per non girare intorno e chiamare invece le cose con il loro nome, credo sia possibile attuare una calcolata politica di "deficit spending" senza oltrepassare la soglia europea del 3 per cento e coordinando quest'operazione con alienazioni di patrimonio da destinare interamente ad un abbassamento del debito pubblico e quindi degli oneri che ne derivano al bilancio dello Stato.

L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, mi ha cortesemente inviato il testo della sua "deposizione" dinanzi alle competenti commissioni parlamentari. Lo ringrazio di quest'attenzione anche se conoscevo già quel documento. Esso rappresenta una ricostruzione difensiva della politica attuata dal ministro dell'Economia durante il quinquennio del governo Berlusconi.

Non interessa in questa sede discutere il merito di quella difesa, convincente su alcuni aspetti e non convincente affatto su altri non marginali. Salvo un punto che merita risposta. Tremonti ritiene (con ragione) che il cambio di moneta dalle valute nazionali all'euro, effettuato nel 2000, abbia prodotto consistenti mutamenti nella distribuzione della ricchezza e della povertà tra le varie classi sociali, alimentando un malcontento largamente maggioritario nella popolazione europea e in quella italiana in particolare nei confronti dell'euro e dell'Europa.
L'ex ministro dell'Economia ritiene che l'errore dei governi dell'Eurozona sia stato quello di effettuare in un colpo solo il cambio della moneta. Le cose sarebbero andate diversamente se per tre-quattro anni ci fosse stata nei paesi di Eurolandia una doppia circolazione, quella dell'euro affiancata dalle monete nazionali.

Tremonti pensa che la doppia circolazione avrebbe evitato i massicci spostamenti di ricchezza e di povertà e le massicce speculazioni che li hanno prodotti. Penso che abbia ragione in teoria, ma torto politicamente: la doppia circolazione era impossibile; il passaggio dalle monete nazionali all'euro avvenne dopo una durissima battaglia soprattutto tra tedeschi e francesi, che fu vinta dal cancelliere Kohl quando riuscì a convincere Mitterrand, pur in contrasto con il parere delle rispettive Banche centrali. Una tergiversazione era a quel punto impossibile; la doppia circolazione, per di più, non avrebbe reso irreversibile il cambio di moneta e avrebbe alimentato innumerevoli speculazioni contro le monete più deboli, a cominciare dalla nostra, polverizzando l'operazione e agitando quotidianamente il mercato dei cambi.

Tremonti è un buon avvocato difensore di se stesso "ex post", ma sostituisce in questo caso la sua soggettiva visione alla dura realtà. Sta di fatto che il "money exchange" non fu seguito dal governo con gli opportuni controlli e infatti gli effetti sulla società italiana furono decisamente peggiori di quanto avvenne contemporaneamente negli altri maggiori paesi di Eurolandia.

Su un punto mi dichiaro del tutto d'accordo con l'ex ministro dell'Economia: egli ricorda d'esser stato favorevole al piano Delors di finanziare un grande programma di opere pubbliche europee con l'emissione di Eurobond sul mercato finanziario internazionale. Aveva ragione. Posso dire che il suo appoggio a quella proposta non fu così energico come avrebbe potuto e dovuto? Il governo Berlusconi-Tremonti pose le sue priorità su altri obiettivi politici ed economici.

L'appoggio al piano Delors fu puramente accademico e non sortì infatti alcun effetto.

Domando a mia volta: qual è l'opinione di Tremonti su una politica anticiclica da adottare subito dopo il 14 aprile, quale che sia la maggioranza che uscirà dalle urne? Questo sì, sarebbe interessante saperlo. Grazie se vorrà dircelo.


(2 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Attualità di Moro
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2008, 04:57:54 pm
Eugenio Scalfari.

Attualità di Moro


A trent'anni dal sequestro e dalla uccisione del leader democristiano il suo disegno politico mantiene ancora oggi, purtroppo, intera la sua validità  Aldo Moro a un ricevimento negli anni '60Saranno tra poco trent'anni dal rapimento e poi dall'uccisione di Aldo Moro, eppure a me sembra preistoria. Quei volti, quelle persone, quei destini: un museo delle cere, anche se molti sono ancora vivi e alcuni addirittura operanti. Ma remoti, provenienti da un'epoca lontana, come sopravvissuti.

L'uccisione di Moro segnò un displuvio nella vita italiana, chiuse alcuni sbocchi e ne aprì altri. Accelerò la deriva della corruzione pubblica che nel decennio degli anni Ottanta toccò il suo culmine e ancora oggi mantiene una pesante ipoteca sulla politica e sui suoi molteplici derivati. Chiuse la fase di predominio che la Democrazia cristiana aveva fin lì esercitato nel bene e nel male, provocando il contraccolpo del declino del Partito comunista di Berlinguer nonostante il distacco dalla sudditanza moscovita da lui avviato.

Il rapimento di Moro, le sue lettere dalla prigionia, infine il ritrovamento del suo cadavere nel bagagliaio di quella auto simbolicamente parcheggiata a mezza via tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, rispettivamente sedi del Pci e della Dc, coinvolsero tutti gli italiani e interpellarono la pubblica opinione con domande gravi: il valore della vita, delle leggi, dello Stato, l'impazzimento ideologico, il terrorismo e la sua spietatezza.

Ho detto che quell'epoca mi sembra remota, eppure ne conservo vivissimo ricordo, forse perché tutti quelli che in qualche modo ne furono coinvolti uscirono cambiati. Quando, alle otto di una livida mattina di marzo si diffuse come un lampo accecante la notizia del rapimento del presidente della Dc, la sua scorta massacrata, l'azione terroristica rivendicata dalle Brigate rosse, ci fu in tutto il Paese un attimo di vita sospesa, come in un film le immagini scorrono veloci e tutto ad un tratto vengono bloccate mostrando figure colte in posture strane nella loro improvvisa immobilità.

Il nuovo governo voluto da Moro e presieduto da Andreotti doveva presentarsi proprio quella mattina alle Camere. Avrebbe dovuto avere, per la prima volta nella storia italiana, il voto favorevole dei comunisti, a lungo voluto da Moro e da Berlinguer. Sul movente dell'attentato si è discusso moltissimo, ma una cosa è certa: l'attentato, la prigionia e infine l'uccisione dell'ostaggio furono la trave gettata sulla strada per impedire l'alternanza tra i due maggiori partiti, per bloccare i loro intenti riformatori e provocare invece una rivoluzione eversiva, vagheggiata in un vuoto e sanguinoso anacronismo.

Riprendendo un'immagine di Carlo Levi scrissi allora che il corpo esanime di Aldo Moro nel bagagliaio di quella macchina fu come un crisantemo gettato su un letamaio e questa è l'immagine che m'è rimasta nella memoria di quei cupi e tristissimi giorni.

Ma perché il leader democristiano aveva così tenacemente voluto l'incontro politico con il Pci, causa di gravi contrasti nel suo partito e infine della sua morte? La risposta l'ebbi dalla sua stessa voce due settimane prima del suo rapimento.

C'era stato un dissenso grave tra lui e me, che interruppe per dieci anni i nostri rapporti professionali che nel periodo precedente erano stati frequenti e anche amichevoli. Nel 1968 'L'Espresso' che allora dirigevo aveva rivelato l'intrigo tra il generale De Lorenzo, il presidente della Repubblica Antonio Segni e i servizi segreti del Sifar, per minacciare un colpo di forza che piegasse i socialisti a più miti consigli nella loro politica di riforme. Fu quello che allora Nenni chiamò 'rumore di sciabole' culminato nel Piano Solo, che 'L'Espresso' rivelò mettendo in subbuglio il centrosinistra. Ci fu un processo che ebbe uno svolgimento clamoroso e si concluse in primo grado con la nostra condanna nonostante il parere a noi favorevole del pubblico ministero Vittorio Occorsio.

La sentenza contro di noi fu dovuta ad una settantina di 'omissis' cioè di frasi tagliate da documenti portati dai nostri avvocati a difesa e cancellati nei loro passi salienti da Moro, allora presidente del Consiglio, invocando il segreto di Stato.

Dieci anni di rottura, interrotti nel febbraio del '78 da una iniziativa inattesa dello stesso Moro il quale, tramite il suo più fidato consigliere, mi fece sapere che desiderava incontrarmi. L'incontro si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza del suo consigliere, Guerzoni, e fu in quell'occasione che il leader della Dc mi spiegò la sua politica verso il Pci. Moro sapeva che, a causa della guerra fredda, il Pci non poteva costituire un'alternativa politicamente praticabile; per conseguenza la Dc era 'costretta a governare' e la democrazia italiana era incompiuta e bloccata.

Questa situazione (così riteneva Moro) non era più oltre accettabile perché causava una deformazione strutturale e involutiva del nostro sistema democratico. Di qui la necessità di associare il Pci al governo del Paese in compresenza con la Dc, affinché desse prova della sua maturità democratica per un periodo sufficiente a dare stabilità e a consentire un'alternanza. "Siamo ora", disse Moro, "a questo delicatissimo passaggio. Non so quanto durerà, probabilmente alcuni anni, durante i quali i due partiti popolari faranno insieme le riforme necessarie a modernizzare il Paese".

Qualche giorno dopo fu rapito; due mesi dopo fu ucciso. Da allora sono passati trent'anni. Questa storia va dunque ricordata. È remota, ma purtroppo attuale.

(29 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Lo strappo del palalido la risposta del nord-est
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2008, 11:22:24 am
POLITICA IL COMMENTO

Lo strappo del palalido la risposta del nord-est

di EUGENIO SCALFARI


AL PALALIDO di Milano, con la folla delle grandi occasioni, Silvio Berlusconi ha compiuto un gesto inaudito all'inizio del suo comizio elettorale: ha stracciato il documento che conteneva il programma del Partito democratico gettandone i pezzi in aria e definendolo carta straccia.

Non era mai accaduto un fatto simile in nessuna campagna elettorale. Quel gesto, quelle parole, quei pezzi di carta svolazzanti in aria fanno piazza pulita di ogni ipotesi di "fair play", di rispetto dell'avversario, di consapevolezza dei problemi del Paese e della loro gravità. Tradiscono un senso di paura per un risultato che ancora pochi giorni fa sembrava assegnare con certezza la vittoria alla destra e che invece comincia ad esser percepito come incerto.

Gli ultimi sondaggi segnalano una progressiva rimonta del Partito democratico, un aumento degli incerti, lo smottamento del blocco berlusconiano perfino in zone e in ceti sociali che sembravano inespugnabili. Nelle stesse ore, mentre il vecchio leader di Arcore si abbandonava alla demagogia del capopopolo, Veltroni riceveva accoglienze mai viste prima nelle roccaforti del berlusconismo e della Lega, a Rovigo, a Venezia, a Treviso.

Si è aperta una crepa profonda nel cuore del Nordest che mette in gioco la tenuta del consenso verso il Pdl con ripercussioni diffusive su tutta l'area padana. Lo scontro tra due visioni opposte del Paese e dei suoi problemi è insomma entrato nel vivo, alla compostezza dell'uno fa riscontro l'agitazione scomposta dell'altro, il vuoto delle sue proposte e soprattutto l'impossibilità di spiegare come mai, avendo governato per cinque anni con maggioranze parlamentari inattaccabili, nessuno degli impegni presi nel 2001 sia stato realizzato.

L'inadempienza è di tale evidenza da minare la credibilità di chi indica nel 2008 gli stessi obiettivi di sette anni fa. Resteranno molto spiazzati, dopo l'esibizione del Palalido, quanti si sono spesi fin qui ad evocare una sorta di patto d'alleanza tra i due maggiori partiti in lizza, una convergenza sospetta e trasformistica, un compromesso già negoziato per la spartizione del potere subito dopo il voto.

Veltrusconi: così è stato definito l'immaginato duopolio da chi pensa e crede che la politica non sia che accaparramento di potere e di risorse a danno del bene comune. Molti usano la politica in quella turpe direzione, ma molti altri si ribellano proponendo un'altra visione e opposti comportamenti. Lo scontro è questo e non è mai risultato tanto chiaro come nella giornata di sabato 8 marzo a 35 giorni di distanza dall'apertura delle urne elettorali.

* * *

Da un lato c'è una visione che continua a demonizzare l'avversario facendo leva sulle paure e le incertezze che agitano una parte consistente del paese e che hanno un fondamento nella realtà: paure per la propria sicurezza, paure per le difficoltà crescenti di far quadrare i conti familiari, paura per il futuro dei giovani. Alcuni di questi problemi derivano da una situazione internazionale gravida di pesanti nuvole, altri chiamano in causa le classi dirigenti italiane che hanno guidato la vita politica ed economica nell'ultimo trentennio, dalla fine degli anni Settanta ad oggi.
Un partito politico responsabile, nel momento in cui affronta una campagna elettorale decisiva dovrebbe proporre soluzioni idonee a risolvere i problemi, dissipando le paure che paralizzano e suscitando speranze e attiva partecipazione.

La premessa non può che essere un rinnovamento nelle idee e nel personale politico chiamato a tradurre in fatti concreti e plausibili. Rinnovamento facile ad esser promesso ma assai più difficile ad essere realizzato nei fatti. Dalla destra si è risposto finora puntando ad ingigantire quelle paure e proponendo un guazzabuglio di ricette che vanno dal protezionismo e dallo statalismo di Tremonti alla miscela demagogica di Berlusconi. Il costo del programma berlusconiano ammonta a 80 miliardi di euro; dove prendere le risorse per attuarlo rimane un inesplicabile mistero. Le cifre fin qui fornite si aggirano sui 20 miliardi. Quanto al protezionismo daziario di marca tremontiana, si tace sul fatto che una politica fondata sui dazi all'importazione non è più, da tempo, nella disponibilità dei governi nazionali ma dovrebbe essere adottata dall'Unione europea che non è affatto d'accordo (e con ragione) a inoltrarsi su una politica di chiusura delle frontiere.

Il Partito democratico dal canto suo ha accettato la sfida del rinnovamento e l'ha condotta con molta fermezza. Il programma economico punta sul sostegno del potere d'acquisto dei ceti più deboli, delle famiglie, del lavoro giovanile e precario. Il costo è di 27 miliardi, compatibile nel prossimo triennio con le risorse disponibili e con quelle che la crescita possibile dell'economia potrà generare.

E' stato costruito un partito del tutto diverso da quelli fin qui esistenti in Italia, radicato su tre idee forti: la libertà, l'eguaglianza, la solidarietà. Dopo il crollo delle ideologie totalizzanti, che hanno dominato gran parte del Novecento lasciando in eredità una catasta di milioni di morti ammazzati dalla guerra e dall'orrore degli stermini, quelle tre idee forti costituiscono il nerbo della civiltà occidentale. Abbiamo tutti la convinzione che nessuna di loro, da sola, può avviarci verso un equilibrio stabile e duraturo. Libertà senza eguaglianza o, viceversa, eguaglianza senza libertà conducono (e l'esperienza novecentesca ne è una tragica prova) a catastrofi terribili. Bisogna applicarle congiuntamente, sottolineando di volta in volta l'una o l'altra secondo i bisogni, i desideri, le speranze delle persone, dei ceti, della società.

Gli elettori e specialmente i giovani, le donne e gli anziani che sono i segmenti più esclusi dai circuiti della sicurezza e del benessere, sono in grado di scegliere. Senza la loro attiva partecipazione non c'è progetto che sia attuabile. Restare sulla riva a guardare ciò che avverrà come se in gioco non ci fosse il loro stesso destino, significa soltanto rinunciare a render possibile un progetto di futuro. Questo è il senso vero dello scontro in atto tra due proposte e questa è la posta in gioco: il nostro, il vostro destino di cittadini e di nazione.

(9 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Luci e ombre di un miracolo
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2008, 12:25:10 pm
Eugenio scalfari

Luci e ombre di un miracolo

Un libro scritto trent'anni fa con Guido Carli oggi viene ristampato.

Andrebbe riletto per conoscere il passato e potrebbe servire anche a preparare il futuro quando era governato di Bankitalia

Ho riletto in questi giorni un libro che fu scritto trent'anni fa.

Il titolo è 'Intervista sul capitalismo italiano' e gli autori sono due: Guido Carli ed io.

Ad esser più precisi l'autore è il primo; il secondo lo interroga, interloquisce, gli fa da spalla per 120 pagine.

Lavorammo parecchi giorni per realizzare quel colloquio, registrato su un magnetofono e poi messo in carta da me e rivisto da lui.

Infine l'editore Laterza lo stampò.


Per ricordare la memoria di un uomo che ebbe un peso rilevante nell'economia italiana e nel governo del paese, quel libro è stato ristampato dall'editore Boringhieri e sarà presentato il 21 aprile all'Università Luiss di cui Carli fu presidente.

Mi ha fatto uno strano effetto rileggere quelle pagine nelle quali c'è la storia economica d'un paese interpretata da uno dei suoi protagonisti: governatore della Banca d'Italia dal 1960 per quindici anni, poi presidente di Confindustria e infine ministro del Tesoro.

Il periodo che nel libro venne preso in considerazione fu il trentennio tra il 1945 e il 1975, ma le premesse più volte richiamate rimontano addirittura agli anni Trenta dello scorso secolo.

Carli racconta in qual modo, dopo la catastrofe della guerra, "un paese scalciante e urlante passò da una civiltà contadina a quella industriale sotto gli occhi impietosi della televisione, del cinema e dei mezzi di comunicazione di massa".

Quest'immagine mi è rimasta nella memoria e l'ho citata più volte nei tanti articoli che ho scritto su quell'argomento. Non era infatti mai accaduta una trasformazione economica e sociale così radicale "sotto gli occhi della televisione" cioè sotto gli occhi del paese che si stava trasformando. Nell'Inghilterra di fine Settecento, nella Francia e nella Germania di metà Ottocento come pure negli Stati Uniti d'America, la rivoluzione industriale si era verificata in modo assai più 'coperto'. Ne erano consapevoli solo quelli che ne furono direttamente coinvolti; tutti gli altri non ne conoscevano i costi sociali, le condizioni di partenza, le forze che l'avevano provocata, la crudeltà dell'attuazione, gli obiettivi e le speranze che l'avevano spinta avanti.

In Italia fu diverso e quella diversità costituì un costo aggiuntivo perché il paese cambiava e cambiando guardava e giudicava se stesso: uno psicodramma che non poteva non influire sui processi in corso.

Parlammo a lungo di quanto era avvenuto nei trent'anni che ci stavano alle spalle e di quella non silenziosa rivoluzione. Parlammo del miracolo italiano del 1960-63 che ebbe proprio Guido Carli come protagonista e che raggiunse per la prima volta la piena occupazione delle forze-lavoro, il pareggio del bilancio pubblico, un'economia robusta con una crescita del reddito nazionale ad un tasso che per molti anni fu di oltre il 5 per cento, un regime di prezzi stabili, consumi ed esportazioni in aumento.

Ma parlammo anche degli aspetti negativi di quel miracolo.
Esso era stato ottenuto senza che nulla fosse stato predisposto per ridurre gli inevitabili scompensi sociali che ne sarebbero derivati. Era caduto sulla testa e sulle spalle della classe politica, degli imprenditori, dei sindacati come una meteora venuta dal cielo all'improvviso.

Una popolazione di cinque milioni di italiani si era trasferita in meno di tre anni dal Sud al Nord, dalle campagne alle città, passando dall'autoconsumo, dall'isolamento, dall'analfabetismo, dalla famiglia tribale, da latifondi senza scuole, senza ospedali, senza tribunali, dalle case di paglia e dalle 'mammane': insomma da un paese contadino e arcaico alla civiltà moderna e industriale. Ma a Roma, a Bologna e soprattutto a Genova, Torino, Milano non aveva trovato nulla dei beni e dei servizi dei quali improvvisamente aveva assoluta e urgente necessità. Si cantava allora, nei lunghi convogli ferroviari che dal profondo Sud portavano verso il triangolo industriale, una canzone che diceva "Torino Milano le belle città/si mangia si beve e bene si sta". Ma la realtà non era esattamente quella: certo si stava molto meglio rispetto alle campagne dalle quali quel popolo di emigranti stava fuggendo, ma nello stesso tempo si stava assai peggio, si pativa uno sradicamento profondo, un altro tipo di isolamento anche più terribile. Soprattutto nasceva la coscienza dei diritti di cittadinanza che nel nuovo contesto erano per la prima volta percepiti e reclamati.

La mia sorpresa, rileggendo le pagine dell''Intervista', è stata la sincerità appassionata con la quale Carli ha ripercorso quelle vicende nei loro aspetti positivi e negativi, l'amarezza e l'autocritica per non aver avvertito il dramma di quella rivoluzione, l'insufficienza della classe dirigente italiana, impreparata a governare i processi dai quali tuttavia traeva profitto e benessere. Nel corso dei nostri colloqui io non mi ero accorto della passione e dell'amarezza del mio interlocutore; eravamo amici da molti anni, lo conoscevo bene, ma lo sapevo orgoglioso, solitario, lucido ma freddo, una grande mente ma una psicologia come rattrappita, una timidezza che gli impediva di aprirsi come forse avrebbe desiderato. Eppure nelle pagine di quel libro l'apertura c'è, è forte, in certi tratti perfino disperata per ciò che si poteva far meglio e non fu fatto.

Parlammo poi del Sessantotto e lì, anche lì, il suo linguaggio e la sua analisi mi stupirono: erano molto più avanti di come gli 'apparati', le oligarchie, l'Italia ufficiale, avessero recepito ciò che in quella fase stava accadendo.

Infine affrontò il tema delle 'arciconfraternite del potere' che a suo avviso erano una caratteristica della nostra società: le mafie, le logge segrete, le corporazioni, le clientele. L'egoismo e la poca solidarietà. I forti e gli esclusi. Il benessere parcellizzato. La libera concorrenza inesistente.

Questo libro andrebbe riletto oggi. Nelle scuole e nelle Università. Spiega molte cose che pochi conoscono. Racconta il passato. Fotografa il presente. Potrebbe servire a preparare il futuro se soltanto ritrovassimo la voglia di batterci e il sentimento morale per farlo.

(14 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Il drammatico errore dell'euro alle stelle
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2008, 07:37:29 pm
POLITICA

Il drammatico errore dell'euro alle stelle

di EUGENIO SCALFARI


C'È ANCORA molto da dire sulla situazione economica italiana dopo gli ultimi dati dell'Istat, della Banca d'Italia e della "Relazione unificata sull'economia e la finanza pubblica" (Ruef) che sostituisce la vecchia "Trimestrale di cassa". Stando a quest'ultimo documento il nostro debito pubblico alla fine del 2007 era diminuito di 2,5 punti in rapporto al Pil scendendo dal 106,5 al 104. Ben oltre le previsioni dello stesso Padoa-Schioppa.

Non si è riflettuto abbastanza su questo dato. I tanti Soloni (e Catoni) che sdottoreggiano sui mancati tagli della spesa, sulla dissipazione delle risorse e sul cattivo impiego del "tesoretto" tirando la croce addosso al governo Prodi e ai suoi ministri economici, hanno pressoché ignorato la diminuzione del debito sottolineando invece il rallentamento del Pil previsto per il 2008 dall'1,5 allo 0,6 per cento.

Capisco che il dimezzamento di una crescita già fiacca fa più notizia, ma i due fenomeni sono profondamente diversi. Il secondo dipende infatti interamente dall'andamento pessimo della congiuntura internazionale che è fuori dal controllo dei governi nazionali. Il primo invece è opera nostra e riguarda uno degli aspetti più delicati della nostra finanza pubblica.

L'andamento virtuoso del debito ha infatti una sola causa: la diminuzione della spesa corrente e quindi del disavanzo del Tesoro. Nel quinquennio berlusconiano la spesa aumentò di 2,5 punti di Pil, in cifre assolute 35 miliardi di euro. Nel biennio prodiano l'aumento della spesa è stato invece dell'1,4 (inferiore alla crescita del Pil).

Ci si dovrebbe chiedere da che cosa sia stato causato un divario così rilevante tra la maggiore spesa del governo Berlusconi-Tremonti e quella molto minore del governo Prodi-Padoa-Schioppa. Forse il primo ha alleviato i redditi individuali, i salari, le pensioni?

Oppure ha intrapreso una politica di lavori pubblici e di infrastrutture particolarmente consistente? Ha sostenuto i giovani, le famiglie, gli anziani? Non risulta che vi siano stati miglioramenti consistenti in queste voci della spesa sociale. I pochi provvedimenti in favore di quei settori e di quelle categorie sono stati effettuati in gran parte con sgravi fiscali e quindi con minori entrate. Ma la spesa è nel frattempo cresciuta in cifre relative e in cifre assolute. Dove sono andati a finire quei soldi?

In gran parte nella spesa sanitaria, abbandonata a se stessa senza controlli; e poi nei cosiddetti consumi intermedi della pubblica amministrazione, acquisti di beni e servizi che rappresentano quasi la metà della spesa corrente. Lì c'è stata la dilapidazione delle risorse senza alcun beneficio né per la crescita dell'economia né per la riorganizzazione della pubblica amministrazione centrale e locale.

Stupisce che questi processi siano passati quasi inavvertiti dinanzi all'opinione pubblica e ai cosiddetti esperti. Oggi ne abbiamo ufficiale conferma, certificata anche dalle autorità internazionali: la spesa pubblica è tornata sotto controllo mentre la lotta contro l'evasione ha fornito un surplus di entrate di 20 miliardi.

Tra maggiori entrate e minori spese si tratta dunque di 40 miliardi di euro che, pur in mezzo alla tempesta internazionale cominciata dal giugno scorso, hanno fatto diminuire il deficit ereditato dalla precedente legislatura dal 4 all'1,9 per cento, hanno ridotto il debito pubblico di 2,5 punti rispetto al Pil, hanno portato il disavanzo dello Stato al punto più basso degli ultimi nove anni.

* * *

Purtroppo a questi buoni risultati nella pubblica finanza non hanno corrisposto analoghi segnali positivi nell'economia e nel benessere degli italiani. Anzi quel benessere è stato seriamente colpito, le condizioni degli individui e delle famiglie sono decisamente peggiorate, il costo della vita è aumentato, le retribuzioni (salari, stipendi, pensioni) sono sempre più insufficienti costringendo a diminuire i consumi sia in quantità sia in qualità.

L'Istat stima l'inflazione ufficiale intorno al 2,6 per cento ma quella dei generi di largo consumo ad oltre il 5. Particolarmente elevati i prezzi dei cereali, dell'energia, dei trasporti. Insomma l'ossatura del sistema, sia dal lato dei consumi sia da quello degli investimenti.

A che cosa si deve questa situazione di sofferenza e di precarietà economica e sociale? Aggravata da aspettative ancor più negative che si trasformano, come sempre avviene in questi casi, in ulteriori peggioramenti percepiti prima ancora di essere avvenuti?

La risposta è nei fatti: un miliardo di persone, soprattutto nei paesi asiatici, sta gradualmente entrando nel circuito dei consumi di qualità; quattro o cinque governi (India, Cina, Corea, Singapore, Indonesia) stanno investendo massicciamente nella modernizzazione dei rispettivi paesi.

Tutti questi elementi sono fuori dal controllo dei governi nazionali europei, dell'Europa nel suo insieme e perfino degli Stati Uniti d'America. È la nuova domanda a spingere in alto i prezzi dei cereali, del petrolio e dell'energia. Accrescere l'offerta di questi beni non è impossibile, ma procede con rapidità molto minore dell'irruente aumento di domanda dei nuovi consumatori. Per di più l'aumento dell'offerta non avverrà che in presenza di prezzi non inferiori al livello attualmente raggiunto.

Siamo così, in tutto l'Occidente, dinanzi ad un'inflazione importata dall'estero da paesi con sistemi economici diversi dai nostri, livelli retributivi decisamente più bassi, monete inconvertibili, Banche centrali non integrate con quelle occidentali. Da questo punto di vista la politica dei tassi d'interesse (e quindi il valore del cambio estero della moneta europea) attuata ormai da un anno dalla Banca europea è del tutto insensata. Per il rispetto dovuto a una grande istituzione la stampa si è finora astenuta dal prender di mira la Bce; i governi e l'Ecofin hanno fatto altrettanto. Ma ora l'errore e l'inspiegabile tenacia con cui la Banca mantiene un livello dei tassi sempre più squilibrato non può esser sottaciuto. Mantenere il tasso ufficiale dell'euro al 4 per cento con una forbice in continuo aumento rispetto al tasso della Fed che tra poco sarà la metà di quello europeo significa marciare ad occhi bendati verso il disastro.

Questa politica ha già spinto il cambio con il dollaro ad un'altezza insostenibile. Non soltanto con il dollaro ma anche con le altre monete che hanno cambi fissi con quella americana e quindi si svalutano con essa, a cominciare dallo yuan cinese. La conseguenza è quella di render difficilissime le esportazioni dell'Europa verso il resto del mondo, di bloccare il turismo diretto verso i nostri paesi e tra di essi di colpire soprattutto quelli come l'Italia le cui imprese operano principalmente in settori convenzionali con scarso valore aggiunto e bassa produttività.

Il futuro governo che uscirà tra un mese dalle urne dovrà dunque affrontare questi problemi in primissima battuta. L'indipendenza della Bce nella politica dei tassi d'interesse non può e non deve essere intaccata, ma la sua sovranità non si estende al cambio estero. Si tratta di due grandezze strettamente collegate ma che fanno capo ad istituzioni diverse. Perciò una dialettica tra il Consiglio dei ministri europei e la Banca centrale non è soltanto auspicabile ma a questo punto urgente e necessaria.

* * * *

I nostri due maggiori partiti che si fronteggiano in questa campagna elettorale dovranno comunque adottare provvedimenti rivolti a sostenere il potere d'acquisto dei ceti medi e inferiori della nostra società. Le tecnicalità sono diverse ma l'intento non può che esser comune: intervenire a sorreggere una domanda di consumi e di investimenti particolarmente calante e un flusso di esportazioni anch'esso in preoccupante ristagno.

Le risorse per finanziare questa strategia sono scarse sicché una politica anticiclica di "deficit spending" è diventata inevitabile. È la sola strada per sollevare il livello di crescita del Pil almeno fino al livello dell'1 per cento dall'attuale previsione dello 0,6. Ma poiché questa politica non potrà attuarsi prima del prossimo mese di maggio e avrà dunque dinanzi a sé soltanto il secondo semestre dell'anno, diventerà necessario adottare misure di impatto immediato sulla realtà economica. Soprattutto bisognerà iniettare nel sistema non solo risorse materiali ma anche fiducia per rovesciare le aspettative dei consumatori e delle imprese.

Si discute tra gli economisti se un'operazione di sostegno della domanda avrà gli effetti desiderati oppure - come in altre occasioni è accaduto - non sarà immobilizzata dai beneficiari in impegni liquidi anziché in un'espansione dell'economia. Ma l'attuale compressione della domanda è arrivata ad un punto tale da rendere impensabile la tesorizzazione della liquidità. Perciò l'effetto desiderato avrà sicuramente luogo.

Al timore che si possa determinare accanto all'inflazione importata un'ulteriore impennata dovuta al rilancio della domanda interna si dovrà rispondere aumentando il livello della libera concorrenza, spingendo avanti le liberalizzazioni e agganciando le retribuzioni non all'inflazione ma alla produttività del sistema.

Lo ripeto: non c'è altra via. Da questo punto di vista è stato un gravissimo errore quello del centrodestra di non aver risposto positivamente all'invito di Veltroni, ancora rinnovato in questi ultimi giorni, di render possibile da subito un accordo bipartisan sull'attuazione di provvedimenti di detassazione dei salari dei lavoratori dipendenti. Avremmo guadagnato mesi preziosi, riconciliato imprenditori e sindacati, diminuito la distanza tra società e istituzioni. Forze politiche che avessero a cuore gli interessi del paese avrebbero accettato quella proposta. Tanto più sbagliato e odioso appare il rifiuto che è stato opposto e l'egoismo elettorale che l'ha motivato.

Post Scriptum. Una parola sul "protezionismo" sostenuto da Tremonti nelle sue recenti sortite. Molti l'hanno preso sul serio e ne hanno fatt o motivo di polemica mostrandone gli aspetti perversi che avrebbe sull'economia.

Concordo sulla loro perversità ma debbo avvertire che un protezionismo nazionale è del tutto incompatibile con la nostra appartenenza all'Unione europea che è la sede esclusiva per poter decidere se le frontiere debbano restare aperte o invece presidiate da dazi e contingentamenti nei confronti del resto del mondo. Lo stesso Tremonti ne è del resto pienamente consapevole e l'ha scritto nel pamphlet che contiene quell'improvvida proposta.

La sua era dunque soltanto una provocazione, forse un "lanciare la palla in tribuna" per non affrontare argomenti assai più spinosi e realistici d'un protezionismo al di fuori della nostra portata. Poiché l'ex ministro dell'Economia berlusconiana conosce bene i problemi che abbiamo di fronte avrebbe potuto impegnare assai meglio il suo talento e la sua influenza inducendo il leader di Forza Italia ad accettare la proposta di Veltroni. Così pure avrebbe potuto spendersi per far accettare l'altra proposta del Partito democratico di tagliare fin da ora il costo del finanziamento pubblico dei partiti. Due segnali importanti che avrebbero potuto esser dati e che invece sono stati soffocati dall'assordante silenzio di chi parla nei momenti sbagliati e tace in quelli opportuni.

(16 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Alitalia, chi pagherà i conti della "cordata elettorale"
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2008, 12:15:08 pm
POLITICA


L'EDITORIALE

Alitalia, chi pagherà i conti della "cordata elettorale"

di EUGENIO SCALFARI


BERLUSCONI, per come racconta la cronaca e come lo ricordo io che fui anche testimone diretto, è stato l'inventore delle cordate fasulle.

La più celebre fu quella della Sme, passata anche sui tavoli della giustizia civile e penale. Per bloccare il contratto già firmato tra De Benedetti e l'Iri, s'inventò un'inesistente cordata guidata da un suo prestanome, certo Scalera, che rimise in gioco l'accordo per il tempo necessario a riaprire il gioco. Poi Scalera scomparve, scomparve fisicamente, e la cordata Fininvest-Ferrero-Barilla ne prese il posto, ma era fasulla anche quella. Alla fine lui si ritirò e Ferrero-Barilla si divisero le spoglie della Sme.

In quel caso la Fininvest non aveva altro interesse che fare un favore politico a Craxi. Il compenso fu il famoso decreto soprannominato "decreto Berlusconi" con il quale il governo bloccò la sentenza della Corte Costituzionale autorizzando le televisioni Fininvest a trasmettere in barba alla sentenza della Corte e dei tribunali che le avevano emesse.

Non fu il solo caso. Ce n'erano stati altri all'epoca della guerra di Segrate, che vide ancora una volta opposti lui da un lato e la Cir di De Benedetti dall'altro e che culminarono nel famoso "lodo Mondadori" anch'esso transitato sui tavoli della giustizia civile e penale con esiti a volte a lui favorevoli a volte contrari, sepolti infine dalla prescrizione.

Il personaggio è dunque coniato in questo modo, se ne infischia dei conflitti d'interesse, se ne infischia delle leggi e se ne strainfischia delle norme europee. Guarda al sodo, al suo interesse, animato dall'istinto del combattente e dagli spiriti animali d'un capitalismo senza regole.

Però questa volta non gioca sul tavolo delle tre carte. Questa volta - credetemi - fa sul serio.
La cordata italiana lui la vuole veramente e riuscirà a farla decollare in un modo o in un altro, magari imbarcando per la strada i tedeschi o i fondi americani o qualche arabo di quelli che lui conosce.

Questa volta gioca da presidente del Consiglio "in pectore". L'Alitalia la considera cosa sua e considera cosa sua anche l'hub di Malpensa e quello di Fiumicino. Considera cosa sua i sindacati di Alitalia e quelli della Sea. Anche di Linate. Anche i dieci aeroporti che infiocchettano il lombardo-veneto da Bergamo a Treviso.

Si è calato interamente nella figura del leader autoritario preconizzato da Giulio Tremonti. Decide la politica, l'economia segue. Il mercato, se ostacola i suoi disegni, vada a farsi fottere. E se necessario vada a farsi fottere anche l'Europa tecnocratica.
Dio, Patria, Famiglia e ora anche Alitalia. Tremonti dixit.

* * *

È opportuno a questo punto valutare oggettivamente i costi dell'operazione cominciando dall'Alitalia e dal piano industriale presentato da Air France, che prevede un investimento immediato di due miliardi di euro.

Questa cifra è la somma di 150 milioni di esborso per gli azionisti di Alitalia, più 600 milioni di rimborso delle obbligazioni emesse da quella società, più l'assunzione dei debiti che figurano nel bilancio della Compagnia di bandiera. Air France si è anche impegnata a ricapitalizzare l'azienda con un miliardo di capitale. E fanno tre. Ci vogliono dunque tre miliardi per assumere il controllo di Alitalia e assicurarle il capitale di funzionamento. Ma resta che la Compagnia continuerà a perdere a dir poco 350 milioni l'anno se non sarà risanata e rilanciata.

Il corso Spinetta, che fa l'amore col progetto Alitalia ormai da quindici anni, prevede di portare la società al profitto entro cinque anni col taglio degli esuberi, il rinnovamento della flotta, l'abbandono di Malpensa e un investimento complessivo di 6,5 miliardi entro il 2013 nel quadro di un grande gruppo che comprende Air France, Klm, e la stessa Alitalia.
L'impegno totale dell'acquisto e del rilancio contempla dunque 10 miliardi di investimenti. Queste sono le cifre di partenza.

* * *

Ma per una cordata patriottica che abbia come obiettivo di rilanciare non solo Alitalia ma anche Malpensa tutelando i sindacati interni delle due aziende senza tuttavia smantellare Linate e tanto meno gli altri aeroporti padani, il costo dell'investimento non si ferma qui.

Senza eliminare gli esuberi non si risana un bel niente. Quanto a Malpensa le perdite attuali ammontano a 200 milioni annui. Per arrivare all'aeroporto partendo da Milano si impegna un'ora e venti minuti. Ci vogliono quindi altri investimenti indispensabili in strada e ferrovia. I diritti di traffico dell'Alitalia dovranno poi essere divisi tra i tre aeroporti di Malpensa, Fiumicino e Linate. La Sea non ha un soldo e deve essere ricapitalizzata.

Non si è dunque lontani dal vero ipotizzando che la cordata patriottica dovrà darsi carico di almeno altri 4 miliardi entro il 2013, da aggiungere ai 10 previsti da Air France. Totale quattordici. Ammesso che due hub siano un peso sostenibile.
Non mi sembra che Toto sia affidabile per un'impresa di queste dimensioni né mi sembra che Banca Intesa si possa accollare da sola una responsabilità di questo genere.

I nomi chiamati in causa e cioè Ligresti, Bracco, Soglia, Moratti, Fininvest, Della Valle, possono mobilitare l'un per l'altro 200 milioni a testa. Sapendo che nessuno di loro guiderà l'operazione. Cordata patriottica, appunto. Come la fede d'oro per finanziare la conquista dell'Impero.

Comunque un miliardo o giù di lì. Ne mancano almeno altri tredici. Ma il leader patriottico non bada a queste quisquilie. Lui guiderà il governo, su questo non ha dubbi. È in grado di compensare chi lo aiuta. Troverà il modo. E poi c'è lo Stato. Lo Stato pagherà. Il rischio e l'investimento saranno distribuiti sulle spalle dei contribuenti e dei risparmiatori. Sarà lanciato un prestito obbligazionario. Si formerà un consorzio di banche. Al Tesoro ci sarà Tremonti il creativo. Tremonti il protezionista. Tremonti il colbertiano. Che vuole la politica autoritaria alla testa dell'Europa e dell'Italia. Amico di Sarkozy.
La Cassa Depositi e Prestiti avrà un ruolo. Mediobanca anche.

Naturalmente le risorse che saranno gettate su Alitalia-Malpensa dovranno essere sottratte da altri impieghi. Ma la decisione è politica. Se il Capo è d'accordo, si va alla guerra e così sia.
Dio, naturalmente, è con noi e intanto ci farà vincere le elezioni, che è ciò che conta.

* * *

I sindacati incontreranno Spinetta il 25 prossimo, dopodomani. Forse sul cargo tratteranno (cinque vecchi aerei, 135 piloti per guidarli, 200 milioni di fatturato annuo, 70 milioni annui di perdita). Forse si aprirà uno spiraglio sugli esuberi di AZ Servizi e sul tempo di dismissione.

Se rompono la crisi sarà immediata. Se rompono si assumono i rischi della rottura perché Spinetta è stato chiaro su questo punto: senza l'accordo con i lavoratori mi ritiro. E' un ricatto? A me sembra un dato di fatto e un segno di considerazione. Ma ognuno decide con la sua testa.

Può darsi però che i sindacati non rompano, che il piano industriale francese li convinca, ma che abbiano bisogno di qualche giorno per perfezionarlo.
Può darsi che cinque giorni, dal 25 al 31 marzo, non bastino. Può darsi che ne vogliano dieci o giù di lì. Spinetta concederà quei pochi giorni fissando una data certa e accettata? Prodi e Padoa-Schioppa accetteranno una proroga breve con data prefissata e non superabile?

Esprimo un'opinione personale: una proroga di cinque o sei giorni oltre il 31 marzo sembra accettabile. Oltre quel limite non lo è.
Quanto al prestito che Berlusconi chiede al governo, Prodi ha già detto che non si può fare se non è garantito da un soggetto bancabile. La Ue vieta operazioni di prestito a rischio da parte di un governo ad una società per azioni.

Al di là di questo non ci sono altri orizzonti che l'amministrazione controllata. Significa congelamento dei debiti, nomina d'un commissario giudiziale, risanamento con vendita delle poche attività e concordato con i creditori. Esuberi? Da quel momento la controparte dei sindacati sarà il commissario. La flotta continuerà a volare? Così come Parmalat continuò a produrre il suo latte e i suoi yogurt?

C'è una differenza di fondo tra i due casi: la gestione di Parmalat era attiva ma il capitale finanziario non c'era più. Per Alitalia invece il capitale finanziario non c'è più e la gestione è in pesante passivo.
Affinché la flotta continui a volare occorre che i fornitori vendano il carburante a credito, la manutenzione e il personale di volo e di terra lavori senza sapere se a fine mese gli stipendi saranno pagati. Una situazione ovviamente impossibile quale che siano le opinioni in proposito di Giordano, Diliberto e Pecoraro Scanio.

Berlusconi strillerà e con lui Fini. E con loro Formigoni e la Moratti che sono tra i principali responsabili del flop di Malpensa. E gli elettori?
Nessuno può dire quale sarà l'effetto dell'affaire Alitalia-Malpensa sugli elettori del Nord. Forse la maggioranza se ne infischia o forse no. Quanto agli industriali, è un fatto che in quindici anni da quando dura quest'agonia sotto quattro diversi governi, gli industriali del Nord nessuno li ha visti. Avevano altri pensieri. Li vedremo oggi? Daranno oro alla Patria? In barba al mercato? Col solo vantaggio d'essere i finanziatori di Berlusconi?

Tutto è possibile. Nel 1921 finanziarono Mussolini pensando che sarebbe stato una marionetta nelle loro mani. Non fu così, ma quando se ne accorsero era troppo tardi. Dovettero aspettare vent'anni e una catastrofe epocale.
Qui se ne preparano altri cinque e siamo ancora alle prese con lo stesso leader, lo stesso personale politico, la stessa Lega, lo stesso Fini, gli stessi "ascari" con i cannoli o senza cannoli.

Ma il popolo è sovrano. A volte decide per il suo bene, a volte si dà il martello sui piedi, a volte resta a casa a guardare lo spettacolo dalla finestra. E questa è la cosa peggiore che possa accadere.


(23 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Il Cavaliere liberale ha abolito il mercato
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2008, 03:50:07 pm
ECONOMIA L'EDITORIALE

Il Cavaliere liberale ha abolito il mercato

di EUGENIO SCALFARI


TEMPO fa, in uno dei miei articoli domenicali, citai una battuta di Petrolini raccontata da un suo scrupoloso biografo. La cito di nuovo perché si attaglia bene al caso presente. Il grande comico romano stava cantando la sua canzone intitolata "Gastone". Arrivato alla fine, uno spettatore del loggione fischiò sonoramente. Petrolini avanzò fino al bordo del palcoscenico, puntò il dito verso il fischiatore e nel silenzio generale disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che stanno intorno e che ancora nun t'hanno buttato de sotto". Seguì un piccolo parapiglia sopraffatto dagli applausi di tutto il teatro. Così si dovrebbe dire oggi a Berlusconi per il suo comportamento sull'Alitalia, oltre che per tante altre cose.

Pare che finalmente la Consob abbia acceso un faro su quel comportamento e così pure la Procura di Roma. Starebbero esaminando se nelle quotidiane esternazioni berlusconiane vi siano gli estremi del reato di "insider trading" e di turbativa del mercato.
Non voglio credere e non credo che il leader del centrodestra stia speculando in Borsa (altri certamente lo fanno e si saranno già arricchiti di parecchi milioni di euro) ma sulla turbativa di mercato non c'è da accender fari, basta affiancare ad ogni dichiarazione berlusconiana le oscillazioni del titolo Alitalia che sono dell'ordine di 30/40 punti all'insù o all'ingiù.

In qualunque mercato del mondo Berlusconi sarebbe già stato chiamato a render conto di quanto dice; l'Agenzia che tutela le contrattazioni di Borsa lo avrebbe ammonito e multato, la magistratura inquirente l'avrebbe già messo sotto processo. Ma soprattutto gli elettori ne avrebbero ricavato un giudizio di inaffidabilità e di non credibilità definitivo.
Voglio sperare che gli elettori ancora incerti su chi votare l'abbiano a questo punto escluso dal loro ventaglio di possibilità.

Affidare il governo del paese per i prossimi cinque anni a un personaggio che non si fa scrupolo di turbare il mercato con false notizie riportate e diffuse da tutto il sistema mediatico è uno di quegli spettacoli che purtroppo squalificano un paese intero almeno quanto l'immondizia napoletana.

Eccellono in questa gara soprattutto le emittenti televisive, quelle private e quelle pubbliche; in particolare - dispiace dirlo - il Tg1 il quale riferisce in presa diretta le sortite del Cavaliere senza che vi sia una voce che ne sottolinei gli effetti sul listino borsistico. Il risultato è che Berlusconi resta in video per il doppio del tempo del suo principale avversario turbando non solo i mercati borsistici ma anche l'andamento del negoziato tra Air France e sindacati tra lo stupore di tutti gli operatori internazionali.

Venerdì sera l'annunciatrice del Tg1 delle ore 20 si è addirittura lasciata andare ad una critica contro la legge della "par condicio", da lei ritenuta incivile, senza spiegare perché in Italia esista una legge del genere, dovuta ad un vergognoso conflitto di interessi che fa capo al proprietario delle reti Mediaset. Legge che peraltro nessuna delle emittenti televisive rispetta a cominciare dal Tg1, già ufficialmente ammonito dall'Agenzia delle comunicazioni.

Evidentemente direttori e conduttori danno per scontata la vittoria elettorale del centrodestra e sanno anche che se l'esito fosse diverso il vincitore di centrosinistra si guarderebbe bene dal praticare vendette. Perciò tanto vale scommettere in anticipo senza rischiare nulla se non la reputazione. Ma chi si preoccupa della reputazione nell'Italia dei cannoli alla siciliana.


* * *

Domenica scorsa, occupandomi dell'Alitalia e della fantomatica cordata patriottica berlusconiana, scrissi che a mio avviso quella cordata ci sarà davvero se Berlusconi vincerà. Per lui è un punto d'onore e i mezzi per realizzare l'obiettivo ci sono. Li ho anche enumerati ed è stato proprio il leader del centrodestra a confermarlo quando ha detto appena ieri che dopo la sua sicura vittoria chiamerà uno ad uno gli imprenditori italiani per chiedere l'obolo di san Silvio e "voglio vedere chi non ci starà".

Ci staranno tutti, non c'è dubbio alcuno, "chinati erba che passa il vento". Ci staranno i capi delle società pubbliche a cominciare dall'Eni e da Finmeccanica, in attesa di riconferma o di nuova nomina; ci staranno i capi di imprese private concessionarie dello Stato, ci staranno le banche desiderose di benefici; ci staranno le imprese medie che hanno già o ambiscono di avere rapporti fluidi con l'uomo che dovrebbe governare l'Italia per altri cinque anni in attesa di volare per altri sette sul più alto Colle di Roma.

Il mercato? Chissenefrega del mercato, contano i rapporti tra affari e politica e il Berlusca è imbattibile su quel terreno: tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Il mercato di Berlusconi si configura così e non saranno certo un Tremonti o un Letta ad impedirglielo, anzi. Quanto a Fini non è neppure il caso di scomodarsi a chiedere: lui aspetta l'eredità ed è d'accordo su tutto, sebbene non sia ancora certo dell'esito d'una così lunga attesa.

Dunque la cordata patriottica ci sarà. Ma che tipo di cordata? L'obolo di san Silvio versato dagli imprenditori non è sufficiente, se supererà il miliardo sarà già molto, ma diciamo pure che arrivi a due o a tre. Per rilanciare Alitalia e insieme Malpensa e la Sea ce ne vogliono almeno altri otto. E in più ci vuole un "know-how" che non si improvvisa. Forse i tedeschi di Lufthansa? Forse gli americani del Tpg? Forse l'Aeroflot di Putin? Air One non è decentemente presentabile come vettore di due hub con pretese internazionali.

Dunque la cordata patriottica non sarebbe patriottica se non nei fiocchi che impacchettano il torrone. Il torrone sarebbe straniero. L'organizzazione sarebbe straniera. Gli esuberi sarebbero trattati dal gestore straniero, esattamente come sta accadendo in queste ore con Air France, ma con una variante in più: la pratica richiede tempo e il tempo non c'è. Per allungarlo ci vuole un aiuto di Stato, vietato dall'Ue in mancanza di garanzie bancabili. Se questa norma fosse violata saremmo denunciati alla Corte di giustizia europea e multati pesantemente.

Oppure si va, volutamente, al fallimento come anche ora si rischia di fare. Allora tutto diventa più facile perché il fallimento significa congelamento dei debiti e interruzione dei contratti di lavoro. I nuovi padroni decideranno a tempo debito quali di quei contratti rinnovare e quali no, ripartendo comunque da zero.
Dov'è la vittoria? Si sciolga la chioma e se la lasci tagliare. La prospettiva, diciamolo, non è esaltante.


* * *

Nella stessa giornata di ieri il Cavaliere si è manifestato anche a proposito del cosiddetto voto disgiunto e ha tirato in ballo sua eminenza il cardinal Ruini. Eminence, come dice la Littizzetto. È stata una pagina da manuale. Per chi se la fosse persa raccontiamola perché ne vale la pena. E cominciamo dal voto disgiunto. Che cosa significa? Perché è venuta fuori questa ipotesi?

Normalmente un elettore vota per lo stesso partito nella scheda della Camera e in quella del Senato, specie ora con una legge come l'attuale che non prevede preferenze ai candidati. Nella sua assoluta certezza di vincere le elezioni alla Camera, nell'animo di Berlusconi si è però insinuato il dubbio di pareggiare o addirittura di perdere al Senato (aggiungo tra parentesi che questa ipotesi corrisponde esattamente alla realtà). Perciò suggerisce agli elettori centristi il cosiddetto voto disgiunto: votino pure per Casini Udc alla Camera, ma al Senato no, al Senato votino per il Pdl in modo da evitare il pareggio.

Che c'entra Eminence in questo pasticcio? Il Cavaliere ce lo fa entrare, gli chiede pubblicamente di entrarci e gli fa pubblicamente presenti i vantaggi che avrà se eseguirà il mandato o invece i danni che può subire se rifiuterà di adoperarsi in favore.

Convinca Casini a incoraggiare o almeno a subire senza strilli il voto disgiunto. In cambio (è il Cavaliere che parla) avrà l'impegno del nuovo governo ad adottare tutti i provvedimenti chiesti dalla Chiesa in tema di coppie di fatto (mai), di procreazione assistita (abolirla), di eutanasia (quod deus avertat), di testamento biologico (come sopra), di aborto (moratoria e radicale riforma), di Corano nelle scuole (divieto), di insegnamento religioso (anche all'Università). Se c'è altro chiedetelo e "aperietur".

Ma se rifiuterà, tutto diventerà problematico. In fondo (molto in fondo) lo Stato è laico e bisogna pur tenerne conto. Se lo ricordi, sua Eminenza, e non creda che la partita si giochi sul velluto. Del resto il Papa ha pur battezzato Magdi Allam. E dunque il Cavaliere ne adotterà il programma e magari farà in modo di fargli affidare la direzione del "Corriere della Sera", purché gli elettori dell'Udc votino per Berlusconi al Senato.
Ha sentito, Eminenza?


* * *

Una cosa risulta chiara: hanno ridotto la religione ad una partita di giro. Forse per la gerarchia ecclesiastica lo è sempre stata, per i cardinali e per molti vescovi. Ma non fino a questo punto. I credenti per primi dovrebbero esserne schifati e ribellarsi di fronte a questa vera e propria simonia. Gli opinionisti (esistono ancora?) dovrebbero spiegarla e indignarsene.
Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l'avrebbe fatta. Ebbene ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci.

(30 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Una destra gotica e guelfa
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2008, 07:10:45 pm
Eugenio Scalfari

Una destra gotica e guelfa


L'ultimo libro di Tremonti descrive la crisi come farebbero Ruffolo o Reichlin. Ma quando indica la terapia va incontro a De Maistre  Giulio TremontiL'ultimo libro di Giulio Tremonti ('La paura e la speranza' editore Garzanti) è nelle librerie da pochi giorni ma è già diventato oggetto di pubbliche presentazioni e di private discussioni. L'autore stesso è molto attivo nel promuoverlo, al punto che i suoi detrattori non hanno mancato di far circolare la battuta di un ex ministro del Tesoro che tenta di riciclarsi come intellettuale in attesa di riprendere la carica perduta due anni fa se le urne elettorali saranno benevole con lui e con i suoi amici politici.

Mi astengo dal far mia quella battuta. Tremonti ha dimestichezza con le idee, spesso le maneggia come un giocoliere. Soprattutto è molto attento all'importanza del 'senso comune', allo 'spirito dei tempi' cui attribuisce un peso oggettivo assai forte.

Secondo me un intellettuale dovrebbe contrastare il senso comune e non assumerlo come canone cui ispirare i propri pensieri. E qui vedo una prima contraddizione che emerge da queste pagine: l'autore usa a piene mani il senso comune per diagnosticare il male che secondo lui corrode l'Europa e la cultura occidentale, ma la sua ricetta terapeutica per vincere quel male contrasta il senso comune in modo radicale. Disegna infatti una civiltà gotica, obbediente al dio medievale, alla 'Kultur' della legge e dell'ordine, della terra e del sangue, della famiglia e della comunità, in contrasto con la modernità secolarizzata, con il pluralismo e il relativismo delle verità.

C'è da aggiungere che il Tremonti uomo politico torna invece ad ispirarsi al senso comune: gli chiedevano meno tasse e lui se la cavò con i condoni, con l'aumento della spesa pubblica, con l'aumento del debito (palese e occulto). Ma questo è un altro discorso e non c'entra con le pagine del libro. Il quale è nettamente diviso nelle due parti preannunciate dal titolo, la paura (diagnosi della crisi) e la speranza (terapia per uscirne).

La prima parte stupisce per chi credeva di conoscere Tremonti giudicandolo dalla sua biografia professionale e politica. Un esperto nella conoscenza del fisco e dei modi per difendersene, un uomo politico di destra con marcate simpatie leghiste. Sedotto da Berlusconi e dalla sua capacità di sciamano e di venditore. Sicuro come pochi di possedere la verità in esclusiva.

Quest'ultimo tratto del suo carattere emerge riconfermato e ampliato nelle pagine del libro, soprattutto nello stile, quanto mai apodittico, assertivo, dilemmatico, icastico. Bisognerebbe stare attenti a non esagerare con quel tipo di stile; usato con parsimonia ha una sua efficacia, ma usato a piene mani diventa stucchevole e ripetitivo.

Nella prima pagina del libro per esempio l'autore dice che "siamo passati da Marx al marketing". È vero ed è ben detto con una battuta che descrive in tre parole una trasformazione epocale. Ma di battute, di dilemmi, di assiomi ce ne sono almeno una decina per pagina (non esagero). Non lascia spazio al lettore di riflettere, lo inchioda, lo stringe con le spalle al muro, lo obbliga a rincorse che tolgono il fiato. Insomma lo manipola per averlo alla fine esanime e domato nelle sue mani. Questo non va bene, l'eccesso di bravura va a detrimento della credibilità e dello spessore dei pensieri.

Ma dove nasce lo stupore del lettore? Dal fatto di scoprire, nella prima parte del libro, un Tremonti di sinistra. Contro il 'mercatismo'. Contro la globalizzazione. Contro le multinazionali. Contro il consumismo. Contro l'asservimento della pubblica opinione alle manipolazioni tecnologiche. Contro le disuguaglianze. Contro i veleni che deturpano l'ambiente e devastano il paesaggio. Contro il mito del Pil.

Beninteso, l'autore imputa alla sinistra la mostruosità del regime staliniano e conduce una serrata arringa contro gli intellettuali che imbonirono le masse con ilmito del paradiso comunista in terra. Ma per tutto il resto - in questa parte del suo scritto - la sua diagnosi non è lontana da quella che potrebbero fare un Giorgio Ruffolo o un Alfredo Reichlin e, con loro, anche molti liberali di sinistra tra i quali mi ascrivo. Non a caso l'autore esprime ammirazione per il Partito d'azione che commise però un errore di 'intellettualismo' e non tenne conto del senso comune. E quindi finì rapidamente in mille pezzi.

Tra le tante battute che gremiscono le pagine ne cito una che riassume il pensiero tremontiano: "Abbiamo creato un tipo umano che non solo consuma per esistere ma esiste per consumare". Sembra Pasolini se non addirittura Enrico Berlinguer. E allora sorge la domanda: quest'uomo è lo stesso che da tredici anni lavora spalla a spalla con Berlusconi ed è il fedele esecutore delle sue intuizioni e dei suoi umori? Il padrone delle televisioni incarna, proprio lui, quell'arcicapitalismo contro il quale l'intellettuale Tremonti bandisce la sua crociata?

La risposta arriva nella seconda parte del libro ed è, debbo dire, agghiacciante. L'ho definita una risposta gotica, medievalistica e l'autore del resto non ne fa mistero.

In un mondo dove la globalizzazione ha risvegliato le masse addormentate e le ha trasformate in 'campi di forza' che hanno lanciato una sfida senza precedenti all'Europa, all'Occidente, alla razza bianca, bisogna rispondere inalberando le nostre radici cattoliche, bisogna dotare l'Europa d'una visione politica e di un'autorità che la imponga, bisogna che quell'Europa divenga una fortezza capace di opporsi alle potenze emergenti, bisogna accogliere il flusso di emigranti soltanto se siano disponibili all'integrazione immediata fin dal primo giorno d'ingresso nel nostro territorio. Bisogna instaurare un sistema di doveri e vagliare attentamente i diritti col metro della morale cristiana. Bisogna canalizzare la pubblica opinione.

La sinistra non è in grado di attuare questa svolta, anzi questa rivoluzione. Può aiutarla se vuole, dare una mano. Ma si tratta d'un compito enorme, quello che la nuova destra gotica e guelfa di Giulio Tremonti deve assumersi; l'icona - pare a me - è quella di Sisifo che spinge il masso verso la cima. Una cima tuttavia dove incontreremo De Maistre. Prospettiva che può piacere a papa Ratzinger, al cardinale Ruini e a Roberto Formigoni, ma certo non è esaltante, almeno per me.

(28 marzo 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se scende a valle la montagna degli indecisi
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2008, 06:39:23 pm
IL COMMENTO

Se scende a valle la montagna degli indecisi

di EUGENIO SCALFARI


TRENT'ANNI fa scrissi, avendo Guido Carli come interlocutore, un libro dal titolo "Intervista sul capitalismo", che sarà ripresentato dalla Luiss il 21 aprile prossimo. E' passato molto tempo da allora, e molte cose sono profondamente cambiate ma i pensieri e i giudizi di Carli sono a tal punto anteveggenti che quelle pagine sembrano scritte oggi, la loro attualità è stupefacente.

Cito una di quelle previsioni perché racchiude in una sola frase lo spirito di tutta l'intervista; si riferisce al Trattato di fondazione della Comunità europea firmato a Roma nel 1957, vent'anni prima di quando il libro venne alla luce. "Non fu un errore entrare nel gruppo dei fondatori della nuova Europa, era indispensabile, se ne fossimo rimasti fuori oggi l'Italia sarebbe regredita a livello d'un paese africano. Ma fu invece un grave errore pensare che potevamo stare in Europa senza cambiare i nostri comportamenti sia nell'economia sia nella politica. Un grave errore del quale misuriamo oggi i nefasti effetti; fu commesso da tutta la classe dirigente del Paese, dagli imprenditori, dai politici, dai sindacalisti, dai professionisti, dai docenti. Lo Stato, gli Enti locali, le imprese pubbliche e private, il mercato, rimasero quali erano con le stesse leggi, le stesse regole, la stessa arretratezza, la stessa arcaica visione. Inadatti all'Europa, accettammo di misurarci con i paesi più evoluti del nostro continente senza fare nulla per metterci alla loro altezza. Fidammo soltanto nelle svalutazioni della lira e nell'evasione fiscale. Partecipare alla gara in quelle condizioni era impossibile".

Così Guido Carli nel 1977. L'ultima e più clamorosa conferma l'abbiamo avuta in questi giorni dalla crisi dell'Alitalia, un'altra altrettanto clamorosa è venuta dalla crisi dei rifiuti in Campania, il Paese mezzo secolo dopo il Trattato di Roma e sette anni dopo la nascita della moneta unica europea è ancora inadeguato. La sua classe dirigente vive ancora aggrappata ai "totem" del nazionalismo economico, dell'assistenzialismo, dello scambio di favori tra affari e politica, delle arciconfraternite del potere e del diritto di veto in mano alle corporazioni e alle "lobbies".

* * *

Qual è stato l'ultimo e tragico errore commesso dai sindacati durante la trattativa con Air France per il salvataggio dell'Alitalia? Puntare sull'ingresso nella Compagnia di Fintecna, una società pubblica posseduta dal Tesoro, nella speranza che essa fosse in grado di pilotare Air France e rendere indolore il cambiamento di proprietà.

Qual è stato l'errore altrettanto tragico commesso da Berlusconi, da Formigoni e da Bertinotti? Puntare su una fantomatica cordata patriottica che, a carico dello Stato, mantenesse la Compagnia di bandiera con i soldi delle banche (cioè dei risparmiatori) e dei contribuenti.

Politici di destra, politici della sinistra radicale, sindacalisti, lobbisti padani, non si rassegnavano alla realtà di una società arrivata alla soglia del fallimento dopo aver dissipato 15 miliardi di euro con un miliardo e mezzo di debiti, il capitale azzerato, la cassa vuota e perdite di 400 milioni l'anno.

Così Air France ha abbandonato il tavolo del negoziato. La Borsa francese che temeva i rischi dell'operazione Alitalia ha premiato il titolo Air France dopo l'abbandono. Buona parte dei dipendenti di Alitalia protestano ora contro i sindacati. Questi a loro volta chiedono a Spinetta di tornare al tavolo del negoziato e si dicono pronti a ritirare le loro improvvide proposte. Il ministro Padoa Schioppa avvisa che per chiudere - sempre che i francesi tornino a Roma - ci sono solo pochi giorni e comunque prima delle elezioni.
Sapremo domani se Spinetta tornerà a negoziare. C'è ancora chi sostiene che il governo ha lasciato "nudi" i sindacati. Lo dice Berlusconi, lo dice Bertinotti, lo dicono Bonanni della Cisl ed Epifani della Cgil. Ancora non hanno capito che cosa è il mercato e quali sono gli standard europei. Ancora non hanno capito che Alitalia è finanziariamente ed economicamente un rottame e che Air France era e resta l'ultima sponda sulla quale si poteva approdare. Speriamo che lo si possa ancora fare ma speriamo soprattutto che questa durissima lezione serva a qualcosa.

* * *

Intanto la campagna elettorale si avvicina al termine, entriamo oggi nell'ultima settimana prima del voto. Si sa dagli ultimi sondaggi prima del divieto di diffusione che la partita decisiva si gioca sugli indecisi. Per la Camera si tratta degli indecisi di tutta Italia, per il Senato quelli soprattutto della Liguria, delle Marche, del Lazio, della Calabria, della Puglia, dell'Abruzzo. Il fatto più significativo rilevato dai sondaggi è che la maggior parte degli indecisi è formato da ex elettori dell'Ulivo delusi dalla coalizione che vinse di stretta misura nel maggio di due anni fa.

Le ragioni di questa delusione sono note e in buona parte condivisibili. Molti di loro sognavano una maggioranza capace di dire e di fare "cose di sinistra".
Molti altri speravano e sognavano una maggioranza ed un governo efficienti, capaci di modernizzare la pubblica amministrazione, le istituzioni e lo Stato.
Difficile dire (i sondaggi non lo rilevano) quale di questi due modi di sentire abbia maggior peso quantitativo tra i delusi. Probabilmente il secondo, quello dei modernizzatori, cioè dei riformisti, ma anche gli altri vanno considerati con attenzione.

Dicono i sondaggi, con un margine di errore che va sempre tenuto ben presente, che il complesso degli indecisi sia da valutare attorno al 10 per cento dei presumibili votanti.

Dicono anche che il 45 per cento di quel dieci sia orientato a votare Veltroni. E dicono infine che se quel 45 diventasse il 13 aprile il 60, alla Camera si potrebbe pareggiare, i due maggiori partiti si troverebbero spalla a spalla e uno dei due otterrebbe la vittoria con uno scarto minimo di voti.

Se poi il Partito democratico convogliasse su di sé il 75 per cento degli indecisi la vittoria alla Camera diventerebbe una quasi certa probabilità. Il Senato è una roulette e come tale va considerato, ma indubbiamente se alla Camera i risultati fossero quelli più favorevoli al Pd anche al Senato ci sarebbe vittoria.

Queste previsioni sono molto aleatorie. E' invece cosa certa che la partita si decide nei prossimi sette giorni.
Se la montagna degli indecisi smotterà a valle tutto può accadere.

* * *

Da parecchie settimane Silvio Berlusconi parla di possibili brogli elettorali ed è ancora tornato a parlarne ieri con un appello (improprio) al Capo dello Stato prendendo a pretesto un preteso errore nella redazione delle schede elettorali.

Questo continuo allarme contro i brogli (che già costituì il tema delle proteste berlusconiane dopo la sconfitta del 2006) è un segnale evidente di debolezza e timore di sconfitta in una gara che era data sicuramente per vinta dal centrodestra con uno scarto iniziale in suo favore del 20 per cento Nel testa a testa tra le due parti e in particolare tra i due leader sta emergendo un dato di fatto di giorno in giorno più evidente: Berlusconi sa di vecchio.

Non si tratta dell'anagrafe, che pure ha un suo peso in un'Europa nella quale i leader appartengono tutti alla generazione dei quaranta-cinquantenni. Ma si tratta della stucchevole ripetitività degli slogan, delle parole d'ordine, dei lazzi, delle gaffe. Quelle sulle casalinghe, quelle sui cardinali, sulle precarie, sugli omosessuali, sull'Alitalia, sulle tasse da evadere se sono troppo alte e tante altre ancora al ritmo di almeno un paio al giorno.

E si tratta anche del personale politico. Non c'è un solo nome nuovo e rappresentativo nelle liste berlusconiane se si eccettua una dozzina di ex veline e vallette che ringiovaniscono e ingraziosiscono la media.
Il tutto sa di vecchio, anche di vecchiume. Perfino Fini, intruppato e quasi scomparso in quella compagnia, dimostra più anni mentali di quanti ne ha. Ha fatto un salto all'indietro, a prima della curetta di Fiuggi che già sembra antidiluviana.

Secondo me la gente se ne accorge.

(6 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Rivoluzione possibile
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2008, 04:13:22 pm
Eugenio Scalfari

Rivoluzione possibile


L'attualità dei classici come Valéry ci indica un percorso per riappropriarci della nostra libertà. E in questi giorni ci si offre l'occasione  Lo scrittore Paul ValéryDedicare ai classici le proprie ore di lettura (al netto dei tanti giornali da sfogliare, che è un altro genere d'impegno) sottrae tempo ad altre ricreazioni della mente, ai libri di recente pubblicazione, al cinematografo, alla televisione, alla navigazione nei siti di Internet. Forse non è una gran perdita, mi suggerisce una vocina intima e maliziosa. Ma io so che quella vocina esprime una pigrizia intellettuale che non mi piace, quella che induce le persone di età avanzata a lodare i tempi passati a scapito di quelli presenti. Perciò soffoco quella vocina e mi rammarico di trascurare il mio aggiornamento. È un danno per me e un'ingiustizia per gli artisti contemporanei che certo esistono e lavorano anche se non abbondano (così mi sembra).

L'effetto positivo di dedicarsi ai classici consiste invece nello scoprire la loro attualità e i suoi aspetti duraturi. Del resto chi legge e rilegge i classici è in cerca delle risonanze che essi ci inviano dal passato, tanto più preziose in quanto provengono da voci remote eppure incredibilmente moderne.

Io frugo spesso nella mia disordinata biblioteca in cerca di questi classici 'moderni'. Quando li trovo e ne rileggo le pagine ne resto spesso confortato e ristorato, ho la conferma che si può antivedere il futuro con gli occhi chiari della ragione e della saggezza. Non siamo dunque schiavi né del presente né del passato. Chi è capace di saper leggere il futuro, lui sì è un uomo in grado di esercitare la sua libertà di previsione e di giudizio.

Mi sono casualmente trovato tra le mani nei giorni scorsi uno dei classici più inaspettatamente attuali ed è Paul Valéry nel suo libro intitolato 'Regards sur le monde actuel et autres essais' pubblicato da Gallimard nel 1945 all'indomani della guerra (l'edizione italiana è di Adelphi 1994 con il titolo 'Sguardi sul mondo attuale'). Era il mondo attuale del '45, ma molti di quei saggi portano addirittura le date del 1932 e di altri anni precedenti lo scoppio della guerra. Se non è un secolo poco ci manca, eppure sembrano scritti oggi. Ne cito alcune frasi particolarmente significative perché sembrano descrivere il mondo in cui ora viviamo.

"La pace è una vittoria virtuale, muta, continua, delle forze possibili contro le bramosie probabili. Ci si vanta di poter imporre la propria volontà all'avversario. Ma può essere una volontà nefasta. Gli unici trattati che varrebbe la pena di concludere sarebbero quelli tra i pregiudizi. L'operato di pochi ha per milioni di uomini conseguenze paragonabili a quelle che per tutti gli esseri viventi derivano dai mutamenti del loro ambiente. Così come le cause naturali producono la grandine, il tifone, le epidemie, allo stesso modo le cause intelligenti agiscono su milioni di uomini la stragrande maggioranza dei quali le subisce così come subisce i capricci del cielo, del mare e della crosta terrestre. L'intelligenza e la volontà che colpiscono le masse come cause fisiche e cieche: ecco ciò che si definisce politica".

"Le nazioni sono estranee le une alle altre così come lo sono gli individui diversi per carattere, età, credenze, costumi, bisogni. Molte nazioni nutrono il convincimento di essere in sé e per sé la nazione per eccellenza, l'eletta dell'avvenire infinito. Nell'eterna partita che sono impegnate a giocare ognuna ha le sue carte, alcune sono reali e altre immaginarie. Vi sono nazioni che hanno in mano soltanto ricordi che risalgono al Medioevo o all'antichità, valori morti e sepolti. Altre contano sulle belle arti, i paesaggi, le canzoni, che gettano sul tappeto verde in mezzo agli autentici semi di fiori e di picche".

"I fenomeni politici della nostra epoca sono resi più complessi da un mutamento di scala senza precedenti. Il sistema delle cause che governa il destino di ognuno di noi estendendosi ormai alla totalità del globo, lo fa ad ogni scossa riecheggiare tutto quanto. Non esistono più questioni delimitate. Le grandezze, le superfici, le masse in conflitto, la prontezza delle ripercussioni e la loro connessione impongono sempre più una politica molto diversa dall'attuale".

"Un uomo si interrogava sul suo essere libero e si smarrì nei propri pensieri. 'Ah - disse - possiamo fare tutto ciò che vogliamo tutte le volte che non vogliamo fare nulla'. Attenti! Appena entriamo nell'azione vi troviamo un miscuglio orribile di determinismo e di casualità".

Infine: "Si sono visti schiavi soffrire per essere stati liberati e si vedono popoli disorientati di esser restituiti a se stessi che nel più breve tempo possibile tornano a darsi dei padroni. Accade anche che tali popoli siano tra i più colti e i più intelligenti della loro epoca".

Io trovo formidabili questi pensieri e tanti altri disseminati nel libro. In particolare l'ultimo tra quelli che ho citato, quello sulla libertà e sull'indipendenza che spingono molti popoli a cercarsi in fretta un padrone cui delegare il potere. Questo fenomeno è particolarmente visibile in tutta la storia italiana dopo la caduta dell'antico impero di Roma. La nostra è stata una lunghissima vicenda di secoli nel corso dei quali abbiamo sempre cercato o tollerato di esser servi pur di non fare la fatica di gestire la nostra libertà e le responsabilità che ne derivano. Forse è proprio questo desiderio di regredire ad una fanciullezza collettiva e collettivamente irresponsabile ad aver favorito la nascita d'una casta detentrice del potere in nome di tutti. Anzi di molte caste, di molte mafie, di molte confraternite, ciascuna con le proprie regole, il proprio codice, il proprio 'boss' e padrone.

Di tanto in tanto sentiamo anche la tentazione di riappropriarci della nostra libertà responsabile, ma finora questi conati sono durati breve tempo; subito dopo quel male antico ha ripreso possesso di noi.

In questi giorni siamo nuovamente di fronte ad una di quelle occasioni. Se fosse colta sarebbe non una svolta ma una rivoluzione.

(11 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Oggi possiamo cambiare il Paese
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2008, 02:43:15 pm
POLITICA IL COMMENTO

Oggi possiamo cambiare il Paese

di EUGENIO SCALFARI


SOLE e nuvole si alternano nei cieli d'Italia in questi giorni di un aprile che trattiene ancora una coda d'inverno ma preannuncia col verde dei prati e il profumo dei fiori la più dolce stagione dell'anno. Così ci auguriamo che sia anche per la società italiana, appesantita dai tanti fardelli del passato ma desiderosa di riprendere slancio e di lavorare per un futuro meno avaro di speranze e di risultati.

Vedo che la preoccupazione maggiore di molti osservatori delle vicende politiche, giunti alla scadenza della campagna elettorale, si appunta sul dopo elezioni. Quale che sia l'esito, vinca l'uno o l'altro dei due principali competitori, si teme che dalle urne non esca una netta vittoria e di conseguenza un governo più affannato a durare che capace di affrontare i problemi di fondo che incombono sull'Italia, sull'Europa e sul mondo intero.

Si ripropone a questo punto un tema con il quale siamo alle prese da quindici anni, cioè dall'irruzione di Silvio Berlusconi nella politica: quello della sua legittimità, quello dell'anomalia da lui introdotta nella democrazia italiana e della sua demonizzazione da parte di quella metà del Paese che non si riconosce in lui e lo considera a tutti gli effetti il nemico pubblico numero uno.

Questo diffuso sentimento di delegittimazione che provoca inevitabilmente un'analoga reazione, condizionerà la fase politica successiva al voto? Renderà ancora più arduo governare? Spingerà il vincitore a esercitare vendette e discriminazioni contro i perdenti? Trasformerà l'autorevolezza in autoritarismo seguendo uno schema purtroppo frequente nella nostra storia?

La maggior parte degli osservatori indipendenti riconosce a Walter Veltroni d'aver condotto una campagna elettorale misurata e responsabile, senza toni di rissa, senza attacchi scomposti all'avversario, innovativa ed equilibrata sugli impegni assunti con gli elettori. Il timore che si fa strada in queste ore di pausa e di attesa, anche di fronte alle frequenti incontinenze del leader di centrodestra, è che questo clima possa radicalmente cambiare.

L'esperienza dei due anni passati, durante i quali l'opposizione di centrodestra non ha fatto altro che puntare sulla "spallata" per sgominare l'esile maggioranza di Prodi al Senato pesa giustamente nel ricordo di quanti seguono con attenzione le vicende della politica. Non potendo chiedere a Berlusconi di correggere la sua natura, lo chiedono a Veltroni: quale che sarà la sua posizione post-elettorale, spetterebbe a lui e sopportare con inesauribile pazienza gli spiriti animali dell'avversario.

Doppio gravame per Veltroni e per quella metà del paese che non si riconosce in Berlusconi: blandirlo in caso di vittoria dei democratici, sopportarlo se fosse lui a prevalere di poco senza imitare quanto lui stesso fece. Chiedere che i democratici ed il loro leader si assumano questa duplice responsabilità significa considerarli come la parte politica più responsabile. Per certi aspetti suona come un titolo di merito, per altri somiglia ad una "mission impossible": fare da punching ball non piace a nessuno e non sta scritto in nessun luogo che sia sempre e comunque utile al Paese.

In realtà - chi lo conosce bene lo sa - non è un fascista e neppure un dittatore nel senso militaresco del termine. Non è spietato. Non è xenofobo. Non è razzista. Berlusconi è un pubblicitario. Un venditore. Venderebbe qualunque cosa. Sia detto senza offesa per i pubblicitari di professione: lui è pubblicitario nell'anima, venditore nell'anima.

Quando vende patacche (e gli accade spesso) si convince rapidamente che la sua patacca vale oro zecchino. Perciò è bugiardo con la ferma convinzione di dire sempre la verità. Come tutti i venditori bugiardi è un imbonitore. Come tutti gli imbonitori è un demagogo. Non ha il senso della misura. Strafà. Non rispetta nessuna regola perché le regole le fa solo lui. Guardate l'ultimo atto della sua campagna elettorale, venerdì sera. Pochi minuti alla mezzanotte. Matrix, cioè casa sua, Canale 5. Conduttore Enrico Mentana.

Prima di lui aveva parlato Veltroni per cinquanta minuti. Lui era stato brevemente intervistato da Mimun per il telegiornale delle 20. Poi si era ritirato nello studio del direttore e di lì aveva ascoltato il "récit" del suo avversario. Infine è arrivato il suo turno e ha impiegato gran parte del tempo a ribattere gli argomenti di chi l'aveva preceduto con molta enfasi e parecchi insulti.

Tanto Veltroni era stato pacato e raziocinante tanto lui ha mostrato i denti e la rabbia, ma fin qui niente di speciale, il bello, anzi il bruttissimo, è venuto dopo quando il suo show era terminato, Mentana aveva dichiarato chiusa la trasmissione e aveva cominciato ad illustrare il modo di votare correttamente con davanti un tabellone che riportava un facsimile di scheda elettorale.

Lui non se n'era andato dallo studio, era sempre lì ma fuoricampo. A un certo punto, nello stupore generale, è rientrato in campo, si è sostituito a Mentana ed ha indicato lui il modo di mettere la crocetta sulle schede. Prima che accadesse il peggio, che in realtà stava già accadendo, Mentana ha chiamato la pubblicità e l'indebito spettacolo è stato oscurato. Quest'episodio rivela meglio di qualunque discorso la natura del personaggio e dei suoi spiriti animali.

L'Economist ha scritto che Berlusconi è inadatto a governare una nazione. "Unfit". Non è un insulto e neppure una demonizzazione. Semplicemente una constatazione. "Unfit". Inadatto. Metà degli italiani, da Casini fino a Bertinotti passando per i democratici, la pensano esattamente allo stesso modo e così pure i governi e il Parlamento europei.
Si dirà: contano i voti che usciranno dalle urne. Giustissimo, contano i voti e solo i voti. Resta un Paese diviso in due non soltanto per differenze politiche ma anche da un giudizio sulla persona: "unfit", inadatto, imbonitore, demagogo, venditore di patacche. Metà del Paese pensa questo, ne ha conferma tutti i giorni e sarà molto difficile che cambi idea.

Ci sono infinite altre prove della sua "unfitness" oltre alla miseranda scenetta a Matrix. La più rivoltante è la proclamazione di Mangano, il finto stalliere di Arcore ad eroe. Non si capisce quale tipo di eroismo sia stato il suo, ma sappiamo che è stato condannato a tre ergastoli per associazione mafiosa.

Sappiamo anche che Dell'Utri è in qualche modo connesso a un tentativo di taroccare le schede degli italiani all'estero: un mafioso latitante in Argentina gli ha telefonato proponendogli quell'imbroglio ma Dell'Utri ha risposto di non esser lui la persona adatta e l'ha indirizzato al responsabile del suo partito per gli elettori all'estero, senza però informare di quel contatto né la magistratura né il ministero dell'Interno. Mentre brogli veri si preparano, il leader già ora, in via preventiva, manda in scena una campagna contro i brogli supposti per precostituirsi un alibi in caso di sconfitta elettorale come già fece per tutti i due anni del governo Prodi. "Unfit".

Sostiene di aver lasciato nel 2006 i conti pubblici in perfetto ordine. La controprova sta nelle cifre a causa delle quali siamo stati per due anni messi sotto processo dall'Europa e ne siamo usciti solo dopo le leggi finanziarie di Paoda-Schioppa.

Sostiene anche di aver realizzato il suo "contratto con gli italiani" per l'85 per cento durante gli anni del suo governo, ma in realtà non ha realizzato se non il 15 perché nessuna delle proposte è diventata legge pur disponendo di 100 voti di maggioranza alla Camera e 50 al Senato. Quei voti servivano ad approvare le leggi a suo personale beneficio, dall'abolizione del falso in bilancio alle norme giudiziarie che accorciavano i tempi di prescrizione dei processi, alla Gasparri che ha mantenuto in vita Retequattro contro le reiterate sentenze della Corte.

"Unfit". Si potrebbe e forse si dovrebbe continuare, ma a che pro? L'altro giorno ho ricevuto una lettera da un lettore che mi rimprovera perché - dice lui - ho un pregiudizio contro. Io non ho pregiudizi contro e neppure a favore. Esamino la realtà e conosco le persone. Lui è inadatto.

Venderebbe la Cupola di San Pietro al primo che ci creda. Purtroppo molti ci credono. Forse gli inadatti sono adatti ad una parte di questo Paese il quale, non a caso, è in declino. L'altro ieri l'Ocse ha dimostrato che il nostro declino ha toccato il culmine nel quinquennio 2001-2006. È proprio il quinquennio del suo governo. Sarà magari un caso ma è un dato di fatto e coi dati di fatto non si può polemizzare.

Il pareggio elettorale non ci sarà, o vince uno o vince l'altro. Ma al Senato questa regola vale di meno. Può accadere che uno vinca con una maggioranza relativa e non assoluta. Oppure con una maggioranza di pochissimi voti come fu per Prodi. Tuttavia chi vince anche per un solo voto dovrà governare perché questa è la regola in democrazia.

Veltroni ha proposto un patto di "lealtà repubblicana" che significa un'opposizione che controlla, propone alternative, ma non paralizza l'azione del governo votato dalla maggioranza. Berlusconi ha rifiutato questa proposta.

Questo è lo stato dei fatti. Voglio ancora una volta ricordare la frase di Petrolini a chi l'aveva fischiato.
Disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che te stanno vicino e nun t'hanno buttato de sotto". È la terza volta che la cito perché descrive splendidamente la situazione e mi sembra una buona chiusura nel giorno in cui andiamo a votare.

Si è creato in queste ultime ore un sommovimento nella pubblica opinione che ricorda quanto avvenne nel 1991 con il referendum di Mario Segni: un voto corale che fece saltare la Prima Repubblica ormai logora e dominata da una logora casta. Questo stesso sentimento può prevalere domani. Domani si può voltar pagina e aprire un ciclo nuovo che rimetta la politica al livello di un'Italia desiderosa di cambiare. Non sprecate questa grande occasione. Siate popolo sovrano perché è questo il vostro giorno.

(13 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: Per chi suonano le campane di Bossi
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2008, 03:36:44 pm
POLITICA IL COMMENTO

Per chi suonano le campane di Bossi

di EUGENIO SCALFARI


ROMA - Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future. Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.

Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c'erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto. Se l'avverarsi di un'ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell'ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l'onda di piena della Lega.

Non se n'è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.

Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l'aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.

La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l'indagine, scoperte le cause dell'errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch'essa merita la massima attenzione.

* * *

Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà. Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell'uso comune nel corso dell'Ottocento. All'epoca della Rivoluzione dell'Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali. Al tempo d'oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell'economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l'identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch'essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.

E' fin troppo ovvio dire che nell'una e nell'altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E' diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C'è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.

Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno. Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell'Europa agiata; l'Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell'Appennino Tosco-Emiliano, all'incirca seguendo la vecchia linea gotica d'infausta memoria.

Questo luogo sociale e politico considera, da trent'anni in qua, l'Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L'altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.

Da questa concezione l'idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere "chi fa da sé fa per tre". Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i "terroni" si troveranno meglio di adesso.

* * *

In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall'insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all'interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.

Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d'assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L'Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E' possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c'è stato e c'è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L'erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.

Come verrà valutato in un'Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l'idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all'autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.

* * *

Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.

Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un'ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell'ordine pubblico in proporzione diretta all'andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.

Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent'anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.

I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell'impresa.

E' infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell'autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.


* * *

Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un'autorità centrale forte ma democratica, un'articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.

Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell'ideologia della classe. Ma la classe ormai non c'è più e perciò la sinistra è affondata. E' curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.

Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l'effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell'innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente. Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti. Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro. Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

(20 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tsunami Leghe
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 10:04:44 am
Eugenio Scalfari

Tsunami Leghe


Giornalisti, ma anche opinionisti e sondaggisti non avevano colto l'ondata leghista del nord e quella siciliana. E ora c'è molto da raccontare e da capire  Molti amici mi domandano: come ti senti dopo questa batosta elettorale? Rispondo: non sono contento. Perché dovrei esserlo? Ho un'altra visione e un altro sogno per l'Italia, anch'io ho il diritto, come ogni cittadino di questo Paese, d'avere un sogno e una mia visione.

Mi domandano anche: come mai non avevi percepito ciò che sarebbe accaduto? Tu sei un giornalista e vivi in mezzo a giornali che hanno redazioni e inviati in tutta Italia. I vostri contatti sono dunque imperfetti? Va bene sognare, ma la realtà l'avete persa di vista?

Queste osservazioni, anzi questo rimprovero, lo leggo anche su molti giornali. Editorialisti e osservatori di spicco che fino a l'altro ieri raccontavano le vicende politiche italiane senza accorgersi dell'ondata di piena leghista né di quella siciliana di Lombardo e Cuffaro, adesso si domandano come mai i loro stessi giornali non abbiano 'sentito' lo tsunami che stava arrivando. E loro, quegli stessi editorialisti e osservatori, l'avevano sentito? I sondaggisti (non tutti ma una larga maggioranza) si erano accorti che la Lega marciava verso il 10 per cento e Lombardo verso il 65 dei voti siciliani?

Ma voglio parlare di me, che faccio, spero non indegnamente, questo mestiere da 60 anni, non nascondo (non l'ho mai fatto) le mie preferenze politiche ma cerco (ho sempre cercato) di raccontare i fatti così come riesco a percepirli.

Ero convinto che il Partito Democratico avesse dato un avvio profondamente innovativo alla campagna elettorale. Di questo avvio tutti gli hanno riconosciuto il merito, lo stesso Berlusconi l'ha ammesso e venendo da lui non è un riconoscimento da poco. Portare il PD da solo nell'arena elettorale ha messo in moto un sommovimento sistemico e gli effetti si sono visti: il partito del riformismo di centrosinistra ha per la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana una consistenza reale e può, se saprà farlo, dare vita ad un'alternativa permanente con una destra ancora gremita di non risolte contraddizioni.


Poteva vincere o almeno pareggiare il risultato elettorale questo partito nato appena sei mesi fa dopo tre anni di travagliata incubazione?

Ricordano tutti che quando Veltroni accettò la leadership del PD i sondaggi davano la sua consistenza al 22 per cento. Confrontare i voti raccolti il 14 aprile con quelli dell'Ulivo del 2006 non tiene conto che tra il maggio 2006 e l'ottobre 2007 ci sono stati diciotto mesi di impopolarità crescente intorno al governo Prodi, una rissa continua dentro la sua maggioranza e dentro lo stesso governo, un aumento del costo della vita proveniente dall'estero, ma che comunque faceva percepire ai ceti del lavoro, ai pensionati, alle casalinghe, un taglio del reddito reale difficile da sopportare.

Tutti pensavano - ed io tra questi - che vittoria o pareggio del PD sarebbero stati un miracolo. Lo stesso Veltroni l'ha così definito più di una volta. La parola miracolo definisce un evento di cui la ragione esclude la realizzazione, un'ipotesi impossibile di terzo grado se non, appunto, vi sarà un intervento miracoloso.

Di tutto ciò eravamo dunque tutti ben consapevoli. Che cos'è dunque che non avevamo capito?

L'ho già detto: non avevamo capito l'ondata leghista e quella siciliana. La Lega è stata valutata, fino alle ore sedici del lunedì elettorale, intorno al 6 per cento su scala nazionale. I siciliani di Lombardo erano accreditati dello zero virgola, nel confronto regionale attorno al 50 per cento. La sconfitta del PD per le dimensioni che ha avuto è venuta da lì, dalle due Leghe, quella del nord e quella siciliana. Aggiungo che il divario tra il PD senza Di Pietro e il PDL senza le Leghe è stato di quattro punti e non di nove.

Non è questa la sede per esaminare i flussi elettorali verificatisi il 14 aprile, ma una cosa va detta: sono stati flussi imponenti che hanno cambiato la geografia politica del Paese. Lo zoccolo duro di Forza Italia si è dimostrato il più resistente poiché quel partito è stato rivotato dall'82 per cento di coloro che l'avevano scelto nel 2006. Dunque non è più il partito di plastica di dieci anni fa. L'altro consistente zoccolo duro se lo accredita il PD con il 63 per cento di elettori che avevano votato Ulivo due anni prima. Ma gli altri partiti sono stati teatro di veri e propri terremoti. La Sinistra Arcobaleno è scesa dall'11 al 3 per cento. L' elettorato di Casini è rimasto stabile per poco più di un terzo, ma il resto dei consensi raccolti provengono dal centrodestra e dal centrosinistra ai quali cede a sua volta percentuali importanti. Ma anche la Lega ha avuto il suo sisma e non da poco. E anche Di Pietro. Sismi positivi per entrambi.

La Lega ha tolto a Forza Italia e ad An 800 mila voti nel Lombardo Veneto. Lombardo in Sicilia ha drenato 7 punti percentuali ai due partiti uniti nel PDL: ebbero il 40 per cento nel 2006, ne hanno avuto il 33 per cento il 14 aprile.

Una mobilità elettorale estrema: questo abbiamo visto. C'è molto da capire ancora e, per noi giornalisti, molto da raccontare. Questa, per chi fa con impegno il nostro mestiere, è una buona notizia.

(24 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lo specchio d'Italia è sempre più rotto
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2008, 11:08:17 am
POLITICA

La nazione è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente di una minoranza e la speranza di recuperarne l'unità è diventato un pallido miraggio

Lo specchio d'Italia è sempre più rotto

La secessione del Nord è un altro segnale di indebolimento del paese e la conseguenza più vistosa è l'affondamento di Alitalia

di EUGENIO SCALFARI


HO ascoltato venerdì sera Alemanno e Rutelli a "Matrix" come li avevo ascoltati pochi giorni prima da "Ballarò". Più o meno ripetevano le stesse cose come in tanti altri comizi e trasmissioni. Del resto sarebbe ingeneroso pretendere che ogni sera cambino battute e repertorio, accade anche in teatro, se vai a vedere una commedia, una tragedia, un "musical", il copione è quello, non può subire variazioni di rilievo.
Alemanno ha battuto e ribattuto sull'insicurezza e la paura della gente e ce l'ha messa tutta per farla aumentare.

Rutelli ha denunciato quella tecnica allarmistica e ha descritto i modi per risolvere un problema che affligge le metropoli di tutto il mondo da New York a Parigi, da Londra a Rio, da Amburgo a Canton, a Shanghai, a Mosca, a Washington e naturalmente a Milano e a Roma.

Ma venerdì sera Alemanno ad un certo punto un'improvvisazione l'ha fatta: ha detto che in sedici anni di centrosinistra al Campidoglio, Rutelli prima e Veltroni poi non sono riusciti a cambiare il volto della città come invece hanno fatto i francesi a Parigi e i tedeschi a Berlino. "Berlino - ha detto Alemanno - era ancora pochi anni fa una città di rovine, oggi è splendidamente risorta diventando una grande metropoli moderna. Perché voi non siete riusciti a cambiare Roma?".

Rutelli gli ha risposto mostrando fotografie di lavori importanti che sia lui sia Veltroni hanno promosso, il piano regolatore che hanno varato, le brutture che hanno eliminato, ma il suo contraddittore continuava a scuotere la testa e a denunciare l'assenza d'una nuova identità della nostra "caput mundi".
Per fortuna, dico io, che Roma non è stata cambiata. Per fortuna. E come poteva esserlo?

A Roma convivono almeno cinque diverse metropoli: quella dei ruderi e delle rovine dell'impero di Cesare e di Adriano, quella rinascimentale e papalina, quella barocca, quella dei quartieri piemontesi del nuovo regno, quella moderna da Piacentini all'"Ara Pacis" di Meier. Queste città si sono aggiunte e intrecciate l'una con l'altra.

Certo hanno creato problemi: di traffico, di adattabilità, di struttura urbanistica, ma hanno creato e mantenuto un esempio irripetibile di storia, di estetica, di multipresenza che non ha eguali nel mondo, dai Fori Imperiali all'Auditorium, lungo venti secoli di continua evoluzione.

Ad Alemanno non piace? Vorrebbe metterci le mani? In nome del cemento palazzinaro?

* * *

Oggi e domani si concluderà questa lunghissima gara elettorale con gli ultimi ballottaggi. Sei milioni di elettori ancora alle urne, ma il senso e il risultato politico ci sono già stati due settimane fa: Berlusconi ha vinto, la Lega soprattutto tiene in mano la partita e ha posto il suo sigillo sui prossimi cinque anni.
Molti hanno scritto e detto che dalle urne del 14 aprile è uscito un elemento apprezzabile di maggiore semplificazione parlamentare e di più solida stabilità. Lo specchio rotto è stato almeno in parte ricomposto e ne emerge una visione del paese che può piacere ad alcuni e dispiacere ad altri ma è comunque percepibile e meno magmatica di prima.

L'ho detto anch'io ma sono bastati quindici giorni per smentire quest'unica e timida speranza: lo specchio in cui il paese dovrebbe riflettersi è più frammentato e sconnesso di prima, la riduzione da trenta a quattro o cinque partiti è una chimera, la nazione italiana è più sconnessa che mai, vive soltanto nella mente d'una minoranza e la speranza di recuperarne l'unità è diventata un pallido e lontano miraggio.

Lo si vede da molti segnali: la secessione del Nord ne è il dato più appariscente, l'affondamento dell'Alitalia ne è la conseguenza più vistosa, la regressione missina del centrodestra ne rappresenta l'inevitabile contraccolpo cui fa da controcanto il sussulto identitario dell'estrema sinistra.

Le rauche invettive di Beppe Grillo completano il quadro d'una società che sembra avere smarrito ogni bussola, ogni orientamento, ogni immagine di sé, ogni memoria del suo passato ed ogni progettualità del suo futuro. Si va avanti alla giornata senza timone e senza stelle.

* * *

Berlusconi - non il governo Prodi che non c'è più - ha buttato nella fornace Alitalia 300 milioni presi dalle casse pubbliche per guadagnare tre o quattro mesi di tempo.

In attesa di chi e di che cosa? Alitalia non può esser rimessa in piedi da sola. Non è una questione di soldi ma di imprenditorialità e di dimensioni. Non esiste neppure una remota probabilità di una compagnia aerea italiana che abbia da sola un ruolo internazionale.

Aeroflot è una compagnia regionale e statale ancor più piccola del rottame Alitalia. Lufthansa pone condizioni ancora più severe di quelle di Air France.

Gli italiani chiamati da Berlusconi a contribuire alla cordata patriottica si riducono a Ligresti e forse a Tronchetti Provera. Se tra tutti e due metteranno insieme 150 milioni sarà un miracolo. Le banche tireranno fuori un finanziamento solo se ci sarà un piano industriale.

Bruxelles non accetterà mai un aiuto di Stato per rianimare un moribondo, l'ha già concesso una volta e non è servito a niente. Londra, Berlino, Parigi son lì a vigilare perché una violazione delle regole europee in un settore strategico come l'aeronautica non avvenga.
Tutta questa incredibile storia è la degna inaugurazione del Berlusconi-ter. Bossi se ne frega, il Nord secessionista vola benissimo con i suoi aeroporti padani.

Da lui Berlusconi non avrà nessun aiuto per Alitalia ladrona.

* * *

Ho letto con interesse l'intervista alla "Stampa" di Veronica Lario in Berlusconi. Abbiamo scoperto che la signora è leghista nell'animo anche se il 14 aprile ha votato, come era logico, per il marito. Abbiamo anche appreso che il figlio Luigi se ne infischia della politica, si occupa di finanza e gli basta. La politica è solo imbroglio. Valeva la pena, signora Berlusconi, di mandarlo alla scuola steineriana? Che la politica fosse solo imbroglio poteva tranquillamente impararlo in famiglia, gli esempi domestici erano ampiamente sufficienti. Almeno, così ci sembra ed è lei stessa che più d'una volta ce l'ha fatto capire.

* * *

La signora Marcegaglia, nuovo presidente di Confindustra, si è già guadagnata diversi Oscar: è donna, è tosta, anzi virile, ha le idee chiare in tema di rapporti con i sindacati con il governo e soprattutto con i suoi associati.

Non mi ha affatto scandalizzato la sua colazione a Palazzo Grazioli con il futuro presidente del Consiglio insieme a Luca Montezemolo officiato per un ministero. Perché no? Non c'è niente di male che un industriale diventi ministro, in Usa accade spesso ed anche in Europa. L'ipotesi non piacerebbe affatto ai colonnelli di Forza Italia e di An. A Bossi invece, anche su questo terreno, non gliene importa niente: lui i suoi ministri li avrà e nessuno glieli può levare.

C'è una sola cosa che non mi è piaciuta della Marcegaglia: ha dichiarato che la Confindustria non si occuperà più di legge elettorale né di altre questioni istituzionali, ma soltanto della sua missione di sindacato degli industriali.

Mi sbaglierò, ma è una dichiarazione grave per chi, come me, ha sperato che prima o poi gli imprenditori italiani diventassero una borghesia.

Diventare borghesia significa avere un'idea di Paese entro la quale collocare i propri legittimi interessi di azienda e di categoria.

Bossi ha una sua idea di Paese nord e di tutto il resto si disinteressa. Ma gli industriali italiani non sono solo al Nord. La Confindustria di Montezemolo sembrò avere una sua idea di Paese e si interessò di legge elettorale e di altre questioni istituzionali.

La signora Marcegaglia cambia rotta? Vuol dire che non ha un'idea di Paese o quanto meno non ce l'ha come presidente di Confindustria. Non crede che sia una questione riguardante la rappresentanza degli industriali.

Il suo dirimpettaio Bonanni, segretario della Cisl, la pensa allo stesso modo. Quelli della Fiom anche. Epifani sembra di no, lui un'idea di Paese ce l'ha come tutti i suoi predecessori da Di Vittorio a Trentin a Lama e a Cofferati. Ma anche la Cgil sta diventando una minoranza, la sua gente nel Nord le preferisce Maroni e Calderoli.

Ecco perché dico che lo specchio è più rotto di prima.

(27 aprile 2008)


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il potere blindato della destra
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2008, 11:23:26 am
POLITICA

Il potere blindato della destra

di EUGENIO SCALFARI

CIRCA mezzo secolo fa - forse qualcuno ancora se lo ricorda - Mina lanciò una canzone che diceva così: "Renato Renato Renato/così carino così educato". Mi è tornata in mente ascoltando il discorso del neo-presidente del Senato, Renato Schifani, che fino a pochi giorni fa era soprannominato "iena ridens" per la sua capacità di ripetere i voleri del Capo e i suoi truculenti insulti al popolo di sinistra con un ghigno sul volto che non presagiva nulla di buono. Oggi si è trasformato: così carino così educato. La canzone di Mina gli si attaglia perfettamente.

E si attaglia anche a Gianfranco Fini, neo-presidente della Camera, e a Gianni Alemanno, neo-sindaco di Roma. Le loro movenze sono diverse da quelle di Schifani, hanno un pizzico di volontà di potenza in più e un maggior orgoglio di sé. Non sono - oggi come ieri - lo scendiletto del Capo, hanno un loro partito, una loro provenienza, una loro storia (anche se poco commendevole) dietro le spalle. Ma anche loro "governano per tutti i cittadini" anche se non per conto e in nome di tutti. Anche loro promuoveranno i talenti al di sopra degli steccati partigiani. Anche loro insomma non sono più politici politicanti ma statisti governanti. C'è da credervi?

Io penso di sì, c'è da crederci. Del resto non si è mai visto in democrazia qualcuno che, arrivato al potere sulla base del libero voto popolare, si metta a proclamare che lo userà per favorire la sua parte. Non lo fece neppure Mussolini dall'ottobre del '22 al gennaio del '25. Aveva vinto le elezioni, sia pure con una porcata di legge, e aveva formato un governo di coalizione con dentro vecchi cattolici e ancor più vecchi moderati.

Poteva fare, come disse, dell'aula sorda e grigia di Montecitorio un bivacco di manipoli, ma lo fece soltanto due anni dopo sulla scia del delitto Matteotti. La dittatura rompe le regole della democrazia e rende inutile l'ipocrisia. Il Parlamento fu abolito, i partiti dissolti salvo il suo che fu identificato con lo Stato, la libera stampa mandata in soffitta, come ha auspicato Beppe Grillo e le centinaia di migliaia dei suoi seguaci paganti nel "Vaffa-day" del 25 aprile.

Questa volta le cose non andranno così per molte ragioni. Il mondo è globale, l'economia è globale, la cultura è globale, le informazioni sono globali e anche il commercio è globale. L'Italia è una regione dell'Europa. La nostra moneta è quella europea. Una dittatura totalitaria oggi è impensabile in Europa e in Occidente. E poi la classe dirigente del centrodestra non ha alcuna somiglianza con lo squadrismo diciannovista.

Perciò quel pericolo non c'è. Ce ne sono altri che possono suscitare serie preoccupazioni.

* * *

I marxisti spiegavano la storia dei popoli attraverso il rapporto tra le forze produttive e le istituzioni chiamando le prime "struttura" e le seconde "sovrastruttura". Lo ricorda Giorgio Ruffolo nel suo bellissimo libro "Il capitalismo ha i secoli contati" che è la più lucida ricostruzione della globalizzazione che stiamo vivendo e dei fenomeni che l'hanno preceduta.

Tra la struttura e la sovrastruttura non esiste un rapporto di automatica determinazione come pensavano rozzamente i marxisti militanti del secolo scorso. C'è invece una continua interazione, un reciproco condizionamento. Io credo che l'emergere elettorale del centrodestra e la rivoluzione parlamentare che ne è seguita siano state largamente determinate dal nuovo atteggiarsi strutturale delle forze produttive, lo sgretolarsi dei tradizionali blocchi sociali, la scomparsa delle classi, il frazionarsi degli interessi fino alla loro completa polverizzazione.

Questo mutamento strutturale spiega anche la nascita del partito "liquido" dei democratici, la sconfitta del partito cattolico come arbitro centrista che era nel disegno di Casini, infine l'affondamento della sinistra massimalista.

Il comportamento più strano, ai confini dell'assurdo, è stato proprio quello della sinistra radical-massimalista, che ha attribuito a Veltroni la sua scomparsa e ha punito con il voto e con l'astensione Rutelli per castigare il leader democratico. Per gli ultimi marxisti militanti è un errore squalificante non rendersi conto che le strutture negli ultimi quindici anni sono completamente cambiate ed hanno determinato una rivoluzione sovrastrutturale. La sinistra radicale, le sue ideologie, i suoi slogan, la sua organizzazione politica galleggiavano sul vuoto che essa stessa aveva ulteriormente aggravato segando l'ultimo ramo che ancora la sosteneva e cioè l'operatività del governo Prodi.

Il loro stupore per la scomparsa del loro mondo, quello sì, è stupefacente e direi senza appello: chi ha smesso di pensare smette di vivere. Questo è accaduto, con buona pace di Sansonetti, direttore del più assurdo (e come tale utile) giornale oggi in circolazione.

* * *

L'ascesa al potere del triumvirato Berlusconi, Bossi, Fini-Alemanno, che si completa in quadrumvirato con l'inevitabile cooptazione del siciliano Lombardo, si fonda su una precisa ideologia, sì, riemerge l'ideologia, è un fatto nuovo del quale è bene prendere atto. Chi l'ha declinata meglio di tutti è stato Fini nel suo discorso alla Camera dei deputati.

Si basa sulle radici cristiane, anzi cattoliche, sulla condanna del relativismo, sull'esistenza d'una verità assoluta e sulla morale che ne deriva. Sulla tolleranza (relativa) delle altre culture a discrezione del Principe. Sulla protezione e la sicurezza dei cittadini per mettere in fuga la loro insicurezza. Sulla convivenza tra il potere forte dello Stato e la società federale.

Berlusconi rappresenta il vertice del Triumvirato-Quadrumvirato: un tavolo a tre gambe, un triangolo retto che è sempre uguale a se stesso su qualunque lato venga poggiato perché il bello del populismo consiste nella ubiquità di Berlusconi, leghista, statalista, liberista, per naturale e plurima vocazione.

Perciò, salvo errori o malasorte, puntare su laceranti contrasti tra i triumviri è sbagliato: c'è trippa per tutti e anche per Grillo che dissoda il terreno dove i triumviri semineranno e raccoglieranno. Così saranno i cinque anni che ci aspettano. Buon pro ci faccia.
Ma dunque non c'è niente da fare? Al contrario, penso che ci sia moltissimo.

* * *

Una volta tanto provo a descrivere il Partito democratico in negativo, cioè per quello che non è. Un modo come un altro per disegnarne un profilo identitario.

Non è il partito dell'ideologia assolutista. Non è un partito con radici cattoliche o comunque religiose. Non è un partito liberista. Non è un partito classista. Non è il partito dello Stato forte. Non è un partito protezionista.

Quindi: è un partito laico e non ideologico, liberal-democratico, costituzionale di questa Costituzione e dei suoi principi fondativi. Non trasformista ma disponibile a partecipare - se potrà - all'elaborazione delle riforme istituzionali. Vuole un libero mercato nutrito di libera concorrenza, con regole efficaci e istituzioni capaci di farle rispettare. Un partito con una sua visione nazionale nel quadro di un'Europa federale.

Così sembra a me che debba essere.

Nell'idea originaria Veltroni ha puntato su una forma che fu definita "liquida", poggiata sul popolo delle primarie. Questa formula, che anche a me sembrava utilmente innovativa rispetto alla tradizionale forma-partito, si è invece rivelata inefficace. L'esperienza della campagna elettorale ha dimostrato che le primarie sono uno strumento selettivo utile ma non l'ossatura di un partito che deve vivere sul radicamento territoriale. C'è bisogno d'una struttura militante e identificata con gli interessi del territorio e di un vertice solido e plurimo che indichi le priorità e i mezzi disponibili per attuarle. Che non sia casta ma rappresentanza. Locale ma con visione nazionale.

Il Partito democratico rappresenta il solo sbocco politico possibile della sinistra italiana e deve perseguire quest'obiettivo. Rappresenta il solo sblocco possibile dei cattolici adulti, che abbiano intensi sentimenti di fede e non di idolatrie o di calcoli politicanti. Questi cattolici sono minoranza tra i tanti battezzati indifferenti e ruiniani? Ma i cattolici veri, quelli di fede e di responsabilità personale, sono sempre stati minoritari, quello è il loro vanto e la loro dignità religiosa così come lo è per i laici non credenti ma rispettosi del sacro e delle sue non idolatriche manifestazioni.

Ricordo qui una lezione di Ugo La Malfa: impegnò la sua vita politica per cambiare la sinistra di cui si sentiva parte, per cambiare la Democrazia cristiana con la quale fu alleato e per cambiare il capitalismo italiano trasformando gli imprenditori in una consapevole borghesia.

Secondo il mio modo di vedere il Partito democratico deve farsi portatore di analoghe e alte ambizioni che sono al tempo stesso culturali sociali e politiche.

Il riformismo di centrosinistra in un paese come il nostro è minoritario. Lo è sempre stato ma ha, deve avere, vocazione maggioritaria. Del resto le grandi trasformazioni sono sempre state - e non solo in Italia - realizzate da minoranze che seppero operare nel senso della storia programmando il futuro, rappresentando il paese vitale e responsabile, consapevole dei difetti, dei limiti e delle virtù degli italiani.

Un gruppo dirigente coeso e non castale può e dev'essere animato da una grande ambizione. La sconfitta è stata dura, gli errori ci sono stati. Ambizione, non vanità. Dialogo, non trasformismo. Pragmatismo, non improvvisazione.

C'è molto da fare.


(4 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Grillo l'arcitaliano
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 09:55:13 pm
Eugenio Scalfari

Grillo l'arcitaliano

L'ultima impresa di questo scarmigliato profeta ha preso di mira Visco e l'Agenzia delle entrate rei di avere pubblicato i redditi su Internet. Compreso il suo: 4 milioni e 200 mila euro. In edicola da venerdì  Beppe GrilloDiscutendo con amici della situazione presente, che certo non è tra le più semplici da interpretare e delle più liete da vivere per chi la pensa come me, qualcuno ha posto la domanda di chi sia il personaggio che più da vicino rappresenti i difetti degli italiani. Chi sia insomma l'arcitaliano del peggio.

Ci sono state varie risposte. C'è chi ha fatto il nome di Mussolini. Chi ha proposto Giulio Andreotti. Chi Berlusconi. Personaggi, come si vede, molto diversi l'uno dall'altro, con ciascuno dei quali tuttavia una larga maggioranza di italiani si è di volta in volta identificata per un lungo tratto di anni: vent'anni per Mussolini, altrettanti per Andreotti e già una quindicina per Berlusconi.

Ma uno degli amici con i quali si faceva chiacchiera su questo argomento più per passatempo che per analisi seria, alla fine se n'è uscito col nome di Beppe Grillo. E allora la chiacchiera svagata si è riscaldata e le opinioni si sono divise. Grillo - a suo modo - denuncia la casta politica e la licenzia ogni sera con il suo 'Vaffa' che non risparmia nessuno: destra e sinistra, politici e magistrati, imprenditori e sindacati, banchieri e giornalisti. Una condanna generale di tutta la classe dirigente, dal Capo dello Stato all'ultimo dei portaborse, con l'intenzione che scompaiano dalla scena e non tornino mai più e con l'invito al popolo di prendere nelle sue mani il destino del Paese e di rivoltarlo sottosopra.

Questa condanna generale, che ha trovato nel libro di due valenti colleghi il suo vangelo, è ampiamente condivisa dal medio ceto e anche dai ceti popolari, operai, artigiani. Ma non soltanto: quelli che un tempo militavano all'estrema sinistra sono animati da sentimenti di rigetto analoghi, sicché intorno ai 'Vaffa' che la voce rauca e urlante dell'ex comico autopromossosi a tribuno della plebe lancia puntualmente si è raccolta una vasta platea di italiani.

Se Beppe Grillo è il personaggio che meglio incarna i difetti degli italiani ma, nello stesso tempo, è il leader di tutti coloro che avversano la casta dei potenti e dei privilegiati, si dovrebbe arrivare alla paradossale conclusione che se Grillo rappresenta il peggio la casta rappresenterebbe il meglio del Paese. Paradosso certamente inaccettabile.

Ecco perché la discussione su Grillo incattivisce gli animi, divide opinioni un tempo concordi ed ha contribuito in modo non marginale alla vittoria elettorale del 'Popolo della Libertà'.

Ho scritto domenica scorsa su 'Repubblica' che Grillo dissoda il terreno sul quale Berlusconi e Bossi gettano i semi e raccolgono i frutti; se guardate al fondo delle cose vi accorgerete che esse stanno esattamente in questa maniera.

L'ultima impresa di questo scarmigliato profeta ha preso di mira Vincenzo Visco e l'Agenzia delle entrate, rei di aver pubblicato sul sito Internet della stessa agenzia le dichiarazioni dei redditi di tutti i contribuenti, già rese pubbliche da una legge vigente fin dal 1973 (ministro delle Finanze Rino Formica). La legge non prevede che le dichiarazioni siano rese note on line poiché all'epoca Internet non esisteva, ma successivamente alcuni giornali utilizzarono questa nuova tecnologia senza che l'Agenzia della privacy avesse nulla da eccepire.

Ma il Grillo di oggi ha da eccepire (e con lui il Codacons) e paragona la diffusione dei 740 ad una sorta di crocifissione, un martirio che deve esser pagato severamente dagli aguzzini e cioè da Visco. A sua volta l'Agenzia della privacy è entrata in fibrillazione e così pure la Procura di Roma che ha aperto un'indagine contro ignoti.

Ma perché Grillo si agita? La risposta è semplice: nell'elenco dei contribuenti c'è ovviamente anche il suo nome (ed anche il nostro); risulta che nell'anno in questione il Profeta abbia dichiarato un reddito di 4 milioni e 200 mila euro. In questa notizia non c'è nulla di scandaloso se non un aspetto: Grillo non ha un lavoro retribuito, la sua esclusiva attività già da molti anni è appunto quella del Profeta politico che 'giudica e manda'. Naturalmente alle sue adunate in teatro i partecipanti pagano un biglietto di ingresso, i più entusiasti versano contributi per finanziare i raduni e acquistano i Dvd dove sono raccolte le parole del tribuno. Questi incassi - ripetiamolo - dovrebbero servire a preparare e diffondere nuove iniziative ma evidentemente c'è un sovrappiù che Grillo considera come proprio reddito personale e che nell'anno in questione ha lasciato nelle sue mani l'equivalente di 8 miliardi di vecchie lire.

Il Nostro, come molti, predica bene e razzola malissimo. Perciò mi sembra giusto annoverarlo tra i personaggi emblematici dell'Italia peggiore.

(08 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La dolce dittatura della nuova democrazia
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2008, 11:53:09 pm
POLITICA IL COMMENTO

La dolce dittatura della nuova democrazia

di EUGENIO SCALFARI


CON QUELLO che capita nel mondo e soprattutto nel Medio Oriente, terra rivierasca del lago Mediterraneo, verrebbe voglia di sorvolare sui fatti di casa nostra, i primi passi del Berlusconi-Quater, il governo-ombra del Partito democratico, l'eterno duello eternamente smentito tra Veltroni e D'Alema. A paragone dell'orizzonte planetario sono cosette di provincia, ma quella provincia è casa nostra e quindi ci tocca da vicino. Ne va dei nostri interessi, delle nostre convinzioni e delle nostre speranze.

L'impatto della crisi libanese provocata da Hezbollah e di quella israeliano-palestinese provocata da Hamas è comunque troppo violento per esser trascurato. Per di più abbiamo in Libano un contingente di tremila soldati, la nostra più importante missione militare la cui sorte condizionerà inevitabilmente le altre nostre presenze all'estero a cominciare da quella in Afghanistan.

A questo punto si pone la prima domanda: esiste un legame strategico tra le iniziative militari e politiche di Hezbollah e quelle di Hamas? E - seconda domanda - si tratta di iniziative autonome o ispirate dall'esterno? C'è un'indubbia affinità tra quei due movimenti: entrambi hanno caratteristiche strutturali nei rispettivi teatri d'operazione; entrambi sono al tempo stesso milizie armate e strutture assistenziali, educative, sociali. Anche religiose, soprattutto per quanto riguarda Hezbollah.

Probabilmente Hamas ha in se stessa la sua referenza ideologica e politica ma subisce ovviamente un forte condizionamento dal contesto della regione; la tuttora mancata pacificazione irachena e la presenza da ormai cinque anni di un'armata americana impantanata dalla guerriglia sciita e sunnita tra Bagdad e Bassora ha impedito il rafforzamento dell'Autorità palestinese favorendo invece il nazionalismo di Hamas e la sua identificazione con il panarabismo radicale e con il terrorismo.

Per Hezbollah il fattore religioso ha sempre giocato un ruolo primario; il vincolo sciita ha progressivamente spostato la sua dipendenza da Damasco a Teheran. Allo stato attuale si gioca sullo scacchiere libanese una triplice partita: quella d'una grande Siria in funzione antisraeliana, quella d'un blocco sciita contro i governi arabi filo-americani e quella di un nazionalismo libanese come nuova potenza islamica e mediterranea.

In un quadro così complesso emerge drammaticamente l'assenza d'una politica unitaria europea e la pochezza della politica mediorientale americana. Emerge altresì la catena di errori commessi dai governi d'Israele dalla fondazione di quello Stato fino ad oggi: sessant'anni di occasioni perdute, una guerra diventata endemica, l'evocazione dal nulla d'una nazione palestinese inesistente sessant'anni fa e il miraggio d'una pace che si allontana sempre di più. La formula "due paesi due Stati" ha un fascino lessicale che corrisponde sempre meno alla realtà.

Il solo modo di realizzarla sarebbe quello di collocarla in un quadro internazionale sponsorizzato dall'Onu, dalla Nato e dall'Unione europea, impensabile tuttavia fino a quando l'Europa non disponga di istituzioni federali e di una sua politica estera e militare. Siamo cioè più nel regno dei sogni che in quello della realtà.

Nel frattempo il nuovo governo italiano si è installato ed è iniziata la quarta reincarnazione berlusconiana all'insegna di una dolce dittatura, come abbiamo già avuto modo di scrivere domenica scorsa.
Dittatura dolce è un ossimoro con il quale cerchiamo di configurare un'entità politica inconsueta ma reale. Ci sono due polarità nel Berlusconi-Quater, che si confronteranno tra loro nei prossimi cinque anni e che convivono all'interno del triumvirato Forza Italia-An-Lega ma perfino all'interno di ciascuno dei tre partiti alleati. Convivono addirittura nella personalità dei tre leader e dei loro stati maggiori.

Il "lider maximo" è probabilmente il più consapevole di questa duplice polarità e della blindatura zuccherosa che è l'immagine più realistica del governo testé insediato. Per questa ragione egli ha privilegiato la compattezza sul prestigio collocando nei dicasteri e nelle posizioni più sensibili persone clonate sulla fedeltà al capo piuttosto che sul prestigio e sulla competenza.

Blindatura zuccherosa evoca sia il populismo sia il trasformismo, due elementi connaturati a tutto il quindicennio berlusconiano e profondamente radicati nella storia politica e antropologica del nostro Paese. Nei suoi primi atteggiamenti di nuova maggioranza tutti i dirigenti già insediati nelle varie cariche istituzionali, ministri, sindaci, presidenti di Regione e di Provincia, non fanno che lanciare appelli di collaborazione ai talenti individuali lasciando in ombra il ruolo dell'opposizione.

Questa a sua volta tende a concentrare la sua forma-partito per esorcizzare tentazioni centrifughe e fughe in avanti verso ipotesi immaginarie.
L'aspetto più visibile della blindatura zuccherosa è il tentativo di coinvolgere il Capo dello Stato effettuato da Berlusconi il giorno stesso del giuramento nella sala del Quirinale durante il brindisi augurale con i nuovi ministri e in assenza del presidente Napolitano appena ritiratosi per urgenti impegni istituzionali. "Questa legislatura - ha detto il neo-presidente del Consiglio - procederà sotto il segno di un patto con il presidente della Repubblica che avrà il nostro pieno appoggio e al quale sottoporremo le linee guida del governo per averne consiglio e preventivo incoraggiamento".

Una simile dichiarazione era del tutto inattesa dopo una fase di crescente disagio reciproco tra i due massimi poteri istituzionali. Essa rivela la preoccupazione di Berlusconi di fronte alla complessità dei problemi da affrontare e il suo bisogno di collocare il governo nel quadro d'una "moral suasion" preventiva e preventivamente sollecitata e ascoltata come tramite e garanzia di fronte ad un'opinione pubblica frammentata e instabile.

Il Quirinale non ha fatto alcun commento alle parole del presidente del Consiglio né poteva farlo essendo esse del tutto informali; del resto i rapporti tra la presidenza della Repubblica e il potere esecutivo si sono sempre basati sulla collaborazione, ferma restando la netta distinzione dei reciproci ruoli. La "moral suasion" è sempre stata uno degli strumenti di quella collaborazione nell'interesse dello Stato, a cominciare dai "biglietti" tra Quirinale e Palazzo Chigi ai tempi di Luigi Einaudi. Ma altro è la collaborazione istituzionale tra due poteri dello Stato, altro la confusione dei ruoli e un patto di legislatura che equivarrebbe ad una sorta di "annessione" del Capo dello Stato alla maggioranza parlamentare.

Annessioni del genere ci furono durante la Prima repubblica e raggiunsero il culmine con la presidenza Leone, ma dalla presidenza Pertini in poi scomparvero del tutto e i ruoli riacquistarono la doverosa nettezza prevista dalla Costituzione. Nettezza tanto più necessaria in una fase in cui - al di là del conteggio dei seggi parlamentari - la maggioranza è stata votata dal 47 per cento degli elettori.

Sappiamo che il nuovo governo, subito dopo il voto di fiducia, si appresta ad affrontare i due primi e importanti appuntamenti: quello della sicurezza e quello dell'economia per un rilancio della domanda interna. Questioni complesse e irte di difficoltà. Il ministro dell'Interno, Maroni e quello della Giustizia, Alfano, stanno lavorando sul primo tema; il ministro dell'Economia, Tremonti, sul secondo.

La premessa al pacchetto "sicurezza" è una direttiva europea in corso di avanzato esame, che dovrebbe prolungare la permanenza degli immigrati nei centri di accoglienza e custodia fino a 18 mesi. Se e quando questa direttiva entrerà in vigore, essa darebbe tempo di esaminare in modo approfondito la figura dei vari immigrati e accoglierli o rispedirli ai paesi di provenienza.

Ma di ben più incisivo contenuto sono le misure di pertinenza del governo, predisposte dall'avvocato Ghedini, uno dei difensori di Berlusconi e membro del Parlamento. Si va da un elenco di reati particolarmente sensibili ai quali applicare le nuove misure, ad aumenti di pena rilevanti, all'obbligo di processi per direttissima nei casi di semi-flagranza, all'abolizione dei benefici di legge per i reati reiterati, all'istituzione del reato d'immigrazione clandestina. Infine alla chiusura delle frontiere per i "rom" provenienti dalla Romania, e al rimpatrio immediato di quelli irregolarmente entrati e residenti in Italia.

Quest'ultimo punto è particolarmente delicato perché richiede un accordo con il governo di Bucarest che non sembra affatto disposto a concederlo ed anzi minaccia eventuali rappresaglie sugli italiani residenti in Romania.

Il pacchetto nel suo complesso configura una politica assai dura e non priva di efficace deterrenza almeno in una prima fase, anche se è generale convinzione che politiche anti-immigrazione non avranno, sul tempo medio, alcuna efficacia se non nel quadro di un'assunzione di responsabilità europea e di accordi con i Paesi dai quali i flussi migratori provengono.

Dal punto di vista della politica immediata il governo trarrebbe indubbio giovamento di popolarità da queste misure, visto che quello della sicurezza è il tema principale intorno al quale si è formato il consenso degli elettori. Proprio per questo Berlusconi punta su un decreto legge d'immediata esecutività a dispetto della complessità e delicatezza della materia. Sarà decisiva su questo specifico tema la posizione del Capo dello Stato cui spetta di decidere se l'urgenza debba prevalere sull'esame approfondito ed ampio in sede parlamentare.

Ancora più ardua l'apertura di partita sul terreno dell'economia. Tremonti ha ieri affermato che non esiste alcun "tesoretto" spendibile. Affermazione discutibile dopo le dichiarazioni di Padoa-Schioppa nel momento del passaggio di consegne, anche considerando che l'ex ministro non è certo incline agli ottimismi contabili.

Comunque questa è la posizione di Tremonti, dalla quale discende che non c'è copertura né per il taglio dell'Ici né per la defiscalizzazione degli straordinari e dei premi di produzione per i lavoratori dipendenti.
L'ammontare delle risorse necessarie per questi provvedimenti oscilla tra i cinque e i sette miliardi di euro. Se non ci sono non ci sono e si resterà al palo oppure, come Tremonti ha dichiarato, si tasseranno altri soggetti che il ministro ha indicato nelle banche e nelle società petrolifere.

Ha certamente coraggio, Giulio Tremonti: tassare i ricchi (banche e petrolieri) per dare ai meno ricchi. Però attenzione: l'abolizione dell'Ici non premia i proprietari di case modeste, già esentati da Prodi, bensì i proprietari di immobili di qualità e prestigio. Questo provvedimento è classicamente elettoralistico, costa due miliardi e mezzo e non ha alcuna utilità né sociale né economica. Meglio sarebbe se Tremonti lo levasse di mezzo, ma Berlusconi ci ha costruito una buona parte della sua vittoria elettorale, ecco il guaio per il ministro dell'Economia.

Le misure sulla detassazione degli straordinari sono invece importanti per ragioni sia sociali sia economiche.
Abbiamo ragione di credere che per quella operazione la copertura ci sia.

Pensiamo che le minacce di Tremonti alle banche e ai petrolieri abbiano come obiettivo quello di indurre le prime a sostanziali sconti sui mutui e i secondi a ribassi sui prezzi dei carburanti.

Comunque sarà bene che il ministro proceda confrontandosi in Parlamento con le proposte alternative dell'opposizione: se vuole dare prove di ascolto politico, questo è il tema più adatto.

Non parlerò oggi del Partito democratico, in fase di riassetto e presa di coscienza della sconfitta elettorale.
Condivido in proposito la diagnosi fatta l'altro ieri su questo giornale da Aldo Schiavone: Veltroni ha puntato sulla voglia di cambiamento della società italiana, Berlusconi invece sulla insicurezza e la voglia di protezione nonché su un sussulto identitario, localistico e tradizionale. La maggioranza degli elettori ha condiviso.

Si deve per questo abbandonare la visione d'una società più moderna e dinamica? Credo di no. Bisognerà riproporla in modi più efficaci e meno dispersivi, concentrando l'attenzione su punti e provvedimenti concreti. Questo è mancato e questo va fatto a cominciare da subito.

Ciò che non va fatto è di aprire di nuovo scontri interni e regolamenti di conti. Ciò che non va fatto è rimettere in scena lo scontro Veltroni-D'Alema. Riproporre un duello così trito sarebbe esiziale per i duellanti e per il loro partito.

Temo che nessuno dei due abbia fatto abbastanza per evitare che l'ipotesi di un rinnovato scontro prendesse consistenza. Penso che debbano entrambi provvedere, ciascuno per la parte che gli compete, a dissipare l'immagine che si è formata. Se sono responsabili certamente lo faranno.

(11 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ultima maschera del nuovo statista
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2008, 11:57:14 am
POLITICA IL COMMENTO

L'ultima maschera del nuovo statista

di EUGENIO SCALFARI


COMINCIO questa mia rassegna settimanale dei principali fatti e misfatti politici con una citazione. E' tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, "La democrazia in America" scritto due secoli fa e ormai diventato un classico. L'ha ricordato Umberto Eco nella sua "bustina" sull'Espresso di venerdì.

"Nella vita di ogni popolo democratico c'è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell'abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all'alto può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all'universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo". Aggiungo per doverosa completezza l'avvertenza che spesso compare in certi film che trattano problemi e casi di stretta attualità: "Ogni riferimento a personaggi reali è infondato o puramente casuale".

Abbiamo assistito ed assistiamo, dopo la vittoria del centrodestra ad una profonda trasformazione del leader di quella parte politica, da pochi giorni asceso per la quarta volta in 14 anni alla presidenza del Consiglio. Tanto è stato demagogico e iracondo nelle sue precedenti apparizioni e tanto appare oggi uno statista pensieroso del bene comune. Molti dubitano della sincerità di questa trasformazione.

Un campione intervistato da "Sky Tg24" su questo tema, rispondendo alla domanda "è sincero o è bugiardo?" ha dichiarato per l'82 per cento "è bugiardo". Una parte consistente del campione è formata evidentemente da persone che appena pochi giorni prima avevano votato per lui. Ciò rende estremamente pertinente l'analisi di Tocqueville.
Ma io non credo - e l'ho già scritto domenica scorsa - che Silvio Berlusconi, bugiardo per antonomasia, in questo caso menta. E' un grande attore e un grande venditore del suo prodotto, cioè di se stesso, e come tutti i grandi attori si immedesima completamente con ciò che dice. Nel momento in cui decide di assumere e interpretare il personaggio dello statista, quella maschera diventa vera, diventa realtà, l'attore si comporta da statista e lo è. Quindi va preso sul serio. Del resto in politica le parole sono pietre ed è precluso fare il processo alle intenzioni.

Tuttavia la memoria delle maschere assunte in precedenza rimane e deve rimanere perché l'attore può cambiar maschera a suo piacimento e in qualunque momento se gli ostacoli che incontra lungo la strada si rivelino troppo difficili e troppo ostici ai suoi interessi e alle sue ambizioni. Il grande attore non ha convinzioni proprie e una propria identità: si immedesima nella parte e quella è la sua forza. Finita una recita ne comincia un'altra; talvolta interpreta due parti e due personaggi diversi e addirittura contrapposti. In queste situazioni pirandelliane Berlusconi ci si ritrova molto bene e tutti noi, cittadini di questo Paese, dobbiamo ricordarcelo.

Ho detto che il grande attore non ha convinzioni proprie o, se pure ne ha, esse sono irrilevanti di fronte alla sua personalità recitante. Ma quando la recita è finita le sue pulsioni istintuali affiorano e determinano i suoi comportamenti. Abbiamo imparato a conoscerle, le pulsioni istintuali di Berlusconi che è sulla scena nazionale da ormai trent'anni. Il neo-statista va preso sul serio e gli si può e anzi gli si deve fare un'apertura di credito; del resto le elezioni le ha vinte e la sua legittimità è piena e fuori discussione. Non altrettanto la sua tempra morale e politica. Perciò con lui la disponibilità deve andare di pari passo alla memoria vigile e al riscontro costante tra parole e fatti, tra intenzioni e realizzazioni.

* * *
La sua campagna elettorale e quella dei suoi alleati Bossi e Fini è stata costruita soprattutto sul tema della sicurezza. Gli errori del centrosinistra su questo tema sono stati molti e gravi: la maggioranza si è più volte sfaldata, i dirigenti della sinistra radicale hanno frequentemente bloccato provvedimenti di energica prevenzione e di necessaria repressione predisposti a suo tempo dal ministro dell'Interno Giuliano Amato in accordo con Prodi. La magistratura, le sue lentezze e i suoi riti hanno fatto il resto e la delinquenza ha goduto di una diffusa impunità. Non tale tuttavia da rappresentare una minaccia nazionale. Se essa è balzata al primo posto nelle preoccupazioni degli italiani ciò è avvenuto perché la percezione di quella minaccia e la paura che ne è derivata sono state cavalcate senza risparmio e senza ritegno dai triumviri del centrodestra.

Cecità di fronte al fenomeno della micro-delinquenza da parte della sinistra radicale, eccitamento della paura da parte della destra: in queste condizioni i richiami alla ragione e al senso di responsabilità dei democratici sono caduti nel vuoto.

Immediatamente dopo la vittoria elettorale di Berlusconi è scoppiata la sindrome delle ronde di strada, della repressione fai-da-te, del giustizialismo di quartiere. Nelle province di camorra la criminalità organizzata si è trasformata in giustizialismo di piazza: la manovalanza camorrista ha preceduto la polizia e i carabinieri, l'assalto ai campi rom è venuto prima delle leggi in corso di redazione da parte del nuovo ministro dell'Interno il quale, in accordo con il sindaco di Milano e con quello di Roma, ha anche istituito la nuovissima figura del "Commissario ai rom".
Che cosa debba fare un commissario addetto ad un'etnia è un mistero, ma una cosa è certa: si tratta di un'inutile e pericolosissima criminalizzazione d'una collettività.

Maroni si affanna da qualche ora a ridimensionare gli aspetti abnormi di queste sue iniziative strombazzate a pieno volume durante la campagna elettorale. Il reato di immigrazione clandestina, che costituiva uno dei punti forti della predicazione leghista, ha dovuto essere depennato di fronte alle obiezioni del capo dello Stato e dell'opinione pubblica europea, ma resta un contesto non solo repressivo ma persecutorio che eccita ancora di più la gente di mano e il teppismo della destra estrema.

L'altro ieri a Napoli uno stuolo di mamme scarmigliate e urlanti voleva scacciare alcuni handicappati-rom che per una notte erano stati ricoverati in un convitto dopo l'incendio del campo di Ponticelli. "Bruciarli no, ma scacciarli sì e subito" urlavano quelle mamme ed una in particolare che era la più agitata. Si è poi saputo che è la moglie del boss camorrista di quel quartiere.
A questo siamo arrivati, ma c'è una logica nella follia d'aver cavalcato la paura fino a questo punto: poiché miracoli in economia non se ne potranno fare, bisognava suscitare un nemico interno sul quale scaricare le tensioni e doveva essere un nemico capace di concentrare su di sé l'immaginario della nazione. Ora quell'isteria dell'immaginario ha preso la mano da Napoli a Verona e può dar luogo a conseguenze assai gravi.

* * *
Walter Veltroni ha fatto bene ad incontrare Berlusconi a Palazzo Chigi venerdì mattina. Dal resoconto fatto dallo stesso segretario del Pd risulta che abbiano toccato vari e importanti argomenti: dalle riforme istituzionali da fare insieme ai programmi dei due schieramenti che restano invece, come è giusto che sia, fortemente conflittuali.

In particolare hanno parlato di Rai (qui la conflittualità è massima) di sostegno dei salari (anche su questo punto non c'è stato accordo) di legge elettorale europea (istituzione d'una soglia di sbarramento del 3 per cento).

Non si è parlato invece di sicurezza, per riguardo (così è stato detto) alle prerogative del Capo dello Stato cui spetta di controfirmare i decreti e i disegni di legge.
A noi non sembra una buona cosa avere escluso dall'agenda di questo primo incontro il tema della sicurezza. Al dà degli specifici provvedimenti di prevenzione e di repressione che si dovranno adottare, resta una visione d'insieme che riguarda - come scrive Tocqueville nella citazione sopra riportata - "il gusto di civiltà e di libertà".

La nostra visione di cittadini democratici mette strettamente insieme la legalità, la protezione dei cittadini, la certezza delle pene, la repressione rigorosa della giustizia di strada e delle ronde "volontarie", l'opposizione più ferma ad ogni criminalizzazione di etnie e di collettività.

Questo avremmo voluto che il segretario del Pd dicesse a titolo di premessa nel suo primo incontro con il presidente del Consiglio. Sappiamo che questa visione e questi valori appartengono interamente al patrimonio etico-politico di Veltroni e del partito da lui guidato. Vogliamo sperare che siano condivisi anche da Silvio Berlusconi nella sua nuova veste di statista. Ma se ci si deve impegnare in una politica di dialogo istituzionale, questi valori non possono essere sottaciuti e dati per noti; vanno viceversa proclamati e la loro condivisione va posta come premessa e condizione indispensabile al dialogo. Se non fossero condivisi e tradotti in atti legislativi e in linee guida amministrative conformi, il dialogo non potrebbe e non dovrebbe evidentemente aver luogo.

* * *

Poche altre cose vogliamo aggiungere a proposito delle riforme istituzionali che maggioranza ed opposizione dovranno portare avanti insieme.

Ben venga il riconoscimento da parte di Berlusconi del governo-ombra come interlocutore del governo governante. Ma non c'è soltanto il Partito democratico all'opposizione, sicché se si vorrà formalizzare questa novità bisognerà volgere al plurale quella parola perché tutte le opposizione hanno il diritto di interloquire. Oppure non si formalizzi nulla e si aumentino piuttosto i poteri di controllo del Parlamento in pari misura ai maggiori poteri che è giusto riconoscere al presidente del Consiglio, capo dell'Esecutivo.

E' passato quasi sotto silenzio (se si esclude il lucido articolo di Ignazio Marino su "Repubblica" di venerdì) il fatto che nel nuovo governo non esiste più il dicastero della Sanità, derubricato come parte del dicastero del "Welfare" affidato ad un sottosegretario o vice ministro che sia.

La derubricazione d'un ministero le cui attribuzioni sono sotto l'usbergo della Costituzione sotto forma del diritto alla salute di tutti i cittadini, è incomprensibile e inaccettabile. Capisco che la derubricazione possa esser gradita ai presidenti delle Regioni più ricche ma proprio per mantenere la parità di prestazioni sanitarie secondo il bisogno e non secondo il reddito che la Costituzione sancisce, non si può abolire il ministero della Salute e disossare il Servizio sanitario nazionale.
Questa materia riporta l'attenzione sul federalismo fiscale, altro tema delicatissimo che fa parte di quelle riforme da fare insieme tra maggioranza ed opposizione.

Bossi ha programmato da tempo la sua secessione dolce del Lombardo-Veneto basata su un federalismo fiscale spinto all'estremo e Berlusconi, Tremonti e Fini gli hanno dato carta bianca. Dove ci può portare questo salto nel buio in termini politici ed economici è ancora del tutto ignoto. I primi studi effettuati da economisti indipendenti mostrano squilibri fortissimi tra Nord e Sud, tra regioni ricche e regioni povere, tra entrate tributarie incassate e fonti di reddito che le generano.

Il federalismo fiscale si ripercuote anche su alcuni principi costituzionali, sul Senato federale, sulla composizione e i poteri della Corte Costituzionale. Se non ci sarà accordo su queste complesse e delicatissime questioni il governo dovrà procedere da solo e poiché non dispone della maggioranza necessaria per leggi di natura costituzionale dovrà ricorrere ad un referendum che spaccherebbe il Paese in due.

Ci pensi bene il neo-statista di Palazzo Chigi. Noi ci auguriamo che la sua sopravvenuta saggezza gli porti consiglio e gli dia la forza di far marciare i suoi alleati in accordo con lui anziché lui in accordo con loro. In caso contrario la strada sarà tutta in salita e non sarebbe un bene per un Paese che ha bisogno di crescere crescere crescere. Crescere soprattutto moralmente, signor presidente del Consiglio, perché questa è ormai diventata la nostra principale emergenza.

(18 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'esempio di Einaudi
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 04:42:29 pm
L'esempio di Einaudi

Eugenio Scalfari


Il presidente Napolitano ha riproposto all'attenzione degli italiani la sua figura di liberale senza aggettivi, cattolico nel privato, laico di stretta osservanza nel pubblico. Un modello di grande attualità anche oggi  Il presidente della Repubblica ha inaugurato qualche giorno fa una mostra allestita nelle sale del Quirinale su Luigi Einaudi, la sua vita, le sue opere e soprattutto la fase in cui ricoprì incarichi pubblici: la guida della Banca d'Italia nel 1947, poi il ministero del Bilancio appositamente creato per lui da De Gasperi, infine l'ascesa al Quirinale per la prima presidenza repubblicana subito dopo l'approvazione della Carta Costituzionale.

Non è stata una semplice inaugurazione, quella di Napolitano. Il capo dello Stato ha utilizzato l'occasione per cogliere il primo formarsi dell'ossatura strutturale dello Stato, dei rapporti tra i poteri, del ruolo del presidente di fronte alle sue controparti: il Parlamento, il Governo e - in Italia - anche il Vaticano.

Einaudi era un liberale senza aggettivi, privatamente un cattolico, nelle sue funzioni pubbliche un laico di stretta osservanza, uno studioso di economia e di scienza delle finanze, un docente. Era un carattere di grande tempra morale, uno dei padre fondatori insieme a pochi altri e Napolitano ha fatto benissimo a riproporre la sua figura all'attenzione degli italiani.

Sono passati sessant'anni da allora ma sembra molto di più. Mezza Italia era ancora per terra dopo il disastro della guerra e le rovine che aveva lasciato dovunque, eppure c'era un fervore, una fiducia nel futuro, un desiderio di ricostruire, di progettare, di ripresentarsi nell'agone internazionale senza più i complessi di superiorità e di inferiorità che avevano caratterizzato la lunga e cupa stagione del ventennio autarchico e fascista.

Oggi quell'alacrità e quella voglia di progettare il futuro si sono molto attenuate. Ciò che manca è la consapevolezza che il benessere individuale acquista un senso se va di pari passo con il benessere degli altri, se la felicità è condivisa, se l'impegno civile è diffuso in tutti i ceti e le regioni del Paese. Questo fu il 'credo' costante di Luigi Einaudi e questa è dunque
la sua attualità. Napolitano lo ha riproposto con evidente e sottolineata intenzione nella speranza che l'esempio sia compreso e giovi a ritemprare lo spirito nazionale.

Einaudi, proprio perché liberale, aveva una visione 'leggera' dello Stato. Faceva affidamento sullo spirito d'impresa degli individui, sulle loro libere iniziative, sulla gara che produce innovazione e progresso. Ma sapeva che la competizione non basta a diffondere benessere e a dare slancio all'intero Paese. Sapeva che il mercato è un prezioso strumento di selezione ma non supplisce all'assenza della morale civica; abbandonato a se stesso il mercato genera mostri, monopoli, rendite, collusioni. Distrugge anziché costruire. Impedisce l'accesso di nuove e più fresche energie.

I ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri: Einaudi ebbe questo pericolo ben chiaro nella mente e per scongiurarlo intervenne infinite volte con gli scritti e con appropriate azioni sia da governatore della Banca centrale sia da presidente della Repubblica.

Arrivo al punto di proporre un'imposta di successione che ogni due o tre generazioni avocasse allo Stato larga parte dei patrimoni più cospicui affinché i figli e i nipoti di chi aveva creato ricchezza non si addormentassero sugli agi e sui privilegi ereditati ma fossero costretti a ricominciare da capo costruendo sul merito proprio e sul talento e non su quello dei nonni e dei genitori.

Infine il suo principale assillo fu quello di allineare in condizioni di parità sia i ricchi sia i poveri ai nastri di partenza, nella scuola e in tutte le occasioni competitive che la vita offre.

Questo è stato l'insegnamento di un liberale raro. Giustizia e libertà era a quel tempo il motto del Partito d'azione ma anche dei liberali veramente tali. Purtroppo il tempo ha deposto molta polvere su quegli ideali che sembrano ormai voci d'un passato sempre più remoto. Ma un buon liberale non smette mai d'aver fiducia poiché la vera vecchia talpa che scava sotterranee gallerie per poi riemergere alla luce e alla vita è la libertà.

Il fatto che l'attuale presidente della Repubblica, di origine e cultura comunista, riproponga oggi all'attenzione degli italiani il primo presidente dello Stato repubblicano, di origine e cultura liberale, non è forse la prova che la vecchia talpa della libertà riemerge nei luoghi e nei tempi più impensati? La storia è imprevedibile. Bisogna aver fiducia nella sua imprevedibilità.

(23 maggio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gli effetti ottici del cavaliere decisionista
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 11:04:43 pm
IL COMMENTO

Gli effetti ottici del cavaliere decisionista

di EUGENIO SCALFARI


DICE bene il nostro D'Avanzo che ieri ha definito la strategia del Berlusconi-quater come la militarizzazione della politica. È così. Napoli si prestava perfettamente per questa militarizzazione simbolica sia per quanto riguarda i rifiuti sia per il varo del pacchetto sicurezza e il governo ha condotto egregiamente la sua prima uscita pubblica. Ci sono state proteste popolari contro l'apertura delle nuove discariche, molte delle quali erano quelle già individuate dal governo Prodi e da Bertolaso. Individuate ma non aperte. Prodi non poteva militarizzare le sue decisioni, Verdi e sinistra radicale glielo impedivano. Berlusconi non ha questi impedimenti.

Ci saranno altre proteste? Altri scontri con la polizia?. Spero di no. Lo stoccaggio dei rifiuti è una necessità. I termovalorizzatori sono una necessità. I treni verso la Germania sono una necessità. La raccolta differenziata dei rifiuti è una necessità. L'approccio "militare" del governo ha incontrato il favore dell'opinione pubblica anche se è stato contrastato dagli abitanti delle località direttamente coinvolte. La popolarità del governo, stando ai più recenti sondaggi, è cresciuta del 10 per cento. Anche l'opposizione ha fatto buon viso.

Più complessa è la questione del pacchetto sicurezza. I provvedimenti legislativi approvati dal Consiglio dei ministri sono chiari nella loro strategia di "tolleranza zero" e in quanto tali bene accolti anch'essi dall'opinione pubblica. Ma sono molto confusi e talvolta perfino contraddittori nella loro articolazione normativa. Ci sono aspetti di dubbia costituzionalità, come ieri ha chiarito Stefano Rodotà. Ma il ministro dell'Interno ha precisato che si tratta di decreti e di disegni di legge aperti alla discussione parlamentare e ad emendamenti migliorativi.

La "tolleranza zero", se affiancata dal rispetto dei diritti fondamentali delle persone, è approvata da gran parte degli italiani. La paura montata ad arte è sorretta tuttavia da una paura effettiva. Le due paure mescolate insieme hanno determinato la vittoria elettorale di Berlusconi, della Lega e di Alleanza Nazionale. Ora si sgonfieranno tutte e due proprio in virtù della "militarizzazione" della sicurezza. I reati commessi da immigrati resteranno più o meno al livello attuale che non presenta speciali patologie, ma la loro "percezione" diminuirà e sarà un bene per tutti.

* * *

Quanto alla camorra e alle altre organizzazioni criminali il discorso è diverso, come è diverso il problema dello Stato e della sua ricostruzione.
La camorra infesta Napoli e la Campania fin dalla fine dell'Ottocento, più o meno alla stessa data risale la mafia siciliana e americana. Quella calabrese è invece un fenomeno che non ha più di trent'anni di esistenza, più o meno come la Sacra Corona in Puglia. Da fenomeni di criminalità locale sono diventati nazionali, le cellule di questo cancro sono arrivate nel Centro e nel Nord, i legami internazionali passano per Marsiglia, Zurigo, Amburgo, Amsterdam, Londra, Barcellona e arrivano in Marocco, Turchia, Kosovo, Montenegro, Caraibi, Colombia, Bolivia, Venezuela, Messico. E naturalmente New York, Miami, Las Vegas, Los Angeles.

La traccia che delinea questa geografia planetaria e criminogena è la droga. Il racket, gli appalti, la prostituzione, rappresentano la coda della cometa delinquenziale e non è questione di immigrati o di indigeni, ma di Stati illegali che prosperano dentro e contro la legalità pubblica.

Lo Stato c'è ed è qui, ha detto Berlusconi aprendo il suo primo Consiglio dei ministri a Napoli. Purtroppo non era neppure l'inizio ma un'immagine evanescente di Stato. Nel pacchetto sicurezza non c'è assolutamente nulla che possa scalfire sia pure marginalmente l'anti-Stato delle mafie, la Gomorra e le sue propaggini. La Sicilia di Lombardo, di Schifani, di Micciché, di Cuffaro non è certo quella che possa guidare la cultura della legalità e la rinascita dello spirito pubblico.

C'è un immenso buco nero nel quale sprofondano i corpi e le coscienze. Il populismo e l'antipolitica sono il concime di questo brodo di coltura che erode la legalità e allarga la voragine. Il berlusconismo non è una medicina contro questa peste, tutt'al più un placebo se non addirittura un veicolo inconsapevole che accresce la diffusione dell'epidemia. Spero con tutto il cuore di sbagliarmi, ma temo di no.

* * *

Poi c'è l'economia e Giulio Tremonti in veste di Grande Elemosiniere. Emma Marcegaglia e la luna di miele tra la sua Confindustria e un governo "capace di inaugurare una nuova e irripetibile stagione" all'insegna del decisionismo. Va guardata con molta attenzione questa capacità decisionale della politica. Personalmente penso anch'io che sia un elemento positivo per realizzare soluzioni appropriate.

La crescita non è una soluzione ma un auspicio e semmai un effetto. La Marcegaglia punta sull'aumento di produttività e lo lega soprattutto al costo del lavoro e ad una nuova contrattualistica aziendale. Sono certamente due elementi di rilievo ma non quelli essenziali. La contrattazione aziendale lascia fuori a dir poco l'85 per cento delle imprese, cioè tutte quelle che stanno al di sotto dei trenta dipendenti. In quella moltitudine non c'è traccia di sindacato, l'alternativa al contratto territoriale è il nulla.

Aggiungo che il vero elemento che influisce sulla produttività è l'innovazione, che non dipende dai lavoratori ma dall'imprenditore, dal suo genio e dalle sue capacità di ricerca. Innovazione di processo e innovazione di prodotto. La seconda molto più decisiva della prima.

Emma Marcegaglia e la sua Confindustria rappresentano le imprese, ne sono un ufficio di relazioni pubbliche, ma l'innovazione sono le imprese che debbono produrla. Se c'è stato un crollo di produttività e un crollo ancora maggiore di competitività, le responsabilità ricadono almeno per il 40 per cento sulle imprese, per il 50 per cento sulle carenze infrastrutturali e di illegalità pubblica, cioè sullo Stato. Il costo del lavoro non pesa più del 10 per cento. Non è irrilevante ma non è da lì che si risolve il problema.

Tremonti lo sa benissimo. Anche Draghi lo sa e anche la Marcegaglia dovrebbe. Purtroppo per loro e per tutti noi, saperlo non basta.

***

La ricontrattazione dei mutui immobiliari è un buffetto sulla guancia dei mutuatari, un'operazione di pura immagine. Se stai affondando ti converrà accettare il tasso fisso del 2006 invece di quello attuale, assoggettandoti al prolungamento delle rate più gli interessi aggiuntivi. Otterrai un uovo oggi e dovrai ripagarlo con una gallina domani. L'operazione non è a costo zero, le banche ci guadagneranno, lo fanno per questo.

L'abolizione dell'Ici non serve assolutamente a nulla. Tremonti vi è costretto per onorare l'impegno elettorale assunto da Berlusconi. Anche qui pura immagine fornita ad una platea credulona. Il ministro dell'Economia ne valuta il costo ad un miliardo e lo motiva come un modo per rilanciare la domanda interna. Questa è un'enormità che una persona responsabile non dovrebbe propinare senza arrossire per quel che vuole far credere. Un miliardo per rilanciare la domanda? Un miliardo ottenuto detassando un'imposta di natura patrimoniale? Onorevole ministro dell'Economia, ma si rende conto? Ritiene gli italiani gonzi al punto da credere ad una panzana di queste dimensioni? Poi c'è la detassazione degli straordinari e delle parti flessibili delle retribuzioni. Emma Marcegaglia si è fatta male alle mani per gli applausi tributati a questo provvedimento. Costa - secondo il ministro - 2,6 miliardi.

Personalmente credo che costerà di meno. Il fatturato delle imprese rallenta, i premi di produzione si assottigliano. Se c'è meno fatturato ci saranno meno straordinari, non è così? Oppure ci sarà un blocco nelle assunzioni o addirittura chiusura di aziende e trasferimenti di produzione ad altre aziende collegate. Aumento di straordinari contro diminuzione dell'occupazione. Non è così che funziona, gentile Marcegaglia? Non è questa la logica del capitalismo, onorevole Tremonti?

Accrescere la produttività con queste misure è un marchiano errore. Accrescere la domanda, nemmeno parlarne. Quelle che certamente cresceranno saranno le disuguaglianze di trattamento. Il pubblico impiego è escluso dal provvedimento. Le donne che lavorano non fanno straordinari. Le piccole imprese e il lavoro precario sono un mondo nell'ombra con vita e logiche proprie difficilmente visibili. Quanto al lavoro degli immigrati è inutile parlarne.

Ma soprattutto, lo ripeto: detassare la parte flessibile del salario ha un senso in un'economia che tira; se è ferma o addirittura regredisce si tratta di pura immagine per avere titoli sui giornali e in tivù e qualche commento favorevole. Mi stupisce il Bonanni della Cisl. Angeletti almeno è più prudente.

* * *

Due parole sul ritorno del nucleare. Sono d'accordo con Umberto Veronesi: il tabù contro non ha più ragion d'essere ammesso che l'abbia avuta venticinque anni fa. Oggi una battaglia ideologica è priva di senso. Infatti non mi pare che ci sia qualcuno che voglia farla. Ci vorranno nove anni a dir poco per avere quattro centrali e un 10 per cento di nuova energia: questo è il piano preparato dall'Enel, altri studi specifici non ci sono e quindi diamolo per buono.

Saranno centrali di terza generazione. Detto in breve: nascono vecchie. Producono scorie. L'ammortamento è molto elevato, l'energia prodotta, per conseguenza, molto costosa. I francesi, tanto per parlare d'una economia della quale il nucleare rappresenta l'elemento-base, producono ormai con centrali quasi tutte ammortizzate. Ciò significa che l'energia prodotta oggi è vicina al costo zero. Le nostre, secondo l'Enel, avranno un costo di 30 miliardi.

L'ammortamento comincerà a pesare sul primo chilowattore prodotto. Dunque fuori mercato. Marcegaglia batte le mani. È un tic? Forse bisognerà imboccarla comunque, questa strada, ma c'è poco da applaudire. Non sarebbe meglio usare quella montagna di soldi per nuove ricerche di gas o nuove iniziative nelle energie alternative?

Agli esperti l'ardua sentenza. La sola cosa certa, lo ripeto, è che le future centrali di Scajola-Marcegaglia nascono vecchie. Per degli innovatori ad oltranza non è un grande obiettivo.

25/05/2008

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Andreotti visto da vicino
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2008, 05:00:25 pm
Eugenio scalfari

Andreotti visto da vicino


Il film 'Il Divo' è bello ma non mi ha convinto. Perché il senatore è un personaggio difficilissimo da classificare. È un 'unico' tra i politici italiani  Giulio AndreottiIl divo Giulio. Sono andato a vedere il film su Andreotti che ha meritatamente vinto il premio della giuria al Festival di Cannes ed ora è in programmazione nelle sale con buon successo di pubblico.

Il regista Sorrentino è bravissimo, usa la macchina da presa mirabilmente, sia quando la tiene fissa sul personaggio sia quando la muove con un ritmo frenetico su oggetti, paesaggi, interni, comprimari, con un gusto di calligrafia e di citazioni colte di livello eccezionale. L'attore protagonista, Servillo, è il migliore di quanti lavorano in Italia e non teme confronti neanche sul mercato internazionale. Comprimari, comparse, luci, impaginazione grafica: tutto da approvare, sicché era giusto quanto hanno scritto i critici da Cannes quando si rallegrarono del rilancio del cinema italiano rappresentato da 'Gomorra' e da 'Il Divo'. Ma, detto tutto questo, il film non mi ha convinto. Nonostante il regista, l'attore e tutto il resto.

Giulio Andreotti è un personaggio problematico, enigmatico, difficilissimo da classificare e da incasellare. Non somiglia a nessun altro. Nella galleria dei politici italiani è un 'unico'.

Avendone scritto più volte nel corso di mezzo secolo credo di aver trovato un solo precedente che possa servire da pietra di paragone: Talleyrand. La tipologia è analoga: gusto del potere, cinismo, cattolicesimo, tradizione, trasgressione, ironia. Certo Talleyrand aveva alle spalle una grande famiglia e la Francia. Visse tra la Rivoluzione dell'Ottantanove, il Terrore, Napoleone, la restaurazione, la monarchia borghese di Filippo d'Orleans.

Andreotti non può vantare nulla di simile. Se si vuole, può rappresentare il Talleyrand dei poveri, ma lo stigma è quello.

Tutto questo per dire che un'interpretazione artistica che voglia mettersi al livello del personaggio non può che essere problematica quanto lo è lui; un'opera aperta che lasci allo spettatore di cavarne una conclusione e un senso.
Ma il film non lascia questo spazio, è schierato dalla prima all'ultima scena. Sostiene una tesi e la porta fino in fondo dalle immagini di presentazione a quelle di coda con l'elenco dei processi, delle condanne, delle assoluzioni, elencate con una oggettività che parla da sola e sottolinea la tesi come per dire: sempre assolto nonostante tutto quello che finora avete visto. Del resto una delle bravure andreottiane, nel film come nella vita, è stata quella di non lasciar tracce, segno di innocenza o indizio grave di colpevolezza?

Può sembrare strano che sia proprio io a criticare il film perché troppo schierato contro. Nel corso di mezzo secolo di giornalismo mi sono infatti trovato più volte alle prese col personaggio Andreotti, con i governi da lui presieduti, con discussioni e polemiche sorte intorno a lui. Di solito sono stato apertamente e duramente critico nei suoi confronti, ma soprattutto ho cercato di decifrarne l'enigma che resisteva. In alcune occasioni non marginali mi è capitato anche di trovarmi su posizioni prossime alle sue. Per esempio quando nel 1972 toccò il culmine la guerra chimica (così fu definita) e vide schierati da una parte Eugenio Cefis alla guida della Montedison e dall'altra Girotti (Eni) e Rovelli. 'L'Espresso' condusse in quegli anni una campagna fortemente polemica nei confronti di Cefis, il libro 'Razza padrona' ne fu una delle tappe. In quella occasione incontrammo come oggettivo alleato Andreotti, allora presidente del Consiglio.

Un'altra vicinanza oggettiva vi fu nei mesi della prigionia di Aldo Moro, sulla linea da tenere verso le Br. E ancora, più tardi, sulla politica antimafia che nei primi anni Novanta Andreotti finalmente adottò dopo un lungo periodo di 'distrazione' o addirittura di collusione gestita dai suoi uomini in Sicilia.

Lui aveva in comune un solo tratto caratteriale con Moro, uno solo ma importante: tutti e due erano 'inclusivi'. Per rinforzare il potere erano pronti a includervi gli avversari o almeno alcuni di essi. Non a caso il primo governo con il Pci dentro la maggioranza fu voluto da Moro ma con Andreotti presidente del Consiglio.

Quando Moro fu rapito, lo stesso giorno in cui quel governo si presentava alle Camere e cominciò il suo calvario che si sarebbe concluso con la morte, il disegno politico del presidente della Dc fu di includere le Brigate rosse nel sistema democratico. Riconoscere il partito armato, salvare la propria vita e dare alla lunga un'altra gamba alla democrazia italiana.

Andreotti era già andato più oltre: non avendo gli scrupoli morali di Moro aveva di fatto incluso nel sistema anche la mafia. Salvo Lima gestì questa situazione ai tempi in cui era la famiglia Badalamenti a comandare a Palermo. La mafia come supporto dello Stato per mantenere l'ordine pubblico. E come serbatoio di voti e di preferenze per la Dc e per la corrente andreottiana. In cambio mano libera sugli appalti, sulla gestione degli enti locali a cominciare da Palermo, da Trapani, da Caltanissetta. Ma quando la mafia decise di entrare nel commercio in grande stile della droga, lì Andreotti cambiò registro. Lima ci rimise la pelle. Claudio Martelli, allora ministro della Giustizia, fu l'intelligente esecutore di quella svolta.

Chi è dunque Andreotti? Un uomo di potere, innamorato del potere. Pessimista sull'Italia e sugli italiani. Governarli è necessario, trasformarli impossibile. Cattolico devoto quanto miscredente se lo si guarda in un'ottica cristiana. Figure come De Gasperi, Moro, Fanfani, Dossetti, Andreatta, Scoppola non avevano niente a che fare col suo modo d'esser cattolico.

C'è un passaggio illuminante nel film, quando lui dice: bisogna saper fare anche il male per arrivare al bene, io lo so fare e anche Dio lo sa.

(05 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La questione cattolica
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2008, 04:59:50 pm
Eugenio Scalfari

La questione cattolica


L'otto per mille sull'Irpef. Sgravi fiscali per attività di commercio. Fondi alle scuole cattoliche e finanziamento dell'insegnamento religioso nelle pubbliche. Per oltre sei miliardi di euro. Come non avviene in nessun altro Paese  Fra le tante questioni che affliggono il nostro paese c'è anche la questione cattolica. In nessun'altra nazione del mondo il cattolicesimo è diventato un problema. Semmai altre religioni sono state all'origine di difficoltà; così la minoranza protestante nella cattolica Irlanda o la minoranza cristiano-maronita nel Libano islamico. Ma una questione cattolica no, in nessun paese occidentale, né in Europa né in Nord America né in America Latina. Soltanto in Italia, che pure viene definita da molti studiosi delle religioni "il giardino del Papa" in quanto sede storica del Vicario di Cristo in terra. Forse proprio per questo esiste in Italia una questione cattolica ignota in altri paesi: è un nostro privilegio ma anche una nostra croce della quale faremmo volentieri a meno.

In tempi di monarchia i re di Francia venivano chiamati 'maestà cristianissima' e i re di Spagna 'maestà cattolica'. Il re d'Italia invece non mai è stato definito sulla base della religione probabilmente perché i papi l'hanno sempre considerato un usurpatore, almeno fino al Concordato del 1929. Ma anche nell'Italia concordataria e repubblicana continua ad esistere una questione cattolica. Esiste per i cattolici e per i laici, per lo Stato italiano e per il Vaticano. Oggi questo problema è diventato più che mai acuto perché mai la Chiesa ha avuto tanto potere, neppure quando la Democrazia cristiana governava. Neppure allora la Chiesa, il Vaticano, la Santa Sede, la Conferenza episcopale italiana hanno avuto il potere che hanno oggi.

Naturalmente questa affermazione va dimostrata ed è quello che ora proverò a fare cominciando con l'aspetto più vistosamente materiale del problema e cioè con i benefici economici che la Chiesa riceve dallo Stato italiano. Nelle successive puntate affronteremo gli altri aspetti di questa complessa questione.

Il nucleo centrale del sostegno finanziario che lo Stato offre alla Chiesa è costituito dal famoso otto per mille prelevato dall'erario sull'imposta personale di tutti i contribuenti e destinato in larga misura al finanziamento delle parrocchie e di altre istituzioni ecclesiastiche secondo criteri decisi dalla Conferenza episcopale cui il gettito di questo prelievo viene versato. Si tratta di oltre un miliardo di euro, una cifra che è in assoluto la più elevata tra quelle destinate da paesi e governi cattolici europei al sostegno dei preti con cura di anime. La Chiesa italiana è infatti la più ricca di tutte le Chiese cattoliche nazionali, al punto di poter effettuare prestiti alle consorelle che versano in difficoltà e a poter stanziare cospicui contributi a fondo perduto per Chiese di paesi africani e asiatici nonché per iniziative missionarie in varie zone del mondo.

Ma il sostegno finanziario non si esaurisce all'otto per mille. Vanno messi in conto una serie di sgravi fiscali in favore di iniziative anche commerciali di enti religiosi, il finanziamento di scuole cattoliche, il finanziamento dell'insegnamento cattolico nelle scuole pubbliche, la manutenzione e il restauro di opere d'arte disseminate nelle chiese italiane e di loro proprietà.

Il complesso di queste provvidenze arriva ad una cifra complessiva che supera i sei miliardi di euro, ma non esaurisce questa complessa materia, come documenta il libro 'La questua' di Curzio Maltese di recentissima pubblicazione.

Non era mai accaduto prima che la Chiesa avesse tanti doni da uno Stato. La prospettiva a breve termine è d'un ulteriore e cospicuo aumento di tali benefici con le conseguenze che ne derivano sul potere complessivo della gerarchia ecclesiastica nel nostro paese

(20 giugno 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La patacca del ministro nella foresta di Sherwood
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:26:53 pm
ECONOMIA

IL COMMENTO

La patacca del ministro nella foresta di Sherwood

di EUGENIO SCALFARI


A LEGGERE i titoli e i testi pubblicati dai giornali sulla Finanziaria di Giulio Tremonti si direbbe che mai prima d'ora si era vista una legge così perfetta ed una politica economica così adatta a soddisfare i bisogni, i desideri, le speranze d'un paese. Nonostante una crisi che sta squassando il mondo intero. Nonostante la pessima eredità lasciata dal precedente governo. Nonostante la fragilità del capitalismo italiano. Nonostante l'inefficienza della pubblica amministrazione. Nonostante la pochezza del sindacalismo. Nonostante i malanni dell'Europa.

La grandezza di Tremonti. La saggezza di Tremonti. La prudenza di Tremonti. La cultura di Tremonti. L'audacia di Tremonti. La forza di Tremonti. Di personaggi come lui ne nasce uno ogni secolo. Nella sala della Maggioranza, quella dove Giovanni Giolitti teneva ai tempi suoi il Consiglio dei ministri, il ministro dell'Economia ha presentato il suo capolavoro con ai fianchi il fior fiore del governo: Brunetta, Scajola, Alfano, Sacconi, Maroni. Alle spalle, appeso al muro, il ritratto di Camillo Benso Conte di Cavour. Berlusconi non c'era, per non offuscare la gloria del pro-dittatore.

A leggere i titoli e i testi dei giornali, necessariamente sintetici, gli aspetti di maggior rilievo del capolavoro tremontiano erano soprattutto quattro: la miracolosa rapidità con la quale il governo era riuscito ad approvare la legge finanziaria (nove minuti e mezzo), la Robin tax, la carta dei poveri, la "deregulation" del mercato del lavoro. Un impasto virtuoso di liberismo e di socialismo. Più governo e più mercato. Concretezza e filosofia. Durezza e dolcezza. Federalismo e autorità. Infine la Chiesa, il suo insegnamento morale, i suoi valori sola speranza d'Europa e della società italiana giardino del Papa. Ne saremo noi degni?

Commentando il capolavoro tremontiano il ministro-ombra Bersani ha detto: ci sono moltissime cose in quella legge ma manca la cosa. Tito Boeri, a proposito della Robin tax, ha scritto ieri che si tratta d'una bufala di eccezionali dimensioni. Il giornale della Confindustria, contraddicendo l'entusiasmo dei suoi proprietari, ha sottolineato in sei pagine di seguito l'impianto classista della manovra e i rischi di addossarne il peso ai ceti più deboli.

Chi ha ragione? Non vorrei passare da un eccesso all'altro. C'è anche del buono nella manovra di Tremonti. Per esempio aver anticipato i decreti d'applicazione della Finanziaria a giugno e la loro conversione in legge entro luglio insieme al documento di programmazione triennale. Di aver asciugato la sessione di bilancio che si concluderà entrò il prossimo ottobre. Questioni di metodo, in buona parte anticipate da Padoa-Schioppa. Di aver puntato sulla liberalizzazione di alcuni servizi locali già predisposta dalla Lanzillotta.

Di aver previsto un programma di contenimento della spesa pubblica intermedia, quella in gran parte destinata all'acquisto di beni necessari al funzionamento della pubblica amministrazione. Mettendo sotto controllo quei capitoli di spesa il predecessore di Tremonti riuscì a bloccare il ritmo di aumento della spesa corrente che nel quinquennio 2001-2006 aveva sperperato due punti e mezzo di Pil.

A parte questi aspetti positivi, il vero senso politico della manovra di Tremonti sta nello smantellamento degli strumenti di contrasto all'evasione. Con un sofisticato meccanismo di anticipi di entrate e posticipi di uscite secondo uno schema di cassa che lo stesso Tremonti aveva già sperimentato nel quinquennio 2001-2006 e infine con varie "una tantum" a cominciare dall'imposta patrimoniale sulle risorse petrolifere.

Ne saranno beneficiari i professionisti e le partite Iva, verranno tassati i servizi pubblici cioè i loro utenti. L'aumento di cinque punti e mezzo dell'Ires sarà inevitabilmente trasferito sui prezzi al consumo. Nessun provvedimento avrà più luogo sui salari e sulle famiglie che non ce la fanno. Lo sgravio dell'Ici ha dissipato 2 miliardi di euro, la carta di povertà testé istituita butterà via un altro mezzo miliardo e questo sarà stato tutto per alleviare i pesi e rilanciare la domanda.

Ma bisogna riconoscere che c'è del genio nel sedurre i "media" con gli specchietti e le collane di vetro come fecero i "conquistadores" sbarcati cinque secoli fa in Messico e in Florida. La carta di povertà è geniale, la Robin tax è geniale: conquistano per giorni le prime pagine dei giornali e i video di tutte le televisioni, si aprono dibattiti sulla personalità di Robin Hood, sulla foresta di Sherwood, un governo guidato dal più ricco degli italiani tasserà i ricchi per dare ai poveri, che cosa si vuole di più? Non è questo il miracolo? Non serve a moltiplicare il consenso e a prolungare il più possibile la luna di miele?

Poi si scoprirà che si è trattato di patacche. Qualcuno l'ha già dimostrato ma non buca il video e neppure le prime pagine. Intanto il governo guadagna un tempo prezioso tanto quanto ne perse il governo Prodi logorato dalle risse interne fra i troppi galletti di quel pollaio.

Decidere decidere decidere. In nove minuti e mezzo se possibile, in due ore, in un giorno. Michele Serra ha scritto: 127 decisioni al giorno, non importa se tutte sbagliate. Ha ragione, oggi è questa la sindrome della gente.

Un presidente emerito della Repubblica di cui ho l'onore di essere buon amico mi ha confidato l'altro giorno tutta la sua amarezza nel constatare che gli italiani sono abbacinati dal decisionismo purché sia. Non tentano nemmeno di esaminarne i contenuti, sono felici di delegare ogni responsabilità ad un'autorità e se quella mostra i muscoli e strappa alcune regole fondamentali che presidiano lo stato di diritto e la democrazia, chi se ne infischia. Purché si decida.

Forse alla prova dei fatti si sveglieranno. Intanto gli intellettuali dibattono se è fascismo oppure no, se è dittatura oppure no, si citano autori, si rievocano Gramsci e Pasolini. Tempo perso e pagine sprecate.

* * *

Si rafforza un luogo comune in questi giorni: bisogna sperare che i provvedimenti adottati si attuino e portino buoni frutti, augurarsi il peggio sarebbe criminale.

Giuro sui miei figli di non essere un criminale e quindi non mi auguro affatto il peggio. Questo mi obbliga ad applaudire una politica basata soltanto sull'immagine e... sotto il vestito niente? Oppure a parlar d'altro per distrarre il pubblico come si usa fare per accalappiar le allodole e friggerle in padella?

Mentre Tremonti mandava in scena il suo capolavoro economico e finanziario, Berlusconi teneva anche lui il palcoscenico da par suo sulla sicurezza e sulla giustizia. Bloccava ogni notizia sulla magistratura inquirente e scriveva al presidente del Senato una lettera che farà storia, assumendosi la diretta responsabilità del congelamento dei processi, giurando naturalmente sui suoi figli la sua innocenza e accusando d'esser sovversivi i giudici che pretendono di giudicarlo.

"Ci riporta di nuovo ad una situazione che speravamo di aver superato" ha detto Veltroni dinanzi all'assemblea dei democratici preannunciando una resistenza ferma e responsabile. Gli organi rappresentativi della magistratura hanno anch'essi reagito con composta fermezza allo stravolgimento dello stato di diritto. Il presidente della Repubblica continua a sottolineare la gravità di questa situazione. La stessa opinione pubblica, ancorché imbambolata dalle televisioni, mostra qualche primo segnale di resistenza: il consenso a Berlusconi che aveva toccato il tetto-record del 58 per cento a metà maggio, quattro giorni fa è sceso di quattro punti al 54 per cento.

Ma appena un anno fa la pubblica opinione avrebbe reagito con ben diversa energia a queste sceneggiate. Il deterioramento dello spirito pubblico ha molte cause: paura del nuovo, aumento degli egoismi, difficoltà di tirare avanti la vita e per i giovani di costruirne una nuova, mediocrità delle classi dirigenti sia di destra sia di sinistra, rifugio nell'antipolitica e nel "gossip" come antidoto alla frustrazione.

La conseguenza è un Paese fermo, ripiegato sui luoghi comuni che deturpano il senso comune. Intanto la linea di successione di questa Repubblica in cerca di un Lord Protettore è già stabilita: sarà Giulio Tremonti dopo il Berlusconi IV. Fini non sarà contento ma Bossi sì: è il nordismo, bellezza, nella sua peggiore declinazione.

(22 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come hanno ridotto noi poveri italiani
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 12:05:03 pm
POLITICA

Come hanno ridotto noi poveri italiani

di EUGENIO SCALFARI



ROMA - Nel 1972 due giornalisti del Washington Post iniziarono un'inchiesta sui comportamenti del presidente degli Stati Uniti d'America, Nixon, e dell'entourage dei suoi più intimi collaboratori, accusati di aver spiato i loro avversari del Partito democratico. L'inchiesta andò avanti per due anni con una serie di articoli sempre più documentati e sempre più aspri nei confronti del Presidente, supportati da documenti e testimonianze spesso coperte da anonimato. La Casa Bianca cercò in tutti i modi di intimidire l'editore (anzi l'editrice) di quel giornale senza riuscirvi. Due anni dopo, nel 1974, Nixon si dimise dalla carica per evitare l'imminente e ormai inevitabile messa in stato d'accusa da parte del Congresso.

Nel 1998, cioè ventiquattro anni dopo la conclusione del "Watergate", scoppiò lo scandalo Lewinsky, subito battezzato "Sexygate". Questa volta il bersaglio fu Bill Clinton, presidente democratico. Il reato non era neppure un reato ma pratiche di sesso orale effettuate ripetutamente nella sala ovale della Casa Bianca. Per mesi e mesi i giornali e le televisioni americane e di tutto il mondo aprirono le loro pagine alle rivelazioni sul sesso orale tra Monica e Bill, i protagonisti furono intervistati decine di volte e così pure Hillary, la moglie del Presidente. La vita privata e le intemperanze sessuali di Clinton furono raccontate nei minimi dettagli. Alla scadenza del mandato il giovane Bush, repubblicano, vinse le elezioni a mani basse.
Nessuno in America propose restrizioni alla libertà di stampa. Casa Bianca e Congresso non vararono alcuna legge che vietasse alcunché alla stampa essendo che, per radicata convinzione degli americani, la vita privata e quella pubblica dei politici sono sempre state sotto il controllo dei "media" senza restrizioni di sorta se non nei casi di diffamatoria e calunniosa non verità.

Poche settimane fa è stato presentato al Festival cinematografico di Cannes il film "Il divo" del regista Sorrentino che si è guadagnato il premio della giuria. Il protagonista è un bravissimo attore italiano che impersona Giulio Andreotti, l'accento complessivo del film è colpevolista anche se non risolve volutamente l'enigma di quell'uomo politico che fu sette volte presidente del Consiglio e fu accusato dai giornali e dai tribunali di ogni genere di nefandezze. Andreotti non ha querelato gli autori del film. Dico di più: Andreotti è stato coinvolto in processi gravissimi, condannato a gravissime pene nei processi di primo grado, poi ridotte o cancellate in appello e definitivamente annullate in Cassazione. Lui non si è mai sottratto ai processi; li ha affrontati e i suoi avvocati l'hanno difeso con tenacia e composta professionalità. Niente a che vedere con il piglio eversivo dell'avvocato Ghedini, difensore di Silvio Berlusconi e redattore delle leggi "ad personam" in favore del suo cliente.

Ricordo qui i casi di Nixon, di Clinton e di Andreotti perché segnano una differenza abissale rispetto al caso Berlusconi. Differenza che riguarda contemporaneamente i protagonisti dei quattro casi, il conformismo della maggior parte della stampa italiana rispetto a quella americana, l'imbambolamento dell'opinione pubblica nostra rispetto alla reattività di quella d'oltreoceano e infine l'incapacità dei parlamentari del centrodestra di distinguere il loro ruolo di membri del potere legislativo dalle insane voglie d'un presidente del Consiglio che si vuole affrancare da ogni controllo istituzionale, giudiziario, politico, mediatico.

* * *
Bisogna tutelare la dignità privata delle persone. Principio sacrosanto. Per tutelarla c'è il codice penale e i previsti reati di calunnia e di diffamazione. Aggravata per mezzo della stampa. Se le pene si ritengono troppo lievi è giusto aggravarle. Se i processi procedono con lentezza si faccia in modo di renderli più veloci. Del resto contro la stampa di solito si procede per "direttissima".

Per proteggere la dignità dei privati (e anche degli uomini pubblici) occorre che la dignità vi sia. Nixon che usa i suoi poteri di presidente per spiare gli avversari politici non ha dignità. Clinton che si rotola sui tappeti della sala ovale con Monica non ha dignità. Berlusconi che traffica con un dirigente della Rai per collocare veline a lui ben note, favorisce quel medesimo dirigente per sue future iniziative private, negozia accordi collusivi tra Rai e Mediaset con dirigenti del servizio pubblico e perfino con un membro dell'Autorità di controllo delle comunicazioni e che infine usa alcuni di questi suoi poteri per convincere membri del Senato ad abbandonare la maggioranza e passare dalla sua parte, non ha dignità.

Ma ne ha ancora di meno quando ritaglia la sua silhouette di imputato in una legge blocca-processi, che intaserà l'intero sistema giudiziario. Nel contempo manda avanti una legge che faccia da scudo alle quattro alte cariche dello Stato. Il tutto con la connivenza dei presidenti delle Camere i quali consentono che vengano inseriti emendamenti inaccettabili e inammissibili in testi di decreto approvati dal presidente della Repubblica.

Giorgio Napolitano ha ben presente il suo ruolo "super partes" anche se le iniziative scriteriate del "premier" rendono sempre più stretto il suo spazio di mediazione. Ma si può star certi che userà i poteri di sua competenza se, nel momento in cui il disegno di legge sull'immunità delle alte cariche dello Stato sarà presentato in Parlamento e calendarizzato, la maggioranza non ritirerà l'emendamento blocca-processi inserito surrettiziamente nel decreto legge sulla sicurezza. Si può star certi che il capo dello Stato rinvierà alle Camere una legge che contenesse quell'emendamento sciagurato, inserito a sua insaputa e non bloccato come sarebbe stato suo stretto dovere dal presidente del Senato. Non già per incostituzionalità, ma per mancanza dei requisiti di urgenza. Della costituzionalità dovrà occuparsi la Corte quando sarà chiamata in causa, sia per la legge sulla sicurezza sia per l'immunità delle alte cariche e per la durata di quel privilegio immunitario.

Un collega cui non manca il talento ma che sta soffrendo (così mi sembra) d'un preoccupante prolasso di moralità deontologica, ha scritto di recente della necessità di concedere a Berlusconi una sorta di salvacondotto giudiziario; solo così, a suo avviso, si potrà risolvere l'anomalia italiana. Naturalmente chi dovrebbe prendersi carico di questa delicata operazione dovrebbe essere l'opposizione che metterebbe così le basi per affermarsi e legittimarsi di fronte alla pubblica opinione.

Favorire le scelleratezze (o le mattane) politiche d'un imputato assurto ai vertici del potere per acquistare credito da una pubblica opinione in larga misura cloroformizzata: è vero che il cinismo è di moda in politica, ma non dovrebbe spadroneggiare anche nei "media". Invece spadroneggia eccome! Questo del salvacondotto è un culmine da primato.

* * *

Lo confesso: ho un debole per la Marcegaglia. È chiara, decisa, dice sì sì, no no. Una capigliatura ondosa. Una femminile virilità. La sua ricetta è meno tasse, meno spese, salari agganciati alla produttività. Il programma di Berlusconi e anche di Tremonti, ma con qualche variante di non piccolo rilievo.

Prima variante: di diminuire le tasse non se ne parlerà fino al 2013. Avevano promesso di portare la pressione fiscale dal 43 al 40 per cento, ma ora che i voti li hanno avuti ci informano che nel 2013 la pressione fiscale sarà del 42,90. È contenta la Marcegaglia? Mi piacerebbe saperlo ma lei di queste cose non parla anche se su questo punto hanno fatto il diavolo a quattro ai tempi di Padoa-Schioppa e di Visco. Loro almeno i soldi li prendevano agli evasori e a Confindustria hanno dato cinque punti in meno di Irap e Ires. Tremonti l'Ires l'ha già riportata al livello originario, cinque punti e mezzo in più. È contenta signora? Lo dica, sì sì, no no, non muore nessuno. Qualcuno veramente ci lascia la pelle per uno straccio di contratto precario o in nero. Non dovreste espellerli da Confindustria quelli che assumono in nero?

Le spese. Tagliare gli sprechi va bene. Continuità con Padoa-Schioppa. L'Ufficio studi della Confindustria l'ha onestamente ricordato: continuità. Ma Tremonti non taglia solo le spese intermedie, taglia tutto. Tremonti è bravo. Ma lei, gentile Emma, constata con molto disappunto che la crescita nel 2008 sarà zero e nel 2009, se va bene, salirà allo 0,6. Andiamo di lusso. Con l'inflazione al 3,6 e per energia e alimentari al 5,5.

Crescita zero. Investimenti sotto zero. Taglio di spese deflatorio. Però due miliardi buttati per l'Ici. Trecento milioni buttati per Alitalia, che stanno per diventare un milione e mezzo se Banca Intesa darà il disco verde. Sommiamo queste cifre e aggiungiamoci l'elemosina dei 500 milioni "una tantum" ai pensionati poveri. Sono già quattro miliardi buttati dalla finestra. Però niente aumento dei salari se non aumenta la produttività.

Ma i suoi industriali, gentile Marcegaglia, loro per la produttività non è che abbiano fatto miracoli. Salvo il costo del lavoro da comprimere. Prodotti nuovi? Non se ne parla. Ricerca? Idem. Intanto crolla la Borsa. Non è colpa sua, signora Emma, né di Tremonti, né di Draghi. Però crolla. Trichet alzerà i tassi mentre la Fed li abbasserà. Chi ha ragione? Forse Draghi dovrebbe esprimersi e forse anche Tremonti e magari anche Confindustria.

Berlusconi è esentato. Lui si occupa di processi con Ghedini, di militari in strada con La Russa e di schedatura dei "rom" con Maroni. Ha ragione quel genio di Altan sull'ultimo numero dell'Espresso: una donnina con le labbra rosse e gli occhi pensierosi dice: "Ho paura ma non so di che cosa". Gli italiani li avete ridotti così.

(29 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Per chi suonano le campane di Bossi
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 06:44:27 pm
POLITICA


IL COMMENTO


Per chi suonano le campane di Bossi

di EUGENIO SCALFARI



ROMA - Io non credo che chi ha sperato nella vittoria del Partito democratico abbia confuso i suoi sogni con la realtà e un paese immaginario con quello esistente. Credo che esistano due paesi reali, due contrapposte visioni della politica e del bene comune come sempre accade in tutti i luoghi dove è assicurata la libera espressione delle idee e la libera formazione di maggioranze che governano e di minoranze che controllano il rispetto della legalità e preparano le alternative future. Molti amici mi hanno chiesto nei giorni scorsi come mai chi si è battuto per la vittoria dei democratici (ed io sono tra questi) non ha percepito che essa era impossibile.

Ma non è vero. Sapevamo e abbiamo detto e scritto che sarebbe stato miracoloso riagguantare nelle urne elettorali un avversario che nel novembre del 2007, quando si è aperta la gara, aveva nei sondaggi un vantaggio di oltre 20 punti e c'erano soltanto quattro mesi di tempo prima del voto. Se l'avverarsi di un'ipotesi viene definita miracolosa ciò significa che le dimensioni dell'ostacolo da superare non sono state sottovalutate ma esattamente pesate per quello che realmente erano. Tuttavia un errore è stato certamente commesso: non è stata avvertita l'onda di piena della Lega.

Non se n'è accorto nessuno, gli stessi dirigenti di quel movimento ne sono rimasti felicemente stupiti. Fino alle ore 16 del lunedì elettorale la Lega veniva data nei sondaggi attorno al 6 per cento. Nessuno le attribuiva di più e i leghisti sarebbero stati soddisfatti di quel risultato. Stavano marciando verso il 9 per cento su scala nazionale con punte fino al 30 nel lombardo-veneto e successi consistenti in tutta la Padania anche sulla riva destra del Po, e non lo sapevano.

Se si confrontano i risultati elettorali tra il partito di Veltroni e quello guidato da Berlusconi e Fini, la differenza è più o meno di 4 punti, tra il novembre e l'aprile il recupero è stato dunque di 16 punti percentuali.

La vittoria della Lega in quelle dimensioni è stata la sorpresa e qui va approfondita l'indagine, scoperte le cause dell'errore e la natura profonda di ciò che è avvenuto senza trascurare la Lega siciliana di Lombardo e del suo alleato Cuffaro, che anch'essa merita la massima attenzione.

* * *

Si dice sempre più frequentemente che i termini di Sinistra e Destra non esprimono più la natura politica della realtà. Probabilmente è vero e non da poco tempo. Il crollo delle ideologie ha accelerato la rivelazione di un fenomeno già presente da anni.
Del resto quelle due parole sono nate e sono entrate nell'uso comune nel corso dell'Ottocento. All'epoca della Rivoluzione dell'Ottantanove non si parlava di Destra e di Sinistra, si parlava di monarchici e repubblicani e poi di montagnardi e di girondini, in Inghilterra di conservatori e di liberali. Al tempo d'oggi in una società come la nostra si può correttamente parlare di riformisti che puntano sulla modernizzazione del paese, dell'economia e dello Stato, ai quali si contrappongono coloro che vogliono recuperare l'identità e la sicurezza. In un certo senso sono anch'essi riformisti. Per realizzare modernità e innovazione ci vogliono profonde riforme, ma anche per recuperare sicurezza identitaria ce ne vogliono. Riforme in un senso, riforme in un altro. Due contrapposte visioni di Paese e di ruoli.

E' fin troppo ovvio dire che nell'una e nell'altra di queste visioni esistono elementi della visione opposta. E' diverso il dosaggio e questo fa una differenza non da poco che si estende ben oltre la politica, determina diversità di costume, di stili di vita, di impegno del tempo libero, di letture, di sentimenti, di scelte.
C'è infatti un altro elemento che entra in questo complesso incastro di messaggi e di dosaggi ed è un elemento tipicamente culturale. Si può definire come rapporto tra il tempo e la felicità.

Le generazioni più giovani sono state schiacciate sul tempo presente, la memoria del passato interessa loro poco o nulla, non sembrano disposte a condividere quel tanto di felicità attuale con le generazioni che le seguiranno. Questo rapporto tra felicità e tempo è un fenomeno relativamente recente e ha prodotto una serie di effetti non sempre positivi. Per esempio lo scarso tasso di nuove nascite e la richiesta sempre più pressante di protezione sociale ed economica. Un altro effetto lo si vede nel localismo degli insediamenti più produttivi e più ricchi: contrariamente a quanto finora era accaduto sono proprio le comunità più agiate ad aver perso di vista i cosiddetti interessi nazionali dando invece schiacciante prevalenza a quelli del territorio dove essi risiedono. Si tratta di un aspetto essenziale per capire la vittoria leghista di così ampie dimensioni. La Pianura Padana è un pezzo dell'Europa agiata; l'Italia peninsulare comincia a sud-est delle Alpi Marittime e a sud dell'Appennino Tosco-Emiliano, all'incirca seguendo la vecchia linea gotica d'infausta memoria.

Questo luogo sociale e politico considera, da trent'anni in qua, l'Italia peninsulare come un fardello da portare sulle spalle senza ricavarne alcun vantaggio. Perciò è ormai convinta della necessità di un federalismo fiscale che si riassume così: il peso delle tasse deve diminuire per tutti e almeno i due terzi del gettito dovrà rimanere sul territorio dove viene generato.
L'altro terzo andrà allo Stato centrale per i suoi bisogni primari cioè per il funzionamento dei servizi pubblici indivisibili.

Da questa concezione l'idea di una redistribuzione del reddito con criteri sociali e geografici è del tutto assente. Lo slogan per definire lo spirito di questa filosofia potrebbe essere "chi fa da sé fa per tre". Ognuno pensi ai suoi poveri, ai suoi bambini, alle sue famiglie, ai suoi artigiani, alle sue partite Iva. E vedrete che anche i "terroni" si troveranno meglio di adesso.

* * *

In un mondo globale questa visione significa costruire compartimenti stagni che separano le comunità locali dall'insieme. Significa dare vita ad un Paese non più soltanto duale (il Nord e il Sud) ma con velocità plurime e con dislivelli crescenti all'interno stesso dei distretti più produttivi e più agiati e con contraddizioni mai viste prima.

Ne cito alcune. Le imposte pagate da imprese delle dimensioni di una Fiat, di una Telecom, di un Enel, di un Eni, di una Finmeccanica così come le grandi banche o le grandi compagnie d'assicurazione presenti in tutto il Paese, dove saranno incassate e da chi? Si scorporerà il loro reddito stabilimento per stabilimento, il valore del gas e del petrolio importati e altre grandezze economiche difficilmente divisibili sul territorio? Oppure per dare attuazione a questo tipo di federalismo fiscale si prenderà in considerazione la natura delle varie imposte e tasse? L'Iva resterà nei luoghi dove viene pagata? E le imposte sui consumi? E quelle sui redditi personali o aziendali? Un ginepraio. E' possibile che la creatività di Giulio Tremonti ne venga a capo, ma non sarà certo una facile impresa.
Segnalo tuttavia una contraddizione difficilmente risolvibile. La maggioranza relativa dei pensionati vive nelle regioni del Nord; in esse infatti c'è stato e c'è maggior lavoro e quindi maggiori pensioni. Nel Nord vive anche gran parte dei possessori di titoli pubblici.
L'erogazione delle pensioni e il pagamento delle cedole sui titoli di Stato costituiscono una fonte imponente di uscite dalle casse dello Stato verso le regioni del Settentrione.

Come verrà valutato in un'Italia a compartimenti stagni questo flusso imponente di spesa pubblica?
La verità è che l'idea di trattenere due terzi delle entrate sui territori locali è pura demagogia inapplicabile in quelle proporzioni. Ma intanto la gente ci crede così come crede anche che la sicurezza pubblica sarà migliorata se una parte dei poteri che oggi incombono all'autorità centrale sarà attribuita ai sindaci e ai vigili urbani.

* * *

Qui viene a proposito meditare sulla Sicilia autonomista di Lombardo e Cuffaro.
Si tratta di province potenzialmente ricche ma attualmente povere. Province deturpate da secoli di lontananza dal mercato e dalla presenza del racket, di poteri criminali, di traffici illegali e mafiosi.
Oggi è in atto, per merito di industriali e commercianti coraggiosi, una nuova forma di lotta contro il racket che ha già avuto le sue vittime e i suoi morti. La politica centrale e soprattutto quella locale avrebbero dovuto precedere o quantomeno affiancare questa battaglia ma non pare che ciò sia avvenuto, anzi sembra esattamente il contrario per quanto riguarda i poteri locali, molti dei quali infiltrati da illegalità e mafioseria.

Tra le istituzioni e la criminalità organizzata esiste da tempo e si allarga sempre più un'ampia zona grigia, un impasto di indifferenza, contiguità, tolleranza, collusione. Il confine tra la zona grigia e i mercati illegali non è affatto blindato anzi è largamente permeabile. Si svolge un continuo andirivieni da quelle parti, gente che va e gente che viene. Si attenuano le asprezze dell'ordine pubblico in proporzione diretta all'andirivieni sul confine tra zona grigia e poteri criminali. Più il potere criminale riesce a legalizzare i suoi membri, i loro figli, i loro nipoti, più diminuisce la crudeltà della lupara. Ricordate il Padrino? La dinamica è quella.

Ma torniamo alla Sicilia di Lombardo. Aumenteranno le richieste di denaro pubblico e di autonomia locale della loro gestione. Non dimentichiamo che i padri dei Lombardo e dei Cuffaro volevano il separatismo, così come il Bossi di vent'anni fa voleva la secessione. Adesso sia gli uni che gli altri hanno capito che una forte autonomia abbinata a un altrettanto forte separatismo fiscale configurano una secessione dolce e duratura.

I due separatismi del Nord e del Sud hanno come obiettivo primario le casse dello Stato e come conseguenza la competizione tra loro a chi riuscirà meglio nell'impresa.

E' infine evidente che per fronteggiare una situazione di questo genere i poteri di quanto resta dell'autorità centrale dovranno essere rafforzati da robuste dosi di autoritarismo per tenere insieme le forze centrifughe operanti in tutto il sistema.

* * *

Questo quadro è qui descritto al nero ma può anche essere raccontato in rosa anzi in azzurro: un'autorità centrale forte ma democratica, un'articolazione regionale rappresentata dal Senato federale non diversamente da quanto accade nel sistema tedesco.
Ma sta di fatto che la Germania dispone di elementi centripeti molto robusti mentre in Italia la centrifugazione localistica è una costante secolare, anzi millenaria.

Quella che un tempo si chiamava sinistra trovava la sua identità nell'ideologia della classe. Ma la classe ormai non c'è più e perciò la sinistra è affondata. E' curioso che per spiegare la sparizione della sinistra dal Parlamento del 2008 si cerchino motivazioni di carattere elettorale.

Eppure, specie da parte di chi ancora pensa marxista, la spiegazione è evidente: quando una certa struttura delle forze produttive viene meno, l'effetto inevitabile è che scompaia anche la sovrastruttura che quelle forze avevano prodotto e configurato. Questi fenomeni erano già presenti da anni nella società italiana; i nodi sono arrivati al pettine in questa campagna elettorale.
Il popolo sovrano che si è manifestato nelle urne elettorali del 14 aprile è, con una maggioranza di oltre tre milioni di voti, più localistico che nazionale, vive più il presente che il futuro, è più identitario che innovatore e più protezionista che liberale. Questi sono dati di fatto con i quali è difficile anzi inutile polemizzare. Il Partito democratico ha conservato per fortuna la memoria del passato ma ha cambiato posizione e linguaggio diventando la maggiore forza politica a sostegno dell'innovazione e della modernizzazione delle istituzioni e della società.
Per spostare su questa strada le scelte future del popolo sovrano ci vorrà però uno sforzo senza risparmio soprattutto in due settori: la presenza sul territorio e una progettazione culturale che capovolga quella esistente. Soprattutto nel rapporto tra il tempo e la felicità, che deve includere anche gli esclusi e i nipoti. Non è compito da poco, significa recuperare nello stesso tempo il valore del passato e la creatività del futuro. Perciò basta con le condoglianze e buon lavoro per la democrazia italiana.

(20 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nel giardino del papa / 2
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 09:24:42 am
Eugenio Scalfari

Nel giardino del papa / 2


I frutti e i fiori religiosi sbocciati in quest'arco di anni sono stati pochissimi, stentati, spesso bacati e intirizziti. Qualitativamente modesti, quantitativamente insignificanti  Ho scritto due settimane fa su questa pagina un articolo dal titolo 'La questione cattolica' al quale faccio seguito oggi. L'argomento è infatti di tali dimensioni da richiedere più di una puntata; su di esso del resto sono state scritte intere biblioteche e io stesso me ne sono occupato numerose volte.

Ora però voglio trattare il tema da un punto di vista poco frequentato e cioè: fino a che punto la presenza a Roma e in Italia della sede pontificia ha giovato alla religiosità dei cattolici italiani e al loro deposito di fede, di carità e di morale.

L'Italia e Roma sono considerate 'il giardino del papa', per dire un territorio da lui stesso coltivato e a lui in modo speciale dedicato. Nessun altro paese gode di questo privilegio che l'Italia tuttavia ha pagato ad un prezzo molto alto se consideriamo la questione dall'angolo visuale dello Stato italiano, della sua laicità e della sua democraticità. Se tuttavia nel giardino del papa la religiosità fosse lussureggiante, i valori di solidarietà rigogliosi, l'egoismo contenuto, il consumismo limitato alla fisiologia e non debordante in patologia, il senso di responsabilità radicato e l'adempimento dei doveri morali e sociali ampiamente diffuso, il prezzo storico pagato dallo Stato italiano risulterebbe ampiamente compensato dai vantaggi ricevuti dalla società.

È questo ciò che è avvenuto? Il giardino del papa ha fatto fiorire anche un giardino degli italiani e della società in cui vivono?

Non risalirò al passato remoto. Sarebbe facile ricordare che lo Stato Pontificio, cioè il potere temporale dei papi, fu elemento costante di divisione, ostacolo ad ogni ipotesi di unità italiana, fonte di guerre e - al proprio interno - esempio di potere assoluto sui sudditi, tenuti in condizioni di ignoranza e di soggezione da parte della nobiltà papalina e della gendarmeria vaticana. Ma questa è acqua passata. Occupiamoci soltanto del presente e del passato prossimo, occupiamoci cioè dell'episcopato italiano e del suo ruolo di magistero nei diciassette anni durante i quali è stato guidato dal cardinale Camillo Ruini, uscito di scena appena pochi giorni fa.


Ebbene, i frutti ed i fiori religiosi sbocciati in quest'arco di anni nel giardino del papa sono stati pochissimi, stentati, spesso bacati e intirizziti. Qualitativamente modesti, quantitativamente insignificanti.

I cattolici praticanti, nel senso della frequentazione della chiesa e dei sacramenti, ammontano a circa il 30 per cento, ma i cattolici di fervida fede non arrivano al 10 che si riduce al 7 al di sopra dei quindici anni di età.

Del resto la situazione non è migliore per quanto riguarda i laici. Il pensiero laico intensamente vissuto nei suoi valori di tolleranza, liberalismo democratico, responsabilità verso la società e verso le leggi dello Stato, rappresenta anch'esso tra il 5 e il 7 per cento della società. Come qualificare dunque la larghissima maggioranza dei cittadini di questo Paese, indipendentemente dal fatto d'aver ricevuto il battesimo e dalla maggiore o minore frequentazione della messa e dei riti sacramentali?

L'aggettivo più appropriato è indifferenti. Indifferenza religiosa. Indifferenza morale. Indifferenza civica.

L'indifferenza non preclude l'improvviso accendersi di fiammate d'entusiasmo, di passionalità e di avversioni. Anzi lo favorisce. Una coscienza dominata dall'indifferenza, priva di valori radicati, somiglia ad una vasta prateria priva di alberi, spazzata dai venti o schiacciata da una calma piatta e senza ombra. Un'intensa religiosità potrebbe essere - ed è stata ed è ancora in molti paesi - un elemento importante di coesione civica oltre che religiosa, ma la religiosità degli italiani non ha queste caratteristiche né l'episcopato ha fatto nulla per innestarle sull'indifferentismo ereditato da un lungo passato.

Semmai, nell'ultimo ventennio, questa situazione di arida precarietà è decisamente peggiorata. Basta guardare alla qualità culturale e religiosa dei vescovi per averne la prova. Dall'immediato dopoguerra fino al Vaticano II ci sono state figure eminenti nell'episcopato italiano, l'ultima delle quali è stata quella del cardinale Martini. Dopo di lui la qualità media dei vescovi italiani è stata di modesto spessore pastorale e intellettuale e di modestissima indipendenza. Ruini che li ha lungamente rappresentati appartiene del resto più alla categoria del politico-politicante che non a quella del pastore. Lui stesso l'ha ammesso nella sua omelia di addio di pochi giorni fa.

Nel giardino del papa la religiosità è dunque rappresentata da rovi e cespugli secchi. La politica invece signoreggia rigogliosamente. Torneremo ancora su quest'aspetto della questione cattolica.
(04 luglio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'autunno sarà nero... Ma Tremonti ci salverà
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2008, 09:40:57 pm
POLITICA

L'autunno sarà nero Ma Tremonti ci salverà

di EUGENIO SCALFARI


Non voglio eludere i problemi della giustizia e del come il presidente del Consiglio li ha dapprima aggravati, poi improvvisamente risolti aggravandoli di nuovo, col pieno e incondizionato consenso dei suoi ministri e ministre e in particolare del giovane Guardasigilli ridotto ad uno scendiletto del Sultano. Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera" di ieri ha usato la parola "sultanato" per definire la situazione attuale dello Stato italiano. È un moderato che scrive quella parola sulla quale dovrebbero riflettere soprattutto gli altri eminenti colleghi di quel giornale.

Non voglio eludere questi problemi, ma li toccherò alla fine perché non sono quelli che occupano e preoccupano le famiglie italiane. Perciò sarà lo stato dell'economia il numero uno della mia agenda domenicale: l'aumento del tasso d'interesse deciso giovedì dalla Banca centrale europea, le reazioni che l'hanno accompagnata, la clamorosa scoperta del pro-dittatore Giulio Tremonti che ha indicato all'Europa la vera peste da estirpare per ritrovare equilibrio e stabilità e le nubi sempre più minacciose che preannunciano uno dei più neri autunni dell'economia mondiale.

La Bce (con voto unanime del suo direttorio allargato) ha aumentato dello 0,25 il tasso centrale di riferimento che è salito così a 4,25, due punti e un quarto più alto del tasso vigente in Usa. È possibile, anzi probabile che questo delta tra le due monete più importanti del mondo aumenti nel prossimo futuro poiché la Federal Reserve sembra intenzionata a diminuire il suo già bassissimo 2 per cento.

Nel momento stesso in cui la Bce stringeva la sua politica monetaria, il suo presidente si premurava di far sapere al mercato che la stretta si sarebbe per ora limitata a quello 0,25. Altri inasprimenti non erano previsti.

Questo modo di procedere è francamente incomprensibile. Non se ne comprendono le ragioni né la Bce ha fornito uno straccio di spiegazione. Egualmente abbottonati sono stati i commissari europei e il loro presidente Barroso, nonché i governatori delle Banche centrali nazionali, federate nella Bce, nel nostro caso Draghi. Tutti hanno affermato che la decisione della Bce era un atto necessario per stabilizzare l'inflazione, ma tutti hanno all'unisono ricordato che la predetta inflazione proviene dall'estero e quindi è fuori dal controllo europeo.

A sentire questi ragionamenti viene in mente la Nave dei folli. L'inflazione viene da fuori Europa. Quindi è fuori dal controllo della Bce. Il problema dell'Europa è la mancata crescita. Un altro problema dell'Europa è l'eccessivo apprezzamento dell'euro rispetto al dollaro. Tuttavia era necessaria la stretta della Bce che, per unanime riconoscimento, non scalfirà l'inflazione e darà uno spunto ulteriore all'apprezzamento dell'euro. Nave dei folli, puramente e semplicemente.

Aggiungo che la debolezza del dollaro è una delle cause non secondarie dell'aumento di prezzo del petrolio e delle materie prime: i produttori, pagati in dollari, aumentano i prezzi in moneta svalutata; i risparmiatori dal canto loro fuggono dal dollaro e investono in titoli petroliferi e in "commodities".

È possibile che la sola vera motivazione della dissennata decisione della Banca di Francoforte sia quella di rafforzare la sua indipendenza dai governi europei. Dunque una motivazione di pura immagine. Se questo fosse il movente una decisione scriteriata sarebbe stata presa per sole ragioni d'immagine. Noi italiani non siamo nuovi, purtroppo, a politiche determinate da questioni d'immagine ma speravamo che in Europa le cose andassero diversamente. Un'altra disillusione tra tante.

* * *

Per fortuna il nocciolo della questione l'ha intuito Tremonti. Ha detto che l'aumento di prezzo del petrolio e delle derrate di base non proviene da una carenza di offerta né da un eccesso di domanda ma dalla speculazione. Bisogna dunque tagliare le unghie agli speculatori e lui ha scoperto il modo per farlo: utilizzare l'articolo 81 del Trattato istitutivo della Comunità europea il quale prevede che la Comunità possa usare strumenti appropriati per stroncare manovre speculative se fosse provato che alcuni operatori colludono tra di loro per manipolare il mercato.

Tremonti, con ammirevole rapidità, invierà nelle prossime quarantott'ore una proposta all'Ecofin e alla Commissione europea per applicare alla speculazione internazionale l'articolo 81 del Trattato.

Le autorità europee hanno giudicato interessante la proposta di Tremonti anche se di non facile attuazione. La gran parte dei "media" italiani ha applaudito all'inventiva tremontiana così apprezzata nel mondo intero. Il nostro pro-dittatore dell'economia ha incassato per quarantott'ore le prime pagine dei giornali e delle Tv. Un risultato di immagine perché altro non accadrà né può accadere.

Altro non può accadere per le seguenti ragioni:

1. Non è affatto sicuro che la speculazione sia la vera causa dell'aumento dei prezzi e quindi dell'inflazione.

2. Quand'anche, non è affatto sicuro che gli speculatori siano collusi tra di loro per manipolare il mercato.

3. Quand'anche, raggiungere la prova della suddetta collusione sarebbe difficilissimo.

4. Quand'anche, l'Europa non possiede nessuno strumento per stroncare un'eventuale manipolazione del mercato che si svolge su piazze non europee. Bisognerebbe nientemeno impedire acquisti di titoli "derivati" e "futuri" che sono negoziati in dollari su piazze americane, soprattutto a Chicago e a New York. Il governo Usa ha già manifestato la propria contrarietà a intervenire su quei mercati. Di lì dunque non si passa.

Tremonti naturalmente queste cose le sa benissimo. Perde tempo. Non caverà nessun ragno da nessun buco. Gli serve per consolidare la sua immagine in un circuito mediatico dominato dal conformismo e per distrarre l'opinione pubblico con lo spauracchio d'un nemico esterno che non c'è. Un untore che non esiste, indicato come autore della peste speculativa. L'ha scritto ieri Giavazzi e, una volta tanto, sono completamente d'accordo con lui.

***

Le tante buone cose con le quali, dopo il pessimo governo economico di Prodi-Padoa Schioppa-Visco, il governo Berlusconi-Tremonti sta risollevando l'economia italiana.

a) Una finanziaria snella, un bilancio redatto per "missioni", il taglio delle spese correnti intermedie. Tutte queste cose erano state preparate e inserite da Padoa-Schioppa nella Finanziaria 2009. L'ha ricordato la settimana scorsa l'Ufficio Studi di Confindustria che ha lodato la continuità Padoa-Tremonti. Ma nessuno ha ripreso questa non trascurabile annotazione e Tremonti meno che mai.

b) Il taglio dell'Ici ha una copertura di 2.600 milioni di euro, ma gli uffici della Camera e del Senato hanno scoperto che quel provvedimento costerà molto di più. I tecnici del Senato hanno quantificato il costo del provvedimento in 3,7 miliardi, il relatore della Commissione bilancio, Gilberto Pichetto del Pdl, è arrivato a 3,5 miliardi, 900 milioni in più della copertura esistente. Dunque il Tesoro ha spedito in Parlamento un provvedimento "scoperto" per il 35-40 per cento. Incoscienza, incapacità o abilità truffaldina? Tanto, almeno in prima battuta, il taglio dell'imposta grava sui Comuni. Peggio per loro.

c) Molti commentatori hanno notato che - contrariamente a quanto affermato in campagna elettorale - le tasse non diminuiranno affatto, fino al 2013 la pressione fiscale resterà esattamente quella attuale. In compenso una serie di segnali fa prevedere che una parte di questo peso graverà ancora di più sul lavoro dipendente e un po' meno sul lavoro autonomo, sulle partite Iva e sui professionisti.

d) Per rilanciare la crescita bisognerebbe detassare i salari e le pensioni, sostenere i giovani e gli incapienti. Il Partito democratico pensa di mobilitare i suoi aderenti su questi obiettivi, ma il governo risorse non ne ha e nemmeno le cerca.

e) Le cerca però per tenere in vita Alitalia dopo averne impedito la vendita all'Air France nel marzo 2007. Il piano allo studio di Banca Intesa prevede una "nuova Alitalia" senza debiti né esuberi di personale, da cedere a investitori privati, e una "vecchia Alitalia" a carico dello Stato con dentro tutti i debiti e tutte le spese per ammortizzare le migliaia di lavoratori che saranno licenziati. Il costo di queste operazioni non sarà inferiore ai 3 miliardi. Quanto alla "nuova Alitalia", sarà con ogni probabilità una piccola compagnia italiana per rotte prevalentemente italiane. Naturalmente di bandiera.

f) Infine gli oneri sul bilancio dello Stato derivanti dall'aumento del tasso di interesse europeo. Sul "Sole 24 ore" di ieri l'aggravio viene stimato in 10 miliardi, da spalmare sui prossimi cinque anni, tenendo presente che il peso maggiore graverà su quest'anno e sul prossimo perché c'è una massa di Bot e Cct in scadenza, contrattati a tassi di poco superiori al 2 per cento. Solo per il 2008 l'aggravio per il Tesoro è previsto in 2,5 miliardi di euro.

Questa purtroppo è la situazione. Aumento di salari? È l'ultima delle cose che occupa Tremonti. Lui pensa ad altro. Fuffa probabilmente. Oppure al suo libro-vangelo che dice tutto e il contrario di tutto.

* * *

Berlusconi e la giustizia. Il lodo Alfano va avanti. La maggior parte dei costituzionalisti italiani ritiene che ci siano motivi di incostituzionalità, ma questo riguarderà eventualmente la Corte. Sta di fatto che l'immunità riguarda in tutta Europa soltanto la Regina di Inghilterra, il Re di Spagna e il Presidente francese. Nessun capo di governo. Dico nessuno.
L'emendamento blocca-processi è "irragionevole" come recita il parere del Csm e come sostiene tutta la dottrina giurisprudenziale italiana. Intaserà irrimediabilmente il sistema. Ma il servitorello che guarda i sigilli ha già detto che non verrà tolto. Quindi il famoso dialogo con l'opposizione non riprenderà.
Ma dialogo su che cosa? La sola questione ancora in piedi riguarda la legge elettorale che però è un tema di là da venire. Altro non c'è per la semplice ragione che quel che c'era il Sultano l'ha già risolto per conto proprio in privata solitudine.

Sarà dunque una legislatura di battaglia. Il collega di talento cui ho fatto cenno la scorsa settimana proponeva che l'opposizione rilasciasse al "premier" un salvacondotto giudiziario. Mi parve un'idea bizzarra e anche bislacca e l'ho scritto. Ma ora anche questa questione è stata risolta: il nostro presidente del Consiglio il salvacondotto se l'è firmato da solo. Non ha bisogno di aiuti. La sola persona che ancora lo impensierisce un po' è la moglie Veronica ma per ora su quel fronte non ci sono novità.

Il resto spetta agli italiani di buona volontà. Perciò diamoci da fare.



(6 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un disegno perverso e autoritario
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 12:21:52 pm
POLITICA IL COMMENTO

Un disegno perverso e autoritario

di EUGENIO SCALFARI


E' NECESSARIO parlare di giustizia, della legge Ghedini-Alfano in via di velocissima approvazione, dell'emendamento blocca-processi e del suo auspicato smantellamento, del divieto ai giornali di riferire notizie sulla fase inquirente delle inchieste giudiziarie. È necessario ribadire con forza, come ha fatto Ezio Mauro nel suo articolo di venerdì, la vergogna d'una strategia dominata dall'ossessione del "premier" di evitare a tutti i costi e con tutti i mezzi la celebrazione di un processo a suo carico per un reato assai grave (corruzione di magistrati) che non rientra nelle sue funzioni ministeriali; un reato infamante di diritto comune sottratto all'accertamento giurisdizionale con un grave "vulnus" dell'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.

Tutto ciò è necessario e bene ha fatto il Partito Democratico ad opporsi con fermezza al complesso di questi atti legislativi, inaccettabili sia nel merito sia nelle procedure e nella tempistica che li hanno caratterizzati. Ma c'è un aspetto della situazione ancora più grave perché va al di là del caso specifico della denegata giustizia riguardante Silvio Berlusconi. E riguarda il mutamento in corso della Costituzione materiale.

Si sta infatti verificando dopo appena due mesi dall'insediamento del governo un massiccio spostamento di potere verso la figura del "premier" e del governo da lui guidato, un'intimidazione crescente nei confronti della magistratura inquirente e giudicante, una vera e propria confisca del controllo parlamentare di cui gli attori principali sono gli stessi presidenti delle due assemblee e la maggioranza parlamentare nel suo complesso. Non si era mai visto nei sessant'anni di storia repubblicana un Parlamento così prono di fronte al potere esecutivo che dovrebbe essere sottoposto al suo controllo.

Le Camere si sono di fatto trasformate in anticamere del governo, i loro presidenti hanno accettato senza fiatare che decreti firmati dal capo dello Stato per ragioni di urgenza fossero manomessi da emendamenti indecenti e non pertinenti, disegni di legge dei quali il capo dello Stato aveva rifiutato la decretazione per evidente mancanza dei presupposti di urgenza sono stati votati in quarantott'ore invertendo l'ordine dei lavori e l'intera agenda parlamentare.

Lo ripeto: qui non emerge soltanto l'ossessione dell'imputato Berlusconi, emerge un mutamento profondo ed estremamente pericoloso della Costituzione materiale della Repubblica, che avvia la democrazia italiana verso forme autoritarie, affievolisce l'indipendenza e lo spazio operativo dei contropoteri, mette in gioco gli istituti di garanzia a cominciare da quello essenziale della Presidenza della Repubblica.

Siamo entrati in una fase politica dominata dall'urgenza, qualche volta reale ma assai più spesso inventata e suscitata artificialmente. L'urgenza diventa emergenza, l'emergenza diventa eccezionalità. Il governo opera come se ci trovassimo in condizioni di stato d'assedio o in presenza di enormi calamità naturali; i decreti si susseguono; i testi dei provvedimenti finanziari sono approvati in nove minuti senza che nessuno dei componenti del governo ne abbia preso visione; la velocità diventa un valore in sé indipendentemente dal merito; la schedatura dei "rom" e dei loro bambini deve essere eseguita a passo di carica; tremila militari debbono affiancare trecentomila poliziotti e carabinieri per dare ai cittadini la sensazione di una minaccia incombente ed enorme e al tempo stesso la rassicurazione dell'intervento dell'Esercito per dominarla.

Questo sta avvenendo sotto gli occhi d'una pubblica opinione sbalordita, ricattata da paure inconcrete e invelenita dall'antipolitica dilagante che provvede ad infiacchirne la responsabilità sociale e il sentimento morale.

* * *

È pur vero che nell'era globale gli enti depositari a vari livelli di poteri sovrani debbono poter decidere con appropriata rapidità. La rapidità è diventata addirittura uno dei requisiti di merito delle decisioni poiché la lentocrazia non si addice alla dimensione globale dei problemi. A livello locale, nazionale, continentale, imperiale, la rapidità rappresenta un valore in sé che comporta un'autorità centralizzata ed efficiente. Il paradigma più calzante di questa forma post-moderna di democrazia presidenziale è fornito dagli Stati Uniti, dove il Presidente, direttamente eletto, fruisce di strumenti di alta sovranità e d'un apparato amministrativo che a lui direttamente si rapporta. La democrazia presidenziale cesserebbe tuttavia di esser tale se non fosse collocata in uno stato di diritto fondato sull'esistenza di poteri plurimi reciprocamente bilanciati. Il primo di tali poteri bilanciati è l'autonomia degli Stati dell'Unione, che delimita territorialmente la competenza federale.

Il secondo è il Congresso e in particolare il Senato dove il legame elettorale dei senatori con i cittadini dello Stato in cui sono stati eletti è nettamente superiore al legame verso il partito di appartenenza: partiti liquidi che hanno piuttosto le sembianze di comitati elettorali finalizzati alla selezione dei candidati piuttosto che alla custodia di ideologie e discipline partitocratiche. In queste condizioni i membri del Congresso e le sue potenti commissioni rappresentano un "countervailing power" di particolare efficacia sia nell'ambito finanziario sia nella nomina di tutti i dirigenti dell'amministrazione federale sia nei poteri d'inchiesta e di controllo che non sono affievoliti dalla labile appartenenza ai partiti.

Il terzo potere risiede nella Suprema Corte che agisce sulla base dei ricorsi intervenendo sulla giurisdizione e sulla costituzionalità.

Il quarto potere è quello della libera stampa, nella quale nessun altro potere ha mai chiesto restrizioni e vincoli speciali a tutela di istituzioni e di pubbliche personalità. Giornali e giornalisti incorrono, come tutti, nei reati contemplati dalle leggi ma non esiste alcun limite alla stampa di pubblicare notizie su qualunque argomento e qualunque persona, tanto più se si tratti di personaggi pubblici, della loro attività pubblica e dei loro comportamenti privati e privatissimi.

Questo è nelle sue grandi linee il quadro complesso della democrazia presidenziale, ulteriormente arricchito dalla pluralità delle Chiese e dalla libertà religiosa che ne consegue. Non si tratta certo d'un modello statico né di un modello privo di storture, di vizi, di grandi e grandissime magagne; tanto meno di una società ideale da imitare in tutto e per tutto. Ma configura un punto di riferimento importante nell'evoluzione di un centralismo democratico nell'ambito dello Stato di diritto e della separazione bilanciata dei poteri e dei contropoteri. Nulla di simile alla nuova Costituzione materiale verso la quale si sta involvendo la situazione italiana.

* * *

Sbaglierebbe di grosso chi ritenesse che l'involuzione del nostro sistema verso istituzioni di democrazia deformata risparmi l'economia. In realtà essa è la più esposta alle intemperie dell'interventismo pubblico e delle cosiddette politiche creative e immaginose delle quali abbiamo già fatto tristissima esperienza nel quinquennio tremontiano 2001-2006. Quelle politiche sono ritornate all'opera in un quadro internazionale ancor più complesso e preoccupante.

L'esempio che desta maggior allarme è fornito dal caso Alitalia del quale abbiamo più volte parlato e che ora sembra delinearsi in tutta la sua gravità. A quanto risulta dalle più attendibili indiscrezioni fatte filtrare direttamente dall'"advisor" Banca Intesa, si procede verso la formazione di una "nuova Alitalia" che potrebbe utilizzare l'80 per cento delle rotte di volo sul territorio nazionale e del personale di volo e di terra necessario all'esercizio di questa attività. La proprietà della nuova compagnia sarebbe interamente privata e nazionale. Essa non avrebbe più alcun debito poiché debiti, perdite, esuberi di personale sarebbero interamente trasferiti ad una "bad company" o "vecchia Alitalia" che dir si voglia, di proprietà pubblica, avviata alla liquidazione con tutti gli oneri conseguenti.

In uno schema di questo genere il maggior beneficiario è rappresentato dai proprietari di Air One, società sostanzialmente fallita che scaricherebbe i suoi debiti e le sue perdite nella "bad company" e percepirebbe quote azionarie della "new company": un salvataggio in piena regola a carico del danaro pubblico. Molti altri aspetti assai dubitabili si intravedono in questo progetto, lo sbocco del quale sarebbe una compagnia regionale del tipo della Sabena o della Swiss Air, risorte sulle ceneri di un fallimento per servire un mercato poco più che regionale. Se questo accadrà, l'opinione pubblica e i dipendenti di Alitalia avranno modo di misurare il danno che la sconsiderata condotta di Berlusconi-Tremonti ha procurato al Paese affondando la trattativa con Air France senza alcun piano alternativo e agitando lo specchietto per allodole della Compagnia di bandiera.

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Tiene ancora banco la disputa tra Tremonti e Draghi sulla "Robin Hood Tax". Nella recente riunione dell'Abi (Associazione bancaria italiana) il ministro e il governatore erano entrambi presenti e parlanti. I giornali hanno riferito in dettaglio lo scontro - peraltro assai sorvegliato nelle forme - che si è verificato tra i due, col governatore che ha battuto sulla necessità di evitare che la "Robin Tax" si traduca in un aggravio dei costi dell'energia e dell'attività bancaria e il ministro che difendeva la sua figura di difensore dei ceti deboli e di severo tassatore dei profitti speculativi. "Prima si tassavano gli operai che non potevano certo trasferire su altri le loro imposte" ha detto ad un certo punto il ministro dell'Economia guardandosi fieramente intorno come gli capita di fare quando pensa d'aver inferto un colpo dritto al petto dell'avversario.

Prima si tassavano gli operai. I lavoratori dipendenti. Certo, è così. È stato sempre così perché i lavoratori dipendenti sono stati la sola categoria sociale che ha pagato le tasse per intero, salvo dover accettare d'immergersi nel precariato del lavoro nero con tutto ciò che ne consegue sia sul piano salariale sia sulle protezioni antinfortunistiche e le provvidenze sociali. Prima si tassavano gli operai. Perché il ministro usa l'imperfetto storico? Ora non si tassano più? Al contrario: ora si tassano ancora più di prima. Basta scorrere le cifre uscite dall'Istat appena due giorni fa.

Il peso dell'Irpef è in aumento e, all'interno del gettito dell'imposta personale, è in aumento l'onere dei lavoratori in genere e di quelli dipendenti in particolare. Prima si tassavano? Mai come adesso sono tassati, onorevole Tremonti ed è proprio lei a farlo. Perciò non usi l'imperfetto storico perché il tema è terribilmente presente (e futuro).

* * *

Lo stesso Tremonti ha presentato nei giorni scorsi a Bruxelles il suo documento sull'importanza della speculazione nell'aumento dei prezzi dell'energia e delle "commodities". Avrebbe dovuto essere, nelle aspettative del ministro e dei tanti giornali che gli fanno coro, una sorta di marcia trionfale. Invece è stato un flop né poteva essere altrimenti per le tante ragioni che abbiamo elencato domenica scorsa. Le autorità europee hanno cortesemente messo in dubbio che l'aumento dei prezzi derivi dalla speculazione (la stessa osservazione ha fatto Draghi nella riunione dell'Abi sopra ricordata), hanno messo in dubbio che si possa dimostrare una collusione tra operatori e infine hanno messo in dubbio che l'Europa abbia strumenti adeguati per intervenire sul mercato delle "commodities" e del petrolio che si svolge per la maggior parte su piazze extraeuropee.

Questa storia della speculazione peste del secolo è un modo come un altro di suscitare un nemico esterno immaginario e distrarre l'attenzione da realtà assai più rilevanti e preoccupanti. Così il governo affronterà un durissimo autunno. Ora anche la Marcegaglia è "estremamente preoccupata" dal calo di produzione industriale dello scorso maggio e di quanto ancora si prevede per giugno e per i mesi successivi. Ma non lo sapeva, non lo prevedeva, non era nei segnali delle sue antenne, gentile presidente di Confindustria? Il clima era buono fino a un paio di settimane fa, diceva lei. Dunque una brutta sorpresa, un fulmine a ciel sereno? Stia più attenta, signora Marcegaglia: questa è roba seria e non ci si può impunemente distrarre.

(13 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. LA CHIESA E I PAGANI/3
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 08:15:08 am
Eugenio Scalfari


LA CHIESA E I PAGANI/3


Vaticano e Cei hanno stretto un'alleanza di ferro, basata su vantaggi cospicui nel settore delle risorse economiche, delle scuole cattoliche e del veto a ogni discussione bioetica  Ho ancora qualche cosa da aggiungere alla piccola serie sul 'giardino del Papa' e cioè sulla questione cattolica come si è configurata nei secoli e ancora continua a configurarsi in Italia. Questa sarà l'ultima puntata, ma altri interventi inevitabilmente seguiranno perché le posizioni tra la Chiesa e lo Stato, tra la Chiesa e i cattolici e il pensiero laico sono dinamiche e meritano di essere registrate in tutte le loro evoluzioni.

Desidero tuttavia premettere a quest'ultima puntata un breve cenno sull'intervento di alcuni personaggi, in particolare Sabina Guzzanti, che hanno avuto luogo qualche giorno fa in Piazza Navona a Roma nel corso di una manifestazione politica indetta da Antonio Di Pietro e dal suo partito. C'è stata discussione dopo questa manifestazione per distinguere la satira e i comici che la praticano dalla politica; dibattito tuttavia chiuso dalla stessa Guzzanti che ha rivendicato (secondo me giustamente) il diritto dei comici di esprimersi in quanto cittadini e dunque di esprimere le intenzioni e di produrre gli effetti politici che i loro interventi creano.

Giudicato dunque da questo punto di vista 'autentico' l'intervento aggressivamente irrisorio e insultante della Guzzanti nei confronti di Benedetto XVI è stato di pessima qualità, mosso evidentemente da problemi di visibilità esasperata che, uniti agli urlacci di Grillo, hanno finito per connotare l'intera manifestazione. C'erano alcune migliaia di cittadini in quella piazza spinti dall'intenzione di manifestare contro il governo per validissime ragioni. Come può accadere quando si prepara una maionese con uova fresche e ingredienti di buona qualità e tuttavia basta un piccolo errore di dosaggio per farla impazzire, così le insulse intemperanze di alcuni personaggi hanno deturpato e reso politicamente inservibile quella manifestazione.


Detto questo torniamo al nostro tema che oggi riguarda il rapporto che negli anni recenti ha posto la Chiesa a confronto con i governi italiani, con la politica e quindi anche con i cattolici che ne costituiscono un elemento fondamentale. Parlo qui - lo ripeto - del rapporto tra la Chiesa intesa come gerarchia ecclesiastica e i governi; non lo Stato (aspetto sul quale ci siamo già intrattenuti nelle precedenti puntate), ma i governi, da quando nel 1992 scomparve la Dc dalla scena italiana e con essa la cosiddetta unità politica dei cattolici.

Sarebbe potuto accadere - e fu auspicato da molti esponenti sia del mondo cattolico sia di quello laico - che la fine dell'unità politica dei cattolici coincidesse con un impegno maggiore da parte della gerarchia sulla predicazione propriamente religiosa, pastorale, morale. Ce ne sarebbe stato grande bisogno perché la società italiana stava antropologicamente e culturalmente cambiando nel profondo come era già accaduto in gran parte delle società occidentali, con un processo assai rapido di secolarizzazione e di indifferentismo religioso e, dal punto di vista della Chiesa, riproponeva con la massima urgenza la necessità di affrontare la questione della modernità in tutti i suoi numerosi e complessi aspetti.

Questa attesa, anzi questa necessità, è stata completamente delusa ed elusa. L'attività pastorale è rimasta affidata al clero minore e ad alcune comunità cattoliche (Paolini, salesiani, Sant'Egidio), mentre la gerarchia in quanto tale e gran parte delle comunità, a cominciare dall'Opus Dei e da Comunione e liberazione, hanno imboccato il sentiero della politica (e degli affari), privilegiando il pragmatismo e la spregiudicatezza.

Da questo punto di vista il papato di Wojtyla è stato molto complesso. La deriva politicizzante vi ha avuto il suo terreno di coltura perché Giovanni Paolo II sostanzialmente si disinteressò della 'provincia italiana'.Vedeva il mondo intero come terra di missione, aveva l'assillo di porsi dalla parte dei deboli e degli esclusi nel momento in cui - anche per sua diretta azione - la grande ipocrisia del socialismo reale era implosa. Possedeva capacità e virtù mediatiche di prima grandezza e le mise al servizio del suo disegno planetario.

I conti con la gerarchia ecclesiastica italiana non lo interessavano e lasciò a briglia lunga la coltivazione del 'giardino del Papa' ai vescovi italiani e alla Conferenza episcopale. Situazione che si è nettamente aggravata col pontificato attuale. Qui non c'è più, come ai tempi di Wojtyla, la lontananza del Papa ma al contrario la sua costante presenza a guida e sostegno dell'interventismo politico della Cei e delle comunità che l'affiancano.

Con questa conseguenza: lo stretto rapporto politico e personale del Vaticano e della Cei con la forza politica e il suo leader più 'pagani' che si siano avuti dalla storia italiana. Devoti forse, pagani nel modo più popolaresco e rozzo, negli interessi, nel costume, nei modi di pensare e di vivere. Pagani da basso impero.

Con questo tipo di forza politica Vaticano e Cei hanno costruito un'alleanza di ferro, basata su vantaggi cospicui nel settore delle risorse economiche, delle scuole cattoliche, del veto a ogni discussione bioetica che non si svolga sotto l'ala chiesastica, col rinvio del confronto con la modernità all'interno del mondo cattolico. Il 'giardino del Papa' è un ammasso di rovi religiosi e di fiori politici e lo si vede dal bisogno crescente dei cattolici 'religiosi', diventati stranieri nella propria terra.

(18 luglio 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La spazzatura di Napoli e quella del governo
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 05:59:50 pm
POLITICA

L'EDITORIALE


La spazzatura di Napoli e quella del governo

di EUGENIO SCALFARI



NAPOLI restituita all'Occidente è uno slogan enfatico che Berlusconi ha usato per celebrare lo sgombero dei rifiuti dopo 56 giorni dall'inizio dell'operazione. Un po' enfatico ma tuttavia adatto alla circostanza. Erano infatti sette od otto anni che il problema dei rifiuti, con alti e bassi, affliggeva la città e la provincia.
I responsabili sono molti: il governo di centrodestra 2001-2006, il governo Prodi 2006-2008, il sindaco Russo Jervolino, il presidente della Regione Bassolino, la società Impregilo, alcuni dei commissari che si sono succeduti, Pecoraro Scanio ministro dell'Ambiente. E soprattutto la camorra.

Ma il culmine del disastro è avvenuto nel biennio prodiano e il centrosinistra ne porta la responsabilità. Berlusconi da quel grande comunicatore che è l'ha capito al volo, ci ha impostato la campagna elettorale e poi i primi atti del suo governo. Dopo due mesi ha risolto il problema. Non era poi così difficile ma segna la linea di confine tra chi privilegia il fare sul mediare, tra chi ha carisma e chi non ce l'ha.

Dopodiché Berlusconi resta quello che è, un venditore al quale il successo ha dato alla testa, un egocentrico, un populista, un demagogo. Ma se non gli riconosciamo i pochi meriti che ha e soprattutto i demeriti dei suoi avversari su questo specifico tema diventa difficile criticarlo come merita di esserlo e con la durezza che la situazione richiede.

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Quanto a tutto il resto, dare consigli al nostro presidente del Consiglio su come dovrebbe governare è tempo perso: lui, come scrisse Montanelli quando lasciò la direzione del "Giornale", si ritiene un incrocio tra Churchill e De Gaulle. Dare consigli a Tremonti è addirittura patetico: il pro-dittatore della nostra economia pensa e dice che Berlusconi gli è spesso d'impaccio.

Tra i due s'è aperta negli ultimi tempi una gara di megalomania di dimensioni patologiche che dovrebbe seriamente preoccupare i loro collaboratori, i loro alleati e soprattutto i cittadini da loro sgovernati.
Personalmente credo che la cosa più utile sia quella di filmare, fotografare, raccontare alcuni passaggi significativi dei due "statisti" con l'intento di risvegliare la pubblica opinione; tentativo che ha già avuto qualche successo se è vero che i più recenti sondaggi registrano un calo di dieci punti nei consensi del capo del governo tra giugno e luglio.

Per quanto riguarda il pro-dittatore dell'economia non si hanno ancora dati ma il mugugno cresce e si diffonde. La polizia di Stato scende in piazza, famiglie e lavoratori sono sempre più incattiviti, tra gli imprenditori grandi e piccoli preoccupazione e malcontento si tagliano a fette, i leghisti scalpitano, Regioni e Comuni sono sul piede di guerra.
Non è propriamente un bel clima e molti segnali dicono che peggiorerà.

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La fotografia più tragica di Berlusconi (tragica per il Paese da lui rappresentato) ci è arrivata dal G8 di Tokyo. Terminate le riunioni di quell'ormai inutile convegno di impotenti, il nostro "premier" ha dato pubblicamente le pagelle agli altri sette protagonisti come fanno i giornali sportivi dopo le partite di Coppa e di Campionato. Con i voti e le motivazioni. Il nostro ha dato le pagelle sul serio. Poi, con appena un pizzico di ironia, l'ha data anche a se stesso concludendo che il migliore era lui.

Tre giorni dopo, parlando ai parlamentari del suo partito, ha ricordato che quello di Tokyo era il terzo G8 cui partecipava e saranno quattro l'anno prossimo. "Non merito un applauso?" ha detto ai suoi deputati. Naturalmente l'ha avuto.

Come si fa a giudicare un uomo così, che arriva al punto di tirare in ballo Maria Goretti quando parla della Carfagna? Che ha immobilizzato la politica per sfuggire ad un suo processo? Che per bloccare il prezzo del petrolio propone una riunione dei paesi consumatori per determinarne il livello massimo? Che accusa di disfattismo tutti quelli sono pessimisti sull'andamento dell'economia internazionale e italiana? E il pessimismo di Tremonti allora? Non è il suo superministro dell'economia? Siamo nel più esilarante e tragico farnetico.

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Di Giulio Tremonti, tanto per cominciare, voglio ricordare tre recentissimi passaggi.
Il primo riguarda i condoni da lui effettuati durante la legislatura 2001-2006. Qualche giorno fa la Corte di Giustizia dell'Unione europea ha condannato l'Italia per il condono sull'Iva del 2002 e per il condono "tombale" del 2004. La motivazione è durissima: "Richiedendo il pagamento di un'imposta assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto, la misura in questione ha consentito ai soggetti interessati di sottrarsi agli obblighi ad essi incombenti.
Ciò rimette in discussone la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l'esatta riscossione dell'imposta. Per questa ragione la Corte dichiara che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli..." eccetera eccetera. Stupefacente il commento di Tremonti con una nota ufficiale del suo ministero: "Messaggio ricevuto. Per il futuro c'è un esplicito impegno del governo ad evitare nuovi condoni".

Bene. I lettori ricorderanno che in tutto quel quinquennio la politica economica di Tremonti fece dei condoni lo strumento principale insieme ad altri trucchi della cosiddetta finanza creativa. La ragione di questa bizzarra e bislacca strategia fu quella di invogliare i contribuenti disonesti a patteggiare su una base minimale che procurasse tuttavia entrate capaci di far cassa fino al mutamento congiunturale che Tremonti dava per imminente.

Ma poiché quel mutamento tardava, l'evasione aumentava e il debito pubblico anche, il risultato fu che nel 2006 Tremonti consegnò a Padoa-Schioppa un'economia a crescita zero, un deficit del 4,6 del Pil, l'Italia sotto inchiesta europea per infrazione degli accordi di stabilità e l'avanzo primario tra spese e entrate annullato. Spettò a Padoa-Schioppa e a Visco di raddrizzare quella catastrofe, cosa che riuscirono a fare in meno di un biennio senza imporre alcuna nuova tassa né aumentare alcuna aliquota ed anzi abbassando di 5 punti le imposte sulle imprese e sul lavoro. Messaggio ricevuto, dice oggi Tremonti. Il quale ovviamente sapeva di violare con i suoi condoni le regole della Comunità europea e di fare contemporaneamente un enorme favore agli evasori.

Secondo passaggio. Tremonti ha presentato lo sgravio dell'Ici indicando una copertura di 2.600 miliardi. Successive analisi della Commissione bilancio e del servizio studi del Senato hanno accertato che il costo di quella misura era di un miliardo e mezzo in più. Un ministro-statista del calibro di Tremonti non dovrebbe presentare provvedimenti scoperti per oltre un terzo. Adesso comunque la copertura è saltata fuori. Da dove non è chiaro. Perciò domando: da dove? Mi si dice: nelle pieghe del bilancio c'è sempre qualche riserva. Qualche tesoretto? O che cosa?

Terzo passaggio. Polizia e Carabinieri stanno facendo il diavolo a quattro per i tagli al ministero dell'Interno e della Difesa. Hanno ragione. Anche Berlusconi, anche Maroni, anche La Russa stanno strepitando. Ed ecco la brillante idea: ci sono caserme e immobili del demanio da vendere. Vendiamole e col ricavato diamo un po' di soldi alla Polizia e ai Carabinieri. In realtà quando si vende un bene del demanio, cioè del patrimonio dello Stato, il ricavato dovrebbe andare a diminuzione del debito pubblico.

Non è così, onorevole ministro? Non a spese correnti, tanto più che i ricavi di una vendita sono "una tantum" e allora? Tre passaggi, tre fotogrammi, un personaggio. Un po' bugiardino. Con poca coerenza e molta "volagerie" negli atti e nelle opinioni.
A lui sono affidati i nostri destini economici, mi viene la pelle d'oca al solo pensiero.

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Tralascerei il capitolo che i giornali hanno intitolato: "Brunetta e i fannulloni". Se non per dire che gran parte delle regole sulle visite fiscali e le sanzioni contro gli assenteisti risalgono al 1998. Non furono applicate perché per effettuare seriamente i controlli previsti ci voleva (e ci vorrà) un apparato organizzativo più costoso dei vantaggi di efficienza da conseguire.

Brunetta però ha ragione: lo sconcio dell'assenteismo e ancor più del doppio lavoro dovrebbe esser represso. Ma la faccia feroce serve a poco. Ci vuole un approccio appropriato. Per esempio la responsabilità dei dirigenti. Basterebbe controllarli da vicino e stabilire per loro premi o sanzioni sulla base dei risultati.
Quanto all'idea di azzerare i premi esistenti incorporati negli stipendi, tutto si può fare salvo schierare un ministro contro al categoria da lui amministrata. Si finisce con lo sbatterci il muso e farsi male.

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Scusatemi se torno su Tremonti ma il personaggio merita attenzione.
Dice che quella che stiamo attraversando è la crisi internazionale più grave dal 1929 e forse peggio di allora. Dice che fu il solo ad averlo capito fin dal giugno 2007. Veramente in quegli stessi giorni lo scrisse anche Stiglitz, premio Nobel per l'economia, lo scrisse anche Nouriel Roubini, docente alla New York University e, assai più modestamente, anche il sottoscritto.

Comunque Tremonti capì e me ne rallegrai a suo tempo con lui. Ma visto che aveva capito, sapeva fin da allora che soldi da buttar via non ci sarebbero stati. Perciò avrebbe dovuto fermare la mano di Berlusconi quando promise in campagna elettorale l'abolizione dell'Ici e l'effettuò nel suo primo Consiglio dei ministri. Avrebbe risparmiato 4 miliardi di euro, un vero tesoretto da destinare alla detassazione dei salari. Invece non l'ha fatto.

Quattro miliardi buttati al vento. Non va bene, onorevole Tremonti. So che lei ha in mente di utilizzare la Cassa depositi e prestiti, il risparmio postale e le Fondazioni bancarie per finanziare le infrastrutture. E' un progetto ardito, soprattutto ardito usare il risparmio postale.

Comunque, di quali infrastrutture si parla? Quelle disegnate col gesso da Berlusconi nel 2001 sulla lavagna di Vespa e rimaste al palo? Vorremmo un elenco, le priorità, il rendimento e l'ammontare delle risorse. Si tratta comunque di progetti ad almeno tre anni. Nel frattempo dovranno intervenire le banche.
Sempre le banche. Per Alitalia, per le infrastrutture, per gli "swap", per i mutui immobiliari. Intanto i tassi salgono, gli oneri per il Tesoro aumentano, la pressione fiscale non diminuirà. La sua Finanziaria è piena di buchi e dove non ci sono buchi ci sono errori di strategia. Lei ha gratificato D'Alema con l'appellativo di statista.

D'Alema se lo merita immagino l'avrà ringraziata. Ma non s'illuda con questo di averne fatto un suo "supporter".
D'Alema è amabile ma molto mobile, cambia spesso scenario. E poi, se lei ha bisogno dell'opposizione per discutere di federalismo fiscale, non le basterà D'Alema. Ci vorrà tutto il Partito democratico, ci vorranno le Regioni e Comuni, ci vorranno le parti sociali. Non credo che il vostro federalismo diventerà legge in nove minuti e mezzo.

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Giorni fa ho rivisto dopo cinquant'anni sulla tv "La7" il film "Accattone" di Pier Paolo Pasolini che fu presentato a Venezia suscitando allora vivaci discussioni. E' un film di un'attualità sorprendente e sconcertante. Racconta di un "magnaccia" che ne fa di tutti i colori fino al punto di rubare la catenina d'oro dal collo di suo figlio, un bambinetto di quattro anni, per sedurre una ragazza e poi avviarla sulla strada della prostituzione.

Il tutto sullo sfondo delle baraccopoli della Roma degli anni Cinquanta, una desolazione e un degrado senza limiti tornato oggi di tremenda attualità, campi nomadi e povertà straniera e nostrana.
Il ministro Maroni dovrebbe vederlo quel film, ne trarrebbe grande profitto. Fa bene a preoccuparsi dei bambini "rom", che rappresentano tuttavia una goccia nel mare delle violenze contro bambini e donne all'interno delle famiglie. Delle famiglie italiane, quelle degradate ma anche quelle apparentemente non degradate.

Comunque, prendere impronte a bambini è violenza. Magari a fin di bene ma sempre violenza. Uno stupro dell'innocenza. Maroni l'ha promesso ai suoi elettori ma questo non lo assolve perché uno stupro è pur sempre uno stupro. Stuprare l'innocenza d'un bambino è un fatto gravissimo. Questo sì, è un tema che vale una piazza, cento piazze, mille piazze.


(20 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La calma del Quirinale baluardo di libertà
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 10:52:49 am
POLITICA

La calma del Quirinale baluardo di libertà

di EUGENIO SCALFARI


SI POSSONO criticare i comportamenti e le decisioni di un presidente della Repubblica? Certo che si può, in Italia come in qualunque paese democratico del mondo. A me è capitato più volte di farlo, con Gronchi, con Segni, con Saragat, con Leone. Anche con Pertini, del quale sono stato amico ed estimatore. Perciò non vedo nulla di sconveniente nelle critiche che alcuni uomini politici e alcuni opinionisti hanno mosso al presidente Napolitano in occasione della promulgazione della legge Alfano sull'immunità delle quattro cariche istituzionali. Gli insulti e le offese di Grillo sono un'altra cosa, per quelli c'è il reato di vilipendio che spetta alla magistratura di perseguire.

Dal canto mio sono del parere espresso su questo tema da Walter Veltroni: il presidente boccia le leggi palesemente incostituzionali e quelle prive di copertura finanziaria; le altre, approvate dal Parlamento, è tenuto a promulgarle, che gli piacciano oppure no.

Nel caso di specie, non essendo la legge Alfano palesemente incostituzionale e non avendo problemi di copertura finanziaria, la firma di Napolitano era un atto dovuto. Il che non toglie, ovviamente, che quella legge possa non piacere. A me - per restare nel personale - non piace affatto.

Non mi piace nel merito poiché non esiste al mondo una specifica immunità per i presidenti delle assemblee parlamentari e per il capo del governo. Esiste in pochi luoghi limitatamente al capo dello Stato. Gasparri, Bonaiuti, per non parlare di Berlusconi e degli stessi presidenti delle Camere, dicono perciò una rotonda menzogna quando si riparano dietro l'esempio (inesistente) di altri Paesi europei ed occidentali: non è vero, non esiste in nessun luogo una simile legge.

Ma non mi piace neppure per quanto riguarda la procedura adottata. È stato invertito di prepotenza l'ordine dei lavori parlamentari; la legge Alfano è stata messa al primo posto dell'agenda, prima dei decreti economici, prima della legge sulla sicurezza, prima di quella sulle intercettazioni. Nonostante il parere contrario di tutte le opposizioni. La discussione in commissione e nelle aule è stata condotta a passo di carica come se un qualche Attila fosse alle porte. I presidenti delle Camere hanno dato manforte non prestando alcun ascolto alle opposizioni alle quali dovrebbero invece riservare una priorità istituzionale.

La ragione di tutto ciò sta nel fatto che la legge sulla sicurezza era stata manipolata: nata sotto forma di decreto legge e come tale firmato da Napolitano che aveva apprezzato le ragioni di urgenza, vi era stato inserito indebitamente l'emendamento "blocca-processi", che avrebbe paralizzato la giurisdizione e avrebbe stravolto la costituzione materiale e perfino quella letterale.

Di fronte a tanto scempio Napolitano aveva avvertito il governo che non avrebbe firmato la legge di conversione. Per evitare un così clamoroso conflitto istituzionale l'avvocato di Berlusconi che è anche deputato aveva rispolverato il disegno di legge Schifani e a tambur battente l'aveva messo in pista.

L'urgenza riguardava unicamente e soltanto l'imputato Berlusconi. Questo è l'arcano niente affatto arcano di quanto è accaduto e qui c'è la dimostrazione - del resto pubblicamente dichiarata da Berlusconi - che la legge Alfano così come l'emendamento "blocca-processi" sono due strumenti per ottenere l'impunità dell'imputato Berlusconi.

Si è detto che Napolitano abbia scelto il male minore, ma neppure questo è vero: Napolitano si è limitato ad informare il governo che la legge sulla sicurezza non l'avrebbe firmata se non fosse stato ritirato o radicalmente corretto l'emendamento in questione, palesemente incostituzionale e subdolamente inserito con la connivenza dei presidenti delle Camere.

Questo dunque è quanto avvenuto.

* * *

Naturalmente la partita sulla giustizia non è affatto terminata anzi, nelle intenzioni di Berlusconi, è appena cominciata. Qualcuno teme (l'ha scritto Carlo Federico Grosso sulla "Stampa" di venerdì) che "di male minore in male minore" l'eventuale mediazione del presidente della Repubblica si svolga a un livello sempre più basso e non riesca quindi ad evitare un sostanziale stravolgimento della Costituzione.

Io non credo che ciò avverrà perché non credo che Napolitano possa, voglia e debba mediare alcunché. Deve (e l'ha fatto in quest'occasione) esercitare i suoi poteri-doveri di custode della Costituzione e garante del corretto rapporto tra i poteri dello Stato. Non spetta a lui porsi il problema del male minore, che ha carattere politico e riguarda le forze politiche. Se si ponesse quel problema, a mio modesto avviso sbaglierebbe. La "moral suasion" è una prassi del tutto informale che cessa di fronte a concreti passaggi istituzionali.

Aggiungo che, di fronte alla pervicace intenzione di atti legislativi imposti a colpi di maggioranza, un'eventuale risposta referendaria sarebbe assolutamente legittima, salvo valutarne l'opportunità politica da parte dei promotori.

* * *

Intanto incalza un altro tema del quale è imminente il passaggio parlamentare. Parliamo delle intercettazioni e del divieto che si vuole porre ai giornali e ai giornalisti di dare notizie e svolgere inchieste sulla fase inquirente dei procedimenti giudiziari.

Qui è in atto un vero e proprio attacco alla libertà di stampa e d'informazione, che è un "bene pubblico" garantito dalla Costituzione. Non parlo del sistema delle intercettazioni e dei poteri della magistratura che vanno certamente armonizzati per quanto possibile con il diritto alla riservatezza delle persone intercettate. Parlo della stampa, dei giornalisti, degli editori.

Calare un sipario di ferro sulla fase inquirente della giurisdizione è, né più né meno che una misura incostituzionale. Tra l'altro consentirebbe eventuali atti di "mala-giustizia" che le Procure potrebbero commettere al riparo di quel sipario e impedirebbe il formarsi di una pubblica opinione che rappresenta un elemento essenziale di controllo sull'operato della magistratura.

Non inganni l'eventuale derubricazione delle sanzioni contro i giornalisti da misure di restrizione della libertà personale a misure pecuniarie; in particolare non ingannino misure pecuniarie pesanti contro gli editori. Una sanzione di questo genere determinerebbe un'intrusione delle proprietà nella conduzione giornalistica vera e propria; intrusione assai grave in un sistema come il nostro dove le proprietà dei giornali non sono quasi mai in mano ad editori che non abbiano altre attività oltre quella editoriale.

Quest'intrusione effettuata a causa di una legge costituirebbe un vero e proprio attentato alla libertà di stampa nella concretezza del suo esercizio e quindi richiederà una resistenza ferma e non corporativa se è vero che la libera stampa è un bene costituzionale strettamente inerente alla democrazia.

* * *

Nei giorni scorsi, a proposito di libera stampa e di doveroso controllo dei procedimenti giudiziari anche nella loro fase inquirente, ha suscitato scalpore la pubblicazione sul nostro giornale d'una lunga intervista del collega Giuseppe D'Avanzo a Giuliano Tavaroli, personaggio molto discusso e centrale nell'inchiesta della Procura di Milano sulle intercettazioni illecite della Telecom. Sarebbe ipocrita da parte mia se, parlando di rapporti tra magistratura e libera stampa, ignorassi questo tema e le reazioni di vario tipo che esso ha suscitato in campo politico e in altri giornali. Del resto D'Avanzo ha già ampiamente risposto ad una serie di illazioni che la sua intervista ha provocato e che non hanno alcun fondamento.

L'inchiesta della Procura di Milano è stata, per quanto mi consta, estremamente rigorosa, ha raccolto una massa di documentazione imponente, ha interrogato numerosi testimoni, ha raccolto corposi indizi. A conclusione di questo lavoro durato tre anni la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di Tavaroli e di un'altra ventina di personaggi tra i quali emergono l'ex capo del controspionaggio del Sismi, Mancini, e il capo di una società privata di investigazioni, Cipriani. In combutta con loro il capo della "Security Telecom" Tavaroli e i suoi accoliti avevano creato una vera e propria rete all'interno dell'azienda, in grado di violare ogni privatezza con la collaborazione di personaggi e di spezzoni dei servizi più o meno deviati, agenti di Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.

La Procura ha anche chiesto il rinvio a giudizio dei soggetti giuridici Telecom e Pirelli notificando gli atti ai loro legali rappresentanti dell'epoca: Tronchetti Provera e Buora, senza tuttavia chiedere il loro rinvio a giudizio personale perché i riscontri indiziari a loro carico non sono stati ritenuti sufficienti alla loro incriminazione. Appariranno pertanto in dibattimento in veste di testimoni.

Poiché l'imputato numero uno di un processo di questa importanza ha accettato di parlare con il giornalista D'Avanzo, il giornale ha deciso di pubblicare la sua intervista senza apportarvi censure di sorta ma avvertendo più volte nel testo che l'intervistato essendo un indagato esprime le sue tesi ovviamente interessate e non necessariamente coincidenti con quella verità che soltanto in dibattimento potrà emergere. Alcuni giornali si sono preoccupati di erigere una sorta di cintura di protezione attorno a Tronchetti Provera e all'ipotetico rischio che l'intervista di Tavaroli possa farne in dibattimento un coimputato anziché soltanto un testimone.

Tutto è possibile anche perché gli imputati attuali faranno di tutto per chiamare in correità personaggi eminenti (Tronchetti certamente lo è) nel tentativo di diminuire le proprie responsabilità diluendole in capo ad altri. Debbo a dire a questo proposito che molto più dell'intervista di Tavaroli mi ha colpito la lettura dei verbali dell'interrogatorio del presidente della Pirelli. Il quale afferma quasi ad ogni riga d'un lunghissimo documento pieno di domande e di osservazioni da parte dei pubblici ministeri, di non aver mai saputo nulla dell'attività di uno dei suoi più importanti collaboratori.

Ammettiamo che questa tesi sia vera: getterebbe comunque una luce sinistra sull'organizzazione di un'azienda titolare di un servizio di pubblica utilità immensamente importante e depositario delle più intime privatezze dei suoi milioni di utenti.

L'importanza oggettiva dell'intervista di Tavaroli è l'aver portato all'attenzione dell'opinione pubblica questo essenziale aspetto d'una questione che ci riguarda tutti molto da vicino.

* * *

Voglio chiudere queste mie note inviando pubblicamente a Piero Fassino che conosco da vent'anni i sensi della mia affettuosa stima e rinnovata amicizia. Quel figuro che ha cercato di coinvolgerlo aveva nelle mani strumenti sofisticatissimi mirati a falsificare e ricattare. È augurabile che nella Telecom attuale queste pericolosissime pratiche siano rese impossibili. Vorremo esserne sicuri come utenti e come cittadini.


(27 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La nuova opposizione
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:09:47 am
Eugenio Scalfari.


La nuova opposizione



Quelli che ne lamentano l'assenza vogliono spianare la via alla gestione diretta della gente da parte del nuovo potere autoritario. Ma con la stretta economica, in autunno, la situazione può cambiare  La pubblicistica e gran parte delle forze politiche si concentrano da molte settimane su un tema: in Italia non c'è opposizione. Questa assenza occupa quasi ossessivamente i loro pensieri. Sono preoccupati e tanto più se i loro cuori battono a favore del centrodestra. È un segnale di longanimità? Resipiscenza? Desiderio di mettersi al di sopra della mischia per incoraggiare i più deboli?

I migliori cervelli si arrovellano: è mai possibile che in un Paese che per decenni ha visto un protagonismo fiero e bellicoso dell'opposizione - ai tempi del vecchio Pci - adesso non ci siano che 'animulae blandulae', ombre mute, fantasmi spauriti, proprio mentre un governo efficiente e blindato inanella successi un giorno dopo l'altro senza trovare ostacoli di sorta? Angelo Panebianco, politologo di lungo corso, li enumera compiaciuto quei successi: Napoli finalmente pulita in 58 giorni, una legge finanziaria già varata nelle sue parti essenziali con un anticipo di almeno quattro mesi sul calendario tradizionale, la sicurezza ripristinata o almeno la paura diminuita nell'animo della gente, gli statali fannulloni al lavoro, il precariato alla frusta, gli zingari avviati verso percorsi di operoso ravvedimento, gli immigrati bloccati sul bagnasciuga e rispediti a casa.

Ma Panebianco, pur nella soddisfazione per tutti questi buoni risultati del migliore dei governi possibili, ha un tarlo che gli rode l'anima: l'opposizione non reagisce, non è un vascello da battaglia ma una scialuppa a rimorchio dell'ammiraglia berlusconiana e tremontiana.

Da punti di vista diversi arrivano alle medesime conclusioni Andrea Romano, Luca Ricolfi, Augusto Minzolini, Paolo Franchi, Maria Teresa Meli. Della Loggia è forse il solo a battere percorsi diversi e diverse sono le sue preoccupazioni. Ma perfino Bertinotti è angosciato dalla mancanza di una vera opposizione e con lui Diliberto e quanto resta dei Verdi. Infine
anche all'interno dei democratici il problema è sentito. Molti di loro si chiedono: come si fa a far vivere un'opposizione vera che fermi l'avversario e gli impedisca di fare 'cappotto'?

Naturalmente la quasi totalità di queste anime in pena pone delle condizioni, variabili secondo i diversi talenti. L'opposizione non deve essere giustizialista. Deve volere e praticare il dialogo ma con una propria agenda. Deve scendere in piazza ma non con Di Pietro. Oppure non deve scendere affatto ma il Parlamento non basta come luogo di confronto.

Alla fine quasi tutti concludono che la soluzione è culturale e constatano che, purtroppo, la sinistra e i riformisti una cultura non ce l'hanno o non ce l'hanno più. Della Loggia pensa e scrive che neppure la destra ha una cultura e forse non l'ha mai avuta neppure lei. Ferrara è arrivato da tempo alla conclusione che la sola cultura in campo sia quella del Papa e dei Vescovi. Gli altri, più o meno, annuiscono o tacciono sul punto e chi tace - si sa - acconsente.

Mi scuso con le egregie persone che ho nominato per debita informazione dei miei lettori e per rendere di più chiara comprensione ciò che penso io.

Secondo me l'opposizione c'è ed è destinata ad aumentare man mano che la stretta economica e sociale crescerà. È un fatto naturale: una politica economica necessariamente restrittiva crea disagi e reazioni specie quando è inspirata da una visione della società molto evidente, che distribuisce i pesi in modo difforme tra i vari ceti e categorie. Gli obiettivi possono essere condivisi, ma le modalità per raggiungerli dividono.

Al di là della stretta economica e della sua ispirazione sociale, l'attuale maggioranza persegue anche un altro obiettivo: trasformare la Costituzione vigente in un reggimento autoritario e presidenziale senza i contrappesi necessari a preservare una sostanza di democrazia partecipata.

Questo disegno, ormai evidente in ciascuna mossa del governo, è meno percepibile dalla pubblica opinione perché non tocca interessi immediati. Renderlo percepibile è il compito dell'opposizione politica ed è il compito di tutta la sinistra, che sia quella riformista o quella più estrema o quella liberal-moderata che non condivide il progetto autoritario-populista.


Il perno dell'opposizione politica non può che essere il partito democratico il quale attraversa una fase di costruzione organizzativa certamente non facile. La responsabilità di opporsi ai disegni della maggioranza in Parlamento e nel Paese spetta dunque principalmente al Pd e al suo gruppo dirigente. La crescita di un partito non si improvvisa ma è vero che il tempo a disposizione è molto breve. In autunno si vedrà se la costruzione del maggior partito d'opposizione è in grado di stare in campo con l'efficacia che il compito richiede.

Quelli che lamentano oggi la pochezza o addirittura l'assenza dell'opposizione non sono mossi da sollecitudine ma dal trasparente desiderio di dare per già liquidata l'opposizione politica togliendo di mezzo quel punto di raccolta ideale e sociale e spianando la via alla gestione diretta della gente da parte del nuovo potere autoritario. Dico della gente, cioè di una società 'liquida' che mette ciascun individuo di fronte al potere abolendo ogni contropotere ed ogni struttura intermedia.

La sinistra e l'opposizione in tutte le sue modulazioni ha dunque l'autunno come momento di verifica della sua forza. Ne faccia buon uso.


(01 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il bene di vivere e il diritto di morire
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 07:46:04 pm
POLITICA

Il bene di vivere e il diritto di morire


di EUGENIO SCALFARI



QUANDO Emanuele Severino e Umberto Galimberti segnalarono l'irruzione della tecnica nel mondo dell'etica sembrò ai più che la questione avesse un contenuto esclusivamente filosofico e quindi astratto e di scarsa importanza pratica.

Se ne erano del resto già occupati scrittori e filosofi americani e, in Europa, tedeschi, inglesi, francesi, spagnoli, greci. Era insomma una questione posta dall'attualità e dall'evidenza: la tecnica, la "tecné", aveva conquistato una vera e propria egemonia che incideva nel mondo dei comportamenti sociali, determinava lo sviluppo dell'economia, accresceva ma al tempo stesso vulnerava i territori della libertà.

Le reazioni più preoccupate da quell'egemonia provennero dal campo religioso, sia di parte cristiana sia di parte islamica sia dalle numerose credenze asiatiche: le religioni denunciavano lo squilibrio tra il progresso tecnico e quello morale e vedevano la propria autorità sempre più insidiata dai progressi delle scienze che non ammettevano limiti alla ricerca né si preoccupavano che i risultati di volta in volta raggiunti fossero compatibili con le verità rivelate delle quali le religioni ritenevano di avere esclusiva rappresentanza. La discussione investì tutte le culture e divenne tanto più intensa quanto più si avvicinava alla fine del secolo e del millennio, con l'inevitabile carica apocalittica che i grandi eventi portano con loro. Sul bordo del XXI secolo e del terzo millennio dell'era cristiana il tema era ormai chiaro in tutta la sua importanza.

Non si trattava più soltanto dell'egemonia ma addirittura dell'avvenuto capovolgimento di dipendenza tra l'uomo e gli strumenti da lui creati: non erano più al suo servizio quegli strumenti, ma era l'uomo al servizio della "tecné", diventata ormai un'ideologia possessiva alla quale l'intero genere umano si era piegato e asservito.

Siamo ormai tutti "tecno-dipendenti" in ogni atto e momento della nostra vita e tutti in un modo o in un altro lavoriamo per accumulare nuovi saperi che accrescono il potere della tecnica a detrimento della nostra libertà.

* * *

Ricordo queste vicende perché da allora, nei pochi anni trascorsi, il tema non è più soltanto filosofico, religioso, scientifico, ma ha fatto irruzione anche nella politica. Come ha rilevato Aldo Schiavone pochi giorni fa su questo giornale, ha messo in discussione due momenti topici dell'esistenza di ciascun essere umano: il momento della nascita e quello della morte, la nostra entrata e la nostra uscita dal mondo.

I due eventi che dominano la nostra intera vita, l'alfa e l'omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.

Le religioni - e quella cattolica in particolare - hanno assunto un atteggiamento dogmatico e ideologico sul tema della vita, trasformandolo in una vera e propria ideologia. Per quanto riguarda la nascita la Chiesa ha rigorosamente vietato la contraccezione respingendo ogni strumento tecnico che potesse limitare le nascite; sul tema della morte al contrario la Chiesa difende il ricorso agli strumenti che la tecnica è in grado di fornire per prolungare artificialmente una pseudo-vita al di là dei limiti segnati dalla natura.

Questo duplice e contraddittorio atteggiamento che vieta la tecnica limitatrice di nascite non volute e invoca invece la tecnica capace di mantenere una vita artificiale, ha ideologizzato la discussione facendo irruzione nella politica, nei governi, nei parlamenti. Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dai loro rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo.

La discussione sui principi si è incattivita e imbarbarita. Attorno alle camere di rianimazione si svolgono polemiche interminabili; le Corti di giustizia emettono verdetti contrapposti e sentenze inaccettate. Nel caso attualmente aperto di Eluana Englaro le Camere sollevano addirittura conflitti di competenza tra potere legislativo e potere giudiziario. La Corte costituzionale è ora chiamata a sciogliere una questione a dir poco imponderabile, al solo dichiarato intento da parte della maggioranza di centrodestra di guadagnare qualche settimana o mese di tempo lasciando l'esistenza di una persona tecnicamente già morta da 16 anni, agganciata ad un tubo che le somministra sostanze capaci di ossigenarle il sangue, come si trattasse d'una pianta e non di una vita umana.

* * *

La vita e la morte sono argomenti non decidibili o almeno così dovrebbe essere. Esperienze che segnano il carattere e la coscienza di ciascuno. Il nostro destino. La nostra dignità. La nostra libertà.

Scendere da questo livello e discutere se abbia giudicato correttamente un Tribunale, una Procura, una Corte di cassazione; se una legge debba colmare il vuoto di legislazione e in che modo la sua precettistica debba essere formulata: tutto ciò immiserisce una questione che dovrebbe essere affidata alla volontà responsabile della persona interessata o ai suoi legali rappresentanti se l'interessato non è in condizione di intendere, di esprimersi, di volere.

Ma poiché questa è in una molteplicità dei casi lo stato di fatto, di esso bisognerà dunque discutere superando il disagio che ce ne deriva. Le domande che ci dobbiamo porre nel caso specifico di Eluana sono le seguenti: esiste una manifestazione chiara e recente di volontà dell'interessata? Se non esiste o è considerata remota ci sono persone validamente in grado di decidere per lei? Infine: su quali punti d'appoggio o principi si basa la sentenza della Suprema Corte che ha autorizzato il padre di Eluana a interrompere le cure e determinare l'arresto del cuore, pulsante in un corpo che è in coma da 16 anni con encefalogramma piatto e una vita non umana ma vegetale?

* * *

Sappiamo che Eluana manifestò ripetutamente la sua volontà di non sopravvivere alla propria eventuale morte cerebrale. Lo fece ancor giovanissima, perfettamente sana e consapevole, in seguito alla traumatica esperienza di aver visto e assistito persona a lei cara che si trovava in condizioni di morte cerebrale cui per sua fortuna seguì di lì a poco quella cardiaca.

I fautori ad oltranza dell'ideologia della vita obiettano che quelle manifestazioni di volontà siano remote rispetto al momento in cui Eluana entrò in coma e quindi "scadute", prive di legittima volontà.

L'argomento a sostegno di questa tesi si appoggia alla considerazione che in una materia così delicata e privata si può cambiare parere fino ad un attimo prima dell'ultimo respiro. È vero, si può cambiare parere fino all'ultimo respiro se si è in condizioni di cambiar parere e di esprimerlo. Ma se si è già morti cerebralmente? L'espianto degli organi con i quali si salvano altre vite non avviene forse quando la morte cardiaca non è ancora avvenuta e gli organi sono ancora vitali se l'autorizzazione a disporne è già stata data e i se i parenti consentono?

Alla seconda domanda la risposta è netta: il padre e la famiglia di Eluana, che l'hanno assistita per sedici anni ed hanno raccolto una serie di evidenze cliniche sull'irreversibilità del suo stato, vogliono che la vita artificiale non prosegua e che cessi l'accanimento terapeutico. Esprimono in nome della propria figlia il rifiuto delle cure in atto; un rifiuto che è un diritto riconosciuto del malato o di chi lo rappresenta.

Infine la terza domanda: la validità della sentenza della Cassazione. La Suprema Corte è stata chiamata a giudicare sul diritto dell'interessata o di chi la rappresenta di rifiutare le cure. Non ha neppure avuto bisogno di fondare la sentenza sulle manifestazioni di volontà di Eluana di molti anni fa. Ha accertato, la Suprema Corte, l'inesistenza di una legislazione in materia e si è quindi rifatta, come è suo dovere prescritto in Costituzione, al diritto del malato, anch'esso riconosciuto in Costituzione, di rifiutare le cure.

Sentenza ineccepibile: in assenza di norme e in presenza di diritti costituzionalmente garantiti la Corte giudica in base ai principi dell'ordinamento giudiziario che riconosce il dovere del giudice di tutelare i diritti dei cittadini.

* * *

Le Camere su istanza dei deputati e dei senatori di centrodestra, hanno voluto sollevare conflitto di competenza. Non spetta alla magistratura intervenire bensì al popolo sovrano e a chi lo rappresenta, di fornire una normativa che regoli la questione.

Nessuno nega che spetti al potere legislativo legiferare e non certo alla magistratura, ma qui siamo in una situazione in cui il potere legislativo non ha legiferato provocando un vuoto nel quale solo alla magistratura incombe il dovere di tutelare diritti riconosciuti in Costituzione.
Non esiste dunque conflitto tra i due poteri. Quello giudiziario è intervenuto in difesa d'un diritto in mancanza di legislazione. Quando quel vuoto sarà riempito la magistratura disporrà di una legge e dovrà applicarla sempre che essa non sia in contrasto con i principi costituzionali.
Vedremo comunque quale sarà la sentenza della Corte costituzionale investita del problema.

* * *

C'è stata polemica sul comportamento dei deputati e dei senatori del Partito democratico, che in entrambe le votazioni sul conflitto di competenza hanno preferito disertare l'aula anziché votare contro. Giustamente, a mio avviso, Miriam Mafai ha severamente criticato quella decisione. Penso tuttavia opportuno distinguere quanto è avvenuto alla Camera dei deputati da quanto è avvenuto in Senato.

Alla Camera, come poi al Senato, i rappresentanti del Pd hanno espresso la loro opposizione al conflitto di competenza sollevato dalla maggioranza e si sono poi assentati dall'aula per non provocare crisi di coscienza tra i deputati cattolici aderenti al Pd.

Al Senato invece è stato presentato un ordine del giorno proposto da Luigi Zanda che stabiliva l'impegno a discutere ed approvare la normativa sul testamento biologico entro l'anno in corso. L'ordine del giorno è stato votato anche dai senatori di centrodestra e appoggiato dal presidente del Senato. L'astensione ha avuto dunque una contropartita abbastanza forte.

Duole tuttavia registrare che una parte di parlamentari democratici e cattolici ha presentato un disegno di legge sul testamento biologico difforme in alcune parti sostanziali da un altro analogo documento di legge presentato dallo stesso Partito democratico.

È evidente che queste differenze dovranno essere sanate prima dell'inizio del dibattito parlamentare. Il Pd su un argomento di questa importanza non può che avere una sola voce, ispirata alla laicità dello Stato oltreché alla tutela dei diritti del malato.

Ci sono molti problemi davanti al Pd che dovranno esser chiariti entro il prossimo autunno, ma sarebbe grave se questo tema non fosse considerato tra quelli prioritari. Dall'incontro tra laici e cattolici democratici è nato il Pd. La laicità è stato fin dall'inizio considerato il valore fondante. Questa è la prima prova concreta per saggiare la validità dell'incontro tra quelle due culture. Se la prova fallisse le conseguenze metterebbero in discussione l'esistenza stessa del partito.

(3 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E tutti sparavano sul quartier generale
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 12:41:31 am
POLITICA

E tutti sparavano sul quartier generale

di EUGENIO SCALFARI


TANTE cose che accadono tutte insieme e delle quali ci sfugge il senso. Tante casematte munite di potenti cannoni che sparano da parti diverse sul Quartier Generale. Ma esiste ancora un Quartier Generale? Tanta confusione sotto il cielo che segnala l'emergere d'una nuova storia. Oppure è la vecchia storia che sotto forme diverse si ripete con inevitabile monotonia? Il potere.

Quella che sta andando in scena a tutti i livelli è ancora una volta l'eterna vicenda del potere, quello mondiale e quelli locali, scontro di poteri vecchi e nuovi, terremoti improvvisi e scosse di assestamento. Aumentano dovunque le diseguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra esclusi e inclusi, tra giovani e vecchi, tra istruiti e ignoranti, tra sani e malati, tra Nord e Sud e Est e Ovest, tra religioni e miscredenze, tra maschi e femmine, tra fanatici e tolleranti. Le popolazioni del pianeta hanno le convulsioni e non sappiamo se esse anticipano un generale declino o piuttosto una nuova aurora. Del resto non è la prima volta e il XX secolo è stato attraversato da fenomeni analoghi. Ma questo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è amplificato dalla tecnologia. Avviene ed è percepito dai quattro angoli del mondo in tempo reale e questo fa la differenza.

* * *

I giochi olimpici si svolgono in un immenso paese dominato da un regime autocratico che si sta modernizzando con un tasso di crescita dell'8 per cento l'anno. Un miliardo e 300 milioni di anime delle quali almeno un terzo sono già incluse nella civiltà dei consumi mentre un altro terzo vi entrerà tempo una o due generazioni.

L'autocrazia spinge e regola il mercato. Pervasa dalla corruzione come tutte le autocrazie e come tutte le democrazie, l'austerità non alligna in nessun luogo dalla Grecia di Pericle alla Roma dei Cesari, dalla Compagnia delle Indie alle Corti del Rinascimento.
I giochi rappresentano uno scenario ideale per celebrare la lealtà sportiva e l'amicizia tra i popoli in un contesto di lotte sordide e corposi interessi. In piccolo ne vediamo la ripetizione domestica per quanto sta accadendo all'Expo milanese: Moratti, Tremonti, Formigoni, Ligresti e i leghisti del Dio Po. Spettacolo consueto, niente di nuovo.

Ma a Pechino la posta è immensamente più grande. Una grande potenza emergente si presenta ufficialmente al mondo gettando sul piatto della bilancia il peso della sua forza demografica, economica, politica, militare. La Cina si apre scaricando sul resto del mondo la sua domanda di petrolio, di materie prime, di manufatti, la nube tossica del suo inquinamento, il vincolo tra potere autocratico e sviluppo economico. Ancora una volta i contadini pagano il prezzo del risparmio forzato e dell'accumulazione del capitale. L'esercito di riserva fornisce il combustibile necessario a modernizzare il paese dei "mandarini" e del Celeste Impero.

* * *

Nelle stesse ore è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia. Mentre scriviamo i bombardieri distruggono il porto principale della Georgia e sganciano razzi e bombe sulla regione. La posta apparente è l'Ossezia del Sud, un lembo di terra montuosa senza importanza geopolitica ed economica. Ma dietro un minuscolo problema di sovranità c'è l'aspirazione della Georgia ad entrare nella Nato e il desiderio dell'America di accoglierla mettendo un'ipoteca caucasica sul fianco della Russia. Il Caucaso è una terra di cerniera tra Occidente e Oriente, tra il Caspio e il Mar Nero. Lo fu per Alessandro il Grande, lo fu per i mongoli, lo è stato per l'impero inglese ed ora per gli Stati Uniti, ricco di petrolio e sede di transito dei grandi oleodotti che arrivano fino alla Mesopotamia e al Mediterraneo.

La Georgia è la chiave di quella zona del mondo. Il suo esempio di indipendenza può contagiarsi in vasti territori dell'Asia Centrale, le repubbliche islamiche che premono anch'esse per entrare nella galassia euro-americana fino all'Ucraina e alle terre cosacche.
Perciò la reazione russa sarà durissima come lo fu ai tempi di Shevardnadze, il grande comprimario della "perestrojka" ai tempi di Gorbaciov e poi dittatore della Georgia fino alla rivolta popolare che portò alla sua caduta.

Ma lo scossone georgiano sarà avvertito anche a migliaia di chilometri di lontananza. Avrà ripercussioni sulla lotta all'ultimo voto tra Barack Obama, e John McCain, tra i democratici buonisti e i repubblicani intransigenti e conservatori. Bush ha dato per primo il segnale e McCain l'ha seguito a minuti di distanza. Obama ci ha pensato tre ore per allinearsi ma la sua credibilità è scarsa su questo tema; le bombe dei bombardieri russi su Tbilisi spostano voti preziosi in Pennsylvania e in Texas, sulla costa occidentale e nelle grandi pianure dell'Ovest.

* * *

Accade intanto un fatto strano: il prezzo del petrolio diminuisce da due settimane dopo aver superato il traguardo dei 160 dollari al barile. Si pensava che la guerra nel Caucaso lo riportasse al rialzo e ce n'erano parecchi motivi, invece, quando già tuonavano i cannoni e si accatastavano centinaia di morti, il prezzo del greggio ha toccato il minimo di 115 dollari. Le scorte Usa sono in aumento. Contemporaneamente il dollaro si apprezza rispetto all'euro che da 1,60 è sceso in pochi giorni a 1,50.

Petrolio debole, dollaro più forte. Chi pensava che l'ascesa del greggio fosse frutto prevalentemente della speculazione e proponeva lotta ad oltranza per stroncarla si dovrà ora ricredere: la speculazione precede, come è suo utile compito, l'andamento reale delle curve di domanda e di offerta; quando la domanda supera un'offerta la speculazione gioca al rialzo ma quando si indebolisce gioca al ribasso.
Ora la domanda dei consumatori occidentali è in drastica riduzione, il prezzo era andato troppo in alto, i consumi in America e in Europa si sono contratti, la speculazione punta dunque al ribasso. Le proposte e la diagnosi di Tremonti erano sbagliate e non faranno passi avanti.

Il dollaro segue il petrolio: aumentano e diminuiscono insieme. Ma prima che questi movimenti si ripercuotano sui mercati locali passerà un tempo tecnico la cui durata dipende da vari fattori: la lunghezza dei circuiti distributivi, le loro malformazioni monopoloidi, la mancata liberalizzazione delle catene commerciali ed anche alcune imposte mal pensate. La Robin Tax su petrolio ed energia è una di quelle, dovrebbe dare un gettito di oltre 4 miliardi che in gran parte si trasferiranno sulle bollette dei consumatori, ma ne daranno assai di meno se il consumo diminuirà come sta avvenendo, con inevitabili ripercussioni sul gettito.

* * *

In realtà lo spettro della "stagflation" si aggira sull'Europa e sull'Italia in particolare che da due trimestri è a crescita zero. Se il terzo avrà lo stesso andamento o peggio, saremo per la prima volta dopo molti anni ufficialmente in recessione. I sindacati sono preoccupati, le industrie e il commercio sono preoccupati, Emma Marcegaglia è preoccupata e anche Tremonti lo è. Se cercate uno che non lo sia lo troverete facilmente nel "premier" Silvio Berlusconi che ringrazia la sua squadra di governo e ritiene che la legge finanziaria appena approvata sia la migliore del mondo, loda il suo superministro dell'Economia e promette che passata la buriana saremo più forti di prima.

"Più forti e più felici di pria". Ricordate il Nerone di Petrolini? "Grazie" gridava una voce dalla piazza. "Prego" rispondeva Nerone-Petrolini con la cetra in mano dagli spalti del Palatino. "Grazie" "prego", "prego", "grazie", "prego" in uno scambio sempre più rapido ed esilarante. Tito Boeri nel nostro giornale di ieri ha qualificato come pessima la Finanziaria di Tremonti. Non ripeterò se non per dire quanto sia falsa l'affermazione "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, ma taglieremo le spese". Tagliare gli sprechi è un conto, tagliare 16 miliardi di spese è un conto diverso.

Quel taglio significa mettere le mani nelle tasche degli italiani; che altro avviene infatti quando si tagliano stipendi, contributi agli enti locali, minori posti letto e chiusura di ospedali, imposizione di ticket, peggioramento dei servizi? Crescita zero del reddito? Inflazione? Non è un altro modo di mettere le mani nelle tasche? Pensate che sia un modo indolore?
Se si tagliano così profondamente e indifferenziatamente le spese, bisogna compensarle in qualche modo. Bisogna scegliere chi si può penalizzare e chi no. Una cosa è certa: la tassa inflazione colpisce i redditi fissi cioè il lavoro. Qualcuno ci rimette, qualcuno ci guadagna, anche qui a livelli diversi si riproducono diseguaglianze e lotta per il potere. Nulla è neutrale e chi vuol darcela da bere è un emerito imbroglione.

Post Scriptum 1. Due giorni dopo l'entrata in scena dei militari nel sistema della sicurezza pubblica alcune villette di Sabaudia (chissà quante altre in tutta Italia) sono state depredate dai ladri. Tra di esse quella affittata da Veltroni in cui dormivano la moglie e la figlia. Ma dov'erano quella sera i lancieri di Montebello? Caro Walter non ti fidare: i ladri se ne fregano delle ronde interforze che magari arresteranno un marocchino in più ma non riusciranno ad ottenere un furto in meno. Meglio ingaggiare un vigilante privato. Costa, ma dà lavoro e protegge.

Post Scriptum 2. Sento dire che l'amico Giuliano Amato è amareggiato perché alcuni del Pd criticano la sua accettazione della presidenza di una Commissione voluta congiuntamente dalla Regione Lazio (centrosinistra) dalla Provincia di Roma (idem) e dal Comune capitolino (Alemanno). Amato ritiene che una Commissione bipartisan sia utile a svelenire gli animi e ad avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche, sia pure a livello locale, sulla linea anticipata dal Presidente Napolitano.

Personalmente credo che Amato abbia ragione ma qualche dubbio ce l'ho anch'io. Non sull'esistenza della Commissione e tanto meno sulla presidenza di Amato, ma sui compiti affidati a quell'organismo. Che deve fare? Si dice: studiare la nuova architettura istituzionale della Capitale. Ma ci vuole una Commissione per questo? Si scavalcano i Consigli comunali provinciali regionali? O se ne occupa una Commissione esterna o se ne occupano i Consigli, una delle due entità è uno spreco di troppo. Ma si dice anche che la Commissione dovrà fornire idee sul futuro della Città eterna. Che genere di idee? Coltivare il pistacchio nei prati dell'Eur sarebbe un'idea? Istituire un servizio di mongolfiere o di elicotteri tra l'aeroporto di Fiumicino e la terrazza del Pincio sarebbe un'idea?

Mi viene in mente una poesia satirica del Ragazzoni che aveva come suo principale hobby quello di scavare buchi nella sabbia. "Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia".

(10 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E tutti sparavano sul quartier generale
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2008, 09:13:39 am
POLITICA

E tutti sparavano sul quartier generale

di EUGENIO SCALFARI


TANTE cose che accadono tutte insieme e delle quali ci sfugge il senso. Tante casematte munite di potenti cannoni che sparano da parti diverse sul Quartier Generale. Ma esiste ancora un Quartier Generale? Tanta confusione sotto il cielo che segnala l'emergere d'una nuova storia. Oppure è la vecchia storia che sotto forme diverse si ripete con inevitabile monotonia? Il potere.

Quella che sta andando in scena a tutti i livelli è ancora una volta l'eterna vicenda del potere, quello mondiale e quelli locali, scontro di poteri vecchi e nuovi, terremoti improvvisi e scosse di assestamento. Aumentano dovunque le diseguaglianze. Tra ricchi e poveri, tra esclusi e inclusi, tra giovani e vecchi, tra istruiti e ignoranti, tra sani e malati, tra Nord e Sud e Est e Ovest, tra religioni e miscredenze, tra maschi e femmine, tra fanatici e tolleranti. Le popolazioni del pianeta hanno le convulsioni e non sappiamo se esse anticipano un generale declino o piuttosto una nuova aurora. Del resto non è la prima volta e il XX secolo è stato attraversato da fenomeni analoghi. Ma questo che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è amplificato dalla tecnologia. Avviene ed è percepito dai quattro angoli del mondo in tempo reale e questo fa la differenza.

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I giochi olimpici si svolgono in un immenso paese dominato da un regime autocratico che si sta modernizzando con un tasso di crescita dell'8 per cento l'anno. Un miliardo e 300 milioni di anime delle quali almeno un terzo sono già incluse nella civiltà dei consumi mentre un altro terzo vi entrerà tempo una o due generazioni.

L'autocrazia spinge e regola il mercato. Pervasa dalla corruzione come tutte le autocrazie e come tutte le democrazie, l'austerità non alligna in nessun luogo dalla Grecia di Pericle alla Roma dei Cesari, dalla Compagnia delle Indie alle Corti del Rinascimento.
I giochi rappresentano uno scenario ideale per celebrare la lealtà sportiva e l'amicizia tra i popoli in un contesto di lotte sordide e corposi interessi. In piccolo ne vediamo la ripetizione domestica per quanto sta accadendo all'Expo milanese: Moratti, Tremonti, Formigoni, Ligresti e i leghisti del Dio Po. Spettacolo consueto, niente di nuovo.

Ma a Pechino la posta è immensamente più grande. Una grande potenza emergente si presenta ufficialmente al mondo gettando sul piatto della bilancia il peso della sua forza demografica, economica, politica, militare. La Cina si apre scaricando sul resto del mondo la sua domanda di petrolio, di materie prime, di manufatti, la nube tossica del suo inquinamento, il vincolo tra potere autocratico e sviluppo economico. Ancora una volta i contadini pagano il prezzo del risparmio forzato e dell'accumulazione del capitale. L'esercito di riserva fornisce il combustibile necessario a modernizzare il paese dei "mandarini" e del Celeste Impero.

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Nelle stesse ore è scoppiata la guerra tra Russia e Georgia. Mentre scriviamo i bombardieri distruggono il porto principale della Georgia e sganciano razzi e bombe sulla regione. La posta apparente è l'Ossezia del Sud, un lembo di terra montuosa senza importanza geopolitica ed economica. Ma dietro un minuscolo problema di sovranità c'è l'aspirazione della Georgia ad entrare nella Nato e il desiderio dell'America di accoglierla mettendo un'ipoteca caucasica sul fianco della Russia. Il Caucaso è una terra di cerniera tra Occidente e Oriente, tra il Caspio e il Mar Nero. Lo fu per Alessandro il Grande, lo fu per i mongoli, lo è stato per l'impero inglese ed ora per gli Stati Uniti, ricco di petrolio e sede di transito dei grandi oleodotti che arrivano fino alla Mesopotamia e al Mediterraneo.

La Georgia è la chiave di quella zona del mondo. Il suo esempio di indipendenza può contagiarsi in vasti territori dell'Asia Centrale, le repubbliche islamiche che premono anch'esse per entrare nella galassia euro-americana fino all'Ucraina e alle terre cosacche.
Perciò la reazione russa sarà durissima come lo fu ai tempi di Shevardnadze, il grande comprimario della "perestrojka" ai tempi di Gorbaciov e poi dittatore della Georgia fino alla rivolta popolare che portò alla sua caduta.

Ma lo scossone georgiano sarà avvertito anche a migliaia di chilometri di lontananza. Avrà ripercussioni sulla lotta all'ultimo voto tra Barack Obama, e John McCain, tra i democratici buonisti e i repubblicani intransigenti e conservatori. Bush ha dato per primo il segnale e McCain l'ha seguito a minuti di distanza. Obama ci ha pensato tre ore per allinearsi ma la sua credibilità è scarsa su questo tema; le bombe dei bombardieri russi su Tbilisi spostano voti preziosi in Pennsylvania e in Texas, sulla costa occidentale e nelle grandi pianure dell'Ovest.

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Accade intanto un fatto strano: il prezzo del petrolio diminuisce da due settimane dopo aver superato il traguardo dei 160 dollari al barile. Si pensava che la guerra nel Caucaso lo riportasse al rialzo e ce n'erano parecchi motivi, invece, quando già tuonavano i cannoni e si accatastavano centinaia di morti, il prezzo del greggio ha toccato il minimo di 115 dollari. Le scorte Usa sono in aumento. Contemporaneamente il dollaro si apprezza rispetto all'euro che da 1,60 è sceso in pochi giorni a 1,50.

Petrolio debole, dollaro più forte. Chi pensava che l'ascesa del greggio fosse frutto prevalentemente della speculazione e proponeva lotta ad oltranza per stroncarla si dovrà ora ricredere: la speculazione precede, come è suo utile compito, l'andamento reale delle curve di domanda e di offerta; quando la domanda supera un'offerta la speculazione gioca al rialzo ma quando si indebolisce gioca al ribasso.
Ora la domanda dei consumatori occidentali è in drastica riduzione, il prezzo era andato troppo in alto, i consumi in America e in Europa si sono contratti, la speculazione punta dunque al ribasso. Le proposte e la diagnosi di Tremonti erano sbagliate e non faranno passi avanti.

Il dollaro segue il petrolio: aumentano e diminuiscono insieme. Ma prima che questi movimenti si ripercuotano sui mercati locali passerà un tempo tecnico la cui durata dipende da vari fattori: la lunghezza dei circuiti distributivi, le loro malformazioni monopoloidi, la mancata liberalizzazione delle catene commerciali ed anche alcune imposte mal pensate. La Robin Tax su petrolio ed energia è una di quelle, dovrebbe dare un gettito di oltre 4 miliardi che in gran parte si trasferiranno sulle bollette dei consumatori, ma ne daranno assai di meno se il consumo diminuirà come sta avvenendo, con inevitabili ripercussioni sul gettito.

* * *

In realtà lo spettro della "stagflation" si aggira sull'Europa e sull'Italia in particolare che da due trimestri è a crescita zero. Se il terzo avrà lo stesso andamento o peggio, saremo per la prima volta dopo molti anni ufficialmente in recessione. I sindacati sono preoccupati, le industrie e il commercio sono preoccupati, Emma Marcegaglia è preoccupata e anche Tremonti lo è. Se cercate uno che non lo sia lo troverete facilmente nel "premier" Silvio Berlusconi che ringrazia la sua squadra di governo e ritiene che la legge finanziaria appena approvata sia la migliore del mondo, loda il suo superministro dell'Economia e promette che passata la buriana saremo più forti di prima.

"Più forti e più felici di pria". Ricordate il Nerone di Petrolini? "Grazie" gridava una voce dalla piazza. "Prego" rispondeva Nerone-Petrolini con la cetra in mano dagli spalti del Palatino. "Grazie" "prego", "prego", "grazie", "prego" in uno scambio sempre più rapido ed esilarante. Tito Boeri nel nostro giornale di ieri ha qualificato come pessima la Finanziaria di Tremonti. Non ripeterò se non per dire quanto sia falsa l'affermazione "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani, ma taglieremo le spese". Tagliare gli sprechi è un conto, tagliare 16 miliardi di spese è un conto diverso.

Quel taglio significa mettere le mani nelle tasche degli italiani; che altro avviene infatti quando si tagliano stipendi, contributi agli enti locali, minori posti letto e chiusura di ospedali, imposizione di ticket, peggioramento dei servizi? Crescita zero del reddito? Inflazione? Non è un altro modo di mettere le mani nelle tasche? Pensate che sia un modo indolore?
Se si tagliano così profondamente e indifferenziatamente le spese, bisogna compensarle in qualche modo. Bisogna scegliere chi si può penalizzare e chi no. Una cosa è certa: la tassa inflazione colpisce i redditi fissi cioè il lavoro. Qualcuno ci rimette, qualcuno ci guadagna, anche qui a livelli diversi si riproducono diseguaglianze e lotta per il potere. Nulla è neutrale e chi vuol darcela da bere è un emerito imbroglione.

Post Scriptum 1. Due giorni dopo l'entrata in scena dei militari nel sistema della sicurezza pubblica alcune villette di Sabaudia (chissà quante altre in tutta Italia) sono state depredate dai ladri. Tra di esse quella affittata da Veltroni in cui dormivano la moglie e la figlia. Ma dov'erano quella sera i lancieri di Montebello? Caro Walter non ti fidare: i ladri se ne fregano delle ronde interforze che magari arresteranno un marocchino in più ma non riusciranno ad ottenere un furto in meno. Meglio ingaggiare un vigilante privato. Costa, ma dà lavoro e protegge.

Post Scriptum 2. Sento dire che l'amico Giuliano Amato è amareggiato perché alcuni del Pd criticano la sua accettazione della presidenza di una Commissione voluta congiuntamente dalla Regione Lazio (centrosinistra) dalla Provincia di Roma (idem) e dal Comune capitolino (Alemanno). Amato ritiene che una Commissione bipartisan sia utile a svelenire gli animi e ad avviare un dialogo costruttivo tra le forze politiche, sia pure a livello locale, sulla linea anticipata dal Presidente Napolitano.

Personalmente credo che Amato abbia ragione ma qualche dubbio ce l'ho anch'io. Non sull'esistenza della Commissione e tanto meno sulla presidenza di Amato, ma sui compiti affidati a quell'organismo. Che deve fare? Si dice: studiare la nuova architettura istituzionale della Capitale. Ma ci vuole una Commissione per questo? Si scavalcano i Consigli comunali provinciali regionali? O se ne occupa una Commissione esterna o se ne occupano i Consigli, una delle due entità è uno spreco di troppo. Ma si dice anche che la Commissione dovrà fornire idee sul futuro della Città eterna. Che genere di idee? Coltivare il pistacchio nei prati dell'Eur sarebbe un'idea? Istituire un servizio di mongolfiere o di elicotteri tra l'aeroporto di Fiumicino e la terrazza del Pincio sarebbe un'idea?

Mi viene in mente una poesia satirica del Ragazzoni che aveva come suo principale hobby quello di scavare buchi nella sabbia. "Sento intorno sussurrarmi che ci sono altri mestieri / Bravi, a voi! scolpite marmi / combattete il beri-beri /coltivate ostriche a Chioggia / filugelli in Cadenabbia / fabbricate parapioggia / io fo buchi nella sabbia".

(10 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Arrivano i nostri
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2008, 05:25:41 pm
Eugenio Scalfari


Arrivano i nostri


Da quando i creativi di destra hanno ripreso il potere, abbiamo assistito a molte delle loro invenzioni. La più grottesca è quella di inserire i militari nel piano di sicurezza  Ignazio La RussaBerlusconi è creativo. Tremonti è creativo. A modo suo anche Ignazio La Russa è creativo. Diciamo che il centrodestra nel suo complesso è creativo. Forse questa capacità e questa vocazione sono state sottovalutate dalla sinistra.

Gli italiani sono quasi tutti creativi. Bisognerebbe a questo punto definire che cosa si intende per creativo. È una qualità molto individuale, anzi individualistica. I creativi amano molto poco le convenzioni e ancora meno le regole. Esser creativo ti porta inevitabilmente a rompere sia le une che le altre. I creativi non amano l'autorità costituita, non amano lo Stato. Hanno venature di anarchismo. Voglia di fare da sé. Tendenza a delegare ad altri l'onere di amministrare una convivenza sociale della quale i creativi fruiscono a patto di non doversene prender cura. Prezzolini diceva che governare gli italiani non è impossibile, ma è inutile. Mussolini prese in prestito questa battuta e molti altri, anche ora, la ripetono. Perfino Andreotti l'ha fatta propria più di una volta.

In questi ultimi mesi, da quando i creativi di destra hanno di nuovo preso il potere, abbiamo assistito a molte delle loro 'invenzioni', alcune accettabili, altre al limite del grottesco. Ma secondo me la più geniale di tutte è stata quella di inserire un contingente di militari nel piano di sicurezza fortemente voluto dal centrodestra, dai suoi elettori e anche da una larga parte dell'opposizione.

'Arriva l'esercito!' questa frase, sparata dai media, è passata di bocca in bocca tra la fine di luglio e il 4 agosto, giorno in cui i 3 mila uomini del contingente militare sono entrati in campo con le modalità previste dal famoso decreto ormai diventato legge dello Stato.

Arriva l'esercito, come 'arrivano i nostri' cari ai ragazzini della mia generazione quando, nei primi western della storia del cinema i cavalleggeri arrivavano a gran galoppo in soccorso di una piccola pattuglia di cow-boys che stava per arrendersi di fronte ad una marea di indiani. Quando noi ragazzotti di otto-dieci anni seguivamo quelle scene col fiato in gola, lo squillo della tromba che suonava la carica scatenava l'entusiasmo della platea infantile. Battevamo le mani e i piedi gridando 'arrivano i nostri' e le sorti di quella storia si capovolgevano.


Berlusconi è creativo e di scienza delle comunicazioni se ne intende come pochi. Secondo me dovrebbe ricevere, lui sì, una laurea honoris causa in quella disciplina da parte di tutte le Università italiane. L'arrivo dell'esercito è stato il suo capolavoro, condiviso da La Russa. Fiorello, che anche lui se ne intende, ne dovrebbe prender nota per perfezionare le sue imitazioni.

Dico questo perché, esaminata a tavolino, la norma che inserisce un contingente militare nel sistema della Pubblica sicurezza è assolutamente priva di senso. Si tratta di 3 mila soldati e ufficiali scelti tra paracadutisti, alpini, granatieri e lancieri di Montebello. La regola di ingaggio ne prevede compiti di presidio a pubblici edifici e a zone sensibili (per esempio le discariche dei rifiuti), ma anche compiti di pattugliamento in formazione interforze, insieme a carabinieri, polizia e Guardia di Finanza. Ai pattugliamenti sono adibiti 500 militari, vale a dire solo un sesto del contingente.

In che modo un contributo così minuscolo possa rafforzare il sistema della sicurezza pubblica resta un misero. Sommando carabinieri, polizia di Stato e Guardia di Finanza si arriva a un totale di 300 mila uomini. Anche defalcando quelli di loro adibiti a compiti amministrativi ne restano a dir poco 200 mila destinati a investigare, prevenire e reprimere sul campo i colpevoli di reati. I 3 mila militari del contingente sicurezza rappresentano dunque l'1,5 per cento del totale delle forze di Ps; i 500 uomini adibiti ai pattugliamenti ne costituiscono una frazione infinitesimale. Eppure... 'arrivano i nostri'.

Un mio amico siciliano d'un piccolo paese della campagna agrigentina dove ancora risiede sua madre ottantenne, mi ha raccontato un suo colloquio telefonico con la mamma. "Era più tranquilla, mi ha detto, perché stavano per arrivare i militari. Quali militari?, gli ho chiesto. I soldati, quelli dell'esercito. Ma chi te l'ha detto? La televisione. Ma non arriveranno mai nel nostro paese. Invece sì, la televisione l'ha detto. E perché sei più tranquilla? Perché cacceranno gli zingari che rubano i soldi e anche i bambini. Ma non ci sono mai stati zingari da noi. No, ma sono pericolosi e rubano tutto. Mamma, hai mai visto uno zingaro nella tua vita? No, però la televisione dice che sono pericolosi, ma adesso che arrivano i militari mi sento rassicurata. Da noi però c'è la mafia, le ho detto io. Sì, mi ha risposto, ma quelli li conosciamo, sono del paese".

Questa è la stata la telefonata del mio amico con sua madre. Io propongo per Berlusconi e per La Russa un 'master' in creatività, magari rilasciato dai Lincei o dall'Accademia di San Luca. Se lo meritano tutto.
(14 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'opinione pubblica è rimasta senza voce
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:24:06 pm
POLITICA

L'opinione pubblica è rimasta senza voce

di EUGENIO SCALFARI


DAL FESTIVAL cinematografico di Locarno dove si trovava, Nanni Moretti qualche giorno fa ha lanciato una provocazione politica. "In Italia - ha detto - l'opposizione non esiste più ma c'è un altro fenomeno ancora peggiore: non c'è più un'opinione pubblica. Il dominio di Berlusconi sulle reti televisive ha spostato e devastato il modo di pensare degli italiani".

Moretti non è il solo ad essere arrivato a questa conclusione; l'autore del "Caimano" ha però il pregio di non esser mosso da alcun interesse né ideologico né pratico; esprime icasticamente un modo di pensare e di constatare che in parte anch'io condivido ma che merita comunque alcune precisazioni. Soprattutto per quel che riguarda la pubblica opinione. Il tema è di grande importanza, specialmente nei Paesi democratici. In essi infatti l'opinione pubblica costituisce la sostanza vitale sulla quale la democrazia imprime la propria forma.

Anche nei Paesi governati da sistemi autoritari o, peggio, totalitari l'opinione pubblica rappresenta un elemento essenziale cui il potere dedica specialissime cure. Il fine di questi regimi consiste nella sistematica manipolazione delle coscienze affinché siano persuase ad una credenza conforme. Una variante (non necessariamente alternativa) è quella di smantellare ogni tipo di opinione facendo rifluire l'attenzione dei cittadini sui loro interessi privati. Questo processo, se portato alle sue conseguenze ultime, conduce alla desertificazione dell'opinione pubblica. Mi sembra che l'autore del "Caimano" pensi e tema soprattutto questa variante: il dominio delle opinioni private al posto dell'opinione pubblica, alle mire del regime dominante.

Altre volte ho scritto che lo specchio in cui si rifletteva l'immagine che i cittadini avevano del loro Paese si è rotto in tanti frammenti i quali riflettono soltanto la figura e gli interessi frammentati di chi vi si specchia. Tante opinioni private senza più una visione del bene comune: questo è il prodotto del berlusconismo, agevolato e amplificato dal controllo dei "media". Ad esso l'opposizione non ha saputo rispondere: nonostante le intenzioni di seguire una strada opposta ha subito l'egemonia berlusconiana e si è sintonizzata sulla stessa lunghezza d'onda, convinta di poter diffondere messaggi diversi. Allo stato dei fatti l'esito di questo scontro ha dato un solo vincitore e parecchi sconfitti.

Tuttavia l'esito non è definitivo e non tutte le opinioni sono state ridotte alla sola dimensione privata. Ci sono ancora gruppi consistenti di cittadini che coltivano una visione del bene comune, che sentono il bisogno impellente di pensare in termini di bene comune senza contrabbandare dietro queste due parole i loro privatissimi egoismi e le loro personali egolatrie.

Esiste per esempio un'opinione pubblica "berlusconista". Coltivata, amplificata, puntellata con mezzi imponenti, ma di cui sarebbe un madornale errore negare l'esistenza. Sicurezza, tolleranza zero, intransigenza identitaria, fiducia nel leader anche a costo di veder sacrificati alcuni privati interessi. Un'opinione pubblica così conformata costituisce la base di consenso che accomuna le spinte identitarie berlusconiste e leghiste. Caro Moretti, quest'opinione pubblica c'è; anche se da quello specchio emerge una figura che a te ed a me risulta ripugnante, è tuttavia con essa che si debbono fare i conti.

C'è un altro specchio e un'altra opinione pubblica di diversa natura; è quella di cui parla Giuseppe De Rita quando delinea una strategia cattolica fondata sulle comunità locali, sul volontariato, sul doppio pedale del "sacro" e del "santo", cioè della fede e delle opere.
Questa visione del bene comune indubbiamente esiste ma non si identifica né con il Vaticano né con la Conferenza episcopale. Sono piuttosto i cattolici degli oratori, delle case religiose, delle comunità di dimensioni nazionali, di alcuni Ordini religiosi.

Il sacro e il santo. Riesce molto difficile dare una figura politica a questo tipo di opinione pubblica, ma senza una figura politica non esiste una visione di bene comune perché non esiste una "polis", una città terrena dove applicarla. Il sacro non è infatti di questo mondo. Quanto al santo, cioè alle opere, esse costituiscono un'importante presenza testimoniale e missionaria, una rete flessibile come tutte le reti e quindi disponibile ad essere utilizzata da forze esterne. Dietro il santo c'è molto spesso un vitello d'oro da adorare invece del poverello di Assisi e ne abbiamo tutti i giorni la prova.

Esiste anche, da almeno due secoli, ed opera attivamente in tutte le democrazie occidentali un'altra opinione pubblica con caratteristiche sue proprie ed è quella espressa dalla "business community". Possiede potenti strumenti di formazione e di diffusione ed ha una sua precisa visione del bene comune: libertà di mercato, regole blande, considerazione degli interessi costituiti, Stato efficiente e leggero. Insomma il capitalismo, che può assumere di volta in volta forme molto diverse tra loro, dal liberismo al protezionismo, dall'alleanza con la democrazia a quella con la "governance" autoritaria.

Oggi questa opinione pubblica è tendenzialmente orientata verso la versione berlusconista della democrazia, con simpatie leghiste diffuse soprattutto nel Nord-Nordest, ma la "business community" fa comunque parte a sé, ha il suo metro di giudizio, i suoi valori e la sua moralità che si realizza nel profitto d'impresa, "variabile indipendente" alla quale tutte le altre a cominciare dal lavoro debbono conformarsi.

Infine esiste (stavo per scrivere esiste ancora) un'opinione pubblica di centro e di sinistra riformista, progressista, laica. La sconfitta elettorale di un anno fa sembra averla ridotta ad uno stato larvale; non riesce ad esprimere un pensiero unitario e un'egemonia culturale, percorsa da convinzioni forti ma contrastanti: tolleranza, solidarietà, legalità, federalismo, centralismo, pacifismo, sicurezza, diritti, doveri, gregarismo, moderazione, massimalismo. Spore del possibile avrebbe detto Montale. Belle persone e volti consumati. Lotte per conquistare un potere inesistente e futuribile. Trasformismi sottotraccia e idealismi generosi.

Quest'opinione pubblica avrebbe bisogno d'una voce che la rappresenti e di una forma che la riporti in battaglia. E ancora una volta dico: d'uno specchio in cui possa guardarsi e rassicurarsi del proprio esistere.
Alle primarie dello scorso ottobre questa forma sembrò realizzarsi. Sono passati dieci mesi da allora e sembra un tempo lontanissimo. Può tornare soltanto se ricreato da un atto di volontà collettiva. Le scorciatoie individuali non servono a nulla, nascondono piccole vanità e mediocri trasformismi.

Serve una volontà di massa per risollevare un Paese sdrucito e frastornato. Si può fare? Fino a poco tempo fa pensavo di sì, ma i giorni passano in fretta e non inducono a pensare positivo. Le spinte centrifughe aumentano e il "si salvi chi può" rischia di diventare un sentimento diffuso. Se volete dare un segnale di riscossa dovete alzarvi e camminare. Altrimenti attaccate la bicicletta al chiodo e non pensateci più. Toccherà pensarci ai vostri nipoti se ne avrete.

Post scriptum. Tre giorni fa l'ufficio statistico europeo Eurostat ha diffuso le cifre ufficiali concernenti il Pil di Eurolandia. Per la prima volta dalla nascita della moneta unica il Pil del secondo semestre di quest'anno arretra dello 0.2 per cento. Non vuol dire ancora recessione ma poco ci manca.

L'inflazione dal canto suo è ferma al 4 per cento, ma molti segnali registrano un'inversione di tendenza: petrolio, materie prime, prodotti ferrosi, derrate alimentari denunciano consistenti ribassi sui mercati internazionali anche se su molti mercati locali questi ribassi ancora non arrivano, ostacolati dalla lentezza dei circuiti distributivi e dalla presenza di monopoli e cartelli.

Fermo restando che l'andamento dell'inflazione dev'essere continuamente controllato, il pericolo incombente riguarda - ormai risulta in modo evidente - una drastica caduta della domanda di consumi e di investimenti con il cupo corteggio di disoccupazione e di ulteriore arretramento del reddito nazionale e individuale.

Da questo punto di vista l'intera impostazione della manovra finanziaria risulta a dir poco fuori tempo. La compressione triennale della spesa per un totale di 36 miliardi dei quali 16 già nel primo esercizio, a parità di pressione fiscale, configura una strategia insensata. Se è vero che la crisi attuale ricorda per gravità e dimensioni gli eventi del triennio 1929-1932, è altrettanto vero che le misure finanziarie fin qui attuate ricordano quelle che in Usa furono prese dalla presidenza repubblicana precedente all'avvento di Franklin D. Roosevelt. Misure sciagurate, che aggravarono ulteriormente la crisi e rallentarono gli effetti del rilancio rooseveltiano sulla domanda di consumi e di investimenti.

In queste condizioni, quali che siano le opinioni di Tremonti e di Calderoli, parlare di federalismo fiscale è pura accademia e fumo negli occhi per distogliere l'attenzione da questioni assai più cogenti. Una trasformazione radicale del sistema tributario e dei poteri amministrativi effettuati in tempi di recessione e di deflazione è inattuabile poiché comporta gravissimi rischi. Come se, in tempi di tempesta, il timone della nave fosse affidato a venti timonieri anziché ad uno. Basta enunciare un'ipotesi del genere per esserne terrorizzati.

(17 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il rischio federalista nel Paese spezzato
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2008, 06:28:32 pm
L'EDITORIALE

Il rischio federalista nel Paese spezzato

di EUGENIO SCALFARI



DEDICO queste note di oggi al federalismo, fiscale e costituzionale e cioè all'attribuzione di competenze allo Stato, alle Regioni, alle Province, ai Comuni e alle risorse necessarie per farvi fronte. Ancora si sa molto poco delle proposte leghiste e quel poco è molto contraddittorio. Perciò cercherò soprattutto di individuare i vari problemi che il federalismo dovrebbe risolvere e quelli ancora più numerosi che esso solleverà nella società e nell'amministrazione.

Ma prima c'è un altro tema da affrontare, del quale mi sono già occupato domenica scorsa e cioè lo stato dell'opinione pubblica in Italia. Il tema ha suscitato numerosi interventi e anche qualche fraintendimento come sempre accade quando il dibattito si fa vivace e denso di interessi anche politici. Del resto non si tratta di un argomento peregrino rispetto a quello del federalismo; le autonomie del territorio, l'identità nazionale e quelle locali, le loro reciproche compatibilità e idiosincrasie affondano infatti le radici nelle opinioni che le sostengono. L'opinione pubblica è come l'atmosfera: impalpabile, pura o inquinata, strutturata nelle sue componenti chimiche ma al tempo stesso volatile sotto la sferza di venti improvvisi.

Un federalismo che non fosse appoggiato dall'opinione pubblica nazionale sarebbe morto; d'altra parte una nazione che non si riconosca come tale è destinata a sfasciarsi. Per questi motivi il dibattito sull'attuale consistenza delle opinioni costituisce una sorta di pre-condizione al riassetto delle istituzioni, centrali e locali. Ho scritto domenica scorsa che esistono nella nostra società diverse opinioni: una berlusconista, una riformista e laica, una cattolica, una ispirata alle imprese e ai valori economici. Aggiungo che vi è anche un'opinione nordista molto forte. Ma l'aspetto più inquietante non sta nel fatto che queste diverse opinioni forniscano l'immagine di una società divisa in tanti spezzoni discordanti tra loro. La differenza è un fatto normale in una società democratica anzi addirittura positivo.

L'aspetto inquietante consiste invece nel degrado dell'opinione pubblica in una miriade di opinioni private, di gruppo e di corporazione, di territori e di individui. Lo specchio rotto riflette in ogni suo frammento una figura e un interesse particolare. La visione del bene comune in queste condizioni diventa spesso ipocrisia. Si pensa e si agisce per sé e per la propria confraternita. I valori degradano a convenienze personali e corporative. Questa che per me rappresenta la devastazione e la desertificazione di ogni opinione pubblica costituisce il brodo di coltura del populismo, della democrazia plebiscitaria e autoritaria, della delega in bianco. Nadia Urbinati l'ha chiamata "dissenso docile" e quindi indebolimento dell'opposizione. È un modo efficace per descrivere un processo. Ma Aldo Schiavone, che pure concorda sull'immagine dello specchio rotto e del privatizzarsi delle opinioni, vede in quest'ultimo fenomeno alcuni aspetti positivi. Ci vede un modo per resistere all'apatia, alla pigrizia sociale e ci vede una capacità di farsi largo e un modo per restare in gara nell'economia globale.

Non sono d'accordo su questo giudizio consolatorio in mancanza di meglio. Per tre ragioni: la prima è che lo smarrimento dell'interesse generale e la privatizzazione degli interessi favoriscono il dominio dei forti sui deboli e l'attuarsi di intollerabili dislivelli e odiose diseguaglianze sociali. La seconda è la scomparsa della politica come attività regolatrice della convivenza e la sua degradazione a pura funzione di sostegno degli interessi forti. Basta leggere su "Repubblica" di venerdì l'intervento di Federica Guidi, presidente dei giovani industriali di Confindustria, per avere l'immagine di un'ideologia economicista che vede la politica come il "comitato d'affari" del potere economico del quale parlavano i marxisti del secolo scorso, rinverdito nell'epoca della globalizzazione.

Ma la terza ragione a me sembra ancora più dirimente delle prime due: la privatizzazione delle opinioni non è un fenomeno recente ed effimero, ma una costante della storia d'Italia. Una costante nefasta ma per fortuna combattuta da uno spirito pubblico che non si rassegna alla polverizzazione familistica e corporativa e si pone valori collettivi. Valori di colore diverso uno dall'altro ma vissuti come tali e quindi politici.

Lo scontro tra l'Italia "che si arrangia" e l'Italia "che si impegna" non è altro che la storia di questo Paese dall'epoca delle "Signorie" fino ad oggi. In questo scontro l'Italia "che si arrangia" ha avuto la meglio molto più spesso dell'Italia "che si impegna". Quando parlo di impegno sono ben consapevole che questa parola va al di là degli steccati tra destra e sinistra. L'Italia che si arrangia ha vinto tutte le volte che i detentori del potere hanno dato, essi per primi, l'esempio di privatizzare l'interesse pubblico e questo esempio è stato così frequente e così devastante da configurare il nostro Paese con le maschere della commedia dialettale. L'italiano è anarchico, furbo, debole e servile con i potenti, crudele e arrogante con i più deboli. Questa è l'immagine: convenzionale perché reale.

Ad essa si oppongono gli italiani consapevoli delle proprie responsabilità collettive. Anch'essi sono portatori di interessi, non hanno certo natura angelica né eroica. Il loro impegno consiste nel sublimare gli interessi a valori collettivi, impersonati da soggetti collettivi, ricostruendo uno specchio nel quale la società possa riflettersi insieme al proprio passato e alla progettazione del proprio futuro.

Ho colto durante questo dibattito molte voci che rivalutano il presente, la necessità di agire sul presente e nel presente, ma questa è una tautologia perché si opera sempre e comunque nel presente; ma il futuro comincia già un attimo dopo. Chi opera e vive attimo per attimo è una barca senza timone e senza nocchiero, a cominciare dall'imprenditore che vuole realizzare valore (cioè profitti) subito. Quando questo accade la finanza soverchia l'industria e i risultati negativi si vedono. L'investimento imprenditoriale segue una sua strategia e comporta tempi tecnici per attuarla nonché i rischi che ne derivano. Si opera dunque nel presente avendo l'occhio al futuro e la memoria delle origini dalle quali si proviene. Diceva Dante: "Tu sè manto che tosto raccorce / sì che se non s'appon di die in die / lo tempo va dintorno con le force". Parla della vita e della sua nobiltà. Troppo spesso lo dimentichiamo.

Il federalismo è senza dubbio entrato nel sentimento degli italiani in questa fase della nostra vita pubblica, con un'intensità inversamente proporzionale all'attenuarsi del sentimento nazionale e di quello europeista. L'identità localistica, regionale e comunale, ha un netto sopravvento non tanto sulla nazione intesa come patria quanto sullo Stato.

Lo Stato non ha mai goduto d'un grande favore in Italia. Oggi è addirittura detestato dalla maggioranza dei nostri concittadini. Deve essere leggero. Funzionale. Assolutamente privo di etica, cioè non portatore di visioni etiche. L'etica ce la mette semmai la Chiesa. Ma quella della Chiesa è un'etica tradizionale e solidaristica. I suoi pilastri sono la famiglia e la carità, cioè l'amore del prossimo, pilastri che non combaciano con l'identità localistica. Non a caso il popolo leghista è assai poco cattolico, almeno nel senso della solidarietà ecumenica.

Il rischio del federalismo dal punto di vista dei sentimenti è quello di accrescere la separatezza localistica non soltanto tra Nord e Sud ma anche tra Piemonte e Lombardia, Lombardia e Veneto, Puglia e Marche, Lazio e Campania e addirittura tra Padova e Verona, tra Roma e Milano, tra Brescia e Bergamo, tra Parma e Bologna, tra Catania e Palermo.

La Lega infatti è preoccupata da questi contrasti e farà quanto può per superarli o almeno non aggravarli dal punto di vista fiscale. Calderoli nella sua inedita versione di statista ha già fatto il giro delle sette chiese per realizzare un ecumenismo federalista perché alla Lega interessa portare a casa entro la fine dell'anno la legge delega. Rinviare oltre quella data non si può perché la macchina federalista è stata ormai lanciata a pieno motore e fermarla adesso equivarrebbe ad una catastrofe politica.

Gli obiettivi della Lega sono almeno tre: diminuire la distanza tra cittadini e istituzioni, trattenere "in loco" il maggior numero di entrate fiscali, acquistare sovranità locali sul maggior numero di materie. Per rendere accettabili in tutto il Paese queste finalità sentite prevalentemente nel Nord, la Lega ha capito che occorre "vestire" di valori questi interessi e quindi confezionare un'immagine che sia attraente per tutti. L'immagine è quella di un federalismo che avrà come risultato finale la diminuzione del dislivello tra Sud e Nord perché l'autonomia consentirà al Sud di accrescere i suoi redditi; il livello delle imposte diminuirà (in futuro), le amministrazioni locali saranno più snelle e più efficienti, alle regioni di più bassa capacità d'investimento sarà accordato il potere di adottare una fiscalità di vantaggio del tipo di quella irlandese; sarà istituito un fondo nazionale di perequazione alimentato da contributi delle regioni più ricche e dello Stato per sostenere il periodo transitorio di adeguamento delle più povere al livello standard dei servizi pubblici.

Le materie interamente affidate alle Regioni e ai Comuni saranno la sanità (già lo è in gran parte), l'istruzione, l'assistenza, la disciplina degli immigrati con i nuovi poteri affidati ai sindaci.
Mancano al momento indicazioni sugli strumenti fiscali da affidare alle istituzioni locali. Si parla di Iva, ma c'è uno ostacolo europeo; si parla di addizionali Irpef e addirittura dell'Irpef tutta intera. Si parla di accise (benzina e tasse di fabbricazione sui raffinati). Si parla anche di Irpeg e comunque di imposte sulle produzioni svolte sul territorio. L'esempio più eloquente sarebbe di tenere a Melfi l'incasso sul valore delle auto Fiat prodotte in quello stabilimento e a Termini Imerese quello sulle produzioni della fabbrica Fiat lì operante. Scomporre e ricomporre. Una rivoluzione imponente. Forse spostando dalle imposte dirette a quelle indirette il maggior peso del carico tributario con tutto ciò che ne deriva sui singoli contribuenti.

Bisognerebbe anche diminuire i trasferimenti dello Stato alle Regioni a statuto speciale, ma su questo punto si profila un contrasto radicale tra le cinque Regioni in questione e tutte le altre.
Si può mettere in carta e votare in Parlamento una legge delega di queste proporzioni tra l'ottobre e il dicembre prossimo? Senza correre il rischio di varare un aborto informe se non addirittura un mostro legislativo? Per di più in tempi di recessione e di estrema preoccupazione del gettito tributario? Scomporre o produrre solo caos?

Sui costi effettivi di questa mastodontica operazione non si ha alcuna notizia. Lo statista Calderoli ritiene che avverrà a costo zero ma un calcolo accertato e certificato non c'è. Tremonti ha addirittura dichiarato che la messa in pista del federalismo fiscale fornirà risorse aggiuntive, ma non ha precisato se questa sua previsione si riferisca alle spese della pubblica amministrazione nel suo complesso o soltanto a quelle dell'amministrazione centrale: dettaglio tutt'altro che marginale.

Ma c'è un altro aspetto del quale si parla poco o nulla: il diritto dei cittadini ad avere prestazioni eguali dai principali servizi pubblici, senza discriminazioni tra chi vive in Calabria o in Veneto, in Emilia o in Campania, nel Molise o in Sardegna, in Lombardia o nelle Marche. Quest'aspetto della questione spetta allo Stato di garantirlo. Se così non fosse l'intera costruzione federalista si sfascerebbe come un castello di sabbia.

Post Scriptum 1. Il governatore della Sicilia ha auspicato che il federalismo consenta alle Regioni di decidere sulla localizzazione delle centrali nucleari che verranno costruite e si è detto pronto a farne sorgere una in Sicilia. La Sicilia non si identifica con la mafia e la stragrande maggioranza dei siciliani non è mafioso, ma è un dato di fatto che la mafia in Sicilia c'è. Una centrale nucleare in Sicilia? Ci pensate? Altro che rischio atomico...

Post Scriptum 2. Le prospettive di crisi economica in tutti i Paesi dell'Unione europea sono sempre più nere: giù i consumi, giù gli investimenti. Ci vorrebbero interventi espansivi. Lo dice da molto tempo Draghi e lo dicono anche Berlusconi e Tremonti ma poi allargano le braccia e alzano gli occhi al cielo da buoni cattolici: per ora i soldi non ci sono, bisogna pazientare. I soldi non ci sono anche se per ora le entrate registrano ancora un surplus sulle previsioni. Viceversa il rapporto deficit-Pil viaggia ancora al di sotto della soglia del 3 per cento stabilita da Bruxelles.

Si può alzare di qualche frazione di punto quella soglia? L'operazione è audace in tempi di crescita zero del Pil, ma portare il deficit al 2,7 rispetto all'attuale 2,4 è una strategia fattibile. Consentirebbe una disponibilità di cinque miliardi da impegnare in detassazioni di consumi e di investimenti. L'Italia potrebbe adottare questa strategia, resa possibile dal buono stato dei conti che Tremonti ha ereditato da Padoa-Schioppa. Perché non lo fa? Non è la prima volta che gli indirizziamo questa domanda ma lui non risponde, non so se per timidezza o per arroganza o per cattiva educazione. Germania e Francia a suo tempo questa strategia la adottarono. Noi siamo meno eguali di loro?

(24 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il gioco dell'oca
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2008, 02:30:52 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

Il gioco dell'oca

di EUGENIO SCALFARI
 


LA SOLUZIONE dell'"affaire" Alitalia (che è stata formalizzata ieri) non è una bufala. Si chiama con questo termine figurato la vendita di una patacca, una truffa in piena regola. Invece la soluzione Alitalia è un'altra cosa: un imbroglio politico che cerca di far passare con una diversa apparenza e in condizioni peggiori la stessa sostanza che era stata già concordata nello scorso mese di marzo con Air France.
Insomma un'operazione d'immagine che costerà ai contribuenti italiani un miliardo di euro come minimo, più il costo sociale degli esuberi, cioè dei licenziamenti che saranno più del doppio e poco meno del triplo di quanto sarebbe avvenuto in marzo.

Cinque mesi fa l'ipotesi accettata dal capo di Air France, Jean-Cyril Spinetta, ma furiosamente osteggiata da Berlusconi, da Fini e dai sindacati, prevedeva duemila esuberi, altri quattromila dipendenti sarebbero stati parcheggiati in una società di proprietà dello Stato con la prospettiva che almeno metà di loro sarebbe stata riassorbita entro cinque anni. La società si sarebbe fusa nel gruppo Air France-Klm conservando il suo marchio, gran parte del personale e gran parte delle rotte e acquisendone altre per destinazioni internazionali. La flotta sarebbe stata rinnovata gradualmente poiché la consistenza della flotta Air France-Klm insieme agli aerei Alitalia era in grado di far fronte ai previsti incrementi di passeggeri e di merci nei prossimi anni.

All'epoca in cui queste trattative erano sul punto di chiudersi il prezzo del petrolio, già molto alto rispetto ad un anno prima, quotava 80 euro al barile. Sono stati persi cinque mesi da allora ed oggi la trattativa si è svolta con il barile di greggio a 115 euro. Alitalia era sostanzialmente fallita già cinque mesi fa ma si poteva risollevare senza commissariamento e a condizioni migliori per il Paese e per il Tesoro.
Oggi dovrà inevitabilmente passare per il commissariamento, le condizioni per la nascita della "nuova Alitalia" costeranno inevitabilmente di più alla collettività senza cambiare di un ette la sostanza: una compagnia di fittizia bandiera che si avvia a diventare una branca di un gruppo controllato e gestito da una compagnia di altra nazionalità.

A quest'operazione d'immagine partecipano una decina di imprenditori italiani e tre o quattro banche tra le quali Banca Intesa e forse Mediobanca. Non si tratta però di "capitani coraggiosi" come alcuni giornali li hanno affrettatamente chiamati. Si tratta di capitalisti che sanno il fatto loro e che hanno patteggiato il loro ingresso nel capitale di Alitalia con contropartite di notevole interesse.
Ho detto che non è una bufala ma un imbroglio. Non saprei definirlo diversamente.

* * *
La prima constatazione (non si tratta di un'opinione ma di un fatto) è la situazione patrimoniale della "bad company" cioè della vecchia Alitalia, del vecchio e logoro osso che resterà in mano al Tesoro, cioè allo Stato, cioè a tutti noi contribuenti. Come è noto il patrimonio si compone di poste attive e di poste passive. Queste ultime ammontano nel caso Alitalia ad oltre un miliardo di euro perché tanti sono i suoi debiti. Ma in più ci saranno da gestire da cinque a seimila esuberi e forse più. Questa gestione ha un costo sociale e un costo finanziario. Quello sociale riguarda le persone e le famiglie che passeranno dallo stipendio alla Cassa integrazione e poi al licenziamento. Per di più si tratta quasi interamente di persone e famiglie concentrate a Roma, il che rende ancora più pesante l'impatto sociale della crisi.

Il costo finanziario dipenderà da eventuali "finestre" di pre-pensionamenti e dalla possibilità di alcune categorie di creditori di sottrarsi agli effetti del commissariamento pretendendo e ottenendo il pagamento integrale di quanto ad essi dovuto. Tra questi i fornitori di carburante i quali potranno adire il tribunale e ottenere una posizione privilegiata minacciando altrimenti di non rifornire la flotta Alitalia impedendone in questo modo il decollo.
C'è poi da considerare la sorte dei 300 milioni che nello scorso aprile furono conferiti dal Tesoro all'Alitalia per assicurarne la sopravvivenza. Quei soldi furono poi messi a patrimonio con la clausola che sarebbero stati restituiti al Tesoro nei tre mesi successivi all'avvenuto risanamento della società.
Saranno restituiti? Sarebbe una partita di giro, dalla "bad company" al Tesoro stesso. Quindi impraticabile perché inutile. Oppure non saranno restituiti, nel qual caso assumerebbero la natura di un aiuto di Stato e come tale impugnabile dalla Commissione europea dinanzi alla Corte di giustizia dell'Ue. Oppure ancora qualche banca o fondazione compiacente dovrebbe assumersi l'onere di rimborsare il Tesoro. Un samaritano che porti la croce. Ce ne sono in giro? Io non ne vedo. Se ci fossero sarebbero pazzi. Oppure furbi di quattro cotte che darebbero trecento per ottenere di ritorno in altri modi almeno il doppio. Staremo a vedere. Il nostro compito di giornalisti è appunto quello d'informare il pubblico. Non mancheremo di farlo.

* * *
I capitani coraggiosi. Vorrei cominciare dal gruppo Benetton per una ragione molto semplice: il responsabile operativo della famiglia e del gruppo di Ponzano Veneto rilasciò tempo fa un'intervista assai significativa, virgolettata e rivista dall'intervistato. Il giornalista che l'intervistava affacciò il dubbio che la contropartita d'una partecipazione dei Benetton al salvataggio Alitalia fosse già stata ottenuta con le ottime condizioni alle quali lo Stato aveva rinnovato la concessione delle autostrade al gruppo di Ponzano. Ma l'intervistato replicò che no, la partita delle autostrade non aveva alcun nesso con il salvataggio dell'Alitalia; le condizioni della concessione rinnovata non erano affatto un favore ma un'equa pattuizione. E va bene, sarà certamente così.

Il caso Alitalia era invece diverso. I Benetton non hanno alcun interesse a partecipare ad una compagnia di trasporto aereo. Possono metterci qualche spicciolo se proprio serve a salvare l'immagine politica, ma il loro interesse è un altro. I Benetton sono da tempo diventati costruttori di opere pubbliche: l'attuale aeroporto di Fiumicino l'hanno fatto le loro imprese. È un sito studiato per ospitare 30 mila passeggeri al giorno. Ma ora le previsioni per i prossimi vent'anni richiedono un aeroporto da 60 mila passeggeri in transito giornaliero. Perciò bisogna ricostruire Fiumicino nell'ambito di un progetto che ne faccia un "hub" mediterraneo. Ecco: i Benetton puntano su questo obiettivo. Non sono mica molliche.

Naturalmente, se la previsione d'un aeroporto da 60 mila transiti è corretta, non c'è assolutamente nulla di male a mettere in gara l'opera pubblica. Una trattativa privata senza concorrenti sarebbe uno strappo non da poco. Ma Tremonti è capace di questo e di altro nell'ambito di una strategia di Stato-padrone e di primazia della politica.
Però c'è un altro problema che lo stesso Benetton sollevò in quell'intervista: le tariffe da applicare alle compagnie di trasporto per utilizzo dell'aeroporto e, tra queste, in particolare le tariffe della compagnia di fittizia bandiera. Mi domando se non ci sia un conflitto di interessi tra un Benetton gestore dell'aeroporto e un Benetton azionista di Alitalia.

* * *
Di Ligresti si sanno molte cose e molte altre si intuiscono. Costruirà non so quanti milioni di metri cubi connessi (insieme alle circostanti aree) con l'Expo di Milano. Guida un gruppo gigantesco, immobiliare, finanziario, assicurativo. Sta nel sindacato di Mediobanca e come tale allunga l'occhio anche sul Corriere della Sera. Metterà una cinquantina di milioni anche in Alitalia. Per lui sono spiccioli e possono venir buoni con tanta terra al sole. E poi la sua banca di riferimento non è Intesa-Sanpaolo? È opportuno rendersi utili a chi finanzia i propri affari, accade da che mondo è mondo.

Conosco poco gli altri neo-azionisti della nuova Alitalia e quindi mi guardo bene dal formulare su di loro pensieri maliziosi. Ma una cosa va detta e vale per tutti: questi capitani coraggiosi giocano in realtà sul velluto perché hanno giustamente messo come condizione "sine qua non" la presenza nella combinazione d'un grande vettore internazionale. Poiché hanno ora accettato che i loro nomi siano resi pubblici se ne deve dedurre che l'accordo con il vettore straniero sia già stato fatto o sia comunque in avanzata trattativa.

Sappiamo che quando l'accordo sarà ufficializzato risulterà che lo "straniero" avrà il controllo azionario e la gestione della compagnia. È immaginabile e verosimile.
Secondo le informazioni che ho in proposito gran parte dei capitani coraggiosi si propongono di vendere allo "straniero" o sul mercato le loro quote azionarie quando l'accordo sarà diventato operativo. Dal che deduco che una rete di sicurezza i capitani coraggiosi ce l'hanno.
Arriva all'ultim'ora la notizia che Air France ha convocato il suo consiglio d'amministrazione per giovedì ed ha riaperto il dossier Alitalia. Spinetta chiederà anche di incontrarsi con Passera.
A pensarci bene è stato proprio un gioco dell'oca. Cinque mesi dopo torna l'ipotesi di tornare al punto di partenza in condizioni assai peggiori di prima.

* * *
Poiché in quest'operazione compare più volte il nome di Mediobanca, converrà spendere qualche parola su questo leggendario istituto che ha movimentato la storia finanziaria d'Italia dal 1947 ad oggi attraversando anche in casa propria alcune agitate, vicende come del resto accade nelle migliori famiglie. Finora le vicende "domestiche" di piazzetta Cuccia sono sempre finite bene e ci auguriamo che sia sempre così. Non altrettanto si può dire di quelle che Mediobanca ha patrocinato. Alcune a lieto fine altre a fine triste o tristissimo, a cominciare dalla guerra chimica ai tempi della Edison e della Bastogi per arrivare alla Montedison di Cefis e a quella dei Ferruzzi e dei Gardini e per finire con Pirelli e Telecom.
Che sta accadendo adesso a Mediobanca?
È in corso uno scontro molto duro. A volerlo personalizzare i protagonisti sono tre: Geronzi, Profumo, Nagel. Il primo è il presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca dopo aver guidato per molti anni il Banco di Roma che si fuse circa due anni fa con Unicredit; il secondo è l'amministratore delegato di Unicredit; il terzo è l'amministratore delegato del consiglio di gestione dell'Istituto di piazzetta Cuccia (un tempo si diceva via Filodrammatici perché Enrico Cuccia era ancora vivo).
Al momento della fusione del Banco di Roma con Unicredit si pose il problema di trovare una posizione adeguata per Cesare Geronzi che altrimenti sarebbe rimasto disoccupato. Geronzi non è uno che vada in pensione; si può tranquillamente scommettere che morirà (spero il più tardi possibile) lavorando. Banco di Roma e Unicredit possedevano circa il 9 per cento ciascuno del capitale di Mediobanca, in totale il 18 per cento, cioè la maggioranza assoluta nel patto di sindacato. A quel punto Profumo decise di vendere metà della partecipazione restando con il 9 per cento. Decise anche di affidare a Geronzi la presidenza dell'istituto ma per non essere troppo generoso optò per una "governance" duale, dando all'ex presidente del Banco di Roma la guida del consiglio di sorveglianza e insediando alla testa del consiglio di gestione il capo del management di piazzetta Cuccia, Nagel.

Un equilibrio perfetto, almeno sulla carta. Ma non era pensabile che Geronzi si contentasse a lungo di fare il padre nobile. Passato poco più di un anno è entrato infatti in agitazione chiedendo che la governance di Mediobanca tornasse dal sistema duale a quello "monale" e rivendicandone la presidenza operativa.
Profumo non è d'accordo ma è molto prudente, anche lui ha i suoi guai e non da poco. Nagel non è d'accordo neppure lui, ma Geronzi è in maggioranza nel sindacato e nell'assemblea degli azionisti. Dalla sua parte c'è Mediolanum, Ligresti, Generali, i francesi, insomma il grosso degli azionisti. Soprattutto ha l'appoggio politico di Berlusconi.

Ma Nagel e Profumo sono tuttora contrari. Se decideranno di battersi possono raggruppare un terzo dei voti nel sindacato azionario: una minoranza di blocco che riproporrebbe una conduzione duale all'interno di una "governance" unificata.
Infine c'è un'ultima incognita. Geronzi è stato rinviato a giudizio e addirittura condannato in primo grado per alcuni reati di cospicua gravità in materia finanziaria e bancaria. In tempi normali tutto ciò avrebbe determinato automaticamente le dimissioni del rappresentante legale di una banca e in tal senso esiste da tempo una circolare di indirizzo della Banca d'Italia. Ma oggi, lo sappiamo, non siamo in tempi normali. Mi domando però se questa posizione resterà ferma anche nel momento in cui il processo avrà inizio. Ogni previsione è azzardata ma una cosa è certa: la scelta dipenderà in larga misura da Draghi. È una partita cui sarà molto interessante assistere per raccontarla a dovere.

(27 agosto 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La ricerca e la fede
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2008, 11:31:24 pm
Eugenio Scalfari


La ricerca e la fede


A che punto è la discussione sulla soggettività o oggettività del ricercatore. Sulla 'buona scienza' e la 'cattiva scienza'.
Tra i tanti dibattiti in corso che riguardano la storia delle idee ce n'è uno di importanza particolare: ha come protagonista il pensiero scientifico, i suoi rapporti con la religione, con la politica, con la tecnica, con la filosofia e con ciascuno di noi, uomini e donne che viviamo in quest'epoca agitata, incerta, dinamica quant'altre mai.

Fino a qualche tempo fa tra la scienza e le cosiddette discipline umanistiche c'era una sorta di incomunicabilità: procedevano ciascuna per strade parallele che non si incontravano; perfino il lessico era diverso, due linguaggi estranei e reciprocamente incomprensibili. Ma ciò che le rendeva estranee l'uno all'altra al punto da farle definire 'due culture' era la profonda differenza dei metodi conoscitivi, quasi che due diversi cervelli o due diverse mappe cerebrali presiedessero alla cultura umanistica e a quella scientifica.

Non era stato sempre così. All'alba del pensiero occidentale la filosofia era stata tutt'uno con la scienza, le cosmogonie e il ruolo degli elementi primari, l'aria, l'acqua, il fuoco, nascevano da un pensiero al tempo stesso religioso, artistico, scientifico. L'unità tenne ancora fino a Pitagora, poi le due culture si separarono sviluppandosi ognuna per conto proprio, ma ancora in pieno rinascimento alcune personalità d'eccezione come Leonardo e Giordano Bruno riunificarono i linguaggi delle due culture che l'evoluzione delle idee aveva separato.

Oggi il pensiero scientifico ha avviato un percorso di profonda trasformazione dal quale emerge un aspetto che merita un attento esame: la ricerca sperimentale, che da Galileo in poi ha costituito l'ossatura della scienza moderna, è condizionata da ipotesi teoriche pregiudiziali, esalta il ruolo dello sperimentatore e per conseguenza la soggettività (e la precarietà) dei risultati di volta in volta raggiunti. Quest'aspetto è sempre stato implicito nella ricerca sperimentale ma ora è dichiaratamente esplicito. Senza una visione pregiudiziale del mondo che ci circonda, la sperimentazione sarebbe cieca, ma senza la conferma sperimentale la visione del mondo sarebbe vacua: questa è ormai la convinzione dominante che gli scienziati più avvertiti condividono.

Di qui il bisogno epistemologico di analizzare con cura crescente il ruolo dell'osservatore, cioè del soggetto, dei suoi punti di vista preliminari e dell'influenza che essi possono esercitare sui risultati della ricerca. Attraverso quest'analisi epistemologica si cerca insomma di 'ponderare' l'elemento soggettivo e 'ricaricare' l'oggettività della sperimentazione per quanto possibile. Se poniamo la questione da un altro punto di vista esaminando i rapporti tra il pensiero scientifico e le culture umanistiche, emergono problemi relativi all'autonomia della scienza e alle finalità della ricerca. Le questioni che si pongono sono le seguenti:

1. La scienza accetta che la politica e/o la religione pongano limiti alla ricerca? Accetta cioè vincoli di carattere etico oppure si pone al di fuori dell'etica?

2. La scienza cerca la spiegazione ultima del mistero della vita, la chiave che apra tutte le porte, la formula che racchiuda tutti saperi? Oppure procede a caso nella ricerca essendo consapevole che la spiegazione ultima non esiste se non affidandosi ad una fede che trascende la fenomenologia del mondo?

3. La scienza accetta i vincoli dell'etica e della trascendenza e si limita ad una ricerca con 'sovranità limitata' entro ambiti stabiliti da autorità extra-scientifiche?

Il mondo degli scienziati non è gerarchicamente organizzato, non esiste un papa né un imperatore che possano imporre le loro volontà. Perciò di fronte alle domande sopra formulate ci sono state e ci saranno sempre risposte soggettive. Dal punto di vista religioso esiste infatti una 'buona scienza' (quella che accetta di operare nell'ambito determinato dalla visione religiosa) e una 'cattiva scienza'. Esiste una verità assoluta o molte verità relative e questa divaricazione non deriva soltanto dai rapporti con il pensiero religioso ma anche dalla diversa posizione degli scienziati rispetto alla 'spiegazione ultima' del mistero della vita.

Questo grappolo di questioni variamente intrecciate tra loro hanno più d'un secolo di storia alle spalle. L'inizio che mise in discussione la scienza dell'epoca di Newton risale infatti alla teoria della relatività formulata da Albert Einstein agli inizi del Novecento e, qualche tempo dopo, dalla fisica dei 'quanti' e dei 'fotoni'. La discussione sulla soggettività o sull'oggettività della ricerca raggiunse il suo culmine alla fine degli anni Venti del secolo scorso, quando Heisenberg formulò il principio dell'indeterminazione, constatando che è impossibile conoscere la posizione e la velocità dell'infinitamente piccolo, cioè dell'elettrone che ruota attorno al nucleo atomico. Posizione e velocità sono percepite dall'osservatore soltanto bombardando la particella infinitesima e sbalzandola dall'orbita. Significa rompere il giocattolo, il che preclude la conoscenza del giocattolo integro.

Poco dopo la tappa fondamentale di Heisenberg, la meccanica quantistica andò ancora più oltre. Con Pauli arrivò addirittura a teorizzare l'ipotesi della trascendenza come possibile elemento di inferenza nel processo fisico. Mise in discussione il principio della non contraddizione, quello della reversibilità del tempo e la legge di gravitazione. Infine prospettò la necessità di interconnessione tra pensiero scientifico e pensiero filosofico da effettuare attraverso un nuovo e comune linguaggio. La discussione, sempre più ricca ma non priva di incertezze e di confusione, è a questo punto. Tralascio, sebbene lo consideri essenziale, il rapporto tra scienza e tecnologia sul quale mi propongo di tornare.

(29 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'impossibile dialogo tra il lupo e l'agnello
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2008, 07:41:26 pm
POLITICA

L'impossibile dialogo tra il lupo e l'agnello

di EUGENIO SCALFARI


UN OSSERVATORE spassionato che volesse descrivere quanto sta accadendo nella sinistra italiana in tutte le sue varie espressioni, da quella riformista a quella massimalista, dovrebbe servirsi della parola "implosione". La sinistra sta implodendo, i suoi punti di riferimento non sprigionano più l'energia sufficiente a delineare una direzione di marcia, i fari non emettono più segnali di luce capaci di illuminare i lineamenti della costa e gli scogli che la cospargono.

Implosione ed entropia: dopo lo sforzo compiuto nella campagna elettorale e la sconfitta subita l'energia si è dispersa e degradata. Il secondo principio della termodinamica descrive questo processo che si applica non solo in natura ma in ogni entità organizzata e questo è anche il caso dell'opposizione politica e di quella sindacale. Le forze centrifughe prevalgono su quelle centripete. Il risultato è la frammentazione della sinistra e, al limite, la sua polverizzazione.

Il fenomeno potrebbe ancora essere arrestato? Difficile dirlo, ma certo il punto di non ritorno, la soglia oltre la quale il processo diventa irreversibile è molto vicino e questo si avverte con particolare intensità nel Partito democratico che essendo la forza più rilevante dell'opposizione è quella dove i fenomeni di decomposizione sono più visibili e suscitano i massimi contraccolpi.

Il presidente della Regione Lazio, che vuole entrare come azionista nella nuova Alitalia contro il parere del suo partito, ha detto l'altro ieri che il centralismo democratico è finito. L'ha detto con un senso di liberazione.

È vero, il centralismo democratico del vecchio Pci è finito da tempo e comunque i rappresentanti di istituzioni rispondono ai loro elettori prima ancora che agli organi del partito al quale appartengono.

La rivendicazione di questa autonomia istituzionale è un bene che non va sottovalutato, ma tra l'autonomia e il "liberi tutti" c'è una differenza di fondo quantitativa e qualitativa che non può essere ignorata. Diversamente il "liberi tutti" si trasforma rapidamente in un "tutti a casa" che è esattamente ciò che sta accadendo nel Partito democratico, in Rifondazione comunista e in tutto quel vasto elettorato che rappresenta il 40 per cento di elettori e che sta perdendo il senso dell'appartenenza nel momento stesso in cui perde di vista le finalità dell'azione politica e degli strumenti necessari per realizzarne gli obiettivi concreti.

Ho fatto altre volte il confronto con un fiume che rompe gli argini e si sparge nelle campagne circostanti. Quando questo fenomeno avviene le ipotesi su quanto accadrà subito dopo sono tre. La prima è che l'acqua del fiume rientri nel suo letto naturale e riprenda a scorrere come prima; la seconda è che si scavi un nuovo alveo e scorra con la stessa pendenza tra nuovi argini; infine la terza è che diventi palude, acquitrino infestato da miasmi e zanzare, luogo di caccia alle anatre che, ignare e indifese, starnazzano in cielo.

* * *

Il governo, la sua maggioranza e gran parte dei "media" cercano dal canto loro di accentuare questo processo di disfacimento dell'opposizione. In vari modi. Uno di essi, il più frequentato, si svolge intorno alla parola "dialogo". S'invoca il dialogo, si vuole il dialogo e se ne tesse la tela attraverso il dialogo con pezzi dell'opposizione o addirittura con singoli personaggi. "La sventurata rispose" scrive il Manzoni quando la Monaca di Monza parla con il suo amante e acconsente al rapimento di Lucia. Credo che nella maggioranza dei casi i personaggi che hanno accettato di dialogare siano in perfetta buona fede e non abbiano in animo di far rapire alcuna Lucia, ma non toglie che la polverizzazione d'un partito di opposizione passa anche attraverso pratiche che si prestano ad essere scambiate per trasformismo, quale che siano le intenzioni degli interessati, suscitando fenomeni analoghi e non sempre altrettanto innocenti.

Il vero punto in discussione sta proprio nella parola dialogo. A volte il lessico è lo strumento diabolico che Mefistofele usa con i vari Faust che cadono nelle sue grinfie. Si dovrebbe usare - come fa il presidente Napolitano quando tocca quest'argomento - la parola confronto. Walter Veltroni l'ha detto molte volte: il confronto tra forze politiche in un sistema di democrazia parlamentare avviene in Parlamento e alla luce del sole.

A quel confronto nessuno si può sottrarre a meno di non modificare la Costituzione. E il Partito democratico non si è sottratto, ottenendo in alcuni casi qualche successo. Per esempio nel caso dell'emendamento "blocca processi" che fu tolto dal decreto legge sulla sicurezza, auspice anche la presidenza della Repubblica che fece pesare con forza la sua opinione in proposito. E per esempio nel caso dei "rom" e del "censimento" dei loro bimbi, più volte annunciato dal ministro Maroni a beneficio dei suo elettori leghisti ma poi abbandonato anche per le pressioni della Commissione di Bruxelles e del Consiglio d'Europa.

Il confronto parlamentare avviene tra forze politiche e non tra singoli personaggi e questa è la sostanza della democrazia parlamentare. Certo un partito non vive soltanto in Parlamento: vive, dovrebbe vivere, nel Paese, sul territorio, elaborando programmi specifici e concreti all'interno di una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne scandiscono il funzionamento.

Questa presenza politica e questa elaborazione culturale sono gli aspetti manchevoli che abbiamo segnalato; a causa di questa assenza o presenza troppo debole i fenomeni di implosione, frammentazione, dialogo di singoli con lo schieramento avversario, si moltiplicano con diffuso gaudio del governo, della maggioranza e dei "media" consenzienti e addirittura dediti al picconamento dell'opposizione.

* * *

Ho accennato all'intenzione del presidente della Regione Lazio di entrare come azionista nella compagine societaria della nuova Alitalia (Cai). Se il suo desiderio fosse accettato dagli azionisti della Cai la privatizzazione di Alitalia subirebbe uno strappo a favore di un ente locale interessato a "tutelare" le sorti dell'aeroporto di Fiumicino. Lo stesso Marrazzo ha auspicato un analogo ingresso del presidente lombardo Formigoni a tutela degli interessi dell'aeroporto di Malpensa.

C'è qualche cosa di storto in questo modo di ragionare. Se gli enti locali sul cui territorio operano aeroporti importanti dovessero far parte della Compagnia di volo dovrebbero entrarvi anche Napoli, Palermo, Bari, Venezia, Bologna ed altri ancora. L'assemblea della società diventerebbe una stanza di compensazione di interessi contrapposti con tanti saluti alle regole del mercato.

Ma una stanza di compensazione tra interessi forti la nuova Alitalia lo è già. Non a caso il senatore Luigi Zanda ha scritto una lettera pubblica e formale al presidente dell'Antitrust segnalando i macroscopici conflitti di interessi di alcuni azionisti della Cai, in particolare i Benetton, i Riva, gli Aponte e parecchi altri. Sarà interessante vedere come si comporterà l'Antitrust su una questione così delicata.

Quale dovrebbe essere la funzione del Partito democratico, posto che il trasporto aereo è un tema di rilievo nazionale sul quale una forza politica ha pieno titolo di esprimersi? Credo che il Pd - come ogni altro partito - debba dire la sua sulla privatizzazione della Compagnia, sui molteplici conflitti di interesse presenti nella nuova società, sul piano industriale, sugli oneri che esso comporta per la finanza pubblica. Il problema degli esuberi è una derivata del piano industriale, come correttamente sostiene la Cgil.

È pacifico per tutti che in tempi di globalizzazione non esiste la possibilità di una società di trasporto aereo che non sia inserita in un "network" internazionale, a meno che non si tratti d'un vettore esclusivamente locale, con una piccola flotta di aerei e pochi dipendenti. Ma questo non è il caso dell'Alitalia.

I network interessati a livello europeo sono tre: Air France-Klm, British, Lufthansa. I tedeschi vedono in Alitalia uno strumento per aprirsi la strada verso l'Africa e l'Asia. I francesi e gli inglesi questa apertura ce l'hanno già e vedono in Alitalia un contenitore di passeggeri. Trenta milioni di passeggeri che negli anni saranno destinati a raddoppiare se inseriti in un quadro di ben altre dimensioni.

Quanto ai nuovi azionisti della Cai, realisticamente essi sanno che gli utili della Compagnia saranno assai magri nei primi cinque anni; non è quindi per la profittabilità dell'impresa che essi hanno deciso di impegnarvisi. Tantomeno per sentimenti patriottici, lodevoli ma estranei ad un piano industriale. I soci della Cai, tutti ad eccezione di Colaninno, hanno interessi extra-Alitalia da promuovere e tutelare e questa è già una buona ragione per metter nel piatto un "cip" e sedersi a quel tavolo. Ma ce n'è un'altra di ragione: far nascere una nuova Alitalia, ripulita da tutte le croste accumulatesi durante gli anni. La ripulitura non costerà nulla alla Cai, la fa Fantozzi a spese dello Stato.

Una volta compiuta la ripulitura, Alitalia possiederà una flotta di media importanza, una serie di diritti di volo soprattutto sul territorio nazionale e un pacco-passeggeri di trenta milioni di unità destinate ad aumentare fino al raddoppio. Il conto economico, l'abbiamo detto, darà risultati magri, ma il valore patrimoniale di una società ripulita a dovere sarà notevolmente più elevato: dopo il 2011 la Cai potrà valere a dir poco un quarto in più rispetto al patrimonio di partenza. A quel punto gran parte degli attuali azionisti, che non hanno alcun interesse per il trasporto aereo, usciranno dall'affare realizzando cospicue plusvalenze. A spese dello Stato e dei contribuenti.

Questo è l'affare Alitalia, questa è la logica del mercato e questa sarà la soluzione finale della compagnia aerea italiana. Colaninno, che buon per lui non ha conflitti d'interesse in questa vicenda, probabilmente resterà a guidare la sezione italiana del "network" internazionale nelle cui capaci braccia si spegnerà la cordata tricolore.

* * *

Ci sono molti altri temi di confronto tra maggioranza ed opposizione: la sicurezza, la giustizia, l'istruzione, la sanità. L'uscita dei partiti dalle Asl e dalla Rai e il riassetto dell'azienda televisiva. Il federalismo fiscale. E naturalmente le riforme costituzionali, legge elettorale compresa. Il luogo del confronto è il Parlamento dove contano i voti ma conta anche il consenso che i partiti si guadagnano nel Paese con la loro presenza, le loro proposte, i loro programmi, i valori dei quali sono portatori.

Se la crisi della sinistra e in particolare del Pd è l'appannamento della leadership, conviene dunque concentrarsi su questa questione e risolverla. Bisogna contemporaneamente costruire il partito sul territorio, risollevare l'animo e l'impegno degli elettori, dare forza al vertice del partito, utilizzare l'esperienza dei cosiddetti senatori del Pd portando però nella prima linea operativa una generazione di giovani da addestrare e a cui affidare a tempo opportuno la guida.

Nelle aziende e nelle banche di grandi dimensioni questo schema si chiama "duale", un consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione; nel primo stanno i saggi, nel secondo gli operativi. Forse uno schema del genere non si adatta ad un partito politico ma può comunque essere adatto a suggerire una soluzione adeguata.

C'è pochissimo tempo per riprendere la marcia. L'opposizione scricchiola, la gente si disimpegna, le rivalità interne si incistiscono. Bisogna spezzare questo circuito nefasto.

Credo che la responsabilità di riaccendere le luci d'una casa abbuiata incombano su Veltroni. Del resto è lui il segretario in carica. Decida e operi, chiami a raccolta tutti coloro che in quel partito ci credono ancora e cammini insieme a loro con idee precise e chiaramente enunciate.

Chi vuole dialogare con l'avversario a titolo personale non è un traditore. Può essere un ingenuo. Oppure un vanitoso. Comunque, se vuole farlo lo faccia a proprio rischio senza pretendere di rappresentare un partito perché l'ingenuità e la vanità possono condurre al disastro una forza politica.

(7 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Movida mantovana
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:36:01 am
Eugenio Scalfari


Movida mantovana


Al Festival della Letteratura ho trovato una tensione allegra verso il futuro, verso il cambiamento, verso sogni e destini che scommettono sull'onestà, sulla creatività e sulla solidarietà  Una presentazione al Festival della LetteraturaIl Festival della Letteratura che si è svolto a Mantova dal 3 al 9 di questo mese è un evento abbastanza singolare nel panorama della vita culturale italiana di questi anni. Non è l'unico. Fenomeni analoghi ci sono stati a Roma con una serie di incontri sulla storia, sull'arte, sulla filosofia, sulle matematiche, che si sono susseguiti all'Auditorium della città; altre iniziative dello stesso livello si sono verificate a Torino, a Udine, a Cortona, a Firenze, a Bologna, a Napoli, a Palermo, a Padova, a Modena.

Milano è forse la sola delle tante capitali del Paese dalle 'cento città' a restare un po' in ombra; la sua vita culturale si è ristretta in ambiti elitari con punte musicali e teatrali di eccellenza ma con scarsa partecipazione. Paragonata a quella di quaranta o trenta anni fa sembra una città assai più spenta e annoiata. Speriamo che anche questa nottata milanese passi.

Il Festival di Mantova è però uno spettacolo molto diverso da tutti gli altri perché qui, per cinque giorni, un'intera città vive di cultura e per la cultura ospitando decine di migliaia di persone, per lo più giovani, che intervengono, discutono, leggono, partecipano con una ininterrotta 'movida', animando le strade, le piazze, i palazzi, i tendoni di questa città-gioiello.

Dibattiti, presentazione di libri e di scrittori, si susseguono senza sosta, ne ho contati più d'una quarantina ogni giorno e tutti affollati e animati come raramente capita di vedere.

Ero stato una sola volta a questo festival dodici anni fa, l'esordio di un'iniziativa che poi è andata crescendo di anno in anno e oggi si propone come un vero e proprio 'test' della vitalità culturale-letteraria della nostra società. Ne emergono alcuni tratti particolari. Li enumero così come mi sono apparsi.

Anzitutto i giovani, il festival è soprattutto un sito di accampamento giovanile, festoso, gioioso, informato. Una parte di questa popolazione giovanile presta anche servizio volontario nell'organizzazione del festival con le mansioni più varie. Senza di loro la città non ce la farebbe perché lo sforzo organizzativo è eccezionale e i risultati corrispondono all'impegno.


L'intera struttura è guidata da otto persone, un ottetto molto affiatato da quanto ho capito, un lavoro di squadra che abbraccia un periodo molto più lungo dei cinque giorni del festival vero e proprio. Ciascuno degli otto fa altri mestieri, ma il festival è ormai il loro impegno costante di tutto l'anno con continui contatti con analoghe iniziative in Usa, in Inghilterra, in Germania, in Francia, in Spagna, in Brasile e ora anche in India e nell'est dell'Asia.

La materia prima è però italiana. Gli otto direttori del festival sono consapevoli del livello non eccelso della letteratura italiana di questi anni. "Lavoriamo su un'arte povera" mi ha detto uno di loro. "Non è solo italiana questa povertà letteraria, in altri paesi europei va anche peggio, ma negli ultimi tempi qualche scintilla di novità si nota e va incoraggiata. L'interesse del pubblico e le sue richieste sono invece in aumento perciò non disperiamo: quando la domanda è così forte l'offerta non tarderà a manifestarsi".

Sarebbe azzardato dire che il pubblico che ha invaso Mantova per cinque giorni mescolandosi agli abitanti di questa città che occupa da anni il primo posto per quanto riguarda il reddito e la ricchezza, abbia una colorazione politica omogenea. A me è capitato di parlare due volte in riunioni molto affollate nelle quali la tonalità di sinistra e laica era di gran lunga prevalente, ma questo si deve probabilmente al fatto che quello era un pubblico intonato alle mie idee e ai miei scritti.

Tuttavia l'atmosfera generale della città in quei giorni non era certo quella del 'law and order'. Diciamo che era intonata a Barack Obama e non certo a Maroni e Bossi sebbene Mantova abbia una presenza leghista di notevole rilievo. Ma quando si uniscono insieme i giovani, i volontari, gli scrittori, i poeti, che altro può venir fuori se non una tensione allegra verso il futuro, verso il cambiamento, verso sogni e destini che scommettono sull'onestà, sulla creatività e sulla solidarietà?

Sono incontri che fanno bene all'anima e riaccendono speranze di futuro che in altri contesti sembrano spente.

(12 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il pifferaio, gli allocchi e l'asso di Colaninno
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2008, 09:56:46 am
ECONOMIA    IL COMMENTO

Il pifferaio, gli allocchi e l'asso di Colaninno

di EUGENIO SCALFARI


IL tema caldissimo di oggi è l'Alitalia, il tema appena meno scottante ma altrettanto infuocato è il federalismo fiscale. L'accoppiata sarebbe già di per sé esplosiva ma come non bastasse si colloca in un panorama politico estremamente teso e inquietante: una serie di annunci, di disegni di legge, di atti politici e amministrativi che hanno tutti il solo univoco effetto di accrescere le tensioni, inasprire i conflitti, mostrare la faccia feroce e la voglia di menar le mani all'insegna di uno slogan diventato ormai un "passepartout".

Lo slogan è stato inventato dal ministro dell'Interno che lo ripete a dritto e rovescio come una sorta di tic, di intercalare, ed è "tolleranza zero". È diventato il succo programmatico del governo e della sua maggioranza.

Evidentemente funziona e i sondaggi in favore del "premier" hanno toccato il culmine.

La gente vuole che si proclami tolleranza zero nei confronti di chiunque utilizzi i propri diritti di libertà in senso non conforme al senso comune ora in auge. Che poi la tolleranza zero realizzi risultati desiderati oppure no, questo non arresta l'onda d'urto d'una strategia "schiacciasassi" tipica nella storia europea degli ultimi cent'anni tutte le volte che pulsioni autoritarie abbiano, in nome di superiori ragioni di ordine e di sicurezza, ristretto i diritti di cittadinanza.

Speriamo che il "trend" attuale non ci conduca oltre il limite del populismo e delle favole narrate al popolo per distrarlo, ma questa sorta di ipnosi collettiva induce comunque a riflessioni preoccupate in un'epoca in cui si ridisegna la mappa politica ed economica del mondo.

Tolleranza zero, abolizione di fatto della legge Merlin sulla prostituzione, smantellamento della scuola pubblica dell'obbligo senza un progetto che abbia un senso, crescente pressione sui poteri e sull'indipendenza della magistratura inquirente, leggi elettorali che rafforzano il potere degli apparati confiscando ogni diritto di scelta dei cittadini, disprezzo dei valori costituzionali più sensibili, clericalismo di ritorno e impoverimento dei valori cristiani in una ritrovata alleanza tra la gerarchia ecclesiastica e il potere politico, inquinamento reciproco tra politica e affari, rivalutazione del fascismo da parte di ministri e di sindaci in carica: questo è lo sfondo allarmante di questa stagione.

La crisi dell'Alitalia e l'incognita del federalismo fiscale ne rappresentano i punti di massima tensione e di totale mancanza di progettualità. Non la fantasia ma il dilettantismo è oggi al potere. Non è la prima volta che accade nel nostro paese dove purtroppo la memoria è labile e non riesce a diventare matura esperienza.

* * *

Il ministro Tremonti, nella sua lunga ricostruzione del disastro Alitalia esposta davanti alla commissione competente della Camera e successivamente riprodotta nel suo testo integrale su 24 ore di venerdì e di ieri, ha esordito dicendo: "Lasciamo da parte il confronto con le condizioni di Air France dello scorso aprile, era un altro contesto e un'operazione di altra natura".

Seguiamolo in questa sua raccomandazione iniziale, non senza tuttavia aver ricordato che l'offerta di Air France fu respinta dal combinato-disposto del rifiuto dei sindacati, dalla campagna scatenata da Berlusconi contro quel progetto e dall'insistente pressione a favore d'una cosiddetta cordata tricolore sponsorizzata da Banca Intesa.

Se oggi ci troviamo tutti di fronte ad un "malpasso" la responsabilità sta in quel rifiuto dovuto a due soggetti (sindacati e Berlusconi) e alla presenza d'un convitato di pietra in attesa di entrare in scena (Banca Intesa).
Per Tremonti invece le responsabilità incombono interamente su Prodi e Padoa-Schioppa, incapaci secondo lui di afferrare il bandolo della matassa e concludere.

Credo che ci sia stata un'inerzia di Prodi come ci fu, ancor più grave, nella questione dell'immondizia napoletana. Ma Tremonti dimentica almeno due passaggi essenziali avvenuti nel corso del governo Berlusconi e della sua presenza al ministero dell'Economia. Il primo passaggio sta nella valutazione patrimoniale di Alitalia: l'azione in Borsa valeva circa 10 euro nel 2001 e 1,57 nel 2006. Tremonti ha contestato queste cifre, ma il 24 ore dell'11 settembre le ha ricontrollate insieme alla banca dati della Thomson Financial e ne ha certificato l'esattezza. In cinque anni di legislatura il patrimonio della compagnia di volo ha perso dunque i 9 decimi del suo valore patrimoniale. Le cifre non sono opinioni e non hanno bisogno di commenti.

Il secondo passaggio riguarda la proposta dell'amministratore di Alitalia, Mengozzi, nominato a quella carica dal governo Berlusconi e quindi dallo stesso Tremonti. Mengozzi aveva in animo una fusione con Air France. Aveva negoziato a lungo e aveva ottenuto che la fusione fosse fatta attribuendo ad Alitalia il 30-35 per cento del capitale del network francese. Il governo però respinse la proposta. Anche qui c'è poco da commentare, i fatti parlano da soli.

* * *

E veniamo all'oggi. Il governo ha emanato pochi giorni fa un decreto che spacca in due Alitalia: la società controllata dal Tesoro con in capo tutti i debiti, il personale, la flotta, i diritti di volo e i pochi soldi rimasti in cassa; una società sostanzialmente fallita, affidata dal Tesoro ad un commissario secondo le regole della legge Marzano appositamente riveduta per meglio adattarla al caso Alitalia.

A fianco del rottame Alitalia una nuova società di nuovissima istituzione, con 18 azionisti, un presidente (Roberto Colaninno) e un amministratore delegato (Sabelli), depurata da tutti i gravami e pronta a fondersi con Air One.

Sulla base della legge Marzano questa società figlia giovane e bella d'una madre vecchia e moribonda, potrà rilevare tutta la polpa di Alitalia e cioè gli aerei per l'attuazione del piano industriale, le rotte, il personale di volo e di terra necessari. Gli esuberi resteranno in capo alla società madre, così pure i debiti e il personale esuberante. Il prezzo ritenuto giusto da ambo le parti sarebbe attorno ai 450 milioni di euro.

Il capitale messo insieme dai 18 azionisti (tutti italiani) supera il miliardo. Il nome, nuovo di zecca, è Compagnia Aerea Italiana (Cai). Air One si fonderà con essa e i suoi proprietari otterranno 300 milioni portando nella Cai la flotta, le rotte, le opzioni per l'acquisto di nuovi aerei, il personale di volo. L'amministratore di Air One, Toto, entrerà nel capitale della Cai con 120 milioni e siederà nel consiglio d'amministrazione.

Il governo e soprattutto Berlusconi è entusiasta: in centoventi giorni la cordata italiana si è materializzata, il caso Alitalia è stato risolto, tutto è stato previsto: la sospensione per sei mesi delle regole antitrust, una benevola disponibilità della Commissione di Bruxelles a dare il disco verde all'operazione, l'entusiasmo degli azionisti della Cai. Molti di loro - in palese conflitto d'interessi - sono felici di esser adeguatamente compensati da alcuni affari sottobanco. L'amministratore di Banca Intesa, diventato da "advisor" dell'operazione azionista Cai, di fronte all'obiezione sugli affari non chiari di molti colleghi di cordata ha risposto che "i conflitti d'interesse saranno gestiti". Il capo dell'antitrust chiamato in causa dal senatore Zanda non ha risposto. Bonanni della Cisl manifesta disponibilità a collaborare.

Tutto insomma sembra andare a gonfie vele. Certo il Tesoro si dovrà accollare parecchi pesi: i debiti della vecchia Alitalia, gli esuberi di circa 7 mila unità di cui mille piloti; ma l'onore è salvo, perdite future non sono previste, gli esuberi saranno trattati con gli ammortizzatori sociali esistenti. Ma l'attivo sta nella resurrezione della compagnia di bandiera interamente rinnovata e tricolore, un taglio consistente ai vecchi azionisti, l'ingresso d'un vettore straniero con una quota di capitale non superiore ai 120 milioni. Che cosa si vuole di più? Berlusconi dove tocca fa il miracolo. I consensi degli italiani distratti e assuefatti (che sono al momento la larga maggioranza) sono alle stelle. Tremonti sentenzia: "La luna di miele del governo con gli italiani durerà molto a lungo, ci stiamo preparando a festeggiare le nozze d'argento".

Invece no. Poche ore dopo queste celebrazioni scoppia la tempesta. Ci siamo dentro tuttora e non si sa ancora come finirà.

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Il governo e insieme con esso il commissario di Alitalia, Fantozzi, il presidente di Cai, Colaninno, il leader della Cisl, Bonanni, si erano scordati della questione "contratti". O meglio: non se ne erano scordati ma l'avevano considerata di facile soluzione. I dipendenti - pensavano - non hanno alternative: se non accettano le condizioni offerte dalla Cai, la nuova società si ritirerà, l'Alitalia fallirebbe, 20 mila persone forse più, considerando anche il lavoro indotto, andrebbero in mobilità, anticamera del licenziamento entro qualche anno. Quindi accetteranno.

Ma i contratti, per consentire alla Cai di volare con profitto, debbono realizzare una diminuzione di costi del 30 per cento e un pari aumento di produttività. O così o niente, prendere o lasciare. Gli esuberi avranno ammortizzatori lunghi e corsie preferenziali per essere ricollocati, ma sui contratti e sulla produttività non c'è margine. D'altra parte furono proprio i piloti ad affondare l'offerta di Air France. Dunque se la sono voluta. Chi semina vento raccoglie tempesta. E poi il mercato è il mercato.

Invece i piloti, gli assistenti di volo, il nucleo duro dei dipendenti, non ci stanno. All'inizio sembra una manfrina ma col passare dei giorni si vede che no, non è la solita sceneggiata sindacalese. I piloti alla fine si alzano dal tavolo e se ne vanno. Berlusconi chiama Colaninno, Sacconi chiama i sindacati, Matteoli chiama i piloti, Passera chiama tutti, ma la questione sembra ormai chiusa: Cai conferma che non può fare modifiche alla sua piattaforma, i piloti confermano che a quelle condizioni è inutile continuare. Berlusconi ha un momento di sconforto ma poi torna in battaglia: ha ancora qualche carta da giocare e la gioca.

* * *

Alle ore 14 di ieri, sabato, Fantozzi incontra i sindacati e comunica che siamo alla fine: non c'è più un euro in cassa, i fornitori di carburante hanno comunicato che non faranno più forniture a credito, d'ora in poi la flotta Alitalia potrà contare soltanto sulle poche riserve esistenti nei depositi.

Per conseguenza a partire da domani lunedì alcuni voli saranno cancellati e il personale addetto verrà messo in cassa integrazione. I voli da annullare saranno 34. Gli altri e in breve l'intera flotta cesseranno di volare entro una settimana o poco più.

Tra i piloti e gli assistenti di volo la tensione sale alle stelle. Intanto si viene a sapere che il fornitore che ha chiuso i rubinetti del credito è l'Eni. Ennesimo paradosso: la compagnia di bandiera petrolifera non fa più credito alla compagnia di bandiera del trasporto aereo. Il governo è stato informato? Oppure governo ed Eni d'accordo stringono la tenaglia intorno al collo dei sindacati? Roberto Colaninno ha passato a Mantova la notte di venerdì e la mattina di sabato ma nel pomeriggio è all'aeroporto di Verona: rientrerà a Roma in serata. Questa mattina, domenica, inviterà i sindacati ad un colloquio finale.

Ha qualcosa da mettere sul tavolo? Sì, qualcosa ce l'ha. Si era tenuto una riserva da usare all'ultimo minuto e l'ultimo minuto è arrivato. Potrà migliorare il "monte salari" del personale da riassumere in Cai in misura del 20 per cento. Che cosa significa? Se aveva chiesto ai piloti una decurtazione stipendiale del 25 per cento rispetto gli stipendi vigenti, il 20 per cento di miglioramento significa che la decurtazione scenderebbe al 20. Basterà? Questa sarà l'ultima parola.

Ma c'è un però. Colannino non vuole trattare soltanto con i piloti. Se seguisse questa tattica le altre categorie dei dipendenti potrebbero esigere che quel 20 per cento di miglioria sia ripartito tra tutti. Da buon imprenditore Colaninno non ha nessuna voglia di imbottigliarsi in una questione di riparto, perciò la sua offerta sarà fatta al complesso delle sigle sindacali: vedano tra di loro come spartire l'offerta. Comunque entro oggi la questione dev'essere chiusa altrimenti lunedì mattina comincerà non più l'ultima fase ma l'agonia vera e propria di un malato terminale.

* * *

Forse l'accordo oggi si farà: le probabilità si misurano al 51 per cento in favore dell'accordo in extremis contro il 49 che non riesca. Berlusconi, che era ormai con le spalle al muro perché il fallimento dell'Alitalia sarebbe stato per lui una catastrofe d'immagine senza precedenti, deve aver strizzato per bene Colaninno e i membri principali della cordata tricolore. Questi a loro volta avranno rincarato a propria compensazione i vantaggi extra che si aspettano dalla loro partecipazione.

Passera saggiamente aveva detto che i conflitti d'interesse debbono essere gestiti e il "premier" è un asso in quel tipo di gestione. Un'occhiata di riguardo non si può negare a nessuno dei 18 "capitani coraggiosi". Di occhiate di riguardo ne sono già state date parecchie, una di più non la si nega a nessuno pur d'assicurare il lieto fine.

Lieto fine per tutti? Forse per i piloti che rappresentano la nobiltà di spada tra i dipendenti Alitalia, forse per gli assistenti di volo che rappresentano la nobiltà di toga. Il popolaccio dei servizi a terra sarà il più strattonato, ma peggio per loro, qualcuno che trasporti i bagagli lo si trova sempre a buon prezzo magari tra i marocchini e i romeni per bene che fanno la coda per un posto precario.

E poi? Il finale della storia l'abbiamo già scritto domenica scorsa: tra cinque anni Cai avrà registrato una cospicua plusvalenza patrimoniale, gli azionisti venderanno e incasseranno. Cai entrerà a far parte di un bel "network" internazionale, tedesco o franco-olandese, perché nell'economia globale non c'è posto per una compagnia di volo come Alitalia, troppo grande per esser piccola e troppo piccola per esser grande. Così saremo tornati alla casella di partenza avendo perso un sacco di soldi e di tempo. Intanto il pifferaio suona il suo piffero e gli allocchi lo seguono incantati.

È in arrivo il federalismo fiscale, del quale riparleremo. Per ora si sono sentite molte parole ma non s'è visto nessun numero. Prima o poi però i numeri dovranno sbucare da qualche parte e bisognerà leggerli con molta attenzione.

(14 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Benedetta Porta Pia
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 06:27:00 pm
Eugenio Scalfari.

Benedetta Porta Pia



La fine dello Stato pontificio fu un gran bene per la Chiesa e stupisce il silenzio dei cattolici sulla manifestazione indetta dal sindaco fascista che guida il Comune di Roma  Gianni AlemannoLa cosa stupefacente di questo 20 settembre 2008 non è stata la celebrazione dei 19 soldati dell'esercito papalino caduti alla Breccia di Porta Pia, promossa dal Comune di Roma e dal sindaco della città; e neppure l'omesso saluto ai bersaglieri che conquistarono Roma rendendo finalmente possibile il completamento dello Stato unitario.

La cosa stupefacente è stata il silenzio pressoché totale dei cattolici italiani. Da Alemanno e dalla sua giunta siamo ormai abituati ad aspettarci di tutto, anche se in quest'occasione la sua iniziativa supera per fantasia retrograda tutte le altre fin qui messe in scena. Non siamo più soltanto al recupero dell'ideologia fascista; qui si è fatto un salto all'indietro di 138 anni di storia, con uno spirito papalino che neanche il fascismo ebbe.

Ma i cattolici? I cattolici politicamente impegnati? I vescovi della Conferenza episcopale? La Segreteria di Stato vaticana? E il Papa?

Il 20 settembre 1870 cadde finalmente il potere temporale del Papato che durava all'incirca da 1500 anni. L'editto di Costantino ne aveva posto le basi, ma esso diventò effettivo qualche secolo dopo e si allargò nel corso del tempo fino alle Romagne al nord e al Volturno a sud diventando uno Stato vero e proprio, una teocrazia in piena regola, con le sue leggi, le sue magistrature, le sue prigioni, i suoi patiboli, il suo esercito comandato di solito dai nipoti e/o dai figli del Papa in cattedra in quel momento.

Fu questa una delle storture più macroscopiche della Chiesa cattolica, che mise in secondo piano la predicazione evangelica e l'imitazione di Cristo, privilegiando invece i calcoli di potere, le alleanze, i trattati, le guerre.

Lo Stato del Papa fu uno degli ostacoli principali dell'Unità d'Italia e della sua indipendenza, ma soprattutto ostacolò l'evoluzione del pensiero cattolico verso la spiritualità, la pratica della non-violenza, le parole di pace e amore verso il prossimo, verso il diverso e addirittura verso il nemico.

I Papi furono innanzitutto sovrani temporali. Ce ne furono molti dotati di saggezza, di sapienza teologica, di spirito di carità, ma molti altri devastati invece da cupidigia, ambizione, lussuria, spirito di vendetta. Ma sia gli uni sia gli altri non potevano prescindere dalla volontà di potenza insita necessariamente nella natura di ogni potere politico. Se c'è un sentimento lontano ed anzi opposto allo spirito del Cristianesimo, esso è proprio quello della volontà di potenza che diventò la seconda (o la prima?) natura della Chiesa cattolica.

Essa è la sola tra tutte le confessioni cristiane che abbia coltivato per molti secoli il temporalismo, il regno in questo mondo e non solo nell'altro, ed abbia consapevolmente praticato l'ipocrisia di giustificare il temporalismo come irrinunciabile condizione per assicurare alla Chiesa la propria indipendenza. Ipocrisia, perché il mezzo diventò fin dall'inizio una finalità e l'indipendenza della missione pastorale ed evangelica fu perduta perché fu posta al servizio del potere e dei canoni propri del potere.

In tutte le religioni si pongono questioni di potere perché esse sono innate nell'umana natura, ma in nessuna, salvo forse nell'Iran khomeinista degli ayatollah, il desiderio del potere si è materializzato in un vero e proprio Stato, potente tra le potenze e implicato nel gioco politico e militare.

L'esistenza del Regno pontificio spiega anche perché il cattolicesimo italiano sia stato così diverso da quello esistente negli altri paesi cattolici europei, più povero di indipendenza e di protagonismo religioso, più silente e succube della gerarchia.

Da questo punto di vista la caduta dello Stato pontificio fu un gran bene per la Chiesa. O almeno: avrebbe potuto esserlo se il papato l'avesse vissuto e accettato come una liberazione, come l'occasione per riconquistare la sua piena libertà di espressione, di predicazione, di testimonianza.

Purtroppo non fu così. Il papato si chiuse a riccio, i portoni dei palazzi romani furono sbarrati di fronte all'avvento dello Stato italiano, laico per definizione, come sono e debbono essere tutti gli Stati che non siano governati dai preti.

Si vietò ai cattolici di fare politica. L'Italia a Roma fu considerata un atto sacrilego. Ogni rapporto col potere civile fu interrotto. Questa situazione durò per almeno quarant'anni, dal 1870 al Patto Gentiloni del 1911, quando il Vaticano permise ai cattolici di esprimersi politicamente partecipando a liste elettorali di intonazione cattolica e moderata. Infine diciott'anni dopo si arrivò al Concordato del '29 con Lo Stato fascista.

Ma nessun Papa ebbe la forza di proclamare che la caduta del temporalismo era stato uno degli eventi più positivi per l'evoluzione della Chiesa, salvo Giovanni XXIII e i suoi successori, auspice il Concilio Vaticano II.

Purtroppo il Papa attuale mostra un gusto 'retrò' che può motivare lo spirito papalino del sindaco fascista che guida il Comune di Roma.

Stupisce tuttavia che il laicato cattolico non abbia fatto sentire con forza la sua voce dentro la Chiesa e fuori della Chiesa. Questo è uno dei segnali peggiori della tristizia dei tempi che stiamo attraversando.

(26 settembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quanto durerà il regno di Berlusconi
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:12:15 pm
IL COMMENTO

Quanto durerà il regno di Berlusconi


di EUGENIO SCALFARI


I PILOTI hanno firmato il contratto da dirigenti, gli assistenti di volo firmeranno da lunedì; gli uni e gli altri hanno ottenuto miglioramenti rispetto alle condizioni iniziali e hanno ceduto su alcuni privilegi che contrastavano con il buon senso e con la natura ormai interamente privata della nuova compagnia di volo. Che peraltro di volo ancora non è, tanto che non può ancora intestarsi gli "slot", le licenze necessarie per far decollare gli aeroplani.

La vicenda tempestosa e ardua dell'Alitalia è dunque arrivata al suo positivo esito finale? Positivo forse sì, finale non direi. Ci saranno, per Colaninno, per Fantozzi e per il governo ancora parecchie gatte da pelare e non sarà un quieto vivere.

Bisognerà anzitutto superare il giudizio della Commissione di Bruxelles sulla legittimità del contratto d'acquisto della polpa di Alitalia che dovrà essere stipulato entro il 30 ottobre tra la Cai di Colaninno e la vecchia Alitalia di Fantozzi.

Secondo le norme europee la scelta iniziale avrebbe dovuto esser fatta mettendo in pubblica gara i possibili acquirenti interessati, ma questa gara non c'è stata; il governo aveva l'idea fissa dell'italianità ed è andato dritto su quella strada, ma ora, prima che il contratto Colaninno-Fantozzi sia stipulato, l'Unione europea potrebbe eccepire e addirittura dichiarare nulla la procedura seguita. Sarebbe una vera catastrofe, non tanto per il Paese ma certamente per il governo; perciò non credo che la Commissione di Barroso e di Almunia si prenderà una simile responsabilità, ma il rischio in teoria esiste.

C'è tuttavia un secondo ostacolo: il prestito dei 300 milioni effettuato con due decreti rispettivamente dal governo Prodi già dimissionario e dal subentrante governo Berlusconi. Quel prestito deve essere rimborsato da Alitalia al Tesoro.

Chi lo deve rimborsare? Fantozzi o Colaninno? La "bad company" di Fantozzi è per il 49 per cento del Tesoro e in più è in liquidazione. Colaninno però quel prestito non l'ha ricevuto perché all'epoca la sua cordata ancora non esisteva. Dunque è discutibile individuare il debitore. Ma esistono dei beni materiali. Per esempio gli aerei e gli "slot".

Potrebbero essere sequestrati dal creditore Tesoro e rivenduti fino a realizzare i 300 milioni. Oppure, anche qui, Bruxelles potrebbe chiudere un occhio visto il buon esito della vicenda.

Infine c'è il problema dell'antitrust. Se e quando nel capitale di Cai entrerà un'impresa straniera il controllo dell'antitrust passerà dall'Autorità italiana a quella europea, rispetto alla quale non vale il decreto Tremonti che ha sospeso i controlli dell'antitrust sull'operato di Cai.

Infine c'è appunto il tema del socio straniero e della quota azionaria da riservargli. Berlusconi vorrebbe che l'arrivo dello straniero avvenisse il più tardi possibile per sfruttare a lungo la rinascita della Compagnia tricolore e desidererebbe che la quota non superasse il 15 per cento del capitale, ma su questo tema la scelta spetta soltanto alla Cai. Si sa che Colaninno preferirebbe Lufthansa che però vorrebbe una quota azionaria maggiore.

Si vedrà, ma questa comunque non è una questione che possa mettere a rischio l'operazione, semmai la rafforza in proporzione diretta alla maggiore o minore presenza straniera.

Gran parte di queste gatte da pelare Padoa-Schioppa, ai suoi tempi, le aveva evitate: la gara internazionale ci fu, la proposta di Air France non prevedeva che lo Stato si accollasse i debiti, non c'era dunque bisogno di alcun prestito se si fosse firmato quell'accordo. Eppure ancora oggi Tremonti svillaneggia il suo predecessore perché secondo lui condusse malissimo quel negoziato il cui fallimento - è bene ripeterlo - fu dovuto all'azione congiunta del personale di volo e di Berlusconi.

Questo è quanto e questo rimarrà agli atti.

* * *

Tuttavia la luna di miele tra il Cavaliere e una robusta maggioranza di italiani continua. Anzi si rafforza. Nonostante le ristrettezze economiche, nonostante alcuni buchi non da poco nella politica finanziaria del governo, nonostante un bel po' di misure oggettivamente sbagliate, nonostante il disagio crescente di vaste categorie sociali e professionali, la luna di miele perdura. Si consolida.

Diventa strutturale o almeno così sembra. Come mai? Alcuni osservatori si sono posti il problema e hanno dato le loro risposte. In particolare su questo giornale che per sua natura e per la qualità dei suoi lettori è il più sensibile a queste questioni e forse il meglio attrezzato per affrontarle.

Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, in una lettera pubblicata ieri su Repubblica ci rimprovera perché secondo lui noi non abbiamo capito il fenomeno Berlusconi. Lo attribuiamo - erroneamente - alle sue capacità di demagogo, al suo dominio televisivo e/o alla dabbenaggine di tanti italiani che ripongono in lui la loro fiducia.

"Non avete capito niente" incalza Bondi. "Berlusconi avrà pure i difetti che voi gli avete cucito addosso, gli italiani saranno pure un popolo di allocchi al seguito di un pifferaio, ma la sua vera natura è di essere un modernizzatore e un semplificatore. Conserva le tradizioni ma le modernizza. Decide. Fa girare le ruote della storia. Insomma è uno statista. Se la sinistra non si rende conto di questo e non depone i suoi pregiudizi elitari, scomparirà". Così a un dipresso il nostro ministro della Cultura, che è assolutamente convinto di quanto ci scrive.

Non si stupisca Bondi se, dal canto mio, dico che c'è del vero nella sua visione berlusconista: un modernizzatore che conserva le tradizioni, trasforma l'antropologia sociale e riforma lo Stato. Non un fenomeno effimero ma durevole.

Ce n'è stato più d'uno nella storia dell'Italia moderna. Alcuni di grande livello, altri di mediocre spessore, altri ancora pessimi. Cavour, Giolitti, De Gasperi appartengono alla prima categoria; Bettino Craxi alla seconda. Alla terza - quella dei pessimi - Benito Mussolini. Dove collochiamo l'attuale "premier"?
Bisognerebbe lasciare il giudizio agli storici che rivisiteranno il passato a qualche decennio di distanza, ma anche noi contemporanei abbiamo il diritto di esprimerci. Secondo me Berlusconi va collocato a buon titolo tra i pessimi. La sua modernizzazione procede a ritroso, non è una riforma ma una controriforma. Il suo rispetto delle tradizioni riguarda la loro ritualità e non la loro viva sostanza. Basti guardare al suo rapporto con la Chiesa, che è addirittura blasfemo: non riguarda il cristianesimo ma gli interessi della gerarchia. La stessa cosa avviene quando affronta temi di fondo: la sicurezza, l'immigrazione, la giustizia, la scuola, l'economia, il federalismo, la Costituzione.

Nei primi anni del Novecento Sidney Sonnino lanciò lo slogan "torniamo allo Statuto" (quello promulgato mezzo secolo prima dal re di Sardegna Carlo Alberto). Credo che anche a Berlusconi piacerebbe tornare allo Statuto albertino mettendo se stesso al posto del re. Tutto il resto va di conseguenza.

Gli italiani sono un popolo di allocchi? Non più e non meno di tutti i popoli del mondo. Guardate alla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti. Guardate a quella francese di un anno fa: può decidere una battuta, una foggia, un gossip, una promessa lanciata al momento giusto.

Il dominio dei "media" non conta? Non si capisce, se non contasse, perché chi quel dominio ce l'ha non se ne sbarazza nemmeno per tutto l'oro del mondo.

Gli individui di qualunque latitudine pensano innanzitutto alla propria felicità e si arrangiano per realizzarla. Poi, se hanno tempo e spazio, considerano anche la felicità del loro popolo, il bene comune.
"Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / la sua folgore gli dà": così cantavano i poeti del nostro Risorgimento. Ma bisogna che il popolo si desti, cioè che gli individui divengano un popolo. Il che avviene molto di rado.

* * *

Immanuel Kant scrisse nella sua Critica della ragion pura che il peggior pregiudizio è non avere pregiudizi. Lo ricorda Todorov nel suo saggio sull'illuminismo. Sembra un paradosso ma coglie invece un aspetto importante della realtà perché il pre-giudizio è un'ipotesi di lavoro che serve ad orientare la ricerca di una soluzione. Chi non ha un'ipotesi di lavoro procede alla cieca, agisce e decide sulla base dell'emotività propria e di quella della folla. Dei sondaggi. Delle reazioni degli alleati e degli avversari.

Il modernizzatore-tradizionalista-controriformista non ha alcun pre-giudizio. La sua bussola sono i sondaggi e il favore della folla. La folla è la somma degli individui, non è un popolo. La folla è cera molle nelle mani di chi sappia manipolarla. Si tratta di un'arte, non di una scienza e in quell'arte il Nostro è maestro. Perciò è il massimo fautore d'una società "liquida", dove i nuclei associativi, i contropoteri, la pluralità organizzata siano ridotti al minimo.

* * *

La società liquida è un tipico aspetto della modernità a patto che i contropoteri e le istituzioni di garanzia siano in grado di tutelare l'eguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di accesso, l'esercizio dei diritti. Se questi presupposti mancano o sono deboli la società liquida non è un aspetto della modernità ma un ritorno all'antico, dal popolo alla plebe. Inoltre favorisce il rafforzamento di corporazioni e di mafie.

La globalizzazione porta con sé società liquide, professionalità ondivaghe e precarie, diritti incerti, mercati senza regole, contropoteri evanescenti. Le crisi assumono ampiezze e intensità mai viste prima, come avviene per gli uragani che sconvolgono i mari e le terre di pianura senza montagne che frenino il furore del vento.

Di fronte a crisi globali lo Stato si ripropone come l'assicuratore di ultima istanza. Riassume i pieni poteri. Non tollera controlli. Semplifica. Spazza via gli ostacoli. Confisca i diritti che possono frenarlo. In una società globale e liquida il potere si identifica con i governi nazionali. Il nazionalismo torna ad essere preminente nelle scale valoriali. I fondi sovrani diventano strumento di potenza e volontà di potenza.
Guardatevi intorno e vedrete che questa è la realtà che ci circonda. E per tornare ai casi nostri, di noi italiani, importa poco stabilire se il "format" berlusconiano sia una causa o un effetto, se sia duraturo o precario. Quel "format" c'è ed è all'opera da quindici anni. Non accenna a indebolirsi.

Dobbiamo unirci a chi lo applaude? Dobbiamo scegliere l'indifferenza e l'estraneità? Dobbiamo capirne la natura e resistergli? Il mio pre-giudizio è di resistergli avendone capito la natura. Sono molto affezionato ad un pre-giudizio che non mi impedisce di comprendere il diverso da me né di sognare e operare per una società dove i diritti e i doveri siano eguali per tutti e non ci sia solo tolleranza ma amore. In un mondo democraticamente ideale la tolleranza è offensiva rispetto all'amore e la tolleranza zero è una turpe bestemmia. Lo dicono anche i preti e questa volta sono d'accordo con loro.

(28 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lo spot federalista ai tempi della crisi
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 04:57:54 pm
IL COMMENTO

Lo spot federalista ai tempi della crisi


di EUGENIO SCALFARI


I due temi hanno un sottofondo comune: la sovranità degli Stati nazionali e il mercato. Dopo anni di liberismo e di "deregulation" assistiamo ora ad un processo inverso: l'onda della crisi mondiale ha messo in moto un processo di rinazionalizzazione dell'economia. A Washington il Congresso ha finalmente approvato il provvedimento di 700 miliardi di dollari (aumentato a 850 miliardi) voluto da Bush per arginare la crisi del sistema bancario che nei giorni scorsi aveva coinvolto Wall Street.

A Parigi proprio in queste ore Sarkozy ha riunito le delegazioni dei quattro maggiori Paesi dell'Unione europea per una risposta comune e per sostenere le banche minacciate da illiquidità. Il punto sensibile, ancora una volta, è il funzionamento dei sistemi bancari, inquinati dal virus dei titoli-spazzatura. Ma c'è anche una pressione più che comprensibile a consentire gli aiuti di Stato alle imprese e a rendere più flessibile il patto europeo di stabilità.

Nel frattempo, mentre il nostro premier e il nostro ministro dell'Economia sono tra i più caldi fautori della rinazionalizzazione economica, quegli stessi due personaggi danno l'avvio al federalismo fiscale. Non c'è una notevole dose di incongruenza tra questi due processi così difformi, almeno in apparenza?

* * *

Le Borse americane non hanno dimostrato speciale entusiasmo per l'approvazione del provvedimento dei settecento miliardi di dollari sebbene esso abbia arginato il panico che si stava profilando sui mercati.
La ragione d'un tale scetticismo è tuttavia spiegabile: dipende dallo spettro sempre più visibile di una lunga recessione. Infatti sembra imminente a Washington un ribasso del tasso di sconto; si discute se sarà di mezzo punto o di tre quarti di punto.

Anche in Europa il timore d'una recessione-stagnazione è sempre più incombente. In Francia e in Spagna è già una realtà; in Italia l'andamento del Pil sarà lo zero nell'anno in corso e poco al di sopra dello zero nel 2009. Nonostante questa situazione la Banca centrale europea nicchia ancora su una diminuzione del tasso di sconto sebbene per la prima volta il presidente della Bce abbia aperto qualche spiraglio in proposito rinviandone la decisione al prossimo novembre.

Questa politica ha dell'incredibile, come abbiamo più volte segnalato. Il tasso di sconto è ormai da molto tempo fermo sul 4,25 per cento, più del doppio di quello americano. Nelle intenzioni di Trichet un livello così elevato doveva servire a fermare l'inflazione la quale però ha continuato ad aumentare. In pochi mesi siamo passati nell'area Ue da meno del 3 a più del 4 per cento.

Adesso, in settembre, quel tasso è sceso al 3,8 a causa d'una caduta della domanda e del prezzo del petrolio e ad una generale flessione dei consumi e degli investimenti. Il livello del tasso di sconto è dunque stato del tutto ininfluente sia per arrestare l'inflazione sia per determinarne una riduzione. Ma non è invece stato neutrale sugli oneri dei prestiti bancari alle piccole e medie imprese. Insomma una politica sciagurata che ancora persiste nonostante l'evidenza, senza più alcuna plausibile motivazione.

* * *

Dopo un anno e mezzo di sottovalutazione della crisi finanziaria mondiale, il richiamo al 1929 è diventato un luogo comune. Essendo stati tra i primi a segnalare questa analogia vogliamo qui ricordare alcuni strumenti che il "New Deal" rooseveltiano creò per risalire la china della grande depressione. Il primo fu il "Social Security Act" che pose le basi del "welfare"; il secondo fu il "Securities Act" che creò il sistema dei controlli sulle Borse e la trasparenza delle operazioni; ma il terzo e forse il più importante per impedire il ripetersi di crisi bancarie fu il "Glass Stengall Act" che separò le banche di credito ordinario dalle operazioni di credito finanziario.

Tra il 1932 e il '35 anche l'Italia fu investita dall'onda di crisi che travolse le nostre maggiori imprese industriali e l'intero sistema bancario nazionale. Gli strumenti messi in opera furono in parte simili a quelli rooseveltiani: le banche furono nazionalizzate attraverso il Crediop prima e l'Iri poi. La legge bancaria interdisse alle banche di praticare il credito a medio e lungo termine. Per soddisfare l'esigenza del finanziamento delle imprese nacquero Mediobanca e l'Imi, la prima di proprietà delle tre banche di interesse nazionale (Comit, Credit, Banco di Roma), il secondo come ente pubblico sotto la diretta vigilanza della Banca d'Italia.

Ricordo queste vicende poiché proprio in questi giorni sono stati e saranno abbattuti i paletti che la legge bancaria del '36 mise per impedire che le banche di credito ordinario fossero controllate da imprese private e - viceversa - che quelle banche prendessero il controllo di imprese. La separatezza fu cioè considerata un valore. Ora, non si capisce il perché, quella separatezza è diventata incongrua e viene attuata invece una vera e propria "deregulation" in materia di rapporti tra banche e imprese, patrocinata dall'Abi, da Confindustria e dal ministro Tremonti.
La crisi in corso ha rimesso in auge negli Usa la separatezza bancaria. Noi marciamo all'incontrario come già facemmo quando fu depenalizzato il reato di falso in bilancio. Non vi sembra un'altra non piccola anomalia italiana?

* * *

Tremonti vorrebbe un "fondo sovrano" europeo per le infrastrutture. L'Olanda ha proposto un fondo europeo sul modello americano per bonificare le banche dai titoli-spazzatura che hanno in corpo. Sarkozy ha probabilmente in testa qualche cosa di analogo e Berlusconi-Tremonti pure.

Forse sono buone intenzioni. Forse possono accelerare il processo verso un vero e proprio governo federale europeo. Ma allo stato dei fatti sono progetti acchiappanuvole. Qualunque fondo europeo che abbia così alte ambizioni non può che essere gestito da un governo che abbia alle sue spalle la sovranità e la legalità di uno Stato. Ma uno Stato europeo non esiste. Si può incaricare una banca o una qualsiasi agenzia di una missione del genere che dovrebbe mobilitare a dir poco il 3 per cento del Pil di ogni paese membro dell'Ue? Via, questo è uno sciocchezzaio con soli fini mediatici. Basta poco per capire che si tratta di bubbole senza alcun senso di realtà.

* * *

L'avvio del federalismo, avvenuto il 3 ottobre con l'approvazione del disegno di legge delega da parte del Consiglio di ministri, ha avuto un antefatto che merita di esser messo in evidenza. Le Regioni, i Comuni e le Province, hanno chiesto e ottenuto il rispetto da parte del governo di una serie di impegni finanziari che erano stati presi parecchio tempo fa ma fino ad oggi non onorati.

Si tratta del trasferimento alle Regioni di quanto loro spetta per evitare i ticket a carico dei cittadini; ai Comuni di quanto hanno perso per l'abolizione dell'Ici sulla prima casa e dell'Ici sulle seconde case ex rurali; alle Province per la totale mancanza di propri tributi con i quali sostenere i loro bilanci.

Il totale di queste richieste, riconosciute legittime e dovute, è di 3,5 miliardi. Una parte di questa cifra è stata "consacrata" in un ennesimo decreto legge varato dal Consiglio dei ministri nella stessa seduta dell'altro ieri. Un'altra parte dovrà trovar posto nella Finanziaria. Ma le richieste non sono finite perché l'Ici dovrà esser rimborsata ai Comuni anche nel 2008 e 2009. Forse anche nel 2010 fino a quando le finanze comunali non saranno definitivamente stabilizzate dai decreti delegati federativi. Non si tratta di piccole cifre ma di oltre un miliardo l'anno. Di tutte queste ingenti somme si ignora la copertura che tuttavia ci dovrà pur essere, come pure per le emergenze già versate al Comune di Roma e a quello di Catania.

I rappresentanti delle Regioni e degli Enti locali hanno vigorosamente negato che si sia trattato di un ricatto e di un "do ut des": erano impegni assunti dal governo molti mesi fa senza alcuna connessione col federalismo fiscale. Ma è pur vero che senza questo accordo preliminare la conferenza Stato-Regioni si sarebbe chiusa prima ancora di cominciare e il disegno di legge delega non ci sarebbe stato.

Quel disegno di legge è soltanto una scatola vuota, ma è già costata un bel po' di soldi. L'avevamo scritto più volte che l'abolizione dell'Ici era una totale sciocchezza populistica perché sarebbe comunque ricaduta sulle spalle dei contribuenti. Ed è esattamente ciò che è avvenuto e avverrà.

* * *

Una scatola vuota, riempita di principi generici e di buone intenzioni, cioè appunto di bubbole. Tuttavia qualche contenuto c'è. Per esempio il metodo legislativo scelto. E la tempistica.

Il disegno di legge sarà allegato alla Finanziaria e quindi approvato entro il 30 dicembre. Poiché nei due mesi e mezzo che ci stanno davanti bisognerà approvare anche la conversione di molti altri decreti in scadenza, le norme sulla scuola, la riforma della giustizia che il "premier" antepone ad ogni altra questione, l'esame della legge-quadro sul federalismo ne risulterà inevitabilmente limitato; la tentazione di strozzare il dibattito ci sarà e dipenderà dall'equità dei presidenti delle Camere. Non ci metterei la mano suo fuoco.

Ma il tema è grosso; si tratta infatti di una legge delega, approvata la quale il governo procederà con decreti attuativi del contenuto dei quali il Parlamento sarà semplicemente informato e neppure in assemblea ma nella commissione degli Affari Regionali. Assisteremo così alla trasformazione radicale del sistema tributario in assenza del Parlamento, come ha rilevato con giusto allarme Andrea Manzella sul numero di ieri di Repubblica.

Una soluzione ci sarebbe per evitare un "monstrum" di questo genere e l'hanno proposta lo stesso Manzella e il presidente dell'Anci, Leonardo Dominici: creare una commissione composta dal governo, dai rappresentanti delle Regioni ed Enti locali e dai rappresentanti della competente commissione parlamentare. Questa nuova entità sarebbe incaricata di raccogliere i dati necessari e preparare i decreti delegati.

È una soluzione un po' barocca ma almeno non confisca completamente i poteri di legislazione del Parlamento. Se non sarà accettata verrà compiuto un atto molto grave contro il Parlamento, ai limiti della costituzionalità. Quanto alla tempistica, il governo avrà due anni di tempo per emanare i decreti, poi ci vorranno da un minimo di cinque ad un massimo di dieci anni per rodare il sistema. La fine del processo si avrà insomma intorno al 2020 se tutto andrà bene.
* * *
I problemi di merito sono due: i costi standard e la perequazione. Ne ho parlato a lungo con il professor Giarda, che è forse il massimo esperto indipendente in materia di federalismo fiscale. Nella sua narrazione costruire il costo standard è un'operazione da far tremare i polsi al più attrezzato cervellone, qualche cosa non molto dissimile dalla macchina di accelerazione delle particelle nucleari costruita a Ginevra per simulare il "Big Bang".

Inoltre, ovviamente, c'è un costo standard per ogni servizio reso da una pubblica amministrazione e qui entra nel conto una quantità innumerevole di elementi: sociali, geografici, demografici, professionali, terapeutici, sessuali, culturali, censitari.
Naturalmente si andrà per larghe approssimazioni, ma nasce un problema sul quale si è espresso con efficacia Luca Ricolfi sulla Stampa: il raffronto tra costi standard e spesa storica.

È stata fin qui opinione corrente che la spesa storica, specie nelle Regioni povere, sarebbe stata superiore o eguale al costo standard. Di qui un risparmio significativo e un guadagno di efficienza. Invece non è così. In molte Regioni povere il costo standard risulta più elevato della spesa storica.

Per di più i risultati finanziari varieranno secondo la scelta del "benchmark" cioè della Regione o gruppo di Regioni assunto come punto di riferimento. Ricolfi ha calcolato che se il punto di riferimento fosse la Lombardia (per quanto riguarda la spesa sanitaria che rappresenta buona parte di quella regionale) ci sarebbe un'economia netta di 4,7 miliardi; se fosse l'Emilia il risparmio sarebbe in un paio di miliardi; se fosse la Toscana ci sarebbe invece una maggiore spesa di 5 miliardi e forse più. Come si vede si tratta di cifre ballerine e tutto è ancora aperto.

Il secondo problema è quello della perequazione, cioè dei trasferimenti che debbono esser fatti dalle Regioni con più alta capacità impositiva a quelle con più bassa capacità. Anche qui le difficoltà non sono poche poiché occorre calcolare la dimensione del "sommerso".
Il fondo perequativo dev'essere alimentato anche dalle Regioni a statuto speciale e questo è un altro problema aggiuntivo che si proporrà comunque alla fine dell'intero processo federalistico. Ha un senso mantenerle in uno Stato federale? Tanto più che alcune di quelle Regioni hanno un livello di spesa pro-capite più basso di Regioni a statuto ordinario. Insomma un guazzabuglio.

L'ipotesi più attendibile è che alla fine si procederà su uno schema a doppia velocità: alcune Regioni saranno in grado di entrare nel sistema federalistico mentre molte altre e probabilmente gran parte del Sud, ci arriverà quando potrà. Tutto ciò accade in una fase di grande difficoltà per la nostra finanza, per il nostro debito pubblico e per il nostro welfare. Se c'era un momento in cui sarebbe stato insensato parlare di federalismo fiscale, quel momento è esattamente l'autunno del 2008 cioè i giorni e i mesi che stiamo vivendo. Pensateci tutti molto bene e poi, almeno i credenti, si facciano il segno della croce prima che questo lungo viaggio cominci.

(5 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I media e la barbarie
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 06:49:12 pm
Eugenio Scalfari.

I media e la barbarie


Il circo mediatico agisce per forza propria, autoalimenta la propria potenza, utilizza i critici e gli autocritici come propellenti anziché come avversari. Tutto è spettacolo e massa  Giornali, televisioni, reti informatiche, film, libri e insomma tutti quei mezzi di comunicazione che nel loro complesso sono definiti 'media' sono responsabili di quell'imbarbarimento collettivo che sembra essere uno degli aspetti più significativi e più deprimenti delle società contemporanee?

Io penso di sì. Forse non si tratta d'una responsabilità esclusiva e forse il sistema mediatico è un effetto e non una causa dell'imbarbarimento sociale. Ma non c'è dubbio che ci sia uno stretto rapporto tra la comunicazione di massa e la barbarie contemporanea, tra il declino della ragione e l'emergere d'una sfrenata emotività, tra la fatiscenza dell'etica e il predominio delle pulsioni egoistiche. Infine tra la progettualità del futuro e la ricerca d'una felicità immediata e precaria.

Faccio queste riflessioni proprio perché, avendo passato gran parte della mia vita all'interno del sistema mediatico, credo di conoscerne a fondo i meccanismi e le difficoltà del singolo giornalista e del singolo giornale di sottrarsi ai condizionamenti del sistema la cui forza è ormai tale da esserne sfuggito il manico agli operatori addetti a quel lavoro.

Naturalmente nessuno potrà mai impedire al giornalista consapevole di esprimere le proprie critiche al mezzo al quale collabora e di preservare la propria indipendenza di pensiero. Né si deve sottovalutare l'importanza di queste critiche e dei loro effetti terapeutici su quanti riescano a coglierne il significato e farlo proprio. Ma pensare che il sistema mediatico nel suo insieme ne sia scalfito, sperare che possa autocorreggersi dall'interno, è pura illusione o astuta ipocrisia. Personalmente questa speranza l'ho persa da un pezzo né credo di salvarmi l'anima con la critica e l'autocritica: ormai il circo mediatico agisce per forza propria, autoalimenta la propria potenza, utilizza i critici e gli autocritici come propellenti anziché come avversari.

Tutto fa brodo nella civiltà di massa e di spettacolo, tutto è spettacolo e massa. Non si butta niente.

Questi pensieri mi sono tornati alla mente domenica scorsa leggendo quanto ha scritto sulla 'Stampa' Barbara Spinelli.

Sono amico di Barbara da una vita. I nostri articoli escono contemporaneamente la domenica sui nostri rispettivi giornali e quasi ogni settimana mi capita di constatare che sosteniamo gli stessi valori, abbiamo analoghe convinzioni, avvistiamo i medesimi ostacoli e critichiamo le medesime storture, quelle che a noi sembrano tali. È inutile dire che queste nostre coincidenze avvengono senza la pur minima consultazione, io vivo a Roma, lei a Parigi, ci incontriamo al massimo una volta l'anno e non abbiamo abitudine di telefonarci.

Così è avvenuto ancora una volta domenica scorsa. Il succo comune era questo: viviamo in un'epoca in cui è in atto un impoverimento drammatico della classe media la quale, proprio perché percepisce l'ineluttabilità del suo declino, è dominata dalla paura. Cerca certezze e non le trova. È stipata in un barcone senza timone e senza timoniere.

In queste condizioni - che di tanto in tanto si producono nella storia delle civiltà - si aprono due possibili opzioni: quella di dare certezze sopprimendo o indebolendo la libertà e quella di darle valorizzando la libertà. Superfluo dire dove stiamo noi.

Quella stessa domenica ho anche letto sulla 'Stampa' l'articolo di un bravo collega che resocontava da Parigi il ruolo di Berlusconi nel 'meeting' dei G4 convocato da Sarkozy per la crisi finanziaria mondiale. Da quella cronaca il nostro 'premier' appariva come il dominatore della situazione, quello che aveva capito tutto prima di tutti, quello che aveva messo d'accordo Bush e l'Europa, la Francia e la Germania, Putin con l'Occidente, rassicurando al tempo stesso le banche, i depositanti, le imprese, i risparmiatori, le Borse. Insomma un gigante della preveggenza e del decisionismo.

La conclusione di quel reportage era ancora più sconvolgente: Berlusconi era indicato come il maggior sostenitore dell'etica nell'economia e nella politica.

Ebbene, il sistema mediatico è questo: l'articolo della Spinelli e quello del suo collega che racconta e sostiene l'opposto, sono entrambi utili a rafforzare il sistema mediatico così come gli è utile ciò che ora sto scrivendo su questa pagina. Il sistema divora tutto, metabolizza tutto e resta uno dei fattori propulsivi della moderna barbarie.

(10 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Domani mattina decidono le Borse
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 05:13:12 pm
ECONOMIA    L'EDITORIALE

Domani mattina decidono le Borse

di EUGENIO SCALFARI


Si aspetta con il fiato in gola la campanella d'avvio delle Borse europee di domani mattina. Dopo il G7 di ieri e il vertice europeo di oggi saranno infatti domani i mercati a giudicare l'efficienza delle decisioni raggiunte dai cosiddetti Grandi. Anche questa qualifica è in discussione: se i mercati non avranno recuperato la fiducia nonostante le decisioni di Washington e di Parigi vorrà dire che i Grandi sono ormai considerati come maschere del teatro dei pupi, prive di credibilità e di forza. Speriamo che non sia così perché l'alternativa sarebbe una catastrofe planetaria.
Le conclusioni dei due incontri di Washington e di Parigi si possono così sintetizzare (per quel tanto che finora se ne sa perché quello di Parigi è in corso mentre leggete queste righe):
1. Uno scudo generale di protezione dei depositi bancari garantito dai governi dei paesi del G7 e della Ue.
2. Un secondo scudo che fa capo anch'esso ai governi, che garantisce la solvibilità delle banche e la loro forza patrimoniale. Qualora venissero meno queste condizioni i governi interverrebbero a ripristinarle turando ogni falla che dovesse manifestarsi.
3. Le garanzie fin qui elencate si estendono anche ai prestiti interbancari che rappresentano il punto più sensibile del sistema. Le banche, da quasi un mese, non si prestano più soldi reciprocamente nonostante le continue iniezioni di liquidità effettuate dalle Banche centrali. Si è creato un gigantesco ingorgo che genera conseguenze di estrema pericolosità.
4. In Usa il piano Paulson prevede anche un intervento (i famosi 700 miliardi di dollari) per l'acquisto da parte del Tesoro dei titoli-spazzatura ancora in corpo alle banche.

Questa legge, approvata dal Congresso con molte modifiche e dopo dieci giorni di discussioni, non potrà però entrare in azione prima di un mese perché la sua messa in opera è tecnicamente complessa. Perciò il suo effetto sul mercato è stato finora nullo. Tuttavia il Tesoro americano la considera uno strumento aggiuntivo da mettere comunque in opera appena possibile.

Qualche commento sul complesso delle difese finalmente concordate dai Grandi dell'Occidente si può fare anche se sarà l'appuntamento di domani la prova decisiva.

Anzitutto sulle dimensioni di questo piano: sono immense e illimitate. Non sono state fatte cifre perché non si potevano fare. Nessuno è in grado di conoscere l'ammontare dei titoli-spazzatura in corpo alle banche di tutto il mondo e nessuno può valutare le altre fonti di indebitamento che in una emergenza così acuta possono cumularsi l'una con l'altra a cominciare dalle carte di credito, dalle sofferenze più rischiose, dalle cambiali di carta straccia, dai collocamenti e dalle cartolarizzazioni di più dubbia solvibilità, dalle ipoteche non eseguibili. Il Fondo monetario internazionale azzardò poco tempo fa la cifra di 1.400 miliardi di dollari come ammontare complessivo, ma era una valutazione limitata ai titoli spazzatura connessi ai "subprime" immobiliari.

Qui è invece in discussione la fiducia dei depositanti e dei risparmiatori di due continenti. Perciò non è questione di cifre. Se sulla base degli impegni presi dai governi la fiducia tornerà sui mercati i governi stessi non dovranno sborsare nemmeno un soldo o pochissimi spiccioli come mastice per otturare qualche fessura locale e marginale.

Ma se la fiducia non tornerà non c'è diga costruita dai governi più forti del pianeta che possa resistere all'impatto dell'ondata dei mercati. Questo per dire che è la credibilità dei governi a decidere una partita che si gioca tutta sulla parola più che sui capitali disponibili.

Quanto a credibilità, Bush ne ha ben poca e il suo ministro del Tesoro meno ancora di lui. Per di più tra venticinque giorni da oggi sarà stato eletto un nuovo presidente degli Stati Uniti e tutto il personale politico cambierà. Per conseguenza gli impegni presi oggi dal governo americano saranno attuati da altre persone.

Tuttavia gli Stati Uniti d'America sono una potenza planetaria che si sostiene con il suo stesso peso. Le consultazioni tra lo staff attualmente in carica e i due candidati alla presidenza sono continue e così pure i piani di lavoro elaborati dai rispettivi collaboratori.

I mercati conoscono queste situazioni e le terranno nel debito conto anche se la coincidenza tra la crisi in corso e l'avvicendamento presidenziale non è certo tra le più felici.

* * *

La credibilità del nostro governo, malgrado gli sforzi di Tremonti e la presenza di Draghi alla guida della Banca d'Italia, non è certo un "asset" molto spendibile. Purtroppo è bassa dovunque, in Europa come in America e non bastano certo gli inviti estivi e i rapporti personali di Berlusconi con Bush e con Putin a ravvivarla.

In mezzo al fragore della tempesta che sta sconvolgendo il mondo fa una certa impressione osservare gli alterni comportamenti del nostro capo di governo. In una società dove lo spettacolo di massa ha ormai occupato interamente lo spazio pubblico Silvio Berlusconi grandeggia, l'aspetto ludico è quello che meglio gli si confà e dove dà il meglio di sé e in queste giornate lo applica al dramma delle Borse in picchiata continua. Venerdì scorso ha toccato culmini difficilmente raggiungibili. Ha suggerito quali titoli sarebbe più opportuno comprare, l'Eni e l'Enel. Tre giorni prima, aveva perfino citato Mediaset in conferenza stampa. Poi ha aggiunto che forse a partire da domani le Borse saranno chiuse fino a quando i Grandi avranno concordato nuove regole. Infine, essendo stato immediatamente smentito perfino dalla Casa Bianca, ha smentito se stesso come d'abitudine.
Un uomo così verrebbe interdetto dai suoi familiari. A maggior ragione se è il capo dell'Esecutivo dovrebbe esser sottoposto a "impeachment". Ma poiché piace al pubblico del Bagaglino lui continua e i "media" compiacenti applaudono le sue esibizioni.

Nel frattempo, forse per allentare la tensione, si fa strada la tesi della "distruzione creatrice" di schumpeteriana memoria. Secondo questa scuola di pensiero non tutto il male viene per nuocere: il cataclisma finanziario di queste settimane altro non sarebbe che il normale succedersi dei cicli economici che costituiscono l'ossatura del capitalismo. L'economia un po' va su e un po' va giù e quando va giù serve a ripulire il terreno dalle vecchie impalcature e a preparare nuovi e ancor più promettenti scenari.
Forse sarà così, ma dubito molto che i milioni di persone la cui esistenza viene distrutta si consolino al pensiero che in futuro quell'operazione sarà creatrice di lontane felicità.

* * *

Due giorni prima dei vertici internazionali di sabato e di oggi il nostro governo ha varato un decreto a somiglianza di quanto contemporaneamente facevano i governi inglese, tedesco, francese, spagnolo per erigere lo scudo di garanzia dei depositanti e le misure per rafforzare il capitale delle banche che ne avessero avuto bisogno. Si tratta appunto di quegli stessi provvedimenti che i vertici internazionali hanno infine coordinato, ma ciascun governo li ha modellati con varianti non marginali.

Per quanto riguarda il rapporto con le banche il nostro governo ha scelto di fatto la nazionalizzazione temporanea degli istituti in difficoltà. Bisognava però definire un indicatore oggettivo per limitare la discrezionalità attribuita al ministro del Tesoro.
L'indicatore scelto dal governo è il patrimonio delle banche. Se è sceso al di sotto di una certa soglia e la banca non è in grado di fare ricorso ai propri azionisti, può chiedere l'intervento del Tesoro; il Tesoro dal canto suo può anche intervenire d'ufficio se la Banca d'Italia ravvisa uno stato di sofferenza grave in un istituto di credito e la necessità d'un intervento pubblico.

A quanto ammonta il fabbisogno di questo decreto e quindi la sua copertura? Nessuno può saperlo perché nessuno sa quali sono le banche in pericolo e per quale ammontare. Quelle sotto alla soglia patrimoniale stabilita dalla Banca d'Italia sono poche e i loro azionisti sono abbastanza forti per mettersi in regola, ma si tratta di una speranza e non di una certezza.
In queste condizioni era impossibile cifrare la copertura e d'altra parte il Tesoro non ha risorse da mobilitare, perciò Tremonti ha scelto la sola strada possibile: la copertura si avrà spostando le risorse dei capitoli di bilancio o con emissione di titoli pubblici senza limitazione.

Spostare i capitoli di bilancio senza limite di cifra significa di fatto riscrivere la legge Finanziaria e la legge di Bilancio che andranno in discussione in Parlamento tra venti giorni ma che, nella sostanza, sono già state approvate con validità triennale fin dal luglio scorso. Si può fare un'operazione del genere senza coinvolgere il Parlamento? Senza che esista neppure la parvenza d'un coinvolgimento dell'opposizione?

Poi c'è il problema dei manager "colpevoli". Il governo aveva surrettiziamente cercato di graziarne alcuni infilando un emendamento nella legge sull'Alitalia. Se n'è accorta la giornalista Gabanelli di Report e le ha dato voce Repubblica di giovedì scorso. Scoperto l'inganno nessuno del governo ne ha rivendicato la paternità, Tremonti meritoriamente ha posto l'aut aut: o cancellare l'emendamento o le sue dimissioni. Così è avvenuto e l'emendamento è stato cancellato. Quindi i manager colpevoli saranno perseguiti. Ma da chi e per quali colpe?

L'emendamento ora soppresso erigeva uno scudo legislativo contro la magistratura che perseguiva reati attribuiti a Tanzi, Cragnotti, Geronzi. Il decreto Tremonti punta invece ad un altro tipo di colpevolezza che non comporta necessariamente un reato ma piuttosto una politica aziendale poco efficace o sbagliata. Il Tesoro insieme alla Banca d'Italia avranno il potere di stabilire a propria discrezione se quella politica era sbagliata e se i responsabili dovranno esser cacciati. Ciò significa usare una situazione di emergenza per fare piazza pulita dei manager sgraditi al potere. Non mi pare un criterio accettabile. Si prende un possibile dissesto aziendale come occasione per metter le mani sul credito bancario.

Ma c'è una ciliegina in più su questa torta di assai dubbia fattura ed è la presenza di Mediobanca nella cosiddetta "unità di crisi" composta dal Tesoro, dall'Abi, dalla Confindustria e per l'appunto da Mediobanca di Geronzi. Mediobanca sarebbe dunque uno dei soggetti che elabora la politica bancaria del governo, come se quell'istituto fosse un'autorità neutrale e di garanzia. Scorrete l'elenco degli azionisti di Mediobanca e scorrete anche la biografia professionale e giudiziaria del suo presidente e vedrete che non è così. Tutto ciò è molto preoccupante.

* * *

Al di là di questa matassa di problemi resta il fatto che la crisi non accenna a spegnersi e la ragione è molto chiara: si chiama recessione, si chiama caduta della domanda nel mondo occidentale e qui in Italia, si chiama insolvenza dei consumatori. La gente non ha soldi, le imprese hanno i magazzini pieni di prodotti invenduti, la Cassa integrazione ospita sempre maggiori unità disoccupate, i grandi magazzini vendono di meno per la prima volta da quando esistono, le spese "opzionali" vengono tagliate per poter soddisfare i bisogni primari, la dieta delle famiglie si impoverisce.

L'altro giorno il presidente del Consiglio ha detto: "Adesso diminuiremo le tasse". Doveva pensarci quando poteva ancora farlo, nel giugno scorso al momento in cui il suo governo fu insediato. Invece abolì l'Ici sulla prima casa e sulle case ex rurali e detassò gli straordinari. L'Ici però ha lasciato a secco i Comuni e il governo ha dovuto indennizzarli per l'ammontare integrale che gli aveva sottratto altrimenti il federalismo non avrebbe mosso neppure il primo passo. Perciò tutto si è risolto in una partita di giro puramente mediatica. Quanto alla detassazione degli straordinari le imprese non ne fanno più perché non c'è domanda. Non domanda, non produzione, non detassazione. Questo balletto mediatico non è più sostenibile. Adesso occorre la detassazione sul serio e non soltanto per ragioni di equità sociale ma per frenare il bulldozer della recessione.

Ci troviamo in brutte acque: dobbiamo detassare ma l'erario è a secco; tagliare la spesa senza colpire l'occupazione, fare i contratti di lavoro aumentando le retribuzioni ma con riguardo alle imprese e alla produttività. Questo governo del fare finora ha fatto assai poco: molti annunci, poche cose buone e molte sballate, dall'Alitalia ai grembiulini della Gelmini.
Adesso bisogna fare uscire il paese dalla tempesta e non sarà certo un gioco.

(12 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Figaro qua, figaro là il factotum di Arcore
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:37:11 pm
L'OPINIONE

Figaro qua, figaro là il factotum di Arcore

di EUGENIO SCALFARI


GUARDANDO le nostre televisioni e sfogliando le pagine dei nostri giornali (con qualche sempre più rara eccezione) in mezzo ai tanti guai che affliggono l'economia mondiale emerge un aspetto consolante: il patrio governo e il suo leader hanno guadagnato molti punti in tema di prestigio internazionale. Tutti ci cercano, vogliono i nostri consigli, valutano con apprezzamento i nostri programmi, chiedono la nostra mediazione. Tra i grandi della Terra il nostro peso è crescente.

Siamo di pieno diritto nel G20, nel G15, nel G10, nel G9, nel G8, nel G7, nel G4, cioè nei consessi dove vengono forgiati i destini del pianeta, da quelli più estesi a quelli più ristretti. Infine questo periodo di passione si è concluso non a caso con l'incontro intimo e esclusivo tra il presidente degli Stati Uniti d'America (lo sarà ancora per quindici giorni) e il capo del governo italiano. Che cosa si vuole di più?

Questa crescita di autorevolezza trae conferma dalle dichiarazioni degli interessati e in particolare da quelle del presidente del Consiglio e del ministro dell'Economia che i nostri "media" riportano con la massima evidenza e il dovuto compiacimento. Siamo noi ad aver lanciato l'idea d'un fondo a tutela dei depositanti, noi ad aver suggerito la creazione d'un altro fondo sovrano europeo che sostenga gli investimenti, noi ad immaginare un intervento unitario dell'Ue per impedire il fallimento delle banche, noi a progettare una nuova Bretton Woods con l'obiettivo di riscrivere le regole del capitalismo mondiale. E del resto non era stato Berlusconi, già quattordici anni fa, a lanciare l'idea d'un nuovo piano Marshall per la Palestina, quale supremo strumento per metter fine all'interminabile conflitto in Medio Oriente?

In questa immaginaria rassegna dei primati italiani conta poco che gran parte dei progetti siano soltanto scatole vuote, annunci generici, espedienti mediatici ai quali non è mai seguito un qualsiasi avvio di attuazione e contano ancor meno i contributi concreti della Merkel, di Gordon Brown, di Sarkozy, di Bernanke, di Paulson, giuste o sbagliate che furono le loro iniziative.

Per il pubblico italiano, istruito dai media nostrani e dalle dichiarazioni a getto continuo dei nostri governanti, il motore della lotta contro la tempesta economica che si è abbattuta sul pianeta sta a palazzo Chigi e nei suoi immediati dintorni.

Perfino il voto contro la politica "climatica" dell'Europa, che ha comportato due mesi di stallo, è stato presentato come il segno della nostra forza internazionale e della nostra lungimiranza.
E' necessario segnalare che queste esaltazioni mediatiche sono prive di ogni rapporto con la realtà e con la verità dei fatti che si sono svolti in tutt'altro modo, con tutt'altre sequenze e con tutt'altri protagonisti?

* * *

Un altro assai diffuso esercizio mediatico in corso è quello della scoperta dell'acqua calda presentata come la prova della intelligenza e della vigilanza dei governi e delle istituzioni internazionali. Quell'esercizio non è limitato all'Italia ma si estende a tutto l'Occidente.
Si è scoperto pochi giorni fa che la crisi finanziaria sta incidendo sull'economia reale. Il Fondo monetario, il Tesoro americano, la Fed, la Bce, la Commissione di Bruxelles e - per quanto ci riguarda - Berlusconi e Tremonti lanciano l'allarme perché "si è aperta la seconda fase", quella cioè della recessione.

E ve ne accorgete adesso? Non era chiaro fin dall'inizio? Quando le crisi finanziarie superano una certa soglia e una certa dimensione, i loro effetti tracimano inevitabilmente al di là dell'aspetto congiunturale e avviano processi più o meno lunghi di ristagno e recessione.

Invece no, non se n'erano accorti, anzi davano dello stolto o del catastrofista a chi fin dall'inizio raccomandava di attuare provvedimenti capaci di arginare o rallentare le conseguenze negative sull'economia reale.

Da questo punto di vista la palma del primato spetta alla Banca centrale europea e alla Commissione di Bruxelles. La prima per aver mantenuto testardamente il tasso di interesse al 4.25 senza poter esercitare nessun freno sull'inflazione ma provocando invece deleteri effetti sul costo dei mutui immobiliari e dei prestiti alle imprese.

La seconda difendendo rigidamente la soglia di stabilità del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil e martellando i governi affinché perseguissero politiche di tagli di spesa e pareggio dei bilanci.

Trichet, i membri del direttorio della Bce, Barroso e Almunia, portano sulle spalle un'assai pesante responsabilità. Se è giusto dare la caccia ai manager inefficienti di banche e di imprese, lo staff della Bce e quello della Commissione di Bruxelles dovrebbero capeggiare quella lista e trarne le conseguenze dovute.

* * *

In questo panorama Giulio Tremonti rappresenta un caso anomalo e per certi aspetti patetico. Fu tra i primi a dare l'allarme nel giugno scorso sulle dimensioni della crisi finanziaria e bancaria in arrivo. Indicò gli scenari e le opzioni che si aprivano e, sia pure in termini generici, le politiche che si sarebbero dovute adottare. Ma poi, una volta messo alla guida dell'Economia, fece esattamente il contrario di quanto aveva indicato.

Fece approvare in nove minuti e mezzo (ricordate?) una legge finanziaria triennale che non merita altra definizione se non quella di configurare una politica economica deflazionistica. Una legge come quella, che punta ad abbassare la spesa per molte decine di miliardi con tagli "orizzontali", adottata da chi vede arrivare - e lo predice - una tempesta finanziaria con evidenti conseguenze recessive, è un comportamento inspiegabile.

Altrettanto inspiegabile la vicenda della "Robin-tax" che campeggiò nelle prime pagine dei giornali per almeno un mese e su cui Tremonti costruì una parte del suo fascino mediatico. Fu il fiore all'occhiello del nuovo ministro dell'Economia tassare i ricchi per dare ai poveri, tassare le banche per finanziare la "social card" da distribuire ad un milione di italiani con redditi inferiori agli 8 mila euro annui. Totale preventivato 400 milioni.

Sono passati quasi cinque mesi da quel piccolo colpo di teatro mediatico: la "social card" sarà distribuita a dicembre ma nel frattempo le banche hanno cessato d'esser ricche, il governo anziché tassarle deve sostenerle e per farlo ha varato un decreto dove prevede: "cifre illimitate" pur di evitare fallimenti.
Robin Hood se n'è andato dalla foresta di Sherwood, lo sceriffo di Nottingham gira col saio e il bastone del pellegrino e noi contribuenti attendiamo di sapere quanto costa il suo sostentamento.
Non è patetico?

* * *

Comunque il panico delle Borse sembra sia stato frenato dai provvedimenti messi in atto in Europa e in Usa sulla scia del piano indicato da Gordon Brown e dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Quando una banca è in difficoltà lo Stato interviene attraverso una sua agenzia-veicolo (l'Iri del 1933?) che entra nel capitale e nella compagine azionaria della banca. Di fatto si tratta di nazionalizzare quelle banche che non ce la fanno a camminare con le proprie gambe e con i soldi dei propri azionisti.

Questi provvedimenti, adottati con piccole varianti in tutta Europa, hanno avuto un buon effetto; depositanti e risparmiatori sembrano più tranquilli, le Borse stanno recuperando anche se una certa inquietudine permane. C'è anche qualche effetto collaterale sgradito: la speculazione si concentra contro banche "chiacchierate", ne deprime i corsi, provoca l'intervento di salvataggio pubblico e incassa la plusvalenza realizzata quando i corsi riprendono a salire.

L'aspetto positivo di questa manovra, oltre a quello di frenare il panico, consiste in una scarsa esposizione della finanza pubblica che si effettua nella forma di garanzia. L'Italia per esempio non ha neppure previsto una copertura a questo provvedimento: se la credibilità del governo rassicura i risparmiatori e i depositanti, il Tesoro non tirerà fuori neppure un soldo.
Quindi tutto bene, così sembra. Ma la musica cambia quando si passa alla fase due, cioè all'economia reale e alla recessione.

* * *

Se un settore produttivo è in difficoltà, se l'Ue autorizza forme di sostegno alle aziende e se i governi decidono di intervenire, in quel caso non si tratta di garanzie senza esborsi: si tratta di soldi veri che escono dalle casse dell'erario ed emigrano verso le aziende in questione.

Quali aziende? Scelte con quali criteri? Che tipo di sostegno? Quali le dimensioni complessive d'un siffatto e così anomalo intervento?

Il presidente del Consiglio ha immediatamente indicato come oggetto del sostegno il settore automobilistico. Per l'Italia c'è un unico nome: Fiat. Dunque si tratterebbe di entrare nel capitale di quell'impresa e/o finanziare una rottamazione in grande stile con i soldi dei contribuenti e/o incentivare qualche banca ad effettuare prestiti di favore all'azienda di Torino.

Si può fare un'operazione "ad personam" di queste dimensioni senza alterare il mercato europeo e senza suscitare altrettante aspettative e richieste da parte di altre imprese e di altri settori produttivi?

Evidentemente no, non si può fare. L'economia italiana diventerebbe un "suk" (lo è già), i conflitti si moltiplicherebbero, i commercianti, l'industria media e piccola, i sindacati dei lavoratori, i trasporti, le "utilities": un bailamme al di là d'ogni previsione e di ogni governabilità.

Non credo che, consapevole di scenari di tal genere, Bruxelles autorizzerà un'operazione Fiat. Comunque non lo credo possibile né utile. Ecco un'altra prova della torrenziale e dannosa loquacità del presidente del nostro governo.

Se si tocca il tasto degli aiuti di Stato alle imprese si rischia di aprire un buco nero di proporzioni inusitate nel bilancio pubblico. L'ammontare del nostro debito è tale da non poterci permettere politiche così azzardate.

Sono possibili soltanto interventi generali che impediscano qualunque discrezionalità politica. Abbiamo attualmente un deficit/Pil di circa il 2,5. Bruxelles autorizzerà modesti e temporanei aumenti al di sopra del 3 per cento. Diciamo che si possa arrivare al 3,5, un punto di Pil, quindici miliardi di euro.
Questa è la cifra ragionevolmente spendibile, più una parte dei tagli di spesa che erano previsti per ridurre il disavanzo del bilancio.

A fronte di quest'ordine di grandezza, che si potrà spingere al massimo a 20 miliardi, c'è l'immenso fronte dei redditi delle famiglie e dei consumi da sostenere con provvedimenti indicati da tempo dall'opposizione.
Urgono cioè delle scelte precise, degli impegni concreti e una tempistica urgente. Stupisce il silenzio degli interessati, stupisce che Confindustria e Fiat siano pronte a negoziare i loro interessi senza riguardo a quelli generali della crescita. Stupiscono i "media" che prendono sul serio le uscite improvvisate dei dilettanti. Qui c'è da conoscere i meccanismi e farli funzionare perché rimettere in moto la crescita non ha a che vedere col miracolo di San Gennaro.

(19 ottobre 2008)


da repubblica.it




Titolo: EUGENIO SCALFARI. Cesare dittatore democratico
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:29:57 pm
Eugenio Scalfari

Cesare dittatore democratico


Il suo potere ebbe come base e principale sostegno il 'demos', il consenso del popolo e la politica fu una delle sue passioni non come missione quanto come conquista del potere per sé  Si è aperta a Roma, al Chiostro del Bramante, un'esposizione che ha come tema Giulio Cesare. Il personaggio è attraente e andrò a vederla nei prossimi giorni. Una mostra su Cesare è soprattutto provocativa, le sue gesta militari e politiche sono provocative, ma soprattutto lo è la sua vita, la sua scrittura, i suoi pensieri per quel tanto che possiamo coglierli dal suo multiforme vissuto.

La definizione più corrente che si dà di lui è quella di dittatore democratico, accreditata da Luciano Canfora che è di Cesare uno dei più attenti e informati storici. Credo sia una definizione appropriata, ma merita una chiosa: tutti i dittatori sono democratici nel senso che il loro potere ha come base e principale sostegno il 'demos', il consenso del popolo. Questo è l'elemento che distingue il dittatore dal tiranno che si appoggia unicamente sulla forza e sulla repressione.

Si sa, o meglio si dice, che Cesare abbia pianto di fronte alla statua di Alessandro che era morto a trentatré anni dopo aver conquistato il mondo mentre lui, alla stessa età, era soltanto un 'edile', gradino iniziale delle magistrature della Roma repubblicana.

Alla distanza Cesare superò Alessandro: l'Impero da lui fatto emergere dalla crisi della Repubblica fu ancora più esteso di quello del macedone e durò molto più a lungo: trecentocinquanta anni e poi altri cento di declino prima della data finale.

Di Alessandro non si sa molto, il mito lo ha avvolto fin dall'adolescenza ed ha fatto sbiadire sotto il suo fulgore la personalità storica del figlio di Filippo. Si conoscono le sue battaglie, la sua stupefacente cavalcata dalla Grecia fino alle terre del Caspio e dell'Indo, all'Arabia, all'Egitto e alle lontane oasi del deserto libico. Si identificava con Achille ma poi andò oltre e si autodivinizzò.

Cesare non gli somiglia in nulla se non nella grandezza delle ambizioni. A differenza dell'Anabasi di Alessandro, l'impero di Cesare nacque più lentamente, come tutte le rivoluzioni politiche che trasformano e rinnovano l'esistente mantenendone il massimo di continuità. Cesare non era soltanto ambizioso ma anche ambiguo, intrigante, spregiudicato, equivoco. Stavo per aggiungere dissoluto, ma questo è un attributo che nella Roma di allora non avrebbe avuto alcun significato particolare.


La politica fu una delle sue passioni non tanto come missione quanto come passione per il potere. La conquista del potere per la brama di averlo per sé ed esercitarlo. Ma la strada era molto lunga: Cesare si trovava ai margini della gerarchia senatoria, aveva scarsi mezzi, nessun seguito e nessuna fama. Perciò intrigò e nel modo peggiore: cercando di destabilizzare il potere senatorio. Lo fece in due modi: rivendicando una sorta di discendenza politica dai Gracchi e da Mario e connivendo con Catilina e con i suoi congiurati. Catilina puntava al dispotismo, in quegli anni di perenne turbolenza si schierò contro la legalità repubblicana. Cesare era troppo intelligente per non vedere la pericolosità di quel 'golpe', ma lo spinse e lo incoraggiò. Non è chiaro ma molto probabile che, alla fine, lo abbia tradito. Certamente si mantenne in bilico tra il tentativo golpista e la repressione senatoria.

In quegli anni turbinosi la Repubblica fu scossa da due questioni intrecciate strettamente l'una con l'altra: la questione sociale e quella dell'impero.

La prima nasceva dalla struttura stessa della città e dal rapporto tra la plebe e gli ottimati. Tra il Senato e i Consoli da una parte e la potestà tribunizia dall'altra. Tra l'economia cittadina e quella delle provincie e delle colonie.

La questione dell'Impero si era posta nel momento in cui tra la seconda e la terza guerra punica si era chiusa la partita per l'egemonia nel Mediterraneo. Portava il nome d'un grande condottiero e di una grande famiglia: Scipione.

Questione sociale e questione imperiale avevano minato alle fondamenta il potere repubblicano. Durò cinquant'anni quella turbolenza e si concluse con la conquista delle Gallie e con la guerra civile, un milione di morti, la nascita dell'Impero e il primo dei Cesari alla sua guida.

Ma l'uomo che assunse la dittatura a vita, interrotta alle Idi di marzo dai pugnali di Bruto e di Cassio, era molto diverso da quello che aveva pianto di invidia di fronte al busto di Alessandro e che aveva incoraggiato Catilina a cospirare contro la Repubblica. Il Cesare imperatore era un effetto dei tempi, un personaggio creato dalla necessità di colmare un immenso vuoto. A volte gli uomini creano i fatti, altre volte al contrario sono i fatti a creare gli uomini adeguati. Credo che sia stato questo il caso di Cesare così come, 1.800 anni dopo, fu quello di Napoleone.

(24 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il caos calmo della rabbia riformista
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:45:52 pm
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Il caos calmo della rabbia riformista


di EUGENIO SCALFARI


Alle dieci del mattino la città comincia lentamente a formicolare e il brulichio aumenta e si infoltisce col passare delle ore, a mezzogiorno camminano ormai a gruppi, si muovono le associazioni, si formano piccoli cortei di quindici-venti persone: democratici con la bandiera del partito, lavoratori della Cgil con la scritta bianca sulla stoffa rossa, vecchi partigiani con il fazzoletto tricolore al collo. Nel cielo già volteggiano gli elicotteri della polizia.

All'una si formano i due cortei, arrivano i pullman e i treni, scaricano e ripartono. Vengono dal Nord e dal Sud, bandiere e vessilli dei Comuni. Piazza Esedra è già gremita. All'una e mezzo la gente si mette in moto mentre ancora dalle stazioni arriva un fiume di persone.

Vado a vedere, finché ancora si può, il grande catino del Circo Massimo attrezzato per l'occasione, già pieno per metà, ma da quanto visto finora tutta quella vasta pianura erbosa non basterà a contenere il popolo dei cortei e quello dei romani che arrivano alla spicciolata. Riempiranno le vie adiacenti, il piazzale della Celimontana, l'Archeologia.

Alle tre del pomeriggio gli organizzatori sono già convinti che il milione sarà superato, ma si tengono prudenti per non sparare cifre troppo distanti da quelle che saranno date dalla questura. La mobilitazione della gente è comunque imponente per quantità e per passione, per rabbia e per voglia di stare insieme. Direi anche per orgoglio.

Il Circo Massimo è lambito dalle Terme di Caracalla e sovrastato dal Settizonio e dalle Case dei Cesari. "La Dea Roma qui dorme" scriveva il poeta delle Odi Barbare negli ultimi anni dell'Ottocento. Anche quelli erano anni di crisi, di scandali, di scontro vivace di opinioni e di moti di piazza. Le plebi, come allora erano chiamate, erano arrabbiate e il governo, come spesso capita, faceva sfoggio di un decisionismo che decideva soltanto di mostrare i denti e il bastone dei poliziotti. Qualche volta ci scappavano i morti e allora erano guai seri.

Venerdì le Borse hanno preso un'altra scoppola. Leggo sul giornale la cifra delle perdite, specie sulle piazze europee. Non sono tanto i timori sulla consistenza delle banche quanto la paura della recessione che sta dilagando.

Mentre torno a casa dove seguirò il discorso di Veltroni dalla televisione incrocio gli studenti che vengono dall'Università. A giudicare dai cartelli e dagli slogan sono i più arrabbiati di tutti. Umiliati e offesi.
Ma qui, stamattina, tutti quelli che ho incontrato in questo lungo giro per la città mostrano rabbia e orgoglio. Non ho visto differenze di condizione, di foggia, di atteggiamenti. M'è sembrata una massa di popolo che ha deciso di alzarsi in piedi e di muoversi. Rientrare sulla scena, confermare una baldanza, riprendere il posto che le spetta, non farsi abbindolare dai pifferai di qualunque estrazione.

Se fino a ieri c'era nel paese una maggioranza silenziosa che gonfiava le cifre dei sondaggi ogni volta che sentiva pronunciare la frase "tolleranza zero", direi che ora la situazione sta cambiando. I disagi e le paure della crisi mordono ormai la carne viva dei lavoratori, dell'enorme massa del ceto medio, dei vecchi pensionati e dei giovani studenti e precari.
La maggioranza silenziosa si sta sfarinando in una serie di minoranze parlanti e protestanti che hanno bisogno d'una guida capace di unificare i loro diversi interessi lesi in valori comuni. Non si fidano della politica ma, più o meno consapevolmente, chiedono uno sbocco politico che dia rappresentanza alla loro rabbia e la trasformi in concreta proposta.

Molti osservatori si chiedono se la rabbia di piazza sia compatibile col riformismo, ma la risposta viene dalle centinaia di migliaia che occupano le strade di questa giornata e dai milioni che solidarizzano con loro attraverso i teleschermi: la rabbia è la molla che innesca il meccanismo della proposta alternativa, dello sbocco politico e politicamente rappresenta la protesta popolare e la sua partecipazione.

* * *

La proposta economica anzitutto, perché è quella la ferita più crudele nel corpo della società: milioni di famiglie cadute in povertà e milioni di famiglie in pena perché stanno per caderci.

Governi e istituzioni internazionali si sono accorti soltanto ora che la crisi finanziaria e bancaria si sarebbe trasformata inevitabilmente in recessione. Cinque mesi di tempo prezioso sono stati perduti dietro a rimedi fallaci e a colpevoli depistaggi verso falsi obiettivi. Eppure le cause della crisi erano evidenti: una caduta della domanda e per conseguenza un crollo degli investimenti in tutto l'Occidente.

Per cinque mesi sono state perseguite in Europa con opaca testardaggine politiche restrittive mentre era chiaro che sarebbe stato necessario sostenere redditi e consumi e stimolare investimenti. Il taglio degli sprechi è diventato un taglio massiccio della spesa effettuato alla cieca, aprendo la porta alla deflazione.
Quando il prezzo del petrolio crolla in tre mesi da 147 a 65 dollari obbligando i paesi produttori a diminuire la produzione del 20 per cento; quando l'oro dai picchi raggiunti diventa improvvisamente invendibile; quando il valore degli immobili si dimezza mentre i listini delle Borse perdono in un mese il 40 per cento della loro consistenza capitalizzata; quando le assicurazioni e i fondi d'investimento non riescono a far fronte ai premi da pagare e ai riscatti da soddisfare; quando le navi-container restano ferme nei porti per mancanza di clienti e di merci da trasportare; quando la catastrofe dell'economia reale assume queste dimensioni, è chiaro che non siamo in presenza d'una perversa fatalità bensì di gravissimi errori umani commessi per superficialità e imperdonabile dilettantismo, disprezzo degli interessi delle persone e dei ceti sociali, idolatria del mercato ideologizzato, conformismo all'icona del "valore tutto e subito", al vitello d'oro del profitto purchessia.

Il nostro paese non è stato esente da siffatti errori, anzi se ne è fatto baldanzoso sostenitore. In questi ultimi cinque mesi che coincidono con i primi cinque mesi del governo Berlusconi-Tremonti, siamo stati i primi in questa classe di asini. Non i soli ma certo i più convinti e pertinaci, i più iattanti e autoreferenti. Hanno colpito alla cieca interessi e categorie prendendo di mira le opere più necessarie allo sviluppo e i ceti socialmente più deboli.

Emma Marcegaglia, in un soprassalto d'intelligenza suscitato dall'aggravarsi della situazione, interrogata sul disagio nelle scuole causato dalla riforma Gelmini, ha risposto: "Ma quale riforma? Non esiste una riforma, esiste soltanto un decreto di tagli di spesa".
Ha ragione il presidente di Confindustria che non è certo una bolscevica: un decreto di tagli sul tessuto più delicato che vi sia in una qualsiasi società. Riformare la scuola media e superiore, riformare l'Università dopo due o tre tentativi malfatti o non portati a termine è necessario ma la Gelmini non ha proposto alcuna riforma, ha soltanto recepito dal ministro dell'Economia un canestro di tagli che devasteranno la scuola elementare e media.

La risposta al disagio verrà data dalle questure? Noi speriamo che le questure siano più ragionevoli del ministro Gelmini e di chi la sostiene. Qualche segnale in questo senso si è avuto, ma certo la pressione del potere cresce, la tolleranza zero si fa valere. Questa volta non colpirà soltanto gli studenti ma le famiglie che partecipano con i loro figli a questo disastro politico.

* * *

Il momento più emozionante avviene quando nel catino del Circo Massimo arriva la fiumana dei due cortei provenienti dal piazzale Ostiense e da piazza della Repubblica. Le postazioni televisive che seguono l'allegra marcia punteggiata da striscioni e bandiere segnalano che la coda di quel popolo in marcia è ancora ferma nelle due piazze di raccolta, il grosso si snoda come un serpentone gigantesco che sommando i due itinerari supera i quattro chilometri.

Gli organizzatori sono molto prudenti nel valutare la consistenza numerica di quella marea di folla in movimento ma ora azzardano una stima di due milioni. Alla fine arriveranno a due milioni e mezzo valutando non tanto la capienza del Circo Massimo e delle alture che gli stanno intorno quanto le strade adiacenti interamente occupate. Chi segue le dirette televisive ed ha sotto gli occhi la visione panoramica complessiva capisce che quella stima è molto vicina alla realtà.

In mezzo al fragore di questo popolo arrabbiato ma festante, alle cinque Veltroni comincia il suo discorso che durerà quaranta minuti. Dice parole che corrispondono a quelle che il popolo intorno a lui voleva sentire: la rabbia e la ragione, l'ispirazione politica e le proposte concrete, il sentimento dello stare insieme e l'identità di una forza politica che ha cancellato le provenienze storiche e si è immersa nel futuro come suggerisce la frase di Vittorio Foa scritta a grandi lettere sul palco della manifestazione.

Dopo il discorso del Lingotto di Torino, quello di oggi segna la vera nascita del Partito democratico. Sono passati appena cinque mesi dalla sconfitta elettorale, un tempo molto breve per un partito che aveva affrontato le elezioni dopo appena due mesi dall'insediamento del suo nuovo gruppo dirigente.
Chi ha criticato il vertice di questo partito perché in un tempo così breve non ha raggiunto risultati migliori dimostra di non conoscere i meccanismi, i tempi, le difficoltà della nascita politica e organizzativa in una società schiacciata dai disagi del presente e dalla paura del futuro.

Quanto abbiamo visto ieri dà fiducia. Un popolo responsabile, una sinistra nuova e pensante, una visione lucida del bene comune. Un'identità conquistata, la voglia di unità e di partecipazione. La speranza che tra nove giorni vinca Obama.
La partita è aperta. Se sarà continuata fino in fondo con coerenza il risultato di avere un'opposizione ampia e ferma, calma e determinata, sarà un arricchimento di grande valore per l'intera democrazia italiana.

(26 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ragazzi allegri e burattini di legno
Inserito da: Admin - Novembre 02, 2008, 11:42:59 am
IL COMMENTO

Ragazzi allegri e burattini di legno

di EUGENIO SCALFARI


CHE stia avvenendo qualche cosa di nuovo nel paese Italia, nel paese Europa e in tutto il mondo è sotto gli occhi di tutti. Qualche cosa di profondamente nuovo. Giulio Tremonti lo ha detto due giorni fa parlando nella riunione celebrativa del risparmio. "Non è soltanto una discontinuità, ma qualche cosa di molto più profondo" ha detto con voce sommessa e quasi parlando a se stesso.

Ed ha aggiunto: "Dobbiamo portare al primo posto l'etica e puntare sui valori e non sugli interessi". Sembrava di ascoltare Ugo La Malfa. Quasi quasi me lo sarei abbracciato. Ma poi mi è venuto in mente che gli stessi concetti, in forma magari più disadorna, erano stati enunciati dalla figlia di Berlusconi, non quella entrata nei giorni scorsi nel consiglio d'amministrazione di Mediobanca che sull'etica pecca un po' per difetto, ma la figlia più giovane.

C'è stato un passaparola? Folgorazioni di massa sulla via di Damasco? Le anime belle sono finalmente la maggioranza del paese?

Tutto è possibile anche se stento a crederlo. Però qualche cometa in cammino c'è: tra quarantott'ore voterà l'America e forse avremo un giovane meticcio di pelle scura alla guida della più grande potenza mondiale. Incredibile ma possibile, anzi probabile. I pessimisti ad oltranza si rassicurano ripetendo che anche se ciò avvenisse nulla cambierebbe perché il potere è il potere e chi lo amministra si comporta sempre allo stesso modo da che mondo è mondo.

Il potere è il potere, questo è vero; ma non ha mai la stessa forma e lo stesso volto. Un nero alla guida degli Stati Uniti non somiglia a nessun altro inquilino tra quelli che l'hanno preceduto alla Casa Bianca se non altro per il fatto maledettamente oggettivo d'avere alle spalle un popolo che fu portato in catene nelle pianure della Florida, del Texas e del Tennessee.

Lui farà probabilmente di tutto per non vedersi così, ma gli altri è così che lo vedranno e si aspetteranno un potere che abbatta le barriere tra gli uomini di buona volontà. E lui non potrà deluderli proprio perché lui il potere lo ama.

* * *

Torniamo a casa nel nostro piccolo cortile che amiamo di più. Giovedì mattina guardavo sfilare il corteo degli studenti e dei docenti in via Arenula, allo sbocco di Botteghe Oscure. Un corteo immenso, una fiumana giovanile frammista con capigliature grigie, mamme con bambini, maestre e professori che non perdevano di vista i loro ragazzi. Sembrava ed era un popolo insorto. Un passante mi ha riconosciuto e mi ha chiesto: "La solita ragazzata non è vero? Che ne pensa?". Ho risposto: "Quelle dei ragazzi sono sempre ragazzate ma a volte cambiano la storia".

Pensavo alle ragazzate nell'Europa del 1848. E poi pensavo al Sessantotto dei "figli dei fiori", dai "campus" americani all'occupazione della Sorbonne e alla "Primavera" di Praga. Infine alla piazza di Tienamen, sotto le mura della Città Proibita. Ragazzate, certo. Giocose. A volte tragiche. Maremoti di emozioni e di vitalità dopo i quali alcuni luoghi del mondo furono diversi da prima. Non so se migliori, ma certo diversi e la diversità è comunque un segno di movimento e di allegria.

I cortei dell'altro giorno erano allegri e imponenti. Apolitici? L'apolitico è indifferente per definizione. Non ha interesse alla "polis", cioè alla città, cioè alla "res publica". Ma quei ragazzi, quei maestri, quelle famiglie marciavano, gridavano, cantavano in nome della "res publica". Dicevano no ad uno scempio ma dicevano sì ad una riforma seria, ad una nuova città del sapere.

I pessimisti hanno scritto che quelle ragazzate servono ai "baroni" per mantenere i loro detestabili privilegi. In realtà questi strani pessimisti scrivono ciò che sperano e quando parlano dell'occupazione delle scuole ci mettono due k invece di due c. Non credono a niente e non sperano niente. Sono i grilli parlanti di un mondo di burattini di legno. Quando i burattini diventano ragazzi in carne ed ossa i grilli parlanti perdono il loro ruolo e cessano di esistere.

Io non credo che i ragazzi protagonisti di queste ragazzate coprano gli interessi dei baroni. Ma qui la questione si fa più complessa. Chi sono i baroni oggi nelle Università e nella scuola? Quali sono i malanni della scuola da estirpare e quali interessi la insidiano e vogliono impadronirsene?

* * *

La scuola elementare italiana è, complessivamente considerata, un punto di eccellenza in tutta Europa. Non ci sono fannulloni. Docenti e personale di servizio lavorano come e più dei loro consimili europei e con risultati migliori. Questo risulta da tutte le statistiche internazionali. I costi sono eguali alla media Ocse, ma i maestri sono pagati meno dei colleghi stranieri. Le aule sono insufficienti.

Molti edifici scolastici, specie nel Sud, non sono a norma. Quale che sia il parere del deputato Bocchino e del ministro Gelmini, la moltiplicazione dei pani e dei pesci è un miracolo che ha compiuto soltanto Gesù di Nazareth. Se il tempo pieno è possibile oggi e si potrebbe utilmente estendere e migliorare, non sarà possibile dopo i previsti licenziamenti di massa. Non ci vuole molto a capirlo.

Il vero malanno comincia con la scuola media e peggiora alle "superiori". Lì bisogna preparare una riforma, lì occorre convocare studenti, docenti, famiglie e lì il ministro deve esporre la sua visione culturale di una scuola nella quale entrano ragazzi di ogni ceto sociale e - ormai - di diverse etnie. Lì si affaccerà anche il federalismo con la necessità di coordinare i poteri di indirizzo dello Stato, la competenza regionale e comunale, l'autonomia degli istituti.

Il bullismo è un problema serio ma dominarlo affidandosi soltanto ad una politica scolastica muscolare è pura illusione. Uno dei possibili modi per venirne a capo è quello dei "tutori" e del miglioramento della qualità didattica. Del fascino che una didattica intelligente può suscitare nella fantasia dei giovani. Questo è il contrario dei tagli poiché richiede semmai maggiori investimenti, controlli di qualità su insegnanti e istituti.

Il miglioramento indispensabile della scuola secondaria e superiore comporterebbe di per sé un salto di qualità dei corsi universitari che sono attualmente alle prese con una massa di studenti impreparati ad affrontare l'università. Per risolvere problemi di questa complessità ci vuole grande esperienza e specializzazione fatta sul campo.

Mi ha colpito quanto ha scritto in proposito su "Repubblica" Aldo Schiavone. Ha negato, citando autorevoli fonti statistiche, che l'università italiana sia di pessima qualità. Credo che piacerebbe ai lettori saperne di più in proposito, quella di Schiavone è una voce fuori dal coro. Può approfondire la questione?

Gli studenti temono la privatizzazione delle università.
Anche questo è un tema difficile. Le fondazioni comunque hanno caratteristiche in parte private ma in parte pubbliche. Negli Stati Uniti hanno dato risultati non omogenei, toccando punte di eccellenza e punte di mediocre livello. Certo vanno rivisti il numero eccessivo di corsi di laurea e il numero eccessivo delle università.

I baroni? Esistono ancora ma il loro potere è in declino: la globalizzazione del sapere, specie di quello tecnico scientifico e medico, sta cambiando la struttura stessa della conoscenza applicata. Le baronie accademiche non hanno più la potenza di un tempo rispetto alla casta costituita dagli assessorati regionali e comunali in raccordo con le Asl e con i primariati ospedalieri o con gli appalti e i subappalti nei settori dell'urbanistica e dell'edilizia. E' lì che bisogna incidere e tagliare.

* * *

Motivi di disagio ne esistono dunque a iosa in un mondo dove il lavoro non offre sbocchi sufficienti e la flessibilità si è ormai cristallizzata in precariato generazionale. Due intere generazioni, quelle nate negli anni Settanta e Ottanta, sono state di fatto confinate nella mediocrità dei redditi e nell'inesistenza delle carriere.

I quarantenni di oggi sono umiliati e offesi. I ventenni insorgono. Questa è la novità. Non sono affatto apolitici anzi sono estremamente politicizzati ma non guardano ai partiti, guardano al loro problema, alla scuola e al lavoro, ai fatti e non alle parole. Ai fatti semplici e concreti. Le parole del governo alimentano la loro rabbia. Il decreto dei tagli è offensivo. La Gelmini è oggettivamente offensiva. Maroni, che proclama denunce, è oggettivamente offensivo dove l'avverbio serve a sottolineare la stupidità dei comportamenti di fronte alla serietà dei problemi.

Questa situazione ha cominciato ad erodere il consenso berlusconista. Fino a poche settimane fa sembrava una muraglia non scalfibile, ma adesso molti mattoni hanno cominciato a cadere, qualche travatura è precipitata, l'intonaco si sbriciola ogni giorno di più.
Avevo scritto domenica scorsa che la maggioranza silenziosa che gonfia i sondaggi berlusconiani si sta sfarinando in una serie di minoranze parlanti e protestanti. Scrivevo questo all'indomani della manifestazione del Partito democratico al Circo Massimo. Dopo la settimana studentesca questo sfarinamento della maggioranza silenziosa è ancora più vero e più evidente.

La crisi economica morde ora la carne viva del ceto medio e dei lavoratori, allarma le imprese e gli artigiani. Il governo ha dissipato miliardi in provvedimenti senza senso a cominciare dall'abolizione dell'Ici sulle dimore degli abbienti. Non si è reso conto che tempesta finanziaria avrebbe prodotto recessione produttiva e crollo dei consumi ed è ancora lì che studia rappezzi senza una strategia che ricostruisca la fiducia.

* * *

L'ultima pillola avvelenata tra le molte di questa settimana di passione è arrivata venerdì sera: il pasticcio Alitalia finisce con il rifiuto del personale navigante di firmare il protocollo contrattuale. Piloti e assistenti di volo contestano alcuni aspetti importanti dei loro contratti affermando che siano peggiorativi rispetto all'accordo-quadro accettato da tutti i sindacati venti giorni fa. Può darsi che quel peggioramento vi sia anche se i sindacati confederali hanno firmato. Può darsi che l'aggravamento della crisi economica e il crollo delle prenotazioni di tutte le compagnie aeree abbiano suggerito a Colaninno di introdurre maggior rigore contrattuale.

Ma è altrettanto evidente che i piloti e gli assistenti di volo non si sono minimamente dati carico della sorte del personale di terra che numericamente costituisce il grosso della compagnia e il vaso di coccio che sarebbe finito in frantumi se la Cai si fosse ritirata dal tavolo della trattativa. La famosa cordata tricolore, Europa permettendo, ha dunque passato la cruna dell'ago anche se dovrà ancora confrontarsi con gli equipaggi e con le loro iniziative di lotta sindacale. Siamo all'inizio dell'avventura della nuova Alitalia che lascia a carico dei contribuenti un onere di tre miliardi e dovrà sostenersi con l'appoggio di un socio straniero.

Berlusconi canta vittoria, ma dov'è la vittoria? Non ha alcuna chioma da porgere al supposto vincitore. E' rimasta, la vittoria, completamente calva.
Si conclude così una pagliacciata durata sette mesi e ritorna Air France a condizioni assai peggiori per noi di quelle dell'aprile scorso.

"Gianni Letta risolverà tutto" ha detto il premier lasciando Palazzo Chigi la sera di venerdì. Il suo vice è riuscito a convincere Colaninno da un lato e i confederali dall'altro. Ancora una volta l'ha salvato dal disastro facendo da levatrice ad un neonato rachitico, affidato alle cure d'una balia francese. Ho stima per Gianni Letta, ma ne avrei di più se smettesse di prendere in giro gli italiani vendendo loro le lucciole invece delle lanterne.

(2 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Giornalisti con il bollino blu
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2008, 04:04:31 pm
Eugenio Scalfari.


Giornalisti con il bollino blu


È quello ricercato dai giornalisti che si proclamano di sinistra ma che criticano le forze schierate nello stesso campo. Con il risultato che la sinistra ha contro l'intero schieramento mediatico  Luigi AlbertiniSono spesso invitato da scuole e corsi universitari di comunicazione a parlare di giornalismo; va di moda da qualche tempo chiamare queste conferenze con il titolo un po' pomposo di 'lectio magistralis'. Di solito cerco di sottrarmi: avendo dedicato al giornalismo gran parte della mia vita professionale ed essendo tuttora in attività di servizio, discettare su quella materia mi suscita un sottile sentimento di noia e di 'déjà-vu'. Qualche volta accetto, più spesso scappo con qualche pretesto.

Tuttavia l'abitudine contratta in sessant'anni di mestiere mi porta tutti i giorni a leggere molti giornali e mi ispira inevitabilmente qualche riflessione sullo stato dell'arte. In particolare sono incuriosito dal giornalismo e dai giornalisti che nella loro veste di cittadini elettori si dichiarano liberal-democratici o addirittura di sinistra, ma che appunto in quanto giornalisti debbono mantenere un distacco professionale e un'indipendenza che costituiscono l'essenza deontologica di quello che io definisco un mestiere crudele.

I giornali e i giornalisti conservatori non sono molti nel nostro Paese. L'esempio più alto resta quello di Luigi Albertini, ma non ebbe eredi. Il fascismo confiscò per vent'anni la libertà di stampa. La sua caduta inaugurò una stagione di giornalismo democratico durante il quale i giornalisti conservatori intonarono la loro voce sulla lunghezza d'onda della Democrazia cristiana e quelli liberal-democratici sulla sintonia laica. (Ovviamente lascio fuori dal quadro giornali e giornalisti di partito).

Così sono andate le cose per molti anni nella stampa quotidiana e in quella settimanale, con una sola eccezione rilevante che è stata quella di Indro Montanelli. Il quale non è iscrivibile in nessuna delle due tendenze. Non era né un liberal-conservatore né un liberal-democratico. Era un anarco-individualista di scuola prezzoliniana e longanesiana. Talento ne aveva da vendere. Per trent'anni fu il portavoce del senso comune degli italiani; contribuì a crearlo quel senso comune, che in apparenza si identifica con il buon senso ma in realtà ne è molto lontano. Semplifica la realtà: operazione estremamente pericolosa.

Il talento dei semplificatori consiste nel creare un senso comune che rafforzi interessi già forti e indebolisca interessi già deboli. L'obiettivo è quello di guadagnare il consenso. Naturalmente nulla vieterebbe che i 'media' cerchino di guadagnare consenso in favore degli interessi deboli, ma ciò avviene molto di rado in paesi come il nostro.

L'attuale stato dell'arte offre delle varianti di notevole interesse al quadro fin qui delineato. Esse derivano in gran parte dal bipolarismo politico e sociale che nell'ultimo ventennio ha sostituito il bipolarismo ideologico che aveva caratterizzato la prima Repubblica. Caduta l'ideologia comunista con l'implosione dell'Urss, caduta anche l'unità politica dei cattolici, il bipolarismo attuale corre lungo una linea di confine che contrappone due diverse visioni di modernizzazione della società: una visione 'darwinistica' della destra contrapposta a una concezione solidaristica della sinistra.

In questa situazione il giornalismo indipendente stenta a svolgere il proprio ruolo e non sempre riesce a farsi voce di un senso comune che coincida con il buonsenso.

Accade così che la cosiddetta indipendenza di giudizio si eserciti soprattutto contro la visione solidale della democrazia e contro le forze politiche e sociali che ne sono portatrici. Gli attacchi, le critiche, perfino la satira prendono di mira soprattutto la sinistra politica e sindacale sia quando essa è stata al governo sia quando è all'opposizione.

Le critiche alla destra vengono considerate ovvie e quindi sottaciute; quelle alla sinistra sono considerate un elemento indispensabile a garantire l'indipendenza del giornalista e perciò preziose a preservarne l'autorevolezza.

L'aspetto paradossale di questa situazione è costituito dal fatto che i giornalisti indipendenti accentuano come mai prima era accaduto la loro adesione agli ideali di sinistra recuperando lo 'status' di indipendenti con le loro critiche alle forze schierate nel loro stesso campo. Le critiche a sinistra provenienti da giornalisti che si proclamano di sinistra garantiscono infatti una sorta di bollino blu, di marchio di garanzia professionale. Spesso la ricerca di questo bollino blu è inconsapevole, altre volte è lucidamente voluta, ma il risultato è il medesimo: le forze di sinistra hanno contro di loro l'intero schieramento mediatico, sia per i loro errori sia anche per le loro virtù.

Un tempo il giornalismo indipendente si comportava come un contropotere di controllo del potere; oggi le cose sono cambiate e questo contropotere si è fortemente indebolito. È più semplice sparare il pallone nella propria rete che nella rete altrui. Con buone intenzioni naturalmente.


(07 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Aspettando Godot a Bretton Woods
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2008, 11:41:41 am
IL COMMENTO

Aspettando Godot a Bretton Woods

di EUGENIO SCALFARI



Il 15 novembre, sabato prossimo, si riunirà a Washington il grande vertice d'Occidente per decidere quali misure prendere per impedire che la grave recessione si trasformi in una grande depressione e per gettare le basi d'una nuova Bretton Woods, cioè del nuovo assetto dell'economia mondiale. Sarkozy, nella riunione dell'altro giorno a Parigi dei ventisette paesi dell'Unione europea, ha detto che nell'incontro di Washington dovranno esser prese "decisioni forti".

Previsione alquanto azzardata, almeno per ciò che riguarda la nuova Bretton Woods. Ed anche per i provvedimenti che servono a bloccare o almeno a contenere la crisi di "Main Street", come gli americani chiamano l'economia reale a differenza di "Wall Street" che sta a designare l'economia finanziaria.
Se il vertice di Washington non producesse decisioni forti i mercati sarebbero delusi e questo sarebbe un grosso guaio.

Il presidente francese parlerà il 15 novembre a Washington in nome dell'Unione europea da lui presieduta fino al prossimo 31 dicembre. Il suo interlocutore sarà George W. Bush, presidente in scadenza degli Stati Uniti. Bush ha ancora 72 giorni di permanenza in carica, il suo successore è stato eletto da cinque giorni e costituzionalmente entrerà in carica il 20 gennaio. Certamente darà suggerimenti a Bush e certamente quei suggerimenti saranno ascoltati per quanto riguarda le misure di massima urgenza. I programmi a lungo termine dovranno invece aspettare l'insediamento di Obama alla Casa Bianca. Perciò, almeno per buttar giù le fondamenta della nuova Bretton Woods, dal "meeting" di Washington non arriveranno che generici auspici e nulla di più.

Del resto le proposte europee formulate dal vertice parigino consistono nell'attribuire al Fondo monetario internazionale poteri di controllo e di pronto intervento sui mercati finanziari internazionali e nella creazione di alcune Autorità di regolazione mondiale che veglino sulla trasparenza dei mercati e sulla natura dei titoli emessi. Sarebbe questa la Bretton Woods numero due? E la moneta internazionale resterebbe il dollaro? Moneta di pagamento e di riserva? Con facoltà per l'America di vivere sulle spalle del resto del mondo?

L'Europa è stata a Parigi molto critica sull'attuale "dollar standard" ma non ha formulato alcuna proposta alternativa. E poi una nuova Bretton Woods che non sia una presa in giro non può esser nemmeno pensata senza la partecipazione delle potenze emergenti e di quelle che stanno invece inabissandosi nella povertà e nella disperazione. Vi pare che avremo "risposte forti" in materia dal vertice di sabato 15 a Washington? Dove non ci sarà neppure Barack Obama?

* * *

Torniamo alle misure di emergenza. Quelle sì, bisognerebbe prenderle subito. Obama ha già indicato alcuni punti di riferimento che però riguardano soprattutto l'economia americana. Anzitutto i riferimenti temporali: gli interventi necessari dovrebbero esser presi prima di Natale, cioè subito, per poter diventare esecutivi non oltre la metà di dicembre.

Sul merito il nuovo presidente eletto ha dato per ora le seguenti indicazioni: dare liquidità alle tre "majors" dell'automobile, General Motors, Ford, Chrysler. Ci vogliono subito una quarantina di miliardi di dollari perché almeno due delle tre "majors" di Detroit rischiano l'insolvenza entro i prossimi trenta giorni.
Obama ha poi chiesto sostegno creditizio per le imprese piccole e medie, ma non è andato oltre questa generica enunciazione. Si sa però che l'ordine di grandezza d'un siffatto intervento in prima battuta si aggirerebbe sui 150 miliardi.

Ha suggerito infine un sostegno ai redditi delle famiglie fino ai 200mila dollari annui attraverso meccanismi di detassazione. E invece maggiori tasse sui redditi superiori ai 250mila dollari. Su questo capitolo le cifre sono puramente induttive ma è logico pensare ad altri 100 miliardi. Il totale raggiungerebbe dunque più o meno quei 250 miliardi che Bush e il suo ministro del Tesoro avevano stanziato come prima tranche per sostenere le banche in pericolo di "default" e rastrellare i titoli spazzatura.

Per ora siamo a questo punto. Può darsi che Bush ripeta ai suoi interlocutori del 15 novembre questo programma del suo successore. Si tratta di misure strettamente limitate all'economia Usa, ma è pur vero che è lì il nucleo del problema e la fonte primaria della recessione in atto. Misure capaci di ripristinare la fiducia delle imprese e dei consumatori rilanciando la domanda e quindi alleggerendo le scorte e mettendo in moto impianti e cantieri. Se questo avvenisse, sarebbe certamente un contributo importante anche per l'economia europea e internazionale.

Tutto dipenderà dalla determinazione con cui Bush parlerà ai suoi interlocutori e dalla sponsorizzazione che riceverà dal suo successore. Un piano di rilancio dell'ordine di 250 miliardi (se questa fosse la cifra indicata) è certamente imponente in senso assoluto ma modesto di fronte all'immensità del disastro che il Fmi ha ripetutamente quantificato tra i 1.500 e i 2.000 miliardi di dollari. I mercati riprenderanno fiducia di fronte ad un pacchetto che rappresenta più o meno un decimo del disastro totale?

* * *

Naturalmente per produrre una svolta positiva alla crisi in corso non bisogna guardare soltanto all'America. Sul piatto della bilancia vanno messe anche l'Europa e la Cina, la Russia, l'India. Lasciamo da parte questi ultimi tre paesi e soprattutto la Russia che naviga in acque assai brutte e fa anche il cipiglio all'Occidente. E vediamo qual è in Europa lo stato dell'arte.

Lo stato dell'arte, cioè della politica economica europea, è pessimo. Non solo dal giugno sorso, quando ci furono i primi segnali della crisi americana dei "subprime" ma da molto tempo prima. Pessima la politica economica della Commissione di Bruxelles per la parte di sua competenza, pessima la politica monetaria della Bce e pessima quella di gran parte dei governi nazionali membri dell'Ue. Politica restrittiva dei tassi, dei parametri che presiedono al patto di stabilità, della vigilanza sul sistema bancario.

Ho letto ieri su "24 Ore" un articolo di Fabrizio Galimberti dal titolo "Ma si può dir male della Bce?". Finalmente, ma ve ne accorgete soltanto adesso? Noi ne diciamo male da un anno e mezzo ma non siamo economisti accademici, siamo soltanto giornalisti dei quali si dice male tutti i giorni. Non costa nulla dir male dei giornalisti anche se talvolta vedono più lontano dei banchieri centrali e della folta schiera dei loro sostenitori.

La Bce ha mantenuto il tasso di sconto al 4,25 per cento per almeno due anni fino ad un mese fa, quando già infuriava la tempesta recessiva. Due punti sopra al tasso Usa. Poi, un mese fa, ha cominciato a ridurlo a passettini, con il contagocce seguendo con ritardo il crollo delle Borse e lo stallo delle imprese. Non hanno capito assolutamente niente della natura e delle dimensioni di quanto stava accadendo nell'economia americana. Della devastazione dei titoli spazzatura. Dell'inquinamento dei "derivati". E soprattutto della politica del debito che era diventata la base di una piramide rovesciata, di un "boom" cartaceo che si reggeva sulla punta anziché sulla base. Si incoraggiava il debito facile e su di esso si creavano profitti enormi ma enormemente precari.

Nel giugno scorso arrivò il primo scossone, ma le istituzioni in Europa hanno continuato come niente fosse. I "fondamentali" - così dicevano - sono solidi. Fino a quando ci abbiamo sbattuto il muso contro.
Si dice: però fin dai primi segnali di crisi non hanno fatto mai mancare liquidità al sistema. Questo è vero: sia la Fed sia la Bce hanno inondato il sistema di liquidità. Con prestiti reiterati a breve e brevissimo termine.

Nell'ultima fase, una ventina di giorni fa, anche i governi si sono finalmente svegliati intervenendo al salvataggio di alcune banche in "default" (in Gran Bretagna, in Germania, in Francia, in Olanda, in Belgio) e fornendo in tutti i paesi dell'Ue una garanzia pubblica sui depositi, con il motto "nessuna banca fallirà".

Si pensava che bastasse, ma ovviamente non è bastato. La garanzia dei depositi è un puro e semplice "spot" mediatico. Può servire a ridare fiducia ma nessun governo del mondo sarebbe in grado di garantire i depositi di fronte ad un "default" bancario. Una grande banca amministra depositi per decine di miliardi. Lo "spot" serve a rassicurare i depositanti e non costa nulla, ma se i depositanti dovessero fare ressa agli sportelli anche di una sola grande banca, verrebbe giù tutto come un castello di carta.

Per fortuna non siamo a questo. Allora tutto va bene? Nient'affatto. Sapete dove è finita la liquidità che la Bce ha fornito alle banche? E' finita nelle casse della Bce, questo è il paradosso. Era stata data nella speranza che il credito interbancario, cioè quello che le banche si prestano reciprocamente, riprendesse a scorrere fluentemente. Invece le banche hanno ridepositato la liquidità presso la Banca centrale. Ci lucrano un differenziale ma intanto tagliano i crediti ai clienti. Le cifre sono queste: il 10 settembre i depositi delle banche alla Bce di Francoforte ammontavano a 48 milioni di euro; al 31 ottobre ammontano a 280 milioni. E' evidente che il meccanismo si è inceppato ma nessuno è ancora corso ai ripari.

Un altro problema non risolto e difficilmente risolvibile riguarda i Fondi d'investimento. I clienti scappano chiedendo la restituzione dei risparmi investiti. Nei primi dieci mesi di quest'anno le richieste di riscatto sono state di 55 miliardi di euro. Per farvi fronte i Fondi scaricano sulla Borsa i loro portafogli e i listini vanno giù.

* * *

Adesso è entrata in crisi l'economia reale: aumenta la disoccupazione, diminuisce il reddito reale delle famiglie, tutto il lavoro precario è sotto schiaffo. Il lavoro precario non usufruisce nemmeno di ammortizzatori sociali, non è prevista finora la Cassa integrazione. Attenzione: i precari sono ormai alcuni milioni di persone. Finora il problema era quello di favorirne il passaggio a contratti stabilizzati, ma ora il problema è un altro: evitare che le imprese li buttino sulla strada e predisporre qualche tutela per la loro disoccupazione. Gli impiegati statali si trovano anch'essi in questa situazione perché la pubblica amministrazione è piena di precari. Fannulloni? Alcuni probabilmente sì ma tutti sicuramente no. Ma è facile farli fuori alla scadenza dei contratti.

Il governo ha stanziato un fondo di 650 milioni per sostenere le imprese. Ho riletto più volte questa cifra, credevo si trattasse di un refuso, che mancasse uno zero. Invece no, si tratta di milioni e non di miliardi. Altri 600 milioni dovrebbero servire per rafforzare la Cassa integrazione. Ma se arriva l'ondata dei precari anche questa cifra diventerà ridicola. "Non ci sono soldi" dice Tremonti ed è vero, non ce ne sono. Avete buttato dalla finestra tre miliardi e mezzo annui per abolire l'Ici sulle case degli abbienti. Malgrado i tagli alle spese il fabbisogno del Tesoro è in costante aumento e di conseguenza aumenta il debito pubblico e l'onere degli interessi. Vuol dire che la lotta all'evasione è stata abbandonata.

Ora si sta studiando un provvedimento molto opportuno: prelevare l'Iva al momento dell'incasso del credito e non al momento della emissione della fattura. Un respiro per le imprese, ma ovviamente una diminuzione di entrate da parte dell'erario. Tuttavia salari e pensioni debbono essere aumentati altrimenti il consumo, gli investimenti, la disoccupazione andranno in crisi ancora di più. Ci vuole un piano di rilancio, bisogna immaginare una copertura e utilizzare i margini di flessibilità che l'Europa finalmente concede. Il governo pensa alla Cassa depositi e prestiti e ai 100 miliardi di risparmio postale che essa amministra. Per fare che cosa? Per metterli dove?

Sono depositi di povera gente, libretti postali di vecchi, i risparmi di una vita. Che cosa volete farne? Lo deciderete in nove minuti per decreto e con la fiducia? Cento miliardi di povera gente in operazioni di rischio? Ma siete matti?

Post Scriptum. Il clamore sulla "abbronzatura" del presidente eletto degli Stati Uniti ha indignato il premier italiano. Era una carineria - ha detto - e la stampa imbecille di tutto il mondo non l'ha capita.
Io penso che Berlusconi abbia ragione, il clamore è stato eccessivo. Dovrebbe esser chiaro a tutti che l'Italia ha liberamente scelto di affidare il governo nazionale ad un comico. E' un comico un po' invecchiato ma pur sempre di prim'ordine. Chi se ne stupisce e se ne indigna è male informato. Si tratta di un attore della premiata ditta del Bagaglino. Barack Obama che è intelligente l'ha capito e gli ha telefonato. Forse qualche risata se la sarà fatta anche lui.

(9 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Beni culturali sempre più a rischio
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2008, 10:03:08 am
POLITICA

La mancata tutela del territorio, dell'ambiente e del paesaggio va di pari passo con la scarsa attenzione all'arte e all'archeologia

Beni culturali sempre più a rischio

Come porre rimedio ai disastri

Investire nella cultura significa anche rafforzare il turismo con tutto l'indotto


di EUGENIO SCALFARI


Può sembrare anacronistico occuparsi di tutela dei beni culturali e del paesaggio mentre infuria una tempesta economica senza precedenti che diffonde incertezza, paura e sfiducia e chiede risposte urgenti ed efficaci. Eppure non si tratta d'un tema peregrino, tantomeno d'un pretesto per parlar d'altro evadendo quelli che più ci riguardano. Si tratta invece d'un tema estremamente pertinente. Viviamo giorni e mesi di decisioni radicali che da un lato tendono a mettere in atto misure di tamponamento che garantiscano nell'immediato i depositi bancari, il patrimonio di banche e di imprese, il sostegno della domanda e dei redditi più deboli.

Ma dall'altro configurino nuovi assetti e nuovi equilibri nei meccanismi di produzione e di distribuzione della ricchezza. Configurino anche una società diversa da quella attuale, una maggiore trasparenza e più incisivi controlli per bilanciare il necessario rafforzarsi dei poteri rispetto ai diritti.

In questo profondo rimescolio esiste il pericolo che la cultura, cui si continua a tributare omaggio di parole, costituisca nei fatti l'anello debole e addirittura la vittima sacrificale. Cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio, sono infatti considerati come altrettanti elementi opzionali dei quali si può tranquillamente fare a meno. I tagli di spesa più cocenti sono avvenuti proprio in questi settori non soltanto per eliminare sprechi ma per recuperare risorse dirottandole verso altre destinazioni. Non si è considerato che non si tratta di spese ma di investimenti che, proprio per la loro natura, non possono essere interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi.

La totalità di questi beni, la loro salvaguardia e la loro valorizzazione, hanno tra l'altro effetti diretti sull'economia del Paese poiché sono connessi all'industria del turismo che rappresenta una delle maggiori risorse del nostro territorio. Il turismo, dal punto di vista della bilancia commerciale, equivale all'esportazione di beni e servizi, procura entrate di valuta nelle casse dell'erario, con una differenza: non escono merci e servizi dal territorio nazionale ma entrano persone e con esse ricchezza e sostegno della domanda interna. Una flessione del turismo comporta una flessione immediata della domanda e della ricchezza prodotta.

Fino a poco tempo fa l'alto livello dell'euro in termini di dollari scoraggiava il turismo internazionale verso l'Europa, ma è proprio qui che entrava in gioco la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici di ciascuno dei Paesi europei con spiccata vocazione turistica. Abbiamo assistito negli anni di più elevato tasso di cambio dell'euro al decadimento del turismo diretto verso l'Italia a vantaggio di quello canalizzato verso la Spagna, la Francia, la Grecia: stessa moneta, quindi stesse difficoltà per i portatori di un dollaro debole rispetto all'euro, ma diversa attrattiva dovuta alla migliore valorizzazione del paesaggio, del territorio, dei beni culturali che lo animano.

Ora il cambio euro-dollaro è tornato a livelli meno penalizzanti per il turismo europeo, anche se la crisi economica internazionale ha provocato una diminuzione del movimento turistico complessivo. Proprio a causa di questa flessione congiunturale la concorrenza è diventata ancor più severa ed è quindi tanto più necessario investire sulla cultura in tutte le sue articolazioni.

Ma questo non avviene, anzi sta avvenendo il contrario. Ho già accennato al problema d'una mentalità che considera i consumi culturale come un fatto opzionale. Si tratta d'una mentalità economicamente distorta che va denunciata e combattuta

* * *

La condizione in cui versano ormai da anni le nostre Sovrintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici e culturali è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. Il ministro competente promette di colmare almeno i vuoti più drammatici e cerca soldi che compensino i pesanti tagli effettuati dalla Finanziaria triennale varata fin dallo scorso luglio. Li cerca ma finora non li ha trovati e dubito molto che possa riuscirvi nel prossimo futuro.

Il guaio è che, risorse finanziarie a parte, il ministro tergiversa anche a compiere alcuni adempimenti che non comportano spese ma che sarebbero necessari per chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio da almeno trent'anni in qua, disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la visibilità e la pubblica fruizione.

Questi abusi sono il frutto di inefficienza delle istituzioni di controllo, di scarsissima sensibilità nella pubblica opinione, dell'indifferenza dei "media" e, soprattutto, di una normativa che ha disperso i poteri di controllo tra tre diversi ministeri (Beni culturali, Ambiente, Lavori pubblici) e tre diversi livelli istituzionali: Stato, Regioni, Comuni.

Aggiungete a questa dispersione dei poteri di controllo e di programmazione la scarsità delle risorse e capirete le dimensioni di un disastro che ha mostrificato l'ambiente e si prepara a peggiorarlo ulteriormente con l'avvento di un federalismo che disperderà fino al limite estremo competenze e saperi.

* * *

Il più attento conoscitore del disastro culturale e ambientale italiano è Salvatore Settis, che lotta da decenni per la tutela e la valorizzazione dell'immenso e negletto patrimonio che il Paese possiede e trascuratamente dilapida.

E' sua la definizione dell'unicità concettuale e pratica di questa nostra ricchezza, della sua manutenzione, della sua fruizione pubblica, di ciò che potrebbe e dovrebbe essere e invece non è. La definizione è questa: Esiste un "territorio" senza paesaggio e senza ambiente? Esiste un "ambiente" senza territorio e senza paesaggio? Esiste un "paesaggio" senza territorio e senza ambiente?".

Da questo triplice interrogativo, retorico perché presuppone una risposta negativa alle tre domande, nasce l'esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo tra i vari enti istituzionali che sia depositario d'una visione generale, che viene inevitabilmente persa di vista man mano che si discende nei livelli locali, la Regione e ancora di più il Comune.

Purtroppo la situazione attuale ha già attribuito gran parte delle competenze alle Regioni consentendo ad esse di delegare ai Comuni una parte rilevante delle competenze e dei poteri propri. Le Sovrintendenze sono state in larga misura svuotate dei loro poteri di controllo e totalmente dei loro poteri di valorizzazione. La pianificazione urbanistica da tempo ha preso il sopravvento su quella paesaggistica e ambientale; a loro volta gli interessi propriamente edilizi hanno stravolto la pianificazione urbanistica; in tali condizioni anche la collusione, la corruzione e il lassismo sono stati oggettivamente incoraggiati.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il disastro ambientale, paesaggistico, urbanistico che ha deturpato il paesaggio, l'ambiente e il territorio.

Il federalismo, in mancanza d'una normativa chiara e netta che si richiami all'articolo 9 della Costituzione ("La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione") e alla giurisprudenza costituzionale che ne è seguita, porterà inevitabilmente questo triplice scempio se l'opinione pubblica non ne farà un obiettivo prioritario del proprio impegno civile.

(11 novembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'assalto al futuro della nuova generazione
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2008, 05:43:29 pm
ECONOMIA    IL COMMENTO

L'assalto al futuro della nuova generazione

di EUGENIO SCALFARI



EPIFANI ha deciso di isolarsi. E' un massimalista. Si aggrappa al sindacalese del secolo scorso e non capisce che siamo in un'economia globalizzata.
Ha scelto il movimentismo abbandonando il riformismo. Insegue la Fiom. Si crede il centro del mondo. E' uscito di testa ma speriamo che si ravveda. (Quest'ultimo giudizio è di Bonanni, l'uomo forte della Cisl). La sua politica favorisce Berlusconi. La Cgil non conta più niente. Il Pd prenderà le distanze. Lama si rivolterebbe nella tomba. Perfino Di Vittorio...

Venerdì sera l'ho chiamato al telefono, tanta unanimità contro di lui mi aveva incuriosito, del resto non è la prima volta per lui e non è la prima volta per chi guida il maggior sindacato italiano. Vi ricorderete Cofferati: per due anni fu la bestia nera dell'Italia benpensante. Anche lui si era isolato perché Cisl e Uil avevano firmato con Berlusconi il "patto Italia" che tuttavia restò lettera morta. Vi ricorderete Bruno Trentin, del quale tutti riconoscevano l'onestà intellettuale e tutti biasimavano la politica sindacale. E vi ricorderete Lama.

Luciano Lama è stato ricoperto di elogi (dall'Italia benpensante) quando lasciò la carica di segretario della Cgil e soprattutto quando morì. E non parliamo di Di Vittorio. "Post mortem" un generale rimpianto; da vivo invece l'avrebbero volentieri messo in galera per continua violazione dei diritti di proprietà, interruzione di pubblici servizi, resistenza alla forza pubblica.

Diffido molto della cosiddetta "Italia benpensante". Spesso pensa male, il più delle volte non pensa affatto, ripete gli "spot" dai quali viene ogni giorno bombardata e imbottita. Scopre le persone di qualità quando sono morte. Così fu per Ezio Vanoni, per Ugo La Malfa, per Aldo Moro e per Enrico Berlinguer. Da vivi preferisce i truffaldini che promettono miracoli e felicità.

Dunque Epifani. Lui non vuole isolarsi da nessuno e comunque non si sente affatto isolato. L'altro giorno fiancheggiava la manifestazione studentesca nelle strade di Roma, centomila ragazzi che chiedono una riforma vera e seria della scuola e dell'università e non i pannicelli caldi del grembiulino, del maestro unico e dei tagli.

Lo stesso giorno la Cgil insieme agli altri sindacati confederali, ha dato il disco verde alle assunzioni individuali che la Cai di Colaninno comincerà domani. Nei prossimi giorni chiederà al governo di convocare le parti sociali a Palazzo Chigi per discutere della recessione e delle urgenti misure che essa richiede. Poi bisognerà proseguire la discussione con la Confindustria sui contratti di lavoro e sulla loro eventuale riforma.

"Sembro uno che si vuole isolare? Quando il capo di un sindacato va a cena nell'abitazione privata del capo del governo è lui a rompere l'unità ed è lui che si isola".
Quella cena a Palazzo Grazioli l'ha fatto molto arrabbiare. "Non è la prima volta, ormai ci ho fatto l'abitudine, ma il fatto nuovo è stato la presenza di Emma Marcegaglia. Cisl, Uil e Confindustria a cena da Berlusconi per parlare di contratti con la voluta assenza della maggiore organizzazione sindacale. Qual è il senso? Che cosa significa?".

E quindi sciopero generale da soli il 12 dicembre. "No, quello era già previsto. Non sono così imbecille da indire lo sciopero generale per un mancato invito a cena. La motivazione è molto più seria, i lavoratori lo sanno e la loro adesione lo dimostrerà".

* * *

Uno sciopero generale è sempre politico per definizione. Se ci fosse un obiettivo specifico che interessa una specifica categoria professionale non si farebbe appello alla totalità dei lavoratori. Quando si proclama lo sciopero generale vuol dire che si vogliono affermare e conquistare diritti che riguardano tutti i lavoratori e addirittura tutti i cittadini. Riguardano l'interesse generale del paese, naturalmente visto dall'angolazione dei lavoratori. Per questo dico che si tratta d'uno sciopero politico per definizione.

Bisogna dunque capire quali sono i diritti da affermare e conquistare in questa fase dello scontro sociale che pure richiederebbe la collaborazione di tutte le forze per far fronte ad una tempesta economica che ha rari precedenti nella storia degli ultimi cent'anni.
Il diritto è quello che si legge nell'articolo uno della Costituzione: "La Repubblica italiana è fondata sul lavoro".

Sembrerà una frase rituale, mille volte invocata e mille volte elusa, che rappresenta tuttavia l'elemento portante della nostra architettura costituzionale. Tutti quelli che seguono sono diritti ai quali la Costituzione conferisce dignità e tutela giuridica, ma nessuno dei quali è definito come fondamento del patto nazionale. Il lavoro non è soltanto un diritto ma è anzitutto un valore. Così l'hanno voluto i nostri "padri costituenti": il lavoro degli operai e quello dei contadini, dei professionisti e degli imprenditori, dei docenti e dei discenti.

Ma perché proprio oggi uno sciopero per lavoro? E' vero, la disoccupazione sta aumentando, la recessione distrugge ogni giorno posti di lavoro, le imprese riducono il personale dipendente, molte chiudono, anche il lavoro autonomo è in crisi. Ma non sarà certo uno sciopero a far invertire la tendenza. Allora perché lo sciopero generale? Bisogna esaminare con molta attenzione questa questione per capire ciò che sta accadendo.

I redditi reali dei lavoratori negli ultimi due anni e in particolare negli ultimi sei mesi sono aumentati meno dell'inflazione ufficiale e molto meno dell'inflazione reale. Ciò significa che il potere d'acquisto dei redditi inferiori ai trentamila euro annui è fortemente diminuito.

Poiché i redditi nominali sono tuttavia aumentati, di altrettanto è aumentato il prelievo fiscale. Il lavoro dipendente non può evadere e i pensionati neppure, per conseguenza il potere d'acquisto è ulteriormente diminuito.

Il lavoro precario, che negli anni scorsi è stato incoraggiato in molti modi e presentato come lo sbocco più idoneo per fronteggiare i fenomeni dell'economia globale, sarà il primo ad esser colpito sia nelle aziende private che nelle amministrazioni pubbliche. Nei prossimi mesi, ma già fin d'ora, decine di migliaia di lavoratori precari saranno licenziati senza disporre di alcuna tutela sociale.

L'intera gamma degli ammortizzatori sociali è inconsistente. La cassa integrazione non è estesa a tutti, non esiste un salario sociale minimo, il sussidio di disoccupazione è insufficiente e di breve durata, i corsi di formazione sono tuttora nella fase preliminare, privi di sostegno finanziario adeguato.

Nel frattempo la trattativa sul nuovo schema di contratto del lavoro è stata scavalcata dalla crisi recessiva in corso. Quando il negoziato tra le parti sociali ebbe inizio la crisi non era ancora scoppiata e tutti credevano di vivere nel migliore dei mondi possibili. Di qui la lunga discussione tra le parti sociali sui contratti di primo e secondo livello, quello nazionale e quelli aziendali agganciati alla produttività.

La Cgil, tra i tre sindacati confederali, era la meno entusiasta dell'idea di spostare l'asse contrattuale dalla sede nazionale a quella locale; tuttavia accettò l'aggancio alla produttività di settore e di azienda che avrebbe dato maggiore flessibilità al mercato del lavoro.

Nelle condizioni in cui ora ci troviamo, tuttavia, questa discussione è completamente fuori dalla realtà. Con la caduta della domanda e degli investimenti, con la restrizione del credito che sta soffocando il sistema delle imprese e in particolare delle più piccole, con l'aumento della disoccupazione, gli incrementi di produttività sono una giaculatoria puramente verbale, un'icona culturalmente valida ma concretamente inesistente.

Le cose reali, le rivendicazioni da mettere in campo, riguardano il sostegno e i redditi, l'espansione del credito, un sistema di ammortizzatori sociali efficace. In sostanza il rilancio della domanda, dei consumi e della produzione.

Tremonti sa benissimo che di questo si tratta ma ancora ieri ha ribadito che questa politica non si può fare aumentando il deficit e il debito. Ha perfettamente ragione. Si fa infatti riprendendo vigorosamente la lotta all'evasione che è stata di fatto abbandonata, tassando le rendite e i redditi più elevati.

Questa è la ricetta che Barack Obama si appresta a mettere in pratica non appena sarà insediato alla Casa Bianca. Del resto non c'è altra via: coi tempi che corrono la redistribuzione fiscale è lo strumento principale per rilanciare la crescita senza aumentare un debito già enorme.

I miliardi della Cassa depositi e prestiti sui quali il ministro dell'Economia fa tanto affidamento possono essere utilizzati per finanziare le infrastrutture (promesse nel 2001 con il famoso "contratto con gli italiani" stipulato in televisione da Berlusconi e completamente inevaso per tutta la legislatura) ma non possono certo essere usati per sostenere il reddito.

* * *

Una politica così configurata, che è la sola possibile per uscire dalla tempesta della crisi, dovrebbe vedere unite tutte le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori. Accade viceversa che proprio in questo delicatissimo momento di svolta esse si dividano e la loro unità d'azione si spacchi clamorosamente. Questi fatti, oltreché incomprensibili, rendono assai difficile l'adozione della sola politica economica di crescita disponibile per un paese con un debito schiacciante.

L'opposizione reclama da tempo questa politica ma i rapporti di forza parlamentari sono quelli che sono. Diverso è il peso delle organizzazioni sindacali anche se non ha più la forza di un tempo. Il momento di gettarlo sul piatto della bilancia è questo. Il tentativo di convincere Berlusconi, Tremonti, Marcegaglia a tassare i ricchissimi patrimoni e le rendite per rilanciare il motore della crescita è pura illusione. Non è quella la loro strategia e non è quella l'alleanza sociale che li sostiene. Siamo dunque arrivati, dopo sei mesi di legislatura, al punto della svolta.

* * *

Gran parte degli osservatori, in Europa come in America, sostengono che il vento della crisi mondiale ha rimesso in sella il potere politico rispetto al mercato, i governi rispetto al "business", l'interventismo pubblico rispetto al liberismo.
C'è una buona parte di verità in questa diagnosi, ma non tutta la verità. Certamente il liberismo e il pensiero unico che ad esso si ispira sono in netta ritirata. Tuttavia è un fatto che per uscire dalla tempesta serve soprattutto un atto di fiducia. Senza un ritorno della fiducia l'economia mondiale precipiterà da una recessione temporanea in una lunga e devastante depressione.

Chi sono i destinatari della fiducia? I governi e le istituzioni nazionali e internazionali. E la fiducia da dove viene? Dalla società. Dagli individui, dalle famiglie, dai ceti, dai lavoratori-consumatori-contribuenti-risparmiatori che la compongono.
Queste enormi masse di persone sono prevalentemente animate da preoccupazioni economiche, però non soltanto da esse. Su un fondale di bisogni inappagati e di paure del futuro non dissipate si stagliano anche convinzioni profonde di carattere morale, di giustizia, di riconoscimento.
La politica è tornata in sella là dove la società si riconosce in essa. Bush era un'anatra zoppa già molto prima della campagna elettorale di Obama. Del resto Obama è sceso in guerra contro l'establishment del suo partito e McCain ha fatto altrettanto. Dopo le elezioni del 4 novembre la società americana ha determinato una nuova politica e nuove rappresentanze. La società ha espugnato il castello politico e vi ha issato una nuova bandiera.

In Italia il castello della politica berlusconiana era fino a un mese fa fortissimo. Ora è meno forte perché una parte della società si sente disconosciuta e ferita. Non più rappresentata. Questo è il fatto nuovo: una parte crescente della società è ferita per mancanza di futuro. I giovani studenti, i giovani precari, le donne, i lavoratori dipendenti, le imprese del Nordest, il Mezzogiorno non mafioso, le imprese schiacciate dal racket, i moderati che sognano il buon governo, i cattolici cristiani che non si riconoscono nella gerarchia papalina: queste minoranze si stanno cercando tra loro nel momento stesso in cui si distaccano dal castello politico berlusconiano.

Siamo appena ai primi segnali, ma sotto la spinta della crisi i mutamenti e gli smottamenti possono procedere con estrema rapidità. In una direzione o nell'altra. Ricementando il castello politico o smantellandolo.
Siamo ad una svolta di alto rischio dove la partita richiede lucidità e coraggio. Soprattutto coraggio. Bisogna dimenticare le proprie botteghe se si vuole l'assalto al futuro impedendo che ci venga confiscato.

(16 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei ministri tolleranza zero
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:53:54 am
Eugenio Scalfari.

Quei ministri tolleranza zero


Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, pur in modo difforme, mostrano di non volere dare spazio a una opinione pubblica che riscopre il pluralismo e la tolleranza  Renato Brunetta e Mariastella Gelmini sono i due ministri (rispettivamente della Funzione pubblica e dell'Istruzione) più osteggiati dall'opposizione. Lo scrive Angelo Panebianco sul 'Corriere della sera' di sabato scorso e se ne domanda il perché. La sua risposta è questa: Brunetta e la Gelmini sono i ministri che più hanno colpito gli interessi conservatori e corporativi di due categorie, quella dei docenti e quella dei dipendenti della pubblica amministrazione, due pilastri di sostegno della sinistra in genere e del Partito democratico in particolare ed ecco spiegata la ragione di tanta acredine dell'opposizione contro l'operoso tandem Gelmini-Brunetta. La conclusione di Panebianco è conforme allo stile di tutti i commentatori di centrodestra che auspicano da tempo un'opposizione al guinzaglio: Veltroni aveva fatto sperare in un'opposizione costruttiva (dicono) che appoggiasse le riforme, ma il Veltroni attuale è cambiato, insegue Di Pietro, è diventato massimalista e conservatore.

Se continuerà così finirà con lo scomparire dalla scena politica. Non entro nel merito di questi vaticini. Mi interessa invece analizzare la tesi di Panebianco nella quale vedo annidati alcuni gravi errori di valutazione e alcune altrettante gravi omissioni, al punto da farmi supporre che una mente lucida come la sua sia stata in questo caso soverchiata dalla passionalità. Può accadere e non escludo affatto che accada talvolta anche a me. Quando me ne accorgo cerco di correggermi e spero che anche Panebianco faccia lo stesso. Ciò detto veniamo al merito e cominciamo da Brunetta. Il ministro della Funzione pubblica non ha preparato finora alcun progetto di riforma dell'amministrazione, un tema che pesa sulla struttura dello Stato da almeno 150 anni, dall'epoca del primo ministero Depretis e da allora non ha fatto che aggravarsi.

Ora poi siamo alla vigilia d'un riassetto federalista, sicché una riforma non potrebbe avvenire se non seguendo il nuovo schema federale del quale ancora non si sa assolutamente nulla. Brunetta tuttavia non poteva starsene con le mani in mano né tantomeno avrebbe accettato di lavorare alle dipendenze di Calderoli. Il suo problema personale è quello di farsi vedere e lo fa alternando bizzarrie e volgarità. In questa sua smania di apparire, magistralmente imitata dal comico Crozza, il ministro della Funzione pubblica moltiplica le sue lettere ai giornali (ne saranno apparse almeno una quindicina in questi ultimi tempi). Per rilanciare la sua lotta contro i fannulloni si comporta come un cacciatore che andando in cerca di allodole si sia armato di cannone. Le conseguenze sono di configurare tutti gli impiegati statali come scansafatiche incompetenti in tutto fuorché nella furbizia di prendere lo stipendio senza lavorare.

Non credo che Brunetta pensi questo degli impiegati di Stato ma l'esuberanza della sua natura fa sì che sia quello il risultato del suo modo di parlare e di operare. La conseguenza è stata che gli statali sono diventati ormai il bersaglio sul quale si può sparare liberamente. È strano che un ministro di questo genere susciti diffidenza ironie e animosità? Mariastella Gelmini è un caso più complicato. Non sono state le sue sortite sul maestro unico, sui grembiulini, sul voto in condotta a farne il bersaglio della maggioranza degli italiani e della quasi totalità dei docenti e degli studenti. Di quegli argomenti era possibile discutere senza trasformare la discussione in una rissa. Ancor meno sono state le storture dai lei indicate nell'Università, condivise dalla stragrande maggioranza della pubblica opinione: il numero eccessivo delle sedi universitarie, il baronaggio dei docenti, la sovrabbondanza dei corsi di laurea.

Sull'abolizione di queste storture si poteva e si può raggiungere la quasi unanimità. Ciò detto è perfettamente vero che la Gelmini sia il ministro più contestato da studenti e docenti e dal centrosinistra tant'è che negli ultimi sondaggi è finito in fondo alle classifiche dei ministri con una perdita di cinque punti in trenta giorni. Il motivo di tanto sfavore sta nel fatto che il ministro dell'Istruzione ha imbracciato la politica dei tagli voluti da Tremonti ed ha cercato di motivarla come una politica di profonda e seria riforma. Ha cioè fatto vistosamente e scopertamente un'operazione di disinformazione politica. Per di più ha accettato tagli che, se attuati in quella dimensione, porteranno né più né meno che alla chiusura delle università per asfissia finanziaria. Oggi il ministro si dichiara pronta a dialogare con gli studenti e con l'opposizione escludendo però dal dialogo chiunque persegua il 6 politico e il 18 politico ispirandosi alle 'utopie sessantottine'.

Il merito prima di tutto e le bocciature come strumento per affermarlo. Il ministro non si è accorto che il movimento degli studenti è lontano anni luce dagli ideali che ispirarono il Sessantotto, rivendica anch'esso il merito, non copre affatto i baroni, è guidato non dagli ultimi ma dai migliori. E tuttavia, ed anzi proprio per questo, respinge la meritocrazia muscolare della Gelmini la quale è ormai diventata l'icona di Dell'Utri e della parte più retriva dello schieramento di centrodestra. Questo è un dato di fatto del quale il professor Panebianco dovrebbe domandarsi il perché. Dal canto mio azzardo l'ipotesi che lo slogan 'tolleranza zero' stia passando di moda nella pubblica opinione, in una società che riscopre il pluralismo e la tolleranza.

(21 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le bugie nel palazzo le risse nel cortile
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2008, 10:58:36 pm
IL COMMENTO

Le bugie nel palazzo le risse nel cortile

di EUGENIO SCALFARI


I GOVERNI aspettano, nessuno ha voglia di fare la prima mossa. Neppure l'America, messa in angolo dalla troppo lunga transizione tra il presidente uscente e quello già eletto ma non ancora governante. Neppure l'Europa dove la Banca centrale promette un ribasso del tasso di interesse e la Commissione di Bruxelles studia un piano di intervento sulle infrastrutture che è ancora sotto limatura e in mancanza del quale i governi nazionali rinviano le decisioni di loro competenza.

I governi dunque aspettano ma la crisi dell'economia no. Le Borse continuano a crollare, le aziende a licenziare, le famiglie a stringere la cinta. Il Natale non si preannuncia allegro per nessuno; forse, una volta tanto, sarà una festa religiosa per i credenti e un momento di riflessione e di consuntivo morale per tutti.

Questa domenica vorrei fare anche un po' di chiarezza sul programma di sostegno dei redditi e delle imprese che il nostro ministro dell'Economia sta preparando e che, salvo ulteriori rinvii, dovrebbe essere varato dal Consiglio dei ministri il 28 prossimo. Ma vorrei anche esprimere qualche opinione sulla politica italiana e in particolare sul centrosinistra. Di solito evito questo tema, sa troppo di politichese, un genere che mi appassionava in passato ma che ha perso da tempo lo smalto che aveva. Ci sono tuttavia momenti nei quali la politica evoca di nuovo una scelta morale. Stiamo vivendo uno di quei momenti nonostante la diffusa mediocrità degli apparati e delle oligarchie. Perciò mi sembra doveroso parlare anche di questo tema.

Me ne offre lo spunto la conversione del presidente del Consiglio dalla strategia di aggressività nei confronti di chiunque metta in discussione le sue decisioni ad un'improvvisa apertura verso i sindacati, verso il movimento degli studenti e verso quei settori e quei ceti che, sotto l'impatto della crisi economica, cominciano a risvegliarsi dall'ipnosi e a chiedere non più annunci ma fatti concreti.

Le aperture del presidente del Consiglio sono ancora molto caute e contraddittorie, contrastano con la sua natura che lo spinge ad occupare interamente la scena senza condividerla con nessuno, alleato o avversario che sia. Ma la forza dei fatti e le necessità che ne derivano lo inducono a tentare un percorso diverso. Fino a che punto diverso?

L'esperienza ci ha insegnato che le aperture berlusconiane hanno un arco di oscillazione molto limitato. La sola opposizione accettabile è per lui un'opposizione al guinzaglio che si accontenti di qualche briciola e di qualche pacca sulle spalle, che rida alle sue barzellette, che si contenti di essere invitata a cena e trattata con buone maniere. Carota sì, purché si intraveda che il bastone è sempre lì, poggiato in un angolo a portata di mano.

Certo se quella parte di Italia che lo sente incompatibile si innamorasse improvvisamente di lui le cose cambierebbero molto. Per ora l'innamoramento è avvenuto per pochi e non sempre, anzi quasi mai, per conversione sulla via di Damasco ma piuttosto con motivazioni di tornaconto personale. Non è questo che vuole il sire di Arcore e di Palazzo Grazioli. Perciò quel momento magico tarda a venire. Per fortuna, perché quello sì, sarebbe la fine della democrazia italiana.

* * *

Intanto il Partito democratico versa in serie trambasce. Le lacerazioni interne non sono una novità e del resto esistono in tutti i partiti e in tutto il mondo. La sinistra però ne è affetta molto più della destra perché storicamente la sua natura è ideologica. Infatti profonde lacerazioni vi sono nella Spd tedesca, nel Partito socialista francese, tra i laburisti inglesi. E' accaduto perfino in Usa durante la campagna elettorale tra Obama e l'ala clintoniana del partito.

Qui da noi le lacerazioni del Pd viaggiavano sotto traccia fin da quando Veltroni fu chiamato alla "leadership" nell'autunno del 2007 quando il governo Prodi e la legislatura erano oramai alla fine. La sua ascesa alla segreteria fu voluta dai due gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, cioè dall'Ulivo che si trasformò rapidamente in un partito nuovo e affrontò pochi mesi dopo le elezioni politiche guidato dall'ex sindaco di Roma, confermato nel ruolo di leader da tre milioni e mezzo di votanti alle primarie del partito.

Se miracolosamente avesse vinto le elezioni la compattezza del nuovo partito sarebbe stata garantita dall'interesse di tutti cementato dal potere e dall'assenza di contrasti politici. La cornice generale era infatti interamente condivisa: un partito aperto e innovatore che aveva unificato il riformismo laico e quello cristiano, uscito dalle ceneri dell'alleanza con la sinistra estrema che aveva segato il governo Prodi.

La sconfitta elettorale era nel conto ma mancando il cemento del potere emersero le lacerazioni. Non c'era un contrasto nella visione del bene comune e neppure dei mezzi da impiegare per realizzare quell'obiettivo; c'era però materia per uno scontro di potere all'interno del partito. Il Pd aveva difatti incassato un risultato elettorale del 33 per cento dei voti espressi, un partito riformista che aveva ottenuto il consenso di un terzo del corpo elettorale non si era mai visto nella storia italiana, né in tempo di repubblica, né in tempo di monarchia.

I contrasti rimasero tuttavia sotto traccia, ma col passare dei mesi e con la stupefacente luna di miele tra Berlusconi e la pubblica opinione, diventarono sempre più evidenti, nacquero fondazioni che sotto l'apparenza culturale si atteggiavano a vere e proprie correnti. In particolare quella guidata da D'Alema che si dette addirittura un assetto territoriale.

L'obiettivo sembrò esser quello di logorare la leadership veltroniana anche a costo di danneggiare la compattezza del partito ancora in fase organizzativa.
Infine, proprio in queste ultime settimane, arrivarono due mosse strategiche di Berlusconi: la rottura con la Cgil e l'elezione del senatore Villari alla guida della Commissione di vigilanza sulla Rai con i voti della destra e contro il candidato dell'opposizione. Su questa micidiale doppietta lo scontro interno al Pd è esploso in piena luce sotto l'antica e mai risolta rivalità tra Veltroni e D'Alema.

* * *

Con tutto quello che sta accadendo nel mondo uno scontro di cortile è quanto di più mediocre e provinciale si possa immaginare. Frustrante per gli elettori e i simpatizzanti di un partito ancora allo stato nascente ma con un seguito nient'affatto trascurabile come ha dimostrato qualche settimana fa l'imponente raduno del Circo Massimo, poi il rilancio nei sondaggi che vedono il Pd di nuovo al 32 per cento, poi la vittoria elettorale nella provincia di Trento, infine l'inizio d'uno smottamento sociale del consenso berlusconiano.

D'Alema, nel suo ruolo di sfidante, nega sia pure a fior di labbro che lo scontro vi sia, ma i fatti lo smentiscono. Parlano per lui i suoi luogotenenti e i media da lui in qualche modo influenzati. L'attacco a Veltroni è il punto di convergenza di tutte queste voci.

Il testo che traccia con più chiarezza quest'indirizzo politico lo si trova in un articolo di Galli Della Loggia pubblicato di fondo sulla prima pagina del "Corriere della Sera" di martedì scorso, quanto mai rivelatore. L'accusa a Veltroni è motivata dal suo supposto appiattimento su Di Pietro che sarebbe incompatibile con la linea riformista del Pd tradita dal segretario del partito. "Il riformismo - scrive l'autore - ha avuto un rigoglioso sviluppo quando ha rifiutato il massimalismo ed è stato invece condannato al declino quando si è confuso con esso".

Sbagliato in tutti e due questi assunti. Il riformismo italiano è sempre stato minoritario e non ha mai raggiunto un terzo del corpo elettorale come è invece avvenuto per il Pd. Quanto all'appiattimento su Di Pietro i fatti smentiscono la tesi di Della Loggia: né la scelta di Orlando a candidato per la Vigilanza Rai può essere considerata una prova a carico e basterebbe a dimostrarlo il fatto che la scelta fu concordata anche con l'Udc di Casini che non può certo essere definita come una formazione politica massimalista.

Al contrario, la corrente dalemiana, in mancanza di un vero dissenso politico cui appoggiarsi, ha compiuto atti e pronunciato dichiarazioni di sistematica denigrazione ai danni del leader del Pd, culminate nell'appoggio palese e ripetuto verso il neoeletto alla Vigilanza Rai: esempio emblematico della strategia della destra e della spregiudicatezza di una corrente interna del centrosinistra.

Queste risse di cortile sono deprimenti, specialmente in una fase di crisi mondiale che vorrebbe un'opposizione compatta e responsabile, non distratta da beghe interne e capace di offrire all'opinione pubblica risposte convincenti e di formulare in Parlamento contributi per la soluzione dei problemi che incombono.

* * *

Quei problemi non sono né potevano essere avviati a soluzione dal G20 svoltosi a Washington pochi giorni fa. Quel "meeting" al quale per la prima volta hanno partecipato alcune delle potenze emergenti come la Cina, l'India, il Brasile, ha avuto un solo risultato storico: ha gettato le basi di una inevitabile redistribuzione del potere mondiale. Anche in termini istituzionali. La prima conseguenza concreta sarà infatti una redistribuzione già allo studio delle quote di partecipazione dei paesi emergenti al Fondo monetario internazionale e agli altri analoghi organismi. Al di là di questo, peraltro importantissimo, risultato nient'altro è stato né poteva esser deciso in attesa che il nuovo presidente eletto sia insediato alla Casa Bianca il 20 gennaio.

Ma poiché la crisi non aspetta, l'Europa renderà noto un documento programmatico mercoledì prossimo e il governo italiano dal canto suo ne emetterà uno proprio il prossimo venerdì. Poiché sia l'uno sia l'altro sono già conosciuti nelle loro grandi linee, vediamo di che si tratta.

* * *

Il piano della Commissione europea mobilita 130 miliardi di euro per il 2009, dopo la ratifica dell'Ecofin. Una cifra rispettabile, destinata interamente a costruzione di infrastrutture d'importanza europea e nazionale. Rappresenta la sommatoria dell'1 per cento del Pil dei 27 paesi dell'Unione. Ciascuno di essi mobiliterà risorse per eseguire le opere sul proprio territorio previa notifica alla Commissione che dal canto suo erogherà a supporto risorse proprie per integrare quelle stanziate dai singoli governi. Le risorse della Commissione saranno tratte dal bilancio europeo e poiché il loro ammontare eccederà rispetto alle disponibilità esistenti, i 27 paesi dovranno accrescere di altrettanto le loro contribuzioni all'Unione.

Si tratta dunque, in larga misura, di una complessa partita di giro dall'Unione verso i paesi membri e da questi verso l'Unione che, comunque, dovrà spostare i fondi da alcuni capitoli di spesa ad altri capitoli. Si chiama "raddrizzamento". Ovviamente anche il Parlamento di Strasburgo dovrà dire la sua in proposito. Se volete il mio parere, definirei questo programma le nozze coi fichi secchi, una mano dà, l'altra mano prende. In napoletano si direbbe "facimmo ammuina".

La Commissione ha anche stabilito che i singoli paesi membri possano diminuire l'Iva (imposta sovranazionale) per alleggerire i rispettivi pesi tributari. Infine ha messo su carta l'autorizzazione a sforare la soglia del 3 per cento di deficit/Pil a condizione che lo sforamento non sia superiore ai sedici mesi e non sia maggiore dell'1 per cento. Questi due provvedimenti hanno una loro reale sostanza e consentiranno politiche anticicliche. Secondo me avrebbero dovuto essere adottati almeno sei mesi fa quando già era evidente l'arrivo della tempesta e così pure la riduzione dei tassi d'interesse da parte della Banca centrale europea, che ancora centellina i ribassi mentre le economie reali sono sconvolte dalla depressione.

* * *

Gli 80 miliardi di euro di Tremonti, come ormai hanno capito tutti, sono uno spottone mediatico. Anche lui come la Commissione brussellese, sposta di qua e sposta di là, preleva risorse già impegnate dall'anno scorso ma non spese, attiva opere pubbliche che avrebbero dovuto essere eseguite dal 2001 o almeno dal giugno 2008 e che giacevano e ancora giacciono nei rispettivi capitoli di copertura o nei fondi d'attesa previsti dalle leggi di bilancio.

Gli 80 miliardi dunque sono spese ritardate o coperture destinate ad altri scopi che ora resteranno scoperti. Tanto per fare un esempio: dieci miliardi erano destinati al Mezzogiorno, sono stati prelevati e saranno usati per opere pubbliche in parte destinate al Mezzogiorno stesso. Semplici movimenti contabili, quasi tutta aria fritta di scritture di giro per ottenere ottimi effetti sui giornali e nei teleschermi. Perciò, cari lettori, non fatevi ingannare dalle apparenze e dalle bugie. Di vero in quelle cifre ci sono soltanto 16 miliardi per infrastrutture che il Cipe doveva indicare tre giorni fa ma ha rinviato perché aspetta di conoscere l'ammuina di Bruxelles per modellarvi sopra la propria

Infine 4 o 5 miliardi per le famiglie, un miliardo per rifinanziare la Cassa integrazione e dare qualche soldo ai precari licenziati. Per le imprese l'Iva da versare al momento dell'incasso (e questo è un buon provvedimento) e il rinvio degli acconti di fine anno. Nessuno sconto sull'Irpef. Detassazione degli straordinari (non serve a niente perché in recessione non ci sono straordinari). Nuovo patto con le banche per migliorare i mutui a tasso fisso (il patto precedente tanto strombazzato non ha avuto alcuno effetto). Sottoscrizione governativa di bond bancari per rafforzarne i patrimoni. Chiedendo in contropartita aperture di credito alle piccole e medie imprese. Questo è quanto. Tarallucci e vino. Infatti piovono critiche da Cgil Cisl e Uil e, nientemeno, anche da Confindustria.

Intanto il petrolio è sceso fino a 49 dollari al barile, il credito diminuisce, i canali interbancari restano intasati, la Citigroup licenzia 52mila dipendenti, lunedì dovremo seguire con estrema attenzione l'andamento di Wall Street, Detroit è un dramma, la Opel tedesco-americana pure. A Torino la Fiat non ride.
La ministra Carfagna ad "Invasioni barbariche" (mai titolo le fu più adatto) si è paragonata a Reagan ed anche a Obama. Berlusconi si è commosso perché Forza Italia è stata sciolta per far nascere nel 2009 il nuovo Partito della Libertà. Lo scioglimento è stato approvato con un dibattito di venti minuti. Berlusconi ha nell'occasione rimproverato la Rai perché "parla solo di crisi e il mio messaggio non riesce a passare".
Questo è quanto ci passa il nostro convento. Poiché non c'è di meglio accontentiamoci. Ma per quanto?

(23 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una manovra inesistente da cinque miliardi
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 10:46:23 pm
ECONOMIA      L'EDITORIALE

Una manovra inesistente da cinque miliardi

di EUGENIO SCALFARI


PRESI UNO per uno i provvedimenti della manovra di Tremonti sono quasi tutti da approvare anche se alcuni di essi (dirò tra poco quali) suscitano forti preoccupazioni. Ma la manovra nel suo complesso è inesistente. Mobilita in tutto e per tutto cinque miliardi di danaro fresco cioè il 30 per cento di un punto di Pil per quanto riguarda il sostegno della domanda e gli stimoli alla produzione.

Il piano di investimenti è apparentemente più ambizioso perché ammonta a 16 miliardi, ma non sono risorse fresche. Erano somme già previste e stanziate su altri capitoli e con altre destinazioni. Il ministro dell'Economia avrebbe potuto (anzi dovuto) mobilitarle fin dallo scorso giugno, visto che aveva precocemente intuito che una crisi di enormi proporzioni stava arrivando. Ha perso cinque mesi preziosi e purtroppo ne dovranno passare a dir poco altri dodici prima che si aprano i cantieri e sia assunta la mano d'opera necessaria.

Naturalmente quest'avarizia nella spesa è motivata dalla necessità di stare nei limiti imposti dalle regole europee. Questo aspetto della questione merita d'essere approfondito.
Il deficit lasciato dal precedente governo Prodi era al di sotto del 2 per cento. A metà novembre, cioè prima della manovra approvata venerdì scorso ma dopo la Finanziaria 2009, il deficit viaggiava attorno al 3 per cento. Scontava infatti i tre miliardi dovuti all'abolizione dell'Ici, i tre miliardi derivanti dall'operazione Alitalia, l'aumento del fabbisogno derivante dai minori incassi tributari.

L'insieme di questi fenomeni hanno peggiorato i nostri conti pubblici per un punto di Pil e questa è la ragione della politica dei tagli voluta da Tremonti "per mettere in sicurezza il bilancio" come ha più volte ripetuto.
Se non fosse stata abolita l'Ici (che non ha prodotto nulla di positivo sul rilancio della domanda), se non fosse stata creata la nuova Alitalia tricolore e non si fosse abbassata la guardia sull'evasione fiscale, avremmo avuto oggi un punto di Pil, cioè 15 miliardi, da spendere per rivitalizzare i consumi e un altro mezzo punto di sforamento consentito da Bruxelles per chi ha i conti in sicurezza.

In totale 22 miliardi. Vedi caso, è la stessa cifra chiesta da Epifani e dall'opposizione per determinare la svolta che non c'è stata e non poteva esservi. Tremonti ha ripetuto più volte che non fa miracoli e l'ha detto perfino Berlusconi che i miracoli è di solito convinto di poterli fare. Se il nostro ministro dell'Economia avesse in giugno avuto nei confronti del "premier" la stessa grinta dei giorni scorsi, se avesse bloccato l'Ici e l'Alitalia tricolore, se non avesse dato tregua all'evasione fiscale, oggi avrebbe avuto la possibilità di effettuare una politica keynesiana che viceversa è stata impossibile nelle condizioni date.

* * *

Ho premesso che i singoli provvedimenti approvati venerdì scorso sono tutti da approvare. Quasi tutti. Confermo. Ho detto che alcuni sono politicamente preoccupanti. In particolare è preoccupante l'autorizzazione data alla Cassa Depositi e Prestiti di utilizzare il risparmio postale per operazioni bancarie vere e proprie, che rappresenta un'innovazione radicale e non prevista dallo statuto della Cassa e dalle leggi che ne regolano l'attività.

Il risparmio postale ammonta più o meno a centomila miliardi ed è destinato ad aumentare in futuro. Il suo impiego è di concedere mutui a basso tasso d'interesse agli enti locali per il finanziamento di opere pubbliche da essi deciso. I mutui hanno garanzia pubblica e pertanto il risparmio postale è pubblicamente garantito.

L'innovazione voluta da Tremonti non è da poco. D'ora in avanti la Cassa potrà effettuare direttamente e sotto la propria responsabilità finanziamenti ad infrastrutture "segnalate" da enti locali che non saranno però loro i debitori. La Cassa aprirà dunque una sua gestione speciale per un importo per ora limitato a 30 miliardi; le operazioni saranno controllate dal Tesoro e non passeranno per i canali usuali della pubblica amministrazione. Si tratterà insomma di finanziamenti bancari e quindi discrezionali decisi dagli organi dirigenti della Cassa sotto il controllo del Tesoro.

Tremonti voleva una banca del Sud? Adesso ce l'ha per tutt'Italia ed è una banca di grandi dimensioni. L'autorizzazione di venerdì scorso prelude alla riscrittura dello statuto della Cassa e alla "mainmise" sull'intera raccolta del risparmio postale. Si tratta di un'innovazione in linea coi tempi ma è preoccupante la potenza e la discrezionalità che viene in tal modo conferita ad un singolo ministro. Mi sorge il dubbio che vi sia l'ombra dell'incostituzionalità, in quanto la nuova norma è contenuta in un decreto-legge che, per quanto riguarda questo specifico provvedimento, non mi pare abbia le caratteristiche dell'urgenza prevista dalla Costituzione.

* * *

Le cifre della manovra vera e propria sono le seguenti. Bonus per le famiglie (che sarà versato nel febbraio 2009) 2.400 milioni; aumento della Cassa integrazione 600 milioni; ancoraggio dei mutui immobiliari al tasso del 4 per cento per un costo di 600 milioni. Totale 3.600 milioni.

I provvedimenti di stimolo alle imprese e di detassazione ammontano complessivamente a circa due miliardi, sicché il totale generale della manovra è, come già si è detto, di cinque miliardi e mezzo.
Bene il bonus alle famiglie, bene il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, bene l'Iva da pagare al momento dell'incasso, bene gli sconti sull'Ires e sull'Irap, bene il blocco delle tariffe ferroviarie in favore dei pendolari, bene aver annullato la detassazione degli straordinari (in tempi di recessione sono ben poche le aziende che ricorrono agli straordinari che comunque vanno contro la formazione di nuovi posti di lavoro. Finalmente il ministro dell'Economia l'ha capito).

Non va invece affatto bene non aver detassato i salari e le pensioni. Tremonti ha sempre parlato della necessità di evitare i benefici a pioggia e di concentrarli invece su pochissimi obiettivi, soprattutto in un periodo di scarsità. Invece ha fatto esattamente il contrario ed è per questo che la sua non è una manovra ma uno stillicidio di interventi disseminati in 36 articoli. Ne bastavano un paio o poco più. Bastava concentrare tutte le risorse disponibili sulla detassazione dei salari al di sotto d'una soglia di 30 mila euro di reddito.

Qui si apre un altro tema della massima importanza: i provvedimenti presi riusciranno a rimettere in moto la domanda? Perché esiste il concreto rischio che la pioggia dei benefici vada a risparmio e non a consumi.
Se si trattasse di benefici duraturi, strutturali, gli effetti sui consumi quasi certamente ci sarebbero. Si tratta invece di "una tantum" e quindi gli effetti desiderati è improbabile che si verifichino. Ma come fare a renderli duraturi con risorse così limitate?

Ci sono tre possibili soluzioni a questo problema.
1. Tagliare gli sprechi e devolverli al sostegno duraturo dei salari, cioè ad una vera e propria redistribuzione del reddito. Ma i tagli sono stati già effettuati nella Finanziaria e con tutt'altra destinazione.
2. Tassare i redditi miliardari, le innumerevoli rendite esistenti, i redditi sommersi.
3. Puntare sulla crescita e sulle nuove risorse tributarie che essa determinerebbe.

Le soluzioni di cui ai numeri 2 e 3 non sono alternative e possono essere utilmente miscelate. Ma se non s'imbocca questa strada avremo soltanto provvedimenti "spot" di assistenza sociale e come tali con un pregevole significato etico, ma nessun effetto di rilancio sulle capacità produttive del Paese.

Aggiungo che l'insieme delle misure fin qui approvate penalizzano nettamente i salariati delle regioni settentrionali, nelle quali si concentra la parte maggiore del lavoro operaio. Si parla tanto di questione settentrionale ma non sembra che l'opinione nordista, prevalente nella maggioranza di centrodestra, si sia resa conto di quest'aspetto tutt'altro che marginale del decreto in questione. I benefici a pioggia sulle famiglie hanno tagliato fuori il lavoro dipendente che entra nel quadro solo tangenzialmente e marginalmente.

Per il lavoro autonomo ci sarà la revisione degli studi di settore e la detassazione avverrà in quel modo. Ma per il lavoro dipendente non è previsto nulla di specifico. Non si capisce in questo quadro che cosa abbiano ottenuto la Cisl e la Uil che hanno dato il loro accordo a questa pseudo-manovra. La detassazione dei miglioramenti salariali di secondo livello? Ed è per questi spiccioli che hanno rotto l'unità sindacale?

* * *

Ci sarebbero parecchie altre osservazioni da fare sui 36 articoli del decreto. Faccio solo qualche esempio.
Esiste un fondo soprannominato Scajola, per dire infrastrutture emergenziali. Esiste un altro fondo soprannominato Sacconi, per dire provvedimenti aggiuntivi sul lavoro ove si rendessero necessari (e si renderanno sicuramente necessari) c'era, e sarà in parte riposizionato, un fondo per le aree sottosviluppate (Fas) di oltre 50 miliardi, dei quali 25 sono stati ricollocati da Tremonti per infrastrutture a tempo futuro.

Quest'abitudine di accumulare denari in fondi provvisori dai quali attingere a tempo opportuno può essere un accorgimento utile in casi eccezionali ma se diventa, come sta diventando, un uso corrente la conseguenza sarà quella di indebolire ancora di più di quanto già non sia il potere di controllo del Parlamento accrescendo la discrezionalità dell'Esecutivo.

Nessuna notizia sul tema dei "bond" e delle obbligazioni convertibili che le banche con patrimoni insufficienti dovrebbero emettere e il Tesoro sottoscrivere. Tutto rinviato. Meglio così, è un segno di solidità del nostro sistema bancario. Sembra però che Tesoro e banche stiano trattando un accordo sul credito alle piccole e medie imprese, quello che la Confindustria chiede con crescente insistenza ma di cui ancora non c'è preannuncio. Sembra che il governo vorrebbe affidare ai prefetti (!) la vigilanza sull'esecuzione dell'accordo in questione quando e se si farà. Se questa fosse la soluzione, avremo una politicizzazione del credito che neppure il fascismo riuscì ad imporre al sistema bancario. Capisco che siamo in tempi molto agitati, ma l'eccezionalità non giustifica lo stravolgimento dei mercati e della Costituzione materiale.

Post scriptum. La ciliegina su questa torta purtroppo assai sottile è rappresentata dal raddoppio dell'Iva, dal 10 al 20 per cento, sui contratti di Sky con i propri utenti. Si tratta di milioni di contratti e di un provvedimento che raschierebbe l'intero margine lordo di quell'impresa che opera sull'emittenza digitale.
Siamo in pieno conflitto di interessi. Un governo presieduto dal proprietario di Mediaset emana un decreto che mette fuori mercato un suo diretto concorrente.

La ministra Carfagna rispondendo in una trasmissione televisiva ad una domanda sulla proprietà di Mediaset, disse non a caso che "in queste questioni Berlusconi fa quello che gli pare". Aveva l'aria di approvarlo e non di biasimarlo ed è evidentemente così: fa quello che gli pare. In questo caso però la faccia ce la mettono Tremonti e l'intero Consiglio dei ministri, Carfagna compresa.
La decenza consiglierebbe di ritirarla subito questa sconcezza.


(30 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il rischio della fede
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 10:59:16 pm
Eugenio Scalfari.


Il rischio della fede


Pagine drammatiche e scandalose quelle di 'Conversazioni notturne a Gerusalemme' del cardinale Martini.
Ho letto il libro del cardinale Carlo Maria Martini, 'Conversazioni notturne a Gerusalemme' qualche giorno prima che uscisse nelle librerie: un amico suo e mio me l'aveva fatto avere insieme ai saluti dell'autore. Quel libro ha un sottotitolo molto significativo: 'Sul rischio della fede'. L'autore ne parla ad ogni pagina, si vede che è stato proprio quel rischio ad affascinarlo, la sua fede ha avuto in esso il suo nutrimento e il suo fondamento.

Per me non credente quest'approccio ha catturato la mia attenzione ed anche il mio affetto per l'autore che so molto ammalato e in costante dialogo con la morte. Si direbbe che quella prossimità abbia reso esplicita nei suoi pensieri e nelle sue parole una testimonianza di libertà e di giustizia così profonda da superare ogni steccato e ogni ortodossia. Il rischio della sua fede sta proprio in quella testimonianza che lo avvicina in nome del suo Gesù ad ogni altro testimone che sia altrettanto votato alla giustizia e alla libertà, quale che sia la religione che professa e la cultura che lo ispira.

Mi aspettavo che il libro stimolasse un dibattito ampio soprattutto nella comunità cattolica che ne è la principale destinataria, ma non mi pare che questo dibattito sia avvenuto o almeno non nello spazio pubblico. Molte recensioni al suo apparire, soprattutto sui giornali laici; ma anche quelle dedicate agli aspetti edificanti, all'amore per i giovani, alla speranza del bene e della contemplazione della morte. Sentimenti che abbondano in quelle pagine ma che non fanno trasalire chi le legge e non esprimono il rischio cui si richiama chi le ha scritte.

Voglio qui trascrivere i passi più significativi e più emozionanti delle 'Conversazioni notturne'. Riguardano la Chiesa, i cattolici, i giovani, le donne, l'ecumenismo, l'accoglienza e - prima d'ogni altro valore - la giustizia e la fratellanza.


Non omologate questa testimonianza d'un cardinale arcivescovo con frettolosa compunzione, voi uomini di Chiesa, voi politici che vi dichiarate devoti, voi che avete il Cristo sulle labbra con sospettabile frequenza. Queste pagine non sono rassicuranti ma drammatiche e scandalose nel senso evangelico del termine. Proprio per questo loro spessore sarà difficile omologarle e dimenticarle in qualche polveroso scaffale.

"Nella mia vita mi sono imbattuto in molte cose terribili, la guerra, il terrorismo, le difficoltà della Chiesa, la mia malattia, la mia debolezza. Ma la mia infelicità è poca cosa in confronto alla felicità. La felicità va condivisa. E soprattutto la felicità non è qualcosa che arriva e che dobbiamo solo aspettare. Dobbiamo cercarla".

"Chi ha imparato ad avere fiducia non trema, ha il coraggio di darsi da fare, di protestare quando viene detta qualcosa di spregevole, di cattivo, di distruttivo. E soprattutto ha il coraggio di dire 'sì' quando si ha bisogno di lui".

"Chi legge la Bibbia e ascolta Gesù scoprirà che lui si meraviglia della fede dei pagani. In un passo del Vangelo egli non propone come modello il sacerdote, ma l'eretico, il samaritano. Quando pende dalla croce accoglie in cielo il ladrone. Il migliore esempio è Caino: Dio segna Caino per proteggerlo. Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo tutti gli uomini. Gli uomini invece e anche la Chiesa, corrono sempre il rischio di porsi come assoluti".

"Non si può rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Egli non si lascia dominare o addomesticare. Se esaltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, andiamo verso di loro e li tocchiamo, Dio ci conduce fuori, nell'immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto".

"Paura e indifferenza sono entrambi presenti nella Chiesa. Gesù risveglierà e scuoterà gli indifferenti e incoraggerà i timorosi. Oggi è difficile far parte della Chiesa ed esserne soltanto un membro passivo. Ma chi agisce e assume responsabilità può cambiare molte cose. Da giovane ed anche da Vescovo il lavoro con i giovani è stato quello che mi ha più aiutato ad essere cristiano. Cristo non ha oggi altre mani e altra bocca che la tua e la mia".

"La Chiesa parla molto di peccato. È forse interessata a far apparire gli uomini più cattivi di quanto non siano? Di peccato la Chiesa ha parlato molto, a volte troppo. Da Gesù può imparare che è meglio incoraggiare gli uomini e stimolarli a lottare contro il peccato del mondo. Con 'peccato del mondo' la Bibbia non si riferisce solo alle nostre colpe personali bensì a tutte le ingiustizie e ai pesi che ereditiamo. Gesù ci chiama a collaborare alla guarigione laddove l'ordine divino del mondo è stato violato".

"Io voglio una Chiesa aperta, porte aperte alla gioventù, alle donne, una Chiesa che guardi lontano. Non saranno né il conformismo né timide proposte a rendere la Chiesa interessante. Io confido nella radicalità della parola di Gesù, nella buona novella che Gesù vuole portare".

"La giustizia è l'attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l'impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali".

"Quando si conducono guerre di aggressione in nome di Dio, quando il cristianesimo viene usato in modo populistico in campagne elettorali, sento suonare campane di allarme. È repugnante parlare di Dio e non esser fedeli alla sua caratteristica principale: la giustizia. Ci unisce ai musulmani e agli ebrei la fede nel Dio unico. Se si parla di Dio bisogna farlo con serietà altrimenti è meglio non avere il suo nome sulle labbra".

Ci sono molti altri passi di 'Conversazioni notturne' che meriterebbero d'esser citati. Rileggendolo ho notato che la parola Cristo è usata raramente mentre il nome Gesù ricorre più volte in tutte le pagine. Si direbbe che il Figlio dell'Uomo per Martini sia molto più pregnante del Figlio di Dio.

Concludo con un'ultima frase dell'autore: "Con i giovani abbiamo vissuto una Chiesa aperta. Essi lottano contro l'ingiustizia e vogliono imparare l'amore. Danno speranza ad un mondo difficile".

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Campane d'allarme e trombe stonate
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 10:37:48 pm
ECONOMIA     

Campane d'allarme e trombe stonate

di EUGENIO SCALFARI


NON c'è un solo allarme rosso sul quale occorra tener fisso lo sguardo per comprenderne le cause e prevederne gli effetti con quotidiano monitoraggio. Ce ne sono tre, che insidiano la nostra vita dei prossimi mesi alimentando le nostre incertezze e i nostri timori.

Due hanno dimensioni nazionali e sono l'allarme sul funzionamento della giustizia e quello che viene definito la questione morale. Il terzo ha dimensione mondiale ed è la crisi dell'economia, la recessione americana diffusa ormai su tutto il pianeta, il pericolo che la recessione si trasformi in deflazione e che questa degradi ulteriormente in depressione.

La stampa americana parla ormai correntemente di "great depression, part 2" riferendosi a quella del '29, le cui conseguenze devastarono gli Stati Uniti e l'Europa per otto anni. Ce ne vollero poi altri due affinché cominciasse un nuovo ciclo di crescita economica il cui mostruoso motore fu l'industria degli armamenti e la guerra scoppiata nel 1939, con i suoi milioni e milioni di morti, compresi quelli di Hiroshima e Nagasaki e lo sterminio dell'Olocausto. Proprio per queste sue terrificanti dimensioni comincerò queste mie note domenicali dal terzo allarme rosso. Me ne sto occupando ormai da alcuni mesi ma ogni giorno accadono fatti nuovi e un aggiornamento critico è dunque necessario.

Negli undici mesi fin qui trascorsi dal gennaio 2008 gli Stati Uniti sono in recessione, dapprima sottotraccia, poi esplosa a giugno con la crisi immobiliare. I sei mesi passati da allora hanno visto i listini di Wall Street perdere più del 50 per cento del loro valore e poiché i cittadini di quel paese hanno una familiarità con la Borsa sconosciuta nel resto del mondo ne è derivato un impoverimento, in parte virtuale ma in parte reale, che ha inciso sui consumi e sugli investimenti.

L'effetto, in un paese ad economia liberista, si è ripercosso sull'occupazione ed è stato un crescendo di mese in mese. Allo stato attuale dei fatti sono andati distrutti in undici mesi un milione e centomila posti di lavoro, dei quali 200.000 in ottobre e 536.000 in novembre. Un'accelerazione spaventosa che, secondo le previsioni più aggiornate, supererà nel primo semestre del 2009 i quattro milioni di persone.

Quando Obama e i suoi consiglieri affermano che il peggio deve ancora venire pensano esattamente a questo: lo spettro della disoccupazione di massa e quindi una diminuzione del reddito, specie nei ceti e per le etnie più deboli, ma non soltanto. Il saldo tra questa distruzione del reddito e l'apparente beneficio della discesa dei prezzi (dovuta appunto al crollo della domanda) sarà fortemente negativo, deprimerà i consumi e gli investimenti, manderà in fallimento decine di migliaia di aziende come in parte sta già accadendo.

Tra tanti germi negativi che l'America ha già disseminato nel resto dell'Occidente, l'effetto principale sta nel fatto che il motore americano si è ingolfato e così resterà a dir poco fino al 2011. Ma poi ricomincerà a tirare come prima?

Joseph Stiglitz in un'intervista pubblicata ieri sul nostro giornale, dà risposta negativa a questa domanda. Il capitalismo americano (e sul suo modello tutto il capitalismo internazionale) ha vissuto da decenni sulle bolle speculative. Sono state le bolle a far battere al massimo i pistoni del motore americano, locomotiva di tutto il resto del mondo. Le bolle, cioè il credito facile, cioè la speculazione.

Ma le bolle, dice Stiglitz, dopo la durissima crisi che stiamo vivendo non si ripeteranno più. Non nella dimensione che abbiamo visto all'opera negli ultimi anni. E quindi non esisterà più un capitalismo come quello che abbiamo conosciuto, basato per quattro quinti sui consumi.

Subentrerà probabilmente un capitalismo basato sugli investimenti e su una redistribuzione della ricchezza mondiale e, all'interno dei vari paesi, della ricchezza tra i vari ceti sociali. Si capovolgerà lo schema (finora imperante) che vede la redistribuzione del reddito e della ricchezza come una conseguenza dipendente dalla produzione del reddito e dei profitti. Sarà invece la redistribuzione a mettere in moto la produzione e i pistoni del motore economico.

Ricordo a chi non lo sapesse o l'avesse dimenticato che fu l'allora giovane liberale Luigi Einaudi a propugnare (era il 1911) un'imposta unica basata sui consumi e un'imposta patrimoniale di successione che al di là d'una certa soglia di reddito passasse i patrimoni con un'aliquota del 50 per cento da impiegare per ridistribuire socialmente la ricchezza. Forse, con un secolo di ritardo, ci si sta dirigendo verso soluzioni di questo tipo. Lo chiameremo ancora capitalismo? Oppure come?

* * *

Il nostro governo e il nostro ministro dell'Economia sostengono che in Italia le cose andranno meglio perché le banche qui da noi sono più solide che altrove e i conti pubblici "sono in sicurezza". Salvo il debito pubblico, ma la colpa di quella voragine fu creata negli anni Ottanta e quindi riguarda la precedente generazione.

Quest'ultimo punto del ragionamento è esatto; che le nostre banche siano solide è una fondata speranza; ma che le nostre prospettive siano migliori degli altri paesi è una bufala delle tante che il governo ci propina. Noi non stiamo meglio, stiamo decisamente peggio, ci tiene ancora a galla l'euro senza il quale staremmo da tempo sott'acqua. Stiamo peggio perché non abbiamo un soldo da spendere.

Quelli che avevamo venivano da una forte azione di recupero dell'evasione fiscale che ci dette nel 2006-7 più di 20 miliardi da spendere. Questa fonte si è inaridita. Il fabbisogno è aumentato, l'abolizione dell'Ici ha distrutto un reddito tributario di 3 miliardi e mezzo l'anno; l'Alitalia tricolore è costata all'erario 3 miliardi (se basteranno).

Sicché Tremonti non ha un soldo. Per mandare avanti il motorino italiano ha dovuto redigere nel luglio scorso una legge finanziaria gremita di tagli. Per far sopravvivere il sistema ha concesso la settimana scorsa un'elemosina di 6 miliardi "una tantum" alle famiglie e alle imprese; con qualche spicciolo aggiuntivo per far tacere le invettive del Papa e dei vescovi per i tagli alle scuole cattoliche (ma quelli alla scuola statale e all'Università sono rimasti tutti ferocemente in piedi).

Anche in Italia tuttavia, come altrove, la crisi finora ha soltanto graffiato la pelle ma non ha ferito né i muscoli né i tendini. Si consuma un po' meno, si investe poco o nulla (ma questa latitanza degli investimenti privati e pubblici è da anni una costante).

Il peggio deve venire dice Tremonti e ha purtroppo ragione. La diagnosi è giusta. La terapia non c'è per ragioni di forza maggiore determinati dagli errori commessi sei mesi fa. Come uscirne dovrebbero dircelo il premier e il ministro dell'Economia. Certo non se ne esce con gli inviti ai risparmiatori a sottoscrivere i Bot. Tanto meno facendone colpa all'opposizione. Per Tremonti la via d'uscita sembrerebbe quella di metter le mani sul risparmio postale della Cassa depositi e prestiti. Si sperava che il presidente della Cdp, Franco Bassanini, si opponesse a quel progetto così arrischiato, ma sento dire che ne è stato addirittura uno degli ispiratori. Se fosse vero ne sarei stupefatto.

* * *

Tratterò insieme i due allarmi rossi nazionali: la crisi della giustizia e la questione morale.

Il presidente del Consiglio, in un comizio di ieri a Pescara, ha scandito che "nel Pd c'è una questione morale". Il Corriere della Sera con un articolo di fondo in prima pagina del vicedirettore Battista, ha inneggiato all'Espresso che ha pubblicato un'inchiesta sulle indagini giudiziarie di alcuni assessori del Comune di Firenze e alcune attendibili voci su una sorta di comitato d'affari sugli appalti in terra di Napoli. Il Tg1 di venerdì sera ha anch'esso registrato tra le primissime notizie l'inchiesta dell'Espresso ed ha intervistato in presa diretta il direttore di quel giornale, Daniela Hamaui.

Un'attenzione simile, del resto più che meritata dall'amica e collega che dirige il settimanale del nostro gruppo e dai suoi collaboratori, è del tutto insolita da parte d'un giornale che scia a slalom sui fatti e i misfatti e di un telegiornale che si fa giusto vanto di essere "super partes" anche se molti dei suoi ascoltatori non se ne accorgono.


Non ho mai letto un editoriale del Corriere e mai visto sugli schermi del Tg1 un collega di Repubblica o dell'Espresso complimentato o chiamato ad illustrare i servizi pubblicati, quando quei servizi documentavano la questione morale nei partiti e nei personaggi del centrodestra a cominciare dallo stesso Berlusconi. Non parlo di giudizi politici, parlo di inchieste sul malaffare. In questi anni ne abbiamo scritti a centinaia ma nessuno di essi ha avuto la possibilità di imporsi alla pubblica opinione al di fuori di quanti ci leggono (che per fortuna sono tanti).

È un vanto dei giornalisti del nostro gruppo di non guardare in faccia ai colori di bandiera di questo o di quello quando si parla di malaffare.

Giuseppe D'Avanzo è un nome per tutti. Ma è sospetto e sospettabile il rilievo che viene dato dalla stampa cosiddetta indipendente e dal servizio pubblico televisivo solo quando le inchieste riguardano la sinistra riformista e mai quando riguardano i personaggi del centrodestra.

Quanto ai giornali e ai giornalisti di centrodestra è inutile cercare qualche loro articolo che metta sotto esame i colori della propria parte. Non sono certo pagati per questo dai loro padroni.

C'è una questione morale che riguarda alcune persone del Pd che rivestono cariche pubbliche. Personalmente non ritengo che riguardi il sindaco di Firenze che per protestare la sua innocenza si è voluto incatenare davanti al cancello d'ingresso dell'edificio dove lavorano tutti i giornalisti del nostro gruppo. Incatenarsi mi sembra un gesto che sa di retorica ma capisco la sua sofferenza e le sue motivazioni. Ciò detto, sentenzieranno i magistrati la loro verità.

Il partito cui gli indagati appartengono non ha sovranità sugli incarichi istituzionali elettivi, non può obbligare alle dimissioni un governatore di Regione o un sindaco che derivano dagli elettori i propri poteri. Ma può (secondo me deve) sospendere dal partito in attesa di accertamenti le persone inquisite. A Firenze dovrebbe sospendere gli inquisiti dalle elezioni primarie alla carica di sindaco. A Napoli dovrebbe sospendere gli inquisiti, se e quando ne conosceremo i nomi, di un'inchiesta giudiziaria in corso. Così pure dovrebbe sospendere il governatore della Campania, anche lui da tempo sotto inchiesta.

Di quanto bolle in pentola alla Procura napoletana per ora non si sa molto. D'Avanzo ne ha ampiamente parlato in due recenti articoli dai quali deduco che ci sarebbe una sorta di "comitato d'affari" formato da politici tra i quali importanti nomi di centrodestra e di centrosinistra in combutta tra loro e, come referente napoletano, Antonio Saladino, che non ha niente a che vedere con il feroce Saladino delle gloriose figurine del cioccolato Perugina, ma è stato dal 1995 al 2006 (cioè per undici anni) il presidente per il Mezzogiorno della Società delle Opere, filiazione in affari di Comunione e Liberazione. Dove si vede che le (supposte) mele marce ci sono dovunque e quando si avvistano vanno messe da parte affinché non contagino le buone. Questo ci si aspetta da un partito guidato da persone perbene. Questo, anzi lo si reclama.

Dall'altra parte politica ci si aspetta poco o niente perché lì il malaffare sta al vertice il quale ovviamente non può bonificare gli altri suoi compagni di viaggio visto che, per definizione, non può bonificare se stesso.

* * *

Delle Procure di Salerno e di Catanzaro e della crisi della giurisdizione che in quelle Procure ha avuto in questi giorni la sua immagine più inquietante, ha detto tutto con parole tanto sobrie quanto severe il presidente della Repubblica. Sembra che ci sia stata in quegli ambienti una sorta di ventata di follia, di vanità, di ripicca, di megalomania che ha fatto crollare in poche ore la credibilità dell'intero ordine giudiziario e del suo potere diffuso.

Il ministro Guardasigilli Alfano chiede ora una riforma costituzionale bipartisan. Vedremo come si condurrà nelle prossime settimane. Sarebbe auspicabile che l'aggettivo "bipartisan" non venisse confuso con l'incitamento all'opposizione di approvare un manufatto della maggioranza con la sola facoltà di cambiare un paio di virgole e qualche punto esclamativo. Finora è stato così e questo spiega la risposta sempre negativa dell'opposizione.

C'è un punto che non richiede modifiche costituzionali e che a mio avviso dovrebbe essere affrontato: riportare in capo al procuratore del tribunale e al procuratore della corte d'appello l'esercizio dell'azione penale oggi diffusa in capo ai sostituti. Buona parte delle discrasie in corso nella magistratura inquirente derivano da questa parcellizzazione estremamente pericolosa che va a mio avviso abolita.

(7 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il primato degli annunci all'Italia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2008, 10:38:55 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO

Il primato degli annunci all'Italia del Cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


LA POLITICA degli annunci è ormai diventata non soltanto una tattica ma la strategia di tutto l'Occidente, dagli Stati Uniti all'Europa. L'Italia ha fatto da apripista e ne conserva il primato. Da questo punto di vista è corretto riconoscerne il merito a Silvio Berlusconi. La giornata di venerdì è indicativa di questo stato di cose. Dopo il rifiuto del Senato americano di soccorrere le compagnie automobilistiche di Detroit con nuove erogazioni di denaro federale, il presidente eletto ma non ancora insediato, Barack Obama, ha esortato Bush ad intervenire scavalcando il voto del Congresso e il presidente scaduto ma ancora governante ha annunciato che troverà il modo di stornare 15 miliardi di dollari dai fondi destinati al sostegno delle banche indirizzando quella cifra verso l'industria dell'auto.

Le Borse che avevano lasciato sul terreno fino a quel momento cifre da capogiro, in pochi minuti hanno invertito la tendenza chiudendo tutte al rialzo. Se e quando all'annuncio seguiranno i fatti si vedrà nei prossimi giorni ma intanto il crollo è stato per ora scongiurato. Nella stessa giornata di venerdì il vertice europeo guidato da Sarkozy e dal presidente della commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, ha approvato all'unanimità due documenti definiti storici: quello sul clima e quello sulle misure economiche che dovrebbero arginare la recessione e rimettere in moto la crescita. Definiti storici, quei due documenti che in realtà sono puri e semplici annunci, generici nella formulazione e privi di ogni sia pur minimo accenno a procedure esecutive, tempistica, sanzioni per eventuali inadempienze dei Paesi membri.

Il documento antirecessione prevede la mobilitazione di un punto e mezzo del Pil europeo pari a 200 miliardi di euro, ma si affretta a chiarire che si tratta di una previsione e lascia liberi i governi dei Paesi membri di agire ciascuno secondo le proprie strategie e le proprie disponibilità. Il documento sul clima si muove sulla stessa linea: l'Europa abbasserà le emissioni di gas inquinanti del 20 per cento entro il 2020, ma i Paesi membri ottengono importanti flessibilità nella vendita dei diritti di emissione nonché sostegno europeo per le imprese manifatturiere in difficoltà congiunturale. L'Europa a sua volta sosterrà questi oneri aggiuntivi utilizzando risorse stanziate per altri obiettivi che perdono in tal modo priorità. Si sveste un altare per vestirne un altro.

L'importante è che Sarkozy, Barroso e l'intera compagnia convitata per l'occasione possano annunciare che i due storici documenti sono stati approvati dai 27 governi i quali a loro volta rivendicano d'aver ottenuto importanti concessioni senza le quali molti di loro avrebbero posto il veto paralizzando sia la lotta all'inquinamento sia quella alla recessione. Per quanto riguarda il clima se ne riparlerà tra dodici anni, ma una tappa intermedia è prevista nel 2010 e farà il punto della situazione. Se le imprese stenteranno a procedere verranno chieste nuove concessioni e nuovi aiuti all'Europa. Per quanto riguarda invece la recessione, sarà l'andamento dell'economia a dirci fino a che punto i singoli governi avranno operato per arginare la catastrofe oppure avranno giocato con le parole anziché realizzare i fatti necessari. Nel qual caso saremo al collasso con conseguenze imprevedibili.

* * *

Ho già detto che nella strategia degli annunci l'Italia berlusconiana detiene un primato di cui il suo inventore va giustamente fiero. Ha annunciato un programma economico anti-recessione di 4 miliardi e mezzo di euro, poi l'hanno aumentato a 6 miliardi; adesso stanno giostrando per trovare ancora qualche spicciolo in più, magari prelevandone una parte dagli stanziamenti per infrastrutture. Si tratta di cifre evidentemente insufficienti; tutte le stime attendibili sostengono la necessità di un intervento non inferiore ad un punto e mezzo di Pil e cioè qualche cosa come 25 miliardi da mobilitare e spendere entro il 2009.

Interventi di quest'ordine di grandezza produrrebbero un aumento del debito pubblico e del deficit, visto che il governo sperperò fin dal suo insediamento sei mesi fa ben 7 miliardi di euro tra Ici e Alitalia e ne perse poi un'altra dozzina a causa d'una preoccupante flessione del gettito tributario. In queste condizioni Tremonti non ha spazio per operare se non sfondando le colonne d'Ercole dei parametri di Maastricht sia per quanto riguarda il deficit e sia per il debito pubblico. Oppure spostando risorse da altri usi come del resto sta già facendo. Sottrarrà altri fondi alle aree sottosviluppate e chiederà all'Ue di autorizzarlo ad usare le risorse europee destinate a infrastrutture per rafforzare gli ammortizzatori sociali destinati a fronteggiare l'onda dei licenziamenti in arrivo tra febbraio e marzo. Anche qui si sveste un altare per vestirne un altro. Così fece il nostro ministro dell'Economia con la finanza creativa, gli swap, i condoni, le cartolarizzazioni, nella legislatura 2001-2005. Lasciò i conti pubblici nel baratro ed ora ripete la stessa manovra con segno invertito. Ne vedremo i risultati al più tardi tra due mesi.

Nessuno più di noi spera di essere smentito dai fatti, ma certo non si combatte questa durissima battaglia invitando i consumatori a largheggiare nei regali natalizi e i risparmiatori a investire i propri denari comprando titoli del Tesoro e azioni Enel e Eni. Questi non sono neppure annunci, ma buffonate.

* * *

Altri annunci roboanti che faranno "flop" e che in buona parte lo hanno già fatto riguardano la riforma delle pensioni e quella delle scuole elementari e secondarie. Sulla prima, il ministro Brunetta si avventura in un'altra crociata inutile, chiedendo un innalzamento a 65 anni dell'età pensionabile delle donne sul quale dissente palesemente mezzo governo. Sulla seconda, la Gelmini ha concordato con Cisl e Uil il rinvio di un anno delle riforme previste per la scuola superiore e ha rimesso alla libera scelta delle famiglie l'orario delle lezioni nelle scuole dell'infanzia nonché la scelta del maestro unico o quella di un "team" di insegnanti. Con tali modifiche la cosiddetta riforma Gelmini si riduce al minimo. Personalmente credo sia un bene. Si trattava infatti, e ancora si tratta per la parte residuale rimasta in piedi, di provvedimenti destinati più alla funzione di spot televisivi e mediatici che a riformare strutturalmente gli istituti scolastici.

Secondo me la Gelmini va lodata per essersi resa conto che il suo approccio era praticamente insostenibile. Ha dimostrato saggezza anche se ora si ostina a sostenere che nulla è cambiato. Allora i sindacati hanno firmato una pagina bianca? Una delle due parti mente. Nei prossimi giorni sapremo quale, ma intanto i rinvii al 2010 sono già stati effettuati e il ministro si è impegnato ad aprire subito un tavolo di concertazione con i lavoratori precari della scuola. Non sono cambiamenti importanti? Che c'è di male, signora ministro, a riconoscere d'avere sbagliato?
* * *
Il federalismo fiscale è nato come annuncio e tale resterà per un bel pezzo. Per ora è stata approvata una legge-quadro dove ricorre molte volte la parola federalismo ma non è indicata alcuna cifra, alcuna procedura, alcuna organizzazione concreta delle future istituzioni. La Lega vorrebbe che la legge-delega fosse approvata entro dicembre costi quel che costi. Forse si contenterebbe di gennaio ma non un mese di più altrimenti minaccia sfracelli.

Sta di fatto che il Parlamento è intasato e il presidente Fini non sembra nel "mood" di strozzarne i dibattiti. Bisogna approvare i decreti sulle banche e quello in arrivo anti-recessione, poi il decreto Alfano sulla giustizia, altre decretazioni del ministero dell'Interno e di quello della Difesa, le leggi sulla scuola, la legge elettorale per le elezioni europee. Sicché il federalismo, per essere infilato in mezzo a questa super- produzione legislativa, dovrà limitarsi ad un'altra genericità rinviando la sostanza ai regolamenti attuativi dove però entra in gioco la conferenza Stato-Regioni con poteri rilevanti.
In sostanza: la politica degli annunci sta facendo "flop". Se continuerà così diventerà assai poco credibile. Lo pensa anche Galli Della Loggia.

* * *

Si dice: la Cgil ha fatto uno sciopero inutile. In una fase che richiede compattezza ha mandato in scena un vetusto rituale antagonista, perciò zero in condotta ad Epifani e ai lavoratori che l'hanno seguito rimettendoci anche una giornata di salario. Va detto che quei lavoratori erano parecchi. Hanno fatto uno sciopero politico senza alcun obiettivo pratico: così affermano i loro critici.

Secondo me questo modo di ragionare è sbagliato per le seguenti ragioni.
1. Lo sciopero generale è politico per definizione. Non ha come obiettivo la firma di un contratto di lavoro ma il rovesciamento di una politica economica che sfavorisce (secondo l'opinione del sindacato) i lavoratori.
2. Nel caso specifico la Cgil si schiera contro una politica che a suo avviso non tutela i lavoratori dagli effetti devastanti della crisi economica.
3. Lo sciopero generale ha un duplice obiettivo: premere sul governo e dare voce ad una protesta sociale che va al di là dei lavoratori rappresentati dal quel sindacato.

Se la Cisl e la Uil sono riuscite a realizzare alcuni risultati importanti per quanto riguarda la scuola ciò è in parte dovuto alla spinta del movimento degli studenti, alla protesta sociale mobilitata dalla Cgil e alla costante pressione dell'opposizione politica e parlamentare. Sta insomma prendendo forma una controffensiva molto articolata dove convergono con modalità e intenti diversi tutti i settori penalizzati, feriti, delusi e offesi della società sotto la spinta d'una tempesta economica che ha già sradicato gli equilibri esistenti fino a pochi mesi fa. A questa convergenza partecipano anche i sindacati "trattativisti" che riescono dal canto loro a tradurre in aggiustamenti parziali ma significativi gli effetti della protesta generale. La massima "marciare separati e colpire uniti" sembrerebbe esser stata fatta propria in questi ultimi giorni dai tre sindacati confederali.

* * *

L'annuncio al quale invece seguiranno i fatti è quello sulla riforma costituzionale della giustizia. Alcuni osservatori sostengono che anch'esso alla fine si rivelerà uno spot tra i tanti e finirà dimenticato in un cassetto, come accadde alla Lega per la sua campagna di tolleranza zero contro i "rom" e contro l'immigrazione clandestina, cadute entrambe nel dimenticatoio dopo i rilievi e le censure formulate dalla Ue.

La riforma costituzionale della giustizia non è dunque uno dei tanti spot dei quali è lastricato il percorso berlusconiano allo scopo di tenere alti i sondaggi con i fuochi d'artificio degli annunci che si susseguono uno all'altro. Berlusconi vuole costruire una Costituzione della maggioranza. In Parlamento i numeri li ha, nella società spera di averli. La Costituzione della maggioranza infatti ha bisogno di un referendum confermativo che Berlusconi non teme ed anzi desidera pensando di trasformarlo in un referendum su se stesso, sul suo decisionismo, sul suo carisma, sul suo costante appello ai fantasmi d'una destra e regoli una volta per tutte i conti con la sinistra "comunista", con la giustizia "corporativa", con il Parlamento "parolaio" e con la "casta" identificata con i partiti di opposizione.

Questo è il suo progetto e questo il suo futuro. Di fronte ci sono tutte le forze che non vogliono il cesarismo plebiscitario, la monarchia che coopta i successori, la fine dello Stato di diritto, il Capo illuminato e populista cui delegare i poteri con una cambiale firmata una volta per tutte.

La contesa è aperta, la prognosi è riservata. Ma al centro del campo c'è il Presidente della Repubblica, l'elemento di massima garanzia che si batterà fino all'ultimo per impedire che possa esistere una Costituzione di maggioranza che abrogherebbe di fatto la Costituzione democratica, lo Stato di diritto, la politica dell'inclusione e non quella dell'esclusione e della prevaricazione.

Si batterà fino all'ultimo, di questo possiamo esser certi, non per spirito di parte ma per preservare i principi fondamentali della Carta costituzionale dai quali discendono quei diritti e doveri di cittadinanza che sono il tessuto civile dell'Europa e del mondo intero.

(14 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Canto sua eleganza con parole che gemono e ricordo una brezza triste negli ulivi
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2008, 11:08:49 am
LA MORTE DI CARACCIOLO

Mezzo secolo insieme


di EUGENIO SCALFARI


Il nostro è un mestiere crudele e io lo so per diretta esperienza. Oggi tocca a me di scrivere il nostro addio a Carlo Caracciolo, il mio lamento su una persona alla quale mi legano 56 anni di vita comune. Vita professionale e vita privata, successi e insuccessi, amicizie e inimicizie, convinzioni politiche, esperienze, interessi.

Un mestiere crudele che mi obbliga a scriverne mentre Carlo è ancora vivo e riverso senza più conoscenza su un letto d'ospedale. Era malato da molto tempo e aveva attraversato le avversità della malattia con una forza come raramente accade di vedere, quasi indifferente a quanto accadeva nel suo corpo.
Quattro o cinque volte, dopo aver superato momenti di crisi che avrebbero potuto essergli fatali, me ne raccontava gli aspetti che gli sembravano comici e ci ridevamo insieme come ragazzi.

Poco più che ragazzi eravamo quando ci conoscemmo. Fu a Milano, autunno del 1952, nella sua abitazione in via San Damiano sul naviglio di corso Monforte. Lui già faceva l'editore di riviste tecniche, io ero stato da poco licenziato dalla Banca Nazionale del Lavoro a causa di irriverenti articoli pubblicati dal Mondo contro la Federconsorzi. Carlo cercava un direttore per la sua rivista Rivoluzione industriale, pensava che io fossi adatto a quel compito ma io rifiutai. Aveva 27 anni, io ero più vecchio d'un anno e qualche mese.

Di solito, quando debbo ricordare una persona scomparsa, cerco di raccontare quello che so di lei evitando il vezzo diffuso e intollerabile di raccontare se stessi, ma questa volta mi è impossibile seguire la regola che mi sono data: le nostre due esistenze sono state così intrecciate che ricordare uno dei due implica di ricordare anche l'altro sicché in questo caso diventa vero il luogo comune che un pezzo della mia vita se ne va con lui sotto la terra che ricoprirà il suo corpo o le sue ceneri.

***

Nell'ottobre del 1955 L'espresso iniziò le sue pubblicazioni. Proprietario ed editore Adriano Olivetti. Carlo era suo socio con il 10% delle azioni. Arrigo Benedetti lo dirigeva, io ne ero il direttore amministrativo. Ma dopo poco più d'un anno Adriano decise di ritirarsi da quell'impresa che aveva messo in orbita ma non gli corrispondeva. Lasciò il grosso delle sue azioni a Caracciolo e in piccola parte a Benedetti e a me. Fu a quel punto che la nostra amicizia diventò fratellanza.

Eppure eravamo molto diversi per carattere e per estrazione sociale. Io venivo da una famiglia di piccola borghesia, lui era principe, anche se non ha mai ostentato il rango di nobiltà. A tal punto che per molti anni ho pensato che l'avesse cancellato e non gliene fosse mai importato niente, lui giovanissimo partigiano in Val d'Ossola, lui repubblicano, lui laico pur avendo avuto parecchi cardinali in famiglia e un paio di beati.
Invece no, la sua indifferenza al titolo nobiliare era piuttosto una maniera ma non corrispondeva alla sostanza: si sentiva principe e lo era, il suo distacco faceva parte del costume familiare come la sua innata eleganza nei modi e nei pensieri. La sua ironia su se stesso e sugli altri. Il suo cinismo. La fermezza delle convinzioni. Il suo impegno civile.

Fu una curiosa figura di principe, Carlo Caracciolo di Castagneto, conte di Mileto e altri predicati che non ricordo. Ricordo però una visita che facemmo insieme molti anni fa al Comune di Napoli. C'erano ai lati del portone di quell'edificio due lapidi di marmo sulle quali erano incisi i nomi dei patrioti trucidati nel 1799, quando le bande contadine da un lato e la flotta inglese dall'altro rioccuparono la città ribelle e giustiziarono i "giacobini" che avevano governato la breve esistenza della repubblica partenopea.

In quell'elenco c'era il nome dell'ammiraglio Caracciolo, impiccato da Nelson sull'albero di maestra della sua nave, e quello di Marcello Eusebio Scotti, mio antico parente materno. Quella compresenza politica di due avi ci sembrò un segno di destino; la mettemmo sullo scherzo come era nostra abitudine, ma ci toccò profondamente come poi ci confessammo qualche anno dopo.

***

Nel 1976 fondammo la Repubblica. Da tempo avere un quotidiano nazionale che raggiungesse e magari superasse Il Corriere della Sera era il nostro sogno.
Sia Carlo che io abbiamo separatamente raccontato come cominciò quell'avventura, come si sviluppò e come raggiunse l'obiettivo che ci eravamo prefissato, sicché non sto a ripercorrerlo. Debbo dire però che, pur nella diversità dei compiti e delle responsabilità che ciascuno di noi due assunse in tutta la vicenda editoriale e giornalistica di quello che ora è il "Gruppo Espresso-Repubblica", io non avrei potuto intraprendere nulla senza di lui e reciprocamente lui senza di me. Ho già detto che eravamo diversi ma interamente complementari. In certe questioni e in certi momenti lui spingeva e io frenavo, in altre situazioni accadeva il contrario. Ma non è mai avvenuto in mezzo secolo di sodalizio che ci fossero tra noi sentimenti di rivalità, gelosie, invidie. Il progetto era comune e comuni gli sforzi e le responsabilità per realizzarlo.

Abbiamo rievocato pochi giorni fa la giornata in cui firmammo l'atto costitutivo della società editrice di Repubblica con Giorgio Mondadori e Mario Formenton nostri compagni di viaggio imprenditoriale nella bella villa di Giorgio a Sommacampagna.

Quando scegliemmo la linea della fermezza durante i 56 giorni della prigionia di Moro nelle mani delle BR. Quando scoppiò lo scandalo di Tangentopoli affondando la Prima repubblica e con essa la DC, il partito socialista e gli altri minori. Quando Silvio Berlusconi affrontò l'agone politico e cominciò un lungo conflitto tra noi e lui, che dura tuttora: sempre ci trovammo d'accordo e sempre ci prendemmo la comune responsabilità delle scelte.

In questa lunghissima vicenda abbiamo avuto compagni che non furono soltanto preziose presenze professionali ma amici veri e leali. Siamo stati fortunati nei nostri incontri. Voglio dirli i nomi di questi amici, sono sicuro che Carlo vorrebbe che siano ricordati anche se alcuni di loro non ci sono più: Franco Alessandrini, Lio Rubini, Bruno Corbi, Gianni Corbi, Cesare Garboli, Livio Zanetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto, Gigi Melega, Bernardo Valli, Luigi Zanda, Corrado Passera, Milvia Fiorani, Luigi Bianchi, Ezio Mauro, Daniela Hamaui. I redattori dei nostri giornali, delle radio, dei siti "on-line". Le segretarie dell'azienda. Carlo ne conosceva molti, ma conosceva soprattutto lo spirito d'appartenenza del corpo redazionale e sapeva che era quella la principale risorsa d'un gruppo che dalle quattro stanze di via Po 12, dove la nostra piccola storia è cominciata, conta ormai migliaia di persone e di famiglie in tutta Italia.

***

Carlo ha avuto molti amori e qualche figlio qua e là per il mondo. Infedele in questi suoi privati rapporti, quanto fu invece fedele nei rapporti professionali e fermo nelle convinzioni politiche. Legato tuttavia da profondi affetti familiari. Per la sorella Marella e il fratello Nicola e per Ettore. Per la figlia Jacaranda. Per il nipote Filippo. Per Violante Visconti, sua compagna per trent'anni e sua moglie fino alla morte avvenuta qualche anno fa.

Ebbe anche molti amici al di fuori dell'azienda: Carlo di Robilant, Piero Saint Just, Nicolò Pignatelli, Emanuele De Seta. Ma il racconto della sua vita sarebbe incompleto se omettesse il rapporto che ha avuto con Gianni Agnelli e con i figli e nipoti di Gianni e Marella ai quali è stato legato non solo da vincoli di sangue ma da profonda e quasi paterna amicizia.

Con Gianni c'è stata amicizia di avventure, comune passione per il rischio e una sottile competizione e rivalità. Per molti aspetti si somigliavano: l'eleganza, l'amore per la gara, l'amore per le donne, gli affetti familiari, l'azienda come luogo di appartenenza e progetto di futuro. Infine la bellezza fisica che ambedue avevano. Gianni però è stato perseguitato da una sorta di noia esistenziale che Carlo non ha invece mai conosciuto. La vita l'ha sempre divertito e in questo fu assai diverso dal cognato.

Ci fu tra i due un'altra intima assonanza: Carlo si sentiva principe, Gianni si sentiva re. Tutti e due ebbero una loro piccola corte di scioperati, di bizzarri, di buffoni, che è stata per loro una protesi della nobiltà di sangue.

***

Negli ultimi anni i nostri incontri si erano diradati, le nostre telefonate da pluri-quotidiane avvenivano ormai con cadenza settimanale e alle volte anche più lunga. Ma quando un fatto privato o aziendale o pubblico di rilievo accadeva, ci trovavamo simultaneamente con il telefono in mano per mettere in comune pensieri, giudizi e sentimenti.

Così è sempre stato, ma ora per me non sarà più e questo è il mio lamento. Perché tu - come canta il poeta nel lamento su Ignacio Sánchez - sei morto per sempre.

Questa canzone gli piaceva e più volte l'abbiamo citata tra noi, forse abbiamo pensato, ma senza confessarcelo, che uno di noi due avrebbe dovuto scrivere il suo lamento sull'altro, ma non sapevamo a chi sarebbe toccato.

"Canto la sua eleganza con parole che gemono/ e ricordo una brezza triste negli ulivi".

(16 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gelmini-Brunetta coppia perfetta
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2008, 12:45:58 am
Eugenio Scalfari

Gelmini-Brunetta coppia perfetta


I due ministri tolgono con le loro trovate le prime pagine dei giornali a Obama e Berlusconi. Dalle donne in pensione a 65 anni alla nuova paternità per i maschi fino ai regali ai fannulloni  Renato Brunetta e Mariastella GelminiIl ministro Brunetta è un fenomeno. Un 'recordman'. Un Guinness da primati. Si dice che aspiri al premio Nobel e non mi stupirebbe che glielo dessero anche se non riesco a individuare in quale disciplina. È animato da un'intensa passione: a qualunque costo deve farsi vedere. E ci riesce perfettamente. Crollano le Borse di tutto il mondo? I giornali italiani hanno Brunetta in prima pagina. Aumenta la tensione con l'Iran? Brunetta non cede. Supera perfino Tremonti nella grafica dei 'media', quanto a Calderoli, per ottenere una citazione deve parlare di lui. 'Brunetta - scherzetto' ha detto a proposito della pensione delle donne e questo gli è valso un po' d'attenzione.

Però era qualche giorno che Obama da un lato e Berlusconi dall'altro con quella storiaccia della giustizia da riformare, avevano oscurato il nome del nostro ministro della Funzione pubblica e così il piccoletto è passato al contrattacco. Con la pensione delle donne, appunto, da portare a 65 anni come per gli uomini. Titolo di apertura sulla carta stampata e nei telegiornali, 'talk show' televisivi, dibattito tra i partiti e tra i sindacati, insomma una 'revenge' in piena regola. Del resto anche questa mia nota a lui dedicata è la dimostrazione di quanto dico: Brunetta come visibilità non lo batte nessuno.

Il problema che questo caso ha sollevato è serio. In linea di principio è appoggiato da quasi tutti, soprattutto dalle donne lavoratrici, dirette interessate. Avere un posto di lavoro di questi tempi sta diventando un privilegio; poterlo conservare per cinque anni di più in attesa della pensione può essere una mano santa per il bilancio famigliare. Purtroppo i licenziamenti si intensificano col passare dei mesi e le lavoratrici precarie sono in prima fila tra le vittime designate; per loro il prolungamento della pensione non servirebbe a niente. A Tremonti invece può servire, 'fa cassa' nel bilancio dell'Inps cioè dello Stato.

La parità tra uomini e donne è comunque l'obiettivo principale che i movimenti femminili hanno scritto nei loro programmi dal 1968 in poi. La liberazione e l'emancipazione delle donne ha infatti come tappa fondamentale da raggiungere quella della parità, dalla quale siamo ancora molto lontani soprattutto nel campo del lavoro e del 'welfare' sui diritti sociali. Non sono parificati gli stipendi, non è parificato l'accesso al lavoro, non sono parificate le carriere né in termini di diritto né, soprattutto, in termini di fatto.

In queste condizioni prolungare l'età di pensione non alleggerisce il problema anzi lo aggrava. Rende più difficile alle donne conciliare la gestione della casa con il lavoro fuori casa in un paese dove difettano gli asili e il tempo pieno nelle scuole.

Ma Brunetta insiste, per lui queste contraddizioni sono una manna. Insiste sollevando un problema strettamente connesso: quello della paternità.

Questo della paternità è un tema che sta molto a cuore anche alla Gelmini per via del tempo pieno nelle scuole. Sulla Gelmini si possono dire molte cose pro e contro, simpatica e antipatica, bella o bruttina; ma su una cosa siamo tutti d'accordo: anche lei è un asso della visibilità, la sola (a parte Obama e Berlusconi) che può competere con Brunetta. Se poi dovessero addirittura far coppia diventerebbero irresistibili. Megagalattici, come si dice.

Ebbene, sul tema della paternità fanno coppia. Forse il significato di questa parola, che sta entrando di forza nel nuovo 'welfare', è ancora un po' oscuro, perciò cerchiamo di chiarirlo.

Il tema della paternità significa che il marito della donna-lavoratrice deve condividere con lei la funzione e il lavoro casalingo, nella gestione dei figli e più in generale della casa. Se la donna lavora, la condivisione della responsabilità casalinga diventa una necessità. Ma se, come è auspicabile, lavora anche l'uomo, la condivisione non può che significare un minore impegno dell'uomo nella sua carriera.

Brunetta (e Gelmini) parlano di incentivi all'uomo per invogliarlo ad assumere sempre più e meglio la sua parte casalinga senza trascurare troppo il suo lavoro fuori casa e la sua carriera. Insomma in una società ideale doppio lavoro per l'uno e per l'altra. Una coppia moderna. Ha detto Brunetta ai suoi contraddittori: "Volete forse far ritornare la donna all'età delle caverne e del paleolitico?".

È chiaro: Brunetta e Gelmini terranno le prime pagine almeno per altri tre mesi e poi ne inventeranno un'altra per continuare a farsi vedere. Il ministro della Funzione pubblica, lui, sta già preparando il nuovo fuoco d'artificio da lanciare: vuole premiare i 'fannulloni', pagandoli senza che vadano al lavoro, con metà stipendio. Potranno magari cercarsi un secondo lavoro. Fare per esempio i badanti e i casalinghi a mezzo servizio e a prezzi stracciati.

Quest'uomo, questo Brunetta, è formidabile. E pensare che era socialista (come Tremonti) e la sinistra se l'è fatto sfuggire.

(18 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Scelta riformista o cesarismo autoritario
Inserito da: Admin - Dicembre 21, 2008, 10:46:07 am
IL COMMENTO

Scelta riformista o cesarismo autoritario


di EUGENIO SCALFARI


I PARTITI non fanno più politica. Hanno degenerato e questa è l'origine dei mali d'Italia. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello: non sono più organizzazioni che promuovono la maturazione civile e l'iniziativa del popolo, ma piuttosto federazioni di correnti e di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss".
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali.

Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato e delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ottenuto vantaggi o sperano di riceverne o temono di non riceverne più.
La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendovi dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale nell'Italia di oggi fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo.

Ecco perché la questione morale è il centro del problema italiano ed ecco perché i partiti possono provare ad esser forze di serio rinnovamento soltanto se affronteranno in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche.

Queste righe che fin qui avete letto non le ho scritte io, non sono farina del mio sacco anche se le condivido parola per parola, e non sono neppure la citazione di qualche discorso di uomini politici di sinistra o di destra pronunciati in questi giorni.

Queste frasi le ha pronunciate Enrico Berlinguer in un'intervista pubblicata su Repubblica il 28 luglio del 1981, cioè ventisette anni fa e undici anni prima dell'inizio di Tangentopoli, ma è tremenda la loro attualità. E' tremenda perché significa che quel vizio non è stato estirpato e neppure scalfito. Permane esattamente come l'allora segretario del Partito comunista italiano l'aveva diagnosticato, con l'aggravante che ora la "diversità" comunista è caduta insieme all'ideologia che ne era in qualche modo il presidio.

Che sia caduta l'ideologia è senza dubbio un bene. La diversità non ha avuto più alcun appiglio ed è caduta anch'essa. La destra in questi giorni festeggia perché la sinistra non potrà più invocarla come un elemento di superiorità. Finalmente, dicono i berlusconiani, siamo tutti eguali.

Ma eguali nel peggio. Non sono le virtù civiche della destra ad essersi elevate dalla ricerca del bene proprio a quella del bene comune ma, semmai, quelle della sinistra ad essersi indebolite.

Quanto agli italiani, è vero che una parte di loro era ed è sotto ricatto come diceva Berlinguer, a causa dei favori ricevuti o attesi, ma la parte maggiore è soltanto schifata, ha perso fiducia, non ha più speranze, travolge nella stessa condanna la politica, i partiti, le istituzioni, la magistratura, le banche, il mercato. Metà degli elettori non vota più. Soltanto il Quirinale è esente da questo crollo di credibilità. E' importante che il presidente della Repubblica riscuota fiducia e rispetto da una quasi unanimità dei cittadini, ma non è sufficiente.

Il centrodestra, malgrado alcuni recenti scricchiolii, ha ancora il compatto sostegno dei suoi elettori, anche se su una base che si va restringendo.

Il centrosinistra, cioè il Partito democratico, ha fatto l'altro ieri la sua prima resa dei conti. C'è stato un ampio dibattito, una seria autocritica, le premesse d'una nuova partenza a poco più d'un anno dall'esordio. L'accoglienza dei "media" è stata nel complesso tiepida.

Come spesso accade, le cronache hanno dato maggior risalto alle polemiche interne che alle diagnosi condivise. Il mestiere crudele del giornalismo reclama soluzioni nette, bianco o nero, chi ha vinto e chi ha perso. Non sempre questo criterio riesce a cogliere la sostanza e meno che mai quando lo si applica alla politica. Perciò mettiamoci occhiali appropriati e guardiamo più a fondo quanto sta accadendo.

* * *

"Disuguaglianza sociale. Il dramma che l'Italia oggi sta vivendo è contenuto in queste due parole. Disuguaglianza sociale. È questa la grande, moderna questione che si pone oggi di fronte a noi. Colpevole non vedere, non rendersene conto. Imperdonabile non sentire bruciante sulla nostra pelle, per le nostre coscienze, il dovere di offrire risposte a questa realtà".
Le cronache dei giornali di ieri non riportano queste parole o ne fanno un cenno distratto, eppure esse aprono la relazione di Veltroni all'assise del Partito democratico e il fatto che non si tratti d'uno slogan ma di una drammatica constatazione è documentato da un lungo elenco di cifre e di situazioni che occupano la prima parte del discorso del segretario del Pd.

Sono cifre e situazioni che conosciamo, che provengono da fonti ufficiali e che non raccontano soltanto quanto avviene in Italia ma in tutto l'Occidente e in tutto il pianeta. La settimana scorsa citammo il pensiero di Joseph Stiglitz, premio Nobel dell'economia che individuava anche lui nella distribuzione malformata della ricchezza la piaga del mondo intero.

Si è scritto e detto che problemi di queste dimensioni non si affrontano soltanto con specifici provvedimenti se alle loro spalle non c'è una scelta culturale. Qual è la cultura della sinistra? Ebbene, è questa la cultura della sinistra: combattere la disuguaglianza sociale con tutti i mezzi che la politica è in grado di mobilitare. Nella relazione del segretario del Pd questi mezzi sono ampiamente elencati. Descritti. Confrontati con le risorse disponibili. Collocati dentro un calendario preciso. Dimostrati compatibili con le regole europee. Calati in un impegno programmatico. Non è questo che tutti gli osservatori e i critici indipendenti suggerivano, chiedevano, reclamavano? Ed ora che la risposta è arrivata ed è stata confortata da un voto quasi unanime, facciamo finta che si tratti solo di parole? Volevate dunque veleni e pugnali? Non siamo proprio noi, osservatori e critici indipendenti, a ricordare che in politica le parole sono pietre?

* * *

L'elenco degli obiettivi concreti, dei mezzi necessari a realizzarli, è lungo ed occupa almeno un terzo di quel documento, ma il punto centrale è questo: bisogna usare la leva del bilancio, la politica monetaria non basta più.

Bisogna cioè mandare il bilancio in deficit per il 2009 che sarà l'anno terribile della recessione. In deficit di un punto di pil, 16 miliardi di euro da aggiungere a quello stentato mezzo punto che Tremonti ha finora stanziato e che è chiaramente insufficiente a far fronte alla tempesta. Si tratta dunque di 22 miliardi complessivi per alleggerire il peso fiscale sul lavoro e sulle famiglie con effetti duraturi, per estendere alla massa di lavoratori precari la cassa integrazione, per istituire un sostegno di disoccupazione che duri almeno due anni. Nello stesso tempo occorre approvare un piano di rientro graduale del deficit nei limiti europei, che ci riporti all'equilibrio nel corso del biennio 2010-2011.

Questa è la proposta nelle sue linee essenziali. Una proposta da sinistra di governo, europea e responsabile, sulla quale raccogliere forza, consenso, alleanze politiche e sociali.

* * *

Ci sono altri punti nel programma di Veltroni: scuola e università, riforma della giustizia, energie alternative al petrolio, regole di mercato a tutela della concorrenza e delle pari opportunità sociali.

Ma i temi sui quali si aspettava al varco il segretario del Pd non erano questi. La mancanza di programmi alimenta la geremiade delle critiche, ma quando quella lacuna viene colmata le teste si voltano subito dall'altra parte perché i programmi annoiano chi è chiamato a dare un giudizio veloce e semplificato. Sicché si aspettava Veltroni al varco sul tema delle alleanze secondo l'adagio "dimmi con chi stai e ti dirò chi sei". Lo aspettavano al varco i "media" ma anche all'interno del Partito democratico.

Follini aveva presentato un ordine del giorno anti-Di Pietro, Enrico Letta e anche Massimo D'Alema guardavano con favore a quella proposta proponendo un'alleanza stabile con l'Udc di Casini. Altri perseguivano invece accordi con la sinistra di Vendola e di Bertinotti. Prospettive astratte sotto l'apparenza della concretezza.

Se il partito di Casini si alleasse stabilmente con il Pd perderebbe a dir poco metà dei suoi elettori che sarebbero risucchiati nell'area berlusconiana. E se il Pd si alleasse stabilmente con la sinistra di Vendola, perderebbe gran parte degli ex Margherita che sarebbero risucchiati da Casini. Proposte di questo genere non sono dunque politicamente apprezzabili.
E vero invece che il Pd è oggettivamente il partito più forte dell'opposizione. Se riuscirà a rilanciare la sua immagine, le altre opposizioni, ciascuna nei suoi modi e nei suoi tempi, troveranno elementi di raccordo per marciare separati e colpire uniti il comune avversario.

Resta il problema Di Pietro che però non è la causa ma l'effetto della crisi del Pd. Di Pietro ha intercettato il "grillismo" che è l'effetto della debolezza dei partiti della sinistra e del riformismo democratico. Se il riformismo non delude, il "grillismo" declina e di Pietro anche. Con lui comunque l'alleanza è rotta da un pezzo. Alleanze locali non fanno testo anche se è meglio limitarle al minimo.

* * *

Veltroni ha fatto molti errori. Ha perso troppo tempo e non ha avuto idee chiare sulla natura del partito da creare. Ha ragione D'Alema di lamentare un'amalgama senza strutture. Ha ragione Chiamparino di reclamare un ascolto finora scarso delle esigenze del Nord. Hanno ragione i molti che reclamano rigore e non tolleranza verso le pastette di molti amministratori meridionali Il dibattito è stato vivace e in certi momenti aspro.

Contributi di valore sono venuti da D'Alema, Reichlin, Ruffolo, Bersani. Bassolino ha parlato anche lui senza neppure una volta nominare Napoli e la Campania. Una reticenza di queste proporzioni non si era mai vista prima da parte di un vecchio dirigente politico. A volte il vino migliora con gli anni ma altre volte svapora e diventa aceto. Il caso Bassolino è uno di questi.

* * *

Non si può eludere la domanda se Veltroni esca rafforzato da questo dibattito e se il Partito democratico possa superare la pessima congiuntura delle ultime settimane. Se è vero che la questione morale e quella della disuguaglianza sociale costituiscono il cuore del problema italiano (e mondiale), aver messo tutte e due al primo posto nell'agenda del Pd dà buone prospettive al rilancio di quel partito. In parte dipende da Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Marini e gli altri dirigenti vecchi e nuovi. In parte dai giovani di seconda e terza fila per i quali è venuta l'ora di farsi avanti. Ma in grandissima parte da tutti quelli che sperano e vogliono un riformismo serio, audace e vorrei dire allegro, impegnato, competitivo, creativo. Il partito deve fornire le infrastrutture affinché il riformismo divenga adulto e sia luogo di rinnovamento di una società spaventata e atterrita.

Se il riformismo pianterà le sue radici anche la destra cambierà. La società italiana cambierà. Al di là delle diverse opinioni, questa dovrebbe essere una speranza comune nella direzione che ogni giorno ci indica Giorgio Napolitano insieme con lui Ciampi e Scalfaro. Per il bene della democrazia e della Repubblica.

* * *

Post Scriptum. Ieri sera Berlusconi ha lanciato l'ennesima provocazione: ha proposto l'elezione diretta del Capo dello Stato, cioè un plebiscito sul suo nome. Ha aggiunto che lo metterà in votazione tra qualche tempo. Si completerebbe così il disegno che da tempo porta avanti di uno stravolgimento costituzionale culminante nel cesarismo. Davanti ad un personaggio di questa natura non si capisce come possa nascere il Partito della libertà, cioè l'unione tra Forza Italia e An con dentro Fini che pochi giorni fa ha condannato il cesarismo mentre Bossi dichiarava: "Non vogliamo monarchie". O sono tutti ipocriti o sono tutti ammattiti.

In queste condizioni il Pd e le altre forze di opposizione sono la sola diga che possa trattenere l'Italia in un quadro democratico europeo impedendo un'avventura con sbocchi autoritari. La grande crisi del 1929 produsse due soluzioni politiche nel mondo occidentale: quella democratica di Roosevelt e quella fascista e nazista. Le condizioni attuali non sono quelle di allora ma la scelta è ancora una volta questa.

Noi italiani abbiamo già dato.

(21 dicembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La triste storia dell'Italia corrotta
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:59:43 am
La triste storia dell'Italia corrotta


di EUGENIO SCALFARI

L'ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno?

Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all'ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell'ordine giudiziario e di stroncare l'immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell'immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione.

Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera e da Guido Crainz su Repubblica.

Quest'ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia?

In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell'ultima guerra e molto prima del fascismo, l'Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D'Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di "cagoia", Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.

A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia.

"I Vicerè", il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della "romanità": l'impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un "combinat" di forza militare e di corruttela pubblica. Nel "De Bello Jugurtino" Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: "Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore".

Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante?

* * *

Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell'erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all'Italia moderna.

Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti.

Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano.

L'opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati.
Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell'esercito, gli imprenditori.

Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati.
Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia.

Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio.
Domenica scorsa ho citato l'intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l'occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci.

La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall'estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall'esistenza d'una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall'appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell'assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l'arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose.

* * *

Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L'ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s'incontra in tutti i paesi, dove c'è la democrazia e dove c'è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d'una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c'è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l'evanescenza dello stato di diritto.

Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C'è stato nell'ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società.

Quest'azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell'ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i "non possumus" emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt'altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all'indietro) senza riscontro nelle democrazie d'Europa e d'America.

* * *

Se c'è stato - e c'è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità.

Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall'avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi.

Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere.

Da questo punto di vista una riforma della giustizia s'impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi:
1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome.

2. Il conferimento dell'azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi.

3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l'ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono.

Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l'ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo.

Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità.

Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell'opposizione a minacce e lusinghe.

Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro

(28 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La guerra e l'etica della morte e della vita
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2009, 11:57:14 am
IL COMMENTO

La guerra e l'etica della morte e della vita

di EUGENIO SCALFARI


LA guerra di Gaza sta drammaticamente aumentando la sua intensità di ora in ora: è iniziato l'attacco di terra, sono state bombardate le moschee, Israele ha richiamato migliaia di riservisti e messo in stato d'allerta il nord del paese in previsione di possibili ostilità anche con Siria e Libano. L'incendio divampa su tutta la "Striscia" con ripercussioni anche in Cisgiordania dove ci sono i primi segnali di una terza "Intifada", nei Paesi Arabi e nella diaspora palestinese in Europa e negli Stati Uniti.

Intanto gli arabi israeliani si sentono sempre meno cittadini di Israele e solidarizzano con manifestazioni di piazza in favore dei "fratelli" palestinesi. Il risultato di queste varie dinamiche è un isolamento di Israele di fronte alla comunità internazionale. In Italia, a Roma e a Milano, i palestinesi immigrati nel nostro paese hanno anche bruciato le bandiere di Israele provocando contestazioni all'interno dello schieramento politico italiano.

Contestazioni certamente valide in punto di diritto internazionale ma poco rilevanti di fronte alla sproporzione evidente della reazione israeliana a Gaza. Il dato di fatto oggettivamente osservabile è l'isolamento del governo di Gerusalemme di fronte all'opinione pubblica europea e araba.

Per rompere questa sorta di accerchiamento politico il solo sbocco possibile è quello del negoziato. L'alternativa è quella d'una lotta senza quartiere, l'invasione di Gaza e lo sterminio di Hamas, non più centinaia ma migliaia di morti civili, la fine di ogni opzione pacifica. Molto dipende dall'Europa, da Obama, da Putin. Con una valutazione dei costi e dei benefici che andrebbe ben oltre lo scacchiere medio-orientale riportando in prima fila l'Onu come unico tavolo di confronto mondiale.

* * *

Le tensioni religiose della guerra di Gaza non sono da sottovalutare. L'influenza del messaggio cristiano è stata finora pressoché nulla. L'interpretazione bellicista del Corano ha fatto altri passi avanti. Quanto a Israele, il Dio biblico non è tanto quello di Abramo e di Salomone quanto il Dio degli eserciti di Saul e di David, il Dio vendicatore e vendicativo. Sotto la spinta di questi fatti la Chiesa di Roma ha compiuto un passo avanti. Poco influente, come abbiamo già detto, sull'atteggiamento dei belligeranti, ma molto importante per quanto riguarda il tema della non violenza e della pace.

Quella della non violenza e del pacifismo è relativamente recente nella Chiesa di Roma, non si risale molto più indietro di Pio XI e di Benedetto XV, ma si trattava ancora di tracce labili. I passi più risoluti si ebbero con papa Roncalli e con il Vaticano II. Wojtyla stabilizzò quella scelta. Papa Ratzinger l'ha recentemente accentuata. L'indisponibilità della vita è ormai - così sembra - una scelta irreversibile della gerarchia ecclesiastica. E tuttavia, come sempre accade, dalla soluzione d'un problema altri ne scaturiscono.

Così sta accadendo che l'indisponibilità della vita abbia rafforzato il principio dell'indisponibilità della morte. Ne deriva un'intransigenza sempre più ferma nel campo della bioetica dove si discutono i temi eticamente sensibili della modernità: la vita e la morte, il dogma e la libertà di coscienza, l'etica e la scienza, la politica e la teologia. La discussione su questi temi si svolge in tutto l'Occidente ma in particolare in Italia, nel giardino del papa cattolico. Perciò noi italiani ne siamo particolarmente coinvolti.

* * *

Proprio in questi giorni il tema è stato riproposto dal caso Englaro e da altri consimili dando luogo all'ennesimo conflitto tra la gerarchia ecclesiastica e il pensiero laico. Il Vaticano, partendo dalla sua scelta sull'indisponibilità della vita, ne ha dedotto una serie di conseguenze estremamente rigide sull'intera gamma della bioetica, con l'intento di restringere i confini della libertà individuale.

I "media" non hanno dato molto spazio alla discussione registrando quasi senza commento le posizioni vaticane. Ha fatto eccezione "Repubblica": in meno di una settimana il nostro giornale ha pubblicato un articolo di Aldo Schiavone, uno dei Cavalli Sforza (padre e figlio), un altro di Marco Politi su un'indagine effettuata sui giovani del Triveneto, uno (di ieri) di Miriam Mafai. Il nostro è un giornale molto attento alle questioni religiose e ai confini tra la gerarchia ecclesiastica, la laicità dello Stato, l'autonomia della coscienza individuale, l'etica privata e l'etica pubblica. Perciò non può meravigliare se il dibattito si svolge intensamente sulle nostre pagine.

Stupisce tuttavia il silenzio pressoché completo della stampa nazionale, quasi che il tema meriti d'esser registrato ma non dibattuto. Questa assenza non può che stimolarci ad offrire spazio e respiro ad un confronto essenziale su temi essenziali. Per quanto mi riguarda prenderò come riferimento l'articolo di Aldo Schiavone del 31 dicembre scorso perché è quello che a mio avviso affronta la questione in tutta la sua complessità.

* * *

Scrive Schiavone che c'è nel nostro tempo una grande richiesta di etica: nella società pubblica e nei comportamenti privati, nella scienza e nella tecnologia, insomma in tutto il vissuto della modernità.
Forse è vero che ve ne sia bisogno, ma che ve ne sia vera richiesta a me non pare. Tutt'al più c'è una richiesta retorica, cioè una simulazione di richiesta che vale soprattutto per gli altri ma quasi mai per se stessi.
Dalla richiesta di etica Schiavone fa discendere la necessità di rivolgersi alla Chiesa che sarebbe "il principale deposito di etica nell'Occidente cristiano".

Qui è necessario distinguere. La predicazione di Gesù di Nazareth, come ci è stata tramandata dai Vangeli (non soltanto i quattro canonici), dalle lettere di Paolo, dagli Atti degli apostoli, contiene certamente un messaggio etico di formidabile e duratura intensità. Questo messaggio la Chiesa l'ha tramandato, sia pure con notevoli aggiustamenti, ma quasi mai praticato. C'è stata, nei suoi duemila anni di storia, un'ala che ha non soltanto predicato ma praticato il messaggio evangelico: un'ala minoritaria, da Benedetto a Francesco, da Antonio a Bernardo, a Saverio, a Ignazio (non parlo dei mistici che sono altra cosa).

Quest'ala è stata tollerata e utilizzata dalla gerarchia che ha però seguito e praticato la strada opposta. Il deposito etico della gerarchia è stato contraddittorio e pressoché nullo, come avviene in tutte le strutture di potere. Le chiese cristiane, e quella cattolica in particolare, sono state e sono tuttora strutture di potere. L'etica può riverberare su di esse una parte dei suoi contenuti e precetti ma esse non ne sono in nessun caso la fonte sorgiva "per la contraddizion che nol consente".

Infine: Schiavone lamenta che la cultura laica, di fronte al fiorire di quella cattolica, sia muta, assente, dispersa e comunque impari al bisogno che ce ne sarebbe. Impari forse. Dispersa può darsi perché i laici non sono una struttura e non hanno un Papa che parli per tutti. Ma muta e assente non direi. I laici hanno molti punti di riferimento, convinzioni radicate e comuni e una comune storia di pensiero evolutivo. All'origine ci sono gli stoici e Socrate e poi via via Epitteto, Epicuro, Montaigne, Descartes, Pascal, Spinoza, Diderot, Voltaire, Kant.

Anche il pensiero laico ha una storia plurimillenaria che arriva fino a noi contemporanei. Non dobbiamo inorgoglircene ma tanto meno dimenticarcene. Qui finiscono alcuni miei dissensi con l'amico Schiavone, con il quale invece consento pienamente sulla diagnosi che riguarda il rapporto tra scienza e tecnica da un lato, libertà e autonomia individuale dall'altro.

* * *

La vita e la morte sono sempre più fenomeni artificiali oltre che naturali a causa del progredire della ricerca scientifica e delle sue applicazioni tecniche. Fenomeni artificiali perché la tecnica è sempre più in grado di supplire alle carenze naturali. Consente la procreazione anche a chi non può ottenerla secondo natura; prolunga la vita e sconfigge la morte prevenendo e vincendo la malattia.

Fenomeni artificiali e perciò culturali che hanno bisogno di normative giuridiche capaci di conciliare i desideri dei singoli con gli interessi della collettività.
Scienza e tecnica continuano e continueranno ad evolversi, a sperimentare, a consentire opzioni sempre migliori, ma non vogliono né possono sostituire la natura. Se non altro per il fatto che l'umanità, la specie e gli individui che ne sono parte, è una delle innumerevoli forme della natura.

Scienza e tecnica sono prodotti mentali dell'uomo e quindi protesi della natura. In questo stadio dell'evoluzione esistono zone grigie dove le protesi consentono risultati al prezzo di sofferenze e/o limitazioni a volte sopportabili, a volte radicali. Di fronte ad esse l'individuo rivendica legittimamente libertà di scelta: se accettare le soluzioni o rifiutarle.

Piena libertà ai depositari di fedi religiose di indicare e raccomandare soluzioni conformi all'etica da essi predicata senza però che quelle soluzioni possano essere imposte a chi (fosse uno soltanto) non condivide quelle raccomandazioni. Questo è il limite di uno Stato laico, pluralista e non teocratico.

Non sembra che la Chiesa la pensi così. Sembra invece che pretenda che le sue indicazioni nel campo della bioetica divengano norme giuridiche imperative. Ebbene, va ripetuto alto e forte che questo passo non potrà mai esser compiuto poiché segnerebbe la scomparsa della laicità a favore d'un fondamentalismo che l'Occidente ha storicamente archiviato da 250 anni. Un salto all'indietro di questa portata, esso sì, segnerebbe il ritorno ad un oscuro Medioevo e la scomparsa dei valori della nostra civiltà, inclusi quelli della predicazione cristiana.

(4 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I sacchetti di sabbia non fermano l'oceano
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 01:17:26 am
IL COMMENTO

I sacchetti di sabbia non fermano l'oceano


di EUGENIO SCALFARI


UN ANNO fa definimmo la società italiana come uno specchio rotto nel quale era diventato impossibile specchiare un'identità collettiva, una visione unitaria del bene comune e l'esistenza operante d'una classe dirigente degna del nome. Ma da allora, quell'immagine, che ebbe una certa fortuna, non è più appropriata. Lo specchio non è soltanto rotto: è ridotto ad una poltiglia, non riflette nessuna immagine per minuscola che sia. Non riflette neppure i nostri personali egoismi perché sono anch'essi diventati poltiglia.

L'egoismo nasce attorno ad un interesse concreto, ad un obiettivo ben determinato da perseguire, da realizzare o da difendere. Ma noi non sappiamo più quale sia quell'interesse che potrebbe darci una felicità sia pure precaria. Oscilliamo come fuscelli al vento, galleggiamo su un terreno di sabbie mobili che ad ogni passo minaccia di inghiottirci.

Quel che è peggio, questa poltiglia ha ricoperto l'intera società internazionale, al punto che perfino il mito e le speranze suscitate da Barack Obama si stanno sbriciolando prima ancora che si sia insediato alla Casa Bianca, i suoi piani di contrasto alla crisi economica oscillano tra spese pubbliche e sgravi fiscali, le cifre cambiano ogni giorno mentre la disoccupazione cresce con velocità esponenziale.

È già arrivata all'8 per cento ed è lo stesso Obama a temere che nei prossimi mesi potrebbe superare il 10 della forza lavoro se non si interverrà subito. Gli economisti parlano di trilioni di dollari, ma neppure l'America può mobilitare cifre di questa dimensione a carico del bilancio pubblico già in disavanzo di 1.200 miliardi.

La guerra di Gaza è un altro evento paradossale dove tutti i protagonisti hanno almeno una buona ragione per continuare a massacrarsi. Una buona ragione, ma nessuno sbocco politico con la conseguenza che la comunità internazionale ha di fatto derubricato quel massacro dalle proprie priorità. I morti hanno superato gli ottocento, i feriti i tremila, metà della popolazione è senza elettricità e senz'acqua se non per un'ora al giorno, negli ospedali senza medicine i medici amputano gli arti colpiti perché non sono in condizioni di curarli. Così si va avanti, tra i razzi lanciati da Hamas e le cannonate e le bombe lanciate da Israele. La ragione e il torto sono poltiglia anch'essi.

Questa situazione di tutti contro tutti è generale. Ci fosse almeno un'ideologia cui aggrapparsi, ma sono state tutte azzerate, i liberisti di ieri sono ormai i fautori più zelanti dello statalismo, i marxisti hanno scoperto con l'entusiasmo acritico dei neofiti le virtù del mercato.

L'Ucraina taglia il gas e Putin ci specula sopra giocando al rialzo sul prezzo del petrolio. La Cina ha dimezzato il ritmo della sua crescita, dal 12 in pochi mesi è scesa al 7 per cento. Il rallentamento colpisce principalmente quei 300 milioni di cinesi che erano emersi dalla marea contadina formando il primo nucleo d'una intraprendente borghesia. La crisi americana ha bloccato le esportazioni, i consumi interni sono ancora ben lontani da costituire una massa critica alternativa.

La crescita vertiginosa della Cina ne ha fatto il principale finanziatore del Tesoro americano. Se Obama vorrà mobilitare due o tre trilioni di dollari per creare tre milioni di nuovi posti di lavoro, gran parte di quello sforzo sarà la Cina a doverlo sostenere; ma la Cina a sua volta dovrà finanziare il mercato interno per compensare la caduta delle sue esportazioni. Qui nasce il dilemma tra due contrastanti alternative ed è un dilemma che coinvolge l'intera economia mondiale.

Intanto la Merkel, liberista ad oltranza, ha dovuto nazionalizzare la Commerzbank e sta per fare altrettanto con la Opel. Il premier inglese stampa moneta e la sterlina registra una svalutazione di quasi il 40 per cento rispetto all'euro. Sarkozy ha brillato di luce propria nel suo semestre di presidente europeo, ma il suo meritorio attivismo ha tenuto la scena senza lasciare tracce durevoli; adesso si è ridotto ad organizzare forum economici avendo Tremonti ed Enrico Letta come ospiti di eccezione.

Così vanno le cose nel mondo. L'Italia sta meglio o meno peggio degli altri, questa è l'opinione sostenuta da Tremonti che sembra molto sicuro di ciò che dice. Finora la gente sembra credergli ed è un bene che sia così. Il giorno che si accorgesse della bugia potrebbero accadere cose molto spiacevoli nel nostro paese. Personalmente non me lo auguro ma purtroppo l'ottimismo di Tremonti poggia anch'esso sulle sabbie mobili e lui ne è perfettamente consapevole. A chi gli domanda che cosa prevede per il 2009 risponde: "Non ho la palla di vetro". Ma non aveva capito fin dal giugno scorso che cosa sarebbe accaduto? Allora la palla di vetro l'aveva, se l'è persa per la strada? Un fatto è certo: finora non ha fatto nulla o quasi nulla per cementare quel pantano.

* * *

Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell'economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta.

Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l'azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto.

L'affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l'altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l'intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l'Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d'una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese.

Questa soluzione fu definita "svendita" da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell'azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l'insensatezza di questo "vaudeville" per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c'era più, affondata nella poltiglia generale.

Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi.

Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro.

Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la "Meridiana" il cui amministratore ha scodellato le cifre in un'intervista a Repubblica di tre giorni fa.

Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d'amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt'altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l'azionista di comando. Di fatto lo è già.

Bisognava all'ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata.

Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l'aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava.

"Malpensa ha tutte le chance per essere l'"hub" (l'aeroporto internazionale) italiano" ha detto il ministro dell'Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un'impensabile scelta politica.

Bisognava però a quel punto prendere in giro l'opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata "liberalizzazione", alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali.

Ebbene, quella parola "liberalizzazione" nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l'ha per l'area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell'Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l'ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli "slot".

Per arrivare ad un'effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa.

* * *

Se il buongiorno si vede dal mattino, l'imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l'elemosina della "social card" finanziata in modo assai dubitabile.

Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione.

Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d'una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell'abolizione dell'Ici e nel costo dell'Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l'evasione torna ad aumentare.

Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l'ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l'oceano.

(11 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Musica che dà un senso alla vita
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:17:58 pm
Eugenio Scalfari.


Musica che dà un senso alla vita


Nella messa di requiem di Verdi l'anima si trasfigura nell'anelito verso la salvezza; Mozart invece restituisce l'umanità agli elementi in un giorno apocalittico: 'Dies irae, dies illa'  Tratterò oggi un tema inconsueto per questa pagina: due messe di 'requiem', quella di Giuseppe Verdi eseguita per la prima volta a Milano nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni morto l'anno precedente, e quella di Mozart, K 626, composta nel 1791 nell'imminenza della prematura scomparsa del grande compositore salisburghese.

Il 'requiem' verdiano è stato eseguito pochi giorni fa nell'Auditorium di Roma dall'orchestra e coro di Santa Cecilia diretti dal maestro Pappano. Quella musica così intensa, ricca di armonia e perfino di frasi melodiche inusuali per un testo di musica sacra ha la capacità di suscitare sentimenti altrettanto intensi nell'animo di chi l'ascolta: la morte, la vita, la trascendenza, la profezia, il giudizio, la pietà. La potenza del divino. La miserabilità delle creature.
Proprio l'intensità di questi temi e la loro incombenza esistenziale mi ha spinto a riascoltare la messa di 'requiem' mozartiana, secondo me una delle opere più alte che siano state scritte nella storia della musica. So che questo giudizio non è molto condiviso dalla critica militante, ma io non sono un critico, perciò mi valgo della libertà di esprimere il giudizio di un ascoltatore attento e partecipe.

Secondo me il 'requiem' di Mozart tocca corde e suscita emozioni ancor più profonde di quanto non avvenga con quello di Verdi. Non sto confrontando due testi per stabilire quali dei due sia esteticamente più riuscito dell'altro, operazione impossibile e criticamente assurda. Sto invece confrontando il coinvolgimento emotivo che quei due spartiti provocano nella sensibilità degli ascoltatori o, per esser più esatti, nella mia.
La messa verdiana fu composta a blocchi, in tempi diversi. Una parte Verdi la scrisse in occasione della morte di Rossini, ma non la completò. Una decina d'anni dopo morì Manzoni e fu questa l'occasione che gli fece completare lo spartito.

La storia del K 626 è ancor più complicata: Mozart la scrisse su commissione di un nobile viennese, ne iniziò la composizione nel febbraio del 1791 ma la morte sopraggiunse in dicembre e l'opera rimase incompiuta. Le parti del 'Sanctus', dell''Agnus Dei' e della 'Lux aeterna' mancavano del tutto e il musicista chiamato dalla moglie a completare la partitura utilizzò i temi che Mozart aveva usato nel 'Kyrie' di apertura variandone l'orchestrazione.
La conseguenza di questa operazione è stata a mio avviso positiva: ha dato compattezza alla partitura senza impoverirne la creatività.
Queste due messe da 'requiem' non sono composizioni ascrivibili al genere della musica sacra. Sia per Mozart sia per Verdi sono state occasioni per confrontarsi con la morte e con i temi ad essa connessi.

Verdi è stato il creatore del melodramma romantico. Quella era la sua cifra e quella emerge anche nel 'requiem' con indicibile potenza espressiva: il testo liturgico della messa funebre offre infatti una traccia che tocca i vertici della drammaticità: la fine della vita, l'attesa del confronto col Signore dei cieli, la solitudine dell'anima e il rimorso dei peccati commessi, la tragica prospettiva delle bolge infernali e l'anelito alla beatitudine del Paradiso. Si può avere un libretto d'opera più intenso di questo?
Verdi lo usò profondendovi tutte le sue potenzialità poetiche e melodiche, affidando ai solisti la parte principale e utilizzando il coro come commento alle vicende del testo. Insomma il racconto dell'anima nel momento del trapasso dal mondo all'oltremondo. O al nulla.

Il 'requiem' mozartiano non ha invece alcuna parentela con il melodramma. Infatti è il coro a farla da protagonista mentre i solisti sono utilizzati per sottolineare i titoli del testo liturgico. Il coro cioè l'umanità, la specie più ancora che l'individuo, nel momento del confronto definitivo col creatore mentre risuonano le trombe del giudizio.
I violini e in generale gli archi hanno un ampio ruolo nel testo verdiano mentre in quello mozartiano predominano gli ottoni e i bassi. La scansione è solenne e ritmata laddove Verdi osa addirittura intrecciare la marcia con i tre tempi del valzer e con le melodie della romanza.

Mozart tocca il culmine nel 'Confutatis maledictis' e nel 'Lacrimosa', Verdi raggiunge il diapason nel 'Libera me Domine' e nel finale 'Lux aeterna'.
L'anima verdiana si trasfigura nell'anelito verso la salvezza; il 'requiem' di Mozart restituisce invece l'umanità agli elementi in un giorno apocalittico "Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla...".
Due grandiosi componimenti sulla morte, capaci di dare un senso alla vita.

(16 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I tormenti di Tremonti nell'anno terribile
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:38:21 pm
IL COMMENTO

I tormenti di Tremonti nell'anno terribile

di EUGENIO SCALFARI


Lo dico senza ironia: mi sto sempre più affezionando a Tremonti perché lo vedo profondamente tormentato. Per molto tempo non ho preso sul serio quella sua melanconia, pensavo che facesse parte d'una recita lucidamente messa in scena per ingraziarsi il pubblico e le gazzette e - magari - rafforzare la sua futura candidatura politica a succedere al suo "boss" quando il momento verrà. Ma ora credo d'aver capito le cause di questo suo sentimento.

Tremonti teme che nell'anno terribile che abbiamo appena cominciato a percorrere il Tesoro non riuscirà a raccogliere sul mercato italiano ed europeo i denari necessari a finanziare il fabbisogno necessario per le casse esangui dello Stato. Teme - ed ha ragione di temere - che i titoli italiani non troveranno sottoscrittori, attratti dai titoli emessi dagli altri paesi membri dell'Unione europea e in particolare dalla Germania e dalla Francia.

Ci sarà, in questo 2009, una marea di nuove emissioni per finanziare i deficit dei bilanci europei, tutti in grave disavanzo per arginare con maggiori spese e con sgravi fiscali la recessione ormai in atto. I risparmiatori chiamati a scegliere a quale titolo affidare i loro risparmi preferiranno i "bond" tedeschi e francesi o addirittura i "Treasury bond" del Tesoro americano, a quelli italiani. Non inganni l'andamento delle ultime aste, dove la domanda di Buoni del Tesoro a tre mesi è stata superiore all'offerta. Si trattava di importi relativamente modesti e Germania e Francia dal canto loro non avevano ancora inondato il mercato con emissioni massicce. Ma nel prossimo futuro non sarà più così. L'incubo di Tremonti è questo: fare la fine della Grecia, dell'Irlanda, della Spagna e della stessa Inghilterra.

La Grecia, se non interverrà a tenerla in piedi il Fondo Monetario internazionale, finirà addirittura fuori dall'euro; l'Irlanda corre lo stesso rischio.

L'Italia è ancora lontana da quella soglia, ma il pericolo non è immaginario, esiste ed è concreto.

L'alternativa sarebbe quella di stampare carta moneta, ma questo è un potere che ha trasmigrato da Roma a Francoforte, non è più sotto il controllo della Banca d'Italia ma della Bce. Senza dire delle conseguenze anomale (e quanto anomale) che una politica del genere produrrebbe sul tessuto dell'economia reale e di quella finanziaria.

Questa è la vera ragione della recente "fede" europeista di Tremonti, del suo tentativo di creare un "fondo sovrano" europeo, una Cassa Depositi e Prestiti europea, una Bei (Banca europea degli investimenti) dotata di fondi eccezionali per il finanziamento di opere pubbliche.

Tremonti ha puntato tutto su queste ipotesi, nessuna delle quali è andata però a buon fine. Ora sta puntando su aiuti europei ai vari settori industriali in difficoltà, a cominciare dall'automobile, ma su questa strada non si potrà far molto se non allargare i cordoni della borsa per aiuti nazionali e coordinati alle imprese automobilistiche che lavorino a nuovi tipi di autovetture "verdi", alimentate da energie alternative. Briciole, ipotesi futuribili, che Germania e Francia hanno già superato per evitare fallimenti a catena e disoccupazione dilagante, per non parlare degli aiuti americani agli ex "grandi" di Detroit.

Il nostro ministro dell'Economia aspetta di vedere fino a che punto Obama interverrà nella politica economica Usa e come reagiranno le autorità europee. Non farà nulla senza il consenso dell'Europa e senza la partecipazione finanziaria dell'Europa. Altre alternative non ci sono.

Il suo peccato originale fu di consentire nel giugno scorso l'abolizione dell'Ici, l'operazione Alitalia, lo sperpero d'un paio di miliardi in regalie varie, un totale di otto-dieci miliardi di euro che oggi sarebbero stati preziosi anche se insufficienti.

Peccato di omissione, mancata resistenza alla fuga in avanti del suo "boss". Di qui il suo tormento. Come persona fa tenerezza, come responsabile politico dell'economia si trova in una difficilissima posizione che lo spinge a sottovalutare in pubblico la gravità d'una situazione a lui perfettamente nota.

* * *

I tormenti di Tremonti sono naturalmente una metafora; quello che ci importa sono i mali del paese, cioè di tutti noi. In parte ereditati da vent'anni di dissipazione e di crescenti e non più tollerabili diseguaglianze sociali e territoriali; in parte aggravati da un quindicennio berlusconiano che ha approfondito quelle diseguaglianze e dissestato ulteriormente i conti pubblici.

Veltroni ha detto l'altro giorno una verità nota da sempre agli specialisti ma mai resa esplicita nel dibattito pubblico: ogni volta che Berlusconi è stato al governo la spesa è aumentata di due punti di Pil. Aumentata e dissipata, con diseguaglianze che hanno ora contagiato anche il Nord. C'è un Nord ricco di fronte ad un Sud povero, ma anche un Nord ricco di fronte ad un Nord povero in via di progressivo ulteriore impoverimento.

Tremonti ha certamente un piano per superare l'anno terribile; quale sarà lo si è capito da tempo: trasferire risorse da Regioni e Comuni al Bilancio dello Stato.
Queste risorse serviranno a triplicare il finanziamento della Cassa integrazione, che per far fronte al crollo della produzione dovrà passare da 1,2 miliardi a quattro; ma almeno altri due miliardi gli serviranno per estendere gli ammortizzatori ai licenziati e licenziandi che vengono dal lavoro precario e anche dal lavoro nero. Infine gli sgravi fiscali per sostenere le famiglie e i loro consumi.

Mettendo tutto insieme, solo per far fronte a questo livello minimo di resistenza ci vorranno dieci miliardi in aggiunta ai cinque già previsti dal decreto anticrisi approvato tre giorni fa dalla Camera. Dieci miliardi sottratti a Regioni e Comuni, cioè a servizi e opere pubbliche di immediata fattibilità.

Si parla molto in queste settimane dei guai e delle discordie nel Partito democratico. Sono fatti spiacevoli e grattacapi seri, ma quisquilie se si confrontano con il fallimento d'una politica economica inerme e impotente di fronte alla più grave crisi degli ultimi ottant'anni.

La recessione del Pil del 2 per cento nel 2009 è ormai certificata dalle istituzioni internazionali. "Si ritornerà al Pil del 2005" ha detto il ministro dell'Economia ostentando la massima calma e aggiungendo: "Non è certo un ritorno al Medioevo". Con tutto il rispetto, onorevole ministro, a me paiono parole irresponsabili perché dietro quell'arida cifra del 2 per cento ci sono milioni di famiglie, di volti, di storie in gravi e gravissime difficoltà. Non sta bene insultarli sia pure con l'intento di rassicurarli. Il suo compito, come da molte parti le è stato ricordato, è di dire la verità e di spiegare in che modo lei intenderà procedere.

Questo vorremmo sentire ma questo non abbiamo mai sentito.

Post Scriptum. La clinica convenzionata Città di Udine ha comunicato venerdì scorso che non potrà effettuare l'intervento richiesto dalla famiglia Englaro e autorizzato dalla Cassazione, per porre fine alla vita vegetativa di Eluana a diciotto anni di distanza dal suo inizio. La suddetta clinica era disposta ad eseguire ciò che la famiglia voleva e che la magistratura aveva autorizzato, ma ne è stata impedita dall'intervento del ministro Sacconi il quale ha minacciato di far cessare i rimborsi dovuti alla clinica per le degenze dei suoi clienti, costringendola quindi a sospendere la sua attività.

La decisione d'un ministro ha cioè la forza di impedire che una sentenza abbia corso. Si tratta d'un fatto di estrema gravità politica e costituzionale, di un precedente che mette a rischio la divisione dei poteri e la natura stessa della democrazia. Poiché si invoca da molte parti una riforma della giustizia condivisa con l'opposizione, a nostro giudizio si è ora creata una questione preliminare: non si può procedere ad alcuna riforma condivisa se non viene immediatamente sanata una ferita così profonda. Se la volontà politica di un ministro o anche di un intero governo può impedire l'esecuzione di una sentenza definitiva vuol dire che lo Stato di diritto non esiste più e quindi non esiste più un ordine giudiziario indipendente.
Non c'è altro da aggiungere per commentare una sopraffazione così palese e una violazione così patente dell'ordinamento costituzionale.

(18 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Federalismo e contratti due scatole vuote
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2009, 11:05:54 am
IL COMMENTO

Federalismo e contratti due scatole vuote

di EUGENIO SCALFARI


SIAMO ormai entrati in piena recessione economica e i nodi stanno venendo al pettine tutti insieme, ma la vera ondata di piena arriverà tra marzo e maggio come tutte le previsioni annunciano. Intanto non cessano e anzi aumentano le turbolenze provenienti dalla crisi finanziaria e bancaria.
Si pensava e si sperava che questo secondo fronte si fosse placato, invece non è così. Dopo la Banca di Scozia la tempesta ha ripreso la sua virulenza sulle "majors" americane: la Bank of America, la JpMorgan-Chase, la Citigroup.
L'industria automobilistica dal canto suo non si regge più sulle sue gambe e interventi pubblici sono dovunque invocati e in molti paesi hanno già avuto attuazione.

In questo quadro recessivo mondiale che ormai comprende anche la Cina e le altre potenze emergenti, si stagliano per quanto riguarda l'Italia alcuni problemi specifici con caratteristiche proprie ai quali il calendario politico ha impresso nei giorni scorsi una forte accelerazione: il federalismo fiscale, la riforma contrattuale, i provvedimenti anticrisi, la ricerca delle risorse necessarie per farvi fronte e gli strumenti più appropriati da usare.
Di questi problemi intendo oggi occuparmi ma non voglio esimermi da un cenno preliminare che riguarda le prime iniziative del nuovo presidente degli Stati Uniti.

Ha preso tempo fino a febbraio per presentare un piano anticrisi di 825 miliardi di dollari cui seguiranno - ha annunciato - altri stanziamenti con l'obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e un consistente sostegno dei redditi falcidiati dalla crisi. Nel frattempo ha marcato con provvedimenti immediati una profonda discontinuità rispetto alla politica del suo predecessore.

In politica estera ha messo al primo posto in agenda il tema del Medio Oriente chiamando a raccolta i protagonisti: Israele, Palestinesi, Paesi Arabi, Iran. Ha teso la mano all'Iran. Ha ribadito la lotta al terrorismo e l'importanza del fronte afgano. Ha dato inizio alla procedura per il ritiro delle truppe dall'Iraq.

Fin dal primo giorno ha abolito la tortura praticata in molte carceri speciali gestite dalla Cia. In tema di diritti ha ripreso i finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali ricavate dagli embrioni ed ha riconosciuto alle donne la responsabilità primaria di decidere sul proprio aborto.
Barack Obama è profondamente religioso ma la sua fede non gli ha impedito di iniziare una politica dei diritti profondamente laica. L'uomo di fede si raccoglie spesso in preghiera nella sua chiesa, ma il presidente degli Stati Uniti tutela i diritti fondamentali come prescrive la Costituzione del suo Paese alla quale ha giurato fedeltà.

Ecco un esempio che ci viene da una grande democrazia e che ci auguriamo serva da punto di riferimento per tutti.

La legge sul federalismo fiscale è stata approvata in Senato con il voto compatto del centro-destra, l'astensione del centro-sinistra e il voto contrario dell'Udc di Casini.

Bossi ha dato atto all'opposizione d'aver scelto un atteggiamento di saggezza che ha reso possibile un passo avanti di una riforma che la Lega ritiene essenziale. I commenti dei "media" hanno accolto con favore (e alcuni con moltissimo favore) questa novità parlamentare definendola "storica" e auspicando che possa estendersi ad altri temi sul tappeto a cominciare dalla riforma della giustizia. Si è parlato addirittura di un asse Veltroni-Bossi con ricadute importanti sul quadro politico italiano. E' stata notata una palese irritazione di Berlusconi.
E' questa la realtà di quanto è accaduto? Oppure si tratta di una rappresentazione che contiene alcuni elementi di verità ed altri di falsità? Un elemento di verità riguarda i contatti tra il Partito democratico e la Lega. Sono stati frequenti e hanno dato luogo ad una riscrittura di alcune parti importanti della legge. Sulla valutazione delle differenze esistenti tra regioni povere e regioni ricche in materia di evasione fiscale, di efficienza organizzativa e di tempistica necessaria per rendere omogenei questi parametri.

Sull'istituzione di una Commissione che emetta i pareri richiesti per l'emanazione dei regolamenti attuativi della legge-delega. Sulla necessità di indicare i tributi propri delle Regioni e dei Comuni. Sulla parità dei diritti riconosciuti agli utenti di pubblici servizi (sanità, giustizia, trasporti, assistenza) sulla base di identici standard in tutto il territorio nazionale.

Il "modello lombardo" che inizialmente fu la posizione della Lega e di tutto il centro-destra è stato abbandonato nel corso d'una trattativa durata molti mesi i cui risultati finali sono maturati nel lavoro in commissione parlamentare e infine approvati in aula.
Ma i risultati negativi non mancano e sono tutt'altro che marginali. Il primo riguarda lo squilibrio di fondo tra il Nord e il Sud, che la riforma così come è stata concepita aggraverà. Per limitare quest'aggravamento sarà inevitabile procedere con due diverse velocità. Il Nord potrà attuare la normativa via via che i regolamenti attuativi saranno emanati (con l'indispensabile accordo della conferenza Stato-Regioni); il Sud chiederà più tempo e continuerà a pesare sulla fiscalità generale.

Il secondo elemento negativo riguarda la completa assenza di stime circa il costo immediato della riforma e il costo di quando sarà a regime. Il ministro Tremonti, appositamente convocato in Parlamento per dare delucidazioni in proposito, ha dichiarato che era impossibile indicare cifre: mancano studi e criteri omogenei di valutazione. In queste condizioni nessuno può azzardare un pronostico, sarebbe come giocare alla lotteria specie in una fase terremotata dell'economia mondiale.

Tremonti ha indubbiamente ragione: il costo del federalismo fiscale così come è configurato nella legge-delega che è un manifesto ideologico più che una legge vera e propria, non è prevedibile. In realtà la legge-delega è uno scatolone vuoto, un indirizzo politico, non ci sono misure attuative, non esiste una carta delle autonomie locali che indichi chi fa che cosa; è aperta la questione delle provincie e delle aree metropolitane; è apertissimo il rapporto tra Regioni e Comuni; non è risolto il tema essenziale dei tributi propri.

In realtà questa non doveva essere una legge-delega ma semplicemente una legge di indirizzo alla quale doveva seguire una legge-delega ancorata ad una normativa concreta che sarebbe servita al Parlamento per controllare l'aderenza dei decreti delegati alla normativa indicata. In mancanza di criteri si tratta dunque di una delega in bianco, il classico caso del budino il cui gradimento si può misurare soltanto quando sarà stato mangiato. Si può approvare una riforma di questo tipo? Che di fatto instaura una "secessione fiscale" della Padania dal resto del paese? Senza conoscerne gli effetti sulle finanze dello Stato? Ha scritto Luca Ricolfi sulla "Stampa" che la legge-delega dovrebbe almeno prevedere degli anticorpi, cioè impedire fin d'ora sconfinamenti di deriva macro-economica riportando in capo allo Stato il potere di modificare la legge quando i suoi esiti mettessero a repentaglio i parametri di stabilità nazionali e internazionali. Ricolfi ha ragione, ma questi anticorpi mancano purtroppo del tutto.

Dunque la legge-delega così come è uscita dall'aula del Senato a mio avviso non può essere approvata dal centro - sinistra alla Camera se almeno quegli anticorpi non saranno inseriti. Il voto al Senato ha avuto il pregio di riconoscere i miglioramenti ottenuti e di dimostrare che il federalismo fiscale è obiettivo condiviso. Ma qui dovrebbe finire la condivisione su una delega impropria e non cifrata, priva di clausole di salvaguardia chiare e imperative.

Del resto l'astensione al Senato ha valore di voto contrario. La traduzione letterale sulla base del regolamento della Camera è il voto negativo. I "nordisti" del Pd fanno bene a voler competere con la Lega ma debbono farlo su un terreno appropriato alla vocazione di un partito nazionale quale è e vuole essere il Pd. Lo slogan di trattenere sul posto le entrate e destinarle alle spese di quel posto è il mantello d'Arlecchino e non può essere una visione nazionale del bene comune. Voglio sperare che i piemontesi, i lombardi, i veneti del Partito democratico non dimentichino la storia del nostro paese e il contenuto che i loro avi dettero alla sua unità.

Nella stessa settimana del voto al Senato sul federalismo fiscale il governo aveva convocato le parti sociali e le Regioni per discutere le misure anticrisi.

Questo e solo questo era l'ordine del giorno per il meeting a Palazzo Chigi di venerdì 23 gennaio.

La discussione è durata pochi minuti. Infatti le misure anticrisi ruotavano soprattutto sul finanziamento degli ammortizzatori sociali (cioè sulla Cassa integrazione e altri analoghi istituti) che Tremonti vuole effettuare "senza oneri per il bilancio". Il solo modo per realizzare quell'obiettivo è di cercare i soldi necessari fuori dal bilancio, ma dove? Togliendoli alle Regioni e agli impieghi da esse previsti. Il "tesoretto" desiderato da Tremonti per finanziare gli ammortizzatori ammonta a 8 miliardi di euro da prelevare a carico dei fondi europei erogati alle Regioni per far fronte alla formazione dei lavoratori, che è un'altra forma di sostegno del reddito e di preparazione professionale.

Le Regioni presenti al meeting di venerdì hanno obiettato al ministro dell'Economia che non avrebbero accolto le sue richieste se prima egli non avesse indicato quali erano le risorse che lo Stato metterà sul tavolo da parte sua e tutto è stato rinviato a giovedì prossimo.

A questo punto Epifani si è alzato ritenendo che la riunione fosse terminata ma ha constatato con stupore che tutti gli altri rappresentanti delle parti sociali (sindacati, commercianti, banchieri, cooperative, Confindustria) restavano seduti. Ha chiesto se c'erano altre questioni da esaminare. "Visto che siamo qui tutti" ha risposto Gianni Letta "utilizziamo l'incontro per discutere la riforma contrattuale".

La signora Marcegaglia a quel punto ha distribuito un documento sulla contrattazione privata e il ministro Brunetta ha distribuito un altro documento sulla contrattazione del pubblico impiego. Epifani ha chiesto 24 ore di tempo per l'esame dei due testi, preliminare alla discussione che ne sarebbe seguita.

Silenzio assoluto. "Debbo dedurre che i testi non sono emendabili?", ha domandato il segretario della Cgil. Ancora silenzio. A questo punto Epifani ha preso la via dell'uscio senza che alcuno lo trattenesse.

Mi spiace di non aver letto questo racconto sui giornali di ieri, eppure esso fa parte integrante dello "storico" incontro sulla riforma dei contratti ed è - diciamolo - abbastanza stupefacente.

Ma andiamo al merito di questa riforma che il maggior sindacato italiano non ha firmato.

E' vero che essa diminuisce l'importanza del contratto nazionale e rivaluta il contratto di secondo livello agganciandolo alla produttività. Ed è vero (come ha ricordato Enrico Letta sul "Corriere della Sera" di ieri) che questa rivalutazione é suggerita dalle mutazioni dell'economia post-industriale ed era già stata proposta dal governo Prodi. Quante buone cose aveva avviato il governo Prodi, vengono fuori un po' per volta e una ogni giorno; alla fine i suoi truci nemici di ieri gli faranno costruire un monumento in vita, magari a cavallo della sua bicicletta.
Basta. E' anche vero che la riforma prevede un'inflazione al tasso adottato dalla contabilità dell'Eurostat al netto delle importazioni di beni energetici. Questo punto di riferimento è probabilmente migliore dell'inflazione programmata usata finora nei contratti. Ma qui cessano le virtù della riforma. Vediamone i difetti.

1. Riformare i contratti e agganciarli alla produttività in una fase di recessione, licenziamenti, diminuzione produttiva è come costruire caloriferi all'Equatore e frigoriferi ai Poli. Ma, si obietta, almeno la riforma sarà già pronta quando la crescita riprenderà.

2. L'accordo firmato venerdì non è un vero accordo sindacale e infatti si chiama "linee guida". Documento di indirizzo. Dopo la sua approvazione saranno discusse le linee guida di area e infine si arriverà ai contratti nazionali di categoria veri e propri. Diciamo che la costruzione è alquanto barocca, le linee guida sono più o meno un altro scatolone come la legge delega sul federalismo. Ma da dove viene l'urgenza?

3. L'urgenza viene dal fatto che Confindustria e sindacati (assente la Cgil) avevano stabilito il valore del "punto" retributivo al quale applicare il tasso d'inflazione Eurostat per determinare l'ammontare dei contratti di categoria. Il valore di quel "punto" è inferiore a quello attualmente vigente e sul quale sono stati costruiti i contratti fino a questo momento: inferiore di un 15 per cento nella migliore delle ipotesi. Non so se Enrico Letta fosse al corrente di questo piccolo dettaglio. Forse non guarderebbe con tanto ottimismo all'accordo di venerdì scorso.

In sostanza l'operazione prevede una piattaforma al ribasso dei contratti nazionali, da recuperare nei contratti di secondo livello che saranno stipulati azienda per azienda, con esplicita esclusione di contratti di "filiera" riguardanti aziende di analoga struttura e produzione.

Poiché il 95 per cento delle imprese italiane sono di piccolissime dimensioni, ciò significa che per una moltitudine di lavoratori il contratto di secondo livello non ci sarà mentre il contratto nazionale di base partirà con una decurtazione notevole.

E' così che stanno le cose? Lo domando alla signora Marcegaglia e a Bonanni e Angeletti.

Sarò lieto di essere smentito sulla base di fatti provati, ma se così è, a me sembra scandaloso.



Post Scriptum. Il ministro Maroni, e per quanto riguarda Roma il sindaco Alemanno, dovrebbero fare penitenza. Pagare un pegno. Insomma scusarsi pubblicamente. Hanno impostato le loro campagne elettorali sulla sicurezza e vedete che cosa accade. Da Lampedusa alle metropoli italiane dove si verificano furti, rapine e violenze e stupri con frequenza quotidiana.
Alemanno parla di sciacallaggio contro di lui; in realtà si tratta di notizie. Maroni si vanta dei grandi risultati ottenuti con il pattugliamento dell'Esercito. Ma dove, ma quando, ma come? Per merito dell'Esercito? Ma chi l'ha visto, l'Esercito? La De Filippi in trasmissione. Forse.

(25 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Riflusso nel privato
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2009, 11:41:29 pm
Eugenio Scalfari


Riflusso nel privato


Disinteresse per la politica. Ma anche nei confronti della realtà sociale che ci circonda, della solidarietà e del bene comune. Così la democrazia rischia di indebolirsi e di scomparire  Le più recenti analisi sulle preferenze politiche degli italiani confermano un progressivo distacco dai partiti e in misura più marcata da quelli della sinistra e del centrosinistra. La tendenza con il passare dei mesi si è accentuata, l'area dell'impegno si restringe ed aumenta quella dell'indifferenza. Il fenomeno lambisce anche i partiti del centrodestra ma in misura minore. Per conseguenza il divario tra i due schieramenti aumenta in un campo di gara le cui dimensioni si impiccoliscono. Ne beneficia l'area dell'astensione che ha ormai raggiunto il 30 per cento del corpo elettorale.

Metà di questa area ha connotati permanenti e fisiologici in Italia; l'altro 15 per cento è invece composto da una nuova leva di astensionisti. Sono elettori delusi dai partiti o angosciati da nuovi disagi sociali che li hanno coinvolti sequestrando la loro attenzione a scapito dell'impegno politico. Le donne e i giovani sono i più colpiti da questo fenomeno, il Sud più del Nord, tra i ceti economicamente più disagiati più che tra i ceti con redditi medio-alti; nelle periferie più che nei centri storici delle città.

L'aumento di quello che si può chiamare il tasso di indifferenza è per certi aspetti un fenomeno diffuso in tutte le democrazie. Tra di esse l'Italia rappresentava un'eccezione. Giudicata da questo punto di vista l'indifferenza politica potrebbe esser vista come un elemento di normalità. Esso tuttavia si accompagna ad altri fenomeni di indifferenza e di disimpegno. Per esempio la sempre più bassa lettura di libri e di giornali. In generale si manifesta un crescente distacco dalla parola scritta, sostituita dalle immagini e dalla navigazione in rete. Per molti, soprattutto nelle giovani e giovanissime generazioni, il rifiuto della parola scritta in favore della comunicazione per immagini denota un aumento di passività psicologica. Viceversa la navigazione in rete denota il bisogno di interagire utilizzando le nuove tecnologie per uscire dalla solitudine sociale e familiare, ma l'analisi di queste mutazioni è molto complessa, le tendenze in atto sono ancora incerte e potrebbero cambiar
direzione sotto l'urto di realtà esterne anch'esse in rapida evoluzione.

Qualche giorno fa mi è capitato di partecipare ad un seminario universitario di docenti, non di studenti, nel quale si è discusso di vari argomenti, dalla didattica agli sbocchi di lavoro dei laureati, dagli scambi con altre università al rapporto tra studenti e insegnanti. Partecipavano al seminario anche dirigenti di enti e associazioni impegnate in aree connesse alla facoltà di Architettura che ci ospitava, nell'Università di Roma Tre.

Ad un certo punto del dibattito i docenti hanno affrontato un tema insolito, almeno per me: quello della passività studentesca di fronte alla realtà sociale che ci circonda, un ripiegamento su interessi personali e di gruppo, insomma quello che in gergo sociologico si è chiamato riflusso. Riflusso da impegni civili, dalla solidarietà, da una visione politica del bene comune.

Il preside e i docenti della facoltà che ci ospitava erano molto preoccupati di questi sentimenti di riflusso che gli venivano segnalati anche da altre facoltà e da altre università. Si domandavano e ci domandavano con quali strumenti educativi l'università avrebbe potuto correggere la situazione.

Gli fu chiesto se il riflusso avesse anche effetti negativi sull'apprendimento didattico. "Al contrario" ci risposero. "L'andamento degli studi procede in modo abbastanza soddisfacente. Quello che manca o si è fortemente indebolito è lo spirito pubblico, la pubblica partecipazione, la responsabilità della propria appartenenza comunitaria".

Ebbene, è proprio questo il tema già molte volte toccato sulle pagine di questo giornale, la cui attualità sta diventando sempre più incombente di fronte alla crisi mondiale. Si tratta d'una tempesta economica globale, ma sbaglierebbe chi ne restringesse la dimensione alla sola economia.

L'impoverimento e la paura dell'impoverimento che sta dilagando negli strati medio-bassi della piramide sociale costringe famiglie e individui ad abbassare la testa sulla ciotola della propria minestra perdendo di vista i cosiddetti bisogni secondari. Tutto lo sforzo mentale e fisico si concentra sull'appagamento dei bisogni primari. Non resta spazio né tempo da dedicare ai desideri di altra qualità a cominciare dalla politica, dall'informazione, dalla cultura.

Si coltiva la cultura funzionale al proprio lavoro da parte di chi un lavoro ce l'ha, teme di perderlo e vuole consolidare e migliorare la propria carriera. L'intenzione è ottima e l'obiettivo è più che legittimo, ma assorbe interamente la persona. Declinano gli stimoli collettivi, si diffonde la percezione d'una solitudine sociale ed esistenziale, ci si unisce soltanto per protestare ma subito ci si divide quando si tratta di perseguire i propri interessi particolari.

Così la democrazia rischia di indebolirsi e perfino di scomparire.

(30 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Con l'elmo di Scipio per battere la crisi
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 12:39:26 am
IL COMMENTO

Con l'elmo di Scipio per battere la crisi

di EUGENIO SCALFARI


ANCORA l'economia? Ebbene sì, ancora l'economia e non è colpa nostra se ogni giorno che passa la crisi ci riserva nuove sorprese. Sgradevoli.
Spesso traumatiche anche se prevedibili e in parte previste. Ma, come dice Tremonti, le previsioni sono una cosa e i dati di fatto un'altra. I dati di fatto di questa settimana sono i seguenti in ordine di importanza.

1. Il Pil degli Stati Uniti registra un arretramento del 3,8 sull'anno precedente. Potrebbe anche andar peggio, certo non andrà meglio.

2. La crisi bancaria è tutt'altro che sopita: è una brace che potrebbe ancora stimolare fiammate incendiarie con effetti devastanti sul sistema bancario mondiale.

3. La recessione dell'economia giapponese sta superando il livello di guardia. Il rallentamento di quella cinese non è meno preoccupante e impone un cambio di strategia radicale: dal sostegno alle esportazioni al sostegno dei consumi e delle retribuzioni sul mercato interno.

4. Il protezionismo guadagna terreno nelle politiche nazionali, sia in Usa sia in Oriente. Ne risente anche il mercato europeo.

5. L'industria automobilistica registra in tutto l'Occidente una crisi senza precedenti. Gli aiuti dei governi procedono in ordine sparso dando luogo inevitabilmente ad una sorta di protezionismo indiretto non meno devastante del protezionismo esplicito.

6. I titoli cosiddetti tossici, cioè privi di valore oggettivo, pesano sulla finanza globale. Gli ottimisti valutano il rischio ad una cifra che sfiora i mille miliardi di dollari, i pessimisti la moltiplicano di due volte e mezzo. Per affrontare un rischio di così enormi dimensioni si prospettano due soluzioni: una "bad company" a carico dei contribuenti ed una "società segregata" a carico dei possessori di quei titoli-spazzatura. In entrambi i casi una massa enorme di persone vedrà ulteriormente devastati i suoi redditi e i suoi patrimoni. Questi sono i dati di fatto aggiornati ad oggi.

Nel quadro di queste sciagure la situazione italiana non fa eccezione e l'ottimismo ostentato dal nostro presidente del Consiglio e dal nostro ministro dell'Economia non mi pare che poggi su basi solide.

L'industria automobilistica invoca l'aiuto pubblico che in Usa, in Gran Bretagna, in Germania, in Francia i suoi concorrenti hanno già ottenuto con appropriati interventi in corso di esecuzione. Ma invocano aiuto anche altri importanti settori produttivi: i costruttori che temono di dover chiudere i cantieri con una diminuzione di personale valutata in 250.000 unità; il comparto tessile; la siderurgia; l'editoria che lamenta un calo di entrate pubblicitarie del 40 per cento già nel primo trimestre in corso.

Complessivamente l'ondata dei licenziamenti o della messa in Cassa integrazione si aggira su almeno mezzo milione di unità. Se si calcola l'indotto si rischia un moltiplicatore di almeno il doppio. Si aggiunga a questo crollo di reddito e di occupazione tutta la galassia delle piccole imprese, soprattutto nel settore della meccanica; si aggiunga l'artigianato e si aggiungano le imprese turistiche e alberghiere. Ciascuna di queste categorie produttive cerca un sostegno e lo reclama dal governo come se la tanto disprezzata politica possedesse una bacchetta magica capace di creare dal nulla le risorse necessarie alla sopravvivenza del sistema.

Il governo - di questo bisogna esser consapevoli - la bacchetta magica non ce l'ha. Ma qualche cosa potrebbe e dovrebbe pur fare. L'ha fatto? Lo sta facendo? Lo farà? Quanto, come, quando?
Questa ormai imperiosa domanda gli viene posta ogni giorno dalle categorie interessate, dai sindacati, dall'opposizione, dagli enti locali. Ma una risposta vera e completa non è ancora venuta. Il governo naviga a vista in un mare tempestoso e irto di scogli. Perciò la paura aumenta e con essa cresce la fragilità delle aspettative.

Il ministro Tremonti, poveretto, cerca di arraffare qua e là dove vede ancora un po' di polpa e qualche altare ancora addobbato. Arraffare è forse un verbo un po' crudo, ma di questo si tratta quando manca un piano d'insieme e interlocutori appropriati. Il ministro dell'Economia è solo, sia dentro il governo sia fuori di esso. Non ha un piano e non ha interlocutori.
In realtà potrebbe averli: le parti sociali, l'opposizione, le categorie, gli enti locali. Potrebbe averli se avesse un piano cui associarli, sul quale raccogliere i loro contributi, le loro critiche, la loro collaborazione. Ma quel piano non c'è. Perciò Tremonti resta volutamente in solitudine. Si aggrappa all'Europa perché spera che sia l'Europa a cavargli le castagne dal fuoco. Il guaio è che in quel fuoco non ci sono castagne. Un altro guaio è che l'Europa non può far nulla di concreto poiché, se lo fa per uno, deve farlo per tutti.

L'Europa può soltanto coordinare e, nel caso migliore, contribuire di suo al coordinamento. Ma Sarkozy viaggia per conto proprio e così pure Angela Merkel e Brown e Zapatero.

Caro Tremonti, la realtà è questa e il suo appello all'Europa (assai tardivo in verità) non incanta nessuno. La verità è che lei spera che la nottata passi e che il sistema Italia ne esca vivo. A quel punto lei potrà rivendicare il merito di non aver fatto niente. Un temporeggiatore lungimirante come lo fu il console Fabio Massimo che sfiancò Annibale. Ma la tempesta perfetta che si è abbattuta sul mondo intero non ha niente a che vedere con gli elefanti cartaginesi. Qui il temporeggiatore non serve, ci vorrebbe piuttosto uno Scipione al quale però - mi scusi - lei non somiglia né tanto né poco.

Ci sono due livelli sui quali uno Scipione economico potrebbe agire: un piano per gli investimenti e un piano per il sostegno dei redditi. Gli investimenti possono essere finanziati dalla Cassa Depositi e Prestiti. Del resto Tremonti ci ha già pensato mettendo mano al risparmio postale. Ma non riesce ad aprire i cantieri. Anzi: i cantieri stanno chiudendo uno dopo l'altro come gridano i rappresentanti dei costruttori.
C'è un solo modo di non farli chiudere e aprirne di nuovi: delegare le operazioni alle Regioni e ai Comuni. Per opere e manutenzioni a livello regionale e locale. I cantieri per le grandi opere richiedono mesi e mesi prima di essere operativi. Regioni e Comuni hanno già appaltato molti lotti di opere pubbliche ma sono bloccati per mancanza di fondi.

Dateglieli quei fondi invece di arraffargli quei pochi che gli sono rimasti. Per agire in controtendenza c'è bisogno che i cantieri aprano entro tre mesi al massimo, perciò si muova, caro temporeggiatore. Lei ha scritto un discreto libro, "La paura e la speranza", ma finora non ha fatto che alimentare la paura spegnendo ogni speranza. Immagino che il suo editore le abbia tirato un orecchio.

Per i redditi, una volta tanto dia retta a Veltroni e ad Epifani: sgravi le imposte con uno scalare che dia benefici dai redditi medi fino a quelli minimi e bonus agli incapienti. E rifinanzi gli ammortizzatori sociali. Per questo secondo livello operativo ci vogliono almeno 15 miliardi e ce ne vogliono almeno altri cinque per aiuti diretti ai settori pericolanti. C'è insomma bisogno di una ventina di miliardi che possono esser procurati soltanto attraverso il fisco dato che la politica monetaria non può aiutare in nessun modo.

Questa strategia provocherà inevitabilmente uno sforamento della soglia di stabilità europea; del resto lo sforamento è già avvenuto poiché il rapporto deficit-Pil è già previsto per quest'anno al 3,8 e ancora il governo non ha fatto nulla o quasi. Se il ministro dell'Economia avesse il coraggio di ripristinare l'Ici improvvidamente abolita quel rapporto scenderebbe di parecchi punti base; ma quel coraggio il ministro non ce l'ha.

Dovrebbe seguire il consiglio dell'opposizione: sforare adesso e prendere contemporaneamente provvedimenti di recupero del deficit che entrino in funzione nel secondo semestre del 2010. Nel frattempo dovrebbe trasferire una parte del patrimonio immobiliare pubblico alle Fondazioni e dare così una spallata al debito pubblico per attenuarne la crescita.
Le si chiede insomma, onorevole ministro, di uscire dall'afasia e dal temporeggiamento. Le sembra una richiesta insensata?

Post scriptum. Walter Veltroni ha ricominciato le sue visite pastorali e sembra che abbia successo tra chi continua a puntare sul Partito democratico. Del resto chi vuole costruire un'opposizione che sia in prospettiva un'alternativa alla destra non ha altre scelte. Prima ancora d'una scelta politica questa è un'esigenza democratica al di fuori della quale non resta che rifugiarsi nell'utopia. Oppure coltivare risse intestine con i più vari pretesti.

L'ultimo di quei pretesti è nato sulla riforma della legge elettorale europea. L'argomento è stato discusso a lungo nell'ultima direzione del Pd, dove tutte le componenti e correnti sono rappresentate e nell'ultimo comitato di coordinamento di quel partito. Vi fu approvazione unanime su una soglia di sbarramento del 4 per cento e su liste aperte al voto di preferenza. Si sapeva che Berlusconi voleva una soglia del 5 per cento oppure nessuna soglia. Delle preferenze neppure parlarne. (Ricordo che in tutti gli altri paesi membri dell'Unione europea ci sono soglie che vanno da un minimo del cinque al massimo del nove per cento e le liste sono bloccate senza preferenze). Il negoziato era dunque molto difficile ma alla fine il segretario del Pd ha portato a casa il risultato richiesto all'unanimità. Perciò non si capiscono gli attuali mal di pancia di questo e di quello.

Quanto alla sinistra radicale, il suo sfrizzolamento è avvenuto molto tempo prima, quando ancora era in vita il governo Prodi. Semmai la soglia del 4 per cento può essere un incentivo a concentrarsi, ammesso e non concesso che una sinistra di quel tipo abbia ancora un senso in una moderna democrazia.

Quanto a Di Pietro, si è già "concentrato" con Beppe Grillo e la soglia del 4 la supererà. Personalmente mi auguro non di molto.

Io credo infatti nella ragione, anche se questa mia credenza mi dà talvolta qualche delusione.

(1 febbraio 2009)

da forumista.net


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La deriva di Sacconi
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:18:03 pm
Eugenio Scalfaro.

La deriva di Sacconi


Maurizio SacconiParla sul 'Corriere della Sera' dell'8 febbraio Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro e del Welfare, già socialista nel periodo craxiano, figura centrale del governo Berlusconi specialmente in alcune recenti vicende, da quella dell'Alitalia a quella Englaro tuttora in corso.
Trascrivo alcune sue risposte alle domande di Aldo Cazzullo, il giornalista che l'ha intervistato sul drammatico contrasto esploso venerdì 6 febbraio tra il governo e il presidente della Repubblica.

"Tutte le scelte del governo, dalla mia circolare alle strutture sanitarie al decreto legge, sono state ispirate dalla ragione laica. Una laicità intesa in una dimensione più alta del passato, che non può non includere principi fondamentali cristiani come la centralità della persona. La dicotomia credenti-non credenti che ha segnato la Prima Repubblica è stata superata".

Domanda l'intervistatore: "Lei è credente?" Risposta: "Oggi sì. Ma la mia storia politica è socialista e laica. Laica è la logica in cui ci siamo mossi e che ha unito gli interventi del laicissimo Brunetta e del cattolico Rotondi".
Facciamo su questi pensieri di Sacconi una prima riflessione. Sono pensieri, come dire, alti, così alti da provocare (in lui) una sorta di stato confusionale. Sacconi è credente, lo dice lui e quindi dobbiamo credergli. Ma prima era laico non credente. C'è stata una conversione, ma non ci dice quando. In questi giorni? Nel momento in cui fu nominato ministro? All'inizio della campagna elettorale e della formazione della lista che includeva il suo nome? E come si convertì? Un colpo di fulmine come quello di Paolo sulla via di Damasco? Vide anche lui l'angelo? Oppure arrivò alla fede con ragionamento? Sarebbe importante conoscere queste modalità che possono avere influenzato, anzi hanno certamente influenzato il suo modo di pensare attuale e quindi i provvedimenti da lui adottati nella vicenda Englaro.

Tra i pensieri alti di Sacconi troviamo qui anche quello sulla laicità ai tempi d'oggi, che dice lui non è quello della Prima Repubblica. Oggi, secondo il Nostro, il contrasto tra laici e cattolici, tra credenti e non credenti, è stato superato tanto che "lo stesso spirito lo troviamo nel laicissimo Brunetta e nel cattolico Rotondi".
Francamente non c'eravamo accorti che il ministro Brunetta fosse laicissimo, di lui avevamo apprezzato altre qualità come quelle di perseguitare gli statali fannulloni e di sinistra. Della cattolicità di Rotondi, che guida un partito invisibile soprannominato Democrazia cristiana, siamo invece da tempo consapevoli e ce ne rallegriamo.

Torniamo a Sacconi. Durante la Prima Repubblica il potere fu detenuto dalla Dc (quella vera e non quella di Rotondi). I laici sopravvivevano negli angolini del potere ma esercitavano tuttavia una non disprezzabile funzione culturale. La Dc d'altra parte, quella di De Gasperi e poi di Aldo Moro, non era un docile bastone nelle mani della Chiesa, aveva un suo concetto dell'autonomia politica dei cattolici. Accettò infatti il diritto al divorzio e all'aborto, sostenuto dai laici e condiviso dalla maggioranza degli italiani che si espressero nei referendum.
Dice Sacconi che oggi questi contrasti sono stati superati. Purtroppo non sembra. Non era mai accaduto che la gerarchia cattolica formulasse gravi censure nei confronti del presidente della Repubblica. Un governo animato da spirito laico, quale che fosse il suo diverso parere sulla sorte di Eluana Englaro, avrebbe dovuto elevare una formale protesta nei confronti del Vaticano per le censure rivolte al capo dello Stato. Ci ha pensato, onorevole Sacconi? Perché non l'ha proposto in Consiglio dei ministri? La verità è che voi non siete laici ma atei devoti. Per il Vaticano va bene così.
Torno a citarla, onorevole ministro, da lei c'è sempre da imparare. Domanda l'intervistatore: "Venerdì è stato un giorno di scontro istituzionale senza precedenti, non è vero?". Risposta: "Noi non l'abbiamo visto così e non credo che lo sia stato".

Le ipotesi sono tre: Sacconi mente. Oppure era distratto.

Oppure non c'era. Questa terza ipotesi è smentita dal fatto che era al fianco di Berlusconi durante la conferenza stampa ed anzi ha preso la parola dopo di lui e l'ha tenuta lungamente parlando appunto della vicenda Englaro. Ha ascoltato le parole di Berlusconi sulla lettera del presidente della Repubblica. Rimane perciò la nostra prima ipotesi: negando l'esistenza di uno scontro senza precedenti il ministro Sacconi ha mentito. Del resto non è la prima volta. Accadde ai tempi del caso Alitalia, quando emerse con tutta evidenza il suo pregiudizio contro la Cgil e si è ripetuto pochi giorni fa nel negoziato sulle linee guida della concertazione con i sindacati.
Sacconi mente. Molto spesso. Questo suo difetto pregiudica l'alta stima culturale che dovremmo avere sui suoi pensieri. Tra i quali tuttavia (e torno per la terza volta a citarlo) ce n'è uno che ci ha lasciato perplessi: la sua concezione del nichilismo.
"In Italia in questi quarant'anni abbiamo visto una deriva nichilista cominciata all'inizio degli anni '70, quando il '68 altrove finiva e da noi cominciava. Ma ora la vocazione al nichilismo va diminuendo e si recupera il senso della vita".

Mi permetto di correggerla quanto alle date, onorevole ministro. Il nichilismo fece la sua apparizione in Europa ed anche nella cultura italiana negli anni '70 del secolo XIX, quindi un secolo prima di quanto lei pensi. Lei usa nei confronti del nichilismo parole che ricordano - sarà certo un caso - quelle dette da Mussolini in molte occasioni. Mussolini opponeva la forza al nichilismo. Era su una strada sbagliata, purtroppo per lui e per noi. Anche lei parla di forza, di vitalismo e indica Berlusconi come vera e unica alternativa al pensiero nichilista. Ci stupisce onorevole ministro. Mussolini era ateo e pagano, più o meno come Berlusconi. Ma lei è invece un credente di fresca data.

Dovrebbe mettere un po' d'ordine nella sua testa.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Chiesa del dogma in conflitto con lo Stato
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 02:52:03 pm
POLITICA

La Chiesa del dogma in conflitto con lo Stato

di EUGENIO SCALFARI


Voglio oggi intervenire ancora una volta sul tema della nostra Costituzione e dei rapporti tra di essa e la Chiesa cattolica. Cioè, per essere ancora più concreti e per delimitare con precisione l'argomento, tra lo Stato repubblicano e costituzionale e la Santa Sede e gli organi gerarchici che da lei dipendono.

Si tratta d'un tema di permanente attualità; infatti ha connotato gran parte della vita pubblica italiana, sia durante la monarchia sia durante la Repubblica, attraverso le varie fasi susseguitesi in centocinquant'anni di storia: il periodo liberale, il regime fascista, il quarantennio democristiano e infine gli ultimi quindici anni a partire dal 1992, la fase di transizione tuttora in corso che ci porterà non sappiamo dove, una terra incognita resa ancora più incerta a causa della profonda crisi economica che sta squilibrando gli assetti sociali del mondo intero.

Altre persone qualificate si sono cimentate su quest'argomento. Ne cito alcune: Gustavo Zagrebelsky anzitutto, ed anche Schiavone, Prosperi, Magris, Rodotà, Mancuso. Il caso Englaro con tutto il carico di drammaticità e di umanità sofferente di cui era pervaso, ha sottolineato l'attualità del tema rendendolo ancora più palpitante e alzando i toni d'un conflitto che sembrava di natura soltanto intellettuale ed accademica e che coinvolge invece sentimenti universali come la sofferenza e la pietà. Il rapporto tra una Costituzione liberal-democratica e la Chiesa chiama in causa quello tra la fede e la ragione, tra l'etica promanante dalla religione e la libertà di ciascuno. Infine tra la verità assoluta e quella relativa. Non c'è posto per l'indifferenza.

Margini per compromessi pragmatici esistono ed è bene che siano esplorati, ma sono esigui perché mettono in gioco principi e valori che non possono essere imposti né con la spada né con la dittatura delle maggioranze. Il tema dunque è di rilievo e non eludibile.

* * *

Quali sono i pilastri che sorreggono l'architettura d'una Costituzione liberal-democratica? si è chiesto nel suo intervento sul nostro giornale Gustavo Zagrebelsky. Ed ha risposto: il diritto di tutte le opinioni a confrontarsi, la garanzia di poter esercitare i diritti di libertà, l'eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge senza alcuna eccezione. Questa è ciò che noi chiamiamo la legalità costituzionale e che lo Stato deve garantire e tutelare.

In questa visione è escluso per definizione che lo Stato possa avere un qualsiasi contenuto etico, cioè la realizzazione di un valore come propria finalità. Salvo uno: il valore cui deve tendere uno Stato liberal - democratico è appunto e soltanto quello di realizzare i principi sopra indicati. Ogni altro valore gli è estraneo; se mette in causa quei principi fondativi gli diventa avversario e al limite nemico.

Si pone a questo punto la questione se gli sia estranea, avversaria o addirittura nemica la Chiesa cattolica. La risposta è il riconoscimento dell'estraneità. Lo Stato liberal-democratico e la Chiesa cattolica sono due entità (come del resto recita lo stesso Concordato) che non si incontrano: operano su piani diversi, si muovono su linee parallele all'infinito che non potranno mai convergere se non su obiettivi specifici e delimitati.

Si può chiedere a questo punto perché io abbia ristretto il tema alla Chiesa cattolica e non consideri alla stessa stregua le altre chiese e le altre religioni. La risposta è semplice: la Chiesa cattolica è la sola che disponga di una struttura di potere e di gerarchia. Nessuna delle altre confessioni cristiane dispone di strutture gerarchiche e centralizzate, nessuna delle altre religioni storiche si è data un assetto politico.

E' accaduto in qualche caso che uno Stato si sia identificato con una religione e per conseguenza che una religione abbia occupato uno Stato dando vita ad un regime teocratico. Quando e laddove questo è accaduto le sembianze e la natura dello Stato hanno inevitabilmente assunto fisionomia integralista, fondamentalista, totalitaria. I cittadini si sono trasformati in fedeli. Anche la religione si è trasformata: da movimento spirituale e partecipato è diventata una struttura di potere. I dissenzienti sono stati considerati non soltanto eretici rispetto all'ortodossia religiosa ma ribelli rispetto allo Stato teocratico.

Queste sono le ragioni per le quali gli spiriti religiosi più consapevoli considerano il potere temporale della Chiesa cattolica come una devianza molto grave con l'effetto inevitabile di allontanare la Chiesa dal messaggio cristiano e dalla predicazione di Gesù trasmessa dai Vangeli: "Il mio regno non è di questo mondo" questa affermazione ricorre con frequenza in tutti i Vangeli, negli Atti, nelle lettere di Paolo alle prime comunità, nella tradizione patristica e in tutto il pensiero cristiano.

Purtroppo la struttura gerarchica della Chiesa di Roma assunse fin dal III secolo la dimensione temporalistica come indispensabile garanzia della propria libertà. Da quel momento la prassi si discostò dall'affermazione di Cristo che puntava sul regno extraterreno disinteressandosi ed anzi rinunciando a qualsiasi tentazione di regno mondano.

Rimase l'altra affermazione di natura però assai diversa: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Qui l'estraneità delle due sfere è simultanea e lascia quindi ampie zone di reciproca interferenza specie quando lo Stato può riempirsi di contenuti etici e la Chiesa di contenuti temporalistici.

Questa situazione, dove le due parallele si incontrano, è all'origine di conflitti drammatici durati secoli, anzi millenni. Con un aspetto tuttavia positivo che è d'obbligo ricordare: la Chiesa cattolica è stata contaminata (nel senso positivo del termine) dalla modernità così come lo Stato è stato a sua volta contaminato dai principi dell'amore e della solidarietà.

* * *

Il Concilio Vaticano II fu il momento più alto di questa contaminazione.

Dopo di allora ha avuto inizio un movimento di riflusso dapprima quasi impercettibile ed ora sempre più evidente, culminato pochi giorni fa con il rientro del movimento lefebvriano nella Chiesa di Roma. Un particolare, ma con valenze simboliche, liturgiche e dottrinali che non possono esser sottovalutate.

E' vero, questi problemi riguardano soprattutto il clero e il laicato cattolico. Soprattutto, ma non esclusivamente. Il riflusso rispetto al Vaticano II si accompagna al risorgere di una visione temporalistica della Chiesa che non ha più come obiettivo il possesso e il governo d'uno spazio territoriale, di un regno terrestre da affiancare al regno celeste.

Il temporalismo attuale ha l'obiettivo di trasformare ovunque sia possibile (e quindi specialmente in Italia, giardino del Papa per storica definizione) il peccato in delitto, il precetto dottrinale in norma, la legge divina in diritto positivo, l'etica religiosa in etica pubblica, con la conseguenza di imporre ai cittadini comportamenti ed obblighi non condivisi.

Il terreno sul quale questo riflusso temporale pesa con maggior forza è quello della bioetica, della vita e della morte. Qui lo spazio pubblico del quale la Chiesa gode legittimamente si sta trasformando in un'arena di scontro nella quale la gerarchia episcopale e curiale guida i fedeli ad una battaglia che ha addirittura coinvolto il Capo dello Stato.

Chi crede nell'immortalità dell'anima e nella beatitudine suprema che ristora le anime nel regno celeste e bandisce vere e proprie crociate per conservare una persona che non ha più nulla di quella che fu, commette un peccato mortale contro la vita, tanto più quando si tratti di vescovi, di cardinali e perfino del capo della Chiesa di Roma.

* * *

Il laicato cattolico non ha dato fin qui segnali rilevanti di preoccupazione per quanto sta accadendo nella sua Chiesa. Per quel che se ne sa segnali di disagio e di dissenso sono venuti piuttosto da vescovi e cardinali non italiani e da una parte non disprezzabile del clero italiano. Da alcune comunità locali e da alcune località di rilievo nazionale ed internazionale.

Qualche segno di disagio è venuto anche da alcuni settori di cattolici direttamente impegnati in politica. Soprattutto nel Partito democratico, dove sono confluiti un anno fa gran parte degli ex popolari. I giornali hanno dato notevole rilievo ai parlamentari cattolici del Partito democratico che hanno votato in favore del disegno di legge governativo sul caso Englaro.

E' giusto, ma non tanto per il dissenso con il proprio partito quanto per il fatto che quel disegno di legge impone un comportamento e impedisce l'esercizio d'una libera scelta, cosa che un parlamentare democratico dovrebbe rifiutare in forza della propria coerenza politica. Ma il fatto che ha avuto in quella circostanza un'importanza almeno pari se non addirittura maggiore è stato a mio avviso il voto dato da parlamentari cattolici in dissenso con il messaggio tambureggiante lanciato dalla Chiesa.

Il tema comunque si riproporrà tra poco, quando sarà affrontata dal Parlamento la legge sul testamento biologico. è chiaro a tutti che su tali argomenti non può esistere una disciplina di partito, ma è altrettanto chiaro che un partito ha il diritto-dovere di esprimere pubblicamente l'atteggiamento della maggioranza dei propri aderenti.

Il test che avremo sotto gli occhi in questa occasione non riguarda dunque il dissenso dei cattolici politicamente impegnati rispetto ai partiti nei quali hanno deciso di militare, ma il loro eventuale dissenso nei confronti del temporalismo cattolico, del distacco cattolico dal Concilio Vaticano II, della regressione dogmatica della gerarchia.

Questo sarà il test cui saranno chiamati. La risposta che daranno sarà molto importante per l'evoluzione o l'involuzione della democrazia italiana e della Chiesa.

(15 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Pd, l'Assemblea ha scelto l'orgoglio e la speranza
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2009, 10:58:27 am
Pd, l'Assemblea ha scelto l'orgoglio e la speranza

di EUGENIO SCALFARI


IL GIORNO dopo le sue dimissioni da segretario del Partito democratico tutti i giornali aprirono la prima pagina con il titolo: "Veltroni si dimette e chiede scusa".
Titolo ineccepibile perché nel suo discorso di addio domandò scusa almeno tre volte, all'inizio, alla metà e ancora alla fine.

Chiese scusa e ringraziò. Prese su di sé tutta la responsabilità dell'insuccesso, anzi degli insuccessi. Aggiunse: "Non ce l'ho fatta". E questa è stata l'impressione ricevuta dai lettori, gran parte dei quali si limita a sfogliare leggendo i titoli e scorrendo velocemente i testi.

Ma chi ha letto o ascoltato quel discorso sa che c'era molto di più delle scuse e dei ringraziamenti. Non era affatto l'addio di chi ripiega la bandiera e se ne va. Era un discorso di rilancio del partito, che forniva ai successori la piattaforma politica e programmatica dalla quale ripartire. Quella già indicata al Lingotto dell'ottobre 2007, allora accolta da tutti, dentro e fuori del Pd come una forte discontinuità rispetto al passato ed una suggestiva apertura verso il futuro.

Veltroni ha spiegato dal suo punto di vista perché quell'inizio così promettente è poi andato declinando giorno dopo giorno. Lasciamo pure da parte la guerriglia che si è quasi subito scatenata contro di lui e sulla quale lui stesso ha avuto il buongusto di non insistere. C'è stato un suo errore caratteriale da lui stesso ammesso: la mediazione per tenere insieme a qualunque costo le varie anime del partito. Forse è meglio dire i vari pezzi del partito: laici e cattolici, socialisti e moderati, tolleranti e intransigenti, puri e duri e pragmatici.

Veltroni ha impiegato gran parte del suo tempo a cercare punti di sintesi che erano piuttosto cuciture fatte col filo grosso, con la conseguenza che quei vari pezzi e quelle varie ispirazioni e provenienze sono rimaste in piedi senza dar vita ad una cultura nuova e unitaria. Con un'aggravante: nel Sud le classi dirigenti locali, fatte alcune rare eccezioni, hanno un basso livello etico e politico, non sono gattopardi ma volpi e faine. In tutti i partiti e in tutti i clan. A destra, al centro e a sinistra. Con frequenti mutamenti di casacche secondo le convenienze del momento e del luogo.

Questo è stato l'errore di Veltroni, ammesso da lui stesso. Francamente non saprei trovarne un altro, ma questo è certamente di notevole rilievo. Il programma c'era ed è adeguato alle contingenze attuali. La linea politica c'era e anch'essa è tuttora adeguata. Le critiche politiche e programmatiche formulate da D'Alema nella sua importante intervista rilasciata l'altro giorno al nostro giornale ci sembrano prive di consistenza. Quella che è mancata è stata la leadership. Gli era stata data da tre milioni e mezzo di elettori alle primarie di quell'ottobre, ma lui non l'ha usata.

Le dimissioni sono giunte inaspettate ma hanno avuto un effetto dirompente: hanno coinvolto l'intero gruppo dirigente, quello che dentro e fuori dal Pd è stato battezzato l'oligarchia, cioè il governo di pochi. Dopo aver impiegato sedici mesi per tenerla unita, in un colpo solo le dimissioni del segretario l'hanno delegittimata e spazzata via tutta insieme. Fuori lui e fuori tutti. Il partito c'è ancora, la necessità di una forza politica riformista di sinistra esiste più che mai, ma il gruppo dirigente non c'è più, non ha più legittimazione.

Ci sono singoli individui apprezzabili per la loro onestà intellettuale, il loro coraggio, la loro biografia, utilizzabili in quanto individui. Come personale di governo, se e quando l'eventualità di un governo di centrosinistra si materializzasse. Ma non più come gruppo politico dirigente. Veltroni si è dimesso e ha dimissionato l'oligarchia. Non so se ne sia stato consapevole ma questo è ciò che è accaduto.

* * *

Ci hanno spiegato che il congresso su due piedi tecnicamente è impossibile, si farà ad ottobre come previsto. Ci hanno spiegato che anche le primarie immediate sono, se non impossibili, tecnicamente difficili, i candidati non avrebbero neppure il tempo di presentarsi ai loro elettori come avviene in tutte le primarie serie, specie per i candidati nuovi, cioè non provenienti dal vecchio gruppo dirigente.

Ma c'è soprattutto una ragione politica che ha sconsigliato le primarie immediate. Per almeno un mese il partito avrebbe dovuto ripiegarsi su se stesso e un altro mese sarebbe poi passato per insediare il nuovo segretario. Significa che fino a maggio il partito sarebbe di fatto stato senza una guida e quindi in piena anarchia.

Nel frattempo la vita politica e parlamentare proseguirà, sarà necessario decidere come fronteggiare la crisi economica che proprio tra marzo e maggio raggiungerà il suo culmine, quale sarà l'atteggiamento del Pd sui temi della sicurezza, della riforma della giustizia, del testamento biologico, del referendum; bisognerà designare migliaia di candidati alle elezioni amministrative e formare le liste per le elezioni europee, organizzare la campagna elettorale che culminerà nell'"election day" del 6 giugno.

Un lavoro immane, impossibile da svolgere con un partito privo di fatto di guida politica. Era pensabile una soluzione di questo genere? O si trattava di un "cupio dissolvi" verso il quale il cosiddetto popolo di sinistra poteva precipitare? Bertinotti ha ravvisato un parallelismo tra la crisi che ha già dissolto la sua sinistra e quella che si profilava nella sinistra riformista. La previsione è stata per fortuna scongiurata dai riformisti e la ragione ha prevalso su precarie emotività.

Così è avvenuto con il voto dell'assemblea che a larghissima maggioranza ha scelto la soluzione Franceschini per colmare il vuoto lasciato dalle dimissioni di Veltroni. È una scelta di continuità oppure di rottura rispetto alla fase conclusa l'altro ieri?

* * *

Il nuovo segretario proviene dall'ala cattolica del Pd, è stato fin qui il numero due del partito condividendo con Veltroni la linea politica e la gestione. Tuttavia il suo discorso all'assemblea di ieri non è stato di continuità ma di rottura. Si è impegnato ad azzerare tutti gli incarichi al centro e alla periferia. Ha preso una posizione decisamente laica sul tema scottante del testamento biologico.

Per lui questa scelta non è inconsueta: fu il promotore e il primo firmatario del documento pubblicato un anno fa, sottoscritto dalla quasi unanimità dell'ala cattolica impegnata nel Pd, che rivendicava la piena autonomia delle scelte rispetto alla precettistica della gerarchia ecclesiastica. Una linea che cominciò da De Gasperi e proseguì fino ad Aldo Moro e poi a De Mita. Del resto nessuno meglio di un cattolico democratico può accollarsi la responsabilità di difendere la laicità dello Stato, la libertà dei cittadini e la loro eguaglianza di fronte alla legge anche se sostenendo questi principi ci si discosta dalle posizioni dei Vescovi e del Vaticano.

Vedremo in che modo il nuovo segretario adempirà agli impegni presi di fronte all'assemblea che lo ha eletto. Dovrà servirsi della sua oggettiva debolezza politica per farne una forza. Se ci riuscirà avrà come premio il merito di consegnare al futuro congresso un partito che ha superato una "tempesta perfetta" senza implodere nell'anarchia e nello sconforto. Questo è il suo compito ma per svolgerlo avrà bisogno del sostegno della base, soprattutto dei nuovi dirigenti che dovrebbero emergere durante questi mesi di procellosa navigazione.

* * *

Nel frattempo Casini è uscito dal fortilizio che ha difeso finora con tenace volontà e si è lanciato in una guerra di movimento. La situazione dal suo punto di vista gli è favorevole dopo il successo in Sardegna della sua lista apparentata con Berlusconi. Il Pd è in crisi e una parte dell'ala cattolica propugna da tempo un'alleanza con l'Udc non escludendo una possibile scissione.

Ma tra il dire e il fare ci sono tuttavia molti ostacoli. Il primo sta nel fatto che Casini non ha alcun interesse a stipulare un'alleanza nazionale col Pd, che è pur sempre un partito con un seguito molto più numeroso del suo. Alleanze locali laddove siano vincenti sì, ma un patto di unità d'azione nazionale certamente no.

L'obiettivo di Casini è di fare un grande partito centrista che assembli i moderati del Pd e i liberali del Pdl. Grande rispetto all'attuale Udc che ottiene il 10 per cento nei luoghi in cui si allea con Berlusconi ma ritorna al suo 5-6 quando va da sola. L'obiettivo di Casini dovrebbe portare il suo partito di centro verso un consenso a due cifre, oltre il 10 per cento, in una forchetta da lui auspicata tra il 12 e il 15. Il modello che ha in mente è quello di Kadima, il partito israeliano fondato da Sharon e ora guidato da Tzipi Livni, che ha frantumato il Labour ed ha ottenuto alle recentissime elezioni una discreta affermazione in un quadro che registra un massiccio spostamento verso la destra e l'estrema destra dell'opinione pubblica di quel paese, con alcune punte dichiaratamente razziste.

Il quadro politico italiano non è paragonabile a quello di Israele, tuttavia il riferimento a Kadima lo fanno esplicitamente Casini e Buttiglione. Qualche ragione ci sarà. Lo schema mentale di Casini è quello d'un partito di centro cattolico, moderato e liberale che alimenti il cosiddetto regime dei due forni e cioè tre partiti sulla scacchiera, uno a destra, l'altro a sinistra un terzo al centro e quest'ultimo come ago della bilancia che decida quando e con chi di volta in volta allearsi. Non a caso questo schema, quest'ipotesi di lavoro è sostenuta da gran parte dei "media" che danno voce a interessi forti la cui moneta è rappresentata dallo scambio dei favori e dalla reciproca protezione.

Nei mesi che ci stanno alle spalle abbiamo assistito ad una campagna di delegittimazione sistematica nei confronti di Veltroni e del Pd, rei di non piegarsi a sufficienza alla connivenza con il centro e con la destra. Veltroni ha commesso un errore e l'abbiamo già indicato, ma ha resistito a quella pressione che però ha infine raggiunto l'obiettivo che perseguiva ottenendo il suo ritiro. Non è tuttavia riuscita a far implodere il Partito democratico e personalmente mi auguro che non ci riuscirà.

La politica dei due forni d'altra parte è irrealizzabile per una decisiva ragione. Essa presuppone che i due forni, cioè i due piatti della bilancia, siano solidi e di forza equivalente. Quello di destra è in realtà fortissimo, almeno fino a quando il populismo di Berlusconi farà presa sulla maggioranza degli elettori. Quello di sinistra è fragile, alla ricerca di una identità nuova che superi le storie antiche e ormai inservibili. Senza una sinistra salda non esiste l'ago della bilancia perché non esiste la bilancia. Ci sarebbe soltanto un centro aggregabile alla destra o relegato al margine della scacchiera. La sinistra scomparirebbe in una palude di sabbie mobili lasciando senza rappresentanza politica una massa di ceti sociali privi di poteri di negoziazione e inchiodati ad un rapporto perverso tra padroni e servi. Con una regressione sempre più rapida della Chiesa verso un ruolo lobbistico colluso con un governo di atei devoti.

Con l'elezione del nuovo segretario del Pd comincia l'ultimo atto di un percorso accidentato ma forse più consapevole e più partecipato. È auspicabile per la democrazia italiana che da qui si riparta con nuova lena e intatte speranze.


(22 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Ulisse di Dante e i soldi alla cultura
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 10:23:48 am
SPETTACOLI & CULTURA     

Una risposta alla provocazione di Baricco: lo Stato non può imporre una propria linea, ma non può neanche essere privo di un pensiero

L'Ulisse di Dante e i soldi alla cultura

di EUGENIO SCALFARI


 Come sempre sa fare quando prende in mano la penna e si inoltra in un discorso pubblico Alessandro Baricco comincia da lontano, usa la logica, ragiona sulle premesse pianamente, non è mai provocatorio ma didascalico. Pone questioni, sollecita risposte che sono già contenute nelle domande.

A che cosa serve la cultura? E spiega: serve a migliorare l'anima delle persone, a farle riflettere, a renderle più tolleranti verso i diversi da sé, quindi a scoprire il valore della democrazia e della solidarietà, a ricacciare indietro le pulsioni della violenza. Perciò la democrazia, cioè lo Stato democratico, ha un interesse primario a promuovere la cultura, ad allargarne le radici e le fronde.

E poiché il nostro mondo è in preda a un rigurgito di violenza e d'intolleranza, lo Stato democratico è chiamato a intraprendere una necessaria alfabetizzazione incoraggiando la nascita di quella che lui chiama una "intelligenza di massa".

Chi non è d'accordo con questo "incipit"? Io lo sono completamente.

Ma qui terminano le premesse e qui comincia la sua provocazione: per realizzare in un tempo ragionevole i due obiettivi dell'intelligenza di massa e dell'alfabetizzazione occorre concentrare le scarse risorse disponibili sulla scuola e sulla televisione. E qui il mio accordo con lui comincia a vacillare.

La scuola è un grande servizio pubblico cui lo Stato deve provvedere prioritariamente con il proprio bilancio e la scuola privata con risorse proprie nell'ambito di standard di qualità che includono il principio della libertà d'insegnamento. Gli stanziamenti di denaro pubblico destinati alla cultura non riguardano la scuola come non riguardano la giustizia, l'ordine pubblico, la difesa del territorio nazionale, i grandi servizi definiti "indivisibili". A essi si provvede con le imposte che prelevano una quota del reddito dei contribuenti accertato con i vari strumenti a disposizione dell'amministrazione.

Quanto alla televisione, quella di proprietà di gruppi privati si configura come un'impresa con i relativi rischi. Quella di proprietà pubblica viene finanziata con un canone proprio per promuovere gli aspetti culturali a fianco di quelli dell'intrattenimento cui è destinata la pubblicità commerciale. Forse sarebbe opportuno riservare il canone a una sola rete della Tv pubblica, privatizzando le altre o affrancandole dagli obblighi che il pubblico servizio comporta, ma una discussione in proposta esula dall'oggetto di questo articolo e quindi l'accantono.

Incoraggiare gli aspetti culturali dei programmi delle Tv private non mi sembra un'idea praticabile. L'imprenditore televisivo ha un suo interesse ad accreditare le proprie emittenti anche dando spazio alla cultura. Poiché si tratta di imprese di lucro solo all'imprenditore spetta decidere la combinazione ottimale dei vari fattori produttivi. Allo Stato spetta soltanto di fissare regole standard per chi utilizza un bene pubblico come l'etere. Altro non deve e non può fare.

* * *

Poiché le risorse da destinare alla cultura sono scarse - prosegue Baricco - si tratta di formulare una scala di priorità. Chi la deve formulare? Baricco esprime a questo punto una sua personale classifica di priorità avvertendo però correttamente che si tratta di scelte soggettive che hanno semplicemente un valore esemplificativo.

Vediamola comunque questa classifica. Via il teatro di prosa il cui pubblico è limitato a una élite di anziani che prediligono repertori ripetitivi e non più formativi, disertati dai giovani. E via, per le stesse considerazioni, i teatri di opera lirica e di musica concertistica. Via soprattutto le esecuzioni di musica contemporanea, incomprensibili poiché non c'è nulla da comprendere. Se lo scopo è la formazione dell'intelligenza di massa è chiaro che essa non può nascere nei teatri di prosa, di opera lirica e di concerti, inevitabilmente finanziati da denaro pubblico. Bisogna dunque abolire quei finanziamenti consentendo ai privati di sperimentare a proprio rischio forme di impresa culturale che si sostengano da sole con un mix di capitali privati e di sostegno pubblico concesso a chiunque intraprenda progetti culturali.

Portare il melodramma romantico in teatro, magari miscelandolo con l'operetta di Lehar e di Strauss? Mandare in scena un "musical" tratto dall'Inferno dantesco liberamente rimaneggiato? Usare la Bibbia come canovaccio cinematografico facendo intervenire un Gianni Letta accanto ad Abramo e un Andreotti alla guida di un'arca al posto di Noè? Infine raccontare un Giudizio Universale al modo del Benigni del 1998 e farne un "kolossal" hollywoodiano mettendoci dentro anche Maometto e le Vergini promesse dal Corano ai difensori di Allah?

Lo Stato democratico, ci ricorda opportunamente Baricco, non può avere un contenuto etico senza snaturarsi. Quindi non può scegliere tra questi diversi progetti quello che gli piace e quello che gli dispiace. Li deve accettare tutti destinando a tutti il suo aiuto in termini di esenzioni fiscali, facilitazioni immobiliari, libera circolazione nelle sale, accesso alle Tv pubbliche e private.

Il mercato guida e intraprende, il denaro pubblico aiuti tutti senza alcuna discriminazione nei limiti delle risorse disponibili. Questo è il nocciolo della provocazione baricchiana. E poi vinca il migliore, la cultura vincerà con lui, l'intelligenza di massa e l'alfabetizzazione culturale faranno decisivi passi avanti. Perfino il Fedone, con opportune contaminazioni, può esser arrangiato come un "reality" con Socrate e Alcibiade in funzione di "Grandi Fratelli".

* * *

Chi storce il naso di fronte a un sì fatto progetto è a mio avviso un cretino. Chi l'accetta scambiandolo per un'entusiasmante trovata è un poveretto. Forse piacerebbe al ministro Bondi che sta facendo scempio dei Beni culturali, ma questa, caro Alessandro, sarebbe una pessima adesione e sono sicuro che ne convieni. Dal canto mio permettimi qualche osservazione.

1. Non è esatto pensare che i veri acculturati conquistino la tolleranza e l'amore per la democrazia. I capi delle SS, lo Stato maggiore della Wehrmacht e perfino i dirigenti della Gestapo si commuovevano ascoltando la Settima, la Nona e persino i Quartetti di Beethoven, adoravano Mozart e Haydn, assistevano con raccoglimento all'Oro del Reno e al Tristano e Isotta. Poi uscivano da questi bagni dell'anima e andavano a scannare gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali. La cultura è uno degli elementi della civilizzazione, ma ce ne vogliono molti altri per umanizzare l'animale uomo.

2. Lo Stato non deve essere etico ma neppure privo di pensiero. Deve tutelare il patrimonio culturale della società che lo esprime. Quindi l'archeologia. La memoria collettiva. I reperti. I repertori. Deve renderli accessibili. Deve favorire la ricerca storica e quella scientifica. Le risorse culturali debbono avere questa oculata destinazione.

3. Alcune istituzioni pubbliche sono necessarie per realizzare questi obiettivi.

4. I privati debbono avere piena libertà di intraprendere facendo della cultura un mezzo per ottenere un lecito profitto. Siano liberi di farlo a proprio rischio così come si costruiscono automobili, reti televisive, telefoni satellitari e mille altre cose e servizi.

Ho fatto, caro Alessandro, un'esperienza personale interessante: ho costruito insieme a molti altri amici e colleghi imprese giornalistiche culturalmente impegnate e fonti di larghi profitti. Tu hai vissuto in campi diversi dai miei analoghe e positive esperienze. Dunque si può fare. Lo Stato faccia ciò che deve, i privati facciano ciò che sanno e possono. La società usi questi servizi e si autoeduchi uscendo dall'atonia, dal culto delle icone, dalla condizione di folla "che nome non ha".

Noi possiamo soltanto ripetere l'incitamento dell'Ulisse dantesco ai suoi compagni: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Altro non possiamo fare, ma questo sì, possiamo e dobbiamo.


(27 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La svolta dell'America la crisi dell'Europa
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 10:31:47 am
ECONOMIA      IL COMMENTO

La svolta dell'America la crisi dell'Europa


di EUGENIO SCALFARI


SAPPIAMO, ce lo dicono tutti i dati consuntivi e preventivi, che la crisi economica globale è entrata nella fase culminante, articolata in vari livelli e in vari scacchieri geopolitici. I vari livelli riguardano l'insolvenza del sistema bancario internazionale, la caduta mondiale della domanda di beni e servizi (materie prime, beni durevoli, generi di consumo), la restrizione dell'offerta e quindi degli investimenti come ovvia conseguenza della crisi della domanda, la deflazione, l'ingolfo del credito. Si tratta d'una catena ogni anello della quale è intrecciato agli altri e con essi interagisce generando una atmosfera di sfiducia e di aspettative negative che si scaricano sulle Borse e sul drammatico ribasso dei valori quotati. I diversi scacchieri geopolitici presentano aspetti specifici nell'ambito di un quadro generale a fosche tinte.

L'epicentro è ancora (e lo sarà per molto) in Usa e coinvolge le banche, le imprese, la domanda, il reddito, l'occupazione. Il nuovo Presidente ha imboccato decisamente la strada del "deficit spending" in dosi mai verificatesi prima nella storia americana se non nei quattro anni di guerra tra il 1941 e il 1945. L'entità della manovra di bilancio dell'anno in corso ammonta alla cifra da fantascienza di 4 trilioni di dollari, che si ripeterà con una lieve diminuzione nel 2010. Il bilancio federale, già in disavanzo di mille miliardi, arriverà quest'anno a 1750.

Si tratta di cifre fantastiche ma appena sufficienti a puntellare l'industria, il sistema bancario e la domanda dei consumatori. Purtroppo i primi effetti concreti si verificheranno nel secondo trimestre dell'anno, un tempo breve in stagioni di normalità ma drammaticamente lungo nel colmo della "tempesta perfetta" che stiamo attraversando.

Per colmare questa inevitabile sfasatura temporale Obama ha alzato l'asticella degli obiettivi e, oltre a quelli macroeconomici, ha inserito riforme strutturali e una redistribuzione sociale del reddito senza precedenti. E' il caso di dire che si è bruciato gli ormeggi alle spalle affrontando lo scontro con i ceti più ricchi, minoritari nel numero ma maggioritari nel possesso e nel controllo della ricchezza e del potere sociale. Neppure Roosevelt era arrivato a tanto e non parliamo di Kennedy e neppure di Clinton. Questa cui stiamo assistendo è la prima vera svolta a sinistra degli Stati Uniti d'America; l'intera struttura economica, sociale e culturale del paese è infatti sottoposta ad una tensione senza precedenti, i cui effetti non riguardano soltanto i cittadini americani ma coinvolgono inevitabilmente l'Europa e l'Occidente nella sua più larga accezione. "Quando la casa minaccia di crollare - ha detto Obama parlando al Congresso - non ci si può limitare a riverniciare di bianco le pareti ma bisogna ricostruirla dalle fondamenta". Noi siamo tutti partecipi di questa rifondazione che si impone anche all'Europa.

* * *

Separare il nostro vecchio continente dall'epicentro della "tempesta" americana è pura illusione. Se cadessero in bancarotta le grandi banche americane, se chiudessero i battenti le grandi compagnie automobilistiche, se l'insolvenza del sistema Usa uscisse di controllo, l'economia europea sarebbe risucchiata nello stesso turbine. Su questo punto è pericoloso illudersi. Chi pensa che l'Europa stia meglio dell'America, chi farnetica che l'Italia sia più solida degli altri Paesi dell'Unione, non infonde fiducia, al contrario alimenta l'irresponsabilità e l'incertezza. Non capovolge le aspettative ma anzi le peggiora.

L'Europa ha scoperto da pochi giorni un bubbone di dimensioni devastanti insediato al proprio interno: l'insolvenza di tutti i Paesi dell'Est del continente, alcuni già dentro Eurolandia, altri ai confini. Si tratta dei tre Paesi baltici, della Polonia, dell'Ungheria, della Romania, della Bulgaria, della Repubblica Ceca, dell'Ucraina, dei Paesi balcanici: Serbia, Croazia, Albania, Macedonia, ai quali vanno aggiunti la Grecia e l'Irlanda.

Questi paesi sono stati ricostruiti e rimodellati sull'economia di mercato grazie a massicci investimenti privati provenienti dall'Europa occidentale e da finanziamenti altrettanto massicci di banche occidentali. L'Austria ha impegnato in questa direzione gran parte delle sue risorse finanziarie e così la Svezia. Di fatto l'economia di questi due paesi è ormai legata a filo doppio con il destino dell'Est europeo, ma un coinvolgimento importante riguarda anche il sistema bancario tedesco.

Bastano questi cenni per capire che la crisi dell'Est, se non arginata entro le prossime settimane, può avere effetti devastanti sull'intera Unione europea, già fortemente scossa in Spagna, in Irlanda e in Gran Bretagna. E' di ieri la notizia che tre istituzioni finanziarie internazionali hanno stanziato complessivamente 24 miliardi di euro destinati a soccorrere i paesi dell'Est.

C'è da augurarsi che si tratti di risorse immediatamente disponibili perché il cosiddetto effetto annuncio è ormai privo di valore. Ma si tratta comunque d'una cifra assolutamente insufficiente, visto che le dimensioni globali della crisi dell'Est si calcola nell'ordine di 200 miliardi di euro. L'operazione annunciata ieri ne coprirebbe un ottavo, cioè il 12 per cento. Ci vuole dunque uno sforzo ben più consistente, che è inutile chiedere ai singoli paesi. Deve intervenire l'Unione europea e al suo fianco il Fondo monetario internazionale.

I "meeting" tra i capi di governo dell'Unione hanno preso ormai un ritmo settimanale imposto dalle circostanze, ma sarebbe opportuno che da queste consultazioni uscissero decisioni concrete. Finora abbiamo avuto soltanto reiterate quanto inutili dichiarazioni di principio e progetti su nuove regole mondiali relegate in un futuro assai lontano. Parole inutili, progetti privi di attualità. Speriamo che l'incontro di oggi sia all'altezza dei pericoli che incombono.

Queste assai labili speranze hanno un solo modo per diventare concrete: un rifinanziamento massiccio e straordinario dell'Unione europea da parte dei paesi membri. Per avere senso, non meno di 100 miliardi di euro. Ma gran parte dei paesi membri non hanno nemmeno gli occhi per piangere. Quelli che hanno ancora qualche ragionevole capacità sono soltanto due: la Germania e la Francia. Se vorranno compiere questo sforzo assumeranno una nuova responsabilità e potranno reclamare un potere aggiuntivo all'interno dell'Unione, al di là dei trattati e dei regolamenti. Bisogna esser consapevoli di questa situazione, altrimenti continueremo a perderci in una fitta nebbia di chiacchiere e la "tempesta perfetta" europea si aggiungerà a quella americana con effetti di irrimediabile devastazione.

* * *

Poche osservazioni sulla situazione italiana, che registra un progressivo peggioramento a fronte del quale le reazioni del governo sono pressoché inesistenti.

Per fronteggiare alcuni segnali di rischio incombenti e una storica fragilità patrimoniale del sistema bancario italiano, il governo ha mobilitato 12 miliardi, nove dei quali già prenotati da Unicredit, Banca Intesa, Monte Paschi e Ubi. Sono i famosi Tremonti-bond, prestiti a scadenza pluriennale assistiti da obbligazioni con un tasso medio dell'8 per cento a favore del Tesoro che le sottoscriverà. Con una procedura contabile che è arduo spiegare per la sua macchinosità, questi crediti del Tesoro non compariranno nel bilancio dello Stato. Le risorse necessarie saranno chieste al mercato con altrettante emissioni di Bot. Ci sarà uno scarto a favore del Tesoro tra il tasso riconosciuto ai sottoscrittori di Bot e quello pagato dalle banche emittenti dei Tremonti-bond. Insomma il Tesoro ci guadagnerà.

Si dovrebbe dire dunque bravo Tremonti, che in tempi di magra riesce a cavar sugo perfino dalle rape, se non fosse che l'intera operazione (che i media di bandiera hanno esaltato come un miracoloso toccasana) è completamente inutile. Le banche dovrebbero rafforzare il proprio capitale e rilanciare il credito alle piccole-medie imprese. Con i Tremonti-bond aumentano i propri debiti e pagano molto cara questa raccolta. Per di più essa ha una destinazione obbligata: deve esser destinata alle Pim.

Poiché il costo è dell'8 per cento, quale sarà il tasso chiesto alle Pim? Se il Tesoro vuole guadagnare tra il 3 e il 4 per cento in questa operazione, è probabile che le banche spuntino un margine analogo a carico della clientela, cioè impongano un tasso del 12 per cento più gli oneri fiscali. Con questa operazione si sostiene di aver rafforzato il sistema bancario italiano nel quadro della peggiore crisi europea degli ultimi settant'anni? Ci prendete tutti per imbecilli?

Nel frattempo l'Enel, che ha fatto troppi debiti, è costretto a lanciare un aumento di capitale che il Tesoro non sottoscriverà per la quota che ancora possiede. Il mercato ha reagito negativamente. Non era proprio l'Enel il titolo che Berlusconi ha più volte consigliato di comprare, insieme all'Eni, che anch'esso non naviga con la bandiera al vento? Il nostro "premier" non dovrebbe più pronunciar parola perché ogni volta che parla fa danni gravi alla credibilità sua e del paese che rappresenta. Invece la sua loquela esonda e infatti la nostra credibilità all'estero è sotto zero. Basta parlare con uno qualunque degli ambasciatori stranieri accreditati a Roma per averne conferma.

Speriamo che la crisi monetaria e bancaria dell'Est europeo sia arginata. Se così non fosse per far fronte alle sue ripercussioni in Italia ci vorrà ben altro che i Tremonti-bond. In ogni caso noi non siamo in grado di partecipare all'inevitabile rifinanziamento del sistema europeo. Perciò il nostro peso, già assai modesto nell'Unione, diminuirà ancora.

Per fortuna la bandiera nazionale, oltreché dall'Alitalia di Colaninno, continuerà a sventolare per merito del cuoco Michele e del chitarrista Apicella, intrattenitori apprezzati anche dai capi di governo stranieri quando vengono a Roma per vedere il Papa e il Presidente della Repubblica e fare poi sosta un paio d'ore a Palazzo Grazioli per gustare qualche manicaretto di Michele e ascoltare qualche canzone del chitarrista.

La nostra vocazione è la pizza e il mandolino. Ed un attore comico vestito da dittatore. Questo è il copione della commedia all'italiana e questo infatti va in scena anche in tempi di tempesta.

(1 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Italia nella crisi è un'isola felice
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2009, 05:18:13 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO

L'Italia nella crisi è un'isola felice

di EUGENIO SCALFARI


L'industria americana dell'auto è moribonda. Le grandi banche americane traballano malgrado robuste iniezioni di liquidità e con loro traballano le grandi assicurazioni pubbliche. Le banche dell'Est europeo agonizzano coinvolgendo le loro finanziatrici austriache, svedesi, tedesche, britanniche. Traballano anche alcuni Stati sovrani dentro e fuori Eurolandia: Lettonia, Ucraina, Grecia, Irlanda, l'emirato di Dubai. Le Borse crollano in tutti i paesi occidentali e in Giappone. Il credito è ingolfato. "I messi di sventura piovon come dal ciel".

In questa generale catastrofe c'è un'isola felice, l'Italia. Banche solide, risparmio privato abbondante, debito pubblico elevato ma sotto controllo, governo lungimirante. "Adelante Pedro, con juicio". Berlusconi è il secondo dopo Dio e Tremonti il suo profeta. Il futuro è terra incognita ma il presente è terra solida.

Negli ultimi giorni, per ricostruire una fiducia latitante, il governo ha sparato una raffica di cifre da mozzare il fiato, una mitragliata di provvedimenti, un esempio inimitabile di prudenza, saggezza, audacia ed esperto coraggio. Gli altri annaspano, Obama compreso, ma noi sappiamo dove andiamo.

Una sola ruota non funziona: una stampa allarmista, una tivù pubblica che critica il governo, un'opposizione blaterante, un sindacato all'insegna del tanto peggio-tanto meglio.

Non fosse per quest'elemento impazzito, l'ingranaggio marcerebbe a meraviglia e il sistema Italia potrebbe ambire legittimamente ad una leadership europea. Mondiale no, anzi non ancora, ma non mettiamo limiti alla divina provvidenza. Domani del resto papa Ratzinger benedirà Roma dal balcone del Campidoglio con a fianco il sindaco Caltagirone. Chiedo scusa, il sindaco Alemanno.

Insomma qui, nel paese-giardino della Chiesa, tutto va nel migliore dei modi.

* * *

Le cifre sono sbalorditive. Vediamole. I miliardi di euro mobilitati erano due mesi fa 140. Dei quali 80 immediatamente disponibili. Di questi la metà si è persa per strada ma 40 sono rimasti in linea ed il loro impiego (triennale) si sta ora discutendo.

Non si è capito bene se si parla di competenza o di cassa. Sembrerebbe piuttosto la prima che non la seconda. La cassa infatti è praticamente vuota: le entrate correnti sono in calo (vistoso), il fabbisogno del Tesoro è in aumento, l'avanzo primario al netto degli interessi sul debito si è dimezzato. Ma queste sono quisquilie, pinzellacchere come scrivevano gli umoristi del "Bertoldo" e del "Marc'Aurelio" settant'anni fa.

Certo c'è anche per noi qualche cattiva notizia. Per esempio il pil del 2008 ha registrato un regresso dell'1 per cento sull'anno precedente. Tremonti non lo sapeva, l'ha letto sui giornali.

Per il 2009 la recessione (si chiama così) sarà maggiore: - 2,6. Qualcuno più pessimista parla di - 3. Qualcun altro più pessimista ancora di - 4. Tocchiamo legno. Pressione fiscale al 43,5. Debito pubblico al 110 per cento sul pil. Ma, ripetiamolo, non è su questi tavoli che si gioca la partita. La Cassa integrazione è aumentata del 550 per cento rispetto all'anno precedente, segno che l'Italia è un vero paese industriale e che la Cassa ha i denari sufficienti a reggere l'ondata di crisi. L'ondata aumenterà nelle prossime settimane? Tranquilli: Tremonti ha già costruito argini robusti per contenere la piena.

* * *

Eccoli dunque, quegli argini. Cominciamo coi Tremonti-bond: dodici miliardi a disposizione del sistema bancario. Costo per le banche tra l'8 e il 9 per cento. Le banche emettono, il Tesoro acquista e ne ricava il 4 per cento di utile. Insomma ci fa un affare. Le banche no. A che cosa servono? A rafforzare il patrimonio. Facendo debito a condizioni onerose. Con l'obbligo di erogare crediti alle piccole e medie imprese. I prefetti vigileranno all'adempimento.

Nel frattempo alcune imprese assicurative e bancarie hanno emesso obbligazioni al 4 e mezzo per cento, coperte in poche ore da un vasto pubblico di sottoscrittori. Per cui non si vede a che cosa servano i Tremonti-bond. Il ministro del Tesoro ha detto che tre grandi banche avevano prenotato i tre quarti della cifra stanziata. Tre giorni dopo Berlusconi lo ha corretto dicendo che solo una banca aveva manifestato interesse e che comunque non era quella la vera linea di resistenza contro la crisi. Chi dice il vero, il premier o il Tesoriere?

Il premier non gradisce i toni spesso drammatizzanti del Tesoriere e lo ha pubblicamente redarguito. Il Tesoriere ha prontamente rettificato. La colpa è dei giornali, non puoi sbagliarti.

La vera linea di resistenza è un'altra: 17,8 miliardi per infrastrutture e questa sì che è una buona notizia. Deliberati dal Cipe, copertura in parte con stanziamenti già previsti in Finanziaria e in parte provenienti dai fondi per le aree sottosviluppate (Fas) in mano alle Regioni. Le quali, per mollare una parte del malloppo, hanno ottenuto che fosse destinato anche agli ammortizzatori per i precari. Così è stato: quattro miliardi ai precari licenziati e il resto a Matteoli, ministro delle Infrastrutture e vicesindaco della fatidica Orbetello.

Però la cifra vera non è quella. Per il 2009, l'anno orribile, le somme stanziate dal Cipe nelle due sedute del 18 dicembre e del 6 marzo ammontano a 12,3 miliardi, ai quali ne vanno aggiunti 2,1 già stanziati nella Finanziaria di settembre. Ma 3,6 miliardi vanno invece sottratti perché destinati a spese correnti (ferrovie e traghetti). La cifra netta non è dunque di 17,6 ma di 10,8 miliardi. Per aprire cantieri. Matteoli dice che saranno aperti entro sei mesi e dunque se ne parlerà ai primi di settembre. Ma c'è cassa? Sembra di no. Sembra che la cassa sia a secco. Per fare cassa di questi tempi c'è un solo modo: emettere Bot. Aumentando lo stock del debito.

Pazienza. Ma i cantieri? A settembre ne apriranno alcuni, quelli più piccoli. Valutazioni attendibili parlano di un 20 per cento della cifra totale, cioè un paio di miliardi. Magari tre se va molto bene. Per il resto se ne parlerà nel 2010. Il ponte di Messina? Non è roba da fare subito. L'autostrada Civitavecchia-Cecina? Se ne parlerà nel 2013. La Salerno-Reggio? Sono vent'anni che si sente questo nome; un bello spirito ha detto: "Se la risento nominare metto mano alla pistola". Volete dargli torto?

* * *

Pare che il premier abbia in mano altri 9 miliardi e Tremonti altri 13. Da dove vengono? I nove sono fondi già stanziati e attribuiti a quattro diversi ministeri, rastrellati ora dai loro bilanci e unificati. I quattro ministri, tra i quali Scajola e Prestigiacomo, hanno strillato come aquile ma poi, come sempre, si sono acquietati.

I 13 miliardi sono della Cassa depositi e prestiti. Verranno destinati a finanziare progetti di privati costruttori. Tra i quali pensiamo ad Alemanno. Mi scuso: volevo dire a Caltagirone. Ma anche a garantire prestiti bancari alle Pmi (Piccole e medie imprese).
Questo governo adora garantire sperando così di fare le nozze con i fichi secchi: debiti di firma, se ci fosse un patatrac dovrebbe sborsare denari sonanti, ma fin quando non ci sarà si fa bella figura senza sborsare un centesimo. Quando si dice creatività!

Per questa ragione Berlusconi rifiuta la proposta di Franceschini per assicurare uno stipendio minimo ai precari che perdono il lavoro. A conti fatti quella proposta costerebbe meno di 5 miliardi ma quelli sì, bisognerebbe sborsarli subito. Quindi non va bene.
Conclusione: gli argini veri non ci sono. Ci sono promesse e garanzie. Se una, una sola di quelle garanzie venisse escussa, il finto argine verrebbe giù tutto insieme. Parole parole parole: Mina di quarant'anni fa. Berlusconi da sempre. L'Italia, un'isola felice. Se non esce il rosso uscirà il nero o viceversa. Se Obama non dovesse farcela sarebbero serissimi guai e per noi peggio di tutti.

Post scriptum. Berlusconi si è quotato per 100 milioni da versare al fondo per la ricostruzione di Gaza che entrerà in funzione quando sarà fondato lo Stato palestinese. I giornali italiani di bandiera hanno dato grande risalto a questa presenza italiana. Mi domando in quale Paese viviamo.

(8 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La penna e il machete
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 04:05:15 pm
Eugenio Scalfari,

La penna e il machete



Sul "24 Ore" Berardinelli ha stroncato la "Storia" di Asor Rosa. Ma le sue stroncature, come pure le sue incensature, sono soltanto manifesti politico-ideologici  Non avevo intenzione di recensire l'ultima opera di Alberto Asor Rosa 'Storia europea della letteratura italiana': non sono un critico letterario anche se ho passione per la letteratura; su 'Repubblica' l'opera è stata esaustivamente presentata e discussa da Paolo Mauri. Ho anche ascoltato il dibattito tra Asor Rosa ed Eco, Mauri, De Mauro nella sala di via Ripetta qualche giorno fa. E naturalmente ho letto i tre volumi della 'Storia' di Asor.

Ma mi sono imbattuto (nel supplemento domenicale di '24 Ore' dell'8 marzo) nella recensione di Alfonso Berardinelli ed è quella recensione che mi è venuta voglia di recensire. Si tratta d'una stroncatura in piena regola; come tale è benvenuta in una società letteraria dove la melassa e il giulebbe scorrono a bicchieroni, tutt'al più corretti da qualche goccia di angostura che serve a veicolare modeste invidie e veleni a lento rilascio. Sono del parere che quando si stronca si stronca, senza ipocrisie né riguardi, purché la critica non sia motivata da ragioni che poco o nulla hanno a che fare con il testo, lo stile, i giudizi e il montaggio dell'opera in questione. Si potrà non concordare con quella stroncatura ma bisognerà allora addurre buone ragioni che colgano in fallo lo stroncatore e la sua esibita severità.

Ebbene, la stroncatura di Berardinelli non corrisponde a queste esigenze di un lettore avvertito. Del resto lo scrive lui stesso in un preliminare che occupa un'intera colonna del suo articolo recensorio: ha da tanti anni una profonda antipatia politica verso Asor Rosa, verso le sue ideologie, il suo operaismo 'd'antan', i suoi amici degli anni Sessanta, il suo settarismo e insomma la sua militanza comunista. Non lo sopporta. Non sopporta il suo modo di scrivere 'tardigrado', le sue frasi lunghe e barocche, la sua enfasi, l'impegno politico che trasferisce anche quando scrive di letteratura. E avanti così, a colpi di machete per un'intera colonna.


Questo preliminare è fuori tema. Rende fasullo tutto il seguito del componimento. Al punto che, avendolo letto con crescente disagio, avevo deciso di non continuare. Ma il contenitore era invece di tutto rispetto: il supplemento domenicale del '24 Ore' contiene quasi sempre notizie intriganti e articoli acuti. Perciò sono andato fino in fondo e ne sono uscito con la conferma che la stroncatura di Berardinelli meritasse di essere stroncata.

Non è qui in discussione l'orientamento politico di Asor Rosa. Anche a me è talvolta capitato di dissentirne. Un mio carissimo amico e collega ne dissente del tutto e lo ha scritto più volte. Ma qui l'oggetto è un lavoro letterario ed è su quello che deve esercitarsi il critico. Sarebbe come giudicare Céline per il suo acceso antisemitismo, Ezra Pound per il suo conclamato fascismo e l'autore del 'Tropico del Cancro' per il suo nichilismo.

Non sono fautore della tesi proustiana né di quella crociana della completa autonomia dell'opera letteraria rispetto alla vicenda biografica dell'autore. Credo che sia nel vero Sainte-Beuve quando descrive (e pratica) una critica che tenga conto della personalità dell'autore e del clima culturale del suo tempo per una miglior comprensione d'un romanzo, d'un racconto, d'una poesia e di una 'poetica'. Una miglior comprensione; ma il giudizio deve scaturire comunque dal testo e non dagli elementi che ne facilitano una miglior comprensione. Berardinelli lavora esattamente nel modo opposto, le sue stroncature come pure le sue incensature sono soltanto manifesti politico-ideologici e pertanto di nessun valore letterario.

Trascinato dal vento della contestazione politica si è dunque inoltrato a parlare della 'Storia' di Asor Rosa in quanto tale, collezionando una serie di sviste e di errori che meritano di essere segnalati. Accusa l'autore d'aver trascuratoPasolini, mentre nel terzo volume della 'Storia' l'autore delle 'Ceneri di Gramsci' risulta uno dei personaggi centrali della cultura del Novecento. Lo rimprovera poi di aver idoleggiato Calvino al di là dei suoi 'discutibili' meriti (Calvino è un altro dei bersagli abituali di Berardinelli). Ma di quell'idoleggiamento non c'è traccia nel testo di Asor Rosa; c'è un giudizio critico pertinente che coglie nell'autore degli 'Antenati' i due elementi fondanti della narrativa calviniana: la razionalità illuministica e la fantasia immaginativa. E lo stile, del quale 'Le città invisibili' e le 'Lezioni americane' sono il massimo esempio.

C'è poi, nella recensione non recensoria, un confronto tra la 'Storia' del De Sanctis e quella di Asor. Esempi del genere non dovrebbero mai farsi poiché ogni opera ha una sua individualità che la rende non commensurabile con le altre. Comunque Berardinelli vi si avventura e scrive: "In De Sanctis letteratura e politica tendevano a coincidere, facevano parte di un'unica storia". Esatto, è così: la passione politica e risorgimentale irrompe di continuo nella 'Storia' e nei 'Saggi' del De Sanctis; ma non è proprio questo il rimprovero principale che egli muove contro Asor? A mio avviso nei lavori letterari del De Sanctis la militanza politica è molto più presente che in quelli di Asor e basterebbe a provarlo la partizione che egli adotta per classificare e distinguere due gruppi di scrittori la 'scuola democratica' dove colloca Mazzini, Berchet e tutto l'azionismo risorgimentale e la 'scuola cattolica-moderata' centrata su Manzoni. Ho ancora in mente quella pagina dei 'Saggi' dove, scrivendo di Machiavelli, l'autore interrompe il suo discorso per annunciare che gli giunge in quel momento la notizia che il potere temporale della Chiesa è caduto e si lascia andare ad un vero e proprio empito di giubilante laicismo.

Infine l'ultimo sberleffo: la 'Storia' di Asor si conclude con la citazione dell'ultimo verso dell''Inferno' dantesco, "e quindi uscimmo a riveder le stelle" che Asor giudica il più bello della poesia italiana, mentre per Berardinelli la citazione è un artificio retorico che nasconde il nulla senza riuscirvi. Io ho provato emozione leggendo quelle ultime frasi concluse da quel verso. Sarà pure un artificio retorico, ma la retorica è un elemento stilistico senza il quale gran parte delle opere letterarie neppure esisterebbero. E poi, come in tutte le cose, c'è buona retorica e cattiva retorica. L'articolo di Berardinelli è impastato di cattiva retorica che il supplemento del '24 Ore' francamente non si merita.

(13 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La nuova destra che forse non nascerà
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2009, 11:58:57 am
IL COMMENTO

La nuova destra che forse non nascerà


di EUGENIO SCALFARI


OGGI Gianfranco Fini darà l'addio al suo partito che si scioglie nel grande mare del Pdl, il Partito del Popolo della Libertà, tre lettere maiuscole sulle quali campeggia il Capo carismatico Silvio Berlusconi, fondatore, presidente e leader intramontabile.
Un addio, quello di Fini, ma anche un arrivederci, almeno nelle sue intenzioni. L'esortazione e anzi il comando alla sua gente è di restare unita, custode di una tradizione, di valori propri e d'una propria identità, d'una propria egemonia che non deve disperdersi - così spera Fini - nel magma indistinto di Forza Italia.

Dovrà costituire anzi un punto di riferimento per più ampie aggregazioni dentro il nuovo partito e fuori di esso, per dare vita ad una nuova destra capace di guidare il paese anche quando il Capo carismatico deciderà di ritirarsi per sazietà o per stanchezza, comunque per l'inevitabile trascorrere del tempo che "va dintorno con le force".

Si tratta d'una proposta di larghe vedute, che non è soltanto politica ma anche istituzionale e culturale. Fini dà molta importanza a fondazioni culturali che avranno il compito di piantare nuovi innesti e nuove radici nelle tradizioni della destra. Il presidente della Camera sovrintenderà a questo lavoro ed ha come riferimenti il conservatorismo del XIX secolo, quello che si oppose al trinomio "libertà, eguaglianza, fraternità" in nome dei principi della tradizione e della terra, cioè della nazione, senza tuttavia rinunciare al filone laico di derivazione illuministica. Perciò Burke ma non De Maistre.

E dunque: lo Stato da riscoprire come depositario di un disegno-paese e di un certo grado di eticità; la Costituzione come quadro di rapporti sociali e custodia di pluralismo; il presidenzialismo che garantirà l'unità contro le spinte centrifughe e l'eguaglianza delle prestazioni pubbliche tra le Regioni e i cittadini che vi risiedono; la separazione dei poteri; l'economia mista dove lo Stato non si limita a formulare le regole e a farle rispettare ma, al bisogno, interviene direttamente come operatore di ultima istanza.

Questa è la piattaforma della nuova destra costituzionale che Fini indica al Pdl e in particolare ai militanti di An nell'atto stesso dello scioglimento di quel partito. Lo seguiranno? Riusciranno a realizzare gli obiettivi che il discorso di oggi ha con chiarezza indicato? Saranno in grado di fertilizzare il corpaccione di Forza Italia e di arruolare per quell'impresa che non gli somiglia affatto anche il "boss dei boss", il Capo carismatico che ha ancora dinanzi a sé un altro decennio di potere?

Per rispondere a queste domande occorre esaminare la natura profonda del berlusconismo, il suo rapporto con la Lega, le tendenze che emergono dalla società italiana, il ruolo di alcuni possibili successori del Capo, l'attrazione del centrismo, le capacità potenziali dell'opposizione riformista. Infine l'esito della crisi che infuria sull'economia mondiale. Nei limiti che lo spazio ci impone cercheremo di analizzare questi vari elementi del problema.

Può essere utile un confronto tra fascismo e berlusconismo. In fondo si tratta di due regimi; il fascismo durò vent'anni, il berlusconismo ne ha già alle spalle quindici e si avvia a raggiungere la durata del precedente e probabilmente a superarla.
Al di là di alcune somiglianze che indubbiamente ci sono e possono riassumersi nel carisma populista del Capo, essi divergono profondamente su un punto di capitale importanza.

Mussolini e il fascismo volevano costruire un uomo nuovo, ispirato dai valori della forza, dai doveri verso lo Stato, dalla cultura della guerra e della conquista, dagli ideali dell'imperialismo, dal mito della Roma imperiale. La maggior cura la dedicarono all'educazione della gioventù a questi valori e a questa mitologia. I successi che ottennero si rivelarono effimeri non appena si scontrarono con la durezza della realtà.

Il berlusconismo ha invece avuto come obiettivo la decostruzione del rapporto tra l'individuo e la collettività, la decostruzione delle ideologie, l'esaltazione della felicità immediata nell'immediato presente, l'antipolitica, il pragmatismo come solo fondamento delle decisioni individuali, il trasformismo come pratica quotidiana. La corruttela pubblica come peccato veniale.

Berlusconi è un uomo di gomma laddove Mussolini si atteggiava a uomo di ferro. Berlusconi galleggia e padroneggia la democrazia cercando di renderla invertebrata; Mussolini distrusse la democrazia. Mussolini volle lo Stato etico, Berlusconi appoggia il suo potere sull'incompatibilità degli italiani nei confronti dello Stato, salvo adottare lo statalismo quando una società impaurita lo invoca come il protettore di ultima istanza.

Si tratta, come si vede, di differenze profonde anche se il fine è analogo: un Capo carismatico, plebiscitato da un popolo che ha rinunciato ad esser popolo ed ha trasferito in blocco la sua sovranità al Capo.
Di fronte a queste caratteristiche dell'amico-nemico il disegno di Fini ha scarse possibilità di successo. Del resto i suoi "colonnelli" hanno da tempo introitato questa realtà e vi si sono adeguati.

Quando in una recente trasmissione televisiva il ministro Ronchi (che di Fini è il portavoce) parlò di una guida duale del nuovo partito, fu interrotto dal ministro Matteoli (anche lui di An) che rifiutò pubblicamente l'idea stessa di un consolato Berlusconi-Fini affermando che il Capo non poteva che essere uno e c'era già. Resta da vedere fino a che punto la base di An sia rappresentata da Fini o dai suoi ex colonnelli.

Ma per aderire al disegno del presidente della Camera ci vorrebbe un ritorno all'Msi, al fascismo puro e duro che esiste ancora ma non certo sulla linea laica e costituzionale di Fini. In una società di gomma il cemento del potere e del sottopotere è un collante formidabile; quel collante è nelle mani di un Capo proprietario del suo partito nel quale Fini entra da ospite dopo esser stato svestito dei suoi paramenti salvo quelli, abbastanza innocui, di natura istituzionale. L'esperienza di Casini da questo punto di vista è eloquente.

Visto che ho accennato a Casini, aggiungerò che l'attrazione del centro è assai modesta, almeno nello schema originario di ago della bilancia tra due forze contrapposte e di analoga dimensione. Le analoghe dimensioni sono un'ipotesi del passato destinata a non replicarsi per parecchio tempo, sicché contemporaneamente è scomparsa l'ipotesi stessa del centro come ago della bilancia. La strada di Casini a questo punto è segnata ed è quella dell'irrilevanza, dentro o fuori dal Pdl che sia. I contrasti possono alimentare tutt'al più una fronda, ma non possono aspirare né al potere né all'opposizione.

I successori sono di due tipi: il successore scelto dal proprietario quando il momento sarà deciso dal proprietario medesimo. Una scelta "alta" sarebbe Gianni Letta, una scelta servile sarebbe Alfano o (perché no?) una donna. Tutto può accadere nei regimi basati sulla proprietà e sulla gomma.

Oppure il successore emerge per forza propria. Può essere il caso di Formigoni, ma con molte più probabilità quello di Tremonti. La crisi economica favorisce il secondo ed anche il suo rapporto con la Lega. Piace perfino ad una parte della sinistra per il suo colbertismo statalista, ma non piace la scelta valoriale di Dio, Patria, Famiglia. Tremonti comunque aspetta, non precorrerà mai i tempi. Fini si è già esposto, Tremonti no. Per ora si contenta del fatto che il Capo (che non lo ama) abbia bisogno di lui.

Resta l'opposizione riformista che ora sta lottando per la sopravvivenza. Franceschini è una scoperta e qualche risultato l'ha già ottenuto, qualche piccolo passo avanti l'ha fatto, qualche punto di consenso l'ha riguadagnato. L'esame arriverà con le elezioni europee.
Dal punto di vista formale la sopravvivenza consiste nell'asticella da superare. Ragionevolmente sta a metà strada tra il 25 e il 30 per cento. Sotto a quel livello la sopravvivenza oggettivamente non c'è e comincerà l'implosione; ma significherebbe la scomparsa della sinistra riformista e laica dalla scena dopo la scomparsa politica già avvenuta della sinistra radical-massimalista.

Ammettiamo (e speriamolo per la democrazia italiana) che la sopravvivenza sia realizzata con le elezioni europee. Quale può essere il ruolo del Pd, oltre quello di darsi finalmente un'organizzazione ed una struttura? Capace di rieducare una parte consistente della società? Di alfabetizzare politicamente e moralmente quella parte consistente? Di ricostruire il rapporto tra la società e lo Stato, decostruito dal berlusconismo?

Il ruolo della sinistra riformista consiste proprio nelle risposte a queste domande che si riassumono nella riconquista della società alla democrazia partecipata e modernizzata. Nell'esercizio di questo ruolo il riformismo può incontrare il disegno degli ambientalisti, il disegno dei cattolici cristiani, il disegno dei liberali socialisti, il disegno della sinistra democratica ed anche il disegno di una destra repubblicana e costituzionale.

L'obiettivo comune è quello di ristrutturare una società destrutturata e modernizzare le istituzioni. Si può fare ma ci vorrà tempo. Tempo e veduta lunga. Uscire dal presente puntinista ed entrare coraggiosamente nell'avvenire.

(22 marzo 2009)
DA repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Meno male che Fini c'è
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2009, 11:17:45 am
IL COMMENTO

Meno male che Fini c'è

di EUGENIO SCALFARI


Era stato concepito come un congresso-show e così si è svolto, ma sarebbe grave errore interpretarlo solo come un evento mediatico. Il Popolo della libertà ha ancora l'apparenza d'un partito di plastilina, malleabile e manipolabile con facilità, ma ha un'armatura di ferro costituita da interessi largamente diffusi nella società italiana: le partite Iva, le piccole imprese, il lavoro autonomo, le clientele del Sud e delle isole, i disoccupati e i giovani in cerca di lavoro. A suo modo è un blocco sociale che crede di aver trovato la sua rappresentanza e la sua tutela nel carisma berlusconiano.

Lo show fa parte della rappresentazione, serve a celebrare il Capo che oggi sarà incoronato; ha anche i suoi aspetti impietosi che rivelano lo spirito del luogo. Uno di tali aspetti l'abbiamo colto nell'esibizione dei quattro giovani che hanno parlato in apertura del congresso. Non tanto per i discorsetti che hanno letto quanto per i gesti di commento del Capo seduto in platea. Quando uno di essi l'ha chiamato eroe lui ha alzato il dito pollice in segno di euforica approvazione e di nuovo l'ha alzato quando un altro ha aggiunto che tutto quanto di buono è stato fatto in Italia lo si deve soltanto a lui. Il giorno dopo, durante il discorso di Fini nei suoi passaggi più dissenzienti, la maschera del Capo era del tutto diversa: un sorriso-smorfia gli increspava le labbra e il teleschermo diffondeva quell'immagine di evidente fastidio che le parole del presidente della Camera gli suscitavano.

Intanto la colonna sonora dello show passava dall'inno di Mameli all'inno alla gioia beethoveniano per affidare alla canzone "Meno male che Silvio c'è" la conclusione della sigla musicale.

Un'altra osservazione, per restare ancora sullo show: nella grande platea predominavano le bionde e nelle primissime file i giovani e le giovani di bell'aspetto perché al Capo piacevano così e così è stato fatto. Alcune (attendibili) malelingue dicono che per esaurire in modo conveniente i 56 posti a sedere di ogni fila, gli organizzatori siano anche ricorsi ad appositi centri di ricerca di figuranti e comparse, ma forse non è vero.
Ci sarebbe molto altro materiale per irridere, ma sarebbe inadatto a commentare un congresso serio e importante; perciò cambiamo registro.

La prima conclusione da trarre contrasta con quanto dicono alcuni attendibili sondaggi circa la durata del nuovo partito quando il suo leader non sarà più Silvio Berlusconi. Quei sondaggi dicono a forte maggioranza che il partito si dissolverà, non sopravviverà al suo fondatore. Ma a noi sembra sbagliato. La fusione con Alleanza nazionale non gli porta idee diverse con le quali confrontarsi, ma gli porta una prospettiva di durata che va oltre la sua leadership. Questo sì, è il plusvalore che Forza Italia, se fosse rimasta sola, non aveva. An è meno liquida di Forza Italia, perciò ha maggior resistenza al trascorrere del tempo e questo è il valore aggiunto di questa fusione.

Perciò, quale che sarà il leader che verrà dopo Berlusconi, il partito nato oggi ci sarà ancora per lunghi anni e non sarà facile smontare il blocco sociale che intorno ad esso si è coagulato. In altri tempi l'abbiamo creduto ma oggi crederlo ancora sarebbe profondamente sbagliato. La sinistra si dovrà confrontare a lungo e seriamente con questa realtà a cominciare da subito se ci riuscirà.

La parola popolo è stata quella più pronunciata nei vari interventi congressuali e soprattutto nel discorso di apertura del premier. Il quale ha fatto di quella parola il pilastro della sua concezione politica e istituzionale. Il popolo sovrano esprime il leader. Nel caso nostro è piuttosto il leader che ha costruito politicamente quel popolo, questo merito (o demerito) gli va onestamente riconosciuto.
Tra il popolo e il leader non ci sono intermediari e se ci sono vanno spazzati via o conservati come semplici simboli senza funzioni.
Il popolo si esprime plebiscitando il leader e votando per il suo partito e instaura in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, la legittima dittatura della maggioranza che è lo strumento tecnico per trasformare in norme giuridiche e atti di governo le decisioni del Capo.

Nel suo discorso di apertura Berlusconi ha fatto un elenco dei valori comuni a tutto il Popolo della libertà. Il primo valore è, ovviamente, la libertà stessa. Il secondo la modernizzazione. Il terzo la meritocrazia. Il quarto l'identità nazionale a formare la quale entrano in gioco il mito della romanità, i Comuni e le Repubbliche marinare del medioevo, il Rinascimento, il Risorgimento, De Gasperi e ovviamente la Chiesa, Craxi e infine lui, il nuovo eroe (scusate se torno ad usare questa parola ma essa fa parte integrante della sostanza della concezione politica berlusconiana).
In quel lungo discorso di 90 minuti manca del tutto una menzione. Si parla di libertà, si parla di democrazia, si parla di Costituzione, si parla di giustizia sociale, ma non una menzione e neppure il concetto della divisione dei poteri. Cioè di stato di diritto. Cioè di controllo. I poteri di controllo politico del Parlamento. I poteri di controllo costituzionale del Capo dello Stato e della Corte. I poteri di controllo di legalità della magistratura.
Neppure un cenno alla natura indipendente di tali poteri. Si parla invece diffusamente del potere sovraordinato del leader scelto dal popolo di fronte al quale tutti gli altri debbono essere subordinati, rotelle d'un ingranaggio, o debbono scomparire perché inutilmente lenti, frenanti, ostacolanti, incompatibili con la cultura del fare.

Il fare non è un obbligo, è inerente alla vita di ciascuno, il fare costituisce il senso stesso della vita. Una vita inerte è una non vita. Non è dunque una cultura, quella del fare, ma un fattore biologico come il respiro, il movimento, il desiderio, la speranza. Insomma il senso.
Oppure il fare è una nevrosi, un'egolatria, un'ipertrofia dell'io, che per realizzarsi deve sopra-fare: fare intorno il deserto, sbarazzarsi dei corpi intermedi, di ogni opposizione, di ogni stato di diritto, di ogni organo di controllo. Perciò l'aspirazione e l'evocazione d'un consenso che superi il 50 per cento degli elettori.
Le monarchie di diritto divino, quelle dell'"ancien régime", erano collegate al popolo senza intermediari, in lotta perenne contro i Parlamenti e contro i nobili. Lo Stato faceva tutt'uno col patrimonio del Principe, che riuniva in sé il potere di fare le leggi e di eseguirle oppure di ignorarle a suo piacimento. Le monarchie costituzionali (lo dice la parola stessa) furono tali perché soggette alla Costituzione. Perché la magistratura conquistò l'indipendenza. E i Parlamenti divennero i destinatari delle scelte del popolo sovrano.
Tutto questo per dire che la concezione politica di Silvio Berlusconi fa a pugni con l'obiettivo della rivoluzione liberale da lui indicato come il fine principale del Popolo della libertà.

Ma ci sono altre ragioni per le quali quella rivoluzione non si farà e non s'è mai fatta: gran parte degli interessi agglomerati e rappresentati dal centrodestra sono contrari ad essa così come gli sono contrari gran parte degli interessi rappresentati dalla sinistra. Perciò i tentativi di rivoluzione liberale in questo paese sono sempre falliti. Per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra. Li ha sostenuti soltanto il riformismo nei brevissimi periodi in cui ha governato: nel quindicennio giolittiano del primo Novecento, nella fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni, nelle regioni centro-settentrionali guidate dall'egemonia socialdemocratica del Partito comunista e nel triennio prodiano del 1996-'98 abbattuto dalla sinistra.
C'è ancora una pepita di riformismo nel Partito democratico che stenta tuttavia a farne un valore condiviso dai suoi aderenti. Sarà una lotta lunga e dura.
Quella di Berlusconi è più facile perché fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l'antipolitica. In nessun paese dell'Occidente l'antipolitica è un sentimento così diffuso e questa è una delle cause che ha ridotto la politica ad un livello poco meno che abietto; è un corpo separato e quindi aggredito e aggredibile da tutte le disfunzioni e da tutti gli inquinamenti.

Nel secondo giorno il congresso del Popolo della libertà ha cambiato faccia con il discorso congressuale di Gianfranco Fini. Non sembri una sviolinatura al "compagno" Fini, premio di consolazione ai disagi della sinistra, ma è invece un'analisi oggettiva d'un intervento degno di un uomo politico che ormai ha acquisito lo spessore d'un uomo di Stato.
Gran parte di quel discorso Fini l'aveva già pronunciata al congresso di scioglimento del suo partito pochi giorni fa, ma averlo ripetuto al congresso del nuovo partito in presenza del suo re incoronato e del suo pubblico devoto e osannante è un atto di coraggio che non si può sottovalutare.
All'inizio ha dovuto bruciare qualche grano d'incenso alla lungimiranza di Silvio, alla perseveranza e alle capacità di Silvio, alla sua lealtà e qualche altro grano di assenzio nei confronti della sinistra, della sua incapacità riformatrice e del suo sguardo perennemente rivolto al passato. (Ma Fini ha voluto dimenticare che vengono dalla cultura della sinistra alcune regole di mercato come la creazione della Consob e dell'Autorità antitrust, l'obbligo di trasparenza delle società quotate in Borsa, la legge sull'Offerta pubblica di acquisto-Opa e infine la massima delle riforme della storia italiana, l'abbandono della lira e l'adozione dell'euro. Non sono fatti che smentiscono le sue affermazioni, onorevole Fini?).

Ma poi è cominciata la parte vera del discorso ed è allora che il volto del Capo si è impietrito nel sorriso-smorfia e la variazione somatica è apparsa anche evidente sui volti dei suoi ex colonnelli di An.
Fini ha detto che il nuovo partito dev'essere pluralista. Che su Berlusconi, capo indiscusso, incombe però il compito di garantire quel pluralismo. Che è necessario intraprendere una riforma costituzionale per instaurare una democrazia governante. Ha insistito tre volte su questo binomio e la terza volta l'ha scandito perché entrasse nella memoria degli ascoltatori. E ne ha spiegato il senso: maggior potere al governo e al premier per governare con la rapidità richiesta dai tempi; ma anche maggiori poteri di controllo democratico al Parlamento. Se non è governante la democrazia affonda, se non è democratica si trasforma in autocrazia. Le due parole stanno insieme o affondano insieme.
Ha parlato del principio di legalità (che Berlusconi non aveva neppure nominato) come dire dello stato di diritto. Ha auspicato che il Partito democratico si riconsolidi ricordando che esso è portatore di valori necessari ad una democrazia compiuta. Ha descritto come sarà l'Italia tra dieci anni, pluri-etnica, pluri-religiosa, pluri-culturale, e quindi la necessità di prepararsi a questi eventi soprattutto nella scuola, nelle norme di integrazione e nel rispetto dei diritti ai quali debbono corrispondere i doveri sia dei cittadini che degli immigrati. Ha ricordato il diritto di esser curati anche per gli immigrati clandestini.

Il finale a sorpresa l'ha introdotto con una citazione latina: "In cauda venenum". E poi: "La legge che avete votato al Senato sul testamento biologico è una cattiva legge, lede i diritti di libertà. So di essere in minoranza su questa questione e sul mio concetto di laicità dello Stato, ma mi auguro che ci ripensiate".
Così ha concluso. Se avesse un Apicella, forse gli scriverebbe una canzone e la intitolerebbe "Meno male che Fini c'è" ma forse lui invece di alzare il pollice, gliela strapperebbe in faccia. O almeno così si spera.

(29 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ingiustizia ha sconvolto il benessere del mondo
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2009, 11:58:49 am
L'ingiustizia ha sconvolto il benessere del mondo

di EUGENIO SCALFARI



IL tema che desidero oggi proporre ai nostri lettori è quello della disuguaglianza, già autorevolmente segnalato da Carlo Azeglio Ciampi nei suoi recenti interventi.

Esso si aggancia in modo evidente alla discussione aperta da Ezio Mauro sulla rottura del patto sociale tra capitale e lavoro ed è di stringente attualità. Ha costituito il motivo di fondo e ha dato il tono al G20 di Londra ed ha riecheggiato nella manifestazione di massa di ieri al Circo Massimo di Roma organizzata dalla Cgil.

E' un tema che supera tutti gli steccati politici ed etici. Lo si ritrova perfino nelle parole del cardinal Martini ("Conversazioni notturne a Gerusalemme") quando si chiedeva quale sia il vero e intollerabile peccato del mondo: la diseguaglianza, dice il cardinale, mettendo in seconda fila tutti gli altri peccati che la religione imputa agli uomini. La diseguaglianza ostacola o blocca del tutto il funzionamento della democrazia, divide il mondo degli esclusi da quello dei privilegiati, impedisce il consenso e la condivisione della crescita sostenibile.

I potenti del mondo, in tutti i loro incontri sempre più frequenti di fronte ad una crisi che ha già smantellato tutte le certezze, hanno sempre sacrificato qualche grano di incenso a quel tema, ma non sono mai andati più in là. Salvo, forse, nel vertice di Londra, per esclusivo merito di Barack Obama nella sua prima apparizione in un consesso planetario.

Il vertice di Londra è stato importante, al di là delle decisioni volte ad arginare la crisi, proprio perché per la prima volta il principio della giustizia sociale vi ha fatto la sua comparsa concreta. Non tanto come principio etico predicato ma mai praticato, quanto come imprenscindibile elemento d'un nuovo tipo di crescita, sostenibile se condiviso, accettabile se democratico, cioè approvato anche dagli esclusi, dai deboli, dai poveri, dai disperati.

Soltanto se questa condizione sarà realizzata la crescita potrà riprendere su nuove basi; soltanto se un patto sociale mondiale sarà stipulato la crisi avrà uno sbocco verso il futuro. Altrimenti il mondo vecchio riaffaccerà il suo muso sulle rovine senza che nulla sia cambiato in un pianeta impoverito e imbarbarito, teatro di altre possibili crisi, di altri crolli, di altre macerie.

* * *

Si è molto discusso sul principio dell'eguaglianza e sui modi di tradurlo in pratica; sulle sorgenti di pensiero che l'hanno alimentato, sul deposito di valori che l'hanno mantenuto in vita nonostante le ferite e i solchi profondi che gli sono stati inferti dalla realtà. E la prima vivida sorgente è storicamente apparsa nel messaggio evangelico che promise all'umanità la fine di ogni discriminazione tra i liberi e gli schiavi, tra i poveri e i ricchi, tra i deboli e i potenti.

"E' più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli". Era il principio dell'amore che faceva la sua prima stupefacente irruzione nel mondo antico sconvolgendo equilibri arcaici, istituzioni, volontà di potenza radicate e fino ad allora invincibili.

Ma quel principio così fortemente innovativo ed anzi rivoluzionario conteneva un tarlo vorace dentro di sé: la religione rinviava la promessa all'avvento di un altro mondo ultra-terreno, alla comparsa d'un futuro messianico alla fine dei secoli, quando la bestia trionfante sarebbe stata uccisa e con essa il fluire ingiusto della storia.

Occorre arrivare alla modernità, diciotto secoli dopo il lascito evangelico, per veder realizzata la prima, minima ma necessaria realizzazione di quel principio: la conquista dell'eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge. Indipendentemente dalle differenze di sesso, di etnia, di censo, di istruzione.

Era ancora molto poco, non risolveva altre terribili diseguaglianze, non impediva che le leggi fossero ingiuste, ma rappresentava comunque un passo preliminare e necessario perché abbinato agli altri essenziali principi della libertà e della fraternità. Fu il trittico della modernità, la cui realizzazione vide paradossalmente le Chiese alleate con i privilegi anziché con i movimenti riformatori.

Su quel trittico si fondarono i valori dell'Occidente. Il fatto che essi siano stati largamente traditi testimonia la durezza della storia e delle sue dinamiche e rende tanto più necessario procedere oltre perché è di tutta evidenza che la conquista della legalità è monca se altre condizioni di eguaglianza non si realizzano.

* * *

Fermo restando il nesso tra giustizia e libertà, è ormai maturo il tempo per procedere verso l'eguaglianza delle condizioni di partenza tra i ceti, le etnie, i generi, gli individui. Condizione che necessariamente comporta una profonda redistribuzione dei redditi e della ricchezza tra paesi opulenti, paesi emergenti, paesi poveri e all'interno d'ogni nazione tra sacche di arretratezza e sacche di privilegio.

Siamo tutti ben consapevoli che i principi viaggiano insieme agli interessi e si ridurrebbero a pure velleità utopiche se questo nesso intrinseco non fosse solido e durevole. La novità della situazione attuale consiste nel fatto che quel nesso tra principi e interessi risulta quanto mai necessario. Non ci sarà crescita senza redistribuzione del reddito e della ricchezza. Il nocciolo dell'attuale recessione mondiale, il rischio incombente che possa trasformarsi da recessione in depressione, lo spettro dei 25 milioni di disoccupati che incombe come un cataclisma sull'economia dei paesi del primo mondo, risiede nel crollo della domanda globale. Se non c'è domanda crolla il commercio internazionale, crollano gli investimenti, si blocca il credito, cade il reddito delle nazioni, delle famiglie, delle persone.
 
Il rilancio della domanda passa inevitabilmente per il suo finanziamento, finanziamento di massa per rilanciare la domanda di massa. La necessità della redistribuzione è dunque la condizione primaria per il rilancio della crescita, per alimentare la quale il valore d'uso dei beni e dei servizi deve affiancarsi al valore di scambio e magari sopravanzarlo.

Il valore d'uso non esclude il profitto ma ne contiene gli eccessi poiché introduce una specifica domanda di beni e di servizi pubblici: l'etere, l'acqua, l'energia ed anche, diciamolo, la giustizia.

Questa è la crescita condivisa, sostenibile e durevole, che procede e si rafforza insieme alla democrazia e senza di essa non sussiste.

(5 aprile 2009)

dal forum di forumista.net


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel decalogo senza eredi
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2009, 10:02:29 am
Eugenio Scalfari,


Quel decalogo senza eredi


Gianfranco Fini ha lasciato un testamento a futura memoria. Ma le facce di La Russa, Matteoli, Gasparri, Alemanno, D'Urso dicevano sì con le labbra e no con gli occhi.

A Gianfranco Fini non piace la parola 'sdoganamento', l'ha detto e l'ha ripetuto nel suo discorso di addio di domenica scorsa all'assemblea di scioglimento del partito da lui fondato che confluisce insieme a Forza Italia nel nuovo partito del Popolo della libertà. Non gli piace quella parola che gli ricorda lo sdoganamento effettuato da Berlusconi nei suoi confronti quando disse nel 1993, in occasione delle elezioni che contrapposero il segretario del Msi a Francesco Rutelli per la carica di sindaco di Roma. "Se votassi a Roma - disse allora il Cavaliere - non voterei per Rutelli ma per lui". Fini ha commentato, quindici anni dopo, che si sdoganano le merci ma non le idee. Ha ragione. E poi Berlusconi è il meno adatto a rilasciare biglietti d'ingresso nella democrazia italiana.

Bisogna leggerlo bene questo discorso del presidente della Camera al suo partito che da domenica scorsa non c'è più. È un testamento a futura memoria. Al di là d'una rivendicazione di coerenza che fa parte della retorica politica, esso delinea un futuro che è l'opposto dei programmi della Lega e di Forza Italia. L'opposto di quanto pensa e fa Berlusconi. Ecco infatti i passaggi fondamentali di quel discorso testamentario.

1. Occorre costruire una nuova Italia adatta a soddisfare i bisogni del paese che ci sarà tra dieci anni e non pensare con la mentalità di ieri e di oggi.

2. La nuova Italia del 2020 sarà multietnica e multireligiosa. Di conseguenza si dovrà costruire una cultura e uno Stato che tengano conto di questa inevitabile evoluzione.

3. Bisogna colloquiare con l'Islam.

4. Il nuovo partito non può nascere all'insegna del pensiero unico e tantomeno del culto della personalità del leader.

5. La modernizzazione istituzionale comporta il presidenzialismo ma contemporaneamente un deciso rafforzamento dell'autonomia del Parlamento e dei suoi poteri di controllo sull'Esecutivo.

6. Il principio che sta alla base della società è la dignità della persona. Esso deve valere per tutti i cittadini e per tutti i residenti, indipendentemente dal colore della pelle e dalla religione che professano.

7. Chiesa e Stato sono separati tra loro e agiscono in aree distinte. Libertà religiosa e laicità dello Stato e delle istituzioni sono due facce della stessa medaglia tanto più in una società che sarà multireligiosa.

8. La dignità della persona va rispettata e tutelata anche per gli immigrati clandestini.

9. Le leggi non possono imporre alle persone obblighi derivanti da un credo religioso. Creano doveri ai quali corrispondono diritti.

10. La crisi economica attuale può avere un'uscita autoritaria oppure un'uscita liberal democratica. La scelta degli italiani deve essere in favore della seconda soluzione e non della prima.

Questo è il decalogo che Fini lascia ai suoi eredi. Ma gli eredi lo accetteranno? E saranno in grado di rispettarlo?

Gli eredi erano tutti sul palco di quella sala gremita. Le loro facce, i loro sguardi, le loro posture erano impietosamente riprese dai teleschermi mentre Fini parlava. Bisogna averle viste e guardate con attenzione quelle facce, La Russa, Matteoli, Gasparri, D'Urso, Alemanno e tutti gli altri che facevano corona. Facce che dicevano sì con le labbra e no con gli occhi, facce che pensavano al domani con intenzioni diametralmente opposte a quelle che il loro ex capo snocciolava davanti al microfono.

Quando Fini ha detto che anche An ha in certi momenti anteposto il potere e il sottopotere ai principi del buon governo e della democrazia, quelle facce si sono impietrite. Quando ha parlato dell'immigrazione come un fatto inevitabile e dell'integrazione come una necessità, gli sguardi si sono incupiti. Quando ha ricordato che i poteri di controllo e di garanzia delle minoranze debbono essere la prima cura del Parlamento, si sono distratti e hanno guardato nel vuoto.

Gli eredi sono già dentro una realtà che con Fini non ha nulla a che fare. Perciò il documento testamentario del presidente della Camera resterà senza eredi. È un messaggio chiuso in una bottiglia e lanciato in mare. Si perderà tra le onde. Ma semmai qualcuno troverà quella bottiglia e leggerà quel messaggio sicuramente sarà qualcuno che in quella sala non c'era.

Spesso la storia fa di questi scherzi e per questo va avanti per forza propria indipendentemente dai disegni individuali. Oppure si blocca e diventa schiava delle furbizie degli omuncoli e della cupidigia dei rubagalline.

Quanto a Berlusconi, per questa settimana elogerà Fini e poi archivierà la pratica fino al prossimo scontro tra il premier e il presidente della Camera. È l'eterno ritorno d'una vicenda ormai risaputa che può sempre riservare qualche sorpresa.

(26 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il politico da bar sport
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2009, 10:50:02 am
Eugenio Scalfari.


Il politico da bar sport


Il Capo vuol stare al riparo dal biasimo che oggi incombe sulla politica. Deve essere 'uno di noi' e allora scherza, motteggia, racconta barzellette.

Ne abbiamo visti tanti ma ci ricadiamo sempre 

Sabato scorso, 4 aprile, ho partecipato ad un dibattito a Torino nel quadro delle celebrazioni einaudiane in memoria di Giulio Einaudi nel decennale della sua scomparsa. Erano con me Abraham Joshua e il priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi e il tema che ci era stato assegnato aveva per titolo 'Domani'. Si trattava di delineare - ciascuno dal proprio punto di vista - la possibile fisionomia delle società d'Occidente come emergeranno dopo la crisi che le sta scuotendo dalle fondamenta.

Non starò a resocontare l'andamento del dibattito, è già stato fatto da alcuni giornali. Ma voglio soffermarmi su un punto, toccato dal priore di Bose, un monaco che svolge da vent'anni un suo discorso cristiano assai diverso da quello della Chiesa e per questo molto intrigante per chi guarda da laico non credente con molto rispetto al sentimento religioso quando è intenso, autentico e libero da ogni fondamentalismo.

Il tratto che più mi ha colpito nelle parole di don Enzo è stata la sua attenzione alla 'communitas' e alla 'polis'. Se non si ha nella mente e nel cuore la visione della 'polis', della città terrena dove trovano attuazione i principi della solidarietà, della condivisione, dell'etica e del bene comune, il sentimento religioso si restringe a un fatto privato, di grande importanza per la salvezza dell'anima, ma mutilato dal sentimento di fraternità e d'amore per gli altri che sta al primo posto nella predicazione evangelica.

La cura della 'polis' è un elemento fondamentale della vita cristiana senza il quale la religione diventerebbe impensabile: questo crede e predica il priore di Bose nella sua Comunità e dovunque gli capiti di parlare.

Dal canto mio osservo che la parola 'polis' fornisce il suo etimo alla parola 'politica' che altro non è - o almeno altro non dovrebbe essere nel senso etimologico e alto - che il governo della città per il bene dei cittadini e con la loro partecipazione.

La 'polis' ateniese e greca integrava a tal punto i cittadini nella comunità politica da ridurre al minimo l'importanza della loro vita privata individuale. La famiglia in quanto istituzione aveva pochissimo rilievo nella società greca e quindi non serviva da contrappeso privato alla dimensione pubblica.

Ricordo queste lontane origini della nostra civiltà occidentale in una fase in cui la parola 'politica' e l'aggettivo 'politico' sono diventati poco meno che un'ingiuria che non colpisce soltanto comportamenti disdicevoli di alcuni uomini politici ma la loro totalità. Il politico è disdicevole per definizione; per sfuggire a quello stigma che attira biasimo pregiudiziale e non contempla eccezioni, occorre dunque che il politico si faccia, proprio lui, il banditore dei sentimenti antipolitici prevalenti, con conseguenze paradossali sulle istituzioni.

Il politico banditore dell'antipolitica si dedica infatti, per acquistare e mantenere il suo carisma, a svalutare le istituzioni rappresentative della politica, a sbeffeggiarle anche mentre le sta usando, a proporne l'azzeramento o comunque un contenuto radicalmente diverso nel senso della personalizzazione su se stesso.

La società, ormai polverizzata e ridotta a folla indistinta, plaude a chi la espropria progressivamente dei suoi diritti e della sua partecipazione alle scelte politiche. La sola partecipazione possibile in queste condizioni è quella di rispondere, quando interrogati, a un sì o un no a domande che l'antipolitico propone retoricamente e che contengono già la risposta.

Ma tutto ciò non sarebbe ancora sufficiente a mantenere il Capo al riparo dal biasimo che incombe sulla politica. Egli infatti governa e perciò stesso deve occuparsi del bene collettivo ma deve contemporaneamente e a tutti i costi sfuggire alla tagliola di essere assimilato ai 'politici'. Dovrà dunque metter tutta la sua cura nel linguaggio che usa, nel gesto che lo accompagna, nell'abbigliamento, nei modi di pensare e di esprimersi. Dev'essere insomma 'uno di noi'. Deve collocarsi con l'immaginazione in un immenso 'bar dello sport' dove si scherza, si motteggia, si discute di tutto, si raccontano barzellette salaci, si semplifica.

Il politico antipolitico riesce a mantenere questo livello se la sua natura glielo consente, cioè se il suo carattere è conforme a quella tipologia. Voglio dire che unire insieme l'ipertrofia del proprio io e la dimensione antipolitica sono due facce della stessa medaglia: ci si nasce e non ci si diventa.

Noi italiani abbiamo conosciuto molti casi del genere nel corso della nostra storia; dovremmo perciò esser vaccinati e immunizzati contro il loro ripetersi ma purtroppo non è così. Ci ricadiamo con frequenza per ragioni che sconfinano dal giudizio politico all'antropologia. Questa è la nostra endemica malattia dalla quale non siamo ancora riusciti a liberarci.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma oltre l'emergenza incombe il futuro
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2009, 11:01:50 am
IL COMMENTO

Ma oltre l'emergenza incombe il futuro


di EUGENIO SCALFARI

 
LACRIME lacrime lacrime. Composte, represse, trattenute, a volte singhiozzanti, a volte silenziose in lunga riga sulle guance da occhi che fissano il vuoto. Ma ora, in questa Pasqua dolente, non è più tempo di lacrime che non siano strettamente private. Ora è tempo di decisioni rapide e sagge e di pubbliche assunzioni di responsabilità.

Siamo un paese capace di mobilitarsi e di dare il meglio di sé nell'emergenza, sedendosi poi su se stesso nei tempi lunghi. Accade addirittura che lo sguardo lungo verso il futuro si addica di più alle famiglie che al potere pubblico e alle istituzioni. Dovrebbe avvenire il contrario ma non è così, non in Italia.

Prendete il piano casa voluto dal governo. Al principio fu una proposta avventurosa di Berlusconi per rilanciare l'industria delle costruzioni: il 20 per cento di cubatura in più concessa a tutti i proprietari di case, in città, nei centri storici, nelle campagne. Le sovrintendenze costrette al silenzio-assenso con trenta giorni di tempo per opporsi. I privati autorizzati a iniziare i lavori con la semplice autocertificazione firmata dal professionista incaricato di dirigere i lavori. E sgravi fiscali per tutti.

Poi le Regioni bloccarono il progetto, lo ridimensionarono escludendo le città e le aree vincolate al rispetto paesaggistico, introdussero vincoli speciali per le zone a rischio sismico.

Adesso, dopo il terremoto d'Abruzzo, quel piano è da buttare. L'emergenza ha riproposto il problema delle scuole fatiscenti (San Giuliano di Puglia insegni) e dei rischi naturali. Non siamo soltanto la terra ballerina dei terremoti, ma anche la terra dei torrenti e dei fiumi senza argini, secchi d'estate e devastanti d'inverno; la terra dei vulcani non spenti; la terra delle montagne franose; lo "sfasciume pendulo" che incombe sulle sottostanti marine.

Un piano casa deve dunque includere la messa in sicurezza di tutti gli edifici scolastici, la messa in sicurezza di tutte le costruzioni nelle aree di rischio sismico seguendo le priorità già indicate nelle mappe del 1996; la ricostruzione degli edifici abbattuti e lesionati dal terremoto in Abruzzo. Infine la costruzione di case nuove nei limiti indicati dal mercato per abitazioni dignitosamente economiche. E criteri di rigorose demolizioni per le abitazioni e gli edifici industriali eretti lungo i fiumi, i torrenti e i vulcani a rischio di esondazione e di eruzione.

C'è un lavoro enorme da fare, che non riguarda il bravissimo Bertolaso che di lavori ne fa già troppi, non riguarda l'emergenza di poche settimane e di pochi mesi, ma un arco di anni e impegni di bilancio di grandi dimensioni. Riguarda il tempo lungo che le nostre classi dirigenti non hanno mai preso in considerazione, assorbito soltanto dal fare con ritorni politici ed elettorali immediati, lasciando che le antiche piaghe geofisiche del "Bel Paese" imputridissero e incancrenissero, provocando emergenza dopo emergenza, strage dopo strage e lutti e rovine e lacrime.

* * *

Ricordiamole quelle catastrofi avvenute che hanno costellato la storia nazionale nel dopoguerra (senza scordare il terremoto-maremoto che distrusse Messina e lo Stretto ai primi del secolo scorso provocando una strage di proporzioni inusitate).

Il primo fu l'alluvione del Polesine. Poi l'immensa e paurosa ondata del Vajont. Il terremoto del Belice. L'esondazione dell'Arno che sommerse Firenze mentre un'acqua alta eccezionale sommergeva Venezia. Poi il terremoto dell'Irpinia. Quello del Friuli. La catastrofe in Valtellina. L'esondazione della Dora e degli affluenti del Po. Il terremoto in Umbria e nelle Marche. L'ondata di fango che devastò la valle del Sarno. Ed ora l'Abruzzo.

Sessant'anni di rovine, lutti, tendopoli, roulotte, prefabbricati, cucine da campo, Forze dell'ordine e Forze armate mobilitate, pompieri e vigili, ordinanze, editti, processi, mafie e camorre all'opera per trarre vantaggi.

E lacrime lacrime lacrime. Di emergenza in emergenza. Ma tra l'una e l'altra liberi tutti. Liberi di costruire sul bordo dei fiumi e dei vulcani. Liberi di impastare il cemento con la sabbia del mare. Liberi di lesinare sulle armature di ferro. Liberi di scempiare il paesaggio. Liberi di violare i piani regolatori. Un popolo di eroi, di navigatori e di abusivi. Sempre condonati. Spesso incitati ad abusare. Come accade quando il fare diventa un fine a se stesso e sgomita per farsi largo, egoismo che lotta con altri egoismi.

Sono queste le invasioni barbariche del nostro tempo, in testa alle quali ha cavalcato e cavalca gran parte della classe dirigente di ieri e di oggi. Anche di domani?

* * *

Il terremoto d'Abruzzo, pur col suo carico terribile di vittime, ha registrato un numero di morti e di feriti minore di quelli che l'hanno preceduto. Ma con alcune particolarità che aggravano molto le incognite della ricostruzione.

La principale di queste particolarità riguarda l'Università, una delle più antiche d'Italia, concentrata sulla facoltà di Ingegneria, frequentata complessivamente da trentamila studenti molti dei quali provenienti da paesi e luoghi lontani. È improbabile che questi studenti "foranei" tornino a L'Aquila anche quando la città sarà stata ricostruita. I rischi sono troppi. Ma lo smantellamento del polo universitario sarebbe (sarà) un'altra catastrofe nella catastrofe della città. La popolazione universitaria produce infatti un indotto di traffico e di servizi che è il vero motore propulsivo dell'economia cittadina.

Un discorso analogo, anche se in misura più ridotta, vale per le scuole elementari e secondarie, anch'esse a rischio di spopolamento e intanto di lunga interruzione. Bisognerà organizzare un anno scolastico d'emergenza cercando in tutti i modi di preservare l'unità delle classi e dei loro insegnanti.

La terza questione riguarda i modi della ricostruzione e innanzitutto la scelta del luogo: una nuova città lontana dall'attuale insediamento oppure ricostruire negli stessi luoghi e nelle stesse forme architettoniche badando ovviamente ad una rigorosa vigilanza sulla progettazione tecnica e sulla qualità dei materiali?

La maggior parte degli esperti propende per questa seconda soluzione ma c'è ancora discordanza. Forse dovrebbero essere gli abitanti a decidere.

Quale che sia la scelta occorre far presto: il clima in Abruzzo è rigido, ad ottobre l'inverno è già cominciato. Trascorrerlo sotto le tende è impensabile, tanto più che abbondano le persone anziane. Ma è impensabile anche disperderli e non si tratta soltanto del capoluogo: il sisma ancora parzialmente in corso ha sconvolto gran parte dell'Abruzzo, sicché è un'intera regione con caratteristiche alpine che si accinge a passare un inverno assai disagiato.

Da questo punto di vista l'emergenza è massima e la sua durata non sarà certo minore dei diciotto mesi. Una regione intera. Non è pensabile che ci si affidi all'improvvisazione: governo e protezione civile dovranno presentare un piano ed una tempistica attuativa al Parlamento e indicando insieme con essa l'ammontare dei fondi necessari e la loro copertura.

La Cassa depositi e prestiti potrà fornire un appoggio che in parte rientra nelle sue competenze istituzionali. Si tratta tuttavia di investimenti infrastrutturali (ospedale, palazzi di città, scuole e Università) che riguardano istituzioni e pubblici servizi in capo alla Regione, ai Comuni e allo Stato. Per la Cassa si tratta comunque di prestiti che dovranno esser rimborsati e che richiedono quindi copertura.

Con i tempi che corrono questa partita è molto difficoltosa. Se non ci fosse di mezzo l'orgoglio di Berlusconi, il provvedimento più logico riguarderebbe la reintroduzione dell'Ici sulle prime case che frutterebbe all'Erario un maggior gettito di 3 o 4 miliardi. Ad essi si potrebbe aggiungere un "eccezionale" inasprimento dell'Irpef del 2 per cento per i redditi superiori a 120mila euro annui, il cui maggior gettito, stimato dai tecnici del Partito democratico che ha formulato la proposta, darebbe 2 miliardi. Sarebbe un'imposta di scopo motivata dal terremoto e quindi percepibile ed accettabile dai contribuenti chiamati a farvi fronte.

Infine l'accorpamento del referendum alle elezioni europee del 7 giugno, con un risparmio di 400 milioni.

Si tratta complessivamente di risorse che ammontano a circa 6 miliardi, per far fronte ad una ricostruzione "una tantum". È chiaro che ben altre cifre sono quelle che riguardano la messa in sicurezza delle scuole e delle costruzioni in zone a rischio di catastrofi naturali.

* * *

È stata notata da gran parte dell'opinione pubblica e sottolineata da giornali e televisioni la diversità di comportamento tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio di fronte al terremoto d'Abruzzo. Più composto e riservato Napolitano, più emotivamente impegnato nel dirigere e nel fare Berlusconi. Commossi ambedue e più volte presenti sui luoghi del disastro, Napolitano con appena un tremito della voce subito represso, Berlusconi con lacrime sincere e copiose. Infine il Capo dello Stato ha chiamato in causa le responsabilità di quanti hanno male progettato e male eseguito opere che - se le regole fossero state osservate - avrebbero dovuto reggere all'impatto del sisma ed ha stimolato la magistratura ad accertare eventuali reati.

Si potrebbe dire con una punta di ottimismo che i due maggiori rappresentanti delle nostre istituzioni hanno caratteri e culture molto diversi ma complementari che, presi nel loro insieme, danno luogo ad un tandem bene assortito.

Purtroppo questa punta di ottimismo è troppo... ottimistica. Il fare del presidente del Consiglio - l'abbiamo già detto in precedenza - si limita ad una veduta corta e si esaurisce nell'immediato, insegue ritorni politici ed elettorali a scadenza breve, è intriso di emotività e di populismo. La sua sincerità non è sufficiente a dar vita a processi produttivi di lunga lena e di scarsa redditività ai fini del consenso e della popolarità.

Quanto al presidente della Repubblica, non è suo compito proporre programmi politici né Napolitano è persona che voglia eludere le sue competenze istituzionali. Ha grande rispetto per i poteri del governo e per quelli del Parlamento. Incoraggia nei modi appropriati alla sua carica il guardare lungo, a darsi carico del futuro, insomma a guidare il paese come spetta ad una classe dirigente consapevole delle sue responsabilità. Più di questo non può fare, anche se è prezioso che lo stia facendo con tenacia e fermezza.

Il resto spetta a tutti gli altri settori che formano la classe dirigente: i rappresentanti degli imprenditori, i sindacati dei lavoratori, i partiti, gli ordini professionali, la magistratura, le Regioni e gli Enti locali. Ma spetta soprattutto ai cittadini.

I cittadini (l'ho già scritto in altre occasioni ma voglio qui ripeterlo) sembrano ormai presi da sentimenti di indifferenza e apatia che non sono consoni alla temperie che stiamo attraversando. Sono delusi ed hanno buone ragioni per esserlo, ma la delusione non ha alcuna logica connessione con l'apatia, specie quando una parte non piccola di essa riguarda anche il modo come abbiamo esercitato il nostro ruolo di cittadini e di popolo, come abbiamo vissuto il nostro diritto di cittadinanza.

È illusorio pensare che la classe dirigente possa esser migliore del popolo che la esprime. C'è un rapporto stretto tra questi due elementi di una democrazia funzionante e governante, tra la cittadinanza e la dirigenza. Se entrambe sono parte d'un circolo virtuoso si migliorano a vicenda, ma se entrambe fanno parte d'un circolo perverso, a vicenda si imbarbariscono.

In questa Pasqua dolorosa sia questo un pensiero sul quale impegnarsi e sul quale tutte le persone di buona volontà sappiano guardarsi negli occhi e stringersi la mano.

(12 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Chi canta fuori dal coro è comunista
Inserito da: Admin - Aprile 19, 2009, 04:42:07 pm
IL COMMENTO

Chi canta fuori dal coro è comunista

di EUGENIO SCALFARI


Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l'aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all'obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.

E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo. Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.

Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo.

Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.

Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.

Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna.

Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.

* * *

Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.

Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.

I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia.
Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?

La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.

* * *

Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.

Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.

Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?

Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime?

Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.

* * *

Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.

Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.

Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra.

Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.

(19 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lezione dimenticata
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 10:08:06 am
Eugenio Scalfari


Lezione dimenticata


È quella di Roosevelt. Ecco perché la crisi di oggi rischia di aumentare le diseguaglianze  Franklin D. RooseveltRovistando tra vecchi libri in polverosi scaffali ne ho trovato l'altro giorno uno che più attuale non si può. Si intitola 'La rivoluzione di Roosevelt', l'autore è Mario Einaudi figlio di Luigi, che fu il primo presidente della nostra Repubblica, e fratello di Giulio, fondatore della casa editrice che porta il suo nome. Il libro fu scritto nel 1959, esattamente mezzo secolo fa. L'autore visse per molti anni negli Stati Uniti e quindi si giovò di un'esperienza diretta delle istituzioni politiche ed economiche americane. L'attualità del libro deriva dal fatto che ora il mondo sta attraversando una crisi che presenta molte analogie con quella del 1929 e con la rivoluzione rooseveltiana che ebbe inizio nel 1933, mentre la crisi era diventata mondiale e aveva raggiunto il suo culmine.

La trasformazione economica e istituzionale intrapresa da Roosevelt impiegò sei anni per generare tutti i suoi effetti e produsse un mutamento storico non solo nella società americana ma anche in quella europea che durò fino agli anni Ottanta dello scorso secolo. Poi cominciò il declino di quel modello fino allo scoppio della crisi che stiamo ora vivendo. Penso che la casa editrice dovrebbe ristamparlo, il libro di Mario Einaudi: la sua lettura è utilissima e meriterebbe di diventare un 'best seller' della saggistica. Quando uscì cinquant'anni fa l'avevo letto come un'opera storica; l'ho riletto in questi giorni scoprendone i pregi d'un breviario politico ad altissimo livello. È troppo sperare che i politici di governo e quelli d'opposizione gli dedichino attenzione? Ne trarrebbero grande profitto con notevoli vantaggi per il paese.

Per dar conto della sua essenza citerò intanto una frase che non è di Mario Einaudi ma di Alexis de Tocqueville, grande studioso all'epoca sua della civiltà americana e dei principi che reggono una democrazia liberale. Mario Einaudi la citò a pagina 313 del suo libro in un capitolo interamente dedicato allo scrittore francese. Eccola.

"È vero che intorno ad ogni uomo è segnato un cerchio fatale che egli non può oltrepassare; ma entro il vasto ambito di quel cerchio egli è potente e libero e come è per l'uomo così è per le comunità. Le nazioni del nostro tempo non possono impedire che gli uomini diventino eguali, ma dipende da esse se il principio dell'eguaglianza debba condurli alla schiavitù o alla libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità o alla miseria". Tocqueville amava la democrazia ma era soprattutto un liberale e guardava ai rivolgimenti politici privilegiando i pericoli che un eccesso di egualitarismo poteva arrecare alla libertà individuale. Raramente nell'opera sua si trova l'analisi dei pericoli speculari che un eccesso di liberismo avrebbe potuto scatenare sull'eguaglianza dei singoli e dei gruppi sociali.

La crisi del 1929 fu il tossico frutto degli eccessi di liberismo e lo stesso giudizio si può dare ed è stato già dato per quanto riguarda la crisi attuale. La risposta della rivoluzione rooseveltiana a questo problema, raccontata da Mario Einaudi, sta appunto nell'equilibrio che essa riuscì a stabilire tra i due principi di eguaglianza e di libertà che se non stanno insieme insieme periscono.

Purtroppo la crisi attualmente in corso sta registrando contemporaneamente due malanni: le diseguaglianze hanno raggiunto un livello-record; nel frattempo le istituzioni democratiche e i principi liberali sono anch'essi in declino, nuovi dispotismi stanno radicandosi senza che le nazioni (per usare il lessico di Tocqueville) reagiscano con sufficiente energia. Sembrerebbe che si stia intraprendendo la pessima strada dell'imbarbarimento sociale e culturale con il contemporaneo abbandono dei due principi di eguaglianza e di libertà.

Soprattutto di eguaglianza e qui bisogna approfondire l'analisi. Quando un anno fa scoppiò negli Stati Uniti la bolla dei 'subprime' immobiliari e il blocco del credito bancario che ne derivò, sembrò che le diseguaglianze economiche tendessero ad attenuarsi sia pure in presenza d'un impoverimento generale delle società opulente dell'Occidente. Il ribasso delle Borse, dei prezzi, dell'attività produttiva e dei profitti colpiva infatti soprattutto i ceti più abbienti in una misura inversamente proporzionale al reddito. Si trattava in buona parte di un impoverimento virtuale, almeno per quanto riguardava il crollo delle Borse: il valore dei patrimoni veniva falcidiato sulla carta ma le perdite non si verificavano se gli 'asset' restavano custoditi nei portafogli e non venduti sul mercato.

Oggi dopo un anno di interventi di sostegno e di politiche anticicliche, il crollo delle Borse sembra attenuato; è in corso addirittura un movimento di parziale recupero e quindi di ricostituzione (anch'essa virtuale) dei patrimoni.

Nel frattempo tuttavia la crisi inizialmente finanziaria si è estesa all'economia reale, la domanda di beni e servizi è in caduta, i ceti che vivono di lavoro sono sottoposti ad un pesante e non virtuale impoverimento.

Il bilancio, ad un anno dall'inizio di quella che è stata chiamata la tempesta perfetta è dunque questo: il liberismo sfrenato è stato arginato con numerosi e incisivi interventi pubblici nel funzionamento dei sistemi bancari e imprenditoriali; la libertà di questi sistemi è diminuita anche se ciò è avvenuto all'insegna dell'estemporaneità e della precarietà, senza cioè che ancora sia stato varato un sistema di regole chiare e stabili. Nel frattempo le diseguaglianze reali tendono ad aumentare rispetto ai livelli già altissimi esistenti prima della crisi. Aggiungo che non vi sono segnali in Europa (ma qualcuno per fortuna in America sì) che si voglia intervenire in direzione di un migliore equilibrio tra i redditi bassi e quelli opulenti. Né a livello interno né a livello internazionale.

Roosevelt aveva orientato la sua politica nella giusta direzione. Gli effetti si videro subito dopo la guerra: dagli anni Cinquanta agli Ottanta l'Occidente visse nel suo complesso un abbondante trentennio di stabilità economica, benessere diffuso, piena occupazione e democrazia funzionante, con un elevato tasso di libertà ed un accettabile livello di eguaglianza.

Poi il sistema si è squilibrato pesantemente. Si può dire che la rivoluzione rooseveltiana è stata aggirata dall'economia globale. La preoccupazione attuale è che al possibile e auspicabile superamento della crisi finanziaria non corrisponda un miglioramento delle diseguaglianze economiche e sociali. È utile avvertire che se così andranno le cose il pericolo di nuove crisi sistemiche persisterà, insieme all'indebolimento della democrazia e al crescere della rabbia sociale.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La patria e il nuovo padre padrone
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2009, 05:15:31 pm
IL COMMENTO

La patria e il nuovo padre padrone

di EUGENIO SCALFARI


IERI 25 aprile, giorno di festa per la liberazione d'Italia dai nazifascisti e per la Resistenza che ha reso possibile la rinascita della democrazia nel nostro paese, è caduto il muro che aveva fin qui impedito a quella ricorrenza di diventare una data condivisa da tutti gli italiani. Il merito di questo risultato spetta a Silvio Berlusconi, al discorso da lui tenuto ad Onna ed anche - diciamolo - a Dario Franceschini segretario del Pd, che con il suo pressante invito ha incitato il premier a render possibile un evento così importante.

Berlusconi aveva dinanzi a sé tre alternative: ignorare l'invito di Franceschini; accoglierlo per marcare a modo suo la celebrazione equiparando la Resistenza con coloro che si erano schierati a fianco del regime fascista di Salò, uniti entrambi dall'amor di patria; dare atto che Liberazione e Resistenza sono stati un tutto unico dal quale è nata la nostra Costituzione repubblicana, fermo restando il rispetto per tutti i caduti, anche di coloro che in buona fede scelsero la parte sbagliata.

Con il suo discorso di Onna Berlusconi ha scelto questa terza soluzione ed è quindi doveroso dargliene atto. Si potrebbe (e non mancherebbero gli argomenti) fare un'analisi dei moventi che l'hanno spinto a imboccare quella strada, ma sarebbe riduttivo. I fatti del resto hanno un loro linguaggio che esprime la realtà e la realtà è questa.

Berlusconi ha raggiunto un livello di consenso che gli impone di proporsi come il rappresentante politico di tutti gli italiani, quelli che lo amano e quelli che non lo amano, quelli che hanno fiducia e quelli che ne diffidano, quelli che condividono il suo "fare" e quelli che l'avversano.

Noi siamo tra questi ultimi ma riconosciamo che una svolta è stata compiuta, sia nella valutazione storica della Liberazione e della Resistenza, sia nel riconoscimento dei principi sui quali si regge la Costituzione, sia sul ruolo delle forze politiche che contribuirono alla rinascita democratica e che nel discorso di Onna sono state tutte nominate a cominciare dai comunisti, ai socialisti, ai democristiani, ai liberali (anche se l'ipotesi di cambiare il nome della celebrazione in quello di "Festa della Libertà" è certamente una proposta contro la memoria che indebolisce notevolmente le osservazioni precedentemente fatte).

La fermezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha giocato un ruolo determinante nella svolta berlusconiana; un altro elemento da non sottovalutare sarà pur venuto dalla posizione di Gianfranco Fini. La svolta è comunque avvenuta. Bisogna ora vedere se i seguiti saranno conformi al nuovo inizio e intanto rallegrarsene.

Dunque tutto bene? Il tessuto democratico del paese si è rafforzato? Si aprirà finalmente una dialettica operosa tra governo ed opposizione?

* * *

Aldo Schiavone, in un articolo pubblicato ieri su "Repubblica" ha risposto anticipatamente a queste domande partendo dalla constatazione che in tempi di emergenza la spinta populista è un dato di realtà dal quale sarebbe sbagliato prescindere.

Ci sono vari modi di affrontare questa deriva. Quello di Berlusconi, secondo il giudizio di Schiavone, consiste nel "rendere istituzionale la spinta populista, prolungarne e dilatarne gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, alimentare un rapporto fideistico tra il leader e il 'suò popolo, marginalizzare tutte le altre forme di rappresentanza a cominciare dalla divisione dei poteri e dalle autorità di garanzia come inutili impacci.
Un Capo che sceglie e decide per tutti: è un modo di stressare la democrazia radicandola su una sola delle sue componenti".

Ebbene la svolta berlusconiana di ieri, della quale abbiamo già segnalato gli aspetti positivi, non ci libera affatto da quelli negativi. Al contrario, li alimenta con nuova linfa rendendoli ancor più attuali e pericolosi. Diventa sempre più incombente la costruzione, già da tempo avviata, d'una nuova costituzione materiale all'ombra della Costituzione vigente, cioè una sua interpretazione che ne stravolge il senso riducendola ad un reperto fossile.

Un'operazione del genere fu già compiuta nel corso della Prima Repubblica. Avvenne tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta; un ventennio nel corso del quale i partiti assorbirono le istituzioni, il governo si identificò con lo Stato, la democrazia si trasformò in partitocrazia, gli apparati politici confiscarono la pubblica amministrazione e taglieggiarono sistematicamente le imprese.

La costituzione materiale partitocratica fece del Capo dello Stato un'autorità di second'ordine, esercitò un'influenza determinante sulla magistratura inquirente e giudicante, costruì l'impunità del potere e di chi lo impersonava. Le forme vennero scrupolosamente rispettate ma la sostanza fu invece sconvolta e manomessa.

La stagione di Tangentopoli interruppe e anzi sembrò avere distrutto la partitocrazia. Cominciò allora la transizione verso la Seconda Repubblica che adesso ha infine assunto le sue caratteristiche con la costruzione di una nuova costituzione materiale molto diversa dalla precedente.

Non sono più i partiti a monopolizzare il potere, ma un leader con il manipolo dei suoi più stretti collaboratori. Un leader antipolitico e sostanzialmente antiparlamentare, gestore sapiente del sistema mediatico, identificato con la ricerca ossessiva del consenso da trasformare giorno per giorno in plebiscito e da contrapporre a tutte le mediazioni e a tutto il sistema delle garanzie.

La svolta di ieri ha rappresentato dunque un rilevante passo avanti e un ulteriore passo indietro di fronte alla democrazia partecipata. Passo avanti - l'abbiamo già detto - verso la pacificazione del Paese rispetto a quanto accadde sessant'anni fa. Passo indietro verso il populismo autoritario.

Se l'asse portante della nostra Costituzione consiste nella divisione dei poteri, l'essenza della costituzione materiale berlusconiana è nell'unificazione dei poteri in una sola mano. Esecutivo, legislativo e giudiziario intestati al leader attraverso una prassi ed una serie di norme che la consolidano e la presidiano trasformandola in consuetudine.

Il presidente Napolitano ha avvertito da tempo questa deriva e l'ha più volte segnalata con la discrezione che lo distingue. Più di recente deve aver avvertito che la crescita della nuova costituzione materiale stava per oltrepassare una soglia oltre la quale sarebbe diventata irreversibile per un lungo arco di anni ed ha ritenuto che il tema dovesse essere affrontato di petto. L'ha fatto pochi giorni fa inaugurando il festival della democrazia a Torino e indicano i principi che costituiscono il fondamento della democrazia repubblicana: lo stato di diritto, la divisione dei poteri, il ruolo indispensabile delle autorità di garanzia, il vigile rispetto della legalità costituzionale, il rafforzamento del potere esecutivo e dei poteri di controllo del Parlamento. I punti di riferimento culturali di questa visione configurano una democrazia liberale che ha i suoi autori in Montesquieu, Tocqueville, Croce e Luigi Einaudi. La "fantasia al potere" - che tanto piace a Berlusconi e ai suoi mentori - non trova posto in questa visione e rappresenta il culmine della modernità occidentale.

Se volessimo raffigurare le due versioni contemporanee e contrapposte di due leader carismatici, facciamo i nomi di Berlusconi e di Barack Obama, con tutte le differenze di scala da essi rappresentate.

* * *

C'è un freschissimo esempio della "fantasia al potere" o meglio della "follia positiva" stando all'autodefinizione che ne ha dato lo stesso nostro premier, ed è il trasferimento del G8 che avrà luogo nel prossimo luglio dall'isola della Maddalena alla scuola degli allievi ufficiali dell'Aquila. Un colpo di scena suggerito da Bertolaso, sottosegretario alla Protezione civile e ai Grandi eventi e fatto proprio da Berlusconi con entusiasmo all'insaputa dello stesso governo da lui presieduto.

Le motivazioni di questo "coup de théâtre" sono quattro: le minori spese, il desiderio di mettere i potenti della terra a diretto contatto con una catastrofe naturale, la possibilità di elevare il caso Abruzzo dal livello nazionale a quello mondiale, la maggiore sicurezza del "meeting" tra le montagne abruzzesi rispetto alle sedi navali che l'avrebbero ospitato alla Maddalena.

È sufficiente un sommario esame per capire che si tratta di motivazioni infondate.

Le spese per realizzare il G8 alla Maddalena sono state tutte in grandissima parte già fatte (anche se ancora debbono essere pagate). Gli impianti previsti saranno comunque portati a termine. Nessun risparmio da questa parte sarà dunque realizzato. Il grande albergo a cinque stelle costruito nell'isola sarda resterà come una delle tante cattedrali nel deserto, di sperpero del denaro pubblico e di cementificazione di uno degli arcipelaghi più belli d'Europa. Il risparmio sulle spese navali rispetto a quelle aquilane sarà minimo, invece delle navi alla fonda bisognerà mobilitare una flotta di elicotteri che faccia la spola tra Roma e l'Aquila.

I potenti della terra hanno purtroppo larga esperienza di catastrofi naturali, in Giappone, in Louisiana, in Florida, in California, in Russia, in India, in Cina, in Turchia. Insomma nel mondo intero.

Portare il caso Abruzzo all'attenzione del mondo affinché dia una mano per risolverlo è risibile. C'è l'intero continente africano che è di per sé una catastrofe, per citare un solo caso tra tanti.

La sicurezza contro i No Global. Non metteranno piede all'Aquila, l'hanno già detto. Ma faranno altrove le loro prove. Speriamo vivamente che siano prove puramente dimostrative. Se comunque, come scopre ora Bertolaso, garantire sicurezza alla Maddalena era un compito così arduo, ci si domanda adesso perché fu scelta quella località.

Forse Bertolaso ha troppe cose da fare: la protezione contro le catastrofi, i rifiuti dell'immondizia, la progettazione ed esecuzione dei grandi eventi. Il tutto non solo sulle sue spalle ma sulle strutture della Protezione civile.
Che non stia nascendo, sotto la leadership politica di Berlusconi, una leadership tecnocratica di Bertolaso? Non credo che i vertici negli altri paesi siano affidati alla Protezione civile. Li curano i ministri dell'Interno, i Servizi di sicurezza, le forze della sicurezza pubblica. Che c'entra la Protezione civile? I pompieri che ne costituiscono l'ossatura?

Bertolaso, racconta il generale della Finanza, Lisi, che lo vede lavorare nella sua scuola, "lavora notte e giorno, non dorme, è una fucina di iniziative, non è un uomo ma un miracolo".

Forse se si concentrasse su uno solo dei suoi tanti compiti eviterebbe alcune disfunzioni che stanno emergendo in questi giorni e che i terremotati vivono sulla loro pelle.

No, neanche Bertolaso è infallibile. Quanto ai miracoli, beati i paesi che sanno farne a meno.


(26 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Chi canta fuori dal coro è comunista
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 12:05:39 pm
19/4/2009


Chi canta fuori dal coro è comunista


di Eugenio Scalfari - da La Repubblica


Non si può non cominciare con le nomine alla Rai. Gli altri giornali minimizzano con l'aria di dire che si è sempre fatto così: la Rai è proprietà del governo e quindi è il governo che ha il potere di decidere trasmettendo le sue indicazioni all'obbediente maggioranza del Consiglio d'amministrazione.

E' vero, sostanzialmente è sempre stato così ma con qualche differenza di non poco conto. La prima differenza è questa: nessun governo, tranne quelli guidati da Silvio Berlusconi, ha mai avuto a sua disposizione le televisioni commerciali, cioè l'altra metà del cielo televisivo. Il fatto che l'attuale presidente del Consiglio abbia a sua completa mercé la propria azienda televisiva privata e l'intera azienda pubblica (salvo la riserva indiana di Raitre finché durerà) configura quindi una situazione che non ha riscontro in nessuna democrazia del mondo.

Non so se sia vero che le nomine siano state decise l'altra sera nella riunione di tre ore nell'abitazione romana del premier. E' certo comunque che i nomi proposti dal direttore generale Masi saranno ratificati senza fiatare dal Cda della Rai di mercoledì prossimo e saranno tutti "famigli" di Berlusconi, provenienti dalle sue televisioni private o dai suoi giornali o pescati tra le giovani speranze già inserite nell'accogliente acquario dell'azienda pubblica, collaudati custodi del credo berlusconiano nel circuito mediatico.

Non ci sarà purtroppo una sola persona che abbia mai mostrato un barlume d'indipendenza, un soprassalto di dignità professionale, un dubbio sull'assoluta verità predicata dal Capo. Questo è lo scandalo, questa è la vergogna, alla quale quel poco di cosiddetta indipendenza che ancora esiste nella stampa italiana si sta ormai adattando per assuefazione esprimendo tutt'al più qualche sommesso brontolio subito seguito da rimbrotti all'opposizione, colpevole di ideologismo e di conservatorismo.

Il quadro è desolante. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il controllo dei "media" non serve soltanto a procacciar voti ma soprattutto a trasformare l'antropologia d'una nazione. Ed è questa trasformazione che ha imbarbarito la nostra società, l'ha de-costruita, de-politicizzata, frantumata, resa sensibile soltanto a precarie emozioni e insensibile alla logica e alla razionalità.

Chi non è d'accordo è comunista. E firme di intellettuali o sedicenti tali accreditano questo scempio culturale e questa menzogna. Dedicherò dunque al predetto scempio il seguito del mio ragionamento.


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Quindici anni fa partecipai alla presentazione di un libro di Achille Occhetto al circolo della stampa estera a Roma, in quell'occasione il corrispondente di un giornale tedesco mi domandò che fine avrebbero fatto i comunisti dopo che il Pci aveva buttato alle ortiche il suo nome e la sua ideologia.

Risposi che i comunisti dovevano morire e così i loro figli e nipoti fino alla settima generazione. Solo quando fossero tutti fisicamente estinti sarebbe cessata la polemica nei loro confronti. Infatti è quanto è avvenuto e sta ancora avvenendo e poiché siamo ancora lontani dalla settima generazione l'anatema contro di loro continua e continuerà per un bel pezzo. Non è soltanto il tema prediletto dal nostro premier e dai Bonaiuti di turno, è anche diventato il piatto forte di molti belli ingegni transumanti che all'ombra del revisionismo sono passati dall'anticomunismo di "Lotta continua" e di "Potere operaio" all'anticomunismo di destra. Per loro ormai i comunisti sono diventati un'ossessione, ne vedono la presenza ovunque, alimentano i loro incubi e le loro farneticazioni e ai comunisti attribuiscono tutti i mali antichi, recenti, attuali e futuri che affliggono la politica italiana.

I comunisti. Il Partito comunista italiano. La sinistra italiana. Sono ancora tra noi. Non sono affatto scomparsi. Non sono estinti. Non sono stati rinnegati. Finché questo lavacro definitivo non sarà compiuto l'Italia sarà in pericolo e con essa anche la democrazia. Ne ha fatto le spese l'ultimo libro di Aldo Schiavone il quale ha risposto al mitragliamento di cui era bersaglio con un articolo su "Repubblica" di qualche giorno fa. Con pungente ironia Schiavone domandava ai suoi interlocutori: che cosa volete che faccia? Debbo suicidarmi? Vi contentereste invece se promovessi un salmodiante corteo di pentiti che percorrano le strade d'Italia autoflagellandosi e invocando perdono per il peccato d'essere stati nel Pci?

La risposta non è ancora arrivata ma sarà sicuramente quella da me anticipata nel 1994, all'alba della stella berlusconiana: dovete morire fino alla settima generazione. Caro Aldo Schiavone, non c'è altra espiazione che basti a cancellare il vostro peccato mortale.


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Tra le persone che mi onorano della loro amicizia c'è Alfredo Reichlin. Abbiamo più o meno la stessa età, ci conosciamo e stimiamo da mezzo secolo sebbene i nostri percorsi culturali siano stati assai diversi. Lui entrò nel Pci ai tempi della Resistenza, io sono di cultura liberale e tale sono rimasto anche se dopo la morte di Ugo La Malfa ho sempre votato per il Pci, poi per i Ds e infine per il Partito democratico che è il più conforme alle mie idee liberal-democratiche.

Reichlin ha scritto qualche anno fa un libro insieme a Miriam Mafai e a Vittorio Foa, che ha avuto molto successo ed è stato portato in teatro da Luca Ronconi. La domanda che quel libro si poneva era appunto perché un democratico è potuto diventare comunista e che cosa faranno i comunisti dopo che il comunismo è scomparso dalla scena politica del mondo.

Tra le risposte ce n'è una di Reichlin che riassumo così: il Pci ha certamente commesso molti errori, ha condiviso un'ideologia sbagliata, ha perfino coperto alcuni crimini, ma non è una realtà discesa sull'Italia come un meteorite. La domanda da porsi è dunque questa: perché la società italiana ha reso possibile la nascita d'un partito come il Pci, al quale si sono iscritti o per il quale hanno votato operai e borghesi, artigiani e contadini, marxisti e liberali, atei e credenti? Che al suo culmine ha quantitativamente raggiunto i voti della Democrazia Cristiana? Che Aldo Moro ha associato negli anni di piombo al governo del paese?

Questa domanda meriterebbe un'analisi seria. Almeno altrettanto seria quanto l'altra domanda speculare: perché la società italiana attuale ha reso possibile la nascita del berlusconismo e gli ha dato uno strapotere che somiglia sempre più ad un regime? Con una differenza tra le due domande: ragionare sul Partito comunista sta diventando col passare degli anni materia per gli storici; ragionare sul berlusconismo è un tema maledettamente attuale e riguarda la politica e non ancora la storia.


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Si dice che ormai non c'è più differenza tra destra e sinistra. Si inventano nuove classificazioni, per esempio quella tra progressisti, moderati, conservatori. Discorsi inutili e abbastanza noiosi. Scolastici. Lontani dalla realtà.

Il tema di oggi è il rapporto tra i grandi ideali della modernità: libertà eguaglianza fraternità. L'ho già scritto altre volte: l'età moderna è nata da questo trittico di principi e ha dato segnali di decadenza tutte le volte che quel trittico si è indebolito nelle coscienze e nella politica.

Il tema di oggi è quello di ridurre le disuguaglianze senza mettere a rischio la libertà. Questo distingue la sinistra dalla destra. Bisogna tradurlo in atti politici. Bisogna cambiare l'antropologia del Paese. Bisogna superare l'indifferenza e l'apatia. Bisogna resistere per costruire il futuro.


Titolo: Marchionne, missione impossibile
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 04:57:26 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO

Marchionne, missione impossibile
 
di EUGENIO SCALFARI



QUANDO il 30 aprile è arrivato l'annuncio dalla viva voce di Barack Obama che l'operazione Fiat-Chrysler era stata definitivamente decisa, mi è venuto in mente Gianni Agnelli.

Come avrebbe reagito l'Avvocato di fronte a quella scelta? Di fronte all'internazionalizzazione della sua Fiat? Perché di questo in sostanza si tratta e non di Torino che conquista Detroit, come molti semplicisticamente hanno pensato.
Di fronte alla crisi di domanda che ha investito l'industria automobilistica mondiale il numero dei protagonisti dovrà necessariamente diminuire; pochi campioni resteranno in campo, i punti di forza saranno quelli dell'innovazione tecnologica e delle economie di scala, la nazionalità cederà il posto alla multinazionalità, la competizione avrà come campo di gara l'intero pianeta.
 
Ho conosciuto Gianni Agnelli nel 1963, quarantasei anni fa. Lui allora era alla guida della Riv, la società produttrice dei cuscinetti a sfera lasciatagli in eredità dal nonno, e capo riconosciuto della famiglia che controllava la Fiat con il 35 per cento delle azioni ordinarie. Ma alla testa della compagnia automobilistica c'era Vittorio Valletta e il vero capo era lui.

Poi la situazione cambiò: nel '67 Valletta lasciò l'incarico e Gianni Agnelli prese il posto che gli spettava. Immaginare la sua reazione ai fatti di oggi può essere utile per capire la strategia di suo nipote, John Elkann.

Ebbene, la strategia è la stessa che Gianni aveva già preventivato e parzialmente sperimentato: internazionalizzare la Fiat, stipulare alleanze con gli americani, scambiare tecnologie e pacchetti azionari.
Magari rinunciando al controllo della casa torinese ma restando azionisti forti in un circuito più vasto.
Nel 2009 John Elkann è pronto (l'ha detto lui stesso) a seguire una linea analoga. Le condizioni tuttavia sono molto diverse rispetto a quelle di allora.

* * *

L'accordo Fiat-Chrysler è stato reso possibile dalla complementarità tra le due case automobilistiche. Gli italiani offrono tecnologie, gli americani i circuiti di vendita indispensabili per entrare nel mercato automobilistico degli Stati Uniti. I motori delle utilitarie italiane potranno essere montati a Detroit entro due anni; se fossero stati prodotti in Usa ce ne sarebbero voluti quattro. L'accorciamento dei tempi e il risparmio dell'operazione ottenuto con l'accordo dei sindacati consentiranno di praticare prezzi di vendita nettamente più bassi. La Chrysler sarà ristrutturata su una piattaforma che prevede una produzione annua di due milioni di auto. Sommate a quelle della Fiat si arriva ad un totale di quattro milioni. I circuiti distributivi di Chrysler consentiranno l'ingresso dell'Alfa Romeo nell'alta gamma del mercato americano. Il gruppo di Torino avrà il 20 per cento del capitale Chrysler senza versamento di denaro e potrà arrivare al 35 se gli obiettivi previsti saranno raggiunti entro il 2011. Il 55 per cento del capitale sarà attribuito al sindacato americano; il 10 alle banche creditrici.

Ricapitolo questi elementi dell'accordo che sono già noti. Essi contengono delle innovazioni importanti rispetto alla struttura precedente ed è su di esse che deve essere ora concentrata la nostra attenzione.

* * *

Anzitutto lo scambio di tecnologie. Il mercato Usa si troverà per la prima volta di fronte ad un'offerta di auto di piccola e media cilindrata, con motori studiati per diminuire il consumo di carburante, l'inquinamento, e per snellire l'imponente volume di traffico specialmente nei grandi centri urbani.
La minore velocità del nuovo parco macchine non sarà un problema per gli utenti: i limiti di velocità sono perfettamente compatibili con il modello utilitario Fiat, laddove le auto prodotte finora a Detroit lasciavano in gran parte inutilizzata la loro potenziale capacità. Questo profondo mutamento strutturale consente inoltre al governo americano di erogare i fondi previsti dalla recente legge voluta da Obama e approvata dal Congresso per sostenere produzioni non inquinanti e per stimolare ristrutturazioni economiche che rimettano in sesto il bilancio della società. La Casa Bianca ha puntato tutte le sue carte su Marchionne, convinta che soltanto lui e la Fiat possano condurre a buon esito nel tempo stabilito un'operazione di questa complessità.

Denaro pubblico Usa contro management e tecnologie italiane: questo è lo scambio, profittevole per tutte le parti interessate. La novità sta nel fatto che Obama non ha mai dato peso al tema della nazionalità, ha badato soltanto alla sostanza dell'operazione e alla sua riuscita. Da questo punto di vista vale la pena di sottolineare la differenza di fondo rispetto al comportamento adottato dal governo italiano nel caso Alitalia. Lì la nascita d'una compagnia "tricolore" è stata l'obiettivo principale perseguito dal nostro governo che ha subordinato ad esso ogni altra questione con le conseguenze che già si vedono nella scarsa efficienza del servizio, nella limitata estensione del bacino di utenza e nella diseconomia del sistema aeroportuale a cominciare da Malpensa.

Un'altra novità di estrema importanza, anch'essa ignota finora al capitalismo americano, è data dall'ingresso dei sindacati nella "governance" dell'azienda: la maggioranza assoluta del capitale azionario (ma non del consiglio d'amministrazione) compensata da una decurtazione e congelamento salariale per quattro anni e dalla rinuncia al rimborso degli accantonamenti sanitari di pertinenza dei fondi pensione, bruciati nel dissesto aziendale. Sacrifici durissimi che il sindacato ha offerto per salvaguardare i posti di lavoro di fronte alla caduta verticale della domanda.

Ora il punto è di vedere quale sia la reazione del mercato americano di fronte ad un mutamento così drastico nell'offerta del prodotto, fino a che punto i risparmi nel consumo, nell'inquinamento e nei prezzi riusciranno a rilanciare la domanda di auto di minore ingombro e di più bassa velocità. Questo è il vero rischio dell'operazione, che Marchionne e la Fiat hanno deciso di correre. Avremo entro due anni la risposta a questa sfida.

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Ammettiamo (e vivamente speriamo) che la sfida sia vincente. Essa tuttavia non basta a creare un gruppo automobilistico di dimensioni globali: quattro milioni di auto prodotte e vendute annualmente, con ricavi di minor rilievo rispetto a quelli che si ottenevano con auto di ben maggiore cilindrata, non sono una quantità economica sufficiente. Marchionne ritiene (e tutti gli esperti concordano con lui) che la dimensione ottimale si raggiunga con sei milioni di unità prodotte e vendute.

Per realizzare quell'obiettivo il tempo disponibile è di pochi mesi, anzi di poche settimane. Infatti l'ad di Fiat ha già ufficialmente aperto le trattative con la Opel e con la General Motors e sarà nei prossimi giorni a Berlino.
Se la trattativa con Chrysler era difficile, questa con Opel e General Motors è al limite dell'impossibile ed ecco perché:

1. Opel non è complementare a Fiat, i suoi modelli sono molto simili a quelli torinesi e analoghe sono le tecnologie impiegate. Un accordo comporterebbe quindi una ristrutturazione che metterebbe in gioco posti di lavoro sia in Germania sia in Italia.

2. Per questa ragione governo e sindacati tedeschi sono decisamente contrari ad un accordo con Torino.

3. Fiat non è il solo pretendente per Opel. Si scontrerà con un gruppo canadese che ha già messo sul tavolo della General Motors cinque miliardi di dollari mentre la Fiat non abbonda in liquidità.

4. I sindacati italiani, che nel caso Chrysler sono stati amichevoli spettatori, sono anch'essi contrari nel caso Opel come i loro colleghi tedeschi e per le medesime ragioni.

5. Dopo le necessarie ristrutturazioni la Opel avrebbe capacità produttive non superiori ad un milione di auto da offrire sul mercato. Saremmo dunque vicini alla dimensione globale su cui punta Marchionne ma non avremmo ancora fatto centro.

Tuttavia i mercati hanno un grado abbastanza elevato di elasticità. I prodotti Opel come quelli Fiat possono sperare in un'espansione dei mercati dell'Est europeo e della Russia, nonché del Medio ed Estremo Oriente. Inoltre la General Motors è robustamente presente sul mercato brasiliano e sembra disposta a cedere anche quella sua partecipazione.

Infine c'è - ancora inesplorata - un'ipotesi francese nell'immaginario dell'ad Fiat: il gruppo Citroen-Peugeot-Michelin. Si dice che il vero gioco prediletto da Marchionne non sia il poker ma invece lo scopone scientifico.
Se è vero, quello è il gioco più appropriato a risolvere una partita così complessa e delicata.

* * *

Si tratta, come è evidente, di un gioco a incastro che si svolgerà nel mercato mondiale. Gli azionisti della Fiat sono in grado di sostenere uno sforzo di queste dimensioni?

La famiglia Agnelli dispone di riserve importanti ma largamente insufficienti. Terrà il banco finché potrà ma non fino in fondo, anche perché un campione mondiale di quelle proporzioni non può avere un azionista di controllo costruito sul modello familiare. Né si può pensare ai modelli cosiddetti "a cascata" con lunghe catene societarie, lentezza di decisioni, scarsa trasparenza, titoli appartenenti a varie categorie azionarie e obbligazionarie. La crisi attualmente in corso ha già relegato queste strutture finanziarie tra le anticaglie perseguendo una semplificazione sempre più accentuata.

Forze fresche saranno dunque necessarie. Il mercato innanzitutto, cioè i risparmiatori disposti all'acquisto di titoli internazionali, quotati su vari mercati. Ma questo braccio di leva si renderà disponibile soltanto quando i mercati dei prodotti e quelli dei titoli si saranno ripresi dalla caduta attuale. È chimerico pensare che la ripresa possa avvenire tra pochi mesi. Ci vorranno almeno tre anni. Anche se il peggio è passato (come Berlusconi e Tremonti sostengono ad ogni angolo di strada) il meglio tarderà a venire, avremo una risalita lenta, una lunga pianura da percorrere, un percorso accidentato sul quale sarà difficile galoppare.
Quindi sono necessari sostegni intermedi, sistemi bancari saldi e disposti ad impegnarsi, investitori istituzionali, fondi sovrani esclusi.

Il sistema che si configura somiglia più ad una rete che ad un'azienda tradizionale organizzata orizzontalmente come estensione ma verticalmente come comando. Il nuovo modello sarà orizzontale sia nell'estensione sia nel comando, ma è chiaro che per quanto riguarda il comando la sua estensione sarà limitata. Una rete guidata da un'aristocrazia, non chiusa ma aperta ad accessi laterali e dal basso.
Personalmente credo che il modello sarà più o meno di questo tipo. La Fiat sta aprendo la strada ma dovrà essere imitata da altre aziende di analoghe caratteristiche, potenzialmente adatte ad imboccare la medesima via ma ancora ferme a schemi tradizionali. In Italia penso a Telecom, a Fininvest e a Generali-Mediobanca. Altro francamente non c'è.
Bisognerebbe fare rete e sistema anche nel settore delle piccole aziende. C'è molto da lavorare sia al Nord sia al Centro-Sud per raggruppare i piccoli razionalizzandone l'accesso al credito, la commercializzazione consorziata dei prodotti, i depositi e gli acquisti comuni delle materie prime e dei semilavorati.

Nel frattempo bisognerà rifinanziare la domanda. Questo è il tema stringente dell'immediato. Non solo per ragioni di equità sociale ma per rimettere in moto l'economia.
Finanziare la domanda, modificare la distribuzione del reddito. Mi scuso se batto e ribatto su questi temi da molto tempo, ma parlare con i sordi comporta l'obbligo di ripetersi e di alzare ogni volta il tono della voce sperando che anche i sordi riescano a percepire qualche suono e qualche parola.

(3 maggio 2009)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Montanelli anti e arci
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:52:37 pm
Eugenio Scalfari


Montanelli anti e arci


Indro fu allo stesso tempo antitaliano e arcitaliano come capita alle persone di talento e di grandi passioni. Nel '94 ruppe con Berlusconi per l'avventurismo e il narcisismo patologico del Cavaliere  Indro MontanelliQualche giorno prima che si compissero cent'anni dalla nascita di Indro Montanelli sua nipote, che l'ha avuto molto caro e l'ha assistito amorosamente nei momenti dolorosi del trapasso, mi invitò a partecipare in qualche modo alla celebrazione di quell'anniversario. Ringraziai e promisi che l'avrei fatto, ma a qualche settimana di distanza. Non avevo voglia di unirmi ad un coro un po' troppo rituale che tendeva più a fare di lui una sorta di icona che a ricordare la persona vera, con i suoi pregi e i suoi difetti come ciascuno di noi.

Ho scritto molto su di lui: spesso contro, talvolta a favore, ma sempre cercando di capire quale fosse la sua natura e fino a che punto abbia rappresentato i sentimenti degli italiani, ammesso che sia possibile cogliere alcuni connotati comuni ad una nazione così variegata e con storie così diverse tra un luogo e l'altro.

Indro Montanelli, tra le tante immagini che gli sono state appioppate, è stato definito l'antitaliano e l'arcitaliano. Sono l'esempio di una contraddizione ma colgono un aspetto vero perché Indro fu allo stesso tempo l'uno e l'altro, anti e arci, come capita alle persone di talento e di grandi passioni. Simile in questo a moltissimi concittadini, a conferma del fatto che una nazione italiana non esiste perché il suo tratto essenziale è la contraddizione che nega ciò che afferma e afferma ciò che nega. "Siamo un gruppo di uomini indecisi a tutto", scriveva Ennio Flaiano. Esprimeva lo stesso concetto e la stessa visione.

Personalmente non ho mai condiviso questo modo di sentire, non sono mai stato anti e arci contemporaneamente, ho parteggiato per certe idee, per certi obiettivi, per affermare certi diritti e altrettanti doveri, sperando che questa visione delle cose si radicasse fino a diventare patrimonio di tutto il paese. In questo mio parteggiare è anche accaduto che fossi fazioso e mi sentissi straniero in patria nei momenti di maggior delusione, non rinunciando tuttavia a sperare in un futuro più prossimo ai miei ideali e ai miei convincimenti.


Questo modo di sentire e di essere era molto diverso da quello di Indro, lo sapevamo tutti e due, ma ci siamo stimati e talvolta ci siamo anche trovati insieme a sostenere alcune battaglie di libertà. La libertà era infatti una passione comune che ha reso possibile un dialogo tra noi e un'amicizia. Pochi sanno che ci fu un momento in cui pensammo addirittura di fondare insieme un giornale. Del resto l'intervista che determinò la sua rottura con il 'Corriere' Montanelli la dette all''Espresso' e non per caso.

Per sua più volte ripetuta ammissione Indro ebbe due punti di riferimento culturali ed anche caratteriali: Prezzolini e Leo Longanesi. Due pessimisti ad oltranza, due solitari, intrisi di scetticismo ed anche di cinismo. Così era anche Montanelli: pessimista, scettico, solitario ma non era cinico, al contrario era generoso. Generoso, libertario, libertino. Non liberale: sentirsi e dichiararsi tale avrebbe significato scegliere un'appartenenza se non altro culturale, ma questo Indro non lo fece mai, non era nelle sue corde.

Qualcuno l'ha avvicinato a Malaparte. Certe apparenze possono indurre a cogliere una somiglianza ma a mio parere non rappresentano la sostanza di quelle due persone. Malaparte era un uomo d'avventura dominato da una sola passione divorante: l'amore di sé, un narcisismo patologico da manuale accompagnato da un indubbio talento letterario.

Montanelli non ebbe nulla dell'avventuriero e disprezzava chi ne era attratto. La sua rottura con Berlusconi nel 1994 ebbe come motivo essenziale l'avventurismo ed anche il narcisismo patologico che emerse in quell'occasione come elemento dominante del Cavaliere. Anche Indro aveva la sua dose di narcisismo come ciascuno di noi, nei limiti però della fisiologia e questo fa la differenza.

Non starò a dire quanto fosse bravo nel giornalismo e nella divulgazione culturale di cui fu maestro. Se si vuole cercare un senso alla sua lunghissima esperienza professionale, dovrei dire che trasformò in buonsenso il senso comune prevalente. A suo modo politicizzò il senso comune, un'operazione che inconsapevolmente condusse per tutta la sua vita professionale e che spiega il grandissimo successo e il consenso che si è creato intorno a lui. Non so se sia un complimento questo che qui sto esprimendo, ma credo che espresso in poche parole sia questo il senso dell'operazione giornalistica e culturale da lui compiuta.

(07 maggio 2009)

da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le trame e i segreti della corte imperiale
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2009, 06:07:53 pm
IL COMMENTO

Le trame e i segreti della corte imperiale


di EUGENIO SCALFARI


E' PASSATA poco più d'una settimana da quando la signora Veronica Lario in Berlusconi ha rotto il velo del "Mulino bianco" collocato tra le ville di Arcore e Macherio, scatenando una "tempesta perfetta" registrata con ampiezza dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. Viene in mente il "Truman Show", quel libro e quel film di grande successo che raccontarono qualche anno fa di un giovane scelto fin dalla nascita da una grande catena televisiva, protagonista a sua insaputa di un "reality" seguito da un immenso pubblico fino a quando la barriera che chiudeva lo spazio del "set" venne varcata e il giovane acquistò coscienza ed entrò finalmente nel mondo reale.

Qui è accaduto e sta accadendo qualche cosa di analogo con la differenza, certo non di poco conto, che il "reality" non è immaginario ma reale, è reale il protagonista che è il capo del governo ed è reale lo spazio in cui l'azione si svolge, i comprimari che lo circondano, i cortigiani, i ministri, il popolo. Tutto è tremendamente reale, eppure è nello stesso tempo immaginario, mediatico, politico. In Italia va dunque in scena un "Truman Show" e tutti noi ne siamo gli attori. Non so se riderne o disperarsene. Scegliete voi cari lettori.

Attorno a questa situazione a dir poco anomala si sono accese molte discussioni e sono emersi molti temi distinti uno dall'altro e tuttavia interdipendenti. Uno di questi riguarda il modo d'essere e per conseguenza il modo di vivere di Silvio Berlusconi.

Non è certo la prima volta che questo tema sale al centro dell'attenzione pubblica ma mai come in questo caso che ha mescolato la politica e il "corpo del re" al gossip più pruriginoso che coinvolge i rapporti tra il pubblico e il privato.

Il secondo tema riguarda il corpo delle donne, il rispetto che gli si deve e le offese che gli si recano nonché i modi con i quali lo si usa. "Mode d'emploi".

Il terzo tema riguarda la sensibilità (o l'insensibilità) dei cattolici, dei loro pastori, della Chiesa su questo complesso di questioni etiche e al tempo stesso politiche.

C'è poi il tema concernente gli effetti o i mancati effetti di queste vicende sulla pubblica opinione e sulle intenzioni di voto che ne derivano. Questa discussione mette anche in causa il ruolo dei "media", la loro oggettività e la loro faziosità.

I vari temi sono da tempo sotto esame da parte dei giornali e delle televisioni ma è nell'ultima settimana che la temperatura è salita e la tensione ha raggiunto il massimo.

Il pubblico è abbastanza frastornato e le posizioni si vanno rapidamente radicalizzando. Ma è anche vero che per la prima volta si è aperta una crepa nel muro fin qui compatto del consenso berlusconiano. La crepa è visibile ma è ancora presto per stabilirne la profondità. Se riguarda soltanto l'intonaco non avrà conseguenze sulla solidità dell'edificio. Oppure si estenderà intaccando le fondamenta, i muri maestri e il tetto. I sondaggi già effettuati a ridosso dei fatti non hanno ancora l'attendibilità necessaria per far capire la natura delle lesioni che quell'edificio ha subìto.

* * *

Comincio con un'osservazione che riguarda i rapporti tra la sfera pubblica e quella privata. Sulla "Stampa" di mercoledì Barbara Spinelli ha approfondito questo tema ed ha scritto: "Sarebbe bello se gli uomini politici appendessero all'attaccapanni tutte le loro questioni private prima di entrare nell'agorà della politica" ed ha aggiunto: "Si vorrebbe non saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune, nulla delle sue notti o delle sue vacanze, nulla delle sue barche, delle sue tribù parentali, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La cosa pubblica sarebbe bello che fosse un piccolo lembo di terra dove l'umanità fa politica".

Cara Barbara, sarebbe bello? Una volta tanto non concordo con te, se non altro perché non è mai accaduto, neppure nella polis di Pericle, di Socrate, di Alcibiade. Non è mai accaduto nella storia antica e tanto meno in quella moderna. Soprattutto non è mai accaduto quando il potere raggiunge livelli di spinto autoritarismo o addirittura diventa potere assoluto.

In tempi di democrazia una sottile distanza tra pubblico e privato può sussistere, ma in regimi autoritari o assoluti quella tenda divisoria cade del tutto.

L'esempio più eloquente si ha guardando alla Francia del re Sole che dette il tono per 150 anni a tutte le corti d'Europa. Lo Stato era il re, proprietà e patrimonio del re, e così l'esercizio della giustizia e dell'amministrazione, la pace e la guerra. Nulla era privato nella vita del re, ogni suo gesto, ogni sua frequentazione, ogni suo attimo si svolgeva al cospetto del pubblico, a cominciare dal suo risveglio, delle sue funzioni corporali, del suo più intimo "nettoyage" cui era adibito un ciambellano di nobile famiglia che aveva il privilegio di "pulire il re".

Le amanti del re abitavano a corte e apparivano al braccio del sovrano senza alcuna mistificazione.

In tempi moderni qualche ipocrisia in più ha attenuato queste esibizioni ma non molto. Mussolini si esibiva a dorso nudo tra i contadini e i muratori, ma nascondeva Claretta nonostante si vivesse in tempi di potere assoluto. Voglio qui ricordare la battuta recente di Alessandra sua nipote: a chi gli domandava quali fossero le differenze tra suo nonno e Berlusconi in tema di frequentazioni femminili, ha risposto: "Mio nonno non ha mai fatto ministro la Petacci". In effetti la differenza è notevole, anzi è una delle materie del contendere e la si trova esplicitamente indicata nella dichiarazione all'agenzia Ansa di Veronica Lario.

* * *

Nella trasmissione di Bruno Vespa dedicata a Berlusconi e alla sua rottura con la moglie il titolo che campeggiava sul telone di fondo era: "Oggi parlo io". Infatti così è stato per oltre due ore, ha parlato soltanto lui anche se, oltre al conduttore come sempre abilissimo, c'erano tre "figuranti" nelle persone del direttore del "Corriere della Sera", del direttore del "Messaggero" e dell'estroso Sansonetti, già direttore di "Liberazione".

Sono amico di Ferruccio De Bortoli e ho stima di lui sicché uso con disagio la parola "figurante" ma non ne trovo altre più appropriate. La loquela berlusconiana ha letteralmente sommerso i tre colleghi. Il direttore del "Corriere" ha avuto soltanto la possibilità di raccomandare al premier maggior sobrietà nell'esercizio delle sue pubbliche funzioni, ma si è preso un rimbrotto immediato perché il Protagonista ha rivendicato il suo modo d'essere come un irrinunciabile esempio di democrazia popolare. Lui è fatto così e va preso così, dicono i suoi amici e ricordano la canzone da lui preferita nel suo repertorio canoro: "Je suis comme je suis" di Juliette Gréco, che lui canta spesso con molta grazia.

Per il resto i tre colleghi hanno ascoltato silenti il suo lunghissimo monologo. Forse sarebbe stato meglio se avessero rinunciato ad una presenza alquanto umiliante.

E' andato così in scena un processo in contumacia contro la moglie Veronica di fronte a quattro milioni di spettatori. Lui ha negato tutti gli addebiti come a suo tempo fece Bill Clinton, fino a quando dovette smentirsi platealmente per evitare l'"impeachment".

Clinton aveva cominciato col negare qualsiasi rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca e continuò imperterrito a ripetere questa sua verità pur di fronte all'immenso clamore dei "media" di tutto il mondo. Il tambureggiamento dei giornali e delle televisioni durò a lungo; Clinton dovette ripetere le sue affermazioni di innocenza davanti ad un Grand Jury fino a quando Monica Lewinsky confidò la sua verità ad un'amica che vuotò il sacco con la stampa. A quel punto l'ipotesi d'un impeachment per aver mentito al congresso diventò incombente e Clinton confessò per evitare un giudizio che si sarebbe probabilmente risolto con la sua infamante rimozione dalla carica.

Confrontare le normative italiane in proposito con quelle americane sarebbe umiliante. Aggiungo soltanto che nella sua lettera all'Ansa la signora Berlusconi-Lario denuncia il clima di omertà che circonda e protegge le malefatte dell'"imperatore". Ne abbiamo avuto una prova eloquente durante la trasmissione di Santoro con la prestazione dell'avvocato e deputato Niccolò Ghedini. Non avevo mai visto un avvocato difensore comportarsi non come un professionista libero anche se impegnato a proteggere gli interessi del suo cliente, ma come un servitore addestrato a picchiare mettendosi sotto i piedi la logica oltre che la verità.

Il vero spettacolo di quella trasmissione è stato lui, Niccolò Ghedini; nella sua doppia qualifica di avvocato di un solo cliente e di rappresentante del popolo e legislatore molto si è detto e scritto ma non abbastanza. E' perfino peggio di Previti che nelle sue malefatte ostentava almeno una sua grandezza. Il suo più giovane collega sembra piuttosto un pretoriano, perfettamente appropriato all'aria di basso impero che circola con tutte le sue flatulenze nei palazzi del potere.

* * *

Un'altra osservazione che bisogna fare riguarda la ricattabilità: Berlusconi è una persona ricattabile perché nega alcune circostanze che sembrano evidenti e che sono a conoscenza diretta di altre persone. Queste persone sono state e saranno colmate di benefici, ma dei loro servizi egli non può disfarsi quand'anche lo volesse poiché sono al corrente di segreti piccoli o grandi che potrebbero offuscare o addirittura interrompere i suoi successi e il suo potere.

Spesso è accaduto che tra queste persone si verificassero contrasti e che la loro riservatezza fosse dunque a rischio. Finora il leader è riuscito a mediare, a conciliare, a tacitare, ma il rischio è ricorrente e spiega anche alcune vicende altrimenti incomprensibili.

Una di esse, la più recente, è l'amicizia tra il premier e Elio Letizia, padre di Noemi. Non si sa come sia nata quell'amicizia né quando, una spessa coltre di reticenza ne copre l'origine e la natura alla stregua di un vero e proprio segreto di Stato. Basta leggere o ascoltare le interviste del signor Letizia - personaggio con non lievi trascorsi penali - per rendersi conto di reticenze a dir poco inquietanti.

La stampa ha tra gli altri suoi compiti quello di controllare il potere e cercare la verità bucando il velo della reticenza. E' dunque comprensibile anche se abominevole che la stampa sia una delle principali preoccupazioni di chi detiene il potere. Preoccupazioni "pelose" che si esercitano sulle proprietà dei giornali, sui direttori, sui giornalisti con compiti di rilievo. Gli editti di persecuzione contro giornalisti scomodi servono a metterli fuorigioco, i premi servono invece a favorirne la conversione.

Sarebbe impietoso farne l'elenco ed anche non necessario: basta infatti seguirne i percorsi e le carriere determinate dal Palazzo e gli effetti "deontologici" che ne derivano per averne contezza.

* * *

Questa fitta rete di premi, benefici, ricatti potenziali, lotte di potere, è stata messa in crisi da una donna, da una moglie, dalla sua denuncia pubblica, dall'assunzione di un rischio altissimo e personale.

La denuncia riguarda vizi pubblici e vizi privati che tuttavia costituiscono, come già detto, un contesto unico e non scindibile. Tutta la discussione sulle cosiddette veline assume, nelle parole di Veronica Lario, un significato preciso: la selezione distorta della classe dirigente, ormai interamente rimessa alle scelte capricciose dell'"imperatore".

Lo scandalo non proviene dal reclutamento privilegiato nel mondo dello spettacolo né dall'età né dal sesso delle prescelte, ma dalla preparazione politica sulla quale purtroppo circolano idee improprie.

La politica come tutti la vorremmo ha come premessa una adeguata formazione culturale coltivata in famiglia, a scuola e con letture che contribuiscano a svegliare la fantasia e a far crescere coscienza, carattere e senso di responsabilità.

I giovani che acquisiscono questa preparazione culturale sentono talvolta dentro di loro una vocazione politica, il desiderio di occuparsi del bene comune e di rappresentare interessi legittimi e valori congeniali al loro modo di essere e di pensare. Il seguito è affidato alla capacità individuale, agli incontri, ai punti di riferimento che la società esprime e alla competitività individuale.

Questo è il solo modo adatto a selezionare i talenti politici. Va detto purtroppo che è caduto in disuso in un'epoca di portaborse e di "yes-men".

* * *

Resta da parlare dei cattolici, della Chiesa e delle reazioni che questa vicenda ha suscitato. Se fosse ancora tra noi Pietro Scoppola intervenire su questo tema gli spetterebbe di diritto: si tratta di etica, un valore che coinvolge in modi diversi ma egualmente intensi sia il pensiero laico sia il mondo cattolico, con in più per quest'ultimo che l'etica è strettamente intrecciata al sentimento religioso e quindi impedisce il cinismo dell'indifferenza o almeno così dovrebbe.

Per quel che emerge da alcuni segnali il mondo cattolico, o per esser più precisi il laicato cattolico, vive con molto disagio il paganesimo berlusconiano abbinato ad una "devozione" di natura commerciale agli interessi della Chiesa. Proprio perché questo disagio è forte ed esercita una pressione intensa nelle Comunità e negli Oratori, la Conferenza episcopale l'ha assunto come proprio e il suo giornale, l'"Avvenire", ne ha dato conto.

Le reazioni della Santa Sede, manifestate tre giorni fa dal Segretario di Stato vaticano al plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta, sono state invece di ben diversa natura. Si è raccomandata prudenza, maggior riserbo, abbassamento dei toni, offrendo in contropartita il silenzio della Santa Sede su quanto è accaduto. Il tema del possibile divorzio riguarderebbe un matrimonio civile e quindi non interessa la Chiesa. Semmai e paradossalmente quel divorzio sanerebbe lo strappo del primo divorzio, invalido per il diritto canonico poiché scioglieva un matrimonio celebrato religiosamente.

Un paradosso che riduce l'etica cattolica ad una ripugnante casistica, spiegata e condivisa da Francesco Cossiga che si era recato a solidarizzare col premier e poi, interrogato dai giornalisti, ha così risposto: "Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine. Sant'Ambrogio disse non a caso "Ecclesia casta et meretrix"".

Se è per questo, Dante disse assai di peggio. Era ghibellino e non si faceva certo intimidire.

(10 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La guerra dichiarata al nemico migrante
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 11:21:35 am
IL COMMENTO

La guerra dichiarata al nemico migrante

di EUGENIO SCALFARI


Il tema dei migranti domina su tutti gli altri l'attenzione degli italiani e delle istituzioni che li rappresentano. Se ne occupa il Parlamento, ne legifera il governo con decreti e voti di fiducia, ne discutono le forze politiche e i "media". La Chiesa si è mobilitata in forze e il presidente della Repubblica è anche lui intervenuto per condannare tentazioni di xenofobia e una retorica che si fa un vanto di chiudere la porta in faccia ad un popolo di disperati che dall'Africa e dall'Oriente tenta di raggiungere l'Europa, il continente del benessere e della gioia (così lo vedono), dei lustrini e della vita facile. Insomma Bengodi.

Questo tema infiamma la campagna elettorale in corso ancor più (ed è tutto dire) del conflitto che oppone Berlusconi a sua moglie e che al di là degli aspetti privati mette in causa la credibilità del presidente del Consiglio e la sua reticenza di fronte a questioni delicatissime e tuttora rimaste senza risposta.

La discussione sui barconi affollati di poveretti "senza arte né parte" secondo la definizione elegante del presidente del Consiglio, investe i problemi della sicurezza, del lavoro, della guerra tra poveri, della criminalità organizzata, ma anche l'etica, la solidarietà, la lotta contro le discriminazioni. Insomma un viluppo di problemi che non è semplice districare ma che incide direttamente sulla sensibilità e sulle legittime paure degli italiani, una volta tanto definibili come indigeni di fronte all'ondata di stranieri che si riversa sui nostri confini marittimi e terrestri.

In questo clima, il governo risponde brutalmente alle critiche dell'Onu, e il ministro La Russa arriva a definire l'Unhcr un'organizzazione "disumana e criminale". D'altronde la Lega e la destra hanno fatto di questo tema il cavallo di battaglia della campagna elettorale di un anno fa, hanno scommesso sulla paura e l'hanno enfatizzata come più potevano. Dovevano dunque pagare il debito contratto con i loro elettori alla vigilia di un altro appuntamento con le urne. Di qui il "respingimento" dei barconi in alto mare, che ha tutte le caratteristiche di uno spot pubblicitario accolto con soddisfazione da una vasta platea di italiani intimoriti e incattiviti dall'arrivo dei barbari, invasori delle nostre terre e della nostra tranquillità.

C'è un punto di equilibrio tra queste due opposte rappresentazioni della realtà? C'è una soluzione che salvaguardi valori e interessi che sembrano inconciliabili?

* * *

Se trionfasse la ragionevolezza sull'emotività non sarebbe difficile trovare quel punto di equilibrio, ma sono molti gli ostacoli che vi si frappongono.

Il primo ostacolo sta nell'interesse politico della Lega e del partito che si è dato il nome (quanto mai incongruo) di Popolo della libertà. Questo interesse mira a mantenere alto il livello di emotività di un'ampia parte del paese e se possibile ad alzarlo sempre di più. Bisogna distrarre l'opinione pubblica da altri temi incombenti e non favorevoli al governo: la crisi economica, la distruzione crescente di posti di lavoro, la perdita di competitività del sistema-Italia, il terremoto d'Abruzzo e i disagi che ne derivano e che sono ancora lontani dall'essere soddisfatti, la cicatrice tutt'altro che rimarginata della credibilità pubblico-privata del premier.

Bisogna trovare un nemico esterno sul quale concentrare la rabbia della gente ed eccolo pronto, quel nemico: è il popolo dei barconi. Le guerre servono a indicare un bersaglio infiammando l'opinione pubblica patriottarda e questa è una guerra. A questo serve il "respingimento", a questo servono le ronde, a questo serve aver istituito il nuovo reato di immigrazione clandestina.

In realtà il 90 per cento del popolo dei migranti entra in Italia e in Europa dai confini dell'Est europeo, l'immigrazione dal mare non supera un decimo dei flussi d'ingresso, ma respingere i barconi con la marina da guerra è molto più teatrale, fa scena, slega gli istinti xenofobi di chi assiste allo spettacolo dal proprio tinello guardando la televisione.

Si dice: quella gente "senza arte né parte" è ingaggiata dalla mafia, trasportata dalla mafia, e da essa controllata; viene da noi per delinquere, ricondurli da dove sono partiti è dunque un nostro diritto, anzi un dovere verso noi stessi e verso la Comunità europea. Ma manca la prova che i migranti dei barconi siano collusi con la mafia. Vengono dai luoghi più disparati, dal Sudan, dall'Eritrea, dall'Etiopia, dalla Nigeria, dal Maghreb, dall'Africa equatoriale. Hanno attraversato boscaglie, foreste, deserti. Inseguono un sogno e affrontano la morte e le sevizie per mesi e mesi. Collusi con la mafia? Trasportati dalla mafia degli scafisti, questo sì. E poi carne da macello di tutte le violenze. E per finire anche con la nostra.

Non è respingendo i barconi che la nostra sicurezza migliorerà. Non è con le ronde. Non è con la vessazione e con le denuncie.

Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo. è vero, Bossi parla con la gente e trova consensi. Ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega.

Certo, l'emotività contro il nemico migrante si estende. è un buon segno? Non direi. è un "trend" verso il peggio. I leader politici che avessero il senso della responsabilità dovrebbero scoraggiarlo. Se invece ne godono, se si fregano le mani e alzano le dita a V come simbolo di vittoria e come fa il nostro ministro dell'Interno compiono un pessimo servizio verso l'interesse nazionale. Giorgio Napolitano, quando manifesta preoccupazione per la retorica sull'immigrazione parla proprio di questa irresponsabilità. Sarà un caso, ma il Capo dello Stato riscuote fra l'80 e il 90 per cento di consenso nazionale. Con chi parlano Bossi, Maroni, Calderoli?

* * *

Quel "trend" irresponsabile e così irresponsabilmente alimentato lambisce anche persone insospettabili. Mi hanno molto stupito e preoccupato alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Torino, uno dei leader del Partito democratico. Ha detto che respingere i barconi non viola il diritto internazionale ed ha ragione. Ha aggiunto che il "respingimento" è autorizzato dall'Unione europea e fu adottato nel 1997 da Prodi e D'Alema per bloccare il flusso migratorio dall'Albania. Ha ragione anche su questo punto ma con una piccola differenza: in Albania c'erano anche la polizia e i militari italiani, i centri di raccolta erano sotto il nostro costante controllo e non sono paragonabili con quanto accade nell'inferno dei centri di raccolta libici.

Ma c'è un punto che più mi incuriosisce nelle parole di Chiamparino. Il sindaco di Torino propone di concentrare gli sbarchi verso due porti da indicare dell'Italia meridionale. Sbarchi settimanali, autorizzati a trasportare i migranti regolari o regolarizzabili. Che cosa significa regolari o regolarizzabili? Vuole dire quelli chiamati da un datore di lavoro italiano? Quelli non hanno bisogno di imbarcarsi sui barconi degli scafisti, possono prendere navi di linea e arrivare dove vogliono. Di chi sta parando Chiamparino? Qualche spiegazione sarebbe necessaria. Chi è chiamato non è clandestino. Chi è clandestino non è regolarizzabile e viene respinto in alto mare. Esiste una terza categoria "chiampariniana"? Ed anche "maroniana" e persino "berlusconiana" che noi non conosciamo? è una nostra lacuna informativa. Allora per favore colmatela.

Ho letto che Maroni sta per riproporre il tema delle badanti. Pare ci siano molte badanti clandestine. La polizia le scoverà e saranno rapidamente rimpatriate.

Chiamparino è d'accordo? Spiegatevi perché le vostre parole e le vostre proposte sono molto confuse.

* * *

Da qualche giorno i giornali fanno anche il nome di Piero Fassino tra coloro che dissentirebbero dal segretario del Pd sul tema dell'immigrazione. Fassino è persona che dice sì oppure no con grande chiarezza; non ha in mente altro che l'interesse pubblico e non quelli di partito e di bassa politica. Perciò gli ho chiesto direttamente quale sia la sua posizione in proposito.

Mi ha detto: 1) il "respingimento" è consentito dall'Unione europea. 2) Fu sperimentato con successo per stroncare il traffico di persone in provenienza dall'Albania. 3) L'Albania era sotto controllo della Nato e in particolare dell'Italia. 4) La situazione con la Libia è completamente diversa. 5) I centri di raccolta libici dovrebbero esser messi sotto controllo internazionale; riportare il popolo dei barconi in quei centri significa riconsegnarli ad un sistema di vessazioni crudeli. 6) Il governo italiano dovrebbe chiedere a quello libico un diritto di ispezione dei centri e condizionare a quel diritto l'erogazione delle risorse finanziarie che l'Italia ha promesso alla Libia.

Infine Fassino ha aperto un altro capitolo che a me pare di grande importanza: qual è la politica del governo italiano verso gli immigrati regolari che da anni vivono e lavorano nel nostro paese? è una politica di accoglienza e di integrazione o invece è il suo contrario?

* * *

Quella politica in realtà è un altro ostacolo enorme che si frappone al raggiungimento d'un equilibrio sull'intera questione dell'immigrazione e della sicurezza.

Gli immigrati regolari sono oggi 4 milioni di persone ai quali vanno aggiunti i cittadini europei provenienti dall'Est (romeni, polacchi, ungheresi eccetera).

Le previsioni sui flussi e sulla demografia ci dicono che tra dieci anni gli immigrati "regolari" saranno il 10 per cento dei residenti in Italia. Nel 2020 saranno il 15. Più o meno in tutta Europa sarà quello (e anche più) il livello degli immigrati e figli di immigrati. L'Italia, come già la Francia e la Gran Bretagna, sarà un paese multietnico, multiculturale, multireligioso. Non è un'opinione, è un fatto ed esiste già ora.

Ha ragione Fassino di porre il problema: qual è la nostra politica per gestire questo fenomeno? Del resto anche Fini la pensa allo stesso modo e pone le stesse domande.

Il premier ha già risposto: l'Italia non è un paese multietnico, il governo non vuole che lo diventi e non lo diventerà. Infatti le leggi in corso di approvazione ed il modo con le quali sono già preventivamente fin da ora gestite va nella direzione voluta da Berlusconi, Maroni e naturalmente Bossi.

Il risultato sarà questo: l'estensione della cittadinanza sarà sempre più lenta e contrastata; l'accoglienza istituzionale incerta e insoddisfacente; i rapporti tra le comunità di immigrati e i cittadini italiani saranno di diffidenza e non di integrazione, specie nelle zone di più intensa presenza cioè nel centro nord, la parte più ricca e produttiva del paese.

Questa situazione è quanto di peggio ci si prepara.

Non serve a nulla inseguire su questo terreno leghisti e berluscones. A questa deriva bisogna opporsi, tutelando la sicurezza, non soffiando sulla paura, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili nei paesi di provenienza a cominciare dalla Libia. Infine coinvolgendo l'Unione europea in una politica europea dell'immigrazione. Si può fare, però sembra un sogno ad occhi aperti.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Attualità di Omero
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:25:14 am
Eugenio Scalfari


Attualità di Omero


Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé. L'eroe dell'Odissea è l'incipit della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale  Busto di Omero, copia romana del II secolo d.C.Al Salone del libro di Torino, dove sono stato per un paio di giorni più per curiosità letterarie che per impegni editoriali, ho notato che in numerose occasioni è stata ricordata l'importanza di Omero e dei suoi poemi ancora attuali come non mai sebbene siano passati tre millenni da quando cantò le imprese degli eroi sotto le mura di Troia e il ritorno avventuroso di Odisseo ad Itaca.

Quei due poemi e quanto fiorì attorno ad essi con inesausta attenzione hanno dato il tono alla civiltà letteraria occidentale scavalcando le epoche, le religioni, le scuole. Noi parliamo spesso di cultura greca, giudaica, cristiana, islamica indicando con questi riferimenti le radici della nostra civiltà occidentale, ma meglio ancora potremmo dire con una sola parola che in buona parte le comprende ponendosi all'origine di esse: cultura omerica.

In essa c'è infatti il divino, l'eroico, il mito della forza e quello del coraggio, il mito dell'intelligenza, il mondo della magia, quello oscuro delle anime morte, l'amore, la fedeltà, la gelosia, la vendetta, la pietà. Ma c'è anche, incredibile a dirsi, l'embrione della modernità incarnata da Odisseo e dal suo viaggio senza fine.

Ha scritto qualche giorno fa Claudio Magris sul 'Corriere della Sera' che Ulisse è il primo eroe moderno. Ha ragione e del resto siamo in molti ad aver già segnalato l'attualità dell'eroe dalle molte astuzie che attraverso le sue molteplici e perigliose esperienze arricchisce la sua natura e la sua umanità.

Il richiamo ad Ulisse comincia con Virgilio che modella il suo Enea sulla figura dell'eroe omerico, pur senza arrivare alla complessità drammatica del prototipo. Seguono infiniti altri riecheggiamenti nelle saghe dei miti fenici, nibelungici, vichinghi, ma è nel XXVI canto dell'Inferno che Ulisse conquista la sua dimensione completa di simbolo di 'virtute e conoscenza' raggiunte attraverso il viaggio. L'eroe errante per antonomasia, l'eroe delle tentazioni che subisce il fascino dell'avventura, il rischio di restarne preda, la capacità di controllarne la misura e l'esito.

Infinite altre interpretazioni si sono susseguite nelle epoche successive fino ad una sorta di capolinea che ha rilanciato su due diversi livelli il mito odissiaco: il superuomo d'ispirazione nietzschiana e dannunziana, e il borghese Leopold Bloom creato dalla fantasia letteraria di Joyce.

Il viaggio, l'eroe errante, l'idea fissa del ritorno e la necessità, invincibile come tutte le necessità, di ripartire tentando ancora la vita e lasciandosi tentare dall'appuntamento con la morte. E la dea che sempre l'ha protetto, Pallade Atena dagli occhi cerulei, la dea misteriosa dell'intelligenza e della 'polis'.

Non c'è Odisseo senza Atena. Si direbbe, modernizzando una mitologia trimillenaria, che tra i due ci sia stato un amore come non era insolito che avvenisse nei rapporti ravvicinati tra gli umani e gli dèi olimpici. Le tracce di quell'amore sono largamente presenti in tutta l'Odissea come nella sua versione novecentesca joyciana. La dea è gelosa di Calipso che è anche lei invaghita dell'eroe e gli ha promesso l'immortalità se resterà per sempre nella sua isola ai confini del mondo.

Atena impone a Zeus di liberarlo dalla malia di Calipso, così come lo aveva già reso invulnerabile dalla magia erotica di Circe. Ancora Atena lo salva dall'ira di Poseidon, lo nasconde al suo arrivo in Itaca, lo incita a massacrare i Proci che avevano invaso la sua reggia credendolo morto e volendo sostituirlo con uno di loro. Ed è ancora Atena a portare a compimento il massacro nella notte della vendetta e della purificazione.

Una dea e un eroe di tremila anni fa che il poeta dell'Odissea ci propone come 'incipit' della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale. Odisseo-Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé.

Ricordate Zarathustra? "L'uomo è un ponte teso tra l'animale e l'oltre-uomo. L'uomo è una transizione". Questo è l'Ulisse moderno, del quale quello omerico rappresenta l'inizio.

(22 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Cavaliere non è più felice né contento
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2009, 11:34:54 am
L'EDITORIALE

Il Cavaliere non è più felice né contento

di EUGENIO SCALFARI


MANCANO due settimane al voto per il Parlamento europeo e per molte amministrazioni locali, Province e Comuni. Il loro rinnovo fornirà un quadro aggiornato dei rapporti di forza dei partiti sul territorio e in tutto il Paese. Per di più, per quanto riguarda il voto europeo, i rapporti di forza sia in Europa, che in Italia saranno ottenuti con un meccanismo proporzionale, tre preferenze esprimibili nelle cinque circoscrizioni e una soglia di sbarramento del 4 per cento.

Questo è dunque il tema sul quale si deve fissare oggi la nostra attenzione: dopo tanti sondaggi una vera misurazione del consenso con una validità politica che inevitabilmente andrà al di là dei problemi specifici, locali ed europei.

Prima di affrontarla credo tuttavia opportuna una riflessione su un altro tema di non minore importanza e attualità: il caso Fiat-Opel. È in gioco un'operazione che riguarda il futuro dell'industria automobilistica europea e mondiale, con effetti di prima grandezza sulle imprese coinvolte, sui lavoratori che prestano ad esse la loro opera, sui consumatori, sulla divisione internazionale del lavoro.

Per certi aspetti questo tema economico e sociale ha un peso anche maggiore di quello politico-elettorale. Lo tratterò dunque per primo anche perché ho la sensazione che il pubblico, ma perfino le istituzioni coinvolte, non abbiano percepito fino in fondo la realtà della sfida in atto che si sta giocando a Torino, a Berlino, a Detroit, a Washington. Una diagnosi chiara mi sembra perciò necessaria e questo cercherò di fare.
La Fiat di Marchionne e della famiglia Agnelli ha preso già da qualche mese l'iniziativa di mettere insieme un gruppo di imprese automobilistiche che raggiunga una capacità produttiva di almeno sei milioni di autovetture. Prodotte e collocate nel mercato mondiale.

Si è detto con legittimo orgoglio nazionale che in questo caso la Fiat non è una preda ma il predatore. Le prede sarebbero la Chrysler, la Opel e la Vauxhall possedute dalla General Motor e forse anche le aziende che la GM possiede in Brasile e in Argentina.
L'orgoglio nazionale è legittimo, ma l'immagine di prede e predatori è del tutto impropria. In realtà la genialità di Marchionne è stata quella di attaccare per difendersi. Non mi sembra che questa verità sia stata compresa né dal governo italiano né dai sindacati italiani e tedeschi né dai governatori dei lander dove sorgono le fabbriche Opel. Non ci sono prede né predatori. C'è la necessità di creare un gruppo capace di competere sul mercato mondiale. Non è un obiettivo opzionale, ripeto: è una necessità. Se l'obiettivo non sarà raggiunto avremo delle aziende destinate a soccombere entro un breve arco di anni dopo essere state mantenute a stralcio a carico dei contribuenti dei rispettivi paesi.

Obama ha capito fin dall'inizio questa situazione ed ha infatti patrocinato l'ingresso di Fiat in Chrysler; anche i sindacati e i creditori di Chrysler hanno capito ed hanno accettato i necessari sacrifici. Ora tocca al governo e ai sindacati tedeschi e alla General Motor decidere.
Non è un caso che la Fiat abbia impostato l'operazione a costo zero. Non si tratta infatti di una scalata societaria (predatore-preda) ma d'una operazione di reciproca sopravvivenza dove non ci saranno né vincitori né vinti.

All'ultima ora Marchionne ha migliorato l'offerta Fiat diminuendo a diecimila i previsti esuberi per quanto riguarda la Opel. L'accordo prevede una ristrutturazione che mantenga le quote di mercato ma diminuisca i costi attraverso sinergie di qualità e aumento di produttività per unità di prodotto, con la conseguente diminuzione dei posti di lavoro.

L'alternativa è perire. Non stupisce che i ministri Scajola e Sacconi non se ne rendano conto; stupisce invece che non lo capiscano Epifani, Bonanni e i sindacati tedeschi, che di queste questioni ne dovrebbero sapere ben più dei ministri. Si spera che nelle prossime ore la ragione prevalga.
Ma resta il problema della General Motors, gigante di argilla sulla soglia del fallimento. Obama riuscirà ad avviarla sulla strada di un'effettiva salvezza? E il cancelliere signora Merkel saprà pilotare la sua gente sull'unica strada seriamente percorribile?

* * *

Veniamo alla politica, non senza molta ansia per quanto accadrà a Berlino e a Detroit nelle prossime ore.
Gli ultimi sondaggi compiuti da una decina di agenzie specializzate e diffusi dalla stampa nei giorni scorsi, prima che scattasse il divieto imposto dalla legge, danno risultati sostanzialmente omogenei: il Pdl oscilla in una forchetta tra il 39 e il 42 per cento; il Pd tra il 26 e il 29; la Lega tra il 9 e il 10, Di Pietro tra l'8 e il 9; le due sinistre sfiorano ma non arrivano alla soglia del 4; l'Udc tra il 6 e il 7.

Si tratta di sondaggi e quindi fallibili, ma sono il solo telaio sul quale ora possiamo ragionare. E cominciamo con il partito di Berlusconi.
La forchetta 39-42 è indubbiamente un'ipotesi molto forte ma non è certo uno sfondamento. Sfiorò il 38 per cento alle politiche del 2008 dopo le quali ci fu l'indubbio successo sui rifiuti di Napoli e il terremoto d'Abruzzo: una sciagura nazionale ma oggettivamente un'occasione benissimo gestita per il governo.
Era dunque legittimo prevedere un'impennata di consensi che invece, stando ai sondaggi, non c'è stata. C'è stato un freno e bisogna domandarsi quali ne siano le cause.

Una delle cause è certamente connessa con la crisi economica che è ancora ben lontana dalla soluzione. I suoi effetti negativi sull'economia italiana non sono ancora arrivati al culmine che secondo le previsioni si verificherà nel secondo semestre dell'anno in termini di rallentamento del Pil e di aumento della disoccupazione.

Il governo ha finora impegnato, per combattere la crisi, meno di mezzo punto di Pil, 6-7 miliardi di euro. Il resto, per usare un termine caro a Tremonti, è stato "movimentazione", risorse prese da un capitolo di spesa e trasferite ad un altro oppure promesse ma non spese. "Si farà a tempo debito" ripete il ministro dell'Economia suscitando le ire gentili della Marcegaglia e la rabbia nei sindacati e nell'opposizione.
Questo comportamento frena il consenso, ma lo frena anche lo strapotere di quello che Veronica Lario ha chiamato l'imperatore. Questo strapotere, reale ed ostentato, comincia a stancare una crescente quota di italiani. Non solo quelli che sono sempre stati all'opposizione ma anche molti che un anno fa gli hanno dato il voto.

C'è una crepa nel muraglione del consenso e lentamente si sta allargando. Probabilmente non rifluirà sulle forze di opposizione ma andrà ad ingrossare l'area dell'astensione.
Che cosa accade nel frattempo dalle parti dell'ex centrosinistra?

Stando ai sondaggi sopracitati il Partito democratico oscilla tra il 26 e il 29 per cento. Realisticamente con quale dato dobbiamo paragonarlo? Nel voto di un anno fa il Pd di Veltroni ottenne il 33,3. Ci si era illusi in una vittoria e perciò sembrò una cocente sconfitta ma in realtà non lo era, non era mai accaduto in Italia che un partito riformista ottenesse il consenso di un terzo degli elettori. Mai. Quel risultato inoltre si ebbe dopo la pessima esperienza della coalizione prodiana, lacerata da una rissa continua. L'estrema sinistra crollò ma i suoi voti non andarono ai riformisti bensì all'astensione.

Allora assumere come riferimento il 31 per cento dell'Ulivo alle europee del 2004? Oppure il 22 per cento dei sondaggi dello scorso febbraio, dopo la sconfitta in Sardegna e le dimissioni di Veltroni? Nel primo caso ci sarebbe un calo di quattro punti, nel secondo un aumento di altrettanti e forse più.

* * *

Intanto il premier straparla e nessuno dei suoi è in grado di contenerne gli eccessi. Lo preoccupa un'erosione percepibile tra la gente di buon senso che l'ha votato e si sta domandando se ne sia valsa la pena. Lo preoccupano le rampogne cattoliche sui temi dell'emigrazione e della civile convivenza. Lo preoccupa la Lega. Lo preoccupa persino Tremonti. E lo preoccupa infine la spina quotidiana di Franceschini.
Il solo con cui va a nozze è Di Pietro che non passa giorno senza attaccare il Pd e fornire un "assist" a Berlusconi. Di Pietro oggi come Diliberto e Pecoraro Scanio ieri.

Le elezioni europee, oltre a rinnovare il Parlamento di Strasburgo, serviranno a misurare il distacco tra Pdl e Pd. I voti ottenuti da Di Pietro non avranno alcun peso su quella bilancia, perciò non influiranno sul rapporto di forza tra governo e opposizione. L'esempio più recente dell'"assist" dipietrino sta nell'eventuale presentazione d'una mozione di sfiducia alle Camere destinata a ricompattare il fronte berlusconiano. Non sono errori ma improvvide furbizie e documentano che il nemico di Di Pietro non è Berlusconi ma il Pd.

Il problema dei democratici è quello di mobilitare gli elettori che hanno lasciato il Partito democratico e si sono rifugiati nell'area dell'astensione. Se c'è un momento in cui non ha senso astenersi è questo. Non ha senso criticare Berlusconi e astenersi. Non ha senso proclamarsi di sinistra e astenersi. Non ha senso avvertire sulla propria pelle l'imbarbarimento sociale e astenersi. Non ha senso temere una svolta autoritaria che è sotto gli occhi di tutti e astenersi.

Dopo le europee ci saranno ancora quattro anni di legislatura e ci saranno altre occasioni importanti per contare le forze, scegliere le alleanze, selezionare il personale politico. Dieci giorni dopo il voto del 6 e 7 giugno ci saranno i ballottaggi e il referendum, ma il primo appuntamento è tra due settimane.
Gli elettori diranno se in quella giornata la democrazia italiana sarà sconfitta oppure se le europee saranno una sorta di linea del Piave da cui ripartire. Gli elettori, ricordiamocelo, hanno sempre ragione qualunque sia il verdetto.

L'altra sera, in una trasmissione televisiva, mi sono imbattuto prima di cambiar canale in Borghezio e nella Santanché. Dico la verità: dopo averli ascoltati m'è venuta la voglia di espatriare.


(24 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Draghi, radiografia di un paese malato
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2009, 10:56:44 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO


Draghi, radiografia di un paese malato

di EUGENIO SCALFARI


HA SCRITTO Alessandro Penati ("Repubblica" di venerdì scorso) che le "Considerazioni finali" lette dal governatore della Banca d'Italia il 29 maggio ad una vasta platea di banchieri, imprenditori e uomini politici sono un evento che non ha alcun riscontro nelle altre democrazie occidentali. Così pure le esternazioni del presidente della Confindustria all'assemblea degli industriali e i discorsi dei leaders sindacali il primo maggio. Queste frequenti sortite, secondo Penati, sono altrettante prediche inutili che nulla tolgono ma nulla aggiungono alla realtà economica e sociale del paese creando però un intreccio perverso che spinge ciascuno degli attori fuori dal proprio seminato con la conseguenza di confondere le competenze, alzare inutili polveroni ed infine paralizzare il sistema decisionale.

C'è del vero nella tesi di Penati che però non si pone la domanda del perché questi vecchi riti (come egli li definisce) durino da cinquant'anni e non accennino a scomparire. Per quanto riguarda in particolare il governatore della Banca d'Italia, quei riti cominciarono nel 1947 con Luigi Einaudi e proseguirono con i suoi successori fino all'ultimo Draghi.
Perché?
Le ragioni a mio avviso sono due. La prima deriva dalla struttura corporativa del paese: una serie di piccoli poteri ma coriacei, che hanno segmentato il cosiddetto interesse generale in una serie di agguerriti interessi particolari blindati e non comunicanti tra loro, compartimenti-stagni all'interno dei quali la visione complessiva non penetra.

Guido Carli, in una delle sue "Considerazioni finali" le chiamò "arciconfraternite del potere" attribuendo alla loro presenza quel sistema di lacci e lacciuoli che paralizza o comunque rallenta la diffusione del benessere all'interno della società. In questo paesaggio di corporazioni la Banca d'Italia è una delle poche voci (forse la sola) al servizio dell'interesse generale perché non è condizionata da interessi propri né di categoria.

La seconda ragione deriva dal fatto che l'Italia è sempre stata, fin dalla formazione dello Stato unitario, un paese povero di capitali di rischio. Il capitale l'hanno fornito le banche, anzi per un lungo periodo le banche straniere, prima francesi, poi tedesche. Ma la dotazione del capitale di rischio è sempre stata insufficiente. Di qui una compressione costante delle retribuzioni, una altrettanto costante evasione fiscale, una bassa produttività, una stentata crescita del reddito nazionale, un elevato livello del debito pubblico che è sempre stato tra i più alti d'Europa dai tempi di Marco Minghetti a quelli di Giulio Tremonti.
La Banca d'Italia, nella veste di suprema magistratura economica che le condizioni storiche le hanno assegnato, si è dunque dovuta occupare della crescita del reddito e dell'occupazione essendo essa una delle premesse per mantenere la stabilità dei prezzi e del valore della moneta.

Il professor Penati converrà con me che il vecchio rito delle "Considerazioni finali" ha dunque una sua ragion d'essere in un paese in cui non esiste una classe generale portatrice degli interessi generali. Fu questo il cruccio di Ugo La Malfa ed è stato il nostro cruccio per mezzo secolo, reso più intenso che mai in questi ultimi quindici anni di populismo e di demagogia "a gogò".

La relazione di Mario Draghi apparentemente non ha scontentato nessuno.
In realtà il governo l'ha accolta a denti stretti, i sindacati, la Confindustria e le opposizioni vi hanno invece visto la conferma delle loro posizioni. Il ministro dell'Economia si è chiuso in un superbo silenzio rivendicando al potere politico il diritto di gestire senza interferenze la politica economica. "Grazie, so sbagliare da solo": Tremonti non l'ha detto ma l'ha certamente pensato.

Ridotto all'essenza il discorso di Draghi si può riassumere nei seguenti punti:

1. Forse la crisi mondiale ha toccato il fondo e forse cesserà di sprofondare ulteriormente, ma la risalita "a riveder le stelle" sarà lenta specie in Europa e specie in Italia.

2. Gli effetti negativi della crisi finanziaria non si sono ancora scaricati sull'economia reale. Per quanto riguarda in particolare l'occupazione questi effetti cominciano appena ora a vedersi e agiranno in misura crescente nell'ultimo quadrimestre del 2009 ripercuotendosi con effetti di trascinamento per tutto il 2010.

3. Gli strumenti di sostegno sociale fin qui adottati
sono decisamente insufficienti. Le risorse mobilitate dal governo vanno nella giusta direzione di estendere la protezione a tutti i lavoratori in difficoltà, ma si limitano ad un livello troppo basso, troppo diseguale tra i diversi gruppi e categorie e non inclusivo dell'ondata di precari i cui contratti scadranno alla fine dell'anno coinvolgendo un milione e ottocentomila lavoratori.

4. Complessivamente il governo ha mobilitato lo 0,3 del Pil per sostenere i redditi dei lavoratori e delle famiglie; in cifre assolute 5 miliardi di euro.

5. Nonostante la modestia di queste cifre largamente inferiori a quanto fatto nel resto d'Europa, la finanza pubblica è in dissesto. Il deficit rispetto al Pil sta viaggiando al 4,5; a fine anno avrà superato il 5. Lo stock di debito pubblico sarà del 114 per cento rispetto al Pil e tenderà addirittura al 120 nel 2011. La spesa corrente è già aumentata di tre punti arrivando a livelli mai raggiunti prima. La pressione fiscale è al 43 per cento e continua a crescere.

6. La domanda dei consumatori è in discesa. L'investimento sia pubblico sia privato è sceso a livelli bassissimi.

7. Urgono interventi di sostegno immediati e consistenti. Per impedire che la sfiducia internazionale aumenti bisogna fin d'ora decidere con quali strumenti il governo rientrerà nei parametri di stabilità a partire dal 2011. Decidere, approvare, fissare la tempistica ora per allora affinché i mercati riacquistino certezza e speranza.
Fin qui Draghi. Tralascio altre cifre fornite dal governatore che i giornali di ieri hanno già ampiamente riportato.

* * *

La strategia di intervenire in modi e quantità appropriati per sostenere la domanda e il reddito dei lavoratori e dei pensionati impegnandosi fin d'ora nell'operazione di rientro, era già stata delineata dal ministro ombra per l'Economia del Partito democratico, Morando, fin dai tempi della segreteria Veltroni. Naturalmente non fu presa in considerazione dal governo. Tremonti disse che a Bruxelles ci avrebbero riso in faccia. Ma non ridono di fronte agli sforamenti della Germania, dell'Irlanda, della Spagna, della Gran Bretagna.
Quest'ultima in particolare viaggia tranquillamente oltre la soglia del 6 per cento. Secondo le previsioni si avvicinerà alla soglia del 10 entro l'anno. Infatti le agenzie internazionali di rating hanno declassato il debito pubblico inglese, fatto che non avveniva dal tempo della guerra mondiale. Né sta meglio (anzi sta peggio) il Tesoro americano.

Le due potenze anglosassoni si sono date il 2012-2013 come il biennio del rientro nell'equilibrio dei conti pubblici. Hanno anche indicato gli strumenti: taglio di spese, imposte sulle fasce abbienti, rientro dei sussidi dati a banche ed imprese per arginare la crisi. Nel frattempo però dovranno sostenere il finanziamento del Tesoro e soprattutto emettere una massa di titoli pubblici per sostituire quelli in scadenza alla fine di quest'anno e dell'anno prossimo. Si tratta di un ammontare enorme.
Draghi conosce bene questo problema e meglio ancora di lui lo conosce Tremonti. Nel secondo semestre di quest'anno verranno a scadenza una massa notevole di titoli pubblici italiani. All'incirca si tratta di 200 miliardi di euro, proprio in sincronia con le scadenze ben superiori di titoli Usa, Gran Bretagna, Germania. Tremonti non ama parlare di questo problema che sta sospeso nel cielo dell'Occidente come una fitta coltre di nerissime nubi. Dice che il peggio è passato e usciremo meglio degli altri dalla crisi. In realtà il peggio deve ancora venire e nasconderlo non giova a nessuno.
Altrettanto non giova il fallimento dell'operazione Fiat-Opel. Ho trattato questo tema la settimana scorsa e dunque non mi ripeterò. Auguro a Marchionne e alla Fiat di poter rimpiazzare lo scacco subìto in Germania con nuovi possibili accordi con altre imprese automobilistiche. Ma torno a ripetere che le iniziative di Marchionne non sono state messe in campo per desiderio di gloria ma per necessità di sopravvivenza. Se non andranno a buon fine la Fiat vivacchierà perché l'operazione Chrysler non basta a garantirne il futuro. Vivacchierà e peserà inevitabilmente sui contribuenti italiani.

* * *

Draghi - per tornare a lui - sostiene la necessità di riforme immediate e punta in particolare sulle pensioni. Prolungare l'età pensionabile e accelerare il sistema a contribuzione liberando così le risorse per rilanciare la crescita. Tremonti e il ministro del Lavoro, Sacconi, obiettano che la riforma si farà a tempo debito e che le risorse liberate saranno redistribuite all'interno del perimetro previdenziale. La preoccupazione di non turbare la pace sociale è giusta ma resta il dilemma posto dal governatore: come rilanciare la crescita?
Mi permetto di dire che le proposte del Pd di tassare con modeste e transitorie maggiorazioni i redditi al di sopra dei 120mila euro potrebbe fornire le risorse necessarie, insieme a provvedimenti anti-evasione che Visco aveva adottato e Tremonti smobilitato.

Post Scriptum. Non ho parlato di Silvio Berlusconi ma una cosa va ricordata. Il cardinale Bagnasco, nel discorso con il quale ieri ha chiuso la riunione della Conferenza episcopale italiana ha detto che la classe dirigente dovrebbe esser d'esempio educativo alle giovani generazioni con i suoi pensieri, i suoi comportamenti e lo stile di vita ed ha lamentato che ciò non stia avvenendo.
Dargli torto mi sembra difficile. Berlusconi ha definito "berlusconiana" la relazione di Draghi; allo stesso titolo potrebbe definire "berlusconiano" l'incitamento di Bagnasco a comportamenti educativi. Ed avrebbe potuto definire "berlusconiane" anche le parole di Franceschini sempre in proposito dei valori educativi da trasmettere ai giovani. Io spero che il premier definisca "berlusconiane" anche queste mie riflessioni se avrà avuto il tempo e la voglia di leggerle. Ne sarei molto compiaciuto. Come ha detto recentemente Roberto Benigni: lei è un mito, presidente, e i miti più si allontanano e più grandeggiano. Perciò si allontani, per il bene suo e del paese.

(31 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le anime belle di fronte alle urne
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:27:58 pm
L'EDITORIALE

Le anime belle di fronte alle urne

di EUGENIO SCALFARI


SCRIVO oggi e non domenica come è mia abitudine perché fin da oggi pomeriggio si comincerà a votare in Europa ed io voglio appunto parlare di questo voto.
L'argomento è già stato trattato molte volte e da tempo in tutti i giornali e in tutte le televisioni ed anche noi di Repubblica l'abbiamo esaminato ripetutamente, come e più degli altri. Sento dunque un rischio di sazietà verso un tema usurato da motivazioni contrapposte e ripetitive. Del resto a poche ore di distanza dall'apertura delle urne anche gli indecisi avranno fatto la loro scelta e difficilmente la cambieranno.

Infatti non è del colore del voto che voglio parlare. I miei lettori sanno come la penso e come voterò perché l'ho scritto in varie e recenti occasioni.
Non desidero dunque convincere nessuno ad imitare la mia scelta. Il mio tema di oggi è un altro. Voglio esaminare in che modo nella nostra storia gli italiani hanno usato la loro sovranità di elettori da quando il suffragio è stato esteso a tutti i cittadini di sesso maschile e poi, nell'Italia repubblicana, finalmente anche alle donne ed infine ai diciottenni abbassando la soglia della cosiddetta maggiore età.
Storicizziamo dunque la sovranità del popolo e vediamo nelle sue grandi linee quali ne sono state le idee e le forze dominanti.

* * *

Il suffragio universale maschile coincise nel 1919 con un sistema elettorale di tipo proporzionale; una proporzionale corretta in favore dei partiti quantitativamente più forti, che lasciava però a tutti i competitori ampi margini di rappresentanza.
Nelle elezioni del "Diciannove" (le prime dopo la fine della guerra mondiale del 1914-18) si affacciò sulla scena della politica italiana una forza nuova, quella dei cattolici riuniti attorno ad un sacerdote di grande carattere e di convinta fede religiosa: il Partito popolare di don Luigi Sturzo. Fu l'ingresso d'un nuovo protagonista la cui presenza ruppe gli schemi fino allora vigenti che avevano privilegiato le clientele liberali raccolte dalla destra nazionalista e salandrina e quelle democratiche che avevano in Giovanni Giolitti il loro leader parlamentare.

Il Partito socialista, massimalista con appena una spolverata di riformisti, stava all'opposizione in rappresentanza della parte politicizzata del proletariato.
Che tipo di Italia era quella?
Un paese traumatizzato da quattro anni di trincea, con un altissimo costo di morti, di mutilati, di sradicati; un paese che aveva però acquistato una certa coscienza dei propri diritti. In prevalenza contadino, in prevalenza analfabeta, in prevalenza fuori dalle istituzioni e della stato di diritto. Un paese in cui il popolo sovrano si limitava alla piccola borghesia degli impieghi e delle libere professioni, alla classe operaia del Nord, ai proprietari fondiari e ai mezzadri.

Il grosso della popolazione era fuori mercato, bracciantato con paghe di fame e prestiti ad usura, tracoma e colera nel Sud, pellagra e malaria nelle pianure del Nordest.
Ma gli ex combattenti della piccola borghesia erano agitati da sogni di rivincita e di dominio. Odiavano il Parlamento.
Detestavano la politica. Vagheggiavano il superuomo e il D'Annunzio della trasgressione e dell'insurrezione fiumana.
Poi trovarono Mussolini.

* * *

Ricordo queste vicende perché contengono alcuni insegnamenti. I più anziani le rammentano per averne fatto esperienza, i più giovani ne hanno forse sentito parlare ma alla lontana e comunque non sembrano darvi alcuna importanza.
Sbagliano: i fatti di allora rivelano l'esistenza di alcune costanti storiche nella vita pubblica italiana. Si tratta di costanti antiche, cominciarono a manifestarsi con la Rivoluzione francese dell'Ottantanove, con il tricolore che diventò ben presto la bandiera-simbolo dell'Europa democratica e con i tre valori iscritti su quella bandiera: libertà eguaglianza fraternità.

Quei valori hanno avuto un'influenza positiva tutte le volte che sono stati portati avanti insieme ed invece un'influenza negativa quando soltanto uno di loro ha esercitato egemonia culturale e politica. La libertà, da sola, ha generato privilegi in favore dei più forti; l'eguaglianza, da sola, ha dovuto essere imposta con la forza (ma ciò in Italia non è mai avvenuto); la solidarietà, da sola, ha dato vita ad un'infausta politica assistenziale che ha dilapidato le risorse e indebolito la competitività e la libera concorrenza.

L'Italia non ha mai avuto una borghesia degna di questo nome perché i tre grandi valori della modernità non hanno mai avanzato insieme. Per la stessa ragione la laicità non ha mai raggiunto la sua pienezza e per la stessa ragione un vero Stato moderno, una compiuta democrazia, un'effettiva sovranità del popolo e un'autentica classe dirigente portatrice di interessi generali, non sono mai stati una realtà ma soltanto un sogno, un'ipotesi di lavoro sempre rinviata, una ricerca vana e frustrante, uno stato d'animo diffuso che ha alimentato la disistima delle istituzioni e l'analfabetismo politico.

Col passar degli anni questo analfabetismo è diventato drammatico. Il rifiuto della politica ne è la conseguenza più negativa. Gli italiani si sono convinti che la politica sia il male che corrode il paese. Perciò una larga parte dei nostri concittadini ha delegato la sua rappresentanza ad un giocoliere che ostenta il suo odio contro la politica e il suo qualunquismo congenito e festevole, all'ombra del quale sta nascendo un potere intrusivo, autoritario, concentrato nelle mani di un solo individuo.

* * *

L'analfabetismo politico degli italiani è molto diffuso tra quelli che parteggiano per la destra ma non risparmia la sinistra. Per certi aspetti anzi a sinistra questa assenza di educazione politica è uno dei suoi connotati, in particolare tra i sedicenti intellettuali che sono forse i più analfabeti di tutti.

Uno degli effetti più vistosi di questo fenomeno consiste nella ricerca di un partito da votare che corrisponda il più esattamente possibile alle proprie idee, convinzioni, gusti, simpatie. Ricerca vana poiché ciascuno di noi è un individuo, una mente, un deposito di pulsioni emotive non ripetibili. Le persone politicamente mature sanno che in un sistema democratico occorre raccogliere i consensi attorno alla forza politica che rappresenti il meno peggio nel panorama dei partiti in campo. La ricerca del meglio porta inevitabilmente al frazionamento, alla polverizzazione del voto, al moltiplicarsi dei simboli e di fatto alla rinuncia della sovranità popolare.

Aldo Schiavone ha scritto ieri che la polverizzazione del voto è frutto di un narcisismo patologico: per dimostrare la nobiltà e la purezza della propria scelta si getta nel secchio dei rifiuti la sovranità popolare. Non si tratta d'invocare il voto utile ma più semplicemente di predisporre un'alternativa efficace per sostituire il dominio dei propri avversari politici.
La destra sa qual è il suo avversario e fa massa contro di lui. La sinistra coltiva il culto della testimonianza, ma quando si trasferisce quel culto nell'azione politica il risultato è appunto la rinuncia ad una sovranità efficace per far posto al narcisismo dell'anima bella, pura e dura.

Pensare che questo scambio sia un'azione politica è un errore gravido purtroppo di conseguenze.
Fu compiuto lo stesso errore dai popolari di Sturzo nel 1921: rifiutarono sia l'alleanza con i socialisti sia quella con i liberaldemocratici pur di restare puri nel loro integrismo cattolico. Rifiuto analogo fecero i socialisti. Le conseguenze sono note, ma non mi sembra che si siano trasformate in una solida esperienza. Vedo, a destra e a sinistra, una sorta di sonno della ragione dal quale bisognerebbe sapersi risvegliare.

Post Scriptum. Anche in America la ragione si era addormentata dando spazio ai furori emotivi di George Bush.
Dopo molti anni di letargo che hanno fatto degli Usa la potenza più odiata nel mondo, Barack Hussein Obama ha risvegliato la ragione facendo leva su una travolgente emotività carismatica.
Quanto sta accadendo nel mondo e nella straordinaria trasformazione dell'immagine dell'America ci insegna questo: per svegliare la ragione ci vuole un forte soprassalto emotivo, senza il quale l'emotività si volge a beneficio della demagogia.

Emozione razionale accresce la pienezza della democrazia, emozione demagogica le scava la fossa. Questo insegna Obama. L'insegnamento del giovane presidente afroamericano ci sia utile per la scelta che tra poche ore dovremo fare.


(6 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il successo della destra la sconfitta del suo capo
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 12:20:01 pm
IL COMMENTO

Il successo della destra la sconfitta del suo capo

di EUGENIO SCALFARI


INNANZITUTTO i voti.
Ormai i dati sono ampiamente disponibili e possiamo dunque trarne alcune conclusioni. Ma bisogna distinguere le astensioni dai suffragi ottenuti in percentuale e in numeri assoluti.

I votanti per il Parlamento europeo sono scesi dal 73 al 66 per cento del corpo elettorale, sette punti in meno. Togliendo un 20 per cento di astensione fisiologica, le astensioni motivate politicamente ammontano dunque al 15 per cento, più o meno sette milioni e mezzo di persone. Gli astenuti che nelle precedenti elezioni del 2008 avevano votato per i democratici ammontano a due milioni e seicentomila; circa seicentomila hanno penalizzato le liste minori, oltre tre milioni e duecentomila vanno a carico del Pdl. Ecco dunque una prima indicazione importante.

Veniamo ai voti espressi paragonati al 2008, sebbene non sia corretto confrontare elezioni europee ed elezioni politiche. Il calo subito dal Pdl è stato di due punti, quello del Pd di sette. La Lega è oltre il 10 per cento su base nazionale, non ha sorpassato il Pdl in nessuna regione ma gli ha tolto molto in Piemonte e nel lombardo-veneto. E' cresciuta (rispetto alle europee del 2004) di otto punti nel nordovest, undici nel nordest, due punti e mezzo nel centro. La sua avanzata è stata rilevante in Emilia con un aumento dell'11per cento. In conclusione: arretra il Pdl sia in voti assoluti sia in percentuale; ancora di più arretra il Pd e si accresce il distacco tra i due partiti; raddoppiano la Lega e Di Pietro (rispetto al 2008).

Avanza di un punto Casini, la sinistra radicale cresce complessivamente di due punti ma non supera la soglia di sbarramento e quindi non entra nel Parlamento di Strasburgo e così pure i radicali.
Il Pd perde voti a favore di tutti gli altri partiti salvo il Pdl il quale a sua volta cede voti alla Lega e (pochi) all'Udc.

Il Pdl è più penalizzato dalle astensioni che dai voti espressi, il Pd da tutti e due questi elementi.

La Chiesa si è ripetutamente dichiarata contraria alla politica del governo nei confronti dell'immigrazione e il clero delle parrocchie si è discretamente mobilitato in favore dell'Udc con risultati però molto modesti. Una valutazione attendibile stima in 700mila voti lo spostamento verificatosi a seguito di queste raccomandazioni parrocchiali. In realtà un 20 per cento dei voti cattolici ha scelto di astenersi rispetto a precedenti votazioni in favore del Pdl.

Questo è il quadro d'insieme, che sarebbe tuttavia incompleto se non lo si inquadra nel contesto europeo.

* * *

In Europa si è verificata una frana di proporzioni inusitate dei socialisti in tutti i paesi dell'Unione salvo due modeste eccezioni. Particolarmente gravi i risultati dei socialisti francesi (addirittura scavalcati dai voti del movimento verde di Cohn-Bendit), dei laburisti inglesi e della Spd tedesca.

L'effetto paradossale di queste disfatte, alle quali occorre aggiungere l'insuccesso di Zapatero, ha portato il Partito democratico in testa alla graduatoria delle formazioni progressiste ed ha reso possibile la formazione d'un gruppo parlamentare a Strasburgo formato da un'inedita alleanza tra il Pse e i democratici italiani. Si tratta di una novità cui ha lavorato con tenacia Dario Franceschini e che apre la strada a nuovi sviluppi internazionali, ma resta che la sinistra europea è in piena crisi mentre avanza dovunque la destra moderata ma anche le formazioni xenofobe ed estremiste.

Se si guarda la situazione dal punto di vista dei governi in carica, c'è stata un'erosione del consenso che ha superato soltanto Sarkozy. Tutti gli altri hanno perso voti indipendentemente dal loro colore politico. Le cause vanno attribuite in parte alla crisi economica e in parte al tema dell'immigrazione e della insicurezza in proporzioni diverse da paese a paese.

Da questo punto di vista l'Italia non fa eccezione: la sinistra è stata punita, il Pdl ha perso voti, la Lega aumenta in percentuali e in voti assoluti.

Qui da noi il quadro è reso più complicato dalle contemporanee elezioni in molte province e comuni. Il patrimonio del centrosinistra era molto cospicuo ai nastri di partenza perché le precedenti elezioni del 2004 erano avvenute in una fase di scarsa popolarità berlusconiana favorendo ampiamente l'Ulivo. Oggi, in una situazione ben diversa, il pingue patrimonio di amministrazioni locali di centrosinistra non poteva che cedere di fronte alla spinta degli avversari. Infatti ha già ceduto in parecchi luoghi ma altre importanti amministrazioni sono andate in ballottaggio, sicché un bilancio definitivo si potrà fare soltanto il 21 giugno, fermo restando fin d'ora che anche nel potere locale sta avvenendo una scossa robusta in favore del centrodestra.

Ancora qualche osservazione, che è stata finora sostanzialmente ignorata, su quanto è accaduto in Sicilia, una regione considerata da tempo serbatoio di voti per la destra berlusconiana.

In Sicilia nel 2008 il Pdl aveva ottenuto il 46,6 per cento dei voti; è sceso alle europee al 36,6 per cento, dieci punti sotto. In valore assoluto la perdita è ancora maggiore: da un milione e 300mila voti a 600mila. Commenta Roberto Alimonte su "24 Ore": "La metà degli elettori siciliani del Cavaliere si è volatilizzata". Riassorbire la crisi siciliana sarà uno dei compiti che Berlusconi dovrà darsi al più presto. Ma ce n'è un altro assai più incombente per lui, sul quale ora dobbiamo soffermarci ed è quello del suo personale logoramento interno e internazionale.

* * *

La sua immagine pubblica ha subito un colpo evidente, ampiamente registrato da tutta la stampa occidentale e in tutte le capitali d'Europa e d'America. Non si tratta, come ancora i suoi "supporter" si ostinano a sostenere, di un "gossip" che riguarderebbe soltanto la sua vita privata, sebbene la vita privata d'un presidente del Consiglio sia in tutte le democrazie occidentali sotto i riflettori della pubblica opinione.

Si tratta invece d'una serie di fatti resi di pubblico dominio da sua moglie e da lui stesso in varie trasmissioni televisive; si tratta delle sue incerte versioni di quei fatti gremite di contraddizioni e reticenze, del suo ostinato silenzio su alcuni aspetti che hanno minato la sua credibilità. Si tratta infine e soprattutto di un aspetto estremamente grave per un capo di governo e cioè della sua potenziale ricattabilità.

Essa deriva da due circostanze particolarmente inquietanti. La prima: la sua frequentazione, della quale si continua ad ignorare l'origine, con il signor Letizia, padre della giovane Noemi, personaggio quanto mai equivoco con precedenti penali e relazioni di assai dubbia natura tra Secondigliano, Scampia, Casoria.

La seconda: il materiale fotografico in possesso di un fotografo sardo che forse non contiene nulla di particolarmente compromettente ma che costituisce un deposito di immagini ormai in circolazione internazionale che può esser fonte di intimidazione e di veri e propri ricatti da parte di personaggi spregiudicati e perfino di servizi più o meno segreti.

L'opinione pubblica italiana, nonostante il silenzio delle emittenti televisive e le reticenze di gran parte della stampa, ha percepito la gravità di una situazione che è stata altrettanto percepita nelle cancellerie dei nostri principali partner e alleati.

L'interessato avrebbe ancora la possibilità di fare chiarezza almeno sulla prima circostanza e cioè sulle origini e la natura dei suoi rapporti con il Letizia. Quanto alle centinaia di fotografie in circolazione, esse raffigurano senza dubbio una violazione della sua "privacy" ma ciò non toglie nulla alla loro oggettiva pericolosità e al sospetto che possano tradursi in strumenti di ricatto e di debolezza del capo del governo.

Questa situazione reagisce inevitabilmente sulle tensioni interne tra i membri del governo e tra le varie componenti della maggioranza, aggravate dai nuovi rapporti di forza tra la Lega e il Pdl; accentua le prese di distanza di Gianfranco Fini; spinge Berlusconi a interventi sempre più scomposti e a provvedimenti sempre meno accettabili, l'ultimo dei quali sulle intercettazioni sta suscitando proteste corali, allarma il Capo dello Stato e può precipitare una crisi tra i poteri dello Stato.

* * *

Se l'opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch'essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c'è, che è ancora un'ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.

Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.

Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l'intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l'aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia.

"Come cavallo che uso alla vittoria / a tarda giovinezza e controvoglia / tra carri veloci torna a gara": così cantava Ibico. Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza.

Così il tema delle alleanze. E' un tema da costruire quando il Pd si sarà rafforzato, avrà riacquistato credibilità e potrà costituire l'elemento centrale di uno schieramento con un programma comune, comuni convinzioni e comune visione del bene pubblico. Disputare oggi sulle alleanze di domani è soltanto un modo per riaccendere la rissa interna. Nella situazione attuale è un'operazione ad altissimo rischio.

* * *

Post Scriptum. La visita del colonnello Gheddafi in Italia, non priva di interessi concreti per il nostro paese, ha avuto aspetti di farsa che purtroppo si sono mescolati alla farsa nostrana. Ne è risultato un mix assai poco digeribile che rende ancor più grottesca e flebile la nostra credibilità internazionale.

(14 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una manovra da tre soldi che non salva il Paese
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2009, 03:27:33 pm
L'EDITORIALE

Una manovra da tre soldi che non salva il Paese


di EUGENIO SCALFARI

- Non voglio commentare l'intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d'Italia e dei giornali "sovversivi" che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L'ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole "Minacce e disperazione".
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all'appello della Confindustria, dei sindacati e dell'opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che - come ha detto la Marcegaglia - l'intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l'organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell'organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L'architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un "bonus" alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell'Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell'Istat, dell'Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio "almeno fino al prossimo settembre".
"Zittire le Cassandre", questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

* * *

Il "bonus" alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l'ammontare e la relativa copertura e c'è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell'invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell'erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d'un ravvedimento utile. Se il "bonus" sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l'erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l'esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l'ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l'ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l'esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C'è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all'investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l'esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l'operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c'è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di "swap", sulla cartolarizzazione d'una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell'avanzo di bilancio, l'aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l'esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero "per scongiurare il precipizio" non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c'è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c'era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall'opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L'ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L'operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l'udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col "bonus" e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

* * *

Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d'una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l'ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l'aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l'economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d'Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
La questione dunque si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c'è ed è ancora ben lontana dall'esser stata superata.

* * *

Sull'argomento economico non mi resta per ora altro da scrivere e potrei fermare qui le mie riflessioni domenicali, ma c'è un altro tema al quale vorrei dedicare qualche osservazione ed è il preannunciato congresso (il primo dopo quello di fondazione) del Partito democratico.

È utile farlo ora questo congresso, non solo perché previsto dallo statuto con una procedura in realtà piuttosto barocca, ma anche perché tra un anno ci saranno le elezioni regionali, un appuntamento di notevole importanza al quale il Pd non può arrivare senza aver preso le necessarie decisioni sulla propria identità e la propria struttura.

Il congresso può rappresentare un momento di rilancio positivo oppure la vigilia d'un'implosione se si trasformerà in una rissa di tutti contro tutti. Questo rischio non è affatto remoto, esiste anzi incombe e spetta soprattutto ai militanti di quel partito di scongiurarlo oppure, con comportamenti impropri e non avveduti, renderlo inevitabile.

Non è avveduta la formazione di gruppi e gruppetti, il pullulare di capi e capetti, lo sbriciolamento del comune sentire, la velleità di formulare programmi fondati su parole vuote, affermazioni generiche, ricerca e costruzione di nicchie incapaci di governare ma capacissime di impedire ogni azione efficace.
Un partito riformista di massa non è mai esistito in Italia da quando esiste lo Stato unitario. Oggi esiste e conta all'incirca dieci milioni di voti. Paragonare questi voti, la loro composizione sociale e la loro identità riformista al vecchio Partito comunista è un errore madornale. Altrettanto madornale è l'errore di chi si rifacesse a vecchie appartenenze cattolico-popolari. Quel che rimaneva di quei due partiti oscillava un anno fa per il primo (Ds) attorno al 16 per cento e per il secondo (Margherita) intorno all'11. I dirigenti di entrambi arrivarono alla conclusione che le due storie si erano interamente esaurite. Questo fu il vero atto di nascita del Pd e questa fu la ragione dell'insediamento di Veltroni alla sua guida.

Il risultato elettorale delle elezioni politiche del 2007, con il 33,4 per cento dei voti, non fu una sconfitta come tutti ritennero, ma una vittoria. Per la prima volta il riformismo aveva un partito democratico e laico che rappresentava un terzo degli italiani.
Oggi quella rappresentanza è scesa da un terzo ad un quarto. È stata una sconfitta politica ma non la fine di un disegno. Le amministrative sono state anch'esse una sconfitta, in una fase tuttavia in cui l'intera sinistra europea è stata travolta. C'è però un dato da tener presente: tutti i partiti, con la sola eccezione della Lega, hanno indietreggiato in cifre assolute. Perfino Di Pietro: alle amministrative il suo partito ha perso il 9 per cento in voti assoluti. Così, chi più chi meno, tutti gli altri. La Lega ha ripreso gli stessi voti delle precedenti elezioni.

È dunque il partito del non-voto o del voto inutilmente disperso che va interpellato, rimotivato, riportato in linea e questo dovrebbe essere il vero compito del congresso del Pd.

Un problema analogo si pone al Pdl che ha anch'esso subito una profonda diminuzione in termini di voti assoluti, ma lì le cause sono diverse: si sta allontanando l'elettorato cattolico e moderato. Se quell'emorragia non si fermerà l'attuale gruppo dirigente del Pdl dovrà trovare nel suo interesse i modi per invertire il trend. Affare loro ma anche di chi non la pensa come loro perché il problema della democrazia interessa tutti e a tutti dovrebbe stare a cuore.

Il Partito democratico, per ritornare a quel tema, può e deve confrontare due diversi modi di intendere l'identità, la struttura e i valori culturali del partito. E non è vero che parte da zero. Il programma che Veltroni espose al Lingotto rappresenta ancora, a rileggerlo oggi, una piattaforma più che accettabile con qualche integrazione soprattutto sul versante laico che allora fu troppo sottaciuto.

Comunque non partono da zero i democratici italiani. Debbono contarsi su diverse visioni del bene comune, se ce ne sono di diverse; oppure su due diverse personalità e biografie.

Chi osserva da fuori questa vicenda non vede spazio per terzi e quarti candidati, sembra già ardua una visione duplice, tre o quattro sarebbero un tentativo di dividere l'atomo, che francamente servirebbe solo a nascondere la rissa generale e l'implosione.
Se è questo che i militanti di quel partito vogliono, nessuno potrà impedirglielo. Sappiano soltanto che l'implosione significherà sotterrare per un tempo indefinibile l'esistenza di un riformismo democratico in un Paese invaso dalla demagogia, dalla corruttela e da pulsioni autoritarie sempre più evidenti.


(28 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Cavaliere ha bisogno di una lunga vacanza
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2009, 06:05:39 pm
IL COMMENTO

Il Cavaliere ha bisogno di una lunga vacanza

di EUGENIO SCALFARI


A L'Aquila la terra continua a tremare, lo sciame sismico non dà tregua, sotto le tende un giorno si crepa dal caldo e il giorno dopo si galleggia sotto il nubifragio, ma Bertolaso ha l'aria contenta. "Andrà tutto benissimo" dice in Tv "e poi se non avessimo trasportato qui il G8 chi parlerebbe ancora del terremoto?"

Il popolo delle tendopoli in realtà se ne frega che si parli di lui anzi ne è decisamente irritato, ma Bertolaso è felice, ogni giorno compare alla destra dell'Onnipotente ed ha anche scansato un brutto processo sui rifiuti, trasferito a Roma e iscritto a nuovo ruolo.

Comunque, in caso di bisogno, è pronto il piano B per evacuare i Potenti in elicottero. Teatro. Puro teatro. Non è forse questa la regola generale? Preparare un piano B è diventato una mania. Ce n'è uno per L'Aquila, un altro per il disegno di legge sulle intercettazioni contestato dal presidente Napolitano per palesi vizi di incostituzionalità e ieri messo in opera dal ministro della Giustizia; un altro ancora per il lodo Alfano se la Corte ne invaliderà alcune parti, infine un quarto se la Corte lo invalidasse interamente.

Quest'ultimo piano B tuttavia è ancora da studiare, si va da una legge non più ordinaria ma costituzionale che però lascerebbe il Cavaliere esposto al corso della giustizia, ad una crisi istituzionale vera e propria con conseguente appello al popolo in stile Caimano.
Berlusconi, a differenza del suo Bertolaso, ha invece la faccia sempre più scura. Gli hanno suggerito di parlar poco e di farsi vedere il meno possibile e lui ci prova ma con evidente fatica.

Da quel 25 aprile, quando raggiunse l'apice della popolarità e del consenso abbigliandosi da padre della Patria con al collo la sciarpa da partigiano, sembra passato un secolo. Molte cose sono cambiate nel suo pubblico e nel suo privato, nel suo modo di gestire, nel suo eloquio e forse nei suoi pensieri.

Ma una cosa non è cambiata nonostante gli appelli del Quirinale ad una tregua almeno fino al G8: continua ad insultare la sinistra "un cadavere che ingombra, un branco di comunisti, un'accozzaglia senza idee". E continua ad indicare al pubblico ludibrio "i giornali eversivi ai quali gli imprenditori dovrebbero negare la pubblicità".

Nel frattempo gli incidenti di percorso si susseguono.
L'ultimo, forse il più grave, è stato l'improvvida cena in casa del giudice costituzionale Mazzella il quale, insieme all'altro suo collega Napolitano, ha anche reagito pubblicamente con una lettera al premier con lui stesso concordata.

Non staremo qui a ripetere le considerazioni su questo comportamento irrituale e su quell'incontro gastronomico tra "compagni di merende" come li ha giustamente definiti il collega Massimo Giannini. Sarebbe stato grave anche se il solo convitato dei due giudici della Corte fosse stato il presidente del Consiglio, vecchio amico ed elettore di entrambi; ma c'erano anche il ministro della Giustizia e il presidente della Commissione parlamentare, Vizzini, dando a quell'incontro un inequivocabile colore di cena di lavoro.

La conseguenza è che la Corte faticherà non poco a scrollarsi di dosso il peso che gli è stato caricato sulle spalle da due dei suoi componenti.

* * *

Dicono i bene informati che la principale occupazione del premier nelle poche settimane che lo dividono da una lunga vacanza sarà l'economia, a cominciare dal G8 del prossimo 8 luglio. E c'è da crederci perché la crisi è ancora tutta davanti a noi.

Il G8 deciderà ben poco. Non è più lì che si gioca la partita, ormai trasmigrata nei consessi dove si misurano i veri grandi della scena economica mondiale.
L'intervista ad un giornale italiano in vista del G8 Barack Obama l'ha data all'Avvenire. Non vende molto l'Avvenire ma rappresenta la Conferenza episcopale e Obama voleva parlare dell'incontro che avrà col papa sabato prossimo appena liberatosi dal meeting dell'Aquila.

Obama non appartiene alla categoria berlusconiana e tremontiana di quelli che sostengono che il peggio sia passato. Al contrario: lui sostiene che il peggio viene adesso con una valanga di disoccupati e con una secca diminuzione dei redditi di lavoro.
Ci siamo già occupati domenica scorsa di questo problema.

Ieri ne ha scritto con la competenza che gli è propria Luigi Spaventa, perciò non ripeterò i suoi giudizi e la sua analisi. Aggiungo soltanto che, dai documenti inviati in Parlamento dallo stesso Tremonti risulta quanto segue:

1. I dati sull'andamento del deficit, del fabbisogno, delle entrate, delle spese, del debito pubblico, forniti dal Tesoro sono esattamente quelli anticipati dall'Istat, dalla Banca d'Italia, dall'Ocse, dalla Commissione di Bruxelles, che il ministro aveva definito "congetture inutilmente allarmistiche".

2. Tra quei dati segnalo una spesa che cresce a ritmo sostenuto, un deficit che supererà il 5 per cento sul Pil, un debito pubblico a 119 per cento sul Pil, le entrate tributarie in forte calo, la disoccupazione in netto aumento.

3. Quelle congetture oggi interamente accolte dal Tesoro avrebbero dovuto suggerire al ministro di scusarsi con chi aveva dileggiato. Ovviamente non si è scusato.

4. Quanto ai provvedimenti per stimolare il sistema produttivo avevo scritto che entreranno concretamente in vigore tra l'inverno e l'estate del 2010 e così risulta dalle carte rese pubbliche da Tremonti. Scrissi che si trattava di salvagenti gettati in mare a qualche chilometro di distanza dai naufraghi. Ed è esattamente così.

* * *

Poniamoci adesso la domanda: a che punto è quest'opposizione cadaverica della quale straparla il presidente del maggior partito italiano? A che punto è il Partito democratico che si prepara al suo congresso fondativo? Il dibattito nel partito è in pieno corso e si svolge, almeno per ora, con sufficiente civiltà. Né mi sembra che abbia paralizzato la reattività del partito nei confronti di quanto accade nel paese.

Il timore manifestato da molti d'una introversione del Pd su se stesso non mi sembra si stia affatto verificando e d'altra parte sarebbe impossibile che ciò accadesse di fronte a quanto ora sta avvenendo nel paese.

In questa prima settimana congressuale si sono verificati in ordine cronologico i seguenti fatti: si sono riuniti a Torino i giovani del gruppo di Piombino che vogliono esser rappresentati da un proprio candidato; è stato ufficiato in questo senso il sindaco di Torino; dopo una breve riflessione Chiamparino ha declinato l'offerta e resterà al suo posto di sindaco fino al 2011 per poi forse candidarsi alla Regione Piemonte. Secondo me ha fatto benissimo.

Bersani ha presentato la sua candidatura e il suo programma al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Franceschini ha anche lui annunciato la sua candidatura e presenterà il programma tra pochi giorni.
Walter Veltroni ha riunito al teatro Capranica di Roma quelli che parteciparono due anni fa alla fondazione del Pd al Lingotto di Torino ed ha rievocato il programma che espose in quell'occasione indicando i problemi del futuro e la missione che il Pd è chiamato a svolgere.

Hanno anche manifestato le loro tesi il gruppo cattolico di Fioroni, i liberaldemocratici di Rutelli, e sono più volte intervenuti Massimo D'Alema, Franco Marini, Piero Fassino, Sergio Cofferati, Massimo Cacciari.
Infine ieri si è materializzato il terzo candidato nella persona di Ignazio Marino, sostenuto dai giovani quarantenni di Piombino.

Chi assiste dall'esterno con partecipe attenzione a questo processo iniziale in vista del Congresso e delle successive primarie è indotto alle seguenti osservazioni.

Bersani ha fatto appello con molta dignità ad un sentimento identitario. Il suo schieramento appare notevolmente compatto e coinvolge una parte notevole dei democratici di provenienza Ds. Ritiene che il partito debba fin d'ora indicare le sue alleanze in vista d'una coalizione che comprenda possibilmente tutto il vasto arco delle opposizioni da Casini fino alla sinistra di Ferrero.

Sarà la coalizione a indicare con le primarie il candidato alla "premiership" quando ci saranno le elezioni politiche a fine legislatura.
Lo schieramento che si sta formando attorno a Franceschini è più variegato.

Riafferma la sua vocazione maggioritaria e il bipolarismo. Coinvolge una parte degli ex Ds, buona parte della ex Margherita, buona parte dell'elettorato giovanile.

Bersani punta le sue carte principalmente sul Congresso; Franceschini principalmente sulle successive primarie. La visione di Bersani è più rivolta ai militanti, quella di Franceschini tende a captare elettori al centro e a sinistra che attualmente sono esterni rispetto al Pd. Tutti e due cercano di riportare in linea la vasta platea degli astenuti.

Il tema della laicità e del laicismo è improvvisamente balzato in prima linea, sia pure con differenti tonalità, nel discorso pubblico del Pd. Per lungo tempo non è stato così, segno che il sentimento pubblico è cambiato.
Ignazio Marino, il terzo uomo, fa addirittura della laicità il suo tema principale se non addirittura esclusivo. Mi permetto di dire, da laico di vecchia data, che un partito complesso e riformista come è e vuole essere il Pd non può puntare sul laicismo tutte le sue carte. Diventerebbe fondamentalista e si ridurrebbe a pura e inefficace testimonianza. Questi, caro Marino, non sono tempi di testimonianza ma tempi di dura battaglia su tutti i fronti del riformismo.

Ci vorrebbe per il Pd un Barack Obama, come ha detto Veltroni. Purtroppo non c'è, non se ne abbiano a male gli esponenti del Pd. Non c'è tra gli anziani né tra i giovani.

Tanto più importante è che a questa mancanza si supplisca con una buona squadra che si valga dei talenti e non soltanto dei cooptati, giovani o anziani che siano.

Purché l'accesso sia aperto. Purché i valori siano condivisi e purché servano a ispirare progetti concreti, seriamente pensati e tenacemente perseguiti. Quanto alla vecchia questione del partito radicato sul territorio, questa è perfino una tautologia: se non opera sul territorio e sui bisogni che il territorio esprime, un partito non esiste.

Ma non esiste neppure se non ha una salda visione nazionale ed europea. Tra alcuni errori che possono essere rimproverati e dei quali lui stesso con notevole umiltà si rimprovera, questo è il lascito più importante di Veltroni che va meditato e raccolto.

(5 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Io e il resto del mondo
Inserito da: Admin - Luglio 09, 2009, 10:30:39 pm
Io e il resto del mondo

di Eugenio Scalfari


L'ultimo libro del filosofo Remo Bodei 'La vita delle cose' pone sotto i nostri occhi l'esistenza che gli oggetti vivono indipendentemente da noi e che a loro volta vivono riflessi nel nostro sguardo  Remo BodeiPoco tempo fa l'editore Laterza ha pubblicato un libro di Remo Bodei intitolato 'La vita delle cose'. L'autore è ben conosciuto nel mondo della filosofia e della cultura in genere; ha insegnato a lungo alla Normale di Pisa e attualmente insegna alla University of California di Los Angeles.

Secondo me quest'ultimo suo libro (ne ha scritti molti e tutti molto stimolanti) ha qualcosa di eccezionale e di sorprendente anche se parte da un'osservazione che tutti in un certo momento della vita abbiamo fatto e da una situazione che tutti abbiamo vissuto nelle nostre fantasie infantili: gli oggetti vivono. Vivono dentro di noi ma hanno anche una loro vita indipendentemente da noi. Esiste un rapporto ambivalente tra noi e gli oggetti, rivelatore di fondamentali meccanismi della conoscenza e della psiche. Penso insomma che il libro di Bodei meriterebbe d'avere moltissimi lettori perché tocca e scioglie una serie di nodi che spesso impigliano la nostra mente e i nostri pensieri.

Le cose delle quali parla Bodei sono uno sterminato universo, vanno dai giocattoli dei bambini alla collana di perle regalo d'un matrimonio, al letto in cui abitualmente dormiamo, alle posate che usiamo per consumare i nostri pasti, al bancone del bar che frequentiamo. Ma anche alla tomba che contiene le spoglie dei genitori o d'un amico che ci ha lasciato. E perfino la memoria dei nostri morti, il nostro passato, le persone che lo animarono.

Insomma, se vogliamo stringere la questione all'essenziale, le cose sono tutto ciò che è oggettivo, al di fuori di noi. E poiché noi, io, siamo l'unico soggetto che dal suo punto di vista guarda il resto del mondo, ecco che le cose delle quali parla Bodei sono per l'appunto il resto del mondo. Io e il resto del mondo, il quale vive nel mio sguardo e attraverso il mio sguardo entra dentro di me, suscita in me amore oppure odio e repulsione, mi invade, in certi casi mi possiede e mi domina mentre io a mia volta possiedo e domino lui, oggetto del mio sguardo e della mia attenzione.


Un soggettivismo esasperato? Non sarebbe in fondo una cosa nuova né, come prima ho scritto, sorprendente, se ne discute da quando gli uomini hanno cominciato a pensare e a riflettere su se stessi, cioè almeno da 2.500 anni. Ma è sorprendente il ragionamento attraverso il quale l'autore di questo libro pone sotto i nostri occhi l'esistenza che le cose vivono indipendentemente da noi e quali sentimenti suscita in questa apparentemente ovvia constatazione: malinconia, gelosia, sentimenti di perdita, feticismo, distacco, disperazione, bisogno di novità. Insomma vita, vita nostra, vita del soggetto che noi siamo e che alimenta la propria esistenza con un rapporto costante con gli oggetti (animati e inanimati) che ci circondano e che a loro volta vivono riflessi nel nostro sguardo speculare.

Trascrivo qui un brano di Fernando Pessoa citato da Bodei, che ci dà tutta la misura e l'intensità del libro di cui stiamo parlando: "Sento il tempo come un enorme dolore. Abbandono sempre ogni cosa con esagerata commozione. Le cose buone della vita mi fanno male in senso metafisico quando le abbandono e penso che non le vedrò né le avrò mai più, perlomeno in quel preciso esatto momento.

I morti. I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li rievoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante in silenzio sbarrato di tutte le porte".

Il linguaggio poetico di Pessoa, unito al sentimento della perdita e all'incubo della morte, raggiunge qui un'intensità drammatica che tocca il lettore nel profondo. Il miracolo psicologico che ne sgorga e che Bodei racconta con altrettanta efficacia consiste nel capovolgimento degli elementi che Pessoa esprime della perdita, della solitudine, del "silenzio sbarrato di tutte le porte". Nasce una creazione poetica che commuove i cuori e riapre le porte sbarrate del silenzio.

Lasciamo dunque concludere l'autore con parole sue: "Le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri, anelli di continuità tra le generazioni, ponti che collegano storie individuali e collettive, raccordi tra civiltà e natura. Ci spingono a dare ascolto alla realtà, a farla entrare in noi così da ossigenare un'interiorità altrimenti asfittica. Mostrano inoltre il soggetto nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto, quello del mondo che affluisce a lui in quel viaggio a sorpresa che è la vita".

(03 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il meritato successo di un abile anfitrione
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2009, 04:41:52 pm
IL COMMENTO

Il meritato successo di un abile anfitrione

di EUGENIO SCALFARI


"PRENDIAMO ispirazione dalle intuizioni e dalle scelte lungimiranti che emersero alla vigilia o all'indomani della conclusione della seconda guerra mondiale, quando nacquero le Nazioni Unite e ancor prima le istituzioni di Bretton Woods. Da allora molto si è costruito ma non poco purtroppo si è negli ultimi anni venuto perdendo".

Queste parole sono state pronunciate la sera di giovedì scorso da Giorgio Napolitano nella cena da lui offerta all'Aquila a tutti i leaders mondiali presenti al G8, diventato per l'occasione un G14 con la partecipazione dei principali paesi emergenti.

Non si poteva dir meglio con poche parole e non si può adottare metro migliore per valutare i risultati di questo penultimo incontro dei paesi occidentali che presto cederanno il posto ad altre e più allargate forme di consultazione internazionale.

Occorre comunque ricordare che il G8 non è mai stato un organo decisionale perché nessuno dei governi che vi partecipano gli ha mai conferito una parte della propria sovranità. Ciò non toglie tuttavia che su alcuni temi specifici i governi possano firmare accordi operativi, formulando su altri temi raccomandazioni di indirizzo che dovranno poi essere tradotte in apposite norme da parte di istituzioni dotate di poteri operativi.
Faccio questa precisazione, ovvia ma spesso dimenticata da chi commenta i risultati di questo genere di incontri, a cominciare spesso da alcuni degli stessi partecipanti desiderosi di ricevere vantaggi di immagine anche a costo di manipolare la realtà di quanto è accaduto.

Al G8 dell'Aquila c'erano tre temi specifici e un tema generale di puro indirizzo. Quest'ultimo riguardava lo stato della crisi economica mondiale, la diagnosi delle possibili terapie da raccomandare. Quanto ai temi specifici, peraltro di grande portata, riguardavano il clima, gli aiuti ai paesi poveri e principalmente all'Africa, la politica dei paesi del G8 nei confronti dell'Iran.

I giudizi, o come si dice la pagella da compilare sugli esiti dell'incontro aquilano vanno dunque articolati su questa tastiera ed è quanto cercheremo di fare.

* * *

La diagnosi sullo stato attuale della crisi è stata abbastanza difforme. Barack Obama è nella sostanza il più pessimista, ritiene che il peggio sia al suo culmine e che si aggraverà ancora nel prossimo autunno e nell'inverno del 2010. Il peggio che determina il suo giudizio riguarda il delicatissimo tema della disoccupazione che in Usa ha già raggiunto il 10 per cento e potrebbe aumentare fino all'11 nei prossimi mesi con effetti pesanti sui redditi e sui consumi.

Il presidente americano inoltre non è ancora del tutto tranquillo sulla tenuta di alcune istituzioni bancarie e non esclude altri massicci interventi a sostegno sia di banche sia di grandi imprese a corto di capitali.

Il pessimismo operativo di Obama ha tuttavia come contrappeso il suo robusto ottimismo politico, che ha profuso in abbondanza e con notevole efficacia su tutto l'andamento del G8.

Al polo opposto della diagnosi di Obama si è collocato Berlusconi, secondo il quale il peggio è già passato e la disoccupazione non presenta scenari drammatici.

Di questa divergente diagnosi ha dato conto lo stesso Berlusconi in una delle sue conferenze stampa, spiegando però che il parere di Obama su queste materie è assai più importante del suo: un esempio molto infrequente di modestia che il premier italiano ha offerto per ingraziarsi il suo principale interlocutore. Lui è fatto così, vuole essere amato. Per essere amato da Obama ha anche buttato alle ortiche Bush. Quella è acqua passata. Obama invece è da conquistare e la modestia ne è stata questa volta lo strumento.

Il ministro Tremonti aveva proposto, con la collaborazione dell'Ocse e del governo tedesco, alcune nuove regole da introdurre nel sistema economico internazionale. Un documento di 13 cartelle è stato presentato al G8 con il titolo ambizioso di Global Legal Standard e menzionato favorevolmente come raccomandazione da esaminare nelle competenti sedi operative, suscitando una immodesta soddisfazione dello stesso Tremonti.

Di quali regole si tratta? In realtà non sono regole vere e proprie né potevano esserlo trattandosi di raccomandazioni di indirizzo. Ed anche per un'altra ragione: si enunciano valori e, come sappiamo, i valori non sono norme ma auspici e modi di sentire; riguardano più il dover essere che l'essere.

I valori tremontiani elencati nel documento sono l'etica nelle decisioni economiche, la trasparenza di quelle decisioni, la lotta contro la corruzione, la lotta contro l'evasione fiscale, la vigilanza del credito, la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza. Ma chi mai oserebbe incitare gli operatori ad essere disonesti, a mentire, a favorire i monopoli e ad evadere le imposte? E quale uomo d'affari, imprenditore, banchiere si riconoscerebbe in un ritratto così perverso?

Debbo dire che a Tremonti va riconosciuta una notevole audacia: raccomandare la lotta all'evasione fiscale, quella contro i monopoli, la trasparenza delle decisioni da parte di uno dei principali membri dei governi berlusconiani è come parlar di corda in casa dell'impiccato. Ma il punto non è questo o non soltanto questo. Si tratta soltanto di raccomandazioni e non di altro.

Nel frattempo e nello stesso giorno in cui Tremonti presentava il suo documento al G8, il governatore Draghi annunciava un documento assai più corposo redatto dal "Financial Stability Forum" che è l'organo del Fmi da lui guidato, dove non si parla di valori ma di norme concrete che saranno imposte alle banche e alle istituzioni finanziarie quando lo studio del Fsf sarà definitivamente approvato entro l'anno in corso. Da notare che nel Fsf non sono rappresentati soltanto i paesi del G8 ma un ventaglio molto più ampio e quindi assai più interessante per l'operatività di quelle regole.

* * *

Bastano pochi accenni per i tre temi specifici affrontati dal G8, dei quali i giornali di tutto il mondo hanno già ampiamente parlato nei giorni scorsi.

Iran. I temi da affrontare in materia erano due: il nucleare iraniano e la repressione violenta del dissenso e quindi una violazione molto grave dei diritti di libertà in quel paese teocratico.

Entrambi i temi sono stati in qualche modo elusi nel documento approvato all'unanimità dal G8. La riprovazione delle violenze è stata affidata alle dichiarazioni di singoli capi di governo, tra i quali il più severo è stato il presidente francese Sarkozy. Sul tema del riarmo nucleare è intervenuto seccamente Obama, che attenderà comunque fino alla fine dell'anno sperando nell'avvio di un negoziato costruttivo. La vera e solenne reprimenda approvata all'unanimità (Russia compresa) nei confronti del governo iraniano è stata lanciata contro il negazionismo dell'Olocausto da parte di Ahmadinejad: era il meno attuale dei temi e forse per questo è stato scelto dopo una serrata discussione da parte degli "sherpa" durata a quanto si sa per due settimane.

Sul clima si è registrato un mezzo fallimento quando sono entrati in gioco i Cinque emergenti (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica). I quali hanno accettato il principio dei 2 gradi di riscaldamento del pianeta come limite estremo, superato il quale ci sarebbe una catastrofe climatica planetaria; ma non hanno invece acconsentito a ridurre le proprie emissioni di gas inquinanti.

Se ne riparlerà in un'apposita riunione a fine anno a Copenaghen. Il colpo di scena di Obama è stato a questo punto l'impegno per il proprio paese di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra facendo della ricerca di energie alternative il centro del rilancio industriale americano. La speranza è che un impegno del genere serva di orientamento anche al gruppo dei Cinque, il che però è tutto da verificare.

Infine l'Africa e i poveri. Tutti i paesi ricchi sono allo stato dei fatti largamente inadempienti rispetto agli impegni presi nei precedenti vertici. Il più inadempiente di tutti è il nostro: avremmo già dovuto versare un miliardo di dollari mentre abbiamo finora conferito 30 milioni, pari al 3 per cento di quanto dovuto. Ora Berlusconi ha promesso un versamento entro il prossimo agosto di 130 milioni e lo ha presentato come una manna. Questo è lo stato dei fatti per quanto ci riguarda.

Nel meeting del G8 è stato deciso un aiuto, destinato soprattutto all'agricoltura, di 20 miliardi di dollari. La cifra è cospicua ma restano tuttora indefinite le modalità e i tempi, chi guiderà gli investimenti e quando. Comunque su questo tema un mezzo successo politico c'è indubbiamente stato, ma è il solo dell'intero vertice.

Del tutto inevaso è stato invece il vero tema che i Grandi del mondo dovranno porsi e che invece è stato del tutto ignorato salvo che dalla Cina e dal gruppo dei Cinque emergenti: il nuovo assetto monetario internazionale. In altre parole il problema del dollaro.

La Cina vuole che si costruisca una moneta di conto e di riserva, calcolata attraverso una sorta di paniere ponderato delle principali monete a partire dal dollaro, dall'euro, dallo yen e naturalmente dallo yuan cinese. Moneta amministrata dall'Fmi, le cui quote di appartenenza dovranno essere profondamente riviste per fare appunto spazio ai paesi emergenti che sono rappresentati attualmente da quote soltanto simboliche.

Sarà un'operazione complessa, che vede gli Usa in totale disaccordo, ma che la Cina sembra decisa a portare avanti facendo leva sulla sua posizione di primo creditore degli Stati Uniti e primo detentore di riserve in dollari.

Sarà questo il vero tema del prossimo futuro, adombrato nel richiamo alle istituzioni nate a Bretton Woods nelle parole di Napolitano che abbiamo citato all'inizio. Un tema denso di implicazioni, che vedrà diminuire drasticamente il peso dei singoli Stati europei a beneficio dell'Unione europea e delle istituzioni che la rappresentano a cominciare dalla Banca centrale.

Questo tema sarà al centro della prima assemblea del Fondo monetario internazionale che è destinato a diventare la vera sede dei dibattiti e delle decisioni.

* * *

Ultimo argomento: il successo di Berlusconi e quindi dell'Italia, perché è vero che nei vertici internazionali un successo del governo è patrimonio comune al di là dei partiti e delle persone.

Berlusconi ha avuto successo, ha ricevuto complimenti da tutti, ha evitato con abilità i guai che incombevano sul suo capo e di questo gli va dato atto.

Per che cosa è stato complimentato? Per il suo ruolo, magistralmente ricoperto, di padrone di casa. Se lo è meritato. E' un compito che sa gestire molto bene come dimostrò nell'analogo meeting di Pratica di Mare: alloggiamento perfetto, cibo eccellente, sicurezza garantita, intrattenimento rilassante. Il "Financial Times" di ieri, che era stato il giornale tra i più severi nei suoi confronti, ha titolato "Da playboy a statista", ma ha sbagliato l'ultima parola, doveva scrivere anfitrione. Lo statista si è visto ben poco anche perché l'unico statista in campo è stato Obama e con lui nessuno era in grado di competere.

Berlusconi avrebbe potuto esercitare una piccola parte da statista associando al successo l'opposizione che ha accettato la tregua chiesta da Napolitano. Ma nemmeno questo ha fatto. Ha continuato ad attaccarla tutti i giorni, chiamandola "opposizione-cadavere, comunista, faziosa". Poi, una volta chiuso il sipario sul G8 dell'Aquila, è andato ancora più in là: si sta rimangiando l'impegno preso anche in suo nome dal ministro Alfano con il Quirinale circa una pausa nella legge sulle intercettazioni; ha ripetuto che non ha intenzione di trattare alcunché con l'opposizione; ha maltrattato i suoi dissidenti interni; ha richiamato all'ordine perfino la Lega. "Ora dev'esser chiaro a tutti che sono io che comando" ha detto ieri. L'ora della carota è passata e si ricomincia col bastone.

Ho letto ieri un interessante articolo del collega La Spina su "La Stampa". Scrive che la maggiore sobrietà dimostrata da Berlusconi al G8 è stata probabilmente l'effetto delle critiche acerbe di cui è stato oggetto da parte di alcuni giornali ai quali (scrive La Spina) andrebbe riconosciuto il merito del "new look" saggio e prudente del nostro premier di solito scapestrato.
Forse La Spina ha ragione; forse quel merito ad alcuni giornali andrebbe riconosciuto. Purtroppo però quella saggezza e quella prudenza di cui parla il collega sono già dietro le spalle.

Dal canto nostro, poiché è di noi che si parla, le nostre riserve e le nostre critiche non cesseranno se non altro per indurre il premier scapestrato a cambiare definitivamente comportamenti pubblici e privati che sono l'esatto contrario da quelli ai quali un capo di governo dovrebbe attenersi.

Continueremo dunque a pubblicare notizie di fatti come è compito di ogni giornale, ma non speriamo e non ci illudiamo di vedere effetti vistosi. Salvo quello di vedere il premier far bene il mestiere dell'anfitrione, ma di questo eravamo certi. Purtroppo non è di questo che ha bisogno il nostro Paese.

(12 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una democrazia malata che deve guarire
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 04:51:42 pm
L'EDITORIALE

Una democrazia malata che deve guarire

di EUGENIO SCALFARI


TRE temi strettamente legati l'uno all'altro dominano il panorama della settimana che oggi si chiude: l'intervento del presidente della Repubblica sulla legge approvata dal Parlamento che riguarda alcuni aspetti della sicurezza pubblica; il dibattito in corso nel Partito democratico in vista del congresso che si concluderà il 25 ottobre; la presentazione del Dpef e del decreto anti-crisi che ha cominciato il suo iter parlamentare. Ma va aggiunto che su questi tre temi ne incombe un quarto che ha carattere preliminare e che può avere come titolo quello usato venerdì scorso da Gustavo Zagrebelsky per il suo articolo pubblicato dal nostro giornale: "Verità e menzogna".

Si tratta di un tema capitale per ogni democrazia poiché investe il rapporto fiduciario dei cittadini con le istituzioni, la formazione della pubblica opinione e la sua possibile manipolazione culturale prima ancora che politica e infine il funzionamento dello stato di diritto.
Inizierò con il primo tema e concluderò con il quarto: vi è infatti un nesso evidente tra gli interventi del Quirinale e la tutela dello stato di diritto, mai come oggi insidiato, indebolito e vulnerabile.

Si è detto da parte di alcuni fondamentalisti del centrodestra che l'intervento di Napolitano sulla legge di sicurezza è stato irrituale. L'ha detto anche Di Pietro che pratica un altro tipo di fondamentalismo.
Napolitano, com'è noto, ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento ma ha accompagnato la sua firma con una lunga lettera diretta al presidente del Consiglio, ai ministri proponenti (Maroni, Alfano), ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale.

La lettera elenca i punti critici della legge che, secondo il presidente della Repubblica, rischiano di inceppare l'ordinamento penale vigente suscitando effetti contraddittori rispetto a quelli voluti e interpretazioni molteplici da parte di chi dovrà attuarne le norme. I critici di Napolitano si sono domandati perché il Capo dello Stato, avendo ravvisato molteplici difetti della legge, non l'abbia rinviata al Parlamento come la Costituzione gli consente di fare. Questo dire e non dire, questo promulgare criticando e criticare promulgando sarebbe segno di incertezza e configurerebbe l'irritualità rimproverata.

Noi non pensiamo che le cose stiano così. Il potere di rinvio alle Camere d'una legge da esse approvata è previsto in caso di mancata copertura finanziaria (e non è questo il caso) e di altre palesi forme di incostituzionalità. Palesi, poiché se tali non fossero spetterebbe alla Corte - se e quando attivata - aprire un'indagine ed emettere la sua sentenza.

Napolitano non ha ravvisato palesi incostituzionalità ma preoccupanti elementi di incoerenza rispetto all'ordinamento penale vigente ed ha allertato le competenti istituzioni (e innanzitutto la Corte) affinché vigilino e provvedano a evitare gli incidenti di percorso che quella legge malfatta potrebbe produrre.
Non mi pare che ci siano obiezioni da opporre ma soltanto solidarietà da esprimere al Capo dello Stato che sta cercando con diuturna fatica di raddrizzare il timone d'una barca assai mal diretta dai nocchieri che dovrebbero assicurarne un'ordinata navigazione.

* * *

Il buon andamento della cosa pubblica riposa anche sull'esistenza d'una forte opposizione che abbia idee chiare sulla visione del paese e sui suoi problemi. Un'opinione molto diffusa, non soltanto nel centrodestra ma anche in ampi settori di centrosinistra, ritiene che il Partito democratico non abbia idee chiare sulla propria identità, non conosca né voglia conoscere i problemi del paese e sia percorso da una pulsione alla rissa interna alimentata soltanto da contrastanti ambizioni personali.

Offra insomma al pubblico uno spettacolo miserando che qualcuno ha definito tragicomico e che avrebbe il solo effetto di accrescere l'irruente baldanza del potere berlusconiano. Noi non pensiamo che le cose stiano in questo modo anche se non mancano segnali di preoccupazione e forze centrifughe che spingono al peggio.

I valori del partito riformista sono largamente condivisi al suo interno. Sono i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà con i deboli, non violenza, difesa dell'ambiente. Ma poi questi valori che distinguono fortemente la sinistra dalla destra, vanno tradotti in una linea concreta e qui, come è naturale, le posizioni divergono. Quella di Bersani punta (sono parole sue) ad un partito di sinistra con forti connotati laici, evoca l'Ulivo, cioè una vasta alleanza di forze unite da un programma e da un comune avversario, si prefigge una legge elettorale alla tedesca e mira ad un'alleanza nazionale con il centro cattolico e moderato di Casini.

Il programma di Franceschini fa perno invece sul definitivo superamento delle antiche identità ex Ds ed ex Margherita, esalta un programma riformatore che colga i bisogni e le speranze dei vari ceti sociali e dei territori di insediamento del partito, sottolinea il ruolo degli elettori che si iscrivono al partito per partecipare alle primarie, fissa nel conflitto di interessi e in una legge che lo impedisca un impegno prioritario, conferma la laicità come un connotato di fondo e infine pone il tema d'una classe dirigente nuova e della sua selezione. Marino mette in prima fila il laicismo e si riserva di convergere con i suoi delegati sul nome di quello dei due candidati principali che presenti spiccate affinità con il suo programma.

Desidero esprimere un paio d'osservazioni strettamente personali su queste diverse posizioni che comunque denotano un dibattito serio e aperto. C'è in questo dibattito congressuale un'attenzione al laicismo, specie da parte di personalità post-comuniste, che rappresenta un'assoluta e per me positiva novità. È noto che il tema laico fu sempre subordinato nel Pci e lo è stato fino a poco tempo fa nelle successive incarnazioni della sinistra.

Questo laicismo spinto si coniuga tuttavia con l'esplicita ipotesi di un'alleanza nazionale con l'Udc di Casini e di Buttiglione, quasi a prefigurare uno schema che ricorda il tacito duopolio Dc-Pci della prima Repubblica. Mi sembra uno schema alquanto "retrò" per un partito riformista, senza dire che l'Udc non farà mai alleanze nazionali con la sinistra e l'ha detto in modo esplicito più e più volte.

Per concludere su questo punto: ho molto apprezzato la lettera che Virginio Rognoni ha inviato al "Corriere della Sera" di giovedì scorso e l'articolo di fondo di Sergio Romano in quello stesso numero del giornale. Entrambi hanno sottolineato l'importanza e la serietà del dibattito in corso nel Pd. Di Rognoni non dubitavo. Il Sergio Romano di giovedì è una mosca bianca in un gruppo di mosche nere e fa piacere averlo letto.

* * *

Uno degli elementi della partita politica è rappresentato dall'andamento della crisi economica, che il governo ha finora esorcizzato, prima disconoscendone l'esistenza e poi dandola già per conclusa. Posso dire che siamo il solo governo del mondo occidentale che abbia avuto questa posizione in due fasi entrambe caratterizzate da una consapevole dissimulazione della realtà.

Qualche cifra servirà a chiarire, almeno per chi abbia capacità e voglia di capire, riportandoci coi piedi per terra. Il confronto tra i dati del primo quadrimestre del 2008 con il corrispondente periodo del 2009 registra una diminuzione della produzione industriale del 21 per cento e degli ordinativi di oltre il 30. Ancora più grave è il crollo delle esportazioni che rappresentano il principale elemento di sostegno della domanda: una diminuzione del 24 per cento. Quanto al nostro prodotto interno lordo, le previsioni del Dpef lo collocano al meno 5,1 ma altre attendibili fonti lo collocano addirittura al meno 6.

Le altre cifre accolte nel Dpef concernenti il deficit, l'aumento delle spese, la diminuzione delle entrate, l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale confermano che erano giuste le previsioni della Banca d'Italia e sbagliate quelle del Tesoro di appena un mese fa, ma il peggio riguarda il settore dell'occupazione, destinata a una vera e propria discesa che avrà luogo dal prossimo settembre fino alla primavera 2010. Una discesa strutturale e non congiunturale poiché è accompagnata dalla distruzione di posti di lavoro che per molti anni non saranno compensati da un'estensione della base produttiva.

Il nostro ministro dell'Economia ostenta ciononostante grande tranquillità. Mette insieme piccoli tasselli di sostegno fiscale, talmente minimali che neppure i diretti interessati ne percepiscono sollievo e tutti comunque postergati alla primavera-estate del 2010, cioè tra un anno da oggi.

In questo (tardivo) recupero di frattaglie la sola bistecca è rappresentata dallo scudo fiscale dal quale Tremonti si aspetta un recupero di 3-4 miliardi di capitali e un beneficio per l'erario del 5 per cento sui guadagni che questi capitali hanno realizzato nel periodo in cui restarono imboscati nei vari paradisi fiscali.

I giornali hanno cercato nei giorni scorsi di spiegare in che modo la materia imponibile sarà accertata ma, con la migliore buona volontà, non ci sono riusciti tali sono le complicazioni normative. Aspettiamo dunque di poter leggere i testi di legge e soprattutto i regolamenti, ma intanto alcune considerazioni possono essere fatte.

1. Sono stati esclusi dal condono (perché di vero e proprio condono si tratta) i reati di bancarotta e di falso in bilancio. Si tratta d'una giusta esclusione, richiesta dall'opposizione e accettata dal governo.

2. Tuttavia viene escluso da una norma successiva che le dichiarazioni riservate del proprietario dei capitali rientrati alla banca agente possano mai essere utilizzate in giudizio contro il contribuente interessato. Si cancellano cioè le prove che dovrebbero rendere concreta la punibilità prevista dalle norme, sia rispetto al giudice civile che a quello penale. È un rebus del quale il Parlamento dovrà in qualche modo venire a capo o abolendo la punibilità o abolendo il divieto di provarla.

3. La vasta platea dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che paga le imposte per ritenuta alla fonte e quindi fino all'ultimo centesimo, assisterà allo sconcio spettacolo di evasori fiscali che ottengono sanatoria pagando una tassa "una tantum" del 5 per cento. Questo confronto sta già diffondendo rabbia e protesta tra i contribuenti che fanno il loro dovere. È facile capire che la sfiducia verso le istituzioni farà un altro passo avanti di fronte ad un condono che premia per l'ennesima volta i soliti noti e i soliti recidivi.

* * *

Mi resta da concludere con qualche parola sul tema "menzogna e verità". Su di esso sono state scritte intere biblioteche ma noi italiani abbiamo oggi il triste privilegio di vederne la messa in scena in presa diretta.
Le democrazie vivono sul rapporto di fiducia che si instaura tra il popolo e le istituzioni. Ma poiché le istituzioni sono rappresentate da persone, quella fiducia si instaura tra il popolo e le persone istituzionali.

Il rapporto fiduciario a sua volta si qualifica con due diverse modalità: la fiducia con partecipazione e quella con delega in bianco. Quest'ultima può essere revocata ma se dura troppo a lungo la revoca diventa difficile e sempre meno probabile anche perché l'area dalla partecipazione tende a restringersi mentre le istituzioni tendono ad assumere connotati sempre più autoritari.

Noi stiamo vivendo questa fase con un'intensità che non è mai stata così accentuata in tutti i settant'anni di storia repubblicana. Le democrazie autoritarie derivano dunque da una torsione della democrazia partecipata verso una democrazia autoritaria con tratti di regime stabile e sempre più difficilmente revocabile.

Il modello di democrazia autoritaria tende a raccontarsi in modo dissimile dal vero ed è a questo punto che la menzogna istituzionale diventa strumento primario di potere, deforma la realtà, indebolisce i poteri di garanzia, esercita la sua crescente influenza sui mezzi di informazione, dispensa favori e privilegi, viola diritti, narcotizza la pubblica opinione. La morale viene messa in soffitta, il teatro-spettacolo sostituisce la politica. Noi stiamo vivendo questa fase. Ad una tale deriva occorre resistere cercando di costruire il futuro.

(19 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Elite e democrazia
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:07:29 pm
Elite e democrazia

di Eugenio Scalfari


Il potere politico è sempre stato concentrato nelle élite. Ma la loro circolazione insieme alla divisione dei poteri è lo schema tuttora valido anche se permanentemente insidiato  Ho letto con attenzione e interesse il libro di Massimo Salvadori ('Democrazia senza democrazia' editore Laterza) e, con pari attenzione e interesse, la recensione che gli ha dedicato Luciano Canfora sul 'Corriere della Sera' del 29 giugno scorso.

Il tema è di stringente attualità politica e i due autori, del libro e della recensione, procedono direi mano nella mano nella critica anti-elitista che ha come bersagli sia la democrazia liberale ottocentesca sia quella di massa instaurata nel secondo Novecento per iniziativa della socialdemocrazia e del movimento socialista in Europa.

Si tratta da parte dei due autori di una critica senza appello che mette sotto schiaffo la democrazia parlamentare e partitocratica, appoggiandosi alle motivazioni formulate da Gaetano Mosca, Robert Michels, Gramsci (ai quali aggiungerei Pareto e Salvemini e, perché no, in epoche diverse anche Tocqueville, Benjamin Constant, Georges Sorel e Schumpeter) convergenti nel dimostrare la falsità dell'auto-rappresentazione d'una democrazia formalmente esistente, ma in realtà totalmente asservita ai poteri economici e/o all'interesse dell'oligarchia dominante di mantenere il potere, estenderlo, bloccare le possibilità di controllo e di rinnovamento delle classi dirigenti.

Marx ed Engels sono assai meno presenti in questa analisi critica. Essi infatti davano una lettura sovrastrutturale della politica e fissavano il loro sguardo soprattutto sull'evoluzione delle forze economiche che rappresentavano la struttura della società. Nacque da questa loro lettura la distinzione tra le cosiddette libertà borghesi e la libertà sostanziale che si sarebbe attuata soltanto con l'abolizione della proprietà privata prima e dello Stato poi.

Ho detto che l'analisi marxista ha lavorato su un altro piano, ma è pur vero che la critica delle libertà borghesi ha finito con l'incontrarsi con quella anti-elitaria realizzando uno dei molti casi del 'marciare separati per colpire uniti'.


Non mi nascondo affatto i problemi edilizi che la democrazia parlamentare porta con sé sin dalla sua nascita, sia nella fase liberale che operava su un ceto molto ristretto in base al genere (soltanto maschile) e al censo (soltanto gli abbienti) e sia nella fase del suffragio universale, dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali.

La dinamica tra il potere politico e il potere economico e il frequente asservimento del primo rispetto al secondo è stata una costante della storia, non soltanto moderna, ma anche antica. Quindi non soltanto della democrazia. Non ho bisogno di ricordare a Salvadori (e tantomeno a Canfora) il peso che esercitarono i ricchi nella Roma senatoriale e perfino in quella pre-imperiale del primo e del secondo triumvirato.

Il dominio del 'business' sulla politica è, lo ripeto, una costante storica che si impose sia quando la politica era debole sia quando era forte; perfino Napoleone (e non parliamo del secondo impero di suo nipote) soggiacque in molte occasioni al potere economico, così come vi soggiacquero molti presidenti degli Stati Uniti e molti premier britannici. Tutti i paesi in tutte le latitudini hanno vissuto le fasi alterne di questa dinamica che è ineliminabile nella storia del mondo.

Mi preme però di discutere il tema delle 'élite' e delle oligarchie. Rimarco intanto una sostanziale differenza tra questi due temi che sintetizzo così: le oligarchie sono delle 'élite' che hanno bloccato l'accesso al potere di nuove forze sociali. Ma non tutte le 'élite' si rattrappiscono in oligarchie, così come non tutte soggiacciono al potere del 'business'. Roosevelt fu un caso importante di questa dinamica. Barack Obama ne è un altro, operante sotto i nostri occhi.

Personalmente ritengo che il potere politico sia sempre stato concentrato nelle 'élite'. La critica anti-elitaria ha quasi sempre avuto come sbocco politico l'insediamento di regimi autoritari o dittatoriali o addirittura totalitari. Da questo punto di vista la Rivoluzione francese rappresenta un esempio mirabile per la rapidità con la quale è passata da uno stadio all'altro: dalla democrazia costituzionale dell'89 all'oligarchia dell'asse Danton-Robespierre, alla dittatura del Terrore, all'oligarchia del Direttorio, al potere assoluto dell'Impero.


Le élite non bloccate, quelle che un radicale come de Viti de Marco chiamava 'la circolazione delle élite' e insieme la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, cioè lo Stato di diritto che assicura il controllo attraverso appunto la divisione dei poteri: questo è lo schema di una democrazia funzionante, tuttora valido anche se permanentemente insidiato. A mantenerlo sono utilissime le analisi critiche del tipo di quella dell'amico Salvadori che tengono vivo il dibattito e segnalano le crepe e le falle di un sistema fragile che sopravvive perché "non se ne è ancora inventato un altro migliore".

(17 luglio 2009)


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Allarme rosso l'Italia si sfascia
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 02:52:56 pm
ECONOMIA     IL COMMENTO


Allarme rosso l'Italia si sfascia

di EUGENIO SCALFARI


LE NOTIZIE sono tante ed emergono da vari fronti, ma il loro senso si racchiude in tre parole: implosione, disfacimento, secessione. Tre parole che non riguardano soltanto il governo, i partiti, l'economia, la scuola, il federalismo, l'immigrazione, la sicurezza, il Mezzogiorno, le mafie, ma riguardano l'intero sistema-paese. Riguardano l'Italia. Riguardano le istituzioni e lo Stato.

Credo sia il momento di lanciare l'allarme rosso perché i segnali sono univoci: l'Italia, lo Stato italiano sono a rischio di implodere e non è uno scenario collocato in un futuro sia pur prossimo, ma già visibilmente in corso.

Bombe a orologeria brillano una dopo l'altra. Alcune sono già esplose. Se le altre non saranno subito disinnescate, se non avrà inizio subito un'inversione virtuosa, tra qualche mese la conflagrazione sarà generale. Stiamo ballando sull'orlo di un vulcano e pochissimi se ne rendono conto. Tra quei pochissimi c'è sicuramente il Capo dello Stato. Se dovessi fare altri nomi significativi sarei molto imbarazzato. Il solo dato confortante è l'esistenza d'una massa cospicua di persone che percepiscono questa situazione di gravissima crisi e vorrebbero contribuire a spegnere gli incendi già appiccati e impedire che i focolai dilaghino; ma non hanno strumenti, non hanno punti di riferimento, hanno perso la fiducia o non sanno su chi riporla.

Questa massa di persone, al di là degli schieramenti, della condizione sociale, della geografia, rappresenta un deposito di energie potenziali prezioso, ma purtroppo inerte; un esercito di riserva che nessuno è in grado di schierare; una sorta di vecchia e giovane guardia che se entrasse in linea oggi potrebbe capovolgere gli esiti di questa deriva. Sarebbe un miracolo. Io non credo nei miracoli ma in questo ancora ci spero.

* * *

Citerò un esempio dell'implosione in corso, tra i tanti che si possono fare: la penosa vicenda del decreto legge anticrisi che si è conclusa ieri dopo settimane e giorni di reiterati strappi istituzionali e costituzionali.
Il governo emana un decreto che contiene misure urgenti per fronteggiare la crisi economica. Il presidente della Repubblica, al quale non compete di esaminare il merito di quelle misure ma soltanto la loro urgenza, ravvisa che questo requisito esiste e ne autorizza la presentazione in Parlamento. Il provvedimento di conversione del decreto, che deve compiersi entro 60 giorni, inizia alla Camera dei deputati. Le competenti commissioni lo esaminano ma mentre l'esame è già in corso cominciano a piovere emendamenti di estrema importanza presentati dal governo, sicché la materia da esaminare cambia in continuazione sotto gli occhi dei deputati e del presidente della Camera.

Vengono introdotte norme su questioni di grande rilievo tra le quali lo scudo fiscale, la sanatoria per le badanti, spostamenti di risorse e di spese da un capitolo di bilancio ad un altro ed infine un complesso di norme che di fatto tolgono alla Corte dei Conti i poteri effettivi di indagine dei quali dispone.

La pioggia degli emendamenti è talmente copiosa da trasformare il decreto in una sorta di "passe-partout" senza alcun riguardo né all'omogeneità delle norme né alla loro urgenza. La lista degli articoli, dei commi e degli allegati si allarga a dismisura. Il presidente della Camera cerca di arginare quel diluvio ma riesce solo ad aprire un ombrellino bucherellato.

Alla fine, dopo l'ultimo emendamento inserito mezz'ora prima, il decreto va al voto su cui il governo ha posto la fiducia e passa con una stentata maggioranza, molto minore di quella di cui il governo dispone sulla carta.
A questo punto il Capo dello Stato convoca al Quirinale il ministro Tremonti, autore del decreto e di gran parte degli emendamenti che l'hanno trasformato, e in un colloquio di tre ore gli segnala una serie di punti istituzionalmente e costituzionalmente irricevibili. Si augura che il Senato in seconda lettura li emendi, fa capire che in caso contrario rinvierà il decreto alle Camere per un secondo esame come la Costituzione gli dà il potere di fare.

Tremonti ascolta, discute, controbatte; alla fine si impegna ad emendare il decreto. Ma poco dopo fa sapere che le correzioni suggerite da Napolitano non avverranno in Senato dove invece il decreto sarà approvato e convertito in legge con (ennesimo) voto di fiducia senza cambiare una sola virgola. La correzione avverrà subito dopo attraverso un decreto-bis (anch'esso da convertire in legge) che modificherà la legge appena approvata.

Una procedura macchinosa al limite della Costituzionalità, voluta dal governo per un solo ma decisivo motivo: il timore che la maggioranza al Senato si sfaldi e la legge affondi. Con un nuovo decreto ci saranno invece altri due mesi di tempo.
Il Capo dello Stato accetta questa procedura (che ha un precedente che può giustificarla) ma mette una condizione: il nuovo decreto dovrà essere emesso un minuto dopo il passaggio del vecchio decreto al Senato. Napolitano firmerà contemporaneamente la promulgazione della legge e il decreto-bis che la modifica, che è quanto finalmente è avvenuto ieri.

Ho motivo di pensare che il presidente della Repubblica avrebbe di gran lunga preferito che gli emendamenti da lui sollecitati fossero decisi dal Senato. Ma ho anche motivo di pensare che a Napolitano stesse più a cuore che la legge fosse emendata piuttosto che la procedura per ottenere quel risultato.

La morale che emerge da questa penosa vicenda è la seguente: il governo se ne infischia della Costituzione ed anzi opera in tutte le occasioni per svuotarla usando strumenti di urgenza anche dove l'urgenza non c'è e usandoli in modo da scavalcare filtri ed ostacoli. Si è arrivati al punto che una norma di legge fiscale, quella sul pagamento delle imposte da parte dei terremotati dell'Aquila, sia stata emendata con una circolare della Protezione civile anziché con un provvedimento legislativo perché il governo non si fida più della sua maggioranza se non vincolandola con il voto di fiducia. Questo è solo un esempio che dimostra il marasma istituzionale in cui ci troviamo.

* * *

La Lega nord è perfettamente consapevole di questo marasma come del resto lo siamo tutti. Ma la Lega non ne è affatto allarmata, anzi lo desidera. La Lega è un piromane che attizza l'incendio. Per mimetismo è spuntato un altro piromane in Sicilia. Se la Lega incendia anche la Sicilia incendierà. Se il governo si schiera con il leghismo di Bossi e di Tremonti, anche i siciliani adotteranno il metodo del ricatto e frantumeranno la maggioranza.

Per evitare (per ora) l'incendio generale Berlusconi sgancia a Palermo quattro miliardi e (per ora) il leghismo siciliano rinfodera le armi. Quei 4 miliardi in realtà sono finti, prelevati da risorse già destinate alla Sicilia ma bloccate. Semplicemente sono state sbloccate anche se la cassa non ci sarà fino al 2010.
A questo punto entrano in fibrillazione la Calabria, la Basilicata, la Puglia. Ma anche la Liguria, il Veneto, il Piemonte. Perché la Sicilia sì e gli altri no?
Berlusconi promette un piano Marshall per il Sud ma se ne riparlerà a settembre e i fondi comunque sono sempre quelli già stanziati ma non disponibili. La cassa ci sarà, a dio piacendo, tra il 2010 e il 2013. Intanto la secessione silenziosa della Lega va avanti.

* * *

L'esercito italiano è un'espressione "nazionale" e come tale si dà carico di rappresentare il paese nei luoghi dove la pace è minacciata dal terrorismo o da altre emergenze. Ma alla Lega nulla importa che l'Italia sia presente come Stato e chiede il ritiro da tutte le missioni all'estero. Meglio impiegare i soldati per spazzare i rifiuti e per impedire gli sbarchi dei migranti.
La scuola ha una missione culturale nazionale ma la Lega se ne infischia anzi non le piace affatto. Comincia col chiedere un esame di dialetto per i docenti destinati al nord, poi ripiega (ripiega?) su la nascita dei docenti nel territorio e su un esame di abilitazione per la storia e il linguaggio locale. Il ministro Gelmini acconsente.

La Lega non vuole l'integrazione degli immigrati regolari e cerca di seminarla di ostacoli. Sapete, cari lettori, quanti sono oggi gli immigrati regolari? Sono ormai cinque milioni, una massa di persone eguale agli abitanti del Lazio. Ma non si fermeranno qui. Fanno figli, chiamano a raggiungerli altri membri della famiglia, pagano tasse, reclamano diritti. Quale politica si farà per integrare questo flusso? Quanto costerà? Quanto renderà? Nessuno se ne preoccupa. Così il federalismo. Così la Sanità. Quanto costerà il federalismo? Tremonti non dà cifre perché non le ha. Il costo del federalismo è come il budino: sapremo qual è solo dopo averlo mangiato. Intanto si procede alla cieca perché così vuole la Lega e così vuole Berlusconi che è sotto ricatto: se la Lega lo lasciasse cadrebbe il giorno dopo, anzi quel giorno stesso. Questa è l'implosione, il disfacimento, la secessione silenziosa. Questo è l'allarme rosso che è necessario lanciare.

P. S. Ho chiesto domenica scorsa che fine avessero fatto i 35 miliardi di maggiori spese ordinarie fatte dal governo senza che se ne conosca la destinazione e il perché. Ovviamente il ministro dell'Economia non ha risposto. Né, nelle sedi istituzionali, è stato incalzato a rispondere. Ha risposto sulle minori entrate ma non sullo sfondamento sorprendente della spesa ordinaria.
Mi permetto di domandare a Casini, a Franceschini, a Bersani, a Di Pietro, a Ferrero: a voi non interessa sapere perché uno sfondamento così sorprendente è avvenuto? La più pesante manovra finanziaria degli ultimi vent'anni fu quella fatta da Giuliano Amato nel 1992: novantamila miliardi di lire. Lo sfondamento della spesa di quest'anno (35 miliardi di euro) è pari a 70 mila miliardi di lire. Nessuno è interessato a capire in quale buco nero e perché sono finiti?
 
(2 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se la Nazione resta un'idea
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2009, 03:35:46 pm
IL VETRO SOFFIATO

Se la Nazione resta un'idea

di Eugenio Scalfari


Berlusconi non è un federatore.

Il nucleo sociale su cui opera è il medesimo della Lega. Semmai ha spaccato il Paese. E non solo tra Nord e Sud, ma tra due società lontanissime fra loro
 
Torna in discussione per l'ennesima volta il tema dell'idea nazionale. Non ce ne lamentiamo; è un argomento che ne implica molti altri di natura politica, economica e soprattutto culturale, soggetti alle mutevoli situazioni storiche e capaci di suscitare nuovi valori e di abbattere quelli da tempo consolidati.

Questa volta l'occasione è stata fornita dall'imminenza del 150 anniversario della nascita dello Stato italiano (1861-2011) e delle previste celebrazioni. Ernesto Galli della Loggia (che nei confronti dell'idea nazionale ha una particolare sensibilità) ha documentato l'insufficienza del programma celebrativo ed è tornato a chiedersi se tale insufficienza sia colpa delle persone che avrebbero dovuto preparare l'evento oppure del fatto che l'evento stesso non è minimamente sentito dalla pubblica opinione.
Premesso che della Loggia ha piena ragione nella sua denuncia, è il caso d'affrontare il tema ideologico da lui riproposto: esiste un'idea e una realtà di nazione italiana? Oppure si tratta di pura invenzione che mostra ormai palesemente la corda?

Dico subito che la nazione è tutto fuorché una realtà etnica, demografica, territoriale.
Quando Alessandro Manzoni cercò di descriverla in un empito di appassionata poesia civile con i famosissimi versi "una d'arme, di lingua, d'altare / di memorie, di sangue, di cuor", ci mise dentro alcuni requisiti che nessuna nazione ha mai avuto; per esempio il sangue, le memorie, la lingua, il cuore (cioè i sentimenti). La religione? Forse, in alcune situazioni, ma non sempre e non per sempre. Allora che cosa? Quale requisito, quali valori, tengono insieme un gruppo di persone tale da potersi chiamare una nazione? E qual è il rapporto esistente fra tre termini che indicano altrettanti enti e cioè: la nazione, la società, lo Stato?

Il mio parere in proposito è che lo Stato sia l'anello primario di questa triade; esso ha come suo fondamento una società e, a sua volta, crea la figura ideologica e quindi rettorica della nazione. Non si dà una nazione senza uno Stato e senza un gruppo sociale che ad esso dia vita e ad esso fornisca il personale dirigente, i valori, la lingua, le armi, le memorie.

Questo è il percorso storico che si è ripetuto infinite volte in tutte le epoche e in tutte le latitudini.
Guardate all'antica Grecia. La lingua comune c'era, mancava però una società comune. La società differiva profondamente nelle varie città, perciò lo Stato si identificò con la 'polis' e la nazione fu la 'polis'. Lo Stato greco non è mai nato. Per analoghe ragioni nacque da Roma l'Impero romano ma non l'Italia, non la nazione italiana e tanto meno lo Stato italiano.
Le monarchie furono nell'Europa medievale e rinascimentale le incubatrici degli Stati. Sostennero lotte secolari per affermarsi sul sistema feudale. Il loro fondamento sociale fu per lunghi secoli di natura regionale. Le nazioni vennero quando gli Stati furono in grado di costruirne l'ideologia. Cioè molto più tardi.

In Italia lo Stato nato nel 1861 non fu che l'ingrandimento di quello piemontese, che infatti si allargò per successive annessioni. Quelle annessioni misero insieme, incollandole l'una all'altra, società che rimasero profondamente diverse, lingue diverse e diversi costumi, valori, interessi. Ci voleva dunque un federatore. L'ha scritto Angelo Panebianco qualche giorno fa sul 'Corriere della Sera', ravvisando nella Democrazia cristiana quel soggetto maieutico.
In parte fu così, ma solo in parte. Insieme alla Dc un ruolo altrettanto federativo esercitò il Partito comunista, operando su una base sociale diversa ma altrettanto indispensabile. Senza dimenticare che un altro federatore era stato il fascismo, che infatti produsse un'immagine di nazione. Un'immagine deformata, un'ideologia che portò guerre e rovine, ma l'immagine fu prodotta e messa in circolazione.

Berlusconi è un federatore, come Panebianco ritiene? A me non sembra. Il nucleo sociale sul quale opera Berlusconi è il medesimo della Lega. Il fatto che riscuota consensi anche al Sud non è sufficiente ai fini della nostra discussione. Berlusconi semmai ha spaccato il Paese non solo tra Nord e Sud, ma tra due società che non si riconoscono tra loro né sul piano politico né su quello economico, culturale e soprattutto su quello morale. Lo Stato da lui guidato non è un elemento federatore. Può esplodere da un momento all'altro perché non c'è quasi nulla che lo tenga insieme.

(30 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché la Lega sta facendo ammuina
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2009, 11:29:15 am
IL COMMENTO

Perché la Lega sta facendo ammuina

di EUGENIO SCALFARI


LA PAROLA "isteria" e l'aggettivo "isterico" sono stati usati per la prima volta da Ezio Mauro nel suo articolo di ieri a proposito dei recentissimi comportamenti del nostro presidente del Consiglio. Si sente braccato, inventa un suo ruolo maieutico in tutte le trattative internazionali che si rivela però del tutto infondato (a cominciare dal vertice russo-turco sul gasdotto); insulta come delinquenti due giornalisti che fanno domande scomode ma pertinenti nel corso di una conferenza stampa da lui convocata; teme l'arrivo di un settembre difficile per il governo e per lui e lo dice nel corso d'una riunione con i suoi collaboratori mentre contemporaneamente riafferma che il peggio della crisi è passato e che da settembre verrà il bello.
Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica, economica, politica.
Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non tanto sulla Lega quanto sull'intera comunità nazionale.

Le due insicurezze e le isterie che ne derivano - quella del premier e quella della Lega - rischiano di raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.

* * *

Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell'intera Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era malvista come entità politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti, ripiegarono sul federalismo, fiscale e istituzionale.
L'obiettivo era ed è quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché l'alleanza politica con la Lega è sempre stato uno dei punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima discesa in campo, così il federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un obiettivo di Forza Italia ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona parte spente le resistenze un tempo opposte da An in nome dell'unità nazionale.

Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in un'unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro l'immigrazione.

Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la "paura percepita" dei reati e il loro collegamento con l'immigrazione. In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone.
Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l'astensione del centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo, delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e dall'Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo del presidente della Repubblica.

Insomma, un sommovimento istituzionale di ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive "oziosa e parassitaria" nel Centro e nel Sud.

Poiché questa strategia sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l'asse Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda la Lega. E invece no. La strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e in uno stallo che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di frantumargli in mano il giocattolo che volevano costruire.

* * *

Voglio dire che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.
Si tratta dell'incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi principi, si profila ora il passaggio dall'ideologia al merito, emergono le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e soprattutto l'incognita del costo.

Nessuno è in grado di dire quanto costerà il federalismo fiscale, chi ne sopporterà l'onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord.

Le cifre del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro dell'Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo, quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità?

Questo nodo di domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato l'immagine del budino.
Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo fiscale è come l'araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine un'accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento del paese.
Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno inevitabilmente allungati.

Nel frattempo però il consenso popolare rischia di smottare e alcuni segnali già ci sono.
In vista di questo pericolo il terzetto di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie salariali, il ritiro delle missioni militari all'estero, la guerra delle bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice "ammuina" per nascondere che l'incognita del federalismo fa paura perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non ritorno.

Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E' il momento che queste energie potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono per costruirne altri più appropriati ed efficaci.
Temo che non ci sia tempo da perdere. L'abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima. Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai.

* * *

Post Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro Tremonti continua pervicacemente a negare quest'evidenza da lui stesso documentata nell'ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo sapere a che cosa sono serviti. E' una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi pubblicata.
So bene che con questo "post scriptum" espongo i lettori di "Repubblica" al rischio di un'altra lettera del Brunetta medesimo, ma le cifre da lui fornite chiedono risposta.

Dunque. Scrive il ministro della Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua volta aumentata da un anno all'altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo dedurne che si tratta di sprechi.
Altro Brunetta non dice. Il totale delle risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell'Economia o dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?

(9 agosto 2009)

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Si riaccende lo scontro tra Guelfi e Ghibellini
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2009, 04:13:10 pm
IL COMMENTO

Si riaccende lo scontro tra Guelfi e Ghibellini

di EUGENIO SCALFARI


Si è riacceso in questi giorni che coincidono con la grande vacanza nazionale di agosto l'antico dibattito tra guelfi e ghibellini, vecchio ormai di otto secoli. Vecchio ma sempre latente e attuale. Il dibattito riguarda il rapporto teorico tra la Chiesa e lo Stato democratico e quello più concreto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi.
Non ci sono molte novità da segnalare per quanto riguarda il rapporto teorico tra lo Stato e la Chiesa: si tratta di due entità che agiscono su terreni ben distinti e che come tali si riconoscono. Lo Stato democratico è laico per definizione e come tale riconosce alla Chiesa (anzi a tutte le Chiese e alle associazioni di qualunque genere) il diritto di usare lo spazio pubblico per diffondere le loro dottrine e tutelare i loro legittimi interessi.

La Chiesa a sua volta riconosce la laicità dello Stato con una sorta però di nota aggiuntiva che si concentra su un solo aggettivo: laicità purché sia buona. Se non è buona, la Chiesa di papa Ratzinger si riserva il diritto-dovere di emendarla raccomandando ai suoi fedeli nonché ai politici cattolici di sostenere e tradurre in norme di legge l'emendamento da lei sostenuto.
Questa è la novità e non è da poco. Si tratta di una novità tipicamente italiana che si spiega con il fatto che l'Italia è considerata dalla Chiesa come il giardino del Papa, luogo privilegiato dove il Vaticano si permette interventi, pressioni, forzature che in altre democrazie dell'Occidente cristiano sarebbero impensabili, non avrebbero alcuna risonanza e cadrebbero nell'indifferenza generale. Ma a questa eccezionalità del caso italiano siamo purtroppo abituati anche se noi "ghibellini" continuiamo a protestarne il carattere democraticamente abusivo.

Ho letto su qualche giornale (mi pare su un recente numero di "24 Ore") che la vecchia questione tra guelfi e ghibellini non rispecchia più la realtà e quindi non merita d'esser ripresa. Sarei felice se fosse così ma purtroppo non lo è affatto; ma se volete possiamo anche cambiare il lessico usando le parole di Chiesa militante e di laici impegnati. Va meglio così?

* * *

Il rapporto tra il Vaticano di papa Ratzinger e il governo di Silvio Berlusconi è invece molto complesso e si sta sviluppando su diversi piani gestiti per la parte cattolica dal segretario di Stato, cardinal Bertone, dal presidente della Cei, cardinal Bagnasco, dal cardinale Ruini sempre vigile malgrado l'apparente pensionamento e, naturalmente, dal papa in prima persona. Per il governo Gianni Letta in veste di gentiluomo vaticano, il ministro del Walfare Sacconi e direttamente dal presidente del Consiglio.

Il Vaticano agisce su due pedali. Il primo potremmo definirlo il pedale dei rimproveri: il dissenso della Chiesa sulla politica dell'immigrazione, sui respingimenti in mare, sulle ronde, sul reato di clandestinità e su ciò che ne consegue. Su tutti questi temi il rimprovero cattolico è stato ed è vibrante e netto, fortemente appoggiato dal clero parrocchiale e dalla stampa cattolica che ad esso fa capo. Fa parte del tema del rimprovero anche la spinosa questione dei comportamenti licenziosi del premier, più volte denunciati con crudezza da "Famiglia cristiana" e con più prudente fermezza dall'"Avvenire". Lo stesso cardinal Bagnasco è intervenuto in proposito manifestando rincrescimento e disapprovazione per "certi comportamenti" di personalità che non danno "buon esempio e tanto meno esempio di virtù cristiana".

Il secondo pedale è invece quello delle richieste, tanto più perentorie quanto più si estenda minacciosamente nelle coscienze cattoliche il rimprovero e la censura. Esiste tra questi due pedali un nesso molto visibile che non mette affatto in dubbio né la sincerità dei rimproveri né la fermezza delle richieste, ma che dà a queste ultime una forza che proviene dalla debolezza del governo e dalla sua ricattabilità politica. Si è spesso parlato in questi mesi della ricattabilità internazionale del presidente del Consiglio e anche della maggior forza acquisita dalla Lega nei suoi confronti; ma esiste anche una soverchiante pressione del Vaticano dovuta ai comportamenti "morali" del premier e al suo urgente bisogno di riguadagnarsi una nuova legittimazione sul versante cattolico.

Il ventaglio delle richieste vaticane è vario e ampio: la revisione delle procedure della legge sull'aborto e sulla procreazione medicalmente assistita, una rigorosa limitazione nell'uso della pillola abortiva; un'attentissima sorveglianza sul testamento biologico che di fatto ne vanifichi ogni più liberale disposizione; il finanziamento esplicito delle scuole cattoliche. Da ultimo è sopraggiunta la sentenza del Tar che esclude l'insegnamento della religione dai "crediti scolastici" riaprendo così il tema estremamente controverso dell'immissione in ruolo dei docenti indicati dai vescovi, avvenuto tre anni fa ad opera del governo Prodi.

Su questa sentenza, contro la quale ha già fatto ricordo il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini, la disputa tra Chiesa militante e laici impegnati si è vivacemente riaccesa. La senatrice Binetti ha reindossato il cilicio e affianca la Gelmini, la pubblicistica laica lamenta la debolezza congenita del laicismo, il cardinal Bagnasco sentenzia che la morale non può esser decisa dalla pubblica opinione, Angelo Panebianco distingue moralità e moralismo con il solo evidente intento di proteggere il premier dalle critiche che gli piovono addosso da più parti. A lui ha risposto giovedì scorso Mario Pirani sicché mi astengo dal maramaldeggiare.

* * *

La questione dell'insegnamento della religione nella scuola pubblica merita qualche precisazione; si tratta infatti di un tema capitale per la laicità dello Stato e non può essere liquidato sulla base delle convenienze di parte.

1. La religione non può essere un insegnamento facoltativo. Dev'essere obbligatorio come debbono esserlo la storia della letteratura, la storia degli avvenimenti politici, la storia dell'arte, quella della filosofia, quella della musica.

2. L'insegnamento della religione non ha nulla a che fare con il catechismo, che viene invece insegnato nelle parrocchie o nelle scuole private cattoliche. Quell'insegnamento non può che consistere in una storia comparata delle religioni e in particolare delle tre religioni monoteistiche che hanno in Abramo il loro ceppo comune.

3. Gli insegnanti debbono essere scelti attraverso pubblico concorso come avviene per tutte le materie in questione.

4. Il "placet" del vescovo rappresenta una latente violazione della laicità, raffigura una discriminazione inaccettabile rispetto agli altri insegnanti e una lesione del diritto degli studenti ad una corretta istruzione.

5. Da questo punto di vista il ricorso del ministro Gelmini contro la sentenza del Tar è un atto molto grave perché lesivo d'un diritto costituzionalmente garantito. Esso difende infatti uno stato di fatto discriminatorio in vigore nella scuola pubblica, che cozza contro le norme di reclutamento dei docenti e contro i diritti degli studenti.

6. Il fatto che la maggioranza degli studenti abbia aderito all'attuale insegnamento facoltativo della religione cattolica non ha alcun peso in una discussione che coinvolge principi costituzionali che (ha ragione il cardinal Bagnasco) non possono essere affidati al computo delle maggioranze.

7. La popolazione di fede musulmana è ormai presente in forze in Europa e in Italia ed è destinata a crescere ancora nel prossimo futuro. Dovremo dunque aprire corsi facoltativi di quella religione, affidati anch'essi al "placet" di qualche autorità religiosa che possa designare docenti coranici?

8. Il ministro dell'Istruzione che ha firmato il ricorso contro la sentenza di un tribunale amministrativo ha agito a nome del governo che si è pronunciato in proposito oppure di propria iniziativa? Ha i poteri per farlo quando si tratta di materia di questa delicatezza?
L'opposizione di centrosinistra si è già pronunciata in proposito ma non ha ancora, ch'io sappia, dato luogo ad una mozione o interpellanza capaci di promuovere un dibattito parlamentare. Eppure se c'è un luogo deputato ad affrontare una questione di tale genere è per l'appunto il Parlamento. E' perciò auspicabile che questa mozione sia presentata fin d'ora e iscritta dalle Camere per la ripresa settembrina. Da vecchio ghibellino (scusate, da laico impegnato) sarei stupito che tutto finisse qui.

(15 agosto 2009)
da corriere.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei morti che gridano dal fondo del mare
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2009, 10:50:09 am
L'EDITORIALE

Quei morti che gridano dal fondo del mare


di EUGENIO SCALFARI

È SINGOLARE (non trovo altro aggettivo) il comportamento della stampa nazionale sulla strage dei 73 migranti uccisi dal mare tra Malta e Lampedusa.
Il primo giorno, con notizie ancora incerte, tutti hanno aperto su quell'avvenimento: il numero delle vittime, la storia raccontata dai cinque sopravvissuti, i dubbi del ministro Maroni sulla loro attendibilità, le responsabilità della Marina maltese, i primi commenti ispirati al "chissenefrega" di Bossi e di Calderoli.

Ma dal secondo giorno in poi i nostri giornali hanno voltato la testa dall'altra parte. Le notizie nel frattempo sopraggiunte sono state date nelle pagine interne. Uno solo, il "Corriere della Sera", ha tenuto ancora quella strage in testata di prima pagina ma senza alcun commento. Il notiziario all'interno tende a riposizionare i fatti entro lo schema della responsabilità maltese. Il resto è silenzio o quasi. Fa eccezione "Repubblica" ma il nostro, com'è noto, è un giornale sovversivo e deviazionista e quindi non può far testo.

Comincio da qui e non sembri una stravaganza. Comincio da qui perché la timidezza, la prudenza, il dire e non dire dei grandi giornali nazionali sono lo specchio d'una profonda indifferenza dello spirito pubblico, ormai ripiegato sul tirare a campare del giorno per giorno, senza memoria del passato né prospettiva di futuro, rintronato da televisioni che sfornano a getto continuo trasmissioni insensate e da giornali che debbono ogni giorno farsi perdonare peccati di coraggio talmente veniali che qualunque confessore li manderebbe assolti senza neppure imporre un "Pater noster" come penalità minimale.

Perfino il durissimo attacco della Chiesa e della stampa diocesana, che su altri temi avrebbe avuto ampia risonanza, è stato registrato per dovere d'ufficio. Bossi, che ha orecchie attentissime a queste questioni, si è addirittura permesso di mandare il Vaticano a quel paese, definendo insensate le parole dei vescovi sulla strage del mare e invitando il papa a prendere gli immigrati in casa sua perché "noi qui non li vogliamo".
Alla vergogna c'è un limite. Noi l'abbiamo varcato da un pezzo nella generale apatia e afasia.

* * *

Ci sono varie responsabilità in quanto è accaduto nel barcone dei 78 eritrei, per venti giorni alla deriva in uno specchio di mare popolatissimo di motovedette, aerei, elicotteri, pescherecci delle più diverse nazionalità, italiani, maltesi, ciprioti, egiziani, tunisini e libici. Responsabilità specifiche e responsabilità più generali.

La prima responsabilità specifica riguarda il mancato avvistamento da parte della nostra Marina e della nostra Aviazione. Venti giorni, un barcone di quindici metri con 78 persone a bordo, sballottato dai venti tra Malta e Lampedusa, un braccio di mare poco più ampio di quello percorso da una normale regata di vela.
I ministri Maroni e La Russa dovrebbero fornire al Parlamento e alla pubblica opinione l'elenco dei voli e dei pattugliamenti da noi effettuati in quello spazio e in quei giorni. Il ministro dell'Interno finora si è limitato a chiedere un rapporto sull'accaduto al prefetto di Agrigento.

Che c'entra il prefetto di Agrigento? Il responsabile politico dei respingimenti in mare è il ministro dell'Interno che si vale della guardia costiera, delle capitanerie di porto e delle forze armate messe a disposizione dalla Difesa. Maroni e La Russa debbono rispondere, non il prefetto di Agrigento.

La seconda responsabilità specifica riguarda il pattugliamento italo-libico sulle coste della Libia. Sbandierato ai quattro venti come un grande successo diplomatico, viaggi del premier in Libia, abbracci e baci sulle guance tra Berlusconi e Gheddafi, promesse di denaro sonante e investimenti al dittatore-colonnello, viaggio del medesimo con relativa tenda a Villa Pamphili, scortesie a ripetizione, sempre del medesimo, nei confronti di quasi tutte le autorità istituzionali italiane; secondo viaggio del colonnello e seconda tenda al G8 dell'Aquila, dichiarazioni del ministro degli Esteri, Frattini, per sottolineare l'importanza dell'asse politico Roma-Tripoli.

Risultati zero. Riforma dei centri di accoglienza libici sotto controllo italiano, zero. Quei centri sono un inferno dove i migranti provenienti dall'Africa sahariana e dal Corno d'Africa sono ridotti per mesi in schiavitù e sottoposti alle più infami vessazioni fino a quando alcuni di loro vengono affidati ai mercanti del trasporto e imbarcati per il loro destino. Le vittime in fondo a quel tratto di Mediterraneo non si contano più.

In quei centri, tra l'altro, le autorità italiane dovrebbero individuare quegli immigranti che hanno titolo per essere trattati come rifugiati politici. Queste verifiche non sono avvenute. I migranti eritrei in particolare dovrebbero poter godere di uno "status" particolare come ex colonia italiana, ma nessuno se ne è occupato (e meno che mai, ovviamente, il prefetto di Agrigento).

In compenso le motovedette italiane dal primo giugno ad oggi hanno intercettato un elevato numero di barconi e li hanno respinti nel girone infernale dei centri di accoglienza libici, il che significa che le partenze dalla coste cirenaiche continuano ad avvenire in barba a tutti gli accordi.
Questo stato di cose è intollerabile. Frutto di una legge perversa e d'un reato di clandestinità che ha addirittura ispirato un gioco di società inventato dal figlio di Bossi e brevettato con il titolo "Rimbalza il clandestino".
Mancano le parole per definire queste infamità.

* * *

Ma esistono altresì responsabilità generali, al di là del caso specifico. Le ha elencate con estrema chiarezza il proprietario di un peschereccio di Mazara del Vallo da noi intervistato ieri.
Perché i pescherecci che avvistano barche di migranti in difficoltà non intervengono? Risposta: se sono in difficoltà superabili, intervengono, forniscono viveri acqua e coperte, indicano la rotta. Se sono in difficoltà gravi, li segnalano alle autorità italiane.
Segnalano sempre? Risposta: non sempre.
Perché non sempre? Risposta: se imbarchiamo i migranti sui nostri pescherecci rischiamo di perdere giorni e settimane di lavoro. Noi siamo in mare per pescare. Con gli immigrati a bordo il lavoro è impossibile.

Non siete risarciti dallo Stato? Risposta: no, per il mancato nostro lavoro non siamo risarciti.
Ci sono altre ragioni che vi scoraggiano? Risposta: chi prende a bordo clandestini e li porta a terra rischia di essere processato per favoreggiamento al reato di clandestinità. Temono di esserlo, perciò molti chiudono gli occhi e evitano di immischiarsi.

Se li portate a Malta che succede? Risposta: peggio ancora, ci sequestrano la barca per mesi e ci tolgono l'autorizzazione a pescare nelle loro acque.
Questi sono i risultati di una legge sciagurata, salutata non solo dalla Lega ma dall'intero centrodestra come un successo, una guerra vittoriosa contro le invasioni barbariche.

Questa legge dovrebbe essere abrogata perché indegna di un paese civile. Nel frattempo gli immigrati entrano a frotte dai valichi dell'Est. Non arrivano per mare ma in pullman, in automobile, in aereo, in ferrovia e anche a piedi. Alimentano il lavoro regolare e quello nero in tutta la Padania e non soltanto.
I famigerati rom e i famigerati romeni vengono via terra e non via mare. La vostra legge non solo è indecente ma è contemporaneamente un colabrodo.

* * *

Alcuni si domandano i motivi del silenzio di Berlusconi su questo delicatissimo tema. La ragione è chiara e l'ha fornita l'onorevole Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl insieme a La Russa e Bondi e quello che meglio di tutti conosce la natura del capo del governo essendo stato con lui e con Dell'Utri uno dei tre fondatori di Forza Italia nell'ormai lontano 1994.

Di che cosa vi stupite, ha scritto Verdini in una sua lettera al "Corriere della Sera" di pochi giorni fa ribattendo alcune domande di Sergio Romano nel suo fondo domenicale. Di che cosa vi stupite? Silvio Berlusconi, con almeno una parte di sé, è un leghista né più né meno di Bossi e quando nel '93 decise di impegnarsi in politica pensò, prima di decidersi a fondare un nuovo partito, di guidare con Bossi la Lega. Poi scelse di fondare un partito nazionale del quale il nordismo leghista sarebbe stato il pilastro più rilevante.

Così Verdini, il quale in quella lettera rivendica il merito d'aver convinto il premier all'opportunità di dar vita a Forza Italia.
Non si poteva dir meglio. C'è da aggiungere che il peso della Lega è ultimamente aumentato in proporzione diretta alla minor forza politica del premier. La Lega ha oggi una forza di ricatto politico che prima non aveva e la sta esercitando in tutte le direzioni non senza alcuni contraccolpi sulle strutture e sulle alleanze all'interno del Pdl.

Uno dei temi di dibattito di queste ultime settimane è stato il collante che spiega nonostante tutto la persistenza del potere berlusconiano e la sua eventuale capacità di sopravvivere ad un possibile ritiro di Berlusconi dalla gestione diretta di quel potere. Tra le varie spiegazioni è mancata quella a mio avviso decisiva. Il collante del berlusconismo consiste nell'appello continuamente ripetuto e aggiornato agli istinti più scadenti che rappresentano una delle costanti della nostra storia di nazione senza Stato e di Stato senza nazione.

Una classe dirigente dovrebbe rappresentare ed evocare gli istinti più nobili di un popolo, educandolo con l'esempio, spronandolo ad una visione alta del bene comune. Un compito difficile che alcune figure della nostra storia esercitarono con passione, tenacia e abilità politica.
È più facile evocare gli "spiriti animali" e questo è avvenuto frequentemente nelle vicende del nostro paese a cominciare dal "O Franza o Spagna purché se magna" e alle sue più recenti e non meno abiette manifestazioni.

Giorni fa, rispondendo nel suo giornale alla lettera di un giovane leghista a disagio ma privo di alternative alla sua visione nordista, Galli Della Loggia spiegava al suo interlocutore quale fosse l'errore in cui era incappato: una falsa prospettiva storica, un falso revisionismo che ha messo in circolazione una falsa e deteriore immagine del nostro Risorgimento.
Ho riletto un paio di volte l'articolo di Della Loggia perché non credevo ai miei occhi. Il revisionismo da lui lamentato come deformazione della nostra storia unitaria è nato negli ultimi quindici anni proprio sulle pagine del suo giornale e lo stesso Della Loggia ne è stato uno dei più autorevoli esponenti.

Meglio tardi che mai. Purtroppo di vitelli grassi da sacrificare per il ritorno del figliol prodigo oggi c'è grande scarsità. Il solo vitello grasso in circolazione è lo scudo fiscale preparato da Tremonti, che però non riguarda la questione dell'Unità d'Italia e del revisionismo politico. Festeggia soltanto gli evasori fiscali. Anche questa è una (pessima) costante nella storia di questo paese.


(23 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le convulse giornate della perdonanza
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2009, 10:27:51 pm
IL COMMENTO

Le convulse giornate della perdonanza


di EUGENIO SCALFARI


Venerdì scorso il Tg1 diretto dall'ineffabile Minzolini, incurante del fatto che le notizie del giorno fossero l'attacco del "Giornale" contro il direttore dell'"Avvenire", lo scontro tra la Cei e la Santa Sede da un lato e il presidente del Consiglio dall'altro e infine la querela di Berlusconi a Repubblica per le 10 domande a lui dirette e rimaste da giugno senza risposta; incurante di queste addirittura ovvie priorità, ha aperto la trasmissione delle ore 20 con l'intervento del ministro Giulio Tremonti al meeting di Comunione e Liberazione.

Farò altrettanto anch'io. Quell'intervento infatti è rivelatore d'un metodo che caratterizza tutta l'azione di questo governo, mirata a sostituire un'onesta analisi dei fatti con una raffigurazione completamente artefatta e calata come una cappa sulla pubblica opinione curando col maggiore scrupolo che essa non percepisca alcun'altra voce alternativa.

Cito il caso Tremonti perché esso ha particolare rilievo: la verità del ministro dell'Economia si scontra infatti con dati ed elementi di fatto che emergono dagli stessi documenti sfornati dal suo ministero, sicché l'improntitudine tocca il culmine: si offre al pubblico una tesi che fa a pugni con i documenti ufficiali puntando sul fatto che il pubblico scorda le cifre o addirittura non le legge rimanendo invece colpito dalle tesi fantasiose che la quasi totalità dei "media" si guardano bene dal commentare.

Dunque Tremonti venerdì a Rimini al meeting di Cl. Si dice che fosse rimasto indispettito per il successo riscosso in quello stesso luogo due giorni prima di lui dal governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, con il quale ha da tempo pessimi rapporti. Non volendo entrare in diretta polemica con lui si è scagliato contro gli economisti e i banchieri.

Nei confronti dei primi l'accusa è di cretinismo: non si avvidero in tempo utile che stava arrivando una crisi di dimensioni planetarie. Quando se ne avvidero - a crisi ormai esplosa - non chiesero scusa alla pubblica opinione e sdottorarono sulle terapie da applicare mentre avrebbero dovuto tacere almeno per due anni prima di riprendere la parola.

Nei confronti dei banchieri la polemica tremontiana è stata ancor più pesante; non li ha tacciati di cretinismo ma di malafede. Nel momento in cui avrebbero dovuto allentare i cordoni della borsa e aiutare imprese e consumatori a superare la stretta, hanno invece bloccato le erogazioni. "Il governo" ha detto il ministro "ha deciso di non aiutare i banchieri ma di stare vicino alle imprese e ai consumatori".

Così Tremonti, il quale si è spesso auto-lodato di aver avvistato per primo ed unico al mondo l'arrivo della "tempesta perfetta" che avrebbe devastato il mondo intero.

Ho più volte scritto che la primazia vantata da Tremonti non è esistita, ma ammettiamo che le sue capacità previsionali si siano manifestate. Tanto più grave, anzi gravissimo è il fatto che la politica economica da lui impostata fin dal giugno 2008 sia stata l'opposto di quanto la tempesta perfetta in arrivo avrebbe richiesto. Sarebbe stato infatti necessario accumulare tutte le risorse disponibili per fronteggiare l'emergenza, per sostenere la domanda interna, per finanziare le imprese e i redditi da lavoro.
Tremonti fece l'esatto contrario. Abolì l'Ici sulle prime case dei proprietari abbienti (sui proprietari meno abbienti l'abolizione di quell'imposta l'aveva già effettuata il governo Prodi). Si accollò l'onere della liquidazione di Alitalia. Versò per ragioni politico-clientelari fondi importanti ad alcuni Comuni e Province che rischiavano di fallire. Dilapidò risorse consistenti per "aiutini" a pioggia.

In cifre: le prime tre operazioni costarono oltre 10 miliardi di euro; la pioggia degli aiutini ebbe come effetto un aumento del 5 per cento della spesa corrente ordinaria per un totale di 35 miliardi. Ho chiesto più volte che il ministro elencasse la destinazione di questo sperpero ma questo governo non risponde alle domande scomode; resta comunque il fatto.

Ne deduco che il ministro preveggente fece una politica opposta a quello che la preveggenza avrebbe dovuto suggerirgli. Se gli economisti sono cretini che dire di chi, avendo diagnosticato correttamente, applicò una terapia sciagurata?

Quanto ai banchieri: il governo Berlusconi-Tremonti si è più volte vantato di avere ottenuto, nei primissimi incontri parigini avvenuti dopo lo scoppio della crisi, interventi di garanzia a sostegno di eventuali "default" bancari. In Italia tali interventi non furono necessari (altrove in Europa ci furono in misura massiccia) perché le nostre banche erano più solide che altrove, situazione riconosciuta ed elogiata dallo stesso ministro quando ancora i suoi rapporti con Draghi erano passabili. Se ci fu un blocco nei crediti interbancari, questo fu dovuto ai dissesti bancari internazionali. Se c'è tuttora scarsa erogazione creditizia ciò si deve al fatto che i banchieri guardano attentamente al merito del credito e debbono farlo.

Tremonti sostiene che i soldi delle banche riguardano le banche mentre quelli del Tesoro riguardano i contribuenti. Ma su un punto sbaglia di grosso: il credito elargito dalle banche è di proprietà dei depositanti che sono quantitativamente addirittura maggiori dei contribuenti.

Concludo dicendo che il nostro ministro dell'Economia ha detto al meeting di Cl un cumulo di sciocchezze assumendo per l'occasione un "look" da profeta biblico che francamente non gli si addice. Ha riscosso molti applausi, ma il pubblico del meeting di Cl applaude convintamente tutti: Tremonti e Draghi, Tony Blair e Bersani, Passera e Tronchetti Provera, il diavolo e l'acqua santa e naturalmente Andreotti. Chi varca quei cancelli si "include" e questo è più che sufficiente per batter le mani. Ecco una questione sulla quale bisognerà ritornare.

* * *

Torniamo ai fatti rilevanti di questi giorni: l'aggressione del "Giornale" all'"Avvenire", il rapporto tra il premier e le gerarchie ecclesiastiche, la querela di Berlusconi contro le domande di Repubblica. Sul nostro giornale sono già intervenuti in molti, da Ezio Mauro a D'Avanzo, a Sofri, a Mancuso, al documento firmato da Cordero, Rodotà e Zagrebelsky sul quale si sta riversando un plebiscito di consensi che mentre scrivo hanno già superato le cinquantamila firme.

Poiché concordo con quanto già stato scritto in proposito mi restano poche osservazioni da aggiungere.
Che Vittorio Feltri sia un giornalista dedito a quello che i francesi chiamano "chantage" o killeraggio che dir si voglia lo sappiamo da un pezzo. Quella è la sua specialità, l'ha praticata in tutti i giornali che ha diretto. Proprio per questa sua caratteristica fui molto sorpreso quando appresi tre anni fa che la pseudofondazione che gestisce un premio intitolato al nome di Mario Pannunzio lo avesse insignito di quella medaglia che in nulla poteva ricordare la personalità del fondatore del "Il Mondo".

I telegiornali e buona parte dei giornali hanno parlato in questi giorni del "giornale di Feltri" omettendo una notizia non secondaria e non sempre presente alla mente dei lettori: il "giornale di Feltri" è il "Giornale" che fu fondato da Indro Montanelli, per molti anni di proprietà di Silvio Berlusconi e poi da lui trasferito prudentemente al suo fratello.

Lo stesso Feltri ha scritto che dopo aver ricevuto la nomina da Paolo Berlusconi si è recato a Palazzo Chigi dove ha avuto un colloquio di un'ora con il presidente del Consiglio. Una visita di cortesia? Di solito un direttore di un giornale appena nominato non va in visita di cortesia dal presidente del Consiglio. Semmai, se proprio sente il bisogno di un atto di riguardo verso le istituzioni, va a presentarsi al Capo dello Stato. E poi un'ora di cortesie è francamente un po' lunga.
Lo stesso Feltri non ha fatto misteri che il colloquio ha toccato molti argomenti e del resto la sua nomina, che ha avuto esecuzione immediata, si inquadra nella strategia che i "berluscones", con l'avvocato Ghedini in testa, hanno battezzato la controffensiva d'autunno.

Cominciata con Minzolini al Tg1 è continuata con l'arrivo di Feltri al "Giornale" e si dovrebbe concludere tra pochi giorni con la normalizzazione di Rete Tre e l'espianto di Fazio, Littizzetto, Gabanelli e Dandini.
La parola espianto è appropriata a questo tipo di strategia: si vuole infatti fare terra bruciata per ogni voce di dissenso. Non solo: si vogliono mettere alla guida del sistema mediatico persone di provata aggressività senza se e senza ma quando la proprietà del mezzo risale direttamente al "compound" berlusconiano, oppure di amichevole neutralità se la proprietà sia di terzi anch'essi amichevolmente neutrali.

Berlusconi avrà certamente illustrato a Feltri la strategia della controffensiva e i bersagli da colpire. Aveva letto l'attacco contro il direttore dell'"Avvenire" prima della sua pubblicazione? Sapeva che sarebbe uscito venerdì? Lo escludo. Feltri è molto geloso della sua autonomia operativa e non è uomo da far leggere i suoi articoli al suo editore. Ma che il direttore di "Avvenire" fosse nel mirino è sicuro. Berlusconi si è dissociato e Feltri ieri ha chiosato che aveva fatto benissimo a dissociarsi da lui. "Glielo avrei suggerito se mi avesse chiesto un parere".

Si dice che la gerarchia vaticana avrebbe sollecitato il suo licenziamento, ma Berlusconi, se anche lo volesse, non lo farà. L'ha fatto con Mentana, ma Mentana non è un giornalista killer. Farlo con Feltri sarebbe assai pericoloso.
Una parola sulle dichiarazioni di dissenso da Feltri fatte ieri da tutti i colonnelli del centrodestra, da Lupi a Gasparri, a Quagliariello, a Rotondi. Berlusconi si è dissociato? I colonnelli si allineano. E' sempre stato così nella casa del Popolo della Libertà. Tremonti, pudicamente, ha parlato d'altro.
E la Perdonanza?

* * *

Come si sa la Perdonanza fu istituita da Celestino V, il solo papa che si sia dimesso nella millenaria storia della Chiesa, come una sorta di pre-Giubileo che fu poi istituzionalizzato dal suo successore Bonifacio VIII.
I potenti dell'epoca avevano molti modi e molti mezzi per farsi perdonare i peccati, ma i poveri ne avevano pochi e le pene erano molto pesanti. La Perdonanza fu una sorta di indulgenza di massa che aveva come condizione la pubblica confessione dei peccati gravi, tra i quali l'omicidio, la bestemmia, l'adulterio, la violazione dei sacramenti. Confessione pubblica e perdono. Una volta l'anno. Di qui partirono poi le indulgenze ed il loro traffico che tre secoli dopo aveva generato una sistematica simonia da cui nacque la scissione di Martin Lutero.

E' difficile immaginare in che modo si sarebbe svolta l'altro ieri la festa della Perdonanza con la presenza del Segretario di Stato vaticano inviato dal Papa in sua vece e con accanto il presidente del Consiglio a cena e nella processione dei "perdonati". Diciamo la verità: il killeraggio di Feltri contro Boffo ha risparmiato al cardinal Bertone una situazione che definire imbarazzante è dir poco anche perché era stata da lui stesso negoziata e voluta.

Dopo l'attacco di Feltri quella situazione era diventata impossibile, ma non facciamoci illusioni: la Chiesa vuole includere tutto ciò che può portar beneficio alle anime dei fedeli e al corpo della Chiesa.

Se Berlusconi si pentisse davvero, confessasse i suoi peccati pubblicamente, si ravvedesse, la Chiesa sarebbe contenta. Ma se lo facesse sarebbe come aver risposto alle 10 domande di Repubblica. Quindi non lo farà.

Nessun beneficio per l'anima sua, ma resta il tema dei benefici per il corpo della Chiesa. Lì c'è molto grasso da dare e il premier è prontissimo a darlo.
In realtà il prezzo sarà pagato dalla democrazia italiana, dalla laicità dello Stato e dai cittadini se il paese non trarrà da tutto quanto è accaduto di vergognoso ed infimo un soprassalto di dignità.

(30 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Calvino a rovescio
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2009, 10:23:01 pm
Calvino a rovescio

di Eugenio Scalfari


Leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza: sono i requisiti preconizzati dallo scrittore. Ma sono diventati superficialità, pressappochismo, pedanteria, esibizione, trasformismo
 
Sulla 'Stampa' del 23 agosto ho letto un bell'articolo di Antonio Scurati intitolato 'Calvino aveva previsto tutto e sbagliato tutto'. La previsione, al tempo stesso tempestiva ma sbagliata, Scurati la ravvisa nelle 'Lezioni americane' che furono pubblicate nel 1988, tre anni dopo la morte prematura di quel grande scrittore e che sono rapidamente diventate un classico.

Scurati ha ragione e la sua analisi è fine e convincente. Calvino aveva previsto che la letteratura del nuovo secolo e del nuovo millennio sarebbe stata caratterizzata da sei requisiti: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, consistenza. Questi sei requisiti da lui indicati e da lui stesso utilizzati in molte delle sue opere tra le quali segnalo 'Gli antenati', 'Le città invisibili' e 'Palomar', facevano parte della visione moderna che Calvino aveva non soltanto della letteratura ma anche dell'etica, della politica e della conoscenza. Insomma della vita: quella visione che ha rappresentato la modernità della quale Calvino è stato uno degli ultimi rappresentanti.

Dov'è lo sbaglio di questa previsione calviniana? Nel fatto che quei sei requisiti hanno avuto negli ultimi vent'anni un'interpretazione e un'attuazione del tutto diversa ed anzi opposta a quella prevista da Calvino. La leggerezza si è trasformata in superficialità, la rapidità in pressappochismo, l'esattezza in arida pedanteria, la visibilità in esibizione, la molteplicità in trasformismo. E questa è purtroppo la realtà con la quale ci stiamo confrontando. Le parole e i valori indicati da Calvino sono stati letti a rovescio. L'eleganza intellettuale da lui auspicata e rappresentata è diventata trivialità, volgarità, pesantezza.

Come è potuto accadere un capovolgimento così drammatico nello spazio breve di vent'anni? Scurati lascia in sospeso la risposta, forse perché per poterla dare occorre allargare il quadro entro il quale va collocata.

La modernità è stata un'opera ricca di accrescimenti conoscitivi, di novità, di contraddizioni ed è cominciata nientemeno che quattrocento anni fa. Calvino conosceva benissimo quella storia, la sua vita intellettuale e letteraria è stata un viaggio ininterrotto dentro quell'epoca attraverso le idee e gli autori che l'hanno scandita. Ne parlammo insieme infinite volte, da ragazzi sui banchi del liceo e poi negli ultimi anni della sua vita, quando collaborò con noi a 'Repubblica' proprio mentre le 'Lezioni americane' prendevano forma nella sua mente.

Nel suo itinerario intellettuale gli 'Essais' di Montaigne costituirono il punto di partenza di quel percorso e l'Illuminismo la fase di maggiore pienezza. La fase romantica, che pure fa parte integrante della cultura moderna, portò con sé alcuni elementi difformi e distorsivi e alcune laceranti contraddizioni.

Non è questa la sede per recuperare questo tracciato durato quattro secoli che arriva fino a noi in forme già largamente debilitate e con noi, intendo con la generazione alla quale appartengo, s'interrompe.
Si può dire che la modernità entra in crisi con la 'decadence' segnalata da Nietzsche. Dopo di allora la sua storia non è che una lunga e drammatica agonia. Come spesso accade agli agonizzanti, un soprassalto di vitalità si verifica nella seconda metà del Novecento. Poi sopravviene la fine.

Italo Calvino e in altri modi Umberto Eco sono stati in Italia gli ultimi rappresentanti. Forse non si sono accorti che i 'posteri' erano già arrivati tra noi e che la loro 'posterità' era completamente diversa da come noi avevamo immaginato. Ormai non sono più posteri ma contemporanei. Usano ancora, almeno in parte, le nostre stesse parole ma ne stanno rapidamente inventando altre. Ricordate una trasmissione di Celentano di qualche anno fa dove la parola 'rock' fu usata per significare vitalità, rapidità, inventiva, mentre la parola 'lento' stava a significare la pesantezza, la noia, il vecchiume tradizionale? Ebbe successo quell'invenzione lessicale. Probabilmente per Celentano 'rock' avrebbe dovuto essere la traduzione della leggerezza calviniana, ma era un equivoco. Mi azzardo a dire un terribile equivoco. Nella realtà della società contemporanea 'rock' è diventato infatti lo pseudonimo del 'velinismo' e dell'apparenza: non è leggerezza ma futilità.

Caro Scurati, la modernità che Calvino ha amato e rappresentato è ormai dietro di noi. Un'epoca è finita, un'altra è cominciata, ma la comunicazione tra loro è molto difficile. Viviamo un momento di passaggio nel quale le ombre soverchiano la luce. È sempre accaduto così, ma la storia continua e prima o poi da questo passaggio buio e pericoloso si uscirà. Almeno così speriamo.

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il coltello del solito Mackie Messer
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 12:07:45 pm
IL COMMENTO

Il coltello del solito Mackie Messer


di EUGENIO SCALFARI

L'ATTENZIONE pubblica si è spostata dopo le dimissioni del direttore dell'Avvenire. Ora è tutta sulla Chiesa. Che cosa farà la Chiesa? Ci sono correnti all'interno della Chiesa? Quale Chiesa? Chi comanda veramente nella Chiesa?
Perfino la grande stampa internazionale, a cominciare dal Wall Street Journal, si pone queste domande sia pure con la sufficienza e il distacco che si ha quando si affrontano questioni che non riguardano casa propria, questioni esotiche il cui soffio di vento non riesce neppure a increspare l'erba che cresce nel proprio paese. Ma qui in Italia non è certo così; perciò quelle domande scuotono l'intero establishment nazionale, dato ma non concesso che ci sia un establishment e sia degno del nome in questo paese. Riflettevo oggi sulle dimissioni di Boffo e sulla lettera da lui indirizzata al cardinal Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale che ha la proprietà dell'Avvenire. Riflettevo e sfogliavo L'Osservatore Romano, il quotidiano del Vaticano il cui direttore pochi giorni fa ha lanciato un siluro contro il collega dell'Avvenire proprio mentre si trovava sotto il tiro di Vittorio Feltri e di Belpietro.

L'Osservatore Romano è il solo quotidiano che si stampa nello Stato vaticano ed ha naturalmente "l'imprimatur" della Segreteria di Stato. Sotto la testata ci sono due motti: "Unicuique Suum", "Non Praevalebunt". Il primo è di facile comprensione, ma il secondo è oscuro. "Non Praevalebunt": di chi si parla? Chi sono i nemici contro i quali il Vaticano, la Chiesa, i cattolici debbono mobilitarsi?

I cattivi, ovviamente; i seguaci del diavolo. Dunque i peccatori? No, i peccati. Quali peccati? Prioritariamente quelli scritti nelle tavole mosaiche. Chi sono i responsabili dei peccati? Il diavolo naturalmente. E chi li commette? Se si confessa e si pente sarà perdonato. E se non li confessa e non si pente? Sarà giudicato alla fine dei tempi. Ma intanto? La Chiesa può sciogliere o legare secondo il mandato di Cristo all'apostolo Pietro e ai suoi successori. E qui, oggi, in Italia? Vedete, ho anch'io qualche domanda da proporre, ma arrivati al dunque, a quest'ultima domanda non c'è risposta, oppure ce ne sono molte ma contrastanti. Quanto al successore dell'apostolo Pietro attualmente in cattedra, una prassi millenaria gli ha insegnato come destreggiarsi in casi difficili: dica parole ispirate di speranza e di verità rampognando chi non le ascolta, ma poiché tutti le accolgono con compunzione e le condividono, quelle rampogne restano senza destinatario.

Qualcuno nel frattempo cade a terra colpito da fuoco amico? Dispiace. Recitiamo in suo suffragio il "requiescat in pace" e andiamo avanti.
Questo del resto l'ha detto perfino Vittorio Feltri: "Umanamente mi dispiace per Boffo". E l'ha detto, più o meno con le stesse parole, Francesco Cossiga in una lettera pubblicata dal Corriere della Sera e diretta al cardinal Bagnasco. E l'aveva già detto con largo anticipo il presidente di Mediaset, Confalonieri, in quanto persona "informata dei fatti" in un'intervista a quello stesso giornale pubblicata, vedi caso, insieme all'intervista di Vian, direttore dell'Osservatore Romano.

Mi viene in mente quella canzone che dice: "Son contento di morire ma mi dispiace / mi dispiace di morire ma son contento".
Di queste ipocrisie, per chi ci crede, sono lastricate le vie dell'Inferno.

* * *

In mancanza di altri lumi dobbiamo dunque orientarci da soli. Proviamoci.
La Chiesa cattolica ha una sua gerarchia: il Papa, vescovo di Roma, e i vescovi che con lui condividono il ministero pastorale.
Così fu per secoli, ma ben presto il quadro cambiò quando i fedeli si moltiplicarono, gli interessi temporali si affiancarono alla missione pastorale, la gerarchia iniziale si rivelò insufficiente. Il Papa ebbe bisogno di collaboratori esperti, i vescovi di esser coadiuvati.
A quel punto la gerarchia si specializzò in due diverse direzioni, per altro strettamente intrecciate: la Santa Sede e la Curia per il governo della Chiesa e per i necessari contatti con i governi delle nazioni da un lato, i vescovi e il clero con cura d'anime dall'altro. E poi, altro elemento fondamentale della Chiesa, il popolo di Dio, cioè i fedeli.

La Santa Sede mantiene i rapporti politici. Il clero con cura d'anime predica la salvezza, amministra i sacramenti, scioglie e lega secondo il mandato del Signore. Il Papa, al di sopra di tutti, incoraggia, rampogna e benedice.

* * *

Oggi in Italia.
Il cardinal Bertone, segretario di Stato, gestisce gli interessi della Chiesa nel mondo e in particolare in Italia. Per farlo deve colloquiare con i governi in carica. I giudizi morali se li tiene nell'intimo suo perché i suoi interlocutori sono spesso il fior fiore dei peccatori.

Berlusconi è sicuramente un peccatore, l'ha detto lui stesso. Se la veda con il suo confessore se avrà voglia di confessarsi, o con i tribunali quando i peccati siano diventati reati. Non è compito della Santa Sede.
Ma è compito del clero combattere i peccati. Denunciarli. Avvertire i fedeli affinché a loro volta non cadano in tentazione. Lo fanno. Lo ha fatto la stampa diocesana. L'ha fatto l'Avvenire. Con prudenza ma con chiarezza.

Sfortuna volle che Berlusconi perdesse, come si dice, la tramontana e non volesse più sentirsi criticato.
Il direttore dell'Osservatore Romano si è pubblicamente dato il merito di non aver mai sollevato il tema d'un peccato privato ed ha criticato il collega Boffo per averlo fatto. Strano vanto in verità. E quel "Non Praevalebunt" perché non sopprimerlo dalla testata del giornale? Può essere d'imbarazzo, collega Vian.

Ma Bertone non è il solo a gestire interessi. C'è Bagnasco alla testa dei vescovi. E c'è anche Ruini, vecchio ma non domo. Ci sono i cardinali arcivescovi che governano diocesi a volte grandi e popolose come piccoli Stati. Grandi elettori nei conclavi. Ci sono Università, Ospedali, Scuole cattoliche. Congregazioni. Ci sono gli Ordini religiosi, le Comunità. Un immenso universo sparso su cinque continenti ma il cuore sta a Roma e in Italia.

Questo cuore non prevedeva che il capo del governo italiano perdesse la tramontana. Non prevedeva che avesse imprevisti accessi di rabbia e li manifestasse in continuazione e pubblicamente. Non prevedeva che stesse sbagliando contro i propri interessi. E non prevedeva che armasse la mano del killer di turno.
Perciò la Chiesa nel suo complesso è stata presa alla sprovvista. Il Papa, Bertone, Bagnasco. Alla sprovvista. Forse Ruini, più esperto, aveva capito che uno "tsunami" era in arrivo e forse sperava che tornasse utile ad un progetto in via di prender forma.

* * *

Il progetto ha un nome. Si chiama Grande Centro. Il partito di Casini e Buttiglione più Montezemolo. Oppure di Montezemolo più Casini e Buttiglione. E il Forum delle famiglie, e l'associazione per la vita, e Formigoni sullo sfondo e Vittadini e le Coop bianche, eccetera eccetera.

Questo Grande Centro non sarà mai grandissimo e non potrà mai governare da solo, ma può diventare il pesce pilota e l'esecutore testamentario quando Berlusconi deciderà di farsi da parte (con tutti gli onori e senza alcun onere, beninteso).

L'assetto finale è il grande partito dei moderati con forti venature cattoliche. A Ruini piace. A Bertone piace. Bagnasco? Piacerà anche a lui e poi Bagnasco semmai è un incidente di percorso.
Però la ferita Boffo brucia ancora. Perciò Berlusconi dovrà pagare un prezzo (che a lui non costa nulla): testamento biologico, soldi alle scuole cattoliche, limiti alla pillola-aborto, revisione delle leggi sulla fecondazione assistita, eccetera.

Grandi piccoli e piccolissimi giornali sono d'accordo. Finalmente si tornerà a parlare di problemi seri, alla moda di Tremonti. La libertà di stampa e il controllo dei poteri di garanzia sull'operato del governo non sono un problema serio, non sono una questione preliminare, sono bazzecole.
Casini è cauto. Su Boffo non ha sparso molte lacrime, però non si fida. Alle regionali marcerà in ordine sparso secondo le convenienze ma alcune scelte saranno comunque decisive, per esempio nel Lazio, in Puglia, in Piemonte. Poi si vedrà.
Anche Confalonieri è contento. La colpa è sola di Repubblica, perciò sia castigata. Sembra un uomo di pace, Confalonieri, ma invece è la bocca dentata del Caimano. Secondo lui Repubblica è rea d'aver trasformato un fatto privato in una questione pubblica. Dimentica che l'origine sta in una pubblica dichiarazione di Veronica Lario, portata in tivù da Berlusconi. E dimentica anche che Libero allora diretto da Vittorio Feltri quarantotto ore dopo pubblicò la foto di Veronica a seno nudo e le attribuì il suo autista come amante. Ricordate "L'opera da tre soldi"? "Mackie Messer ha il coltello / ma vedere non lo fa". La memoria di Confalonieri non funziona? Colpa della vecchiaia? O di un innato servilismo?

* * *

Un'ultima domanda: la Lega è cattolica? Ma certo che lo è. Lo è nelle intime fibre. Vuole la famiglia compatta. Di colore bianca. Vuole che si muoia quando arriva la morte e non prima. Non le piacciono gli immigrati, che c'è di male? Neanche "i terroni" e pazienza. Ma qualche soldo, purché restino a casa loro, diamoglielo. E poi Alberto da Giussano non stava dalla parte del Papa?Il resto sono bubbole. I dialetti stanno stretti a Umberto Eco? E chi se ne frega. Fini? Fini chi? Vogliamo almeno tre Regioni nel Nord e viva Berlusconi. Piacerebbe sapere che impressione ne ha avuto il cardinal Bagnasco che li ha incontrati. Bagnasco chi?

(6 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il declino non si vede ma è già cominciato
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 12:18:37 pm
IL COMMENTO

Il declino non si vede ma è già cominciato

di EUGENIO SCALFARI


DOPO il suo intervento dell'altro ieri a Gubbio e quello di ieri a Chianciano dove Casini ha riunito i dirigenti dell'Udc, si fanno previsioni e perfino scommesse sugli obiettivi di Gianfranco Fini nel prossimo futuro. E se lo domanda anche, con qualche preoccupazione, Silvio Berlusconi. Vuole dargli una spallata approfittando d'un momento di oggettiva difficoltà che il premier sta attraversando? Vuole uscire dal partito e fondarne un altro? Vuole prepararsi a prendere il posto di Napolitano quando il mandato del Capo dello Stato scadrà (nel 2013)? Vuole esser pronto a qualunque evenienza e a qualunque emergenza che potrebbe verificarsi nel quadro agitato e anomalo della politica italiana?

Tutto considerato e mettendo in fila gli interventi che si susseguono da tempo, compreso quello di ieri in casa d'un partito d'opposizione, la conclusione logica è questa: Fini si prepara a succedere a Berlusconi quando il premier dovrà cedere il comando per ragioni di calendario. Nel 2013 avrà 77 anni ed avrà governato o comunque occupato la scena politica da diciotto. Dopo quanto è accaduto in questi mesi è esclusa una sua candidatura al Quirinale e neppure il lodo Alfano potrebbe impedire che i processi a suo carico vengano riaperti.

A quel punto - ma in realtà almeno un anno prima - il problema della successione si porrà inevitabilmente e la rosa dei candidati vedrebbe Fini in "pole position". Gli altri sulla carta sono tre: Formigoni, Letta, Tremonti. Ma per valutare le rispettive "chance" occorre tener presente che il successore prescelto dovrà guidare il centrodestra alle elezioni politiche.

Deve dunque essere in grado di sostituire un formidabile comunicatore dotato di capacità seduttive e ipnotiche senza pari. Chi può vantare un carisma che si avvicini a quello del Cavaliere? Basta porre la domanda per scartare tutti e tre i nomi dei "competitors", soprattutto Formigoni e Letta. Tremonti ha l'appoggio della Lega, ma la scelta del leader del Pdl non spetta alla Lega.

Quindi Fini, verso il quale rifluirebbero agevolmente quasi tutti gli ex di Alleanza nazionale una volta sgombrato il campo da Berlusconi.
Aggiungo un'altra considerazione. Qualora un'emergenza istituzionale dovesse prodursi all'improvviso (e la sentenza della Consulta sul lodo Alfano o altre questioni di analogo rilievo potrebbero determinarla anche a breve termine) la candidatura di Fini a sostituire l'attuale premier avrebbe forti probabilità di successo. Un governo Fini poggiato anche sul sostegno dell'Udc e su un'amichevole astensione del centrosinistra potrebbe essere la via d'uscita verso le riforme sempre auspicate ma mai portate in Parlamento, nonché su una normalizzazione della vita democratica dopo gli sconquassi del berlusconismo rampante.

La conclusione dunque è questa: Fini si propone di essere il successore di Berlusconi alla guida d'un partito di destra democratica profondamente diverso dalla gestione "eversiva" e assolutistica del Cavaliere di Arcore. Successore, non delfino. Del resto con Berlusconi i delfini non sono previsti salvo Letta che più che un delfino sarebbe un perfetto luogotenente.

* * *

Ma c'è già ora un declino di Berlusconi nella percezione degli italiani? E' cominciato uno smottamento del consenso? L'insensata guerra contro le gerarchie cattoliche e contro i sentimenti morali dei cattolici ha prodotto crepe importanti? Il killeraggio contro gli avversari, le bravate crescenti del premier, il massimalismo leghista, la disistima internazionale che ormai si è diffusa non solo nella stampa estera ma anche nelle cancellerie europee e americane, hanno aperto falle significative nel consenso berlusconista?
Qualche crepa è visibile. L'ultimo sondaggio Ipsos commissionato da Palazzo Chigi registra un calo di 4 punti collocando il consenso attorno ad uno stentato 50 per cento. Le intenzioni di voto vedono il Pdl attorno al 38 per cento. Il Foglio di ieri ha pubblicato in prima pagina dieci domande (la formula delle dieci domande ha ormai fatto strada) che sollevano altrettanti problemi non risolti dal governo e molto scomodi da risolvere.

Ma il blocco è ancora sostanzialmente intatto. E tuttavia il declino è percepibile e il nervosismo del premier non fa che ingrandirlo. Chi ha visto la versione integrale del suo "show" nell'incontro italo-spagnolo avvenuto nell'isola di Maddalena è rimasto allibito, a cominciare da Zapatero che l'ha commentato ieri pubblicamente con parole che parlano da sole. E chi ha ascoltato il discorso di Fini a Gubbio ha percepito la differenza abissale che separa i due co - fondatori del Pdl. Del resto non è un caso se il neo - ambasciatore Usa a Roma ha cominciato le sue visite di presentazione da Fini anziché dal premier.

L'opinione di tutti gli stranieri che capita di incontrare da qualche mese a questa parte è unanime: "Non ci stupisce più il vostro premier, ma ci stupiscono gli italiani che ancora sopportano di esser rappresentati da un simile personaggio".

La sua debolezza oggettiva si riduce ad una sola parola: ricattabile. Abbiamo un premier ricattabile e ricattato. Quindi debolissimo. E alle sue spalle un partito che vive e vince in virtù del suo carisma personale. Il carisma, come tutti sanno, è un fenomeno di massima fragilità: se s'infrange, tutta la costruzione che su di esso si appoggia crolla.
L'insieme di questi elementi porta alla conclusione che il declino è in corso anche se il carisma regge ancora. Per quanto?

* * *

Queste riflessioni su Fini e su Berlusconi ci portano a considerare la situazione del Partito democratico, quello che nella percezione sia degli avversari sia dei suoi ex sostenitori e sia infine di molti osservatori viene definito un partito fantasma o il partito che non c'è; comunque un relitto che nessuno riuscirà a portare in salvo proprio nel momento in cui il paese avrebbe maggior bisogno d'un partito d'opposizione capace di attirare su di sé il disagio che sia pur lentamente si diffonde e che acquisterebbe peso e velocità dalla presenza di una valida alternativa.
Su questa delicata ma essenziale questione faccio le seguenti considerazioni (come persona informata dei fatti).

1. Conosco bene i tre candidati alla segreteria del Pd e in particolare i due maggiormente favoriti, Dario Franceschini e Pier Luigi Bersani. Sono due persone perbene.
Nessuno dei due ha scheletri nell'armadio. Si battono con vigore come deve accadere in una sfida politica e come non accadde né nelle primarie che insediarono Prodi alla leadership del centrosinistra sia in quelle che insediarono Veltroni alla guida del Pd. Questa volta sta accadendo, su questioni di visione politica, senza alcun colpo sotto la cintura. Non è quello che i simpatizzanti e gli iscritti al partito volevano?

2. Chiunque dei due vincerà, il compito di costruire un partito riformista in un paese dove il riformismo ha sempre avuto vita stentata non sarà agevole anche se - ne sono convinto - ciascuno di loro ce la metterà tutta.

3. La condizione necessaria affinché questa costruzione avvenga e sia solida non sta nel programma e tantomeno nelle ragioni che hanno condotto forze culturali e politiche con storie diverse a dar vita ad un partito comune. Sia le ragioni che presiedettero alla nascita del Pd sia la sua visione d'una società "riformata" furono elencate, illustrate e unanimemente approvate nell'assemblea del Lingotto che insediò Veltroni alla guida del Pd. Si può aggiornare il programma, ma le linee di fondo di quella visione del bene comune c'è già stata ed è tuttora pienamente valida.

4. In realtà la condizione necessaria affinché la nave di questo partito esca dalla darsena e riprenda orgogliosamente il mare dipende soltanto da chi sente profondamente la necessità d'un partito seriamente riformista, capace di dar voce a tutte le speranze, le attese e i bisogni del centrosinistra italiano, da un socialismo liberale ad un laicismo che possa esser sostenuto con vigore sia da laici non credenti sia da cattolici di discendenza degasperiana; infine dai grandi valori della libertà e dell'eguaglianza che non possono mai esser disgiunti e che vanno vissuti e applicati nel quadro d'una solidarietà sentita come impegno civile.

Se almeno due milioni di elettori esprimessero quest'impegno nelle votazioni alle primarie del prossimo 25 ottobre, credo che il varo della nave democratica segnerebbe la riscossa che molti hanno nel cuore senza sapere in che modo tradurla in atto.
L'atto decisivo è quello: un varo effettuato sulle braccia e sulle spalle di qualche milione di persone.

Sabato prossimo si svolgerà a Roma in piazza del Popolo una manifestazione popolare in difesa della libera stampa. Noi che della libera stampa facciamo parte sappiamo quale importanza abbia quest'appuntamento. Non si identifica con i partiti perché non è una visione di parte ma con la difesa d'un delicatissimo diritto costituzionale che l'attuale governo ha leso e continua a ledere pervicacemente con continue intimidazioni e prevaricazioni che tra poco verranno allo scoperto anche nella Rai. Ci auguriamo che quella piazza sia gremita e faccia sentire la sua presenza e la sua voce.

Il rinascimento della democrazia italiana è affidato agli italiani, agli uomini e alle donne di buona volontà, a chi non teme di impegnarsi in battaglie civili che ci riscattino dall'ipnosi in cui il paese sembra precipitato. Nessun dorma: non è questa la condizione necessaria per riprendere il cammino?

(13 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La caccia al laico
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 10:04:42 pm
La caccia al laico

di Eugenio Scalfari


Dove sono i 'laici furiosi' di cui parla Bosetti nel suo libro che intonerebbero il vade retro? Semmai sono i cattolici, al potere da sessant'anni, che dovrebbero farsi più in là  La copertina del libroHo letto con interesse ed anzi con passione il libro di Giancarlo Bosetti dal titolo 'Il fallimento dei laici furiosi' (editore Rizzoli pagg. 198, euro 13) appena uscito nelle librerie, del quale una succosa anticipazione è stata pubblicata sulla 'Repubblica' del 2 settembre. Con passione, perché anche a me non piacciono i laici furiosi, gli anticlericali per partito preso che non riconoscono ed anzi giudicano un segno di 'intelligenza col nemico' il consenso dei laici all'uso del cosiddetto spazio pubblico da parte della Chiesa. Gli anticlericali o laici furiosi che dir si voglia si rifanno alla dottrina liberale e cavourriana dello spazio privato che dovrebbe essere il solo concesso alla religione in uno Stato ideologicamente laico. Questa visione era adeguata allo Stato liberale di due secoli fa.

Le Costituzioni vigenti nei paesi evoluti dell'Occidente configurano oggi regimi liberal-democratici, nei quali tutte le opinioni e tutte le dottrine hanno diritto di esprimersi, di dar vita ad associazioni, partiti, sindacati, gruppi di interessi, movimenti, consentendo a tutti - e in prima linea alle istituzioni religiose - di manifestarsi pubblicamente. La religione dunque non è più soltanto un fatto privato, anche se riguarda principalmente le coscienze individuali, ma è anche un fatto pubblico e come tale va trattato e regolato.

Pensavo dunque di trovare nel libro di Bosetti, amico che stimo da molto tempo, conferma di questi miei pensieri e nuove ragioni per sostenerli. Mi sono invece imbattuto in una per me sgradevole sorpresa: il laico moderato e nient'affatto anticlericale che ritenevo di essere non mi somiglia affatto; nelle pagine di Bosetti mi si attaglia di più il ritratto del laico furioso. Probabilmente c'è un equivoco alla base di questa mia sorpresa e poiché la questione è grossa sarà bene chiarirlo.

Scrive l'autore che "nel corpo a corpo con la Chiesa è uscito dal campo visivo il fatto che le religioni nello Stato liberale non sono solo tollerabili ma benvenute e forse necessarie. Comunque inevitabili, e inseparabili dalla generalità degli esseri umani". E qui c'è un primo punto da chiarire: religioni benvenute, d'accordo; inseparabili dalla generalità degli esseri umani, molto meno d'accordo. Il processo della modernità va da almeno tre secoli di pari passo con la secolarizzazione delle società occidentali. Perfino in Italia, che in questo processo non è certo stata all'avanguardia, i cattolici rappresentano all'incirca il 40 per cento della popolazione adulta. Il resto non pratica la religione, non frequenta le chiese e i sacramenti, tanto meno gli oratori, né milita per altre religioni se non con striminzite minoranze. Diciamo che è indifferente; diciamo che il tema non interessa.

Non entro nel merito, almeno per ora. Non dico cioè che la secolarizzazione è un gran male oppure un gran bene. Ma constato il fatto e deduco che è sbagliato pensare che la generalità delle persone non può vivere senza religione. Io, per fare un esempio, sono un non credente e non avverto alcuna angoscia per questo.
Più oltre Bosetti scrive: "I laici non hanno una cultura dell'accoglienza dei credenti nella scena pubblica e nella vita politica. Se lo facessero vincerebbero più battaglie di quanto ne abbiano perse con i loro avversari clericali contro i loro dogmi non negoziabili e la loro prepotenza curiale".

Che la prepotenza curiale e l'arrogante pretesa di voler tradurre i dogmi non negoziabili in prescrizioni legislative siano un dato di realtà è purtroppo pura verità. Ma attribuirne la causa ad una mancata politica dell'accoglienza, francamente mi sembra una spiegazione di pura fantasia. Non mi sembra proprio che ai cancelli dello spazio pubblico ci siano burbere sentinelle laiciste che impediscano l'entrata alle religioni. Semmai ci sono alcuni partiti in Italia, a cominciare dallaLega, che fanno di tutto (e ci riescono) per impedire ad altre religioni di avere uno spazio pubblico. Manca, questo sì, una politica di accoglienza verso gli immigrati regolari che comincia proprio dagli ostacoli frapposti alla dignitosa pratica dei loro culti, in particolare del culto musulmano.

E qui si pone un terzo problema che mi pare Bosetti trascuri. Egli ha ragione di dire che la presenza delle religioni nello spazio pubblico è la dimostrazione più evidente dell'esistenza del pluralismo. È così. Ma lo è quando le religioni presenti sono numerose e quando (mi permetto di aggiungere) è anche numerosa e attiva l'opinione dei non credenti. Ma non è questo il caso italiano dove la religione cattolica è la sola in campo, la sola a potere esprimere, motivare, pretendere, spesso imporre quei famosi dogmi trasferiti in norme legislative, in assenza di dibattito religioso. Ci sono i cattolici e c'è una vasta marea di indifferenti. E basta. Dov'è la non accoglienza? C'è bisogno di accoglienza nei confronti d'un ospite ma è difficile se non impossibile accogliere il padrone di casa.

Infine scrive Bosetti: "Gli affannati guerrieri laici rivolgono ai credenti tutti i giorni un unico messaggio: 'Vade retro'. È giunto invece il momento di affermare un convinto 'vieni avanti'".

Caro Giancarlo, permettimi di dirti che sono rimasto sbalordito nel leggere queste righe. A parte il fatto che non vedo moltitudini di guerrieri laici che intonano il 'vade retro' e che, quand'anche ce ne fosse qualcuno e avesse una qualche visibile tribuna, spetterebbe anche a lui il diritto di esprimersi liberamente. Ma, ripeto, questi rombanti guerrieri non sono un dato di realtà. Tutto al più qualche eccentrico che sale su un panchetto ed arringa il vuoto.

Quanto al 'vieni avanti' da rivolgere ai cattolici, ripeto ciò che ho già detto: dal 1947 in poi sono già entrati ed hanno occupato tutte le stanze della casa che dovrebbe essere comune. Noi, semmai, ci siamo ridotti nei ripostigli e nelle soffitte. Non spetta dunque a noi laici invitarli a farsi ancora più avanti. Governano ininterrottamente da sessant'anni questo paese. Noi dai nostri ripostigli di laici non furiosi, ma neanche desiderosi di intonare il 'Confiteor', avremmo il diritto di dir loro: fatevi più in là. Spero che tu sia d'accordo con quanto qui ho scritto anche se qualche timore che l'accordo non ci sia, leggendoti mi è venuto.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it




Titolo: EUGENIO SCALFARI. Non era una folla ma era un popolo
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2009, 07:35:53 pm
Non era una folla ma era un popolo

di EUGENIO SCALFARI


QUESTO articolo è dedicato al tema del testamento biologico, che tornerà tra breve di stretta attualità e sul quale è da tempo in corso un ampio dibattito che coinvolge diverse concezioni del bene comune.
Sento tuttavia la necessità prima d'affrontare quel tema, di esprimere il mio pensiero sulla manifestazione che si è svolta ieri pomeriggio in Piazza del Popolo a Roma in nome della libertà d'informazione. Ne torno in questo momento e ne sono dunque mentre scrivo ancora caldi i sentimenti e le emozioni che essa ha suscitato.

Sul senso politico e soprattutto costituzionale di quell'imponente raduno di persone, di associazioni, di sindacati e di forze politiche, ha scritto ieri Ezio Mauro. La gente è andata in piazza per difendere la prima delle libertà, preliminare rispetto a tutte le altre, struttura portante della democrazia. Questo sentimento accomuna i cittadini al di là e al di sopra di tutte le differenze di parte e ieri infatti si è andati in piazza in nome della Costituzione repubblicana.
Non era una folla, era un popolo che gremiva fino all'inverosimile non solo la piazza ma l'adiacente piazzale Flaminio, le balconate e le terrazze del Pincio, la via di Ripetta, la via del Corso fino a piazza Augusto, la via del Babuino. Addensati come non mi era capitato mai di vedere in situazioni consimili.
Dico che non era una folla ma un popolo perché non erano lì per ascoltare e osannare un leader, un capo carismatico alle cui parole e al cui fascino avrebbero agganciato le loro pulsioni, i loro sogni, le loro attese.

Erano lì in nome di convinzioni maturate da tempo, d'una visione propria e condivisa del bene comune, del rifiuto della demagogia. Erano lì per solidarizzare con due giornali attaccati dal potere politico e con le poche trasmissioni televisive che non sono al guinzaglio del potere. Ed erano lì per testimoniare l'essenza democratica delle donne e degli uomini di buona volontà, di chi ricorda il passato e vuole costruire il futuro.

Tra le tante strette di mano e di abbracci dati e ricevuti, l'incoraggiamento che tutti ci hanno rivolto è stato di resistere, continuare, non mollare. M'è venuto in mente che "non mollare" fu il motto adottato sotto il fascismo da Ernesto Rossi e dai promotori di "Giustizia e Libertà". Le battaglie civili che si combattono oggi sono molto diverse da quelle di allora, ma il senso è il medesimo: in un'epoca appiattita e priva di ideali, occorre risvegliare un paese cloroformizzato, disinformato, indifferente e ricondurlo all'impegno civile.

Questo intendeva dirci il popolo di quella piazza. Non erano loro ad ascoltare noi, ma noi a sentirceli vicini e far nostre le loro indicazioni: resistete, continuate, non mollate. E noi, per il fatto stesso di fare correttamente il nostro mestiere, resisteremo, continueremo, non molleremo.

* * *

Il testamento biologico non è ancora calendarizzato nei lavori della Camera dei Deputati ma lo sarà tra breve. Il Senato l'ha già approvato in una versione che piace al centrodestra ed è invece ritenuta fondamentalista dal centrosinistra. I due opposti schieramenti non sono comunque compatti. Da molte parti si vorrebbe un rinvio di decantazione ma è improbabile che si ottenga poiché per il "premier" è preziosa merce di scambio con la Chiesa per riacquistare una credibilità, anzi una legittimità politica da parte della gerarchia ecclesiastica.

Le posizioni in campo si possono ridurre alle seguenti:
1. Un testamento redatto e firmato dall'interessato subito dopo l'approvazione della legge e periodicamente aggiornato, nel quale l'interessato disponga a piacimento del suo corpo quando si trovi in uno stadio terminale a causa d'una malattia giudicata dal medico incurabile. L'interessato designa anche l'esecutore testamentario chiamato a far valere la sua volontà in caso di sua incoscienza e quindi impossibilità di esprimersi. Il documento così redatto deve essere depositato presso un notaio. Dalle disposizioni del testatore è comunque esclusa per legge la somministrazione di nutrimento che non fa quindi parte della terapia.

2. Il ministro della Sanità propone in alternativa il ritiro della legge e lo stralcio per quanto riguarda la somministrazione dei nutrimenti. Lo stralcio dovrebbe stabilire secondo il ministro che il nutrimento deve essere in ogni caso somministrato fino a quando la morte non avvenga.

3. La legge di cui al punto 1 dovrebbe essere emendata e includere anche la somministrazione nella disponibilità del testatore.

4. Non si faccia nessuna legge lasciando all'interessato di decidere direttamente in accordo con i suoi familiari e con il suo medico di fiducia. Ma saranno comunque necessarie garanzie per i medici che eseguono la volontà del malato di interrompere terapia e nutrimento. In questo contesto si potranno anche inserire norme contro l'eutanasia e contro l'accanimento terapeutico.

Queste sono le quattro posizioni che si confronteranno alla Camera e al Senato se, come sembra probabile, la legge sarà modificata e quindi rinviata a Palazzo Madama per una seconda lettura.

La posizione numero 1 è appoggiata dalla maggior parte del centrodestra cui in questa occasione si aggiungeranno i voti dell'Udc. Quella numero 2 ne costituisce una variante. Quella numero 3 raccoglie la maggioranza del centrosinistra e probabilmente anche dei "liberali" di centrodestra. La numero 4 ne rappresenta una variante che tende a limitare al massimo l'intervento della politica in una questione eminentemente privata.

* * *

Decisioni su temi di questa complessità, che riguardano la concezione della vita e le modalità operative che implicano inevitabilmente l'intervento dei medici, non possono essere adottate senza un contributo determinante dell'opinione pubblica, non foss'altro per la ragione che resta possibile il ricorso ad un referendum abrogativo da parte di chi non fosse soddisfatto della normativa decisa nelle aule parlamentari.

Il pubblico dibattito è dunque oltremodo necessario, soprattutto per informare i cittadini della sostanza della questione e delle sue implicazioni rispetto ad una complessiva visione del bene comune. Si confrontano in un dibattito di questa natura posizioni diversamente ispirate ed anche specifiche deontologie, la prima delle quali si può definire "ippocratica" e riguarda l'intera classe medica, deontologicamente vincolata al cosiddetto giuramento di Ippocrate che pone la medicina al servizio della preservazione della vita. Può un medico contravvenire a quel giuramento per dare esecuzione alla volontà di un malato?

La questione non è di poco conto ed infatti è ampiamente utilizzata da quanti si oppongono alla tesi dell'interruzione delle terapie nel caso di malattie incurabili giunte allo stadio terminale.

La constatazione dell'incurabilità e dello stadio terminale è di pertinenza dell'équipe medica che segue l'ammalato in questione. I medici dunque non vengono espropriati del loro ruolo essenziale, anzi esso ne risulta ulteriormente rafforzato come è giusto che sia.
Il giuramento di Ippocrate può dunque essere razionalmente superato sulla base di tre considerazioni.

La prima riguarda il progresso delle tecnologie curative che hanno fortemente modificato il momento della morte, non più identificato nella cessazione del battito cardiaco ma nella morte cerebrale. Questa nuova concezione del momento della morte, sulla quale si basa la tecnica degli espianti e trapianti di organi ancora vivi, conferisce alla tesi ippocratica una flessibilità ed una relatività prima sconosciuta, che fanno appello alla coscienza responsabile del medico e al rapporto tra il giuramento di Ippocrate e il caso specifico di quel malato.

La seconda considerazione riguarda l'accanimento terapeutico il cui divieto è ormai universalmente accettato.

La terza riguarda la cura del dolore, anch'essa accettata da tutti, comprese le varie chiese cristiane.
Ma accanto e al di sopra della tesi ippocratica che ha natura essenzialmente deontologica, si staglia la concezione religiosa che assegna non già alla libera volontà individuale ma soltanto a Dio la potestà sulla vita e sulla morte delle sue creature. Qui sta il nocciolo dell'intera questione. Come si supera l'obiezione del "pro vita"? E le obiezioni di coscienza che da questa tesi derivano?

* * *

Va detto innanzitutto che l'obiezione "pro vita" motivata da un'autonoma decisione individuale e/o dal richiamo religioso alla potestà non discutibile del Creatore, ha pieno diritto di essere sostenuta nello spazio pubblico dove tutte le opinioni hanno diritto di esprimersi cimentandosi con opposti modi di pensare e di comportarsi. Del resto il testamento non è obbligatorio, si muore anche senza di esso. Parlo qui del testamento civile, in assenza del quale l'eredità viene assegnata "ope legis" secondo le normative del codice.

In caso di testamento biologico però, l'assenza di esso crea non pochi problemi che tuttavia vengono superati dall'esistenza d'un parente di strettissimo grado di parentela: coniuge, figlio, genitore. Oltre questa cerchia non si può andare. Su questa base del resto la Corte di Cassazione decise il caso Englaro riconoscendo al padre il potere decisionale in rappresentanza della figlia Eluana. Infine, in mancanza di parenti di strettissimo grado, il magistrato può nominare un curatore a tutela del malato incurabile e terminale.

Ma torniamo all'obiezione religiosa e dal canto nostra obiettiamo: la tesi "pro vita" ha pieno diritto d'essere pubblicamente e fortemente sostenuta ma essa non può essere imposta a chi non la condivide; lo Stato democratico non può far propria la tesi "pro vita" (intesa nel senso di impedire le libere decisioni individuali che comprendano la cessazione delle terapie e della nutrizione) senza con ciò trasformarsi in uno Stato etico, portatore di concezioni etiche e religiose, che rappresenterebbero una deformazione non solo autoritaria ma totalitaria in aperto contrasto con lo spirito e con la lettera della Costituzione repubblicana.

Queste del resto furono le motivazioni che portarono alla legislazione sul divorzio, sull'aborto, sulla procreazione medicalmente assistita: istituti che non impongono nulla a nessuno limitandosi a riconoscere diritti, anzi facoltà per chi voglia avvalersene e soltanto per lui.

Neppure la Chiesa, comunque, è monolitica su temi di questa delicatezza e complessità. Recentemente il cardinal Martini si è espresso con molta chiarezza sul significato profondo del "pro vita" cattolico e dal suo punto di vista va sostenuto e affermato mettendolo tuttavia in rapporto con la dignità della persona. Due valori che vanno entrambi rispettati e dei quali, in certe circostanze, il secondo può addirittura prevalere sul primo come del resto attesta la considerazione in cui il martirologio è ricordato e venerato dalla Chiesa. La dignità del martire è connessa alla testimonianza della sua fede e per essa una persona sana si immola anziché abiurare. La persona ammalata chiede di affrettare una ormai inevitabile morte per rispetto verso l'opera del Creatore. Non è in tutte e due i casi un problema di dignità?

Il testamento biologico rientra tra quei grandi temi morali e culturali che possono rafforzare la tempra democratica d'un paese. Avvilirlo in uno scambio lobbistico sarebbe quanto di peggio possa accadere. È purtroppo vero che al peggio ci stiamo abituando, ma questo è appunto il pericolo che sta correndo la democrazia ed anche la religione. Il popolo di Dio dovrebbe preoccuparsene quanto noi e più ancora di noi.

(4 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tremonti peggio di Brunetta
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:10:39 am
Tremonti peggio di Brunetta

di Eugenio Scalfari

Il ministro dell'Economia cita la filosofia di Hegel ma la applica malissimo.

Con danni molto gravi alla nazione e allo Stato
 

Ha fatto molto scalpore l'arringa (chiamiamola così) pronunciata dal ministro Brunetta dinanzi ai villeggianti di Cortina d'Ampezzo che svagano i loro pomeriggi incontrando i talenti politici nazionali nel meraviglioso anfiteatro disegnato dalle rocce del Cristallo, delle Tofane e del Faloria. Effettivamente il ministro della Funzione pubblica ci ha dato dentro con un lessico che ci ricorda il leggendario Ventennio del "me ne frego". Ha mandato a "morire ammazzata" la sinistra cattiva, ha lanciato una veemente accusa contro "l'élite di merda dei ricchi golpisti" e insieme con essa "il gruppo editoriale golpista di merda" del quale abbiamo l'onore e l'onere di far parte. Mentre parlava misurava il palco a lunghe falcate (si fa per dire), spesso interrotto dalle ovazioni di un pubblico che si beava di quanto ascoltava. Sembrava, a quanto hanno riferito alcuni colleghi presenti per dovere professionale, che la parola merda avesse un effetto euforizzante sugli astanti e il Brunetta ha fatto quanto poteva per mandarli a casa felici.

Ho notato tuttavia, scorrendo i giornali dell'indomani, che alcuni colleghi critici del ministro della Funzione l'hanno confrontato con l'eleganza e lo stile forbito del suo collega Tremonti. Non c'entrava niente Tremonti con lo show ampezzano, ma alcuni l'hanno tirato in mezzo quasi a voler dimostrare che nel governo del Cavaliere non tutti i gatti sono bigi e se c'è chi con la merda si diletta c'è anche chi offre cibi sofisticati e più graditi al palato.

Basta. Mi stavo quasi appisolando alla lettura delle gesta ampezzane del Brunetta ma il cuore mi è volato verso lo scrittoio di Quintino Sella dietro al quale siede da alcuni anni Giulio Tremonti.
Con il ministro dell'Economia ho qualche questione aperta, lo riconosco; sicché c'è il rischio (ne avverto i lettori) che io non sia nei suoi confronti così obiettivo come dovrei. Non cesso di porgli questioni alle quali da molti mesi si rifiuta di rispondere. Pazienza, vivremo lo stesso.

Ma per convincermi che Tremonti è un ministro buono, di maggiore statura del suo collega della Funzione, mi sono procurato la lunga intervista da lui data al 'Corriere della Sera' del 15 settembre, ampiamente decantata dal giornalismo italiano di buona osservanza. Ebbene, cari lettori, vi consiglio di leggerla. La potrete trovare facilmente nell'archivio elettronico di quel giornale ed anche del nostro. Vi assicuro che ne vale la pena.

L'intervistatore, che è il bravissimo Aldo Cazzullo, esordisce con una domanda aguzza: "Nel Palazzo si parla di complotto e d'una nuova maggioranza. Lei che ne pensa?". Come parlar di corda in casa dell'impiccato, ma il Tremonti non si scompone. Risponde parlando della caverna di Platone. L'argomento è tosto. La caverna di Platone è uno dei 'topos' della filosofia greca e ha dato luogo ad un ampio ventaglio di interpretazioni, ma il Tremonti va giù di piatto: "In quella caverna gli uomini non vedono la realtà ma le ombre della realtà proiettate sulle pareti". E continua: "C'è una drammatica asimmetria tra la realtà del Paese e del governo e la rappresentazione che se ne fa".

Ben detto, perdinci. È esattamente quello che dico anch'io e i miei colleghi di giornali cattivi. Anzi dei giornali farabutti. Tremonti è dunque d'accordo con noi? Che miracolo è questo? Mi sono stropicciato gli occhi ma poi ho capito: il ministro usa il nostro stesso metodo logico ma arriva ad opposte conclusioni.
Speravo comunque che il Tremonti spiegasse la situazione economica. In fondo da lui è questo che ci si aspetta e che vorrebbe anche l'intervistatore che gli ha posto un'altra domanda altrettanto aguzza che la precedente: "Crisi: siamo nella fase della paura o della speranza?". Risposta: "Siamo nella fase della prudenza". Non è magnifico? Chi si sentirebbe di contraddirlo?

Ma prima, con l'elegante destrezza logica che lo distingue, aveva chiamato in causa anche Hegel sempre a proposito della falsa conoscenza della caverna platonica. "A volte si confonde l'essere - quello che è - con il dover essere, quello che si immagina debba essere - o con il voler essere, cioè quello che per proprio conto o per tornaconto si vorrebbe che fosse".

Appunto, esimio ministro dell'Economia. A parte il fatto che da lei non ci aspettavamo approfondimenti filosofici ma risposte sull'andamento delle grandezze economiche e della politica che lei sta attuando, resta acclarato che lei sta imponendo da anni il suo voler essere all'essere, cioè a quello che è.

Esempi. Non ci ha ancora detto perché abolì l'Ici all'inizio della legislatura. Non ci ha detto perché e come ha aumentato la spesa ordinaria corrente di 4,9 punti, equivalente a 45 miliardi di euro. Non ci ha detto perché, pur non avendo modificato le aliquote dell'Irpef, la pressione fiscale sia al suo massimo storico nonostante gli impegni del suo governo a diminuirla. Non ci ha ancora detto quali provvedimenti intende proporre per uscire dalla crisi. Non ci ha ancora detto perché, dopo essersi impegnato a non depenalizzare ulteriormente il reato di falso in bilancio e a non consentire l'impunibilità penale degli evasori, ha fatto presentare nelle ultime ore precedenti l'entrata in vigore dello scudo fiscale un emendamento che non consente ai magistrati inquirenti di utilizzare le prove dei reati commessi per la creazione del capitale evaso. Lei ha trasformato, unico tra tutti i ministri europei dell'Economia, lo scudo fiscale in un condono tombale ma si ostina contro ogni comparazione ed ogni evidenza a sostenere il contrario.

La filosofia di Hegel lei la conosce bene ma la applica malissimo. Ne concludo che lei reca alla nazione e allo Stato danni molto più gravi del suo collega Brunetta. Che è tutto dire.

(25 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il caimano si prepara per l'ultima spallata
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:19:32 pm
L'EDITORIALE

Il caimano si prepara per l'ultima spallata

di EUGENIO SCALFARI


A ME sembra che Silvio Berlusconi sia sottovalutato dai suoi avversari e mal compreso nella logica con la quale persegue i suoi obiettivi. Vengono messi in risalto i suoi errori, le sue gaffe il suo parlarsi addosso e li si attribuiscono ad un prevalere della sua pancia (per dire dei suoi istinti) su una debole razionalità.
Ebbene non è così. Lo conosco da trent'anni e nei primi dieci ho avuto con lui una frequentazione intensa e alquanto agitata.

Non era ancora un uomo politico ma alla politica era già intimamente legato; sia la fase dell'immobiliarista sia quella successiva dell'impresario televisivo erano intrecciate e condizionate dai suoi rapporti politici. Imparò presto a muoversi come un pesce nell'acqua. Poi l'esperienza politica diretta ha perfezionato un innato talento. Perciò - lo ripeto - non è affatto uno sprovveduto in preda ad istinti irragionevoli, salvo quelli sessisti. In quel campo gli istinti lo dominano e l'hanno spinto a commettere errori inauditi; ma in tutto il resto no.

Conosce il suo carattere e lo usa. Conosce la sua tendenza alla megalomania e all'egolatria e la usa. Usa perfino le sue gaffe. L'insieme di queste movenze costituiscono una miscela formidabile di populismo, demagogismo, culto della personalità. In altri Paesi un decimo se non addirittura un centesimo di ciò che dice e che fa avrebbero provocato la sua messa fuori gioco. In altri Paesi il suo mostruoso conflitto di interessi avrebbe impedito il suo ingresso nell'agone politico; non esiste infatti in nessun Paese del mondo un capo di governo proprietario di metà del sistema mediatico e contemporaneamente possessore dell'altra metà.

Ma in Italia questo è possibile. Attenti però: non è un incidente di percorso. La vocazione degli italiani ad innamorarsi di personaggi come Berlusconi fa parte della storia patria. Per fortuna non è la sola vocazione; convive con caratteristiche differenti e anche opposte. Ma quell'innamoramento verso il demagogo è una costante che spesso è diventata dominante e alla fine ha precipitato il Paese nel peggio. Non è ancora avvenuto, ma siamo già abbastanza avanti nella strada che può portarci ad una catastrofe.

* * *

Da questo punto di vista le due sentenze emesse nei giorni scorsi rispettivamente dal Tribunale di Milano sul lodo Mondadori e dalla Corte costituzionale sulla legge Alfano hanno prodotto un'accelerazione che Berlusconi considera provvidenziale per l'attuazione dei suoi piani. L'ira iniziale che l'ha invaso - che viene dalla sua pancia - è stata rapidamente razionalizzata.

L'attacco contro la Corte, contro la magistratura, contro il Csm, contro il Presidente della Repubblica, è proseguito a mente fredda. Non è più ira, è strategia pensata e messa in atto, la spallata finale che dovrà portare l'Italia istituzionale e costituzionale a cambiare volto radicalmente: da repubblica parlamentare a repubblica autoritaria dove tutti gli organi di garanzia siano cancellati o ridotti ad esanimi fantasmi e dove conti soltanto il plebiscito popolare incitato dagli appelli continui alle pulsioni populiste che covano nella pancia di molti. Questo spiega l'allarme esploso nell'opinione pubblica internazionale.

Lo stupore e anche lo sberleffo che nei mesi scorsi si è manifestato sui giornali di tutto l'Occidente al di qua e al di là dell'Atlantico è diventato negli ultimi quattro giorni una preoccupazione generale e l'Italia è diventata il malato di una malattia infettiva.

In altre circostanze questa reazione avrebbe indotto ad un sussulto di prudenza, ma sta invece accadendo l'opposto; il populismo contiene infatti un'abbondante dose di vittimismo che lo rafforza e lo indirizza verso forme di autarchia psicologica delle quali la Lega è da tempo il più esplicito rappresentante e che trovano nel berlusconismo un importante amplificatore.
Le due sentenze sono impeccabili dal punto di vista tecnico - giuridico.

Quella del Tribunale civile di Milano non fa che confermare quanto contenuto nella sentenza di condanna di Cesare Previti per corruzione di magistrati e di Berlusconi per la stessa ragione con il reato però caduto in prescrizione. Agli effetti penali ma non civili. La quantificazione del danno è secondaria.

La sentenza della Corte che definisce incostituzionale la legge Alfano ha come caposaldo l'articolo 3 della Costituzione che stabilisce la parità dei cittadini di fronte alla legge. Questo è il punto di fondo; l'altro elemento invalidante, e cioè la necessità di procedere con legge costituzionale anziché con legge ordinaria, è secondario perché deriva necessariamente dal primo elemento.

Chi accusa la Corte di incoerenza sostiene una tesi priva di senso; anche nella sentenza del 2004 sul cosiddetto lodo Schifani la Corte aveva infatti eccepito la violazione dell'articolo 3. E quindi, se l'articolo 3 risulta violato fin dal 2004, ne segue ineccepibilmente che per ristabilire l'equilibrio costituzionale bisogna procedere con legge costituzionale e non con legge ordinaria. Dov'è l'incoerenza? La legge Alfano aveva ripristinato l'adempimento all'articolo 3 o il suo emendamento? No.

È quindi perfettamente coerente che, di fronte ad un nuovo ricorso, la Corte lo giudicasse ammissibile. Gli avvocati del premier che proclamano l'incoerenza mentono sapendo di mentire. E i media che non chiariscono un punto così fondamentale ai loro ascoltatori e lettori, sorvolano anzi tacciono del tutto su un punto di capitale importanza e danno adito ad una macroscopica disinformazione.

* * *

A questo proposito viene acconcio citare l'articolo uscito ieri sul "Corriere della Sera" e firmato dal suo direttore. L'ho letto e ne sono rimasto colpito e profondamente rattristato. Sono amico di Ferruccio De Bortoli anche se spesso in questi ultimi mesi ho dissentito dalla sua linea giornalistica. Ma in casa propria ciascuno decide liberamente a quale lampione e con quale corda impiccarsi.

L'articolo di ieri va però assai al di là del prevedibile.
Poiché Berlusconi il giorno prima aveva rimproverato il "Corriere della Sera" d'essere diventato di sinistra, il direttore di quel giornale manifesta il suo stupore e il suo dolore. Cita tutti gli articoli recenti da lui pubblicati che hanno sostenuto il governo e le sue ragioni; rivendica di non aver mai partecipato a campagne di stampa faziose, condotte da gruppi editoriali che vogliono pregiudizialmente mettere il governo in difficoltà con argomenti risibili; ricorda di aver approvato la politica economica e sociale del governo, la sua efficienza operativa, la sua politica estera; ammette di averlo criticato solo quando è stato troppo duro con la Corte costituzionale e con il Capo dello Stato; auspica una tregua generale tra le istituzioni; riconosce al presidente del Consiglio l'attenuante di essere perseguitato in modo inconsueto dalla magistratura. Infine ribadisce la natura liberale che storicamente il giornale da lui diretto ha sempre seguito e nello stesso numero pubblica un'intervista a piena pagina con Marina Berlusconi, con splendida foto nella quale la figlia del leader rivaleggia con una Ava Gardner bionda anziché mora, che in quel contesto assume inevitabilmente una funzione riparatoria per qualche birichinata di troppo.

Mi procura sincero dolore un giornale liberale ridotto a pietire un riconoscimento al merito dal peggior governo degli ultimi centocinquanta anni di storia patria, Mussolini escluso. E ridotto ad attaccare noi di "Repubblica", faziosi e farabutti per definizione, per marcare la propria differenza.

Noi siamo liberali, caro Ferruccio. Liberali veri. Non abbiamo pregiudizi, ma vediamo sintomi ed effetti d'una deriva che minaccia le sorti del Paese.
Vediamo anche la totale inefficienza di questo governo che non ha attuata nessuna delle promesse e degli impegni assunti con il suo elettorato salvo quelli che recano giovamento personale al premier e ai suoi accoliti.

Voglio qui ricordare un non dimenticabile articolo di Barbara Spinelli pubblicato dalla "Stampa" di qualche settimana fa, che forse De Bortoli non ha letto. Mi permetto di consigliargliene la lettura. I giornali ricevono molte querele e molte citazioni per danni, ricordava la Spinelli. Fa parte della rischiosa professione giornalistica e degli errori che talvolta vengono compiuti.

Ma quando è il potere politico e addirittura il capo del governo a tradurli in giudizio perché hanno osato porgli domande scomode, quando questo avviene - ha scritto la Spinelli - i giornali che sono in fisiologica concorrenza tra loro fanno blocco comune e quelle stesse domande le pongono essi stessi, le fanno proprie per togliere ogni alibi ad un potere che dà prova di non sopportare il controllo della pubblica opinione. La stampa italiana - concludeva - non ha fatto questo, mancando così ad uno dei suoi doveri.

Si può non esser d'accordo con il codice morale e deontologico della Spinelli (peraltro seguito da tutta la stampa occidentale) e non mettere in pratica le sue esortazioni. Ma addirittura accusare noi d'una nefasta faziosità rivendicando a proprio favore titoli di merito verso il governo, questo è un doppio salto mortale che da te e dal tuo giornale francamente non mi aspettavo. A tal punto è dunque arrivato il potere di intimidazione che il governo esercita sulla libera stampa?

Ricordo, a titolo di rievocazione storica, che Luigi Albertini incoraggiò il movimento fascista dal 1919 al 1922; gli assegnava il compito di mettere ordine nel Paese purché, dopo averlo adempiuto, se ne ritornasse a casa con un benservito. Ma nel 1923 Mussolini abolì la libertà di stampa e instaurò il regime a partito unico, le cui premesse c'erano tutte fin dal sorgere del movimento fascista. A quel punto Albertini capì e cominciò una campagna d'opposizione senza sconti, tra le più robuste dell'epoca. Purtroppo perfettamente inutile perché il peggio era già accaduto, il regime dittatoriale era ormai solidamente insediato e l'ex direttore del "Corriere della Sera" se ne andò a consolarsi a Torrimpietra.

Ad Indro Montanelli è accaduto altrettanto, ma lui almeno se n'è accorto prima. Difese per vent'anni dalle colonne del "Giornale" le ragioni del Berlusconi imprenditore d'assalto. Si accorse nel 1994 di quale pasta fosse fatto il suo editore e lo lasciò con una drammatica rottura. Ma era tardi anche per lui. Se c'è un aldilà, la sua pena sarà quella di vedere Vittorio Feltri alla guida del giornale da lui fondato. Al "Corriere della Sera" quest'esperienza d'un giornalista di razza al quale dedicano un santino al giorno dovrebbero farla propria per capire qual è il gusto e il valore della libertà liberale.

© Riproduzione riservata (11 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il coraggio della stampa
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:23:46 am
IL COMMENTO

Il coraggio della stampa

di EUGENIO SCALFARI


Ho letto con doverosa attenzione la duplice risposta che Ferruccio de Bortoli ha dato al mio articolo di domenica scorsa per la parte che lo riguardava. Purtroppo è la risposta tipica di chi, non volendo confrontarsi con il tema in discussione, lo sposta su un altro obiettivo. Nel caso specifico sull'oggettività dei giornali o la loro faziosità. Aggiungo che ieri il Tg1 è anch'esso intervenuto a suo modo e a supporto di un resoconto di genere minzoliniano ha intervistato Belpietro e Antonio Polito i quali non hanno trovato di meglio che dichiarare la loro non appartenenza al mio partito e la loro solidarietà con il direttore del Corriere della Sera.

Questi due colleghi fanno da tempo parte organica del club di Bruno Vespa ed è evidente che prendano da me tutte le distanze possibili. Quanto a quello che viene definito "il mio partito", la locuzione significa "le mie idee" che chiunque è liberissimo di non condividere. Ma se questa non condivisione diventa un fatto politico, bisogna domandarsene il perché e con ciò torniamo a de Bortoli.

Il tema della discussione da me aperta è quello di esaminare se la stampa italiana si stia rendendo conto della deriva in avanzato corso verso un regime autoritario, nella direzione voluta dal capo del governo. Una deriva che implica una concentrazione di potere nelle mani del presidente del Consiglio e un contemporaneo indebolimento o addirittura cancellazione degli organi di controllo e di garanzia ancora esistenti: magistratura inquirente e giudicante, autorità che sovrintendono a importanti settori a cominciare da quella "Antitrust", poteri di controllo del Parlamento, Corte costituzionale, presidente della Repubblica, stampa e emittenti radio-televisive.

A nostro avviso una notevole parte della stampa e delle emittenti radio-televisive non sta informando i cittadini della gravità di quanto accade sotto i nostri occhi, smorza volutamente il significato dei fatti e dei comportamenti adottando il metodo così bene illustrato nei "Promessi sposi" laddove il Manzoni racconta il colloquio tra il Conte-zio e il padre generale dei Cappuccini al quale si chiedeva di trasferire in altra sede il combattivo fra Cristoforo che difendeva i poveri Renzo e Lucia dalle soperchierie di don Rodrigo. "Sopire, troncare, padre reverendo; troncare, sopire". Così diceva il Conte-zio e così fu costretto a fare il generale dei Cappuccini. La conseguenza fu l'intimazione a don Abbondio di non eseguire quel matrimonio, il rapimento di Lucia, la fuga di Renzo. Non ci fosse stato il pentimento dell'Innominato e poi la peste, quel matrimonio non si sarebbe mai fatto.
Spesso la grande letteratura serve a capire i fatti quotidiani molto di più dell'acume di chi scrive sui giornali dove i don Abbondio abbondano. Sicché bastò un editto del premier a far buttare fuori dalla tivù Biagi e Santoro ed un altro più recente a far dimettere Giulio Anselmi dalla Stampa e Paolo Mieli dal Corriere della Sera.

Io mi guardo bene dall'augurarmi che de Bortoli condivida le nostre idee e capisco anche che - come scriveva il Manzoni - "il coraggio chi non ce l'ha non se lo può dare".
Ma da qui a sottacere il significato della deriva italiana, morale, politica, economica, sbandierando come titoli di merito verso il governo gli articoli scritti in suo favore, quelli scritti a suo tempo contro il governo Prodi, infine la definizione di Repubblica come un gruppo editoriale nemico del premier e degli interessi del Paese, ebbene questo è un modo volutamente rassegnato di praticare una professione che ha come primo principio deontologico quello di controllare il potere ad ogni passo e in ogni istante.

I giornali non sono partiti ma sentinelle a guardia del pubblico interesse, che dovrebbero rimandarsi l'un l'altro la parola d'ordine e la risposta: "All'erta sentinella", "All'erta all'erta sto". Ebbene, era questa la risposta che speravo d'avere dal direttore del Corriere della Sera. Non l'ho avuta e me ne dispiaccio assai, non per me ma per lui.

De Bortoli sostiene che Repubblica non l'ha mai difeso quand'era sotto attacco da parte del potere politico. Hai una memoria debole, caro Ferruccio.
E perciò cercherò di aiutarti a ricordare citando un mio articolo dell'8 giugno del 2003, poche settimane dopo le tue dimissioni dal Corriere della Sera.

"Misteriose dimissioni, è il meno che si possa dire, perché il protagonista della vicenda le ha blindate con la motivazione delle "ragioni private", con la stanchezza d'una funzione esercitata per oltre sei anni e resa più difficile dalle frequenti pressioni del potere politico, del resto effettuate alla luce del sole. Ma resta un problema: come mai un governo di centrodestra che si dichiara in ogni occasione corifeo dei valori liberal-democratici, mette sotto accusa e attacca come traditore di quei valori un giornale che ha fatto del "terzismo", dell'equidistanza tra le parti politiche in conflitto, della tecnica pesata col bilancino d'un colpo al cerchio e uno alla botte, la sua divisa e la sua funzione?".

Quella mia domanda di allora è rimasta senza risposta ma è ancor più attuale oggi. De Bortoli dirige per la seconda volta il Corriere della Sera dopo l'esperienza conclusa nel 2003. Quell'esperienza è evidentemente ben viva nella sua memoria; adesso conosce meglio i limiti entro i quali può muoversi e li rispetta con maggiore attenzione. Perciò si preoccupa e si addolora se il premier, non contento della sua prudenza, lo avverte che dev'esser più attento e più docile.

Del resto, sempre in tema di direzione del Corriere della Sera, il nostro vicedirettore Massimo Giannini scrisse il 3 dicembre del 2008 un articolo di fondo intitolato "L'editto albanese", quando durante una visita di Stato a Tirana, Berlusconi disse che Giulio Anselmi e Paolo Mieli "dovevano cambiare mestiere". Scrisse Giannini: "Dietro quelle parole del Cavaliere c'è una visione totalitaria della democrazia che tra un editto e l'altro sta ormai precipitando in un'autocrazia".

La cosa singolare è che tutta la stampa internazionale, quella progressista e anche quella conservatrice, considera il nostro premier come un personaggio che ha ormai sorpassato ogni limite accettabile. Dopo i suoi attacchi alla Corte costituzionale e al capo dello Stato lo descrive come un pericolo per tutti, portatore di un virus infettivo il cui solo contatto è rischioso. Leggete il Newsweek di questa settimana che è l'esempio più recente di questa preoccupazione.

Io vorrei, noi vorremmo, che la stampa italiana non fosse meno lucida e meno coraggiosa di quella internazionale. Mi sembra purtroppo un vano desiderio.

© Riproduzione riservata (13 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La grande slavina
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2009, 11:24:27 pm
La grande slavina

di Eugenio Scalfari


Dalla tragedia di Messina alla faziosità esibita del direttore del Tg1.

Dalle parole in libertà di Di Pietro alle assenze dei deputati dell'opposizione.

Una sequenza di eventi allarmanti
 

Molte cose in questa settimana, eventi grandi e piccoli, comportamenti oggettivamente virtuosi ed altri oggettivamente condannevoli (uso l'avverbio 'oggettivamente' per rispettare la norma che condanna il peccato ma non il peccatore). Non potendo analizzare il vasto campo di tanti accadimenti, adotterò l'antico metodo della spigolatura.

Il ministro dello Stato sociale, che mette continuamente bocca in faccende che non lo riguardano, ha detto che la manifestazione del 3 ottobre in piazza del Popolo a Roma dedicata alla libertà d'informazione è stata un flop. Ad essa hanno partecipato trecentomila persone. Tutta l'area dal ponte sul Tevere che proviene da piazza della Libertà fino a piazza Augusto Imperatore era gremita all'inverosimile. Non so quali siano i metri di giudizio del ministro Sacconi. Se questo è un flop vuol dire che si aspettava tre o quattro milioni di persone. Cercheremo di far meglio la prossima volta.

Giovedì primo ottobre sono andati in onda 'Annozero' alle ore 21.10 e 'Porta a porta' alle 23.20. La prima, condotta da Santoro, ha registrato un ascolto di 7 milioni di persone, la seconda condotta da Vespa poco meno di 2 milioni. In quel pomeriggio Berlusconi ricevette il direttore di 'Libero', Belpietro, che è poi intervenuto ad entrambe le trasmissioni. E Bruno Vespa. Quest'ultimo ha precisato in una lettera a 'Repubblica' d'essere andato a parlare con il premier del suo nuovo libro. L'ha scritto e noi gli crediamo, ma questo non modifica in nulla il fatto che una trasmissione della Rai ha preso di petto un'altra trasmissione della medesima azienda.

Sarebbe certamente un esempio di pluralismo se Santoro da un lato e Vespa dall'altro avessero ispirato le rispettive trasmissioni sul medesimo oggetto con modalità diverse l'uno dall'altro; ma non è soltanto questo che è avvenuto. Vespa, attraverso i suoi ospiti Belpietro, La Russa e Romani ha attaccato con aperta polemica la trasmissione 'Annozero' ed ha stentoreamente ripetuto per tre volte che "gli intolleranti sono di sinistra". Può senz'altro dirlo, è un'opinione come un'altra, ma con questo modo di condurre ha ormai definitivamente certificato che anche la Rai ha il suo Emilio Fede. Noi lo sapevamo da un pezzo, adesso è palese per tutti.

Minzolini. Che dire del direttore del Tg1? Del suo editoriale del 3 ottobre sulla manifestazione appena conclusa a Piazza del Popolo? Di fronte a Minzolini, Bruno Vespa somiglia al re Salomone quanto a imparzialità di giudizio; fa finta di essere imparziale e qualcuno ci casca anche. Minzolini no, non fa finta. Minzolini è fazioso, ne è consapevole e vuole farlo sapere. Non potendo esserlo fino in fondo nel suo Tg1 se non con lo strumento assai usato delle omissioni, interviene personalmente manipolando la realtà di quanto è accaduto. La sera del 3 ottobre il direttore del Tg1 si è volontariamente collocato non solo più a destra di Vespa ma dello stesso Emilio Fede sopra ricordato. Qui non si tratta di giornali di proprietà privata ma del servizio pubblico. Quanto può continuare una situazione di questo genere?

Antonio Di Pietro ha pesantemente attaccato il presidente della Repubblica sostenendo che aver promulgato la legge sullo scudo fiscale è stato un atto "oggettivamente vile". Tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione si sono schierate a difesa del Presidente manifestandogli piena solidarietà. Il Quirinale ha detto che le accuse di Di Pietro sono "al di là di ogni commento". Non si poteva dir meglio.

Napolitano, rispondendo alle domande di alcuni cittadini sull'argomento in questione, ha spiegato che la legge sullo scudo fiscale non contiene a suo avviso evidenti elementi di incostituzionalità. Così stando le cose il presidente della Repubblica non ha il potere di bloccare la legge. Cade quindi totalmente l'accusa di Di Pietro, motivata soltanto dal suo populismo e dalla sua affannosa ricerca di visibilità.

Il Presidente, nel corso delle sue spiegazioni, ha aggiunto che la Costituzione gli assegna il potere di rinviare una legge alle Camere in seconda lettura, ma prevede anche che la sua firma di promulgazione diventi obbligatoria quando il Parlamento gli rinvia per la seconda volta la legge, anche se identica a quella approvata e poi rinviata. Quindi il potere di rinvio è di fatto inutile. Così Napolitano.

Su quest'ultimo punto mi permetto un'osservazione. Se ci fossero evidenti elementi di incostituzionalità il potere di rinvio può e anzi deve essere esercitato. Potrà provocare il ravvedimento delle Camere e comunque eserciterà un peso non indifferente sulla pubblica opinione. Conoscendo Giorgio Napolitano siamo sicuri che in caso di palese incostituzionalità, egli userebbe tutti i poteri di cui dispone e il rinvio al Parlamento tra questi.

Ventinove deputati d'opposizione (22 appartenenti al Pd) non erano presenti al voto conclusivo sullo scudo fiscale. Il provvedimento è passato con soli 20 voti di maggioranza perché al centrodestra le assenze erano più d'una sessantina.

Le assenze tra le file dell'opposizione hanno provocato grandissimo sconcerto nell'opinione pubblica. Gli organi del Pd e dell'Udc si sono impegnati ad applicare dure sanzioni contro gli assenti. Certo gli ammalati sono fuori questione se le ragioni d'impossibilità saranno adeguatamente certificate. Gli altri assenti non ci pare che meritino scusanti, neppure quelli che erano lontani da Roma e potevano agevolmente rientrare.

Metto per ultimo l'evento più grave della settimana: il nubifragio e le frane a Messina, i morti, i dispersi, le rovine. Si è trattato, come tutti i giornali hanno scritto, di una catastrofe annunciata perché i fenomeni franosi in quella zona si erano già ripetutamente verificati da oltre un anno. Faccio dunque una domanda a Bertolaso, sottosegretario e capo della Protezione civile: non spetta anche a lui, anzi a lui soprattutto, il compito di prevenire i disastri quando essi sono già stati avvistati? Era certamente al corrente della situazione a Messina, che cosa ha fatto per prevenire il disastro? Mi aspetto una risposta in mancanza della quale dovrei dedurre che il vezzo di non rispondere alle domande della stampa è ormai diventato generale nel governo di cui anche Bertolaso fa parte.

(08 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Alle primarie il pugno del partito che non c'è
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2009, 05:22:53 pm
L'EDITORIALE

Alle primarie il pugno del partito che non c'è

di EUGENIO SCALFARI


OGGI ci occuperemo del Partito democratico. Finora in questi articoli domenicali il tema è stato volutamente trascurato, ma ora è diventato di stringente attualità: domenica prossima, 25 ottobre, ci saranno le primarie che decideranno chi sarà il segretario nazionale del Pd, un evento importante non solo per quel partito ma per l'intera opposizione e anche per il sano funzionamento della democrazia italiana.

Il tema è complesso, perciò bisognerà esaminarlo nei suoi vari aspetti. Comincerò da Veltroni, insediato alla segreteria nell'autunno del 2007, pochi mesi prima delle elezioni che portarono alla vittoria di Berlusconi.
L'altro ieri in un "talk show" dell'emittente La7 qualcuno dei presenti in studio ha detto che Veltroni e D'Alema non soltanto sono politicamente irresponsabili, ma anche "due cretini". Proprio così: cretini.

C'è sempre una prima volta e questa è infatti la prima volta che un epiteto del genere è stato affibbiato ad un uomo politico. Non era mai stato usato. Se ne dicono tante sui politici, anche più sanguinose di questa, ma cretino non si era mai sentito in un salotto televisivo. Ma ormai gran parte dei salotti televisivi sono diventati dei "saloon" dove tutti i clienti portano le pistole nella fondina e il coltello nascosto nel risvolto degli stivali. Così va il mondo.

Nella campagna elettorale del 2008 il partito di Forza Italia arrivò al 37,5 per cento; il Pd guidato da Veltroni ottenne il 33,5 e tutti, fuori e dentro di esso, decretarono una solenne sconfitta. Invece non era stata una sconfitta: una formazione politica riformista con alle spalle pochi mesi di vita era arrivata a superare i risultati del Pci che, dalla segreteria di Natta in poi, non era mai riuscito ad andare oltre il 30 per cento. Senza dire che i riformisti italiani di ispirazione liberal-socialista in cent'anni di storia prima monarchica e poi repubblicana non sono mai usciti da un ruolo di pura testimonianza.
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Non era dunque una sconfitta ma un punto di partenza più che rispettabile. Non fu vissuta così e questo è stato un grosso errore del quale non fu responsabile quel cretino di Veltroni.
Oggi i sondaggi sulle intenzioni di voto danno il Pd al 30 per cento. Non è molto ma è qualcosa se si pensa che un mese fa la più antica socialdemocrazia europea, l'Spd tedesca, ha ottenuto meno del 23 per cento; i socialisti francesi sono a pezzi; il Labour inglese è in piena tempesta e neanche Zapatero se la passa molto bene. Sembra un paradosso, ma un partito del quale tutti dicono che non esiste più o che è allo sbando, risulta quantitativamente il più forte della sinistra europea. Non è certo consolante per i rapporti di forza nel Parlamento di Strasburgo, ma è un dato di fatto dal quale dobbiamo partire.

* * *

Un altro dato di fatto ancora più significativo emerge dalla votazione di pochi giorni fa per il congresso del Pd. Sulla base dello statuto di quel partito hanno votato i soli iscritti che rivoteranno insieme agli elettori alle primarie del 25 ottobre. I votanti sono stati 450.000 pari al 60 per cento degli iscritti. Mi domando quali sono stati i congressi di grandi partiti in Italia negli ultimi dieci anni e quale di essi - se ce ne sono stati - è riuscito a mandare poco meno di mezzo milione di persone al voto.

Un partito che non esiste? Un partito di sfiduciati, di ipercritici, di indifferenti, senza dibattito interno, senza passione, senza speranze, come viene descritto da giornaloni e da giornaletti? Lascio ai lettori la risposta.
È vero però che lo statuto è molto contraddittorio e inutilmente complicato. Chi l'ha redatto e chi lo ha approvato voleva evidentemente accontentare tutti con l'inevitabile conseguenza d'aver prodotto una procedura inadeguata e confusa. Alcuni volevano sottolineare che gli iscritti debbono contare decisamente di più dei simpatizzanti; di qui una prima fase riservata al voto degli iscritti.

Una fase tuttavia puramente registrativa poiché la decisione è riservata alle primarie dove iscritti ed elettori voteranno insieme. Pierluigi Bersani è risultato in testa nel voto degli iscritti ma ora è di nuovo in gioco nel voto delle primarie. Che senso ha una procedura così sconclusionata? Credo che, una volta conclusasi questa partita, i nuovi organismi dirigenti che usciranno dal voto delle primarie dovranno rimetterci le mani e renderla più adeguata alle esigenze della chiarezza e della logica.

Come se non bastasse, lo statuto ha anche stabilito che le primarie eleggeranno il segretario soltanto se uno dei tre candidati in lizza otterrà il 50 più uno dei voti espressi. Qualora ciò non avvenisse avrà luogo una terza fase dinanzi all'Assemblea nazionale eletta anch'essa il 25 ottobre. In questa terza fase i candidati rimasti in lizza saranno i primi due votati alle primarie. Il terzo sarà escluso dalla gara ma in realtà sarà il più forte dei tre perché i suoi rappresentanti nell'Assemblea, appoggiando uno dei due candidati in lizza, lo porteranno alla vittoria, naturalmente ponendo le loro condizioni di programma e di potere.
Le regole sono queste e vanno rispettate, ma sono a dir poco scriteriate perché di fatto danno il massimo potere al terzo arrivato. La conseguenza sarebbe quella di produrre un sentimento di frustrazione in tutti gli elettori delle primarie che vedrebbero capovolte le loro indicazioni.

Per evitare un cul di sacco così traumatico ho avanzato giorni fa una proposta. Io non sono un iscritto al Pd e mai mi iscriverò perché faccio un altro mestiere incompatibile con una tessera di partito. Ma parteciperò alle primarie perché sono un elettore e voterò per quel partito. Ho dunque proposto un accordo politico tra i tre candidati: si impegnino anticipatamente e pubblicamente, se nessuno di loro raggiungerà la maggioranza assoluta, a far affluire i propri voti in assemblea su quello dei candidati che ha ottenuto alle primarie la maggioranza relativa.

In tal caso il voto delle primarie sarà rispettato, le regole dello statuto anche e - altro risultato non disprezzabile - il segretario nazionale sarà eletto dall'Assemblea all'unanimità. La mia proposta, forse proprio perché veniva da persona esterna al partito, ha avuto successo: l'impegno è stato preso sia da Bersani che da Franceschini. Esso darà maggior sicurezza e maggiore impulso a tutti quelli che si dispongono a votare il 25 ottobre.

* * *

Fin qui abbiamo trattato questioni di procedura. Importanti, perché senza procedure corrette non si ottengono risultati corretti. Ma ora dobbiamo esaminare il merito, cioè le proposte dei vari candidati, quelle che li uniscono e quelle che li dividono. Chi voterà alle primarie lo farà sulle proposte e sulla loro credibilità.
A me non pare che ci siano differenze per quanto riguarda la struttura del partito. Per lungo tempo si è discusso tra un partito cosiddetto liquido, cioè affidato soltanto ai simpatizzanti e quindi alla pubblica opinione, oppure un partito strutturalmente insediato sul territorio.

Questa questione mi sembra ormai superata. L'accordo è generale sul fatto che il partito deve essere presente e vivace sul territorio con larghe autonomie della struttura locale, ma entro linee-guida valide per tutti ed elaborate dagli organi centrali. Del resto questa disputa è già stata superata dai fatti: i 450.000 iscritti che sono andati a votare e che ci torneranno per le primarie sono la più evidente dimostrazione che le strutture sul territorio ci sono già; potranno essere utilmente rafforzate e dotate di adeguate funzioni, ma esistono e operano. Non era facile metterle in piedi in così breve tempo. Questo piccolo miracolo è stato compiuto e va riconosciuto a tutti quelli che l'hanno reso possibile.

Sgombrato il campo da questa questione ne restano altre di grande importanza che sono le seguenti: il rapporto tra l'opposizione e la maggioranza berlusconiana e leghista; il rapporto con le altre opposizioni, cioè la politica delle alleanze; il tema della laicità dello Stato; il tema dell'immigrazione e dell'integrazione; la politica economica; la politica della giustizia; la politica della scuola. Infine - ma soprattutto - il tema della libertà di stampa e quello dei grandi valori dai quali nasce la visione del paese e della società che vedremo nel futuro dell'Italia e dell'Europa di cui siamo parte integrante.

* * *

Si tratta d'una massa di problemi che dovranno essere risolti non solo dal Pd ma da un'elaborazione culturale cui debbono collaborare fondazioni, circoli, associazioni che condividano i valori e creino le condizioni culturali per farli crescere nella società. Un partito democratico deve aiutare questa evoluzione affinché il lavoro di semina e di raccolta sia ampio e proficuo. Veltroni - quel cretino a cui abbiamo già accennato - sostiene che è importante vincere ma ancor più importante è cambiare l'Italia risvegliandola dall'ipnosi in cui una parte del paese è caduta e ricondurla a riflettere e operare pensando al futuro e non accucciandosi su un presente precario e appiattito. Personalmente condivido.

Sulla politica economica mi sembra che l'accordo sia generale: nell'immediato occorre riversare le risorse disponibili sui lavoratori dipendenti e sulle piccole e piccolissime imprese e partite Iva. Sul medio periodo è necessaria una grande riforma fiscale e un allungamento dell'età di lavoro che tenga conto dell'allungamento della vita.

C'è accordo generale sul clima e sulle energie alternative e pulite. C'è accordo generale sulla riforma della giustizia, della sicurezza e dell'integrazione. La scuola è un campo da studiare. Esiste già un'ampia ricerca in materia ma ancora non è stata messa in discussione e bisognerà che si faccia al più presto.
Anche sulla laicità e sulle politiche della bioetica l'accordo sembra esserci almeno su un punto fondamentale: la Chiesa ha diritto di usare lo spazio pubblico per esporre le sue ragioni. Non ha invece diritto d'imporre il suo punto di vista nella politica, dove le prerogative dello Stato e del Parlamento sono esclusive e dato anche che i parlamentari cattolici hanno rivendicato la loro autonomia. Penso al cattolico adulto Romano Prodi e penso anche al documento che Franceschini diffuse anni fa raccogliendo su di esso sessanta firme di parlamentari cattolici che rivendicavano la loro autonomia rispetto alle gerarchie ecclesiastiche in materia di decisioni politiche e parlamentari.

C'è qualche dissenso sulla politica delle alleanze, ma francamente mi sembra più di parole che di sostanza. Se il Pd sarà forte le alleanze si faranno intorno a lui; se sarà debole non potrà svolgere la funzione di pilastro centrale delle opposizioni e non potrà raccogliere nuovi consensi sia a sinistra sia al centro. Penso che nessuno dei candidati preferisca un partito debole ad uno robusto e audace.

* * *

Una parola conclusiva sui valori, che include anche il rapporto con il berlusconismo.
I valori d'un partito democratico non possono che esser quelli della libertà, dell'eguaglianza e della solidarietà. L'esperienza storica di oltre due secoli ci ha ampiamente insegnato che la libertà senza eguaglianza è fonte di privilegi intollerabili; l'eguaglianza senza libertà è fonte di dittature e totalitarismi; la solidarietà senza gli altri due diventa assistenzialismo ed elemosina. La democrazia che scaturisce da questi valori è quella descritta e tradotta in norme e in giurisprudenza dalla nostra Costituzione.

La Costituzione può essere rivista e modernizzata, ma non può essere cambiata. Lo impediscono l'articolo 1, l'articolo 3, l'articolo 138 e l'articolo 139. Berlusconi non vuole rivedere la Costituzione, vuole cambiarla. Vuole sostituire la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto con una democrazia autoritaria senza organi di controllo e di garanzia ma interamente basata su sistemi di voto plebiscitari. L'intimidazione dei "media" è un elemento indispensabile di questa strategia che ha come obiettivo finale un'immagine del paese riflessa da uno specchio taroccato al servizio del potere.
Si tratta di concezioni antitetiche a quelle d'un partito democratico e questo è un dato preliminare che non consente né mollezza né scorciatoie di furbizia compromissoria.

Da questo punto di vista noi ci auguriamo che alle primarie del 25 ottobre vada una massa di popolo consapevole del suo ruolo e della sua responsabilità. Non centinaia di migliaia ma milioni di elettori. Perfino quelli che non condividono le tesi riformiste del Pd ma non si rassegnano all'Italia così com'è: votino magari scheda bianca ma vadano. Quei seggi del 25 ottobre saranno anche una prova di forza di tutta l'opposizione e un buon principio per un paese risvegliato.

© Riproduzione riservata (18 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'aria torbida di fine regno
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2009, 04:10:52 pm
IL COMMENTO

L'aria torbida di fine regno

di EUGENIO SCALFARI


L'ARIA che si respira in questi giorni è di fine della seconda Repubblica. Non è detto che sia anche la fine di Berlusconi perché le due cose non sono necessariamente coincidenti. Può darsi che la fine della seconda Repubblica porti con sé e travolga chi su di essa ha regnato; ma può darsi anche che sia proprio lui ad affossarla sostituendola con una Repubblica autoritaria, senza organi di garanzia capaci di preservare lo Stato di diritto e l'equilibrio tra i vari poteri costituzionali.

Il Partito democratico ha presentato in Parlamento il 22 ottobre, con la firma di Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, una mozione che fotografa con efficacia questa situazione. Se ne è parlato poco sui giornali, ma è l'atto parlamentare più drammaticamente documentato del bivio cui il paese è arrivato, mentre la crisi economica mondiale è ancora ben lontana dall'aver ceduto il posto ad una ripresa.
I sintomi di questa "fin du règne" sono molteplici. Ne elenco i principali: l'attacco martellante e continuativo del presidente del Consiglio contro la Corte costituzionale e la magistratura; la definitiva presa di distanza del medesimo nei confronti del Capo dello Stato; il disagio crescente di Gianfranco Fini verso la linea del Pdl e in particolare verso le candidature dei governatori in alcune regioni e in particolare il Veneto, il Piemonte, la Campania; l'irrigidimento della Lega su Veneto e Piemonte da lei rivendicate.

E poi il dissenso sempre più profondo tra una parte del Pdl (Scajola, Verdini, Baldassarri, Fitto, Gelmini) e Tremonti e la difficoltà di Berlusconi a ricomporre questo scontro che sta spaccando in due il centrodestra; la rivolta degli artigiani del Nordest contro la politica economica del governo; l'analoga rivolta di molti imprenditori lombardi; i casi giudiziari della famiglia Mastella; i casi giudiziari di un gruppo di imprenditori collegati a Formigoni; il caso Marrazzo e le sue possibili conseguenze politiche ed elettorali; gli attacchi dei giornali berlusconiani contro Tremonti e la sua minaccia di dimettersi. Infine la preoccupazione del presidente della Repubblica che aumenta ogni giorno di più e si manifesta in ripetuti e pressanti richiami a mandare avanti le riforme in un clima di condivisione.

L'elenco è lungo e sicuramente incompleto, ma ampiamente sufficiente ad alimentare la percezione di un processo di "disossamento" del paese, d'una guerra di tutti contro tutti, di un'azione di governo basata su frenetici annunci ai quali non segue alcun fatto. Si procede alla cieca. Siamo addirittura ad una sorta di fuga del premier che si è andato a nascondere nella duma personale di Putin e lì sta ancora mentre scriviamo (trattenuto a quanto si dice da una furiosa tempesta di neve della quale peraltro non c'è traccia nel bollettino meteorologico) dopo aver disertato la visita di Stato del re e della regina di Giordania ed aver rinviato a data da destinare il Consiglio dei ministri che era stato convocato per venerdì mattina. Forse per sfuggire al chiarimento con Tremonti?
Di sicuro si sa soltanto che il nostro premier è con il dittatore russo da tre giorni durante i quali hanno parlato "anche" di affari. Insomma, tira un'aria brutta, anzi mefitica.

* * *

Per non correr dietro alle voci sussurrate o gridate, stiamo ai fatti e soprattutto a quelli economici che maggiormente interessano i cittadini, cominciando con l'annuncio (ancora un annuncio) fatto dal premier prima di partire per San Pietroburgo, di voler dare inizio ad un graduale ribasso dell'imposta Irap.
L'annuncio fu lanciato la prima volta nel 2001 e poi rinnovato nel 2005, ma seguiti concreti non ce ne furono. Questa è dunque la terza volta; ma mentre dieci anni fa nessuno si oppose all'interno del centrodestra, questa volta c'è un "no" secco del ministro dell'Economia per mancanza di copertura.
Oltre al suo, c'è anche un "no" della Cgil e delle Regioni, a fronte di un completo appoggio da parte della Confindustria.

Si discute di un'imposta voluta a suo tempo da Vincenzo Visco, che unificò nell'Irap sette imposte precedenti, destinandone il gettito al finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Il gettito attuale dell'imposta rende 37 miliardi l'anno. Grava sulle imprese ed anche sui lavoratori così come vi gravavano le sette imposte precedenti. Il graduale ribasso annunciato da Berlusconi non è stato ancora definito nella sua concretezza, visto che spetterebbe a Tremonti di farlo ma è proprio lui che vi si rifiuta. I consiglieri del premier pensano ad una riduzione dell'imposta tra i tre e i quattro miliardi a vantaggio delle imprese, soprattutto di quelle di piccole dimensioni. I medesimi consiglieri suggeriscono di trovare la copertura utilizzando i fondi accantonati per il Mezzogiorno o quelli derivanti dallo scudo fiscale. Tremonti - l'abbiamo già detto - ha risposto con la minaccia di immediate dimissioni.

* * *

Nel frattempo ha fatto il giro di tutti i giornali un documento anonimo ma proveniente da alcuni "colonnelli" del Pdl, che avanzava una serie di critiche alla linea rigorista del ministro dell'Economia. Non si dovrebbe dar peso ai documenti anonimi senonché proprio ieri è stato presentato un documento con tanto di egregia firma da parte del presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, Baldassarri. In esso la linea rigorista del ministro viene completamente smontata dal vice ministro, il quale propone tagli di spesa e diminuzione di imposte da riversare a vantaggio dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese per un totale della rispettabile cifra di 37 miliardi.

Le dimensioni di questa manovra di fronte alla legge finanziaria del 2010 ancora in discussione in Parlamento, è imponente: 37 miliardi per modificare una Finanziaria che ammonta a un miliardo e mezzo. È evidente che in questo caso non ci saranno compromessi possibili: o viene smentito Baldassarri o se ne va Tremonti.

Ma non è tutto nel campo della politica economica. C'è la questione della Banca del Sud, che sta molto a cuore a Tremonti ed è stata già approvata nell'ultimo Consiglio dei ministri.

Si tratta anche in questo caso di un semplice annuncio sotto forma di un disegno di legge che configura per ora uno scatolone vuoto, del quale non si conoscono neppure i proprietari, cioè gli azionisti. Uno scatolone consimile fu battezzato anche dal medesimo Tremonti nel 2003, ma dopo un paio di mesi la gestazione fu interrotta per procurato aborto: la proposta infatti fu ritirata. Accadrà così anche questa volta?
La proposta (e sembra paradossale ma non lo è) incontra l'opposizione dei ministri meridionali, delle regioni meridionali, e dell'opposizione. Il perché è facile da capire: si tratta d'una banca autorizzata a raccogliere fondi sul mercato usandoli per finanziare imprese nel Sud a tassi particolarmente allettanti per i debitori. Lo Stato si accollerebbe la differenza. Si creerebbe così un circuito creditizio virtuoso per chi riceverà quei prestiti, ma un circuito perverso per le imprese già operanti con tassi tre volte più alti dei clienti della Banca. Clienti è la parola giusta perché si tratterà di una vera e propria clientela facente capo al ministro dell'Economia, fondatore e protettore della Banca in questione.

Va detto che l'agevolazione sui prestiti dovrà preliminarmente ottenere l'ok della Commissione Europea e infine quella della Banca d'Italia, la quale non sembra entusiasta d'una Banca così concepita.
Accenno a qualche altro problema più che mai aperto nella politica economica. Ho parlato prima di una rivolta degli artigiani del Nordest e del disagio tra le molte imprese che operano in Brianza. Si tratta di elettori in gran parte del centrodestra, molti dei quali finora hanno spesso intonato con convinzione il ritornello "meno male che Silvio c'è". Non pare che siano ora così entusiasti. Lamentano soprattutto due cose: la mancanza d'una riduzione fiscale tante volte promessa e mai avvenuta e il tempo maledettamente lungo impiegato dalle pubbliche amministrazioni locali e centrali per pagare i debiti contratti con quelle imprese. Una volta si trattava di 30 giorni, poi di 60; adesso ne passano mediamente 130, cinque mesi, prima di incassare qualche spicciolo.

Per rimediare a questo tardivo spicciolame, cresce
vertiginosamente il numero di piccole imprese che imboccano la via del concordato.

Si parla di concordato quando un'azienda si trovi in una situazione di pre-fallimento. Invece di fallire propone un concordato ai creditori. Un tempo il concordato si faceva intorno al 50 per cento dei crediti. Coi tempi che corrono è sceso vertiginosamente: siamo in media intorno al 20 con punte al ribasso che arrivano fino al 7 per cento. I creditori, anziché perder tutto, accettano e l'impresa può riprendere il suo cammino con un vantaggio notevole rispetto ai concorrenti. Proprio per questa ragione sta aumentando il ritmo dei concordati e non è un bel vedere perché scarica sui creditori il peso dell'insolvenza debitoria. I creditori sono in gran parte banche e questo spiega perché il credito bancario si sta progressivamente restringendo e ancor più si restringerà.

Cito un episodio che tutti i giornali hanno pubblicato ma sul quale forse l'opinione pubblica non ha riflettuto abbastanza. Il governo ha concesso notevoli incentivi all'industria automobilistica, soprattutto per quanto riguarda la rottamazione di vecchi modelli e la fabbricazione di auto non inquinanti. L'industria dell'auto ne ha avuto un discreto sollievo ma Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha rivelato che finora (ed è passato quasi un anno) non ha ancora ricevuto un soldo ed ha provveduto finanziando a se stesso (cioè alla Fiat) gli incentivi e scrivendo sul bilancio un credito verso l'erario. Cioè: la Fiat ha chiesto alle banche di finanziarle un credito che lo Stato non ha ancora onorato. Vedete un po' a che punto siamo.

* * *

Ci vorrebbe un programma di "exit strategy" ma ci pensano in pochi sia in Italia sia in Europa. Trichet, presidente della Banca centrale europea, ci pensa e ne parla. Draghi ci pensa e ne parla. Monti ci pensa e ne parla. Bernanke, presidente della Fed americana, ci pensa e ne parla. E basta. Cioè: ci pensano e ne parlano le autorità monetarie e alcuni esperti informati in materia. I politici di governo annaspano.
La discussione verte su due modelli: un'uscita dalla crisi a forma di L oppure a forma di W. La prima ipotesi è che si fermi la caduta ma la ripresa sia molto lenta e si dilunghi tre o quattro anni. Il secondo modello è invece che vi sia una ripresa consistente ma di breve durata, cui seguirebbe una forte ricaduta e poi una nuova ripresa. La durata di questo secondo modello è di sei o sette anni.

L'economia italiana, che procede a bassa produttività, sarebbe in entrambi i casi tra le più sfavorite e lente a dispetto di quanto i due amici-nemici Berlusconi e Tremonti vanno predicando da anni e cioè che noi usciremo dalla crisi meglio di tutti gli altri.
Le politiche necessarie per accelerare senza ricadute la ripresa economica sono diverse tra gli Usa e l'Europa. Senza entrare in troppi dettagli, per l'Europa si consiglia una robusta detrazione fiscale in favore dei consumatori-lavoratori per rilanciare la domanda interna e, insieme, una serie di provvedimenti da trasformare in legge con esecutività postergata per ribassare in misura consistente il debito pubblico. In alternativa un'imposta pro tempore sui patrimoni al di sopra di un limite, con applicazione per due-tre anni al massimo. Oppure un contenimento della spesa corrente che negli ultimi due anni non c'è stato affatto facendola lievitare di ben 35 miliardi.

Questo sì, è un dibattito serio. Il resto sono chiacchiere e annunci sgangherati, sempre più percepiti come bubbole per guadagnar tempo prima di far le valigie e andarsene.

* * *

Non posso chiudere questo mio "domenicale" senza ricordare che mentre leggete questo giornale si stanno svolgendo le primarie del Partito democratico per l'elezione del segretario nazionale e dell'Assemblea.
L'appuntamento è importante e interessa non solo il Pd ma tutta l'opposizione. Seguirò anzi il suggerimento datoci ieri da Andrea Manzella, di scrivere Opposizione, con la maiuscola perché la prova di forza dell'affluenza può anzi dovrebbe interessare l'Opposizione nella sua totalità e non soltanto gli iscritti a quel partito.

Le primarie del Pd offrono infatti all'Opposizione una piattaforma organizzativa. Sento parlare di sondaggi di un milione e mezzo o due milioni di votanti. Secondo me non sono sufficienti. Ce ne vogliono almeno tre milioni e questa sì, sarebbe una prova di forza ben riuscita.
Oggi l'Opposizione si può materializzare con tutta la forza che possiede purché superi indifferenza e scetticismo. Mi auguro che ciò avvenga per la salute della democrazia italiana.

© Riproduzione riservata (25 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La preghiera del cardinale e quella di un laico
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2009, 10:29:31 am
L'EDITORIALE

La preghiera del cardinale e quella di un laico

di EUGENIO SCALFARI



Sento viva gratitudine per il cardinale Carlo Maria Martini, per i suoi pensieri, per l'esempio che dà ed anche per l'amicizia che mi ha dimostrato. Infine per l'ultimo suo libro, "Meditazioni sulla preghiera" che tra pochi giorni sarà nelle librerie e di cui l'editore Mondadori ci ha autorizzato a pubblicare un'anticipazione, uscita ieri sul nostro giornale.
Stavo cercando un argomento del quale scrivere per i miei lettori della domenica e i pensieri mi si arruffavano mentre mi cresceva dentro un forte disagio. Il caso Marrazzo? L'omicidio dello sventurato Stefano Cucchi, ucciso a bastonate mentre era affidato ai carabinieri e alla polizia penitenziaria? Lo spettro della disoccupazione che avanza in Europa e nel mondo? La possibilità che D'Alema sia nominato ministro degli Esteri dell'Unione europea e Tremonti presidente dell'Eurogruppo oppure che entrambi restino dove sono? Infine lo stato miserevole della seconda Repubblica, avviata ormai verso un'agonia dalla quale difficilmente potrà salvarsi?

Mi sentivo stanco di visitare e rivisitare problemi importanti ma ripetitivi, che per di più dimostrano un tale stato di degradazione da esser diventati ripugnanti per ragioni estetiche prima che ancora morali e politiche. Sicché mi sono assai confortato leggendo la prosa del cardinale. Ho pensato di cogliere l'occasione che il suo scritto mi offriva e intervenire anch'io sullo stesso argomento.
Penso che i miei lettori ne saranno contenti.

Il tema del cardinale riguarda la preghiera dei vecchi. Detto in altro modo - e lui stesso ne fa menzione - si tratta d'una meditazione sulla morte da parte di chi, pur in buona salute, la vede approssimarsi incalzata dal calendario.

Martini è profondamente religioso, ad un punto tale da potere e volere colloquiare anche con i non credenti e mettere in comune esperienze così disparate. Io sono per l'appunto uno di quelli e meditare assieme a lui mi ha dato grandissima pace tutte le volte che tra noi è accaduto. Gli anni continuano a passare e l'esperienza di quei pensieri aumenta. Ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito. Si assiste, sempre più dolenti e partecipi, alla scomparsa di tanti amici. Ci si allontana dal mondo e lo si vede più distintamente: la vista migliora con la lontananza; lo diceva Goethe e lo disse prima di lui Montaigne.
Perciò può essere utile a noi stessi e a tutte le persone consapevoli meditare insieme su un tema così presente alla coscienza. La morte, diceva Montaigne con il suo sobrio linguaggio, è il fatto più rimarchevole della nostra vita. Bisogna pregare. Bisogna pensare.

Il cardinale cita Qoelet in uno splendido suo passo pieno di sapienza e di bellezza poetica. Io citerò ancora l'autore degli "Essais" quando diceva che bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell'epoca sua portavano il falcone sulla spalla per abituare se stessi e l'uccello cacciatore a vivere insieme e prender dimestichezza l'uno dell'altro.
Chi non crede in un altro mondo sa che in quel certo momento tutto si concluderà; non teme l'inferno e non spera in un paradiso. Non si aspetta premi né castighi. La preghiera non saprebbe a chi rivolgerla. Può solo augurarsi d'esser ricordato da chi lo ha amato: una sopravvivenza breve, che avrà se se lo sarà meritato.
Sa anche, chi non crede, che la vita è priva di senso se il senso consiste nell'avere un fine che sorpassa il nostro transito terreno. E dunque: una vita che non ha ulteriore sopravvivenza e naturalmente senza senso alcuno perché capricciosamente finisce lasciando una traccia che si cancellerà nel giro di pochi mesi o di qualche anno in memorie altrimenti affaccendate: ebbene una vita così desertificata di infinità dovrebbe essere disperata nel veder avanzare la Donna oscura che verrà a prendersela.
Può esser serena, pacificata, confortata, una vita priva di fede? Avrà avuto un senso? Quale?

* * *

"Laudato sì mi Signore / per sora nostra Morte corporale" scrisse Francesco nel suo Cantico. Socrate, mentre sentiva che il gelo della cicuta gli stava salendo dalle gambe al cuore, disse ai suoi allievi di sacrificare un gallo ad Esculapio perché così voleva il rito, e si coprì la testa con un lembo del mantello. Pascal morì sognando d'essere in comune con i poveri e i derelitti. Rilke, in una pagina terribilmente splendida dei suoi "Quaderni" racconta la morte di suo nonno, il Ciambellano. La Morte gridò per otto settimane dentro quel corpo, ma non era lui che gridava, era la Morte finché non uscì fuori da lui. Benedetto Croce morì leggendo e leggeva sapendo che Lei stava arrivando.

Si può anche esser disperati con la fede nel cuore e non esserlo senza alcuna fede, con il falcone sulla spalla che ti è diventato amico.

* * *

Io sento da tempo che noi, come tutte le specie e gli individui viventi che le compongono, siamo forme che la natura incessantemente crea e disfa per far posto ad altre. Senza alcun disegno che non sia la vita.
È legge di ogni forma di realizzare al massimo le capacità di cui dispone. Le forme viventi non sono mai statiche ma dinamiche e ciò è vero perfino nelle forme apparentemente non viventi, è vero per gli atomi e per le particelle elementari della meccanica quantistica. È vero per ogni energia perché ogni energia è dinamica.
Non si tratta di fede ma di scienza sperimentale.
Il senso sta in questo, sta in un eterno divenire. Ogni forma ha la propria legge e diviene secondo quella legge. Noi, nella nostra forma umana, siamo animati dal sentimento dell'amore, dal desiderio del potere e dalla coscienza morale. Le nostre vite individuali combinano come possono e sanno questi elementi e questo è il senso del nostro vissuto, queste sono le stelle che orientano il nostro viaggio. Non dico viaggio terreno ma soltanto viaggio perché non ne conosciamo altri. Possiamo certamente immaginarli se ci consola immaginarli.

* * *

La vecchiaia restringe la nostra vitalità, limita le capacità del corpo e concentra quelle delle mente.
In alcuni il desiderio del potere soverchia gli altri. È patetico vedere come alcuni vecchi restino aggrappati al potere, la loro zattera di salvataggio che non li porterà ad alcuna salvezza, la loro rabbia nel vederselo strappato brano a brano, la solitudine del loro io denudato giorno per giorno dagli orpelli dei quali l'avevano rivestito.

Altri si effondono nell'amore. Non dico nell'erotismo, dico amore. Amore per gli altri e per quelli a loro più prossimi, quelli dai quali hanno ricevuto amore e ai quali l'hanno restituito.
Quando questo avviene, l'io non è solo, non è denudato, non è disperato, anzi è più ampio e più ricco. Non ha nessun bisogno di chiamarsi e di sentirsi io ma si sente noi e quella è la sua ricchezza.
Oggi è il giorno di tutti i santi, ma non ci sono santi laici, ci sono soltanto anime amorose che lasciano lungo la strada il pomposo mantello dell'egoismo e indossano quello della compassione con il quale ricoprono sé e gli altri.

Lei, carissimo cardinale Martini, ha un amplissimo mantello di compassione, di passione per gli altri. Col suo mantello ricopre anche me talvolta come il mio può ricoprire anche lei. Per questo la Nera Signora non ci spaventa. È per questo sia lei che io sentiamo nel cuore il messaggio che incita all'amore del prossimo. A lei lo invia il suo Dio e il Cristo che si è incarnato; a me lo manda Gesù, nato a Nazareth o non importa dove, uomo tra gli uomini, nel quale l'amore prevalse sul potere.

© Riproduzione riservata (1 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'indisponibile
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:14:15 am
L'indisponibile

di Eugenio Scalfari


Il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, pretende che nella scuola pubblica venga insegnata solo la religione cattolica  Il cardinale BagnascoDomenica 18 ottobre il cardinale Angelo Bagnasco ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera'. Ampia. Mite. Ecumenica (nel senso che apre le braccia a tutti). Zuccherosa (nel senso che a tutti vuol bene). Del resto la Chiesa cattolica ha sempre voluto apparire così; anche se non lo è stata quasi mai. Ha sempre desiderato effondere odori di giglio. Di camomilla. Di valeriana, di tisane alla verbena. I grandi Papi no: parlavano come parlano i sovrani e sa Dio se lo erano, signori dello spirito e dei corpi, inalberando lo stemma delle chiavi che aprono le porte del Cielo e quelle della terra.

Era questo il tono del loro linguaggio. Incenerivano gli avversari, scomunicavano i nemici, capitanavano crociate, combattevano guerre e non soltanto di religione ma di potere. Così furono i Papi che la storia ricorda, da Gregorio Magno a Ildebrando di Soana (Gregorio VII), da Bonifacio VIII a tre Innocenzi (I, II e III) e poi il papa Borgia, il papa della Rovere, i due papi Medici, il papa della famiglia Borghese, il papa Farnese, il papa Barberini e via via lungo i secoli e attraverso gli scismi, le eresie, le guerre di religione, i roghi dell'Inquisizione.

Certo la Chiesa non è stata soltanto questo. La Chiesa cattolica è stata ed è un deposito millenario di valori morali, di slanci mistici, di ascesi, di fede, di esempi altissimi di fratellanza, di carità e di educazione. Ma questo deposito di valori religiosi è penetrato di rado nella cerchia della Gerarchia. I testimoni della fede e della carità sono sempre stati minoranza, spesso usata per riscattare e nascondere la vocazione temporalistica della Gerarchia e ancor più spesso tollerata con fastidio o addirittura repressa. La storia di Francesco di Assisi è molto eloquente da questo punto di vista e altrettanto lo è quella di
Gioacchino da Fiore e quella di Valdo, a finire in tempi nostri con la repressione dei modernisti e la loro scacciata dalle Università e dalle scuole, auspice il governo fascista che chiedeva in cambio la legittimazione del Vaticano.

Mi domando se l'educazione religiosa che viene impartita nelle scuole pubbliche dagli insegnanti indicati dalle diocesi contempli anche la storia della Chiesa, ma la mia è una domanda retorica: la storia della religione non c'è nell'ora di religione, ma non c'è neppure, se non per accenni, nell'insegnamento della storia. I diplomati delle scuole superiori ignorano che lo Stato pontificio ha avuto fino al 1870 la pena di morte ed ha rappresentato per secoli uno degli ostacoli maggiori alla creazione dello Stato unitario in Italia.

Ricordo queste verità per sottolineare che il popolo di Dio è una cosa, i ministri del culto e delle anime un'altra e i membri della Gerarchia un'altra ancora. I Papi poi rappresentano un fenomeno a se stante. Ce ne sono stati di grandissimi, di mediocri, di viziosi, di esemplari. Direi che gli ultimi esemplari sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI, Papa Wojtyla. Quello attuale è un modesto teologo che fa rimpiangere i suoi predecessori.

Il cardinal Bagnasco riflette purtroppo l'aura untuosa che si respira nella Chiesa italiana, nelle sue gerarchie diocesane e in quelle curiali. Riflette anche le lotte di potere in corso in vista di future collocazioni. Sono tanti i temi sui quali la Gerarchia e la Curia sono diverse e se ne ha l'esempio più recente nella proposta lanciata pochi giorni fa da un esponente del governo dell'area vicina a Gianfranco Fini sull'istituzione di un'ora di religione islamica. Le reazioni della Chiesa vanno da chi ha accolto la proposta con grande favore, a chi l'ha dichiarata possibile soltanto in un lontano futuro, a chi - come appunto Bagnasco - l'ha giudicata inaccettabile.

Ma le stesse diversità si sono avute su problemi ancora più avvertiti dalla nostra sensibilità di cittadini italiani. Per esempio nella vasta zona dei problemi bioetici, sulla fecondazione assistita, sul testamento biologico.

Bagnasco sostiene che la Chiesa desidera soltanto di aver libertà di parola ma non vuole imporre niente a nessuno. Forse non ricorda che la Gerarchia ed anche la Conferenza episcopale da lui ora presieduta, lanciano veri e propri 'ukase' verso i parlamentari cattolici ingiungendo di comportarsi così come i vescovi e la Curia vogliono e dichiarando alcune di quelle materie 'indisponibili'. Converrà il cardinal Bagnasco che l'indisponibilità di una materia equivale e reclama un'obbedienza che si definisce 'perinde ac cadaver' e che va molto al di là della presenza della religione nello spazio pubblico. Ma un altro esempio di incoerenza sta nella pretesa che nella scuola pubblica venga insegnata soltanto la religione cattolica. La Chiesa considera la libertà religiosa come un principio basilare della convivenza civile. I laici, in tutto il mondo, la pensano allo stesso modo; pensano addirittura che la libertà religiosa sia la madre di tutte le libertà. Ma si dà il caso che la libertà religiosa valga in tutto l'Occidente salvo che in Italia, giardino del Papa.

Dovrei porre al cardinal Bagnasco la domanda del perché di questa profonda diversità. Lo chiesi tempo fa al cardinal Martini, ma lui, come Bagnasco sa, la pensa in modo radicalmente diverso da ciò che pensa la Gerarchia. Rappresenta quella Chiesa che la Gerarchia tollera con fastidio. Esiste infatti un'insuperabile discrasia tra la guida di un'organizzazione di potere e chi si preoccupa soltanto della cura delle anime. Questa discrasia non potrà mai essere risolta e la storia e la predicazione di Gesù di Nazareth ne danno ampia dimostrazione.

(22 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La caduta del muro nell'Italia di Berlusconi
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2009, 05:32:29 pm
La caduta del muro nell'Italia di Berlusconi


di EUGENIO SCALFARI

RICORRE domani l'anniversario della caduta del Muro di Berlino. La fine della guerra fredda. Sono passati vent'anni e sembra un secolo. È cambiata l'Europa, è cambiato il mondo ed è cambiata l'Italia. Forse è proprio l'Italia ad aver registrato un cambiamento maggiore che non gli altri paesi.

Spesso ci sorprendiamo a dire che, al di là delle apparenze, i problemi che affliggono il nostro paese sono sempre gli stessi. Ed è vero, ma è altrettanto vero che la società del nostro paese è profondamente diversa da quella del 1989. Il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità.

Su questo aspetto è necessario riflettere perché coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l'assetto delle famiglie, la politica, la democrazia. Vent'anni fa il potere si identificava con la Dc di Giulio Andreotti e il contropotere antagonista con il Partito comunista italiano. Oggi il potere è Silvio Berlusconi, e il contropotere è disperso, cerca di ricompattarsi ma non ci riesce. Ha scritto ieri Gustavo Zagrebelsky che la difficoltà va ricercata nella società civile perché sia il potere sia il contropotere emanano dal fondo del paese; non sono fenomeni che galleggiano nel vuoto, effetti privi di cause. Non si manterrebbero neppure un mese se la società esprimesse il proprio dissenso e il proprio malcontento. Se ciò non avviene, è dunque nella società civile che bisogna fissare lo sguardo.
Chiedersi che cosa è accaduto dalla caduta del Muro in poi, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fatto più rilevante prodotto dalla caduta del Muro è stato la fine delle ideologie. Tutti si rallegrarono, sembrò qualcosa di simile alla rottura di un cordone ombelicale, un'immensa svolta di libertà, il passaggio dalla società dell'infanzia sottoposta a ferrea tutela ad una fase finalmente adulta di consapevolezza e di responsabilità.

Era questo il mutamento? Così fu festeggiato, non soltanto dai berlinesi e dalla Germania finalmente unificata, ma dal mondo intero.

In Italia vi fu un'analoga percezione. Dopo una lunga fase di politica ingessata con le bende dell'ideologia, si era finalmente liberi di decidere con la propria testa facendo saltare i castelli di carta, le "caste", i luoghi comuni degli spot e degli slogan. Contenuti invece di propaganda, problemi e programmi concreti invece di fittizie barriere e sterili contrapposizioni.

Il potere si spaventò: si liquefaceva il cemento che aveva tenuto insieme sensibilità e interessi contrastanti. Il contropotere ebbe analoga percezione: il crollo del Muro aveva sancito la sconfitta definitiva del comunismo e l'implosione del sistema imperiale dell'Urss. Achille Occhetto, allora segretario del Pci, proclamò la fine del Partito comunista e l'approdo sulla sponda democratica concludendo così la lunga e decennale marcia di avvicinamento iniziata da Enrico Berlinguer.

Niente più ideologie e finalmente una democrazia compiuta. Nel resto d'Europa non vi furono, almeno in apparenza, fatti così traumatici. Quasi in nessuna delle grandi democrazie esistevano partiti comunisti di massa. In alcuni non ce ne era neanche l'ombra. Al di là delle apparenze tuttavia, i mutamenti furono altrettanto profondi. Per tutta la seconda metà del XX secolo infatti la politica aveva adottato sistemi di liberaldemocrazia sociale e mercati economici liberi ma regolati da norme, meccanismi di redistribuzione del reddito in favore dei ceti più deboli, interventi pubblici nella sanità e nella previdenza. Fu una grande stagione di liberal-socialismo, seguita ad una guerra rovinosa cui subentrò un sentimento di pacifismo largamente diffuso.

La caduta del Muro sancì la sconfitta storica del comunismo e liberò energie insofferenti di ogni regola, anche di quelle che presidiavano lo Stato sociale. L'implosione del comunismo produsse effetti anche sui partiti socialisti e socialdemocratici. Il pendolo non si arrestò a mezza strada. Non ci furono traumi, ma una graduale erosione della sinistra europea che durò a lungo ed è infine esplosa in tutta Europa.

* * *

In Italia il trauma della caduta del Muro ebbe come suo primo effetto una ribellione della società civile contro la corruttela che nel corso degli anni Ottanta era diventata sistema di governo decaduto al rango di comitato d'affari della partitocrazia. L'inchiesta giudiziaria che fu poi denominata "Mani Pulite" contro la "Tangentopoli" della casta al potere era stata preceduta da una sorta di furore che mobilitò per la prima volta non solo la sinistra ma gran parte dei ceti medi. Non era mai accaduto, il vincolo della guerra fredda imponeva che gli steccati ideologici venissero scavalcati e che si formasse una sola opinione pubblica.

Senza questo vero e proprio trauma, l'inchiesta giudiziaria del 1992 non sarebbe avvenuta e comunque non avrebbe avuto l'appoggio trascinante che si verificò. Sbaglia chi oggi sostiene che le forze politiche di governo furono decapitate dai magistrati "rossi": Borrelli era un liberale, Di Pietro e Davigo più di destra che di sinistra; gli altri membri del "pool" si identificavano soprattutto con il loro ruolo di magistrati e non hanno mai smentito con i fatti questa loro lodevole identificazione.

Il furore popolare durò fino al '93, poi sbollì con la stessa rapidità con la quale si era manifestato. E rifluì.
Il grande e sempre più indistinto ceto medio di vocazione moderata era stato il vero protagonista della distruzione dei partiti di governo. Aspirava ad una rappresentanza politica e ad una partecipazione diretta. La classe operaia si era sfaldata, un ceto di artigiani, piccoli e piccolissimi imprenditori-lavoratori aveva popolato di officine e capannoni la larga fascia che da Brescia si irradia verso Treviso da un lato e la Romagna e le Marche dall'altro.

Milioni di persone non avevano altro desiderio che di abbattere i famosi "lacci e laccioli", cioè le regole che presidiavano il corretto funzionamento del mercato, e di poter correre, anzi galoppare in una sterminata prateria dove mettere alla prova le loro capacità di iniziativa e di laboriosità. Magari aiutandosi anche con il lavoro nero e con l'evasione fiscale contro le dissipazioni di "Roma ladrona".

La Lega lavorò su questo tessuto sociale. Berlusconi lo amplificò su scala nazionale. Tutti e due ci misero dentro una robusta dose di paura per la sicurezza personale e fu questo il cocktail micidiale che fece oscillare il pendolo politico dal furore moralistico dei primi anni Novanta verso la destra. Ma quale destra?
Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo movimento che vide in Berlusconi l'Uomo della Provvidenza. Dico soltanto che nel frattempo la percezione della felicità era profondamente cambiata: si vive attimo per attimo e in ogni istante si può e si deve spremere il succo di una felicità da godere qui e subito. La trasmissione della memoria si è bloccata. Il futuro è sulle ginocchia di un Dio, dovunque si trovi e ammesso che ci sia. Si confida comunque nei miracoli e meno male che Silvio c'è.

Fino a poco fa eravamo a questo punto.

* * *

Nel frattempo il vecchio Partito comunista aveva buttato alle ortiche il suo nome ma non si era sciolto per rifondarsi eventualmente su nuove basi ideali e sociali. Aveva cercato di preservare le proprie strutture, la propria classe dirigente, i propri insediamenti organizzativi. Perdendo per strada la parte ancora fortemente ideologizzata che non aveva digerito il contraccolpo della Bolognina. Guidato da D'Alema, poi da Veltroni, poi da Fassino. E fu proprio Fassino a mettere la parola fine, quella veramente definitiva, fondando il Partito democratico insieme ai cattolici e ai liberaldemocratici della Margherita.

Questa è stata la novità prodotta dall'Italia non berlusconiana. In mezzo a molti errori e a deplorevoli rivalità, la nascita di un partito democratico e riformista è stato il principale strumento d'una possibile ripresa quando il grosso della società civile deciderà che la strada del berlusconismo sta per sboccare in una rischiosissima avventura.

* * *

"Di fronte al fantasma che si aggira per l'Italia in queste ultime settimane, cioè alla proposta di un'elezione popolare diretta del Primo Ministro o del Capo dello Stato, non mi spavento ma mantengo tutte le gravi obiezioni che ho già altre volte espresso nei confronti di ogni forma di presidenzialismo. Non è certo un modo comprensibile alla gente, il parlare, un giorno dopo l'altro, in forme confuse e contorte, di vari presidenzialismi più o meno importati, dei quali anche coloro che le propugnano non hanno manifestamente conoscenza adeguata e meditata.

Credo inoltre che far ruotare per intere settimane una crisi politica intorno a problemi costituzionali sia pure urgenti, equivalga ad una contorsione violenta della soluzione politica di problemi attualissimi e preliminari. Essi sono: l'avvio più deciso del risanamento delle finanze pubbliche, la crescente emergenza disoccupazionale, soprattutto giovanile, la soluzione dei nodi vitali del Meridione, le regole per una disciplina antitrust e quelle per un'informazione pubblica oggettiva e paritaria.

Questo 'urgente più urgente' sembra essere ignoto o comunque del tutto posposto dai principali protagonisti di questa crisi politica che sembrano altrettante maschere tragiche di questa assurda vicenda".

Questo testo non è mio né è stato scritto oggi. L'autore è Giuseppe Dossetti e la data è il 2 febbraio 1996, vigilia d'una campagna elettorale che portò il centrosinistra di Romano Prodi alla guida del Paese. Il berlusconismo non era ancora nella sua pienezza tant'è che fu sconfitto, ma aveva già conquistato una parte notevole della società italiana come si vide pochi anni dopo quando Prodi fu abbattuto anzitempo da "fuoco amico".

Richiamo l'attenzione di chi mi legge sulle parole di Dossetti. Il presidenzialismo può essere uno dei modi della democrazia se rispetta ed anzi rafforza i poteri di controllo, i poteri di garanzia, i poteri neutri e insomma lo Stato di diritto; ma può esserne la tomba se si propone come unico potere autoritario e plebiscitario.

A questo sta mirando il presidente del Consiglio, che comincerà tra breve con una riforma della giustizia con due obiettivi: bloccare i processi che lo riguardano e smantellare il Consiglio superiore della magistratura. Intanto prosegue lo smantellamento di ogni pluralismo nella Televisione pubblica.

Seguirà il tentativo di cambiare la composizione della Corte Costituzionale per renderla più arrendevole al potere politico. Sarà infine la volta di un mutamento radicale della Costituzione con l'elezione diretta del Capo dell'Esecutivo, quando già i poteri di controllo e di garanzia saranno stati resi evanescenti.

Questa è la situazione in cui ci troviamo vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie. Sono cadute tutte ma una ne è rimasta ed è molto più ingigantita: è l'ideologia del potere per il potere, il potere intoccabile e incontrastato, una sorta di Leviatano del XXI secolo che ha nelle sue mani le tecnologie del XXI secolo: un altro cocktail micidiale. Perciò è l'ora di serrare i ranghi e non sparpagliarsi. Ed è ora che la società civile prenda coscienza di quanto accade e assuma su di sé la responsabilità di metter fine a questa sciagurata avventura.


© Riproduzione riservata (8 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel filo che lega il nord al sud
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 03:08:24 pm
Quel filo che lega il nord al sud

di Eugenio Scalfari


I piemontesi uccisero migliaia di giovani in Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata.
Ma la conquista militare fu portatrice anche di un ideale di nazione e di riscatto sociale
 
Per l'ennesima volta si è riaperta la discussione, ma vorrei dire la diatriba, sull'unità d'Italia, cioè sull'annessione (militare) del Sud al Nord, insomma sul Risorgimento. Antica diatriba. Alimentata dall'antica ostilità della cultura cattolica dell'epoca del temporalismo religioso, poi superata dal costituzionalismo di Dossetti e dal liberalismo cattolico di De Gasperi, dall'antica dissidenza del comunismo gramsciano, poi superata dalla mitologia dell'alleanza classista tra operai del Nord e contadini del Sud. Dal leghismo di Bossi, non superato e anzi rinforzato dal nordismo berlusconiano. Dal revisionismo antigaribaldino e antimazziniano dei neoconservatori che hanno teorizzato e mitizzato la storia dei vinti.

Con questi precedenti e in presenza delle varie e tutte riduttrici e negazioniste interpretazioni del Risorgimento, si è riaperta la diatriba, resa attuale dall'imminente celebrazione dei 150 anni dell'Unità, patrocinata dal Quirinale da un lato e dai neo-federalisti della Lega dall'opposta sponda.
Questi ultimi hanno rimesso sul tavolo l'accusa della conquista miliare e delle migliaia di giovani uccisi dalle truppe piemontesi in Sicilia, in Calabria, in Basilicata e in Puglia per il solo motivo di cospirare e insorgere contro lo Stato nato da annessioni plebiscitarie e quindi democraticamente sospettabile.

Negare i fatti è impossibile: quelle esecuzioni sommarie ci furono. Il loro numero è controverso, ma ci furono e furono molte. Opporre ad esse le esecuzioni ancor più sommarie e raccapriccianti effettuate dalle bande contadine ribelli, serve a poco perché diversa è l'irresponsabilità dei ribelli di fronte a stragi di Stato eseguite per ordini superiori. In effetti non si trattò d'una semplice operazione di polizia ma d'una vera guerra civile che durò quasi dieci anni e insanguinò tutto il
Mezzogiorno. Ufficialmente le fu dato il nome di guerra contro il brigantaggio e tale fu perché i briganti ne furono il motore propulsivo, ma in quelle bande c'era anche l'ispirazione e la militanza sanfedista e l'omertà contadina che temeva e odiava il latifondo dei signori e il loro diritto di "bassa giustizia" legalmente esercitato e ampiamente tollerato dall'amministrazione del nuovo Stato unitario.

Questi i dati di fatto, ai quali però occorre aggiungere un paio di premesse prima di passare al merito, cioè al nucleo politico e sociale della discussione. La prima osservazione riguarda l'atteggiamento delle plebi urbane e specialmente napoletane, che emerse sempre allo stesso modo e con gli stessi connotati in quel lungo arco di anni che va dal 1798 al 1867, settant'anni di cronaca e di storia.

Abbiamo detto plebi perché di plebi, di 'lazzari' si trattava; senza alcuna sensibilità politica e civile, senza alcun addestramento professionale e culturale. Seguivano di volta in volta i demagoghi che scaturivano dal ventre profondo della ribellione contro l'ordine costituito (quale che fosse la sua natura e la sua legittimazione); seguivano il loro desiderio di saccheggio, di vendetta per le numerose umiliazioni subite, la loro rabbia contro la sbirraglia, le voglie di regolare i conti privati nel tumulto delle sommosse.

Queste erano le plebi urbane. Furono con i francesi nel '97, contro di loro nel '98, contro il re quando era in fuga, contro i giacobini quando tornò la flotta di Nelson. In tre anni cambiarono fronte tre volte insanguinando la città e mettendola a sacco. E così continuarono dopo il ritorno della monarchia, convertendosi al garibaldinismo nei pochi mesi del suo trionfo.
Le plebi urbane erano lo specchio ingrandito delle plebi contadine dei paesi e dei villaggi. E i signori che le vessavano in modi inumani erano della stessa infima qualità. Sicché prosperava il brigantaggio, il sanfedismo, il trombone, il pugnale, l'usura e la prima semente di mafia e camorra.

Il Mezzogiorno era tutto così e soltanto così? No. Minoranze di alto livello e punti di eccellenza, come oggi si direbbe, non mancarono. Ma erano, appunto, minoranze senza collegamenti tra loro, scuole private, piccole cerchie costrette alla cospirazione e spesso imprigionate e condannate a pene durissime. Oppure emigrate a Torino, in Svizzera, a Londra.

Questa era la situazione del Mezzogiorno. Ci fu una possibilità o meglio un'ipotesi di sbocco politico con Murat, prima e immediatamente dopo il naufragio dell'impero napoleonico. Un'altra - quanto mai effimera - nel '48. Un'altra ancora nel '60 e fu l'unica che ebbe uno sbocco politico. Purtroppo l'inadeguatezza garibaldina rese impossibile una soluzione democratica della crisi e aprì la strada alla conquista militare con tutto ciò che derivò da essa.

Tuttavia - e qui siamo al nocciolo della questione - la conquista militare fu portatrice anche di un ideale di nazione e di riscatto sociale. Se vogliamo un confronto storico - con tutte le riserve che esso richiede, ma utile comunque alla miglior comprensione dei fatti e della loro dinamica - pensiamo alla guerra di secessione americana, alle stragi che comportò, all'affarismo e alle vendette private che l'accompagnarono e infine al solco che segnò tra gli Stati del Sud e l'Unione. Il razzismo ne fu una delle conseguenze più drammatiche. Ma è anche vero che da quella guerra ebbe inizio l'esistenza degli Stati Uniti d'America come soggetto di politica interna ed internazionale. Certo in America non esisteva il problema del potere temporale della Chiesa, aggravante tutt'altro che marginale della situazione italiana.

Il risorgimento non è stato e non deve essere un'agiografia e tantomeno una olografia. Ma il legno storto con il quale l'Italia fu costruita era pur sempre la sola materia prima disponibile. Del resto usare il legno storto è stata storia comune di tutta l'umanità socievole e sociale. Il perfezionismo coincide con l'utopia; può servire come modello di riferimento e aspirazione purché sia chiaro che non si raddrizzano le zampe dei cani e non si accorciano i colli delle giraffe.

(05 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Silvio c'è, ma lavora solo per sé, non per voi
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:38:34 am
POLITICA

       
Silvio c'è, ma lavora solo per sé, non per voi


di EUGENIO SCALFARI

Domenica scorsa, cogliendo l'occasione offerta dalla celebrazione della caduta del Muro di Berlino, mi sono chiesto se nei vent'anni successivi fosse cambiata la percezione della felicità, individuale e collettiva. Ed ho risposto che sì, la percezione della felicità è da allora molto cambiata. Non abbraccia più il futuro; si è ristretta al presente e dunque è molto più effimera di prima perché il presente è un punto estremamente fuggitivo, non è una linea che si proietti in avanti verso le generazioni successive alla nostra. Il concetto di felicità ha perso la sua dinamica. Questo mutamento ha prodotto effetti rilevanti nella politica e nell'economia. Gran parte della crisi mondiale si deve a questi effetti. In Italia è stato avvertito con maggiore intensità che altrove.

Il fenomeno Berlusconi si spiega anche come conseguenza del nuovo modo di concepire la felicità. Nello stesso senso si spiegano le difficoltà del presidente Obama sul tema della sanità: gran parte degli americani teme che quella riforma comporti pesanti gravami fiscali e si rifiuta di sopportarli; non vuole pagare oggi il costo d'una riforma che darà maggiore assistenza in futuro.

Esiste un nesso molto stretto tra la nuova legge "ad personam" che salverà il nostro presidente del Consiglio dai processi pendenti nei suoi confronti e la sua popolarità. Quella legge è percepita da una parte rilevante dell'opinione pubblica come un'evidente violazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La prova di quanto sia diffusa questa percezione sta nella immediata, straordinaria adesione popolare all'appello lanciato ieri su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al presidente del Consiglio di ritirare quella "norma del privilegio". E che sia tale, del resto, i sostenitori di quel provvedimento non ne fanno mistero. Lo stesso Berlusconi lo riconosce ed infatti esso è approdato in Parlamento come sostitutivo della legge Alfano che stabiliva la non processabilità del presidente del Consiglio.
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Gli italiani sono dunque consapevoli del privilegio - ingiusto come tutti i privilegi - che il premier otterrà dalla sua docile maggioranza parlamentare, ma gran parte di essi sembra comunque disposta a tollerare che quel salvacondotto divenga legge dello Stato. Si attende però una contropartita, si attende cioè di poter beneficiare del clima di lassismo morale che quel privilegio e la legge che lo sancisce estenderà a tutte le furberie, le elusioni, l'indebolimento delle regole o addirittura la loro eliminazione che contrassegnano il carattere nazionale. I condoni scaricano il peso sulle future generazioni ma alleviano chi vive nel presente. La legge che estingue i processi del premier e quelli similari al suo è una sorta di condono, una parziale amnistia e come tale è gradita.

Gli effetti moralmente perversi e le deformazioni che ne derivano riguardano il futuro, ma il futuro ha perso interesse di fronte ad un presente più facile, a regole sempre più esangui, a reati sordidi degradati al rango di peccati veniali.

Il presidente del Consiglio è intelligente, specie quando si tratta di tutelare i propri interessi. Se la legge che estingue i suoi processi gli procurasse un calo vistoso di popolarità, probabilmente non ne reclamerebbe l'approvazione. Probabilmente affronterebbe i processi sperando nell'abilità dei suoi avvocati. Ma pensa che lo smottamento della sua popolarità non ci sarà oppure sarà di modeste proporzioni e quindi va avanti, disposto se necessario ad appellarsi al popolo e voglioso di trasformare lo Stato repubblicano in un regime autoritario senza più ostacoli né controlli che tarpino le ali ai suoi desideri.

La potenza mediatica concentrata nelle sue mani gli consente inoltre di raccontare a proprio vantaggio una inesistente realtà, cancellando tutto ciò che possa ostacolare il processo di beatificazione della sua immagine. "Meno male che Silvio c'è" intonano i devoti.
Senza di lui - così raccontano i nove decimi dei mezzi di comunicazione - le catastrofi si accumulerebbero. Quelle che avvengono e che sono innegabili derivano da fattori esterni o dall'odio delle opposizioni che gli impediscono di lavorare.

Nonostante tali ostacoli tuttavia, il governo ed il suo Capo lavorano e sostengono una situazione che senza di loro diventerebbe disperata. E qui comincia l'elenco dei risultati miracolosi già realizzati e quelli ancor più mirabili che stanno per avvenire. Volete bloccare tutto ciò? Tutti questi fatti mirabili che vi consoleranno nei prossimi mesi delle vostre attuali afflizioni?

* * *

Questa è dunque la partita in corso tra il premier e chi gli si oppone. Non sto a ripetere le caratteristiche che rendono inaccettabile l'ennesima legge "ad personam", l'inverecondo salvacondotto che il potente imputato reclama. Ne accennerò soltanto alcuni.

Primo: le leggi che cambiano le procedure giudiziarie non sono mai retroattive, riguardano i nuovi processi e non quelli in corso. Quando le loro disposizioni sono più favorevoli per gli imputati, quelli dei processi in corso possono chiederne l'applicazione che viene decisa dal giudice. Nel nostro caso invece la retroattività è disposta dalla legge.

Secondo: l'elenco dei reati esclusi dal processo breve contiene casi incongrui e stridenti rispetto all'ordinamento. Si include nel processo breve la corruzione e la concussione, ma si esclude invece il furto e il reato di clandestinità per il quale la pena edittale prevede una semplice contravvenzione. Sono soltanto due esempi, ma molti altri ce ne sono e certamente emergeranno durante l'iter parlamentare.
Terzo: cadranno in prescrizione decine di migliaia di processi alcuni dei quali molto gravi, lasciando senza giustizia le parti offese e "graziando" fior di mascalzoni.
Quarto: il processo breve è riservato agli imputati in primo grado di giurisdizione e non riguarda per ora quelli del secondo e del terzo grado.

Esistono insomma ragioni plurime di discriminazione e altrettanto plurimi motivi di incostituzionalità. Vedrà il presidente della Repubblica se - a legge approvata - quei motivi risulteranno manifestamente fondati oppure saranno rimessi al vaglio della Corte costituzionale. Ricordo soltanto che la legge Alfano è stata cancellata dalla Corte perché discriminava. Quali che siano stati gli artifici dell'avvocato Ghedini, questa legge è altrettanto discriminatoria e "personale", con la differenza aggravante di recare vistosi danni all'ordinamento che invece non era toccato dalla legge Alfano. Insomma una pezza a colore che rende il buco ancor più evidente.

* * *

Veniamo ai supposti benefici che questo governo avrebbe procurato al Paese e ai cittadini che lo abitano.

I rifiuti sgombrati da Napoli. È vero. Purtroppo altrettanti rifiuti stanno sommergendo Palermo ma di questi si parla pochissimo perché il Capo non gradisce.
Le case ricostruite a L'Aquila e in Abruzzo. È parzialmente vero. Le casette pagate dalla Croce Rossa e dalla Provincia di Trento sono in avanzata messa in luogo.

Tardano gli altri manufatti e tarda la ricostruzione del centro storico.

L'inverno è cominciato e sono ancora migliaia i terremotati ospitati nelle tende con gravi disagi.
La sicurezza dei cittadini non è affatto migliorata. Forse era stata percepita al di sopra delle realtà, ma questa iperpercezione sta ora confrontandosi con una situazione concreta che non è particolarmente tranquillizzante. Alcuni reati sono in diminuzione, altri ancor più odiosi sono in aumento. Tra questi la caccia agli omosessuali e gli stupri stanno creando serissimi problemi.

Il flop delle ronde civiche è sotto gli occhi di tutti.
Altrettanto lo è la situazione miserevole della polizia di Stato, scarsa di mezzi e di personale.

La politica del Mezzogiorno è a dir poco latitante. Un terzo del paese è abbandonato a se stesso. Le differenze di reddito con il Nord sono aumentate. Le forze della camorra e della 'ndrangheta non danno segni di indebolirsi malgrado arresti e retate delle Forze dell'ordine perché ad ogni arrestato ci sono altre nuove reclute e nuovi capi.

Il federalismo è ancora un guscio vuoto del quale si ignorano i costi e i benefici.

I treni dei pendolari continuano ad essere uno scandalo nazionale.

La messa in sicurezza di paesi e città costruiti a ridosso di colline e monti franosi non fa un solo passo avanti: gli enti locali e la Protezione civile si palleggiano competenze e responsabilità ma non ci sono fondi per gli interventi o sono destinati ad altri usi. Perciò si continua a morire di morte annunciata.
Egualmente di morte annunciata si continua a morire per incidenti sul lavoro.

Egualmente non si fanno passi avanti nella sicurezza delle scuole, delle quali un'altissima percentuale è stata dichiarata insufficiente, inadatta o addirittura pericolante.

Il precariato sta già esplodendo e più esploderà nei prossimi mesi. La stessa sorte incombe sulle piccole e piccolissime imprese, tanto al Sud quanto al Nord e al Centro. Ma qui siamo sul terreno dell'economia che merita un discorso a parte.

* * *

Il "dominus" responsabile della politica economica è Giulio Tremonti, ma il Capo del governo che sta sopra di lui gli indica gli obiettivi che a lui più interessano. Bisogna dunque considerarli insieme nella concordia discorde nella quale hanno fin qui operato.
Tremonti sostiene di essersi accorto per primo della crisi internazionale incombente. Tuttavia le sue prime mosse furono del tutto incongrue rispetto alla crisi in arrivo.

Soprattutto lo fu l'abolizione dell'Ici, ma qui la responsabilità non è sua: giustizia vuole che la si addossi al premier. Aveva promesso in campagna elettorale quell'abolizione e impose a Tremonti di adempiervi.

Gli impose altresì di "non mettere le mani nelle tasche degli italiani", altro vincolo poco compatibile con la tempesta in arrivo. Il vincolo è stato in apparenza rispettato, ma la pressione fiscale e contributiva è aumentata ed ha segnato in questi mesi il suo massimo storico. Non è previsto che scenda nel prossimo futuro ed è lo stesso Dpef (documento ufficiale del ministero del Tesoro) a certificarlo. Questo aumento della pressione fiscale è in contrasto con il vincolo di "non mettere le mani" eccetera. In parte si può spiegare con la diminuzione del reddito dovuta alla crisi, in altra parte con imposte pagate da soggetti nuovi entrati da poco nella platea dei contribuenti.
Vantaggi da questa parte, zero.

È stato più volte dichiarato da parte del Tesoro che i conti pubblici sono stati messi in sicurezza. È falso. Il deficit rispetto al Pil ha superato il 5 per cento e l'Europa ci ha imposto il rientro sotto al 3 per cento entro il 2012. L'avanzo netto è stato azzerato. Lo stock di debito pubblico è di nuovo ai massimi e salirà ancora nel 2010 (Dpef). Quindi la finanza pubblica non è stata affatto risanata, Bruxelles ce lo fa presente una volta al mese.

Nel frattempo è cresciuta la spesa. Molto cresciuta. Ma non è riuscita a rilanciare i consumi che stanno pericolosamente diminuendo. I commercianti sono infatti in allarme rosso.

Nei giorni scorsi si diffuse una grande euforia dal governo, dal premier, dalle associazioni industriali, perché sembrò che in agosto ci fosse stata un'impennata improvvisa della produzione industriale. Non era in realtà un'impennata ma un modesto recupero del 6 per cento rispetto al crollo registrato nel 2009 sul 2008. I media presidenziali lanciarono al cielo grida di giubilo e chi raccomandava prudenza nei giudizi fu insultato come Cassandra antitaliana. Bene. In settembre c'è stato di nuovo una cifra pesantemente negativa nella produzione industriale e in ottobre altrettanto. Ora siamo addirittura sotto il crollo dell'anno precedente. Ma questo sarebbe ancora poco.

Aumenta la disoccupazione e aumenterà ancora di più nei prossimi mesi e nei prossimi anni perché quand'anche cominci una sia pur timida ripresa, essa non sarà foriera di nuova occupazione. Questo fenomeno è mondiale e non soltanto italiano, perciò ineluttabile. Sono stati presi provvedimenti per far fronte ad una situazione di questa gravità? Nessuno. Non è neppur vero che tutti i disoccupati siano assistiti, manca un sistema efficace e integrale di ammortizzatori sociali e non è alle viste nessun provvedimento in materia.

Di riforme sociali neppur l'ombra. Di liberalizzazioni idem. Sono invece alle viste alcuni nuovi carrozzoni pubblici tra i quali si distingue la famosa Banca del Sud, che saranno fonte di sprechi e di clientele all'assalto.

Nel frattempo l'Italia ha perso peso in Europa e sullo scenario mondiale.

Dei vantaggi procurati al Paese non c'è dunque traccia alcuna. Al contrario.

Poiché quanto è stato fin qui detto si basa su dati ufficiali di agenzie internazionali e dello stesso governo, è falso che questa sia una fantasiosa ricostruzione della realtà. La fantasiosa ricostruzione è invece quella del governo che, a dispetto dei dati dallo stesso diffusi, magnifica risultati che le sue stesse cifre smentiscono. Si tratta di improntitudine, o faccia di bronzo che dir si voglia.

© Riproduzione riservata (15 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il mondo degli uomini senza qualità
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2009, 05:23:17 pm
Il mondo degli uomini senza qualità

di EUGENIO SCALFARI


IL PIU' bello, il più intenso, pieno di significati che vanno al di là dell'epoca in cui fu scritto è il dialogo di Diderot che si intitola "Le Neveu de Rameau".
Il protagonista è un tipo umano che l'autore delinea in tutte le sue sfumature facendolo parlare di sé per 150 pagine. Non è neppure un dialogo perché l'interlocutore che formula le domande e che è lo stesso Diderot si limita a sollecitare le risposte. Il protagonista non si fa pregare, è perfettamente consapevole di sé, del suo modo di vivere, dei suoi vizi, della sua intelligenza, della sua disumanità. Anzi: della sua amoralità. Non è immorale ma appunto amorale. Ha perso ogni cognizione della morale, ha cancellato il bene ed il male dal suo orizzonte mentale. I suoi vizi li usa quando sono utili al proprio interesse, altrimenti li tiene a guinzaglio, li reprime.
Si maschera. Si presenta al mondo che lo circonda così come il mondo lo vuole. La dominante del suo carattere è l'utile, l'utile per sé.

Questo tipo umano, l'ho già detto, va molto al di là dell'epoca sua. Infatti è stato più volte raffigurato, con qualche differenza rispetto al prototipo che deriva dalle diversità di scrittura degli autori che sono rimasti affascinati da quel tipo umano che ha fatto della disumanità la sua divisa.

Dostoevskij fece qualche cosa di simile scrivendo "Memorie del sottosuolo", dove il personaggio appare ancor più simile al prototipo, ma con un tratto di malvagità in più rispetto all'originale.

Infine se ne occupò anche Rilke nei suoi "Quaderni di Malte Laurids Brigge", dove racconta che l'uomo dispone di molti visi. Esiste da qualche parte un deposito di visi. Quando una persona ha consunto il suo viso e desidera indossarne uno nuovo e diverso, va in quel deposito e ne trova uno che meglio si adatti ai suoi desideri e ai suoi bisogni. Alcuni ne cambiano molti nel corso della loro vita; altri ne consumano meno. Altri ancora, ma sono pochi, restano fino alla morte col proprio viso. Non è detto che siano i più fortunati.

Nessuno degli autori di questo genere di letteratura ha però raggiunto l'eleganza letteraria e la profondità filosofica di Diderot e la ragione credo sia questa: Diderot sapeva che la morale non è scolpita una volta per tutte ma è un prodotto dell'epoca e quindi relativa. Sapeva anche che l'uomo ha scoperto il bene e il male nel momento stesso in cui ha perso l'innocenza in cui vivono tutti gli altri esseri viventi.

Il "Nipote di Rameau", così l'uomo del sottosuolo, si disumanizzano e in questo modo riacquistano l'innocenza nel senso che perdono la cognizione del bene e del male. Non resta loro che l'istinto della sopravvivenza ed è questo soltanto che guida i loro comportamenti.

Diderot aveva chiarissimi questi elementi conoscitivi ed è questa la ragione per cui il suo dialogo è un pezzo letterario di ineguagliabile potenza espressiva.

* * *

I miei lettori si domanderanno perché ho citato ancora una volta il "Neveu de Rameau" (m'è accaduto di farlo in altre occasioni) e quale pertinenza esso abbia con l'attualità della quale dovrei occuparmi.

A parte il fatto che la nostra attualità è da qualche tempo trita e ritrita e non presenta eccezionali novità, sta di fatto che il tipo umano (disumano) delineato da Diderot sta diventando al giorno d'oggi sempre più numeroso. È un settore della società in crescita esponenziale. Nella classe dirigente, ma anche nei ceti sottostanti. Del resto l'uomo del sottosuolo non fa parte della classe dirigente se non in funzione servile.

Servile, ma essenziale: ne riecheggia i desideri, ne soddisfa i bisogni, si incarica di condurre a termine le operazioni abiette, è la controfigura dei potenti quando si tratti di questioni troppo delicate e rischiose. Funge anche da buffone di corte; per divertire il suo signore e ricordargli qualche spiacevole verità. Rigoletto è un altro tipico uomo del sottosuolo che però, se offeso nel profondo, riscopre la sua dignità e sa anche vendicarsi. Perciò servirsi senza il senso della misura di personaggi di tal fatta comporta anche qualche pericolo.

Bisognerebbe chiedersi la ragione per cui la popolazione di quel tipo umano (disumano) sia tanto in crescita. La risposta è già stata data molte volte: insicurezza, paura del futuro, ripiegamento sul presente, percezione rachitica della felicità scandita sull'attimo d'un presente fuggitivo senza proiezioni verso l'avvenire, indifferenza diffusa verso la sorte degli altri, gelosia verso le fortune altrui, sopravvalutazione dei meriti propri. Furbizia nell'elusione delle regole. Cortigianeria. Crollo (apparente) delle ideologie in favore d'un pragmatismo diventato a sua volta ideologico.

Vi basta? Molti di questi elementi psicologici fanno parte da gran tempo dei connotati italici. Ma in certi segmenti della nostra storia diventano dominanti e questo è uno di quei momenti. Ecco perché quel tipo umano (disumano) è diventato moltitudine. Con qualche picco rappresentativo.

* * *

Voi pensate a Silvio Berlusconi, ma vi sbagliate di grosso. Berlusconi non è un uomo del sottosuolo, al contrario. Ha un senso pronunciatissimo della propria personalità.
Non è affatto appiattito sulla felicità presente, anzi ha costruito un impero e una delle sue maggiori preoccupazioni è quella di conservarlo, accrescerlo e capire a chi dovrà lasciarne il controllo dopo di lui.

È vero che ama travestirsi per ottenere il pubblico favore, ma questo è proprio di tutti quelli che fanno politica, anche i migliori. Figuriamoci lui.

Non so neppure se abbia letto il "Nipote di Rameau" ma una cosa è certa: Berlusconi ha fatto e fa di tutto per far crescere quella genia, l'ha chiamata in servizio, la usa, la riempie di benefici, se ne serve come d'una massa gelatinosa che lo ripara dagli urti esterni, arrotonda gli angoli, devia i colpi e soprattutto fa mostra di credere sempre e dovunque al verbo che emana dalle sue labbra.

Non sto parlando di chi crede veramente in lui. Ce ne sono, avendo bisogno d'una fede profana l'hanno trovata e se la tengono stretta. Ma sto parlando della sua truppa, della coorte palatina che lo circonda, lo protegge, esegue i suoi ordini e anticipa i suoi desideri. In quella coorte non c'è nessuno che crede alle sue parole, ai suoi disegni, alle sue strategie. Sanno che è il più bravo dei comunicatori. Sanno che la loro felicità dipende da lui. Sanno che lui funziona a meraviglia in situazioni di emergenza. Perciò fanno in modo che l'emergenza ci sia e duri il più possibile. Quando non ci sarà più, saranno tempi duri per lui ma soprattutto per loro.

Vi pare che in un paese normale uno come Schifani diventerebbe presidente del Senato, seconda carica dello Stato? Uno come Gasparri ministro prima e capogruppo dei senatori poi? Uno come Bondi ministro e coordinatore del partito? Con le poesie che scrive? Uno come Minzolini direttore del Tg1? Uno come Tarantini, amico di casa? E uno come Cosentino membro del governo?

Di gente così ce n'è in tutti i partiti ed anche nel mondo degli affari, ma una concentrazione di talenti analoghi a quelli descritti da Diderot c'è soltanto
attorno al Cavaliere.

Quelli del suo giro che non hanno analoga caratura non vanno bene per lui. Fini non va bene. Casini non va bene. Tremonti non va bene. Scajola così così. Ma il suo ideale è Belpietro, un alano da riporto. Non so se ne esistono in natura, ma lui lo è ed è prezioso.

* * *

Qualche giorno fa Pierluigi Battista ha scritto un succoso pezzo sul Corriere della Sera dove si domandava: quando Berlusconi non ci sarà più (politicamente s'intende) che faranno tutti quei giornalisti e uomini politici abituati a vivere parlando male di lui a getto continuo? Per loro saranno guai. Riciclarsi non sarà facile. Dovranno adattarsi ad una difficile vecchiaia quando l'indignazione moralistica non avrà più corso.

La tesi di Battista non è peregrina. Qualche rischio c'è, ma è minore di quanto egli pensi. Non so per i politici, ma per i giornalisti. Li conosco meglio e so che molti di loro erano bravi assai prima dell'era berlusconiana. Vorrei però porre anch'io una domanda a Battista: che faranno, quando Berlusconi scomparirà, quei giornalisti e politici che si sono specializzati nell'agitare flabelli al suo passaggio, a inventare false notizie, a deformare quelle vere e soprattutto ad omettere, omettere e ancora una volta omettere? Che faranno i revisionisti di mestiere, gli specializzati a sostenere che il problema è un altro, che le questioni serie sono altre e chi parla male di lui peste lo colga?

E i terzisti, caro Battista? I terzisti avranno ancora qualcosa da scrivere? Vorrei esser tranquillizzato su questo punto. Comunque un posto a tavola non si nega a nessuno che abbia una buona scrittura; c'è sempre la rubrica di "Come eravamo" che può essere un dignitosissimo "pied-à-terre" per i terzisti in disarmo.


© Riproduzione riservata (22 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ideologia è costituzionale
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2009, 04:00:52 pm
L'ideologia è costituzionale

di Eugenio Scalfari


Tutte le Costituzioni sono ideologiche: mettono insieme principi, tradotti in norme. La nostra lascia libertà di opinione ma non di agire contro di essi 
Si è aperta un paio di settimane fa sul 'Corriere della Sera' una discussione sull'insegnamento della Costituzione nelle scuole superiori. Quella discussione fu definita fin dall'inizio 'provocatoria'. In realtà non era neppure provocatoria ma semplicemente inutile e infatti, dopo un tentativo di tenerla in piedi, si è spenta per mancanza di interlocutori.

La tesi sulla quale si fondava era questa: qualunque Costituzione in qualsiasi paese e con qualsiasi contenuto contiene un alto tasso di ideologia; per conseguenza l'insegnamento della Costituzione nelle scuole che abbia come compito di educare gli studenti a rispettarne lo spirito e la lettera rischia di rimettere in piedi una sorta di Stato etico di hegeliana e fascistica memoria, che è quanto di più repellente per spiriti realmente liberali. Ma è proprio così? Gli spiriti liberali sono altrettante sentinelle chiamate a vigilare contro il manifestarsi d'una qualunque ideologia?

Il tema che qui mi interessa discutere non è dunque quello relativo all'insegnamento della Costituzione repubblicana in funzione educativa, bensì quello delle ideologie. Ce ne siamo definitivamente liberati con la caduta del Muro di Berlino, cioè con la caduta del comunismo?

Dico subito che le ideologie non sono state affatto cancellate dal nostro orizzonte mentale per la semplice ragione che la nostra mente lavora creando ideologie, cioè schemi di ragionamento che incasellano fatti, situazioni, persone, linguaggi, entro concetti astratti e rappresentativi di altrettanti 'insiemi' ricavati da una media di fatti concreti, persone concrete, situazioni concrete.

Il pensiero astratto è una delle caratteristiche della nostra specie e la distingue dalle altre specie viventi. Gli animali, anche quelli 'superiori' perché biologicamente più vicini alla specie umana, non sono in grado di formulare pensieri astratti. Noi siamo addirittura capaci di pensare il pensiero che pensa il pensiero, che è il massimo dell'astrazione possibile. La nostra
attività cognitiva non si esaurisce con la percezione del mondo esterno; percepiamo perfino i nostri sentimenti e li nominiamo, cioè diamo un nome a ciascun sentimento. Noi mescoliamo una serie di elementi semplici, di gocce di essenza, che affiorano dai miliardi di cellule che compongono il nostro organismo. Il mescolatore è la materia grigia contenuta nel nostro cranio; gli impulsi percettivi che essa riceve danno luogo a immagini simboliche, a concetti astratti, a idee. Il cane, il serpente, la mela. Ma anche l'insiemità. Anche la gloria, il coraggio, la paura, Dio, la morte, il mito, la storia, l'anima, il valore, la viltà.

Potremmo riempire un volume anzi un'intera biblioteca con l'elenco dei concetti e delle idee. Ebbene, l'ideologia non è altro che una serie di idee unite tra loro da un rapporto sistemico. L'ideologia comunista mette insieme la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, l'abolizione della lotta tra le classi, l'abolizione dello sfruttamento, la scomparsa dello Stato, la piena libertà dell'individuo. La dittatura del proletariato quale necessario momento di passaggio alla seconda fase, nella quale l'ideale del comunismo e della libertà sia pienamente raggiunto. L'esperienza ha dimostrato che quest'ideologia, nei modi con cui fu realizzata, aveva dato risultati opposti alle finalità che aveva promesso.

Ma il liberismo è anch'esso un'ideologia. Postula che la libertà di mercato sia il solo sistema capace di allocare in modo ottimale la produzione dei beni e la loro distribuzione tra tutte le persone, impedendo che si formino monopoli e rendite. In tal modo una siffatta società vedrà gradualmente scomparire i privilegi e le diseguaglianze, agirà in piena libertà instaurando il migliore di tutti i modi possibili. L'esperienza ha però dimostrato che anche quest'ideologia è sbagliata ed ha causato mali non inferiori a quelli generati dall'ideologia comunista.

Potremmo elencare un gran numero di ideologie. La radice lessicale di questa parola mette insieme idea e logos, l'immagine e il pensiero. La mente umana compie questo miracolo e crea ideologie a getto continuo. Aggiungo che per fare a meno di ideologie gli uomini dovrebbero compiere un costante sforzo di volontà che impedisca alla loro mente di compiere gran parte del suo lavoro. Non dico che non si possa vivere senza ideologie, ma dico che per realizzare questo risultato occorre voler regredire ad uno stadio animale.

Si obietterà che ci sono state e potranno ancora esserci ideologie che hanno gettato l'uomo nella condizione d'una bestia ed è purtroppo verissimo, ma è altrettanto vero che ci sono state e ci saranno ideologie che l'hanno innalzato verso una condizione angelica e altre ancora che hanno realizzato un pieno umanesimo. Non è dunque l'ideologia che deturpa la condizione umana, ma sono i contenuti di quella specifica ideologia che migliorano coloro che con essa si identificano o ne devastano la coscienza morale.

Le Costituzioni mettono insieme una serie di principi tradotti in norme. Sono pertanto tutte ideologiche. La nostra Costituzione repubblicana del 1947 ha messo insieme il concetto di pluralismo, di libertà, di eguaglianza, di solidarietà e ne ha ricavato norme. È ideologica? Certamente sì, come lo era lo Statuto albertino in vigore fino al 1947. La Costituzione del '47 presenta ai nostri occhi un aspetto sommamente positivo in questa fase storica: consente un diritto di pubblica presenza a tutte le opinioni, perfino a quelle che non condividono i principi che l'hanno ispirata. Diritto di opinione, ma non anche diritto di agire contro di essi. E questa è l'educazione che la scuola può e deve dare: spiegare quei principi e le norme nelle quali sono stati articolati.

Qualcuno sostiene che sarebbe meglio non parlarne affatto. Ricordo che Mario Ferrara, un vecchio liberale che fu uno dei collaboratori del 'Mondo' di Mario Pannunzio, scrisse in uno dei suoi godibilissimi interventi un suo progetto di Costituzione che si componeva di due articoli: "Articolo 1: non c'è più niente da fare. Articolo 2: nessuno è incaricato di eseguire la presente legge". Voleva esprimere lo stato miserando in cui a suo giudizio versava il Paese. Era il 1949. Mi domando che cosa scriverebbe oggi se fosse ancora vivo.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La principessa e il rospo da baciare
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:43:14 pm
IL COMMENTO

La principessa e il rospo da baciare


di EUGENIO SCALFARI

TRA domenica e lunedì scorso nel circuito mediatico è accaduto un fatto strano: i principali giornali stranieri, televisivi e stampati, hanno dato notevole rilievo alla deposizione del pentito mafioso Spatuzza che chiamava in correità Berlusconi e Dell'Utri; i principali giornali e "talk show" televisivi italiani titolavano la cronaca di quell'argomento ma avevano come obiettivo politico Pier Luigi Bersani, accusato di irresolutezza e d'incapacità a risolvere i tanti guai che affliggono il nostro paese. Sembrava si fossero dati un vero e proprio appuntamento Giuliano Ferrara sul "Foglio", Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera", Luca Ricolfi sulla "Stampa", per non parlare che dei maggiori.

Stonava soltanto l'"Avvenire", il giornale dei vescovi italiani, che titolava insolitamente a tutte colonne sulla tardiva e insufficiente retromarcia di Vittorio Feltri sul caso Boffo: dopo averlo linciato fino a provocarne le dimissioni, Feltri ammetteva che i documenti da lui portati come prova di omosessualità del direttore del giornale cattolico erano falsi. Se ne dispiaceva. Del resto il risultato ormai era stato ottenuto e Boffo era stato sbalzato di sella.

Segnalo questa difformità dell'"Avvenire", contemporanea alla campagna virulenta della "Padania" contro l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, reo agli occhi dei leghisti d'aver rimarcato che a Milano c'è poca carità cristiana e d'avere ancora una volta raccomandato umanità nei confronti degli immigrati.

Ma torniamo al tema più propriamente politico che ha avuto le sue premesse nella deposizione di Spatuzza e nel corteo dei giovani "viola" di sabato scorso. Di qui il "pressing" sul segretario del Pd: si decidesse a dialogare con la maggioranza sulle riforme, a cominciare dalla giustizia, e i problemi italiani sparirebbero d'incanto. Ma lui non si decide. Forse vorrebbe ma non può. Perché non può?

È evidente: non può perché una minoranza di arrabbiati glielo impedisce. Gli arrabbiati sono vecchi comunisti impenitenti, abituati a dir sempre no, a vedere tutto il male solo da una parte, a ritenersi moralmente superiori; ma non solo comunisti, anche vecchi azionisti, anticlericali incalliti, antiamericani, antifascisti a 24 carati. Gente che conta niente, complottardi, moralisti. Perennemente indignati.
Naturalmente c'è chi mantiene alto il livello di indignazione per professione: giornali faziosi che utilizzano la faziosità per guadagnare copie, giornali che hanno in testa soltanto Berlusconi, giornalisti per i quali Berlusconi è una droga eccitante, un elemento allucinogeno che essi assumono e diffondono a getto continuo tra i loro lettori. Dal caso di Noemi Letizia in poi, passando per Patrizia D'Addario e approdando infine a Spatuzza e alla marcia dei "viola". Antitaliani. Giustizialisti. Raccontano ogni giorno un paese che non c'è. Bloccano l'opinione pubblica - nazionale e internazionale - sul "gossip" d'un leader che ha il solo difetto d'essere esuberante e innumerevoli pregi al servizio del paese. Purtroppo non lo fanno lavorare. Dunque sono loro i veri, gli unici colpevoli. Bisogna isolarli.

Il ragionamento, come si vede, ha un suo sviluppo: giornali faziosi eccitano una minoranza di arrabbiati; questa minoranza è in grado di frenare il leader del Pd; questi vorrebbe dialogare ma ne è impedito; in mancanza di quel dialogo il premier non può governare perché un gruppo di magistrati faziosi glielo impedisce; per conseguenza il governo è bloccato. In sostanza un granello di sabbia ha immobilizzato la macchina della politica.

Questo racconto della situazione italiana è affascinante. Sembra una favola, ce ne sono tutti gli elementi: un principe operoso, il filtro d'un folletto o d'una strega che lo trasforma in un rospo, un lupo cattivo che vuole mangiare la nonna. La parte assegnata a Bersani è quella d'una bella fanciulla che dovrebbe baciare il rospo per dissipare il sortilegio.
Caro Pier Luigi, mi spiace per te ma la tua parte nella favola è proprio quella, la bella fanciulla che bacia il rospo. Certo ci vuole stomaco per baciare un rospo schifoso, ma tu lo stomaco ce l'hai e dunque fallo, per il bene di questo paese che il principe operoso e capace di governarlo l'ha trovato. Tu solo puoi interrompere il sortilegio e assicurare il lieto fine.

* * *

Ho la vaga sensazione che a noi di "Repubblica" sia assegnata la parte del lupo cattivo. Giuliano Ferrara mi tira in ballo personalmente e mi domanda come sia stato possibile che, dopo aver organizzato cinquant'anni fa i convegni degli "Amici del Mondo" insieme a Mario Pannunzio e a Ernesto Rossi, sia finito nella compagnia del bordello.

Di solito Ferrara con me è gentile, questa volta è stato ruvido, segno che il richiamo all'ordine è stato perentorio. Rispondo così: il bordello non è a "Repubblica" ma a Palazzo Grazioli. "Repubblica" non si è occupata del bordello ma delle bugie del premier. La denuncia del bordello è stata fatta dalla Fondazione "Farefuturo" (patrocinata da Gianfranco Fini) e dalla signora Veronica Lario, comproprietaria del giornale diretto da Ferrara.

Può mentire spudoratamente un presidente del Consiglio che si rivolge al paese dalla televisione pubblica? Può reiterare le menzogne? Può indicare alla gogna i giornali che gli pongono domande più che legittime? Può insultare e incitare a non leggere quei giornali e a boicottarli pubblicitariamente? Può denunciarli al magistrato per aver fatto quelle domande?

Quanto ai "pedigree", per quanto mi riguarda io sono appunto partito dal "Mondo" e arrivato a "Repubblica" passando dall'"Espresso"; come percorso non mi sembra male. Ferrara è partito da Giorgio Amendola ed è arrivato a Berlusconi passando per Craxi. Non giudico, non ne ho alcun titolo. Dico soltanto "Unicuique suum", che vale per lui quanto per me.

* * *

Il ragionamento di Galli della Loggia è diverso ma in sintonia. C'è sempre di mezzo il lupo cattivo, che certo dev'essere un diavolaccio di lupo se riesce da solo a combinare tanti guai. Ma il problema da risolvere è Bersani. "Il rinnegato Bersani". Rinnegato dal milione di giovani vestiti di viola che si domandavano: perché Bersani non è qui? A loro quell'assenza dispiaceva. A della Loggia invece ha fatto molto piacere. Perché? Risposta: perché lo slogan del corteo era: "Berlusconi dimettiti". Bersani non è andato per non marciare sotto quello striscione. Bravo Bersani. Berlusconi infatti deve governare.

Bene. Penso anch'io che debba governare. Il guaio è che non governa. Non governa da quando si è insediato a Palazzo Chigi nel maggio 2008. Ma non aveva governato neppure nei cinque anni 2001-2006. Infatti i problemi stanno ancora tutti lì, anzi sono peggiorati. Dobbiamo rifarne l'elenco? Rifacciamolo: il debito pubblico non solo non è diminuito ma è aumentato; la pressione fiscale idem; l'entità della spesa corrente idem; il deficit idem; le infrastrutture sono sempre al palo, parliamo ancora di quelle del famoso contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta" nella campagna elettorale del 2001. Sono ancora tutti lì, inaugurazioni e tagli di nastri a bizzeffe, opere compiute neanche mezza.

Poi c'è il bordello della Sanità, il bordello della Scuola, il bordello dei Beni culturali. Quanti bordelli, caro Ferrara, e tutti dalle vostre parti. E questa sarebbe la politica del fare? Infine le riforme istituzionali e quella della giustizia.

Io sono amico di Bersani. Ha molte qualità. Tra le quali ci metto anche quella di non essere gladiatorio. E non ha la lingua biforcuta, che adesso va invece molto di moda. Ci sono fior di politici che cambiano versione a seconda del giornale che li intervista, anche a distanza di ventiquattr'ore. Ma lui no.

Sulla giustizia ha detto questo: pronto a discutere tutti i miglioramenti necessari affinché il servizio pubblico migliori, a cominciare dalla lunghezza intollerabile dei processi. Ma niente leggi "ad personam", niente "processo breve", niente Lodo Alfano, insomma niente salvacondotti.

Tra i pregi e i difetti del rinnegato Bersani c'è anche la testardaggine. Per me è un pregio. Salvacondotti non ne darà. Quanto al dialogo, ha più volte chiarito che si fa in Parlamento. E dove dovrebbe farsi? Il guaio è che Berlusconi non ci sta. A tutti gli emendamenti dell'opposizione il governo ha sempre detto no. Quanto alle riforme istituzionali, ha detto "nì" alla famosa bozza Violante (diminuzione dei parlamentari, creazione del Senato federale). Ha detto "nì" ma con un'aggiunta: vuole passare dalla Repubblica parlamentare a quella autoritaria.

Il testardo Bersani non ci sta, ma il fatto è che quel cambiamento non è previsto nella Costituzione. Proprio così: non è previsto, cioè non si può fare. Della Loggia dovrebbe saperlo. Per cui baciare il rospo non servirebbe a niente, resterebbe rospo.
Ricolfi sulla "Stampa" sostiene invece una bizzarra tesi. Secondo lui l'errore lo fece Veltroni quando disse che bisognava trattare sulle regole istituzionali e combattere invece sulla politica del giorno per giorno. Secondo Ricolfi bisognava invece fare l'opposto.
Bizzarro. Le regole vanno condivise, infatti proprio per questo sono previste maggioranze qualificate per approvarle. La politica invece non va necessariamente condivisa e l'opposizione esiste proprio per questo. Così la pensa anche il presidente Napolitano. Sbaglia anche lui?

* * *

Due righe di chiusura. All'epoca del governo Prodi i giornali sapienti che giocano alle buone fatine e non al lupo cattivo, se la prendevano col governo e lo invitavano a venire incontro all'opposizione (cioè a Berlusconi) che nel frattempo trafficava per comprarsi quei pochi voti che sostenevano il governo. Adesso le buone fatine se la prendono con l'opposizione di centrosinistra. Terzisti? Non sembra proprio, stanno sempre dalla stessa parte.

© Riproduzione riservata (9 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il vero mondo
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:44:09 pm
Il vero mondo

di Eugenio Scalfari


Alcune riflessioni sulla celebrazione a Milano di Mario Pannunzio, fondatore del settimanale, da parte di chi è stato al suo fianco 


Si è tenuta nei giorni scorsi a Milano, per iniziativa del 'Corriere della Sera' e di altre fondazioni non meglio identificabili, una celebrazione dedicata a Mario Pannunzio e al settimanale 'Il Mondo' da lui fondato nel lontano 1949 e diretto fino alla sua fine nel 1965. 'Il Mondo' poi riprese sotto altra veste le pubblicazioni, infine si trasformò completamente diventando un settimanale finanziario. Quello di Pannunzio è rimasto un 'unicum', perciò se ne parla assai frequentemente tutte le volte che un'occasione lo suggerisca ed ora l'occasione non manca: Mario nacque nel 1910, tra pochi mesi avrebbe compiuto cent'anni.

Proprio utilizzando il calendario e forse con qualche anticipo di troppo, nella scorsa primavera la Provincia di Lucca - sua città natale - volle prender l'iniziativa e invitò me ad esserne il relatore. E poiché nella stessa città e nello stesso anno era nato anche Arrigo Benedetti fondatore dell''Europeo' prima e dell''Espresso' dopo; poiché Benedetti e Pannunzio furono grandi e intimissimi amici; poiché i settimanali da essi creati ebbero una funzione analoga nella storia del giornalismo italiano, ma non soltanto: anche nella storia delle idee; per tutte queste ragioni parve giusto abbinare quei due nomi e trattare insieme l'opera cui dettero vita.

Il centenario celebrato dal 'Corriere della Sera' nei giorni scorsi non ha seguito l'iniziativa della Provincia di Lucca e non ha dato alcun cenno dell''Espresso' di Benedetti. Nulla da obiettare, ciascuno ha i suoi criteri. Per di più 'Il Mondo' è morto da tempo, 'L'Espresso' invece è più vivo che mai, sicché celebrarlo potrebbe riflettere un alone di simpatia sui successori di Benedetti, perciò meglio guardarsene e il 'Corriere' infatti se ne è guardato. Non toglie che il dibattito promosso dalla Fondazione di via Solferino è stato interessante e ricco di partecipanti. Non ero presente, ma ho letto i resoconti e ho seguito le discussioni. Qualche cosa da dire ce l'ho e perciò la dico.

Anzitutto una breve osservazione preliminare (i preliminari sono di solito i più gustosi). 'Il Mondo' durò sedici anni, Pannunzio aveva già diretto il 'Risorgimento liberale' dal 1944 al '47. Oggi si fanno convegni su di lui e sui suoi giornali, si scrivono libri, si discutono tesi di laurea. Il numero degli estimatori è in aumento esponenziale. Ho detto una volta che accadde a Pannunzio ciò che avvenne per i Mille di Garibaldi: alla partenza non superavano i 700, ai giorni nostri i garibaldini che presero il mare a Quarto sarebbero molte migliaia perché molte migliaia sostennero d'esser partiti per Calatafimi. Non so se sia buono o cattivo segno.

Sta di fatto comunque che il 'Corriere della Sera' dell'epoca, nei vent'anni di attività giornalistica di Pannunzio, non citò quasi mai - forse mai - le campagne del 'Mondo', i convegni degli 'Amici del Mondo' e le iniziative culturali e politiche di Pannunzio, sebbene alcuni dei collaboratori di Mario lo fossero anche del 'Corriere', a cominciare da Mario Ferrara e da Panfilo Gentile. Quel silenzio meriterebbe qualche spiegazione ma non risulta che nel 'meeting' dei giorni scorsi sia stata data.

Io la spiegazione ce l'ho ed è la seguente. Il Pannunzio del 'Mondo' non era più il liberale ortodosso di via Frattina (sede del Pli di quegli anni). Era sì, un liberale, ma non più allo stato puro. Si era volontariamente contaminato. Si era messo insieme a persone che puzzavano di eresia. Gran brava gente, spesso con un passato eroico alle spalle, ma eretici, questo è sicuro. Imbarazzanti. Scomodi. Uno per tutti? Ernesto Rossi. Ma sì, proprio lui, quello del 'non mollare'. E non era il solo. S'era messo insieme, Pannunzio, ad un gruppo di ex azionisti della peggiore specie dal punto di vista politico, tra i quali perfino Ferruccio Parri.

Vi pare che il 'Corriere' di allora li avrebbe incoraggiati? Li avrebbe 'pompati' come fa adesso per un paio di giornaletti in circolazione nelle mazzette redazionali? I grandi giornali hanno un loro 'aplomb' e lo rispettano. Perciò bisogna essere morti come Pannunzio e come 'Il Mondo' per aver diritto ad un convegno che ne riscaldi la memoria. Da vivi, ognuno se la veda come può.

Ho letto anche che Pannunzio sostenne la terza forza con accanita tenacia ancorché senza successo. Dunque era un terzista 'ante litteram'. È vero. Essendogli stato vicino in quegli anni posso confermare: sostenne la terza forza, anzi se la inventò. Ma che tipo di terza forza? Le pagine del 'Mondo' e i convegni degli 'Amici del Mondo' sono lì a dirlo.

Sostenne la necessità di una forza laica e liberal-socialista che opponesse la sua visione politica e ideale a quella plumbea e funeraria dei campi di sterminio del comunismo sovietico. Del nazismo e della Shoah si parlava e si scriveva solo per dire che con loro perfino una durissima polemica sarebbe stata una concessione impensabile.

Ma c'era anche un terzo e un quarto fronte: contro il clericalismo della Chiesa e la sottomissione della Dc; e contro le politiche monopoloidi della Confindustria e dei 'Padroni del vapore'.

I convegni sostennero la libertà di stampa (quella che c'era era ritenuta inaccettabile e permanentemente insidiata), la scuola pubblica, l'abolizione del Concordato. Sul piano economico gli obiettivi erano la lotta contro i monopoli, la riforma delle società per azioni, la liberalizzazione del commercio, la denuncia del malaffare della Federconsorzi e infine l'epica battaglia per la nazionalizzazione dell'industria elettrica. Questa era la terza forza che noi volevamo. Dico noi perché noi allora eravamo lì.

Accadde ad un certo punto che la compattezza di quel gruppo si ruppe e si ruppe in particolare l'intesa tra Pannunzio ed Ernesto Rossi. Non sto a dire dove era il torto e dov'era la ragione; forse erano equamente distribuiti. Ma sta di fatto che la rottura determinò sostanzialmente la fine di quell'esperienza. 'Il Mondo' sopravvisse ancora per due anni, poi chiuse i battenti.

Mi auguro che queste cose qualcuno le abbia raccontate nel 'meeting' di via Solferino, Sala Montanelli. Indro (visto che l'ho nominato) non faceva parte della nostra compagnia. Combatté altre egregie battaglie, ma non le nostre.

(03 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Re: EUGENIO SCALFARI...
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2009, 10:39:31 am
La grande anomalia nell'Italia del cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


C'È un'anomalia al vertice istituzionale dello Stato. L'abbiamo scritto varie volte ed Ezio Mauro l'ha di nuovo precisato con chiarezza subito dopo il discorso di Silvio Berlusconi all'assemblea del Partito popolare europeo a Bonn. L'anomalia sta nel fatto che il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo disconosce l'autonomia del potere giudiziario; disconosce la legittimità degli organi di garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e ritiene che il premier, votato dal popolo, detenga un potere sovraordinato rispetto a tutti gli altri.
Questa situazione - così ritiene il premier - esiste già nella Costituzione materiale, cioè nella prassi politica e nella convinzione dello spirito pubblico, ma non è stata ancora introdotta nella Costituzione scritta e ad essa si appoggiano i poteri di garanzia e la magistratura per contestare la Costituzione materiale. Bisogna dunque modificare la nostra Carta anzi, dice il premier, bisogna cambiarla adeguandola allo spirito pubblico. Lui si farà portatore di quel cambiamento, prima o poi. Quando lo giudicherà opportuno. A quel punto la situazione sarà pacificata, un nuovo equilibrio sarà stato raggiunto, il governo potrà lavorare in pace, i processi persecutori contro il presidente del Consiglio saranno celebrati solo quando il suo mandato sarà terminato e la sovranità della maggioranza sarà in questo modo tutelata.

L'anomalia ha notevoli dimensioni. Il fatto che Berlusconi l'abbia descritta e raccontata con parole sue in un congresso del Partito popolare europeo cui appartiene, denuncia di per sé la gravità di questa situazione, ma ancora di più questa gravità emerge dal fatto che non vi siano state contestazioni in quell'assemblea. L'Unione europea riconosce e fa propria una carta di diritti che vale per tutti gli Stati membri. Di questa carta i principi dello Stato di diritto e dell'indipendenza dei poteri costituzionali sono parte integrante. Sicché è molto preoccupante che uno dei principali esponenti del Partito popolare europeo, a chi gli chiedeva un commento sul discorso di Berlusconi, abbia risposto: è una questione interna alla politica italiana. Quando si tratta dei principi della costituzionalità europea non esistono questioni interne dei singoli Stati membri che possano sfuggire al vaglio degli organi dell'Unione. Credo che questo problema andrebbe formalmente sollevato dinanzi al Parlamento di Strasburgo e dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri dell'Unione.

Per quanto riguarda il nostro "foro interno" per ora l'anomalia resta, ma verrà al pettine nei prossimi giorni sulla questione che più sta a cuore al premier, quella cioè della sua posizione giudiziaria rispetto ai tribunali della Repubblica. Lì avverrà il primo scontro. È ormai evidente che il metodo della "moral suasion", utilmente praticato dai nostri Capi di Stato nei confronti del governo fin dai tempi di Luigi Einaudi, non vale più. Esso è stato possibile per sessant'anni fino a quando le diverse posizioni politiche si confrontavano in un quadro di valori e principi condivisi; ma questo quadro di compatibilità è ormai andato in pezzi. Le varie istituzioni e i poteri dei quali ciascuna di esse ha la titolarità sono dunque l'uno in presenza degli altri senza più ammortizzatori di sorta. Gli angoli non sono più arrotondabili ma spigolosi. Il rischio è una prova di forza interamente istituzionale.
L'anomalia berlusconiana ci ha condotto a questo punto, a questo rischio, a questo pericolo. Molti pensavano che tutto si riducesse a problemi di galateo e di linguaggio. Non era così ed ora la dura sostanza è emersa in tutto il suo rilievo.

* * *

Abbiamo scritto più volte che l'anomalia populista è presente in modo particolare nello spirito pubblico del nostro paese. Ma non soltanto. La tentazione autoritaria è presente in molti altri luoghi. Autoritarismo e populismo spesso sono fusi insieme e costituiscono una miscela esplosiva, ma talvolta sono disgiunti. La vocazione al cesarismo a volte è alimentata dal conservatorismo di opinioni pubbliche sensibili agli interessi di classe e alla difesa di privilegi. Oppure dall'emergere di interessi nuovi che chiedono riconoscimento e rappresentanza.
Nella storia moderna la tentazione autoritaria è stata molto presente nell'Europa continentale, talvolta con modalità aberranti oppure con caratteristiche innovative. Ma ha innescato in ogni caso processi avventurosi, forieri di guerre e di rovine materiali e morali. I principi di libertà ne sono stati devastati.
Di solito quando ci si inoltra in questo tipo di analisi si rievoca l'esperienza del fascismo italiano. Esso avviò anche alcuni processi innovativi, ottenuti tuttavia con la perdita della libertà, con l'esasperazione demagogica del nazionalismo e con un generale impoverimento della società. Ma un altro esempio, con caratteristiche molto diverse, era già avvenuto in Europa un secolo prima e fu il bonapartismo. Andrebbe storicamente ripercorso il bonapartismo perché rappresenta una vicenda per molti aspetti eloquente di come si passa da una fase rivoluzionaria ad una fase moderata e poi ad una svolta autoritaria che aveva in grembo la fine del regime feudale, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, pagando però queste innovazioni con milioni di morti in un quindicennio di guerre continue e con la perdita della libertà.

Il generale Bonaparte rappresentava un'anomalia rispetto al regime moderato del Direttorio, nato sulle ceneri del Terrore robespierrista. La sua vocazione autoritaria non aveva nulla di populistico ma era appoggiata da un'opinione pubblica che voleva a tutti i costi una pacificazione. Napoleone fu visto come lo strumento di questa pacificazione e fu l'appoggio di quell'opinione pubblica che gli consentì un colpo di Stato che non costò neppure una vittima. Il 18 brumaio del 1799 suo fratello Luciano Bonaparte, presidente dell'assemblea dei Cinquecento, con l'appoggio del generale Murat, sciolse quell'assemblea con la scusa che essa era piena di giacobini e consegnò il potere a suo fratello Napoleone. Il seguito è noto.
Non abbiamo nulla di simile, non c'è un generale Bonaparte, non c'è un generale Murat, non ci sono fantasmi militareschi. Ma c'è un'opinione pubblica spaccata in due e una classe dirigente anch'essa spaccata in due. C'è una tentazione autoritaria. C'è una maggioranza conservatrice formata da piccoli e piccolissimi imprenditori e lavoratori autonomi che sperano di ricevere tutela e riconoscimento. E c'è un'ampia clientela articolata in potenti clientele locali, legate al potere e ai benefici che il potere è in grado di dispensare.

Questa è l'anomalia. La quale ha deciso di non esser più anomalia ma di rimodellare la Costituzione. Non riformandone alcuni aspetti ma cambiandone la sostanza. Non più equilibrio tra poteri e organi di garanzia, ma un solo potere sovraordinato rispetto agli altri. L'Esecutivo che si è impadronito, con la legge elettorale definita "porcata" dai suoi autori, del potere legislativo e si accinge ora a mettere la briglia al potere giudiziario e agli organi di garanzia.
Sì, bisogna rivisitarla la storia del 18 brumaio del 1799 perché c'è un aspetto che ci può riguardare molto da vicino. Del resto, anche il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 va riletto e meditato. Ci sono momenti storici nei quali l'assetto di uno Stato viene sconvolto e capovolto. Dopo nulla sarà più come prima. Nessuno si era reso conto di ciò che stava per accadere. Quando accadde era ormai troppo tardi per impedirlo.

Post Scriptum. La vicenda Spatuzza-Graviano ha dato luogo a qualche fraintendimento che è bene chiarire. A me Spatuzza non piace affatto e i Graviano meno ancora, ma la cronaca ha le sue regole che vanno rispettate. E perciò ricordiamo: Spatuzza ha dichiarato in processo di aver saputo dell'accordo con Berlusconi e Dell'Utri da Giuseppe Graviano. Il quale ha rifiutato di deporre e ha detto che parlerà solo quando sarà venuto il momento di parlare. Chi invece ha detto di non aver mai conosciuto Dell'Utri e tanto meno Berlusconi è il fratello Filippo Graviano, del quale Spatuzza non ha mai parlato. Questo dice la cronaca e non altro.

© Riproduzione riservata (13 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Parola di pentito
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 08:16:51 pm
Parola di pentito

di Eugenio Scalfari


Un pentito di mafia è per definizione un criminale, altrimenti di che cosa dovrebbe ravvedersi? Dico di più: tanto più è pesante il suo fardello i delitti tanto più importante è la sua confessione. I mafiosi che si pentono sono molto diversi dai terroristi, sebbene quando uccidono non ci siano molte differenze di comportamento tra loro. Uccidono a sangue freddo, sia i terroristi sia i mafiosi. Non sotto l'impulso di un sentimento. Eseguono ordini. Alle loro spalle ci sono i mandanti.

Però una differenza c'è e riguarda i motivi del pentimento. I terroristi si pentono se e quando si rendono conto che le idee che li spingevano all'omicidio erano sbagliate; si tratta dunque di una crisi profonda che quando avviene mette in causa l'intera personalità, capovolge i sentimenti, la concezione della vita, il rapporto tra il bene e il male. Il terrorista che si pente è un'altra persona, le sue vittime gli pesano sulla coscienza e la loro memoria lo spinge all'espiazione.

Il mafioso, nella maggior parte dei casi, non conosce invece una crisi della stessa natura. Nella maggior parte dei casi il pentimento avviene dopo l'arresto e deriva dal tentativo di rendere meno dura la condanna. Il mafioso pentito sa che dovrà cambiare vita, identità e luogo di residenza. Sa anche che la sua organizzazione criminale vorrà vendicarsi della sua fellonia e aspetterà con pazienza il giorno in cui quella vendetta diventerà possibile. Si tratta dunque di una scelta molto difficile; la può fare soltanto chi ha le spalle al muro tra il carcere duro per tutta la vita e il regime alienante ma decente del pentimento.

Ho conosciuto abbastanza bene un mafioso pentito: Buscetta. Venne a casa mia due volte, circondato dagli agenti di polizia che lo scortavano dovunque. Avevo chiesto alla competente direzione della polizia di Stato di poterlo intervistare sulle ragioni del pentimento e l'autorizzazione era stata accordata. Buscetta dal canto suo aveva accettato e così ci incontrammo.

Era una persona di notevole spessore.
Nella famiglia mafiosa di cui faceva parte aveva avuto una posizione di grande rilievo. Sapeva molte cose non solo sull'organizzazione di Cosa Nostra, ma sui personaggi della Cupola, sugli obiettivi, sui contatti con il secondo livello (che erano professionisti o dirigenti locali dei partiti) e sui riferimenti di terzo livello (che erano uomini politici nazionali). Ma su questi ultimi non volle parlare. Neppure con i magistrati che lo interrogavano volle parlare in modo esplicito. Soltanto con Falcone si era aperto quando si incontrarono in una prigione americana dove era in quel momento detenuto. Ma Falcone non ritenne che fosse maturo il tempo di portare in giudizio quelle rivelazioni e fu ucciso prima di averlo fatto.

Buscetta non tradì la sua famiglia mafiosa.
Si pentì quando la sua famiglia perse la guerra interna che si era scatenata e di cui lo stesso Buscetta era stato una delle vittime perché alcuni dei suoi più stretti congiunti erano caduti sotto il piombo dei Corleonesi. La ragione del contendere - così mi disse lui e così aveva detto ai magistrati - era stata la droga. I Corleonesi avevano capito che quello sarebbe stato il gigantesco affare del futuro, ma Buscetta non voleva che la mafia entrasse su quel mercato. Questa, così disse, fu la ragione di quella guerra. Non so se Buscetta abbia detto la verità.

Vedo ora che molti commenti manifestano stupore perché il pentito Spatuzza, pluriomicida per sua stessa confessione, venga ascoltato in giudizio e le sue accuse e chiamate di correo siano verbalizzate dai giudici. Non capisco lo stupore: il pentito di mafia è sempre un omicida o ha commesso altri gravissimi reati. Fa parte di un'organizzazione criminale della quale ha deciso di rivelare alcuni segreti e tra di essi in primissima istanza i crimini da lui stesso commessi. Questo è infatti uno degli elementi che gli conferisce credibilità. In conclusione: un pentito di mafia è per definizione un criminale, altrimenti di che cosa dovrebbe pentirsi? Dico di più: tanto più è pesante il suo fardello di delitti tanto più importante è il suo pentimento, sempre che i fatti da lui rivelati siano confermati da altri elementi oggettivi.

Naturalmente è possibile che le sue chiamate di correo siano false; che si tratti di vendette e non di fatti realmente avvenuti. Si aspettava con grande interesse la deposizione dei fratelli Graviano, già in prigione da anni in regime di carcere duro. Avrebbero confermato o smentito le dichiarazioni di Spatuzza?

Hanno deposto a Palermo venerdì scorso.
Uno dei due fratelli ha smentito in pieno Spatuzza, l'altro si è rifiutato di rispondere ed ha inviato un memoriale in cui illustra ai giudici il regime durissimo del carcere duro. Dell'Utri, che assisteva in aula alla deposizione di Graviano, ha così commentato: "Ha parlato con grande dignità. Mi sembra sulla via del ravvedimento". Dopo la deposizione di Spatuzza aveva detto che le accuse contro di lui erano assurde tanto più provenendo da un pluriomicida.

Commento a mia volta: sia Spatuzza sia i fratelli Graviano sono pluriomicidi. Le loro dichiarazioni in giudizio possono essere false o veritiere. I giudici avranno il non facile compito di vagliarne l'attendibilità eventualmente chiamandoli a confrontare le loro opposte verità. Ogni altro commento è per il momento azzardato, ma da parte di Dell'Utri che è parte in causa si può capire.

(16 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'inciucio è cosa non buona e ingiusta
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2009, 03:49:37 pm
L'EDITORIALE

L'inciucio è cosa non buona e ingiusta

di EUGENIO SCALFARI


Ho letto con molto interesse l'articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.

Negli Stati Uniti, per esempio, lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall'"impeachment" all'epoca dello scandalo Lewinsky.

Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d'un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.

Quando Berlusconi decise di scendere in campo, nell'autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell'Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.

Nell'articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre, Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. "Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo, anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti.

Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione, se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade".
Segue l'elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell'Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l'eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.

Quest'articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l'ha scritto il 18 dicembre, quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l'opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l'ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.

* * *

I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D'Alema sull'utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.

Per esemplificare la sua battuta sull'utilità dell'inciucio D'Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell'Assemblea costituente del 1947, per l'inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l'esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d'azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.

Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l'inciucio è tutt'altra cosa e D'Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D'Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.

È fatto così Massimo D'Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l'utilità generale perché lui è più bravo degli altri.
In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l'ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.

I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.

È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l'opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l'ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.

* * *

Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul "Foglio" Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d'accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.

Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione.

Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all'accordo sulle riforme.

Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall'opposizione approdino all'esame parlamentare.

Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d'un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.

Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?

La conclusione non può dunque essere che l'appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l'assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.

(20 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Qualche domanda sul partito dell'amore
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2009, 10:40:54 am
IL COMMENTO

Qualche domanda sul partito dell'amore

di EUGENIO SCALFARI


IL TERRIBILE 2009 che stiamo per lasciarci alle spalle sembra aver toccato il fondo; nel 2010 si annuncia la ripresa, ma che genere di ripresa? Sperare che sia rapida e robusta è legittimo e può essere un'aspettativa positiva, ma le previsioni generali sono poco incoraggianti: sarà una ripresa lenta e stentata in Europa e negli Stati Uniti, più dinamica per la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti.

Il divario tra queste due aree del mondo aumenterà e con esso le tensioni economiche e anche politiche.

Se ne è avuto un primo anticipo nell'incontro-scontro di Copenaghen sul clima: contrariamente a quanto si riteneva il cosiddetto G2, cioè l'accordo di Usa e Cina a procedere di comune accordo nel governo del pianeta, non ha funzionato. Quell'accordo non c'è. La Cina è decisa a procedere sulla via della modernizzazione con criteri propri e senza nulla sacrificare alla solidarietà internazionale come avrebbe desiderato l'America. Sul piano monetario, finanziario e commerciale proseguirà nel protezionismo, non rivaluterà la sua moneta rispetto al dollaro, continuerà a far provvista di materie prime facendone aumentare i prezzi, non limiterà l'inquinamento dell'atmosfera.

Questi obiettivi saranno rinviati di almeno dieci anni, quando il divario economico ma anche strategico e militare sarà ulteriormente ridotto.

Soltanto allora Pechino prenderà in considerazione un nuovo equilibrio con gli Usa per un governo paritario del resto del mondo che non potrà non tener conto di altre importanti presenze emergenti: India, Brasile, Sudafrica, Messico. Ed anche Europa, se il nostro continente saprà parlare con una sola voce; e fin d'ora è già chiaro che quella voce parlerà in tedesco più che in francese e inglese.

Nel frattempo la ripresa occidentale sarà lenta. Non priva di rischi di ricaduta. Mario Draghi colloca questo rischio tra un paio d'anni, quando i titoli emessi dai grandi gruppi industriali e bancari per cifre molto elevate saranno in scadenza e dovranno esser rinnovati e quando i governi più indebitati - a cominciare dagli Stati Uniti - dovranno trovare equilibri finanziari più sostenibili.

L'insieme di questi problemi comporterà tagli di spesa e/o aumento di imposte, cioè politiche economiche restrittive e comunque non espansive. Ma ci sono anche altri elementi che non favoriscono una ripresa rapida e robusta. Li segnala Romano Prodi in un articolo pubblicato sul Messaggero e il direttore dell'Economist, John Micklethwait: per alcuni anni il mercato del lavoro sarà stagnante, il livello dell'occupazione insoddisfacente, le imprese aumenteranno la produttività ma diffonderanno meno benessere sociale.

Scrive Prodi: "Il numero dei disoccupati è aumentato dovunque superando i massimi livelli raggiunti nello scorso decennio. Spesso gli imprenditori approfittano della situazione di crisi per procedere alla razionalizzazione dell'organizzazione aziendale aumentando la produttività a scapito dell'occupazione. Ma vi è un altro elemento da tener presente e cioè i deficit dei bilanci pubblici che si sono accumulati sia in Usa sia in Europa.

L'esigenza di tornare alla normalità si impone a tutti. Il debito cumulato dai Paesi dell'Ocse sorpasserà nel 2010 il 100 per cento del Pil. Questo significherà che il motore della finanza pubblica, che è stato così largamente usato per frenare la caduta dell'economia, potrà essere solo marginalmente utilizzato per accelerare la ripresa".

Questa è dunque la situazione. Bisognerebbe aprire una buona volta un pubblico dibattito nel nostro Parlamento per fotografarla ed elaborare una terapia, ma, come da tempo lamenta l'opposizione, non c'è alcun segnale in questa direzione. Per il nostro governo evidentemente il problema non esiste.

* * *

Molte altre cose non esistono per il governo, per la maggioranza che lo sostiene e per il premier che dirige l'una e l'altro e questo è un altro elemento di rischio non certo fugato dal "partito dell'amore", la più recente invenzione di Silvio Berlusconi.

L'amore e la ricerca del dialogo sono la conseguenza del deplorevole e inconsulto gesto dello psicolabile Tartaglia, tuttora ristretto a San Vittore per legittima prevenzione contro altri atti inconsulti che potrebbe commettere. Dal male può uscire un bene, ripetono i salmodianti esponenti del partito dell'amore, Schifani e Bondi in testa, invocando un rapido inizio della stagione delle riforme condivise e sollecitando Bersani a dar prova concreta delle sue intenzioni in proposito.

Ma Bersani ha già risposto: vuole anzitutto discutere della situazione economica e della terapia (condivisa?) da adottare. Sulle riforme istituzionali e costituzionali vuole sapere qual è la linea del governo ed ha ribadito come premessa che il Pd voterà contro leggi "ad personam" per quanto riguarda la processabilità di Silvio Berlusconi.

Molti nella maggioranza si rifanno alla "bozza Violante" per quanto riguarda le riforme istituzionali usandola come una sorta di scaramanzia, un portafortuna che dovrebbe rassicurare Bersani a romper gli indugi e venire "a patti col diavolo" come direbbe Di Pietro, fermo nella sua decisione dissennata di anteporre l'interesse della sua ditta a quelli di un'opposizione seria e impegnata a tutelare gli interessi del Paese.

Ma sulla "bozza Violante" bisogna esser chiari. Si tratta d'un documento attuale ancorché stilato diversi anni fa.

Parla di diminuire il numero dei parlamentari, di un diverso ruolo del Senato e di altre modernizzazioni istituzionali concernenti i poteri della Presidenza del Consiglio. Sono questioni importanti e non dovrebbe esser difficile raggiungere su di esse un'intesa tra maggioranza e opposizione. Ma la "bozza Violante" non fa menzione o la fa in modo vago del rafforzamento dei contropoteri necessario per procedere alle auspicabili modernizzazioni.

Non ne fa menzione perché quando Violante stilò quel documento, Berlusconi non aveva ancora manifestato la sua visione sul cambiamento della Costituzione. Quel documento oggi risulta gravemente manchevole non già per imperizia del suo estensore ma perché le condizioni del confronto- scontro sono radicalmente cambiate.

E' perciò del tutto inutile salmodiare sulla necessità delle riforme condivise se prima il premier e i suoi salmodianti non avranno tolto di mezzo la pretesa di cambiare la Costituzione dando all'Esecutivo un potere sovraordinato sia sul legislativo sia sul giudiziario sia sugli organi di suprema garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e - per quanto riguarda quest'ultima - ritirando il disegno di modificare le modalità di elezione dei suoi membri.

In sostanza le riforme non saranno praticabili fino a quando il premier e la sua maggioranza non torneranno sui loro propositi di alterare la Costituzione in senso autoritario. Il partito dell'amore propugna un sentimento che merita di essere incoraggiato purché non sia una maschera che nasconde un tentativo di stupro. Nel qual caso si tratterebbe - allora sì - d'un inciucio col diavolo che il Partito democratico dovrebbe denunciare e contrastare con fermissima decisione, come certamente farà.

Post scriptum. Anche il Papa è stato oggetto di ruvida attenzione da parte di una ragazza venticinquenne che l'ha trascinato a terra scatenando un parapiglia sotto le volte di San Pietro con la conseguenza di far cadere anche il cardinale Etchegaray che si è rotto il femore e dovrà essere operato. La caduta a terra del Papa e del cardinale hanno fatto il giro del mondo, né più né meno del ferimento di Berlusconi, ed è naturale che sia così. Si tratta di due incidenti analoghi con una differenza: il Papa è per definizione il capo del partito dell'amore e quindi non ha bisogno di fondarlo perché ci pensò Gesù di Nazareth duemila anni fa. Il compito di Berlusconi è dunque molto più arduo, ma proprio per questo ancor più affascinante.

Del resto in una sua recentissima affermazione si è paragonato a Gesù Cristo per il ferimento a suo danno. Siamo dunque sulla buona strada...

© Riproduzione riservata (27 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Berlusconi deve dare una risposta a Napolitano
Inserito da: Admin - Gennaio 03, 2010, 04:13:32 pm
L'EDITORIALE

Berlusconi deve dare una risposta a Napolitano

di EUGENIO SCALFARI


Come tutti i discorsi chiari e complessi, quello indirizzato agli italiani la sera dell'ultimo giorno dell'anno dal presidente Napolitano è facile e al tempo stesso molto difficile da commentare. Ha parlato per poco più di venti minuti. Non ha tralasciato alcuno dei temi che interessano i cittadini. Tutti i cittadini, da lui esplicitamente nominati: gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, i lavoratori e gli imprenditori, i volontari, i militari, le forze di polizia, gli studenti, i docenti, i magistrati, i liberi professionisti, i residenti all'estero, gli immigrati. Insomma tutti, ma soprattutto i giovani, i lavoratori e il Mezzogiorno.

Queste sono dunque le priorità scelte da Napolitano e sulle quali egli ha richiamato l'attenzione della pubblica opinione; è stato lui stesso a dircelo con il suo messaggio alla nazione. Ma questa è soltanto la prima segnalazione che emerge dalle sue parole.

La seconda segnalazione emerge dall'ordine in cui sono disposti gli argomenti; ordine non casuale perché quel discorso è calibrato fin nelle virgole anche se è intriso di passione civica e intellettuale.
Al primo posto ci sono i temi del lavoro, della disoccupazione, la constatazione che molte sono le persone e le famiglie in grave e crescente disagio, il timore che questo disagio sia destinato ad aumentare nei prossimi mesi, la necessità che sia al più presto organizzata una rete completa di ammortizzatori sociali che ancora non c'è. Giovani, precari, abitanti del Sud e rispettive famiglie sono i soggetti più colpiti dalla crisi per i quali non sono ancora stati predisposti i necessari sostegni.

Il Presidente ha ricordato che questi moniti erano stati da lui formulati già nel discorso del 31 dicembre 2008. Da questo punto di vista si deve dunque registrare l'inadempimento del governo rispetto a necessità oggettive prevedibili e previste. Non siamo noi a dirlo, ma il messaggio presidenziale.

La terza segnalazione e il tono generale dell'intero messaggio si ispirano a speranza e fiducia. Non si tratta di formulazioni generiche ma di sentimenti solidamente motivati da Napolitano. Questo è un aspetto molto importante del suo messaggio perché tocca un tasto inconsueto: il Presidente riconosce e si compiace dell'attiva resistenza che gli italiani, la società italiana, i ceti che la compongono, hanno opposto alla crisi riuscendo ad attenuarne i devastanti effetti e dandosi carico dei disagi gravi che essa ha comunque prodotto.

Una resistenza attiva e condivisa: ha detto proprio così il Presidente, richiamando altri momenti della nostra storia repubblicana nei quali una resistenza analoga, quasi un istinto di sopravvivenza collettiva, spinse la nazione fuori dalla tempesta che ne stava mettendo in causa l'esistenza. Quali sono stati quei momenti? Tre soprattutto e Napolitano ne ha fatto cenno più volte nelle sue pubbliche (e private) esternazioni: la solidarietà degli italiani con le organizzazioni partigiane nel '44-45; la fase della ricostruzione dell'economia dopo la catastrofe della guerra; la compattezza nazionale contro il terrorismo negli anni di piombo dal '78 all'83.

Viene qui a proposito ricordare un sondaggio di pochi giorni fa, commissionato e pubblicato dal giornale "24 Ore", con varie domande. Una di esse interrogava il "campione" sulla Costituzione: se era inadatta e superata o invece ancora viva nei valori e nei principi e quindi meritevole di essere sostenuta. La maggioranza in favore della seconda risposta è stata altissima, quasi il 90 per cento si è espresso in favore della Costituzione. Altissima e per certi versi imprevista.

Cito questo dato perché ci introduce ad un altro aspetto del messaggio presidenziale dell'altro ieri, che riguarda direttamente la questione delle riforme istituzionali e della situazione politica entro la quale il processo riformatore si colloca.
Il Presidente avrebbe potuto sfumare questo problema, farne cenno come memorandum e auspicarne la realizzazione. Invece è andato molto più oltre: ne ha indicato le condizioni di fattibilità. Non le sue condizioni perché il suo ruolo è quello di un testimone "informato dei fatti" e al tempo stesso titolare d'un potere di constatazione e di garanzia. Non dunque le sue condizioni ma quelle oggettive, in mancanza delle quali quelle riforme non potranno essere realizzate.

La prima condizione è che quelle riforme siano condivise da una maggioranza molto ampia. La seconda è che siano accantonati i pregiudizi. La terza è il rispetto delle procedure fissate dalla Costituzione stessa. La quarta è che, per quanto riguarda le riforme istituzionali, esse si limitino alla seconda parte e non alla prima della nostra Carta che ne indica i principi ispiratori e che è, per definizione, intangibile.
Fa piacere registrare che - a parte il distinguo della Lega e l'inopinata uscita di Brunetta contro l'articolo 1 - tutte le altre parti politiche si siano dichiarate d'accordo con lo spirito e la lettera del messaggio presidenziale. Ma qui sorge qualche dubbio e qualche non marginale punto interrogativo.

* * *

Non solo la prima parte della Costituzione, ma anche il discorso dell'altro ieri del Presidente della Repubblica indicano i principi intangibili dei quali si auspica la condivisione di tutte le parti politiche, senza di che sarà molto difficile compiere quelle riforme: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri costituzionali e la loro reciproca indipendenza, il rafforzamento delle istituzioni di controllo e di garanzia. Questo assetto dello Stato è indisponibile, cioè non può essere modificato neppure da eventuali pronunciamenti della volontà popolare la quale deve essere esercitata nei limiti previsti dalla Costituzione.

Ma dall'inizio di questa legislatura - e anche prima ve ne erano state preoccupanti anticipazioni - Berlusconi e il gruppo dirigente del suo partito hanno messo all'ordine del giorno una modifica della Costituzione che ha tutti i connotati di un mutamento radicale e dovrebbero essere proprio quei fondamenti costitutivi e indisponibili ad esserne coinvolti.

Quando Napolitano, dopo aver ricordato i suddetti principi, ravvisa nell'abbandono dei pregiudizi una delle condizioni tassative per la realizzazione delle riforme, a quali pregiudizi si riferisce?
In tutte le comunità, da quelle religiose a quelle democratico-costituzionali, esistono principi non disponibili sui quali è per definizione impossibile ogni negoziato. Non crediamo di forzare il discorso del Presidente se ravvisiamo nel radicalismo anticostituzionale del premier l'ostacolo da rimuovere affinché la modernizzazione della seconda parte della Carta possa aver luogo. Di più: la procedura di revisione prevista dall'articolo 138 esclude un "forum" extra-parlamentare che elabori un nuovo sistema e lo proponga in blocco all'approvazione delle Camere. Il 138 esamina modifiche specifiche caso per caso da sottoporre separatamente ai referendum confermativi quando manchi l'approvazione della maggioranza qualificata richiesta dalla Costituzione.

Questo è dunque lo schema entro il quale si possono realizzare le riforme. Esso richiede dunque un mutamento politico sostanziale nell'approccio fin qui sostenuto dal governo. Spetta perciò al premier, che ne è il principale sostenitore, rispondere al Presidente della Repubblica e alle forze di opposizione su questo punto fondamentale.
La riforma della giustizia, della quale anche ha parlato il Capo dello Stato, fa parte di questo chiarimento per tutto ciò che attiene alla Costituzione, leggi "ad personam" comprese.

* * *

In questo quadro ha importanza anche quella sorta di disarmo linguistico tra le parti politiche di cui il cosiddetto "partito dell'amore" rappresenta la metafora immaginifica.

Quel disarmo è auspicabile ed in parte è già avvenuto, almeno per quanto riguarda il Partito democratico da un lato e alcuni settori del governo e della maggioranza parlamentare. Pensare tuttavia ad una spersonalizzazione del confronto politico non è obiettivo a portata di mano. Esso richiederebbe un mutamento radicale nei comportamenti e addirittura nel carattere del premier, anzi per esser chiari fino in fondo una premiership di tutt'altra natura.

Si può chiedere a Silvio Berlusconi di non essere più Silvio Berlusconi? Si tratta ovviamente d'una domanda retorica alla quale la sola risposta possibile è negativa. Berlusconi è un fenomeno politico inseparabile da una personalizzazione estrema che costituisce l'elemento addirittura fondativo del suo partito. Perciò la personalizzazione continuerà per la semplice ragione che essa è ormai diventata un elemento istituzionale.
La sola cosa che si potrebbe chiedere sarebbe una sua moderata attenuazione, un esibizionismo più controllato e più sobrio, per usare un aggettivo che appare - anch'esso non casualmente - nel discorso di Napolitano. Sarebbe per esempio sommamente inopportuno che il premier impostasse la campagna elettorale per le elezioni regionali sulla propria effigie coperta di sangue dopo l'improvvido "attentato" di piazza del Duomo.

Purtroppo proprio questo avverrà e sta già avvenendo; avremo i muri delle città tappezzati dal volto d'un Berlusconi ferito e sanguinante, un "grandguignol" in piena regola che dilagherà anche negli spot televisivi: un colpo d'accetta su un confronto politico normale, come auspica con stimabile tenacia il Presidente della Repubblica.

Mi domando che cosa potrà avvenire se lo stravolgimento costituzionale auspicato dal centrodestra passerà alle Camere senza maggioranza qualificata e sarà quindi sottoposto a referendum confermativo.
Si troveranno in quel caso a confronto due disegni, due visioni, due concezioni della politica e del bene comune radicalmente antitetiche. Una rappresentata da Silvio Berlusconi e l'altra da Giorgio Napolitano.
Sicuramente quest'ipotesi non è nelle intenzioni del Capo dello Stato ma oggettivamente sarà questa la natura e la sostanza di quel confronto e di quei referendum.

Date le premesse che abbiamo fin qui illustrate, c'è solo da auspicare che ciò non avvenga, ma dipende solo dal premier far sì che l'auspicio si verifichi, in mancanza di che si avrà un confronto il cui esito sarà incertissimo e denso delle incognite più preoccupanti.

© Riproduzione riservata (3 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'inferno di Rosarno e i suoi responsabili
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 11:14:43 am
L'EDITORIALE

L'inferno di Rosarno e i suoi responsabili

di Eugenio Scalfari
 

A ROSARNO ha infuriato per due giorni e due notti prima una sommossa e poi una caccia al "negro" con ronde armate che sparano a pallettoni per ferire e ammazzare. Nel terzo giorno, cioè ieri, gran parte degli immigrati è stata portata via dalla polizia nei centri di concentramento chiamati centri di accoglienza, sulla costa jonica della Calabria, ma la caccia al "negro" continua contro i pochi dispersi che vagano ancora nella piana di Gioia Tauro. Un incidente mortale potrebbe ancora accadere, visto lo stato d´animo dei "cacciatori" che ricorda quello degli aderenti al "Ku Klux Klan" nell´America degli anni Sessanta. Siamo arrivati a questo? Perché ci siamo arrivati?

I calabresi hanno difetti e virtù, come dovunque in Italia e nel mondo. Fra le virtù più radicate c´è quella dell´ospitalità, che ha un che di antico ed è tipica della civiltà contadina. Ma anche l´ospitalità si è logorata col passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali. E con l´arrivo della mafia.
Fino ai Sessanta non esisteva mafia in Calabria. Esisteva il brigantaggio nei boschi dell´Aspromonte e delle Serre. Esisteva da secoli, ma non la mafia. Ora, da quarant´anni, la mafia calabrese è diventata la più potente delle organizzazioni criminali che operano nel Sud d´Italia e la gestione degli immigrati è una delle sue attività, specie nella piana di Gioia Tauro, dove le "´ndrine" possiedono anche fertili terreni coltivati ad aranci. Il caporalato è diffuso e utilizza il lavoro dei clandestini.

Attualmente sono valutati a circa ventimila i braccianti destinati alla raccolta delle arance, dei mandarini e dei bergamotti. Ma non è un fenomeno recente, dura da quindici o vent´anni in qua. Riguarda solo i maschi, non ci sono femmine tra loro né famiglie. Sono maschi singoli, senza dimora, alloggiati in ovili diroccati, senz´acqua, senza luce, senza cessi. E vagano per quelle terre in cerca di lavoro giornaliero.

Vagano in Calabria, in Sicilia, in Basilicata, in Puglia. Secondo le stagioni raccolgono agrumi, olive, uva, pomodori. Il lavoro è in mano ai caporali, quasi tutti affiliati alle mafie locali. Dodici ore per venti o venticinque euro sui quali i caporali trattengono un pizzo di cinque e i camionisti che li trasportano sui campi un prezzo di due o tre euro.

«Cercavamo il paradiso abbiamo trovato l´inferno» ha detto ieri uno di loro avvicinato da un cronista. Eppure, se continuano a cercar lavoro in quell´inferno vuol dire che sono fuggiti da inferni ancora peggiori. Sono gli ultimi della Terra. Quelli ai quali Gesù di Nazareth nel discorso della Montagna promise che sarebbero stati i primi nel regno dei cieli. Alla fine dei tempi. Dodici ore di lavoro a 15 euro di paga. I tremila di Rosarno e gli altri come loro non hanno tempo di pregare, stramazzano in un sonno da cavalli o da maiali grufolosi. È questo l´amore, è questa l´ospitalità?

I calabresi di Rosarno non sono certo abitanti di un paradiso. Sono quindicimila di povera gente e vivono in un paese sotto il tacco della mafia. Il Comune fu sciolto per infiltrazioni (si fa per dire) mafiose ed è amministrato da un commissario prefettizio. Ma quando si faranno nuove elezioni vinceranno ancora le "´ndrine" perché in quella piana la mafia è un potere costituito, in attesa che lo Stato lo sconfigga. Speriamo che avvenga presto, ma se mi domandate quando sarò tentato di rispondervi: «alla fine dei tempi», quando verrà il regno dei giusti e il giudizio universale. Prima ci sarà stata l´Apocalisse. Che sembra già cominciata.

* * *

Qualche domanda però è di rigore. La rivolgiamo al ministro dell´Interno, a quello del Lavoro, a quello delle Attività produttive, a quello dell´Agricoltura, competenti e quindi politicamente responsabili di quell´inferno. Ma le rivolgiamo anche al Prefetto, al Questore, al Comandante dei carabinieri, al Governatore della Regione. Non sapevate? Non sapevate che la raccolta dei frutti di quelle terre è affidata a ventimila immigrati, in maggior parte clandestini, gestiti da caporali e pagati in nero? Non sapevate come vivevano? Non vi rendevate conto che si stava accumulando un materiale altamente infiammabile e che l´incendio poteva divampare da un momento all´altro? Non avevate l´obbligo di intervenire? Di attrezzare un´accoglienza decente? Di regolarizzare i clandestini e il loro lavoro, oppure di rimpatriarli ma sostituirli visto che gli italiani quel tipo di lavoro non sono disposti a farlo?

Maroni ha messo le mani avanti ed ha dichiarato l´altro ieri che c´è stata troppa tolleranza: bisognava cacciare i clandestini o processarli per il reato di clandestinità. Ma se di tolleranza si tratta, a chi è rivolta l´accusa di Maroni se non a se stesso? Non è lui che predica la sera e la mattina la tolleranza zero? Se ne scorda per le terre a sud del Garigliano? Oppure si rende conto che, clandestini o no, gli immigrati sono indispensabili all´economia italiana? E che la tolleranza zero ci ridurrebbe alla miseria?

Al Nord è diverso: la miriade di piccole imprese della Val Padana e del Nordest hanno bisogno degli immigrati e organizzano un´accoglienza decente, salvo poi dare i voti alla Lega a tutela dell´"integrità urbana", della separazione o dell´integrazione col contagocce. Si può capire: l´immigrazione in Italia è arrivata tardi ma in dieci anni siamo passati da un milione a quattro milioni di immigrati. Il tasso d´aumento è stato dunque molto alto ed ha determinato inevitabili tensioni sociali. La classe politica avrebbe dovuto gestire questo complesso processo; invece ha puntato le sue fortune sulla paura e ne ha ricavato consenso.

Nel Sud non poteva che andare peggio. Lì non c´è purgatorio ma inferno. Lì sono i volontari i soli che tentano di sfamare gli "ultimi" e dar loro una parvenza di riconoscimento. Maroni e Scajola e Zaia e Sacconi preferiscono far finta che non esistano. Aprono gli occhi solo quando scoppia la sommossa e poi la caccia al negro. Ma non hanno altra ricetta che l´espulsione, anche se ieri Maroni ha smentito che di questo si tratterà per i clandestini di Rosarno. Ma chi raccoglierà le arance, i pomodori, le olive? Chi attrezzerà l´accoglienza?

Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre dove regna invece la violenza mafiosa, i bulli di paese che si spassano giocando al tiro a segno con i fucili ad aria compressa e sparando sul negro per vincere la noia.
Noi aspettiamo risposte alle nostre domande, anche se sappiamo per esperienza che questo potere non ha l´abitudine di rispondere.

* * *

Nel frattempo, nelle alte sfere si consumano altri misfatti. Uno di essi è la decisione del presidente del Consiglio di coprire con il segreto di Stato la posizione processuale di Marco Mancini, già capo del controspionaggio alle dipendenze dell´allora direttore del servizio di sicurezza, Nicolò Pollari.
Misfatto, cattivo fatto: non trovo altra parola per definire un atto di estrema gravità. Ne ha diffusamente scritto il collega D´Avanzo il 6 gennaio scorso. Se torno sull´argomento è proprio partendo da una sua definizione alla quale non è stata data alcuna risposta. D´Avanzo è un giornalista scrupoloso che fa domande più che legittime doverose; il fatto che siano scomode per il potere accresce la loro legittimità e dovrebbe obbligare i destinatari ad una plausibile spiegazione.

La definizione di D´Avanzo distingue tra i fini e i mezzi nell´attività dei servizi di sicurezza. I fini sono prescritti dalla legge: la difesa dello Stato e delle istituzioni in cui esso si articola; la lotta contro lo spionaggio straniero; l´acquisizione all´interno e all´estero di notizie utili al perseguimento dei fini suddetti.
I mezzi sono invece scelti discrezionalmente dalla direzione del servizio e possono in certi casi anche violare le leggi ma proprio in quei casi l´autorità politica deve esserne informata sotto vincolo di segreto. Sappiamo tutti che il servizio di sicurezza non ha natura angelica e addirittura può avere commercio anche col diavolo, ma sempre per il raggiungimento di quei fini e non per altri.

Il segreto di Stato può venire opposto al magistrato inquirente e a quello giudicante. Ma esiste tuttavia un organo di natura parlamentare, il Copasir, che ha il potere di accedere alla documentazione superando il segreto e questo sulla base del principio democratico secondo il quale non deve esistere alcun organo dello Stato che non abbia sopra di sé un altro organo cui rispondere.

Parlo di queste cose perché mi trovo nella condizione di essere il primo, insieme al collega Lino Jannuzzi che allora lavorava con me all´Espresso, ad aver vissuto in prima persona l´apposizione del segreto di Stato in un processo che fu intentato contro di noi a proposito del "Piano solo" organizzato dall´allora comandante generale dei carabinieri, De Lorenzo.

Non entro nei dettagli che sono fin troppo conosciuti, se non per ricordare che noi demmo la prova testimoniale dell´esistenza di quel Piano, che aveva connotati eversivi, al punto che il Pubblico ministero che guidava l´accusa contro di noi e che si chiamava Vittorio Occorsio ? ucciso qualche anno dopo dal terrorismo fascista ? chiese al tribunale l´archiviazione degli atti contro di noi ritenendo che avevamo raggiunto la prova dei fatti.

Il tribunale ritenne però che la prova testimoniale non bastasse e chiese l´esibizione del documento redatto dal Comando dei carabinieri, agli atti del servizio di sicurezza. L´allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, pose il segreto di Stato su quel documento e così fummo condannati.

Non esisteva a quell´epoca un Copasir che potesse accedere alla documentazione; fu istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta dove però, per regolamento, la maggioranza parlamentare era presente in numero soverchiante. La Commissione lavorò per quasi un anno e si concluse con un compromesso. Poi la legge sul segreto fu riformata e il Copasir ? la cui presidenza spetta all´opposizione ? ne è stato uno dei positivi risultati.

Proprio per queste ragioni è della massima importanza la scelta del presidente di quell´organismo, che dev´essere indicato dai gruppi parlamentari del maggior partito d´opposizione, cosa che avverrà nei prossimi giorni. L´esperienza ci insegna che chi guida quel delicatissimo organo deve avere l´intelletto e i titoli per venire nominato a quella carica e non dev´essere in nessun modo mescolato alla lotta politica in corso. Dal momento in cui viene insediato acquista le caratteristiche di un giudice di una magistratura che è la sola che possa vigilare sulla congruità dei mezzi usati dai servizi di sicurezza per realizzare i fini che la legge indica, vigilando anche che i mezzi non siano così perversi da stravolgere i fini stessi.

Noi abbiamo la sensazione che il segreto posto sulla posizione processuale di Marco Mancini copra mezzi illeciti e non pertinenti ai fini di istituto, ma la nostra sensazione non fa testo, può soltanto suscitare attenzione nell´opinione pubblica.

Spetta al Copasir accertare ed eventualmente rimuovere il segreto di Stato su quella specifica situazione. E qui il peso della scelta, che sia congrua ai compiti di
quell´organismo.

Post scriptum. Sembra ormai decisa la scelta del Partito democratico di far propria la candidatura di Emma Bonino all´elezione del presidente della Regione Lazio. Mi sono trovato talvolta in posizione critica nei confronti dei radicali, ma in questo caso penso che quella della Bonino sia la candidatura migliore. Ha qualità di amministratrice già ampiamente collaudate e integrità di carattere e di comportamento a tutta prova. Penso anche che, se uscirà vittoriosa dal confronto con la Polverini, non sarà certo lei ad assumere atteggiamenti irriguardosi verso la Chiesa in una regione che ospita il Papa nella sua capitale garantendogli piena indipendenza. Sarà tuttavia, Emma Bonino, un presidio di laicità in un momento che di laicità ha gran bisogno, non certo contro ma anzi a sostegno dello spazio pubblico riservato alla Chiesa e alla sovranità dello Stato nei campi di sua esclusiva competenza.
 
© Riproduzione riservata (10 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il gesto che Bettino non fece
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2010, 05:03:24 pm
IL COMMENTO

Il gesto che Bettino non fece

di EUGENIO SCALFARI


La lettera del Presidente della Repubblica alla signora Anna Craxi nella decennale ricorrenza della morte di quello che è stato il leader del Partito socialista e capo del Governo dal 1983 all'86, non è una missiva privata. È stata pubblicamente diffusa, come è giusto che fosse trattandosi non già di condoglianze per un lutto ma di un documento mirato - come il presidente Napolitano esplicitamente scrive - "a favorire una più serena e condivisa considerazione del difficile cammino della democrazia italiana nel primo cinquantennio repubblicano". In realtà la lettera si occupa del periodo di cui Craxi fu uno dei protagonisti, né poteva essere altrimenti.

Quindi un pubblico documento che, oltre alla vedova di Bettino Craxi, è diretto all'opinione pubblica italiana, autorizzando pertanto una valutazione altrettanto pubblica del suo contenuto.

La lettera è ampia e si può dividere in due parti: la prima si occupa della politica di Craxi nei tre anni di presidenza del Consiglio; la seconda, assai più sommaria, della fase che è stata battezzata "Tangentopoli". La diversa attenzione dedicata ai due argomenti è pienamente comprensibile: si voleva in questa lettera commemorare e privilegiare gli aspetti positivi e soltanto sfiorarne quelli negativi che però non potevano esser taciuti. Anche questo criterio adottato dal nostro Presidente è pienamente accettabile; fa parte di una "pietas" che non è soltanto una privata virtù ma un elemento costitutivo d'una democrazia dove convivono valutazioni diverse e talvolta non condivise né condivisibili, sulle quali la "pietas" soffonde una virtuosa tolleranza.

Tolleranza ma non oblio, che è invece incompatibile se modifica e mistifica il passato rischiando d'inquinare il presente e di compromettere il futuro.

La ricostruzione dell'azione politica di Craxi come leader socialista e per tre anni capo del governo corrisponde alla realtà, né poteva essere altrimenti essendo stata scritta da uno dei testimoni ed attori di quei fatti: la politica estera di Craxi, mirata ad una piattaforma italiana nel Mediterraneo, alla comprensione dei bisogni e dei diritti della Palestina e del mondo arabo, accompagnata peraltro dalla difesa dello Stato d'Israele. Infine una riconfermata e leale adesione all'alleanza nord-atlantica non disgiunta da iniziative volte a dinamizzare lo sviluppo dell'Unione europea.

Tutti elementi positivi, sui quali peraltro è doveroso aggiungere che ciascuno di essi, prima di Craxi, aveva costituito l'essenza della politica estera italiana con Fanfani, con Gronchi, con Aldo Moro, con Cossiga. Nessuno di quegli elementi rappresentò dunque una novità o addirittura una discontinuità, ma semplicemente una prosecuzione.

Qualche riserva si dovrebbe viceversa formulare sul rinnovamento del Concordato con la Santa Sede. Per certi aspetti fu un aggiornamento, per altri la riconferma di privilegi di tipo "temporalistico" che potevano anzi dovevano legittimamente essere invocati dallo Stato e non lo furono affatto.

Infine la grande riforma costituzionale. Craxi ne fece la piattaforma ideologica del suo pensiero ma ne dette una sola immagine: quella di un futuro e auspicato presidenzialismo. Il presidente Napolitano ci permetterà di affermare che un conto è modernizzare la democrazia parlamentare ed un conto del tutto diverso è volerla sostituire con un assetto di tipo presidenziale.

Aggiungiamo che l'azione di Craxi per realizzare l'unità della sinistra italiana nel quadro d'una democrazia compiuta non fu particolarmente efficace.

Anche il Pci ebbe notevoli responsabilità su questo mancato obiettivo (non certo Napolitano che anzi si batté coraggiosamente per realizzarlo), ma Craxi non fu da meno finendo addirittura con lo schierarsi con la parte più conservatrice della Dc.

Infine Tangentopoli. La lettera rievoca il discorso parlamentare in cui Craxi lanciò una chiamata in correità a tutti i partiti. Tutti, disse, avevano violato la legge sul finanziamento dei partiti e tutti, a cominciare dal suo, dovevano quindi assumersene la responsabilità.

Discorso senza dubbio coraggioso se ad esso fosse seguito il necessario sbocco: la chiamata di correo è l'ammissione di un reato in questo caso particolarmente grave. Chi si avventura su quel terreno prosegue dimettendosi dalle cariche che ricopre e mettendosi a disposizione dell'autorità giudiziaria. Non lo fece nessuno, a cominciare da Craxi il quale del resto non fu semplicemente il fruitore passivo del sistema di corruttela ma ne fu un attivo organizzatore con una differenza rispetto agli altri partiti di governo: il leader del Psi non si limitò a fruire delle "dazioni" ma intervenne sulle singole imprese e sulle singole loro operazioni tassandole o facendole escludere dalle gare. Tralasciamo per carità di patria i decreti in favore di Fininvest.

Detto questo, si proceda pure alla toponomastica nei Comuni che nella loro libera capacità di decidere vogliano intestare a Craxi piazze e giardini.

Altra cosa è la condivisione politica e morale, la quale non è parcellizzabile. Si condividano i meriti e si condividano le rampogne per i reati. Dopodiché c'è la "pietas" pubblica, ma non l'oblio.

© Riproduzione riservata (19 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il sogno di Tremonti
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:57:34 am
Il sogno di Tremonti

di Eugenio Scalfari

Nessuna Camera, solo il Senato delle Regioni.
Composto da quelle territoriali e quelle anonime in forma di Spa, per energia, trasporti, pubblicità...
 
Un comune amico mi porta un messaggio di Giulio Tremonti: vorrebbe incontrarmi per espormi un suo progetto sul quale desidera un mio parere. La proposta mi stupisce: non ho alcun rapporto con il ministro dell'Economia, al quale non ho lesinato critiche da parecchi anni.
Comunque il messaggio è allettante, mi incuriosisce; accetto. L' incontro si svolge a casa dell'amico, dalle parti della via Cassia. Il ministro è gentile, non fa alcun accenno alle mie critiche, evita di imbarazzarmi e viene al sodo.

"Si tratta", mi dice, "di una novità assoluta non solo per l' Italia ma per il mondo intero". "Si tratta", chiedo io, "del suo piano di riforma fiscale?" "No, è ben altro. Una rivoluzione, un nuovo tipo di Stato e di patto sociale".

Ha gli occhi spiritati, come accade in chi è ossessionato da un'idea che viaggia sulle ali della fantasia prima di planare nella realtà. Credo che colga la mia sorpresa e che ne abbia piacere. "Ma prima", mi dice, "una premessa". E si inoltra in un'analisi storica di filosofia politica che parte dalla democrazia ateniese, dall'oligarchia di Sparta, dalla tirannide di Tebe e poi la 'Repubblica' di Platone, la politica nel pensiero di Aristotele e di Tommaso D'Aquino, i costituzionalisti del Seicento spagnolo e naturalmente Montesquieu e Rousseau, fino alla modernità di Schmidt, Popper, Habermas.

Parla senza interruzioni e lo seguo con qualche difficoltà anche perché mi sfugge del tutto dove voglia arrivare. Un leggero velo di noia deve essersi soffuso sulla mia faccia perché si ferma di botto: "È stanco?". "Ma no, affatto", dico io. "Vede, il progetto che desidero sottoporre è talmente nuovo che questa premessa mi sembrava necessaria. Non volevo che lei pensasse ad una mia fantasticheria che non tenga conto dei precedenti". "Comprendo benissimo, i precedenti". "Il nostro, come lei sa, più che un partito politico è un movimento culturale. Ricorderà che il fascismo nacque come una costola del futurismo". "Una costola futurista, certo". "E anche di
D'Annunzio". "Un movimento culturale". "Come noi". "Il Popolo della Libertà". "Il partito è il braccio amministrativo ma il ventaglio è più vasto". "Da Bondi alla Santanché". "Al centro di tutto c'è il federalismo". "Da Cattaneo a Calderoli".

Guardai l'orologio, era già passata un'ora. Lui notò questa mia diversione con quei suoi occhi mobilissimi che sembrano obbedire a pensieri estranei alle parole che pronuncia e ai gesti delle mani. Mi faceva un curioso effetto, affascinante a suo modo.

"Il federalismo", dissi io, "lei lo vede come una grande occasione?". "Il nostro sarà un federalismo diverso da tutti gli altri. Nulla a che vedere con i Länder della Germania, con i cantoni della Svizzera e meno che mai con gli Stati dell'America federale". "Fondato sulle Regioni. Allo stato solo compiti di supplenza". "Naturalmente", rispose, "ma qui sta la novità, qui sta il pensiero rivoluzionario: le Regioni non saranno soltanto territoriali. Ci saranno almeno altre sei e forse sette Regioni che chiameremo anonime". "Anonime", dissi io, "cioè senza nome. Regioni esistenti ma segrete". "No, lei non ha capito". "In effetti il termine anonime mi riesce oscuro". "Anonime, come le società anonime. Capito adesso?".

Confesso che ero molto interdetto ma cercavo di non farlo vedere. Perciò dissi: "Regioni anonime s.p.a., questa sì che è un'invenzione. Società per azioni con capitale pubblico, è questa l'idea?". "Fuochino, fuochino, quasi fuoco", disse lui con la sua vocina da bambino.

Il gioco mi prese. "Vediamo", dissi, "Regioni economiche quotate in Borsa". "Quasi fuoco, quasi fuoco. Coraggio". "Regioni quotate in Borsa, con capitale pubblico fornito dalle Regioni territoriali e dal personale dipendente". Mi si avvicinò, mi mise una mano sul braccio guardandomi negli occhi: "Sapevo", disse, "che lei avrebbe compreso. Però manca ancora un tassello, quello essenziale". "Quale? Me lo dica maestro". La parola maestro mi era scappata di bocca e mi ripresi subito: "Mi scusi, signor ministro". "Ma di che cosa? Mi fa un gran piacere. Il tassello è la partecipazione delle Regioni anonime al Senato federale. Per le questioni più delicate sulle quali il Senato federale dovrà decidere ci vorrà un voto di maggioranza qualificata per il quale sarà necessario l'accordo di almeno due delle Regioni anonime. Capisce la novità?".

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma la regina bussava per entrare in Parlamento
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2010, 03:39:44 pm

Politica

Ma la regina bussava per entrare in Parlamento

di EUGENIO SCALFARI


Una nuova imputazione (per truffa fiscale) contro Silvio Berlusconi da parte della procura di Milano per fatti accaduti in anni recenti e con effetti che si estendono fino al 2009. Riguardano l'acquisto di diritti di film proiettati dalle reti Mediaset. I prezzi, secondo la tesi della Procura, sarebbero molto al di sopra di quelli correnti sul mercato e Mediaset non avrebbe trattato con le case di produzione americane ma con un intermediario, rimettendoci anziché guadagnandoci. Ma l'intermediario avrebbe accantonato il super-profitto in conti misteriosi in paradisi fiscali e poi, dopo molti e complicati percorsi bancari, sarebbero infine arrivati nelle tasche di Berlusconi che avrebbe così creato una massa importante di fondi neri. La frode (sempre secondo la tesi della Procura) avrebbe danneggiato non solo il fisco ma anche gli azionisti di Mediaset, società quotata in Borsa, salvo ovviamente l'azionista di maggioranza che anzi ne sarebbe stato il beneficiario.

L'intera questione è stata già ampiamente raccontata sui giornali di ieri e non starò dunque ad occuparmene se non per un aspetto politico: quello immediatamente sollevato dall'avvocato Ghedini, grillo parlante del premier, che ha visto in questa incolpazione l'ennesimo intento persecutorio delle "toghe rosse" reso ancor più odioso dalla voluta coincidenza con la campagna per le elezioni regionali.
In realtà quella coincidenza non danneggia affatto Berlusconi dal punto di vista politico; l'esperienza consolidata insegna che la veste di vittima gli ha sempre giovato, il danno se mai l'hanno subito le forze politiche che lo contrastano e che passano anch'esse come persecutorie e mandanti delle "malefatte" dei magistrati.

Ma in questo caso il "fumus" persecutorio è difficilissimo da sostenere. L'indagine giudiziaria è cominciata infatti nel 2005, in quello stesso anno la Procura ha disposto il sequestro conservativo di 100 milioni di dollari dell'intermediario.

Sono stati effettuati decine di interrogatori e acquisiti centinaia di documenti; l'attività istruttoria ha dato luogo a 45 mila pagine di verbalizzazioni nonostante che i sostituti procuratori lavorassero in condizioni disagiatissime, mancando perfino di segretari che li aiutassero nel disbrigo delle pratiche.

Nel frattempo si sono svolte in Italia varie consultazioni elettorali, nazionali e locali, senza che l'istruttoria in corso fosse usata per turbare ed influenzarne l'esito. Può essere spiacevole la coincidenza in quest'occasione, ma il vittimismo esibito dal solito Ghedini non ha alcun appiglio. I procuratori hanno ora concluso il loro lavoro e si accingono a chiedere al gip il rinvio a giudizio degli indagati.
Il premier e i suoi supposti complici dovranno difendersi in giudizio, come accade ad ogni imputato che non sia protetto da leggi appositamente create dal governo e dalla sua ferrea maggioranza di replicanti.

* * *

Quest'ultimo punto - questo sì - è materia di dibattito di questi mesi e di questi giorni. è stata approvata tre giorni fa in Senato la legge sul "processo breve" che passerà ora all'esame e al voto della Camera. In quella sede è nel frattempo in discussione un altro disegno di legge sul "legittimo impedimento" che ha lo stesso fine di evitare che i processi pendenti contro il premier abbiano luogo fino a quando un terzo disegno di legge, in questo caso costituzionale, il cosiddetto Lodo Alfano numero 2, possa esentare interamente il premier da ogni responsabilità giudiziaria per tutto l'esercizio del suo mandato politico.

Aleggia infine una quarta possibilità, quella cioè di estendere e rafforzare l'istituto dell'immunità parlamentare. Si tratterebbe anche in questo caso d'un emendamento alla Costituzione vigente (articolo 68) che richiede un tempo più lungo d'una legge ordinaria; il testo di questo disegno di legge dovrebbe quindi essere varato al più presto e dovrebbe - nei piani del governo - avere l'appoggio di almeno una parte dell'opposizione per essere approvato con la maggioranza qualificata richiesta per le leggi costituzionali, in mancanza della quale si dovrebbe procedere al
referendum confermativo il cui esito sarebbe molto incerto.

Il Partito democratico sta considerando il possibile contenuto di questo rafforzamento dell'immunità, con la quale non verrebbero protette soltanto le quattro maggiori cariche istituzionali ma tutti i membri del Parlamento. Il nostro giornale ha pubblicato ieri una lettera indirizzataci dall'onorevole Violante, nella quale è spiegato l'atteggiamento del Partito democratico sul tema dell'immunità; ad essa ha risposto Gustavo Zagrebelsky. Chi ha letto quei testi è dunque informato delle rispettive tesi dei due interlocutori. Su di essere farò qualche mia riflessione.

* * *

Comincio con un episodio che può chiarire il senso dell'immunità parlamentare.
Avvenne nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ero andato a Londra per intervistare l'allora Cancelliere dello Scacchiere, un titolo che andrebbe a pennello al nostro Tremonti. Fatta l'intervista, il Cancelliere con grande cortesia mi fece accompagnare da un suo collaboratore alla Camera dei Comuni che avevo espresso il desiderio di visitare. Andammo a Westminster, visitai l'aula e i suoi dintorni, e il mio esperto accompagnatore mi raccontò alcune curiose liturgie che ancora venivano praticate pur essendo ormai puramente simboliche. La principale riguardava il discorso della Corona, unica occasione in cui la Regina entrava in quell'edificio. La carrozza arrivava a poca distanza da Westminster e un araldo del seguito entrava nell'aula per informare lo "speaker" che sua Maestà veniva a pronunciare il suo discorso. A quel punto lo speaker impartiva con voce stentorea l'ordine di chiudere il gran portone d'accesso.

Eseguito l'ordine il capo della Guardia reale bussava alla porta e annunciava che sua Maestà chiedeva di entrare e di incontrare "i fedeli Comuni d'Inghilterra". Lo speaker a quel punto ordinava di aprire il portone e la Regina faceva il suo ingresso lasciando la Guardia fuori dalla porta, scortata dalla Guardia della Camera dei Comuni. Nel Settecento questo era il modo simbolico per dimostrare la separazione dei poteri e l'assoluta indipendenza dei "fedeli Comuni" rispetto al Sovrano. Montesquieu proprio in quegli anni scriveva "L'esprit des lois" che fu la tavola fondativa dello Stato di diritto.

* * *
Lo Stato di diritto, cioè appunto la separazione dei poteri e l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, precede la democrazia e si attua anche in presenza di monarchie dotate di ampi poteri. È la premessa necessaria anche se non sufficiente al pieno avvento dei regimi democratici, dei quali le Costituzioni rappresentano il coronamento.

Quanto all'immunità, essa fu istituita per proteggere il potere legislativo dalle interferenze dell'esecutivo e del giudiziario che, all'epoca, dipendeva dai poteri del Sovrano a nome del quale i giudici proclamavano le loro sentenze. Riguardava soltanto i reati che i membri del Parlamento potessero aver commesso nell'esercizio delle loro funzioni: l'arresto doveva essere autorizzato dal Parlamento a garanzia dell'autonomia dei propri membri.

Quando in Italia fu scritta la Costituzione del 1947, ci fu ampio dibattito sull'immunità. Venivamo da vent'anni di dittatura, con una magistratura fortemente condizionata dal governo. Relatore su quell'argomento fu Costantino Mortati.
L'orientamento fu uniforme: il Parlamento doveva autorizzare l'inizio del processo, le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni, l'arresto, salvo che avvenisse in flagranza di reato. Il Parlamento poteva impedire l'arresto anche se disposto dalla giustizia in esecuzione d'una sentenza passata in giudicato.

I pareri dei commissari e poi dell'aula furono quasi unanimi, con la sola eccezione dell'onorevole Leone che si dichiarò contrario all'autorizzazione necessaria anche per l'arresto in esecuzione di sentenze, ma rimase solo e il testo dell'articolo 68 approvò quelle decisioni. Il relatore espresse la certezza che la Giunta per le autorizzazioni a procedere valutasse attentamente il reato ad essa sottoposto e che il verdetto fosse sulla natura del reato cioè fosse connesso strettamente con l'attività parlamentare del supposto reo.

La prassi successivamente invalsa dimostrò purtroppo il formarsi di un clima omertoso in forza del quale - salvo eccezioni molto rare - l'autorizzazione a procedere fu negata sistematicamente trasformandosi in un privilegio.
Nel 1993, in piena "Tangentopoli", l'articolo 68 fu modificato, la potestà parlamentare di poter negare l'arresto anche in casi di sentenze giudicate fu abolita; così pure fu abolita l'autorizzazione per l'inizio del procedimento giudiziario. Rimase invece per quanto riguarda le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni telefoniche e l'arresto.

Questi poteri del Parlamento ci sono tuttora, né credo, nei progetti di riforma si preveda di reintrodurre l'autorizzazione per l'arresto in esecuzione di sentenze.
Si vuole, invece da parte del governo, reintrodurre l'autorizzazione per l'inizio del processo.

Il Partito democratico è disposto ad esaminare queste proposte ma pone come condizione un limite di tempo: vuole che il rafforzamento eventuale dell'immunità sia valido per una sola legislatura che è quella in corso. Vuole inoltre una contropartita pertinente: una riforma della legge elettorale che ripristini in qualche modo il voto di preferenza sperando così che i parlamentari possano giudicare col proprio cervello non condizionati dal potere degli apparati e soprattutto del governo.

Nella sua risposta all'onorevole Violante, Zagrebelsky fa una premessa della massima importanza: rileva che il governo ha già in parte cambiato e ancor più cambierà la Costituzione senza alcun apporto dell'opposizione, trasformando la democrazia parlamentare in una democrazia di stile autoritario. Questo risultato è già in gran parte avvenuto e ancor più sarà perfezionato quando saranno passate le leggi in discussione, con la svalutazione sistematica dei poteri di controllo, a cominciare dallo stesso Parlamento, dalla magistratura, dalla Corte costituzionale e dal Capo dello Stato. In queste condizioni, sostiene Zagrebelsky, è questo il "trend" che occorre bloccare ed invertire; fintanto che ciò non avverrà è inutile favorire un accordo "bipartisan" sul rafforzamento dell'immunità anche se, aggiunge Zagrebelsky, "una riforma elettorale sarebbe non solo opportuna ma necessaria". Penso anche io (e l'ho scritto più volte) che bloccare la deriva verso un sistema autoritario, già molto avanzata, sia un preliminare necessario. Penso tuttavia che questo obiettivo sia difficilmente raggiungibile fino a quando il consenso popolare a Berlusconi resterà ancora ampio e compatto. Di fatto con poche alternative, dato lo stato incerto e altalenante dell'opposizione. Ci vuole un lavoro culturale oltre che politico per cambiare una situazione così pregiudicata.

Intanto l'attività parlamentare proseguirà e sarà ben difficile rifiutare il confronto sui temi di volta in volta in discussione.
Bisognerà affrontarli con fermezza e chiarezza di idee.

Per quanto riguarda l'immunità, la limitazione ad una sola legislatura non ha molto senso e non otterrà alcun risultato.
Assai più efficace mi sembra l'idea, lanciata dall'ex procuratore D'Ambrosio, di obbligare chi ha evitato i processi a causa dell'immunità, di affrontare i suoi doveri verso la giustizia e di fare del mancato rispetto di questa norma una condizione di ineleggibilità che duri fino a quando il processo non sia celebrato. Questa sì, sarebbe una contropartita sufficiente. Altre francamente non ne vedo.
 

© Riproduzione riservata (24 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lo Stato disossato e i pasticci elettorali
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2010, 10:47:35 am
IL COMMENTO

Lo Stato disossato e i pasticci elettorali

di EUGENIO SCALFARI


OGGI dovrei occuparmi delle elezioni regionali e infatti ne parlerò tra poco, ma prima c'è un tema che merita di esser posto come introduzione: si sta disossando lo Stato. Mentre si discute di riforme costituzionali, la struttura dello Stato sta infatti cambiando sotto i nostri occhi distratti: lo Stato si sta "esternalizzando" con conseguenze gravi sulla dislocazione del potere e sugli equilibri istituzionali.

Negli scorsi giorni, nella disattenzione generale, è stata approvata la creazione della "Difesa Spa" che centralizzerà gli acquisti e gli approvvigionamenti necessari al funzionamento di tutte le Forze armate in una società per azioni. Analoga operazione verrà discussa e probabilmente approvata in Senato mercoledì prossimo per la creazione della "Protezione Spa", responsabile di tutte le operazioni di qualsivoglia tipo effettuate dalla Protezione civile. Immaginiamo che altre società sorgeranno nei vari settori della Pubblica amministrazione. Le operazioni di queste nuove entità, la provvista dei fondi necessari, l'accensione di mutui bancari e tutto ciò che è necessario al loro funzionamento saranno disposti mediante ordinanze, veri e propri decreti legge che non approdano in Parlamento ma diventano immediatamente esecutivi. La loro firma spetta al ministro competente o addirittura al presidente del Consiglio e, oltre a scavalcare il Parlamento, scavalca anche il Capo dello Stato. La Corte dei conti interviene più come organo di consulenza che come organo di controllo.

Le somme in gioco sono enormi. Il capo della Protezione civile, che è al tempo stesso sottosegretario in attesa di esser elevato al rango di ministro, in un'intervista di qualche giorno fa al nostro giornale ha quantificato gli interessi che la Protezione civile paga annualmente sui debiti esistenti con le banche: 850 milioni. In termini di capitale si tratta di un debito tra i 20 e 25 miliardi di euro, una somma enorme decisa al di fuori della normale contabilità e dei normali controlli di forma e di merito. Per di più è scritta nel disegno di legge l'esenzione di ogni responsabilità penale del capo della Protezione civile il quale è esentato dal doversi sottoporre alle normali regole della Pubblica amministrazione per quanto riguarda appalti e commesse.


È superfluo segnalare che queste società sono amministrate da propri consigli d'amministrazione; lo "spoil system" ne risulta ampliato senza alcun controllo parlamentare sulle nomine e sugli eventuali conflitti d'interesse.

C'è dunque un mutamento vistoso in questo modo di gestione: rapidità nel decidere, impressionante rafforzamento del potere esecutivo. Berlusconi anticipa il suo ideale: l'uscita dalla Repubblica parlamentare e l'ingresso nella democrazia autoritaria; una legge elettorale blindata, una maggioranza parlamentare di "replicanti", gli organi di controllo ridotti a puro simbolo senza poteri. Faceva effetto vederlo l'altro giorno a L'Aquila abbracciato a Guido Bertolaso reclinando la testa sulle spalle del "protettore". "Che faremmo senza Guido?" ha detto mentre annunciava la sua promozione a ministro senza neppure averne informato i membri del governo e tanto meno il Capo dello Stato.

Già, che farebbe senza Guido che allo stato dei fatti è il controllore-controllato per eccellenza? Bertolaso è la sua protesi e così saranno i capi delle future Spa pubbliche. La prova generale (auspice Tremonti) fu fatta qualche anno fa con la Cassa Depositi e Prestiti. Perché  -  bisogna ricordarlo  -  i flussi finanziari che alimentano il sistema "esternalizzato" sfuggono a tutti salvo che al superministro dell'Economia. Giulio e Guido, un'accoppiata perfetta, con la differenza che Guido è una protesi di B., mentre Giulio lavora per sé.
Lo Stato di diritto è a pezzi.

* * *

In questo contesto si preparano le elezioni regionali e quella per il comune di Bologna. Qui i protagonisti sono numerosi: Berlusconi ovviamente, Casini, D'Alema, Bersani, Vendola. Quella più interessante da esaminare è la situazione pugliese perché i suoi effetti hanno avuto ed avranno ripercussioni importanti sul quadro politico nazionale.

In Puglia andava infatti in scena uno dei punti essenziali del programma con il quale Bersani ha conquistato la guida del Partito democratico: l'alleanza tra le varie forze d'opposizione in vista di un'alternativa al centrodestra, ma in particolare l'alleanza con l'Udc, alla quale D'Alema attribuiva una importanza speciale.
Finora Casini ha sempre escluso un'alleanza nazionale del suo partito con altre forze. Il centro non può che stare al centro, così ha sempre detto. Però fare alleanze in elezioni regionali e locali quando vi siano convergenze sui programmi e sui candidati, è possibile in diverse direzioni affinché si bilancino reciprocamente.

Il ragionamento è chiaro. Parrebbe tuttavia che negli ultimi tempi questo schema di lavoro sia cambiato sotto l'urto dei fatti. Parrebbe cioè che Casini consideri possibile un'alleanza con il Pd in vista delle elezioni politiche del 2013. Giudica irrecuperabile Berlusconi, giudica sempre più necessaria una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, senza di che l'Udc sarebbe condannata all'irrilevanza.

In vista di questi obiettivi ancora remoti, il leader dell'Udc ha interesse ad una sconfitta ai punti di Berlusconi nelle prossime regionali. Su 13 Regioni in palio, spera che almeno 7 vadano alle opposizioni e non più di 6 allo schieramento governativo. Di qui le alleanze con il Pd in parecchie situazioni.

Il caso pugliese era il più significativo di tutti: è una regione importante nel Mezzogiorno continentale, economicamente dinamica, stava a cuore a Massimo D'Alema che è il maggior fautore dell'alleanza con il centro. Perciò la Puglia, ma non con Vendola candidato. Troppo a sinistra. Qualunque altro, ma Vendola no.
E' andata male. Ora il candidato del Pd, dopo una serie di scossoni, marce avanti e marce indietro, primarie e non primarie, è proprio Vendola. Ma nonostante le profferte di Berlusconi, Casini non è passato dall'altra parte. Si presenterà da solo con un candidato forte che farà razzia di voti a destra. Indirettamente favorirà Vendola, sempre che Berlusconi non decida di confluire su Casini, ma sembra difficile che possa farlo.
Più di questo il leader del centro, in questa tornata elettorale, non poteva fare. Il dopo si vedrà dopo.

* * *

Ci sono stati parecchi errori in Puglia, compiuti da Bersani e da D'Alema sull'altare dell'alleanza con l'Udc, da loro giudicata indispensabile per la vittoria elettorale. Una sottovalutazione di Vendola. L'accettazione del veto di Casini sul nome del governatore uscente. L'irre-orre sulle primarie. Ma l'errore principale e non scusabile è stato quello di schierarsi e fare campagna in favore di uno dei due candidati alle primarie impegnando così sulla sua vittoria o sconfitta la segreteria nazionale del partito.

Le primarie sono un metodo discutibile ma, una volta decise dagli organi regionali e accettate dalla direzione nazionale di un partito, è regola che il gruppo dirigente non si schieri con un candidato contro l'altro. Dovrebbe restare rigorosamente neutrale e poi appoggiare compattamente il vincitore che affronterà l'avversario del partito. Questa seconda mossa Bersani e D'Alema l'hanno fatta e sicuramente il loro appoggio a Vendola sarà pieno e  -  speriamo  -  efficace; ma la botta alla loro credibilità politica è stata tosta e ne porteranno i lividi per un bel po'. Anche perché quell'ondivago comportamento ha incoraggiato una sorta di ribellismo locale che non è sana autonomia e neppure dissenso politico rispetto alla linea che vinse il congresso del Pd, ma esplosione di ambizioni e vanità personali che sono esattamente il contrario della funzione di un partito politico.
Si potrebbe dire che nel centrodestra avvengono fatti analoghi, ma questa constatazione non è affatto consolatoria.

La questione nel Pd riguarda in particolare Bersani. Sembra un cacciatore con il falcone D'Alema sulla spalla. Non è questo il segretario di cui il partito (ogni partito) ha bisogno. Il falcone parte prima del cacciatore, anzi è lui stesso che snida la preda e poi torna ad appollaiarsi sulla spalla del padrone. In un partito democratico questo meccanismo non può funzionare e infatti non funziona.

* * *

Ci sono nel Pd parecchi altri impacci elettorali ancora in corso. Altri altrettanto gravi ce ne sono nel Pdl. Berlusconi è nei guai in Puglia. Nel Lazio la partita è apertissima e il candidato risponde più a Fini che a lui. In Sicilia, anche se in questa regione non si vota, non ne parliamo. La competizione con la Lega è aspra in tutto il Nord.

Nonostante tutto, l'ipotesi di un risultato 7 a 6 in favore del centrosinistra è dunque ancora ipotizzabile. Ma poi bisognerà passare dalla tattica alla strategia.

Quella larga parte di italiani ai quali stanno a cuore le sorti del paese oltreché la propria, capiscono che non si può continuare così. Un capo di governo che in ogni luogo racconta barzellette e le comunica ai giornalisti affinché ne parlino sui loro giornali; un capo di governo che promuove un Bertolaso ministro dopo averlo pubblicamente censurato per le sue gaffe internazionali; un capo di governo che si occupa solo dei suoi guai giudiziari e degli affari delle sue società (private e pubbliche); un capo di governo che insulta ogni giorno i magistrati e prepara riforme a suo personale uso e consumo obbligando i magistrati ad una civilissima quanto gravissima manifestazione di protesta; un capo di governo che ogni mattina si fa dipingere i capelli in testa; un capo di governo che è una macchietta se non fosse una tragedia nazionale, ha l'aria d'essere arrivato alle ultime battute. Il suo declino potrà anche essere lungo ma è senz'altro cominciato.

Post Scriptum. Adriano Celentano in un articolo sul Corriere della Sera di giovedì scorso, dopo aver constatato che il governo non funziona e che i problemi dei cittadini restano da anni irrisolti, ha proposto che Berlusconi sia definitivamente liberato da tutti i suoi guai giudiziari ed abbia così il tempo di dedicarsi al bene comune.
Nei programmi di Berlusconi campeggia anche la costruzione di 25 centrali nucleari. Il ragazzo della via Gluck avrebbe fatto un pandemonio per impedirlo. Adesso reclama un salvacondotto definitivo per il leader nuclearista. Caro Adriano, trent'anni fa eri "rock", adesso sei lento assai.

© Riproduzione riservata (31 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Visione Avatar
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 11:51:30 am
Visione Avatar

di Eugenio Scalfari


Il film di Cameron è una grande innovazione ma occorrerà attendere una seconda o terza volta prima che il cinema decida di puntarvi tutte le sue carte
 

Sono andato a vedere il film di Cameron, 'Avatar', mi sono messo gli occhialetti e per poco meno di tre ore ho partecipato a quello spettacolo. La partecipazione ti viene imposta dalla tecnologia, non è una libera scelta ma un fatto necessario. Se il film ti piace ne ricaverai piacere, se non è di tuo gusto resti comunque incatenato alla tua poltrona per sapere come andrà a finire e non ti puoi distrarre o sonnecchiare perché quelle figure, quei paesaggi, quelle spore, quegli animali sono lì con te, danzano o si azzuffano sul tuo naso e tu sei con loro. Magari all'uscita tirerai un respiro di sollievo ma quelle tre ore ti saranno volate.

Avevo letto con interesse gli articoli che l'hanno presentato prima ancora che fosse messo in distribuzione. Ce ne erano di favorevoli, di neutrali e di decisamente contrari. 'Il Foglio', tanto per citarne uno, aveva lanciato una vera e propria campagna 'pro', Natalia Aspesi aveva analizzato i 'pro' e i 'contro' con la sua consueta intelligenza arrivando ad un saldo positivo. Roberto Faenza, da uomo del mestiere, pur riconoscendo i meriti tecnici e l'invenzione del regista e sceneggiatore, aveva dato l'allarme: un film costato 200 milioni di dollari funziona come una gigantesca pompa aspirante sul mercato; rastrella le risorse dei distributori, abitua il pubblico ad un prodotto che non può avere rivali, cancella gli attori, monopolizza per mesi le sale e successivamente le emittenti televisive. E soprattutto - così scrive Faenza - scaccerà l'elemento umano dal cinema. Resteranno soltanto il regista, il computer e gli effetti speciali.

Adesso che anch'io l'ho visto e tenendo conto che appartengo ad una cultura agli antipodi di quella che ha ispirato 'Avatar' pur non avendo perso la curiosità verso le cose nuove, faccio le seguenti considerazioni.

1. Faenza ha ragione quando prevede che se Hollywood si metterà su quella strada l'effetto sul mercato dei prodotti cinematografici sarà la nascita di un monopolio globale, esteso a tutto il pianeta. Il dialogo è infatti schiacciato dalle immagini, la struttura stessa di quel prodotto non prevede la necessità di traduzioni, le didascalie scritte in varie lingue sotto alle immagini sono più che sufficienti.

2. La constatazione che quel tipo di film cancella gli attori e ogni altro soggetto all'infuori del regista, del computer e degli effetti speciali è esatta solo in parte. Gli effetti speciali usati in quelle dimensioni richiedono eccezionali dosi di fantasia. La loro messa in scena non può essere affidata ad un piccolo gruppo di esperti artigiani: ci vuole un sovrappiù d'immaginazione collettiva e una realizzazione di disegni da animare che richiedono una rifinitura estremamente difficile. Infine il produttore, i manager, i distributori, i proprietari delle sale, le banche finanziatrici, saranno alle prese con cifre molto elevate e dovranno vigilare con estrema attenzione affinché un prodotto così costoso non si riveli un flop anziché un clamoroso successo commerciale. Il boom della prima volta significa poco, bisognerà attendere una seconda e una terza volta prima di puntare tutte le carte su quell'innovazione.

3. 'Avatar' mi ha ricordato il giornalino 'L'Avventuroso', che fu l'appassionante lettura della mia generazione quando eravamo tra i 10 e i 15 anni. L'impero di Ming, Gordon e la sua compagna (uomo e donna bianchi), un mondo di astronavi e di guerrieri armati di razzi modernissimi ma anche di archi e frecce all'antica; città sospese nell'aria; uomini-falchi e uomini-pesci. Non paragono un giornale per ragazzi degli anni Trenta del Novecento con un film tecnologico del 2010, ma la grammatica di base è la stessa e gli stessi sono gli stereotipi.

4. Oltre all''Avventuroso' mi è però venuto in mente anche il film 'Il soldato blu', d'una trentina di anni fa. Fu il primo della tradizione 'western' che rifece la storia della conquista del West mettendosi dalla parte dei vinti. In 'Avatar' è la stessa cosa: nel finale i 'marines' aggressori si ritirano disfatti e il 'soldato blu' che era uno di loro assume l'identità dello strano popolo che vive a Pandora, pacifico ma guerresco se deve difendere il proprio territorio e la propria indipendenza.

5. Ci sono messaggi filosofici in 'Avatar', messaggi culturali, messaggi religiosi. C'è il senso della trascendenza, la presenza d'una Grande Madre il cui ideale è quello della giustizia. C'è il sentimento amoroso. Un grande rispetto per la natura. Il messaggio è di amore e di pace, corroborato dal finale.

6. Ma 'Avatar' è un film d'azione per eccellenza e l'azione riposa inevitabilmente sulla guerra, altrimenti diventerebbe non un film ma un documentario del 'National Geographic'. Il messaggio pacifista c'è ed è forte, ma nove decimi del film raccontano una guerra di distruzioni e devastazioni. I morti sono pochissimi ma le rovine immense.

Concludo: 'Avatar' merita d'esser visto. Personalmente preferisco 'Il Gattopardo' e 'Casablanca', Louis Armstrong al 'rock'.

Ma io sono datato, perciò le mie preferenze vanno trattate con molta cautela.

(28 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La bolla si sgonfia Bertolaso provvederà
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2010, 11:11:24 am
IL COMMENTO

La bolla si sgonfia Bertolaso provvederà

di EUGENIO SCALFARI

LA BOLLA delle Borse si sta sgonfiando. Poco male. Le Borse sono il terreno di gioco degli speculatori e anche un serbatoio al quale attingono le imprese per rifornirsi di capitali, sempre che il risparmio vi affluisca. Da qualche tempo però il risparmio privilegia investimenti sicuri e possibilmente remunerativi. Per tutto il 2009 ha privilegiato i titoli emessi dagli Stati; negli ultimi mesi ha cambiato direzione preferendo i "bond" emessi da imprese solide. Che la bolla borsistica si sgonfi per loro non è un dramma: prima o poi si riprenderà.
 
Ma attenzione: le Borse sono anche un termometro che segnala tendenze e aspettative. Da questo punto di vista i vistosi ribassi dei giorni scorsi, registrati sia in Europa sia a Wall Street, mandano messaggi sinistri che non possono esser sottovalutati.

Il significato è chiaro: il 2010 (ma anche l'11 e forse perfino il 12) sarà eguale se non peggiore del "terribile" 2009. Questa volta non si tratta d'una crisi immobiliare e bancaria: in prima fila ci sono i cosiddetti "fondi sovrani", cioè i deficit giganteschi accumulati dagli Stati del G7, cioè europei e nordamericani. È quello il ventre molle della crisi economica mondiale nell'anno secondo del suo percorso.

Berlusconi  -  non so se in buona o cattiva fede perché in lui le due cose coincidono  -  ha finora sostenuto che la crisi non c'era mai stata in Italia e che comunque ormai era finita in tutto il mondo. I suoi ministri e il coro dei "replicanti" della sua maggioranza parlamentare hanno ripetuto questi suoi esorcismi. Tutti tranne Tremonti.

Berlusconi è infuriato perché  -  dice  -  "Giulio è sempre di cattivo umore e a me tocca il compito di rassicurarlo, ma non ci riesco".

Lo credo. Tremonti conosce la realtà, che non è tale da suscitare allegria. Le barzellette del "boss" sulla Madonna potranno far ridere i frati di Betlemme ma non il responsabile dell'economia italiana.

* * *

Il reddito della Grecia rappresenta il 4 per cento del totale dell'Unione europea; quello del Portogallo anche meno. Quello spagnolo parecchio di più; vanno aggiunti i paesi baltici e l'Ungheria, anch'essi in pessime acque. Ma in teoria non si tratta di ordini di grandezza tali da affondare l'Europa. La seconda linea di resistenza è rappresentata dal Fondo monetario internazionale. Quindi i "default" di questi Stati non configurano un dramma. In teoria.

Certo la speculazione può trarre spunto da questa realtà per spingere il ribasso e far esplodere la bolla; in questo caso per puntare su un deprezzamento del cambio dell'euro nei confronti del dollaro. Se le banche centrali del G7 volessero tagliar le gambe alla speculazione ribassista potrebbero farlo agevolmente. In teoria.

In pratica le cose stanno diversamente. La Germania è decisamente contraria ad accollarsi l'onere di salvataggi altrui; quanto agli Usa il debito pubblico accumulato dal paese-leader di tutto l'Occidente è enorme, le misure finora previste da Obama sono ridicolmente insufficienti a invertire il "trend". In queste condizioni pensare che gli Usa possano esser parte attiva di interventi mirati a sistemare i default altrui è fuori da ogni ragionevole ipotesi.

In realtà il rischio maggiore proviene proprio dal debito interno americano, per riportare il quale a livelli di sicurezza entro il 2012 come promette Obama sarebbe necessaria una cifra da capogiro di 3.000 miliardi di dollari.

Questo è il vero spettro che grava sull'economia mondiale, aprendo paurosi scenari di inflazione accompagnata dal persistere di una recessione produttiva e dall'ulteriore contrarsi del commercio internazionale e dell'occupazione.

* * *

Brilla ancora una volta per la sua incompetente dissennatezza la sortita di ieri del nostro presidente del Consiglio che ha vantato la sua politica di "diminuzione del peso fiscale" e lo slancio della nostra economia "in fase di robusta ripresa".

Il peso fiscale è, al contrario, nettamente in aumento, lo dicono i dati ufficiali dell'Istat, della Banca d'Italia e dello stesso Tesoro. È in aumento il rapporto deficit/Pil (oltre il 5 per cento) ed è in aumento lo stock di debito pubblico che è già al 117 per cento del Pil e marcia speditamente verso il 120.

Quanto alla ripresa produttiva, dovremmo avere un aumento dell'uno per cento quest'anno, "rebus sic stantibus". Ma le cose non resteranno affatto ferme.

Peggioreranno. Per cause esterne ed interne. Scadranno in primavera importi molto consistenti di titoli pubblici che dovranno essere rinnovati. Con l'aria che tira e con analoghe massicce scadenze in Germania, in Gran Bretagna e in Usa, avremo un mercato internazionale in piena agitazione, con tassi di remunerazione in crescendo e relativi maggiori oneri per il servizio degli interessi sui debiti.

Il nostro premier meriterebbe d'essere interdetto per dissennatezza economica e demagogia politica. Tremonti è di cattivo umore e gli fa il broncio: una lite tra compari che si scaricano vicendevolmente comuni responsabilità.

Anche il nostro superministro dell'Economia ne dice di cotte e di crude rivaleggiando col suo Capo. Al G7 del Polo Nord ha proposto ieri che il Fondo monetario diventi un organo politico, guidato dai ministri dell'Economia e non dai tecnici ed ha annunciato che in primavera presenterà un piano d'azione mirato a questo obiettivo.

La casa continua a bruciare e lui si preoccupa di saldare i conti col governatore della Banca d'Italia. Ma da quale cielo ci sono piovuti addosso personaggi così calamitosi? Debbono aver colpe assai grandi gli italiani per esserseli meritati.

* * *

Come tutto ciò non bastasse, il governo ha trovato il modo di litigare pubblicamente anche con la Fiat che ha deciso di chiudere nel 2011 lo stabilimento di Termini Imerese. La lite verte sugli incentivi. La Fiat non li vuole, il governo è ben lieto di non darglieli più e si accende la polemica sul passato e sul futuro: la Fiat è stata un'azienda mantenuta dallo Stato? Che farà d'ora in poi senza quel mantenimento? Diventerà la donna onesta che non è mai stata?

Una polemica assurda. La Fiat è stata, dal 1948 in poi, il potere forte per eccellenza. La più grande azienda italiana insieme all'Eni di Enrico Mattei. I governi hanno sempre sponsorizzato la sua politica e la Fiat, in cambio, non ha lesinato i suoi finanziamenti alla Dc e alle sue correnti. I governi l'hanno spinta ad uscire dal Piemonte e decentrare nel Sud una parte delle sue produzioni. La Fiat l'ha fatto ricevendo in cambio i necessari finanziamenti a Melfi e a Termini. Questa è la storia, così sono andate le cose.

Ora la situazione è cambiata. La Fiat non è più un potere forte come un tempo. Quando Marchionne immaginò l'operazione Chrysler, sperando di abbinarvi anche l'operazione Opel, tutti la magnificarono con l'aggettivo di "conquistadora". Noi scrivemmo che si trattava di un'operazione difensiva che la Fiat faceva per sopravvivere e questa, come ora risulta chiaro a tutti, era la pura verità dei fatti.

Il problema di Termini è dolorosamente evidente: quello stabilimento è sempre stato antieconomico. In tempi grassi è sopravvissuto, in tempi magri non ce la fa più.

Gli incentivi non risolvono i problemi, li rinviano di qualche mese e probabilmente li aggravano. I governi hanno voluto industrie non economiche e ora se le trovano sulle braccia. Il mercato dell'auto nei paesi occidentali è vecchio, il prodotto è vecchio, la domanda è in discesa. I nuovi mercati per nuovi tipi di automobile sono all'Est.
Termini Imerese non ha futuro. Ma c'è da domandarsi addirittura quale futuro abbia Mirafiori. Questo è il vero problema che Marchionne sta tentando di risolvere ed è incredibile che il governo non se ne renda conto. Ma chi dovrebbe? Scajola?

Una risorsa umana ci sarebbe e forse Berlusconi ci sta già pensando: si chiama Bertolaso, protezione civile Spa.
Con quel gioiello in tasca si può affrontare qualunque emergenza. Forza Bertolaso, forza Italia. Con uomini come quelli non c'è emergenza che tenga.

Post scriptum. Ma come farà ad essere israeliano con gli israeliani e palestinese coi palestinesi? Ad affermare davanti a Netanyahu che bombardare Gaza fu una reazione giusta e due ore dopo, davanti ad Abu Mazen, che le vittime di Gaza sono paragonabili a quelle della Shoah? Zelig si limitava a cambiare forma a seconda dell'interlocutore da compiacere, ma questo è un uomo in grado di cancellare il tempo e lo spazio. Riesce a stare col pilota dell'aereo che sgancia le bombe e nel rifugio sotterraneo con i bombardati. In contemporanea e dispensando ad entrambi parole di comprensione.

Queste righe non sono mie, non le ho scritte io, le ha scritte sulla Stampa del 4 febbraio Massimo Gramellini.
Io mi limito a trascriverle e, scusandomi con l'autore, a sottoscriverle, ponendomi anch'io la domanda: ma come fa? E come fanno gli italiani a sopportarlo? E il cardinal Bertone a benedirlo?

© Riproduzione riservata (07 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Irregolari e conformisti
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2010, 02:04:54 pm
Irregolari e conformisti

di Eugenio Scalfari

E quelli che stanno a guardare.

Alcune riflessioni e un consiglio a Pierluigi Battista
 

Pierluigi Battista ha scritto un libro impegnativo fin dal titolo. L'ha pubblicato qualche settimana fa la Rizzoli. Si chiama 'I conformisti. L'estinzione degli intellettuali d'Italia'; 213 pagine dense di nomi, giudizi storici politici morali. I conformisti, o per esser più esatti gli intellettuali conformisti, sono quelli arruolati sotto una bandiera ideologica che hanno difeso a dritto e a rovescio anche a prezzo di dover ignorare la realtà dei fatti e quindi la verità. All'opposto dei conformisti ci sono, secondo l'autore, gli 'irregolari'. Sono quelli che hanno viceversa privilegiato la ricerca della verità anche a costo di dover abbandonare l'ideologia sotto le cui bandiere avevano fin lì militato. È ovvio che la simpatia dell'autore vada agli irregolari. Ed anche la simpatia del lettore, a cominciare dalla mia. Posto il problema come lo pone l'autore, da una parte chi cerca liberamente la verità e dall'altra chi la occulta per favorire la propria bandiera, non c'è gara possibile: stiamo tutti coi veritieri e contro i falsificatori.

Ma Pigi (è così che lo chiamano gli amici e così lo chiamai anch'io quando lo conobbi che aveva meno di diciott'anni) scopre l'esistenza di una terza categoria d'intellettuali: quelli che hanno fatto dell'irregolarità un abito mentale permanente: non hanno appartenenze da difendere, quindi sono irregolari in servizio permanente effettivo. Cercano la verità dei fatti e poi, di volta in volta, si dichiarano per la parte verso la quale li porta il vento della verità. Si tratta d'un vento alterno, a volte viene dal Sud, a volte dal Nord o da altri punti cardinali. Il proprio degli irregolari permanenti consiste in questa loro capacità di orientarsi nella rosa dei venti. Rappresentano la freccia che segnala il vento della verità su quel problema, su quella tesi, su quei fatti. Sono gli unici veri intellettuali degni del nome. Purtroppo ce ne sono rimasti pochi. Ovviamente Pigi è uno di loro. Ha scritto un bel libro, Pierluigi Battista, scorrevole, rievocativo, ma anche attuale. Racconta a larghe pennellate ciò che è accaduto nel
Novecento, nella storia delle idee e delle ideologie dall'ultima guerra fino ai nostri giorni. Un bel libro completamente di parte, camuffato da libro imparziale. Ma conoscendo Pigi metto la mano sul fuoco affermando che l'autore non è affatto consapevole di aver camuffato la parzialità. Lui è convinto della tesi che sostiene. Perciò - come si dice - è in perfetta buona fede. Se c'è un peccato, un difetto, qualche lacuna nel suo ragionamento, si tratta di pecche colpose ma non dolose. Il che tuttavia non ne diminuisce ma semmai ne aumenta la pericolosità.

Vediamo dunque dove si annidano quelle pecche, partendo dai personaggi che rappresentano i punti di riferimento etico e politico dell'autore. I più importanti sono Albert Camus, George Orwell, Simone Weil, Georges Bernanos. Scelsero la verità e non tennero conto dell'appartenenza, anzi abbandonarono l'appartenenza originaria. I primi tre, in omaggio alla verità, abbandonarono la sinistra. Bernanos, che era un cristiano monarchico, lasciò cadere l'appartenenza monarchica ma non certo quella cattolica quando vide i massacri fatti dai franchisti nella guerra civile spagnola. Sono nomi di tutto rispetto, ai quali ne vengono affiancati altri, come Gide e Koestler, anch'essi passati dal comunismo all'anticomunismo. Ci furono anche trasferimenti dal fascismo alla sinistra, ma questi non mi pare abbiano incontrato il favore dell'autore. Ed a ragione: preferire un totalitarismo ad un altro significa soltanto modificare l'ordine dei fattori: il prodotto non cambia. Dov'è allora la pecca di Battista? Ne vedo un paio e mi permetto di segnalargliele.

La prima consiste nell'aver ristretto la questione al periodo della guerra fredda ed aver puntato l'obiettivo tra l'appartenenza all'ideologia comunista (conformismo) e la rottura con essa in nome della verità (irregolari). Non è uno schema e quindi semplicistico ridurre la realtà a due alternative? C'erano terze e quarte vie. Allora, forse, velleitarie data la brutalità dello scontro. E poi perché limitarsi agli intellettuali? Gli operai, i docenti, che dichiaravano di sentirsi comunisti non si esponevano a rappresaglie? Non venivano licenziati in tronco, non erano costretti a cambiar lavoro, sede, tenore di vita, a me non pare che possano definirsi conformisti quelli che affrontarono questo tipo di battaglia.

La seconda pecca riguarda gli irregolari permanenti, quelli che giudicano all'inglese, come si dice con molta approssimazione; caso per caso. Senza mettersi l'elmetto. Questa frase mi ha fatto drizzar le orecchie: è quella incessantemente ripetuta dal giornale sul quale Pigi scrive, anzi del quale è vicedirettore. Se si va a passeggiare in aperta campagna o sulla spiaggia o in giro per musei e cinematografi nella propria città e ci si mette in testa un elmetto, allora ci si merita di esser ricoverati per disturbi mentali. Ma se ci si trova in battaglia e sotto il fuoco avversario, non mettersi l'elmetto è da incoscienti. C'è un'altra ipotesi: la battaglia c'è, chi la combatte porta l'elmetto, chi non la combatte sta appollaiato in un lontano osservatorio (naturalmente senza elmetto) e aspetta di vedere a chi andrà la vittoria. Se tra i combattenti c'è una parte più forte e più armata dell'altra, quelli che osservano dall'alto registrano inevitabilmente il vento del potere e vorrebbero che i più deboli si levassero l'elmetto e li raggiungessero nell'osservatorio. A quel punto la battaglia sarebbe stata vinta dal potente di turno. Sono questi gli irregolari? A me non pare. Questo tipo di irregolari sono i veri conformisti.

Questi miei pensieri avevo deciso di tenerli per me, in fondo Pigi è un vecchio amico. Ma poi ho letto la lettera che Beniamino Placido scrisse alla figlia Barbara nel 1990, pubblicata da 'Repubblica' l'8 febbraio . Dove spiega che cosa fu il partito d'Azione. Chi furono i suoi eroi. Anticomunisti che combatterono insieme ai comunisti contro la dittatura nazifascista. Che fecero anni e anni di galera. O furono ammazzati dai fascisti. E seguirono il loro motto di 'non mollare', che significava continuare a tenersi l'elmetto in testa. Vorrei che Pigi leggesse la lettera di Beniamino. E ne cavasse qualche insegnamento e qualche eventuale autocritica sul suo modo di pensare la storia.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it



Titolo: EUGENIO SCALFARI. Così hanno espropriato Costituzione e Parlamento
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2010, 10:23:10 pm
L'EDITORIALE

Così hanno espropriato Costituzione e Parlamento

di EUGENIO SCALFARI


La prima parola che viene in mente è bordello, nel senso letterale e metaforico del termine già usato da Dante nella celebre apostrofe "Non donna di province ma bordello", cui si potrebbe aggiungere l'altro verso della stessa terzina: "Nave senza nocchiero in gran tempesta". Il padre della nostra letteratura, cioè della nostra storia, aveva scolpito ottocento anni fa uno dei connotati permanenti della nostra società, per fortuna non il solo, ma purtroppo quello più ricorrente.

Non c'è ritratto più adatto per descrivere l'impressione suscitata dall'ennesimo scandalo del nostro scandaloso presente, quello che si intitola alla Protezione civile, al suo capo, Guido Bertolaso e al suo massimo ispiratore e primo fruitore, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

La popolarità di Berlusconi e il consenso che ancora compattamente lo sostiene poggia infatti su tre pilastri: la lotta indiscriminata e sapientemente alimentata contro gli immigrati, la celere raccolta dei rifiuti a Napoli, la tendopoli e le casette rapidamente allestite a L'Aquila dopo il terremoto. Gli ultimi due debbono il loro successo a Guido Bertolaso e questo spiega la difesa che Berlusconi ha assunto personalmente del suo capocantiere, detto anche "il protettore" in quanto capo della Protezione.

L'uomo del fare ha trovato due anni fa un altro uomo del fare e l'innamoramento è stato immediato e reciproco. Saper fare e voler fare sono requisiti positivi se il fare viene esercitato all'interno di limiti precisi, di regole chiare, di controlli rigorosi.

Più aumenta il potere degli uomini del fare e più dovrebbero aumentare i controlli, le regole, i limiti. Ma se i controlli vengono smantellati, allora il potere del fare diventa un requisito negativo e questa è appunto la situazione che due anni di dittatura del cosiddetto fare ha creato.

Lo scandalo della Protezione civile è dunque intimamente connesso al berlusconismo e alla sua visione della cosa pubblica. Alla sua concezione costituzionale. Da anni il premier si batte per instaurare un assetto autoritario, dove l'accrescimento dei poteri presidenziali sia accompagnato dall'indebolimento dei controlli e dei poteri di garanzia. Dove il potere legislativo sia confiscato da quello esecutivo, dove il disegno di legge sia sostituito dal decreto legge e il decreto dall'ordinanza. E dove infine l'ordinanza sia "esternalizzata" e affidata non più ad un dipartimento collocato all'interno della Pubblica amministrazione, ma ad una società per azioni di carattere pubblico in veste privatistica, che ha come unico referente il capo del governo, con tutto ciò che inevitabilmente ne consegue e che lo scandalo Bertolaso-Protezione civile ha portato ora sotto gli occhi di tutti i cittadini. Per fortuna lo scandalo è scoppiato prima dell'entrata in vigore della legge sulle intercettazioni che se sarà approvata così come il governo la vuole, metterà il bavaglio alla stampa (a quel che resta della libera stampa). Con quella legge vigente l'opinione pubblica non avrebbe saputo nulla di ciò che è accaduto, nulla dell'istruttoria in corso, nulla delle risate degli appaltatori allo scoppio del terremoto, nulla del raddoppio dei prezzi in corso d'opera, nulla degli intrecci familiari e amicali, nulla dei "benefit" percepiti dagli appaltanti, nulla dei conti segreti.

L'opinione pubblica sarebbe stata tagliata fuori dalla delicatissima fase dell'istruttoria e così lo sarà nel prossimo futuro se quella legge sarà approvata. E questo sarà il quarto pilastro per completare il disegno dello Stato autoritario. Il quinto pilastro è e sempre più sarà lo scudo immunitario per gli uomini del fare e per quelli dell'obbedire.

Tagliar fuori l'opinione pubblica e tagliar fuori la giurisdizione: questo è l'obiettivo. Lo scandalo della Protezione civile è salutare perché mette allo scoperto la giuntura principale di questo disegno mentre ancora la pubblica opinione e la giurisdizione sono in grado di conoscere e di giudicare. Dopo sarà troppo tardi.

* * *

Io non credo che Guido Bertolaso sia coinvolto in festini e se anche lo fosse non penso che sia questo il punto scandaloso della questione anche se intriga la prurigine pubblica, quella più appassionata ai "reality show" e al "Grande Fratello" in edizione televisiva.

Qualche giorno fa il sottosegretario Bertolaso mi ha indirizzato una lunga lettera in cui raccontava le difficoltà del suo lavoro, il valore dei suoi collaboratori, la bontà dei risultati ottenuti. Non ne voleva la pubblicazione; voleva che mi convincessi alla sua tesi del "tutto va bene e tutto andrà bene". Ricevetti la lettera poco prima che lo scandalo scoppiasse, tardai qualche giorno a rispondere, nel frattempo lo scandalo scoppiò.

La mia risposta è stata breve. Ho fatto i più sinceri auguri al capo della Protezione per l'esito dell'inchiesta a suo carico, e li ho fatti "nell'interesse suo, dei volontari che lavorano con zelo e disinteresse ai suoi ordini, e del Paese". Ma ho aggiunto che il mio giudizio sul sistema e sui poteri della Protezione è totalmente negativo e gli ho allegato il discorso pronunciato in Senato dal senatore Luigi Zanda sulla conversione in legge del decreto che istituisce la "Protezione civile Spa", dove i vizi e i pericoli della nuova istituzione sono puntigliosamente e lucidamente elencati.

Rivelo questo epistolario per dire che non ci muove in questa circostanza alcun intento moralistico e alcuna antipatia personale. Bertolaso sa fare il suo mestiere ma con un assai grave difetto: una brama di fare che si traduce inevitabilmente in brama di potere. Ho scritto su di lui che è una protesi di Berlusconi e questa è la pura verità.

C'è una frase che il capo della Protezione ha detto in una recentissima intervista: "Se sto correndo in macchina per salvare una vita e il semaforo segna il rosso, io passo nonostante il rosso".

Ha perfettamente ragione e noi abbiamo fervidamente applaudito quando ciò è avvenuto. Purtroppo l'area della Protezione civile si è enormemente accresciuta ed estesa ad eventi che non hanno niente a che fare con la vita delle persone e delle cose; eventi che non hanno nulla di catastrofico, appuntamenti che si svolgeranno tra mesi ed anni. Ma lui ha ottenuto di passare con il rosso sempre e dovunque. L'ha ottenuto e l'ha voluto. Ora dice che non poteva sorvegliare tutto, che nulla sapeva di appalti e di appaltatori, che forse è caduto in una trappola.

Io non credo che questa sua difesa corrisponda a verità; le intercettazioni della Procura di Firenze e le indagini della Guardia di finanza disposte dalla Procura di Roma prospettano una verità completamente diversa. Ma quand'anche Bertolaso fosse caduto in una trappola, è lui stesso ad essersela preparata. Non si possono guidare i lavori pubblici della Maddalena, quelli dell'Aquila, gli aiuti ad Haiti, la preparazione del Convegno eucaristico, le Olimpiadi del nuoto a Roma, i rifiuti a Napoli (ancora in corso), quelli a Palermo, le colate di fango a Messina, i Mondiali del ciclismo a Varese. Infine l'ondata di maltempo in tutta Italia che si avvicenda a siccità ed incendi secondo le settimane e le stagioni.

Questa è la trappola, alla quale ora si aggiunge la sua difesa nell'inchiesta che lo vede coinvolto. Spero per lui che abbia almeno il buon senso di dimettersi, ma purtroppo il sistema da lui pensato e da Berlusconi voluto resta in piedi. È quello che va smantellato anche perché è un sistema interamente incostituzionale. Ancora una volta è di incostituzionalità che si tratta.

* * *

Non starò a far l'elenco degli appaltatori (attuatori) e degli appaltanti tra i quali si segnalano Balducci, presidente del Consiglio dei Lavori pubblici, De Santis che lo coadiuva. Non starò a ripercorrere le filiere familiari e amicali del gruppo Anemone, i Piermarini, i Piscicelli, i Gagliardi, i Della Giovampaola; una lunga filiera di figli, cognati, fratelli, amici da una vita, con nello scorcio perfino un vecchio padre salesiano, emerito finanziatore di missionari e anche di qualche lestofante. Tutte persone, affari, intrecci, che hanno occupato le pagine di Repubblica e di tutti i giornali dei giorni scorsi.

A me interessa invece tornare su "Protezione civile Spa" e più in generale sul sistema delle ordinanze.
La legge base sulla Protezione e sulle Ordinanze risale al 1992 ed è perfetta sotto ogni punto di vista, in raccordo con la giurisprudenza e con successive sentenze della Corte costituzionale. Quella legge autorizzava la Protezione civile "a passare col semaforo rosso" in caso di catastrofi naturali di importanza nazionale, fermo restando il controllo della Corte dei Conti sui rendiconti delle spese sostenute.

Vediamo anzitutto il numero delle ordinanze emesse dai successivi governi. A partire dal 1994 fino al 2001 sono state emanate un'ordinanza all'anno, al massimo due un paio di volte. Nel 2002 le ordinanze relative alla Protezione civile sono state 40, nel 2003 sono state 72, e poi 59 nel 2004, 99 nel 2005, 71 nel 2006, 87 nel 2008 e 79 nel 2009 fino al mese di settembre.

L'aumento va di pari passo con l'estensione dell'attività "protettiva" ai cosiddetti Grandi eventi al di fuori delle catastrofi naturali. Quest'estensione avvenne con le leggi del 2002 e del 2005. L'emissione di ordinanze non è più subordinata a criteri specifici ma a discrezione del Consiglio dei ministri, con una vera e propria confisca dei poteri legislativi e di controllo del Parlamento ed anche del Capo dello Stato perché le ordinanze sono esclusivo appannaggio del presidente del Consiglio in quanto atti puramente amministrativi. Ma puramente amministrativi non sono perché i veri atti amministrativi sono soggetti a regolari controlli della Corte dei Conti, dei Tar e del Consiglio di Stato. Si tratta cioè di amministrazione straordinaria, dove la straordinarietà è decisa dal Consiglio dei ministri con criteri eminentemente politici.

La Corte costituzionale aveva stabilito con una sentenza del 1956, più volte reiterata in casi successivi, che "le ordinanze debbono rispondere ai canoni dell'efficacia limitati nel tempo in relazione ai dettami della necessità, dell'urgenza e della adeguata motivazione".

Si è invece arrivati addirittura ad utilizzare l'ordinanza per affidare alla Protezione civile l'attuazione dei decreti legge anche prima della loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Nemmeno il Re Sole aveva i poteri che ha Berlusconi attraverso la Protezione civile. La quale si è occupata perfino della costruzione di un albergo sul lago Maggiore in concomitanza con i campionati di ciclismo e si occupa ora dell'Expo di Milano che avrà luogo nel 2011. Qui non si tratta più di sorpassare un semaforo rosso ma addirittura di puntare l'automobile dritto sul passante per metterlo sotto le ruote, là dove il passante è semplicemente la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto.

Ultima ciliegia su questa torta maleodorante: il sottosegretario alla Protezione civile è anche direttore del Dipartimento della P. C.; sarebbe come se Gianni Letta, sottosegretario con delega ai servizi di sicurezza, fosse anche il direttore di quei servizi. È curiosa la difesa preventiva di Letta per il collega in difficoltà. Vuole forse anche lui mettersi al posto dei direttori dei servizi segreti conservando la carica politica? Perché non lascia ai magistrati di fare il loro mestiere? Va bene che è gentiluomo vaticano, ma anche Angelo Balducci lo è. (Sia detto tra parentesi: il cardinal Bertone dovrebbe forse esser più rigoroso nelle scelte dei suoi gentiluomini. Uno è finito in galera per corruzione e non è una buona pubblicità per la Chiesa).

* * *

A Guido Bertolaso vorrei porre qualche conclusiva domanda che ovviamente non riguarda la materia sotto esame dei tribunali.

1. Non si è accorto che l'estensione della Protezione civile ai Grandi eventi del tutto disconnessi dalle catastrofi causate dalla natura o dagli uomini, era al di sopra delle possibilità di un regolare servizio?

2. Se se ne è accorto, ha comunicato questa sua preoccupazione al Presidente del Consiglio? Ottenendo quale risposta?

3. Non si è reso conto che la creazione della Protezione civile Spa rendeva permanente quest'anomalia e confiscava ulteriormente i poteri legislativi del Parlamento?

4. Ha comunicato al presidente del Consiglio questa sua eventuale preoccupazione?

5. Si è reso conto che buona parte dei mutamenti apportati alla legge del 1992 potevano creare conflitti con l'ordinamento costituzionale?

6. Ha riflettuto sul fatto che le ordinanze relative a quegli eventi (tra le quali c'è anche l'attribuzione alla P. C. del finanziamento delle celebrazioni per l'Unità d'Italia) sono un modo per evitare la firma del capo dello Stato eludendo così il suo controllo di costituzionalità?

7. Ha informato di queste sue eventuali osservazioni il presidente del Consiglio? Quale risposta ne ha ottenuta?

8. Si è reso conto che, restando sottosegretario di Stato, esisteva un'incompatibilità assoluta con la carica di direttore del Dipartimento della P. C.? Questa incompatibilità è durata più di un anno. Per quale ragione?

9. Bertolaso è stato indagato per reati connessi alla gestione dei rifiuti di Napoli, insieme al suo vice dell'epoca (che è una donna a lui ben nota e a lui fedelissima). Il processo per il suo vice è in corso. Per quanto riguarda lui è stato invece stralciato e trasferito a Roma. Può dirci a che punto si trova questo processo?

10. Porgo queste domande a Bertolaso perché egli si è sempre proclamato un uomo al servizio dello Stato e non dei governi. Se fosse al servizio di questo governo e lo dichiarasse francamente, non porrei questi interrogativi. Ma se è al servizio dello Stato avrebbe dovuto porseli e quindi: perché queste domande non se le è poste da solo e non ne ha tratto le conclusioni?

© Riproduzione riservata (14 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI - GUIDO BERTOLASO ... scambio epistolare (istruttivo).
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2010, 05:00:31 pm
LA LETTERA.

Bertolaso risponde alle dieci domande di Scalfari: "Dico basta a questo fango"

"Non è un mio problema considerare che per "Stato" si deve intendere l'Italia senza Berlusconi".

"Mai chiesta la patente di pirata e chi ha sbagliato deve pagare"

"Sono un servitore dello Stato". "Quando ci sono scadenze l'unico strumento che funziona è la Protezione civile"

di GUIDO BERTOLASO


Caro Scalfari, rispondo subito alle 10 domande che lei mi ha posto.

1. Non si è accorto che l'estensione della Protezione civile ai Grandi eventi del tutto disconnessi dalle catastrofi causate dalla natura o dagli uomini, era al di sopra delle possibilità di un regolare servizio?
"Mi sono accorto del contrario e resto convinto delle ragioni che hanno portato il Governo Berlusconi prima, il Governo Prodi poi, ed infine l'attuale Governo Berlusconi a confermare al Dipartimento la gestione dei Grandi Eventi. La ragione: quella della Protezione civile è l'unica normativa che considera, in linea con le normative comunitarie relativamente alla accelerazione delle procedure, la variabile "tempo" come reale e cogente".
"Quando ci sono scadenze, quando bisogna concludere qualcosa entro una data non procrastinabile, anche in relazione ad esigenze di sicurezza e di tutela degli interessi primari della collettività, l'unico strumento che funziona è la normativa citata. Ripeto: normativa, non anarchia o autorizzazione ad esercitare la pirateria a nome dello Stato, normativa per di più comprensiva di controlli e autorità di vigilanza, mai abrogate".

2. Se se n 'è accorto, ha comunicato questa sua preoccupazione al presidente del Consiglio? Ottenendo quale risposta?
"Ho comunicato alla Presidenza più volte - e non solo durante questo Governo - la mia preoccupazione relativa all'aumento delle richieste di dichiarazione di grande evento da affrontare con la figura del Commissario Straordinario. A mio avviso c'era e c'è da domandarsi come mai continuano ad aumentare le richieste di dichiarare situazioni di ogni tipo particolari e diverse dalle altre, che siano grandi eventi, emergenze, o altre fattispecie. A me pare che ciò costituisca un segnale, inquietante, dell'aumento della difficoltà delle Amministrazioni a gestire in ordinario il territorio affrontando situazioni complesse. Nessuno, né in Parlamento né fuori, ha finora dato cenno di condividere la necessità di una revisione e di un ammodernamento della normativa, per poter consentire alle Amministrazioni di affrontare efficacemente in via ordinaria le problematiche del governo del loro territorio".


3. Non si è reso conto che la creazione della Protezione civile Spa rendeva permanente quest'anomalia e confiscava ulteriormente i poteri legislativi del Parlamento?
"Come già Le ho scritto la settimana scorsa, il decreto legge non prevede affatto la trasformazione della Protezione Civile in società per azioni, la quale viceversa, con personale capace e preparato, continuerà nella sua missione. La Spa è uno strumento tecnico in più, che, con l'esperienza acquisita nelle emergenze, non ultima quella aquilana, rimette nella mani del "Pubblico" competenze da "general contractor" che la pubblica amministrazione ha perso negli ultimi decenni, rendendola nuovamente in grado di seguire giorno per giorno i lavori di cui lo Stato è committente e sottraendosi al ricatto del "mercato", all'ormai abituale ricorso ai vari modi di implementare i prezzi che azzerano nei fatti la sostanza stessa delle gare che si svolgono, oltre a provocare inevitabilmente il rinvio a tempi ignoti della consegna della commessa. Aggiungo, viste le circostanze, che tutto si gioca, come sempre, sulla scelta delle persone giuste nei posti giusti. Ho potuto farlo all'Aquila, mentre in precedenza ho lavorato con le massime autorità competenti per le opere pubbliche che ho trovato. Se queste persone già investite di ruoli importanti e delicati non erano all'altezza del loro compito, il chè deve ancora essere provato, posso solo dire, senza violare alcun segreto investigativo, che la prospettiva che si possa lavorare assumendo in pieno anche la responsabilità della scelta accurata dei collaboratori mi pare un passo avanti e una garanzia in più".
 
4. Ha comunicato al presidente del consiglio questa sua eventuale preoccupazione?
"Rendere lo Stato efficiente non è una anomalia, non ho mai sottratto poteri legislativi al Parlamento - affermazione in sé ridicola - , credo che lo Stato non sia solo gioco partitico, in parlamento e fuori, ma anche responsabilità di operare delle amministrazioni. Per questa ragione non avevo proprio nulla da comunicare al Presidente del Consiglio su questo punto. Avrei dovuto chiedergli che mi concedesse di rinunciare alle uniche norme che consentono di operare con efficacia, come ho dimostrato in questi anni. Per quale ragione? Per restare fermo a tempo indeterminato, in attesa che il Parlamento affrontasse il problema della capacità di decidere e fare delle Amministrazioni, sul quale ad oggi non ci sono neppure proposte?"

5. Si è reso conto che buona parte dei mutamenti apportati alla legge del 1992 potevano creare conflitti con l'ordinamento costituzionale?
"Non mi rendo mai conto di ciò che non c'è. Nessuna novità venuta dopo la legge del 1992 ha creato conflitti costituzionali. Nessuna norma è passata col parere contrario del Presidente della Repubblica, non ci sono state osservazioni neppure informali, non ci sono stati pronunciamenti della Corte Costituzionale né sono state sollevate fondate eccezioni di incostituzionalità. Da nessuno, tranne che da Lei oggi, neppure durante la discussione e l'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha dichiarato la Protezione Civile materia concorrente con le Regioni, con le quali per noi è normale coordinarsi, anche per i Grandi Eventi, come è avvenuto per il G8 con la Regione Sardegna e successivamente con la Regione Abruzzo".

6. Ha riflettuto sul fatto che le ordinanze relative a quegli eventi (tra le quali c'è anche l'attribuzione alla Protezione civile del finanziamento delle celebrazioni per l'Unità d'Italia) sono un modo per evitare la firma del capo dello Stato eludendo così il suo controllo di costituzionalità?
"Se i Presidenti della Repubblica non hanno mai opposto il rifiuto o obiezioni alle leggi che consentono l'adozione delle ordinanze relative ai Grandi Eventi, se gli stessi non hanno mai espresso preoccupazioni di sorta al riguardo, confesso che non ho avuto stimoli per fare questa riflessione. Ricordo invece che i Presidenti della Repubblica hanno conferito due medaglie d'oro al valore civile al Dipartimento, mi hanno riservato rapporti personali diretti assolutamente cordiali, non hanno mai lesinato, in moltissime occasioni, i loro complimenti e il loro compiacimento per il mio operato. In occasione del G8 all'Aquila il Presidente Napoletano ha voluto pubblicamente manifestare il suo grande apprezzamento, a me e a quanti hanno lavorato con me, per l'organizzazione e la gestione dell'evento".

7. Ha informato di queste sue eventuali osservazioni il presidente del Consiglio? Quale risposta ne ha ottenuta?
"Per la stessa ragione, e cioè la mia incapacità di vedere pericoli dove li vede solo Lei, non ho informato il Presidente del Consiglio, che invece ha potuto prendere atto in molte occasioni, senza bisogno di suggerimenti, delle tante cose concrete positive realizzate dal Dipartimento".

8. Si è reso conto che, restando sottosegretario di Stato, esisteva un'incompatibilità assoluta con la carica di direttore del Dipartimento della Protezione civile? Questa incompatibilità è durata più di un anno.  Per quale ragione?
"Sarei incompatibile se fossi sottosegretario alla Protezione Civile. Mi sono battuto sempre perché la competenza della Protezione Civile fosse propria del Presidente del Consiglio dei Ministri, risolvendo in questo modo il problema di evitare, nei tempi dell'emergenza, di affidarsi a forme di "coordinamento senza potere", esercitate da un Ministro pari grado di altri Ministri che dovevano accettare di farsi coordinare. Ho detto anche di recente che un conto è invitare i colleghi, un altro convocare le Amministrazioni e i loro titolari a riunioni a Palazzo Chigi. Questo vale in generale, a prescindere da chi sia l'inquilino di Palazzo Chigi. Sono stato sottosegretario per l'emergenza rifiuti in Campania dove ho anche operato come responsabile della Protezione Civile con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Risultati che dipendono dall'uso di quei poteri e normative di Protezione Civile, le uniche adeguate ad affrontare situazioni complesse e problemi dove il "tempo che passa" è determinante, che ora sembra Le creino insormontabili problemi di tenuta della democrazia. Anche adesso, comunque, non sono affatto sottosegretario alla Protezione Civile".

9. Bertolaso è stato indagato per reati connessi alla gestione dei rifiuti di Napoli, insieme al suo vice dell'epoca (che è una donna a lui ben nota e a lui fedelissima). Il processo per il suo vice è in corso. Per quanto riguarda lui è stato invece stralciato e trasferito a Roma. Può dirci a che punto si trova questo processo?
"Per quanto riguarda il processo relativo a mie condotte inerenti la gestione dei rifiuti in Campania, al momento mi risulta che ci sia stata richiesta di archiviazione per i quattro reati più gravi di cui ero indagato, mentre è in corso l'accertamento da parte del Gip per un ultimo reato di natura contravvenzionale, per il quale la legge prevede soltanto un'ammenda".

10. Porgo queste domande a Bertolaso perché egli si è sempre proclamato un uomo al servizio dello Stato e non dei governi. Se fosse al servizio di questo governo e lo dichiarasse francamente, non porrei questi interrogativi. Ma se è al servizio dello Stato avrebbe dovuto porseli e quindi: perché queste domande non se le è poste da solo e non ne ha tratto le conclusioni?
"Ripeto di essere un servitore dello Stato. Ho detto, anche nella ultima lettera che le ho inviato, che non sono servitore di questo o quel governo. Il che non vuol dire che non sia al servizio del Governo. Sarebbe assai originale e contraddittorio. Se la Sua vera domanda è: "si è reso conto che il suo operare ha creato situazioni che possono aver contribuito al consenso nel Paese dell'attuale Presidente del Consiglio?" rispondo di essermene accorto. Ho già detto che alcuni degli interventi che ho realizzato, a partire dalla fine della quindicennale emergenza rifiuti in Campania, sarei stato lieto di concluderli con il Presidente Prodi, che condivideva il mio Piano, mentre il Governo da lui presieduto non ne ha permessa la realizzazione. Non io, ma Napoli e l'Italia hanno perso più di un anno. Spiacente, ma non è un mio problema considerare che per "Stato" si deve intendere "l'Italia senza Berlusconi". Spiacente, è un problema del centro sinistra italiano, non dello Stato, non riuscire a fare a meno di questo Presidente perché unico collante buono a tenere insieme forze politiche che, quando non trovano accordo su questo comune bersaglio, danno regolarmente vita alla fiera del fuoco amico. Da servitore dello Stato, aspetto che questa congiuntura non brillante finisca, perché non aiuta nessuno a migliorare la qualità del servizio ai cittadini. Ma ciascuno si prenda le sue, di responsabilità. Un'ultima risposta la devo non ad una domanda, ma ad una sua affermazione. Personalmente ho grande considerazione per il lavoro della magistratura, credo indispensabile che esista una "macchina della giustizia" efficiente e responsabile, credo nel diritto dovere dei magistrati di fare il loro lavoro, prezioso per una società che vuole essere civile. Mi piacerebbe molto, invece, che i processi mediatici come quello che adesso si sta celebrando contro di me, che sono soltanto l'imputato pubblico di turno, scomparissero. Rispetto l'opinione pubblica, al punto da essermi fatto un punto d'onore nel meritare la fiducia dei cittadini, ma non credo le si renda servizio spargendo illazioni, informazioni non verificate, sospetti, teoremi di colpevolezza data per certa quando nessun giudice si è pronunciato. Questo sì, in violazione dei principi costituzionali. La libera stampa, se sviscera gli elementi di prova addotti dai giudici per una loro decisione, può rendere un servizio ai cittadini e al Paese. Quando spande fango, meno".

© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)


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Scalfari risponde alla lettera di Bertolaso

È difficile correre con le scarpe nel fango

EUGENIO SCALFARI


Egregio sottosegretario, la ringrazio per la pronta risposta alle mie domande. Osservo, tanto per cominciare questo mio commento alla sua lettera, che la sua rapidità le fa onore. Il presidente del Consiglio aspettò sei mesi prima di riscontrare le domande che il nostro giornale gli aveva posto e, dopo sei mesi, usò un libro di Bruno Vespa come strumento intermediario. Lei si presenta invece per quello che è, o almeno per quello che crede di essere o addirittura per quello che noi dovremmo credere che lei sia. Proverò dunque a districare l'essenza che sta dentro alle sue parole e cercherò di farlo con equanimità.

Quello che a lei soprattutto importa è il tempo. Lo dice varie volte nel corso della  sua lettera. Scrive: "Quella della Protezione civile è l'unica normativa che considera la variabile "tempo" come reale e cogente". E più oltre: "Avrei dovuto forse chiedere al presidente del Consiglio che rinunciasse alle uniche norme che consentono di operare con efficacia? Per quale ragione? Per restare fermo a tempo indeterminato, in attesa che il Parlamento affrontasse il problema della capacità di decidere e di fare delle Pubbliche Amministrazioni?".

Lei mescola insieme due cose, egregio sottosegretario, che vanno invece tenute rigorosamente distinte, come infatti erano state distinte nella legge sulla Protezione civile del 1992 poi innovata dal governo Berlusconi. Una cosa è l'intervento della P. C. nel caso di catastrofe naturale (terremoti, inondazioni, frane, incendi, calamità meteorologiche eccetera) dove il fattore tempo è assolutamente cogente. Nel mio articolo di domenica scorsa le ho dato atto dei suoi pronti ed efficaci interventi ed ho scritto che in quei casi lei era autorizzato a "passare col semaforo rosso". Ma è cosa completamente diversa quella dei Grandi eventi diversi da quelli suddetti. Qui non c'è alcuna cogenza del fattore tempo. Si tratta di iniziative programmate a mesi o anni di distanza. A lei non piace star fermo. Leggendo la sua lettera e confrontandola con il suo modo di operare mi viene da pensare ad una sua natura ciclomotoria. Ma vorrà darmi atto che non può pretendere che le istituzioni debbano sovvertire i loro ordinamenti per soddisfare il suo desiderio di mobilità anche quando non ce n'è alcun bisogno.


Quanto all'ammodernamento della Pubblica amministrazione, il problema esiste ma non è un suo problema, oppure lo è come per qualunque cittadino. Istituzionalmente è un problema del Parlamento e del governo, non sta a lei motivare con esso la politica della Protezione civile. Apprendo dalla sua lettera che lei non è sottosegretario alla Protezione civile. Singolare notizia, anzi sorprendente. A che cosa è dunque delegato, signor sottosegretario? Qual è la sua funzione nel governo? Sarebbe molto interessante saperlo. Poiché di sottosegretari ce ne sono fin troppi e costano, lei potrebbe dimettersi visto che a Palazzo Chigi è uno sfaccendato. Perché non lo fa?

La Protezione Spa non è soltanto uno strumento tecnico posto al di fuori della Pubblica Amministrazione. Tra l'altro il decreto in discussione contiene una norma che vi sottrae da qualunque intervento della magistratura, con valenza addirittura retroattiva. Nessun controllo preventivo della Corte dei Conti e della giustizia amministrativa. Quanto è venuto a galla sulla gestione dei suoi appalti in Sardegna e in altri luoghi dovrebbe allarmare lei prima di ogni altro. Un verminaio, dove i vermi sono coloro che hanno beneficiato degli appalti destinati ad una ristretta e ben nota cricca. Lei scarica Balducci e De Santis (non in questa lettera ma in altre interviste rilasciate nelle ultime quarantott'ore a vari giornali). Ma il responsabile politico di tutta l'operazione è lei e insieme a lei il presidente del Consiglio che è  -   come lei dice  -  il suo unico referente. Non si possono rivendicare i successi e lavarsi le mani dal verminaio. Lei se ne rende conto, spero.

Lei è lusingato (lo scrive) per il fatto che molti anzi moltissimi chiedono di entrare a far parte dei Grandi eventi e si dice stupito di questa corsa verso la Protezione civile di chiunque debba portare avanti un suo progetto. Mi stupisco del suo stupore. La normativa che regola la P. C. dice infatti che la copertura delle vostre spese viene effettuata prendendo i denari dove ci sono, da qualunque capitolo di spesa, da qualunque fondo di riserva. Sempre in ottemperanza al criterio della velocità. Ma poiché ormai il ventaglio dei vostri interventi è diventato amplissimo e le spese sono altrettanto cresciute, questo stravolgimento delle poste di bilancio spiega il perché di tante attese riposte in lei. Ed è anche la spiegazione del vincolo a doppio filo che lega lei al premier e questi a lei: governate senza il Parlamento, senza i ministri competenti per materia, a cominciare da quello dell'Economia. Del resto è lei a scriverlo nella sua lettera: "Mi sono battuto perché la competenza della Protezione civile fosse propria del presidente del Consiglio risolvendo in questo modo il problema di evitare di affidarsi a forme di coordinamento senza potere esercitate da un ministro di pari grado ad altri ministri".

Dico la verità: lei, egregio sottosegretario senza deleghe, è formidabile. Le sfuggono dalla penna delle verità e degli obiettivi che dimostrano dove può portare l'ideologia del fare quando è affidata a forme preoccupanti di egolatria e megalomania. Lei è riuscito a dare al premier quel potere di fatto che l'ordinamento ancora non gli ha conferito. Avete insieme bypassato l'ordinamento vigente, potete modificare tra voi due le poste di bilancio, l'avete fatto e lo farete sempre di più, non solo per le catastrofi ma per tutto ciò che vi passerà per la mente o passerà per la mente dei vostri amici. Lei pensa che questo sia il modo di servire lo Stato? Lascio ai lettori e alla pubblica opinione di giudicare.

Non entro nelle questioni che riguardano le inchieste giudiziarie ma voglio assicurarla: a noi non piace affatto rimestare nel fango. Ma se il fango c'è è nostro dovere professionale raccontare chi c'è in mezzo a quel fango e che cosa ha fatto per esserne lordato. Spero vivamente che lei non sia di quelli ma si tratta purtroppo di suoi intimi amici.

© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma adesso Bertolaso deve lasciare
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2010, 10:48:16 am
EDITORIALE

Ma adesso Bertolaso deve lasciare

di EUGENIO SCALFARI

COMMENTANDO ieri la lettera con la quale Guido Bertolaso rispondeva alle mie dieci domande ricostruendo a suo modo la verità dei fatti e la loro sostanza politica, ho volutamente tralasciato di approfondire la questione dell'atteggiamento del Quirinale di fronte all'ampliamento dei compiti della Protezione civile, alle normative che l'hanno resa possibile e alla loro costituzionalità. È una questione delicatissima poiché chiama in causa il Capo dello Stato, cioè la più alta istituzione della Repubblica.

Bertolaso non si è fatto carico di questa delicatezza ed ha tentato di coprire l'operato suo e del governo sostenendo che il Quirinale ha sempre appoggiato il suo fare e non ha opposto alcun limite al sistema delle ordinanze e alla creazione della Protezione civile Spa, che ne rappresenta il coronamento e l'esternalizzazione.

L'ho tralasciato perché su quell'aspetto della vicenda non si può andare a tentoni e per approssimazioni successive. Perciò ho raccolto i miei appunti in proposito, ho interpellato fonti qualificate ed ho riscontrato date, documenti e testimonianze dirette. Come sospettavo già a prima vista, la ricostruzione di Bertolaso è arbitraria e non corrisponde alla realtà. Ed ecco perché.

1. La legge del 1992, che di fatto è quella istitutiva della Protezione civile come servizio permanente della Pubblica amministrazione, limitava quel servizio alle catastrofi naturali.

2. Fu innovata con decreto del 2001, convertito in legge. C'era già in quella legge un primo allargamento di competenze della Protezione civile a grandi eventi sganciati dalle catastrofi naturali, purché ricorressero caratteristiche che rendessero necessaria un'amministrazione straordinaria per ragioni di necessità ed urgenza chiaramente indicate nella motivazione. Il Presidente della Repubblica dell'epoca varò la legge insistendo sull'importanza delle motivazioni come requisito essenziale.

3. A partire da quel momento il Quirinale non ha più avuto l'occasione di "intercettare" la normativa delle ordinanze e dei decreti della presidenza del Consiglio poiché si trattava di una produzione di carattere amministrativo. Una produzione, come abbiamo già sottolineato ieri, che è cresciuta su se stessa ad un ritmo velocissimo passando da una o al massimo due ordinanze nel periodo del governo Prodi ad una media di 80-100 nel periodo berlusconiano.

4. Il presidente Napolitano ha assistito con crescente preoccupazione all'estendersi del sistema delle ordinanze emesse dalla Protezione civile e l'ha detto in diverse occasioni. L'ha detto direttamente allo stesso Bertolaso in occasione d'una sua visita a L'Aquila subito dopo il terremoto. Si compiacque con lui per l'efficienza con cui la Protezione civile aveva fronteggiato l'emergenza post-terremoto ma elevò dubbi sul lavoro che quella stessa struttura avrebbe dovuto mandare avanti per completare le infrastrutture della Maddalena ed altre incombenze nel frattempo maturate.

5. Intanto gli impegni del sistema Bertolaso si moltiplicavano e l'albero della Protezione civile stava diventando una foresta. Leggiamo insieme quanto il Capo dello Stato ha detto nella cerimonia degli auguri di fine anno svoltasi lo scorso dicembre al Quirinale nella Sala dei corazzieri dinanzi alle Alte Magistrature dello Stato: "Il continuo succedersi di decreti legge - 47 dall'inizio di questa Legislatura - e il loro divenire sempre più sovraccarichi ed eterogenei nel corso dell'iter parlamentare di conversione, hanno continuato a produrre forti distorsioni negli equilibri istituzionali. Tutto ciò finisce per gravare negativamente sul livello qualitativo dell'attività legislativa. Non a caso gli studiosi si domandano se abbia finito per attuarsi, anche attraverso il crescente uso e la dilatazione di ordinanze d'urgenza, un vero e proprio sistema parallelo di produzione normativa". L'allarme del Presidente della Repubblica è netto ed esplicito e l'assemblea dinanzi alla quale è stato formulato lo rende ancora più solenne e preoccupante.

6. Si arriva così all'ultimo decreto legge, quello attualmente in discussione dinanzi alle Camere, nel quale viene promossa la creazione della Protezione civile Spa.
Dalle mie informazioni molto attendibili risulta che Napolitano non ravvisava i requisiti di necessità ed urgenza, almeno per la parte dedicata alla Spa, e propendeva piuttosto verso la presentazione di un disegno di legge. Si trovò tuttavia di fronte (così dicono le mie fonti) ad una resistenza infrangibile opposta da Gianni Letta che avrebbe prospettato al Capo dello Stato l'ipotesi che Bertolaso potesse dimettersi dai suoi incarichi se il decreto non fosse stato autorizzato. Ipotesi che avrebbe creato un vuoto operativo di notevole gravità.

7. È accaduto tuttavia che nel corso dell'iter parlamentare al Senato il decreto venisse "stravolto" rispetto alla sua originaria stesura autorizzata dal Quirinale. Una decina di nuovi articoli e sessanta commi furono aggiunti sulla base di altrettanti emendamenti proposti dalla maggioranza parlamentare, allargando ancora di più il ventaglio delle competenze, la produzione di ordinanze, una sorta di scavalcamento nei confronti degli organi di controllo e di giurisdizione. Fonti non ufficiali ma attendibili segnalano che il Quirinale segue con estrema attenzione l'iter del decreto. Si dice (anche se si tratta d'una voce) che il Capo dello Stato avrebbe fatto pervenire al presidente del Consiglio il suo allarme per questa situazione. È noto che il Quirinale tace quando il Parlamento è all'opera, riservandosi di giudicare la costituzionalità della legge quando l'iter parlamentare sarà concluso.
Questo è lo stato dei fatti, almeno prima che arrivasse la notizia dello stralcio. Il sottosegretario Gianni Letta ci aveva informato l'altro ieri che la Protezione civile rimane un Dipartimento della Pubblica amministrazione e che la Spa sarebbe stato soltanto un organo tecnico. Questo lo sapevamo.

È infatti della Spa che si sta discutendo poiché la sua istituzione svuoterebbe di fatto il Dipartimento di gran parte delle sue funzioni. La precisazione di Letta aveva dunque l'aria di voler frapporre una cortina fumogena che può annebbiare soltanto i gonzi e può servire ai vari Minzolini dell'informazione per celebrare la saggezza del governo nel momento in cui il governo si trova stretto da grandi difficoltà di fronte allo scandalo degli appalti e al verminaio che è stato scoperchiato.

Quanto al sottosegretario Bertolaso - sulla cui buona fede fino a ieri avevo sperato ma che a questo punto è diventata un'ipotesi di terzo grado - egli ha perso pochi giorni fa la carica di commissario ai rifiuti di Napoli.
È proprio sulla base di quella carica che aveva ottenuto di diventare membro del governo anche se essa era in palese contraddizione con l'incarico esecutivo di commissario. Non avendo più la carica esecutiva, è venuta ora meno anche la ragione del suo sottosegretariato. Perciò le sue dimissioni non sono più un suo atto discrezionale ma un obbligo che sta diventando sempre più tardivo ogni giorno che passa.

© Riproduzione riservata (16 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come funziona il sistema Verdini
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2010, 05:33:51 pm
L'EDITORIALE

Come funziona il sistema Verdini

di EUGENIO SCALFARI


Adesso il problema sembra essere quello della corruzione generale. Di tutta la nazione. Di tutto un popolo "che nome non ha". Di tutta una gente che spunta alla rinfusa "dagli atri muscosi, dai fori cadenti". Una sorta di scena da teatro senza attori, solo comparse degradate che si sospingono a vicenda, una cenciosa opera da tre soldi dove vengono scambiate miserabili mazzette, abbietti favori, borseggi agli angoli delle strade. Ci sarà pure un Mackie Messer armato di coltello ma non si vede, dà ordini sottovoce all'ombra di quella plebaglia corrotta e corruttibile.
La Corte dei Conti ha quantificato il degrado collettivo: da un anno all'altro la corruzione è aumentata del 229 per cento. Anche due giudici della Corte sono tra gli indagati. Anche un giudice della Corte costituzionale è lambito dall'ondata di fango. Anche un magistrato della Procura di Roma.
I giornali dibattono l'argomento. Analizzano il fenomeno. Si tratta d'una nuova Tangentopoli a diciotto anni di distanza dalla prima? Oppure d'una situazione con caratteristiche diverse? Allora, nel 1992, si rubava per procurare soldi ai partiti e alle correnti; adesso si ruba in proprio ed è un crimine di massa. Meglio o peggio di allora?

Infine  -  ma questa è la vera domanda da porsi: la corruzione sale dal basso verso l'alto oppure scende dall'alto verso il basso? La classe dirigente è lo specchio d'una società civile priva di freni morali oppure il cattivo esempio degli "ottimati" incoraggia la massa a delinquere infrangendo principi e normative?

* * *

Berlusconi è preoccupato. Lo dice lui stesso in pubblico e in privato e molti suoi collaboratori trasmettono ai giornali il suo cattivo umore che del resto risulta evidente dalle immagini televisive e fotografiche.

"Se potessi scioglierei il partito, ma non posso". Una frase così non l'avevamo mai sentita prima. E' indicativa del livello cui il fango è arrivato.

Per quello che se ne sa, la sua preoccupazione proviene da sondaggi molto allarmati e soprattutto da previsioni pessimistiche sullo smottamento futuro del consenso. Emergono diverse faglie: quella dei moderati, quella dei cattolici, quella delle persone perbene senza aggettivi.
Bertolaso è indagato, Verdini e Letta compaiono molte volte nelle intercettazioni giudiziarie.

Due differenti pulsioni si alternano nell'animo del "capo dei capi": rintuzzare gli attacchi, mantenere le postazioni e anzi contrattaccare; oppure cambiare strategia, abbandonare le posizioni più esposte e i personaggi più discussi, dare qualche soddisfazione ad una pubblica opinione stupita, indignata e trascurata per quanto riguarda le ristrettezze economiche che mordono ormai la carne viva del Terzo e del Quarto stato.
La scelta tra queste due opzioni non è stata ancora fatta. A giudicare dalle parole e dagli atti sembrerebbe che il "capo dei capi" persegua contemporaneamente ambedue queste strategie col rischio di far emergere un'incoerenza che segnala una crescente difficoltà.

La legge in preparazione che dovrebbe inasprire le pene contro i reati di corruzione segna il passo. Il collega D'Avanzo ha spiegato ieri le ragioni del rinvio: il gruppo dirigente del partito non ci sta. Se alla fine la legge verrà fuori, sarà solo un placebo da avviare su un binario morto.
Più efficace (se ci sarà) potrebbe essere il lavoro di pulizia delle liste elettorali; ma quel lavoro, per avere un senso, dovrebbe estendersi ai membri del governo e del Parlamento colpiti da sentenze o da condanne di primo grado con imputazioni di corruzione. Ma ne verrebbe fuori una decimazione: Dell'Utri, Ciarrapico, Cosentino, Fitto e almeno un'altra decina di nomi sonanti. Vi pare fattibile un'ipotesi del genere? Promossa da Berlusconi che dal canto suo ha schivato le condanne solo con derubricazione di reati e accorciamento dei tempi di prescrizione disposti dalle famose leggi "ad personam"?

* * *

Il caso Bertolaso-Protezione civile fa storia a sé. Il punto nodale della questione sta nella distinzione tra eventi causati da catastrofi naturali per i quali la necessità e l'urgenza autorizzano a derogare dalle norme vigenti; e gli eventi non connessi a tali catastrofi, per i quali le deroghe non sono né urgenti né necessarie. Qualche eccezione in questo secondo campo d'azione può essere ipotizzata ma deve essere dettagliatamente motivata e debitamente circoscritta. Così non è stato. La cosiddetta politica del fare è diventata una modalità permanente, la mancanza di controlli ha alimentato l'arbitrio, e l'arbitrio è diventato sistema.
L'inchiesta giudiziaria in corso riguarda situazioni molteplici: appalti in Toscana, appalti alla Maddalena, appalti a Roma, appalti a L'Aquila, in Campania, a Varese, a Torino, a Venezia, seguirne il filo è stato scrupolosamente fatto dai giornali e lo do quindi per noto. Aggiungo qualche aggiornata osservazione.

1. Il giro degli appaltanti, degli attuatori e degli appaltatori è relativamente limitato. Le Procure (Firenze, Roma, Perugia, L'Aquila) li hanno definiti una "cricca". La parola mi sembra quanto mai adatta.

2. Gianni Letta (e Bertolaso) avevano escluso che imprenditori della cricca suddetta avessero mai lavorato all'Aquila, ma hanno poi dovuto ammettere di essersi sbagliati. Almeno due di essi (Fusi e Piscicelli) hanno avuto incarichi anche in Abruzzo. Agli altri e al gruppo Anemone in particolare, è stata data in pasto La Maddalena e molti altri luoghi, a cominciare da Roma.

3. La scelta iniziale di collocare il G8 nell'isola sarda fu un errore madornale. La pazza idea di ospitare i Grandi sulle navi creando una sorta di isola galleggiante fu rifiutata dalle delegazioni principali. Sopravvennero altre questioni di sicurezza di impossibile soluzione. Se non ci fosse stato il terremoto dell'Aquila, La Maddalena sarebbe stata comunque scartata ma questa impossibilità tecnica è venuta fuori quando il grosso dei lavori era già stato appaltato e portato avanti. La Protezione civile non si era accorta di nulla o, se se n'era accorta, non l'aveva detto a nessuno.

4. Il terremoto offrì una via d'uscita dall'"impasse" della Maddalena, ma a caro prezzo: furono costruiti dunque due G8, uno dei quali procedette di pari passo e negli stessi luoghi distrutti dal sisma. Da questo punto di vista la Protezione civile dette prova di grande efficienza. Il prezzo fu l'abbandono della Maddalena nelle mani di Balducci e della cricca e una soluzione edilizia, ma non urbanistica, che ha soccorso molte migliaia di aquilani ma ha messo in un binario morto la ricostruzione della città.

5. La figura di Angelo Balducci scolpisce nel modo più eloquente il funzionamento della cricca e gli arbitri che ne derivano. Uno dei casi più macroscopici riguarda la famosa sede del Salaria Sport Village sulle rive del Tevere. Terreno demaniale, zona preclusa ad ogni tipo di costruzione, parere negativo della conferenza dei servizi, della Regione, della Provincia e del Comune di Roma; tutti superati da un'ordinanza di Balducci con trasferimento della concessione all'imprenditore Anemone.

6. L'altra figura omologa che si erge alla guida della cricca è quella di Denis Verdini, coordinatore del Pdl e come tale persona "all'orecchio" del Capo.
Verdini non si lascia intervistare, non vuole sottoporsi a domande imbarazzanti. In compenso ha scritto un diario, una sorta di comparsa a difesa, e l'ha fatto leggere ad un giornalista del "Corriere della Sera". Il quale ha fatto scrupolosamente il suo mestiere riferendo il testo senza poter interporre domande. Ne è risultata un'autodifesa vera e propria.
Questo testo merita d'esser letto con attenzione. Ne riporterò qui qualche brano che ne dà l'idea.

* * *

"Il mio amico Riccardo Fusi è persona di cui mi fido, un vero imprenditore con tremila lavoratori alle sue dipendenze. Sono indagato per aver sostenuto una nomina che poteva interessare. Questo ha indotto i magistrati a pensare che ci fosse sotto un reato, ma non è così, non ho mai preso una lira, ma non nasconderò mai che a Riccardo ho presentato il mondo, tutti quelli che mi chiedeva di conoscere. Dimettermi da coordinatore? Non mi passa neanche per l'anticamera del cervello. Certe cose sono roba da asilo infantile. Siamo un sistema di potere? Scoperta dell'acqua calda. Quando c'è discrezionalità si apre la porta ad un sistema. Il punto è se è legittimo o illegittimo".

Questa frase è essenziale, fornisce la chiave autentica per decifrare ciò che sta accadendo.
Verdini è uno dei pilastri del sistema. Evidentemente lo considera legittimo, più che legittimo per il bene del paese. Scrive in un'altra pagina del suo diario: "Io lavoro per Berlusconi che riesce a ottenere benessere e consenso da milioni di italiani".
Lui non fa parte della cricca. Così dice, anche se gli amici per i quali si spende e ai quali procura appalti, nomine ministeriali, potere e danaro, sono i componenti della cricca. Ma lui no, lui non pensa di farne parte perché è collocato di varie spanne al di sopra. E non li favorisce per avere mazzette. Che volete che se ne faccia delle mazzette, lui che è agiato di famiglia? Lui gode di aver potere e di portare talenti e consensi al suo Capo. Talenti di malaffare? Può esser malaffare quello che porta consenso e voti a Berlusconi? Certo "quando c'è discrezionalità si apre la porta al sistema" e dunque portiamo la discrezionalità al massimo, sistemiamo gli amici nei posti che servono e chi non beve con noi peste lo colga. Non è questo il meccanismo? Non è questo che spiega la fronda di Fini e l'uscita di Casini dall'alleanza? Non è questo che divide Palazzo Chigi dal Quirinale? La magistratura da una concezione costituzionale che ricorda gli Stati assoluti?

Non prendono una lira, può darsi, ma hanno fatto a pezzi la democrazia. Vi pare robetta da poco?

* * *

Bertolaso è un'altra cosa. Nel 2001, poco dopo esser stato insediato da Berlusconi alla guida della Protezione civile, scrive una lettera all'allora ministro dell'Interno, Scajola, e al sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta. Dice così: "Il nostro Dipartimento è diventato dispensatore (assai ricercato) di risorse finanziarie e deroghe normative senza avere la minima capacità di verificare l'utilizzazione delle prime e l'esercizio delle seconde e senza avere alcun filtro utile sulle richieste. L'accavallarsi di situazioni di emergenza ha generato un flusso inarrestabile di ordinanze che a loro volta hanno comportato provvedimenti di assunzione di personale e autorizzazioni di spesa di non agevole controllo". Era il 4 ottobre del 2001. Sono passati nove anni ma sembra di leggere oggi un discorso di Bersani o di Di Pietro. Che cosa è accaduto?

Nonostante le apparenze Bertolaso è un uomo debole ma con una grande immagine di se stesso. Non ha il cinismo di Verdini e di Balducci, dei grandi corruttori. Adora i suoi volontari e ne è adorato. Pensate che qualcuno adori Verdini (tranne gli amici della cricca)? Qualcuno adori Balducci?
Bertolaso è un mito tra i suoi, lavora con i suoi, si veste come i suoi. Vuole essere amato. In questo è l'anima gemella di Berlusconi: vogliono essere amati. Naturalmente senza condizioni. Le critiche li fanno impazzire di rabbia. Le regole sono un impaccio. "Posso star fermo in attesa che il Parlamento decida?" ha scritto Bertolaso pochi giorni fa rispondendo ad una mia domanda.

Quindi avanti con i grandi eventi, Unità d'Italia, campionati di nuoto, campionati di ciclismo, celebrazioni di Santi e di Beati, restauro del Donatello eccetera. Insomma Bertolaso non ha addomesticato il potere come sperava nella sua lettera del 2001, ma è la brama di potere che si è impossessata di lui.
Quando è franata un'intera montagna sul paese di Maierato in Calabria, Bertolaso era alla Camera e poi a Ballarò per difendersi dalle intercettazioni che lo riguardano. La mattina dopo è volato a Maierato in mezzo ai pompieri che spalavano il fango. Bravo. Meritorio. Lo dico senza alcuna ironia, ma mi pongo una domanda: tra i compiti affidati alla Protezione civile non c'è anche quello importantissimo di prevenire le catastrofi e sanare il disastro idrogeologico del territorio?

Il grande meridionalista Giustino Fortunato cent'anni fa definì la Calabria "uno sfasciume pendulo sul mare". Allora non esisteva la Protezione civile, ma oggi c'è. Bertolaso sa benissimo che le montagne e le colline delle Serre nella Valle dell'Angitola sono uno sfasciume pendulo. Che cosa ha fatto per prevenire? Io so che cosa ha fatto: ha distribuito alle Regioni di tutta Italia la mappa idrogeologica del territorio segnalando i punti critici ed ha incoraggiato le Regioni a provvedere. Lui aveva altre cose di cui occuparsi.
Le Regioni senza una lira non hanno fatto nulla. La supplenza toccava a lui che i soldi li ha e le forze a disposizione anche. Ma la prevenzione non è un grande evento, le televisioni non se ne occupano, nessuno ne sa nulla. Intanto lo sfasciume crolla sulle case abusive e sulle strade abusive. Così vanno le cose.

* * *

La corruzione è aumentata a ritmi pazzeschi. Non è Tangentopoli? Forse è peggio. Oggi si ruba in proprio ma quelli che rubano sono i protetti del potere e puntellano il potere. Quelli che rubano cadono in tentazione e qui mi sono tornate in mente le pagine dostoevskijane del "Grande Inquisitore", delle quali ho discusso a lungo un mese fa col cardinale Martini riferendone su queste pagine.
Il Grande Inquisitore contesta a Gesù di avere promesso agli uomini il pane celeste mentre essi volevano il pane terreno. Gesù aveva dato agli uomini il libero arbitrio di cui essi avrebbero volentieri fatto a meno ed essi scelsero infatti di farne a meno pur di avere il pane terreno rinunciando ai miraggi del cielo. Gli uomini si allearono con lo spirito della terra, cioè con il demonio, ed anche i successori di Pietro si allearono con lo spirito della terra. Alla fine il mondo diventò pascolo del demonio e delle autorità che per brama di potere avevano sconfessato il messaggio di Gesù. Il Grande Inquisitore decide addirittura che Gesù sia bruciato e così si chiudono quelle terribili pagine.

Non so se Verdini o Letta o Bertolaso o Balducci o quelli che ridevano nel letto mentre L'Aquila crollava, abbiano mai letto i "Fratelli Karamazov". E se, avendoli letti, abbiano sentito muoversi qualche cosa nell'anima, un monito, un rimorso. Se l'hanno sentito, questo sarebbe il momento di seguirne l'impulso. Ma da quello che vedo, temo che siano sordi a questi richiami.

© Riproduzione riservata (21 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Prescrizione o assoluzione sta a lui la scelta
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2010, 08:22:45 pm
L'EDITORIALE

Prescrizione o assoluzione sta a lui la scelta

di EUGENIO SCALFARI

È molto difficile immaginare lo sforzo e la tensione morale prima ancora che politica che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, deve fare per arginare lo sconfinamento continuo, le provocazioni e gli insulti che Berlusconi lancia ogni giorno contro l'assetto istituzionale e costituzionale dello Stato. La lettera che Napolitano ha inviato ieri al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l'ultima e più esplicita testimonianza di questa esondazione berlusconiana, arrivata al punto di definire "talebani" i magistrati inquirenti e giudicanti, rei ai suoi occhi di applicare le leggi alle quali egli vuole sottrarsi con tutti i mezzi a sua disposizione.

Del resto Napolitano non è il primo a dover fronteggiare questa situazione di estremo disagio in cui versa la Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi si sono anch'essi dovuti scontrare loro malgrado con analoghe difficoltà e analoghi travagli. Sono ormai quindici anni che il Quirinale deve ergersi come antemurale contro la furia berlusconiana; ma mai come in questa legislatura quella furia aveva raggiunto un'aggressività così pericolosa, esplicita, mirata ad abbattere ogni equilibrio, ogni garanzia, ogni ostacolo e lo spirito stesso della Costituzione repubblicana. Chi ha avuto la fortuna di poter osservare da vicino Scalfaro, Ciampi, Napolitano, ha conosciuto le loro angosce ma anche la loro tenace fermezza e la serenità con le quali si sono comunque mantenuti al di sopra delle parti, non avendo altro fine che la difesa della Costituzione, la lotta contro i privilegi, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'equilibrio dei poteri previsto dallo Stato di diritto.

Ho scritto più volte che il vero bersaglio nel mirino di Berlusconi è il presidente della Repubblica, i tre presidenti della Repubblica che si sono succeduti al Quirinale. Verrà pure il momento che questa storia segreta dovrà essere scritta e si vedrà allora quanto gli italiani debbano a quei tre uomini che sono riusciti a preservare la libertà di tutti richiamando i principi di moderazione, rispetto reciproco e condivisione delle norme che stanno a fondamento della convivenza sociale. Non a caso il Quirinale è destinatario di un altissimo consenso da parte degli italiani; al di là e al di sopra delle preferenze politiche e degli steccati che ne derivano, i cittadini riconoscono unanimemente dov'è l'usbergo che tutela l'unità della patria e la coscienza morale della nazione. Questa compattezza ci infonde fiducia e ci stimola a superare il fango e le lordure che insozzano in modo ormai intollerabile la vita pubblica del nostro Paese.

*  *  *

L'episodio più recente che ha provocato l'ira funesta di Silvio Berlusconi è stata la sentenza della Cassazione che, a Sezioni unite, ha giudicato prescritto il reato di corruzione in atti di giustizia dell'avvocato Mills, lasciando aperto il processo per lo stesso reato nei confronti del presidente del Consiglio. La Cassazione ha dato torto alla Corte d'appello milanese che aveva condannato Mills a quattro anni e mezzo di carcere. Secondo le Sezioni unite il processo Mills era caduto in prescrizione da tre mesi e mezzo. Non così per Berlusconi, nei confronti del quale il processo continuerà fino a quando decadrà anch'esso per scadenza dei termini nella primavera del 2011.
In un primo momento il premier sembrava aver gioito (e con lui tutti i suoi "replicanti") della sentenza delle Sezioni unite che "aveva dato torto ai giudici di Milano". Ma il giòito è durato poco di fronte all'evidenza: il processo continua per la semplice ragione che il reato è tuttora da giudicare ed è un reato di estrema gravità perché il premier è accusato di aver corrotto un magistrato e "comprato" una sentenza. Per Mills non c'è stata assoluzione ma prescrizione dei termini. Per Berlusconi sarà probabilmente altrettanto: nel marzo del 2011 sarà probabilmente prescritto ma non assolto e per un uomo politico che guida il governo nazionale questa situazione gli evita il carcere ma non cancella le macchie infamanti di quel reato.

Che può fare il premier per evitare questo scorno e cancellare quelle macchie?
Alla ripresa del processo i suoi avvocati potrebbero decidere in suo nome di rinunciare alla prescrizione e chiedere al Tribunale di riconoscere la sua estraneità rispetto ai reati. Se si comportasse in questo modo acquisterebbe una credibilità della quale ha molto bisogno ed anche altre iniziative legislative in corso, come per esempio quelle preannunciate contro la corruzione, le guadagnerebbero. È infatti evidente a tutti quale valore si possa dare a inasprimenti di pena per reati di corruzione quando chi propone tali inasprimenti è lo stesso soggetto che si sottrae al suo processo utilizzando la prescrizione i cui termini sono stati abbreviati da 15 a 10 anni dalla legge Cirielli "ad personam".

Non dimentichiamo infine che sono attualmente all'esame del Parlamento due leggi rispettivamente già votata una alla Camera e l'altra al Senato, sul "legittimo impedimento" e sul "processo breve". Ambedue hanno la stessa finalità di estinguere i procedimenti in corso contro il premier per decadenza dei termini o per improcedibilità, senza mai poter arrivare a sentenza sul merito del reato, se sia stato commesso oppure no.
Questo è il punto di fondo e dipenderà soltanto da Berlusconi se vorrà che sia dimostrata la propria innocenza o preferirà fuggire dal processo. Non sarebbe del resto la prima volta; tra il 1999 e il 2003 fu prescritto già quattro volte: nel lodo Mondadori, nell'illecito finanziamento del Psi per 21 miliardi di lire date a Bettino Craxi, nel falso in bilancio Fininvest e nell'acquisto del calciatore Lentini da parte del Milan, pagato in Svizzera con fondi neri della Fininvest. In nessuno di quei casi Berlusconi chiese di rinunciare alla prescrizione. Ora ne avrebbe l'occasione di farlo. Meglio tardi che mai. Lo farà? Lo spero, ma non ci credo.

*  *  *

Il bavaglio alla stampa è un'altra delle leggi mirate a diminuire il tasso di libertà e di opposizione al malaffare che imperversa. Si obietterà che giornali e giornalisti sono parte in causa e che quindi la loro (la nostra) opposizione a quel disegno di legge è di natura corporativa. Può darsi. Può darsi che inconsciamente dentro di noi questo sentimento vi sia. Ma noi possiamo invocare a nostro favore il fatto che la libertà di stampa è un principio tutelato dalla Costituzione che ne fa anzi uno dei requisiti principali della democrazia. La nostra opposizione del resto non riguarda il tema delle pene detentive minacciate contro i giornalisti che non ottemperino agli obblighi normativi. Nell'ultima versione di quel disegno di legge sembra che le pene detentive siano state tolte, ma la nostra opposizione resta fermissima.

Ci rendiamo ben conto che riferire intercettazioni (peraltro solo quando siano state rese pubbliche dai magistrati inquirenti) utilizzando i testi in modo parziale col rischio di fraintenderne il senso compiuto, può arrecare gravi danni alla privatezza delle persone intercettate e soprattutto a quelle casualmente coinvolte nelle conversazioni. Questi difetti possono essere rimossi con disposizioni intelligenti che obblighino i giornalisti a riferire i fatti con parole proprie e/o con brani virgolettati ma compiuti di senso. In questi casi il giornalista non potrà difendersi dietro il velo del virgolettato ma riferirà con parole proprie assumendosi la piena responsabilità di quanto scritto e dovrà difendersi in giudizio dall'eventuale querela per diffamazione. Si potrà anche (secondo me si dovrebbe) far cadere dinanzi al magistrato il diritto al segreto sulle fonti quando si riferiscano fatti e notizie ancora secretati.

Tutto ciò detto, vietare alla stampa ogni accesso alla fase istruttoria del processo è una pretesa inaccettabile e incostituzionale. La fase istruttoria è delicatissima poiché è in quella sede che si formano e si rassodano gli indizi di colpevolezza o di innocenza e i materiali probatori che poi saranno valutati e circostanziati nel corso del dibattimento. L'attenzione della stampa sull'operato delle Procure e della polizia giudiziaria è materia di primaria importanza perché il controllo dell'opinione pubblica su tutte le fasi del processo scoraggia e comunque rende note eventuali manovre di insabbiamento, sistematicità dei rinvii richiesti dai difensori, collusioni sempre possibili tra i magistrati che indagano e le parti indagate. La presenza della stampa è utile, oso dire più nella fase istruttoria che in quella dibattimentale. Le responsabilità di giornali e giornalisti debbono essere a loro volta accuratamente indicate e le sanzioni eventualmente inasprite, ma il divieto d'accesso non può essere accettato e il divieto di riferire radicalmente respinto.

Continuo a pensare che il bavaglio alla stampa violi un principio costituzionale che neanche il potere legislativo può cancellare. Né potrebbe farlo una legge di modifica della Costituzione trattandosi di un principio indisponibile. L'ipotesi ventilata sulla Stampa da Luca Ricolfi di creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali mi sembra una costruzione barocca che si infrangerebbe non appena si dovessero scegliere i modi per formare questo improprio tribunale, esso sì di natura corporativa. Quanto all'altra proposta dello stesso Ricolfi di consentire ai giornali l'accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne "a rotazione periodica" tra le varie testate, mi sembra una proposta che mi permetto di definire ridicola.

A volte il potere corrompe non le tasche dei probi ma i loro cervelli. E questo non è un rischio remoto ma estremamente attuale tra quelli che stiamo correndo.

© Riproduzione riservata (28 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il disagio della civiltà
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2010, 05:23:52 pm
Il disagio della civiltà

di Eugenio Scalfari

È determinato, dice Freud, dal contrasto tra felicità individuale e responsabilità sociale. Ma la socievolezza non scaturisce solo dalla razionalità del Super-io. È una nostra pulsione primaria
 
Quando Carlo Marx morì, Sigmund Freud aveva 27 anni e ne aveva 32 quando Nietzsche baciò il muso di un cavallo in una piazza di Torino e scrisse i biglietti della follia. Non risulta che abbia mai letto Marx, ma conosceva invece a fondo l'opera di Nietzsche. Pensando a Freud siamo abituati a considerarlo come un terapeuta e uno scienziato che, con la sua scoperta dell' inconscio e della sessualità come fondamento della vita psichica, ha rivoluzionato i modi di pensare della cultura moderna. Il parallelo con Marx è diventato automatico: il fondatore del materialismo storico ha posto alla base della civiltà moderna la dinamica delle forze economiche. Freud, in modo simmetricamente opposto, ha messo il fondamento della storia nelle pulsioni inconsce che emergono dalla psiche e si trasformano in comportamenti dominati dalla polarità tra la ricerca della felicità individuale e le restrizioni che la società le contrappone con i suoi comandamenti morali e le sue leggi coercitive.

Insomma due giganti contrapposti, due antitetiche concezioni del mondo, due modi di pensare la storia. Non c'è dubbio che Freud e le sue ricerche sulle figure psichiche sono una tappa essenziale di quella storia, un segnale che ne illumina un tratto del percorso. La terapia psico-analitica ha perso negli ultimi vent'anni una parte della sua forza propulsiva, ma il modo con cui Freud ha letto la storia della civiltà ha viceversa accresciuto il suo peso. Direi che il terapeuta delle nevrosi ha ceduto il posto al filosofo, il medico allo scienziato, lo scienziato al pensatore e allo scrittore. Nella vicenda personale di Freud questa evoluzione cominciò abbastanza presto. Il punto di svolta si può collocare nel 1908 con la pubblicazione de "La morale sessuale civile e il nervosismo moderno". Ma i primi segnali nella letteratura freudiana risalgono al 1897, quando la sua attenzione cominciò a spostarsi dalla psiche individuale alla psicologia collettiva. L'elaborazione raggiunge piena maturità con "
L'avvenire di un'illusione" toccando il culmine con "Il disagio nella civiltà" pubblicato nel 1929 ed è appunto l'opera che qui segnalo: è da poche settimane nelle librerie con una lucida introduzione di Stefano Mistura, l'editore è Einaudi (pagine 93 più 56 di introduzione e appendice, prezzo euro 14,00).

Il disagio, scrive Freud, è determinato dal contrasto perenne tra felicità individuale e moralità. La figura psichica dell'Es, del "sé", presiede alla ricerca della felicità; la parola con la quale Freud nomina quella parte della personalità è Eros, amore. La moralità, nello schema bipolare di Freud, si richiama invece alla figura psichica del Super-io, mandatario vigilante in nome e per conto della società, con il compito di reprimere o almeno di limitare l'invadenza dell'Eros contrappponendole e proponendole l'etica della responsabilità sociale, la rinuncia ad una parte di felicità individuale a vantaggio di norme capaci di rendere possibile la convivenza. Semplificando ancora di più: l'irrazionalità che anima l'Es di fronte alla razionalità della quale il Super-io è il portatore in nome della socievolezza. Propongo a questo punto due osservazioni: la prima riguarda appunto la socievolezza. Freud sembra non essersi accorto che essa non scaturisce soltanto dalla razionalità del Super-io, ma è una delle caratteristiche che connotano la nostra specie, una pulsione primaria accanto alla ricerca della felicità. La nostra specie è certamente "desiderante", il desiderio è continuo e inestinguibile, dall'appagamento di un desiderio ne nasce immediatamente un altro. Ma è altrettanto vero che gli individui non sono e non vogliono essere solitari. Hanno bisogno dell'altro, degli altri, come dell'aria che respirano perché è soltanto nel rapporto con gli altri che possono costruire la figura psichica centrale, quella dell'Io.

Senza quella terza figura noi saremmo più vicini agli animali; senza di essa non avremmo nozione dell'inconscio, né memoria, né identità, né storia, né sentimento della morte: insomma non avremmo una mente riflessiva in grado di pensare il pensiero e di pensare se stessa. Affermo dunque che la socievolezza non nasce dalla ragione; la ragione, come fa per tutte le pulsioni che emergono dal "

sé", la razionalizza, ma la socievolezza costituisce una pulsione originaria dell'inconscio, esattamente come la felicità desiderante. La mia seconda osservazione riguarda il pensiero di Freud rispetto all' Io. Questa figura psichica ha costituito la base del Freud terapeuta, del Freud scienziato dell'analisi psichica. Ma è stata stranamente marginale nel Freud pensatore e filosofo. L' Io è la figura centrale, l'ho già detto, ma Freud pose tutta la sua attenzione nella polarità tra l'Es e il Super-io. Forse perché l'Io è in qualche modo la sintesi, il punto di equilibrio tra i due estremi? Del precario ma necessario equilibrio? Non ho la risposta, ma mi piacerebbe averla da quelli che hanno dedicato il loro tempo e la loro attenzione a studiare il pensiero freudiano

(26 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. pasticciaccio di Palazzo Chigi un precedente contro le regole
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2010, 06:41:46 pm
IL COMMENTO

Quel pasticciaccio di Palazzo Chigi un precedente contro le regole

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO, nel decreto legge varato ieri notte dal governo, un pregio e una quantità di difetti. Ezio Mauro, nel suo editoriale di ieri ne ha già dato conto. Proseguirò sulla stessa strada da lui aperta e nelle considerazioni svolte dall'ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Ma c'è anche e soprattutto un indirizzo politico che emerge da quel decreto, che suscita grandissima preoccupazione.

Il pregio è d'aver dato al maggior partito di maggioranza e ai suoi candidati la possibilità di partecipare al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, così da esercitare il diritto elettorale attivo e passivo. Quest'esigenza era stata sottolineata non solo dagli interessati ma anche dai partiti dell'opposizione. Bersani, Di Pietro, Casini, avevano dichiarato nei giorni scorsi di voler vincere disputando la loro eventuale vittoria "sul campo e non a tavolino". Il decreto consente che questo avvenga ed infatti avverrà se i tribunali amministrativi della Lombardia e del Lazio ne ravviseranno le condizioni sulla base del decreto già operativo nel momento in cui quei due tribunali si pronunceranno. Spetta infatti a loro  -  e non al decreto  -  stabilire se le prescrizioni previste saranno state correttamente adempiute.

I difetti  -  che meglio possono essere definiti vere e proprie prevaricazioni  -  sono molteplici. Alcuni di natura politica, altri di natura costituzionale. Cominciamo da questi ultimi. Esiste una legge del 1988 che vieta ogni decretazione in materia elettorale.

Ora è chiaro che un decreto interpretativo (come è stato definito quello di ieri) non può contravvenire ad una legge vigente e sostanzialmente abrogarla senza con ciò produrre un'innovazione. Cessa pertanto la natura interpretativa che risulta essere soltanto un'appiccicatura mistificante, e riappare invece un intervento che modifica anzi contraddice norme vigenti sulla stessa materia.


C'è un'altra questione assai delicata: l'intera materia elettorale riguardante le Regioni è di spettanza delle Regioni stesse. Le stesse leggi elettorali in materia di procedura differiscono in parecchi punti l'una d'altra. E' quindi molto dubbio che il governo nazionale possa entrare con una sua interpretazione su leggi che non sono interamente di sua diretta spettanza. Interpretazioni di tal genere spetterebbero ai consigli regionali i quali tuttavia sono scaduti in attesa del rinnovo elettorale.

Su tutte queste questioni saranno certamente proposti ricorsi e quesiti alla Corte. Ove questa li accogliesse mi domando quale sarebbe la validità e gli esiti degli scrutini del 29 marzo. Il Presidente della Repubblica aveva giustamente definito "un pasticcio" la situazione venutasi a creare. Purtroppo il decreto di ieri non risolve affatto il pasticcio anzi per molti aspetti lo aggrava.

Quanto alla scorrettezza politica, la più grave riguarda la mancata condivisione della sanatoria decretata dal governo con le forze d'opposizione. Il Presidente della Repubblica ne aveva ripetutamente sottolineato l'opportunità ed anzi aveva condizionato ad esso ogni statuizione. Il suo rifiuto dell'altro ieri ad autorizzare un decreto che modificasse le procedure elettorali ad elezioni in corso era motivato anche da questo.

Non solo la condivisione è mancata ma il premier ed i suoi collaboratori senza eccezione alcuna hanno incolpato l'opposizione d'aver reso impossibile l'esercizio del     diritto elettorale. In particolare questa responsabilità dell'opposizione si sarebbe verificata a Roma, dove militanti radicali e di altri partiti avrebbero fisicamente bloccato i rappresentanti della lista Pdl impedendo loro di varcare la soglia dell'ufficio elettorale del tribunale.
Questa circostanza, sulla quale i radicali hanno già sollevato denuncia di calunnia, dovrà comunque esser provata dinanzi al Tar del Lazio nell'udienza di domani. E' comunque grave un'inversione così macroscopica delle responsabilità, sulla base della quale i colpevoli vengono condonati e gli innocenti puniti.

* * *

Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha definito il decreto del governo come "il male minore", distinguendosi ancora una volta con queste parole dalla linea di Berlusconi. Ma nel caso in questione Fini ha sbagliato per difetto. Il decreto interpretativo non è un male minore. E' un male identico se non addirittura peggiore d'un decreto innovativo.

Anzitutto non si può dare un'interpretazione diversa e così estensiva ad una procedura elettorale con effetto retroattivo. L'interpretazione, se retroattiva, diventa infatti un vero e proprio condono ed un condono è quanto di più innovativo vi sia dal punto di vista legislativo.

Ma c'è di peggio. Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d'ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d'ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l'aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola "sprocedato" per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto "senza procedura".

E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l'illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell'esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell'assolutismo.

Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il "missus dominicus" di questo vero e proprio ultimatum e  -  a quanto si sa  -  l'ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l'avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l'artiglio di ferro.

Male minore, presidente Fini? Purtroppo non sembra.

* * *

Che fare? Chi ne ha titolo rappresenti al Tar i problemi che sono di sua competenza per quanto riguarda il giudizio di applicazione del decreto. (Il Tar lombardo ha già concesso a Formigoni la sospensiva dell'ordinanza dell'Ufficio elettorale e deciderà definitivamente nei prossimi giorni). E chi ha titolo sollevi i problemi di costituzionalità dinanzi alla Corte.

Le sortite "sprocedate" di Di Pietro nei confronti del presidente della Repubblica sono da respingere senza se e senza ma. Nella situazione data il Capo dello Stato è stato messo in condizioni di necessità e ha dovuto dare la precedenza all'esercizio del diritto elettorale, riuscendo anche a far togliere alcune disposizioni transitorie che riservavano l'applicazione del decreto alle sole Regioni di Lombardia e Lazio. Si sarebbe in quel caso creata una diseguaglianza tra gli elettori di fronte alla legge recando così un vulnus costituzionale di palese evidenza. Resta il pasticcio ed un precedente che accelera la trasformazione dello Stato dalle regole all'arbitrio del Sovrano. Gli elettori giudicheranno anzitutto i candidati e i programmi da essi sostenuti. Ma sarà bene che riflettano anche su questi aspetti politici di involuzione democratica. Non sarà un referendum pro o contro Berlusconi, ma certamente l'occasione per scegliere in favore di leggi valide per tutti o in favore delle "cricche" che hanno occupato le istituzioni usandole a favore dei loro privatissimi  interessi. L'occasione per cambiare questo andazzo arriverà tra venti giorni. Errare è umano, ma perseverare nell'errore non lo sarebbe.

© Riproduzione riservata (07 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Effetto Astensione
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2010, 03:21:22 pm
Effetto Astensione

di Eugenio Scalfari

Non andare a votare mi sembra una diserzione proprio quando si sta combattendo una battaglia campale per le sorti della Repubblica
 

Il 27 giugno del 1924 i partiti d'opposizione presenti alla Camera dei Deputati decisero di ritirarsi dai lavori parlamentari come segno di estrema protesta dopo l'uccisione di Matteotti avvenuta per mano di sicari fascisti pochi giorni prima. Alla testa di questo gruppo di dissidenti c'erano i socialisti e i democratici di Giovanni Amendola. Il gesto voleva scuotere l'opinione pubblica e soprattutto il re, ma non ebbe alcun effetto concreto. Sei mesi dopo, nel gennaio del '25, Mussolini si assunse la responsabilità politica di quell'omicidio e instaurò il regime dittatoriale. I deputati secessionisti furono dichiarati decaduti, i partiti soppressi e la Camera poco dopo fu sciolta. Il movimento secessionista prese il nome di Aventino in ricordo della secessione della plebe romana contro il Senato, avvenuta nel 494 a.C..

Ricordo questi fatti perché si riparla ora di un'altra possibile secessione parlamentare ed elettorale caldeggiata dai radicali come colpo di teatro per mettere in difficoltà il governo Berlusconi e mobilitare l'opinione pubblica. Emma Bonino, insieme a Marco Pannella, dovrebbe capeggiare gli 'aventiniani' e coinvolgere tutte le forze d'opposizione.

La Bonino ha tuttavia escluso che un'iniziativa di questo genere possa farla recedere dalla sua candidatura alla presidenza della Regione Lazio. I partiti d'opposizione hanno dal canto loro escluso di volersi associare a questa eventuale iniziativa che quindi, se ci sarà, riguarderà soltanto il Partito radicale la cui presenza in Parlamento è tuttavia meno che simbolica.

La questione sembrerebbe dunque chiusa prima ancora di nascere e tuttavia merita parlarne perché in realtà non è chiusa affatto. Esiste infatti una vasta platea di elettori di sinistra che vogliono desistere dal voto alle imminenti elezioni regionali non presentandosi alle urne o votando scheda bianca. Questo sarebbe il modo di manifestare il loro disprezzo della politica, dei partiti, del Parlamento, delle istituzioni in genere. Ed anche il loro modo di mettere in difficoltà Berlusconi e il suo governo. Aventiniani rispetto al voto: è valido questo messaggio? Può sortire a qualche risultato concreto nel senso desiderato da chi caldeggia una soluzione del genere? Analizziamo con attenzione questa proposta che serpeggia in questi giorni in misura abbastanza diffusa e cominciamo col dire che c'è astensione ed astensione.

Circa il 20 per cento degli astenuti è un tasso fisiologico che si registra ad ogni votazione. In altri paesi il tasso degli astenuti abituali è molto più elevato ma in Italia no. L'affluenza degli elettori alle urne oscilla di solito tra il 75 e l'80 per cento.
Hanno fatto eccezione le elezioni europee e quelle provinciali dove l'affluenza è stata notevolmente inferiore, ma in tutte le altre occasioni non è mai scesa sotto al livello del 75 per cento.

C'è poi un altro tipo di astensione che non può definirsi abituale e non è motivata da disinteresse per la politica. Al contrario, si tratta di un'astensione con precise motivazioni politiche. Ha colpito negli anni scorsi la sinistra con l'obiettivo di scuoterla da una condizione ritenuta non abbastanza energica e incisiva. Ha colpito e probabilmente colpirà anche il centrodestra. In queste ultime settimane anzi il fenomeno dell'astensione a destra sembra assumere proporzioni cospicue come effetto sia d'una politica economica penalizzante sui bisogni dei lavoratori, sia degli scandali a catena esplosi negli ultimi mesi. Stando ai più recenti sondaggi questo tipo di astensione punitiva rispetto al governo e al partito berlusconiano viene valutato intorno al 5 per cento e sembrerebbe destinato ad aumentare insieme a un travaso di voti che nel Nord si dirigerebbe verso la Lega. Sommando l'astensione punitiva proveniente dal centrodestra all'astensione abituale si avrebbe dunque un livello superiore al 20 per cento portando l'affluenza degli elettori attorno al 77-78 per cento dei voti validi.

In tale contesto come si collocherebbe l'eventuale 'aventinismo' degli elettori di sinistra? Per produrre un effetto massiccio, un allarme concreto di disaffezione dalla politica e dalle istituzioni bisognerebbe che il livello di affluenza non superasse il 50 per cento dei voti validi. Bisognerebbe cioè che la 'diserzione' dal voto proveniente da sinistra coinvolgesse il 30 per cento di elettori, di fatto quasi tutti quelli che votano per il centrosinistra. È possibile un fenomeno di questo livello? La realtà e l'esperienza fanno ritenere che non si arrivi a questo punto; ma ammettiamo per ipotesi che ci si arrivi. Quale sarebbe allora il risultato politico istituzionale?

Non è difficile prevederlo: lo schieramento di centrodestra, con la modesta astensione del 5 per cento, resterebbe di fatto integro e sarebbe ben lieto di poter disporre a piacimento delle Regioni, dei Comuni, del Parlamento senza più opposizione. Il governo della maggioranza diventerebbe la sola forza esistente senza nemmeno bisogno di far ricorso a decreti, ordinanze ed altri mezzi truffaldini. Avremmo un Parlamento ed Enti locali monocolori e una democrazia parlamentare che funzionerebbe come pura registrazione degli editti del Sovrano. Non a caso la Polverini, candidata alla presidenza del Lazio, a chi le preannunciava un ipotetico ritiro della Bonino dalla competizione elettorale ha risposto: "Ma se ne vada, nessuno la fermerà". Certo, non la fermerà la Polverini. I partiti del centrosinistra, giustamente, si sono rammaricati nei giorni scorsi di dover vincere 'a tavolino' in Lazio e in Lombardia per assenza di avversari, ma attendersi un analogo rammarico dallo schieramento opposto è pura illusione: ne sarebbero felici.

L'ipotesi realistica non è comunque quella che la sinistra si astenga nella sua totalità, ma piuttosto che una percentuale del 4-5 per cento diserti le urne. Con quale risultato? Che l'astensione punitiva da sinistra compenserebbe l'astensione punitiva da destra. Quindi rafforzerebbe lo schieramento avversario indebolendo il proprio.

Non mi sembra un obiettivo da perseguire; mi sembra piuttosto una diserzione proprio nel momento in cui si sta combattendo una battaglia campale per le sorti della Repubblica e della democrazia. Una diserzione dunque da scongiurare. Il rimedio non è l'Aventino degli scontenti e dei delusi di sinistra, ma un voto compatto per mandare a casa l'avversario ed evitare l'avvento di un regime. Se questo avverrà si saranno anche poste le basi per il rinnovamento etico-politico del Paese e anche della sinistra, entrambi urgenti e necessari.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una bella piazza, un pessimo discorso
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2010, 04:21:01 pm
L'EDITORIALE

Una bella piazza, un pessimo discorso

di EUGENIO SCALFARI

Ho aspettato il discorso di Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni prima di scrivere queste righe. Pensavo che avesse in serbo qualche idea nuova, qualcuna delle sue promesse elettorali  -  per altro mai mantenute  -  che sorprendesse il Paese e spiazzasse l'opposizione. E intanto, mentre si attendeva l'arrivo sul palco del Capo dei Capi, il Capopopolo, il Capopartito, il Capo del governo, ho guardato la piazza, le facce della gente, le loro parole ai microfoni delle televisioni. Le facce erano pulite, serene, allegre. Doveva essere una festa, la festa dell'amore verso tutti, verso gli altri; una festa di popolo con le sue idee, i suoi bisogni, le sue speranze, come ce ne sono in tutte le piazze democratiche di questo mondo. Così era stato detto dagli organizzatori e così sembravano aspettarsi i partecipanti.

Ma poi è arrivato lui e l'atmosfera è cambiata. Le gente allegra è diventata tifoseria, quella che inveisce contro i giocatori avversari e contro gli arbitri ai quali è affidato il rispetto delle regole di gioco. Una piazza, sia pure affollata, non cambia una situazione politica ma fornisce un elemento in più per valutarne i possibili esiti. Se all'inizio c'era attesa, alla fine il tono si è spento dopo un discorso che è stato uno dei più brutti che Berlusconi abbia mai pronunciato. Ripetitivo, retoricamente bolso, con un tentativo di colloquiare con la piazza che ripeteva un logoro copione già visto molte volte con lui e con altri in epoche più remote: "Volete voi che vinca la sinistra?". "Nooo". "Volete voi che vinca il Popolo della libertà?". "Sììì".
"Volete voi il governo del fare?". "Sì". "Volete che aumentino le tasse?". "Noo". Ha promesso addirittura che il suo governo avrebbe vinto il cancro. Incredibile, ma è accaduto in quella piazza e da quel palco.

Naturalmente ha attaccato a fondo la sinistra descrivendola come una peste da cui lui e soltanto lui ha salvato il Paese sacrificando la sua privata libertà. Si è vantato di avere ridotto i reati di furto di rapina e di omicidio a livello minimo mai raggiunto. Di aver riportato l'Italia tra le grandi potenze col massimo rilievo che tutti gli altri gli attribuiscono. Di aver bloccato l'immigrazione. Di aver fatto sciogliere i campi nomadi. Ha inneggiato a Bertolaso e ai provvedimenti di emergenza che hanno salvato il Paese. Ha ricordato per l'ennesima volta i rifiuti tolti a Napoli (adesso ci risono) e le case fabbricate a L'Aquila.

A metà spettacolo è arrivato al microfono Umberto Bossi e gli ha rubato per qualche minuto la scena. Non so se l'abbia fatto per distrazione o per sottile perfidia ma con il suo stentato parlottare Bossi gli ha conferito un merito che francamente non conoscevamo: quello di non aver firmato una direttiva europea sulla "famiglia trasversale"; un merito alquanto imbarazzante se attribuito proprio a Berlusconi.Quanto al programma per i prossimi tre anni (infrastrutture, diminuzione delle tasse, ampliamento delle case senza bisogno di nessuna autorizzazione e, appunto, la vittoria sul cancro) c'è stato anche uno scivolone clamoroso. La decisione di firmare davanti a quella piazza un patto con i candidati al governo delle Regioni, nel quale patto il governo da un lato e dall'altro le Regioni che saranno guidate dal centrodestra si impegnano a realizzare un programma comune con appoggio reciproco. E le Regioni guidate dall'opposizione, si domanderà qualcuno? "Con loro è impossibile discutere" ha detto dal palco Berlusconi. Il capo del governo ha cioè pubblicamente annunciato che discriminerà le Regioni che in libere elezioni saranno presiedute dall'opposizione. Se questa è la libertà da lui difesa e promessa, stiamone se possibile alla larga.

Ma oltre alla sinistra l'attacco si è concentrato contro i magistrati mossi da intenti politici. Come distinguere quei magistrati dagli altri? Il metro è ovvio. Quelli che processano lui o i suoi amici sono politicizzati, gli altri fanno il loro mestiere. L'attacco è stato particolarmente violento per i magistrati dei tribunali amministrativi di Roma e di Milano che "hanno volutamente truccato le carte per escludere il nostro partito dalle elezioni". In verità a Milano quegli stessi magistrati dopo un più attento controllo hanno riammesso Formigoni. A Roma le cose sono andate diversamente perché le regole escludevano l'ammissibilità di una lista.

Pochi minuti dopo il discorso è arrivata la notizia che il Consiglio di Stato, con una sentenza ormai definitiva, ha respinto per l'ottava volta il ricorso del Pdl per la riammissione della sua lista nella provincia di Roma. Tutti comunisti anche a Palazzo Spada? "Ma ci sarà una grandissima riforma della giustizia" ha minacciato il premier con aria truce. Una decimazione tra i giudici? Le "toghe rosse" all'Asinara? Infine il presidenzialismo: prima della fine di questa legislatura verrà stabilita anche l'elezione diretta del Capo dello Stato. Non poteva mancare, quello è ormai un pensiero fisso, la sua tarda vecchiaia lui la vuole passare al Quirinale. Un discorso piatto, accusatorio, politicamente scadente, letterariamente pessimo. Deludente anche per i suoi che sono una bella gente un po' frastornata.

* * *

I bisogni degli italiani, a qualunque parte politica appartengano, sono diversi da quelli che Berlusconi immagina.
Quando esordì in politica sedici anni fa aveva interpretato lo stato d'animo di una larga parte del Paese. Ricordate la Milano da bere di craxiana memoria? Ebbene, nel '94 non più soltanto Milano, ma tutto il Nord voleva una Padania da bere. Poteri forti, piccole imprese, partite Iva volevano abbattere i recinti, le regole, i lacci e laccioli che impedivano una libera gara. Fu l'epoca del liberismo e chi aveva garretti più robusti agguantava la sua meritata parte di successo e di felicità.

Questa era la domanda che veniva dal fondo del Paese e chi meglio di lui poteva capirla e soddisfarla? C'erano dei nemici da sconfiggere per attuare questo programma e lui li indicò: la casta politica impersonata dai comunisti e dalla sinistra. Il fisco e la burocrazia. E poi un uomo forte e antipolitico al vertice. Un partito-azienda ai suoi ordini. Le istituzioni da usare come una vigna di famiglia. Intanto si disfaceva il vecchio mito della classe operaia, si affermava l'economia globale, cresceva il boom della finanza e la bolla della "new economy".
La sinistra, di tutti questi fenomeni, capì poco o niente. Aveva un'altra visione del Paese che però in quel momento non corrispondeva alle domande, alle voglie, agli umori ed agli interessi della maggioranza. La sinistra pensava ad una crescita equilibrata, alla redistribuzione sociale del reddito per diminuire le disuguaglianze, alla legalità, all'accoglienza dell'onda migratoria. Privilegiava, almeno a parole, il "welfare" rispetto ad un liberismo darwiniano. Strappò ancora qualche vittoria elettorale, ma il trend era già passato di mano.

* * *

Il Berlusconi del 2007 è un fenomeno in parte diverso da quello del '94. È sempre un grande Narciso, un grande venditore e un grande bugiardo, ma alla passione per i propri privati interessi si è affiancata la passione per la politica. Che cosa c'è di più appagante della politica per un Narciso a 24 carati? La sua politica non sopporta regole né ostacoli. Vuole che tutto sia suo. Perciò l'obiettivo primario è il presidenzialismo, l'investitura popolare e plebiscitaria per un presidenzialismo che faccia piazza pulita di tutte le autorità di controllo e di garanzia. Che degradi il Parlamento, la Corte costituzionale, la Magistratura, insomma le istituzioni, al ruolo di consiglieri ed esecutori della volontà del Sovrano. Non più lo Stato di diritto ma lo Stato assoluto, il potere assoluto.

Il programma è questo ed è stato infatti questo il tono del suo comizio in piazza San Giovanni. L'obiettivo è la conquista del Quirinale come luogo di potere senza altri impedimenti. La grande riforma ha questo come scopo.
Qualcuno ha acutamente osservato che negli ultimi mesi l'onnipotente capo del governo e della maggioranza non è riuscito ad ottenere nemmeno l'eliminazione delle trasmissioni televisive della Rai a lui scomode. Le telefonate iraconde con l'Agcom e col direttore generale della Rai non sono riuscite ad ottenere il risultato voluto. Ha dovuto utilizzare l'impuntatura d'un radicale membro della commissione di Vigilanza della Rai per poter azzerare tutte le trasmissioni di informazione del nostro servizio pubblico televisivo. Dunque un onnipotente impotente?

Diciamo meglio: un onnipotente alle prese con regole e autorità neutre ancora esistenti e operanti. Per questo la priorità numero uno è per lui il potere assoluto. Disfarsi di quelle regole e di quegli ostacoli. Danneggiando pesantemente la Rai, favorendo pesantemente Mediaset che è cosa sua, come disse a Ciampi nel tempestoso colloquio del 2006 sul rinvio in P arlamento della legge Gasparri. Non vuole più essere un onnipotente impotente e neppure un potente limitato dalle regole e dalla legge. La legge la fa lui e lui soltanto.

Ha ragione il presidente Napolitano ad insistere sulla collaborazione di tutti alle riforme ed hanno ragione tutti gli osservatori che giudicano pessima una campagna elettorale che non si occupa affatto dei problemi concreti delle Regioni. Ma il tema posto dal Capopopolo e Capo del governo è lo stravolgimento della democrazia parlamentare in un regime di assolutismo ed è con questo tema che bisogna confrontarsi. Il comizio di piazza San Giovanni ce lo conferma. L'opposizione può e deve parlare di sanità, precariato, occupazione, sostegno dei redditi, Mezzogiorno. Ma deve far barriera contro la richiesta di potere assoluto e plebiscitato. Questo ci dice la giornata di ieri ed è un tema che non può essere eluso.

* * *

Lo Stato, nel senso della pubblica amministrazione, è a pezzi. Siamo in coda a tutte le classifiche internazionali. Una burocrazia elefantiaca, insufficiente, infiltrata dalla politica e spesso succube degli interessi anche illeciti.
Questa inefficienza dura da decenni e la responsabilità non è di Berlusconi ma di tutti i governi a partire dalla fine degli anni Settanta e forse anche da prima. L'amministrazione pubblica non è più stato un tema degno di attenzione mentre avrebbe dovuto essere l'obiettivo numero uno da perseguire.

Berlusconi però fa parte della lunga schiera dei governi responsabili di questa enorme disattenzione, ma quel tema non l'ha neppure sfiorato. Per lui la pubblica amministrazione è un cane morto da sotterrare nel momento stesso in cui il Sovrano assoluto sarà insediato. L'amministrazione dovrebbe rappresentare la continuità dello Stato di fronte all'alternarsi dei governi. Garantire il rispetto degli interessi sociali individuali legittimi ma insieme a quello degli interessi generali. Nulla di tutto ciò è all'ordine del giorno.

Quando parlo di pubblica amministrazione parlo anche, anzi soprattutto, della Giustizia che ne costituisce la parte essenziale; parlo della sanità, della fiscalità, della rappresentanza all'estero, della gestione di Regioni e di Enti locali. E parlo anche di governi. Il potere esecutivo fa parte della pubblica amministrazione anzi ne è il coronamento. Dovrebbe esserlo. In Usa il governo del presidente si chiama infatti Amministrazione. Ma quella è un'altra storia e un altro Paese.

Pubblica amministrazione, Costituzione, legalità: questo dovrebbe essere il programma di un serio partito democratico e riformista. Il presidenzialismo in salsa berlusconiana è l'antitesi del riformismo democratico.
Quanto alla lotta contro la corruzione, essa riguarda soprattutto i partiti. Dovrebbero darsi un codice etico e applicarlo puntualmente; prima che la magistratura si esprima, i partiti dovrebbero sospendere i loro membri indagati, una sospensione sul serio che non consentisse alcuna interferenza sulla politica. Il caso Frisullo da questo punto di vista è fin troppo eloquente. Il caso Frisullo dimostra anche quanto sia fallace e falsa l'accusa contro le "toghe rosse" o politicizzate. Mentre Trani mette sotto inchiesta il premier, la procura di Bari arresta Frisullo. L'Ordine giudiziario è un potere diffuso che viene esercitato dai magistrati secondo i loro ruoli, la loro competenza territoriale e i diversi gradi della giurisdizione, sicché è impossibile lanciare quotidianamente accuse nei loro confronti nelle quali eccelle il presidente del Consiglio. Da parte sua quelle accuse hanno una valenza eversiva che mina alle fondamenta lo Stato di diritto.

* * *

I sondaggi d'opinione non possono esser resi pubblici in queste ultime settimane prima del voto, ma chi ascolta e analizza i sentimenti della pubblica opinione si è fatto un'idea del "trend" pre-elettorale e il trend è questo: la quota dei non votanti sembra essersi attestata intorno al 30 per cento. Circa metà di questa astensione ha carattere permanente, l'altra metà ha carattere punitivo nei confronti dello schieramento di origine. Di questo 15 per cento gli esperti ritengono che almeno due terzi provenga da elettori di centrodestra. Astinenza significa sottrarre mezzo voto al proprio schieramento di provenienza.

Queste considerazioni non sono appoggiate da alcun sondaggio recente ma si deducono logicamente. Servirà la manifestazione di ieri in San Giovanni a modificare il trend? Credo di no. Il discorso di Berlusconi, l'abbiamo già detto, è stato di modestissima qualità. L'intento era di spingere il suo elettorato al voto compatto senza smottamenti pericolosi, ma da questo punto di vista l'occasione sembra mancata. Ma può un Paese come il nostro esser guidato da un piazzista che vende prodotti vecchi e spesso avariati? Questo è il mistero che, speriamolo, le elezioni del 28 marzo dovrebbero cominciare a sciogliere.
 

© Riproduzione riservata (21 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I nuovi barbari
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 04:34:05 pm
I nuovi barbari

di Eugenio Scalfari

La modernità è morta o moribonda.

E si discute da chi e come sono condotte le invasioni barbariche in corso
 

Tutto è cominciato con un film di parecchi anni fa di produzione canadese intitolato 'Le invasioni barbariche' che ebbe molto successo. Era la storia di un'eutanasia compiuta da uno scienziato e docente universitario su se stesso con l'aiuto di suo figlio e di un gruppo di amici tra i quali una moglie da cui era da tempo divorziato e un paio di ex amanti. La morte del protagonista è splendida, avviene in un giardino sotto le stelle mentre parla con gli amici della morte di Socrate raccontata nel 'Fedone'. L'ho visto tre volte quel film e ancora non ho capito se i nuovi barbari fossero il suicida e i suoi scanzonatissimi parenti ed amici oppure gli altri che non capivano il loro approccio alla vita e alla morte e lo condannavano in nome del senso comune e - forse - del buonsenso.

Sull'onda di quel successo Daria Bignardi riprese il titolo del libro e condusse su La7 una trasmissione di successo intervistando personaggi di attualità e di qualità e portando all'attenzione del pubblico nuovi talenti ancora poco conosciuti. Roberto Saviano fu uno di quelli, Erri De Luca un altro; ma poi c'erano anche i politici opportunamente dosati ma sempre scelti tra quelli non più popolari ma più discussi. Anche in quella trasmissione non era ben chiaro chi fossero i nuovi barbari anche se la preferenza per i nuovi talenti segnava un consapevole distacco dai valori correnti. Ci andai anch'io un paio di volte in occasione dell'uscita di un mio libro e per altre occasioni di attualità. Comunque l'immagine delle invasioni barbariche era ormai entrata nel linguaggio corrente e fu spesso usata in saggi ed articoli di politica e di sociologia.

Non era mai avvenuto finora che i contemporanei avvertissero la fine della civiltà in cui erano nati e cresciuti. La storia antica procedeva con un passo molto più lento di quanto ora non accada e le trasformazioni d'una cultura e di un assetto sociale avvenivano molto gradualmente. La decadenza e la fine della grande civiltà egiziana fu impercettibile agli egiziani dell'epoca. Altrettanto era avvenuto per la fine della civiltà cretese-minoica, anche se su quel periodo di storia lavoriamo più su congetture che su fatti documentabili. Siamo però certi che anche la fine della civiltà romana, che la periodizzazione ufficiale fissa con l'ingresso dei
Goti in Italia nel 476 a.C., avvenne nella completa inconsapevolezza sia dei Romani invasi che dei barbari invasori.

L'epoca nostra rappresenta dunque un'eccezione. La storia delle idee nella cultura occidentale si occupa ormai da oltre cent'anni della fine della nostra civiltà. Spengler, Stirner, Nietzsche ne analizzarono le cause, ciascuno a suo modo, gettando uno sguardo su un futuro ancora incognito. Poi vennero guerre, genocidi, barbarie spaventose che confermarono l'ipotesi di un intero sistema di valori che stava affondando. Ora, dopo un secolo di discussioni, di libri, di crisi etico-politica, quest'ipotesi è diventata una quasi certezza: la civiltà in cui le persone della mia generazione sono nate e cresciute è ormai scomparsa o morente. Noi sopravvissuti siamo circondati dai nuovi barbari che daranno vita ad una nuova cultura e a nuovi assetti sociali dei quali tutto ignoriamo e che non sappiamo ancora se proseguiranno o regrediranno rispetto alla precedente stagione culturale.

A questo punto ci si è domandati quale sia il nome da dare alla civiltà appena morta o alle prese con gli ultimi sussulti dell'agonia e si è preso atto che si tratta della civiltà moderna. Fa una certa sensazione pensare e scrivere che la modernità è morta o moribonda. Per il senso comune questa affermazione risulta paradossale poiché si ritiene che nulla sia più moderno del supermercato, della rete Internet, dell'economia globalizzata, della tecnologia spaziale, della bioetica e del film 'Avatar'.

Lo sgomento è comprensibile. La convinzione che queste nuove acquisizioni segnino il culmine di una modernità in continua evoluzione e non il suggello della sua fine è altrettanto comprensibile. Ma non c'è dubbio - questo è almeno il mio pensiero - che la civiltà tecnologica esplosa negli ultimi quarant'anni e le novità che essa ha introdotto nel costume, abbiano poco o nulla a che fare con la modernità, quella di cui il Rinascimento costituì l'incunabolo e che si dispiegò pienamente con l'Illuminismo settecentesco e con l'età che fu definita 'goethiana' in omaggio ad uno dei suoi maggiori protagonisti.

Queste riflessioni mi ronzano intorno da tempo e me le ha ancor più stimolate un libro apparso da poco nelle librerie. Si intitola 'Lezioni illuministiche', l'autore si chiama Vincenzo Ferrone, docente di Filosofia all'Università di Torino, l'editore è Laterza. Si tratta di una cavalcata storico-filosofica che tratteggia la storia delle idee e i lineamenti dei 'tempi moderni' degli ultimi quattro secoli, dalla nuova scienza di Galilei e di Newton fino al pensiero di Cassirer e di Heidegger. Non è un libro riservato agli specialisti; può aiutare la riflessione e accrescere le informazioni anche di un pubblico genericamente colto e interessato ma non necessariamente specializzato.

La lettura delle 'Lezioni illuministiche' mi ha coinvolto anche per una singolare coincidenza: proprio in questi giorni l'editore Einaudi sta stampando un mio libro sul tema della modernità e dei 'nuovi barbari', che copre lo stesso periodo analizzato da Ferrone, con forme, percorsi e giudizi molto diversi, partendo da Montaigne e chiudendo con Calvino e Montale. Ma molti altri, a quanto so, stanno studiando questo tema e cercano di rispondere alla domanda se la modernità sia morta e chi siano i nuovi barbari e le invasioni barbariche in corso.

È un tema affascinante, sul quale varrà la pena di tornare.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI Il vento vandeano, da Torino a Treviso
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2010, 12:16:28 am
L'editoriale

Il vento vandeano, da Torino a Treviso

di EUGENIO SCALFARI

SE VOGLIAMO guardare al futuro dopo lo scossone elettorale le questioni sono due: il destino delle riforme e l'andamento dell'economia. Ma poiché entrambi questi temi sono condizionati dalla politica e dai rapporti di forza emersi dalle elezioni della scorsa settimana, i risultati del 29 marzo non possono essere archiviati come cosa nota.

Pesano sul futuro, sui comportamenti dei protagonisti e sugli umori della società. Perciò dobbiamo esaminarli con cura e al di fuori della propaganda di parte, rileggendo i numeri emersi dalle urne e cavandone un significato.

Comincerò dalla Lega, che politicamente è il partito vincitore. La sua vittoria politica è indubitabile: non governava nessuna Regione ed ora ne governa due; in Veneto ha largamente superato il Pdl; il Nord padano è saldamente guidato dal centrodestra e in particolare dalla Lega che può vantare anche una penetrazione inquietante in Emilia.

Alla vittoria politica non si è però accompagnata una vittoria elettorale in termini di cifre assolute. Gli elettori della Lega infatti sono stati due milioni e 750 mila; nelle europee erano stati due milioni e 900 mila; nelle politiche del 2008 ne aveva raccolti due milioni 847 mila. Il dato delle regionali del 2005 appartiene ad un'altra era geologica e non è dunque comparabile con quello attuale.

Roberto D'Alimonte sul 24 Ore del 31 marzo ha scorporato questi dati, regione per regione constatando che la Lega ha guadagnato voti in Veneto, in Emilia, in Toscana, nelle Marche, ma ne ha persi in Piemonte, in Lombardia e in Liguria.
Il risultato netto segna, rispetto alle europee, una perdita di 147 mila voti. Il risultato ci dice dunque che la Lega, in cifre assolute, non è affatto aumentata ma ha perso meno degli altri. Il suo peso politico è fortemente cresciuto ma il numero dei voti è più o meno quello che aveva negli scorsi due anni. Sfondamento dunque non c'è stato.


Lo stesso confronto esteso agli altri partiti dà i seguenti risultati in confronto con le europee: il Pdl ha perso due milioni e mezzo di voti, il Pd un milione, l'Idv 450 mila, l'Udc 360 mila.

Le percentuali registrano queste realtà, profondamente influenzate dalle astensioni nonché dalle dimensioni di ciascuno dei partiti sopra indicati, ma lo specchio più realistico ce lo fornisce il confronto globale con il corpo elettorale di tutti i cittadini che hanno diritto al voto.

Utilizzo le accurate elaborazioni di Luca Ricolfi che è un riconosciuto esperto in questa materia (La Stampa del primo aprile). Fatti 100 gli elettori con diritto di voto, il 30 per cento non ha votato, 12 hanno votato Lega e Idv, 29 hanno votato per i due partiti maggiori (Pdl e Pd) e i restanti 19 hanno votato per le decine di partiti e liste restanti. "Il principale partito di governo - conclude Ricolfi - è stato votato da un italiano su sette, mentre tre italiani su sette non ha partecipato al gioco".

Dal canto mio, sommando i voti del Pdl nelle tre Regioni del Nord, ottengo due milioni 384 mila voti e sommando quelli della Lega ne ottengo due milioni 292 mila. In Piemonte Lombardia e Veneto la Lega è complessivamente inferiore al Pdl di soli 152 mila voti. Di fatto nella Padania Bossi non ha superato Berlusconi ma l'ha raggiunto, conquistando due governatori su tre.

Questo è lo stato dei fatti: Non sono opinioni ma numeri. Lascio ai lettori di rifletterci su.

* * *

Si parla molto della presenza della Lega sul territorio. È cominciata la riscoperta del partito territoriale. Credo che sia una moda piuttosto che una realtà perché sul territorio ci sono tutti. Tutti gli elettori e tutti gli eletti di qualunque partito. C'è chi ci si muove bene e chi male, ma non è la presenza fisica che conta, bensì il modo e la qualità di quella presenza.

Distribuire volantini, attaccare manifesti e incollare francobolli sulle buste è una modalità necessaria ma se non c'è identità e chiarezza di scelte di indirizzo, la presenza sul territorio è perfettamente inutile.

La Lega governa nel Nord una moltitudine di Comuni, di fatto è ormai un partito di sindaci. Pare che siano bravi, giovani e capaci di amministrare.

Non hanno ideologia che comunque non gli servirebbe granché: non spetta a loro elaborare politiche generali. Pare anche che siano normalmente onesti.

Governano piccoli centri ma anche qualche grande città. Non grandissima. Ora hanno messo l'occhio su Milano e su Torino che saranno in palio l'anno prossimo.
La politica è affidata a Bossi e a Maroni che ha nel governo la carica di maggiore rilievo. La sintesi politica del programma leghista l'ha fatta Maroni pochi giorni fa in un'intervista a Sky 24: azzerare gli sbarchi degli immigrati clandestini, tolleranza zero per i medesimi ancora largamente presenti sul territorio, federalismo fiscale, Senato federale, sicurezza contro la micro-criminalità, lotta dura contro le mafie.

Di questi temi quello che può interessare il partito dei sindaci è la micro-criminalità e gli immigrati clandestini.

Ma anche la gestione dell'accoglienza per quanto riguarda gli immigrati regolari. Sembra però che quest'ultimo problema non sia molto popolare tra i sindaci leghisti, fatte salve alcune eccezioni sembra anzi che non li interessi affatto. Vedi Treviso.

Giulio Tremonti che ha partecipato a queste elezioni più come leghista che come esponente del governo e del Pdl, sintetizza questo programma con la triade Dio, Patria, Famiglia. La Famiglia (tradizionale) va a pennello con il tradizionalismo leghista. La Patria nazionale no, ma la piccola Patria locale e comunale senz'altro sì. Dio finora è stato un tema indifferente per i leghisti ma ora non lo è più. Il popolo leghista è formato da milioni di "indifferenti devoti" e i segnali non mancano. Il più recente e il più simbolico è stato quello dell'opposizione alla Ru486 lanciato da Cota e da Zaia e fortemente apprezzato dal Papa, dal cardinal Bertone segretario di Stato e da monsignor Fisichella, autorevole presule in ascesa a Roma.

Senza rientrare in una polemica che si è già fatta infinite volte su queste pagine, dico soltanto che la Chiesa in queste elezioni ha svolto la parte di una massa di spettatori che invade il campo da gioco mentre la partita è già in corso. Nelle gare sportive, quando fatti del genere si verificano, l'arbitro sospende la partita e squalifica il campo di gioco. Nel nostro caso il campo di gioco è lo spazio pubblico riservato alla Chiesa per propagandare liberamente le sue idee ma non per tirare sassi e petardi contro i giocatori. Questo ha invece fatto la Chiesa e questo comportamento avrebbe dovuto essere squalificato dalle autorità che rappresentano la laicità dello Stato. Ottenerlo da un governo come quello che ci sgoverna è impossibile, ma denunciarlo è necessario. Si somma alle infinite altre inadempienze e fa parte della sua necessità di legittimarsi di fronte alla Chiesa.
Anche la Lega desidera legittimarsi di fronte alla Chiesa; la pillola Ru486 è stata un segnale. Altri ne seguiranno, per farsi perdonare la mancata accoglienza e anzi la caccia all'immigrato. La Chiesa riprova quella condotta ma la perdona se vede segnali anti-abortisti.

Segnali che hanno il solo effetto di rimettere in voga l'aborto clandestino o, per chi ha soldi da spendere, l'aborto all'estero.

Questa politica sessuofobica è quanto di più lontano dalla predicazione evangelica. Quanto alla Lega, il motto tremontiano di Dio, piccola Patria e Famiglia rischia di trasformare le Regioni bagnate dal Po in una Vandea del ventunesimo secolo. Milano, Torino, Varese, Brescia, Bergamo, Padova, Ferrara, Mantova, insomma il Nord che conta, vorranno esser le capitali d'una Padania vandeana? Di un federalismo secessionista?

* * *

Le riforme. Berlusconi. L'opposizione. La crescita economica. I cittadini di questo paese.

A Berlusconi importa poco del suo partito. È il partito che ha bisogno di lui, non lui che abbia bisogno del partito. Quanto alla Lega, il vincolo tra lui e Bossi è fortissimo. Berlusconi è intimamente leghista, Bossi tiene in vita lui e il governo e per questo servizio di inestimabile valore può chiedere ciò che vuole e lo avrà. Le bizze fanno parte del rito.

Quanto alle riforme, la decisione tra loro è stata già presa: procederanno di pari passo federalismo e giustizia, legale impedimento giudiziario e rimpasto ministeriale: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Bossi vuole che le opposizioni partecipino, anche Berlusconi lo vuole e infatti dopo la vittoria elettorale porge la mano con mitezza quasi cristiana. "Sinite parvulos" dove i pargoli sono il Pd, Casini e perfino Di Pietro.

L'invito è accompagnato da un avvertimento che non è nuovo: se non rispondete con amore faremo da soli. Chi conosce il personaggio sa che se non faranno da tappetino la maggioranza "farà quadrato". Intanto l'invito al tavolo c'è ed è insistito. Bondi sta già versificando poesie. Cicchitto fa boccuccia. Gasparri è pronto perfino a cantare, sebbene per questo ci sia Apicella e per le crostate il cuoco Michele.

Ma il primo problema è proprio il tavolo. Fin qui Bersani ha detto con apprezzabile coerenza: il tavolo no, il confronto si fa in Parlamento. La differenza è netta: al tavolo si dialoga su un pacchetto, nel confronto parlamentare si discute proposta per proposta e le proposte vengono da tutte e due le parti. Naturalmente esiste un nesso tra le varie proposte ma non un voto di scambio. Questa è la differenza non da poco.

Poi ci sono le priorità. Berlusconi e Bossi sono d'accordo sull'appaiare le loro priorità; federalismo e giustizia. Ma l'opposizione ha una sua priorità diversa: la crescita economica e il sostegno dei redditi più deboli.

Maroni, interrogato in proposito, ha risposto: questo tema riguarda Tremonti, io non ci metto bocca. La domanda allora è questa: la priorità dell'opposizione sarà accolta? Il tema dell'economia e del lavoro affiancherà federalismo e giustizia? Sarà concordato un calendario parlamentare che intrecci i tre temi mettendoli sullo stesso piano e con lo stesso passo? Berlusconi ha anche lui sollevato un tema economico: la riforma fiscale. Ma Tremonti ha già spiegato che si potrà fare nel 2013.

Temo che sia ottimista, Tremonti; nel 2013, cioè alla fine della legislatura, non saremo affatto fuori dalla crisi che toccherà il culmine non prima del 2012 e poi comincerà a diminuire molto lentamente. Da qui ad allora la disoccupazione aumenterà ancora, i consumi resteranno stagnanti, altrettanto le esportazioni, ci sarà una stretta nel credito e nella liquidità, i tassi di interesse aumenteranno. Queste sono le previsioni generali, senza ancora entrare nel merito né della riforma fiscale né del federalismo.

Allora la seconda domanda è questa: se i temi del lavoro e del sostegno dei redditi non saranno affiancati alle priorità della maggioranza che cosa farà l'opposizione?

L'opposizione dovrà presentare i suoi progetti sulla crescita economica, forniti di copertura finanziaria credibile. E dovrà confidare che il presidente della Camera li inserisca tra la priorità di calendario, ma questo dipende dalla conferenza dei capigruppo. La posizione di Fini sarà comunque importante ed anche quella di Bossi.

Ricordiamoci che nella associazione delle Regioni la presidenza probabilmente spetterà ancora all'opposizione e da quella sede il federalismo deve necessariamente passare.

Comunque le riforme che interessano la maggioranza parlamentare arriveranno alle Camere e qui dobbiamo entrare nel merito.

* * *

Il presidenzialismo. Elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica? Le due ipotesi differiscono in modo radicale, perciò il Pdl e la Lega dovranno scegliere. L'elezione diretta del premier è incongrua. Dove è stata realizzata (Israele) ha dato pessima prova ed è stata rapidamente cancellata. Del resto il premier è il capo dell'esecutivo, cioè della pubblica amministrazione. A qualcuno deve rispondere del suo operato.

Il presidente della Repubblica è invece un organo di coordinamento. Per trasformare la carica in elettiva (non dal Parlamento ma direttamente da un voto popolare) dev'essere riformato l'intero sistema costituzionale e debbono essere rafforzati tutti gli organi di controllo. Non si può passare al presidenzialismo se prima o contemporaneamente non sono rafforzati gli organi di controllo e primo tra tutti il Parlamento e quindi cambiata la legge elettorale. Il potere degli apparati sull'elezione dei parlamentari va smantellato o fortemente indebolito. Il collegio uninominale potrebbe essere una soluzione, specie se scandito sul doppio turno. Non mancano altre soluzioni tecnicamente valide. Ma se il Parlamento non cessa di essere il pascolo degli apparati e soprattutto del governo, il presidenzialismo diventerebbe sistema autoritario, non contemplato e quindi escluso dalla Costituzione vigente. Tralascio gli altri temi che meritano un discorso a parte.

Il metro di giudizio, come abbiamo già detto più volte, è comunque lo Stato di diritto, i poteri costituzionali divisi e autonomi, nessuno di essi subordinato all'altro, indipendenti nella sfera delle proprie competenze. Se questo equilibrio venisse violato saremmo fuori dalla Costituzione.

Per concludere, una parola sul presidente Napolitano. Deve essere al di fuori delle parti perché questo è il suo ruolo. Deve applicare un filtro e un vaglio di costituzionalità ed anche di coerenza legislativa alle leggi e alla procedura di presentazione e di promulgazione.

Finché si atterrà a questi principi è perfettamente inutile e anzi dannoso tirarlo per la manica. Finora vi si è scrupolosamente attenuto e gliene va dato atto. Ove dovesse violarli, ciascun cittadino può avanzare critiche, rispettose anche se severe. Chi lo conosce sa che quelle violazioni non sono nel suo costume. Può fare errori.

Finora non ve ne è stata traccia. Il decreto cosiddetto "salva liste" non salvò un bel niente di fronte a irregolarità dimostrate da otto sentenze. Quindi non impedì nulla che non dovesse essere impedito.

Se ci fosse un attentato alla Costituzione per effetto di un colpo di forza del governo, il Presidente farà il dover suo e spetterà agli italiani di decidere la questione con il previsto referendum.

"Volete voi la dittatura d'un uomo o la libertà?". Può darsi che il dominio dei  "media" ponga il tema in modo surrettiziamente diverso, ma sarà questa la sostanza della questione e gli italiani sceglieranno.

 
© Riproduzione riservata (04 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Berlusconi si merita 10. Purtroppo
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 11:07:04 pm
Pagella elettorale

di Eugenio Scalfari


Da Bersani a Zaia il voto ai protagonisti delle elezioni regionali. Berlusconi si merita 10. Purtroppo
 

Sul Corriere della Sera di giovedì 1 aprile Pierluigi Battista ha sfornato una pagina di pagelle (12 per l'esattezza) in poche ma efficaci righe dedicate ai protagonisti delle elezioni regionali. Non avevo pensato che si potesse adottare questo metodo di giudizio anche per la politica; di solito lo si pratica sui giornali sportivi, ma Battista mi ha dato un'idea e gliene sono debitore, perciò mi ci proverò anch'io. La politica è un'attività molto complessa, si mescolano insieme tanti elementi: emotività, razionalità, geometria, volontà di potenza, vanità personale. Infine carisma. Quest'ultima è la più difficile da spiegare perché impalpabile, inafferrabile, però decisiva come il sex appeal nel campo dell'eros. Ma anche il giudizio sportivo è frutto di molti elementi: forza fisica, statura, velocità, capacità di tocco, calcolo e improvvisazione. Perciò se si danno pagelle sportive si può fare anche con la politica. Le mie sui protagonisti di questa campagna elettorale sono le seguenti.

BERSANI Una persona perbene. Non è grintoso. Leale e sorridente. Vede sempre il bicchiere mezzo pieno. Carisma no, simpatia molta. Buona competenza economica. In questa campagna elettorale ha giocato in difesa, non ha segnato gol e non ne ha presi. O meglio: i gol li hanno presi i candidati che lui non ha scelto ma piuttosto subito. Il mio voto è 6.

CASINI Si è visto abbastanza sulle televisioni. Lui è un bravo comunicatore, riesce a lanciare con impeto affermazioni spesso del tutto banali. Simpatia abbastanza. Un po' di carisma per via della bella presenza, ma nulla di più. Ha sbagliato completamente strategia. Il suo partito è stato irrilevante salvo che in Puglia dove la scelta di andare da solo ha aiutato Vendola ma chi ha deciso la sua condotta è stato da una parte il ministro Fitto e dall'altra la Poli Bortone. In tutte le altre regioni l'irrilevanza dell'Udc è stata completa tenendo presente che nelle elezioni regionali non c'è ballottaggio e vince chi prende più voti. Quando la corsa dei due candidati è molto affiancata tutte le liste alleate diventano determinanti, quella di Casini esattamente quanto le altre. Il mio voto per lui è
5.

COTA Non deve farmi velo il fatto che un leghista alla guida del Piemonte rappresenta ai miei occhi la vittoria dei lanzachinecchi, come ha scritto efficacemente sulla 'Stampa' lo storico De Luna. Ma qui giudichiamo l'efficienza in campagna elettorale e Cota merita un 7. Ha vinto anche per qualche errore della Bresso e per il voto dei 'grillini'. Ma di suo ha rafforzato la spinta leghista nelle campagne piemontesi. La sua dichiarazione post elettorale sulla pillola abortiva gli somiglia nel peggio. La medesima dichiarazione fatta dal suo collega Zaia, vittorioso in Veneto, dimostra che la Lega simbolicamente è una formazione vandeana. Quanto di peggio.

ZAIA Tutto ciò che ho scritto per Cota, voto compreso, si applica esattamente a Zaia il che significa che nella Lega i veri protagonisti sono molto pochi e non fanno i governatori delle Regioni.

SANTORO Non è stato un protagonista della campagna elettorale però in qualche modo vi ha partecipato. Il suo show dal Paladozza di Bologna è stato un evento tecnologico e mediatico ma senza alcuna influenza sulle elezioni. Dal punto di vista mediatico merita un 8 ma fuori concorso.

BAGNASCO Anche lui è fuori concorso. Se si trattasse di una partita di calcio il cardinale ha avuto il comportamento di uno spettatore che ad un certo punto della partita invade (sottobraccio al Papa) il campo scavalcando tutti i recinti e i divieti. Questo comportamento merita zero e la squalifica del campo.

VENDOLA Il carisma c'è in abbondanza. In più vari elementi di oggettiva discontinuità: è un omosessuale dichiarato, è di sinistra ed è cattolico praticante. Non ha esperienza di partito e questa è la sua quarta discontinuità. Per me il voto è 9.

BONINO Si è spesa senza risparmio ma con un handicap grave: era e resta legata ai temi classici del Partito radicale: diritti civili e legalità. Su questi temi ha avuto il consenso fervido di un buon 60 per cento dell'elettorato democratico, in più qualche voto di opinione e probabilmente anche di centrodestra, ma ha lasciato fredda una parte consistente del Pd. Il voto giusto mi sembra 7.

BURLANDO Non vola, non ha carisma, ma è serio, testardo, laborioso. Ha vinto una campagna non facile. Il 7 se lo merita tutto.

FORMIGONI Ha costruito da vent'anni una macchina da guerra che domina Milano e la provincia in modo totale, sorretta da Comunione e liberazione e dalla Società delle opere. La vittoria ce l'aveva in tasca e l'avrà in sempiterno, finché quella macchina da guerra non sarà smontata. Ma chi ci riuscirà? Secondo me neanche Bossi. Il suo voto è 7 per la campagna elettorale. L'efficienza della macchina di potere da lui costruita merita 10. In chi la pensa come me questo voto suscita disperazione.

DI PIETRO Buona campagna elettorale. Carisma poco e poca simpatia. Grinta molta. Un 8 ci sta tutto.

BERLUSCONI Del suo partito non si cura, lui può farne a meno perché è il partito che non può fare a meno di lui. La Lega non lo preoccupa perché lui è un leghista ante-marcia, l'amplificatore del nordismo e del privatismo. Il suo potere è costruito sulla sua capacità di venditore e di comunicatore. Non ha costruito un partito ma un movimento con il nome 'meno male che Silvio c'è'. Quest'uomo è una iattura per il paese perché ne eccita e ne interpreta gli istinti peggiori e la peggiore cultura. Non è il primo e non sarà l'ultimo della sua specie. Quanto a carisma ne ha da vendere. Si merita 10. Purtroppo.

POLVERINI Ha grinta grinta grinta. Innamorata del potere. Pur di averlo passerebbe sul corpo di chiunque e inghiottirebbe qualsiasi rospo. Ha perfino giurato fedeltà a Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni in quella grottesca farsa. Starà con chiunque l'aiuti a mantenere e a rafforzare il potere che ha conquistato. Ma la campagna elettorale l'ha condotta bene e merita un 8 e mezzo.

Per equanimità dovremmo anche dare pagelle a qualche intellettuale impegnato, a cominciare naturalmente da me. Ma il discorso sarebbe lungo e poi non sarei obiettivo perché parte in causa. Perciò, almeno per oggi, non facciamone niente.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ultima sfida del Cavaliere al Quirinale
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2010, 11:10:47 am
L'EDITORIALE

L'ultima sfida del Cavaliere al Quirinale

di EUGENIO SCALFARI


OGGI bisognerebbe parlare delle famose riforme. Ne parlano tutti: la Lega che vuole il federalismo compiuto e si acconcia a farlo marciare insieme al presidenzialismo e alla "grande grande" riforma della giustizia per tenere agganciato Berlusconi; l'opposizione che si dichiara disponibile a leggere le carte del centrodestra per giudicarle nel merito ma intanto pone come pregiudiziale provvedimenti economici a sostegno dei consumi e dei redditi più bassi; il ministro dell'Economia che preannuncia entro tre anni la "madre delle riforme", quella del fisco "dalle persone alle cose"; il presidente del Consiglio che, tra tutte, rilancia il presidenzialismo nelle sue varie versioni possibili e in particolare quella francese ma senza modificare la legge elettorale vigente in Italia. Infine ne ha parlato Giorgio Napolitano in varie recenti occasioni, l'ultima delle quali venerdì scorso da Verona.

Che cosa ha detto Napolitano? Ha detto che è necessario modernizzare lo Stato, che il federalismo è la prospettiva concreta per iniziare questo percorso, che esso deve essere concepito come uno strumento di autonomia delle istituzioni locali e deve servire a rafforzare l'unità del paese e la perequazione tra le sue aree territoriali. Di fronte a questo compito, di per sé immane, la riforma della "governance" del paese passa in seconda linea (così ha detto Napolitano) nell'ordine delle priorità perché rischia di introdurre nuovi elementi di divisione e di confusione.

In questi stessi giorni il presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge sui contratti di lavoro da lui considerata inadeguata e per certi aspetti di dubbia costituzionalità; ha invece promulgato quella sul legittimo impedimento nonostante i rilievi di presunte incostituzionalità formulati da tutta l'opposizione, da molti giuristi e dalla magistratura associata.

Insomma una miriade di tesi, ipotesi, convergenze, divergenze tra gli opposti schieramenti e all'interno dei medesimi; una crescente confusione di lingue e di interessi che alimenta l'indifferenza ostile dei cittadini e la loro separazione dalla politica e dalle istituzioni.

Emerge comunque la volontà berlusconiana di dare una spallata definitiva alla Costituzione repubblicana sostituendola con un regime autoritario, un Parlamento di "cloni" plebiscitati, un potere giudiziario frantumato e subordinato all'esecutivo. Questo sbocco era inevitabile, è stato covato negli scorsi dieci anni ed ora da quelle uova non usciranno teneri pulcini ma serpenti a sonagli.
In uno degli angoli del ring c'è Silvio Berlusconi, nell'altro, almeno per il momento, nessuno, o meglio un capannello di persone niente affatto concordi tra loro dalle quali sembra difficile estrarre un valido "competitor".

Giorgio Napolitano dovrebbe arbitrare la partita dalla quale potrebbe uscire una Repubblica ammodernata ma fedele ai principi dello Stato di diritto e della libertà, oppure un autoritarismo plebiscitario. L'arbitro potrà compiere il suo ufficio in assenza di uno dei due "competitors"? Oppure finirà, contro le sue intenzioni, col prender lui il posto nell'altro angolo del ring? E quale sarà in tal caso il finale di partita?

* * *

Il sipario si apre su tre scenari. Il primo si svolge il 1° aprile al Quirinale. Colloquio Napolitano-Berlusconi, presente Letta. Comincia distesamente ma si conclude nel gelo più assoluto. Il premier mette sotto accusa lo staff giuridico di Napolitano il quale gli risponde che si tratta di "validissimi servitori dello Stato" che collaborano con lui per valutare la conformità delle leggi con la Costituzione. Il premier rinnova le critiche, Napolitano ritiene concluso l'incontro e lo congeda. Poche ore dopo arriva da Palazzo Chigi una telefonata del premier che si scusa delle parole "sopra le righe" che attribuisce al nervosismo e allo stress della campagna elettorale da poco conclusa. "Non si ripeterà mai più" promette. "Ha la mia parola".

La seconda scena viene recitata a Parigi. Accanto ad un Sarkozy alquanto stupito da quel che sente in traduzione nel suo auricolare, il premier italiano annuncia "la riforma delle riforme": proporrà agli italiani il semipresidenzialismo alla francese, ma con una variante non da poco, la legge elettorale resterà quella attuale con i parlamentari indicati dagli apparati dei partiti e voterà il giorno stesso in cui si vota per il capo dello Stato con suffragio popolare diretto.

Quello stesso giorno, 9 aprile, prima di partire per Parigi Berlusconi aveva chiamato il Quirinale per ringraziare Napolitano d'aver promulgato la legge sul legittimo impedimento; gli aveva preannunciato che la stagione della riforme era finalmente arrivata. Tra queste ci sarebbe anche stata la proposta del semipresidenzialismo da lui "ripescata soltanto per fare un favore a Fini".

Ma parlando poche ore dopo da Parigi si era visto che non si trattava affatto di un ripescaggio (dal quale peraltro Fini si era immediatamente e clamorosamente smarcato) bensì di un obiettivo a lungo coltivato e gettato sul tavolo subito dopo le Regionali per farlo accettare dalla Lega in cambio del federalismo. B. B., Berlusconi e Bossi. Due alleati o due compari? Presidenzialismo e federalismo regionale. Tasse da ridurre nelle aliquote dell'Irpef e nello spostamento "dalle persone alle cose".
Che vuol dire? Le cose sono gli immobili, gli oggetti, i beni e i servizi acquistati, cioè i consumi. L'elemento della progressività scompare nelle tasse sui consumi.
Comunque per ora non si entra nei dettagli, ci penserà Tremonti tra tre anni sempre che, tra tre anni, la crisi sia terminata o non invece tuttora in pieno svolgimento dal punto di vista dell'occupazione e del reddito, come molti osservatori qualificati prevedono. Quel che è certo, Tremonti dovrà rientrare di almeno mezzo punto di deficit nel 2011 e di tre quarti di punto nel 2012, vale a dire rispettivamente di 8 e di 12 miliardi. Come antipasto all'abbattimento delle imposte non sembra affatto appetitoso.

* * *

La terza scena va in onda ieri dal convegno confindustriale di Parma. A mezzogiorno e mezza Berlusconi comincia l'arringa, diretta ad una platea di industriali piccoli, medi, grandi. Marcegaglia in prima fila col suo discorso in tasca che sarà pronunciato subito dopo quello del premier.
Il quale comincia come al solito: la crisi è finita o quasi, il declino non c'è stato e non ci sarà, l'economia italiana è competitiva più di tutte le altre in Europa, la società è coesa, le esportazioni vanno bene e andranno sempre meglio se sapranno dirigersi verso la Cina, l'India, la Russia. Le tasse ovviamente saranno abbassate e gli ammortizzatori sociali sono operanti e sufficienti.

Tremonti è al timone e fa benissimo. Il programma del Pdl e quello della Confindustria sono assolutamente identici "perciò qui sono a casa mia".
Segue la consueta illustrazione dei meriti acquisiti dal governo: l'Ici abolita, l'Alitalia salvata, i rifiuti di Napoli risolti, il terremoto dell'Aquila eccetera. Ma...
Ma da un certo momento in poi l'oratore passa bruscamente dal regno dell'amore a quello dell'odio. Chi l'ha visto a Parma ne descrive il volto di nuovo contratto sotto il cerone e i capelli dipinti sulla fronte. Nei telegiornali non ce n'è traccia perché quei passaggi sono stati "silenziati".

Nelle agenzie addirittura omessi.
Perciò ricorriamo al testo letterale, talvolta la pura cronaca si commenta da sola.
"Il governo italiano non è in grado di governare nel quadro del sistema vigente. Non può paragonarsi a nessun altro governo europeo da questo punto di vista. L'esecutivo non ha alcun potere; i disegni di legge vanno in esame alle Commissioni della Camera, poi in aula, poi al Senato.
"Nessuno dei due rami del Parlamento accetta di approvare lo stesso identico testo approvato dall'altro; lo deve dunque modificare a sua volta. Finalmente, una volta approvato dal Parlamento, quel testo, che non corrisponde più a quello inizialmente preparato dal governo, viene comunque rallentato dalle burocrazie nazionali e regionali. Senza dire, come antefatto, che il testo viene preliminarmente sottoposto al presidente della Repubblica e al suo staff che ne controlla addirittura gli aggettivi".

Segue un attacco in grande stile - non nuovo e perciò ancor più grave perché ripetuto in ogni occasione e perfino il giorno prima da Parigi per il sollazzo dei francesi - contro la Corte costituzionale, colpevole perché "essendo di sinistra e quindi politicizzata, annulla tutte le leggi e le sentenze che non piacciono ai pubblici ministeri, anch'essi politicizzati".
Siamo in pieno Caimano. Gli industriali vorrebbero che si parlasse dei loro problemi, la Marcegaglia lo dirà subito dopo a muso duro. Vorrebbero almeno un fondo di due miliardi e mezzo per tenere il mare agitato del 2010.

Ma a sentirlo attaccare la sua burocrazia, la sua Camera e il suo Senato, dove domina con maggioranze bulgare, comunque lo applaudono. Attacca i suoi perché li disprezza. Anche la platea di Parma li disprezza ed è divertita e soddisfatta dallo spettacolo vagamente schizofrenico. La doppia o tripla o quadrupla personalità del premier piace a quella platea.
Ho visto venerdì sera in Sky tivù un vecchio film di Dino Risi con Tognazzi e Gassman protagonisti. Uno fa il giudice istruttore e l'altro un imprenditore cialtrone e corruttore. Fu prodotto nel 1980, sembra scritto oggi sulla misura di Berlusconi.

* * *

Quelle frasi di Parma, nonostante il silenzio delle agenzie e dei telegiornali ufficiali, arrivano naturalmente alle orecchie del Quirinale. Si racconta che il Presidente ne sia rimasto stupefatto e indignato. Si è fatto chiamare al telefono Gianni Letta e gli ha chiesto conto di quanto aveva appena udito.
Pare che la risposta di Letta sia stata: "Non sapevo nulla. Ho udito anch'io. Le faccio le mie personali scuse".
E pare che la risposta del Presidente sia stata: "Le sue scuse personali non risolvono la questione. Se non si trattasse del presidente del Consiglio ma di una qualunque altra persona dovrei dire che siamo in presenza di un bugiardo che dice una cosa al mattino e fa l'opposto la sera oppure d'una persona dissociata e afflitta da disturbi schizoidi".

Ho scritto "pare" perché trattandosi di un colloquio telefonico tra due soggetti eminenti, le parole sopra riferite non possono che venire da amici intimi dell'uno o dell'altro. Perciò bisogna scrivere "pare" anche se si ha certezza che il colloquio sia stato nella sostanza di questo tenore.
È inutile soggiungere che un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che sente di doversi scusare a titolo personale per quanto detto poco prima dal suo premier, dovrebbe avere un soprassalto morale e dimettersi dall'incarico. Ma è altrettanto inutile aspettarsi da Letta un atto del genere e se gli chiederete perché vi risponderà che resta dove è per cercare di limitare i danni.
L'ipocrisia è il vero sentimento che governa il mondo.

* * *

Io credo - l'avevo già scritto domenica scorsa ma "repetita iuvant" - che i nodi sono arrivati al pettine e il tempo da qui allo "showdown" si sia raccorciato. Prima ci saranno i decreti attuativi della legge sul federalismo e la "grande grande" riforma della giustizia, intercettazioni comprese.
La squadra "occhiuta" del Quirinale "che controlla anche gli aggettivi" farà i suoi rilievi ma nei punti che interessano la Costituzione i rilievi non ci sono per definizione: dopo la doppia lettura in Parlamento la legge approvata a maggioranza semplice va al referendum confermativo se è impugnata da un quinto dei parlamentari.

Il secondo round ci sarà con la presentazione della legge sul presidenzialismo alla francese ma con la legge elettorale "porcellum" preparata a suo tempo da Calderoli.
Ed anche qui il referendum, se richiesto da un quinto del Parlamento.
E tuttavia queste riforme, a differenza di tutte le altre fin qui discusse, non sono semplici modifiche realizzate nei limiti dell'articolo 138 della Costituzione.
Queste riforme cambiano il volto della Repubblica perché distruggono lo Stato di diritto, alterano l'equilibrio dei poteri e la loro reciproca autonomia, ne subordinano uno o due al terzo prevalente. Devastano la giurisdizione, la legislazione, i poteri di controllo.

Mettono al vertice dello Stato un personaggio eletto da un plebiscito. Per cinque anni rinnovabili fino a dieci.
Questo scontro si concluderà nel 2011, ma comincerà tra meno di un mese. L'opposizione è divisa perché c'è ancora chi spera di prendere qualche voto in più tra tre anni attaccando fin d'ora Napolitano. "Deus dementet qui vult pervere".
Credo di sapere che Napolitano deve e vuole restare al di sopra delle parti perché quel capitale sarà il solo a poter far inclinare il piatto della bilancia dalla parte giusta e non da quella terribilmente sbagliata.

Credo di sapere, anzi di prevedere, che contro le sue intenzioni, sul ring a contrastare un vero e proprio "golpe bianco" ci sarà lui. Non in veste di giocatore ma in veste di arbitro di fronte a chi contesta gli arbitri, i soli che possano richiamarlo a rispettare le regole del gioco.
Credo di sapere e di prevedere che sarà una durissima battaglia per la democrazia italiana.

© Riproduzione riservata (11 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che cosa farà Fini quando sarà grande
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2010, 10:14:48 pm
L'EDITORIALE

Che cosa farà Fini quando sarà grande

di EUGENIO SCALFARI


CHE COSA farà da grande Gianfranco Fini? È ancora un possibile delfino di Silvio Berlusconi? Oppure uno dei suoi competitori? Un uomo di destra? Oppure un liberale? Rilevante o irrilevante? Questo gruppo di domande sollecita risposte alcune delle quali possono essere date fin d'ora, ma altre si vedranno col tempo perché lo stesso Fini oggi non saprebbe darle, neppure dopo aver inghiottito il siero della verità. La prima risposta certa è questa: non è mai stato il delfino di Berlusconi e mai lo sarà e la ragione è semplice: Berlusconi non vuole delfini. Non soltanto perché non se ne fida, ma perché non c'è nessuno come lui nel panorama politico italiano. Lui è un'anomalia assoluta, un fantastico imbonitore, capace di indossare qualunque maschera e di compiere qualunque bassezza che gli convenga.

Quando sarà arrivato al culmine del percorso che si è prefisso, non avrà altri pensieri che godersi la felicità d'aver gustato e posseduto tutto: il potere, la ricchezza, l'ubiquità, l'immunità. Che cos'altro può desiderare chi ha il culto di se stesso come obiettivo supremo da realizzare? Perciò nessun delfino, nessun successore designato. "Dopo di me il diluvio, che io comunque non vedrò". Perciò Fini non ha nessun avvenire dentro il Pdl dove i suoi colonnelli d'un tempo l'hanno già tradito e i suoi marescialli di campo che stanno ancora con lui finiranno con l'abbandonarlo anche loro se il percorso da lui intrapreso sarà troppo lungo e troppo accidentato.

Salvo forse Giulia Bongiorno e un Dalla Vedova e pochi altri che privilegiano le convinzioni agli interessi. La Polverini l'ha mollato il giorno stesso in cui fu eletta alla Regione; Alemanno è sulla soglia, Ronchi appena un passo indietro. Il presidente della Camera, a questo punto del suo percorso, ha assunto l'immagine d'un liberale, anzi d'un liberal-democratico, attento ai diritti e ai doveri e alla legalità. Allo Stato di diritto. Di qui il suo accordo con Napolitano. Quale avvenire politico può avere un uomo che ha scelto questa strada e questa immagine in un partito come il Pdl? Nessuno. E fuori dal Pdl? Fini è ancora rilevante perché potrebbe mettere in crisi il governo, ma nella canna del suo fucile ha soltanto quella cartuccia. Sparata quella non ne avrebbe più nessun'altra e la partita passerebbe in altre mani. A questo punto il suo futuro si potrà realizzare soltanto nelle istituzioni e non nella politica. È e potrà continuare ad essere un buon presidente della Camera o del futuro Senato federale o addirittura aspirare al Quirinale.


Non è poi un brutto avvenire anche se non è affatto facile; presuppone molta intelligenza, molta correttezza e coerenza di comportamenti ed anche un'Italia assai diversa da quella berlusconiana. Fargli gli auguri oggi significa perciò farli a tutti quelli che in un'Italia berlusconiana si trovano decisamente male. Nel breve termine può darsi che Fini giovedì prossimo formalizzi la sua rottura con Berlusconi o accetti un provvisorio armistizio per guadagnar tempo; ma la sostanza delle cose non cambierà e i voti dei quali dispone in Parlamento si faranno comunque sentire in qualche passaggio essenziale.

* * *

L'altro protagonista è la Lega. Molto più rilevante di Fini perché ha dietro di sé milioni di voti e controlla la parte più ricca e più produttiva del Paese. Bisogna capir bene quale è il rapporto della Lega con il Pdl con il quale è alleata e il suo rapporto con Berlusconi. Può sembrare che si tratti della stessa cosa, invece non è così. L'alleato della Lega non è il Pdl ma Berlusconi in prima persona. La Lega non lascerà mai Berlusconi perché è lui il suo amplificatore su scala nazionale e anche nel Nord leghista. La Lega non ha nessun uomo che possieda le capacità demagogiche di Berlusconi; Bossi è un'icona ma non ha carisma. La Lega perciò ha bisogno di Berlusconi almeno quanto Berlusconi ha bisogno della Lega. Il Pdl dal canto suo senza Berlusconi non esisterebbe. La figura geometrica che illustra questo trinomio è dunque quella d'un triangolo rovesciato; nei due angoli superiori ci sono Berlusconi e la Lega, nell'angolo inferiore c'è il Pdl. Due padroni e un sottopadrone. Fini si ribella proprio a questa geometria ma non ha la forza per disfarla anche perché il cemento che sostiene l'intera costruzione è nelle mani di Giulio Tremonti.

* * *

Guardate ora alla questione delle banche del Nord. E' stata esaminata con attenzione su vari giornali. Ne ha parlato più volte "24 Ore" con apprezzabile preoccupazione. Sulle nostre pagine sono intervenuti Massimo Riva e Tito Boeri mettendone in rilievo aspetti importanti e inquietanti ai quali ne aggiungerò uno che mi sembra il principale: la Lega vuole instaurare una sorta di autarchia finanziaria e bancaria nordista. Il senso della banca territoriale è questo. Se riescono in questo intento sarà una catastrofe per l'intero sistema economico italiano.

Bossi è stato assai esplicito e preciso su questa questione capitale. Ha detto: "La gente ci chiede di prenderci le banche e noi le prenderemo". Infatti le prenderanno passando attraverso le Fondazioni bancarie e insediando persone fidate nei consigli e nei vertici delle banche. Fidate per la Lega e per Tremonti, due ganasce della stessa tenaglia. Ma perché la gente fa quella richiesta a Bossi? Quale gente?

La Padania è un tessuto di medie, piccole e piccolissime imprese; le grandi e le grandissime si contano ormai sulle dita di una sola mano, anzi su un solo dito. Le banche e le Casse di risparmio hanno in quel tessuto la loro clientela naturale per una parte dei depositi raccolti e degli impieghi erogati. Ma soltanto una parte. Se sono banche di grandi dimensioni i loro sportelli di raccolta sono su tutto il territorio nazionale e i loro impieghi e intermediazioni sono ovunque in Europa. Ma "la gente" di Bossi e il messaggio leghista vogliono che il grosso degli impieghi rimanga su quel territorio anche se si tratta di impieghi non garantiti e concessi a condizioni di favore.

La territorialità bancaria nella visione leghista ha questo significato: raccolta di depositi ovunque, impieghi prevalentemente nel Nord. Questa è l'autarchia finanziaria leghista. Con altre parole questa è la politicizzazione del credito. Nella famigerata Prima Repubblica, un concetto del genere non era neppure pensabile. Ai tempi di Menichella, di Carli, di Baffi, di Ciampi, di Mattioli, di Cingano, di Siglienti, di Rondelli, una concezione del genere equivaleva ad una bestemmia.

Il credito è una linfa che circola in tutto l'organismo e affluisce là dove c'è bisogno ed è il mercato a stabilire la sua locazione ottimale. Perciò suscita preoccupato stupore vedere il sindaco di Torino che discetta sulla maggiore o minore "torinesità" dei dirigenti di Banca Intesa e i presidenti leghisti del Piemonte e del Veneto occuparsi della dirigenza di Unicredit, nel mentre il ministro dell'Economia si adopera per la creazione della Banca del Sud e consolida i suoi rapporti con le Generali.

La conclusione sarà l'isolamento del sistema bancario italiano dal sistema internazionale. Un'aberrazione che basterebbe da sola a squalificare un intero sistema politico. Ho scritto domenica scorsa che la Lega somiglia per molti aspetti ad una Vandea. Questo delle banche è un elemento qualificante di una concezione vandeana dell'economia. Anche la Chiesa di papa Ratzinger sta assumendo aspetti vandeani e per questo è aumentata la sua attenzione (ricambiata) verso la Lega. Ma qui il discorso è più complesso e ne parleremo una prossima volta.

* * *

Mentre questi fatti accadevano nell'area del centrodestra si è riunita ieri la direzione del Pd dando luogo ad un lungo dibattito privo tuttavia di apprezzabili novità e di concrete proposte. Il Pd è in attesa con le armi al piede, si direbbe in gergo militare. Nell'aria aleggia però una domanda: in tempi ormai remoti i due grandi partiti nazionali della Prima Repubblica avevano un invidiabile radicamento nel territorio. Come mai gli eredi di quelle due tradizioni politiche non sono riusciti a coniugare la concezione nazionale del partito e il suo radicamento territoriale?

La ragione è molto semplice e la storia ce la racconta. La Dc era radicata nelle parrocchie, nelle associazioni cattoliche, negli oratori, nelle cooperative bianche. Il Pci ricavava invece quel radicamento dal fatto che i comunisti erano licenziati dalle fabbriche o mandati nei reparti di confino. Occupavano le terre insieme ai contadini, morivano sotto il piombo dei mafiosi insieme agli operai scioperanti nelle zolfare siciliane e nelle cave calabresi. Leggete "Le parole sono pietre" di Carlo Levi e saprete come e perché i comunisti erano radicati sul territorio.

Il radicamento sul territorio non dipende dal numero dei circoli o delle sezioni. Dipende dalla condivisione della vita dei dirigenti con quella del popolo che li segue. Se quella condivisione non c'è e al suo posto c'è separatezza, il contenitore è una scatola vuota e il gruppo dirigente galleggia appunto nel vuoto. Non è questione di età, di giovani o vecchi, di donne o di uomini, di settentrionali o di meridionali, di colti o meno colti. È questione di creare una comunità e viverla come tale. La dirigenza del Pci era fatta di intellettuali che vivevano come proletari e in mezzo ai proletari. Se non c'è comunità, se non si sa suscitarla, non ci sono partiti ma gusci vuoti in balia della corrente. Anzi delle correnti. Questo è il problema del Pd. Mancano i don Milani e i Di Vittorio d'un tempo. Se risuscitassero sotto nuove spoglie molte cose cambierebbero in quest'Italia di maschere e di generali senza soldati.

© Riproduzione riservata (17 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'unità del Paese è soltanto un ricordo
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 05:50:27 pm
L'EDITORIALE

L'unità del Paese è soltanto un ricordo

di EUGENIO SCALFARI


NELL'ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Che cosa farà Fini quando sarà grande" avevo cercato di capire quale sarebbe stato lo sbocco politico dello scontro tra Berlusconi e Fini partendo da un presupposto: il presidente del Consiglio non ha alcun interesse alle future sorti del partito da lui fondato, non è su di esso che si basa la sua fortuna politica e il suo potere.

I fatti avvenuti subito dopo, la drammatica e pubblica rottura con il cofondatore, le reazioni della Lega, hanno clamorosamente confermato quel presupposto. Lo stesso Berlusconi ne ha fornito la prova più evidente quando ha ricordato che il Pdl non si chiama "partito della libertà" ma "popolo della libertà". Il rapporto dunque non è tra lui e un partito ma tra lui e il popolo, un rapporto diretto, senza mediazioni, carismatico e populista.

Quale sia quel popolo è tutto da vedere, ma le sue dimensioni quantitative debbono esser ben presenti: rappresenta (comprendendovi anche le liste collegate nelle ultime elezioni regionali) il 37 per cento dei votanti i quali, a loro volta, sono stati il 65 per cento del totale del corpo elettorale. Compresi in quel 37 per cento anche gli elettori che simpatizzarono per Fini. Difficile valutarne il numero ma il netto dei berlusconiani doc è comunque al di sotto di un terzo di quelli che hanno messo le schede nell'urna.

Molti osservatori sostengono che la stragrande maggioranza degli italiani non è interessata a questi temi che sanno di muffa e di politichese.

Concordo, ma resta il fatto che il governo è comunque la sede dove vengono decise le questioni che toccano da vicino gli interessi di tutta la nazione, dei ceti sociali che la compongono e dei singoli individui.

Per tutto l'Ottocento il corpo elettorale delle nazioni europee non superava mediamente il 15 per cento della popolazione attiva. In Italia era nettamente al di sotto di quella media: l'elettorato era soltanto maschile, c'era un limite di censo al di sotto del quale si era esclusi dal voto, gli elettori erano per conseguenza nettamente al di sotto del 10 per cento. Un'oligarchia di proprietari fondiari con una spolverata di professionisti e di dirigenti aziendali, che si allargò lentamente fino a comprendere una parte degli impiegati pubblici e di piccoli imprenditori e un primo nucleo di operai specializzati.

Non toglie che quei governi, sorretti da un consenso così ristretto, decidessero della felicità o dell'infelicità dei governanti, in gran parte contadini, braccianti, manovalanza generica.

Bisogna dunque stare attenti quando si batte il tasto di interesse o non interesse degli italiani. Il concreto individuale fa inevitabilmente parte del concreto collettivo; la politica del governo, sostenuto da una maggioranza parlamentare che vota a comando, incide su quel concreto, lo manipola lo indirizza, ne tiene conto o lo trascura, distribuisce felicità e sacrifici. Se tutto questo non interessa  -  e spesso accade  -  si tratta di incultura o di stato di ipnosi. Non è bene.

* * *

Il fatto più evidente dell'attuale situazione consiste nel disfacimento diventato sempre più rapido in questi ultimi mesi del sentimento di unità nazionale. Mentre si celebra proprio oggi la ricorrenza del 25 aprile 1945, cioè la liberazione dal nazifascismo e l'inizio della democrazia e della storia repubblicana (giugno 1946) e mentre si celebrerà il 5 maggio l'impresa garibaldina, l'imbarco dei Mille a Quarto, il loro sbarco a Calatafimi e poi, in pochi mesi, la battaglia del Volturno, l'incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele e infine la nascita di lì a poco dello Stato italiano; mentre queste ricorrenze incalzano, quello Stato che ha 150 anni di vita, si sta disfacendo sotto i nostri occhi.

Quelle ricorrenze hanno perso ogni significato epico, non suscitano entusiasmi e neppure tenerezza, neppure orgogliosa memoria, neppure condivisione di valori. "Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor" cantava il Manzoni. Ma dove mai? Siamo mille miglia lontani da quell'unità auspicata dai nostri grandi, mai realizzata nel profondo se non nel fango delle trincee, nei sacrifici dei più deboli, nelle speranze di quanti, malgrado tutto, hanno costruito, hanno prodotto, hanno dato un volto moderno, hanno tentato di estirpare i vizi e seminare le virtù civiche.

Magro è stato il raccolto ma tuttavia sufficiente per continuare a sperare e ad avanzare verso il futuro. Ma ora tutto sembra dissolto. Lo Stato si disfa sotto gli appetiti e la cupidigia; la nazione sta cessando di esistere nell'indifferenza sempre più diffusa. Non c'è un soprassalto collettivo contro ciò che avviene sotto i nostri occhi. L'indignazione è diventata quasi una professione di pochi.

Quando questo avviene, quando l'indignazione resta in appalto a poche voci, il segnale è quello d'una campana a morto mentre ci vorrebbe il suono di campane a martello che battessero da tutti i campanili. Quando il regionalismo arriva al limite di imporre nelle scuole maestri e docenti nati sul territorio e capaci di insegnare il dialetto locale come presupposto alla capacità di insegnare cultura, vuol dire che è in atto la scissione non più silenziosa ma dichiarata orgogliosamente dalla nazione e dallo Stato che la rappresenta.

Carlo Azeglio Ciampi si è dimesso per ragioni d'età dalla presidenza del comitato per le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Conoscendolo io credo alla sua motivazione, ma proprio perché lo conosco da quarant'anni posso testimoniare della sua amarezza per il disfacimento morale e politico che è sotto gli occhi di tutti. Dell'unità nazionale e costituzionale Ciampi è stato uno dei più validi assertori. Possiamo ben comprendere la sua tristezza e l'amarezza che la pervade.

* * *

C'è chi guarda soltanto all'albero e chi è responsabile della foresta. È normale che un individuo e una famiglia guardino all'albero della propria felicità ed è normale che una classe dirigente si dia carico dei problemi dell'intera foresta, la faccia potare, ne faccia tagliare le piante secche e ne faccia germogliare nuovi arbusti. Ciò che non è normale è una classe dirigente che guardi anch'essa soltanto ad un suo albero mandando tutto il resto in malora. Ciò che non è normale è quando il senso civico si trasforma in puro egoismo e localismo e i paesi si cingono di torri e porte e mura merlate e difendono il territorio dalla contaminazione degli altri. Una Chiesa cristiana dovrebbe denunciare chi compie questa strage dell'impegno civico. La coscienza nazionale dovrebbe denunciarla.

La Lega di Bossi, dopo la vittoria che gli ha consegnato il comando delle Regioni del Nord, sta seguendo questa strada: torri e mura merlate si moltiplicano nei Comuni e nelle Province leghiste; le Regioni incoraggiano e danno senso politico a questo scempio. Da Palazzo Grazioli Berlusconi acconsente e chiede contropartite. Alla Lega ha concesso il Piemonte ed il Veneto, i suoi ministri, la Gelmini in testa, forniscono i necessari supporti legislativi; il federalismo fiscale, per ora rimasto scatola vuota, dovrà essere una priorità nelle prossime settimane. In cambio Berlusconi chiede analoga priorità per la legge sulle intercettazioni, per il lodo Alfano, per il processo breve se la Corte costituzionale boccerà la legge sul legittimo impedimento, e sulla riforma della Giustizia così come l'ha pensata e redatta il suo avvocato Ghedini.

Questo è lo scambio. Dopo la rottura con Fini, che proprio su questi punti ha attaccato la politica del governo, Bossi ha minacciato le elezioni anticipate, poi ha tirato indietro la mano se i decreti attuativi del federalismo saranno approvati con precedenza assoluta. Il monito ha Fini come destinatario: attento, se vorrai metterci del tuo nei decreti sul federalismo, se incepperai il meccanismo da noi pensato e voluto, andremo alle elezioni e addio Fini e finiani.

Così funziona la diarchia tra Bossi e Berlusconi. L'albero cui guardano è il medesimo: il loro potere e l'incrocio degli interessi, io guardo le spalle a te e tu le guardi a me. Fini deve essere distrutto, la sinistra è irrilevante, Napolitano dovrà rassegnarsi e avrà il nostro rispetto e perfino le nostri lodi fino a quando sgombrerà il Quirinale.

* * *

Può funzionare questo sistema? Esso si basa sull'irrilevanza del centrosinistra, sulla rassegnazione del Presidente della Repubblica e sull'indifferenza passiva dell'opinione pubblica democratica.

Ebbene, pur con tutto il pessimismo che mi rattrista io non credo che questi tre presupposti ipotizzati dal tandem Berlusconi-Bossi corrispondano alla realtà. Bersani proprio ieri ha lanciato un appello a tutte le forze d'opposizione includendovi anche Fini, affinché stringano tra loro un patto in difesa della Costituzione repubblicana di fronte alla deriva che si sta verificando. È un passo avanti nella giusta direzione, ma contemporaneamente il segretario del Pd dovrebbe indicare alcuni punti concreti che possano costituire il nerbo di un nuovo futuro governo. L'alternativa non è soltanto un problema di schieramento ma è soprattutto un problema di contenuti. In questo caso i contenuti riguardano soprattutto i temi dell'occupazione, della crescita, del fisco.

Ho letto con molto interesse la proposta di Carlo De Benedetti (sul "Foglio" di giovedì scorso) sulla riduzione delle imposte sul reddito dei lavoratori, sul cuneo fiscale e sulla tassazione "delle cose" (immobili, cespiti patrimoniali), il fatto che sia l'editore di questo giornale non mi impedisce di dire che mi sembrano proposte valide che un governo di centrosinistra dovrebbe far proprie.

Quanto al presidente Napolitano, puntare sulla sua "amichevole neutralità" come fanno Berlusconi e Bossi sarà una delusione per loro. Napolitano farà ciò che gli compete senza guardare a chi giovi o chi danneggi. Lo abbiamo sentito ieri alla Scala e lo sentiremo il 5 maggio dallo scoglio di Quarto. Nel discorso alla Scala ha incoraggiato le riforme e in particolare il federalismo, purché condivise e nel quadro dell'unità nazionale. Ha avuto gli applausi di Calderoli e Berlusconi. Buon segno ma di scarso significato poiché le riforme, a cominciare dal federalismo, sono finora scatole vuote e la condivisione dovrà misurarsi con i contenuti di merito. Napolitano dal canto suo firmerà le leggi se può firmarle. Le respingerà se non saranno conformi secondo quanto gli compete di accertare. Non farà sconti. E se Bossi e Berlusconi pensano che sia facile ottenere dal Capo dello Stato lo scioglimento anticipato delle Camere, stiano certi che il percorso non sarà affatto facile e se ci sarà una maggioranza parlamentare per formare un nuovo governo, Napolitano adempirà rigorosamente al dovere di accertarne e convalidarne l'esistenza.

Quanto all'indifferenza della pubblica opinione democratica, quest'ipotesi riguarda direttamente noi e quanti come noi e ciascuno con le sue modalità considerano con preoccupazione il disfacimento del paese e la deriva che ne risulta. Si tratta di un'ipotesi senza fondamento. I nostri lettori ci confortano a proseguire questa battaglia di democrazia e di libertà. È ciò che abbiamo sempre fatto e sempre faremo.

(25 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il potere e il vangelo
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 11:29:56 pm
Il potere e il vangelo

di Eugenio Scalfari

È dalla donazione di Costantino che la Chiesa si dibatte tra l'attuazione del messaggio di Cristo e la difesa del potere temporale
 

Molti specialisti di Vaticano e di Chiesa hanno commentato i cinque anni di pontificato di Benedetto XVI il cui anniversario è ricorso il 19 aprile. Io non sono uno specialista di questioni vaticane né ecclesiastiche. È tuttavia evidente che la storia di un'istituzione bimillenaria di dimensioni mondiali interessa tutti ed i laici in modo speciale. Perciò sono anch'io partecipe di questo interesse e mi varrò, per introdurre i miei ragionamenti, delle parole del cardinale Carlo Maria Martini, al quale mi sento da tempo legato da sentimenti di grande considerazione. Le pronunciò in un discorso all'Istituto delle Scuole Cristiane a Roma il 3 maggio del 2007. Disse così: "A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano I. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano II, altri molto meno, altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento".

La diagnosi di Martini - uno dei principi della Chiesa la cui lealtà verso Benedetto XVI fu determinante nel Conclave che lo insediò al vertice della cattolicità - mi ha dato materia di ampia riflessione. La terapia proposta da Martini è "pazienza e discernimento". Sono due parole generiche oppure contengono un profondo significato? Per comprenderne il senso m'è venuto alla mente il breve racconto che il cardinale mi fece in uno degli incontri che ho avuto con lui nel suo ritiro di Gallarate. Mi raccontò (l'ho già riferito a suo tempo) che nell'intervento da lui stesso pronunciato all'apertura del Conclave prima che le votazioni avessero inizio, ricordò ai suoi colleghi che compito del Conclave era l'elezione del Vescovo di Roma che in quanto tale avrebbe regnato sulla Chiesa come Pietro, vicario in terra del Signore. La prima e principale missione dei Vescovi della Chiesa apostolica è quella infatti di parlare alle genti proseguendo la predicazione evangelica e diffondendo la parola di Cristo. La missione pastorale. L'istituzione costituisce una sorta di guaina amministrativa, organizzativa, diplomatica, che custodisce il prezioso contenuto di quella predicazione. Detto più semplicemente: l'azione pastorale dei Vescovi è il fine, l'istituzione è il mezzo. Il fine deve sopravanzare il mezzo condizionandone l'azione e spetta al Vescovo di Roma mantenere la primazia del fine rispetto al mezzo.

Questa concezione tuttavia non ha quasi mai corrisposto alla realtà storica. La missione pastorale della Chiesa è sempre stata intensa e portatrice di frutti spirituali ed etici, ma la sopravvivenza e il rafforzamento dell'istituzione sono diventate, fin dai primi secoli, la preoccupazione dominante di quella che si chiamò la gerarchia ecclesiastica. "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre", scrive Dante quando nella 'Commedia' affronta questo delicatissimo argomento. La donazione di Costantino fu il primo atto (vero o supposto importa poco) che dette base temporale al Papato e costituì il suo potere. Da allora la logica del potere è diventata il centro della Chiesa di Roma determinandone le scelte e relegando la missione pastorale in una posizione secondaria. Benedetto, Francesco d'Assisi, Gioacchino da Fiore, Antonio, Domenico e tutti i grandi santi che fondarono ordini mendicanti, concentrati nella predicazione o nella contemplazione e nella preghiera, conobbero le asperità di quel percorso e della convivenza con la gerarchia. I Papi furono innanzitutto i capi della gerarchia, i Vescovi si conformarono a quella prassi salvo casi sempre più rari.

Il Concilio tridentino dette forma moderna e funzionale alla Chiesa dentro la quale il brivido mistico diventò sempre più raro, la spinta verso la povertà sempre più sospetta, l'afflato comunitario sempre più fievole e i vizi propri del potere sempre più diffusi. Il Vaticano II ha rappresentato l'estremo tentativo di considerare il messaggio cristiano come un lievito da inserire nella cultura moderna, in una concezione pluralistica della società che preservasse la dignità della persona indipendentemente dalla sua fede religiosa. I diritti e i doveri della persona, la sua libertà, la sua responsabilità, la radice morale e l'amore del prossimo a confronto con l'egoismo e con la volontà di potenza. Questa visione metteva in discussione la gerarchia e il primato dell'istituzione. Perciò il Vaticano II fu dapprima frenato e poi reinterpretato; gli episcopati ricondotti entro la guida della gerarchia, gli equilibri ristabiliti all'insegna della continuità.

Il quinquennio di Benedetto XVI ha avuto finora questo significato. Lo scandalo dei preti pedofili è stato affrontato dal Papa con apprezzabile anche se tardiva severità; ma non ha inciso sul tema di fondo e non ha proposto la domanda decisiva: la Chiesa è il luogo dove si attua il messaggio di Cristo o dove si amministra in suo nome il potere della gerarchia?

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La guida delle élites. Il ruolo di Cavour e del re.
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2010, 02:54:56 pm
Così è nata l'Italia

di Eugenio Scalfari


La guida delle élites. Il ruolo di Cavour e del re.

Ma fu un parto propiziato dal forcipe garibaldino
 

Mentre scrivo queste righe, proprio oggi 7 maggio ricorrono 150 anni dallo sbarco dei garibaldini a Talamone, due giorni dopo la loro partenza dallo scoglio di Quarto sulla costa genovese. A Talamone furono accolti con simpatia dagli abitanti di quella insenatura a poche miglia dalla palude di Orbetello e dall'Isola del Giglio. Trovarono una partita di vecchi fucili ad avancarica e qualche centinaio di baionette e ripresero il viaggio due giorni dopo. Impiegarono ancora più d'una settimana per sbarcare a Calatafimi dove, sotto la fucileria della fanteria borbonica, pare che il comandante pronunciasse la frase passata poi nella leggenda risorgimentale: "Bixio, qui si fa l'Italia o si muore". Mi pare obbligatorio (ed è un obbligo che adempio con piena partecipazione) rivisitare in breve spazio ad un secolo e mezzo di distanza l'impresa garibaldina dalla quale uscì come un neonato estratto col forcipe lo Stato unitario italiano. Col forcipe, cioè non per naturale evoluzione, non per un disegno studiato e preparato nelle cancellerie di Torino, di Parigi, di Londra e tantomeno di Vienna.
Hanno dunque ragione gli storici che hanno messo in rilievo il carattere fortemente minoritario ed elitario del moto risorgimentale, con poca o nessuna partecipazione delle masse contadine che costituivano allora la stragrande maggioranza della popolazione della Penisola. Erano intellettuali, studenti, giovani di alti ideali, poeti, cospiratori per vocazione, i protagonisti di quel movimento.

Al loro fianco c'era anche qualche imprenditore di vista lunga, interessato a modernizzare quell'espressione geografica definita Italia, unificandone i mercati, abolendo i dazi e creando una nuova e unica moneta. Ma erano pochi, anzi pochissimi. Molti di quei pochissimi avevano già partecipato ai moti di indipendenza del '48 e del '49; erano stati risvegliati alla coscienza patriottica dalla lettura dell'
Alfieri e del Manzoni, dalle canzoni del Leopardi, dagli inni del Berchet e di Mameli. Avevano assorbito la predicazione unitaria e repubblicana di Mazzini. E molti di quei pochissimi, in maggioranza lombardi, veneti, liguri, avevano perso la vita alla difesa di Roma e di Venezia, nelle battaglie della prima e della seconda guerra di indipendenza e guardavano a Torino come ad un centro di raccolta e di guida della rivoluzione italiana.

Torino però, cioè Cavour, non aveva affatto in mente la creazione dello Stato italiano. L'alleanza con la Francia di Napoleone III e la guerra all'Austria erano state volute e preparate in otto anni di intenso lavoro diplomatico e il fine, concordato con l'alleato francese e partecipato anche al governo di Londra, era la fondazione di uno Stato del Nord-Italia sotto la guida della monarchia piemontese, che comprendesse oltre al Piemonte ed alla Liguria anche la Lombardia, il Veneto e possibilmente l'Emilia o almeno parte di essa.
La pace conclusa da Napoleone III con l'Austria anticipatamente e all'insaputa del governo di Torino, che lasciava il Veneto all'Austria, aveva mutilato il progetto di Cavour, che si dimise dopo una scenata assai vibrata tra lui e il re. Ma questi conosceva bene Cavour e previde che sarebbe tornato ben presto a guidare il governo. C'era molto da fare per amministrare quella vittoria, sia pur parziale. Bisognava superare l'antica rivalità tra Torino e Milano, arrivare ad una pacifica convivenza con l'Austria, convincere il Papa a cedere le legazioni emiliane, unificare il fisco, il sistema monetario, il mercato delle merci e dei servizi, creare le grandi infrastrutture che collegassero i territori collocati lungo le rive del Po fino al delta. Cavour non aveva altro in mente. Con i Borboni di Napoli si apriva una fase di convivenza, di commerci, di egemonia culturale e commerciale dalla quale il Nord sarebbe uscito sicuramente rafforzato e il Sud stimolato e pungolato.

Garibaldi non era previsto. Quando Cavour fu informato della sua avventurosa iniziativa, lo considerò un incidente di percorso. Fastidioso.

Da impedire per non impensierire i governi amici di Francia e di Inghilterra. Questo giudizio negativo di Cavour durò tutt'al più una decina di giorni, poi cambiò. Fece mostra di impedire la spedizione garibaldina ma sottomano la rese possibile. Si prese il rischio in minima parte pronto però ad assumerne la paternità se l'impresa garibaldina avesse avuto successo. Intanto mobilitò l'esercito, allertò la diplomazia, inviò nel Sud uno stuolo di spie, di collaboratori fidati, di 'infiltrati' come oggi si direbbe, tra le camicie rosse del Comandante. Garibaldi era consapevole. Appena arrivato a Palermo assunse il titolo di pro-dittatore. Quel 'pro' significava che la sua dittatura era fatta in nome di un potere legale che non si era ancora scoperto ma che il Generale aveva già anticipato lanciando lo slogan "

Italia e Vittorio Emanuele". Ciò non gli impedì di forzare la mano alla politica del nuovo Stato sia ad Aspromonte sia a Mentana.
Ma questo non cambiò la situazione. Intanto l'Italia unita era nata. Appunto con il forcipe garibaldino. Gli italiani naturalmente ancora no. Da allora si sono affrontate molte tesi e molte critiche al moto risorgimentale. Critiche da sinistra (il Risorgimento creò istituzioni che escludevano il proletariato), critiche da parte cattolica (il Risorgimento fu fatto contro e senza i cattolici) ed ora da parte della Lega e del nordismo leghista (il Mezzogiorno è stato per 150 anni una palla al piede del Nord che si è svenato inutilmente per assistere un popolo di fannulloni). Ciascuno di questi revisionismi crede di aver ragione. Tutti in realtà perdono di vista un punto essenziale: un nuovo potere pubblico non è mai nato se non ad opera di una minoranza. Non esiste esempio nella storia di un nuovo potere pubblico nato da un movimento di popolo. La rivoluzione bolscevica del '17 ne fornisce un esempio clamoroso, ma perfino la grande Rivoluzione francese dell'Ottantanove non fa eccezione: la conquista delle Tuileries del 10 agosto del '92, il Terrore robespierrista del '93-'94, furono opera di minoranze. Quanto alla fase riformista dell'89, anch'essa istituì un potere nuovo e fu opera del Terzo stato riunito in assemblea, che certo non rappresentava la maggioranza dei francesi, in quella fase ancora estranea al Terzo stato fatto di professionisti, docenti, intellettuali e magistrati. Le minoranze fondano i nuovi poteri. Sta poi ad esse di evocare il popolo ed educarlo. A volte ci riescono, a volte no.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cosi-e-nata-litalia/2126505/18/1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I giorni terribili dell'attacco all'euro
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2010, 06:00:17 pm
I giorni terribili dell'attacco all'euro

di EUGENIO SCALFARI

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l'errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l'ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell'Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell'affondamento dell'euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C'è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei "se" e dei "ma" doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all'altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell'Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.

La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall'ipnosi e li costringerà a reagire?

****

La novità delle ultime quarantott'ore è questa: i governi hanno capito che l'attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L'obiettivo è assai più alto, il dissesto dell'economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l'euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L'aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l'ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C'erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell'opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l'Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell'Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l'area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano  -  attraverso la domanda e l'offerta  -  le aspettative di un'immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l'aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati "debiti sovrani" e "fondi sovrani" sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L'uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l'operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l'inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l'assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell'Unione europea, la crisi si è concentrata su quell'obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell'Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell'Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l'insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto. 

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell'organizzazione del "welfare". I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l'Europa è ancora lontanissima dall'essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell'Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell'Unione verso un assetto federale. L'ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell'Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell'attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all'altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all'Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l'abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l'evidenza e l'urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un'opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un'opinione personale, credo che l'attacco in corso contro l'attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
 

© Riproduzione riservata (09 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/05/09/news/giorni-terribili-3926352/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il dramma del federalismo in Italia e in Europa
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2010, 12:02:06 pm
COMMENTO
Il dramma del federalismo in Italia e in Europa


di EUGENIO SCALFARI

LA SETTIMANA si è chiusa con le Borse di nuovo in caduta verticale. Dunque la speculazione non è ancora domata e non lo sarà fin quando l'Europa non avrà fatto passi decisivi verso uno Stato federale compiuto e dotato di una sua politica economica e fiscale come di una sua politica estera e militare. Per noi italiani il tema del federalismo europeo si intreccia con quello del federalismo italiano, arrivato ormai alla sua fase cruciale. La scatola vuota tanto propagandata dalla Lega dovrà nei prossimi mesi ed anni esser riempita di concreti contenuti che incideranno sulla struttura dello Stato, delle Regioni, degli enti locali; sull'equilibrio sociale e politico, sui poteri costituzionali, su alcuni grandi servizi pubblici a cominciare dalla sanità e dall'istruzione.
Federalismo italiano e federalismo europeo sono dunque due percorsi paralleli con reciproche influenze. Del primo si sono occupati nei giorni scorsi su Repubblica Giorgio Ruffolo (che ha anche scritto un libro interessante in materia) e Massimo Salvadori. Del secondo ha trattato Luigi Zingales su 24 Ore del 9 maggio. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal canto suo è ripetutamente intervenuto in questa così delicata questione, tanto più attuale per noi italiani nell'anno in cui si celebra l'impresa garibaldina dei "Mille" e i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia. Da questo tema dobbiamo quindi cominciare la nostra analisi.

* * *

Il Risorgimento fu concepito e attuato da una "élite", minoritaria come tutte le "élite".
Era una minoranza molto composita nella quale convivevano sentimenti, ideali, interessi e una visione culturale che aveva radici antiche.

Lasciamo da parte Dante, che ne ebbe il presentimento e le fornì per primo un comune linguaggio; ma non possiamo non includervi Alfieri, Foscolo, Manzoni, il folto gruppo di riformisti e illuministi tra i quali spiccarono i nomi dei Verri e del Beccaria.

Politicamente il Risorgimento come movimento d'indipendenza e di unità nazionale nacque nella testa di Giuseppe Mazzini. Cavour ci arrivò per pragmatismo. La sua prima idea era stata un regno padano da Torino a Venezia, sulle orme del suo predecessore Massimo d'Azeglio. Ma quando Garibaldi arrivò a Palermo con le sue Camicie rosse, non esitò un momento a saltare in sella a quel movimento vincente e a piegarlo agli interessi della monarchia sabauda.

Molte critiche sono state fatte, allora e dopo fino ai giorni nostri, da sponde diverse. Furono critici i cattolici e criticissimo il papa Pio IX; fu critico Mazzini e il partito d'Azione, fu critico Gramsci e la sinistra marxista. Oggi è critica la Lega e l'opinione nordista che la Lega cavalca a briglia sciolta. Ma tutti questi punti di vista così diversi tra loro convergono su un punto: il Risorgimento - dicono - fu opera di una minoranza e questa è la sua debolezza. Le masse cattoliche, contadine, operaie, furono assenti ed escluse dalle istituzioni. Quindi un movimento deforme, come deforme fu lo Stato che nacque da esso. Una deformità che ha impedito la maturazione di un vero sentimento nazionale e un radicamento delle istituzioni nella coscienza popolare.
È vero, fu uno Stato creato da una minoranza e nato con il forcipe d'una volontà minoritaria. Ma, come ho già più volte ricordato, non è mai esistito nella storia un nuovo potere che sia nato dalla consapevole volontà di vaste masse popolari. La creazione d'un potere nuovo è sempre stato il prodotto d'una minoranza, un risultato demiurgico che solo in un secondo momento ha evocato il popolo ed ha inserito gradualmente nelle istituzioni le masse popolari. Così sono sempre andate le cose; perfino la Rivoluzione dell'89 fu un fatto di minoranze per non parlare dei bolscevichi di Lenin. Nel bene e nel male gli Stati sono nati in questo modo.

Il Risorgimento arrivò ultimo tra le nazioni d'Europa e non poteva che nascere in quel modo: centralizzato, tra nazioni già radicate nella storia e nella coscienza popolare. Se fosse nato su basi federali sarebbe stato spazzato via in un baleno.

Le masse popolari sono ormai entrate da tempo nelle istituzioni, anzi si sono abituate a profittarne fin troppo e il motivo è semplice: le nostre istituzioni sono state molto spesso occupate da gruppi di puro potere con scarsa o nessuna visione del bene comune. Le istituzioni sono state usate per tornaconto degli occupanti e delle vaste clientele (o cricche) che ne hanno tratto beneficio.

Questa è la nostra vera debolezza con la quale il Risorgimento ha poco o nulla a che vedere. Se il sentimento nazionale è debole, la sua debolezza coincide con la disistima verso le confraternite del potere. Se il prestigio e la fiducia degli italiani verso Napolitano è quasi il doppio della fiducia verso Berlusconi, la ragione è quella: Napolitano rappresenta tutti, Berlusconi rappresenta se stesso e i suoi.

* * *

Il federalismo, fiscale e istituzionale, può essere a questo punto della nostra storia un passo in avanti o una catastrofe nazionale. C'è infatti un punto dal quale parte la questione federalista: la disistima verso le istituzioni coinvolge le Regioni prima ancora dello Stato. Il clientelismo regionale è ancor più esteso di quello statale, la burocrazia regionale è pletorica, i consigli e le giunte regionali sono un ricettacolo di malgoverno e spesso di malaffare. La Sanità, che è uno dei più grossi affari pubblici, alterna punti di eccellenza con situazioni di vergognosa miserabilità, la mappa dei posti letti è assurda, la mescolanza tra affari e politica ha raggiunto livelli sciagurati. Campania, Calabria, Sicilia, Abruzzo, Molise, Lombardia, Lazio, per citare solo i casi più evidenti, sono territori già commissariati o di imminente commissariamento, dove la rete clientelare e il malaffare che ne consegue sono ormai entrati nelle consuetudini dei proverbi e delle barzellette.

E' una rete difficilissima da rompere, dove il vero reato non è neppure più la corruzione ma l'associazione per delinquere, tanti sono i legami trasversali che intercorrono tra i membri delle cricche.
Da questa Suburra parte, ahinoi, la marcia del federalismo italiano.

* * *

Scrive Ruffolo che per bonificare questa Suburra ci vogliono le macro-regioni. Dice al contrario il nostro presidente della Republica che le macro-regioni rappresenterebbero inevitabilmente la fine dello Stato unitario. Ad esse non a caso puntano Bossi e Calderoli: la Padania come la Baviera.

Si dirà che la Baviera convive agevolmente con gli altri lander della Germania federale ed è vero. Ma attenzione: non esiste un divario così marcato tra i lander tedeschi che possa essere confrontato con il divario socio-economico-criminale che divide l'Italia in due. La Westfalia, la Renania, Amburgo, non hanno nulla da invidiare alla Baviera della quale sono perfino più ricchi. Semmai un divario esiste con i lander dell'Est che fino a vent'anni fa erano ancora sotto il tallone stalinista; ma non paragonabile al nostro Mezzogiorno.

Una Padania istituzionalizzata, con un suo governo ed un suo Parlamento, può anche essere generosa nel periodo iniziale di un siffatto federalismo, ma avrebbe gettato le basi di una reale separazione tra l'Italia peninsulare e quella cisalpina. Quest'ultima centripetata dall'Europa, l'altra piegata verso il Maghreb, la Grecia, l'Albania e l'incrocio dei traffici mafiosi del Mediterraneo e dell'America Latina, lontana ma molto presente.
E' questo il federalismo macro-regionale? Temo di sì e per questo lo avverso, da italiano e da europeo.

* * *

Due parole su un altro nordismo che meriterà però un più articolato discorso: il nordismo europeo che molti coltivano dopo la battaglia tra la speculazione internazionale e l'Unione europea. La battaglia procede a fasi alterne, ma la guerra è ancora tutta da combattere e non sarà vinta fin quando l'Unione non sarà diventata un vero Stato federale, magari a due velocità ma con la moneta comune sempre più al centro del sistema.

Molti (e Zingales tra questi) suggeriscono di spaccare in due l'area e la moneta dell'Unione: un'area Sud con un euro-sud e un'area Nord con un euro-nord.

La geografia non è coerente fino in fondo: nel nord-nordest ci sono paesi come i Baltici, la Romania, la Bulgaria, i cui fondamentali sono forse più compatibili con il Sud; ma questi sono dettagli, sia pure assai eloquenti.

Non si capisce se l'euro-sud sarebbe una moneta diversa e se avrebbe una sua diversa Banca centrale. Se così fosse, la speculazione internazionale avrebbe a disposizione una vasta prateria, da Lisbona a Madrid, ad Atene passando probabilmente anche dai territori italiani a sud di Firenze.

Se invece l'area Sud avesse la stessa moneta del Nord con una banda d'oscillazione attorno al cambio fisso dell'Euro, è di tutta evidenza che per la speculazione internazionale sarebbe un gioco da bambini distruggere l'intero meccanismo.

Per quanto riguarda l'Italia, allora sì, la secessione non più solo di fatto ma istituzionale sarebbe inevitabile, con la Padania agganciata all'euro e il resto d'Italia ad un qualche fiorino di antica e non commendevole memoria.
E' questo che volete? A me sembra pazzesco il solo pensarlo.

(16 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/16/news/dramma_federalismo-4094754/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La memoria e l'effimero
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 11:02:46 am
La memoria e l'effimero

Eugenio Scalfari


Il Salone del libro di Torino e la partecipazione di gente di ogni età suscita qualche speranza ma non è purtroppo rappresentativo di un paese, di una patria, di una nazione
 

Il Salone del libro di Torino ha chiuso i suoi battenti lunedì scorso, le pagine culturali dei giornali ne hanno ampiamente riferito segnalando che l'affluenza del pubblico e gli acquisti di libri negli "stand" degli editori sono stati del trenta per cento superiori a quelli del 2009.
I libri erano dei più vari tipi: "gialli", avventurosi, politici, filosofici, fumetti, atlanti, insomma letture per tutti i gusti e tutte le età, come il pubblico che per quattro giorni ha affollato gli spazi e le sale di quella gigantesca esposizione.
Ma il tratto distintivo di quella manifestazione di cultura e d'informazione è stato il titolo: la memoria, la trasmissione della memoria da una generazione all'altra con tutti i mezzi, quelli tradizionali della parola scritta e dell'oralità e quelli offerti dalle più moderne tecnologie informatiche.
Sono stato al Salone dovendo presentare un mio libro appena uscito; ma volevo anche capire quali fossero le tante persone che per ore hanno riempito quelle sale e quegli "stand", munite di macchine fotografiche e di telefonini, in caccia di libri, di "divi", e di autografi.

Li ho visti fare ressa attorno a Roberto Saviano che raccomandava di "scrivere per resistere"; applaudire Gustavo Zagrebelsky che difendeva la laicità dello Stato e la libertà di informazione; accogliere con ovazioni da stadio un campione di calcio di cui non ricordo il nome, una coppia di indiani che si battono per la pace tra indù e musulmani. E mi sono domandato chi erano, chi era quella moltitudine di vecchi e giovani, di donne e di ragazzi, di stranieri e di italiani del Nord e del Sud del nostro Paese.
Erano venuti per trasmettere e ricevere la memoria o semplicemente per partecipare ad un evento? Per raccontare agli amici che loro a quell'evento c'erano stati, esibire le foto che avevano scattato sottobraccio con i "Vip", le dediche sui libri, le strette di mano date e ricevute? Difficilissimo rispondere a queste domande. La gente non porta scritti in faccia i suoi più intimi connotati. Un bel volto giovanile ti impressiona più favorevolmente di chi è segnato dagli anni, dalle frustrazioni, dall'anonimato di tutta una vita. L'evento li riscatta per poche ore, ma il "racconto delle gesta" passa su di loro come una goccia d'acqua sul vetro.

Ci sono tuttavia diversi tipi di eventi. Tanto per distinguerne due, c'è quello di un Salone di libri e quello d'un incontro di calcio. Ricordo un film di molti anni fa nel quale un magistrato molto zelante istruiva un'inchiesta a carico d'un imprenditore corrotto e corruttore, impersonato da Vittorio Gassman. L'Italia d'allora (come quella di oggi) era divisa in fazioni che si accapigliavano tra loro in nome di opposte ideologie e tifoserie ma soprattutto di opposti interessi clientelari. Nel colmo di una di quelle risse la voce d'un altoparlante informò che la squadra nazionale di calcio aveva vinto i Campionati mondiali. La rissa cessò di incanto e si trasformò in un corteo compatto, imbandierato di tricolori, nelle cui file moralisti e corruttori marciavano insieme dietro la stessa bandiera per poi tornare a rissare non appena l'evento calcistico avesse cessato di unirli.
Rivedendo quella vecchia pellicola mi sono domandato se un paese dove il sentimento nazionale si risveglia soltanto quando scende in campo la squadra degli azzurri, sia unito da comuni memorie o da effimere emozioni che non durano più di mezza giornata.

Un evento centrato sulla lettura di libri e partecipato da una vasta platea suscita comunque qualche speranza ma non è purtroppo rappresentativo di un paese, di una patria, di una nazione. Quanti sono gli italiani che leggono libri e giornali? Forse un quarto della popolazione dai quattordici anni in su, con una prevalenza di anziani. Un quarto o poco più. Il resto è dominato da effimere emozioni e da effimeri eventi. Quanto al racconto della storia comune, familiare e nazionale, si tratta di memorie scritte sull'acqua, di messaggi chiusi in una bottiglia e gettati in mare nella speranza che qualcuno li trovi su qualche spiaggia deserta, ingombra di rifiuti e di ossa di seppia seccati dal sole e dalla salsedine.

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-memoria-e-leffimero/2127423/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il commissario Tremonti nella tempesta europea
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2010, 05:27:44 pm
L'EDITORIALE

Il commissario Tremonti nella tempesta europea

di EUGENIO SCALFARI

Dedico ancora una volta queste mie note domenicali alla crisi economica e politica che scuote l'Europa e l'America. Ma prima non posso tralasciare lo scontro che si è acceso sulla legge che vuole mettere il bavaglio all'informazione e che per l'ennesima volta sta bloccando i lavori parlamentari su un provvedimento "ad personas". Non si tratta solo di intercettazioni ma dell'intera attività della magistratura istruttoria, preclusa ai giornalisti e a chiunque voglia condurre inchieste su situazioni criminali o para-criminali, su chiunque voglia indagare sull'attività di enti pubblici a cominciare dal governo e su chiunque voglia capire quali siano le responsabilità degli uomini che a quelle istituzioni sono preposti.

La legge in seconda lettura al Senato era già stata approvata dalla Camera ma la commissione senatoriale che la sta esaminando l'ha fortemente modificata in peggio. Ha radicalizzato le pene per giornalisti ed editori, ha sbarrato definitivamente gli accessi alle fonti, ha vietato l'attività di cronaca e di inchiesta con modalità tali da realizzare un vero e proprio bavaglio a quel diritto di libertà talmente fondamentale per la democrazia da aver meritato addirittura la tutela costituzionale. Il nostro giornale si sta battendo da mesi su questo tema e questa volta per fortuna non è il solo. Gran parte della stampa e dell'editoria sono sulla stessa linea.

Partiti, associazioni, movimenti giovanili sono mobilitati a difesa di quel diritto di libertà. Le istituzioni di garanzia, a cominciare dal Quirinale, vigilano con speciale attenzione e non è neppure mancata una testimonianza proveniente da un membro del governo Usa sull'importanza dei mezzi di indagine, intercettazioni comprese, nella lotta contro la criminalità internazionale. Insomma lo scontro è al culmine anche perché le modifiche peggiorative introdotte al Senato richiederanno una terza lettura da parte della Camera dove le divisioni interne alla maggioranza potrebbero produrre rilevanti novità.

Non si tratta né d'una questione specifica e limitata né d'un atteggiamento corporativo da parte di giornali e di editori. La legge patrocinata dal presidente del Consiglio e dal ministro della Giustizia coinvolge e deforma uno dei connotati essenziali della Costituzione repubblicana. Questo spiega la centralità del tema e l'importanza dello scontro in atto. I membri del governo sono allineati a difesa della casta cui appartengono, nella pretesa di ottenere il silenzio e l'impunità per le loro non commendevoli gesta. Tutti, salvo Giulio Tremonti. Quel silenzio è molto significativo.

* * *

Un dato di fatto sta emergendo con chiarezza nella politica italiana: da quando il dissesto finanziario della Grecia ha innescato la seconda fase della crisi economica internazionale, il governo italiano è commissariato, il commissario è Tremonti. È lui che detta le soluzioni, la tempistica, l'ammontare delle manovre di assestamento del bilancio, la distribuzione degli oneri tra le varie categorie sociali ed è lui che si raccorda con le istituzioni europee. È lui cioè che traduce in italiano la politica europea della Commissione di Bruxelles e della Bce.
In questo contesto Silvio Berlusconi è non più che l'ombra del ministro dell'Economia. Di tanto in tanto, per non scomparire del tutto dalla scena, tenta qualche fuga in avanti, qualche correzione marginale al dettato tremontiano, qualche dilazione nella tempistica e diluizione dei contenuti, ma presto rientra e si allinea ai "diktat" del suo ministro-commissario, che è ormai il vero capo di questo sconquassato governo.

La politica di Tremonti è chiara: una manovra di 28 miliardi di euro da rendere esecutiva subito, per decreto data l'urgenza, che metta al riparo i conti dello Stato per i prossimi due anni 2011-2012, attraverso tagli di spesa, prelievi "una tantum" sul pubblico impiego e sulle finestre di uscita di pensionati per vecchiaia e per anzianità aziendale, condoni edilizi, diminuzione dei trasferimenti dal centro agli enti locali, congelamento di grandi opere, congelamento di contratti collettivi in scadenza. Insomma una vasta manovra con effetti inevitabilmente depressivi perché abbassano la capacità di spesa della popolazione specie in una fase di ampio ricorso alla Cassa integrazione e di diminuzione dell'occupazione precaria.

Questo hanno deciso i vertici europei, questo stanno facendo gran parte dei paesi membri dell'Unione, a cominciare dai più solidi e dai più deboli: la Germania come la Grecia, la Francia come la Spagna, la Gran Bretagna come l'Irlanda e il Portogallo. Perfino Obama ha imboccato questa strada obbligata perché l'attacco dei mercati contro i fondi sovrani, cioè contro i debiti contratti dagli Stati per fronteggiare la crisi  bancaria e industriale del 2008-2009 ha reso inevitabile un assestamento gigantesco  delle pubbliche finanze in tutto l'Occidente.

La dimensione della manovra italiana è notevolmente minore di quanto avviene altrove, ma se si tardasse ad attuarla subito aumenterebbe inevitabilmente; perciò ha ragione Tremonti a scandirne l'urgenza oltre che la necessità. C'è oltretutto da tutelare una massa ingente di titoli pubblici in scadenza nei prossimi mesi e da reperire la nostra quota di contributo al Fondo europeo di sostegno ai bilanci dei paesi in dissesto. In conseguenza esiste la fondata ipotesi che la manovra da 28 miliardi possa non esser sufficiente e che altri disagi possano derivarne ai bilanci familiari e ai livelli dei redditi individuali.

I partiti d'opposizione hanno ragione di ricordare a Tremonti la dissipazione di risorse che fu fatta agli inizi di questa legislatura, quando già la crisi mondiale e la bolla immobiliare americana erano in piena evidenza; ma quegli errori sono ormai avvenuti e un loro voto contrario alla manovra che sarà nei prossimi giorni varata non avrebbe alcuna giustificazione plausibile per quanto riguarda tagli di spesa e prelievi, salvo discuterne le modalità sociali. Però c'è un però, che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha già messo in evidenza e che Tremonti farà bene a prendere molto sul serio e a non rinviarlo con la sua consueta e alquanto arrogante alzata di spalle. Il però è quello della crescita. Bersani ha detto che senza crescita non si va da nessuna parte. L'hanno detto anche Barroso e il presidente della Banca centrale Europea, Trichet. Ne tenga dunque conto il nostro ministro-commissario.

* * *

La crescita non può venire che da una ripresa della domanda di consumi e di investimenti. Gli strumenti sono lo sgravio fiscale e contributivo, l'accelerazione dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, un primo inizio di riforma fiscale che serva a finanziare queste misure di sostegno attraverso uno spostamento dell'onere dal reddito delle persone al valore delle cose, oltre alla lotta contro l'evasione fiscale (per cui nuovi condoni non rappresentano una propedeutica appropriata). Aggiungo (e l'hanno già detto in varie occasioni Bersani e Carlo De Benedetti ed è un punto di facile comprensione) che una più vivace crescita del Pil farebbe diminuire il deficit a parità di disavanzo del bilancio, facilitando in tal modo un più rapido rientro nei parametri del patto europeo di stabilità.

Tremonti incontrerà nei prossimi giorni le parti sociali per esporre i criteri della sua manovra e chiedere a quelle organizzazioni saggezza di comportamenti. Ma le vere prove che dovrà affrontare saranno quelle con l'opposizione parlamentare e con le aspettative dei mercati. Il falso slogan berlusconiano della crisi che sarebbe da tempo alle nostre spalle non inganna e non incanta più nessuno. La crisi è ancora tutta davanti a noi e addirittura minaccia al cuore l'Europa, i fondi sovrani dei suoi Stati membri e la moneta comune. Ci vuole perciò molto coraggio e molta coesione sociale e politica. Il presidente-ombra finora ha fatto solo danni. Il ministro-commissario può dare inizio ad una svolta che i fatti rendono necessaria, ma non avendo la bacchetta magica dovrà negoziare per il bene del paese e dell'Europa.

* * *

Reggerà l'Europa? Ma quale tipo d'Europa?
L'Unione attuale è da almeno dieci anni in mezzo al guado. L'euro ha appunto dieci anni di vita e altrettanti ne ha la Banca centrale che emette la moneta comune, sia pure con qualche vistosa eccezione. La Bce è la sola Banca centrale che non abbia alle sue spalle uno Stato, perché l'Unione non lo è. Ho scritto altre volte che una siffatta Banca centrale rappresenta un'anomalia che la rende più indipendente di tutte le altre dal potere politico ma nel contempo più fragile. È ormai chiaro che questa fase di transizione deve ormai finire. Può finire in due modi: facendo rapidamente diventare l'Unione uno Stato, con un suo bilancio, una sua fiscalità, un Parlamento con candidature europee anziché nazionali, una sua politica estera, una difesa comune. Ci vorranno anni, ma i passi decisivi debbono esser fatti subito, quantomeno per quanto riguarda la fiscalità, il bilancio, il governo economico europeo, con le relative cessioni di sovranità.

L'altra strada è quella proposta dalla Germania: invece d'una cessione di sovranità dagli Stati all'Unione, una delega ai paesi più forti per governare l'economia e la finanza dell'intera Unione. Insomma un Direttorio dotato di ampi poteri. Angela Merkel sottintende che i membri del Direttorio siano, oltre alla Germania, la Francia, l'Italia, l'Olanda, il Belgio, cioè i paesi fondatori, Gran Bretagna esclusa per via della moneta non comune. Ma, a parte i malcontenti di un assetto di questo genere, la proposta non nasconde la realtà: si tratta di un'egemonia tedesca sull'Europa, sia pure con un diritto di veto della Francia e gli altri a reggere la candela.

Tutti i poteri nuovi nascono da un'egemonia, ma qui c'è di mezzo una storia plurisecolare, una guerra che ha visto la Germania contro il resto del mondo, un genocidio spaventoso. E c'è soprattutto una disparità di economie che va assolutamente colmata ma con terapie farmacologiche e non chirurgiche. La Germania  -  è vero  -  possiede a sua volta un'arma deterrente potentissima: se non si raggiungesse un accordo che la soddisfi potrebbe decidere di uscire dall'euro e tornare al marco. Si assumerebbe la responsabilità  -  per la terza volta in un secolo  -  d'aver ucciso l'Europa e d'avere al tempo stesso suicidato se stessa.

Non crediamo che possa arrivare a tanto. Non crediamo che la sinistra tedesca, i liberaldemocratici, i verdi, l'industria, il sistema bancario, infine la gran parte dell'opinione pubblica tedesca possano accettare un doppio omicidio politico di questo genere. Se il nordismo europeo varcasse questa soglia, veramente una nuova barbarie seppellirebbe l'intera civiltà occidentale e il nostro continente diventerebbe un arcipelago regionale gravido di contraddizioni tra deboli e debolissimi e non risparmierebbe nessuno, rafforzando soltanto le criminalità organizzate e consegnando un immenso mercato alle bocche voraci dei poteri forti mondiali.

Questi scenari apocalittici sono fuori dalle previsioni ma è opportuno siano tenuti presenti da quanti pensano che ci sia ancora tempo per occuparsi soltanto dell'utile proprio e della propria casta di appartenenza.
Quel tempo è finito. La crisi greca ha avuto almeno il pregio di mettere questa dura realtà sotto gli occhi di tutti. Non è così, onorevole ministro Giulio Tremonti?
 

© Riproduzione riservata (23 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/05/23/news/il_commissario_tremonti_nella_tempesta_europea-4274396/?ref=HREC1-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Finanziaria colabrodo senza equità né crescita
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2010, 07:49:35 pm
L'EDITORIALE

Finanziaria colabrodo senza equità né crescita

di EUGENIO SCALFARI

DOMANI la manovra arriverà finalmente in Parlamento. Domani il governatore Mario Draghi leggerà la sua relazione annuale alla Banca d'Italia. Domani, alla riapertura delle Borse, si vedrà se i mercati si saranno stabilizzati o lanceranno nuovi attacchi contro i fondi sovrani e contro l'euro.
Nel frattempo la manovra ha perso per strada alcuni pezzi. La soppressione delle Province è stata per ora abbandonata. I tagli e i congelamenti stipendiali di alcune categorie, tra le quali i magistrati, sono stati attenuati.
L'opposizione parlamentare, mai consultata durante l'iter del decreto, si è incattivita. La Cgil, anch'essa platealmente ignorata, ha preannunciato lo sciopero generale per il 25 giugno. Ma l'impianto e i saldi del decreto sono quelli approvati dal Consiglio dei ministri: 24 miliardi nel biennio 2011-2012 per riportare il deficit entro la soglia del 3 per cento fissata dalla Commissione europea e dal Consiglio dei ministri dell'Unione.
Si può dunque dare un giudizio sull'insieme di questi fatti, anche se non saranno pochi gli emendamenti che il decreto subirà nel corso del dibattito parlamentare. Ma affinché il giudizio sia adeguatamente documentato occorre articolarlo sui tre obiettivi che la manovra si propone: risanamento del bilancio, equità, crescita.
La Confindustria questo giudizio l'ha già dato: positivo per quanto riguarda il risanamento del bilancio, negativo per quanto riguarda la crescita. Analogo giudizio hanno dato la Cisl e la Uil.

La Cgil è stata negativa sia sulla crescita sia sull'equità. L'Europa ha plaudito sull'abbattimento della spesa pubblica ma ha raccomandato di far di più per la crescita; identica l'opinione del Fondo monetario e dell'Ocse. La Banca centrale europea teme una crescita troppo lenta. Timori analoghi ha manifestato Draghi parlando qualche giorno fa. Ascolteremo domani la sua relazione.
Intanto la speculazione attende con le armi al piede, incoraggiata dagli articoli dell'"Economist" e del "Financial Times". Vedremo domani se sui mercati splenderà il sole o diluvierà.

* * *

I 24 miliardi di aggiustamento erano e sono necessari. Semmai ci si può chiedere perché tanta urgenza. Potevano esser tagliati alla fine di giugno o addirittura in settembre e il governo avrebbe avuto più tempo per studiar meglio i provvedimenti e consultare l'opposizione e tutte le parti sociali.
Se la fretta ha avuto come motivazione la difesa dei titoli emessi dal Tesoro, a nostra opinione quella motivazione è sbagliata: la manovra di riduzione della spesa non incide sulle aste dei Bot e dei Btp, come non hanno inciso sull'andamento dei titoli spagnoli gli aggiustamenti di spesa approvati dal governo di Madrid.
Comunque, forse troppo in fretta, quell'aggiustamento Tremonti doveva farlo e l'ha fatto. Le vere ragioni della fretta derivano probabilmente dalla contrapposizione politica tra lui e Berlusconi che infatti - nonostante le smentite di rito - è arrivata ormai al calor bianco e non fa presagire nulla di buono. Ma questo è un altro discorso, che si sta svolgendo tutto in stretto gergo politichese e perciò di ardua traduzione.

* * *

Metà della manovra pesa sui dipendenti dello Stato, l'altra metà sulle Regioni e sui Comuni. Dal punto di vista geografico il peso maggiore si scaricherà sul Mezzogiorno perché la cosiddetta fiscalità di vantaggio in favore degli investimenti nel Sud è aria fritta come è aria fritta l'intero capitolo dedicato all'aumento della produttività: quando la domanda langue, l'investimento non è stimolato in misura apprezzabile e l'edilizia privata e pubblica sono ferme, la produttività resta un'aspirazione consegnata ad un improbabile e comunque lontano futuro.
Nel frattempo ci sono 2 milioni di giovani tra i 20 e i 30 anni di età che sono scomparsi dalla scena, hanno interrotto gli studi, non hanno alcuna formazione professionale, non si sono neppure iscritti negli elenchi dei disoccupati. Due milioni di fantasmi, in buona parte concentrati nel Sud e in Veneto, ai quali nessuno pensa salvo i genitori che debbono mantenerli. Una situazione assurda e inaudita, un bacino potenziale per le organizzazioni criminali come unica contropartita all'inedia.

La logica dei tagli e dei congelamenti previsti per i dipendenti pubblici è formalmente corretta: hanno avuto negli anni scorsi incrementi retributivi decisamente maggiori di quelli dei dipendenti privati e quindi possono "star fermi per un giro" per riallinearsi con i loro colleghi del privato.
Questa "fermata" si effettua tuttavia su livelli stipendiali molto bassi, pari mediamente a 1.200-1.300 euro netti mensili. Il taglio complessivo supera mediamente il 20 per cento se vi si comprendono liquidazioni e altri compensi; cioè riduce la media in prossimità dei 1.000 euro. E' vero che di altrettanto si riduce la spesa pubblica la quale, ricordiamolo, è cresciuta dal 2007 al ritmo di 2 punti di Pil all'anno. Ma l'incremento stipendiale degli statali rappresenta solo una parte dell'aumento di spesa e neppure la parte maggiore. Forse si sarebbe dovuto operare con più incisività sul resto.

Infine un'altra motivazione, in questo caso politica: gli "statali" votano in maggioranza a sinistra. Il loro scontento non peserà se non marginalmente sul consenso raccolto dal governo. "Abbasso gli statali" è uno slogan che viaggia in tandem con quello di "Roma ladrona": piace alla Lega e questa è una ragione in più per spiegare le scelte che il governo ha compiuto.

* * *

L'altra metà dell'aggiustamento grava su Regioni (8 miliardi), Comuni (3 miliardi), Province (0,6 miliardi). Lo Stato riduce per 11,6 miliardi i suoi trasferimenti. Gli Enti locali vedano loro dove tagliare, grasso ce n'è. Oppure aumentino le imposte di loro competenza. O infine taglino i servizi.
Credo che grasso da tagliare effettivamente ci sia e sarà un bene se verrà eliminato. Non vorrei che crescessero i debiti con le banche. Ma potranno anche affittare o vendere i beni demaniali in corso di trasferimento. Nel complesso questa parte della manovra non sembra pessima. Colpirà più i Comuni (che hanno però meno grasso) che le Regioni.

La Lega, una volta tanto, è divisa. Alcuni pensano che il centralismo di Tremonti faccia a pugni col federalismo; altri vedono nella manovra un colpo di frusta che affretterà il federalismo fiscale. La verità non sappiamo quale sia perché il federalismo è tuttora un oggetto misterioso. Una cosa peraltro è evidente: il federalismo avrà comunque un costo e un governo senza soldi non sarà in grado di affrontarlo fino a quando il fabbisogno non si sarà stabilizzato e il deficit non sarà rientrato nelle norme europee. Perciò se ne parlerà nel 2012 se tutto va bene. Aggiungo un'osservazione a proposito di federalismo: il passaggio all'autonomia fiscale e istituzionale, se sarà effettivo e non simulato, sarà un fatto rivoluzionario e accentuerà la disparità tra Regioni efficienti e Regioni  -  cicala, gran parte delle quali si trovano nel Sud.
Sull'inefficienza sudista sono state ormai scritte intere biblioteche e i numeri del resto stanno a dimostrare che non si tratta di opinioni ma di fatti. Pochi ricordano tuttavia che il livello di reddito disponibile per i meridionali è meno della metà del reddito del Nord. Dunque: gestione amministrativa inefficiente, livello delle risorse bassissimo.

Come sarà finanziato nel Sud il passaggio dall'inefficienza all'efficienza? Ci sarà una diminuzione di occupati, un taglio di consulenti, un taglio di pensioni di invalidità, insomma una compressione del potere d'acquisto dei meridionali. Questo è certo. E' anche inevitabile e necessario. Perfino utile. Ma quella è gente che si è arrangiata per sopravvivere. Chi li deve aiutare per non crepare di stenti? O debbono arruolarsi nella camorra e nella 'ndrangheta? Le donne nella prostituzione e i maschi nella malavita?
Ci vorrà dunque un trasferimento dal Nord al Sud in quella fase; sarà cospicuo e durerà per molti anni. Impegnerà le finanze pubbliche che dovranno "metter le mani nelle tasche". Di chi? Di quali contribuenti? Ci avete pensato?

Aggiungo un'altra osservazione: il nostro Sud è qualcosa di simile alla Grecia rispetto all'Europa. La speculazione lo sa. Perciò concentrerà il tiro sull'Italia in corrispondenza all'attuazione del federalismo.
Finirà nel solo modo possibile: un federalismo al Nord e un'accentuazione di centralismo statale al Sud. Italia a due velocità. Sono prospettive raccapriccianti.

* * *

Tutto ciò detto, credo che Tremonti abbia fatto quello doveva. Molti errori, molte lacune nel risanamento del bilancio, ma l'aggiustamento ci sarà. Non al cento per cento ma almeno al 51.
Questo risanamento vuol dire che i conti non erano sani. Ci si poteva pensare prima. Molti l'avevano previsto da un pezzo. Furono insultati e chiamati anti-italiani. Tutto ciò è arcinoto e Tremonti e Berlusconi lo sanno benissimo: il fatto che continuino a insultare la sinistra nel momento stesso in cui si dimostra che la sinistra non faceva che certificare la realtà, è semplicemente vergognoso.

Ora però è il momento di dare un giudizio sulla parte della manovra riguardante la crescita economica. Ebbene non c'è assolutamente niente da dire in proposito per la semplice ragione che provvedimenti per la crescita nel decreto non ci sono. Non ce n'è neanche l'ombra. Lo stesso ministro dell'Economia, nella conferenza stampa con cui ha presentato il decreto, ha detto che la ripresa sarà molto lenta.

Bisognerebbe stimolarla, ma ci vogliono soldi che non ci sono. Ne hanno dilapidati un bel po' nei due anni di governo ma ora la cassa è vuota, l'avanzo netto delle spese correnti è sotto zero, lo stock del debito è risalito al 117 del Pil.
Stimolare la ripresa, incrementare l'aumento del Pil, si ottiene con uno sgravio fiscale sul ceto medio, sul lavoro dipendente, sul cuneo fiscale. Per finanziarlo bisogna colpire l'evasione e i patrimoni. Non con un prelievo "una tantum" ma con un'imposta sulle cose per tassare di meno i redditi e accrescere così la domanda.
Lotta all'evasione e spostamento dell'onere tributario dalle persone alle cose per portare l'incremento del Pil dall'1 per cento almeno al 2.

Questo bisognerebbe fare. Tremonti non l'ha neppure pensato, perciò su questa questione merita uno zero. E' sperabile che il Parlamento lo obblighi a pensarci seguendo così le indicazioni dell'Ocse, del Fmi, della Commissione europea, della Bce, della Confindustria, della Cgil, dell'opposizione parlamentare. Del Capo dello Stato. E anche dell'odiato Mario Draghi.

(30 maggio 2010) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2010/05/30/news/scalfari_30_maggio-4435520/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Draghi nel segno di Einaudi
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2010, 06:49:44 pm
Draghi nel segno di Einaudi

Eugenio Scalfari

L'assemblea di Banca d'Italia si è svolta come da mezzo secolo in qua.

Il Governatore è sciolto e snocciola riflessioni apparentemente neutrali ma con angoli acuminati come spade
 

Non andavo all'assemblea annuale della Banca d'Italia dal 1992. C'era ancora Carlo Azeglio Ciampi alla guida dell'Istituto di emissione, come allora lo si chiamava quando si voleva far sfoggio di parole arcaiche e pompose. L'assemblea aveva inizio alle 10.30 di ogni 31 maggio e si svolgeva sempre con lo stesso rito: puntuali come l'orologio di Greenwich entravano in fila indiana nel salone già colmo di gente il governatore, il direttore generale, i membri del direttorio. Quando al brusio si succedeva l'assoluto silenzio il governatore cominciava la lettura delle "Considerazioni finali" rivolgendosi ai "partecipanti, al rappresentante del governo, alle cariche costituzionali, al presidente del collegio sindacale della Banca e ai signori e signore invitati". La lunghezza del documento era variabile, tra le quindici e le trenta pagine. La lettura si chiudeva con un applauso che a mio ricordo fu sempre convinto e nutrito. Poi interveniva il presidente del Consiglio generale dell'Istituto. Alle 12 e mezzo tutto era finito e i presenti sciamavano, bombardati dai flash dei fotografi e assediati dai cronisti in cerca di dichiarazioni.

Fino al 1992 non ne ho mancata quasi nessuna di quelle assemblee, a cominciare dal '56 quando il governatore era Donato Menichella, poi Carli dal '61, poi Baffi, infine Ciampi che governò per tredici anni. Di Carli e di Ciampi sono stato amico personale ed intimo, la Banca d'Italia ha sempre rappresentato per il nostro gruppo editoriale e per i nostri giornali un punto di riferimento costante. Insieme alle forze politiche della sinistra democratica, la Banca d'Italia fu l'altro pilone di sostegno del ponte che nella nostra concezione sosteneva una politica riformatrice e innovativa, un mercato aperto e guidato da regole di libera concorrenza, una politica del credito senza interferenze politiche, una gestione monetaria che finanziava investimenti mirati ad allargare la base produttiva e l'occupazione. Gli uomini che si succedettero alla guida dell'Istituto erano sensibili a questa concezione che metteva insieme la stabilità dei prezzi, la lotta contro i monopoli, il legittimo profitto di impresa, l'autonomia creditizia, la libertà di commercio e la diffusione del benessere tra i lavoratori.

Politicamente quei quattro governatori che ho conosciuto assai da vicino si sentirono rappresentati da uomini come Ezio Vanoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Nino Andreatta, Pasquale Saraceno e questa fu la costellazione che guidò la società italiana, cercando di potenziarne le virtù e dominarne i vizi, rafforzando i valori della libertà, dell'eguaglianza e dell'efficienza. Al vertice di quella costellazione c'era stato Luigi Einaudi al cui insegnamento liberale e democratico tutti si sono poi richiamati.
Rientrare in quei saloni la cui memoria ha fatto parte d'un lungo periodo della mia vita mi ha riportato indietro negli anni, mi ha fatto rivedere volti dimenticati ma improvvisamente riemersi dalla nebbia del tempo: i commessi che accolgono nel cortile, quelli che presidiano i saloni di ingresso, le segretarie che accompagnano gli ospiti ai posti loro assegnati, erano quasi tutti quelli di allora. Mi hanno riconosciuto come un vecchio amico d'altri tempi e ne sono stato commosso. Il rito si è svolto come sempre da mezzo secolo in qua, ma gli attori che celebravano e partecipavano a quella liturgia testimoniavano con i volti, le movenze, la voce, il passaggio di un'epoca. Al posto di Gianni Agnelli c'era il giovane nipote Elkann, sulla sedia dove facevano accomodare Angelo Costa c'era Emma Marcegaglia, Bonanni dove una volta vedevo Carniti e Lama. Ma soprattutto al centro della scena, dietro l'imponente leggio portatile, la figura e la voce parlante di Mario Draghi. Lui non somiglia a nessuno dei predecessori e non perché è giovane: anche Carli lo era mezzo secolo fa; ma perché è sciolto, segue la liturgia ma non se ne fa ingabbiare, alterna la gravità al sorriso, si corregge senza imbarazzo alcuno. Non loda né rampogna, ma snocciola cifre e aggancia ad esse riflessioni apparentemente neutrali ma con angoli acuminati come spade.

Era ottimista o pessimista lunedì mattina? Mentre scendevo in ascensore con Cesare Geronzi, il nuovo presidente delle Generali la cui chioma bianca rivaleggia con quelle dei grandi attori del cinema e del teatro, ci siamo posti quella domanda. Geronzi propendeva per l'ottimismo e lodava l'equilibrio delle "considerazioni" di Draghi, il suo richiamo alla stabilità e alla crescita. "Se manca uno dei due termini - ha detto - non si va da nessuna parte". Ho chiesto a mia volta: "Lei pensa che la crescita ci sarà?". "Temo che la ripresa sarà lenta". "Lo temo anch'io, perciò sono pessimista e mi sembra che anche Draghi lo sia". L'ascensore aveva toccato terra. Ci salutammo. Mi venne in mente che mezzo secolo fa in quel palazzo c'era anche lui, Geronzi, con Carli e Ossola. Il tempo si perde e si ritrova, riconciliando anche gli opposti come avviene nell'ultima "matinée" nel palazzo dei Guermantes, quando Madame Verdurin è diventata principessa e Swann e Odette sono già morti da un pezzo...

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/draghi-nel-segno-di-einaudi/2128374/18/1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lo spettro del bavaglio e della deflazione
Inserito da: Admin - Giugno 13, 2010, 12:18:47 pm
L'EDITORIALE

Lo spettro del bavaglio e della deflazione

di EUGENIO SCALFARI

TIENE ancora banco e lo terrà per un pezzo la legge bavaglio sulla libertà di stampa. Il Senato l'ha approvata votandola sotto il ricatto della fiducia posta dal governo, ma gli ostacoli sono ancora molti: l'esame della Camera e la tempistica che quell'esame richiederà, la firma di promulgazione di Napolitano, l'esame della Corte costituzionale, un possibile referendum abrogativo. Del resto i punti di dubbia costituzionalità sono numerosi, a cominciare dal diritto di cronaca smaccatamente violato, dalle gravi limitazioni agli strumenti di indagine dei magistrati e  -  particolarmente pesanti  -  alle multe stratosferiche nei confronti degli editori rei di consentire ai giornalisti eventuali violazioni della legge in questione.
Quelle multe spostano la responsabilità penale e civile dal direttore del giornale all'editore.

L'attacco di questa normativa alla libertà di stampa non potrebbe essere più evidente.Tutto ciò configura quella legge come un classico tentativo liberticida, che va quindi combattuto con tutti i mezzi legalmente disponibili. Ma voglio qui segnalare anche l'inefficacia pratica di questa sciagurata normativa.
Viviamo in un mondo ormai dominato dalla rete di comunicazioni "on line". Le notizie la cui diffusione viene impedita alla carta stampata, appariranno inevitabilmente sui siti "web". Che farà il governo? Oscurerà quei siti, come avviene in Iran e in Cina?

E ancora: se un giornale straniero verrà in possesso di quelle notizie (intercettazioni comprese) e le pubblicherà, i giornali italiani avranno pieno diritto di citarlo e riferirne il contenuto. Che farà il governo? Arresterà e multerà giornalisti ed editori che riferiscono notizie pubblicate a Londra o a Parigi, ad Amburgo o a Zurigo, a Madrid o ad Amsterdam o a New York?Questa legge è dunque liberticida e al tempo stesso inutile perché non riuscirà ad imbavagliare la libera stampa, ma semplicemente a configurare l'Italia come un paese in mano ad una farsesca cricca ossessionata da tentazioni autoritarie e sanfediste. Voltaire avrebbe ampia materia, se rinascesse, per esercitare la sua aguzza ironia.

* * *

Della manovra economica voluta da Giulio Tremonti ci siamo già occupati domenica scorsa segnalandone alcuni aspetti di necessità e alcuni difetti.
Soprattutto l'assenza totale di stimoli alla crescita, non potendo considerarsi tali le preannunciate e vacue misure di liberismo che il ministro dell'Economia gabella come risolutive spinte all'aumento del reddito mentre sono soltanto annunci lanciati nel vuoto.

Ma fatti ben più gravi sono accaduti nel frattempo in Europa. È accaduto soprattutto che la Germania ha imboccato la pericolosissima strada di una vera e propria politica di deflazione, preannunciando 80 miliardi di tagli alla spesa nei prossimi quattro anni a cominciare da subito.

Al G20 svoltosi nei giorni scorsi in Corea i membri europei hanno appoggiato questa politica, con qualche riserva soltanto da parte francese. Le dichiarazioni in favore di incentivi alla crescita, che sempre avevano accompagnato analoghe riunioni, questa volta sono state omesse; il tema dominante è stato la riduzione e la stabilizzazione del debito pubblico e il rientro del deficit nei parametri di Maastricht. La Germania ha fatto da apripista e da capofila di questa politica.

Conseguenze? Un rallentamento congiunturale, la caduta della domanda interna e degli investimenti. La debolezza dell'euro ravviverà le esportazioni dirette verso altre aree monetarie ma scoraggerà gli scambi all'interno dell'eurozona, con grave pregiudizio proprio per la Germania le cui esportazioni all'interno dell'eurozona rappresentano il 40 per cento del totale delle sue vendite all'estero. Mario Draghi valuta a mezzo punto di Pil la caduta del reddito italiano per effetto della manovra Tremonti. Figuriamoci a quanto aumenterà la perdita di velocità nel totale dell'eurozona. In un articolo su 24 ore di ieri Paul Krugman bolla con parole di fuoco questa dissennata svolta depressiva.

Personalmente esprimo da mesi giudizi altrettanto negativi. Il fatto grave consiste nella decisione della Germania di mettersi alla guida di questa politica. "I falchi del disavanzo hanno preso il controllo del G20" scrive Krugman. E aggiunge: "Operare drastici tagli alla spesa pubblica nel caso d'una grave depressione è un metodo costoso e inefficace. Le misure di austerità sono costose perché deprimono ulteriormente l'economia e sono inefficaci perché la contrazione della spesa pubblica frena il gettito fiscale". Il fatto inspiegabile è che tutta l'Europa si stia cacciando in questo vicolo senza uscita.

* * *

In Italia ci sono molte voci che reclamano un'azione espansiva di crescita accanto a quella depressiva di tagli della spesa. In testa c'è Bersani e tutto il gruppo dirigente del Pd, mobilitato altresì contro la legge bavaglio che censura la libertà di stampa. Sulla stessa linea Epifani e la Cgil. La Marcegaglia continua a reclamare sgravi fiscali robusti sul lavoro e sulle imprese, senza i quali "l'economia italiana rischia di morire asfissiata dalla deflazione e dalla disoccupazione".

L'ha ripetuto al convegno di Santa Margherita dove non ha risparmiato di bacchettare la presidentessa dei giovani, Federica Guidi, la quale invocava una modifica costituzionale che consenta di sottoporre al referendum anche le leggi fiscali. "Dissennatezza", così la Marcegaglia ha definito la proposta della Guidi, che sarebbe difficile giudicare in altro modo.
Infine in favore di interventi espansivi sono anche schierati Mario Draghi e Mario Monti, nonché Romano Prodi e Carlo De Benedetti, Pier Ferdinando Casini e Montezemolo, le Regioni e i Comuni.

Sembrano numerose queste forze ma purtroppo, unite nella diagnosi, sono divise sulla terapia. Possono ottenere qualche risultato sulla politica economica italiana, ma hanno scarso peso sull'Europa e nessunissimo peso sulla Germania. Dovrebbero dunque cercare qualche raccordo con la Francia, con la Spagna e con Obama, ma per promuovere una sorta di "force de frappe" internazionale di questa portata dovrebbero marciare uniti. È troppo sperarlo?

* * *

Qualche parola, in conclusione, la dedicherò al Partito democratico. Nelle recenti settimane sembra uscito dall'afasia in cui era caduto. Affermare che sia in buona salute non corrisponde alla realtà, ma sostenere che abbia ormai cessato di esistere è altrettanto azzardato, così come mi sembra azzardato aizzare i giovani contro gli anziani, la periferia contro il centro.

I sondaggi più recenti registrano le intenzioni di voto per il Pd attorno al 27 per cento collocando il Pdl al 33. Il divario è cospicuo ma non stellare. Battaglie come quelle contro la legge bavaglio e contro una manovra economica depressiva sembrano riscuotere un consenso molto esteso e potrebbero modificare le intenzioni di voto in misura sostanziale. Ma, lo ripeto, occorre che l'unità sulla diagnosi si accompagni ad una compattezza delle terapie e alla ricerca di uno sbocco politico comune.

Se ciascuno continuerà a privilegiare la propria "ditta", le forze centrifughe avranno la meglio e continueremo ad essere sgovernati dagli annunci cui non seguono fatti, dalle cricche e dalle mafie. Capisco che l'attaccamento alle proprie ricette sia animato da buone intenzioni, ma nelle condizioni attuali le buone intenzioni lastricano percorsi pericolosi e talvolta nefasti, dai quali sarebbe meglio tenersi lontani.
 

(13 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/13/news/lo_spettro_del_bavaglio_e_della_deflazione-4799015/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. (anche Scalfari può inciampare nel "vecchio" pensiero).
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:12:43 am
Zitti, che i cinesi costano meno

di Eugenio Scalfari

Sacconi e Tremonti sono il tandem perfetto per abolire i diritti dei lavoratori italiani.

Attraverso il ricatto

(18 giugno 2010)


Sacconi. Il ministro del Lavoro Sacconi. Anzi il ministro del Welfare e del Lavoro Maurizio Sacconi. Ex socialista. Di sinistra. Lombardiano come Cicchitto. Poi craxiano. Cicchitto, craxiano mai, però iscritto alla P2. Sacconi no, alla P2 no o almeno non risulta. Però ateo. Ma da tre o quattro anni in cerca. Poi in dubbio. Poi quasi in vista. Infine dal 2008 convertito, uomo di fede. Come Bondi. Cicchitto invece no, la fede no. Brunetta, ex socialista anche lui, non si sa ma si tende a credere che non sia in cerca e quindi non trova. Tremonti, anche lui un passato socialista pare l'abbia avuto.
O forse socialdemocratico, tipo Tanassi. Lui sempre in cerca. Ieri oggi domani. La fede però sì: Dio, Patria, Famiglia. Lo Stato? Poco. La politica? Moltissimo. La politica deve comandare. Anche Sacconi su quel punto è d'accordo: la politica sì, lo Stato no. Del resto anche Carlo Marx: tanta politica, tanta rivoluzione, per abolire lo Stato. Uomini duri e puri. Marx però Patria e Famiglia poco anzi niente.

Sacconi e Tremonti, Tremonti e Sacconi, un tandem perfetto. Prego passi lei. Ma vuole scherzare? Prima lei. Lei traccia il solco, io mi limito a difenderlo. Troppo gentile, però non si strapazzi. Per carità, è un piacere e un dovere. Il capo comunque è Berlusconi. E ci mancherebbe! Su questo concordano anche Gasparri e Quagliariello. Basta.

L'ultima uscita di Sacconi avviene a Santa Margherita Ligure, convegno dei giovani industriali, padrona di casa Federica Guidi. I Guidi di Bologna. Parenti di San Guido? No, quello sta a Bolgheri in duplice filar. La Guidi di Bologna vuole cambiare la Costituzione nel punto che vieta di sottoporre al referendum abrogativo le leggi fiscali. Emma Marcegaglia dice no, è una dissennata sciocchezza, mica si possono abolire le tasse col referendum! Ma la Guidi insiste. Una provocazione. Come la pensa Sacconi?
Ecco che arriva Sacconi. Sale sul palco. Di ben tutta la possa egli soverchia, con quel che segue. Tremonti ancora non c'è ma è già stato avvistato tra Portofino e Rapallo. Viene per annunciare l'abolizione dell'articolo 41 della Costituzione. Standing ovation dei giovani.
Sulla provocazione della Guidi, Sacconi non si pronuncia, ha altro da fare. Infatti sta preparando l'abolizione dello Statuto dei lavoratori. Lo sostituirà con lo Statuto dei lavori. Un refuso? Macché, avete capito bene: dei lavori. Forse al singolare: del lavoro. Che testoni: al plurale, dei lavori, i lavori sono tanti. Anche i lavoratori. Sì, ma stanno diminuendo ed è un bene che sia così: diminuiscono i lavoratori, aumenta la produttività. Assiomatico. Moderno. Soprattutto moderno. Applausi in sala, standing ovation. Sapete che vi dico? Aboliamo anche il contratto nazionale. Addirittura? Marcegaglia: "Sì, ma....". Sacconi: "Senza se e senza ma". Marcegaglia: "Vede, serve alle Pim". Sacconi: "Lei mi è simpatica, ma almeno alleggeriamolo." Applausi convinti. "Servirà solo per la manutenzione", standing ovation.

L'evento è quello di Pomigliano. Marchionne riporta la Panda in Patria, cinquemila operai italiani, ma in cambio niente più orari, niente più riposi, lavoro flessibile, prendere o lasciare. Hanno accettato felici. Bonanni: "Non è un ricatto". E chi l'ha mai pensato? Marchionne però vuole il referendum e vuole che anche la Fiom sia d'accordo. Sacconi della Fiom se ne frega. E poi l'evento di Pomigliano è un caso particolare. Eccezionale. Comunque siamo per il contratto aziendale. Caso per caso. Produttività. Lavorare di più, guadagnare di meno. Ma non ci staranno. Invece ci staranno. Ci vorranno i carabinieri. Ma quali carabinieri? Basterà dire la verità: o così oppure delocalizziamo. Spostiamo la produzione in Cina, o in Corea, magari in Indonesia. Ma vorremmo favorirvi, voi delle tante Pomigliano d'Italia. Però mangiate questa minestra perché i cinesi costano molto meno di voi.
È la modernità, bellezza. Vengo anch'io? No, tu no.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/zitti-che-i-cinesi-costano-meno/2129212


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il tandem perfetto. (poi vorrebbe riprendersi ma...).
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:16:56 am
Il tandem perfetto

Eugenio Scalfari

Tremonti traccia il solco e Sacconi lo difende. Come? Abolizione dell'articolo 41 della Costituzione, dello Statuto dei lavoratori, del contratto nazionale, degli orari e dei riposi.

(18 giugno 2010)

Sacconi. Il ministro del Lavoro Sacconi. Anzi il ministro del Welfare e del Lavoro Maurizio Sacconi. Ex socialista. Di sinistra. Lombardiano come Cicchitto. Poi craxiano. Cicchitto, craxiano mai, però iscritto alla P2. Sacconi no, alla P2 no o almeno non risulta. Però ateo. Ma da tre o quattro anni in cerca. Poi in dubbio. Poi quasi in vista. Infine dal 2008 convertito, uomo di fede. Come Bondi. Cicchitto invece no, la fede no. Brunetta, ex socialista anche lui, non si sa ma si tende a credere che non sia in cerca e quindi non trova. Tremonti, anche lui un passato socialista pare l'abbia avuto. O forse socialdemocratico, tipo Tanassi. Lui sempre in cerca. Ieri oggi domani. La fede però sì: Dio, Patria, Famiglia. Lo Stato? Poco. La politica? Moltissimo. La politica deve comandare. Anche Sacconi su quel punto è d'accordo: la politica sì, lo Stato no. Del resto anche Carlo Marx: tanta politica, tanta rivoluzione, per abolire lo Stato. Uomini duri e puri. Marx però Patria e Famiglia poco anzi niente.

Sacconi e Tremonti, Tremonti e Sacconi, un tandem perfetto. Prego passi lei. Ma vuole scherzare? Prima lei. Lei traccia il solco, io mi limito a difenderlo. Troppo gentile, però non si strapazzi. Per carità, è un piacere e un dovere. Il capo comunque è Berlusconi. E ci mancherebbe! Su questo concordano anche Gasparri e Quagliariello. Basta.
L'ultima uscita di Sacconi avviene a Santa Margherita Ligure, convegno dei giovani industriali, padrona di casa Federica Guidi. I Guidi di Bologna. Parenti di San Guido? No, quello sta a Bolgheri in duplice filar. La Guidi di Bologna vuole cambiare la Costituzione nel punto che vieta di sottoporre al referendum abrogativo le leggi fiscali. Emma Marcegaglia dice no, è una dissennata sciocchezza, mica si possono abolire le tasse col referendum! Ma la Guidi insiste. Una provocazione. Come la pensa Sacconi?
Ecco che arriva Sacconi. Sale sul palco. Di ben tutta la possa egli soverchia, con quel che segue. Tremonti ancora non c'è ma è già stato avvistato tra Portofino e Rapallo. Viene per annunciare l'abolizione dell'articolo 41 della Costituzione. Standing ovation dei giovani.
Sulla provocazione della Guidi, Sacconi non si pronuncia, ha altro da fare. Infatti sta preparando l'abolizione dello Statuto dei lavoratori. Lo sostituirà con lo Statuto dei lavori. Un refuso? Macché, avete capito bene: dei lavori. Forse al singolare: del lavoro. Che testoni: al plurale, dei lavori, i lavori sono tanti. Anche i lavoratori. Sì, ma stanno diminuendo ed è un bene che sia così: diminuiscono i lavoratori, aumenta la produttività. Assiomatico. Moderno. Soprattutto moderno. Applausi in sala, standing ovation. Sapete che vi dico? Aboliamo anche il contratto nazionale. Addirittura? Marcegaglia: "Sì, ma....". Sacconi: "Senza se e senza ma". Marcegaglia: "Vede, serve alle Pim". Sacconi: "Lei mi è simpatica, ma almeno alleggeriamolo." Applausi convinti. "Servirà solo per la manutenzione", standing ovation.

L'evento è quello di Pomigliano. Marchionne riporta la Panda in Patria, cinquemila operai italiani, ma in cambio niente più orari, niente più riposi, lavoro flessibile, prendere o lasciare. Hanno accettato felici. Bonanni: "Non è un ricatto". E chi l'ha mai pensato? Marchionne però vuole il referendum e vuole che anche la Fiom sia d'accordo. Sacconi della Fiom se ne frega. E poi l'evento di Pomigliano è un caso particolare. Eccezionale. Comunque siamo per il contratto aziendale. Caso per caso. Produttività. Lavorare di più, guadagnare di meno. Ma non ci staranno. Invece ci staranno. Ci vorranno i carabinieri. Ma quali carabinieri? Basterà dire la verità: o così oppure delocalizziamo. Spostiamo la produzione in Cina, o in Corea, magari in Indonesia. Ma vorremmo favorirvi, voi delle tante Pomigliano d'Italia. Però mangiate questa minestra perché i cinesi costano molto meno di voi.

È la modernità, bellezza. Vengo anch'io? No, tu no.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-tandem-perfetto/2129252/18


Titolo: CIAMPI, le tre vite del presidente. - Di EUGENIO SCALFARI
Inserito da: Admin - Giugno 19, 2010, 09:30:57 am
IL LIBRO

Ciampi, le tre vite del presidente

Autoritratto di un servitore dello Stato

Al vertice della Banca d'Italia, ministro del Tesoro che ci traghettò nell'euro, l'approdo al Colle: nel libro-conversazione "Da Livorno al Quirinale" le tappe della sua storia. Tra rigore e sentimento

di EUGENIO SCALFARI

Ciampi, le tre vite del presidente Autoritratto di un servitore dello Stato

LEGGENDO il bel libro-conversazione di Carlo Azeglio Ciampi con Arrigo Levi, che sta arrivando oggi nelle librerie (il Mulino, Da Livorno al Quirinale, pagg. 183, euro 14) e avendo conosciuto per diretta ed intima frequentazione sia l'uno che l'altro dei due interlocutori, ho fatto questa riflessione: un personaggio come Ciampi è unico nella storia dell'Italia repubblicana.

Del resto questa constatazione emerge dal racconto della sua vita: voleva fare l'insegnante di latino e greco nei ginnasi-licei, ma per caso entrò da impiegato nella filiale di Macerata della Banca d'Italia e vi restò undici anni. Poi, per merito, fu chiamato a Roma, alla sede centrale della Banca, dove era destinato all'ufficio di Vigilanza, ma per caso fu invece inserito nell'ufficio studi. Non aveva alcuna preparazione economica, perciò si mise "a studiare come un matto" e, per merito, dopo qualche anno diventò capo del settore che si occupava di economia reale. Lì rimase qualche anno finché, per caso e per merito, fu nominato capo del servizio studi, un incarico di notevole rilievo nel nostro Istituto di emissione.

Passò altro tempo e, per merito, fu promosso segretario generale; dopo poco entrò a far parte del Direttorio della Banca come vicedirettore generale. Per caso e per merito arrivò al posto di maggior rilievo nell'amministrazione dell'Istituto: direttore generale. Infine, per caso e per merito, governatore dopo che Paolo Baffi dette le sue irrevocabili dimissioni in seguito all'assalto contro l'indipendenza della Banca guidato da Andreotti ed effettuato tramite un magistrato della Procura di Roma.

Seguirono 13 anni alla testa della Banca, 13 anni densi di fatti, di innovazioni, di scontri e incontri. Diciamo 13 anni drammatici e alla fine tragici, ma anche esaltanti e densi di vissuti privati e di vissuto collettivo. Tra di essi campeggia il fallimento del Banco Ambrosiano, e la sua rinascita su nuove basi, il suicidio-omicidio di Roberto Calvi, l'uccisione dell'avvocato Ambrosoli, lo scontro con lo Ior (la banca del Vaticano), il "divorzio" tra il Tesoro e la Banca d'Italia, la crisi valutaria dell'85 e quella ancora più grave del '92.

Infine un nuovo e mai immaginabile percorso: la politica. Dalla telefonata di Scalfaro del 26 aprile del '93, che lo chiama per incaricarlo di formare un nuovo governo, fino al settenato al Quirinale, concluso nel maggio 2006. Altri 13 anni (numero fortunato) costellati da eventi di portata nazionale, europea, mondiale: la battaglia vinta, contro l'inflazione a due cifre e contro il disavanzo, l'ingresso dell'Italia nell'euro che è stata la più grande delle riforme, la concertazione tra governo e parti sociali, il rilancio dell'Unità d'Italia contro le culture del localismo e del separatismo.

Questo è il sommario d'una vita che tocca ormai i 90 anni. Quale altra vita, intesa nel senso di vita pubblica sostenuta da un metodo, da un'etica e da un carattere, gli si può paragonare? Su nove presidenti della Repubblica, due (Einaudi e Ciampi) provennero dalla Banca di Italia, ma Einaudi prima ancora che banchiere centrale era un eminente studioso di scienza delle finanze, scrittore, presidente del Partito liberale. Insomma un uomo politico sia pure d'un genere molto particolare.

I governatori della Banca a loro volta sono stati fino ad oggi sette a cominciare anche qui da Einaudi, ma uno soltanto di loro cominciò da impiegato e alla fine arrivò alla carica di governatore; durò 43 anni la sua carriera nella Banca e 13 anni il suo servizio pubblico nel governo e al vertice dello Stato. In tutto sono stati 56 anni da piccolo funzionario a "grand commis" della Repubblica. Senza mai aver fatto parte di un partito, di una lobby, di una loggia, d'una "arciconfraternita di potere" come la chiamò Carli in una delle sue relazioni da governatore. Salvo che, quando aveva vent'anni, Ciampi fondò a Livorno una sede del Partito d'azione. Dopo sei mesi si dimise: le idee di giustizia e libertà restarono il caposaldo della sua vita, ma i partiti non facevano per lui.

Ho osservato che molte tappe di questo lungo percorso furono compiute per caso, altre per merito. Il merito e il caso, o meglio: la costanza, il talento e la fortuna. Questo è stato Carlo Azeglio Ciampi.

***

Ci sono alcuni punti salienti nella sua vita che meritano di essere rivisitati. Il primo è la religione, un sentimento privato ma anche un comportamento pubblico per chi è stato al servizio dello Stato per tanti anni.

Levi gli domanda notizie sulla sua educazione religiosa. Lui ricorda una nonna paterna devota e una nonna materna non credente e poi prosegue così: "Dalla quarta elementare alla fine del liceo studiai dai Gesuiti, quindi un'educazione religiosa l'ho certamente avuta, ma debbo dire che i Gesuiti non erano opprimenti. Subito dopo passai alla Normale e mi trovai in un ambiente estremamente laico, quasi ateo direi. Trovai la composizione di questa che, ripensandoci, non è una contraddizione, nella mia prassi di vita. Nell'ambiente religioso mi è stato insegnato l'amore per il prossimo. Nell'ambiente della Normale, in particolare da Guido Calogero, mi è stato insegnato il rispetto del prossimo, al quale riconosci i tuoi stessi diritti e per i quali devi combattere ancor prima che per i tuoi".

E aggiunge, per spiegare meglio la sua "prassi di vita": "Quando partecipavo a cerimonie ufficiali non ho mai voluto prendere la comunione. Mi sentivo di rappresentare tutti gli italiani, quindi ho sempre evitato di comunicarmi in pubblico. Mi ricordo che una volta mi trovavo a Loreto. L'officiante era il Vescovo. Al momento della comunione fece un cenno verso di me, io feci segno di no, non è che mi nascondessi ma l'imponeva il mio ruolo".

Ciampi fu molto amico di papa Wojtyla. Dalle pagine di questo libro apprendiamo che si vedevano spesso, quasi settimanalmente facevano insieme la prima colazione nell'appartamento privato del Papa e conversavano informalmente per quasi un'ora; c'erano lui, Franca e don Stanislao, l'assistente polacco del Papa. Questa abitudine durò fino a due mesi prima della morte di Wojtyla. Eppure questo non influì in nessun modo sulla concezione politico-costituzionale del presidente Ciampi, come non aveva del resto influito su Scalfaro prima e su Napolitano poi. Tre presidenti laici nonostante le loro private credenze o non credenze. Pertini li aveva preceduti in questo atteggiamento che è servito a distinguere la dignità dei vari "inquilini" che si sono susseguiti al Quirinale ed anche quelli che si sono susseguiti a Palazzo Chigi.

***

Un'altra questione di grande rilievo riguarda i principi, anzi i valori che sono parte integrante di una concezione politica. Ciampi, ad un'esplicita domanda del suo interlocutore, risponde così: "Se non c'è libertà, cioè la capacità di esprimere liberamente i propri pensieri ed ascoltare liberamente i pensieri altrui, non c'è vera vita politica. Non c'è la città, la "civitas". Ma la libertà deve accompagnarsi con la giustizia sociale. Non si può essere completamente liberi quando c'è una situazione sociale iniqua, perché per poter esercitare la libertà bisogna essere liberi dal bisogno. Pensavo queste cose quando mi iscrissi al Partito d'azione, ma le penso ancor oggi a tanti anni di distanza".

A questi principi si ispirò Ciampi quando da presidente del Consiglio nel 1993, all'indomani d'una gravissima crisi finanziaria che aveva messo a rischio la lira e lo stesso sistema economico nazionale, promosse la concertazione tra il governo e le parti sociali: un metodo che ha aiutato in misura determinante il governo a riportare entro limiti di normalità il valore della moneta nazionale, il disavanzo delle partite correnti e l'attività produttività e che ha funzionato egregiamente fino allo scorso 2008, quando il governo Berlusconi decise di abbandonarlo con il consenso della Confindustria e delle due confederazioni sindacali minoritarie: la Cisl e la Uil.

La concertazione proposta e attuata da Ciampi nel '93 è durata 15 anni, dando risultati molto positivi. Seguiva un'idea lanciata poco tempo prima da Tarantelli, che poi fu ucciso dalle Br. L'idea era quella di costruire la politica dei salari, degli investimenti e della liquidità bancaria attorno al tasso di inflazione programmata. "Quell'accordo - scrive Ciampi - è stato fondamentale per portare la stabilità nell'economia italiana, stabilità che va strettamente collegata con la crescita". Oggi se ne parla inutilmente e restano parole vuote, slogan e chiacchiericcio. Ciampi, coadiuvato da Gino Giugni suo ministro del Lavoro, lo realizzò in pochi giorni e poi tenne ferma la barra passando il testimone ai suoi successori.

***

Infine la neutralità attiva della Presidenza della Repubblica, custode della Costituzione, garante dei valori fondamentali che sono alla base del patto costituzionale, tutore dei diritti delle minoranze, del laicismo dello Stato, del pluralismo dell'informazione e dell'equilibrio dei poteri.

Ad elencarli, questi compiti sembrano tessuti soltanto di parole che possono essere facilmente manipolate.
In effetti è così: possono essere facilmente manipolate per far esprimere a quelle stesse parole significati e contenuti completamente opposti ai principi che le hanno ispirate. Opporsi a queste manipolazione distorsive della democrazia è appunto il compito dei grandi Presidenti della Repubblica e della Corte costituzionale che completa e corona, il sistema delle garanzie, dei diritti e dei doveri.

Ciampi è stato particolarmente sensibile a questi problemi ed ha puntigliosamente difeso la vitalità - vorrei direi la sacralità - di quei principi. Lo dimostrano alcuni episodi da lui citati: la riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all'inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della "partecipazione pacifica" del contingente italiano all'iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive.

Ci fu poi il messaggio al Parlamento sulla tutela del pluralismo e, in coerenza con quel messaggio, il rinvio della legge Gasparri alle Camere per manifesta incostituzionalità. Il racconto di questa vicenda, lo scontro al Quirinale col presidente del Consiglio che voleva impedire ad ogni costo il rinvio, è narrato con doveroso riserbo nel libro, ma il diario che Ciampi tenne per tutta la durata del suo impegno politico è ben altrimenti eloquente: noi abbiamo avuto modo di leggerlo e ne abbiamo riferito tempo fa su questo giornale, ma ora usciranno i quaderni del Presidente nella loro completezza e sarà un piccolo ma importante evento editoriale.

Infine un altro durissimo scontro avvenne il 4 novembre 2005 a proposito della nomina dei membri della Corte costituzionale di spettanza del Capo dello Stato, sulla quale Berlusconi avanzava pretese di compartecipazione che Ciampi stroncò con durezza.

Le ultime righe di questo bel libro riguardano i giovani. Le riferisco perché non c'è finale migliore. Aggiungo, che secondo me, queste pagine andrebbero lette nelle scuole a beneficio degli studenti, dei genitori e della scuola.
"Ho incontrato molti ragazzi, studenti, giovani impegnati nello studio e nel lavoro. Spesso non sono soddisfatti della loro precaria condizione ma ho osservato che non cadono nel disincanto o peggio nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si preparano a cambiarla. Questo è per me il punto, il ricambio generazionale, quando questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri: "Ora fatevi da parte". E' ciò che fece la mia generazione all'indomani della guerra. Tra molte difficoltà e incertezze dicemmo: "Ora tocca a noi". Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno".

(17 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/ciampi_le_tre_vite_del_presidente_autoritratto_di_un_servitore_dello_stato-4910575/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - A Pomigliano comincia l'epoca dopo Cristo
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2010, 12:04:46 pm
L'EDITORIALE

A Pomigliano comincia l'epoca dopo Cristo

di EUGENIO SCALFARI


TRA le tante dichiarazioni fatte da Marchionne in questi giorni ce n'è una che è d'una chiarezza disarmante ed anche sconcertante: "Io vivo nell'epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa".
Il dopo Cristo per l'amministratore delegato della Fiat comincia evidentemente con la globalizzazione della finanza, delle merci e del lavoro. È un'epoca che ha accentuato e radicalizzato la legge dei vasi comunicanti.

Le grandezze economiche, come ovviamente per i liquidi, tendono a raggiungere lo stesso livello. Si livellano i rendimenti del capitale, i rapporti tra benessere e povertà, la produttività del lavoro e, naturalmente i salari.

I salari dei Paesi emergenti sono ancora molto bassi; dovranno gradualmente aumentare ma lo faranno lentamente. I livelli dei salari nei paesi opulenti e di antica civiltà industriale sono molto alti, ma tenderanno a diminuire e questo fenomeno avverrà invece con notevole rapidità per consentire alle imprese manifatturiere di vendere le loro merci sui mercati mondiali a prezzi competitivi.

In questo schema già operante va collocata la vicenda di Pomigliano. Se la Fiat trasferisce la produzione di uno dei suo modelli da una fabbrica dove i salari e le condizioni del lavoro sono più favorevoli al capitale investito ad una fabbrica dove sono invece più sfavorevoli, il trasferimento potrà farsi soltanto se le condizioni tenderanno a livellarsi, oppure non si farà.

Questo è il dopo Cristo di Marchionne; non si tratta di ricatto ma di dati di fatto e con i dati di fatto è inutile polemizzare.
I sindacati che hanno firmato l'accordo proposto dalla Fiat ritengono che si tratti d'un evento eccezionale e non più ripetibile.
La stessa posizione l'hanno fatta propria molte delle parti interessate alla vicenda di Pomigliano, compresa una parte dell'opposizione parlamentare: passi per Pomigliano purché non si ripeta.

Errore. La legge dei vasi comunicanti ha carattere generale e quindi il livellamento salariale e delle condizioni di lavoro si ripeterà. Molte imprese in difficoltà, specialmente nel Nordest, nelle Marche, in Puglia e in tutto il Mezzogiorno, metteranno i loro dipendenti di fronte allo stesso dilemma che riguarda per ora i 5000 dipendenti Fiat di Pomigliano. Dichiareranno che in caso di risposta negativa saranno costrette a de-localizzare la produzione in siti più convenienti. Pomigliano cioè è l'apripista d'un movimento generale e non sarà né la Fiom né Bonanni che potrà fermarlo.

Chi pensa di fermare l'alta marea costruendo un muro che blocchi l'oceano non ha capito niente di quanto sta avvenendo nel mondo.
Nello stesso modo non ha capito niente chi ritiene di bloccare la massa di migranti che abbandona i luoghi della povertà e preme per fare ingresso nei luoghi dell'opulenza. Quel tipo di muri può reggere qualche mese o qualche anno ma poi si sbriciolerà e il livellamento procederà.
Allora non si può far niente? Bisogna rassegnarsi al livellamento verso il basso del benessere delle zone ricche del mondo?

* * *

Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I Paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l'obiettivo. Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell'epoca "prima di Cristo" debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell'epoca del "dopo Cristo". Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha.

Lo spostamento può avvenire in vari modi, manovrando soprattutto il fisco (ma non soltanto); sgravando il peso fiscale sui redditi di lavoro dipendente e sulle famiglie e finanziando la redistribuzione con maggior carico tributario sulle rendite, sui patrimoni e sui consumi opulenti.
Un piano di questo genere non può essere considerato un progetto dettato dall'emergenza poiché non di emergenza si tratta, bensì di un movimento, appunto, epocale. E per gestire un progetto del genere è necessario ripristinare quel metodo della concertazione tra le parti sociali e il governo che diede ottimi frutti tra il 1993 e il 2007, consentendo di abbattere l'inflazione, far scendere i rendimenti dei titoli pubblici e il disavanzo delle partite correnti.
Ci vuole insomma una politica a lungo raggio che rafforzi la coesione sociale, diminuisca le diseguaglianze, renda sopportabile il livellamento delle condizioni di lavoro compensando quei sacrifici con agevolazioni massicce anche in tema di servizi pubblici efficienti e gratuiti, finanziati da chi possiede mezzi in abbondanza.
Questa è a nostro avviso la linea da seguire, "buscando el levante por el ponente", cioè mettendo a carico della società opulenta una parte dei sacrifici che la guerra tra poveri scarica sui deboli di casa nostra.

* * *

C'è un filo diretto che lega queste riflessioni suscitate da quanto sta accadendo a Pomigliano con la politica deflazionistica imboccata dall'Eurozona sotto la guida della Germania. Questa politica, sulla quale ci siamo intrattenuti varie volte, arriverà domani all'esame del G8 e del G20 appositamente convocati. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha lanciato un messaggio ai capi di Stato dell'Eurozona affinché affianchino alla manovra di stabilizzazione dei rispettivi debiti una politica che sostenga i redditi e la crescita. Un secondo l'ha lanciato alla Cina affinché proceda ad una rivalutazione della propria moneta rispetto al dollaro per accrescere le importazioni e per tale via sostenga la domanda globale.

La Cina ha già risposto positivamente; l'Europa e la Germania finora sembrano voler persistere nella politica di deflazione.
Questa posizione è semplicemente insensata.
Dal canto suo il segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon, ha posto ieri ai paesi dell'Eurozona le seguenti domande: "Il mondo intero è destinato a sprofondare a causa dei problemi dell'Eurozona in una recessione che rischia di essere recidiva? Può la ripresa dei mercati emergenti bilanciare i cali che si verificano altrove? Stiamo finalmente emergendo come i sopravvissuti a un uragano, per valutare l'entità del danno e i bisogni dei nostri vicini? Oppure ci troviamo piuttosto nell'occhio del ciclone?" (La Stampa del 19 scorso).
Non si può esser più chiari di così. E anche qui il tema si risolve attraverso un grande programma di redistribuzione delle risorse tra paesi e tra classi all'interno dei paesi. Non c'è altro mezzo per equilibrare libertà ed eguaglianza, la necessaria crudeltà della libera concorrenza e la coesione sociale che si proponga il bene comune.

* * *

Su questi argomenti di capitale importanza il governo italiano tace, la sua afasia è totale. Tiene invece banco la modifica costituzionale dell'articolo 41 della nostra Costituzione.

Quell'articolo, che fu voluto da Luigi Einaudi e da Taviani, proclama la piena libertà di impresa purché non crei danni sociali.
Questa dizione non piace a Berlusconi e a Tremonti. Di qui la proposta di modificarla sostituendola con la libertà totale, anche nel settore delle costruzioni e dell'urbanistica, in modo che si aggiungerà scempio a scempio nel paese dell'abusivismo di massa.
Snellire le procedure burocratiche è un obiettivo sacrosanto, più volte preannunciato e finora mai attuato. Si può e si deve fare con provvedimenti di ordinaria amministrazione. Mettere in Costituzione l'abolizione di ogni regola rinviando i controlli ad una fase successiva è semplicemente una bestemmia costituzionale che svela l'intento di stravolgere l'architettura democratica del patto sociale.

Eguale chiacchiericcio del tutto inutile lo ritroviamo nella proposta italiana all'Unione europea di valutare i debiti pubblici aggiungendo ad essi la consistenza dei debiti privati. La Commissione di Bruxelles ha accolto la proposta: non costa nulla e il nostro governo l'ha sbandierata come un grande successo. Nessuno ha fatto osservare che il debito pubblico è la sola grandezza che determina il fabbisogno, gli oneri da pagare e il disavanzo che ne risulta.
Siamo ancora tutti nell'occhio del ciclone e il nostro governo inganna il tempo con annunci inutili che servono soltanto a gettar fumo negli occhi degli sprovveduti.

(20 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/20/news/scalfari_pomigliano-4991542/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il boomerang finale dell'Aldo longobardo
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 11:20:55 am
IL COMMENTO

Il boomerang finale dell'Aldo longobardo


di EUGENIO SCALFARI

Nella società tribale dei longobardi, tra il servo e l'uomo libero esisteva una categoria intermedia: quella degli "aldi". L'"aldo" era in qualche modo simile al liberto romano, ma con una notevole differenza: il liberto era uno schiavo liberato; in quanto tale aveva l'obbligo non solo morale ma addirittura giuridico di restar fedele alla "gens" cui apparteneva il suo liberatore. L'"aldo" invece non era stato beneficiario d'una vera e propria liberazione: semplicemente non era più soggetto alle limitazioni dei servi, si poteva muovere liberamente sul territorio e poteva anche svolgere affari e negozi in proprio nome, ma doveva fedeltà e obbedienza assoluta al suo padrone, assisterlo, rappresentarlo e battersi per lui e soltanto per lui. La volontà del suo padrone era la sola sua legge.

Queste cose pensavo quando Aldo Brancher è asceso nei giorni scorsi agli onori della cronaca. Chi meglio di lui raffigura l'"aldo" longobardo? Chi più di lui ha rappresentato il suo padrone ed ha stipulato negozi per lui? Negozi di alta politica (snodo di collegamento tra Berlusconi e la Lega) e negozi di sordidi affari (pagamenti in nero destinati a fini di corruzione di partiti, uomini politici, dirigenti amministrativi, imprenditori)?
Dalle accuse relative ad un periodo lontano, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica e tanto più abbisognava di alleanze e coperture politico-affaristiche, Aldo Brancher si era liberato con la prescrizione raccorciata, disposta da una
delle tante leggi "ad personam" volute dal Berlusconi ormai capo d'un partito e del governo, nonché con l'abolizione del reato di falso in bilancio, che gli era stato contestato dai magistrati della pubblica accusa.

Del reato di appropriazione indebita per il quale è perseguito in relazione alla scalata della banca "Antonveneta" avrebbe dovuto liberarlo la nomina a ministro varata nei giorni scorsi: nelle intenzioni di Berlusconi avrebbe dovuto consentirgli di valersi del legittimo impedimento disposto pochi mesi fa da un'altra legge "personale" destinata a sottrarre il premier ed i suoi ministri dai rigori processuali in attesa del lodo Alfano già in discussione in Parlamento.

Invece il caso Brancher è diventato un boomerang nei confronti di Berlusconi, del suo governo, delle sue alleanze, della compattezza della sua maggioranza; ha creato un profondo dissapore con Bossi e soprattutto con i leghisti, con Fini e soprattutto con i finiani, con un'opinione pubblica sempre più disamorata e critica. Ma principalmente un dissapore con il Quirinale.

Non era ancora mai accaduto che Napolitano entrasse a piedi uniti in un dibattito costituzionale con risvolti così direttamente politici. Non era mai accaduto che la natura profondamente padronale del potere berlusconiano fosse denunciata politicamente dalla più alta autorità dello Stato con parole che non consentono interpretazioni di sorta.

Ora il "boomerang" ha compiuto la sua traiettoria ed ha colpito non tanto Brancher quanto il suo padrone di cui da 25 anni è l'"aldo". La situazione di crisi che si è aperta è forse la più grave fin qui vissuta dal berlusconismo. Per le ragioni che l'hanno provocata. Per il momento in cui avviene. Per le sue possibili conseguenze sulle crepe sempre più vistose di quello che è stato finora un blocco sociale e politico e che rischia adesso di andare in pezzi molto prima del previsto.

* * *

Travolto dalle accuse (non solo dell'opposizione, ma anche dei suoi alleati), alla fine il neo ministro ha dovuto gettare la spugna, rinunciando allo scudo che il Cavaliere gli aveva regalato. Era il minimo che ci si potesse aspettare dopo il richiamo del Quirinale, imprudentemente attaccato da solerti portabandiera del Pdl. Il presidente della Repubblica non poteva esimersi dall'esternazione pubblica del suo pensiero avvenuta venerdì scorso. Aveva firmato da pochi giorni la nomina di Brancher a ministro senza portafoglio ricevendone il giuramento; aveva chiesto e ricevuto dal presidente del Consiglio le motivazioni che rendevano necessaria (a suo dire) quella nomina per ragioni funzionali. Non era entrato nel merito di esse. Non gli spettava, riposavano sulla valutazione politica del premier che Napolitano ritiene gli sia preclusa, dando semmai al proprio ruolo una configurazione restrittiva.

Ovviamente aveva volutamente escluso che la nomina in questione fosse dovuta a ragioni diverse dalla "funzionalità del governo" invocata dal presidente del Consiglio. Ma a mettere in dubbio quella motivazione erano intervenuti nel frattempo tre fatti: l'infastidita sorpresa di Bossi per quella nomina, manifestata al Quirinale direttamente dal ministro delle Riforme; il cambiamento della delega a Brancher, da ministro addetto all'attuazione del federalismo ad altra mansione tuttora non precisata e quindi non ancora pubblicata in "Gazzetta ufficiale"; infine (e più grave di tutti) la decisione di Brancher di sottrarsi immediatamente all'udienza del processo che lo vede indagato per appropriazione indebita e la richiesta di spostare la prossima data processuale ad ottobre, sulla base del legittimo impedimento.

Di fronte a tre fatti di questa portata era tecnicamente impossibile che il Quirinale restasse silenzioso e non definisse con esattezza la posizione di un ministro senza portafoglio di fronte alle scadenze processuali che lo riguardano. È ciò che ha fatto Napolitano con un'asciuttezza di linguaggio che fa parte dei suoi poteri - doveri di custode della Costituzione.

* * *

Il caso Brancher nella sua esemplarità ci porta ad alzare lo sguardo sul panorama generale che configura il nostro paese. È un quadro niente affatto consolante perché al declino, in sé auspicabile e salutare, d'un blocco di interessi e di potere che controlla e manipola la nostra società ormai da oltre vent'anni, si aggiunge la fine di un'epoca che è sempre solcata  -  quando avviene  -  da lampi e tuoni e raffiche e terremoti e marosi che sconvolgono culture e istituzioni, comportamenti e consuetudini, senza ancora essere in grado di proporne di nuovi, guidati da nuovi ideali e fresche speranze.

Ho scritto domenica scorsa del "dopo - Cristo" di Pomigliano e della legge dei vasi comunicanti che opera in un'economia globale percorsa da paurosi dislivelli tra opulenza e povertà. Ed ho osservato che quei dislivelli esistono non soltanto tra paesi ricchi e paesi poveri ma anche all'interno dei paesi ricchi, da un confronto sempre meno accettabile tra sacche di povertà e di mediocre e precaria sostenibilità e fasce di antica opulenza e privilegiati benefici.

Sempre più urgentemente si pone dunque il problema di governare la crisi anche attraverso una redistribuzione del reddito che sia spiegata al pubblico non certo come frutto d'invidia sociale ma come appello all'equità dei sacrifici e alla loro ineluttabilità in una prospettiva più dinamica e più coesa.
Questo è il futuro della sinistra italiana, dei cattolici democratici e del liberalismo laico: libertà e giustizia, coesione sociale, efficienza da offrire e da reclamare.

Io non credo che questa legislatura terminerà il suo corso come previsto nel 2013. Credo che Berlusconi senta il crescente scricchiolio del sistema di potere da lui costruito. Lo senta e ne sia angosciato, ma anche intestardito nel difenderlo con tutti i mezzi.

Sente anche che il solo modo di protrarne l'agonia sia il ricorso alle urne prima che lo scricchiolio divenga schianto. La data probabile è a cavallo tra 2011 e 2012 e comunque al più presto possibile, quando l'informazione sarà stata totalmente blindata e solidamente nelle sue mani, la magistratura umiliata e asservita, le istituzioni di garanzia depauperate.

Il prossimo autunno e l'inverno che seguirà saranno perciò teatro di questi scontri. Come ha scritto Ezio Mauro nel suo intervento di mercoledì scorso, è inutile scommettere sul meno peggio. Non ci sarà un meno peggio perché è il principale interlocutore a non volerlo.
Il meno peggio passa necessariamente dalla sua personale uscita dal campo ma questa ipotesi non rientra nella sua natura.

Chi lo conosce lo sa: il "meno male che Silvio c'è" è l'essenza d'un carattere che ha evocato gli istinti profondi d'una società desiderosa di lasciare in altre mani il governo di se stessa, fino a quando non sentirà di nuovo l'orgoglio di riappropriarsi del proprio futuro.

Nei prossimi mesi sarà dunque questo il terreno di scontro e di confronto e dovrà esser questo il linguaggio che bisognerà parlare per essere ascoltati, compresi e incoraggiati. Non bastasse il resto, anche le vicende del calcio nazionale ne hanno fornito un'eloquente conferma.

Dai naufragi speriamo che sorga una nuova e creatrice allegria.

(27 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/27/news/scalfari_27_giugno-5186278/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel buco nero del quale non si parla
Inserito da: Admin - Luglio 04, 2010, 06:20:54 pm
IL COMMENTO

Quel buco nero del quale non si parla

di EUGENIO SCALFARI

NONOSTANTE il "ghe pensi mi" detto da Berlusconi nella sua doppia dichiarazione al Tg1 e al Tg5 dell'altro ieri, è sensazione generale che il blocco politico di centrodestra si stia sfaldando. I segnali più chiari vengono addirittura dalla Lega: Bossi solidarizza con il severo monito di Napolitano concernente la legge sulle intercettazioni e ha posto solidi paletti contro l'ipotesi d'uno scioglimento anticipato delle Camere.
Fini dal canto suo ha confermato che quella legge, per come è uscita dopo il voto di fiducia al Senato, non è accettabile.
Casini nell'intervista data oggi al nostro giornale respinge i pressanti inviti che gli vengono rivolti per rientrare nello schieramento di centrodestra.

Infine cresce il livello dello scontro sulla manovra economica tra le Regioni e il ministro dell'Economia.
Giulio Tremonti ha deciso di aumentare l'Irap per tutte le Regioni meridionali che hanno un bilancio della sanità in sfacelo, ma usare proprio l'Irap per ripianare quel buco nero avrebbe un effetto dirompente sul costo del lavoro proprio in quei territori in cui la disoccupazione e in particolare quella giovanile è già arrivata a livelli insostenibili. E qui i durissimi interventi critici della Marcegaglia e di tutta la Confindustria.

Tutto ciò avviene a pochi giorni di distanza dalla sentenza di condanna a sette anni di reclusione di Marcello Dell'Utri per associazione mafiosa. La gravità politica di quella sentenza è stata rapidamente archiviata, eppure essa ha rivelato un retroterra impossibile da sottacere. Perciò sarà proprio questo l'oggetto delle mie odierne riflessioni.

* * *

Io non credo che quella parte della sentenza della Corte d'appello di Palermo che ha messo Dell'Utri fuori causa per quanto riguarda le stragi del 1992-93 sarà ribaltata da altri tribunali e da altre investigazioni.
So bene che sono al lavoro da diversi ma convergenti punti di vista il tribunale di Caltanissetta, quello di Firenze e la stessa Procura di Palermo; è al lavoro la Commissione antimafia presieduta dal senatore Pisanu; indagano reparti specializzati di Carabinieri e Guardia di finanza ed anche giornalisti capaci e dotati di memoria storica e di collaudate relazioni informative.

Ma non credo che questo lavoro sboccherà in una accertata verità giudiziaria. Bisognerebbe poter disporre di documenti e di testimonianze coperti da segreto, sprofondati in qualche fossa e in qualche buco nero talmente profondi da precludere un risultato giudiziariamente inoppugnabile.

Può darsi naturalmente che questa mia previsione si riveli sbagliata. Come cittadino non so se augurarmelo o temerlo.

Ma mi sono convinto dopo attenta riflessione che la sentenza della Corte d'appello di Palermo che ha condannato Dell'Utri sia comunque arrivata all'accertamento d'una terribile verità, trasformando ciò che era una ipotesi in una certezza giudiziaria che accomuna, attraverso la mediazione di Dell'Utri ma non soltanto, la Cupola di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi per un periodo di vent'anni, un arco di tempo che abbraccia l'intera carriera imprenditoriale del "signore" di Arcore, la nascita del suo successo nel settore immobiliare, poi in quello televisivo, poi in quello commerciale, da Milano 2 fino a Fininvest, senza soluzione di continuità.

Vale ovviamente per Dell'Utri e quindi per l'intera fattispecie giudiziaria la presunzione di innocenza ancora in piedi in attesa del giudizio della Cassazione. Il quale tuttavia riguarderà soltanto questioni di legittimità e non di merito. Non si può escludere l'ipotesi che la Suprema Corte  -  come è nei suoi poteri  -  ravvisi errori di legittimità che affidino ad un'altra Corte d'appello il compito di un nuovo giudizio.

Tutto ciò è ancora possibile. Ma allo stato dei fatti una prima certezza sul merito è stata acquisita e confermata in due gradi di giurisdizione con dovizia di testimonianze e riscontri.

Quanto a Berlusconi, che nel processo di Palermo ha rifiutato di rispondere nonostante fosse citato come semplice testimone, non è mai riuscito a fornire una credibile spiegazione alternativa ai finanziamenti con i quali intraprese la sua scalata imprenditoriale. La presenza di capitale riciclato di origine mafiosa, il ruolo della Banca Rasini, dotata di un unico sportello a Milano ma di solidi agganci con società-fantasma situate a Lugano e in altri paradisi fiscali, la nebulosa mai chiarita delle ventisei società fiduciarie che si spartirono le quote di Fininvest, infine la presenza di personaggi mafiosi nel più intimo "entourage" berlusconiano, sono fatti sui quali la sentenza di Palermo ha fornito una concretezza di tale solidità e coerenza che dovrebbero provocare un dibattito politico e storico di amplissime dimensioni.

Al centro di questo dibattito c'è il ruolo di Marcello Dell'Utri. Ruolo finanziario, organizzativo, politico, a fianco di Silvio Berlusconi dai primi anni Settanta fino ad oggi. Giuseppe D'Avanzo nel suo articolo di martedì scorso di commento alla sentenza di Palermo ha ricordato quali sono stati i due angeli custodi di Berlusconi lungo tutto quel periodo: Cesare Previti e appunto Marcello Dell'Utri.

Il primo condannato con sentenza definitiva per corruzione di magistrato, il secondo colpito ora in appello per associazione mafiosa. Entrambi gli angeli custodi e le condanne che li riguardano coprono un periodo che precede l'ingresso in politica di Berlusconi: fatti antichi che hanno tuttavia costituito la premessa necessaria anche se non sufficiente del successo politico berlusconiano.

Questo è il tema del dibattito che tuttavia stenta ad avviarsi. Perché? Qual è l'elemento frenante che spinge su un binario morto un tema essenziale per comprendere quanto è accaduto in Italia nel corso di un ventennio che ha gettato le basi della situazione politica tuttora in corso?

* * *

Questa domanda ci porta direttamente al cuore dell'azione di governo di questi due anni: l'occupazione completa della Rai, la legge bavaglio sulla stampa, la messa sotto accusa della magistratura e la riforma che approderà nei prossimi giorni in Parlamento, gli insulti quotidiani contro la Corte Costituzionale degradata ad organo fazioso e politicizzato, l'intento di abolire l'obbligatorietà dell'azione penale trasformando di fatto i magistrati della pubblica accusa in funzionari del governo.

Questa politica ha un senso e una lucida coerenza se la si mette in rapporto con i vent'anni che precedono l'ingresso dell'imprenditore Berlusconi nell'agone politico.

Il controllo della Rai e la legge bavaglio servono a impedire che il pubblico sia informato di quanto realmente è accaduto e accade. Per sviare l'attenzione del pubblico si usa un diversivo: quello di contrapporre all'articolo 21 della Costituzione che tutela la libertà di stampa l'articolo 15 che tutela la privatezza delle persone: due principi che potrebbero facilmente integrarsi e che vengono invece contrapposti affinché il secondo prevalga sul primo o almeno lo elida.

Basterebbe infatti, come più volte abbiamo proposto, affidare ad un collegio di magistrati l'esame preliminare delle intercettazioni eliminando quelle che riguardano soggetti estranei ai reati perseguiti e occasionalmente ascoltati. Basterebbe questa semplice e doverosa cautela per risolvere la questione, lasciando tutto il resto inalterato. Ma non è questo che vuole il potere berlusconiano ed è stupefacente vedere l'avallo che gli viene dato su questo delicatissimo tema da intellettuali che si professano liberali mentre offrono le loro firme per un'operazione palesemente liberticida.

L'altro punto cruciale riguarda il progetto di abolire l'obbligatorietà dell'azione penale. Ricordate il film Z-L'orgia del potere che raccontò il regime dei colonnelli greci? Uno dei protagonisti di quel film era un giudice istruttore decisamente apolitico ed anzi di idee conservatrici, il quale scoprì le malefatte della "cricca" dei colonnelli e non ebbe tregua fino a quando non accertò la verità.

Ne parlò anche Paolo Barile per sostenere la necessità dell'azione penale obbligatoria, unica vera salvaguardia dell'indipendenza del pubblico ministero: "Senza l'obbligatorietà, il pubblico ministero cessa di essere un magistrato indipendente e diventa un semplice funzionario al servizio del governo o, nel migliore dei casi, del Parlamento".

La dipendenza dal Parlamento era ipotizzata da Barile come un'ipotesi accettabile, se i deputati fossero stati eletti dal popolo. Ma non lo sono. La legge elettorale "porcellum" affida al governo in via esclusiva la scelta dei candidati, inseriti in liste bloccate. Ogni tentativo da parte delle opposizioni di modificare quella legge è fin qui caduto nel nulla.

Questo significa che il potere esecutivo ha smantellato completamente l'autonomia del potere legislativo e le sue funzioni di controllo. Il Parlamento è ormai ridotto ad una camera di registrazione dei voleri del principe. Come se non bastasse una maggioranza clonata, si aggiunge la decretazione d'urgenza ormai diventata normalità e il potere di ordinanza che sfugge perfino al vaglio del presidente della Repubblica.

* * *

La conclusione è questa: quando un imprenditore che ha subìto fin dall'inizio della sua carriera un condizionamento e una soggezione mafiosa durata almeno vent'anni, conquista il potere, il suo obiettivo non può essere altroché quello di blindarlo, affievolendo tutti i contropoteri di garanzia e di libera informazione, asservendo il Parlamento attraverso una legge elettorale vergognosa, smontando l'indipendenza della magistratura, intimidendo la Corte Costituzionale, infine degradando la pubblica accusa retrocedendola dal ruolo giurisdizionale a quello di un'avvocatura che opera su commissione.

Questo è il quadro. La sentenza di condanna di Marcello Dell'Utri ne illustra le premesse e ne spiega la logica evoluzione. Per fortuna c'è ancora qualche giudice, c'è ancora un'opposizione, c'è ancora qualche giornale ad impedire che la democrazia si spenga sotto una cappa di piombo. E c'è un presidente della Repubblica che fa fino in fondo quello che deve fare.

Gli elementi per combattere una buona battaglia ci sono dunque tutti.

(04 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/04/news/quel_buco_nero_del_quale_non_si_parla-5372057/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gli italiani: un popolo o una folla?
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2010, 05:10:46 pm
Gli italiani: un popolo o una folla?

di Eugenio Scalfari

Siamo una nazione che da sempre tende all'emotività, agli istinti, all'irrazionalità, alla piazza.

Quindi facilmente manipolabile da un capo carismatico che punta al consenso plebiscitario

(06 luglio 2010)

Una adunata oceanica in piazza Venezia ai tempi del Duce Una 'adunata oceanica' in piazza Venezia
ai tempi del DuceSi fa un gran discutere sul tema dell'identità. La ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia ha rinfocolato l'argomento, ma esso teneva banco già da un pezzo. Chi erano allora e chi sono oggi gli italiani? È vero - come dicevano D'Annunzio e Mussolini - che sono una razza di navigatori, di guerrieri, di artisti, di santi? O invece - come pensano molti stranieri - di mandolinisti, di mangiatori di maccheroni, di furbi, di mafiosi e di vigliacchi? E più in generale, si può cercare e scoprire l'identità di un popolo, d'una nazione, d'una collettività? Oppure l'identità è un concetto valido per gli individui ma del tutto inappropriato per una moltitudine di soggetti? Esiste un Io collettivo oltreché un Io individuale?
Sono domande alle quali è arduo rispondere. Ci ha provato tra gli altri Sigmund Freud; al fondatore della psicoanalisi bisogna riconoscere una competenza specifica in materia di identità, cominciò infatti curandone i disturbi e poi si pose anche lui il problema dell'identità delle masse e ne descrisse alcuni tratti.
C'è tuttavia un punto fermo che distingue in modo radicale l'Io individuale dall'Io di una massa: la struttura psico-fisica d'un individuo poggia principalmente sul suo Dna, mentre una massa non ha alcun Dna che ne presidi l'identità.

Naturalmente ci sono anche altri fattori che entrano in gioco: l'educazione, la memoria, la società, il costume, le consuetudini, il linguaggio, la cultura, la religione. Perfino il colore della pelle. Perfino il clima.
Questi fattori agiscono sia sugli individui sia sulle masse, ma il Dna opera soltanto sui primi e non sulle seconde e non è piccola differenza. Significa che l'identità d'un individuo ha una stabilità molto maggiore di un'identità collettiva, la quale può cambiare assai più rapidamente e spesso addirittura capovolgersi nel suo contrario nello spazio di pochi mesi. L'emotività esercita sulle masse e quindi su una società massificata un ruolo molto rilevante con la conseguenza che gli individui massificati cedono molto più facilmente agli stimoli emotivi che a quelli razionali.
Siamo ancora in un'analisi di prima approssimazione. Se vogliamo inoltrarci in questo percorso dobbiamo cominciare a distinguere le varie tipologie che può assumere una massa di persone.
Direi che l'identità più stabile la si trova nelle comunità, cioè in un gruppo di persone che fanno vita comune e sono legate da una comune cultura, da una comune religione, da una comune convinzione del bene collettivo. Le comunità cristiane, ebraiche, islamiche, buddiste, taoiste, possiedono un'identità molto stabilizzata. Ma anche gli anarchici, i comunisti e in generale quelli che si identificano con un'ideologia che sfiori l'utopia, sono tenuti insieme da vincoli profondi la cui eventuale rottura determina traumi gravi in chi decide di spezzare quei vincoli. Metterei tra queste comunità anche la famiglia, che è dotata di un'identità molto precisa; si tratta però d'una micro-identità inserita in comunità più vasta sicché i traumi e le rotture a livello familiare sono molto più frequenti.

All'estremo opposto di questa classifica massificativa c'è la folla. Si tratta d'una massa occasionale che si forma per cause esterne: un evento, una presenza casuale in un luogo, una convocazione, una celebrazione, il discorso di un Capo.
La psicologia della folla è stata attentamente esaminata e il risultato è concorde: la folla è dominata dall'emotività degli istinti, esprime pulsioni inconsce, è facilmente manipolabile da chi possiede la capacità e gli strumenti per farlo.
L'emotività della folla può esprimere forme di consenso plebiscitario oppure, all'opposto, forme distruttive e criminogene come il linciaggio d'un presunto colpevole e varie forme di giustizia sommaria.
Spesso i regimi autoritari poggiano sulle folle, sistematicamente preparate e manipolate. Gli stessi individui che solitamente esprimono giudizi di buonsenso, una volta assembrati in una folla smarriscono spesso quel buonsenso e vengono con facilità assimilati dal senso comune. La piazza rappresenta l'immagine dei regimi autoritari. La chiamano democrazia ma ne costituisce invece il polo opposto.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gli-italiani:-un-popolo-o-una-folla/2130128/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La cena di Vespa per sedurre Casini
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2010, 06:14:12 pm
L'EDITORIALE

La cena di Vespa per sedurre Casini

di EUGENIO SCALFARI

LE DOMENICHE di afa e di solleone incitano al raccoglimento e a pensieri non degradati dall'attualità. Emerge per esempio - ed è inconsueta la fonte dalla quale provengono questi segnali - un sentimento d'infelicità, una noia di vivere tra immagini false e verità mascherate, il senso d'un declino inarrestabile, la necessità di ricominciare da zero abbandonando ogni retaggio lungo una strada erta di sassi e opaca per la polvere che la sommerge.
 
Le fonti che emettono questi segnali sono inconsuete perché fino a poco tempo fa essi erano del tutto diversi: si esaltavano conquiste di buon governo, prevalenza di spiriti liberali, dominanza d'un privato efficiente e sano e un lodevole ritrarsi d'un pubblico ancora inquinato da ideologie e impoverito da sprechi e ruberie.
 
Sembrava - e così veniva fatto credere - che fossimo finalmente entrati in una fase costruttiva della quale perfino una rinata fede religiosa contribuiva a rafforzare i lineamenti e gli obiettivi fornendo un plus di valori ad una buona laicità capace di coniugare la fede con la ragione.
 
Come mai, nel volger di pochi mesi e addirittura di poche settimane questo quadro positivo ha lasciato il posto allo sconforto? Perché le tinte rosee che lo illuminavano hanno di colpo assunto colori foschi dominati da nubi plumbee cariche di pioggia e di fulmini? Viene in mente che la causa possa essere di materia economica, la crisi che ha investito l'intero pianeta e in particolare le economie occidentali dei paesi opulenti.

Ma non è così, non è questa l'origine dei segnali di sconforto: la crisi infatti è cominciata da oltre due anni e secondo gli esperti ha superato la fase più acuta; anche se molte preoccupazioni persistono, esse non spiegano quel sentimento di frustrazione che si va diffondendo e che molti "laudatores" delle nuove libertà registrano con sconsolato scoramento.
 
Personalmente non mi stupisco di questo capovolgimento di atmosfera, di questa caduta di speranze e opacità di futuro. Ho scritto un libro in cui si racconta la storia di un'epoca che ha alle sue spalle quattro secoli ed ora dà segnali di estenuazione. Può darsi che non sia il solo ad aver colto il gran finale della modernità, che ha rappresentato il culmine della civiltà occidentale ed ora si decompone di fronte ad una sorta d'invasione barbarica che azzera i retaggi e inventa nuovi linguaggi e nuovi modelli.
 
La modernità ha dato ciò che poteva ma non si è ancora spenta: sta difendendo i suoi valori che i nuovi barbari imbrattano e insultano. Può darsi - me lo auguro - che alcuni intellettuali organici a quel nuovo e barbaro potere si siano resi conto della deriva in corso e siano diventati disorganici, secondo una felice definizione di Umberto Eco. Sarebbe un evento fausto. Spero che non sia un vago miraggio destinato rapidamente a dissipare.

* * *

L'attualità di queste ore ci riporta alle consuete banalità di un potere che si disarticola giorno dopo giorno: all'indomani d'uno sciopero di tutto il sistema dell'informazione che ha risposto massicciamente all'appello dei suoi sindacati e della propria coscienza professionale, il presidente del Consiglio non ha trovato di meglio che accusare i giornali di sinistra di menzogna e disfattismo perché racconterebbero un'immagine del paese che sarebbe secondo lui l'opposto di una realtà positiva, stabilizzata economicamente e socialmente equa.
 
Nelle stesse ore i sondaggi d'opinione hanno registrato - confrontando i dati della prima settimana di maggio con la prima di luglio - un calo di fiducia nel "premier" dal 50 al 41 per cento e un aumento della sfiducia dal 48 al 57.
 
I sondaggi sono una fotografia del presente e nulla ci dicono su come evolverà, ma non accadeva da anni uno smottamento così cospicuo del consenso berlusconiano. La caduta più vistosa si è verificata nel Nordest, nel Mezzogiorno continentale e nelle isole (specialmente in Sardegna). Il caso Brancher è stato l'elemento determinante insieme alla manovra economica e alla legge-bavaglio sull'informazione.
 
Lo scrittore Salman Rushdie, in un articolo di lunedì scorso sul nostro giornale, a proposito delle contraddizioni che costellano il nostro presente cita il romanzo "Gold!" di Joseph Heller e il personaggio dell'Assistente presidenziale che pronuncia frasi la cui fine contraddice sistematicamente l'inizio. Eccone una: "Il nostro Presidente non vuole dei leccapiedi. Ciò che vogliamo sono uomini indipendenti e integri che, una volta che avremo preso le nostre decisioni, concorderanno con ognuna di esse". Purtroppo siamo abituati a questa tecnica dell'imbonimento sotto la quale non c'è assolutamente nulla.

* * *

La manovra economica è stata un altro macroscopico esempio della disarticolazione del blocco di consenso berlusconiano. Fino all'ultimo il presidente del Consiglio ha cercato di disinnescare le mine che scuotevano il dissenso nelle sue file. Ha ottenuto poco o niente: briciole di piccoli miglioramenti lobbistici che hanno appagato piccole categorie (rinvio delle multe sul latte, compensazione tra debiti e crediti verso il fisco in favore di alcuni settori industriali) senza alcun piano coerente.
 
La coerenza è così rimasta quella di Tremonti che ha ormai portato in salvo la sua manovra da 25 miliardi invocando l'Europa come madre di queste restrizioni che tutti i paesi membri hanno adottato e che Berlusconi alla fine ha dovuto sottoscrivere.
 
Il problema non è se la manovra tremontiana dovesse farsi oppure no.
Abbiamo più volte scritto e qui lo ripetiamo che la manovra che ha come obiettivo la stabilizzazione del debito pubblico era necessaria. I criteri possono essere controversi ma l'aggiustamento sui Ministeri e sulle Regioni era indispensabile.
 
Il problema riguarda la seconda parte della manovra, quella che non è mai stata scritta perché Tremonti, sostenuto dalla Commissione di Bruxelles e soprattutto da Bce e dal suo presidente Trichet, si è rifiutato di prenderla in considerazione: cioè gli stimoli alla crescita e il sostegno della domanda, dei redditi medio bassi e degli investimenti che ne conseguono.
 
Paul Krugman, premio Nobel per l'Economia, ha ricordato in una recente intervista al Sole 24 Ore che nel 1933 l'allora presidente degli Stati Uniti, Herbert Hoover, lanciava messaggi in tutto simili a quelli che oggi lanciano la Commissione di Bruxelles, la Banca centrale europea e il governo della Germania federale: rigore rigore rigore, è questa la sola ricetta che scoraggia la speculazione e farà aumentare la domanda quando gli effetti di stabilizzazione saranno consolidati.
 
Quando Franklin D. Roosevelt arrivò alla Casa Bianca pochi mesi dopo l'economia americana era alla canna del gas. Avesse tardato ancora a mettere in opera la reflazione, il sistema sarebbe crollato ancor più di quanto stava avvenendo, con una crisi che ancora non era stata domata nel 1937, cioè otto anni dopo il suo primo insorgere.

Tremonti si ripara dietro le spalle dell'Europa, Berlusconi non ha alcun piano alternativo da contrapporgli poiché ha le mani legate dal suo "mantra" di non toccare le tasse. Mantra già smentito dai fatti poiché per tacitare almeno i Comuni e le Province Tremonti ha concesso la "tassa di servizio", nuova imposta di cui gli enti locali si serviranno per sopravvivere e che gli procurerà 5 miliardi l'anno. Ecco il primo buco nelle tasche degli italiani, cui altri inevitabilmente seguiranno, purtroppo senza sortire effetto desiderabile di rilanciare la crescita. Ci vorrebbe infatti un programma coerente, non uno stillicidio lobbistico. L'opposizione ha promesso che lo sta studiando. Si sbrighi e poi lo ponga come base di una politica forte e innovativa. Il tempo non aspetta.

* * *

Nel frattempo c'è anche chi trova il tempo per festeggiare in pompa magna il cinquantenario giornalistico di Bruno Vespa. Cena giovedì scorso nell'abitazione del conduttore - padrone di "Porta a Porta" ospiti con le rispettive consorti: Gianni Letta, Mario Draghi, Cesare Geronzi e Pier Ferdinando Casini; Silvio Berlusconi con la figlia Marina e il cardinale segretario di Stato, Bertone, ovviamente celibe.
 
Sembra si sia parlato di tutto, manovra economica compresa. Forse anche dei Mondiali di calcio e della non brillante performance degli "azzurri". Forse di intercettazioni. Sicuramente dell'invito a "Pier" di tornare a casa, cioè nell'alleanza di centrodestra. Berlusconi gli avrebbe proposto di rifondare la Dc, gli avrebbe offerto il ministero dello Sviluppo, forse quello degli Esteri, sicuramente la vicepresidenza del Csm. Casini avrebbe ringraziato ma declinato, a meno che non si passi attraverso una formale crisi di governo. Letta ha concluso che tutto è rinviato ma qualche cosa è cominciato.
 
Mentre scrivo mi arriva sul tavolo un'Ansa con un comunicato ufficiale del ministro dell'Interno, Bobo Maroni. Con riferimento appunto alla cena di Vespa, Maroni accusa la classe politica d'esser tornata ai salotti del 1992, aggiunge che qualunque ritorno al governo dell'Udc provocherebbe l'immediata uscita dal medesimo della Lega e comunica che in caso di crisi ministeriale la Lega chiederebbe l'immediato ritorno del popolo sovrano alle urne. Una specie di convitato di pietra che si è fatto vivo con ventiquattr'ore di ritardo per stabilire chi è il padrone del vapore in questo momento.
 
Non si hanno altre notizie su quella cena, soprattutto sul ruolo di Draghi, Geronzi e Bertone nella conversazione. Si strologa. Che altro si può fare? Geronzi si è complimentato con Draghi per il suo lavoro allo Stability Financial Forum. Draghi con Bertone per l'efficienza del volontariato cattolico. Bertone con Marina per le opere di assistenza da lei finanziate.

Casini ha chiesto notizie a Marina sulla causa in corso con De Benedetti per il risarcimento del danno subito dalla Cir per il lodo Mondadori. Berlusconi ha pestato un piede alla figlia e le ha fatto gli occhiacci affinché lasciasse cadere la domanda. Marina non ha capito e ha fatto cadere in terra il tovagliolo. Bertone s'è inchinato per raccoglierlo ma ha dato una testata al bordo del tavolo.
 
Letta ha pregato la padrona di casa di portare ghiaccio e bende di lino per la fronte del porporato. Vespa ha versato champagne nei calici, il premier ha gridato Viva Vespa, ricordando il Viva Verdi che infiammava le riunioni dei cospiratori giacobini del Risorgimento. Vespa ha obiettato che i presenti non erano né cospiratori né tanto meno giacobini.
 
Alla fine sono tutti usciti da un portoncino laterale su piazza Mignanelli.
Notte afosa. Nuvole di zanzare intorno alla fontana della Barcaccia. La macchina nera targata Vaticano ha sgommato verso il Babuino. Un ragazzotto in maglietta ha detto ad un altro che era con lui: "Aò, là drento c'era 'n cardinale. Chissà 'n do va a quest'ora". "Ma che te frega a te" ha risposto l'altro. "Annerà a pregà per i peccati der prossimo e pe li sua".
 [I fatti qui riferiti sono di pura fantasia. Ogni riferimento è puramente casuale].
 

(11 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/11/news/la_cena_di_vespa_per_sedurre_casini-5508353/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La vera storia del caso Marchionne (altro inciampo!)
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2010, 12:27:15 pm
FIAT

La vera storia del caso Marchionne

di EUGENIO SCALFARI


ROMA - Fa piacere a tutti quelli che fanno il mio mestiere poter dire ogni tanto: "l'avevo scritto prima di tutti" anche se molte volte ci sbagliamo nelle previsioni e nei giudizi. E allora: quando Marchionne annunciò che la Fiat aveva conquistato il controllo della Chrysler, gran parte della stampa magnificò quell'operazione come un'offensiva in grande stile della società torinese per proporsi come uno dei quattro o cinque gruppi automobilistici mondiali che sarebbero sopravvissuti nell'economia globale. Io scrissi invece che l'operazione di Marchionne era puramente difensiva. La Fiat stava affondando; aggrappata alla Chrysler sarebbe sopravvissuta, sia pure con connotati industriali e territoriali completamente diversi.

Ma perché proprio la Chrysler e non invece la Peugeot e magari la General Motors che sembrava anch'essa sull'orlo del disastro? La Peugeot non si poneva il problema di sopravvivenza planetaria e non stava affatto affondando; quanto alla GM, aveva un programma di rilancio che infatti è andato a buon fine con l'aiuto dei fondi messi a sua disposizione dal governo Usa. Chrysler era completamente decotta e il governo americano non l'avrebbe rifinanziata, l'avrebbe lasciata fallire. L'arrivo della Fiat e del piano industriale di Marchionne la salvò, Obama decise il rifinanziamento e in questo modo tenne a galla Chrysler e indirettamente la stessa Fiat. Il capolavoro di Marchionne è stato questo. Ma poi arrivarono allo stesso pettine altri nodi.

Massimo Giannini, trattando ieri questo stesso tema, ha scritto che la questione di Pomigliano è stata una "provocazione" di Marchionne per saggiare la risposta dei sindacati. L'errore dei sindacati (Cisl e Uil) - ha scritto - è stato di pensare che la provocazione riguardasse soltanto Pomigliano; invece no, riguardava l'assetto di tutto il gruppo Fiat a cominciare dal Lingotto. In effetti è così. È vero che nell'accordo firmato con Cisl e Uil la Fiat ha preso l'impegno che le nuove regole non saranno applicabili in nessuno degli altri suoi stabilimenti in Italia; Marchionne infatti non ne applicherà ma semplicemente trasferirà in Serbia l'attuale lavoro previsto per Mirafiori.

Ma perché in Serbia? La differenza di costo salariale tra la Serbia e Torino è molto forte ma la componente salariale non pesa più dell'8 per cento sul prodotto finale. La ragione del trasferimento dunque non è questa; la ragione sta nel fatto che lo stabilimento Fiat in Serbia sarà pagato per tre quarti dall'Unione europea e per il resto da incentivi fiscali del governo di Belgrado. Quello stabilimento non costa nulla alla Fiat; per di più la sua gestione è vantaggiosa e genera utili. Perché Marchionne dovrebbe rinunciarvi?

Quanto al governo italiano, non ha assolutamente nulla da dare alla Fiat. L'azionista della società torinese non ha soldi per nuovi investimenti automobilistici; tanto meno ne ha il governo Berlusconi-Tremonti. Quindi liberi tutti, checché ne pensino Chiamparino e la Regione Piemonte a guida leghista. Bossi vuole il federalismo, della Fiat non gliene frega niente. Il tavolo aperto dal ministro Sacconi per mercoledì prossimo si limiterà ad auspicare qualche dettaglio; sotto l'auspicio niente.
 
Tutto questo era prevedibile ed infatti era stato previsto. Come era stata prevista la mossa fondamentale di scorporare l'automobile dalla Fiat e quindi dal gruppo Agnelli. In gergo borsistico quest'operazione è stata chiamata "spin off", un termine che richiama in qualche modo lo "spinnaker", la vela di prua che viene alzata quando il vento soffia da poppa. Se quel vento è forte la barca vola sulle onde. Infatti la Borsa ha accolto con molto favore lo scorporo. Il significato strategico è chiaro a tutti: gli azionisti del gruppo e "in primis" la famiglia Agnelli, vogliono disfarsi dell'automobile. Lo "spin off" serve appunto a questo: predisporre la vendita dell'automobile ex Fiat a chi vorrà comprarlo. Nel frattempo preparare la fusione con la Chrysler. La Fiat resta a Torino, ma senza più l'auto. Questa è la prospettiva del futuro prossimo.

Fin qui abbiamo considerato la questione Fiat misurandola su tre dimensioni successive: Pomigliano, Lingotto, scorporo dell'auto. Ma c'è una quarta dimensione ancora più importante e ancora più globale. Ne scrissi due mesi fa e non l'ho chiamata "provocazione" ma "apripista".
Il caso Pomigliano cioè, e ciò che ne sta seguendo, funziona da caso "apripista" per un'infinità di operazioni analoghe che possono coinvolgere l'intero apparato industriale italiano, soprattutto quello delle imprese medio-piccole e piccole, quelle che occupano tra i 300 e i 20 dipendenti e che rappresentano il vero ed unico tessuto industriale italiano soprattutto nel nord della Lombardia, nel Triveneto, nell'Emilia-Romagna, nelle Marche, in Puglia, in Campania, nel Lazio.

Queste imprese esportano nell'euro e fuori dall'euro. Avevano registrato una grave crisi nel 2007-2008, poi si sono riprese, aiutate dalla svalutazione dell'euro, dal lavoro nero e precario e dal lassismo fiscale. Non sappiamo quanto reggeranno all'"austerity" di Tremonti e alla ripresa dell'euro nei confronti del dollaro. Il rischio è che adottino anch'esse la delocalizzazione di cui Pomigliano ha funzionato come apripista. Nelle imprese medio-piccole e piccole il sindacato è molto più debole che nelle grandi e grandissime. Quindi il problema non è di disciplinare il sindacato, ma di disciplinare direttamente i dipendenti. La minaccia della delocalizzazione servirà a questo e sarà estremamente difficile resistervi. Andiamo dunque verso un rapido azzeramento delle conquiste sindacali e dell'economia sociale di mercato degli anni Sessanta fino all'inizio di questo secolo?

Io temo di sì. Temo che la direzione di marcia sia proprio quella ed ho cercato di definirla parlando della legge chimico-fisica dei vasi comunicanti. In ogni sistema globalmente comunicante il liquido tende a disporsi in tutti i punti del sistema allo stesso livello, obbedendo all'azione della pressione atmosferica. In un'economia globale questo meccanismo funziona per tutte le grandezze economiche e sociali: il tasso di interesse, il tasso di efficienza degli investimenti, il prezzo delle merci, le condizioni di lavoro.

Tutte queste grandezze tendono allo stesso livello, il che significa che i paesi opulenti dovranno perdere una parte della loro opulenza mentre i paesi emergenti tenderanno a migliorare il proprio standard di benessere. La prima tendenza sarà più rapida della seconda.
Al termine del processo il livello di benessere risulterà il medesimo in tutte le parti, fatte salve le imperfezioni concrete rispetto al modello teorico. La Fiat ha fatto da apripista. Marchionne disse all'inizio di questa vicenda che lui ragionava e operava nell'epoca "dopo Cristo" e non in quella "ante Cristo". Purtroppo il "dopo Cristo" è appena cominciato.

C'è un modo per compensare la perdita di benessere che il "dopo Cristo" comporta per i ceti deboli che abitano paesi opulenti? Certo che sì, un modo c'è ed è il seguente: far funzionare il sistema dei vasi comunicanti non solo tra paese e paese, ma anche all'interno dei singoli paesi. L'Italia è certamente un paese ricco. Anzi fa parte dei paesi opulenti del mondo, che sono in prevalenza in America del nord e nella vecchia Europa. Ma l'Italia è anche un paese dove esistono sacche di povertà evidenti (e non soltanto nel Sud) e dislivelli intollerabili nella scala dei redditi e dei patrimoni individuali.

Tra l'Italia dei ceti benestanti e quella dei ceti poveri e miserabili il sistema dei vasi comunicanti è bloccato, non funziona.
Il benessere prodotto non viene redistribuito, rifluisce su se stesso e alimenta il circuito perverso e regressivo dell'arricchimento dei più ricchi e dell'impoverimento dei poveri. Una politica che volesse perseguire il bene comune dovrebbe dunque smantellare il circuito perverso e far funzionare il circuito virtuoso. Attraverso una riforma fiscale che sbloccasse il meccanismo e redistribuisse il benessere.
E poiché la mente e lo stomaco dei ceti poveri e medi reclamano un meccanismo meno iniquo dell'attuale, la riforma del fisco può e deve essere anticipata da misure specifiche di pronta attuazione, stabilite dalla concertazione tra governo e parti sociali che funzionò egregiamente tra il 1993 e il 2006, finché fu abolita con un tratto di penna all'inizio di questa legislatura.

Le opposizioni dovrebbero a mio avviso concentrarsi su questo programma. Bersani ne ha parlato recentemente, ma le opposizioni dovrebbero convergere su un programma concreto con questo orientamento per uscire da una situazione caratterizzata da vergognosi privilegi e diseguaglianze. Si parla molto di riforme. Questa delle ingiustizie sociali da combattere è la madre delle riforme. Perciò mi domando: che cosa aspettate? Che la casa vi crolli addosso?
 

(25 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/07/25/news/la_vera_storia_del_caso_marchionne-5811628/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il boom dei divorzi
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:05:02 pm
Il boom dei divorzi

di Eugenio Scalfari

Ora ci troviamo invece in presenza di una famiglia allargata in senso orizzontale, aperta cioè a quelli che furono coniugi in precedenti matrimoni

(30 luglio 2010)

La notizia (fonte Istat) è che negli ultimi dieci anni i divorzi sono aumentati del 101 per cento, cioè più che raddoppiati. Ma la seconda notizia, non meno interessante della prima, è che il periodo di buona convivenza tra coniugi dura mediamente quindici anni, poi cominciano i primi litigi, le prime amarezze, specie in assenza di figli ma non necessariamente. La terza notizia infine consiste nell'età dei divorziandi; i picchi sono due: 25-30 anni e 60-65. C'è di che commentare.
L'aumento dei divorzi si spiega semplicemente: il tabù del matrimonio indissolubile impiega un suo tempo tecnico per smantellarsi; aumenta anche la secolarizzazione nella società ed anche questo è un elemento importante per spiegare la crescita delle separazioni. È dunque molto probabile che la curva dei divorzi continuerà col tempo ad aumentare.

La seconda notizia, quella sulla durata media della buona convivenza, va messa in rapporto con l'età dei coniugi nel momento del matrimonio. È fortemente aumentato il numero di chi si sposa a quarant'anni, magari dopo un periodo più o meno lungo di convivenza in prova reciproca. Questo tipo di coppia coniugale sa - specie per quanto riguarda la donna - che trovare un nuovo partner non sarà facilissimo; perciò il tasso di sopportazione dei reciproci difetti tende ad aumentare. Un tempo si diceva che la prima crisi avviene dopo sette anni; per le coppie che si sposano in età adulta il punto di crisi risulterebbe perciò raddoppiato.
Resta invece piuttosto breve il buon rapporto matrimoniale per chi si sposa intorno ai 20-25 anni di età. Tanto più gli sposi sono giovani, tanto più sono impazienti. È cresciuto il numero di chi si sposa a vent'anni o poco più ma è frequente che si tratti di decisioni avventate e che nell'inconscio dei due giovani coniugi ci sia già allo stato latente la via d'uscita divorzista.

Il dato più difficile da capire riguarda però il picco dei divorzi tra sessantenni. Perché decidono di separarsi in un momento della vita che coincide con l'ingresso nella fascia dei pensionati e comunque degli anziani? Affrontando l'evidente difficoltà di trovare un nuovo partner? E quindi di dover organizzare una vita da singoli che, specie per l'uomo, è assai più complessa?
Ragionare su dati macroscopici diventa a questo punto molto difficile; occorre dunque spacchettare le diverse situazioni per capirci qualche cosa di più.
Intanto influisce il tema dell'età dei figli, se figli ci sono. Coniugi sessantenni hanno probabilmente figli di almeno trent'anni, ai quali è molto più facile comunicare la separazione dei genitori senza causare i traumi che colpiscono invece i figli bambini.
Poi c'è l'egoismo - tutto maschile - di vagheggiare una moglie o comunque una compagna più giovane della moglie sessantenne. Al tempo stesso però può giocare un'altra considerazione: i sessantenni di oggi - sia uomini sia donne - sono incomparabilmente più giovani, anzi più giovanili dei sessantenni di ieri. È una constatazione che tutti facciamo ogni giorno e che induce chi decide di divorziare a quell'età a considerare in modo meno drammatico la ricerca di un nuovo partner.

Queste considerazioni, diverse tra loro ed anche in parte contraddittorie, ci fanno capire meglio il picco dei divorzi tra sessantenni che un tempo sarebbe stato considerato un errore statistico. Del resto la durata della vita si è notevolmente allungata ed anche questa è un'altra ragione dei divorzi ritardati.
Crisi dell'istituzione familiare? Se consideriamo la famiglia tradizionale, quella che poggiava sul fondamento dell'indissolubilità, allora sì, quel modello è senz'altro in crisi. Così pure è in crisi la famiglia verticalmente allargata con la convivenza nella medesima abitazione dei nonni e degli zii, altra figura essenziale della quale si è ormai perduta la traccia.
Ora ci troviamo invece in presenza di una famiglia allargata in senso orizzontale, aperta cioè a quelli che furono coniugi in precedenti matrimoni e che frequentano abitualmente il nuovo nucleo familiare mettendo insieme i figli di letti diversi, fratelli e sorelle che hanno in comune soltanto il padre o la madre.


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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-boom-dei-divorzi/2131642/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dove porta il paese l'avventura del cavaliere
Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 11:09:36 am
IL COMMENTO

Dove porta il paese l'avventura del cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


SI VOLEVA la prova di quale fosse la democrazia concepita da Silvio Berlusconi e dai suoi accoliti della «cricca»? Ebbene, basta aver seguito i suoi comportamenti nei confronti del presidente della Camera, reo ai suoi occhi di dissentire su alcuni temi importanti e soprattutto sulla concezione, appunto, della democrazia e delle istituzioni che dovrebbero esserne il presidio. Per Berlusconi il presidente della Camera, eletto a suo tempo dalla maggioranza parlamentare di centrodestra, è semplicemente un funzionario alle sue dipendenze che se perde la fiducia del padrone deve andarsene senza fiatare.

Questo modo di concepire lo Stato, che Berlusconi ha esteso a tutte le istituzioni nelle quali lo Stato si articola, dal presidente della Repubblica alla Corte costituzionale, alla magistratura, rappresenta una gravissima deformazione della nostra democrazia repubblicana e un continuo attacco alla Costituzione.
L'incompatibilità del premier con lo Stato di diritto era del resto nota da tempo e da tempo denunciata. La rottura con l'ala finiana del Pdl ne ha dato una conferma talmente plateale che non è più possibile ignorarla senza diventarne complici. Quell'incompatibilità costituisce una pregiudiziale che va al di là delle distinzioni tra destra, sinistra e centro. Fino a quando non sarà eliminata il rischio d'un regime autoritario incombente resta di altissimo livello e richiede decisioni dettate ormai dall'emergenza.
 

Non si tratta di non mettersi l'elmetto, come per tanto tempo e tuttora esortano quelli che si bendano gli occhi per non vedere e si turano le orecchie per non sentire. Si può combattere anche a testa nuda purché si sia consapevoli che il peggio è già avvenuto e non può essere arginato cedendo ulteriormente terreno. Questo hanno scritto nei giorni scorsi Ezio Mauro, Massimo Giannini, Stefano Rodotà e questo voglio anch'io ripetere perché sia chiaro il discrimine tra chi si accuccia sperando non so in quale «stellone» che ci porti in salvamento e chi invece sostiene che il peggio è già accaduto e non ci resta che combatterlo a schiena dritta con i mezzi che la democrazia repubblicana può utilizzare per recuperare la sua essenza e il popolo la sua sovranità confiscata.

Credo che Berlusconi abbia fatto un grave errore scatenando l'attacco contro il co-fondatore del Pdl. Governo e maggioranza si sono cacciati in una sorta di vicolo cieco; l'opinione pubblica che finora gli ha assicurato un largo appoggio assiste sbigottita allo sfaldamento del Pdl. I sondaggi segnalano questo stato d'animo e non sono certo incoraggianti per il Cavaliere. L'errore di Berlusconi ha comunque una causa che l'ha determinato o almeno fortemente incoraggiato. Sono stati infatti Bossi e lo stato maggiore leghista ad incitare il Cavaliere a licenziare Fini ed hanno contemporaneamente interposto una barriera contro ogni ipotesi di aggregare Casini al centrodestra.

Bossi sapeva di rischiare una posta molto alta se Fini e Casini avessero acquistato maggior peso all'interno del centrodestra. Si sarebbe acuita la pressione in favore delle Regioni e dei Comuni meridionali, il federalismo fiscale e la valutazione dei «costi standard» sarebbero diventate questioni di alta criticità; così pure tutta la politica di accoglienza dell'immigrazione. Perciò Bossi ha puntato la sua partita sulla rottura con Fini e sull'irrilevanza di Casini, accompagnando gli incitamenti con la minaccia di cercare per conto proprio altri appoggi alla sua politica. Resta ora da vedere se l'errore sia stato commesso anche da Bossi. La Lega non vuole che si parli di elezioni anticipate fino a quando i decreti attuativi del federalismo fiscale non saranno stati emanati.

Con la sua consueta eleganza Bossi ha risposto alzando il dito medio alle domande dei giornalisti su eventuali elezioni anticipate. Ma il protrarsi della situazione attuale espone l'intero schieramento di centrodestra, Lega compresa, ad un processo di continuo logoramento. Quanto potrà reggere il governo ad una cottura a fuoco lento qual è quella cui Fini e Casini possono sottoporlo graduando con sapienza l'intensità di quel bollore? Un supplizio tanto più tormentoso in quanto non prevede la morte del suppliziato ma lo sfaldamento graduale del consenso fino a limiti minimi. Potranno Berlusconi e la Lega reggere ad un processo di questo genere? Personalmente credo sia impossibile. A quel punto cercheranno la via d'uscita tornando alle urne. La risposta l'avremo non oltre la fine dell'anno.

La richiesta di scioglimento anticipato delle Camere comporta in via preliminare che il presidente della Repubblica verifichi se esiste una maggioranza favorevole al proseguimento della Legislatura. Se questa maggioranza c'è, dovrà indicare il presidente del Consiglio. Ma il capo dello Stato può anche dar vita ad un governo istituzionale che abbia la fiducia del Parlamento, se ritiene che la fine anticipata della Legislatura esponga il Paese a gravi rischi.
Nel nostro caso i gravi rischi obiettivamente esistono e sono di natura economica e soprattutto finanziaria. Scadrà a partire dall'autunno una massa di titoli pubblici dell'ordine di cento e più miliardi di euro che imporranno al Tesoro una gestione tecnica particolarmente oculata e richiederanno al tempo stesso una guida politica che abbia una sua visione degli interessi generali e della coesione sociale.

Passare attraverso una campagna elettorale estremamente accesa e dall'esito incertissimo che dovrebbe svolgersi proprio nell'arco di tempo in cui il Tesoro si troverà al centro di mercati ribollenti e fortemente speculativi significa alzare le vele in mezzo ad un tifone che potrebbe diventare uno «tsunami» catastrofico. Il presidente Napolitano credo sia perfettamente consapevole della pericolosità che la strategia d'attacco di Berlusconi ha messo in moto. Sarà perciò suo diritto-dovere esplorare tutte le soluzioni che evitino un'imprudenza di massimo rischio.

Tutte le forze politiche e sociali che abbiano consapevolezza degli interessi del Paese dovranno fornire pieno appoggio al capo dello Stato creando le condizioni che assicurino successo alle sue iniziative. La condizione numero uno è di evitare le elezioni finché durerà l'emergenza del debito pubblico. Da questo punto di vista gli inviti ripetutamente lanciati da Di Pietro e anche da Vendola alle elezioni anticipate sono – è il meno che si possa dire – irresponsabili e sconsiderati, anteponendo meschini interessi di bottega a quelli reali del Paese. Darebbero di fatto una mano all'irresponsabilità berlusconiana e aprirebbero la strada alle peggiori avventure. È perciò auspicabile che si rendano conto di quale sia la risposta necessaria per evitare un caos politico e uno «tsunami» finanziario.

Bersani propone da tempo un governo di larghe intese. Casini ha detto più volte che in caso di emergenza è disposto a partecipare ad una soluzione di questo tipo. L'emergenza c'è, è in atto e raggiungerà il suo culmine se Berlusconi chiederà lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma è del pari evidente che le larghe intese dovrebbero essere estese anche a quei settori del centrodestra che hanno fin qui subito con disagio e frustrazione il dominio della «cricca» all'interno del Pdl. Ce ne sono più di quanto non si creda. Il nuovo movimento di «Futuro e libertà» creatosi intorno a Fini potrebbe calamitare alcuni di quei settori risvegliandoli dall'ipnosi e portandoli ad una piena consapevolezza dei propri doveri civici. Personalità come Pisanu potrebbero svolgere un compito importante di raccordo con altri settori cattolico-democratici. E la Lega?

Bossi ha la responsabilità d'aver rafforzato in Berlusconi la strategia dell'attacco contro Fini. Ma ora vede il rischio che l'errore commesso può creargli per la nascita d'un federalismo che non sia nordista e secessionista ma crei una novità utile per snellire lo Stato burocratico e sprecone di cui la Lega denuncia l'esistenza ma del quale in quindici anni di partecipazione al potere non ha saputo creare né la giusta configurazione né le giuste alleanze per costruirlo.

Anche Bossi ha privilegiato finora la sua ditta rispetto a un'idea nazionale del federalismo. Ma non è questa la strada giusta. La Lega è molto forte nel Nord ma sul piano nazionale rappresenta il 12 per cento del corpo elettorale. Il tanto irriso Partito democratico è più del doppio della Lega e se avesse la grinta e la compattezza necessaria, specie in tempi d'emergenza, potrebbe recuperare nel suo bacino elettorale una parte almeno degli elettori che si sono rifugiati nell'area dell'astensione non per odio contro la politica ma per delusione ripetutamente subita. Il bacino potenziale del Pd è valutabile intorno al 40 per cento, ma basterebbe che ritornasse al risultato raggiunto da Veltroni nelle ultime elezioni politiche, pari al 34 per cento, per dare corpo al centrosinistra e a tutta l'opposizione.

In conclusione, nei prossimi mesi (se non addirittura nei prossimi giorni) si possono verificare tre diversi scenari.

1. Il governo cerca di governare affrontando un lento ma costante logoramento, senza avere né la bussola né più la forza di attuare una politica capace di preparare le condizioni d'un rilancio economico e sociale, e continuando invece a privilegiare gli interessi del padrone e dei suoi accoliti.

2. Per uscire dall'«impasse» Berlusconi tenta l'avventura delle elezioni anticipate. Se riesce nel suo intento il rischio è uno «tsunami» del debito pubblico con i titoli italiani al centro della speculazione mondiale.

3. L'avventurosa iniziativa elettorale viene bloccata e si dà luogo ad un governo d'emergenza con caratteristiche accentuatamente istituzionali che ricordino il governo Ciampi nominato dal presidente Scalfaro nel 1992.

Le persone di buon senso e di sollecitudine nazionale ed europea sanno benissimo in quale direzione muoversi purché trovino il coraggio di metter da parte le proprie botteghe e si assumano il carico di responsabilità che la situazione richiede.
 

(01 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/01/news/avventura_cavaliere-scalfari-5994553/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il bastone della Lega deciderà la partita
Inserito da: Admin - Agosto 08, 2010, 10:15:51 am
IL COMMENTO

Il bastone della Lega deciderà la partita

di EUGENIO SCALFARI

CHI PENSAVA con timore oppure con gioia che l'espulsione di Fini e dei finiani fosse l'inizio della fine del berlusconismo e ne aveva avuto conferma dal voto della Camera di mercoledì scorso che aveva trasformato la maggioranza in minoranza, dovrà invece ricredersi?
Dopo l'ira per la sconfitta subita il Capo dei capi dalle cento vite sembra infatti aver riacquistato lucidità e starebbe mettendo a punto una duplice strategia, un programma di governo su quattro punti concreti sui quali chiedere la fiducia di Fini e perfino di Casini, oppure elezioni a marzo per cogliere l'opposizione impreparata e spazzarla via, Fini e Casini compresi.

I quattro punti rappresentano un ponte per raccogliere intorno a sé tutti i moderati, una sorta di Berlusconi-bis con annesso rimpasto ministeriale e si articolano su altrettante riforme: Fisco, Federalismo, Giustizia, Mezzogiorno. Gli scrivani incaricati di metterle in carta sono Tremonti, Calderoli, Alfano, Fitto. Poi il vaglio dei finiani ed eventualmente di Casini. Infine il voto. Un patto di legislatura. E perfino (perfino) un'apertura verso i riformisti del Pd, quelli veri, identificati con gli ex popolari (Rosy Bindi esclusa) ma anche con D'Alema, Enrico Letta e forse Bersani.

Che ne dite? Non è un fior di strategia? Non volevate, voi arrabbiati e decisi a far fuori l'Orco ad ogni costo e ad ogni prezzo, un governo d'unità nazionale da chiunque presieduto, perfino da Tremonti se necessario? Eccolo il governo d'unità nazionale. Solo che a presiederlo ci sarà Berlusconi in prima persona e governerà fino al 2013. Provare per credere.

Il senatore Pisanu  -  l'ha detto venerdì a "Repubblica"  -  è convinto che questa sia la sola via percorribile. Casini del resto fu il primo a proporlo mentre si accingeva a concordare con Fini l'astensione dei 75 sulla sfiducia a Caliendo. Quanto al presidente della Camera, un patto di legislatura all'interno del Pdl del quale tuttora dichiara di far parte l'aveva proposto martedì mentre preparava la formazione dei gruppi parlamentari separati.

Chi dirà la verità e qual è la verità? Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento-principe per la conquista del potere. Neanche ai tempi d'oro di Andreotti. E meno che mai all'epoca del trasformismo di Depretis e poi, un secolo fa, a quello di Giolitti.

Giolitti aveva un obiettivo: portare dentro le istituzioni liberali le masse cattoliche e le masse socialiste. Lo fece in due tappe e allargò il suffragio elettorale per render possibile quella trasfusione di sangue dentro l'esangue oligarchia della vecchia destra. Fu intelligenza politica, non trasformismo e non fu colpa sua se cattolici e socialisti sprecarono malamente l'occasione.

Berlusconi si inscrive in una fenomenologia del tutto diversa. Non è un fenomeno nuovo nella nostra storia nazionale. Interpreta quel fiume carsico, come più volte l'abbiamo definito, che rappresenta una delle costanti della nostra vicenda politica, prima ancora della nascita dello Stato unitario, riapparso poi in modi diversi ma con analogo spirito illiberale con Crispi, Di Rudinì, Pelloux, Mussolini, Tambroni, Craxi. Alcuni si affidarono alle sciabole, altri al populismo, altri ai dossier e ai ricatti e ci fu chi utilizzò tutti questi strumenti spolverandoci sopra una bella manciata di corruzione. Infine ci fu perfino chi non esitò neppure a negoziare il silenzio-assenso o addirittura l'amichevole benestare delle organizzazioni mafiose e camorristiche.

Berlusconi appartiene a questa tipologia. È il figlio imbarbarito dell'antipolitica, del qualunquismo, dell'anarchismo, che sono le tre condizioni preliminari che conducono alla delega di tutto il potere all'uomo della provvidenza. E questo è quanto è accaduto negli ultimi quindici anni e in particolare negli ultimi otto.
Sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico non è un crimine e non è neppure un errore; piuttosto è il tentativo - in chi formula questi progetti - di procurarsi un lasciapassare per entrare a far parte di quel sistema di potere cercando di mantenere un'apparenza di dignità. Questi sono i veri trasformisti e non sono l'ultimo dei pericoli che minacciano la nostra sgangherata democrazia.

 ***

Quando avrà fine il gioco degli inganni e chi avrà in mano il manico del bastone per chiudere a proprio vantaggio la partita che si sta svolgendo tra Berlusconi da un lato e Fini-Casini dall'altro?
C'è un quarto giocatore ed è lui che tiene in pugno fin da ora il manico del bastone. È Umberto Bossi, il convitato di pietra che ha già piantato saldamente i paletti che delimitano il campo da gioco.
La riforma della Giustizia gli interessa poco o niente: per la Lega quella riforma è una merce di scambio e l'ha già ceduta a Berlusconi assicurandogli il suo appoggio per chiuderla come a lui conviene.
Gli altri due temi, del Fisco e del Mezzogiorno, sono due sfaccettature della questione principale, quella del Federalismo sulla quale la Lega gioca l'intera sua posta. Sul Federalismo la Lega vuole carta bianca e non accetta condizionamenti.

Non è certo Berlusconi che potrà intralciarla: per lui il Federalismo è merce di scambio così come per la Lega lo è la riforma della Giustizia, tu dai una cosa a me e io do una cosa a te.
Il condizionamento può venire da Fini. Non a caso Calderoli ha preannunciato un incontro con il presidente della Camera nei prossimi giorni. Gli porterà le carte sui costi-standard dei servizi pubblici nelle varie regioni, i calcoli sulla perequazione tra le Regioni povere e quelle ricche, le imposte attribuite agli Enti locali; insomma il meccanismo federalista finora fotografato nello stato in cui si trova. E chiederà anche a lui carta bianca affinché sia la Lega a gestirne la costruzione che è ancora tutta da fare.

Neppure Calderoli conosce le vere cifre che il Federalismo comporta. Luca Ricolfi, in un articolo di tre giorni fa sulla "Stampa" afferma che ci vorranno almeno altri due anni di studi per dare vera sostanza alla trasformazione dello Stato centralizzato in Stato federale e forse la sua valutazione è ottimistica.
Perciò l'importante per la Lega è di assicurarsene la gestione in esclusiva. Il voto di fiducia che il governo chiederà su questo punto ha questo significato. Fini è disposto a darla questa cambiale in bianco, insieme a quella sulla giustizia di Alfano e Ghedini?
Certo può darla oggi e smentirla e rimangiarsela domani quando sarà più rafforzato sul territorio per tentare un'altra spallata decisiva contro il berlusconismo. Ma in che modo può rafforzarsi? Se dovrà cessare di logorare il suo avversario, se dovrà votare la fiducia quattro volte su quattro capitoli, se dovrà stipulare un patto di legislatura dopo aver digerito quattro rospi di quella portata, la credibilità di Fini sarà ridotta a zero e si sarà anche dovuto separare da Casini per la semplice ragione che Casini la Lega non lo vuole nell'alleanza. Accetta un Fini con quattro rospi in pancia ma senza Casini.

Fini potrebbe rivalersi negoziando le future liste per le elezioni del 2013. Affidandosi alla parola di Berlusconi? O ad un rogito notarile? Sono possibili e pensabili queste due ipotesi?
Finora il presidente della Camera ha dimostrato di essere un ottimo tattico, una dote che gli si conosce da tempo. Ma la strategia difetta. Quando il più fedele dei suoi luogotenenti, Italo Bocchino, afferma che "Futuro e Libertà" non sarà mai alleata con la sinistra, la strategia gli fa evidentemente difetto: l'area finiana ha un senso se può giocare su due sponde, altrimenti sarà riassorbita in poche settimane.
È anche vero che l'altra sponda non versa in condizioni migliori.

 ***

L'altra sponda, cioè il centrosinistra, per ora aspetta. Con l'arma al piede, dice chi vuole incoraggiarla. In realtà annaspa perché ha un suo progetto solo nel caso in cui Berlusconi si dimetta e chieda le elezioni anticipate. Qualora si arrivasse a questa eventualità il centrosinistra chiederebbe l'"Union sacrée" di tutte le opposizioni, Fini compreso, per mettere quelle forze a disposizione del presidente della Repubblica il quale deciderà sulla base dei suoi poteri-doveri costituzionali.
In realtà quando diciamo centrosinistra diciamo soltanto Partito democratico e Italia dei valori. Il resto (che equivale più o meno all'8 per cento del corpo elettorale) è rimasto fuori dal Parlamento salvo uno spicciolame di poche unità.

Manca però ogni traccia di strategia nel caso che Fini rifluisca sul programma berlusconiano e il governo duri fino al 2013. E manca altresì ogni strategia sul che fare in caso di scioglimento della legislatura. Bersani dice in proposito cose accettabili ma non è riuscito finora a guadagnare maggiore consenso nel bacino elettorale del suo partito. Forse perde troppo tempo con inutili mediazioni. Dovrebbe spostare la sua attenzione verso gli elettori potenziali e occuparsi poco o niente dei vari Fioroni, Marini, Letta, D'Alema, Veltroni, Chiamparino. Se il partito resta nei limiti dei soli iscritti e dell'oligarchia che ne è l'espressione, la partita è chiusa, sia che ci siano tre anni di tempo sia che ci siano soltanto 3 mesi.

(08 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/08/news/scalfari_8_agosto-6146202/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Siamo tutti stufi di questa politica
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2010, 04:32:14 pm
IL COMMENTO

Siamo tutti stufi di questa politica

di EUGENIO SCALFARI

SONO maledettamente stufo di dover seguire i miei obblighi professionali commentando la ripetitiva rissosità e inconcludenza dei politici, l'incontenibile pulsione anticostituzionale di Berlusconi, l'uso dei dossier nei confronti di Fini e le controaccuse dei finiani contro il Cavaliere, gli sbraiti di Di Pietro contro tutto e tutti, il bastone secessionista della Lega che spunta dai borbottii di Umberto Bossi, l'attesa del Partito democratico e Godot che non arriva perché ce ne sono troppi e si paralizzano reciprocamente.

Sono maledettamente stufo e non sono il solo. Sono stufi la maggioranza schiacciante degli italiani con il pessimo risultato che il distacco dalle istituzioni è diventato un abisso. Ed è stufo e molto preoccupato il Presidente della Repubblica, come lui stesso ha detto con parole sue nell'intervista rilasciata tre giorni fa all'Unità.

Napolitano ha segnalato il vuoto che si è aperto da quando la rissa politica si è trasformata in rissa istituzionale; ha chiesto ai responsabili di questo stato di cose di mettervi fine al più presto; ha osservato che una crisi di governo al buio e un'eventuale campagna elettorale "selvaggia" rischierebbero di avere esiti nefasti per la democrazia. Quanto a lui, ha confermato quanto già sapevamo del suo modo di pensare e di agire: farà tutto ciò che la Costituzione gli consente e gli impone di fare se si aprirà una crisi di governo. Niente di più e niente di meno.

Questo suo rispetto degli obblighi costituzionali ai quali ha giurato di attenersi (l'hanno giurato anche tutti gli altri "pubblici ufficiali" a cominciare dal presidente del Consiglio, dai membri del governo e dai presidenti delle Camere, ma sempre più spesso se ne scordano) gli ha infatti procurato un livello di fiducia popolare che sfiora l'unanimità e rappresenta uno dei pochi elementi positivi, forse il solo, della pessima situazione che stiamo vivendo.

La Costituzione stabilisce che spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se il Parlamento non è in grado di esprimere una maggioranza, così come è in suo potere nominare il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri rinviando il governo alle Camere per ottenerne la fiducia. Da questo punto di vista ha ragione Napolitano di ricordare che non esiste un governo tecnico: i governi debbono ottenere la fiducia del Parlamento e quindi sono tutti e sempre governi politici, quali che siano il presidente del Consiglio e i ministri che ne fanno parte. Purtroppo gran parte dei politici ignorano o dimenticano questi principi costituzionali e le norme che li configurano. Di qui lo stucchevole teatrino che va in scena ogni giorno con poche varianti.

*  *  *

Una variante notevole era sembrata la separazione dei finiani dal Pdl. Le motivazioni erano chiare, il dissenso su punti decisivi  -  a cominciare col rispetto della legalità  -  e la mancanza di luoghi e strumenti per renderlo palese all'interno del partito giustificavano la secessione. Essa però non fu portata alle logiche conseguenze. Si volle mantenere una fittizia appartenenza dei finiani al Pdl "per non tradire la volontà degli elettori che li avevano votati".

Va detto  -  e Fini lo sa perfettamente  -  che uno dei cardini portanti della nostra Costituzione è l'articolo 67 che stabilisce che "i membri del Parlamento rappresentano la nazione e sono eletti senza vincolo di mandato". Quest'articolo è fondamentale perché è il solo strumento che impedisce alle oligarchie dei partiti di asservire gli eletti dal popolo. Il popolo trasferisce ai suoi delegati la propria sovranità fino a quando si tornerà a votare.

Non c'era dunque alcun bisogno della finzione finiana che il cordone ombelicale con il Pdl non potesse essere tagliato. Quella finzione è stata adottata affinché fosse evidente chi era stato il responsabile della secessione: un'evidenza però talmente plateale da non richiedere percorsi così tortuosi e sterilizzanti. Ma ora, dopo che è cominciato e continua ad andare avanti il massacro mediatico che i giornali berlusconiani infliggono a Fini con l'evidente supporto dei dossier dei Servizi segreti, si è delineata un'altra anomalia di segno opposto: i finiani, per difendere il loro leader dall'attacco di cui è vittima, sono partiti al contrattacco non solo ricordando fatti antichi e non sanate illegalità del Cavaliere, ma indicando temi recenti di gravissima portata e cioè: l'uso dei Servizi di sicurezza per distruggere gli avversari politici del premier, rapporti di comparaggio del presidente del Consiglio con il primo ministro russo Putin; analoghi rapporti di comparaggio di Berlusconi con il leader libico Gheddafi.

Se i finiani dispongono di prove o almeno di gravi indizi su queste presunte e gravissime illegalità, hanno a nostro avviso l'obbligo di esibirle informandone la competente Procura della Repubblica; non possono invece tenerle in serbo come potenziale deterrente. Chi ha sollevato una questione di legalità deve anzitutto difendere se stesso esibendo prove certe contro le accuse che gli sono state lanciate, ma non può a sua volta ritorcerle senza provarne la consistenza.
Qui risiede il coraggio e la forza della propria coscienza morale.

(15 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/15/news/scalfari-6297904/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un personaggio pirandelliano
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2010, 11:22:24 am
IL RICORDO

Un personaggio pirandelliano

di EUGENIO SCALFARI

SE si eccettuano Ciampi e Andreotti, non ci sono stati altri in Italia che abbiano avuto un "cursus honorum" così altisonante come quello di Francesco Cossiga: fu sottosegretario alla Difesa con delega sui Servizi, ministro dell'Interno, presidente del Consiglio, presidente del Senato, presidente della Repubblica.

Durante questo lungo percorso militò nella Dc e in particolare nella sinistra di quel partito. Ci furono varie sinistre democristiane: quella di Gronchi, quella di Fanfani, quella di Moro, di Tambroni, di Marcora, di De Mita, ed ebbero diversi destini e diversa dignità. Cossiga militò in una sinistra che aveva lui soltanto come aderente. Una sinistra estremamente mobile e capricciosa, capace di spostarsi su tutto il ventaglio della politica italiana ma con alcuni punti di riferimento fermissimi: i servizi di sicurezza, l'arma dei Carabinieri, l'arma della Marina, gli Stati Uniti d'America e la Corona britannica. Per quest'ultima nutriva una sorta di culto. Anche la massoneria, ma non per adesione ma perché segreta, almeno di nome e di tradizione.

Tutto ciò che era segreto lo affascinava, comprese le tecnologie che maneggiava con grande abilità. Fu un solitario con pochissimi amici.
Fu un sardo integrale. E fu un depresso per tutta la vita.

E' impossibile ricordare e capire Cossiga se non si ha presente la sua depressione. Io l'ho conosciuto bene, gli sono stato amico, e lui a me, per molti anni; direi dal '78 al '90. Poi l'amicizia finì quando lui cominciò a picconare dal Quirinale la Costituzione che aveva giurato di difendere. Da allora i nostri rapporti diventarono burrascosi e mai più amichevoli come un tempo. Va anche detto che la capricciosità depressiva del suo carattere aveva raggiunto un'intensità che rendeva precario e rischioso ogni rapporto. Ma sulla natura del suo male, sulla sua origine e il suo decorso non ho mai saputo se non quello che se ne diceva: che era imbottito di farmaci e non sempre con successo sulle sue condizioni generali di salute.

Come tutti i ciclotimici alternava fasi di cupa tristezza e atonia a fasi euforiche e attivissime. Di solito la tristezza solitaria coincideva con sconfitte politiche. Ne ebbe una particolarmente grave dopo l'uccisione di Moro; un'altra di analoga gravità quando fu minacciato di "impeachment" dal Pci guidato da Berlinguer del quale era un lontano cugino acquisito. Infine una terza al termine del settennato presidenziale che, con continue oscillazioni, non l'ha più abbandonato ed è stata probabilmente la causa della sua fine.

Un uomo di grande intelligenza appoggiata tuttavia ad una piattaforma psichica del tutto instabile, come ha potuto percorrere una carriera politica di quel livello? Come ha potuto essere scelto quattro volte per incarichi di massimo livello politico e istituzionale non avendo alle sue spalle una corrente che lo sostenesse in una Dc che sulle correnti ci viveva?

Queste domande sono rimaste finora senza risposte. Ne azzardo una: la Dc in alcuni momenti della sua storia ebbe bisogno di delegare responsabilità importanti a uomini sciolti dalla struttura correntizia del partito. Quella delega attutiva lo scontro interno o addirittura lo congelava per un periodo che servisse a far riprendere fiato a tutti.
Sceglievano uomini "en reserve" che di tanto in tanto entravano in scena per poi uscirne in attesa della prossima occasione.

Così accadde con Leone, presidente di governi balneari, presidente della Camera e poi al Quirinale. Così si spiega anche la collezione di incarichi di Andreotti, il quale nel partito fu sempre molto debole. Andreotti tuttavia fu un tessitore di contatti, di scambi di favori, di un sistema di potere che ebbe i suoi punti di forza nelle minoranze di tutti i partiti.
La sua tecnica è stata quella di sparigliare il gioco; di questo fu maestro e su questo entrò a far parte del Gotha politico.

Anche Cossiga sparigliava, ma non per calcolo consapevole bensì per malattia. Da questo punto di vista è stato un personaggio pirandelliano e il dramma Enrico IV sembra scritto su misura anche se lui all'epoca di Pirandello non era ancora nato.

Naturalmente nelle fasi euforiche del suo male l'istinto del Narciso prendeva il sopravvento su ogni altra considerazione. I due ultimi anni del suo settennato al Quirinale furono dominati dal narcisismo. I giornali davano quasi quotidianamente la prima pagina alle sue sortite, ai suoi discorsi, ai sassolini che si toglieva dalle scarpe, ai colpi di piccone che assestava all'ordinamento costituzionale.

Oggi riposa in pace. Ha ricoperto tanti ruoli e tutti di grande importanza ma la sua vita è stata profondamente infelice ed è passata come una meteora nella politica italiana.

(18 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/18/news/un_personaggio_pirandelliano-6345912/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il labirinto di Francesco Cossiga
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2010, 06:16:51 pm
Il labirinto di Francesco Cossiga

di Eugenio Scalfari

Dall'uccisione di Moro la sua vita è stata solo una sequenza tragica (pubblicato il 13-06-2002)

(17 agosto 2010)

"Ebbene sì sono un depresso": ha detto Cossiga durante la conferenza stampa convocata  per confermare le sue irrevocabili dimissioni da senatore a vita contro Carlo Azeglio Ciampi; 'sono un depresso ma non un euforico; ciò non mi impedisce di lavorare e di avere la mente chiara anzi chiarissima. Ci sono state molte illustri persone afflitte da questa malattia". E ha citato Montanelli e perfino Nietzsche. Qualcuno, prendendo spunto da quest'ultimo nome, sussurrava la sera di quello stesso giorno nella frescura dei giardini del Quirinale in festa per l'anniversario della Repubblica: 'Infatti stamattina Cossiga ha abbracciato un cavallo' (l'episodio accadde a Torino nel dicembre del 1889 e segnò il passaggio di Nietzsche dalla depressione alla follia). L'ex presidente della Repubblica non è un folle e questo lo sappiamo tutti, ma certo è un caso, 'un carattere le cui pieghe sono diventate più profonde col passare degli anni' dicono le persone più legate a lui: una frase volutamente generica che manifesta un disagio senza spiegarne la natura. Sono stato abbastanza intimo di Francesco Cossiga per poterne parlare con qualche cognizione di causa. Dopo parecchi anni di amicizia, dal 1977 fino al 1990, ci fu una rottura politica che non fu più ricucita anche se negli ultimi mesi si era in qualche modo cicatrizzata. Avevo anch'io capito che il peso della vecchiaia incipiente aveva 'approfondito le pieghe del suo difficile carattere' e questa comprensione mi sollecitava ad un giudizio più equanime. Sicché posso esprimere oggi, di fronte a questa sua ultima bizzarria, un parere 'pro-veritate'. Ci provo.

Il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro, avvenuti mentre Cossiga era ministro dell'Interno, lo segnarono per sempre. Non soltanto e forse non tanto per la totale inefficienza e impreparazione di cui dettero prova le forze della sicurezza pubblica alle sue dirette dipendenze; non tanto per la responsabilità politica che pesava su di lui per aver giustamente rifiutato - insieme ad Andreotti, Zaccagnini ed Enrico Berlinguer - di riconoscere alle Br un ruolo di interlocutori politici; quanto perché visse in quella circostanza un trauma emotivo di rapporto con la morte. Quel trauma gli capovolse la vita.

Da allora, da quella mattina in cui il corpo raggomitolato e cadaverico del capo del più grande partito italiano fu trovato nel bagagliaio di una vecchia Renault, la persona Cossiga, la sua mente, i suoi fasci neuronali, l'anima sua o comunque la si voglia chiamare sono stati come incendiati, sconvolti, fulminati da una corrente di eccezionale intensità. Era la seconda volta che ciò accadeva in cinquantasei giorni: la prima scarica da elettrochoc era avvenuta il giorno in cui Moro fu rapito dal commando delle Br alle sette del mattino e il ministro dell'Interno fu il primo, ovviamente, ad averne notizia. Ricordo questi fatti per averne vissuto la sequenza ed aver raccolto proprio da lui l'impressione a caldo di quelle terribili scosse e delle conseguenze indelebili che produssero 'sulle pieghe profonde del suo carattere'. Quelle "pieghe profonde" ci misero un bel po' di tempo prima di manifestare i loro effetti. Per oltre un anno l'ex ministro dell'Interno, che aveva firmato la sua lettera di dimissioni fin dalle prime ore del rapimento Moro con la decisione che sarebbero diventate operative a vicenda Moro conclusa e comunque conclusa, si chiuse in un isolamento pressoché totale, lontano da tutti, dalla famiglia, dagli amici privati, da quelli politici. Elaborava il lutto, il suo lutto. Scomparve dalla scena. Poi vi tornò. Prima da Presidente del consiglio di un effimero Ministero senza storia, poi da Presidente del Senato. Infine da capo dello Stato.

In cinque anni bruciò le tappe di un "cursus honorum" straordinario, quale raramente si era visto prima e mai in una persona sottoposta ad un doppio trauma di quella violenza. Ma era stonato, dominato dall'immagine della morte che gli aveva sconvolto la vita. Guardava alla sua vita con lo sguardo furbo e sospettoso di chi si sente braccato da qualche cosa di immenso cui si può sfuggire depistando, cancellando le tracce, cambiando abitudini, frequentazioni, modi di pensare e di vivere. Esplose al quinto anno della sua permanenza al Quirinale. Annunciò che da quel momento in poi si sarebbe tolto i sassolini che aveva nelle scarpe (ma quali?) e che gli impedivano di camminare spedito. Si mise all'opera con il fervore e l'empito di chi aveva deciso di combattere contro un'oppressione ignota, contro un fantasma che gli rubava il tempo e il respiro. Si dette il nome di Picconatore e menò fendenti in tutte le direzioni, risparmiando soltanto i servizi segreti e l'Arma dei Carabinieri quasi che fossero queste le sole forze che potevano difendere la sua incolumità psicologica. Il suo problema divenne ben presto quello di monopolizzare ogni giorno la prima pagina di tutti i giornali. Voleva stupire. Doveva stupire. Doveva esorcizzare la mortalità con la fama. Doveva bruciare i templi nei quali aveva officiato e tutt'ora officiava. Novello Erostrato, decise di picconare la Costituzione che aveva solennemente giurato di difendere. Fu applaudito e circondato da una vasta sequela di comici dell'arte recitanti a soggetto. Condivise con altri la predilezione per i guitti e i buffoni di corte. Ma il suo problema era molto più profondo: doveva sfuggire a quel qualcosa di incognito, di oscuro, di ineluttabile che lo perseguitava sotto le più diverse sembianze.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-labirinto-di-francesco-cossiga/2132214/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il partito della P3 può perdere le elezioni
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2010, 09:04:23 pm
IL COMMENTO

Il partito della P3 può perdere le elezioni

di EUGENIO SCALFARI


SARANNO presentati in Parlamento nei prossimi giorni i cinque dossier programmatici sui quali il governo è intenzionato a chiedere la fiducia: la riforma della giustizia, il federalismo, il fisco, il Mezzogiorno, la sicurezza. Si aspettava questo annuncio dopo l'ennesimo "consiglio della Corona" svoltosi venerdì scorso a Palazzo Grazioli.

Nella conferenza stampa tenuta subito dopo da un Berlusconi palesemente stanco e incattivito nonostante il consueto trucco di scena, il documento scaturito dal vertice è stato presentato come una sorta di ultimatum all'ala dissidente dei finiani, un pugno sul tavolo del premier di nuovo sicuro di sé: o mi date la fiducia senza cambiare una virgola o si vota a dicembre. Ma le cose non stanno esattamente così.

La mozione di fiducia verrà posta sul documento uscito dal vertice o su una sua parafrasi e i finiani hanno già dichiarato che lo voteranno senza problemi. Ma poi le varie leggi sui cinque punti in programma dovranno essere presentate, discusse e approvate dal Parlamento con le procedure previste dai regolamenti. Il voto di fiducia preliminare non lega le mani di nessuno, fa soltanto slittare la crisi dall'inverno alla primavera 2011. I motivi di questo sostanziale rinvio - anche se parzialmente smentito da Berlusconi nel secondo atto del vertice tenutosi ieri - sono svariati. Fini ha bisogno di tempo per organizzare le sue forze e la sua strategia, tuttora piuttosto incerta.

Berlusconi dal canto suo teme uno smottamento massiccio del consenso in suo favore. Le attuali intenzioni di voto registrate da numerosi sondaggi fino all'inizio di agosto danno il Pdl tra il 26 e il 28 per cento, di fatto alla pari con il Pd e il sorpasso leghista in tutte le tre regioni padane, Piemonte, Lombardia, Veneto. Di qui la tregua provvisoria con Fini e il rinvio della crisi. Ma la situazione politica non cambia, la scissione finiana non rientra, la "golden share" della coalizione di centrodestra resta saldamente nelle mani della Lega.

A Bossi importa poco dei programmi sul fisco e sul Mezzogiorno; li considera secondari rispetto al federalismo e del resto rientrano entrambi nella competenza di Tremonti che ha con Lega un legame ormai consolidato. Quanto alla sicurezza, è materia di Maroni che ieri ha dichiarato di voler essere molto più duro di Sarkozy per quanto riguarda i rimpatri degli immigrati e dei Rom.
Il vero scambio sotteso al programma dei cinque punti si verifica dunque tra il federalismo di cui Bossi reclama l'esclusiva e la riforma della giustizia che interessa Berlusconi e l'"inner circle" dei suoi accoliti.

In cambio della mano libera sul federalismo Bossi darà il suo appoggio incondizionato a Berlusconi sul tema della giustizia e su quello strettamente connesso dei conflitti di interesse che ormai, penetrando dalla persona e dall'azienda del premier, avvolgono in una fittissima rete l'intera cupola del Pdl ed ora, proprio sul fronte della giustizia, se ne profila un altro: dietro l'annuncio del premier, che dichiara di voler snellire il contenzioso delle cause civili, potrebbe celarsi l'ennesimo colpo di spugna. Stavolta sulla causa che vede contrapposte la Cir e la Finivest, già condannata in primo grado al pagamento di 750 milioni di euro come risarcimento dei danni subiti dal gruppo De Benedetti ai tempi del Lodo Mondadori.

Siamo dunque in presenza di uno scambio di grandi proporzioni: l'assetto federale dello Stato dato in appalto ad un partito territoriale che nel Paese raccoglie tra il 10 e il 12 per cento dei consensi e, dall'altro lato, il salvacondotto giudiziario al premier e al suo gruppo insieme ad un mutamento radicale dei rapporti tra la giurisdizione e l'autorità politica e, più in generale, tra la sovranità del potere politico e le istituzioni di controllo e di garanzia. Questo è il vero contenuto dello scontro politico in atto.

Ma il quadro sarebbe incompleto se non segnalassimo altri due aspetti della situazione.
Il primo riguarda il Pd. Messo alla frusta dalla gravità della crisi, Bersani ha deciso un rilancio in grande stile mobilitando i 3 milioni e mezzo di elettori delle primarie per una campagna capillare per riportare in linea quella parte dell'elettorato democratico - riformista che si è rifugiata nell'area dell'astensionismo. Se questa mobilitazione verrà condotta con efficacia e passione il risultato potrebbe addirittura consentire il sorpasso del Pd rispetto al Pdl, che avrebbe effetti clamorosi sull'intero quadro politico.

Il secondo aspetto della situazione riguarda il presidente della Repubblica ed è altrettanto essenziale. Ho scritto in un articolo dell'11 aprile scorso intitolato "L'ultima sfida del Cavaliere al Quirinale" una frase che voglio qui riportare perché ha acquistato in questi giorni un'inquietante attualità: "Sta emergendo con sempre maggiore chiarezza la volontà berlusconiana di dare una spallata definitiva alla Costituzione repubblicana sostituendola con un regime autoritario, un Parlamento di "cloni" plebiscitati, un potere giudiziario frantumato e subordinato all'esecutivo.
"In uno degli angoli del ring c'è Silvio Berlusconi, nell'altro, almeno per il momento, non c'è nessuno o meglio c'è un capannello di persone discordi tra loro dalle quali sembra difficile estrarre un valido competitore. "Giorgio Napolitano dovrebbe arbitrare la partita, dalla quale dovrebbe uscire una Repubblica ammodernata ma fedele ai principi dello Stato di diritto e alla libertà oppure un autoritarismo plebiscitario.

"Questo scontro comincerà tra meno di un mese e si concluderà nel 2011. Credo di sapere che Napolitano deve e vuole restare al di sopra delle parti anche perché il capitale di fiducia che riscuote nel Paese è il solo elemento che può far inclinare il piatto della bilancia dalla parte giusta e non da quella terribilmente sbagliata. "Credo di sapere che contro le sue intenzioni sul ring, a contrastare un vero e proprio "golpe bianco" ci sarà lui. "Non in veste di giocatore ma in veste di arbitro di fronte a chi contesta gli arbitri, i soli che possono richiamarlo a rispettare le regole del gioco. Credo di sapere e prevedo che sarà una durissima battaglia per la democrazia italiana".
È esattamente questa la piega che hanno preso le cose.

* * *
La riforma della giustizia è impostata su due punti che nel loro insieme costituiscono la concezione che il berlusconismo ha dello Stato e della democrazia. Il primo punto riguarda il rapporto tra il potere esecutivo e le istituzioni di controllo e di garanzia, prima tra tutte la magistratura. Il secondo punto si dà carico  -  così suona la motivazione  -  delle carenze del servizio, della estenuante lunghezza dei suoi percorsi che causano costi altissimi ai cittadini e al Paese. E quindi: processo breve, possibilità di rendere esecutive e inappellabili le decisioni dopo uno o almeno due ordini di giurisdizione, terzietà del giudice rispetto alla pubblica accusa, separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti, diluizione o addirittura abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale.

In questo quadro va da sé che vi sia una specialissima attenzione all'improcedibilità nei confronti dei membri del governo e la protezione assoluta del premier e delle altre massime cariche istituzionali per ogni tipo di reato, non importa quando commesso. Quest'aspetto del problema figura come un codicillo ma sappiamo che per gli estensori della riforma ne costituisce invece un punto capitale. Quale sia la concezione liberal-democratica dell'intera questione della giustizia è fin troppo noto perché sia necessario entrare nei dettagli anche se il tema dei disservizi della giurisdizione si impone oggettivamente ad ogni cittadino e ad ogni legislatore e va dunque affrontato con il massimo impegno e la massima concretezza. Ho la fondata sensazione che le cause principali di quei disservizi non siano minimamente presenti agli estensori della riforma in questione. Perciò mi propongo qui di formulare alcune riflessioni su questa delicatissima materia.

* * *
1. Esiste un assoluto caos nei rapporti tra le magistrature amministrative, le magistrature contabili e la giurisdizione ordinaria. Il Tar può aprire un processo a carico di un soggetto; la sua ordinanza o sentenza è appellabile al Consiglio di Stato. Nel frattempo sullo stesso soggetto e sullo stesso reato la Corte dei Conti può aprire un processo ed emettere sentenza. Sul medesimo imputato e presunto reato possono procedere in pari tempo il giudice penale e quello civile. Le sentenze di queste diverse giurisdizioni nei loro diversi gradi possono essere in totale contrasto le une con le altre dando luogo ad una situazione che definire caotica è un eufemismo e la cui lunghezza è infinita.

2. Di questo tema mi sono occupato alcuni anni fa segnalando altresì la situazione abnorme del Consiglio di Stato che è al tempo stesso collegio giudicante nei confronti del potere esecutivo ma anche consigliere autorevole e molto ascoltato del governo stesso: situazione abnorme a cui dovrebbe esser messo riparo. Questo ed altri temi sono stati ora risollevati dall'avvocato Giovanni Pellegrino che fu anche senatore e presidente della Commissione stragi, in un libro intitolato "Il morbo giustizialista". Merita d'esser letto e attentamente meditato.

3. Scrisse più volte Paolo Barile, il grande giurista erede spirituale di Piero Calamandrei, che l'obbligatorietà dell'azione penale è la norma che presidia l'indipendenza del Pubblico ministero. La sua abolizione determinerebbe la degradazione del magistrato inquirente al rango di un pubblico funzionario. Si può anche scegliere questa strada e imboccare quella dell'avvocato di pubblica accusa, sapendo però che l'indipendenza della magistratura diventa in questo caso una lugubre barzelletta della quale abbiamo fatto esperimento in cent'anni di monarchia e in vent'anni di fascismo. In altri paesi esistono contrappesi politici, culturali e professionali che in Italia sono sconosciuti. Perciò è bene si sappia che abolire l'obbligo dell'azione penale significa la cancellazione dell'indipendenza giurisdizionale.

4. Ciò non significa che l'obbligatorietà dell'azione penale non possa essere meglio organizzata. Per esempio concentrandola nelle mani del capo della Procura e bilanciando questo centralismo con la deroga per i reati in flagranza e con incontri frequenti e obbligatori tra il Procuratore capo ed i suoi sostituti su come orientare e specializzare l'azione penale in quel distretto giudiziario.

5. La giurisdizione antimafia ha creato un modello di organizzazione nazionale con un Procuratore unico alla guida del sistema. Probabilmente per alcuni reati non necessariamente mafiosi ma con analoghe caratteristiche, quel modello andrebbe esteso. Un Procuratore nazionale per tutti i reati di corruzione e concussione nei quali sia coinvolta la Pubblica amministrazione potrebbe essere una proposta di rilevante interesse.

6. Esiste infine una serie di comportamenti gravemente illeciti ai quali non corrisponde la definizione di un preciso reato. La magistratura e la giurisprudenza hanno creato in questi casi nuove formule di incolpazione come per esempio il reato di associazione per delinquere che spesso tuttavia serve soltanto a colmare un vuoto legislativo favorendo conflitti di giurisdizione tra Corti di merito e Corte di Cassazione che sono tra le cause più importanti dell'estenuante lunghezza dei processi. Molte altre cose potrebbero esser dette su questi temi. Li ho qui segnalati proprio per stimolare un dibattito e mettere in evidenza che la cosiddetta generale riforma della giustizia che sta per essere presentata alle Camere si riduce ad una pagliacciata messa in scena per proteggere gli interessi di una casta politica, come temo stia per avvenire.

(22 agosto 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che idea, torniamo al duello
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2010, 05:50:09 pm
Che idea, torniamo al duello

di Eugenio Scalfari


Le ultime vicende politiche inducono a rivalutare un antico strumento di risoluzione delle controversie. Mi immagino Berlusconi all'alba, già certo di vincere, avvicinarsi con i suoi due padrini Previti e Bertone...

(16 agosto 2010)

Rovistando tempo fa tra vecchie cianfrusaglie di casa ho trovato un disco da 45 giri con le canzoni del Quartetto Cetra. Nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo quel quartetto ebbe la sua celebrità che durò almeno vent'anni. Erano tre uomini e una donna e affrontavano con gustosa ironia vecchie usanze di un'Italia ottocentesca tuttora vive nella memoria dei padri e dei nonni.

Misi il disco sul grammofono, gracchiava per la polvere che si era depositata nei solchi ma le voci e la melodia erano perfettamente percepibili. Riascoltai "Il vecchio palco della Scala" e il "Il visconte di Castelfrombone", quest'ultimo in particolare godibilissimo. Ne trascrivo qualche verso a memoria:
"Il visconte di Castelfrombone/cui Buglione/ fu antenat/ ha sfidato il conte di Lomanto/ ed il guanto/gli ha gettat/tutto accadde al bal dell'ambasciata:/con l'amata/ lo trovò./ Uno sguardo e due perfetti inchini/e i padrini/ gli mandò/Poi dello scandalo ogni salotto/di ciarle ghiotto/fu presto edotto/ed ai rivali di quella tenzone/una canzone/il D'Annunzio dedicò".

Non è una delizia? Allora lo fischiettavamo ridendoci su. Risentirlo adesso fa uno strano effetto: è quasi ridiventato attuale, i politici di opposte sponde si lanciano accuse e parole che in altri tempi li avrebbero portati sul terreno, armati di spade o pistole. Felice Cavallotti, che sul finire dell'Ottocento era il leader della sinistra radicale, morì così, con un colpo di spada che gli spaccò il cuore.
E se questi costumi riprendessero piede? Ho cominciato a fantasticarci su e mi ci sono molto divertito. Un duello all'alba in un bosco fuori mano, i padrini, il direttore di gara, un medico per ogni evenienza. Al primo o all'ultimo sangue? Per una donna o per l'onore d'un partito?

Pensate: un duello tra Bondi che gli ha dato dello scostumato e del selvaggio e Bersani che gli ha risposto per le rime. Oppure tra Vendola e D'Alema, l'uno con l'orecchino e magari per l'occasione con i guanti alla moschettiera e l'altro vestito come le guardie del Cardinale, coi baffi appuntiti e il mantello rosso.

Potrebbe diventare una moda molto apprezzata nei salotti di Roma e di Milano. La Santanché ci camperebbe agevolmente e non sarebbe la sola.

Un duello tra La Russa e Della Vedova attirerebbe l'interesse generale, soprattutto se l'arma scelta fosse la sciabola. Un altro tra Gasparri e Bocchino, magari alla pistola con un solo colpo in canna. Quanto a Fini, non potrebbe esimersi dal mandare i padrini al cognato Giancarlo Tulliani che ha carpito la sua buona fede implicandolo in un pasticcio che proprio non ci voleva.

E Feltri? Sarebbero in molti a gettargli il guanto di sfida sulla faccia, da Boffo allo stesso Fini, ma non accetterebbe, invocherebbe la deontologia giornalistica, i probiviri della Federazione della stampa, ma in un prato con la spada in pugno francamente non ce lo vedo. Come non ci vedo Ferruccio De Bortoli: con l'elmetto mai.

E Berlusconi? Qui il discorso si fa più complicato. Il Cavaliere ha fegato ed è oltretutto un uomo d'onore. Per di più è ammalato di mania di grandezza perciò un duello l'accetterebbe, ma dovrebbe esser sicuro di vincerlo, uscirne sconfitto per lui è un'ipotesi intollerabile. Perciò dovrebbe trovare un suo pari che però accettasse di farlo vincere al primo assalto. Diciamo un suo pari arrendevole.
Mi sono scervellato per ore su questa ricerca. Un suo pari arrendevole chi può essere? Alla fine l'ho trovato. Un gioco da bambini, l'uovo di Colombo: Giulio Tremonti, un suo pari arrendevole.

Si dovrebbe mettere su uno scenario di quelli che passano alla storia. Berlusconi sceglierebbe come padrini Cesare Previti e il cardinale Tarcisio Bertone; Tremonti porterebbe con sé il presidente della commissione europea, Barroso e Umberto Bossi. Direttore di gara ci vedo bene Panebianco oppure Galli della Loggia. I medico lo sceglierebbe Berlusconi che ce ne ha una collezione.

"Nell'ottobre dell'Ottantasette/alle sette del mattin/ i rivali si trovarono presso/a un cipresso/d'un giardin".
Bisognerebbe ritoccare la data. Non c'è un D'Annunzio per scrivere la canzone, ma Bondi è maestro in materia, andiamo sul sicuro.

Tremonti è certamente arrendevole, ma qualche condizione la metterebbe: primo ministro quando il Cavaliere ascenderà al Quirinale. Il guaio per lui è che Alfano lo sfiderebbe immediatamente alla pistola e all'ultimo sangue. Gianni Letta no, come Feltri neanche Letta si batte. Semmai una goccia di veleno durante una cena da Bruno Vespa.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gli scrittori, i libri e il conflitto d'interesse
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 04:03:13 pm
LA POLEMICA

Gli scrittori, i libri e il conflitto d'interesse

di EUGENIO SCALFARI 


A leggere dichiarazioni, articoli, interviste degli autori interessati e dello stesso Vito Mancuso che ha sollevato il caso su Repubblica, sembrerebbe che tocchi a me chiudere (o riaprire) il discorso sulla compatibilità di avere come editore dei propri libri il gruppo Mondadori oppure andarsene cercando altre case editoriali eticamente e politicamente più pulite.

Non mi aspettavo questo privilegio. Forse dipende dalla cosiddetta età veneranda o dall'essere stato a suo tempo anch'io editore (ma di giornali e non di libri che è cosa diversa). Comunque mi si chiede un giudizio e forse una decisione. Da tre anni sono un autore dell'Einaudi, società che dal 1994 è controllata dalla Mondadori. Resto o me ne vado?

Da quanto ho capito, questa risposta sta particolarmente a cuore a Mancuso il quale è sull'orlo di una decisione ma, ch'io sappia, ancora non l'ha presa. E da me che cosa ti aspetti, caro Vito? Che io t'incoraggi a cercare nuovi lidi editoriali dove magari seguirti o ti convinca a restare dove sei e dove dici di trovarti bene, se non fosse per un rovello etico che ti rode dentro da quando hai letto sul nostro giornale, cui tu collabori, lo scandalo della legge "ad aziendam" imposta dal premier-editore per consentire alla sua Mondadori di saldare un debito fiscale presuntivamente accertato in 350 milioni di euro pagandone in tutto 8,6?

Tu sei un mio amico ed ho molta stima per la tua cultura religiosa. Diciamo "martiniana" e tu sai con quanto affetto e rispetto io guardi al cardinal Martini sebbene non condivida la fede che lo anima. Perciò rispondo alle tue sollecitazioni e per maggior chiarezza lo farò esaminando i vari aspetti della questione.

1. Il governo, dopo averci provato varie volte senza riuscirvi, ha inserito surrettiziamente in un recente decreto convertito in legge una norma che autorizza le aziende che abbiano una vertenza tributaria in corso ed abbiano vinto nei due primi gradi di giurisdizione, a chiudere la vertenza pagando una sanzione irrisoria. La Mondadori  -  vedi caso  -  si trova esattamente in questa condizione ed ha utilizzato uno "scivolo" estremamente favorevole.

2. Non ci sarebbe molto da obiettare se non fosse che il presidente del Consiglio è proprietario di riferimento della stessa Mondadori. Il problema nasce dunque dal gigantesco conflitto di interessi incorporato nella figura di Silvio Berlusconi.

3. Il suddetto conflitto di interessi è un morbo che avvelena la vita politica italiana fin dal 1993 e la condizionò anche prima. Quando Berlusconi faceva ancora l'impresario televisivo i suoi politici di riferimento erano Bettino Craxi e in minor misura Forlani. Poi entrò in politica portandosi appresso quel conflitto che permane tuttora senza che la classe politica vi abbia posto alcun rimedio. Ricordo queste cose per dire che il problema non nasce oggi ma almeno 17 anni fa se non prima.

4. La mia esperienza di autore è stata abbastanza lunga e varia. Ho avuto come editori Laterza, Feltrinelli, Mondadori (dove pubblicai "La sera andavamo in Via Veneto" quando quella società era controllata dalla Cir e dal gruppo dell'Espresso), Rizzoli. Alla Rizzoli ero affezionato al direttore editoriale Rosaria Carpinelli che seguiva gli scrittori con rara competenza professionale. Quando la Carpinelli lasciò la Rizzoli me ne andai anch'io e scelsi Einaudi pur sapendo che la proprietà di quella casa editrice era della Mondadori. Fu dunque nel mio caso una scelta perfettamente consapevole.

5. Scelsi Einaudi perché il gruppo dirigente che ha al suo vertice editoriale Ernesto Franco è ancora quello formatosi con Giulio Einaudi. La Einaudi fu per tanti anni una delle case editrici che contribuì fortemente alla formazione culturale del nostro paese e che tuttora  -  non a caso  -  vanta un catalogo di scrittori di prima grandezza nella narrativa, nella saggistica, nella storia, con particolari presenze di scrittori civilmente e politicamente impegnati, da Ingrao alla Rossanda, da Asor Rosa a Zagrebelsky.

6. Se il gruppo editoriale che guida la Einaudi cambiasse o se i suoi dirigenti si piegassero a richieste politicamente scorrette e per me incompatibili, non esiterei un istante ad andarmene. Finché questo non avverrà, alla Einaudi mi trovo benissimo e ci resto.

7. Ho avuto anche un'altra esperienza che forse è utile raccontare perché riguarda pur sempre il settore della comunicazione. Due anni fa la casa cinematografica Medusa di proprietà della Fininvest mi informò che era interessata a fare un film utilizzando come soggetto un mio romanzo intitolato "La ruga sulla fronte". In quello stesso giro di mesi la Medusa stava realizzando il film "Baarìa" con Giuseppe Tornatore. Accettai la proposta e si arrivò fino alla stesura del copione ma a quel punto accadde un fatto: il presidente della Medusa, Carlo Rossella, intervenendo alla trasmissione televisiva "Ballarò" e pochi giorni dopo a quella di "Porta a porta", fece affermazioni molto gravi e a mio avviso faziose in favore di Berlusconi e si lasciò andare a veri e propri insulti contro i partiti di opposizione. Scrissi dunque alla Medusa rescindendo il rapporto che avevo con lei. In campo cinematografico questa società è il solo produttore e distributore esistente sul mercato italiano, a differenza del mercato dei libri. Perciò chi rifiuta di lavorare con Medusa rinuncia a veder realizzato il film che lo interessa.

8. Il conflitto di interessi di Berlusconi è un'anomalia che  -  in queste proporzioni  -  esiste soltanto in Italia. Si combatte eliminando l'anomalia, cioè si combatte politicamente. Lo sciopero degli autori, degli operatori televisivi e, perché no, quello dei lettori o dei telespettatori non sono armi facilmente realizzabili. Si possono determinare casi personali come quello di Roberto Saviano, insultato da Berlusconi e da sua figlia Marina con giudizi offensivi sul suo libro "Gomorra" ancorché pubblicato dalla Mondadori. Ma si tratta di casi personali che l'interessato risolve come ritiene più opportuno.

L'importante è che le idee possano circolare liberamente senza condizionamenti o ricatti. Questa è la ragione della nostra battaglia contro la legge-bavaglio. Chi ci impone un bavaglio avrà da parte nostra pane per i suoi denti come si è visto nei mesi scorsi e come ancora si vedrà se quella legge dovesse essere nuovamente riproposta. 

(25 agosto 2010) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI.
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 09:20:36 am
Tre carneadi cofondatori

Eugenio Scalfari

Rotondi, Pionati e Giovanardi. Vogliono contare come Fini. E con i loro dieci deputati e quattro senatori potrebbero far male a Berlusconi in difficoltà. E poi c'è anche Nucara

(27 agosto 2010)

Vi do tre nomi e vi invito a dire chi sono: Rotondi, Pionati, Giovanardi. Vi metto sulla buona strada: sono tre uomini politici. Ancora non ci siete? Sono tre cofondatori del partito di Berlusconi. Non ci siete ancora? Un altro aiutino: due di loro sono ministri senza portafoglio (per fortuna) nell'attuale governo. Non vi viene in mente niente?
È terribile per quei poveretti aver lavorato una vita al servizio - si fa per dire - del paese e non aver lasciato alcuna traccia. Pensate: uno di loro è addirittura proprietario della Dc. Ma sì, avete capito bene: proprietario del logo del partito, lo scudo crociato. L'ha registrato a proprio nome perché nessun altro aveva pensato a farlo. Qualche anno fa ha fatto rivivere il partito e si è fuso con Berlusconi. Dei tre è il più importante. Rotondi. Nel momento della fusione è stato seguito da una decina di amici e da un paio di parenti acquisiti.

La storia di Giovanardi è diversa: era alla guida di un gruppo nel partito di Casini e ad un certo punto nacque un dissenso; Giovanardi uscì dall'Udc e costituì un gruppo autonomo. Bussò alla porta di Berlusconi e il Cavaliere aprì.
Pionati è un caso più semplice. Era un cronista politico della Rai. Dopo anni di servizio la sua faccia era diventata abbastanza nota. Nell'ultima campagna elettorale, tra la candidatura di una velina e quella di una valletta, Berlusconi offrì un posto anche a lui e Pionati entrò finalmente in Parlamento, ma la sua delusione fu cocente: la sua faccia e il suo nome scomparvero immediatamente dalla memoria degli italiani. Pionati come Carneade: chi era costui.

L'ex cronista della Rai aveva però imparato i trucchi della politica e non si perse d'animo: fondò un movimento e gli dette anche un nome. Non ricordo se lo chiamò movimento dei liberali e democratici oppure dei liberali moderati oppure ancora dei moderati laici per distinguersi dai moderati cattolici di Giovanardi il quale a sua volta voleva distinguersi dalla Democrazia cristiana di proprietà di Rotondi.
Sta di fatto che, una volta fondati questi movimenti, i loro fondatori insieme alla massa dei fondati si fusero col partito del predellino. Tutti insieme tesserarono a dir poco 150 militanti e si guadagnarono la preziosa qualifica di cofondatori alla pari di Fini.
Ne consegue che i cofondatori sono almeno quattro, Fini quindi non faccia troppo il furbo, non ponga condizioni, insomma non rompa le scatole perché di fronte a Berlusconi l'ex leader di An si trova nella stessa condizione di Rotondi, Pionati e Giovanardi. E zitto!

I lettori si domanderanno perché mai ho sollevato questo caso. Giusta domanda ed ecco la risposta.
I tre suddetti Carneadi sono tuttavia espertissimi in trucchi e trappole di corridoio. Hanno fiutato che il Berlusca è in difficoltà ed hanno piantato la loro grana: nei vertici di venerdì e di sabato scorsi a Palazzo Grazioli tra i maggiorenti del partito loro non sono stati convocati. Come cofondatori avrebbero dovuto esserlo. Si trattava infatti di giudicare il quarto cofondatore e cioè un loro pari, e a chi spettava di farlo se non a loro?
Dunque gli è stato fatto un gravissimo sgarbo e gli è stato arrecato un gravissimo danno politico. Non sono soli, quei tre. Hanno con loro almeno dieci deputati e quattro senatori. Vi sembra poco? Coi tempi che corrono la loro utilità marginale è maledettamente cresciuta. Se quei dieci deputati e quattro senatori decidessero di uscire dal Pdl, la maggioranza già traballante finirebbe col sedere per terra. E se bisognasse poi decidere nuove elezioni oppure governo di transizione, quei dieci più quattro avrebbero anche loro una parola da dire.

Intanto un titolo su qualche giornale se lo sono guadagnato e anch'io gli ho dedicato questo "vetro soffiato". Sarà poca cosa ma chi si contenta gode.
Ci godo anch'io. Questa maggioranza è fatta proprio di ricotta. Ma non doveva salvare il paese?
Ho però dimenticato di dirvi che c'è un quinto cofondatore. Si chiama Nucara ed è proprietario dell'Edera, il vecchio simbolo del Partito repubblicano. Finora Nucara è stato zitto ma ormai è questione di ore, si farà vivo anche lui e ne vedremo delle belle.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le regole di Marchionne e l'etica di Berlinguer
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 08:57:50 pm
COMMENTI

Le regole di Marchionne e l'etica di Berlinguer

di EUGENIO SCALFARI


IL MARCHIONNE intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.

Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l'operazione Chrysler con l'accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch'essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d'altra parte fu onesto nell'ammettere questa verità.

Previde anche - e lo disse - che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni. Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l'immagine "dopo Cristo" orami diventata famosa.

Di nuovo c'è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l'intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l'incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.

* * *

A Rimini l'amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi "mantra".

1. L'economia globalizzata impone che l'aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent'anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.

2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.

3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.

4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.

5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.

6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall'aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.

7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di "welfare" appropriati alle nuove regole.

Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un'ispirazione profondamente reazionaria.
Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo "campo di gioco" ma negherebbe con ciò l'evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.

* * *

Bisogna riconoscere  -  e per quanto mi riguarda l'ho scritto più volte  -  che l'economia globale comporta un trasferimento di benessere dall'area opulenta all'area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo. Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l'immigrazione dall'area povera all'area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all'interno dell'area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.

Siamo cioè  -  e non certo per libera scelta  -  di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l'eguaglianza. Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell'illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell'eguaglianza. Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l'eguaglianza sia la libertà.

* * *

Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica. L'intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c'è un punto che qui m'interessa cogliere: quando il ministro dell'Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d'una nuova politica economica. È vero, Berlinguer vide con trent'anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.

Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d'una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione. Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.

Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo. Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell'Economia ed è invece l'aspetto fondamentale. Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all'interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.

Questo è il punto che manca all'analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l'ha omesso la Marcegaglia. L'intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie. Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l'argomento che l'aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.

Grave errore: l'economia politica ha come tema centrale proprio quello dell'etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell'infelicità, della giustizia e del privilegio. Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.

(29 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/29/news/scalfari-6586986/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il fisco classista che blocca il Paese
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 06:03:12 pm
L'EDITORIALE

Il fisco classista che blocca il Paese

C'è una crisi dell'occupazione con 200 mila precari della scuola e 500 mila lavoratori a rischio.

Serve una manovra che punti ad un trasferimento tributario dalle fasce deboli a quelle opulenti

di EUGENIO SCALFARI


LA RECESSIONE e la crisi economica a w sono dunque scongiurate: parola di Bernanke e di Trichet, cioè dei due banchieri centrali più potenti dell'Occidente. I tassi del Pil e della produzione industriale (automobile escluso) vengono rivisti al rialzo sia in Usa che in Eurolandia. Insomma il peggio sarebbe passato anche se sono gli stessi Bernanke e Trichet a metter le mani avanti: sì, il peggio è passato, dicono, ma camminiamo tuttora su terre incognite, la crisi sociale è ancora davanti a noi, la ripresa c'è ma non è omogenea; inoltre è aumentata la disparità di intenti tra i governi e specie in Europa ogni paese va per conto suo, perciò non si può allentare la guardia.

Del resto, appena quindici giorni fa sia Bernanke sia Trichet in pubbliche dichiarazioni avevano affermato esattamente il contrario. Prevedevano rallentamento produttivo, rivedevano al ribasso i tassi del Pil sulle due sponde dell'Atlantico, temevano stasi degli investimenti e diminuzione dei consumi specie nei settori sensibili delle costruzioni, segnalando con preoccupazione le posizioni debitorie di molti paesi e gli effetti che avrebbero potuto avere sui mercati finanziari e monetari. Il minimo che si possa dire di queste tesi contraddittorie dei due massimi banchieri centrali è che la loro visione della realtà è alquanto confusa e l'arco delle loro divisioni è quanto mai oscillante. Non so se se ne rendano conto, ma il loro comportamento sta diventando grottesco, il barometro di cui dispongono sembra uno strumento impazzito dal quale forse è più saggio prescindere.
 
Chi invece non ha dubbi di sorta è il nostro ministro dell'Economia. Intervistato ieri da Repubblica dichiara senza esitazione che siamo fuori dalla crisi. Dai problemi no, ma dalla crisi sì. I problemi per Tremonti consistono nel coordinamento delle politiche economiche tra i governi europei. L'Europa è ancora un arcipelago ma è arrivato il momento che diventi un blocco continentale guidato da un unico cervello, cioè dal Consiglio dei ministri europei (Ecofin) di cui la Commissione di Bruxelles è l'organo esecutivo. L'Ecofin si riunirà domani e varerà questa trasformazione epocale: la nascita del cervello economico europeo cui spetterà il compito di tutelare la stabilità già in atto e di avviare su scala continentale la politica della competitività che consentirà all'Europa di competere con successo sia con l'America sia con i colossi emergenti dell'Asia.

Va da sé che il canone della competitività risiede soprattutto nella fine della lotta di classe e nell'accordo tra capitale e lavoro da realizzarsi azienda per azienda, contratto per contratto. La sorpresa finale nell'intervista del ministro a Massimo Giannini consiste nell'apertura a tutte le parti sociali e a tutte le forze parlamentari, dopo aver comunque ricordato che il governo Berlusconi durerà come minimo fino al 2013 e probabilmente anche di più. Ricapitoliamo: un'Europa ormai in marcia accelerata verso l'unità economica e politica; un'Italia che, a dispetto del suo enorme debito pubblico, viaggia in perfetta e solida stabilità; il traino della locomotiva tedesca, modello di riferimento per tutti; una riforma fiscale nel nostro paese che privilegi le famiglie, il lavoro, le imprese e sposti il prelievo dalle persone alle cose. Nel frattempo bisognerà abolire tutti i divieti e tutte le regole salvo quelli esplicitamente riconfermati. Così Tremonti e così secondo lui l'Europa. Restano però molto lacune in questo paesaggio dipinto di rosa, molti interrogativi ed anche qualche marchiano errore da correggere.

Per cominciare: l'Europa vive in un complesso mondiale e in particolare in un ambito occidentale dove gli Usa giocano una partita decisiva. A parte le montagne russe sulle quali continuano a viaggiare sia Bernanke sia Trichet, il dato certo consiste nell'enorme debito pubblico del governo americano, nel deficit fiscale che continua a gonfiarlo, nel lago di liquidità che la Fed dovrà incrementare per sostenere la ripresa e nel debito con l'estero altrettanto elevato e preoccupante. Washington per ora tira avanti su questa strada in attesa delle elezioni di medio termine del prossimo novembre, ma subito dopo dovrà fare delle scelte. Rigore e rientro del debito in proporzioni accettabili, diminuzione del deficit con l'estero, dollaro debole per scoraggiare le importazioni, oppure inflazione. Inflazione consapevole, inflazione voluta e manovrata per diminuire il peso dei debiti e svalutare i crediti.

Queste scelte, quali che saranno, non risparmieranno l'Europa la quale a sua volta dovrà affrontare in modi appropriati le decisioni americane. Chi deciderà le risposte europee? L'Ecofin, risponderebbe Tremonti. La Germania, risponde la realtà. Deciderà la Germania, concedendo alla Francia qualche compenso in termini di cariche nella gestione dell'Unione. Ma se questo non bastasse è molto improbabile che l'arcipelago europeo possa trasformarsi nell'auspicato blocco continentale. In realtà lo schema tremontiano sembra ancora scritto sull'acqua, in attesa di eventuali incognite che non dipendono dall'Europa e tantomeno dall'Italia.

Su quanto sta accadendo nel nostro paese la diagnosi del ministro dell'Economia è a dir poco parziale. C'è una crisi dell'occupazione che coinvolge soprattutto i giovani e i precari. C'è una crisi del Mezzogiorno. C'è una stasi nei consumi e negli investimenti. E non ci sono risorse disponibili. Ne ha parlato con lucida competenza Tommaso Padoa Schioppa in un'intervista a 24Ore di venerdì scorso, nella quale tra l'altro loda il rigore di Tremonti. L'intervistatore domanda: «In Italia c'è chi rilancia i tagli fiscali. è una ricetta possibile?». Risposta: «Quando si fanno proposte che invece di ridurre il deficit lo aumentano, mi piacerebbe che si spiegasse come si fa a mantenere i conti a posto. Altrimenti la risposta è «no». «Sembra di sentire Tremonti» commenta l'intervistatore. Padoa Schioppa risponde: «Tremonti è stato fin dall'inizio consapevole del fatto che l'Italia non aveva margini di manovra. E questo è un fatto positivo».

L'ex ministro dell'Economia di Prodi vede una continuità con la politica del suo successore, basata su un dato di fatto: l'Italia non ha margini di manovra. Ma è un dato di fatto immodificabile? In un paese che comunque si colloca tra i primi dieci paesi ricchi del mondo? Qual è la risposta e c'è una risposta plausibile? E una ricetta attuabile? Prima di affrontare questo tema è però opportuno fornire ancora una fotografia di quanto sta per accadere nelle prossime settimane, anzi nei prossimi giorni. Ci sono 200 mila precari nella scuola che per decisione del ministro Gelmini saranno lasciati col sedere per terra. Ci sono 500 mila lavoratori che si troveranno di fronte a problemi occupazionali molto complicati da risolvere. Infine, in attesa che sia nominato il titolare del ministero dello Sviluppo dopo quattro mesi di vuoto, il calendario dei tavoli di crisi aziendali che riguardano il destino di 14 mila lavoratori è affollatissimo. Tra questi segnalo il caso Eutelia, l'Ideal-Standard, lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, il caso Oerlikon, Indesit, Burani, Merloni e molti altri.Dal 7 al 23 settembre queste vertenze dovranno esser decise in un modo o nell'altro. Questo è il quadro. Tutto in ordine, ministro Tremonti? Fruttifera cooperazione tra capitale e lavoro sotto l'egida dell'intramontabile governo Berlusconi?

Le risorse ci sono, bisogna solo aver voglia di trovarle. La prima via da perseguire riguarda la lotta contro l'evasione che in gran parte si identifica con il mercato sommerso. Dette i primi risultati quando il fisco era nelle mani di Vincenzo Visco, adesso continua a darne: nell'esercizio in corso siamo nell'ordine di nove miliardi di recupero, non è poco ma in queste dimensioni somiglia a una goccia d'acqua nel mare anche perché al recupero dell'evasione esistente fa da controfaccia un'evasione nuova è aggiuntiva, sicché lo stock che si sottrae al fisco rimane più o meno immutato.

La seconda strada da percorrere per recuperare risorse consiste nella lotta contro gli sprechi. Qui ci sarebbe molta polpa, gli impieghi improduttivi rappresentano una quantità ingente della spesa pubblica e i tagli disposti nelle leggi finanziarie 2009 e 2010 avevano infatti questa motivazione. Il metodo adottato tuttavia è stato piuttosto infelice. I tagli ai ministeri sono stati disposti in modo lineare, sicché sono state penalizzate nella stessa proporzione sia spese improduttive sia spese necessarie che anzi avrebbero dovuto essere accresciute. Quanto ai tagli su personale, la scelta di spremere gli impiegati pubblici fu giustificata dal fatto che gli aumenti stipendiali ottenuti in passato erano maggiori di quelli ottenuti dagli impiegati privati. Giustificazione assai difficile da provare e comunque contestatissima. L'insieme di queste misure non ha recuperato molto in fatto di sprechi ma abbassando il livello complessivo della spesa ha comunque compresso ulteriormente la domanda interna con effetti visibili sui consumi. Altri effetti depressivi provengono dal taglio dei trasferimenti ai Comuni e alle Regioni, con conseguenze sulle tasse locali e sulla qualità dei servizi.

Esiste infine una terza strada da percorrere per recuperare risorse ed è un trasferimento del carico tributario dalle fasce deboli alle fasce opulenti e dal reddito al patrimonio. In un paese dove le diseguaglianze sono enormemente aumentate negli ultimi vent'anni, un'operazione del genere dovrebbe esser fatta ma la casta politica fa finta che sia impraticabile. Diciamo che non è popolare perché colpirebbe in modo continuativo le corporazioni più potenti, le clientele più spregiudicate e una fascia di elettori preziosa per l'attuale maggioranza. La verità è che la politica fiscale in atto ha connotati tipicamente classisti, colpisce in basso anziché in alto ed ha di fatto trasformato la progressività fiscale in una vera e propria regressività, con tanti saluti al principio costituzionale. Eppure una modifica fiscale nel senso d'un ritorno al principio della progressività contribuirebbe fortemente al rilancio della domanda e della crescita. Contribuirebbe altresì al taglio effettivo degli sprechi e all'aumento della competitività. Però non sta scritta nelle tabelle di questo governo, perciò fino a quando non ci saranno mutamenti politici sostanziali la finanza e la fiscalità classiste resteranno inalterate, con buona pace per chi sostiene che la lotta di classe non esiste più.
 

(05 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/09/05/news/fisco_class-scalfari-6769634/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché il Cavaliere non vuole più le elezioni
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2010, 04:07:12 pm
L'EDITORIALE

Perché il Cavaliere non vuole più le elezioni

In caso di risultato incerto del voto ci vorrebbe un governo di unità nazionale.

Ma il primo ministro non potrebbe più essere Berlusconi

di EUGENIO SCALFARI


SI DIMETTERA' oppure no? Gli voteranno contro o troveranno un compromesso per tirare avanti e guadagnar tempo? Napolitano sarà costretto a sciogliere le Camere oppure troverà una maggioranza alternativa per non strozzare un'altra volta la legislatura come già accadde con la crisi del governo Prodi?
Mentre scrivo sembra che tutto stia volgendo al meglio, almeno dal punto di vista di chi vede (e noi siamo tra questi) lo scioglimento anticipato del Parlamento come una iattura. Prima di procedere oltre spiego perché.
Anzitutto l'economia. Mi aveva stupefatto - lo confesso - la tranquillità con la quale pochi giorni fa il ministro Tremonti aveva pubblicamente affermato che l'economia e la finanza pubblica italiana erano completamente salvaguardate e blindate e che quindi una campagna elettorale anticipata non avrebbe procurato alcun danno.
Un'affermazione del genere fatta dal titolare di un ministero che tra la fine di settembre e i primi di dicembre vedrà scadere e dovrà rinnovare circa 160 miliardi di titoli di Stato e sul quale incombe uno stock di debito pubblico che ha superato il 117 per cento del Pil, dimostra un senso di responsabilità molto leggero.
Ma quella leggerezza si trasforma addirittura in irresponsabilità se si pensa ai probabili risultati di elezioni anticipate. Quand'anche la coalizione Pdl-Lega vinca con questa legge le elezioni alla Camera, resta assai alta la possibilità che le perda al Senato.

Questa è una delle ragioni particolarmente presenti al Capo dello Stato: l'ingovernabilità di una legislatura con maggioranze diverse tra una Camera e l'altra. È incredibile che un pensiero analogo non abbia neppure sfiorato il ministro dell'Economia.
Ma c'è un altro elemento ancora che avrebbe dovuto allarmarlo fin dall'inizio di quest'assurda girandola di fuochi d'artificio: uno scioglimento anticipato della legislatura che avvenisse entro ottobre per poter votare prima della fine dell'anno, interromperebbe la sessione di bilancio dedicata all'approvazione della legge finanziaria. Il bilancio dello Stato andrebbe in esercizio provvisorio e ci resterebbe fino all'entrata in carica di un nuovo governo, il che significa da ottobre fino a febbraio nel migliore dei casi.
Tremonti sa, come tutti noi sappiamo, che quei quattro o cinque mesi di esercizio provvisorio sarebbero un pascolo pingue per la speculazione internazionale contro i titoli pubblici italiani e contro l'euro e aprirebbero nelle maglie di Eurolandia un buco ben più grave del temuto "default" della Grecia.
In una tardiva dichiarazione di mercoledì scorso finalmente anche Tremonti ha dichiarato di esser contrario allo scioglimento anticipato. Ha aspettato che lo dicesse Bossi. Non è proprio questo un teatro dei pupi?

* * *

Il teatro dei pupi, del resto, sta dilagando in tutta la politica italiana. Qualche esempio di questi giorni per tener sveglia la nostra spesso latitante memoria.
1. All'indomani del discorso di Fini a Mirabello, Berlusconi e Bossi dichiararono che avrebbero portato il caso Fini dinanzi al presidente della Repubblica cui avrebbero chiesto di obbligare Fini a dimettersi da presidente della Camera.
2. Il Capo dello Stato ha precisato dal canto suo che i presidenti di Camera e Senato non possono essere sfiduciati da nessuno e restano in carica per tutta la legislatura salvo che siano essi stessi a dimettersi.
3. Berlusconi e Bossi hanno reiterato la loro intenzione di sollevare il caso Fini al Quirinale.
4. Tutta la stampa italiana e tutti i giuristi, Costituzione alla mano, hanno definito Berlusconi, Bossi e i loro fedeli seguaci come altrettanti analfabeti costituzionali.
5. Berlusconi ha dichiarato che la volontà a lui attribuita di voler sollevare il caso Fini dinanzi al Quirinale è una delle tante falsità della stampa italiana e si è rimangiato tutto chiudendo la questione. Non è la prima volta e purtroppo non sarà l'ultima.
6. Nel frattempo tutto l'apparato berlusconiano e leghista è stato mobilitato per affrontare le elezioni entro la fine dell'anno. Il ministro dell'Interno leghista Maroni ha indicato il 27 e 28 novembre come la data probabile; il ministro della Semplificazione Calderoli ha spostato la data al 3-4 dicembre. Tutti e due evidentemente se ne infischiano delle prerogative del Capo dello Stato in materia di scioglimento anticipato delle Camere.
7. Berlusconi nel frattempo si è rivolto ai suoi "legionari della libertà" allertandoli per votazioni immediate entro l'anno per prendere contropiede sia Fini sia i partiti d'opposizione. Ma resta il problema di come mettere fine a questo Parlamento.
8. Il presidente del Consiglio esclude le sue dimissioni. Non vuole che la gente pensi che sia lui il responsabile di quella morte anticipata.
9. Bossi è stufo di queste lentezze e annuncia che sarà la Lega a votare la sfiducia al governo ammazzando così il Parlamento. Per chiudere in bellezza quell'annuncio fa una sonora pernacchia al microfono in stile Totò e la dedica a Fini.
10. Sia Berlusconi sia Bossi sia Tremonti dichiarano tra martedì e mercoledì scorso che non vogliono affatto le elezioni immediate e cercheranno invece di governare al meglio nonostante i finiani. Naturalmente se le Camere voteranno la fiducia al programma berlusconiano che sarà presentato al Parlamento il 28 di settembre.
Non è un teatrino di pupi? Un dire oggi cosa diversa ed anzi opposta a quella detta ieri ed a quella che sarà detta domani su questioni del massimo rilievo? È questo il modo di infondere negli italiani fiducia nella politica e nelle istituzioni?

* * *

Nel frattempo Berlusconi cerca un manipolo di ascari che rafforzi la sua pericolante maggioranza e dia fiducia al programma quando lo esporrà a fine mese alla Camera.
La ricerca finora si è indirizzata verso tre o quattro cani sciolti del gruppo misto e verso Raffaele Lombardo detto il siciliano che ne controlla altri otto. Ci sono poi quattro deputati eletti nelle liste del Pdl ma iscritti fin dall'inizio in un gruppo chiamato "Noi-Sud" per confondersi con l'"Io-Sud" della Poli Bortone. In sostanza si tratta di contare due volte una manciata di trasformisti di professione che hanno sempre votato Berlusconi e che ora si ripresentano mascherati da autonomi che tornano alla casa madre. Voteranno la fiducia al governo con i finiani. La prova che il governo ha in suo rinforzo questo gruppetto dunque non si avrà.
Resta da spiegare per quale ragione Berlusconi si è improvvisamente convinto ad evitare le elezioni anticipate anziché volerle a tutti i costi subito come pensava e diceva appena pochi giorni fa. Ebbene la ragione è chiara: c'è il rischio di perdere la maggioranza al Senato.
Questo rischio è reale anche con l'attuale e pessima legge elettorale. Il risultato dipende dalla probabile alleanza elettorale tra Fini e Casini in alcune Regioni-chiave come la Sicilia, la Campania, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte. In queste Regioni l'accoppiata Fini-Casini potrebbe ottenere la vittoria o favorire quella del centrosinistra togliendole comunque a Berlusconi e realizzando al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera.

In tal caso si renderebbe necessario un governo di quelli che si chiamano di "unità nazionale" che veda unite insieme tutte le maggiori forze politiche presenti in Parlamento. Un governo cioè del tipo delle "grosse coalizioni" tedesche, che potrebbe nascere soltanto se il nuovo presidente del Consiglio fosse persona diversa da Berlusconi, il quale diventerebbe semplicemente un deputato leader di un partito importante ma in fase - a quel punto - di un sommovimento interno di incalcolabili esiti. Per cinque anni in questa condizione e senza più alcuno scudo che possa difenderlo dai processi in corso.

Il rischio per Berlusconi è insomma enorme e per questa ragione egli farà di tutto per scongiurarlo. Ci riuscirà? Accetterà di essere cotto a fuoco a lento per due anni e mezzo? E come reagirà l'opinione pubblica, le categorie sociali più colpite dalla crisi, i giovani, le forze politiche d'opposizione? Come reagirà la Lega che scalpita per incassare l'incremento di voti tolto nel Nord al Pdl?
Queste sono le domande dei prossimi mesi. Diciamo: tutto a posto, niente in ordine, proprio così dopo 15 anni di anomalia berlusconiana.
 

(12 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/12/news/perch_il_cavaliere_non_vuole_pi_le_elezioni-6990072/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Fini, D'Alema e la nuova destra
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:11:37 pm
Fini, D'Alema e la nuova destra

di Eugenio Scalfari

Liberali, riformisti, centristi, moderati, conservatori, progressisti: oggi tutti dovrebbero contribuire a eliminare quella suburra fatta governo chiamata berlusconismo. Per confrontarsi dopo sulla via migliore per ottenere il bene comune

(10 settembre 2010)

Massimo D'Alema ha sempre sostenuto che la sinistra e perfino il centrosinistra sono sempre stati in minoranza in Italia. Il nostro è un Paese il cui cuore batte a destra, perciò bisogna praticare l'acrobazia per portare la sinistra al governo.

Ha torto o ha ragione? La questione, non nascondiamocelo, è piuttosto complicata ed è diventata più attuale che mai dopo il discorso di Gianfranco Fini, il 5 settembre a Mirabello. Quel discorso è stato molto importante sia dal punto di vista dei contenuti sia per il linguaggio. L'ho ascoltato in diretta televisiva e mi ha ricordato l'arringa di Cicerone, quella che comincia con la famosa frase dell'"usque tandem". "Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?", fino a quando abuserai della nostra pazienza? Perciò sono rimasto perplesso leggendo su un giornale che uno dei finiani più combattivi, mi pare fosse Granata, voleva regalare ai militanti convenuti a Mirabello il discorso tenuto da Catilina ai suoi seguaci la vigilia della battaglia di Fiesole, dove lo stesso leader ribelle trovò la morte e i suoi compagni furono massacrati dalle legioni romane. Non il discorso di Catilina doveva regalare, ma l'"usque tandem" di Cicerone. Ciò detto torniamo al tema.

Fini si propone di dar vita ad una destra nuova di zecca: un partito liberale di massa. Repubblicano. Nazionale. Costituzionale. Ma poi, continuando a specificare sempre meglio l'oggetto del suo sogno politico, ha aggiunto altri aggettivi. Esattamente questi: riformista, sociale, federalista ma fortemente unitario, liberista ma con interventi robusti dello Stato in politica industriale, europeista e favorevole all'Unione economica e politica dell'Europa. Infine: cattolico ma coraggiosamente laico.
Si può definire di destra un partito con queste caratteristiche? La questione è ardua. Per quanto mi riguarda ne dubito. Il primo dubbio mi sorge dalla definizione del nuovo movimento-partito: liberale di massa. L'Italia sarà pure, come dice D'Alema, strutturalmente di destra, ma liberale certamente no. Il grosso degli italiani non è mai stato liberale se per liberale si intende chi capisce la necessità di darsi delle regole che tutelino l'interesse generale e la necessità di rispettarle. La necessità che il fisco sia equo ma che le tasse siano pagate. La necessità che la legge sia veramente eguale per tutti. La necessità che vinca il merito e non la furbizia, che le raccomandazioni siano un demerito, che le clientele vengano sciolte e le corporazioni contenute, che i deboli siano messi in condizione di competere con i forti con pari opportunità. C'è perfino un ministero di questo nome ma si è sempre occupato di questioni marginali mentre dovrebbe essere il ministero più importante di tutti. Perciò un partito liberale di massa non è mai esistito. Non solo in Italia ma in tutta Europa, in Gran Bretagna, in Germania, in Francia, in Spagna, in Scandinavia. Minoranze liberali sì, maggioranze mai, almeno da quando esiste il suffragio universale.
Faccio queste riflessioni non già per criticare la sortita di Fini e neppure le opinioni in proposito di D'Alema, ma per inquadrarle in una cornice realistica. Una destra costituzionale, nazionale, democratica come quella tratteggiata da Fini sarebbe (sarà, io spero) un importante passo avanti per il nostro Paese e la fine dell'anomalia berlusconiana che ci blocca da quindici anni, ma non potrà certo aspirare alla conquista della maggioranza degli italiani.

Analogo discorso - e su questo D'Alema ha ragione - si può fare per la sinistra e per il centrosinistra. Il bipolarismo visto coerentemente come bipartitismo, è dunque impossibile?
Credo di sì, credo che sia impossibile. Non è impossibile invece assumere il riformismo come elemento politico e culturale discriminante all'interno di un quadro che abbia la costituzione e le regole come valori condivisi. Esiste un riformismo con connotati di sinistra e un riformismo con connotati moderati. Il riformismo non è un partito ma un elemento dominante, un fatto culturale. Prendete i partiti americani. I democratici sono strutturalmente riformisti ma ospitano anche una minoranza di conservatori; i repubblicani sono conservatori ma ospitano una minoranza di riformisti. Il mondo globale è complesso e la geometria euclidea ha fatto il suo tempo.

Non si scoraggi D'Alema: il riformismo di sinistra può competere ed anche vincere la sfida. Ed anche la nuova destra costituzionale di Fini o il centrismo di Casini o una loro alleanza possono competere e vincere. L'importante è scrivere insieme le regole del gioco avendo di mira il bene comune. Al primo punto del bene comune c'è oggi l'eliminazione dell'anomalia berlusconiana. Dell'impunità fatta legge. Della suburra fatta governo. Tutto il resto viene dopo.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fini-dalema-e-la-nuova-destra/2133970/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La sinistra divisa tra realisti e sognatori
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2010, 06:24:52 pm
La sinistra divisa tra realisti e sognatori


di EUGENIO SCALFARI


ROMA - Prima (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché  -  ne sono certo  -  non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all'Auditorium di Roma tre serate di grande successo: "Le cose sono quello che sono. Un'arancia è un'arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade". Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.

Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell'Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché  -  come lui stesso ha detto  -  metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un'etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d'essere italiano.

Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell'Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto  eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d'Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all'anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici,  l'evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell'industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un'arancia è un'arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.

Fatte queste premesse, oggi è d'obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all'opposizione nei confronti dell'anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt'altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché? Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell'amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.

* * *

I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l'11 e il 12,  il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7. La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un'arancia è un'arancia.

Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e  -  a guardar bene  -  neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all'area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi. Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un'aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia. Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi  -  incredibile a dirsi  -  invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne. Questa comunque è la situazione.

* * *

Quello che con un po' di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.
I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.

   Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c'è stato oppure è stato parziale e generico.
Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l'occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell'economia e dei consumi, la lotta all'evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.

 Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d'altro. Non si sa bene di che cosa. E poi c'è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest'intreccio che anima l'intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici. Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.
Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un'ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.

* * *

Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C'è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po' sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po' malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.

Ma Vendola è un'altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c'è dubbio. Il suo strumento è la parola, l'affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c'è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore.

Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo  il punto. Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un'alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.

Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent'anni all'opposizione sfrangiandosi un anno dopo l'altro. Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l'8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.

* * *

Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.
Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l'eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l'equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l'analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.

L'ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l'area dell'indifferenza e dell'assenteismo che i sondaggi hanno quantificato. Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.

Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all'identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.

(19 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/19/news/la_sinistra_divisa_tra_realisti_e_sognatori-7215469/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nord e Sud, la tagliola di Bossi
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2010, 06:32:14 pm
Nord e Sud, la tagliola di Bossi

di Eugenio Scalfari

Le Lega confonde il federalismo con il disprezzo di tutto ciò che le appare diverso e con l'umiliazione delle minoranze. Invece redistribuire i poteri sarebbe una cosa seria, se viene fatto per il bene comune

(24 settembre 2010)

Renzo e Umberto Bossi Renzo e Umberto BossiMi capita assai di rado di colloquiare con qualche collega editorialista di altri giornali in questa mia rubrica di "vetro soffiato". Se non ricordo male mi è accaduto con Galli della Loggia, Giuliano Ferrara e Luca Ricolfi ed è ancora con lui che colgo questa volta l'occasione di dialogare. Per alcune sue recenti dichiarazioni nella trasmissione "Otto e mezzo" e per l'articolo da lui pubblicato sulla "Stampa" del 19 settembre sul federalismo.

Nella trasmissione della Gruber Ricolfi ha delineato una sua concezione del giornalismo piuttosto singolare. Più che del giornalismo, una sua concezione delle notizie. Secondo lui le sole e vere notizie degne d'esser pubblicate con la dovuta evidenza sarebbero: i provvedimenti importanti della pubblica amministrazione, i risultati conseguiti dalle imprese e i fatti che le riguardano, gli analoghi eventi che avvengono nell'area internazionale e i sinistri naturali di qualche rilievo.

La cronaca non interessa, le dichiarazioni dei politici meno ancora, la vita politica nel suo complesso va mandata in soffitta e così pure le prese di posizione degli imprenditori, dei sindacati e di chiunque voglia esprimere le sue idee sul cosiddetto bene comune. I giornali insomma, se ho ben capito, dovrebbero essere la bella (o la brutta) copia della "Gazzetta Ufficiale": leggi e ordinanze con in più i bilanci delle imprese, i contratti dei sindacati e l'analisi dei risultati. Via tutto ciò che si può dichiarare "immateriale", cioè il punto di vista di chi ha una responsabilità operativa o anche soltanto culturale. Insomma, i numeri primi sì, il racconto no, troppo arbitrario, troppo suggestivo, poco neutrale. A Luca Ricolfi non piace.

Naturalmente Luca (lo chiamo per nome perché lo conosco da quando era bambino e per questo gli voglio bene) non ignora che il giornalismo è stato fin dalla sua nascita il racconto della realtà, la sua narrazione, ancorata ai fatti e alle idee ma inevitabilmente guardata dal punto di vista dal quale quel giornale e quel giornalista guardano. Con l'obbligo di mantenere la propria indipendenza e soprattutto di dichiarare quale sia il punto di vista dal quale stanno guardando.
E Luca sa anche che le società contemporanee in tutti i paesi del mondo sono civiltà mediatiche. Sicché ragionare come se non lo fossero è un'ideologia utopistica: il cantiere nel quale operiamo fornisce quel tipo di mattoni e non altri.

L'articolo del 19 scorso affronta invece il tema del federalismo. Lo affronta, anche in questo caso, in un modo alquanto anomalo. Scrive Ricolfi che la sorte del federalismo è nelle mani del Sud. Infatti il Nord vota tradizionalmente a destra ed è federalista, il Centro vota tradizionalmente a sinistra ed è statalista, il Sud di volta in volta cambia il suo voto, oscilla e quindi decide a chi dare la vittoria, se al Centro rosso o al Nord bianco, anzi verde per via della Lega.

Importante, secondo Luca, sarebbe che nel Sud prevalessero quegli elettori che vogliono accettare la sfida del federalismo (e ce ne sono) migliorando le proprie capacità produttive, tagliando gli sprechi, diventando economicamente e civicamente virtuosi. Se questo avverrà sarà un gran bene per il Sud e per l'Italia; se non avvenisse il Nord ne trarrà le conseguenze perché non può più permettersi di mantenere i vizi e la pigrizia del Sud.
Questa visione parte da una concezione molto schematica: un Nord di destra e federalista, un Centro di sinistra e statalista, un Sud oscillante. Può forse essere una fotografia dell'oggi ma non un processo storico. Il Nord (Luca è torinese e lo sa bene) fu il motore del centralismo italiano; spesso ha votato più a sinistra che a destra, mentre il Sud purtroppo è stato il luogo delle clientele oltreché delle mafie.
Le virtù del Nord sono indiscutibili, ma i vizi che ha - come tutti - lo sono altrettanto. Il Nord ha con una mano mantenuto il Sud mentre con l'altra mano si è ripreso i suoi denari più gli interessi. La nostra storia nazionale è stata interamente dominata da questo contrasto.

   
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La macchina da guerra che schiaccia il dissenso
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:25:36 am
L'EDITORIALE

La macchina da guerra che schiaccia il dissenso

di EUGENIO SCALFARI

Da un lato Gianfranco Fini e la famiglia Tulliani, dall'altro il comunicato di un ministro della Giustizia dell'isola caraibica di Santa Lucia, i giornali della famiglia di Silvio Berlusconi e lo stuolo di "aiutanti" che si sono prodigati per incastrare il presidente della Camera.

La posta dello scontro è la distruzione politica dell'uno o dell'altro con le conseguenze che possono derivarne per tutto il paese. Esamineremo tra poco queste conseguenze, ma prima dobbiamo mettere a fuoco il video con il quale Fini si è ieri sottoposto al giudizio dell'opinione pubblica nazionale e internazionale.

A tale proposito e a titolo di premessa anticipo una riflessione: la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal "Giornale" di Feltri. Il presidente della Camera disse allora con una pubblica dichiarazione (e l'ha ribadito nel video di ieri) che nulla aveva mai saputo fino a quel momento della vicenda concernente l'abitazione di Montecarlo a suo tempo venduta ad equo prezzo (secondo le valutazioni di allora) da Alleanza nazionale che ne era proprietaria. Aggiunse che il coinvolgimento di suo cognato in quella vicenda gli aveva causato un forte disagio. Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani. Comprendiamo benissimo che un comportamento del genere implicava non solo interessi ma soprattutto sentimenti, ma la responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato.

Si parla spesso (e non sempre a proposito) dell'autonomia della politica. Ma questo concetto non può essere invocato soltanto per rivendicare i diritti, bensì anche i doveri che l'autonomia della politica impone a chi ne è protagonista. Fini non separò le sue responsabilità da quelle della famiglia. È stato un grave errore che ha purtroppo aperto la strada ad un imbarbarimento senza precedenti del quale Fini è stato al tempo stesso inconsapevole artefice e vittima, di fronte alla spregiudicatezza estrema del suo avversario sulla quale nessuno che lo conosca poteva aver dubbi. Chi ne ha sofferto il danno maggiore sono state le istituzioni della Repubblica e il danno non ha ancora terminato di generare i suoi effetti.
Ciò detto esaminiamo la risposta del presidente della Camera.

* * *

La risposta, cioè la verità di Fini, ribadisce i seguenti punti: Fini nulla sapeva. Apprese solo un mese fa che suo cognato era affittuario dell'appartamento di Montecarlo. Mostrò disagio, ebbe una violenta lite in famiglia, invitò il cognato a disdire il suo contratto di locazione e ancor oggi ha ripetuto l'invito con molto vigore.

Suo cognato continua a smentire privatamente e pubblicamente di essere non solo il locatario ma anche il proprietario dell'appartamento in questione. Fini ne prende atto ma dubita che il cognato dica la verità. Se sarà accertato dalla magistratura o da altra fonte ufficiale che suo cognato ha mentito e gli ha mentito, darà le dimissioni da presidente della Camera non perché abbia una responsabilità in quanto è accaduto ma per rispetto dell'etica pubblica che gli sta particolarmente a cuore. Contro di lui è partita una vergognosa campagna di killeraggio nel momento in cui ha manifestato un legittimo dissenso politico rispetto alla linea del partito di cui è stato cofondatore. Questa campagna è stata condotta da giornali di proprietà della famiglia Berlusconi e da televisioni asservite ai suoi ordini e ai suoi interessi.

Tali metodi sono stati adottati non solo contro di lui ma contro chiunque dissenta dalla voce del padrone. Questa è una gravissima ferita inferta alla democrazia. Riconosce d'aver commesso qualche ingenuità. Ma nessun reato è stato compiuto da nessuna delle persone implicate in questa vicenda nella quale non sono in gioco soldi pubblici e interessi della pubblica amministrazione. Infine per quanto lo riguarda non ha alcuna responsabilità in una vicenda privata che riguarda un appartamento di 50 metri quadrati.
Fin qui il video-messaggio del presidente della Camera il quale ha accompagnato queste sue dichiarazioni sui fatti ad una durissima requisitoria contro lo stile di governo e l'atmosfera di killeraggio che è diventata purtroppo una nota dominante e può colpire chiunque dissenta dal potere berlusconiano.
Oltre a prendere atto delle affermazioni di Fini, molte delle quali sono a nostro avviso pienamente condivisibili, bisogna anche leggerne in controluce alcuni passaggi.
Soprattutto quello che riguarda la sua "ingenuità" e la lite in famiglia quando alcuni fatti compiuti sono arrivati a sua conoscenza.

Abbiamo già scritto all'inizio che l'ingenuità - evidentemente connessa ai sentimenti più che ad un attento esame dei fatti - comporta un prezzo da pagare. Fini si è impegnato a pagarlo con le dimissioni se il fatto della proprietà del cognato (che non è un reato) sarà accertato.
Questa posizione è fragile. Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data. Lo stesso Fini dice di dubitare della parola di Tulliani. Sarà quindi difficile che resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà.

Resta un problema che ci porta ad esplorare che cosa è veramente accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni. È accaduto ciò che sappiamo da tempo e che siamo in grado di prevedere in anticipo: la macchina da guerra berlusconiana entra in funzione per colpire il dissenso e per proteggere gli amici e gli amici degli amici. Se Fini si fosse sottoposto, la macchina da guerra contro di lui non avrebbe colpito. Ma per difendere Cosentino da ben altre colpe la macchina da guerra berlusconiana si è mossa, togliendo dalle mani dei giudici un elemento decisivo per le sorti del giudizio, cioè le intercettazioni dalle quali emergerebbe la prova dei legami tra l'imputato e le cosche camorristiche. Quell'elemento non soltanto non sarà reso noto alla pubblica opinione ma non potrà essere utilizzato in processo, per i giudici sarà come se non sia esistito.
A questo risultato la macchina da guerra è arrivata con l'intimidazione, le promesse, le lusinghe, la compravendita delle persone e del loro voto. Si parla molto di trasformismo, ma non è soltanto di questo che si tratta.
Il trasformismo è un vizio antico delle democrazie, in Italia particolarmente diffuso. Il voto di scambio, ottenuto attraverso la concessione di benefici o la minaccia di ritorsioni, è invece un reato previsto dal codice penale e come tale andrebbe perseguito.

Per concludere su quanto è accaduto a Palazzo Grazioli e dintorni: il caso Fini ha dimostrato per l'ennesima volta la natura del potere berlusconiano che si regge sullo slogan "o con me o contro di me", sul belante ritornello del "meno male che Silvio c'è" e sul dossieraggio ricattatorio come pratica di governo.

* * *

Le conclusioni di questa avvilente vicenda mi sembrano le seguenti: le elezioni si allontanano di qualche mese ma non di più. La legge elettorale resterà quella che è, strumento formidabile di pressione e corruzione. Le ipotesi di un terzo polo si fanno evanescenti perché anche Casini è nel mirino della macchina da guerra berlusconiana che alterna nei suoi confronti lusinghe e minacce. Berlusconi imporrà al Parlamento la legge sul processo breve e ritirerà fuori quella sulle intercettazioni.

Intanto l'economia è ansimante, la coesione sociale è a pezzi e nessuno se ne dà carico. Un bilancio che dire sconfortante è dir poco.

(26 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'amore romantico e quello libertino
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2010, 05:03:52 pm
L'EDITORIALE

L'amore romantico e quello libertino

di EUGENIO SCALFARI

FINALMENTE un felice giorno di tregua politica. Il governo ha incassato un voto di fiducia sui cinque titoli del suo programma; i finiani sono determinanti alla Camera; Berlusconi continua a lanciare insulti alla magistratura, a collezionare barzellette sconce da ogni punto di vista e a magnificare il suo ruolo di demiurgo della politica mondiale; l'opposizione è unita e aggressiva.

Insomma, soddisfazione per tutti e avanti finché durerà. Durerà poco, penso io, ma forse mi sbaglio. Il solo legittimamente preoccupato è Belpietro, direttore di Libero, che ancora non conosce la verità sulla causa delle sue preoccupazioni. Gli invio la mia convinta e doverosa solidarietà.

Posso dunque dedicarmi oggi al tema dell'amore, come avevo promesso ai nostri lettori. Non è un tema peregrino. In una società agitata da guerre, terrorismo, crisi economica, egoismi feroci, l'amore sembra un sentimento quasi scomparso. Le donne, che dell'amore rappresentano l'elemento cardine, sono vilipese e usate come è sempre accaduto; la loro emancipazione che sembrava ormai conquistata anche se ancora parziale e imperfetta, sta regredendo e molte di loro non si oppongono più, anzi sembrano felici di collaborare a questo "richiamo all'ordine" che va tutto a loro detrimento. Perciò riflettere sull'amore è un tema di stretta attualità. Umberto Veronesi, in un bel libro uscito in questi giorni, è del mio stesso avviso ed arriva addirittura ad augurarsi una qualche forma di matriarcato.

Sostiene che la famiglia a direzione maschile diseduca le donne. Proprio perché sono l'elemento debole di fronte alla cultura maschile tuttora dominante, l'educazione che ricevono le sospinge a far propri i valori di competizione che sono tipici del maschio. Quelle che riescono ad emanciparsi e a raggiungere posizioni di spicco hanno introitato l'immagine della virago e fanno concorrenza agli uomini sul loro stesso terreno.

Bisognerebbe dunque  -  scrive Veronesi  -  che la loro educazione avvenisse in famiglie culturalmente orientate da valori femminili: l'amore  -  appunto  -  la pace, la solidarietà, la comprensione. Non ha torto, Veronesi, anche se l'attuale temperie in tutto il mondo sta procedendo nella direzione opposta.

L'amore però è una parola che esprime una quantità di sentimenti. Ha una sua mitologia, un suo approccio religioso, una sua poetica ed anche una sua storia. Di tempo in tempo e di luogo in luogo, quella parola ha avuto significati diversi e spesso opposti l'uno all'altro.

Questo è dunque il tema sul quale mi sembra opportuno fare chiarezza per poter meglio colmare un'evidente lacuna che affligge le nostre società, quelle ricche e quelle povere, ad Occidente e a Oriente del mondo.

 *  *  *

Le civiltà antiche  -  e qui mi limito a parlare di quelle mediterranee che più da vicino ci riguardano  -  non conoscevano il "privato". Gli uomini si realizzavano nella "polis" della quale la famiglia e la tribù costituivano le cellule. L'amore faceva parte dei valori familiari, incoraggiati e protetti dagli dei del luogo. Si amavano i genitori, si amavano i fratelli e le sorelle, si amava la sposa, fonte di procreatività. Le tavole mosaiche contengono la normativa più antica dell'amore familiare: "Onora il padre e la madre. Non commettere atti impuri. Non desiderare la donna d'altri". Il destinatario di queste norme è il maschio, la donna resta in una zona d'ombra ma è anch'essa colpevole dell'eventuale trasgressione.

Naturalmente i sentimenti amorosi finivano, allora come oggi e come sempre, anche al di fuori del recettacolo familiare, ma era un fatto privato e quindi del tutto irrilevante. Se però diventavano una sfida contro la famiglia l'irrilevanza diventava colpevolezza e veniva repressa con la massima severità.

Non è un caso che la guerra delle guerre, quella di Troia, scoppia a causa del tradimento di Elena e della sua fuga con Paride. È un pretesto, si sa. Simboleggiò lo scontro tra la civiltà achea e quella medio-orientale. Ma il pretesto dello scontro è la violazione dell'amore familiare e il ritorno di Elena a casa con il marito Menelao sancisce che l'ordine violato è stato ripristinato.

Nello stesso ambito leggendario il teatro greco racconta la vendetta di Elettra e di Oreste contro l'uccisore del loro padre e contro la loro madre che ne era stata l'amante durante la sua assenza da Argo.

C'è, al fondo di questa tragedia, l'ombra d'un sentimento incestuoso che si coglie nell'amore quasi morboso tra il fratello e la sorella vendicatori. L'incesto del resto rappresenta un elemento spesso presente nell'amore familiare; Edipo e il suo destino ne costituiscono il fondamento, non a caso recuperato da Freud come uno degli elementi fondanti della psicologia del profondo.

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Il carattere "pubblico" e familiare dell'amore dura molto a lungo e scavalca i secoli. Neppure il Cristianesimo riesce ad intaccarlo.

La predicazione di Gesù tramandataci dai Vangeli è intrisa di amore e questa è la grande innovazione rispetto al monoteismo ebraico che descrive il dio biblico come il condottiero del suo popolo, ancorato alla severità della Legge.

Il dio dei Vangeli è giusto ma soprattutto misericordioso e non si identifica con un popolo. Si rivolge a tutte le persone, ne riscatta la dignità, esalta i deboli e i poveri che saranno i primi a varcare la soglia della beatitudine. Parifica tutte le persone quando entreranno nel regno dei cieli, le donne come gli uomini, gli schiavi come i loro padroni. Ma sulla terra le istituzioni restano quelle che sono. I cristiani sono animati dalla fede e dalla speranza; il male e l'odio vanno ripagati dall'amore. E l'amore è la "caritas", indirizzata verso tutti, verso il prossimo, verso i nemici.

L'amore tra uomo e donna dà luogo alla famiglia, viene santificato nel sacramento del matrimonio, indissolubile con i vincoli della fedeltà e l'obiettivo della procreazione.

Si tratta dunque d'un amore che sale dai coniugi verso Dio e si santifica attraverso i figli e la loro educazione cristiana. La "pubblicità" dell'amore rimane dunque intatta, con una differenza essenziale rispetto al politeismo pagano: la "caritas" diventa il fondamento della religione. Paolo e Agostino arrivano a farne un valore addirittura più importante della stessa fede.

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La cultura medievale inventa un altro tipo di amore: l'amore cortese, cantato dai trovatori nei castelli e portato in giro per l'Europa della lingua occitana e dell'italiano volgare.

Lo "stil novo" vagheggia amori immaginari e figure di amati e di amanti stereotipi. Di qui sorge la malinconia che occhieggia nei versi del Guinizelli e diventa sostanza poetica nel Cavalcanti, nel Dante della "Vita Nova" e nel Petrarca.

Ma accanto all'amore cortese si affaccia quello licenzioso del Boccaccio e più tardi di Machiavelli della "Mandragola" e dell'Aretino. Sono i primi segnali del "privato" ma ci vorranno ancora due secoli perché il "privato" si affermi nelle società dell'Europa moderna.

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Il "privato" nasce con l'Illuminismo con l'abolizione degli assoluti e dell'assoluto come concetto. Trasforma l'economia e la politica. Poteva il sentimento amoroso sottrarsi all'irruenza di questa rivoluzione?

Nasce infatti l'amore libertino, l'amore individuale, il "privato" dell'amore e nasce nei salotti gestiti da donne emancipate da una prima sembianza di femminismo. Diderot teorizza l'amore per l'amore che prevede la libertà di amori molteplici in nome, appunto, di amare l'amore.

Dura un secolo questa forma amorosa. Se si vuol chiedere alla letteratura, alla poesia e alla musica la chiave di un nuovo mutamento, la si trova nel Werther di Goethe, nelle "Affinità elettive", nella poesia di Leopardi e in quella di Baudelaire. L'amore romantico, la poesia e la musica romantiche.

L'Ottocento è intriso di amore romantico, dove si uniscono i sentimenti e i sensi ed è questo l'amore "privato" che diventa costume pubblico e che tuttora rappresenta uno dei cardini della società moderna.

Quell'amore tuttavia contiene le spore d'un mutamento ulteriore che emerge nella seconda metà del secolo scorso ed è ora nel pieno del suo svolgimento. Deriva proprio dal "privato", dalla sopravvenuta libertà sessuale, dall'accentuarsi dell'elemento sessuale e dalla liberazione della donna e del suo accesso al lavoro fuori casa.

L'amore romantico non è scomparso ma è divenuto mobile. Sempre più raramente dura per tutta la vita. Si realizza nella fase iniziale dell'innamoramento, si trasforma dopo qualche tempo in affetto e poi in amicizia. Infine la coppia si scompone e si ricompone con altri soggetti e altri innamoramenti. Sono segmenti di amore romantico al posto della linea retta dell'amore ottocentesco.

È a questo punto che l'amore verso l'amore riacquista peso e può  -  potrebbe  -  intrecciarsi alla solidarietà laica e alla "caritas" cristiana verso il prossimo, con uno spessore sociale in grado di soverchiare l'egoismo esasperato e l'amore egolatrico verso il proprio ombelico.

Questa è la scommessa affidata al futuro: un mondo dove l'essere assume una curvatura erotica capace di avere la meglio sull'istinto del potere.

(03 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/03/news/l_amore_romantico_e_quello_libertino-7663425/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Silvio alla guida del G2 Usa-Cina
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 12:52:27 pm
Silvio alla guida del G2 Usa-Cina

di Eugenio Scalfari

Ha salvato le banche Usa che stavano per fallire.

Ha evitato l'invasione della Georgia e ora sta per diventare il presidente di tutti i vertici internazionali...

(08 ottobre 2010)

Sembra - dico e sottolineo sembra - che alcune recentissime dichiarazioni fatte dal presidente del Consiglio italiano nel suo ultimo discorso al Senato durante il dibattito sulla fiducia abbiano provocato notevole agitazione sia alla Casa Bianca sia al Cremlino.

Berlusconi, rispondendo al senatore Luigi Zanda che aveva documentato l'irrilevanza della politica estera italiana, aveva contestato con irruenza quel temerario giudizio del suo contraddittore. "Questa persona", aveva detto il nostro premier indicando se stesso, "è quella che ha convinto Putin a non invadere la Georgia per non aumentare la tensione internazionale. Non è stato facile, c'è voluta un'intera giornata di telefonate, ma alla fine Putin ha capito ed ha seguito il mio consiglio. Questa persona", ha continuato sempre indicando con il dito il suo petto, "è anche quella che al primo insorgere della crisi bancaria negli Stati Uniti ha più volte preso contatto telefonico con il presidente Obama per convincerlo ad intervenire con 800 miliardi di dollari per evitare il crac delle maggiori banche Usa. Ho mobilitato anche gli esponenti di maggior prestigio della comunità italo-americana. Abbiamo sudato sette camicie ma alla fine ce l'abbiamo fatta e il Tesoro americano è intervenuto proprio con quella astronomica cifra evitando un crac che avrebbe avuto paurose ripercussioni su tutto il mondo. Questa persona", ha proseguito, "è quella più ascoltata e più ammirata nelle riunioni del G6, del G7, del G8 e del G20. Altro che irrilevanza!". (Applausi e prolungati).

Sembra - sottolineo sembra - che dopo questa replica il senatore Zanda sia stato amichevolmente rimproverato per la sua imprudenza da Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Ds e da allora si sia chiuso in casa in preda a cupa tristezza e staccando telefono e telefonino.
Incuriosito da queste vicende, ho cercato di saperne di più. Ho buone relazioni con alcuni italo-americani che contano a Washington; nella capitale Usa il nostro gruppo editoriale ha corrispondenti e inviati di prim'ordine; conosco da tempo ex ambasciatori americani a Roma ed ex ambasciatori italiani a Washington. Anche a Mosca siamo ben rappresentati e anche in quella capitale ho eccellenti punti di riferimento fin dai tempi di Gorbaciov. Ho messo tutti al lavoro ed ecco quanto ho saputo e che riferisco ai lettori.

Quando le agenzie internazionali hanno messo in rete le affermazioni del nostro presidente del Consiglio, il vicepresidente americano, Joe Biden, si è precipitato nella sala Ovale dove Obama stava ricevendo il generale Petraeus, comandante in capo delle truppe che operano in Afganistan. Biden - mi dicono - era agitato ed aveva in mano un fascio di fogli con le notizie delle agenzie. "Bar - avrebbe detto chiamando il presidente con un diminutivo - tu veramente hai seguito i consigli di quel buffone?". "Ma ti pare!" aveva risposto Obama. "Sai bene che quell'intervento l'aveva deciso Bush quando io ero ancora in "standby" a dicembre". "Non mentirmi, Bar: Bush decise lo stanziamento ma l'ok alla spesa l'hai dato tu". "E non avrei dovuto? Stavano per fallire la Chase, la City e la Bank of America". "Ma tu hai aperto un buco spaventoso nel bilancio. Non c'era copertura". "E allora? Non c'era copertura. I soldi li anticipò Bernanke". "Vuoi che non lo sappia? Voglio sapere soltanto se è vero che l'idea te l'ha data quel puttaniere. Puoi finire sotto "impeachment", lo sai? Un buco nel bilancio che è una voragine su indicazione d'un governo straniero!". "Ora basta. Di chi stiamo parlando? Di quel bassetto coi tacchi che in ogni riunione mi si mette a fianco per esser fotografato con me? Una volta mi abbracciò sotto i flash dei fotografi, un'altra mi fece il solletico al collo e un'altra ancora mise la bocca incollata al mio orecchio. Quest'uomo è un rompiscatole micidiale. Con la Merkel cerchiamo di tenerlo a bada in tutti i modi, spostiamo gli orari per evitarne la presenza. Figurati al telefono! Non sa l'inglese e tocca parlarci per interpreti". "Siamo sicuri?". "Ma va a quel paese...".

Sembra che abbia detto proprio così e così - mi dicono i miei - anche Putin a Medvedev quando il presidente della Russia gli ha contestato il mancato intervento in Georgia su pressione di Berlusconi. "Non intervento?", ha gridato Putin, "abbiamo addirittura assediato la capitale. E siamo ancora lì. Ma che dici? Chi te le racconta queste scemenze?". "Il tuo amico. Gli affari li fa con te, non con me". "Vuoi litigare? Vuoi che parliamo di affari? Fossi in te non ci proverei". "Lo sanno tutti che a Ginevra...". "Vai al diavolo".

Beh, sentite: i miei mi dicono che è tutto vero quello che ha detto Berlusconi contestando Zanda. Anzi, sembra che sia stato Barack Obama a chiamare Silvio al telefono quando scoppiò la bolla e dovette anche aspettare perché a Roma era notte fonda per via del fuso e Lui a Palazzo Grazioli era occupatissimo e il centralino aveva l'ordine di non disturbarlo neppure se all'altro capo del filo ci fosse stato Gesù Bambino. Sic. Quanto a Putin, lo sanno tutti: lo consulta prima di prendere qualunque decisione. Al G8 gli invia bigliettini quando tocca a lui parlare. È Silvio che ha dato la linea alla Russia per le sanzioni all'Iran. Ma anche Barroso non muove foglia che Silvio non voglia.
Non parliamo di Sarkozy: l'espulsione dei rom dalla Francia è venuta da Palazzo Grazioli anche se in quel caso Silvio s'è mosso per fare un favore a Maroni. Adesso - mi dicono i miei - la presidenza del G20 che si riunirà a fine novembre prepara un festeggiamento in onore del premier italiano e della campagna elettorale da lui decisa che lo porterà al Quirinale. L'idea è di farlo presidente a vita di tutti i vertici compreso il G2, quello tra Usa e Cina. Il progetto è di escludere l'Italia da tutti i vertici e mettere Silvio a presiederli. Tremonti sembra che non sia affatto d'accordo perché perderebbe il posto.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le promesse bugiarde del ministro senza soldi
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2010, 03:54:44 pm
L'EDITORIALE

Le promesse bugiarde del ministro senza soldi

di EUGENIO SCALFARI

Il rappresentante italiano nella Banca centrale europea, Lorenzo Bini Smaghi, parlando giovedì scorso ad un convegno dell'Aspen è stato lapidario nel formulare la ricetta per uscire dalla stretta della crisi economica che turba con rinnovato vigore i mercati internazionali. Ha detto: "Il voto premia chi coniuga rigore e crescita". Monsieur de La Palisse non avrebbe potuto dir meglio. Anche il nostro ministro dell'Economia ha stilato la stessa ricetta rinviandone l'esecuzione al decreto "Milleproroghe" che sarà varato alla fine di dicembre. In quella sede  -  ha promesso per placare il crescente malumore dei suoi colleghi di governo  -  troverà i soldi che oggi non ci sono, avviando la fase 2 della politica economica.

La fase dello sviluppo affiancato appunto a quella del rigore. Ma ha anche avvertito che lo "sviluppismo" potrà aver luogo soltanto se l'Europa adotterà quella stessa linea e se gli Usa non aggraveranno ulteriormente la caduta del dollaro sul mercato dei cambi. Giuste riserve. Ma poiché sappiamo già che l'Europa non ha alcuna intenzione di percorrere la strada dello sviluppo per la semplice ragione che la Germania non ne ha alcuna intenzione anzi ha annunciato una politica addirittura opposta; e poiché la Fed americana dal canto suo ha come obiettivo dominante quello di portare il cambio del dollaro a 1,5 in termini di euro; tutto ciò significa che Tremonti non potrà mantenere gli impegni presi nel Consiglio dei ministri di tre giorni fa. Non ha soldi oggi e ne avrà ancora di meno a dicembre.

Alla fine dell'anno infatti, secondo i calcoli della Tesoreria, bisognerà far fronte a 5 miliardi di spese obbligatorie derivanti dal rifinanziamento della cassa integrazione, dalle missioni militari all'estero e da altre spese già impegnate. La sola riserva di cui dispone è la vendita delle frequenze digitali di proprietà dello Stato che varranno sì e no 3 miliardi. Si ritroverà dunque con un buco di 2 miliardi, un'Europa ancorata al rigore della Bundesbank e un dollaro in caduta libera. Le sue promesse dell'altro ieri hanno dunque credibilità zero, salvo forse qualche spicciolo destinato al federalismo che come pompa aspirante di risorse si rivelerà un pozzo senza fondo.

Il 2011 segnerà il culmine della crisi finanziaria e occupazionale: la Banca d'Italia del resto ha compiuto ieri un passo del tutto inusuale; il ministro dell'Economia aveva bollato con l'aggettivo "ansiogeni" i dati della disoccupazione forniti da Via Nazionale, ma la risposta è arrivata subito ed è stato il direttore generale della Banca, Saccomanni, a recapitarlo al mittente rivendicando l'assoluta esattezza del livello di disoccupazione che non è dell'8,5 come sostenuto dal Tesoro ma dell'11 per cento.

Questo è dunque lo stato dei fatti per quanto riguarda il nostro paese; ma per capir meglio quanto sta accadendo e quanto presumibilmente accadrà nei prossimi mesi bisogna allargare l'analisi al quadro internazionale.

*  *  *

Sembrava un fenomeno marginale la caduta del dollaro e lo sarebbe se non fosse il segnale di un generale disordine economico internazionale e di una crisi che minaccia al tempo stesso il livello dell'occupazione, la recessione della domanda e della produzione, il pericolo incombente d'una deflazione, una nuova crisi del mercato immobiliare americano, la fragilità dei debiti sovrani di molti paesi a cominciare da quello Usa. Infine la determinazione americana di svalutare il dollaro, le resistenze della Cina ad accettare una rivalutazione della propria moneta che penalizzerebbe le esportazioni e lo sviluppo della sua economia.

Ci sono alcune vittime di questo disordine: il Brasile, il Sudafrica, l'Africa povera e soprattutto l'Europa. La scena mondiale che si offre al nostro sguardo è dunque afflitta da problemi inquietanti che fanno prevedere un 2011 di difficoltà che continueranno molto probabilmente fino al 2013 e anche oltre.

La difficoltà numero uno si sta manifestando in America dove la ripresa della produzione dell'occupazione si è bloccata dopo timidi segnali positivi nel 2009. Difficoltà nel sistema bancario che si sperava fossero superate, stasi delle costruzioni, stasi dei consumi e degli investimenti. La perdita di popolarità del presidente Obama e del Partito democratico avrà una probabile sanzione nelle elezioni di medio termine che avranno luogo nelle prossime settimane e che rischiano di trasferire ai repubblicani la maggioranza del congresso. Ciò accrescerà le difficoltà di Obama a governare l'economia. Il debito pubblico Usa è altissimo e così pure il deficit della bilancia commerciale.

In queste condizioni la Fed ha deciso di immettere sul mercato una nuova iniezione di liquidità per rivitalizzare la domanda interna e sostenere le banche. Questa manovra avrà inizio il 3 novembre prossimo  -  così ha annunciato Bernanke, presidente della Fed  -  con l'acquisto di titoli di Stato, di obbligazioni e anche di titoli "tossici" che ancora affliggono i bilanci di alcune grandi banche.

Si ignora il quantitativo di questa operazione ma sarà certamente di notevole rilievo se vorrà avere qualche effetto sul mercato. L'acquisto di titoli avverrà con la stampa di nuova moneta e quindi con l'aumento del deficit pubblico. L'obiettivo non è soltanto quello di rivitalizzare la domanda interna ma anche di svalutare il dollaro che potrebbe presto raggiungere e superare la soglia di 1,5 in termini di euro. L'altro obiettivo è di arrivare ad un'inflazione del 2 per cento se non di più. Sembrerebbe, da questa molteplicità di fini, che le autorità monetarie americane puntino sull'inflazione per alleggerire il peso dell'enorme stock di debito pubblico. È una strada classica, una sorta di imposta regressiva che grava soprattutto sui redditi fissi, lavoratori pensionati e risparmiatori che hanno investito in titoli pubblici i loro risparmi. E se la strategia americana è questa, essa provocherà ripercussioni gravi in Europa.

Nel frattempo, per contrastare la discesa del dollaro, molte Banche centrali hanno deciso di comprare dollari e acquistare buoni del Tesoro americani. Sono dunque due le mani che acquistano Treasury Bond con obiettivi contrastanti: la Fed per immettere liquidità sul mercato e far scendere il cambio del dollaro; alcune Banche centrali straniere per impedire che il dollaro scenda. Il risultato è l'aumento di riserve in dollari in mano a Banche centrali a cominciare da quelle di Cina, Giappone e Emirati del Golfo: una sorta di deterrente che condiziona dall'esterno la politica economica americana.

*  *  *

Di fronte a questo scontro tra giganti che sconquassano i mercati inseguendo disegni che spesso non sono idonei a riportare ordine e sicurezza, una cosa è certa e avvalorata da tutte le inchieste fin qui effettuate: l'esito più drammatico della crisi è la distruzione mondiale di posti di lavoro. La crescita economica è molto fiacca, specie nei paesi dell'Occidente opulento, ma anche quando riprenderà con maggior vigore non creerà nuovi posti di lavoro. Sarà, come si dice nel gergo economico corrente, una crescita "jobless".

Il recente rapporto dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) è molto chiaro su questo punto. L'occupazione nelle economie avanzate riuscirà a tornare ai livelli pre-crisi non prima del 2015. La differenza tra i livelli del 2007 e quelli attuali in cifre assolute è di 14,3 milioni di posti di lavoro, mentre 8 milioni sono i posti di lavoro perduti nei paesi emergenti. La differenza totale dei posti di lavoro tra il livello del 2007 e quello del 2010 è dunque di oltre 22 milioni.

Il fenomeno si aggrava se si considera la disoccupazione di lungo periodo, dal minimo di un anno a cinque anni e all'uscita definitiva dal mercato del lavoro. Questo fenomeno penalizza in particolare le donne e il precariato giovanile. Nell'Unione europea, secondo il rapporto dell'Ilo, il tasso della disoccupazione di lungo periodo è del 37 per cento rispetto alla disoccupazione totale. La maglia nera spetta purtroppo all'Italia con il 46 per cento.

Questo fenomeno dipende in parte dalla delocalizzazione dell'industria manifatturiera verso paesi che hanno costi del lavoro molto più bassi dei nostri. Pensare di arginare questo fenomeno in un'economia globale è pura illusione. Mi sono sforzato più volte di segnalare questo problema che si può equilibrare non già impedendo le deroghe ai contratti nazionali vigenti ma recuperando una concertazione permanente tra parti sociali e governo che affronti i problemi della politica economica non abbandonandola nelle mani di un solo ministro con tentazioni dittatoriali. Vedo però che queste proposte non fanno strada. E' più populistico predicare interventi pubblici che impediscano la delocalizzazione, ipotesi peraltro irrealizzabile in un libero mercato. Proseguendo in questo modo avremo la botte vuota e la moglie astemia o se si vuole la beffa e il danno.

*  *  *

La politica della Bce e della Commissione di Bruxelles è stata finora sostanzialmente passiva di fronte alla crisi. All'inizio alcuni paesi minacciati dalla crisi finanziaria e bancaria intervennero con robusti sostegni di liquidità aggravando i loro deficit di bilancio. La Bce dal canto suo non lesinò liquidità al mercato e al sistema bancario e ridusse i tassi di interesse dopo lunghi indugi, mantenendoli tuttavia di un paio di punti al di sopra dei tassi americani. L'Italia fu risparmiata dalla crisi bancaria perché i nostri istituti di credito sono stati più prudenti negli impieghi in titoli esteri.

L'ora di abbinare rigore e crescita era quella, ma fu sprecata. L'Europa si limitò a galleggiare sul mare tempestoso nella convinzione che le acque tornassero rapidamente calme. Errore grave, di Bruxelles, di Francoforte e anche di Roma.

Adesso di fronte alle minacce d'una nuova crisi e di nuove strategie che richiederebbero da parte europea decisioni dinamiche e appropriate, la Germania e la sua Banca centrale hanno deciso di prendere in mano il timone e attuare una "exit strategy" di rigore ancor più severo: sanzioni automatiche per chi viola il patto di stabilità, diminuzione degli stock di debito pubblico che superino il 60 per cento del Pil (l'Italia è al 118), diminuzione della liquidità, divieto all'acquisto da parte della Bce di titoli di Stato di paesi membri in difficoltà.
Marciamo dunque dritti verso un aumento della disoccupazione e verso un mercato dominato dalla deflazione. Il che significa un aumento del peso reale del debito pubblico e degli oneri che questo comporta.

Il presidente del Consiglio pensa ai suoi problemi personali e aziendali, il ministro dell'Economia non ritiene di tassare i ricchi per alleviare il ceto medio. Perciò andremo a sbattere di brutto nei prossimi mesi. Non vorrei essere anch'io ansiogeno come Draghi, mi limito come Draghi a dire semplicemente la verità.

(17 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il guru del benessere
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2010, 03:44:40 pm
Il guru del benessere

di Eugenio Scalfari

Quando si dice un uomo tutto d'un pezzo: il ministro Sacconi ha le sue convinzioni ma le appende all'attaccapanni quando va a negoziare

(22 ottobre 2010)

Il ministro del Lavoro e del Benessere, di cognome Sacconi (non ricordo il nome e non ho voglia di cercarlo) ha rilasciato domenica scorsa un'intervista a "Repubblica" che aveva come tema la manifestazione della Fiom che si era svolta il giorno prima a Roma in piazza San Giovanni.

L'intervista porta il titolo: "A Roma una minoranza radicale inadatta a governare" e contiene passi significativi a partire da quello riportato nel titolo.
C'è un punto nel quale Sacconi dice: "È stata una piazza politica, non sindacale; una piazza non affatto interessata a fare accordi, visto che ha considerato la Cisl e la Uil alla stregua di avversari".
L'intervistatore obietta: "Ammetterà che anche la manifestazione di Cisl e Uil la settimana scorsa non era all'insegna dell'unità sindacale". Risposta: "Quella di Cisl e Uil è stata una manifestazione serena e positiva".

Domanda: "Sta suggerendo una scissione nel Pd?".
Risposta: "Sono assolutamente certo che coloro che si sentono alternativi a quella piazza debbono ritrovarsi. Vedo un Pd incapace di sottrarsi ai radicalismi, da quello etico a quello sociale e a quello giustizialista. I veri moderatori e i veri riformisti dovrebbero stare insieme".

Domanda: "Lei si considera un ministro neutrale?".
Risposta: "Sono un ministro che ha le proprie convinzioni ma che negozia in modo aperto alla ricerca del massimo consenso possibile. In questi due anni abbiamo compiuto ogni atto con il consenso di tutti i sindacati, tranne la Cgil".

Mi scuso con i lettori se ho riportato alcuni brani di un testo che considero di grande importanza. Viene dal ministro del Benessere. Lasciamo stare il lavoro che di questi tempi non è molto popolare anche perché ce n'è sempre di meno in giro. Ma il Benessere, quello sì, eccome se c'è. In piazza San Giovanni in realtà di benessere ce n'era poco assai ed è proprio per questo che a Sacconi di quella piazza non gliene importa niente, non è di sua competenza. Lui sa dov'è il benessere, dove sta di casa. E le frequenta quelle case, eccome se le frequenta.

E poi, ricordiamolo, il suo passato parla eloquentemente e positivamente per lui. Fu nel Partito socialista ai tempi di Craxi. Poi è trasmigrato nella destra. Il percorso è coerente e infatti l'hanno seguito in parecchi. Più di recente ha trovato anche la fede religiosa. Chi cerca trova dice il proverbio.
Apprendo dall'intervista sopra ricordata che il ministro del Benessere ha le sue convinzioni. E ci mancherebbe che non le avesse! Però negozia con tutti e infatti - così dice - "non c'è stato un solo suo atto che non avesse il consenso di tutte le organizzazioni sociali". Tutte, onorevole ministro? "Tutte tranne la Cgil". Cioè il maggior sindacato italiano. Quindi il ministro del Benessere ha il consenso di una minoranza sindacale e non lo nega affatto, anzi lo afferma. Quando si dice un uomo tutto d'un pezzo: ha le sue convinzioni ma le appende all'attaccapanni quando va a negoziare. Cisl e Uil gli suggeriscono la strada e lui la segue. È dunque sommamente ingiusto lo slogan della Fiom che definisce Cisl e Uil "servi dei padroni e del governo". La realtà è completamente diversa: è il ministro del Benessere ad esser docile strumento di una minoranza del sindacalismo italiano.

Detto questo, mi piacerebbe conoscere quali sono le convinzioni che il ministro mette da parte quando va a negoziare con Cisl e Uil. Sono più moderate dei suoi interlocutori? O più radicali? Confinano con quelle della Santanchè o con quelle di Beppe Grillo? O magari con quelle di Verdini, che quanto a benessere se ne intende?
Credo di capire che Sacconi si è tormentato intimamente. Vorrebbe (lo dice nell'intervista) una società in cui non ci fossero né radicalismo sociale né radicalismo giustizialista né radicalismo etico. E chi non la vorrebbe una società così?

Però Sacconi è ingiusto con se stesso: la società in cui vive lui (e che ha dato la maggioranza al suo premier) non ha per fortuna nessuno di quei tre radicalismi, soprattutto quello etico. Anzi il radicalismo etico lo considera una bestemmia. Questo dovrebbe rassicurarlo. Balducci è radicale eticamente parlando? Scaloja? Cosentino?

 Cuffaro dei cannoli? Di Verdini abbiamo già detto ma l'elenco sarebbe molto più lungo.
Piuttosto, un alleato nel Pd Sacconi ce l'ha e si chiama Boccia. Questo Boccia ha detto che a piazza San Giovanni c'erano molti ex parlamentari con vitalizio e molti intellettuali abbienti. Questa gente che applaude alla Fiom e sfila con lei in corteo a Boccia gli fa schifo. Credo faccia schifo anche a Sacconi.

Io non sono andato al corteo della Fiom perché avevo impegni di lavoro, ma ci sarei andato con piacere sebbene sia un ex parlamentare con vitalizio (c'è una legge in proposito di cui ho chiesto da tempo l'abolizione) e sebbene io abbia un discreto patrimonio che mi dà un discreto benessere (perciò Sacconi è il mio ministro). Voglio solo ricordare a Boccia che uno dei leader della rivoluzione dell'Ottantanove fu il marchese di La Fayette, che aveva combattuto accanto a Washington per la rivoluzione americana e poi rientrato in Francia fu il primo comandante della Guardia Nazionale. Un altro dei leader dell'Ottantanove fu il conte Riquetti de Mirabeau. Un altro ancora fu Filippo ?galité, duca d'Orléans e principe del sangue.
La Fiom dell'epoca (cioè i sanculotti) non avevano allora diritti sindacali ma presero la Bastiglia perché difendevano diritti civili di libertà.
Queste cose le sanno tutti credo e spero nel Pd. Boccia forse ha sbagliato partito.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il sasso istituzionale e lo tsunami politico
Inserito da: Admin - Ottobre 25, 2010, 09:06:51 am
L'EDITORIALE

Il sasso istituzionale e lo tsunami politico

di EUGENIO SCALFARI

NON È soltanto un sasso nello stagno la lettera inviata da Giorgio Napolitano al presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato. Il Capo dello Stato si è limitato ad attirare l'attenzione del Parlamento e della pubblica opinione su un solo aspetto della legge sull'immunità delle massime cariche istituzionali presentata dal ministro Alfano, ma la logica che ha motivato i suoi rilievi fa parte d'una cultura istituzionale che inquadra una visione complessiva del bene comune e delle regole che ne rendono possibile la realizzazione. La legge Alfano è invece uno dei tasselli della costituzione materiale che Berlusconi e i suoi accoliti hanno in mente da tempo di mettere al posto della Carta vigente. Napolitano, definendo un articolo della legge Alfano "irragionevole e manifestamente contrario all'attuale articolo 90 della Costituzione", ha di fatto interrotto quel percorso obbligando la maggioranza a rimetterci le mani. Solo questo, ma ora quel sasso nello stagno si è trasformato in un maremoto politico che non riguarda il Quirinale ma Palazzo Chigi e il Parlamento.
L'articolo 90 stabilisce l'immunità del Presidente della Repubblica per quanto riguarda eventuali illeciti che possa commettere nell'ambito delle sue funzioni, con l'eccezione di due sole ipotesi: tradimento della Repubblica e atti contro la Costituzione per i quali il "plenum" del Parlamento può con un voto a maggioranza qualificata tradurlo dinanzi alla Corte che si autocostituisce in Alta Corte di giustizia.

Per illeciti che non riguardano la sua funzione il Capo dello Stato può invece essere inquisito e giudicato dai tribunali ordinari. Napolitano ha rivendicato questa immunità e soltanto questa, niente di più e niente di meno.
Stupisce che l'editorialista del Corriere della Sera Massimo Franco abbia avanzato il dubbio di irritualità sulla lettera di Napolitano. Le leggi di riforma costituzionale secondo la prassi debbono esser promulgate dopo la doppia lettura prevista dall'articolo 138 e la firma di promulgazione è considerata un atto dovuto. Ma nel caso specifico era stata creata una situazione di dipendenza del Capo dello Stato dal Parlamento che imponeva al Quirinale di rilevarne la stridente contraddizione ordinamentale. Irrituale è dunque quella norma contestata della legge Alfano, non certo la lettera del Presidente.
Si vedrà ora in che modo la questione sarà risolta dal Parlamento, a cominciare dal Senato. Ma l'intervento del Quirinale, al di là del tema specifico, ne ha aperti altri.
Alcuni di carattere costituzionale che Napolitano non ha sollevato ma che tuttavia emergono chiaramente; altri di carattere politico che esulano dalla competenza del Quirinale ma che tuttavia sono ora sotto gli occhi dei partiti e della pubblica opinione.

I temi costituzionali sono due. Il primo, messo in rilievo dall'ex presidente della Corte, Valerio Onida, sta nel fatto che la legge Alfano colloca il Presidente del Consiglio sullo stesso piano del Presidente della Repubblica dal punto di vista del delicatissimo tema delle immunità, con la differenza che il primo è indicato nella scheda delle elezioni politiche sulla quale il "popolo sovrano" appone il proprio voto, mentre il secondo viene eletto dal Parlamento. Si crea in questo modo un sistema duale al vertice dello Stato nettamente sbilanciato a favore dell'inquilino di Palazzo Chigi che può vantare la sua investitura popolare declassando il Capo dello Stato ad un ruolo puramente notarile senz'altra prerogativa che quella di certificare l'autenticità degli atti sottoposti alla sua firma.
L'altro tema consiste nella differenza tra il concetto di immunità e quello di impunità (l'ha sottolineato anche Luca Ricolfi sulla Stampa). L'immunità sospende la procedibilità del titolare di una carica istituzionale nel periodo in cui esercita le sue funzioni e limitatamente ai reati che può aver commesso relativi a quelle funzioni.
L'impunità invece copre anche illeciti che non riguardano le funzioni ed è ripetitiva se la stessa persona passa dalla carica che ricopre ad altra egualmente "immune" raffigurando in tal modo un salvacondotto valido per molti e molti anni. Come non vedere dietro una siffatta normativa far capolino la maschera di Silvio Berlusconi? È accettabile un salvacondotto di questo genere, per di più in presenza di una legge elettorale come quella attuale che affida alla sua discrezione la scelta dei candidati con un meccanismo elettorale che assegna alla coalizione vincente anche per un solo voto un premio nazionale per la Camera e premi regionali al Senato? Queste considerazioni debbono esser state ben presenti al Presidente della Camera. Fini ha infatti dichiarato ieri sera che l'immunità prevista dalla legge Alfano non può essere reiterabile.

* * *
È evidente che lo scontro tra queste opposte visioni istituzionali avrà conseguenze politiche che sono già visibili. Bene ha fatto il Quirinale a sottolineare ieri che i rilievi del Presidente riguardano specifici aspetti della legge Alfano mentre lo scontro politico e le sue conseguenze sono del tutto estranee alla competenza del Capo dello Stato. All'attenzione delle forze politiche c'è ora con rinnovato vigore un dilemma fondamentale: lo stato di diritto o il comando di una persona, il popolo sovrano e i suoi rappresentanti liberamente scelti o la cricca e la casta che pensa per tutti e provvede per sé? Questa è la posta ed è inutile e deviante anteporre i problemi del paese a questi che sembrano invece temi da intellettualoidi e da politicanti autoreferenti. I problemi del paese ci sono ben presenti e ne parliamo di continuo; sono quelli del fisco, dei rapporti tra le forze sociali, del lavoro, dei rifiuti di Napoli, della corruzione, delle infrastrutture, della crescita economica, dell'Università e della ricerca. Li ha risolti da solo Berlusconi? Li ha risolti da solo Tremonti? Li ha risolti da solo Bertolaso?
O dobbiamo sperare in una Madonna pellegrina e lacrimante? Come mai dopo tanti anni di governo quei problemi sono diventati voragine? Parlare di essi derubricando quello che tutti li ha determinati e ne subordina la soluzione a quel Salvacondotto che è la sola cosa che importa, è un depistaggio in piena regola e come tale va definito.

* * *
Le conseguenze politiche riguardano soprattutto l'opposizione, quella di sinistra, quella di centro e quella finiana.
È evidente e non da ora che la posta in gioco è la Costituzione. Ma ora, con l'arrivo al pettine di tutti i nodi irrisolti, la partita è giunta alla sua svolta che implica un'emergenza oggettiva. L'emergenza soggettiva era quella predicata anzitempo, una sorta di "al lupo al lupo" quando il lupo era ancora sulla montagna. Adesso il lupo è sceso in pianura, pronto a divorare le pecore se pecore resteranno. Per questo dico che adesso l'emergenza è oggettiva e questo impone alcune riflessioni.
1. Per cambiare la legge elettorale ci vuole uno schieramento che unisca tutto il centro e tutta la sinistra.
2. Se si va alle elezioni con questa legge ci vuole egualmente uno schieramento elettorale che unisca tutto il centro (finiani compresi) e tutta la sinistra, altrimenti mancherebbero i numeri per essere competitivi con l'avversario.
3. Una cordata di quest'ampiezza avrà bisogno d'un leader che copra con la sua autorevolezza tutto l'arco delle forze alleate e possa rappresentare il minimo comun denominatore che non è poi tanto minimo: combattere mafie e corporazioni, rilanciare la crescita senza abbassare la guardia sulla finanza pubblica, garantire i diritti e far rispettare i doveri, tutelare i ceti deboli, i poveri, la pari dignità delle persone e le pari opportunità nel lavoro e nell'istruzione, dare alle forze sociali il ruolo che loro spetta a fronte dei sacrifici che la modernizzazione e la globalizzazione impongono. Vi sembra molto "minimo" questo denominatore?
4. Se questo progetto è accettato (ed è l'unico che può evitare una vittoria del berlusconismo per i prossimi nove anni) esso comporta che non vi siano veti da parte di nessuno e contro nessuno. È una sorta di lodo cui tutta l'opposizione è chiamata. Poi, passata la stretta tra Scilla e Cariddi, ognuno riprenderà la propria navigazione e il denominatore minimo cederà il passo ai denominatori massimi che ciascuna forza politica ha il diritto di proporsi e di proporre in libera competizione.
Ma oggi non siamo di fronte a una libera competizione, siamo di fronte appunto ad una concezione radicalmente diversa della democrazia e dello Stato. Questo è il salto. Chi non lo fa si perde e perde il paese.

(24 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il bunga bunga che segna la fine di un regno
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2010, 10:29:25 pm
L'EDITORIALE

Il bunga bunga che segna la fine di un regno

di EUGENIO SCALFARI

Le recenti cronache dell'Italia berlusconiana che raccontano l'ennesimo scandalo ormai generalmente etichettato "bunga bunga" mi hanno lasciato al tempo stesso indifferente e stupefatto.
L'indifferenza deriva dal fatto che conosco da trent'anni Silvio Berlusconi e sono da tempo arrivato alla conclusione che il nostro presidente del Consiglio rappresenta per molti aspetti il prototipo dei vizi italiani, latenti nel carattere nazionale insieme alle virtù che certamente non mancano. Siamo laboriosi, pazienti, adattabili, ospitali.
Ma anche furbi, vittimisti, millantatori, anarcoidi, insofferenti di regole, commedianti. Egoismo e generosità si fronteggiano e così pure trasformismo e coerenza, disprezzo delle istituzioni e sentimenti di patriottismo.
Berlusconi possiede l'indubbia e perversa capacità di aver evocato gli istinti peggiori del paese. I vizi latenti sono emersi in superficie ed hanno inquinato l'intera società nazionale ricacciando nel fondo la nostra parte migliore.
È stato messo in moto un vero e proprio processo di diseducazione di massa che dura da trent'anni avvalendosi delle moderne tecnologie della comunicazione e deturpando la mentalità delle persone e il funzionamento delle istituzioni.

Lo scandalo "bunga bunga" non è che l'ennesima conferma di questa pedagogia al rovescio. Perciò non ha ai miei occhi nulla di sorprendente.

Da quando avviò la sua attività immobiliare con denari di misteriosa provenienza, a quando con l'appoggio di Craxi costruì il suo impero televisivo ignorando le ripetute sentenze della Corte costituzionale, a quando organizzò il partito-azienda sulle ceneri della Prima Repubblica logorata dalla corruzione diventata sistema di governo.
A sua volta, su quelle ceneri, il berlusconismo è diventato sistema o regime che dir si voglia: un potere che aveva promesso di modernizzare il paese, sburocratizzarlo, far funzionare liberamente il mercato, diminuire equamente il peso fiscale, sbaraccare le confraternite e rifondare lo Stato.

Il programma era ambizioso ma fu attuato in minima parte negli otto anni di governo della destra ai quali di fatto se ne debbono aggiungere i due dell'ultimo governo Prodi durante i quali il peso dell'opposizione sul paese fu preponderante.
Ma non solo il programma rimase di fatto lettera morta, accadde di peggio. Accadde che il programma fu contraddetto. Il sistema-regime è stato tutto fuorché una modernizzazione liberale, tutto fuorché una visione coerente del bene comune.

Per dieci anni l'istituzione "governo" ha perseguito il solo scopo di difendere la persona di Berlusconi dalle misure di giustizia per i molti reati commessi da lui e dalle sue aziende prima e durante il suo ingresso in politica. Nel frattempo l'istituzione "Parlamento" è stata asservita al potere esecutivo mentre il potere giudiziario è stato quotidianamente bombardato di insulti, pressioni e minacce che si sono anche abbattute sulla Corte costituzionale, sul Csm, sulle Autorità di garanzia e sul Capo dello Stato.
Il "Capo" e i suoi vassalli hanno tentato e tentano di costruire una costituzione materiale incardinata sul presupposto che il Capo deriva la sua autorità dal voto del popolo ed è pertanto sovra-ordinato rispetto ad ogni potere di controllo e di garanzia.

Questa situazione ha avuto il sostegno di quell'Italia che la diseducazione di massa aveva privato d'ogni discernimento critico e che vedeva nel Capo l'esempio da imitare e sostenere.
Il cortocircuito che questa situazione ha determinato nel carattere di una certa Italia ha fatto sì che Berlusconi esibisca i propri vizi, la propria ricchezza, la sistematica violazione delle regole istituzionali e perfino del buongusto e della buona educazione come altrettanti pregi.
Non passa giorno che non si vanti di quei comportamenti, di quella ricchezza, del numero delle sue ville, del suo amore per le donne giovani e belle, dei festini che organizza "per rilassarsi", degli insulti e delle minacce che lancia a chi non inalbera la sua bandiera. E non c'è giorno in cui quell'Italia da lui evocata e imposta non lo ricopra di applausi e non gli rinnovi la sua fiducia.

Lo scandalo "bunga bunga" è stato l'ennesima riprova di tutto questo. La magistratura sta indagando sugli aspetti tuttora oscuri di questa incredibile vicenda della quale tuttavia due punti risultano ormai chiari e ammessi dallo stesso Berlusconi: la sua telefonata al capo gabinetto del Questore di Milano nella quale chiedeva il pronto rilascio della minorenne marocchina sua amica nelle mani "sicure" di un'altra sua amica da lui fatta inserire da Formigoni nel Consiglio della Regione lombarda, e l'informazione da lui data alla Questura che la minorenne in questione era la nipote del presidente egiziano Mubarak.
Queste circostanze ormai acclarate superano ogni immaginazione e troverebbero adeguato posto nell'ultimo romanzo di Umberto Eco dove il protagonista ricalca per alcuni aspetti "mister B" per le sue capacità d'inventare il non inventabile facendolo diventare realtà.
La cosa sorprendente e stupefacente non è nella pervicacia con la quale Berlusconi resta aggrappato alla sua poltrona e neppure la solidarietà di tutto il gruppo dirigente del suo partito e della sua Corte, che fa quadrato attorno a lui ben sapendo che la sua uscita di scena sarebbe la rovina per tutti loro. La cosa sorprendente è che  -  sia pure con segnali di logoramento e di sfaldamento  -  ci sia ancora quella certa Italia il cui consenso nei suoi confronti resiste di fronte alla grottesca evidenza di quanto accade. Questo è l'aspetto sorprendente, anzi sconvolgente, che ci dà la misura del male che è stato iniettato e coltivato nelle vene della società e questo è il lascito, il solo lascito, di Silvio Berlusconi.
Sua moglie Veronica, in una lettera pubblicata un anno e mezzo fa, lo scolpì in poche righe, stigmatizzò l'uso che il marito faceva del potere e delle istituzioni, i criteri di reclutamento della "sua" classe politica imbottita di "veline" e di attricette che avevano "ceduto i loro corpi al drago" e concluse scrivendo: "Mio marito è ammalato e i suoi amici dovrebbero aiutarlo a curarsi seriamente".
Quello che sta accadendo lo dimostra e lo conferma: quest'uomo è gravemente ammalato, l'attrazione verso donne giovani e giovanissime è diventata una dipendenza che gli altera la mente e manda a pezzi i suoi freni inibitori.
Dovrebbe esser seguito da medici e da psico-terapeuti che lo aiutassero a riprendersi; ma sembra di capire che sia seguito da persone reclutate con tutt'altro criterio: quello di immortalare le apparenze della sua giovinezza in tutti i sensi. Ma così non fanno che aggravare il male.

* * *

È ormai evidente agli italiani normali e normalmente raziocinanti, il cui numero sta fortunatamente aumentando, che questa situazione non può continuare. In qualunque altro paese dell'Occidente democratico sarebbe terminata da un pezzo per decisione dello stesso interessato e del gruppo dirigente che lo attornia. Ma qui le cose vanno in un altro modo e sappiamo perché. Tra lui e i suoi accoliti, uomini e donne che siano, esistono vincoli che non si possono sciogliere perché ciascuno di loro (quelli che contano veramente) ha le sue carte sul Capo e lui ha le sue carte su tutti gli altri. Così per Previti, così per Dell'Utri, così per Scajola, così per Verdini, così per Brambilla ed altri ancora.
A questo punto tocca a tutti coloro che ritengono necessario ed urgente porre fine al "bunga bunga" politico, costituzionale e istituzionale, staccare la spina.
Presentare una mozione di sfiducia che vada da Bersani a Fini e da Casini a Di Pietro, che abbia la funzione che in Germania si chiamerebbe "sfiducia costruttiva". Esponga cioè il programma che quell'arco di forze vuole attuare subito dopo che la sfiducia sia stata approvata e che si può riassumere così:

1. Indicare al Presidente della Repubblica l'esistenza di una maggioranza alternativa che gli consenta di nominare un nuovo governo, come la Costituzione prevede.

2. Elencare alcuni temi programmatici a cominciare dal restauro costituzionale, indispensabile dopo la devastazione compiuta in questi anni e, a seguire, alcune urgenti misure economiche e sociali, un federalismo serio che rafforzi l'unità nazionale e la modernizzazione della società articolandola secondo un disegno federale, una riforma della giustizia che sia utile ai cittadini, una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti nei vari modi con i quali quest'obiettivo può essere realizzato.
Uno sbocco di questo genere sarebbe estremamente positivo per il paese e dovrebbe essere guidato da qui alla fine naturale della legislatura da un "Mister X" che abbia le caratteristiche e la competenza necessaria al recupero dei valori etici e politici che la Costituzione contiene nella sua prima parte, ammodernandola nella seconda in conformità alle esigenze che una società moderna richiede.
Noi riteniamo che questo percorso vada intrapreso al più presto anche per riconciliare con le istituzioni un paese stanco e disilluso dal tristissimo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti.
Non si tratta di utilizzare lo scandalo della minorenne marocchina strumentalizzandolo per fini politici. Si tratta invece di metter fine ad una rovinosa gestione governativa del "non fare" e del "malfare", che non è riuscito ad aprire un cantiere, a sostenere i consumi e il potere d'acquisto, a recuperare un centesimo di avanzo nel bilancio delle partite correnti, ad invertire il trend negativo dell'occupazione, a fare un solo passo avanti nella buona riforma della giustizia e del federalismo.
Infine a smantellare la "cricca" che da quindici anni non fa che rafforzarsi prendendo in giro i gonzi con il racconto d'una improbabile favola a lieto fine.
La storia italiana ha visto più volte analoghe "cricche" al vertice del paese. Quando ciò è accaduto, la favola è sempre terminata male o malissimo. L'esperienza dovrebbe aiutarci ad interrompere questo percorso in fondo al quale c'è inevitabilmente la rovina sociale e il degrado morale.

(31 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/31/news/bunga_bunga_scalfari-8601538/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma chi è il protagonista di Eco?
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 04:18:21 pm
Ma chi è il protagonista di Eco?

di Eugenio Scalfari

Il romanzo 'Il Cimitero di Praga' parla di tale Simone Simonini, e l'autore giura che si tratta di personaggio di fantasia.
Forse invece è esistito veramente e ha avuto una discendenza. Che ci ricorda molto qualcuno

(04 novembre 2010)

Il mio caro amico Umberto Eco ha scritto un libro di grande fascinazione che ha già avuto tutte le recensioni che meritava e che avrà il successo che tutti i suoi romanzi hanno avuto, dal "Nome della rosa" in poi. Al protagonista ha dato il nome di Simone Simonini, un lestofante, una carogna di tre cotte, un falsario di documenti e quant'altro si possa immaginare. L'autore ha precisato che si tratta di un personaggio di fantasia, mentre tutti gli altri nominati nel racconto e gli avvenimenti sono rigorosamente storici. L'azione si svolge sul finire del XIX secolo principalmente a Parigi. Vi divertirete molto a leggerlo e troverete anche qualche assonanza con il malaffare e la malavita del nostro presente. Per pura curiosità ho fatto qualche ricerca (non sto a dire come e dove) ed ho appurato fatti che non mi aspettavo, della cui certezza sono assolutamente sicuro.

Il primo fatto è questo: Simone Simonini non è un personaggio di fantasia inventato da un romanziere dotato di grandissima immaginazione, ma è anche lui un personaggio storico. Forse Eco dice di averlo inventato per ragioni di comprensibile riserbo, ma non è così, ha realmente vissuto nell'epoca e nei luoghi raccontati nel romanzo. Le mie ricerche non erano comunque su suoi misfatti ma sulla sua eventuale discendenza. In effetti una discendenza ci fu ed è arrivata fino alla quinta generazione. Un suo pro-pro-pronipote è ancora vivo, ha raggiunto un'età ragguardevole, risulta in buona salute ed abita in un paradiso fiscale. Anzi, possiede molte residenze e lussuose abitazioni in vari paradisi fiscali: Caraibi, Tangeri, Abu Dhabi, Liechtenstein, San Marino, Hong Kong, Beirut, Montecarlo. Gli affari gli sono sempre andati bene, ha naso, esperienza e spregiudicatezza quanto basta per far prosperare il suo patrimonio. Soprattutto ha scoperto il metodo: bisogna stringere amicizia con uomini politici potenti, associarli ai propri affari e condividere con loro i profitti che ne risultano. Lui ci mette il talento e loro ci mettono il potere politico di cui dispongono. Loro gli danno un bene pubblico e lui lo trasforma in bene privato. Va a gonfie vele.

Si racconta che il Simonini V (ha un altro nome perché quello del trisavolo era troppo sputtanato, ma non lo rivelerò) fu un ragazzo molto precoce e cominciò a raggranellare i primi spiccioli vendendo i temi a scuola. Rimase celebre il caso d'un esame svoltosi in una scuola di Amsterdam dove a quell'epoca Simonini V abitava. Filtrò la notizia che l'argomento del tema avrebbe riguardato gli animali e lui preparò uno svolgimento concentrato sulla figura del cane, la sua storia, le sue attitudini, i suoi rapporti con l'uomo. Ne scrisse diverse versioni e le vendette. Il giorno degli esami però il tema assegnato aveva come specifico argomento il gatto. Simonini V suggerì agli studenti che avevano comprato il suo tema di anteporre quest'inizio: "Il gatto è un felino interessantissimo comparso sulla terra alcuni millenni fa. Il suo nemico storico è il cane". A questo punto continuate pure con la descrizione del cane che già avete in mano. Questo fu il suggerimento e tutto andò benissimo. Passarono gli anni e Simonini V divenne un importante imprenditore immobiliare. Le ragioni della sua fortuna consistettero soprattutto nell'invenzione della cosiddetta "leva esterna" (Leverage buy out). La sua invenzione era molto semplice: proporre agli amministratori dei paradisi fiscali dove viveva di aiutarlo a costruire abitazioni su aree agricole trasformandole in aree edificabili da lui già acquistate a bassissimo prezzo. Quasi sempre quelle proposte venivano accettate e ricompensate con il 30 per cento del profitto. Per costruire però ci volevano capitali che Simonini V otteneva da amici banchieri che gli accordavano i crediti necessari nonostante che lui risultasse nullatenente e quindi non desse alcuna garanzia reale. Ad affare concluso il banchiere riceveva il 20 per cento del profitto. A Simonini V restava il 50 per cento di tutto l'affare. Tasse non ne pagava perché la società costruttrice figurava posseduta da una quarantina di altre società intestate ad invalidi ospitati in case di riposo e del tutto ignari che la loro firma su appositi documenti desse loro la proprietà delle aziende e a Simonini la delega irrevocabile ad amministrarle.

Diventò molto ricco con queste ed altre trovate ma non si accontentò. Prestò ingenti somme ai governi che amministravano quei paesi ed ottenne anche pubbliche cariche sempre più elevate fino a quando diventò capo del governo di tutte quelle località spostandosi continuamente dall'una all'altra. Andava anche in visita di Stato in altri paesi scegliendo con cura quelli governati da dittatori con i quali poteva trattare gli affari pubblici come se fossero affari privati, cosa che sarebbe stata molto più difficile fare in paesi sottoposti a regole e controlli democratici.

Anche con queste alleanze fece buonissimi affari ma invecchiando quel tipo di vita era diventato troppo faticoso, perciò si fermò e scoprì che esistevano modi molto più gradevoli di vivere oltre alla passione per la ricchezza. Scoprì che il riposo del guerriero poteva essere allietato dalle donne e in quel modo organizzò la sua vita. I miei informatori mi dicono che ormai anche questi suoi passatempi sono terminati per ragioni di età. Simonini V si dedica a opere di beneficenza e in particolare ai carcerati e alle carcerate che con la sua autorevolezza fa liberare e che ospita nelle sue numerose case. Il suo principale consigliere è un sacerdote novantenne che fa anche lui opere di bene che Simonini V finanzia. Il suo più vivo desiderio sarebbe ora quello di essere nominato beato da vivo. Il suo amico sacerdote ha buoni rapporti in Vaticano e si sta adoperando per ottenere quella nomina.
Queste caro Umberto Eco, sono le notizie che volevo tu sapessi. È possibile che tu sia interessato a svilupparle con la tua fantasia e farne un nuovo romanzo.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-chi-e-il-protagonista-di-eco/2137660/18/1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ultima partita a scacchi del Cavaliere
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2010, 07:07:15 pm
L'EDITORIALE

L'ultima partita a scacchi del Cavaliere

di EUGENIO SCALFARI
 
MA ADESSO che succede? Questa domanda se la rimpallano tutti, è addirittura diventata una domanda da bar, perfino tra persone che di solito non si occupano di politica e discutono semmai, ai bar dello sport, sulla formazione delle squadre e di Totti o di Cassano. Segno che qualche cosa di nuovo è accaduto, qualche cosa che è fuoriuscita dalla bolla del politichese ed ha raggiunto l'uomo comune, cioè la pancia del Paese.

A conferma di quanto scrivo ci sono i più recenti sondaggi sugli umori del "popolo sovrano": il livello delle astensioni, quelli che non hanno alcuna intenzione di votare, oscilla tra il 15 e il 20 per cento come è sempre stato. Aumenta invece il numero degli indecisi che viaggia al di sopra del 30 per cento. Gli indecisi sono appunto quelli che ti chiedono: "E adesso che succede?".

La domanda viene da sinistra, dal centro, da destra. Soprattutto da destra, dove è sempre più diffusa la sensazione che il ciclo berlusconiano sia concluso. È un ciclo che dura da almeno 25 anni, perciò è sbagliato pensare che sia cominciato nel '94, con il primo governo del Cavaliere. È cominciato molto prima, quando ebbe inizio l'ascesa televisiva della Fininvest e l'incubazione del berlusconismo nelle vene della nazione. Naturalmente anche altri fatti concorsero a cambiare radicalmente il profilo antropologico degli italiani: il ristagno dell'economia, la caduta della competitività nell'industria pubblica e privata, la corruzione diventata sistema di governo, il crescente distacco tra Nord e Sud, l'implosione del comunismo e la caduta del Muro di Berlino.

In una società frastornata da questi traumi e dai conseguenti disagi, il berlusconismo arrivò con un'irruenza imprevista guidando quella mutazione antropologica che ha assunto le dimensioni d'una vera e propria metamorfosi. Scomparvero le classi tradizionali, crollò il modello Iri, la grande industria si ridusse a pochissime nicchie senza più forza propulsiva, aumentarono le diseguaglianze. Tra i ricchissimi e i poveri si frappose un ceto medio gelatinoso con una tendenza all'impoverimento, dominato dalla paura di retrocedere e bisognoso di appoggiarsi alla speranza del miracolo e a qualcuno che su quella speranza costruisse il suo mito. Appoggiati cioè alla favola che ogni sera veniva messa in onda sugli schermi della televisione.

Quel ciclo è finito lasciando un paese pieno di guai materiali e di rovine morali, al punto che la parola "morale" è ormai oggetto di lazzi e sberleffi. Ogni discorso pubblico, da qualunque parte provenga, comincia sempre con la frase: "Non farò del moralismo", o con l'insulto: "Sei un moralista". Se si vuole una misura del degrado, sta tutta nell'impronunciabilità di quella parola. E adesso che succede?

* * *

Il cambiamento morale, culturale ed economico passa - piaccia o non piaccia - per l'imbuto della politica e si svolge intorno a due nomi, al massimo tre: Berlusconi, Fini, Bossi. Sullo sfondo naturalmente c'è tutta l'opposizione da Casini fino a Di Pietro. Senza l'opposizione nulla si potrà fare ma il suo comportamento è obbligato. Vendola per il momento sta fuori dal perimetro della partita, come pure i vari Chiamparino e Renzi. Entreranno semmai in campo quando si andrà a votare perché nell'agone parlamentare, dove per ora la partita si svolge, loro non ci sono.

Berlusconi è finito, la coscienza nazionale che si sta lentamente risvegliando gli ha già notificato il cartellino giallo, ma il rosso dell'espulsione immediata ancora no; quindi è ancora in campo e giocherà molto duro proprio perché è consapevole che sarà fuori nei prossimi match.

Se volessimo adottare a mo' d'esempio il gioco degli scacchi, direi che lui è il re che lotta per evitare lo scacco matto, Fini è la regina avversaria che può muovere in molte direzioni, Bossi gioca con una torre in difesa del re. Alfieri e cavalli distribuiteli come vi pare tra gli altri comprimari della partita, tenendo presente che molti di quei pezzi sono stati eliminati dalla scacchiera.

Berlusconi tenta di riagganciare Fini proponendogli un patto di legislatura. Se Fini accettasse, Casini dovrebbe seguirlo perché da solo al centro non ha prospettive. Ma io credo che Fini non accetterà e la ragione è semplice: se rientrasse nell'alleanza lascerebbe al suo avversario due anni di tempo, spunterebbero altri delfini e soprattutto, con questa legge elettorale, nel 2013 Berlusconi potrebbe ancora sperare di scalare il Quirinale. Allora il cartellino rosso non verrebbe mai più.

Fini parlerà oggi a Perugia. Per quello che penso io, e per ciò che abbiamo appreso ieri dalle parole durissime di Italo Bocchino, direi che tra lui e il presidente del Consiglio non c'è più terreno comune. Il nuovo partito finiano voterà i provvedimenti che riterrà utili al Paese e voterà contro per quelli che riterrà dannosi e quando venisse posto il problema della fiducia i finiani decideranno sul merito del provvedimento e non della fiducia. Questo io penso che Fini debba fare e credo che lo farà. Ma potrebbe anche cedere alle lusinghe e alla pressione di quelli dei suoi che non vogliono rompere. Se questo dovesse avvenire, Fini entrerà in un tritacarne e nel 2013 ne uscirà ridotto a una polpetta.

Bossi. Poiché gioca con una torre, può andare soltanto in verticale o in orizzontale sulla scacchiera. Tradotto in termini politici: può sopportare a tempo indefinito che Fini faccia cuocere Berlusconi a fuoco lento e insieme con lui anche la Lega oppure può esser lui a staccare la spina tra gennaio e febbraio. La mia sensazione è che staccherà la spina o obbligherà Berlusconi a farlo. A quel punto (cioè tra tre mesi) che succede?

* * *

A quel punto il gioco si sposta nella mani del presidente della Repubblica che ha un diritto-dovere: prima di sciogliere le Camere deve verificare se esista una maggioranza alternativa.
Si può star certi che Napolitano quella verifica la farà, crollasse il mondo. Ma esiste una maggioranza alternativa? C'è sicuramente alla Camera se Fini è pronto a dar vita insieme a Casini ad un governo che comprenda ovviamente anche il Pd e l'Italia dei valori. Al Senato questo schieramento non raggiunge la maggioranza ma è più che probabile che parecchi senatori del Pdl passino al centro di Fini-Casini. Questo sarà il punto più difficile della verifica di Napolitano. Molto dipenderà da chi sarà la persona incaricata di sondare i vari gruppi e gruppetti di Palazzo Madama. L'altra volta il sondaggio lo fece Marini e rispose negativamente, la maggioranza alternativa non c'era. Questa volta l'incaricato della verifica dovrebbe essere una personalità del centrodestra che riscuota anche la fiducia di Fini-Casini e dell'opposizione di sinistra affinché il Quirinale e le parti in causa siano sicuri dell'obiettività della verifica.

Se la risposta sarà negativa Napolitano dovrà sciogliere le Camere, se sarà positiva si farà il nuovo governo con il centro e la sinistra.
Domenica scorsa scrissi che il presidente di questo governo avrebbe dovuto essere una personalità al di sopra delle parti e dotata del massimo di autorevolezza e lo chiamai "Mister X".
Ma potrebbe anche essere una personalità di centrodestra autorevole e accettata da tutti. Noi possiamo fare previsioni ma ad un certo punto dobbiamo fermarci quando entrano in gioco le prerogative del Capo dello Stato e qui siamo arrivati a quel punto e infatti ci fermiamo.

* * *

Possiamo però ipotizzare che quel nuovo governo si faccia e la legislatura non venga sciolta. Per quanto tempo? Con quale programma? Walter Veltroni, nella sua intervista a "Repubblica" di qualche giorno fa, ha ricordato il governo Ciampi quando in piena Tangentopoli il presidente Oscar Luigi Scalfaro incaricò il Governatore della Banca d'Italia di guidare la legislatura fuori dalle secche morali e politiche nelle quali era incappata.

Il ricordo è pertinente, l'emergenza che stiamo attraversando è anche maggiore di quella di allora per la semplice ragione che allora al governo c'era una uomo di notevoli capacità, Giuliano Amato, il quale fu il primo a indicare Ciampi al Capo dello Stato. Oggi a Palazzo Chigi c'è un populista di pessimo conio che per di più da qualche tempo sembra anche piuttosto frastornato di testa. L'ultima uscita sugli omosessuali, se si pensa ai casi specifici, lo dimostra con evidenza.

Un Ciampi è molto difficile trovarlo ma non impossibile. Oppure, come s'è detto, un personaggio del centrodestra che dia garanzie a tutti. È evidente che il Presidente della Repubblica ha l'interesse, anzi l'obbligo costituzionale di fare un governo senza limiti di tempo. L'ipotesi di un Ministero di cento giorni è fuori dal quadro. Quindi il programma. Non può che essere una nuova legge elettorale, un federalismo che rafforzi e non indebolisca l'unità nazionale, una gestione intelligentemente rigorosa della pubblica finanza, una nuova struttura del welfare che tuteli tutti i lavoratori e i giovani e le famiglie in particolare.

Poi, quando si andrà alle elezioni politiche, avremo un centrodestra repubblicano e costituzionale il quale si opporrà ad un centrosinistra riformatore. Il primo batterà sul binomio libertà-eguaglianza e il secondo sul binomio eguaglianza-libertà. La fraternità va bene per tutti e due. Mi direte che questi sono sogni. Rispondo anzitutto che un po' di sogno ci vuole.
E poi rispondo che una nazione è sempre lo specchio della sua classe dirigente. Se il presidente del Consiglio e i ministri si comportano sulla base d'una visione etico-politica del bene comune, anche la nazione non considererà più la morale come una parolaccia.

Post scriptum. Molti lettori mi chiedono che cosa penso di Lupi e di Ghedini che molti di loro hanno visto nei vari salotti televisivi. Che cosa penso di loro e del racconto che fanno di quanto avviene. Io penso così: Ghedini è l'avvocato del presidente del Consiglio, Lupi è un esponente di primo piano del Pdl ed in più è anche un militante cattolico della cattolicissima Comunione e Liberazione.

Ghedini è diventato patetico nelle sue performance televisive. Ripete costantemente: "Non è vero" anche quando gli leggono un verbale firmato dal questore o da un magistrato inquirente. Sull'aspetto morale delle azioni del suo cliente si limita a dire: "Non è reato". Del resto è lui l'inventore dell'"utilizzatore finale" una frase che da anni è entrata nel gergo comune.

Il caso di Lupi è più complesso per via della sua militanza cattolica e della sua fede che lui dichiara (e noi gli crediamo) intensa e attuata nella pratica della sua vita.
La sua narrazione dei fatti non differisce da quella di Ghedini e fin qui problema loro, anche se contrasta vistosamente con la realtà documentata. Ma ad un cattolico è lecito chiedere anche un giudizio morale. Ebbene, Lupi si rifiuta di darlo. Pubblicamente. Sostiene che il problema non è quello. Il problema non è morale ma di efficienza e lui sostiene che l'efficienza (di Berlusconi) c'è e questo basta perché la morale non ha ingresso nella politica.

Questo non lo diceva neppure Machiavelli che da buon fiorentino era un anti-papista per eccellenza. Non lo diceva neppure il cardinale Mazarino. Lupi invece lo dice: l'efficienza per lui cattolico fa premio sulla morale. Mi pare il massimo. In realtà sia Lupi sia Ghedini sanno che quando Berlusconi uscirà di scena anche loro usciranno è dunque in gioco la loro sopravvivenza come uomini di potere. Perciò sono pronti a dire che l'asino vola e che Berlusconi riceve le "escort" perché ha buon cuore. La sopravvivenza è la sopravvivenza. La morale l'hanno smarrita da tempo, ma io ho scritto qualche anno fa un libro intitolato "Alla ricerca della morale perduta" perciò li perdono sperando che la ritrovino.

(07 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/07/news/scalfari-8834135/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. “Berlusconi? Nome troppo lungo”
Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 04:43:27 pm
Scalfari tra ricordi e umorismo

“Berlusconi? Nome troppo lungo”

Primo incontro all’Università per il fondatore di Repubblica. “De Benedetti più a sinistra di me e di Ezio Mauro, dobbiamo moderarlo” ha detto il grande giornalista che poi ha annunciato: “Sto scrivendo un libro sulla malinconia”.

Incontro sulla Costituzione con 300 docenti universitari

di MARCO SEVERO



Il primo applauso, già nell’aria, arriva poco dopo le 11: “I cognomi lunghi si rivelarono una sciagura per il formato ridotto di Repubblica, Berlusconi per esempio divenne una maledizione”. Boato. Esordisce sul filo dell’ironia Eugenio Scalfari, “fondatore di una delle principali testate italiane” come lo definisce subito uno speaker. Alle 10.30, mezz’ora prima del suo arrivo, l’aula dei Filosofi in via dell’Università è piena. Studenti, professori, cittadini restano in piedi ad ascoltarlo. Alla parola Berlusconi non si tengono, anche i moderatori sorridono.

Dopo 35 anni Scalfari torna a Parma per una due giorni nella “capitale vera e compiaciuta”, come definisce la città in un’intervista a parma.repubblica.it (LEGGI). In attesa dell’incontro di giovedì, 11 novembre alle 17.30 all’Università in diretta video sul nostro sito, il fondatore del gruppo Espresso accetta così l’invito dell’editrice Mup per la rassegna Inchiostri d’autore. L’appuntamento è dedicato agli universitari, ma nell’aula dei Filofosi è ampia la forbice generazionale. Ventenni e sessantenni si metteranno in coda, alla fine, per l’autografo. Quattro i moderatori di Scalfari: il direttore della Gazzetta di Parma Giuliano Molossi, il direttore Mup Maurizio Dodi insieme a Franco Mosconi e all’assessore Lorenzo Lasagna. Più lo speaker iniziale. La traccia della conversazione è l’ultimo romanzo del giornalista, ‘Per l’alto mare aperto’. Il fondatore “di una delle principali testate” è però difficile da ingabbiare in uno schema. Lo intuisce bene Molossi, che parte con una domanda presto scavalcata: “Lei è nato nel 1924 – dice il direttore della Gazzetta – quali sono i suoi ricordi giovanili?”.

Solo un’ora dopo Scalfari risponderà. “Le avevo chiesto dei ricordi” farà notare Molossi. E l’intervistato: “Ah”. Quindi ecco l’aneddotto più esilarante, tragico ma narrato con naturale umorismo: “Il vice segretario del Partito fascista Scorza, un picchiatore lucchese, mi sollevò per i bavero – riferisce l’intervistato - e mi espulse dai Guf guastandomi la mia bella divisa e le mostrine azzurre sulle spalle, che tanto piacevano alle ragazze”. Sul giornale dei giovani mussolinani il futuro padre di Repubblica aveva criticato l’ortodossia del partito. “Questo Scorza mi prese allora per il collo e poi mi rimise per terra”. Tre giorni dopo la rivincita: “Insieme ad alcuni amici fondammo un’associazione clandestina, un gruppo antifascista”. Applauso.

E’ in realtà un’altalena tra memoria e riflessione il discorso di Scalfari. Il pendolo della sua oratoria è preciso, non sgarra. Anche quando pare svariare, come col racconto “del mio gatto che dorme sulla pancia del cane”, Scalfari fa ordine nelle cose. Ogni tassello trova la sua collocazione: “Scusate, ho 87 anni e a volte perdo il filo” si schernisce e intanto dà la notizia: “Sto scrivendo un nuovo libro – annuncia – parlerà della malinconia”. Battimano. E poi ancora entusiasmo quando ricorda la differenza tra la filosofia di Repubblica e quella del Corriere della Sera: “Noi partimmo dal presupposto che l’obiettività non esiste, il Corriere invece sostiene d’essere al di sopra delle parti. Ma quando De Bortoli dice che i commenti sono altra cosa rispetto ai fatti dice una baggianata”. Idem su Sergio Romano: “L’altro giorno ho letto un suo articolo, nel quale si sosteneva che le ultime vicende rischiano di oscurare il bene fatto da Berlusconi. Stavo pensando di rispondere con un mio articolo – sorride Scalfari - per dire che Romano non capisce niente”.

Il finale è per Carlo De Benedetti, editore del gruppo Espresso: “Lui è molto più a sinistra di me e di Ezio Mauro – spiega Scalfari – al punto che spesso dobbiamo moderarlo”. Così sulla tassazione patrimoniale: “De Benedetti sostiene che occorra un’aliquota sulle ricchezze e che nell’attuale difficile congiuntura economica il Governo non abbia messo le mani nel portafogli dei più benestanti, mentre lui contribuirebbe di buon grado ad accrescere il reddito dei più poveri. A un editore così – conlcude – gli prepari la brandina ai piedi del letto e te lo porti in casa”. Poi via, dopo gli autografi, per una Marlboro in strada aspettando il taxi.

(10 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://parma.repubblica.it/cronaca/2010/11/10/news/scalfari_tra_ricordi_e_umorismo_berlusconi_nome_troppo_lungo-8963158/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma che fa l'uomo del fare?
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 09:42:48 am
L'opinione

Ma che fa l'uomo del fare?

di Eugenio Scalfari

Silvio dice di lavorare dalle 7 della mattina alle due di notte (poi si svaga...). Ma si occupa solo dei problemi suoi e delle sue aziende e di tenere compatta la cricca degli amici

(19 novembre 2010)

Silvio Berlusconi e Umberto Bossi Silvio Berlusconi e Umberto BossiIl ribaltone non si può fare. Se una delle Camere vota una mozione di sfiducia venga sciolta e l'altra se invece voterà in favore del governo resti in carica. Un governo diverso dall'attuale che porti avanti la legislatura sarebbe un tradimento. Tali questioni sono comunque astruse, la gente non le capisce e dietro a esse c'è un gioco di palazzo per far fuori Berlusconi senza andare alla via maestra che è quella delle elezioni".
Queste affermazioni non le fanno soltanto il Presidente del Consiglio e i suoi ministri attaccati al potere come l'ostrica allo scoglio, ma le scrivono anche giornali e giornalisti cosiddetti imparziali e cosiddetti al di sopra delle parti. Sono questioni alle quali la gente (ma meglio sarebbe dire il popolo sovrano) non si appassiona, sono effettivamente astruse e di tecnica costituzionale.

La gente vorrebbe che si parlasse di altro e cioè di quelli che vengono definiti i veri problemi del paese: la disoccupazione, il costo della vita, il precariato, l'avvenire dei giovani, i consumi, le imprese in difficoltà, le tasse che aumentano invece di diminuire. Debbo dire: la gente ha perfettamente ragione ma non mi sembra che dei problemi che più le stanno a cuore non si parli. Se ne parla, eccome. Se ne parla tutti i giorni sui giornali, nelle trasmissioni televisive (quelle non asservite al potere), ne parla di continuo l'opposizione. Ma è anche vero (e questo molti tendono a dimenticarlo) che se questi problemi sono tuttora drammaticamente aperti la responsabilità incombe sul governo che nulla ha fatto per affrontarli e risolverli.
Il problema del governo è dunque preliminare rispetto agli altri. La macchina propagandistica guidata da Berlusconi lo definisce (e lui così si autodefinisce) "l'uomo del fare". Lavora dalle sette della mattina alle due di notte. Qualche volta sente il bisogno di rilassarsi (è lui che lo dice) e invita a cena una camionata di belle ragazze, racconta barzellette, ci fa un paio di balli e le rimanda a casa con qualche regalino di cortesia.

Bene. Lui lo dice e noi gli crediamo, sebbene qualche prova del contrario non manchi. Noi gli crediamo ma, domando io: che lavoro fa dalle sette del mattino alle due di notte se quei famosi problemi che interessano la gente sono ancora tutti lì, aperti, irrisolti e semmai aggravati?

Nel 1994 - ve lo ricordate? - fece un contratto con gli italiani. Nel salotto televisivo di Bruno Vespa, che aveva fornito scrivania, lavagna e gesso affinché il contratto fosse stipulato sotto gli occhi di milioni di spettatori, Berlusconi fece appunto l'elenco di quei problemi e soprattuto l'elenco delle opere pubbliche necessarie per modernizzare il paese. Poi aggiunse: se questo contratto non sarà adempiuto io darò le dimissioni, lo giuro sui miei figli.
Governò per pochi mesi perché la Lega fece un gigantesco ribaltone (adesso ha cambiato idea ma allora lo fece). Nel 2001 tornò al potere con una formidabile maggioranza e governò per cinque anni. Poi fu per la seconda volta battuto da Prodi, ma tornò di nuovo in sella nel 2008 e governa da due anni e mezzo. Però quei famosi problemi sono ancora tutti lì. Come mai? Sicché ripeto la domanda: che lavoro fa il nostro beneamato capo del governo dalle sette della mattina alle due della notte?

Io credo di sapere che cosa fa (barzellette e cene rilassanti a parte). Si occupa dei suoi problemi personali e di quelli delle sue aziende e si occupa di blindare il suo potere ed anzi rafforzarlo in tutti i campi, da quello della sua influenza sulle banche, sul sistema finanziario ma soprattuto sui "media" con speciale attenzione alla televisione. Deve inoltre tener compatta la cricca dei suoi più stretti amici, cosa nient'affatto semplice perché si tratta di voraci ed ambiziosissimi compagni di merende.
Quindi lavora molto. Naturalmente per sé. Per la gente e per i problemi della gente c'è poco spazio ma lui sa come tener la gente contenta, non ci vuole molto, gli italiani sono assai adattabili ed anche molto ingenui. Se trovano uno che ci sa fare gli vanno appresso. Se qualcuno scaltro di lingua gli propone di vendergli il Colosseo, la gente si lascia infinocchiare.

La gente imita chi la guida, vi ricordate Pinocchio alle prese con il gatto e la volpe? È un gran libro il Pinocchio di Collodi. È la metafora di una triste realtà. Il burattino di legno è la metafora della gente. Il gatto e la volpe sono la metafora del potere. Voi mi direte: i politici sono tutti eguali, non è solo Berlusconi ad infinocchiarci, i suoi avversari sono come lui. Personalmente non penso che siano come lui. Certo però come infinocchiatore e pifferaio lui è il più bravo di tutti perciò lui è il più pericoloso di tutti.

Secondo me è venuto il momento di mandarlo a casa. Lui ne ha venti di case. Come avrà fatto ad averne tante? Anche questa è una domanda che dovrebbe essergli fatta. La magistratura gliel'ha fatta molte volte ma lui non ha mai risposto perché - dalle sette della mattina alle due di notte - lavora anche per impedire che i processi a suo carico si svolgano e col passar del tempo cadano in prescrizione.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'insostenibile leggerezza della manovra di Tremonti
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2010, 11:49:36 am
L'EDITORIALE

L'insostenibile leggerezza della manovra di Tremonti

di EUGENIO SCALFARI

SE IL 14 dicembre ci sarà la crisi di governo e che cosa accadrà dopo è ancora terreno incognito, non lo sanno né Fini né Casini né Bersani né Veltroni né Vendola e non lo sanno neppure Berlusconi e Bossi. Un tempo si diceva che il futuro è sulle ginocchia di Giove e questa è appunto la situazione attuale, solo che non si sa chi sia Giove e ci sono anche forti dubbi sulla sua esistenza.

Ma in attesa che si sollevino le nebbie su quanto accadrà tra una ventina di giorni, parliamo di questioni più certe e più concrete che interessano da vicino quella moltitudine di italiani che debbono tutti i giorni guadagnarsi una vita decente e spesso non ci riescono. Parliamo delle risorse che non si trovano, del lavoro che scarseggia, dei salari e delle pensioni che scendono al di sotto dei livelli di sussistenza; parliamo delle tasse e del potere d'acquisto, delle diseguaglianze paurose, di giovani che a trent'anni cercano ancora un lavoro e anzi non lo cercano più. Parliamo della legge di stabilità finanziaria all'esame del Parlamento. Anzi cominciamo proprio di lì: la legge di stabilità 2011 che porta il sigillo di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, anzi dittatore dell'Economia e possibile successore del Cavaliere.

* * *

Il presidente della Repubblica ha ottenuto, con l'accordo dei presidenti delle Camere, che le forze politiche si impegnino ad approvare la legge finanziaria entro il 10 dicembre rinviando al 13 l'esame della crisi
politica e al 14 la votazione delle mozioni di fiducia e sfiducia nei due rami del Parlamento. La stessa questione si era presentata sedici anni fa, nel novembre del 1994, all'epoca del primo governo Berlusconi messo in crisi dalla Lega e il presidente Oscar Luigi Scalfaro l'aveva risolta nello stesso modo. Sembra preistoria, ma i problemi erano i medesimi allora ed oggi. Che cosa ha spinto lo Scalfaro di allora e il Napolitano di oggi ad entrare a gamba tesa nella zona riservata al Parlamento e ai partiti? Non certo la bontà d'una legge, sul cui merito essi non hanno alcun titolo per intervenire, ma il fondato timore che una crisi di governo eccitasse la speculazione e provocasse una crisi finanziaria e valutaria di tale gravità da scardinare l'economia italiana la cui fragilità era evidente allora e lo è ancor di più oggi.

Sedici anni fa c'era ancora la lira, moneta debole e sballottata da continue svalutazioni; oggi c'è l'euro e da questo punto di vista la situazione è certamente migliore nonostante che anche l'euro ondeggi sull'ottovolante di una depressione mondiale che è la più grave dal 1929 ai giorni nostri. Ma la fragilità della nostra economia reale è nel frattempo aumentata: abbiamo perso competitività, siamo agli ultimi posti nella crescita, ai primi posti nell'evasione fiscale e nel debito pubblico, la domanda interna registra un diagramma piatto, la disoccupazione effettiva è arrivata all'11 per cento, quella giovanile al 20 con punte oltre il 30 nel Mezzogiorno. Una speculazione agguerrita potrebbe utilizzare una crisi di governo di difficile soluzione come un trampolino di lancio ideale per travolgere i titoli di Stato italiani e metterci nella condizione della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo.

Questa è stata la preoccupazione che ha travagliato il Capo dello Stato e lo ha indotto ad intervenire. Il suo intervento ha avuto successo, la crisi politica è stata rinviata di un mese, nel frattempo la legge Tremonti procede speditamente e senza intoppi. Ma c'è un risvolto negativo: la legge Tremonti è una cattiva soluzione della situazione finanziaria ed economica del paese. Anzi: non è affatto una soluzione. Non risolve nulla, semmai aggrava. Non elimina gli sprechi perché i tagli lineari abbassano indiscriminatamente le spese correnti e quelle destinate agli investimenti con effetti deflazionistici sull'intera situazione. Non migliora le prestazioni dei servizi pubblici, anzi le rende ancora più fatiscenti. Non rilancia le infrastrutture, anzi le deprime ulteriormente. Non stimola le imprese. Rinvia a tempo indefinito la riforma fiscale. Fa lievitare le imposte locali. Non aiuta la competitività e l'innovazione. Accresce le diseguaglianze. Mortifica la ricerca e la cultura.

Questa è la legge Tremonti. Il risvolto negativo della "moral suasion" del Capo dello Stato consiste nell'aver attenuato le critiche che questa pessima legge avrebbe meritato nella sede appropriata del dibattito parlamentare. Ha impedito, quella "moral suasion", che la speculazione si scatenasse e questo è un risultato prezioso; ma ha spianato la strada ad una politica economica che avrebbe dovuto mettere la crescita allo stesso livello di priorità dei saldi contabili ma non l'ha mai fatto da quando il ministro Tremonti guida il super ministero dell'Economia, cioè da quasi nove anni con il breve intervallo di due anni durante il travagliatissimo governo Prodi del 2006/2008.

* * *

Giulio Tremonti ha perfettamente ragione quando, a proposito della crisi irlandese, ha detto che l'Italia non è il problema ma è parte della soluzione del problema. Nel caso specifico le cose stanno così. Ha dimenticato però di dire che in altri casi l'Italia non è parte della soluzione del problema ma è il problema di cui l'Europa si deve far carico. Ne indico due di rilevantissime dimensioni. Il primo è quello della criminalità organizzata. Un aspetto riguarda l'ordine pubblico e non è di competenza del ministro dell'Economia, ma l'altro aspetto, di gran lunga più rilevante, lo riguarda invece direttamente e consiste nel riciclaggio dei fondi di origine mafiosa e nell'infiltrazione delle mafie nel tessuto economico nazionale ed europeo. Il contrasto dello Stato all'espandersi di questo fenomeno è stato finora debolissimo e inefficiente. Il secondo problema è il debito pubblico italiano che si è attestato al 118 per cento del Pil nel 2010 ed è previsto al 120 per cento nel 2011.

Il debito pubblico italiano fa parte integrante del debito pubblico dell'Unione europea, come tutti i debiti pubblici espressi in euro. La Germania e la Francia hanno fatto approvare in Commissione l'obbligo di rientro dei debiti eccedenti il 60 per cento del Pil entro due anni a partire dal 2012. Questa delibera della Commissione dovrà essere approvata dal Parlamento di Strasburgo. Potrà forse essere attenuata ma non di molto. Se fosse integralmente ratificata comporterebbe per noi una manovra nel 2012 di 45 miliardi solo per ottemperare a quell'obbligo e altrettanti per l'anno successivo. Se sarà attenuata dal Parlamento europeo potrebbe scendere a 30 miliardi, 60 nei due anni, ma non certo al di sotto. Credo di non dover spiegare che cosa rappresentino manovre di queste dimensioni per un paese già stremato da una stasi nella crescita che dura da vent'anni. In questi due casi specifici noi siamo il problema dell'Europa, ma il governo si è finora guardato bene dall'informarne il Parlamento e il paese.

Che il 14 dicembre ci sia la crisi del governo o non ci sia e che ad essa segua un governo alternativo o le elezioni è certamente importante. Resta però il fatto che - indipendentemente dalle vicende strettamente politiche - i due problemi sopraindicati pesano come macigni su tutti gli altri sopraelencati, quelli che riguardano le famiglie, i lavoratori, gli imprenditori, i consumatori, i giovani. Sarebbe necessario che l'opposizione sollevasse queste questioni di fondo e che il governo ne rispondesse al Parlamento e al paese. In fondo si tratta della nostra vita quotidiana. Vi sembra poco?

(21 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un gruppo d'infiltrati a Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2010, 06:12:01 pm
L'EDITORIALE

Un gruppo d'infiltrati a Palazzo Chigi

di EUGENIO SCALFARI

L'IDEA d'un complotto anti-italiano è stupefacente ma non è nuova.

Il più illustre predecessore fu Benito Mussolini che la lanciò nel 1935, all'epoca delle sanzioni che ci furono comminate dalla Società delle Nazioni per la nostra aggressione contro l'Abissinia. Motore del complotto era allora il blocco "demo-giudo-plutocratico" che secondo i fascisti dominava il mondo e voleva affondare l'Italia per impedirle di conquistare il "posto al sole" che ci spettava. Ma c'erano già stati altri precedenti altrettanto illustri: Vittorio Emanuele Orlando che aveva abbandonato il Congresso della pace di Versailles nel 1919 perché le potenze alleate non volevano riconoscerci l'Istria e, subito dopo, D'Annunzio a Fiume innalzando la bandiera della "vittoria tradita".

Tra le qualità e i vizi degli italiani uno dei tratti ricorrenti è quello del vittimismo. Silvio Berlusconi è un asso in materia.
Nel caso attuale mancano tuttavia del tutto gli appigli, sia pur pretestuosi, che giustifichino la tesi del complotto. Mettono insieme il crollo di Pompei, i rifiuti di Napoli, il processo alla Finmeccanica e le imminenti rivelazioni del sito WikiLeaks. Sembra il frutto d'un gruppo di matti che si sia infiltrato a Palazzo Chigi nella sala del Consiglio dei ministri o invece di una abilissima sceneggiata da usare per riguadagnare un consenso perduto e prepararsi alla campagna elettorale con un alibi che faccia presa appunto sul vittimismo nazionale.

Personalmente propendo per entrambe queste ipotesi: gli autori della sceneggiata sono abilissimi proprio perché sono matti, hanno perso il controllo delle proprie menti e affidano a comunicati ufficiali la loro impazzita creatività propagandistica.
Ma l'aspetto più stupefacente e inquietante non è che quel comunicato del governo sia scaturito dalla mente di Berlusconi e che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, abbia accettato di farsene protagonista. L'aspetto stupefacente è che il comunicato sia stato diramato con la firma di Gianni Letta. Un uomo prudentissimo, consapevole del danno d'immagine e di sostanza che un documento di quel genere avrebbe causato al governo e al paese. Questo è veramente il segno che siamo alla frutta. In queste condizioni la permanenza di quel governo e di quel premier fa venire in mente la "nave dei folli" e costituisce il più preoccupante motivo d'insicurezza che pesa sul destino dell'Italia.

* * *

Il Presidente della Repubblica, sia venerdì sia di nuovo ieri, ha attirato l'attenzione delle forze politiche e della pubblica opinione sui pericoli che minacciano l'euro e la stessa Unione europea. La crisi irlandese non è affatto superata, si attende col fiato sospeso la riunione di domani dell'Ecofin e le reazioni dei mercati. La speculazione ha messo sotto tiro anche il Portogallo e la Spagna. I debiti sovrani di quei paesi sono sotto la lente delle agenzie di "rating" e così pure le banche di mezza Europa che hanno largamente investito in titoli spagnoli.

Il debito italiano parrebbe al sicuro e così pure il nostro sistema bancario, ma è comunque il debito più alto del mondo. Questa situazione giustifica ampiamente gli appelli al senso di responsabilità lanciati da Giorgio Napolitano.

Quegli appelli sono rivolti a tutte le forze politiche ma non indicano quale sia il percorso auspicabile da seguire né si può chiedere al Capo dello Stato di indicarlo. La più alta carica istituzionale non può gestire una crisi politica che s'incrocia con una crisi economica di questa fatta prima che essa sia stata formalmente aperta.

Conosciamo tuttavia i dati di fatto che possono guidare le decisioni di Napolitano quando sarà lui a doverle prendere.
Elenchiamoli quei dati di fatto.

1. Il 14 dicembre il Parlamento deciderà sulla fiducia al governo. Se le Camere voteranno in suo favore, Napolitano non avrà ragione di intervenire; si limiterà a vigilare stimolando il governo ad attuare una politica economica in sintonia con l'Europa e riforme equilibrate della giustizia e del federalismo.
Purtroppo non pare che quella della giustizia, che sarà presentata martedì prossimo al Consiglio dei ministri, abbia i requisiti di equilibrio che sarebbero necessari per riscuotere il consenso di un'ampia maggioranza. Il federalismo si trova purtroppo in analoghe condizioni.

2. Se il governo sarà sfiduciato anche in una sola Camera, Berlusconi dovrà dimettersi né il Capo dello Stato potrà rinviarlo in Parlamento per verificare quello che è già stato verificato. A quel punto il Quirinale dovrà accertare se esistono le condizioni per formare un nuovo governo.

3. L'appello alla gravità della situazione economica  -  se ha un senso e certamente ce l'ha  -  porta ad escludere che Napolitano sciolga le Camere se avrà la fondata speranza di poter insediare un nuovo governo capace di ottenere la fiducia del Parlamento.
La via delle elezioni significa nel caso migliore tre mesi di una barca con un timoniere azzoppato in un mare in tempesta; tre mesi di mercati sottoposti ad una speculazione micidiale.
Da questo punto di vista l'appello del Quirinale al senso di responsabilità sembra rivolto al fronte berlusconiano affinché accetti ed eventualmente appoggi il nuovo governo e al fronte opposto affinché si metta in grado di offrire una piattaforma il più possibile coesa.

4. Qualora il fronte delle opposizioni non sia in grado di esprimere una volontà all'altezza della situazione, si aprirebbe una subordinata: un governo di minoranza che si regga sull'astensione dei finiani e dei centristi ma abbia però al primo punto del programma la revisione sostanziale della legge elettorale oltre ovviamente ad una tenuta coerente della politica economica.

5. Se nessuna di queste ipotesi si verificasse e la sola via restasse quella dello scioglimento delle Camere, la nave Italia entrerebbe nella tempesta, che è appunto l'ipotesi che il Capo dello Stato, con ragione, teme di più. O almeno: così sembra a noi ragionando sui dati di fatto e sulla logica che ne consegue.

* * *

Ma quanto durerà la tempesta economica e con quali possibili sbocchi? Purtroppo durerà. Certamente per tutto il 2011, probabilmente ancora nel 2012 con effetti sperabilmente attenuati ma non ancora scomparsi nel 2013.
Almeno per quanto riguarda l'Italia il calendario è questo (ma il governo dava per tutto finito già nel 2009).
Queste previsioni poggiano purtroppo su un esame nient'affatto fantasioso ma realistico della nostra situazione economica. Siamo un paese a crescita zero da almeno dieci anni, con una disoccupazione media che, considerando anche la cassa integrazione in deroga, viaggia sopra al 10 per cento come media nazionale, con una media vicina al 20 nelle regioni meridionali.

La disoccupazione dei giovani nella media nazionale è al 20 per cento, nel Mezzogiorno al 30. Tra i giovani con lauree umanistiche e professionali il tasso nel Sud si colloca sul 50 e gli occupati di solito fanno i lavapiatti o i camerieri. Vivono a carico dei genitori e dei nonni, per cui la famiglia è diventata il principale ammortizzatore sociale esistente.

In questa situazione si colloca un debito pubblico che si trova al 118 per cento e raggiungerà il 120 l'anno prossimo con la prospettiva che l'Unione europea, sotto la spinta della Germania e della Francia, prescriva l'obbligo di rientrare entro il 2013 nel limite del 60 per cento rispetto al Pil.

Queste sono le dimensioni del problema che dovrà essere affrontato dall'Ecofin, dalla Commissione di Bruxelles e dalla Banca centrale europea entro il prossimo febbraio. Se fosse accettata la proposta della Commissione sul rientro del debito entro la soglia del 60 per cento, l'Italia dovrebbe compiere tra il 2011 e il 2013 una manovra complessiva che, per quanto riguarda il solo debito, ammonterebbe a 45 mila miliardi annui. Cifra stratosferica e sicuramente negoziabile. Ma di quanto negoziabile? La speranza è d'un rientro fino all'80 per cento del Pil o di una rateizzazione decennale. La previsione più probabile è quella di un accordo dell'ordine di 30 miliardi in tre anni o di 15 miliardi in dieci anni. Una parte di questa cifra può essere reperita dalla graduale diminuzione degli oneri che stiamo attualmente pagando sul debito. Il resto è un esborso netto che non può certo provenire da ulteriori aumenti del fabbisogno finanziario.

Tutto questo ragionamento significa che non ci sarà posto per provvedimenti di crescita perché, a legislazione vigente, mancano le risorse, la spesa corrente continua a crescere nonostante i tagli, le entrate diminuiscono a causa del rallentamento della produzione e dell'aumento dell'evasione.
Lo scenario è dunque quello di una deflazione allarmante. A meno che l'Unione europea non decida di far crescere l'inflazione per diminuire il peso reale dei debiti.

Sarebbe una via di fuga che scaricherebbe il peso dell'imposta-inflazione sui redditi fissi. Ma c'è da escludere che la Germania accetti una politica di questo genere che penalizzerebbe le esportazioni.
Dunque deflazione per almeno tre anni, a meno che....
A meno che non si faccia una riforma fiscale che tassi il patrimonio in favore dei redditi medio-bassi, dei consumi, del lavoro e delle imprese. Basta enumerare queste necessità per capire che non è certo un governo Berlusconi- Tremonti a poter effettuare scelte di questo tipo.

* * *

La presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha fatto parlare di sé la scorsa settimana con la proposta di un federalismo a doppia velocità: subito nelle regioni più ricche a cominciare dalla Lombardia, dal Veneto e dal Piemonte, rinviandolo invece per le regioni povere. Questa proposta è stata lanciata in un'assemblea di industriali a Milano e ripetuta dalla Marcegaglia a Treviso e diffusa ampiamente dai giornali e dalle televisioni. Gli industriali delle zone interessate hanno applaudito con ovazioni da stadio il loro presidente.

Ebbene, a nostro avviso, si tratta d'una proposta totalmente sbagliata che avrebbe nefasti effetti politici, sociali ed economici.
Politici. Si statuisce di fatto una secessione lenta della Padania dal resto del paese provocando nel sud reazioni politiche e sociali di dimensioni non valutabili. Il Sud vedrebbe sancita la sua condizione di territorio assistito con fondi provenienti dallo Stato, cioè dai contribuenti di tutto il resto d'Italia: una regressione non tollerabile e fonte di reazioni molto accese.
Economici. La spaccatura in due del mercato con tutto quello di imprevedibile che ne consegue a cominciare da un sistema bancario sottoposto ad una torsione radicale nella raccolta dei depositi e nel loro impiego "territoriale".
Sociali. La fine d'ogni coesione e di ogni omogeneità contrattuale.
La stessa Marcegaglia ha successivamente tentato di limitare la sua proposta alla sburocratizzazione del Nord.

Proposta più accettabile che però può per essere effettuata senza bisogno di tirare in ballo il federalismo. Uno Stato federale non può che estendersi all'intero territorio nazionale. Federare solo le regioni ricche tra loro è una contraddizione in termini. Significa semplicemente affidare ad esse l'egemonia economica e politica degradando le regioni povere ad un rango coloniale. L'India fu decolonizzata dall'Inghilterra nel 1945. Degradare a rango di colonia l'Italia peninsulare da Firenze in giù nel 2010 significa camminare con i paraocchi come i cavalli.
 

(28 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma Silvio Mara o non Mara?
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:15:44 am
Ma Silvio Mara o non Mara?

di Eugenio Scalfari

Il ministro Carfagna prima esce e poi rientra nei ranghi.

E chiude la vicenda così: "Il presidente Berlusconi ha sempre considerato moltissimo le donne"

(03 dicembre 2010)

Fisicamente è bella, testa sveglia e di buon consiglio. Il mestiere di ministro l'ha imparato rapidamente. Carattere forte, niente da dire. Berlusconi? Lo adora. Lei lo dice e non c'è ragione di non crederle. Vuole bene anche a Bocchino, ma non andrebbe mai con Fini. Invece con La Russa ci sta. Perché? Perché sì, La Russa ha il suo che, Verdini invece no. Letta è un vice-padre. Gentiluomo vaticano. I fatti sono fatti. La lunga rottura tra Silvio e Veronica cominciò proprio da Mara, ricordate? Roba di tre anni fa ma sembra un secolo. Una sera, in un locale dove venivano distribuiti premi, Berlusconi faceva la ruota in un crocchio di belle ragazze e aveva per ognuna una frase gentile, un'adulazione garbata. Ma con Mara disse di più. Disse: "Se non fossi già sposato me la sposerei". Una battuta, ma talmente insolita per uno come lui che Veronica aggrottò la fronte quando le fu riferita. E poco dopo sparò la famosa lettera contro le Veline.

Tutto cominciò da Mara, dicono infatti i cultori del genere, gli esperti in velinologia. Non è esattamente così, ma certo quella di Mara fu la goccia che fece traboccare il vaso di Veronica. Silvio l'ha amata, Veronica? Anche qui bisogna ricorrere agli esperti e il responso è questo: Silvio, come tutti i libertini, ama l'amore, ama le donne come genere, non conosce l'amore romantico che si fissa su una persona o almeno su una tipologia. Chi ama l'amore trascorre rapidamente da una all'altra, non ha un tipo preferito: bruna o bionda, piccola o di alta statura, timida o sfacciata, novizia o "escort" e "in Ispania son già milletré, la passion predominante è la giovin principiante". Noemi Letizia non ha niente in comune con Ruby e nessuna di loro con Veronica, ma bisogna dire che con Veronica la passione ci fu e durò per anni, da metà degli Ottanta ai primi Novanta, con tanto di figli e di matrimonio post-divorzio.
Poi le cose cambiarono e lui si ammalò. Così scrisse Veronica e c'è da crederle. Quel tipo di male ha una lunga incubazione, poi scoppia tra i sessanta e i settant'anni e allora sono guai. Mara però brilla di suo. Fa bene perfino il ministro, ma non è la sola. Gelmini è alle prese con un ministero molto più impegnativo, con portafoglio. Mara invece no, il portafoglio non ce l'ha. Prestigiacomo invece sì, Brambilla no, Santanché nemmeno. Finora. Mussolini niente. Forse per questo è arrabbiata, costretta a baciare sulla bocca Cosentino. Bacio secco oppure umido? Se ne discute nei palazzi, chi ha stomaco forte. Comunque.

Carfagna ad un certo momento rompe. Sui rifiuti di Napoli. Nel momento peggiore della crisi del berlusconismo.

Quando basta un peso da un milligrammo per far pendere la bilancia da una parte o dall'altra e Mara, ancorché molto smilza, una cinquantina di chili li pesa tutti. E poi gli argomenti: la legalità, gli appalti, una regione e una città sfigurate, mamme urlanti, bambini con la mascherina su naso e bocca, fiamme puzzolenti, liquidi tossici, la denuncia televisiva di Roberto Saviano, l'Italia perbene e Bella ciao. A quel punto arriva Carfagna. Come Luisa Sanfelice? Come Eleonora Fonseca Pimentel? I Giacobini del Novantanove? Una rottura, e con quale dignità! Voterà la fiducia a Berlusconi il 14 dicembre ma contemporaneamente annuncia che si dimetterà dal governo, dal partito e dal Parlamento per ragioni di coerenza e di dignità. A meno che il presidente del Consiglio non cambi amicizie politiche in Campania. Niente più Cosentino, tutto il potere al presidente della Regione, Caldoro. Un piano serio per l'eliminazione dei rifiuti. Lei comunque non seguirà l'amico Bocchino, farà politica con Micciché nel neo-partito del Sud.

Con Micciché? Bisogna ricorrere di nuovo agli esperti che a quel nome storcono il naso. Uscire dal Pdl per andare con Micciché sa già di mezzo passo indietro perché Micciché non è mai uscito dal berlusconismo. Gioca la sua parte in commedia ed è tuttora - salvo errore - sottosegretario. Si prepara una candidatura Carfagna a sindaco di Napoli, intestata a Micciché ma accettata da Berlusconi? Il Capo smentisce, Carfagna pure.

Incontra La Russa e poi Letta. Esce il decreto: Caldoro sarà commissario ai rifiuti e agli appalti. Mara ha ottenuto quel che voleva.

L'ultimo incontro con Silvio e tutto va a posto. Ma il Quirinale si accorge d'un particolare che Carfagna, nella fretta di rientrare nei ranghi, non aveva visto: Caldoro deciderà gli appalti insieme a Cosentino e ai suoi uomini insediati nelle province di Napoli e di Salerno.
Il Quirinale rinvia il decreto e chiede modifiche. Le ottiene. Carfagna era già nei ranghi da tre giorni.

Il resto è tutto da vedere. Brambilla e Santanché - dicono gli esperti - non sono contente di questo finale. Gelmini ha altro cui pensare e poi - dicono gli esperti - le due sono grandissime amiche. Prestigiacomo? Mezza fuori e mezza dentro, con i tempi che corrono una situazione ideale. L'ultima frase di Mara a chiusura della vicenda: "Il presidente Berlusconi ha sempre considerato moltissimo le donne".

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le esequie scomposte di un potere defunto
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 11:42:25 am
IL COMMENTO

Le esequie scomposte di un potere defunto

di EUGENIO SCALFARI


IL MIO tema di oggi è la crisi economica e finanziaria in Europa e in Italia e le sue ripercussioni sulla nostra crisi politica. Ma prima...
C'è sempre un "ma prima" di cui ci si deve occupare in questo Paese, perché siamo diventati un Paese imprevedibile e ogni giorno che passa lo diventiamo di più. I problemi di fondo sono sempre quelli perché nessuno si è dato la pena di risolverli, ma le increspature di superficie si sono ormai trasformate in ondate di tali dimensioni da aggiungere peso a peso rendendo l'orizzonte sempre più fosco ed incerto.

Perciò ecco il "ma prima" di oggi: il partito di Berlusconi se ne frega delle prerogative del Quirinale. L'aveva già detto e ripetuto il "boss" in varie occasioni in modo esplicito, ai tempi del caso Englaro e ai tempi del lodo Alfano; ma il "me ne frego" di marca fascista e squadrista non era ancora stato usato. Adesso anche quel tabù è stato infranto da Denis Verdini, coordinatore nazionale del Pdl, pluri-inquisito per reati comuni di associazione per delinquere, riciclaggio, falso in bilancio e bancarotta. Un elenco che basterebbe ad imporre le sue dimissioni da ogni incarico politico, ma il "boss" è con lui e tanto basta.

Verdini ha fatto le sue scuse al Capo dello Stato con questa spiegazione: il suo "me ne frego" era politico e non istituzionale. Una canzone che cantavano i fascisti di Salò diceva: "Ce ne freghiamo noi della galera". Verdini probabilmente
se ne frega della galera politicamente, ma istituzionalmente no. Ammirabile sottigliezza.

Mettiamo insieme questo rigurgito squadrista con i fondati sospetti di profitti privati che il "premier" avrebbe ricevuto dal suo sodale Putin piegando l'Eni a patti scellerati con Gazprom, con le intemperanze sessuali che lo rendono incapace di guidare un Paese nella tempesta d'una crisi di inconsueta vastità e durata e con lo sfaldamento in atto di quel che rimane della sua maggioranza ed avremo un cocktail esplosivo. "Nave senza nocchiero in gran tempesta" scriveva il poeta ed aggiungeva "non donna di province ma bordello". Chi potrebbe dir meglio?

In questi frangenti Gianni Letta continua a tentare improbabili mediazioni. Casini dal canto suo rilancia il nome di Letta come possibile ed accettabile successore del "boss" a palazzo Chigi. Si tratta d'una proposta provocatoria perché Berlusconi non prevede in nessun caso successori a se stesso e men che meno Letta che disse all'attuale ambasciatore americano a Roma che Berlusconi era ammalato e in condizioni fisiche che non gli consentivano di governare. Letta ha smentito ma l'ambasciatore Thorne no perché il dispaccio che riferisce queste confidenze è firmato da lui.

Le ultime notizie di provenienza berlusconiana ci informano che il premier si aggrappa ora alle agenzie di rating che - - secondo lui - abbasserebbero le loro valutazioni del nostro debito pubblico nel caso che il governo fosse messo in crisi. La verità è che la persona più inadatta a padroneggiare la crisi è proprio lui, come si vede da quando la crisi è nata e il governo ha negato perfino che esistesse. Chi sostiene che i veri problemi sono altri dice cosa giusta ma dimentica di aggiungere che l'allontanamento di Berlusconi è un preliminare in mancanza del quale i problemi veri non potranno mai essere risolti, come dieci anni di governo ampiamente dimostrano.

* * *

La crisi economica dell'Europa è semplice da spiegare ma difficile da curare: per cominciare vorrei fare chiarezza su un punto: le oscillazioni dell'euro nei confronti del dollaro non sono una causa di quanto avviene né sono l'obiettivo della speculazione. Quando l'euro fu creato dieci anni fa la sua parità fu fissata a 1,17 dollari per euro. Dopo poco scese sotto la parità arrivando a 78 centesimi di dollaro. Poi risalì e ridiscese varie volte. Appena sei mesi fa rimase per qualche settimana a 1,22, poi risalì fino a 1,50, adesso oscilla intorno a 1,30 ma nessuna di queste oscillazioni ha creato panico e contromisure. Il basso livello del cambio, semmai, incoraggia le esportazioni delle merci e servizi di tutta la zona euro verso l'area del dollaro. In particolare per il nostro turismo il cambio basso è una manna.
La speculazione dunque non ha il cambio dell'euro come obiettivo. Il vero obiettivo è il debito sovrano degli Stati periferici dell'eurozona, Grecia, Irlanda, Portogallo, anche Belgio. Forse Spagna e forse anche Italia, qualora le regole europee sul rientro del debito entro il livello del 60 per cento rispetto al Pil sarà severamente rigido come la Germania vorrebbe.

Quindi al centro della speculazione c'è il problema dei debiti sovrani. Nei giorni scorsi la Banca centrale europea è intervenuta sul mercato a sostegno dei Paesi più esposti agli attacchi.
Ci sono vari modi di attaccare i debiti sovrani. Un modo è di vendere titoli pubblici di quei Paesi per far crescere lo "spread" rispetto ai "bund" tedeschi. Un altro modo è quello di acquistare i "bund" tedeschi. Un altro ancora è di vendere i titoli delle principali banche del Paese attaccato.
Il fine della speculazione sta nel lucro che si ricava da queste oscillazioni. Vogliono anche, gli speculatori, attraverso queste destabilizzazioni far saltare l'intero sistema dell'euro? Non penso che l'obiettivo sia questo. La speculazione sa che le sarebbe contrapposta una difesa difficilmente superabile. La disarticolazione della struttura dell'euro potrebbe però esser frutto di errori compiuti dalle autorità europee, dalla loro incapacità di dar vita ad un governo europeo dotato di poteri economici incisivi, dalla tentazione della Germania di arroccarsi su un super-euro lasciando alla deriva chi non ce la fa a seguirla.

Questi errori sono possibili, alcuni sono già stati commessi e poi riparati. Perciò la vigilanza e l'iniziativa degli Stati membri per procedere nel modo giusto dovrebbe essere massima. La presenza di Berlusconi non è un elemento di sicurezza. Se fosse sostituito da Tremonti o da Mario Monti o da Mario Draghi, in Europa non ci sarebbe alcuna preoccupazione. Quanto ai personaggi soprannominati le loro visioni sono diverse e in qualche caso dissimili, ma tutti e tre hanno una solida esperienza in quelle delicatissime materie.
I mercati dal canto loro continuerebbero a registrare lo scontro tra speculatori e debiti sovrani e questo è quanto.

* * *

La Banca centrale europea, imitando su scala ridotta la Federal Reserve americana, ha acquistato nei giorni scorsi titoli di debiti sovrani in difficoltà con operazioni sul mercato aperto eseguite direttamente o tramite le banche centrali che fanno parte del sistema. Questi acquisti producono anche effetti collaterali oltre all'effetto principale di sostenere le banche sotto attacco e di far diminuire lo "spread" rispetto ai "bund" tedeschi.
Uno degli effetti collaterali è quello di fare aumentare la liquidità, ma la Bce - a differenza della Fed americana - non desidera aumentare la liquidità complessiva e quindi sterilizza l'aumento di liquidità stringendo altri canali. Per esempio vendendo titoli di debiti sovrani forti o valute conservate nelle sue riserve.
La verità è che la Fed sta adottando consapevolmente una politica inflazionistica sperando di far ripartire la ripresa economica e l'occupazione; il rientro del debito pubblico americano è rinviato a ripresa consolidata. Viceversa la Bce ha scelto una politica di deflazione morbida e per questa ragione non vuole che la liquidità complessiva del sistema europeo aumenti e sterilizza gli effetti della difesa dei debiti sovrani pericolanti.
Questo panorama è molto chiaro e funziona sul breve periodo. Ma non affronta i problemi che abbiamo davanti e che stanno arrivando al pettine tutti insieme.

Il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha fornito alcune cifre molto significative in una sua comunicazione alla Facoltà di Economia di Ancona il 5 novembre scorso. Quelle cifre unite a i suoi commenti gettano luce proprio sui problemi che dovranno essere affrontati da subito.

* * *

"Secondo le stime del Fondo monetario internazionale la quota dell'eurozona nel Pil mondiale era pari al 18 per cento nel 2000. Nel 2015 scenderà al 13 per cento. Nello stesso periodo la quota dei Paesi emergenti asiatici raddoppierà dal 15 al 29 per cento". Questi dati descrivono a sufficienza il mutamento radicale dello scenario mondiale. La nostra economia, aggiunge Draghi, ne ha risentito molto più di altre. "Essa manifesta un'incapacità a crescere con tassi sostenuti. L'ultima recessione ha fatto diminuire il Pil italiano di 7 punti".
Sette punti, tanto per esser chiari, equivalgono a 120 miliardi di euro. "La crescita del prodotto per abitante in Italia si va riducendo da tre decenni. Siamo passati da un aumento annuo del 3,4 per cento negli anni Settanta a 2,5 negli anni Ottanta e all'1,4 negli anni Novanta. Nell'ultimo decennio 2000-2010 la crescita è stata zero".
Queste cifre riguardano i flussi di reddito, ma se spostiamo l'analisi dal reddito alla ricchezza patrimoniale, cioè al risparmio accumulato e investito in vari modi, la situazione appare capovolta. Scrive Draghi: "Secondo i dati dell'Ocse nel 2007, prima della recessione globale, l'Italia presentava pro capite il Pil più basso tra i Paesi del G7, pari al 69 per cento di quello degli Usa, ma la ricchezza pro capite delle famiglie italiane era l'88 per cento di quella delle famiglie americane e un valore superiore a quella della Francia, Germania, Giappone e Canada".

Il suggerimento implicito di queste cifre ci porta ad una conclusione da noi più volte suggerita ma mai adottata: i mezzi per stimolare la crescita esistono solo che si voglia trasformare una quota delle imposte sui redditi medio-bassi al patrimonio delle categorie sociali medio-alte.

La redistribuzione vista come fonte di maggior domanda e quindi di crescita del sistema-paese.
Per finire, Draghi propone l'istituzione di un fondo sovrano tra i Paesi dell'euro, che si alimenti con un'imposta sulle transazioni finanziarie e consenta di far rientrare i debiti entro il livello desiderato del 60 per cento. Analoghe proposte sono state formulate nei mesi scorsi da Vincenzo Visco e Mario Monti.
Vi sembra che il governo Berlusconi abbia la voglia, la fantasia e la volontà di adottare politiche economiche come quelle sopra indicate? Vi pare che Verdini, Matteoli, La Russa, Scajola, Romani, Alfano, siano in grado di pensarle? Forse Santanché, Brambilla, Gelmini? Magari Carfagna? O la Mussolini, detta la baciona per via del bacio dato a Cosentino.
Robe e nomi da coprirsi il viso per la vergogna.

Post scriptum. Ho letto ieri un articolo sul "Foglio" di Pietrangelo Buttafuoco, penna sottile e talento indipendente. Il titolo: "Meglio fottere che comandare". Buttafuoco dà una sua lettura - sboccata ma interessante - del berlusconismo. Lo cito perché non solo è acuto ma esilarante e qualche risata è pur necessaria per alleggerire la cupezza del clima.

"In quel grazioso palazzo, ossia Grazioli, le nubi delle accuse di corruzione, mafia, falso in bilancio, conflitto di interessi e perfino seduzione di minorenni, in un brevilineo come lui si diradano, anzi evaporano in virtù della sua euforia genitale. Al dottor Berlusconi piace la gnocca, solo la gnocca. Il dottor Berlusconi fa festini che sono il rimosso di tutti quelli che gli stanno intorno, compresi gli schiavi, i servi, i cortigiani e i ruffiani. Compresi poi gli italiani, perfettamente inutili da governare ma che alla fine hanno un preciso istinto per immedesimarsi con chi, sollevandoli dall'incombenza, copula in loro vece. L'italiano medio si immedesima col dottor Berlusconi in ragione del rimosso dei rimossi: ognuno, vincendo all'Enalotto, farebbe come fa lui nell'agio del suo smagliante patrimonio".
Secondo me questo è uno splendido "coccodrillo" di un potere defunto.

(05 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/05/news/le_esequie_scomposte_di_un_potere_defunto-9850384/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il governo galleggiante dei consensi comprati
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2010, 04:28:26 pm
L'EDITORIALE

Il governo galleggiante dei consensi comprati
Bossi ha la golden share del centrodestra e staccherà la spina se diminuirà il peso della Lega.

È vergognoso e inaccettabile che un uomo politico metta in vendita il consenso o provi ad acquistarlo

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO alcuni fatti che tengono banco in questa giornata che precede di 72 ore la conta del 14 dicembre (se conta ci sarà).
Li enumero: il calcio-mercato e l'intervento della Procura di Roma che ha aperto un'inchiesta per reato di scambio di voti; la piazza di San Giovanni dove il Pd ha chiamato a raccolta i suoi militanti; la lettera diramata dalle cosiddette colombe del Pdl e dei finiani affinché "in extremis" si trovi un accordo tra i due partiti che eviti lo scontro sulla fiducia. Ma infine e soprattutto che cosa accadrà dal giorno dopo in poi, quando, superata in qualche modo quella scadenza, bisognerà affrontare il tema della strategia per quanto riguarda la coesione sociale, la tenuta finanziaria del debito e la crescita economica.

I protagonisti sono numerosi. Fin troppo numerosi e portatori di variabili che rendono difficile la quadra, per esprimersi nel lessico di Umberto Bossi. Facciamone i nomi: Berlusconi innanzitutto, Fini, Casini, Bersani (per dire il Partito democratico), Bossi. Al di fuori e al di sopra di questi giocatori in campo c'è Giorgio Napolitano, arbitro e tutore delle regole costituzionali. La funzione dell'arbitro non è mai marginale, ma può diventare assai più importante e addirittura decisiva quando la partita sia piena di brutti falli e di giocatori che mirino più alla rissa che al buon gioco. Ciò detto, dedico qualche parola alla questione morale.

Può sembrare una questione teorica ed in parte lo è, ma è anche un punto di
riferimento per tutte le persone alle quali sta a cuore la dignità del proprio Paese e di se stesse. Queste persone sono molte e di varia cultura e orientamento politico. Ci sono i laici e i cattolici, i giovani e gli anziani, i lavoratori e gli imprenditori, i moderati e i progressisti. La questione morale si pone perché molti, moltissimi cittadini di questo Paese sentono chiaramente che la morale è stata ed è apertamente calpestata. Quando le istituzioni che dovrebbero realizzare, ciascuna nel settore di sua competenza, il bene comune vengono invece piegate a favorire l'utile di chi ne determina l'attività, lì, in quel luogo e in quel momento la morale viene messa sotto i piedi.

Conosco l'obiezione a questa tesi: la politica ha una sua autonomia, Machiavelli insegna. Politica e morale sono due categorie mentali diverse, talvolta perfino contrapposte e comunque autonome l'una dall'altra. Personalmente concordo con la tesi dell'autonomia salvo che su un punto decisivo: i fini della politica debbono essere morali perché perseguono il bene di tutti. L'autonomia della politica riguarda soltanto i mezzi ma anche qui con un limite: i mezzi non possono mai essere contraddittori rispetto ai fini. Qualche esempio pratico. Se una pubblica istituzione viene usata per sistemarvi i parenti e gli amici di chi la dirige, questo mezzo contraddice palesemente la finalità. Se un uomo politico convince un suo collega a cambiar partito, la sua opera di convincimento è pienamente accettabile, ma se compra il consenso o lo mette in vendita, questa è una prassi vergognosa e inaccettabile. La questione morale e il rapporto tra morale e politica è tutto qui. I cittadini elettori possono trovare in questo semplice criterio lo strumento per utilizzare correttamente il loro voto sovrano.

* * *

La piazza di San Giovanni ieri era imponente. Il Partito democratico c'è, è una realtà politica, ha i suoi quadri centrali e locali, i suoi militanti, il suo programma riformatore. Non debbono piacere a tutti, anche all'interno ci sono critiche, a volte ben motivate altre volte demagogiche. Quelle demagogiche fanno chiasso e fanno spettacolo, ma servono solo a disgregare e non a migliorare. Comunque il partito c'è e gli ultimi sondaggi lo danno in recupero di consensi. Recupero modesto. Il bacino potenziale del Pd è stimato al 42 per cento dell'elettorato ma il consenso attuale è appena sopra al 25. Si vede a occhio che il primo compito di chi lo dirige è di recuperare quella zona di indecisi che potrebbero votarlo. Nei prossimi mesi (o settimane?) su questo terreno si misurerà la capacità del gruppo dirigente che dovrebbe muoversi compattamente e non in ordine sparso. Ci sono troppi galli nel pollaio democratico, in certe condizioni l'abbondanza dei galli può essere una risorsa, ma coi tempi che corrono non lo è. Galli e galletti dovrebbero fare squadra. La responsabilità è di ciascuno di loro e in prima istanza del segretario del partito.

* * *

Le colombe moderate del Pdl e di Futuro e Libertà vorrebbero una riconciliazione. I leader delle due formazioni si dicono in principio d'accordo, ma divergono sulle condizioni. Ciascuno pone le proprie. Fini è pronto all'accordo se tutta la sua gente ma anche i suoi alleati (Casini, Rutelli) rientreranno nell'alleanza di centrodestra in posizioni determinanti. Non più un'alleanza con due gambe (Berlusconi e Bossi) ma con quattro. Berlusconi fino all'altro ieri ha temporeggiato ma ieri è intervenuto approvando il documento delle colombe e promettendo una navigazione nuova dedicata alle riforme economiche e istituzionali. Perfino con un ritocchino alla legge elettorale.

Nel tardo pomeriggio è arrivata però la risposta di Fini, che sembra chiudere definitivamente ogni spiraglio alla trattativa. Evidentemente le promesse berlusconiane non sono più credibili, e il passaggio sulla votazione di sfiducia avrà comunque luogo. La lettera dei moderati era piuttosto un trappolone del Cavaliere, la favola sempre attuale del lupo e di Cappuccetto Rosso: il lupo travestito da vecchia nonna benevola, con le sembianze del premier, e Cappuccetto (ma non rosso) con le sembianze del presidente della Camera. Ma Fini non c'è cascato. Bisognerà vedere, adesso, in che modo si comporterà la Lega dopo il 14.

Bossi ha in mano la "golden share" del centrodestra. Dopo il voto di martedì prossimo, quale che ne sia l'esito, con una differenza di un paio di voti o per l'uno o per l'altro, il Senatur valuterà se il peso della Lega resta determinante nell'alleanza di centrodestra, oppure risulta diminuito. Se quest'ultima fosse la sua valutazione, il Carroccio staccherebbe rapidamente la spina. In queste condizioni, la funzione dell'arbitro può diventare decisiva. Il problema di Napolitano non è tanto quello delle riforme, giustizia, Senato federale o altre consimili, pur certamente importanti. Il Capo dello Stato ha già indicato l'assoluta priorità della situazione economica. La prima sua mossa fu quella di congelare la crisi politica per rendere possibile l'approvazione della Legge di Stabilità finanziaria.

Questo risultato, ormai raggiunto, non ha tuttavia esaurito il tema. I turbamenti prevedibili sul mercato finanziario, e la posizione della Germania e della Francia su regole più severe per quanto riguarda i debiti sovrani, rendono indispensabile un governo che abbia piena credibilità rispetto alle autorità monetarie europee e alle istituzioni sovra-nazionali. Un governo galleggiante, presieduto da chi ha già perso gran parte della sua credibilità internazionale, non è l'ideale per attuare una strategia oggettivamente difficile: coniugare crescita e rigore finanziario, far rientrare il debito nei parametri europei, destreggiarsi rispetto alle richieste della Merkel e di Sarkozy per politiche economiche più stringenti che rafforzino l'euro e, non ultimo, recuperare una coesione sociale che sembra aver toccato il livello peggiore da molti anni.

È questo il governo che può affrontare problemi di questa portata? Non dimentichiamo che il sogno di Berlusconi, nonostante tutto, resta quello di trasportare tra due anni Arcore e Palazzo Grazioli al Quirinale. A questo punto credo davvero indispensabile un dibattito sulla questione morale; relatori Verdini, Dell'Utri e Bondi, moderatore il cardinale Bertone. Magari a casa di Vespa dove pare si mangi benissimo. Mi piacerebbe essere invitato.
 

(12 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/12/news/scalfari_governo-10097807/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nove banche vogliono dividere l'euro in due
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2010, 06:45:22 pm
IL COMMENTO

Nove banche vogliono dividere l'euro in due

di EUGENIO SCALFARI


Le opinioni sull'andamento dei mercati finanziari e in particolare sull'euro e sui debiti sovrani europei sono incerte e contraddittorie. Sia quelle delle autorità internazionali, sia quelle dei governi, sia infine quelle degli economisti e dei banchieri. In alcuni casi queste diversità sono dovute ad una scarsa conoscenza dei meccanismi operativi della speculazione e degli obiettivi che essa si propone. Ed anche dalla sua struttura. In generale si ritiene che il nocciolo duro della speculazione sia composto dagli "hedge funds" i fondi dedicati ad impieghi rischiosi che quando centrano l'obiettivo procurano elevati rendimenti in tempi di bassi tassi di interesse.

È vero, gli "hedge funds" sono un'ingente massa di manovra ma non rappresentano il cervello della speculazione. Il cervello sta al vertice del sistema bancario internazionale e vede insieme sia le grandi banche di credito sia le grandi banche d'affari americane, inglesi, svizzere, tedesche. Le piazze dalle quali si irradiano gli impulsi speculativi sono quelle di New York, Londra, Parigi, Francoforte, Tokyo, Hong Kong. Il New York Times ha descritto pochi giorni fa il funzionamento di questa "Cupola" ed ha anche indicato le banche che la compongono: J. P. Morgan, Bank of America, Goldman Sachs, Ubs, Credit Suisse, Barclays, Citigroup ed altre per un totale di nove. Ma ciascuna di esse possiede una quantità di partecipazioni e diramazioni in tutto il mondo e capitali immensi a disposizione.

In un giorno fisso della settimana i capi delle
nove banche principali si riuniscono in un club riservato, esaminano gli ultimi dati sull'occupazione, sui mutui immobiliari, sulla produzione manifatturiera, sui tassi di cambio delle principali valute (dollaro, euro, yen, yuan), sugli "spread" tra i principali debiti sovrani, sulle materie prime. L'esame dura un'ora o poco più. Poi tirano le somme e decidono come muoversi sui mercati oppure non muoversi e restare in attesa.

Nell'esame di tanto in tanto rientrano anche questioni politiche quando sono tali da influenzare l'andamento dei mercati, ma secondo gli informatori del New York Times la politica entra di rado nelle valutazioni della Cupola, salvo per ovvie ragioni quella americana e quella cinese.

Si fa un gran parlare, nella Comunità degli affari e nelle forze politiche, della necessità di liberalizzare i mercati e di mantenere viva la libera concorrenza in tutte le sue forme; perciò fa una certa sensazione apprendere che, nonostante le apparenze, i liberi mercati sono in realtà guidati da un vero e proprio comitato d'affari dotato di risorse pressoché illimitate e della potenza politica ed economica che ne deriva. Ma anche questo è un segreto di Pulcinella.

Di comitato d'affari parlò per primo Carlo Marx negli anni Quaranta dell'Ottocento e se ne è continuato a parlare negli ambienti della sinistra internazionale. Questa volta però chi ne parla e ne fornisce i nomi è uno dei grandi giornali americani, di intonazione liberale e democratica ma non certo ideologicamente socialista. Del resto persino in Italia esiste un comitato del genere che sta a mezza strada tra la politica e gli affari e ha la sua base nelle partecipazioni intrecciate tra i vari membri che lo compongono. È un comitato che ha di mira soprattutto la stabilità dei poteri forti, con scarsa vocazione e scarse connessioni con la speculazione internazionale. La nostra piccola Cupola è piuttosto provinciale e si dipana tra Milano, Trieste, Torino. E naturalmente Roma.

 * * *
Ma torniamo agli obiettivi della speculazione internazionale, soprattutto per quanto riguarda i mercati europei, i debiti sovrani europei e la moneta comune. Ho scritto in un articolo di qualche giorno fa che il tasso di cambio dell'euro non è l'obiettivo primario della speculazione. Il suo obiettivo primario sono i debiti sovrani più sensibili e i tassi differenziali di ciascuno di loro rispetto al "bund" tedesco. Per dirla con chiarezza: la speculazione ha come mira principale quella di aumentare la differenza tra i tassi dei Paesi europei deboli e il "bund". L'avversario che ha il compito di contrastarla è la Banca centrale europea, che tra i vari compiti non scritti nel suo statuto ma non per questo inesistenti ha anche quello di limitare lo "spread" tra i vari membri dell'eurozona.

Quei differenziali hanno alcune cause che ne determinano le dinamiche. In alcuni casi le finanze pubbliche di quel paese sono dissestate, in altri sono dissestate le banche, in altri ancora è in crisi l'economia reale, oppure tutti questi elementi insieme. La speculazione segue queste diverse realtà e le amplifica picchiando al momento opportuno. Poi si ritira quando la Bce entra in gioco e porta a casa cospicui profitti che costituiscono ulteriori munizioni per ricominciare il gioco. L'obiettivo finale è quello di dividere l'Europa monetaria in due: una zona forte con la Germania al centro e con l'euro come moneta comune; una zona debole con una moneta che potrebbe essere denominata euro-sud e che può oscillare rispetto all'euro.

Qualora un progetto del genere si verificasse, si aprirebbe per la speculazione un nuovo terreno di gioco di amplissime dimensioni e di facili profitti. Non sarà però facile arrivare a tanto, le difese ci sono e le ragioni per combattere quel progetto anche. Personalmente penso che l'eurozona resisterà, ma penso anche che la speculazione continuerà la sua guerriglia dalla quale comunque ricava lauti profitti. Quella spina nel fianco durerà fino a quando i debiti sovrani non saranno stati ridotti, fino a quando le economie dei Paesi membri non saranno così disomogenee e fino a quando l'Europa non avrà un suo governo e una sua unitaria politica fiscale.
"It's a Long Way to Tipperary..."

 * * *
È logico che in Italia ci si domandi: il nostro Paese è anch'esso nel mirino della speculazione? Sapremo difenderci? Ci costerà? La politica è uno degli elementi di questa partita? Finora l'Italia, cioè il debito sovrano italiano, non sono stati un bersaglio diretto. Abbiamo subito in due o tre recenti occasioni, delle schegge di rimbalzo da colpi lanciati contro altri obiettivi: Grecia, Irlanda, Portogallo, Belgio, Spagna. Noi di rimbalzo, appunto.

Quanto alla politica italiana, non sembra che quei nove signori che si riuniscono nel loro club di Manhattan se ne siano occupati granché se non per riderci su. Che a Palazzo Chigi ci sia Berlusconi oppure Letta oppure Tremonti oppure Casini non sembra che possa innescare ondate speculative. Sarebbe diverso se ci fossero elezioni: una campagna elettorale dura dai due a tre mesi, durante i quali c'è soltanto un governo in carica per l'ordinaria amministrazione. Una situazione del genere lascerebbe pascoli abbondanti alla speculazione.

Ma all'infuori di questa ipotesi - che tuttavia potrebbe verificarsi tra qualche mese - i cambiamenti di governo in un ventaglio che va dal centrodestra al Partito democratico non pesa un euro nelle valutazioni degli speculatori. Pesa invece la mancata crescita economica, la bassissima competitività, il deficit, l'elevata pressione fiscale, l'enorme debito pubblico, la coesione sociale sfarinata.

Tutti questi elementi esistenti da tempo e mai scalfiti da una politica riformatrice che non c'è mai stata negli ultimi dieci anni, sono bombe a orologeria che non sarà facile disinnescare con un governo come quello esistente. Se la raccogliticcia maggioranza di tre voti diventasse di dieci o di quindici, la situazione non cambierebbe in nulla come in nulla sarebbe cambiata se la sfiducia fosse passata salvo il fatto, politicamente e moralmente essenziale d'esserci liberati da Berlusconi.

Dal punto di vista della speculazione la questione è invece irrilevante; lo era un mese fa e lo è adesso. La speculazione è cinica, il comitato d'affari è cinico. Noi siamo una preda potenziale molto ghiotta e stiamo immobili ad aspettare che il club di Manhattan decida di saltarci addosso. Questa è la situazione, che meriterebbe d'essere corretta in fretta. Non saranno certo Scilipoti e Moffa e neppure i reverendi cardinali e vescovi di Santa Madre Chiesa a risolvere la questione. Preghino per l'Italia i principi della Chiesa se vogliono, e si occupino delle anime. Per tutto il resto sono soltanto un ingombro e quando l'attacco speculativo verrà non saranno certo loro a poterci aiutare.

(19 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/19/news/nove_banche_vogliono_dividere_l_euro_in_due-10377795/?ref=HREC1-3


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Facebook e la fine di un'epoca
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 10:41:30 pm
Facebook e la fine di un'epoca

di Eugenio Scalfari

Il linguaggio imposto e voluto dai social network è il segnale che siamo entrati in una nuova era. Dove ormai si parla inglese

(20 dicembre 2010)

Siamo abituati fin dai tempi della scuola a dividere le varie epoche prendendo come spartiacque tra l'una e l'altra un fatto fortemente simbolico, dal quale derivarono mutamenti radicali sia nella vita politica sia nei modi di pensare, nella diversa dislocazione del potere e della ricchezza, insomma nel cambiamento di tutti gli equilibri preesistenti. Così c'è stato insegnato e così crediamo che sia avvenuto in passato e che avverrà di nuovo in futuro.

La fine dell'Impero romano è segnata convenzionalmente nell'anno 476 che coincide con la discesa in Italia delle tribù gotiche guidate da Odoacre. L'inizio della civiltà moderna è datato 1492 e coincide con la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo che, in realtà, per alcuni mesi non seppe affatto d'averla scoperta ritenendo invece d'aver messo piede in un arcipelago che preannunciava il continente delle Indie e della Cina. La fine della civiltà egiziana si colloca con la conquista da parte di Alessandro il Grande, ma prima ancora con la conquista del Peloponneso da parte dei Dori venuti dal nord, che segnerebbe la fine della grande civiltà cretese-minoica.

Le date, naturalmente, servono soltanto a periodizzare questo ciclico appassire di un'egemonia politica e culturale e la sua trasformazione in un'altra egemonia con caratteristiche profondamente diverse: processi molto complessi che spesso producono anche trasformazioni nel linguaggio; processi che si protraggono per molti anni e talvolta per secoli prima che la nuova egemonia emerga compiutamente, con le sue istituzioni, la sua cultura, il suo linguaggio.

Ma qual è il segnale più visibile e più sconvolgente che avvisa le popolazioni residenti nei luoghi coinvolti da quei processi storici, che un salto si è verificato, una discontinuità si è prodotta, un'epoca è definitivamente tramontata ed un'epoca nuova si è visibilmente insediata sulle sue rovine? Una vittoria militare (e rispettivamente una sconfitta)? Una rivoluzione sociale e politica? Una scoperta scientifica e tecnologica? L'apparire di una nuova religione?
Queste domande sono affascinanti, ti obbligano a rifletterci su, a documentarti meglio, ad indagare con maggiore curiosità. Personalmente la mia curiosità si è concentrata da parecchio tempo per trovare risposte plausibili. Vado per esclusione. Direi che vittorie e sconfitte militari non sono segnali sufficienti per indicare il passaggio di un'epoca. Scoperte geografiche, forse. Il nostro pianeta ormai è stato interamente esplorato, ma quando ancora una parte di esso era noto solo alle popolazioni autoctone, la fine della separazione tra un popolo e un altro, tra un continente ed un altro, furono eventi di grande importanza ma non necessariamente tali da segnare un passaggio di epoca. La scoperta dell'Australia per esempio, quella dei grandi arcipelaghi del Pacifico, quella dei Poli nord e sud non cambiarono alcun equilibrio nel mondo.

Certo avrebbero grandi effetti scoperte astronomiche capaci di rivelarci l'esistenza della vita in altri pianeti e in altre costellazioni, ma gli atterraggi sulla luna non hanno comportato alcuna modificazione nella nostra vita.

Considerando queste ed altre analoghe circostanze, sono arrivato alla conclusione che il segnale più visibile ed anche più significativo di un passaggio d'epoca sia il mutamento del linguaggio. Sappiamo che il linguaggio ha molto a che fare con il pensiero, si stimolano a vicenda perché il pensiero produce linguaggio e il linguaggio articola il pensiero. Sono, sia l'uno che l'altro, due manifestazioni mentali che interagiscono sviluppandosi reciprocamente e determinando processi mentali evolutivi che non avvengono in altre specie sprovviste sia di linguaggio sia di pensieri.

Un altro fattore di enorme mutamento è quello delle modificazioni climatiche, ma si tratta di un fattore di tali dimensioni da sorpassare di gran lunga i mutamenti di un'epoca: rientra piuttosto nella categoria delle grandi catastrofi naturali. Lì non è in questione una civiltà ma addirittura l'avvicendarsi delle specie che abitano il pianeta. Il fattore climatico agisce e registra mutamenti stellari, trasformazioni atmosferiche, mutamenti dei fotoni e di altre componenti chimiche. Insomma è fuori dal nostro discorso sui cicli delle civiltà umane e dei mutamenti culturali che avvicendano un'epoca ad un'altra.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. I tre voti che pesano sul futuro del paese
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2010, 12:40:25 pm
L'EDITORIALE

I tre voti che pesano sul futuro del paese

di EUGENIO SCALFARI


INIZIO questo articolo con un'ipotesi. So bene che l'ipotesi configura una realtà virtuale che spesso non coincide con quella reale ma ci aiuta spesso a capire meglio quello che è accaduto.

Facciamo dunque l'ipotesi che il 14 dicembre scorso il governo fosse stato battuto, sia pure per un solo voto, e che Berlusconi si fosse dimesso chiedendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere.

Il Presidente - l'ha detto pochi giorni dopo parlando alle Alte Cariche dello Stato - è in linea di principio contrario allo scioglimento anticipato di una legislatura; perciò, prima di addivenire alla richiesta del premier dimissionario, avrebbe verificato l'esistenza di una maggioranza alternativa.

Quella maggioranza - contraria allo scioglimento anticipato ma tuttavia incapace di esprimere un governo coeso e di indicarne il premier - c'era come tuttora presumibilmente c'è. Che cosa avrebbe fatto Giorgio Napolitano di fronte ad un Parlamento che non vuole essere mandato a casa ma non riesce a indicare un nuovo premier?

Forse avrebbe risolto il problema affidando l'incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale, in grado di portare avanti la legislatura rafforzando e restaurando le istituzioni e riconciliando con la politica quella moltitudine di cittadini che è profondamente delusa dall'imbarbarimento istituzionale in atto.

Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare
dal governatore della Banca d'Italia, dal presidente del Consiglio di Stato, dal presidente della Corte Costituzionale, da qualche "emerito" di quella medesima istituzione. Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l'incarico ad un "eminente" della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti.

Un governo formato con questi criteri avrebbe probabilmente riscosso la fiducia del Parlamento anche perché, al di là delle appartenenze di partito, un'elevata percentuale di deputati e di senatori non ha nessuna voglia di ritornare ai propri lavori domestici e - in aggiunta - un'elevata percentuale di cittadini elettori non ha alcun desiderio di tornare anticipatamente al voto. Un'ultima considerazione: un voto fatto in questa fase e con la legge elettorale vigente darebbe probabilmente una maggioranza di un tipo alla Camera e una maggioranza di una diversa tipologia politica al Senato. Si avrebbe perciò una nuova legislatura con due Camere diversamente orientate tra di loro, e quindi con una situazione travagliata come e più di quella attuale.

Aggiungo dal canto mio che una campagna elettorale nella presente congiuntura economica non farebbe che esasperare lo scontro sociale già largamente in atto e rappresenterebbe una ghiotta occasione per incoraggiare la speculazione ad attaccare il nostro debito sovrano sui mercati finanziari. Questa del resto è anche l'opinione manifestata pubblicamente e più volte dal Capo dello Stato.

* * *

Tutto il ragionamento fin qui svolto si basa su ipotesi logiche che non prevedono alcuna forzatura costituzionale. Infatti, per quanto riguarda le prerogative del Quirinale, la Corte è chiarissima in proposito: il Capo dello Stato, sentiti i presidenti delle Camere e i gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. La medesima procedura è prevista per lo scioglimento delle Camere.

È perciò probabile che le cose sarebbero andate così, con largo vantaggio per le istituzioni, per i cittadini e quindi per il paese. Ma le ipotesi non sempre si verificano. Nel nostro caso, il 14 dicembre il premier ha avuto un'ampia maggioranza al Senato e la fiducia della Camera per tre voti di scarto. Le modalità di acquisizione di quei tre voti sono note ma ufficialmente non contestabili, salvo improbabili esiti dell'inchiesta giudiziaria in corso.

Il governo è quindi in carica nella piena legalità costituzionale e può benissimo proporsi di andare avanti fino al termine naturale della legislatura, varando un programma di riforme sociali, economiche e istituzionali. Non l'ha fatto prima, quando disponeva di una vasta maggioranza in entrambe le Camere. Potrà farlo ora con tre voti o magari con dieci di sostegno?

Berlusconi e soprattutto Bossi si sono dati la metà di gennaio come termine ultimo. Se a quella data la maggioranza si sarà rafforzata quantitativamente e politicamente, con un accordo con Casini, andrà avanti. In caso contrario Berlusconi andrà al Quirinale a dimettersi chiedendo le elezioni anticipate.
Che cosa farà a quel punto il Capo dello Stato?

* * *

I presupposti della sua azione non sono diversi da quelli precedenti al 14 dicembre scorso. Dovrà perciò verificare se in Parlamento emergerà una maggioranza contraria allo scioglimento oppure no.

In quest'ultimo caso la continuità da lui auspicata sarà interrotta e i pericoli per la stabilità economica si riproporranno tali e quali. Avremo dunque perso inutilmente un mese e ci ritroveremo nella stessa situazione dopo aver offerto purtroppo ai cittadini e alla pubblica opinione internazionale lo spettacolo del peggior trasformismo che si sia mai verificato in un paese democraticamente maturo dell'Occidente.

* * *

Avremo dunque la risposta tra tre settimane e ci sarà anche per quella data la sentenza della Corte sul "legittimo impedimento", che non è un elemento indifferente rispetto alle varie ipotesi sopra indicate.

Mi domando, e molti si domandano con me, quale sarà l'atteggiamento del centrosinistra nell'ipotesi di elezioni anticipate, oppure in quella di un accordo Berlusconi-Casini-Fini. Vediamo.

Accordo di Casini-Fini con Berlusconi: la legislatura procede fino al 2013 e tenta di fare le riforme tante volte promesse e mai effettuate: nuova legge elettorale, Senato federale, diminuzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale, riforma della giustizia per rendere il processo civile e quello penali più rapidi e il ruolo del Pubblico ministero più simile a quello di un avvocato di accusa. Infine, riforma fiscale che diminuisca il peso delle imposte sul reddito e introduca un prelievo sul patrimonio al di sopra di una certa soglia.

Il gruppo Casini-Fini cercherà di modellare quelle riforme nella prospettiva d'una nuova destra, "repubblicana", che si troverà di volta in volta in contrasto con il populismo berlusconiano o con la Lega o con tutti e due. Se Casini-Fini si appiattissero sui desideri del premier, non si capirebbe per quale motivo sia stata montata questa cagnara da quattro mesi a questa parte.

Sarà dunque un processo molto travagliato, quello sulle riforme, nel corso del quale il Partito democratico potrà essere determinante per far pendere la bilancia dall'uno o dall'altro lato. Ma proprio per questo travaglio è molto probabile che Berlusconi e Bossi manderanno al più presto tutto all'aria.

Se invece il percorso delle riforme proseguisse e con esso la legislatura, verrà anche il momento della scadenza del mandato di Bersani da segretario del Pd e ci sarà un nuovo congresso e nuove primarie di partito. Bersani presumibilmente si ricandiderà ed avrà quasi certamente Veltroni come concorrente. Di Pietro e Vendola saranno fuori da questa tenzone che riguarda soltanto il Pd. Se invece a gennaio Berlusconi e Bossi, non riuscendo a rafforzare la maggioranza, decideranno per la crisi e se Napolitano dovesse accettare lo scioglimento delle Camere, si verificherebbe l'ipotesi peggiore per il Pd, che si troverebbe alle prese con il Terzo Polo sulla sua destra e con Vendola e Di Pietro sulla sua sinistra.

Andare alle elezioni da solo significherà per il Pd esporsi dunque a perder voti sull'uno e sull'altro versante. Puntare su un'alleanza con Casini significherà un salasso a sinistra; puntare sull'alleanza con Vendola significherà affrontare le primarie di coalizione che vedranno molteplici candidati ai nastri di partenza. Non è immaginario pensare che oltre a Bersani e Vendola ci saranno anche Veltroni, probabilmente Bindi e D'Alema, per non parlare di Di Pietro. Una situazione che rischia di polverizzare l'intera sinistra.

Questo è il panorama che occorre evitare a tutti i costi, sperando nella saggezza e nell'umiltà dei vari interlocutori e in un accordo di tutte le opposizioni.

Se debbo dire la mia, questa dell'accordo generale mi sembra un'ipotesi cosiddetta di terzo grado, teoricamente la sola valida, praticamente impossibile da realizzare.

Come si vede, quei tre voti del 14 dicembre rischiano di avere come risultato la scomparsa della sinistra italiana e di consegnare il paese per altri dieci anni al berlusconismo populista, autoritario e leghista. Con la speculazione che spennerà il nostro debito sovrano a suo piacimento.

Chi volesse trovare un solo colpevole non riuscirebbe, lo sono tutti, nessuno escluso.
 

(27 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/27/news/i_tre_voti_che_pesano_sul_futuro_del_paese-10605857/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Fenomenologia di Alfano
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 04:28:38 pm
Fenomenologia di Alfano

di Eugenio Scalfari

Astuto come una volpe, ma addomesticato a riconoscere la voce del padrone.

Interpreta la giustizia come un Valore sull'asse tra Popolo e leader.

Ed è dunque l'erede perfetto del premier

(29 dicembre 2010)

Il vero uomo del giorno, l'uomo nuovo cui si apre un luminoso domani (ma anche il suo oggi non è affatto disprezzabile) sapete chi è? Ve lo dico per esclusione. Non è più Fini, non è ancora Casini, non è Tremonti, non è Vendola e tantomeno Di Pietro, non è Gianni Letta che sarà sempre e per tutta la vita un grande "consigliori" e ne è pago. E non sono né la Carfagna né la Meloni.

Eccolo. Sorriso attraente, cipiglio che esprime intransigenza. Stempiato quanto basta per far emergere il pensiero. Lingua sciolta anche se un po' ripetitiva. Capacità di tradurre gli slogan ideologici in concetti. Non viceversa. Capacità di usare parole decisive per esprimere significati opposti a quelli elencati nei vocabolari. In queste capacità sta la sua grandezza. A giusta ragione.

Stiamo parlando di Angelino Alfano, nato il 31 ottobre del 1970 ad Agrigento, la madre insegnante elementare, il padre insegnante alle medie. Segno astrologico Scorpione. Lo scorpione è testardo e secerne un liquido velenoso che procura la morte immediata a chi ne viene inoculato. Punge chiunque gli si avvicini, uomo o animale. Insomma, lo scorpione è una macchina da guerra e per questo è temuto. Angelino però è un tipo particolare di scorpione, lì sta la sua forza: infatti, quando lo giudica opportuno, rinuncia a pungere, spiana il cipiglio nel sorriso, riservandosi di passare all'attacco in un momento più propizio.

Non conosco quale sia il suo ascendente oroscopale, ma penso alla Bilancia o a qualche altro segno moderatore. Angelino racconta che suo padre, risparmiando fino all'osso, riuscì a mantenerlo agli studi e lo mandò a fare l'università a Milano. Da Agrigento alla capitale morale fu un bel salto quello di Alfano junior. Da ragazzo aveva partecipato a qualche manifestazione di protesta studentesca, allora era l'epoca della Pantera; ma a Milano non fece niente di simile. A Milano Angelino studiava e aiutava la famiglia mandando in Sicilia metà della sua borsa di studio: 350 euro al mese. Con altrettanto viveva lui e certo non deve essere stata una gioventù dorata. Però, accidenti come l'hanno forgiato quelle ristrettezze!

Moralmente integerrimo, astuto come la volpe, addomesticato a riconoscere la voce del padrone, mano di ferro in guanto di ferro e infine scorpione per la puntura letale e finale. La cultura di Alfano junior ricorda quella di Michela Brambilla. Lui ragiona muovendosi sull'asse "Popolo sovrano-Leader". Il primo vota il secondo e da quel momento la sovranità passa interamente al Leader, al quale tutti gli altri poteri sono subordinati. Alfano junior è fermamente convinto che lo Stato di diritto sia esattamente questo. Ogni diversa interpretazione ed ogni diversa prassi rappresentano un insulto alla buonanima di Montesquieu e soprattutto una violazione del testo costituzionale.

Lui intanto fa il ministro della Giustizia. Come tale deve difendere i cittadini dalle sopraffazioni dei violenti e dei presunti tali. L'arresto preventivo dei facinorosi - invocato dal capogruppo del Pdl, senatore Gasparri - lo trova completamente consenziente; infatti ha inviato subito gli ispettori del suo ministero ad esaminare le carte processuali della Procura di Roma che aveva scarcerato una trentina di studenti fermati dalla Polizia il 14 dicembre a Roma.

Il capo dei suoi ispettori gli aveva fatto presente che non c'era materia di ispezione alcuna visto che la custodia cautelare, salvo casi di particolare gravità, è un potere discrezionale del pubblico ministero. Ma Alfano junior si rifà al principio "Popolo sovrano-Leader" e vi aggiunge per completezza il successivo trasferimento di sovranità dal Leader al ministro della Giustizia. L'ispezione nel caso specifico potrebbe risultare intimidatoria. Appunto: l'effetto politico e pedagogico che Angelino si propone è proprio questo: correggere i magistrati d'accusa affinché essi correggano gli studenti protestatari.

Alfano junior ha la risposta pronta per chi gli domanda perché mai la trasmissione della sovranità dal Popolo al Leader abbia come ulteriore tappa la trasmissione al ministro della Giustizia. Perché per esempio non a quello dell'Interno? Maroni ci terrebbe. Ma Alfano ha le idee chiarissime: la giustizia è un principio che pervade la vita pubblica nella sua interezza. Ci deve essere giustizia in ogni attività, dai tribunali alla scuola, alle fabbriche, all'ordine pubblico, ai trasporti, all'economia, alla finanza. La giustizia non è un potere, è un Valore. Quindi il Popolo sovrano-il Leader-il Ministro della Giustizia. Questa è l'architettura, questo è lo Stato di diritto. Tutto il resto è subordinato. Che cosa gli volete opporre a uno che ragiona così?

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fenomenologia-di-alfano/2141409/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2011, 04:56:03 pm
IL COMMENTO

E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella

di EUGENIO SCALFARI

Un secolo e mezzo è trascorso da quando nel cortile di Palazzo Carignano a Torino il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato italiano. L'anniversario si presta ad alcune riflessioni, rese ancor più attuali e necessarie dopo il discorso di Giorgio Napolitano a Reggio Emilia, luogo storico del Risorgimento, perché fu lì che la bandiera tricolore sventolò per la prima volta, portatavi dall'armata napoleonica che aveva fondato la repubblica Cisalpina su un territorio strappato all'Austria e ai Savoia, più o meno corrispondente a quello che la Lega usa chiamare Padania.

Riflettere sulle condizioni dell'Italia dopo 150 anni di storia unitaria, dei quali 85 di monarchia e 65 di repubblica, si presta anche ad un consuntivo che riguarda al tempo stesso le condizioni economiche e politiche del paese e i suoi valori culturali e morali.

Il tema consentirebbe molte citazioni, poiché i protagonisti sono tanti e ancor più quelli che hanno studiato quelle vicende, ma prometto di non farne alcuna e di dire ciò che penso con parole mie salvo una di Ingeborg Bachmann, che traggo dal bel libro di Marcello Fedele Né uniti né divisi. Eccola: "In ogni testa c'è un mondo e ci sono delle aspirazioni che escludono qualsiasi altro mondo e qualsiasi altra aspirazione. Eppure noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

Si direbbe che il nostro presidente della Repubblica abbia avuto presenti quelle parole quando ha
ammonito che trasformare uno Stato centralizzato in uno Stato delle autonomie è un'impresa e una sfida di grande rilievo che ha bisogno della collaborazione di tutti. Ma osservando quanto accade sotto i nostri occhi si direbbe anche che delle due proposizioni della Bachmann sopracitate, la seconda sia stata del tutto cancellata dallo spirito della nazione, mentre la prima domina la scena della politica, dell'economia e del sociale.

Si direbbe cioè che si stia svolgendo da anni una lotta di tutti contro tutti per la conquista dell'egemonia e del potere, il suo rafforzamento e la sua estensione, senza più alcun disegno del bene comune. Una lotta che esclude e non include, nella quale ciascuno dei protagonisti si sente depositario della verità e della legalità; ciascuno le plasma a proprio piacimento e se ne vale come armi contundenti; ciascuno si esprime in termini ultimativi chiedendo una resa o la cancellazione degli altri.

Quando un Paese in tempi di tempesta dà questo spettacolo di sé, vuol dire che siamo arrivati ad un punto di svolta estremamente rischioso. Ho usato fin qui il verbo al condizionale, sembrerebbe, si direbbe, ma si tratta di un'inutile cautela: la situazione di pericolo e di fragilità che stiamo attraversando richiede il verbo all'indicativo: il pericolo c'è, è evidente e palpabile.

Quando un terzo della generazione giovane è escluso dal lavoro; quando le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sono arrivate a livelli intollerabili; quando la distanza tra Nord e Sud raggiunge livelli del 40-50 per cento per quanto riguarda l'occupazione, il reddito, le infrastrutture, la criminalità, gli sprechi amministrativi, l'assistenza sanitaria, l'efficienza educativa, l'economia sommersa; quando tutto questo avviene e si aggrava giorno dopo giorno senza che la classe dirigente se ne dia carico e vi ponga riparo, ebbene, occorre che l'allarme sia lanciato affinché gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani di buona volontà si uniscano scrollando dalle loro spalle indifferenza e delusione e prendano in mano il proprio destino e quello della comunità, parlino tra loro e si ascoltino. Per risalire la china in cui siamo precipitati, "abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

* * *

Il Risorgimento, quel tratto di storia patria che ebbe come prologo la repubblica napoletana del 1799, continuò con i moti carbonari del 1821, con la fondazione della Giovane Italia del '30, con i moti del '31, con le Cinque Giornate milanesi del '48 e poi con la prima guerra d'Indipendenza, la repubblica di Roma del '49, l'insurrezione di Venezia, la sconfitta di Novara, la guerra del '59 in alleanza con la Francia, la spedizione garibaldina del '60 e infine la proclamazione dello Stato unitario nel marzo del '61, fu un esempio della collaborazione degli uni con gli altri affinché qualcosa andasse a buon fine.

Le aspirazioni erano diverse, come è normale che sia. I Savoia e Cavour volevano un regno del nord Italia, i Lombardi volevano l'autonomia e l'indipendenza, Carlo Cattaneo voleva il federalismo dei municipi e gli Stati Uniti d'Italia basato su tre o quattro entità territoriali confederate, Mazzini voleva la Repubblica unitaria in una Europa democratica e pacifica, Garibaldi voleva la rivoluzione popolare, l'indipendenza e l'unità conquistate dal basso, la fratellanza e un'idea di socialismo, ma voleva soprattutto l'Italia unita, fosse pure sotto Vittorio Emanuele.

Cavour era probabilmente il solo ad avere una visione d'insieme e gli strumenti per guidare pragmaticamente quel movimento i cui molteplici fili passavano tutti tra le sue mani. Aveva una diplomazia, un esercito, denaro, spie e una passione. Usò spregiudicatamente Garibaldi, pose il problema italiano nel consesso europeo radunato a Plombiers, usò la contessa di Castiglione e Costantino Nigra per stipulare l'alleanza con Napoleone III, volle il matrimonio tra la figlia del re e Girolamo Bonaparte, mandò i bersaglieri in Crimea. Cercò perfino di utilizzare Mazzini e Cattaneo. Cercò di bloccare l'impresa dei Mille ritenendola prematura, ma quando le Camicie Rosse salparono da Quarto fece di tutto perché la squadra navale inglese ne favorisse l'arrivo a Marsala. Alla fine mise in marcia l'esercito verso il Sud e lo fece seguire dai plebisciti di annessione.

Certo, fu un'annessione cui seguì l'atroce guerra civile del brigantaggio e del borbonismo cattolico. Atroce da ambo le parti, con un solco sanguinoso che inquinò la raggiunta unità per molti anni, aggravato da un centralismo sul modello piemontese, dalle tasse e dalla leva militare. Dall'ostilità del Vaticano e del mondo cattolico e dall'assenza delle "plebi" contadine.

La questione meridionale fu posta all'attenzione del Paese pochi anni dopo, da Giustino Fortunato e poi da Nitti cui si affiancò la prima leva del meridionalismo con la grande inchiesta sul Mezzogiorno di Franchetti.

Era un punto di vista documentato, ma difficilmente avrebbe potuto trasformarsi in una questione nazionale: anche il Nord aveva necessità e urgenze di modernizzazione e le fece valere con una forza direttamente proporzionale alle industrie e alle banche che ne rappresentavano il tessuto produttivo e finanziario. I confini territoriali e la grande pianura solcata dal Po e dai suoi affluenti fecero il resto, un polo di attrazione che trasferì dal Sud al Nord risorse, talenti e maggior attenzione dei governi.

Sarebbe fazioso tacere che un movimento di capitali dal Nord al Sud vi fu: la rete dei trasporti, la rete dell'elettricità, capitali e lavori pubblici: lo Stato non lesinò, ma il grosso di quelle risorse fu intercettato dalle clientele meridionali, in gran parte latifondiste e agrarie. L'alleanza politica fu tra la classe dirigente settentrionale e le clientele del Sud. Le plebi - come allora le chiamavano - presero la via della grande emigrazione verso la Francia e verso le Americhe.

* * *

Io credo che il dibattito revisionista sul Risorgimento, che fu aperto a sinistra da Gramsci e dalla parte cattolica da Sturzo, sia stato utile e culturalmente fecondo. I continuatori furono liberali e radicali: Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni.

Non altrettanto fecondo è stato il revisionismo più recente, che si trasformò in una denigrazione sistematica del moto risorgimentale con una venatura abbastanza evidente anche se dissimulata di nordismo. Fece da apripista al leghismo becero che ormai è un potere in grado di condizionare l'intero assetto politico del paese.

Il leghismo dalle mani pulite rappresenta un fenomeno corruttivo molto profondo: tollera, anzi puntella il potere delle "cricche" con uno scambio politico ormai chiarissimo: fate i vostri comodi nel Centro, nel Sud, nelle istituzioni ma in contropartita riconoscete che il Nord è cosa nostra, il federalismo siamo noi a gestirlo e a farne le leggi e i decreti di attuazione.

Così un partito che vale il 12 per cento in termini nazionali ma il 30 per cento nella Padania, è diventato non solo il possessore della golden share nella politica nazionale, ma la forza che sta costruendo un federalismo secessionista con la complice benevolenza del berlusconismo, tanto più eminente quantitativamente e tanto più fragile come potere forte. C'è da discutere se la Lega sia costola del berlusconismo o viceversa. Propendo per il viceversa: il berlusconismo è nordista non meno della Lega, ma da Torino a Treviso, con la sola eccezione del potere aggregato di Formigoni, è Bossi che governa. Se continua così, Berlusconi diventerà il proconsole di Bossi nell'Italia centromeridionale. Le premesse ci sono tutte e Tremonti ne è consapevole e fa parte del gioco.

* * *

Dice Napolitano che, nonostante queste torsioni costituzionali che deformano il volto della democrazia, il moto risorgimentale sboccato nell'Unità ha di gran lunga migliorato le condizioni non solo del Nord ma anche del Sud. È certamente così in termini assoluti, ma non lo è in termini relativi e infatti è lo stesso Presidente a segnalare - da qualche tempo con accresciuto vigore - quelle criticità. In specie se riguardano i giovani. Se la media nazionale della disoccupazione giovanile segna un pauroso 30 per cento, nel Sud tocca il 40 con punte del 50. Un abisso, nel quale la gioventù meridionale rischia di scomparire diventando un esercito di disperati abbandonato a se stessi, senza futuro e senza presente. La coesione sociale è ormai una lastra di vetro che può infrangersi con conseguenze letali per tutto il Paese.

Proprio mentre si celebra l'unità d'Italia, la separazione tra le istituzioni e il popolo ha superato i livelli di guardia e non è un caso se la sola istituzione che raccoglie il massimo consenso sia proprio quella che ha sede al Quirinale: un'istituzione che però ha il solo potere della parola e della testimonianza, così come si era già visto quando toccò a Ciampi lo stesso compito.

Il Risorgimento può essere interpretato in molti modi, ma ce n'è uno che sottolinea la continuità ideale tra l'unità del paese e i valori culturali della modernità ed ha la sua icona nella bandiera dei tre colori. I tre colori e i tre principi: libertà eguaglianza fraternità.

La rinuncia a quei tre colori e a quei tre principi significherebbe la fine dell'unità perché su di essi si basa il patto costituzionale. Il federalismo agganciato a quei tre principi è un avanzamento; senza di essi ed anche senza uno solo di essi il federalismo disgrega il patto costituzionale, disgrega la convivenza, disgrega l'economia e la coesione sociale.

Facciamo voti perché ciò non avvenga, ma l'esito dipende da ciascuno di noi e dalla sua volontà di battersi affinché quei tre colori e i principi che rappresentano non siano cancellati dalla nostra storia.

(09 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/09/news/bandiera_tre_colori-10996813/?ref=HREC1-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La classe operaia deve tornare in Paradiso
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2011, 11:34:06 am
L'EDITORIALE

La classe operaia deve tornare in Paradiso

di EUGENIO SCALFARI

ANZITUTTO l'aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I "sì" all'accordo sono stati il 54 per cento e i "no" il 46 per cento.

Al netto del voto impiegatizio i "sì" hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l'aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei "sì" ha votato di assai malavoglia e molti l'hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell'accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti  -  ribadito nell'accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri  -  la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l'accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno "nominati"
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata "porcellum", porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La "porcheria" della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di "anime morte" reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti "gialli"?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L'economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi "continenti": Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l'intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l'economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l'ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall'economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l'elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall'Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c'è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell'involuzione economica in atto nell'Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l'economia classica definì il "risparmio forzato" e cioè l'accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d'ora verso l'alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un'alternativa c'è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un'ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L'ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

* * *

Sì, l'ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che  -  a detta dello stesso Marchionne  -  il costo del lavoro dell'automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell'auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c'è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c'è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall'altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c'è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d'una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l'altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell'innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l'imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell'imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l'attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull'evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una "governance" aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell'azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l'intera società nazionale e l'intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell'era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l'avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell'opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell'articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli

Post scriptum. Un compito della massima importanza in tutta questa vicenda e nelle sue conseguenze vicine e lontane dovrebbe spettare a chi governa il Paese e "in primis" al presidente del Consiglio. Il quale invece, proprio in queste ore, è affaccendato in tutt'altre faccende: Ruby-Rubacuori e la Procura di Milano che l'ha convocato per il 21 gennaio chiedendo al Tribunale di poter procedere con il rito abbreviato perché gli indizi di prova dei quali già dispone sono tali e tanti da ritenere già chiusa la fase istruttoria salvo gli ultimi interrogatori mancanti.

Non entriamo qui nel merito dei fatti, sono già stati descritti ieri su queste pagine da Giuseppe D'Avanzo con una completezza che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti. Ma c'è un punto che merita riflessione e risposta al coro orchestrato dai sodali del premier sotto inchiesta. Costoro sostengono (e l'ha sostenuto ieri con un apposito comunicato lo stesso premier) che la Procura milanese è entrata a piedi uniti nella privatezza di persone perbene e questo sarebbe un inaccettabile sopruso che invalida l'ordine costituzionale e va severamente bloccato e punito.

La riflessione è la seguente: il reato, qualsiasi reato, riguarda l'intimità e la privatezza delle persone. Una persona ne uccide un'altra, oppure la rapina, oppure la deruba, oppure la truffa, oppure la stupra. Come avvengono questi atti? Nel buio, in una casa, in una strada deserta, nell'intimità dei rapporti. Quando il magistrato inquirente ha notizia di un reato e apre un'indagine su quell'ipotesi, deve agire inevitabilmente sulla privatezza delle persone, delle famiglie, dei luoghi sospetti. Le indagini giudiziarie riguardano quei luoghi e quelle persone, ovunque abbiano operato.

È bene tenere a mente questo punto che il premier disconosce e i suoi turibolanti altrettanto. Se poi la persona sospettata riveste anche ruoli pubblici, ci sono ovviamente ricadute, ma l'istruttoria e il processo si svolgono nel contesto privato dove gli atti delittuosi sono stati commessi. Chi ritiene eversivi questi modi di procedere, ritiene in realtà eversiva la giustizia e il potere giudiziario nel suo complesso. Il che è gravissimo e, questo sì, eversivo.
 

(16 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2011/01/16/news/la_classe_operaia_deve_tornare_in_paradiso-11280829/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Linguaggio da trivio. Insulti in quantità. Linguaggio violento
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 06:50:06 pm
No, le palle sul tavolo no

di Eugenio Scalfari

Linguaggio da trivio. Insulti in quantità. Linguaggio violento.

E' la telepolitica al tempo del bunga bunga, è il mondo dei Feltri e dei Sallusti:  un brodo di volgarità  e di bugie camuffate da notizie

(17 gennaio 2011)

Il direttore del Giornale Sandro Sallusti, il vicedirettore Nicola Porro e Vittorio Feltri Il direttore del Giornale Sandro Sallusti, il vicedirettore Nicola Porro e Vittorio FeltriVittorio Feltri, direttore di "Libero": "Mi auguro che Berlusconi non diventi mai presidente della Repubblica. Vi immaginate il viavai di "escort" al Quirinale e i corazzieri nudi che giocano al "bunga bunga" insieme al capo dello Stato? Una roba da crepare dalle risate!". Alessandro Sallusti, direttore del "Giornale": "Feltri, come Giorgio Napolitano, hanno cambiato bandiera. Feltri è un traditore. Fino ieri era berlusconiano, adesso non lo è più. Tra poco sarà un compagno di Fini e della sinistra". Bruno Vespa, conduttore di "Porta a Porta": "È venuto il momento per Berlusconi di mettere le palle sul tavolo. O fa sul serio le riforme tante volte preannunciate o sarà meglio che se ne vada a casa". Italo Bocchino, capogruppo di "Futuro e Libertà" alla Camera: "Ne ho viste tante nella vita ma le palle di Berlusconi su un tavolo, quelle no, non le voglio vedere".

Dal canto mio, di trasmissioni televisive ne ho viste tante anch'io e ad alcune ho anche partecipato, ma mai come quella di sabato sera 8 gennaio su La 7 condotta da Luca Telese e Luisella Costamagna, nella quale sono risuonate frasi come quelle che ho appena citato, non le avevo mai viste prima d'ora. Telese e la Costamagna sono due bravi giornalisti, la loro è una trasmissione tutta politica anzi, per dirla con franchezza, tutta politichese. La "verve" dei due conduttori cerca di darle un tocco di intrattenimento, ma non ci riesce. Dura un'ora, che non è poco, e viene subito dopo il Telegiornale delle 21 guidato da Mentana che è anche quella una trasmissione soprattutto di politica interna. Mentana spiega e racconta quanto è accaduto con un linguaggio comprensibile ed un'attenzione al significato che gli altri telegiornali trascurano volutamente perché non desiderano che i telespettatori capiscano. Si comportano come quelli che Barbara Spinelli chiama "i militanti dell'ignoranza" e Mentana ha successo proprio perché è un militante della conoscenza, vuole che il suo pubblico comprenda quello che vede.

Telese e Costamagna vorrebbero anche loro che gli ascoltatori capissero e sono lì per aiutarli, ma non ci riescono quasi mai non per difetto di professionalità ma perché il "format" che gli è stato affidato si basa interamente su un battibecco tra due o tre protagonisti che si producono in duelli incomprensibili, cifrati, quasi sempre violenti, non per passione, ma per maniera. Sono violenti manieratamente, non polemizzano ma recitano la polemica, fingono la rissa. I fatti e la loro sostanza passano in seconda linea nonostante la buona volontà dei conduttori, i quali purtroppo soggiacciono anche loro alla convinzione che la rissa fa bene all'"audience".

Non so quanto questo modo di gestire le televisioni sia produttivo ma so per certo che un ragionamento pacato servirebbe ad istruire ed educare il pubblico mentre la rissa per la rissa lo diseduca. Anche la rissa ha diversi livelli di qualità e se ho citato la trasmissione dell'8 gennaio è perché in quel caso il livello ha raggiunto una volgarità senza pari nonostante gli sforzi dei conduttori di riportarlo su un terreno almeno approssimativamente civile.

Ma a suo modo quella puntata è stata anche un gioiello. Rappresentava infatti alla perfezione lo stato di degrado della politica e di un certo giornalismo da trivio. Il tema che i due invitati (Sallusti e Bocchino) erano stati chiamati a discutere era il contrasto scoppiato tra il direttore del "Giornale" e Vittorio Feltri, che appena pochi giorni fa dirigeva lui il "Giornale" avendo Sallusti come suo vice e che improvvisamente ha lasciato l'incarico per assumere la direzione di "Libero" insieme al suo collega Belpietro. Apparentemente questo improvviso colpo di scena era avvenuto senza traumi tra Feltri e Sallusti, ma poi era arrivato il tempo degli insulti e delle accuse.

Non so quanto possa interessare ad un pubblico normale una bega tra due giornalisti rivali che praticano la professione in un modo squalificante e squalificato. Ma si tratta comunque di uno spettacolo inverecondo e sono assai stupito - lo dico con sincera amarezza - che due professionisti di buon livello come Telese e Costamagna si siano lasciati prender la mano fino a quel punto.
Il cortocircuito tra i media e la politica di cui tanto si parla deriva dall'indulgenza verso questo tipo di trasmissioni e dall'esistenza di giornalisti come quelli che dirigono giornali prima affiancati e ora divisi ma sempre nello stesso brodo di volgarità e di bugie camuffate da notizie.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/no-le-palle-sul-tavolo-no/2142255/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ritorna in scena il partito democratico
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2011, 10:55:55 am
Ritorna in scena il partito democratico

di EUGENIO SCALFARI

È molto difficile in queste settimane di tensione politica, giudiziaria, mediatica, che ci sia in Italia un evento tale da esimerci dallo scandalo Berlusconi. Se ne è dovuto occupare, nel linguaggio appropriato che è quello della più alta istituzione dello Stato, il nostro Presidente della Repubblica e se ne è dovuto occupare addirittura il Papa. E ovviamente se ne occupano i giornali per soddisfare il legittimo diritto dei loro lettori ad essere informati.

Ieri Ezio Mauro ha indicato ancora una volta la linea del nostro giornale: a noi non interessano i comportamenti privati delle persone che rientrano nell'ambito della loro libera scelta; a noi interessano i comportamenti non saltuari ma ripetuti fino a esser diventati uno stile di vita d'un uomo pubblico, anzi del più importante degli uomini pubblici, che sono inevitabilmente di (cattivo) esempio all'insieme dei cittadini e che contrastano con l'articolo 54 della Costituzione secondo il quale il rappresentante di un'istituzione deve tenere alto il decoro dell'ente che rappresenta.

Voglio qui citare le parole con le quali Walter Veltroni ha aperto ieri il suo discorso al Lingotto di Torino, dedicate proprio a questo tema, perché in quelle parole ci riconosciamo interamente: "Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano: sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell'ultimo suo messaggio televisivo".

"Ciò che dava più dolore  -  ha aggiunto Veltroni  -  è che quella espressione minacciosa sulla "punizione" dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno può dimenticare che per difendere l'onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati hanno dato la vita. La situazione in cui l'Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del Consiglio è accusato non di comportamenti ma di gravi reati. Egli sostiene per l'ennesima volta che solo di fandonie e di complotti si tratta. Ma non lo deve dire in Tv facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo ai magistrati, come ogni cittadino".

Ho citato Veltroni perché l'evento sul quale mi sembra doveroso oggi riflettere e commentare è il suo discorso, la risposta di Bersani, l'ingresso  -  finalmente  -  del Partito democratico in un'arena politica dove finora era mancata la presenza della maggiore forza d'opposizione. Quest'assenza suscitava sconcerto e turbamento, molti davano per liquidato il riformismo democratico italiano e il vuoto che a causa di quell'assenza si stava creando rendeva ancor più difficile lo sblocco d'una situazione sempre più insostenibile.

Ieri questo vuoto è stato colmato o almeno sono state poste le premesse perché lo sia. Con lucidità di pensiero e con fermezza d'intenti.
La maggior forza d'opposizione è finalmente entrata in campo con un obiettivo e un programma. Ora il quadro è finalmente completo ed è questo che dobbiamo esaminare: la sua efficacia, la sua capacità di modificare gli equilibri e di sanare gli squilibri, l'accoglienza che potrà ricevere da un Paese turbato, insicuro, arrabbiato.

* * *
Una prima osservazione riguarda la riapparizione di Veltroni sulla scena politica dopo due anni dal Congresso del 2008 e un anno dalle dimissioni da segretario del partito.

Ha parlato da leader, con la passione e l'eloquenza d'un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all'insegna del cambiamento. "Dobbiamo uscire dal Novecento", ha detto e ripetuto più volte e più volte ha cercato di scrollare di dosso il fin qui diffuso rimprovero che veniva mosso al Pd e a tutta la sinistra, d'essere paradossalmente diventato una forza conservatrice anziché innovativa.

"Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra" ha detto "perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno". E citando Mark Twain: "Tra vent'anni sarete più delusi per le cose che non avrete fatto che per quelle che avrete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete i venti con le vostre vele. Esplorate. Scoprite. Sognate".

La platea del Lingotto e probabilmente i democratici militanti e i tanti diventati indifferenti o addirittura ostili per delusione subita, è questo che aspettavano: non di perenne attracco ai porti dove impera il politichese, la conservazione dell'esistente, le rivalità tra capi e capetti, tra galli e galletti, ma il coraggio di fronte alle novità e la capacità di affrontare il mare aperto.

Bersani è un uomo concreto. D'Alema un politico fine. Franceschini un combattente esperto. Enrico Letta un abile diplomatico. All'interno di un recinto. Veltroni ha anche lui queste qualità insieme ai difetti che in tutti rappresentano l'altra faccia dei punti di forza; ma possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno. Non il sogno dell'utopia, ma quello che emerge dalla realtà.
Si discute spesso del carisma e della sua definizione. Spesso il carisma sconfina nel populismo ed è quello di Berlusconi. Ma ci fu il carisma di De Gasperi, che certo non era un populista, e quello di Berlinguer, quello di Ugo La Malfa, quello di Craxi, quello di Pertini. C'è stato uno specialissimo carisma di Ciampi e quello di Romano Prodi e quello, impalpabile perché volutamente privo d'ogni retorica, di Giorgio Napolitano.

Ebbene, c'è anche un carisma di Veltroni: il realismo che evoca il sogno di un'Italia nuova e di una nuova frontiera. Veltroni ha ricordato nel suo discorso Roosevelt e Luther King e la nuova frontiera kennedyana. Potrà funzionare oppure no il suo carisma, ma nel Pd oggi è il solo che possieda quel requisito e se non lo saprà usare la responsabilità sarà soltanto sua.
 
* * *
Le sue proposte politiche, economiche, sociali, sono state "offerte" come suggerimenti al gruppo dirigente e agli organi del partito, dei quali si è ben guardato dal mettere in discussione il ruolo. Ma erano suggerimenti così precisi e circostanziati, così "oltre" il politichese corrente da costituire un programma e una strategia.

A partire dall'Europa, che non deve e non può diventare uno Stato, ma deve però esprimere un governo che guidi l'economia del continente e un Parlamento che sia eletto direttamente da tutti i cittadini dell'Unione.

E poi: una politica economica che abbia come obiettivo la crescita, la cultura, la ricerca; una politica finanziaria volta alla riduzione del debito pubblico; un patto con i ceti abbienti per farli contribuire al finanziamento necessario a ridurre il debito con un prelievo patrimoniale diluito in tre anni così come fu fatto nel 1998 con la tassa per l'ingresso nell'euro; una politica dei redditi in favore delle donne, delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle partite Iva, delle imprese, ottenuta con sgravi concretamente indicati; il federalismo visto come autonomia delle comunità. "L'Italia  -  ha detto con molta efficacia  -  è la comunità delle comunità, un Paese molteplice, la cui molteplicità può essere una grande ricchezza o una grande sventura ma che comunque non potrà mai esser cancellata perché è iscritta da secoli nella nostra storia".

Ha detto anche parole molto chiare sul caso Marchionne, l'altro evento che ha fatto irruzione nella nostra immobile economia. Un'irruzione positiva secondo Veltroni, che ora però dovrà dimostrare la sua capacità di vincere la sfida del mercato con nuovi modelli di auto, nuovi investimenti, un piano industriale adeguato associando però i lavoratori al controllo e alla partecipazione nell'azienda agli utili ed anche al capitale e assicurando la rappresentanza di tutti i lavoratori senza discriminazioni.
Infine la lotta alla mafia e alla corruzione, indicando anche qui gli strumenti concreti per renderla efficace.

****
C'è stata, nel discorso di Veltroni, anche un'apertura a Vendola, un invito a collaborare e a non chiudersi nei veti, nel massimalismo e nell'utopia. In realtà quell'apertura è stata possibile perché Veltroni  -  così penso io  -  è il solo nel Pd che possa ridimensionare Vendola. Anche il governatore con l'orecchino è portatore d'un sogno. Se si confronta soltanto col politichese, il sogno di Vendola vince anche se isolerebbe la sinistra in una presenza puramente testimoniale. Ma se il sogno vendoliano e la sua "narrazione poetica" si confronta con un sogno che emerge dalla realtà, allora l'orecchino non basta a fare la differenza anche se può dare un contributo ad un riformismo "ben temperato".

* * *
La risposta di Bersani è stata una presa d'atto all'interno della cornice indicata da Veltroni. Una presa d'atto coraggiosa e costruttiva, l'invito a fare squadra e a vitalizzare le strutture del partito, rinnovandole se necessario, spronando i democratici alla battaglia.

Bersani ha un suo modo di parlare paesano e colloquiale. Dopo il discorso di Veltroni così teso e intenso, faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a "Ballarò". Uno strano effetto ma molto positivo, di chi ricorda che un partito è comunque lo strumento di filtraggio sia della realtà sociale sia del sogno d'una nuova frontiera. Ma su questo non c'era contrasto con Veltroni, che aveva concluso il suo discorso con l'elogio della politica, quella praticata con la maiuscola, come il solo strumento che consenta la realizzazione del bene comune.
Oppure del male comune, come quello in cui il Paese è sprofondato e dal quale deve riemergere se vuole ancora avere un futuro.

(23 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/23/news/pd_scena-11548961/?ref=HREC1-4


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La privacy del Cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 10:04:23 pm
La privacy del Cavaliere

di Eugenio Scalfari


Giuliano Ferrara accusa la sinistra di essere bigotta e retriva, pur di affondare contro Berlusconi. Ma Wilde, a cui tanto spesso Il Foglio si è ispirato, si sarebbe messo a urlare di disgusto vedendo la Santanchè e le varie vallette che popolano i palazzi e le ville dell'Amor vostro e si sarebbe messo a urlare di più se avesse incontrato Lui

(27 gennaio 2011)

La sinistra ha sempre sostenuto la libertà sessuale, ha combattuto per introdurre il divorzio nella legislazione italiana, per legalizzare l'aborto, per la fecondazione assistita, per il riconoscimento delle coppie di fatto, per l'interruzione della vita decisa dal malato terminale o da chi lo rappresenta e - infine - per il rispetto assoluto della privatezza dei propri comportamenti, quali che siano.

Ma oggi quella stessa sinistra ha buttato alle ortiche il libero amore e la libertà sessuale e, ossessionata dalla sua faziosità antiberlusconista, si schiera con la parte più retriva e bigotta della pubblica opinione e con la magistratura oscurantista, riportando indietro di un secolo le lancette dell'orologio contro l'uomo che, sia pure con qualche eccessiva intemperanza, ha modernizzato non solo la politica ma la morale e il costume. La sinistra dunque è oggi la punta di lancia della reazione contro la cultura libertaria e libertina.

Così scrive "Il Foglio" e in prima persona il suo direttore che si autodefinisce ateo-devoto senza però che questa definizione metta in discussione i suoi sentimenti libertari. Il nemico, per la seconda volta nel giro di un mese, è Barbara Spinelli.

Sembrava - così scrive l'elefantino - una liberale votata all'annuncio dei diritti senza doveri, della famiglia aperta, della donna padrona del proprio corpo, ma ora ce la ritroviamo in veste monacale, una sorta di Savonarola in gonnella, di "piagnona" in pieno Ventunesimo secolo. Ha messo in soffitta Voltaire ed ha abbracciato la Santa Inquisizione.

"Il Foglio" non è "Libero" né "Il Giornale" e Giuliano Ferrara ci tiene a marcare la sua differenza con Belpietro e Sallusti.
Feltri, semmai, non gli dispiace per il suo piglio guascone, ma di mezzo c'è la cultura e quella venatura di snobismo che circola nelle pagine del suo giornale. Oscar Wilde sarebbe un buon punto di riferimento per i "foglianti".

Capisco che il monachesimo sia visto come il diavolo da chi celebra ogni giorno, sia pure con una punta di ironia, l'Amor suo.
Però alcune cose non tornano.

Non torna soprattutto il canone estetico. Fede e Lele Mora? Il cerone sulla faccia dell'Amor vostro? Il "bunga bunga" come stile di vita pubblicamente rivendicato? La Santanchè?

Avete dedicato, voi foglianti, pagine ammirate a Virginia Agnelli e a Kiki Brandolini e vi trovate a berciare con la Santanchè e con Marina Berlusconi? No, non va affatto bene per quanto riguarda il canone estetico, caro Giuliano. Wilde si sarebbe messo a urlare di disgusto vedendo la Santanchè e le varie vallette che popolano i palazzi e le ville dell'Amor vostro e si sarebbe messo a urlare ancora di più se avesse incontrato Lui, proprio Lui sulla sua strada.

Questo per quanto riguarda l'estetica, il gusto, la grazia che per voi - e anche per me - non sono poca cosa.
Ma poi c'è la verità, per relativa e bistrattata che possa essere.

Noi non siamo né monacali né occhiuti censori. Adoriamo la privatezza, la difendiamo e sempre la difenderemo per noi e per chiunque altro. Ma siamo anche rispettosi delle leggi e dello Stato di diritto. Posso pronunciare la parola Stato di diritto senza dovermi difendere dalle ingiurie di conformismo?

Allora. I reati avvengono quasi sempre in luoghi privati e nascosti, sono consumati in case private, in circoli dove gli estranei non hanno ingresso, in vicoli oscuri, in una cantina, in un garage. Mi sembra improbabile che qualcuno avvisi la polizia che alle ore 15 di domani andrà ad uccidere o a derubare o a stuprare o a truffare il signor Tale nella tale piazza, della tale città.

Ne consegue che per difendersi la società ha creato un sistema giudiziario e l'ha dotato di una polizia per indagare e individuare i rei ogni volta che la notizia di un crimine le pervenga.

Dove è la violazione della privatezza di fronte alla notizia di reato e all'obbligo che incombe sui magistrati di iniziare le indagini? L'assassino di Avetrana non può esser ricercato nella sua casa e può opporre la privatezza ai carabinieri che vanno a rivoltargli i materassi del letto?

E queste obiezioni e questo furore dobbiamo sentirlo sulla bocca del presidente del Consiglio che preannuncia la punizione dei magistrati avendo alle spalle la bandiera che testimonia la sua qualità di altissimo pubblico ufficiale della Repubblica?

E voi, spiriti sottili, atei ma devoti, allineati ma irriverenti, libertari ma snob, irruenti ma ricercati, voi non vedete con orrore o almeno con disgusto lo squallore e la disperazione in cui l'Amor vostro è precipitato portandosi dietro un pezzo del Paese?

E non sapendo con chi prendervela, ve la prendete con Barbara Spinelli?

Vi dovrebbe venire un po' di rossore sul volto, ma se non vi viene spontaneamente fatevelo pennellare sulle gote dal truccatore di scena, in modo che noi lo si possa vedere e perdonare la vostra vergogna.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quante sono le divisioni del capo dello Stato
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2011, 10:15:58 pm
Quante sono le divisioni del capo dello Stato

di EUGENIO SCALFARI


Siate buoni! Lo dice un uomo anziano che fabbrica ciambelle col buco e ne diffonde il consumo e poi - non so perché - chiude con questa esortazione il suo messaggio pubblicitario. Ma le sue ciambelle sono fatte con ottima farina. Qui, nella ciambella Italia, è l'ottima farina che manca, la nostra è una farina piena di vermi e di impurità ed è la materia prima che fa difetto. Perciò l'esortazione ad esser buoni, che la più alta autorità dello Stato non cessa di lanciare alle forze politiche e alle istituzioni imbarbarite, cade in un vuoto dove s'incrociano grida, insulti, delegittimazioni e malcostume diffuso in tutti i livelli.

Si accumulano indizi e prove di gravi reati, ma non è neppure questo l'aspetto che desta maggiore sgomento: i reati, veri o presunti, hanno i loro luoghi per essere accertati ed eventualmente puniti; ma è l'indecente spettacolo dei comportamenti viziosi e della paralisi istituzionale che ne consegue a gettare il Paese nello sgomento. L'articolo 54 della nostra Costituzione esorta ed anzi impone al titolare di quella istituzione di comportarsi con decoro, ma non era mai accaduto nella nostra storia di centocinquanta anni che l'onore e il decoro istituzionale fossero violati fino a tal punto. C'è un solo luogo pubblico, un solo Palazzo, che non è stato lambito da quest'ondata di disistima ed è il Quirinale, la presidenza della Repubblica.

Si dice che il Capo dello Stato, al di là delle esortazioni, dell'esempio e dei pressanti consigli,
non abbia altri strumenti per intervenire e ci si domanda sconfortati: di quante divisioni dispone Giorgio Napolitano? E' un potere armato o disarmato? E' soltanto una voce che grida nel deserto e altro non può fare?

In realtà il Presidente non è soltanto una voce e una presenza vigilante ma non operativa. A parte il potere di promulgare le leggi o di rinviarle al Parlamento, che non può essere reiterato, il Presidente dispone di altri due strumenti previsti dalla Costituzione. Il primo riguarda la formazione del governo, il secondo lo scioglimento anticipato delle Camere. Si tratta di strumenti estremamente incisivi, che vanno dunque usati con la massima ponderazione, ma che costituiscono una riserva preziosa quando le strutture istituzionali rischiano di decomporsi in un generale marasma. Questo rischio sta incombendo sulla nostra democrazia, sicché i due strumenti che abbiamo sopra indicati vanno esaminati con attenzione e se del caso utilizzati dal Capo dello Stato che ne ha la titolarità.

*  *  *

La formazione del governo. La Costituzione stabilisce che "il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere e i rappresentanti dei gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". L'articolo successivo prescrive che "il governo entro quindici giorni dal suo insediamento si presenta in Parlamento per ottenere la fiducia".

Questa procedura è chiarissima né si presta ad equivoci. Il Capo dello Stato "nomina" il presidente del Consiglio e le opinioni espresse dai presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari non vincolano il Capo dello Stato ma contribuiscono a renderlo compiutamente informato sugli orientamenti del Parlamento.

Su questa procedura costituzionale si è sovrapposta la prassi dell'incarico esplorativo. Sulla base di questa prassi il Capo dello Stato anziché nominare, incarica una personalità da lui scelta per accertare preliminarmente l'esistenza di una maggioranza parlamentare disposta a dare la fiducia all'incaricato. Se l'accertamento dà esito positivo, l'incaricato scioglie la riserva e il Capo dello Stato lo nomina; se l'accertamento è negativo al Capo dello Stato non resta altra soluzione che lo scioglimento delle Camere.

Questa prassi tuttavia non è affatto vincolante poiché non prevista in Costituzione. Il governo Pella per esempio fu "nominato" da Luigi Einaudi senza l'accordo della Dc di cui Pella era peraltro autorevole membro. Quando si presentò alle Camere la fiducia comunque la ottenne senza averne avuto la certezza preliminare. Le cose andarono in modo non identico ma analogo quando Gronchi nominò Tambroni a capo del governo.

Ci sono situazioni nelle quali la maggioranza esistente è soltanto formale e posticcia e può modificarsi di fronte all'iniziativa del Capo dello Stato il quale, se si rende conto di questa possibilità, può tenerne conto operando di conseguenza. Non si tratta di una forzatura interpretativa ma dello scrupoloso rispetto di quanto stabilisce la Costituzione.

Noi pensiamo che la situazione attuale potrebbe esser risolta, nel caso in cui l'attuale governo fosse sfiduciato o decidesse di dimettersi, direttamente con la nomina d'un nuovo presidente del Consiglio e senza bisogno d'un incarico preliminare.

*  *  *

Il secondo strumento riguarda lo scioglimento delle Camere in anticipo con la loro naturale scadenza. Esso può essere deciso dal Capo dello Stato senza bisogno che il governo in carica glielo chieda. La Costituzione infatti non prevede questa richiesta.

Naturalmente il Capo dello Stato deve avere una valida ragione per metter fine anticipatamente alla legislatura. Quando per esempio una Camera sia guidata da una maggioranza diversa da quella esistente nell'altra Camera, oppure quando il governo in carica non sia più in grado di governare; oppure per altre ragioni ancora, come accadde quando il Senato fu sciolto anticipatamente per due volte con l'obiettivo di far coincidere nella stessa data la scadenza delle due Camere, che all'epoca avevano una durata diversa.

Il marasma attuale e le reciproche delegittimazioni che si lanciano le più alte cariche istituzionali potrebbe ampiamente giustificare uno scioglimento delle Camere ancorché in presenza di un governo non sfiduciato.
Siamo arrivati al punto che il partito di maggioranza chiede le dimissioni del presidente della Camera, il quale a sua volta chiede le dimissioni del presidente del Consiglio; quest'ultimo insulta quasi quotidianamente la Corte costituzionale e - da quando ha ricevuto mandato di comparizione per essere interrogato per gravi reati - estende l'insulto alla Procura di Milano definendola (anche qui quotidianamente e pubblicamente) sovversiva ed eversiva e rifiutando di presentarsi al suo cospetto per essere interrogato. Come tutto ciò non bastasse, il partito finiano denuncia al Tribunale dei ministri il ministro degli Esteri per abuso d'ufficio, il Pd e l'Udc deplorano il presidente del Senato, i rappresentanti della Lega e del Pdl disertano le riunioni del Copasir (Comitato di controllo parlamentare dei servizi di sicurezza) che ha chiamato a deporre il presidente del Consiglio o in sua vece il sottosegretario Gianni Letta.

Infine si fa strada una singolarissima prassi da parte di Berlusconi d'intervenire telefonicamente nelle trasmissioni televisive per insultare i conduttori e gli ospiti delle medesime, imitato dal direttore generale della Rai, Masi, che interrompe in diretta Annozero dando vita ad una rissa verbale con Santoro davanti a sette milioni di telespettatori.

Se in queste condizioni Giorgio Napolitano decidesse di sciogliere il Parlamento e rimettere il giudizio su quanto avviene al popolo sovrano, credo che nessuno potrebbe formulare nei suoi confronti la menoma critica: farebbe il suo dovere rispettando in pieno la lettera e lo spirito della Carta costituzionale.

(30 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it/politica/2011/01/30


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il cavaliere e il raìs due leader in fuga
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2011, 10:10:11 am
L'EDITORIALE

Il cavaliere e il raìs due leader in fuga

di EUGENIO SCALFARI

Tre giorni fa, mentre la sollevazione del popolo egiziano era arrivata al punto culminante, Silvio Berlusconi fu l'unico tra i dirigenti politici di paesi occidentali a dire che "Mubarak è un uomo saggio e bisogna lasciarlo dove sta. Sarà lui a fare le riforme e solo dopo potrà ritirarsi con onore".
 
Berlusconi e Mubarak risultano dunque strettamente  -  e inconsapevolmente  -  legati tra loro in diversi modi. Il primo è Ruby-Rubacuori, pretesa nipote del presidente egiziano secondo quanto Berlusconi dichiarò alla questura di Milano per ottenere la liberazione della minorenne marocchina dalla custodia della polizia. Mubarak non ha mai saputo di questa "birboneria" congegnata dal presidente del Consiglio italiano tirandolo in ballo.

Il secondo elemento che li lega è la crisi politica che incombe su entrambi; estremamente drammatica quella che minaccia il leader egiziano che deve fronteggiare un paese in rivolta; molto diversa e pacifica quella in corso in Italia che tuttavia configura anch'essa la decomposizione d'un sistema di potere e sembra preannunciarne la fine.

Infine un terzo elemento: sia al Cairo che a Roma, in attesa che le due crisi trovino una soluzione, il potere effettivo non è più nelle mani dei due leader ma è passato ad altre forze di tutela; al Cairo l'esercito, a Roma la Lega Nord. Due forme di transizione che sottolineano in modi diversi ma analoghi il declino inarrestabile dei vecchi leader e l'inizio di una fase nuova
e ancora ignota ma ormai inevitabile.

Mubarak e Berlusconi, due destini gemelli. Chi l'avrebbe immaginato appena qualche settimana fa?

* * *

Le partite in corso qui da noi sono tre, distinte e conflittuali tra loro.

Quella che interessa la Lega è la partita del federalismo. Dovrebbe esser portata a compimento entro il prossimo maggio; se quella data sarà superata la sconfitta politica per Bossi sarà cocente.

Perciò la Lega la mette in cima nella scala delle priorità e ha deciso di gestirla in esclusiva schiacciando in angolo le priorità del suo alleato.

Le partite che interessano Berlusconi sono invece quella di sottrarsi ai processi e quella di avviare provvedimenti di crescita economica che rilancino un paese immobile, impagliato e mummificato. Anche per queste due partite il tempo a disposizione si conta ormai a settimane, ma per quanto riguarda lo scontro giudiziario addirittura a giorni.

Il Paese assiste. In realtà la sola partita che lo interessi veramente è quella economica che però le altre contese rischiano di relegare in seconda o terza fila. Su questo terreno dovrebbero entrare in campo le opposizioni unificando i loro  intenti, i loro programmi e le loro iniziative. Se riusciranno a farlo avranno anche preparato quello schieramento unitario con il quale dovranno affrontare le elezioni che, da maggio in poi, potranno essere indette in qualunque momento.

* * *

Il federalismo è partito col piede sbagliato e non è con le pezze di Calderoli che può essere recuperato e avviato sui giusti binari. Il tema dei costi standard è ancora tutto da discutere, ma non è neppur questo il punto essenziale.

Tremonti ha un suo "mantra" al quale nessuno ha mai creduto: minore burocrazia, minori spese, maggiori controlli dei governati sull'operato dei governanti.

Il mantra di Tremonti ha un difetto molto grave: non c'è una sola cifra che ne attesti la veridicità. Anzi: i decreti legislativi finora approvati o in corso d'approvazione dimostrano il contrario. I Comuni per ora sono alla fame; potranno avere un moderato sollievo tra tre anni. Intanto dispongono di risorse minime, ottenute con incrementi di sovraimposte e con tagli spesso crudeli di servizi. Regioni e Province stanno anche peggio. Lo stock degli impiegati aumenterà. I conflitti all'interno delle varie autonomie e con lo Stato aumenteranno anch'essi. Le diseguaglianze tra Comuni ricchi e poveri nella stessa area regionale e provinciale susciteranno continui conflitti di campanile. Bisognava accorpare i Comuni e abolire le Province prima di partire. Da ottomila Comuni a tremilacinquecento, questo era l'obiettivo e questa doveva essere la prima mossa d'un sistema di autonomie locali. E una politica del Mezzogiorno che diminuisse le diseguaglianze con il Nord.

Poiché niente di tutto ciò è stato fatto, avremo un sistema sgangherato di autonomie a due velocità e una selva di conflitti, rivalità, campanilismi e ulteriore decomposizione del sistema-paese. Di tutto questo Berlusconi se ne infischia ma  -  non sembri un paradosso  -  se ne infischia anche la Lega. Dopo il voto contrario della Bicamerale e lo sgarro costituzionale respinto giustamente da Napolitano, Bossi ha detto: "Quello che ci sta a cuore è che i soldi del Nord restino al Nord, il resto sono chiacchiere".

Voce dal sen fuggita. Se questa è la sostanza che sta a cuore alla Lega, essa non sta combattendo per un sistema di autonomie ma per una politica secessionista. Assolutamente inaccettabile. Io non credo che il Nord, tutti gli italiani del Nord, vogliano un federalismo secessionista. Le forze politiche responsabili (ovviamente non quelle di Moffa) dovranno porre questa domanda agli elettori di Torino, di Bologna, di Genova. Forse avremo qualche positiva sorpresa se la domanda sarà fatta con chiarezza e convinzione.

* * *

La politica di crescita. Ora la vuole anche Giuliano Ferrara, di nuovo nel ruolo di consigliere del Principe.

Sinceramente me ne rallegro, anche se le cognizioni economiche di Ferrara non risultano eccezionali, ma il "dominus" è Tremonti ed è a lui che bisogna guardare.

Il ministro dell'Economia è alla prese con la dottrina Merkel-Sarkozy-Trichet, che comporta rigore nei bilanci e riduzione dei debiti sovrani. È chiaro che per far fronte a questi criteri la crescita è indispensabile. Ma come si ottiene?

La risposta di Tremonti è questa: si ottiene con riforme senza spese, liberalizzazioni, vendita di patrimonio pubblico, aumento di produttività e di competitività. Un po' di sgravi fiscali (spiccioli) per imprese e lavoratori.

Infine grande riforma del fisco (nel 2013 e anni seguenti).

Per intanto riscrittura dell'articolo 41 e abolizione dell'articolo 43 della Costituzione. Per poi, magari, abolire anche l'articolo 1, quello che recita "la Repubblica è fondata sul lavoro".

Una parola sull'articolo 41 (e 43): sono due articoli contenuti nella prima parte della Costituzione quella dedicata ai principi ispiratori della nostra Carta. Per convenzione tra tutte le parti politiche e sociali, la prima parte della Carta non deve essere toccata. Questa convenzione è saltata? Si può intervenire su tutto? C'è stata una consultazione su questo delicatissimo argomento?

Aggiungo: poiché presumibilmente le opposizioni voteranno contro la riscrittura dell'articolo 41, si andrà al referendum confermativo, con la conseguenza che avremo per la prima volta nella storia repubblicana un referendum costituzionale sulla prima parte della Carta, cioè sui principi che ispirano il nostro patto costituzionale.

Ebbene, noi crediamo che sia gravissimo questo programma di sottoporre a voto parlamentare e poi a referendum i principi che ci legano al patto costituzionale. Crediamo che il Capo dello Stato non firmerebbe quella legge e che la Corte la boccerebbe. Per modificare i principi ci vuole un'Assemblea costituente e troviamo molto strano che finora nessuno abbia sollevato questa questione.

Torniamo alla crescita. Con riforme senza spese non si fa niente. Va bene liberalizzare e certo sarebbe un bel giorno quello in cui la burocrazia decidesse in pochi giorni su un'autorizzazione o una licenza e che non ci volessero trenta passaggi e un anno e mezzo per ottenere un permesso.

In tutta franchezza noi credevamo che questo problema fosse stato risolto da un pezzo perché tutti i governi degli ultimi vent'anni ci hanno detto d'avere semplificato e ridotto all'osso il numero delle leggi e delle inutili complicazioni. Ricordo che Calderoli  -  ministro della Semplificazione  -  fece un pubblico falò con tanto di fotografi e televisioni e bruciò non so quante centinaia di leggi da lui abolite. Caro Calderoli, ma quali leggi ha bruciato se sono tutte ancora lì e se è vero che bisogna semplificare la burocrazia per costruire un edificio qualsiasi e per ottenere un qualsiasi permesso? Dunque non era vero quello che lei ci ha fatto intendere. Dunque avete gabbato anche questa volta i cittadini. Dunque siete un governo di imbroglioni. Dunque stiamo ancora discutendo sulla Salerno-Reggio Calabria. Non è una vergogna?

* * *

È chiaro che le riforme senza spese non hanno nulla a che vedere con la crescita specie se la crescita bisognerebbe avviarla presto, anzi prestissimo. Nessuno vuole la patrimoniale, salvo l'imposta sulle case prevista dal decreto sul federalismo municipale. Ma per avviare la crescita, incrementare imprese e salari, rilanciare i consumi che scendono, contenere l'inflazione (che è una tassa, non è vero ministro Tremonti? Una tassa per di più regressiva?) i soldi ci vogliono.

Lei, nonostante i tagli, ha fatto correre le spese correnti (riducendo al minimo quelle per investimenti) del 2 per cento l'anno. Ha fatto aumentare il debito fino al 118 per cento. Ha azzerato l'avanzo delle partite correnti. Ha fatto aumentare la pressione fiscale.

I soldi per la crescita da dove li prenderà? Lo vedremo dai concreti provvedimenti che riuscirà a portare in Parlamento sempre che riesca a farsi luce tra il federalismo secessionista che piace tanto anche a lei e le leggi che servono al premier per bloccare i processi che lo riguardano.

* * *

Dovrei parlare ora dell'altra partita, quella appunto sullo scontro giudiziario. Ma su quella non dico nulla, parlano e parleranno le carte. Una parola sulla foto "osé" della quale si parla con crescente insistenza. Se la foto c'è, qualcuno l'ha scattata. Quindi il premier fa entrare nelle sue case gente che è in grado di ricattarlo. Chiedo a Gianni Letta: perché lei ha escluso la ricattabilità del premier deponendo di fronte al Copasir? Se la foto ci fosse lei sarebbe smentito dai fatti. Ha considerato questa ipotesi? Le guardie non dovrebbero perquisire gli invitati del premier quando si tratta di "ragazze di vita"? E se quelle foto se le vendessero e se in contropartita del silenzio chiedessero soldi posti seggi nel Parlamento e nelle Regioni? Siamo ridotti in queste condizioni ed è questo l'uomo che rappresenta il governo e lo Stato?

(06 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/06


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La morale dell'elefantino
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:32:14 pm
La morale dell'elefantino

di Eugenio Scalfari


E se la sacra pazzia di Berlusconi fosse anche intrisa di reati oltre che di peccati e grossolanità? A noi miserabili miscredenti importa poco del peccato e molto del reato

(11 febbraio 2011)

Manifestazione del Pdl Manifestazione del PdlDedicare per la seconda volta di seguito il mio "Vetro soffiato" a Giuliano Ferrara e al suo codice estetico-morale non era nei miei pensieri, ma dopo aver letto il suo Elefantino di lunedì scorso non posso farne a meno. Si tratta di una "Lettera alle belle anime azioniste (nella loro miseria)" ed è la prima violazione del canone estetico: usare l'aggettivo sostantivato di azionista nel suo doppio significato di militante del partito d'azione (che è scomparso dalla scena politica 62 anni fa) e di portatore di azioni d'una società è un giochetto talmente banale da ricordare lo stridore d'una lama di coltello sul marmo. I foglianti non possono usarlo senza venire clamorosamente meno alla loro estetica. Potremmo semmai farlo noi "nella nostra miseria" ma la raffinata sensibilità vostra non ve lo consente.

Il testo di quella lettera aperta contiene però molto di peggio. Racconta la serata al Palasharp di Milano, affollata da 12 mila persone per iniziativa di "Libertà e giustizia". Cito: "Abbiamo visto il moralismo dei finti perseguitati, degli autori che dicono di andare a letto presto, sì, "ma solo perché leggo Kant" (così ha specificato Eco ammiccando con una battuta miserabile a una platea di devoti dell'onore d'Italia). E che orrore la fosca antropologia di Zagrebelsky, la voce chioccia e la perfidia negli occhi. Il cattolicesimo reazionario e sessuofobo d'uno Scalfaro. La mediocre telefonata di Ginsborg, le banalità di Saviano e che delusione la Camusso a rapporto dai suoi nemici di classe, gli azionisti billionaires".

Un elenco dozzinale di insulti, ma attenti agli aggettivi e ai sostantivi: la voce chioccia, e passi per chioccia, ma l'Elefantino non aveva fatto il tifo per il film "Il Discorso del Re"? La perfidia degli occhi: come fa a scorger perfidia attraverso le immagini televisive? Il cattolicesimo sessuofobo e reazionario; sta forse pensando al cardinale Ruini? Ginsborg mediocre, Saviano banale, Camusso e gli azionisti nemici di classe. Dov'è il Ferrara prezioso che gareggia in abiti di flanella o di lino bianchi con parole ficcanti che lasciano il segno? Ha perso il gusto di ferire l'avversario con un vocabolario mantenuto sotto la canfora e sguainato al momento giusto? Ci contentiamo di banale, mediocre, sessuofobo?
L'Elefantino dovrebbe stare molto attento a rinverdire il suo canone estetico per una ragione che lui del resto conosce perfettamente: quando si affronta l'avversario sul terreno della morale bisogna avere una morale oppure un'estetica o magari e meglio ancora entrambi quei codici. Poiché l'Elefantino non dispone del primo requisito per sua volontaria rinuncia, gli resta il secondo che va coltivato con la massima cura per non lasciarlo appassire. L'estetica è fatta di finezza e di sottintesa ironia, la radicalità la devasta.

"All'inflessione piccolo dialettale di Zagrebelsky in fondo in fondo preferisco la banda Cavallero" e poi oltre: "Per fortuna quel mondo ha prodotto anche i Violante, persone di razza che ne hanno fatte più di Carlo in Francia ma non si abbasserebbero mai a scrutare i giorni, le notti e le vite degli altri". Davvero? Carlo in Francia? Il buco della serratura? Siamo arrivati a questo? Tra poco i lettori foglianti dovranno leggere che "si combatte alla grande, si vincerà tra un attimino e sì, è assolutamente così". E allora meglio "Libero" di Belpietro e il "Giornale" di Sallusti.
Però alla fine arriva il colpo di reni. Eccolo ri-finalmente, il Ferrara dei bei tempi: una citazione di Emerson, Ralph Waldo, in inglese nelle note (ma non era meglio mettere in nota la traduzione italiana?) "Ho tutto sommato l'impressione che dove ci sia una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato, lì troveremo anche l'argine e la purificazione e alla fine si scoverà un'armonia con le leggi morali". Fin qui la citazione di Waldo. Segue il finale speranzoso dell'Elefantino: "La pazzia di Berlusconi sarà in qualche modo riscattata, belle anime azioniste, la vostra mancanza di vita è inescusabile".

da - espresso.repubblica.it/dettaglio


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La sinistra avrebbe dovuto sollevare il gigantesco conflitto..
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2011, 10:46:51 pm
L'INTERVISTA

"Sembra il finale del Caimano e il Cavaliere usa le sue tv"

Nanni Moretti: "Così si perpetua il berlusconismo". "L'Italia non è un Paese di insurrezioni".

"La sinistra avrebbe dovuto sollevare il gigantesco conflitto di interessi subito, prima, durante e dopo le elezioni. Non fece nulla"


di EUGENIO SCALFARI


"Sembra il finale del Caimano e il Cavaliere usa le sue tv" Nanni Moretti
Non vedevo il film di Nanni Moretti, "Il Caimano" da quando fu proiettato per la prima volta cinque anni fa nella sala del "Sacher" a Trastevere. Ricordo che era gremita, con la gente seduta per terra nei corridoi della platea e addossata alle pareti. Alla fine ci fu un'ovazione.

Lui era imbarazzato perché non riusciva a sottrarsi alla folla che voleva abbracciarlo o almeno dargli la mano. E d'umore molto scorbutico Moretti, si concede molto poco.

Non è per sobrietà ma per una sorta di nevrosi che ha come risvolto positivo una lucidità mentale che aguzza la sua capacità di capire gli altri e se stesso. I suoi film raccontano il suo sé ed anche il sé altrui; i personaggi sono spesso la sua controfigura o il suo opposto. Per questo il personaggio Berlusconi gli è venuto benissimo: è il suo opposto assoluto salvo quel tanto di paranoia che perseguita tutti e due. Perciò gli è stato facile metterlo in scena, l'ha costruito animandolo di passioni opposte alle sue e in quel modo il ritratto si è perfettamente sovrapposto all'originale. Il Caimano non è il risultato di una profezia azzeccata ma d'un attento lavoro di psicanalisi.

Di quel film ricordavo il finale, il discorso del protagonista in Tribunale, la sentenza di condanna, l'arringa del leader all'uscita dal Palazzo di Giustizia, l'insurrezione della sua gente e infine le fiamme della città incendiata. Insomma la guerra civile.
Siamo a questo? I seguaci di Berlusconi insorgeranno?
Contro la magistratura e contro le leggi? Dopo 15 anni di confisca berlusconiana d'una parte cospicua della pubblica opinione? L'ho chiesto a Moretti in una lunga telefonata dopo aver letto le sue interviste all'"Unità" e al "Manifesto", nelle quali parlava dei suoi agitati rapporti con la Rai che aveva bloccato gli ultimi sette minuti del suo film nella trasmissione di Serena Dandini di giovedì sera.

"Non credo" risponde Moretti. "Noi non siamo un Paese di insurrezioni e poi siamo in Europa, la gente pensa piuttosto come sbarcare il lunario e non ai vizi di Berlusconi o a quelli dei magistrati che secondo lui lo perseguitano. Ma quanto doveva accadere ormai è accaduto. La bomba è scoppiata e non restano che rovine fumanti".

Le parole del Caimano nel finale del film sono identiche a quelle pronunciate negli ultimi tre giorni da Berlusconi nei suoi interventi pubblici. Dico identiche, non simili: identiche. Sembra quasi che abbia rivisto il film e ne abbia mandato a memoria quelle parole. Insomma, dico a Moretti, gliele hai scritte tu, non Giuliano Ferrara.
"Hai ragione, sembra che il finale del Caimano sia esattamente il Berlusconi di questi giorni".

Tu però le ha scritte cinque anni fa, nel 2005. Lui era al governo da quattro anni. All'epoca non si parlava di "escort", ma la sua concezione del potere era già evidente.
"Era evidente già molto tempo prima. Questa storia comincia nel 1994, quando prese il potere per la prima volta. Non era mai accaduto che un "tycoon" della televisione diventasse capo del governo mettendo insieme le sue televisioni private e quella pubblica. Un gigantesco conflitto di interessi che la sinistra avrebbe dovuto sollevare subito, prima, durante e dopo le elezioni che comunque furono perse".

La sinistra di allora era il Pds guidato da Occhetto, le elezioni furono perse perché la Dc di Martinazzoli seguì le indicazioni del Vaticano e non si alleò con il Pds. La sinistra sollevò il tema del conflitto di interessi.
"Sì, lo sollevò ma poi non fece nulla per impedirlo e quando tornò al governo con Prodi il conflitto di interessi fu abbandonato. Secondo me avrebbe dovuto essere il tema numero uno. Le televisioni sono lo strumento principale di Berlusconi che le usa con una spregiudicatezza raccapricciante. In più ha anche in mano il cinema attraverso la Medusa, il suo dominio sulle comunicazioni è pressoché totale. L'opinione pubblica italiana si forma per l'80 per cento sulle televisioni, così è nato il berlusconismo e così rischia di perpetuarsi".

Prodi però vinse e vinse due volte anche se la seconda fu una vittoria di breve e travagliata durata...
"E fu buttato giù da Bertinotti tutte e due le volte. A me il governo Prodi del '96 sembrò un buon governo, lo dico perché mi si accusa spesso d'avere un partito preso contro la sinistra riformista. Non è vero. Non mi piace la sinistra inconcludente, sia quella radicale sia quella riformista. Negli ultimi anni sono stati purtroppo inconcludenti tutti e due".

Tu pensi che non ci sia possibilità di uscire dalla situazione presente? Se si determinasse un'alleanza di tutte le opposizioni la vittoria sarebbe molto probabile.
Non risponde, tanto che penso che la linea telefonica sia per qualche ragione caduta; invece no, Nanni è all'altro capo del filo. "Ci sto pensando, ma come sai non sono un politico e comunque non spetta a me dar consigli. Non lo so, francamente non lo so. Anzi, non farmela questa domanda".

Ormai te l'ho fatta, scriverò che non lo sai, come hai appena detto. Ma c'è un altro tema sul quale mi piacerebbe avere la tua risposta ed è il berlusconismo. Di personaggi come lui ce ne sono parecchi ma il berlusconismo è un modo di pensare e di comportarsi che in Italia sembra scritto su una parte della nostra antropologia. C'è stato il caso di Mussolini, dell'Uomo Qualunque, di Craxi e infine di Berlusconi. Sono cose molto diverse ma con profonde analogie. Che cosa ne pensi?
"Penso che il berlusconismo sia una causa e contemporaneamente un effetto. I casi da te indicati sono diversi ma c'è una predisposizione italiana a farsi sedurre dalla demagogia e dal populismo. Tempo fa, quando fu eletto in Francia Sarkozy presidente della Repubblica molti pensarono che era emerso in Europa un altro Berlusconi, ma non è affatto vero. Sarkozy è tutt'altra cosa. Ha anche lui alcuni aspetti politicamente sgradevoli ma non hanno niente a che vedere col berlusconismo. Tra l'altro non possiede e non influenza né televisioni né giornali".

E poi la Francia non è l'Italia, lì lo Stato esiste davvero, da noi no.
"A me piace lo Stato se fosse libero dalle lobbies e dalle bande che troppo spesso lo occupano. Noi abbiamo al governo la lobby più potente che ci sia mai stata in questo Paese e lo si doveva capire fin dal primo momento".

Gli dico: forse non te lo ricordi, ma io scrissi un articolo su Repubblica nell'agosto del '92 intitolato "Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa". Nel '92, due anni prima che lui si occupasse di politica. I segnali erano evidenti.
"Ma i politici non lo capirono".

Oggi l'hanno capito.
"Temo che sia troppo tardi".

Io spero di no. La conversazione è finita. Abbiamo deciso di incontrarci presto per fare un po' di monitoraggio. Ma sono cose che si dicono e poi non si fanno e del resto monitorare, a questo punto, non basta più.

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che ipocriti questi atei devoti
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2011, 11:10:39 pm
Che ipocriti questi atei devoti

di Eugenio Scalfari

La campagna di Giuliano Ferrara contro i «moralisti» serve solo a confondere le acque: qui è in corso un'inchiesta penale per accertare dei reati gravi.

Cosa c'entra il peccato?

(11 febbraio 2011)

Dedicare per la seconda volta di seguito il mio "Vetro soffiato" a Giuliano Ferrara e al suo codice estetico-morale non era nei miei pensieri, ma dopo aver letto il suo Elefantino di lunedì scorso non posso farne a meno. Si tratta di una "Lettera alle belle anime azioniste (nella loro miseria)" ed è la prima violazione del canone estetico: usare l'aggettivo sostantivato di azionista nel suo doppio significato di militante del partito d'azione (che è scomparso dalla scena politica 62 anni fa) e di portatore di azioni d'una società è un giochetto talmente banale da ricordare lo stridore d'una lama di coltello sul marmo. I foglianti non possono usarlo senza venire clamorosamente meno alla loro estetica. Potremmo semmai farlo noi "nella nostra miseria" ma la raffinata sensibilità vostra non ve lo consente.

Il testo di quella lettera aperta contiene però molto di peggio. Racconta la serata al Palasharp di Milano, affollata da 12 mila persone per iniziativa di "Libertà e giustizia". Cito: "Abbiamo visto il moralismo dei finti perseguitati, degli autori che dicono di andare a letto presto, sì, "ma solo perché leggo Kant" (così ha specificato Eco ammiccando con una battuta miserabile a una platea di devoti dell'onore d'Italia). E che orrore la fosca antropologia di Zagrebelsky, la voce chioccia e la perfidia negli occhi. Il cattolicesimo reazionario e sessuofobo d'uno Scalfaro. La mediocre telefonata di Ginsborg, le banalità di Saviano e che delusione la Camusso a rapporto dai suoi nemici di classe, gli azionisti billionaires".

Un elenco dozzinale di insulti, ma attenti agli aggettivi e ai sostantivi: la voce chioccia, e passi per chioccia, ma l'Elefantino non aveva fatto il tifo per il film "Il Discorso del Re"? La perfidia degli occhi: come fa a scorger perfidia attraverso le immagini televisive? Il cattolicesimo sessuofobo e reazionario; sta forse pensando al cardinale Ruini? Ginsborg mediocre, Saviano banale, Camusso e gli azionisti nemici di classe. Dov'è il Ferrara prezioso che gareggia in abiti di flanella o di lino bianchi con parole ficcanti che lasciano il segno? Ha perso il gusto di ferire l'avversario con un vocabolario mantenuto sotto la canfora e sguainato al momento giusto? Ci contentiamo di banale, mediocre, sessuofobo?

L'Elefantino dovrebbe stare molto attento a rinverdire il suo canone estetico per una ragione che lui del resto conosce perfettamente: quando si affronta l'avversario sul terreno della morale bisogna avere una morale oppure un'estetica o magari e meglio ancora entrambi quei codici. Poiché l'Elefantino non dispone del primo requisito per sua volontaria rinuncia, gli resta il secondo che va coltivato con la massima cura per non lasciarlo appassire. L'estetica è fatta di finezza e di sottintesa ironia, la radicalità la devasta.

"All'inflessione piccolo dialettale di Zagrebelsky in fondo in fondo preferisco la banda Cavallero" e poi oltre: "Per fortuna quel mondo ha prodotto anche i Violante, persone di razza che ne hanno fatte più di Carlo in Francia ma non si abbasserebbero mai a scrutare i giorni, le notti e le vite degli altri". Davvero? Carlo in Francia? Il buco della serratura? Siamo arrivati a questo? Tra poco i lettori foglianti dovranno leggere che "si combatte alla grande, si vincerà tra un attimino e sì, è assolutamente così". E allora meglio "Libero" di Belpietro e il "Giornale" di Sallusti.

Però alla fine arriva il colpo di reni. Eccolo ri-finalmente, il Ferrara dei bei tempi: una citazione di Emerson, Ralph Waldo, in inglese nelle note (ma non era meglio mettere in nota la traduzione italiana?) "Ho tutto sommato l'impressione che dove ci sia una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato, lì troveremo anche l'argine e la purificazione e alla fine si scoverà un'armonia con le leggi morali". Fin qui la citazione di Waldo. Segue il finale speranzoso dell'Elefantino: "La pazzia di Berlusconi sarà in qualche modo riscattata, belle anime azioniste, la vostra mancanza di vita è inescusabile".

© Riproduzione riservata
da - espresso.repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il legno storto e quello putrido
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 05:07:42 pm
Il legno storto e quello putrido

di EUGENIO SCALFARI

Mubarak è caduto sotto la spinta irrefrenabile della gioventù egiziana. Berlusconi oscilla, sempre più impotente e sempre più Caimano e registra per la prima volta lo smottamento dei consensi che finora costituivano la base del suo sistema di potere. L'opposizione comincia (finalmente) a considerare la necessità di costruire un'alleanza repubblicana che guidi il paese fuori dal pantano in cui è precipitato.
 Questi sono i fatti della settimana che si conclude oggi con la manifestazione delle donne in tutte le piazze d'Italia per affermare la loro dignità ed opporsi al degrado che ci sovrasta.

 C'è un tema che unifica questo panorama di eventi e lo prendo da una frase ormai celebre di Immanuel Kant sul "legno storto dell'umanità". Isaiah Berlin ha scritto un libro intitolato a questa frase. L'umanità è un legno storto e lo è perché l'uomo risulta da un'incredibile mescolanza di istinti e di ragione. Un legno storto ma un legno vivo, con radici e fronde vitali. Nelle vene del suo tronco scorrono linfe, passioni, sentimenti, memoria, progetti, ragionamenti, sogni, trasgressioni, bisogno di regole e di limiti.

 Questo è il legno storto e questo siamo tutti noi. Ma l'opposto non è un improbabile anzi impossibile legno dritto, bensì un legno marcio, un legno imputridito, divorato dai parassiti e dai coleotteri velenosi. Noi, legno storto, non vogliamo che il nostro legno imputridisca, marcisca e sia divorato dai parassiti.

Questo dunque è il tema al quale gli eventi di questi giorni si ricollegano ed è la chiave per poter leggere e svolgere con chiarezza. Un tribuno che si eccita quando fiuta l'odore del nemico e dello scontro, ha citato anche lui la massima kantiana leggendola come un alibi che giustifichi i peccati di tutti e di uno in particolare. Ha anche accusato Umberto Eco di leggere Kant senza capirlo. Non so se quel tribuno vociante e urlante dal palco d'un teatro milanese imbandierato di mutande abbia letto i romanzi e i saggi di Eco. Se li avesse letti si sarebbe accorto che tutta l'opera di Eco è l'analisi e il racconto del legno storto che combatte il legno marcio, a volte vincendo, a volte soccombendo, ma sempre e comunque testimoniando.
 Detto questo, a noi non importano molto i peccati perché siamo libertini illuministi e relativisti. A noi importano gli eventuali reati e chi pecca e crede confidi nella misericordia di Dio.
* * *
Berlusconi non è un fatto episodico e anomalo nella storia italiana.
Conversando l'altro giorno con Nanni Moretti, l'autore del Caimano ha detto ad un certo punto che dai geni antropologici della nostra nazione sembra emergere una sorta di predisposizione a cedere alla demagogia. Nel suo articolo di mercoledì scorso Barbara Spinelli aveva esaminato della predisposizione come si manifesta nelle sue varie forme e quali ne siano state le cause storiche.

Molti anni prima, nel 1945, in un dibattito alla Consulta che è rimasto nei verbali di quell'istituzione, ne parlarono Ferruccio Parri e Benedetto Croce a proposito di Mussolini e del fascismo. Croce sosteneva che fosse un fatto anomalo, un tragico incidente di percorso; Parri era di diverso avviso, non un incidente ma, appunto, una predisposizione, un effetto ricorrente ad intervalli periodici, un virus annidato nell'organismo del paese insieme agli anticorpi capaci di combatterlo ma a volte soccombenti di fronte alla sua irruenza.

In un contesto diverso e con caratteri diversi, Berlusconi raffigura una nuova insorgenza di quel virus e questo spiega il largo consenso che l'ha fin qui sorretto. Ma ora gli anticorpi sono entrati in azione e non basteranno i tacchi dalla Santanché e le contumelie di Ferrara a ridare al virus la sua potenza corrompitrice.
* * *
L'opposizione sta finalmente considerando la necessità di dar vita ad un'alleanza repubblicana. Sembra decisa sull'obiettivo che si propone ma ancora molto incerta sulle modalità, sui tempi, sulla leadership ed anche sui partecipanti. Da Fini a Bersani? Da Casini a Vendola? Anche con Di Pietro? Guidati da chi? Per fare che cosa?

Includendo anche quella parte del Pdl che dovesse eventualmente abbandonare il proprietario di quel partito?

E la Lega? Si deve trattare con la Lega? Questa lunga sfilza di domande ancora senza risposte è preoccupante.

Significa che i soggetti protagonisti non hanno ancora capito che il tempo a disposizione è corto e che compete proprio a loro di accorciarlo perché - e questo lo capiscono tutti - nelle odierne condizioni il paese non può stare più oltre.
 Debbo su questo punto una risposta personale a Nichi Vendola il quale giovedì scorso ad Annozero di Michele Santoro ha ricordato un mio articolo di oltre due mesi fa in cui sostenevo che non era il momento di andare alle elezioni e che bisognava piuttosto lavorare per disarcionare Berlusconi installando al suo posto un governo interinale che guidasse il paese fino alla fine naturale della legislatura.

È perfettamente esatto, ho scritto proprio così perché allora il contesto politico ed economico a mio avviso consigliava questa soluzione ed in questa chiave si aspettava il voto parlamentare del 14 dicembre. Ma proprio quel voto, con i suoi tre voti di differenza in favore del governo ottenuti sappiamo come, cambiò radicalmente il contesto. Oggi non si può che andare alle elezioni a meno che il premier non si dimetta. C'è ancora chi crede in un'ipotesi del genere? Mubarak è stato costretto a farlo, ma l'Italia non è l'Egitto e i due casi non sono paragonabili.
Dunque bisogna affrettare le elezioni e rispondere a quella selva di punti interrogativi che abbiamo sopra elencato.
* * *
Un'alleanza repubblicana deve avere dei promotori che indichino gli obiettivi e decidano la leadership. I promotori si sono già manifestati: Bersani, cioè il Partito democratico unito su questa linea e Casini, cioè l'Udc, o forse il Polo della nazione che comprende anche Fini e Rutelli.

L'obiettivo è stato indicato: cambiare la legge elettorale avvicinandola agli elettori; affiancare con misure appropriate la crescita economica al rigore di bilancio; costruire un federalismo che non sia secessionista ma un solido ed efficiente sistema di autonomie regionali e comunali. Infine restituire alle istituzioni la loro dignità, la loro autonomia e la loro efficienza nel rispetto della reciproca indipendenza tra i poteri dello Stato.

Fin qui i promotori. I quali - ecco un punto che ancora non è stato chiarito ma che è parte essenziale dell'operazione, non possono mettere veti alle forze politiche che decidessero di partecipare all'alleanza, anzi debbono mirare ad ampliarla il più possibile.

Gli esiti scoraggianti dell'Unione che erose dall'interno il governo Prodi del 2006 avvennero in un contesto del tutto diverso. Oggi non si tratta di dar vita ad un'alleanza di governo così estesa. L'alleanza di governo riguarda i partiti promotori. Le altre forze saranno invitate a far parte d'un cartello elettorale che concordi sull'obiettivo ed è questo che marca la differenza.

Ma c'è un altro punto che va chiarito. Una volta perfezionata l'alleanza e il cartello elettorale, i promotori debbono chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere per la loro manifesta impossibilità di legiferare. Il Parlamento da oltre due mesi è in stato di paralisi e questo di per sé motiva la richiesta di scioglimento della legislatura.

Va aggiunto che la paralisi parlamentare e l'impotenza del governo a governare motiva anche l'iniziativa autonoma del Capo dello Stato il quale ieri pomeriggio ha richiamato di nuovo l'attenzione pubblica su questa sua insindacabile prerogativa costituzionale.

Resta il tema della leadership. Esprimo su questo punto un parere personale: non credo che il leader d'una alleanza tra la sinistra e il centro-centrodestra possa esser guidata da un esponente politico proveniente da una delle forze alleate. Deve essere rappresentativo di tutte e soprattutto della società civile.

Parlammo a suo tempo d'un "Papa straniero" in questo senso.  Prodi lo fu e vinse due volte in nome e per conto delle forze alleate. Ciampi, in condizioni del tutto diverse, guidò un governo di ricostruzione repubblicana.

Il leader di questa alleanza non può che rispondere a queste caratteristiche: rappresentare il comune denominatore e possedere una specifica competenza soprattutto economica perché è quello il tratto dominante della situazione.
 Ma va aggiunto che anche la scelta del presidente del Consiglio spetta al Capo dello Stato che, in situazioni del genere e con l'aiuto della coalizione vincente può anche scegliere un premier diverso da quello indicato sulle schede come leader della campagna elettorale.

Post scriptum. Domenica scorsa segnalai la pericolosità di riformare l'articolo 41 della Costituzione. Tutte le opposizioni hanno criticato quell'ipotesi approvata dal Consiglio dei ministri, definendola del tutto inutile ai fini della crescita economica. Per quanto mi riguarda sono perfettamente d'accordo su questa critica, ma la vera pericolosità è un'altra: sarebbe la prima volta che si emenda un articolo scritto nella prima parte della Costituzione, quella cioè che enumera i principi ispiratori della nostra Carta. Riscrivere quell'articolo e metterlo in votazione costituirebbe un pericolosissimo precedente. Del resto il ministro Sacconi, parlando in televisione di questa questione, ha dichiarato che la riscrittura dell'articolo 41 prelude ad una vera e propria rivoluzione culturale basata su nuovi principi ispiratori. Si aprirebbe dunque la strada ad uno stravolgimento della Costituzione, che non può esser fatta a colpi di emendamenti ma richiederebbe l'eccezionalità d'una nuova Assemblea costituente. Credo che le forze politiche responsabili dovrebbero impedire che un precedente del genere sia una mina sotterranea sotto la nostra democrazia costituzionale.
 

(13 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Don giovanni all'inferno e Benigni in paradiso
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2011, 10:21:41 am
IL COMMENTO

Don giovanni all'inferno e Benigni in paradiso

di EUGENIO SCALFARI

TANTO era stato retorico e melenso il Festival di Sanremo, con le sue canzoni nuove e mediocri e quelle antiche ridotte ad ali di farfalla appiccicate al muro con lo spillo, e tanto si è trasformato in una festa popolare, colorata, irriverente e istruttiva non appena Roberto Benigni è apparso sul palcoscenico dell'Ariston sul cavallo bianco e con in mano la bandiera dai tre colori.

Così, per quaranta minuti, 20 milioni di italiani hanno riso, hanno applaudito, hanno preso a cuore il Risorgimento e una patria creata da una minoranza di giovani coraggiosi che hanno dato la vita per far sorgere una nazione.

Benigni ha toccato tutti i tasti del suo inimitabile repertorio, ha lanciato bonariamente le frecce della sua micidiale comicità ed ha contemporaneamente dispensato preziosi insegnamenti di etica pubblica che forse molti degli ascoltatori avevano dimenticato. Ha dato anche notizie di fatti antichi probabilmente ignoti ai più; la
più commovente è stata quella del ventenne autore del nostro inno nazionale che pochi mesi dopo averlo composto morì nello scontro di Porta San Pancrazio dove caddero insieme a lui i Manara, i Cairoli e i giovani della Legione lombarda guidati da Garibaldi per difendere la Repubblica romana.

"Umberto svegliati, italiani svegliatevi" intercalava Benigni rivolgendosi a Bossi mentre raccontava la morte di Mameli e di tanti altri giovani del Nord. Non so come abbiano reagito e che cosa abbiano sentito dentro di loro i
tanti milioni di telespettatori.
So che io me lo sarei abbracciato quel burattino ridente e sudato che è una grande ed amata persona.

Torniamo alle dolenti note di queste tese giornate. Quello che più di tutto avvilisce non noi che serbiamo nel cuore il sentimento della nazione, ma le istituzioni che dovrebbero rappresentarla, è il comportamento di quei 315 parlamentari, anzi 320 dopo l'ultima transumanza, che votano a comando le proposte più incredibili, più scriteriate e più concettualmente impudiche che mai siano state presentate nelle aule parlamentari.

Hanno affermato come verità rivelata che la vergognosa telefonata di Berlusconi alla Questura di Milano per liberare la "nipote di Mubarak" fu l'atto d'uomo di Stato che voleva e doveva evitare una grande crisi internazionale. Hanno deciso, non avendone alcun potere, quale fosse il giudice competente a giudicare il presidente del Consiglio, interferendo come mai era avvenuto così platealmente con l'ordinamento costituzionale e con l'autonomia della giurisdizione. Sono pronti ad eseguire senza neppure un sussulto di incertezza gli ordini degli avvocati del premier, decisi a far sollevare dal Parlamento il conflitto di attribuzione del processo di Milano, incuranti dell'avvertimento che la Corte costituzionale ha fatto filtrare sulla irricevibilità d'un ricorso del genere poiché non è la Corte che stabilisce la competenza del Tribunale ma la Cassazione.

Quei due avvocati e il ministro della Giustizia che li affianca scopertamente commettendo in questo modo una gravissima irritualità, sono talmente accecati dall'ansia di sottrarre al processo il loro cliente da commettere asinerie professionali che non sfuggirebbero neppure ad un giovane praticante. Ghedini e Longo dovrebbero almeno ripassarsi la procedura penale prima di coinvolgere il loro raccomandato ad errori di tali portata.

Nel frattempo il "calciomercato" prosegue a vele spiegate. Bisognerebbe conservare l'elenco dei "transumanti", quei senatori e deputati che tra il 14 dicembre e il 16 febbraio hanno cambiato gruppo parlamentare due, tre e perfino quattro volte. E bisognerebbe anche prender nota delle motivazioni che di volta in volta hanno - non richiesti - fornito. La più clamorosa è stata quella d'un parlamentare che dopo aver girovagato è approdato al Pdl perché un suo zio era sacerdote salesiano e Berlusconi pare abbia frequentato da ragazzo una scuola di salesiani.

Noi festeggeremo il 17 marzo la seduta solenne che si svolse a Torino a Palazzo Carignano nel 1861, dove il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato unitario e si trasformò nel primo Parlamento italiano. Ne sono accadute tante in questi centocinquanta anni; è accaduto anche che il Parlamento sia stato ridotto ad un "bivacco di manipoli" e poi abolito; ma non era ancora accaduto che si trasformasse in uno spettacolo di guitti, con tutto il rispetto dovuto ai comici di quella fatta. Con l'ultimo oltraggioso sberleffo lanciato dai ministri leghisti Bossi e Calderoli che hanno definito incostituzionale e non hanno votato sul decreto con il quale venerdì scorso il 17 marzo è stato proclamato per quest'anno festa nazionale. Il ministro dell'interno Maroni ha addirittura disertato il voto nella riunione del Consiglio dei ministri. La cosa incredibile non è che Bossi, Calderoli e Maroni la pensino in questo modo, ma che siano ministri della Repubblica ed abbiamo giurato fedeltà alla Costituzione.

* * *

Ma il massimo dello sfregio è quello che si sta preparando dopo che il Consiglio dei ministri ha approvato all'unanimità la relazione di Alfano sulla riforma della giustizia e sulle intercettazioni.

Il premier vuole che i testi di queste leggi prevedano il processo breve che cancelli le sue vertenze con la magistratura, dividano in due il Csm, separino le carriere dei pubblici ministeri da quelle dei giudici, ripristinino l'immunità dei parlamentari, blocchino la pubblicazione delle intercettazioni e ne impediscano il racconto anche quando le carte non siano più secretate.

Pretende infine che il processo del "Rubygate" sia assegnato al Tribunale dei ministri per deliberazione delle Camere e quindi spento con la delibera della Giunta per le autorizzazioni a procedere. Un salvacondotto totale per lui e per la cricca che ha operato all'ombra del suo potere.

Se tutto questo dovesse avvenire la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in un potere assoluto sarebbe compiuta. Le elezioni si trasformerebbero in un plebiscito e il Parlamento in una sede di passiva registrazione dei voleri del Capo.

A meno che....

* * *

A meno che le opposizioni non si uniscano per dar battaglia e probabilmente vincerla. Ma lo faranno?

Non sembra sia questa l'intenzione di Casini. L'ha detto chiaramente con una recentissima dichiarazione in due trasmissioni televisive. Ha detto che è sua intenzione presentarsi da solo alle elezioni (con Fini e Rutelli) rifiutando l'alleanza con l'opposizione di centrosinistra. Nelle elezioni per la Camera - Casini lo ha ammesso - la coalizione Pdl-Lega sarà vittoriosa e incasserà il premio di maggioranza, ma al Senato, secondo il leader dell'Udc - non vincerà. Ci saranno allora due Camere con maggioranze diverse e quindi una situazione ingovernabile senza un compromesso.

Spetterà allora a lui, Casini, proporre una "grande coalizione" che unisca tutte le forze politiche per gestire la crisi, a cominciare dal Pdl e dalla Lega, ma senza Berlusconi premier.

Questo è il progetto, probabilmente supportato anche dal Vaticano. Questa non è una mia supposizione: il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, l'ha pubblicamente sponsorizzato: un partito di ispirazione cattolica dove tutti i cattolici politicamente impegnati possano, se vogliono, confluire e che diventi il perno di un'alleanza moderata e riformista la cui guida possa ripristinare un'etica pubblica accettabile e garantire alla Chiesa il rispetto di quei diritti non negoziabili che alla Chiesa stanno a cuore.

Che dire d'una linea politica e d'un quadro così tratteggiato?

* * *

Noi pensiamo che sia scriteriato. Per varie ragioni. La prima riguarda l'ipotesi d'una sconfitta della coalizione Pdl-Lega al Senato. Possibile ma tutt'altro che certa, specie dopo le vicende non certo corroboranti del partito di Fini e dopo la formazione del partito del Sud di Micciché, una sorta di lista civica d'appoggio a Berlusconi.
La seconda ragione riguarda l'auspicata vittoria al Senato di Udc e Pd, partiti non alleati tra loro e con obiettivi difformi sul seguito da dare a quella eventuale vittoria.

La terza - e a mio giudizio la più importante - dipende dalla mano tesa di Casini ad un Pdl senza Berlusconi premier. Casini crede veramente che un Berlusconi vittorioso alla Camera e alla testa d'un partito di cui è lui a cementare la compattezza, rinuncerebbe alla premiership? E con essa allo scudo che lo difende dalla magistratura?

Che pensa - Casini - che un'alleanza così composta potrebbe smantellare il berlusconismo ripristinando l'etica pubblica, recuperando la legalità repubblicana, inaugurando una politica economica difforme da quella di Tremonti per quanto riguarda la crescita e la distribuzione del reddito?

Infine: Casini ritiene che il Pd si acconcerebbe ad una soluzione di questo genere?

Il Pd, se accettasse un quadro simile a quello sopra tratteggiato e non lo combattesse vigorosamente, cesserebbe di esistere. Può darsi che questa ipotesi rientri nelle intenzioni della Chiesa e dell'Udc, ma non sarebbe certo un bene per il paese. Senza una sinistra riformista e responsabile ma forte ed intransigente sui punti cardinali del suo programma, l'Italia diventerebbe un paese guelfo guidato da forze conservatrici. È comprensibile che Casini e la Chiesa abbiano quest'obiettivo, ma non è certo quello dell'Italia giovane che rappresenta la sola vera riserva del nostro futuro.

Post Scriptum. Giuliano Ferrara, in un articolo pubblicato sul "Foglio" di venerdì, per difendere i comportamenti libertini dell'Amor suo, si è dedicato ad un argomento insolito: l'esaltazione del melodramma italiano in confronto con la musica sinfonica europea. Verdi e Donizetti da un lato, Beethoven, Schubert e Brahms dall'altro. Sono belle anzi magnifiche le sinfonie di quei grandi - scrive Ferrara - ma agli italiani si addice il melodramma e cita in proposito Massimo Mila nonostante il suo antifascismo azionista.

Voi direte: che c'entra tutto questo con la lotta politica della quale Ferrara è uno dei più rumorosi alfieri? Secondo Ferrara c'entra. Per comprendere Berlusconi e amarlo bisogna rivisitare i personaggi del melodramma. Lui è uno di loro nel bene e nel male. "La donna è mobile" con quel che segue. Ma anche il bene, la generosità, la sfida del pericolo, il ballo in maschera che non è necessariamente il bunga bunga.

Capisco che quando si è a corto di argomenti si cerchi un'uscita improvvisa e laterale, ma questa del melodramma mi sembra grottesca. E se poi vuole inoltrarsi sul tema, il direttore del "Foglio" s'imbatterà inevitabilmente nel "Don Giovanni". Non è anche quello un melodramma? La musica è di Mozart ma il libretto dell'italiano Da Ponte. Il protagonista finisce all'inferno. Per me va bene, ma non penso sia una buona soluzione per come auspicherebbe Ferrara.

(20 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Espresso nacque nel 1955. Con le radici in quel "lenzuolo"
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:53:05 pm
Con le radici in quel "lenzuolo"

di Eugenio Scalfari

L'Espresso nacque nel 1955.

L'idea era di combinare nobiltà letteraria e impegno civile con una cronaca sbrigliata, spregiudicata e moderna.

Dopo tanti anni ci crediamo ancora

(25 febbraio 2011)

Scrivere questo "Vetro soffiato" in occasione del nuovo "Espresso" che oggi si presenta ai lettori, mi riporta con la memoria agli inizi di questa storia, al vecchio "Espresso" che allora veniva affettuosamente chiamato "lenzuolo" perché il suo formato era quello dei giornali quotidiani, ancora più grande di quelli di adesso. I lettori di oggi mi permetteranno di ricordarlo: quel lenzuolo andò in edicola dall'ottobre del 1955 alla primavera del '74. Presumibilmente gliene avranno parlato i loro padri e i loro nonni.

Tutto cominciò a Roma, in via Po, tre stanze e un bagno in subaffitto in un appartamento al primo piano. Direttore Arrigo Benedetti che era stato fondatore e direttore dell'"Europeo" del quale "L'Espresso" lenzuolo riprese il formato. Io ero il direttore amministrativo e scrivevo di economia. Il capo redattore Antonio Gambino. Gli altri erano Carlo Gregoretti, Enrico Rossetti, Franco Lefevre, Sergio Saviane, Mario Agatoni, Fabrizio Dentice. Un unico inviato ma di grande qualità: Manlio Cancogni. Pochi mesi dopo arrivarono Camilla Cederna, Gianni Corbi, Livio Zanetti, Nello Ajello.

La ricchezza, vorrei dire la cifra di nobiltà del giornale era costituita dalla parte culturale affidata a firme di primissima scelta: la critica letteraria a Geno Pampaloni e a Paolo Milano, il teatro a Sandro De Feo, il cinema ad Alberto Moravia, la musica a Massimo Mila, le arti a Ragghianti e a Venturi, l'architettura a Bruno Zevi. Era il meglio della cultura italiana.

L'idea di Benedetti era di abbinare questa cifra di qualità e di nobiltà letteraria all'impegno civile e a una cronaca sbrigliata, spregiudicata e moderna. E a un apparato fotografico che fece scuola per la sua audacia rappresentativa. Erano gli anni della "dolce vita", ricordate? E del "miracolo italiano". La cifra la davano Federico Fellini con il suo cinema e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia, con la sua lira che incuteva rispetto a tutta Europa.

Quanto all'impegno civile e politico, va detto che "L'Espresso" nacque, nell'idea di Benedetti e nella mia, come costola del "Mondo" di Mario Pannunzio. Il "Mondo" era più una rivista politica e culturale che un settimanale di informazione. Vendeva 15 mila copie, si rivolgeva a un élite di liberali di sinistra. "L'Espresso" ai suoi inizi ne vedeva 60 mila e l'arco dell'impegno politico oltre ai radicali si estendeva anche ai socialisti. I punti di riferimento erano infatti Ugo La Malfa e Pietro Nenni. Di lì partimmo. E attraverso tante lotte politiche, economiche e soprattutto culturali siamo arrivati a "Repubblica", ai giornali locali, alle radio, ai siti-web e all'"Espresso" di oggi.

Personalmente sono abbastanza contento e spero, cari lettori, lo siate anche voi.

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La terribile stagione dei grandi rischi
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2011, 05:10:39 pm

L'ANALISI

La terribile stagione dei grandi rischi

di EUGENIO SCALFARI

Il gigantesco cataclisma giapponese ci ricorda che siamo entrati da oltre vent'anni nell'epoca dei Grandi Rischi. Di ogni genere: climatici e geologici innanzitutto, l'epoca dello scioglimento dei ghiacciai, delle grandiose eruzioni vulcaniche, dei terremoti di altissima magnitudine e dei maremoti, delle onde anomale, degli "tsunami". Lo scontro tra le piattaforme continentali e le rovine che ne derivano, le vittime, centinaia di migliaia di senzatetto. Sembra che le forze profonde della terra si siano tutte insieme risvegliate e stiano mandando all'aria equilibri raggiunti da secoli e da millenni mettendo in pericolo la sopravvivenza di molte specie vegetali e animali. Sembra che gli dèi si siano ritirati al di là delle atmosfere che circondano il pianeta, in lontane galassie oltre lo spazio e oltre il tempo.

La nostra specie soffre di solitudine in un mondo sempre più affollato. Non è un paradosso: più il mondo delle nostre città è affollato e più siamo e ci sentiamo soli, anonimi, impauriti, litigiosi. Senza speranze nel futuro, senza memoria del passato, schiacciati su un presente sempre più precario.

Quest'epoca che vede oscillare tutte le realtà ha messo anche in moto energie positive: un'inventiva ed una creatività eccezionali, un accrescimento di ricchezza che non ha eguali, un desiderio di libertà e di diritti che la tutelino. La rivoluzione africana emersa d'improvviso due mesi fa ha coinvolto un territorio che va dalla sponda atlantica fino all'oceano
Indiano. Gli autori sono giovani, uomini e donne. Vogliono pane e libertà ma non sono plebi ignoranti, i loro punti di raccolta e di comunicazione sono i siti "web", gli strumenti di lotta sono le tecnologie più moderne e più diffuse.

L'ondata sollevata da queste energie positive la chiamiamo "tsunami" perché la sua forza sociale e politica ha un'intensità analoga al fenomeno geologico che sconvolge gli oceani. Pane e libertà è un'onda che travolge tirannie corrotte, tradizioni mummificate, reclama eguaglianza insieme alla libertà, esonda verso i territori di antica ricchezza.

La globalizzazione e la tecnologia hanno inserito nel sociale la legge fisica dei vasi comunicanti. L'immigrazione dalle terre povere alle terre ricche è lo "tsunami" sociale. Pensare di bloccarlo è pura illusione; bisogna governarlo commisurandolo al possibile, diluendolo nel tempo ma intanto preparandosi all'inevitabile. Nelle terre dei cataclismi ci si attrezza (o si dovrebbe) a costruire case ferrovie grattacieli antisismici; nel sociale ci si attrezza (o si dovrebbe) coltivando la politica dell'accoglienza, una diversa divisione del lavoro, una diversa concezione della cittadinanza. Chi crede che erigendo dighe di cartone cementate dall'intransigenza possa arginare quella marea, la renderà invece ancor più distruttiva.

Grandi rischi geologici e sociali ma anche economici. Sarà un caso ma induce a riflettere: una delle più grandi crisi che ha sconvolto l'economia mondiale partendo dai mutui immobiliari americani e propagandosi con incredibile velocità su tutto il pianeta, coincide con i grandi terremoti, con la crisi climatica, con le rivoluzioni africane. Gli effetti di queste ultime hanno scatenato il prezzo del petrolio, così come il sisma giapponese sta mettendo a rischio le centrali nucleari di quel paese nonostante la modernità tecnologica che avrebbe dovuto proteggerle da ogni incidente.

Le Borse di tutto il mondo sono in sofferenza ancora maggiore dopo questi eventi. Ecco perché occorre esser consapevoli, occorre predisporsi, bisogna selezionare gli obiettivi e la scala delle priorità. Una nuova scala di priorità, in mancanza della quale non saremo gli attori ma gli agiti di quest'epoca mobilissima, le vittime inermi e passive di eventi che ci sovrastano.

* * *

Per restare nel tema dei Grandi Rischi, sia pure a dimensione domestica, non si può non segnalare la riforma costituzionale della giustizia, approvata dall'ultimo Consiglio dei ministri e di imminente presentazione al Parlamento. Grande Rischio e spiegherò perché.

La riforma non riguarda i processi del presidente del Consiglio. Quindi possiamo discuterne "come se Berlusconi non esistesse".
Non per questo i rischi sono minori, poiché la riforma non si limita a modificare l'ordinamento giudiziario ma stravolge l'ordinamento costituzionale.

I cardini della legge Alfano sono i seguenti:

 -  L'articolo 104 della Costituzione, nella versione attuale, stabilisce che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". La legge di riforma abolisce questa disposizione con la conseguenza che i poteri costituzionali vengono ridotti dai tre attuali a due soltanto, il legislativo e l'esecutivo.

 -  L'articolo 104 bis contenuto nella legge di riforma divide in due il Consiglio superiore della magistratura, uno per i magistrati giudicanti, l'altro per i pubblici ministeri. I membri "togati" dei due Csm, attualmente pari a due terzi dei componenti, sono ridotti alla metà e i membri eletti dal Parlamento costituiscono l'altra metà. I togati sono sorteggiati e non più eletti. (Mi domando perché non siano sorteggiati anche i membri parlamentari. Se si vuole assicurare parità occorrerebbe applicare lo stesso metodo del sondaggio anche agli eletti dal Parlamento).

 -  Il Presidente della Repubblica resta alla guida di entrambi i Csm; i vicepresidenti sono eletti tra i membri di provenienza parlamentare. La conseguenza è che i membri laici dei due Csm sono la metà più uno. (Mi domando perché questi due collegi continuino a chiamarsi Consiglio superiore della magistratura, visto che in entrambi i magistrati saranno in minoranza).

 -  L'articolo 105 bis istituisce una Corte di disciplina togliendo questa mansione all'attuale Csm. Questa Corte è anch'essa composta per metà dai togati e per metà dagli eletti dal Parlamento. Il vicepresidente della Corte è eletto tra i membri del Parlamento. Quindi anche nella Corte di disciplina la maggioranza è fatta di parlamentari. I membri parlamentari d'altra parte sono eletti dal Parlamento a maggioranza semplice, quindi non c'è tra loro nessun rappresentante dell'opposizione.

 -  Articolo 109: "Il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 111: "Le sentenze di proscioglimento in primo grado sono appellabili soltanto nei casi previsti dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 112: "L'ufficio del Pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge (ordinaria)".

 -  Articolo 113 bis: "I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti al pari degli altri dipendenti dello Stato".

Questa legge di riforma costituzionale che affida a successive leggi ordinarie punti importantissimi che cambiano alla radice l'ordinamento giudiziario evadono in questo modo alla procedura prevista per le modifiche costituzionali. Si tratta di una furbizia che rimette alla maggioranza semplice questioni che dovrebbero essere viceversa affidate anch'esse alle maggioranze qualificate e al referendum confermativo. Ma qui non si tratta soltanto dell'ordinamento giudiziario. Le modifiche riguardano l'assetto intero della nostra Costituzione, i principi che la ispirano configurati nella prima parte della Carta, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'equilibrio tra poteri indipendenti e lo Stato di diritto.

Viene abolito uno dei poteri fondamentali, viene cancellata la dipendenza della polizia giudiziaria dalla magistratura, viene abolita l'obbligatorietà dell'azione penale, presupposto fondamentale dell'indipendenza della magistratura. Vengono infine aboliti i poteri di autogoverno del Csm, trasformato in un organo la cui maggioranza è determinata dalla maggioranza parlamentare. Il tutto in presenza di una legge elettorale in base alla quale la maggioranza relativa emersa dalle elezioni ottiene il 55 per cento dei seggi.

Il complesso di queste norme trasforma la democrazia parlamentare in una democrazia (si fa per dire) dominata dal potere esecutivo, cioè nella dittatura della maggioranza. Alexis de Tocqueville così spesso citato da Berlusconi afferma che la dittatura della maggioranza è quanto di peggio possa accadere in un paese democratico.

Non esistono dunque le basi per discutere anche perché il Pdl e la Lega hanno già preannunciato che ascolteranno le opposizioni ma non accetteranno che i cardini di questa riforma siano modificati.

Non resta che votare contro e andare al referendum. Si vedrà allora se le opposizioni saranno unite o separate. Prima sarà, meglio sarà. Dico anch'io: se non ora, quando?

Post scriptum. Grandi Rischi era anche il titolo della trasmissione Annozero condotta giovedì scorso da Michele Santoro. L'ospite d'onore era il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti; gli interlocutori Fausto Bertinotti, Ferruccio De Bortoli ed io.

Il dibattito ha avuto il pregio di svolgersi senza le urla rissose che troppo spesso trasformano gli appuntamenti televisivi in arene di scomposte corride. Gli interlocutori hanno potuto argomentare le proprie posizioni e il confronto è avvenuto civilmente, non senza qualche asprezza che è servita a sottolineare le diversità dei pensieri, delle diagnosi e delle terapie proposte.

La posizione del ministro  -  come da tempo sappiamo  -  è allineata con l'obiettivo delle istituzioni europee che raccomandano ed anzi impongono rigore nei bilanci, diminuzione del deficit e riduzione del debito pubblico. Quelle stesse istituzioni però raccomandano anche di abbinare il rigore con la crescita, ma da questo orecchio il nostro ministro dell'Economia è piuttosto sordo.
Si limita a proporre riforme senza spese.

Gli interlocutori hanno constatato che, nonostante il gran parlare che se ne fa, l'economia italiana continua a registrare da molti anni un encefalogramma piatto per quanto riguarda la crescita economica. Per di più siamo da poco entrati in una fase di accentuata inflazione-recessione: l'inflazione è ridiventata un pericolo attuale e rappresenta una vera e propria imposta regressiva che colpisce i redditi fissi e i ceti più deboli poiché erode il potere d'acquisto dei consumatori e scoraggia gli investimenti.

Per scongiurare l'inflazione la Banca centrale europea ha preannunciato per il prossimo aprile un aumento del tasso d'interesse che avrà ripercussioni sui tassi di tutto il sistema bancario europeo. Avremo dunque una nefasta combinazione tra inflazione e recessione, quanto di peggio possa accadere in un sistema economico già gravemente debilitato.

Personalmente credo che per abbinare il rigore con la crescita non vi sia altro modo che procurarsi nuove risorse chiamando a contribuire le fasce più opulente dei contribuenti e tassando le rendite finanziarie. Se ne ricaverebbero risorse sufficienti a rilanciare sia i consumi sia gli investimenti. Nel corso del dibattito Tremonti non ha avuto il tempo (o la voglia?) di rispondere a questa proposta. Sarei lieto che lo facesse.

(13 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un Paese in cerca dell'età adulta
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2011, 05:08:12 pm
ITALIA 150

Un Paese  in cerca dell'età adulta

di EUGENIO SCALFARI

Anzitutto i personaggi e gli obiettivi che si proponevano. Mettendo in chiaro questi due elementi sapremo che cosa è stato il Risorgimento, se sia un fenomeno storico da tempo concluso e archiviato oppure ancora vitale per i sentimenti che lo suscitarono e che sono tuttora operanti.

Il grosso della popolazione che abitava l'Italia di allora era composto da contadini. Dovunque, dalle Alpi alla grande pianura dove scorrono il Po e i suoi affluenti, alla dorsuta catena degli Appennini fino al tacco delle Puglie e alla punta delle Calabrie, alle isole di Sicilia e Sardegna.

Parlavano i loro dialetti, lingue incomprensibili al di fuori del loro circondario. "Una d'arme, di lingua, di altare" scrisse Manzoni, ma non era vero né per le armi (salvo il coltello) né per la lingua. Per l'altare sì, era vero, ma ogni paese aveva i suoi santi, le sue liturgie, le sue superstizioni, i suoi dei locali, invidiosi degli altri.
I contadini erano a loro modo un popolo per il fatto stesso di lavorare la terra con la pala, la zappa e il chiodo dell'aratro, ma questo era il solo elemento comune.

L'Italia era per loro parola sconosciuta.

Nelle città era diverso. C'erano tradizioni civili e c'era una storia comune; mille comuni, mille storie. C'erano commerci, contatti con altri paesi e c'era, al di là del dialetto, una seconda lingua, una lingua "franca", quella di Dante, dei poeti, degli scrittori, dei maestri di scuola, dei giornali. C'era insomma una pubblica opinione.
Il ceto superiore
era fatto di nobili famiglie e poi d'una cattolicità colta, una professionalità di medici, avvocati, ingegneri, magistrati, commercianti, imprenditori. Alla base della piramide sociale gli artigiani e i bottegai.
Il popolo era questo e conosceva il senso della parola Italia. Una parte numerosa voleva che a quella parola corrispondesse una realtà, un'altra parte l'avversava.

Sembra che molti garibaldini dei Mille che sbarcarono a Calatafimi avessero le mani callose. Erano artigiani, operai, che forgiavano il ferro, tessevano la lana e la seta, fabbricavano scarpe, mattoni, armi da guerra. E poi c'erano gli studenti e i loro maestri.

Questo popolo voleva anzitutto un'Italia indipendente dagli austriaci e voleva che le monarchie fossero costituzionali.

Molti volevano anche l'unità e alcuni la volevano repubblicana. C'erano anche molte donne nel movimento italiano e non soltanto le madri e le spose.

Dunque fu un fatto di popolo, ma quel popolo era una esigua minoranza rispetto ad una massa estranea e assente che viveva a livello della sopravvivenza e non ad altro pensava fuorché di sopravvivere.

                                                           * * *

In ogni città c'erano persone che pensavano, agivano, diffondevano informazioni e idee. Alcuni nomi avevano raggiunto notorietà nazionale.

Se vogliamo concentrare l'attenzione sulle persone di riferimento decisive, i nomi stanno sulle dita delle due mani: Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Settembrini, Manin, Minghetti, Giusti. Cavour fu il protagonista politico e diplomatico, Gioberti un ideologo cattolico di notevole spessore, Giuseppe Verdi una bandiera.

Questi uomini erano molto diversi tra loro salvo due che misero il loro talento al servizio della causa italiana senza pregiudizi o litigiose appartenenze. Verdi, il cui nome e la cui musica divennero gli elementi unificanti dell'intero movimento; il linguaggio di quella musica unì repubblicani, monarchici e federalisti, cattolici e liberali. Garibaldi, la cui spada, la camicia rossa, il "poncho", il cavallo, l'audacia, l'entusiasmo, dettero un volto al sogno italiano.

Cavour ebbe il talento e l'ardore politico di saper utilizzare tutti e al momento opportuno. Utilizzò anzitutto il suo re accompagnandone e spingendone le decisioni, utilizzò Garibaldi, utilizzò Napoleone III, utilizzò la guerra di Crimea e tentò perfino di utilizzare Mazzini, ma non ci riuscì e fece dell'uomo che per primo aveva risvegliato la coscienza del popolo un nemico da perseguitare.

                                                            * * *

È ancora vitale il Risorgimento?

Se non ci fosse stato, se l'Unità non fosse stata realizzata saremmo ancora un'espressione geografica.
D'Azeglio disse che dopo aver fatto l'Italia bisognava fare gli italiani. Ci siamo riusciti?
Gli italiani, come tutti i popoli, hanno vizi e virtù che derivano dalla loro storia. Una grande storia artistica, tra le più grandi del mondo. Ed anche una grande storia politica dalle Repubbliche marinare e dai Comuni alle grandi Signorie. Ma non la storia d'una nazione.

La nazione è nata quando è nato lo Stato, appena 150 anni fa, con un ritardo di almeno due secoli rispetto alla Francia, alla Spagna, all'Inghilterra, all'Austria, alla Polonia, all'Ungheria, alla Svezia, all'Olanda.

Per certi versi siamo ancora all'infanzia, per altri versi siamo già decrepiti e questo significa che non siamo mai stati maturi. Siamo civilmente immaturi, anarcoidi, politicamente cinici, generosi, laboriosi, bugiardi, malleabili, intransigenti. Anime belle e anime morte. Siamo tutti così, chi più chi meno. Adesso è arrivata l'ora di maturare. La scommessa è questa. La memoria del Risorgimento ci può aiutare ma tutto dipende da noi, qui e ora.   

(17 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/03/17/news


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Rombano i motori dell'armata dell'Occidente
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2011, 10:03:04 pm
IL COMMENTO

Rombano i motori dell'armata dell'Occidente

di EUGENIO SCALFARI


A PARIGI il vertice internazionale dei Paesi interventisti ha deciso l'attacco militare immediato avvertendo Gheddafi che lo stop ai raid è subordinato alla sua resa. Gli aerei delle potenze che agiscono sulla base della risoluzione dell'Onu sono arrivati nelle basi italiane. L'operazione militare è cominciata, ma il dibattito politico in Europa è apertissimo.

Aiutare gli insorti, impedire che le milizie del raìs libico occupino Bengasi e Tobruk, soccorrere i profughi e arginare l'ondata dei migranti, sono obiettivi condivisi da tutti. Resta invece una differenza di opinioni molto profonda sui limiti tattici dell'intervento e sulla strategia politica nei confronti di Gheddafi. Bisogna impacchettarlo consegnandolo alla Corte di giustizia internazionale e processarlo per i crimini commessi contro il suo popolo? Oppure munirlo d'un salvacondotto ed esiliarlo? Oppure ancora lasciargli una parvenza di potere in una sorta di libertà vigilata disarmata e commissariata? Infine: bisogna mantenere l'unità della Libia o prendere atto che quell'unità è un'invenzione perché Tripolitania e Cirenaica sono realtà diverse dal punto di vista storico, tribale, religioso e la loro fittizia unità è stata imposta dal colonialismo italiano prima e dalla dittatura di Gheddafi poi?

Questo dibattito divide trasversalmente l'opinione pubblica europea ed anche i governi dell'Unione. Soprattutto divide Parigi da Berlino, Sarkozy da Angela Merkel. Bombardare o negoziare, questo è il tema. In Italia
divide anche la destra; Berlusconi, dopo il lungo fidanzamento con il raìs libico, è entrato a far parte degli interventisti; Bossi si è allineato con la Merkel. Ma la divisione attraversa anche l'opinione pubblica al di là degli schieramenti politici.

Un fenomeno analogo si verificò trent'anni fa, quando l'Urss cominciò a dare palesi segnali di implosione. Regnava al Cremlino Breznev ma crescevano le tensioni all'interno del partito e del regime tra chi voleva perpetuare all'infinito la dittatura post-staliniana e chi voleva invece aprire la strada ad un "comunismo dal volto umano". L'opinione pubblica e le cancellerie occidentali si divisero tra i favorevoli all'innovazione e chi vedeva in Breznev una garanzia di stabilità europea e mondiale. Si sa come finì: Breznev, stroncato dalla malattia, aprì la strada ad Andropov, seguito da Cernenko, poi venne Gorbaciov, la "perestrojka", Eltsin e infine Putin.

Storie molto diverse e non paragonabili con quella libica ma è interessante ricordare come reagì allora l'Occidente e come reagisce oggi sul caso Gheddafi. Le analogie sono forti. Alla base, come sempre avviene in politica, ci sono i diversi interessi che ispirano l'azione dei governi e orientano la pubblica opinione.

* * *

Poche settimane fa, dopo la caduta di Mubarak, del dittatore tunisino Ali e delle insorgenze nello Yemen e negli Emirati, anche i giovani di Tripoli e soprattutto di Bengasi si ribellarono mettendo a mal partito la dittatura di Gheddafi che durava da oltre quarant'anni. L'Occidente non ebbe esitazioni: il caso libico appariva come un altro tassello della rivoluzione nord-africana; al Qaeda era scavalcata da un movimento che vedeva insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: "pane e libertà", al tempo stesso sociale e ideale. Sembrò e in gran parte rimane una svolta storica, un'innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà. Questa fu la prima e unanime reazione dell'opinione pubblica ed anche delle cancellerie occidentali ma si pose subito il problema della gestione politica della fase successiva all'abbattimento delle dittature.

In Egitto l'esercito è sempre stato il perno dello Stato e non poteva che esser l'esercito a gestire la transizione. La storia della Turchia ne forniva l'esempio. In Tunisia mancava la "risorsa" dell'esercito e infatti la transizione si presenta ancora fragile e agitata. La Libia è un caso a sé, assai diverso dagli altri.

Il paese è geograficamente immenso, demograficamente assai poco popolato, non arriva a cinque milioni di abitanti. Ricco di petrolio solo parzialmente sfruttato. Da quasi mezzo secolo guidato da Gheddafi con mano di ferro, accortamente populista, spregiudicato, corrotto, avventuroso oltre ogni limite. L'esercito non è che una milizia ben pagata e ammaestrata, con reparti speciali mercenari, una sorta di "legione straniera" assai contundente e feroce. Convincerli alla resa è molto difficile. Alle brutte i mercenari si squaglieranno, la milizia tribale si difenderà fino alla fine. Dopo l'inizio dell'operazione militare resta dunque la domanda: bombardare fino a che punto? Negoziare fino a che punto?

* * *

Si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme. Più in là non si può andare. Quanto alla negoziazione si può forse rilasciare un salvacondotto al raìs e ai suoi familiari. Se non ci sta, bisogna abbatterlo, ogni altra soluzione è impensabile, sarebbe fonte di trappole continue e di incontrollabili avventure.

A questa strategia vengono opposte due obiezioni. La prima sostiene che il mandato dell'Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l'altro non ha invaso nessun altro paese. Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l'ingiunzione internazionale ma l'armata di Bush in nome dell'Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò.

L'Onu di tanto in tanto assume le sembianze di uno Stato mondiale di fronte al quale le sovranità nazionali debbono cedere il passo. È avvenuto di rado ma alcune volte le sue risoluzioni hanno avuto questa valenza. In quante occasioni avremmo voluto l'esistenza di uno Stato mondiale nell'era della globalizzazione?
La seconda obiezione è: che cosa avverrà dopo? Una Libia senza un capo, senza una classe dirigente, sarà ancora governabile? Si dividerà in due, in tre, in cinque pezzi? Diventerà preda dei signori della guerra? E il suo petrolio? Le sue città? Le sue aziende? Gli investimenti esteri?

I pessimisti temono che la Libia senza Gheddafi sarà un'altra Somalia, nido di briganti e di pirati. È un destino che le ex colonie italiane facciano tutte questa fine?

* * *

Questa obiezione è più pertinente della prima. Non considera però che anche in Tripolitania e in Cirenaica esiste un ceto evoluto, esiste una rete di aziende produttive, un artigianato folto, una gioventù che aspira a cimentarsi con l'amministrazione e con la politica e una religione che fa da cemento sociale.

Bisogna accompagnare questa fase di rinnovamento, aiutarli a costruire uno Stato, un'amministrazione, una rete di commerci e di produzione. La Turchia può aiutare, l'Egitto può aiutare. L'Europa deve aiutare e l'Italia che ha responsabilità notevoli a causa di un antico e di un recentissimo passato con parecchi peccati da scontare.

Romano Prodi in una recente intervista ha tracciato una lucida visione del "che fare" nell'Africa mediterranea e in Libia in particolare. Parlava con la duplice esperienza di ex presidente del Consiglio e di ex presidente dell'Unione europea. Proponeva tra le altre cose trattati di associazione dei Paesi africani mediterranei all'Unione europea. Non ingresso nell'Unione per il quale non esistono le condizioni, ma associazione, amicizia istituzionalizzata a vari livelli secondo le condizioni politiche, sociali ed economiche di quei Paesi.

Queste proposte andrebbero riprese e messe con i piedi per terra. Il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico. In tutte le sue sponde è un mare europeo e ancora di più lo è oggi con l'immigrazione che in questo Ventunesimo secolo cambierà la fisionomia etnica del continente. Flussi di persone e di famiglie, flussi di capitale e di investimenti, flussi culturali e religiosi, conquista di diritti, osservanza di doveri poiché ogni dovere suscita un diritto e ogni diritto comporta un dovere.

L'Italia ha una missione da adempiere e una grande occasione da cogliere. Noi ci auguriamo che ne sia all'altezza. Le esortazioni di Giorgio Napolitano ci siano, anche in questo, di insegnamento e di stimolo.

In questi mesi la figura del nostro Presidente ha acquistato uno spessore etico e politico che ne fa il punto di riferimento di tutto il Paese. Questa unanimità non è posticcia né retorica, esprime un sentimento e un bisogno. Ci rafforza come nazione. Rafforza i nostri legami europei. Suscita all'estero rispetto e ascolto. Non eravamo più abituati a questa considerazione, avevamo scambiato (alcuni avevano scambiato) la politica delle pacche sulle spalle per considerazione internazionale. Ora non è più così. Abbiamo una guida ed una rappresentanza migliore. Possiamo di nuovo considerare la nostra presenza mediterranea come un punto di forza non solo per noi e per i nostri legittimi interessi nazionali, ma per l'Europa e per l'Occidente.
 

(20 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma che destra abbiamo in Italia?
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:14:28 pm
Ma che destra abbiamo in Italia?

di Eugenio Scalfari

La Russa, che celebra a teatro il neofascismo.

Gianfranco Fini, che nessuno capisce dove voglia andare però ci va.

Sallusti e Bocchino, che si insultano per dieci minuti in tivù. Che strani "conservatori" abbiamo in questo Paese

(11 marzo 2011)

Il mondo politico italiano è pieno di tipi strani. Dico strani nel senso che tanti e così fuori dalle regole più elementari dell'etica pubblica non se ne trovano nelle democrazie dell'Occidente e dell'Europa in particolare.

Ce ne sono in tutti gli schieramenti. Vi ricordate Pecoraro Scanio? Vi ricordate Diliberto? E Mastella?
Ma tanti come ce ne sono a destra non se ne trovano in nessun'altra parte d'Italia e del mondo. Un primato di cui si farebbe volentieri a meno ma che c'è e rappresenta purtroppo uno dei "fondamentali" della nostra vita pubblica.

Tra le figure strane (Silvio Berlusconi a parte, poiché è il leader indiscusso di quel lungo corteo) primeggiano da qualche tempo il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, il presidente della Camera, Gianfranco Fini e il vicepresidente del partito Futuro e Libertà Italo Bocchino.

Faceva effetto domenica scorsa assistere alle "performances" di questi tre "eminenti" delle destre (le declino al plurale per le loro diversità accomunate però dalla stranezza) rispettivamente al cinema Adriano di Roma, al teatrino San Babila di Milano e - per quanto riguarda Bocchino - la trasmissione di Telese su La 7.

La Russa celebrava Giorgio Almirante, antico dirigente del partito fascista di Salò, poi fondatore del Msi e patrono del neofascismo del dopoguerra. Erano pochi i celebratori perché il teatrino non ospita più di cento persone. Sul palco, oltre a La Russa, c'era soltanto Donna Assunta, la vedova storica del patrono, che dopo aver coccolato per vent'anni il successore del consorte, adesso ha seguito le evoluzioni della Santanchè e sta nel novero dei berlusconiani di ferro.

Faceva effetto vedere quei "populisti della libertà" con l'icona di Almirante in mano perché, almeno in teoria, ci dovrebbe essere un'assoluta contraddizione tra Almirante e il Msi da un lato e Berlusconi e il Pdl dall'altro. In realtà - se ci pensate bene - la contraddizione non c'è e la celebrazione di San Babila ha avuto se non altro l'effetto di farcelo capire.

Intanto all'Adriano il leader di Futuro e Libertà si dava da fare spiegando che le due debolezze e le due anomalie italiane sono Berlusconi da un lato e la sinistra dall'altro, due formazioni conservatrici e stantie a fronte delle quali si erge il progetto della destra finiana, democratica, liberale, portatrice di valori nuovi e di nuovi programmi. Quali non l'ha detto ma ha detto: "Sarà una traversata del deserto e la faremo da soli". I sondaggi attuali gli assegnano un 3,5 per cento di consensi. Per traversare il deserto va benissimo perché in molti non ci si va, ma per trasformare il Paese è un po' poco. Qualche incontro lungo la strada lo dovranno pur fare, ma non diranno con chi nemmeno sotto tortura.

La sera di quella benedetta o maledetta domenica Bocchino si è scontrato con il direttore del "Giornale", Alessandro Sallusti nella trasmissione di Telese. I due hanno passato non meno di dieci minuti, cioè un'eternità televisiva, urlando insieme in contrappunto. Urlando. Insieme. Bocchino urlava: "Devi dirmi quanto ti paga di stipendio Berlusconi per scrivere quello che scrivi". Sallusti urlava: "Devi dire quanto guadagni come parlamentare mantenuto con i soldi degli italiani".

Dieci minuti così, senza che il conduttore della trasmissione mettesse fine a quel miserando spettacolo. Osservo di passaggio che, secondo la tesi di Sallusti, i parlamentari sono tutti parassiti e mantenuti il che è un po' forte per chi dirige il giornale del presidente del Consiglio il quale - in quanto deputato - sarebbe anche lui un parassita e mantenuto. Forse in questo Sallusti dice cosa vera.

Telese guardava ogni tanto l'orologio e sbuffava senza intervenire. Passati dieci minuti ha interrotto l'alterco con la pubblicità. A quel punto ho cambiato canale.


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da - espresso.repubblica.it/dettaglio


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gran confusione nei cieli d'Europa
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2011, 10:50:23 am
L'EDITORIALE

Gran confusione nei cieli d'Europa

di EUGENIO SCALFARI


GIORNALI di tutto il mondo, i nostri compresi, scrivono da giorni che c'è grande confusione. Lo dicono anche i governi, gli stati maggiori delle varie forze armate, i politici e le persone interrogate per strada.

C'è grande confusione sulla guerra di Libia, sulle sollevazioni africane e mediorientali (alle quali proprio in queste ore si sono aggiunte la Siria e la Giordania), sull'uso del nucleare, sui debiti sovrani, sugli schieramenti internazionali, sui flussi migratori. I grandi paesi emergenti, Cina India Brasile Russia Sudafrica, cominciano ad elaborare una posizione politica comune che sia alternativa a quella dell'occidente, cioè del Nord- America. L'Europa, come sempre, è divisa in due, forse in tre se non addirittura in quattro pezzi. Divisa su tutto: sul caso Gheddafi, sull'immigrazione, sull'energia atomica, sull'economia.

Ma c'è grande confusione anche sui concetti che sembravano chiari, sul significato di parole che sembravano univoche, su valori che sembravano condivisi: il fondamento della morale, il pacifismo, la democrazia, la dignità della donna. Perfino la libertà. Perfino l'eguaglianza. Perfino i diritti e i doveri.

Si direbbe che, quasi d'improvviso, il gomitolo della storia non riesca più a svolgersi, i fili si sono imbrogliati inestricabilmente, i nodi sono arrivati al pettine tutti insieme, la cruna dell'ago è ostruita. Babele trionfa e trionfano la ferocia l'astuzia la Suburra.

Bisogna dunque cercare il capo del filo e svolgerlo per poter capire qualche cosa.

E il capo del filo, sul terreno concreto, oggi sta in Europa perché è proprio qui in Europa che il groviglio è diventato più inestricabile e la confusione ha raggiunto il massimo.

                                                                  ***

La risoluzione dell'Onu ha stabilito che la popolazione civile della Libia sia protetta dalla Comunità internazionale contro le operazioni poliziesche e militari di Gheddafi. Protetta con tutti i mezzi disponibili ed efficaci per fermare Gheddafi, con l'esclusione di sbarcare truppe a terra. La "no fly zone" è uno degli strumenti, ma non il solo, anche perché porta con sé logicamente la distruzione degli impianti gheddafiani a terra e in volo: aeroporti, flotta aerea, installazioni radar, batterie contraeree. Ma poiché l'obiettivo è quello di tutelare la popolazione civile bisogna anche distruggere il sistema dei trasporti militari, le armi pesanti di cannoneggiamento, i mezzi blindati. Insomma bisogna disarmare Gheddafi. Infine, sempre ottemperando alla risoluzione dell'Onu fatta propria dall'Unione europea, bisogna applicare sanzioni economiche e impedire che il raìs riceva rifornimenti di armi.

In teoria tutti si sono dichiarati d'accordo con questi obiettivi salvo alcuni membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu (Russia, Cina, India, Brasile, Germania) che però, astenendosi, hanno consentito che l'operazione "protettiva" partisse.

Tralasciamo la bega tra Italia e Francia sul comando dell'operazione: ormai è stato deciso che il comando sarà affidato alla Nato.
Ma questo non cambia granché, salvo forse un rallentamento burocratico-operativo sul terreno.

Resta il problema di fondo: che farà Gheddafi?

Se la risoluzione dell'Onu sarà interpretata in modo limitato, Gheddafi resterà al potere a Tripoli e aspetterà che la presenza degli stranieri nei cieli libici e nel mare cessi. La "no fly zone" non potrà durare in eterno, prima o poi la coalizione dei "protettori" si scioglierà, il dispositivo militare sarà smantellato e tutti se ne torneranno a casa. Tutti salvo ovviamente Gheddafi e il suo esercito mercenario. I rifornimenti di armi riprenderanno e in Libia tutto ricomincerà da capo salvo l'alleanza dei "protettori" che una volta sciolta non si riformerà più.

Prima che ciò avvenga bisogna dunque avviare un negoziato.

                                                                      ***

Questa sequenza l'hanno capita tutti, più o meno tardivamente. L'hanno capita gli americani, l'Onu, la Nato, i francesi, gli italiani, la Turchia, la Lega araba, la Lega africana. Tra il capire e il fare c'è però di mezzo... Gheddafi. Non se ne andrà in esilio se non sarà con le spalle al muro. Farà ogni sorta di promesse, giurerà di "fare il buono", accetterà di emanare una Costituzione democratica e libere elezioni, lo giurerà sulla testa dei figli e dei nipoti. Tutto, pur di restare al comando. L'esilio no, non lo accetterà se non sarà ridotto all'impotenza.

Nel suo caso l'impotenza significa: senza più esercito, senza più mercenari, senza più consenso, senza più macchina di propaganda, senza più ricchezze se non quanto necessario al suo (lauto) sostentamento. Di fatto prigioniero nel suo bunker e con la denuncia alla Corte dell'Aia per crimini contro l'umanità pendente sul suo capo come avvenne per Milosevic.

Solo se ridotto in queste condizioni accetterà l'esilio come salvavita. Perciò se la risoluzione dell'Onu di protezione della popolazione civile libica deve essere rispettata il solo modo praticabile è quello di ridurre Gheddafi in quella condizione. Altrimenti diciamo che è stato tutto un macabro e dispendiosissimo scherzo.

È pienamente comprensibile che i Paesi definiti dalla sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) puntino a questo risultato: l'umiliazione degli Usa, dell'Europa, di quello che un tempo si definiva Occidente. Ma che sia questo anche l'obiettivo della Germania è incomprensibile a meno che, per la Germania, l'umiliazione della Unione europea sia un punto di passaggio per instaurare l'egemonia tedesca sull'Europa. Egemonia non soltanto economica (quella già c'è) ma anche politica.

Quell'egemonia ha ormai un solo ostacolo: la Francia, guidata da un leader che qualcuno descrive come un personaggio da avanspettacolo. Quanto a noi, in fatto di avanspettacolo non accettiamo lezioni da nessuno. Infatti siamo noi che, dopo i primi tentennamenti, abbiamo considerato la Francia come il nemico o almeno il rivale numero uno. Sarkozy forse fa ridere ma la Francia è la Francia e purtroppo noi facciamo ridere tutti anche in circostanze nelle quali si dovrebbe piangere.
               
                                                                  ***

In realtà la sola questione che interessa chi detiene la "golden share" del governo italiano, cioè Bossi, è quella degli immigrati. Lampedusa è stata fin qui l'agnello sacrificale: è stata lasciata sola perché si è voluto che rappresentasse visibilmente, sotto gli occhi delle televisioni di mezzo mondo, una popolazione di cinquemila abitanti ridotti allo stremo ed una popolazione di ottomila immigrati ridotti in condizioni disumane.

Alla fine anche Maroni, che aveva vaticinato l'apocalisse senza aver preparato nulla per fronteggiarla, si è reso conto che la soglia dell'insopportabilità era stata varcata e ha preso (apparentemente) le misure per fronteggiarla requisendo due navi da crociera per sgombrare l'isola. Ci vorrà una settimana ma la sgombrerà, ma fino all'altro ieri non l'aveva fatto. Perché? Non ci vuole una gran fantasia ma a lui non era venuto in mente nulla.

Resta tuttavia un mistero: dove sistemerà, sia pure provvisoriamente, gli ottomila immigrati? E come fronteggerà quelli che nel frattempo continueranno ad arrivare?

Finora sono arrivati dalla Tunisia o meglio dai campi allestiti al confine tra Libia e Tunisia dove novantamila profughi si sono accalcati da quando in Libia è scoppiata la guerra civile. Ma ora le partenze sono cominciate anche dalla costa libica, dai campi di concentramento allestiti da Gheddafi dove a questo punto tutti i paletti sono saltati.

Questi campi erano un inferno e c'era gente di ogni provenienza: africani di Eritrea e di Etiopia, sudanesi e perfino neri provenienti dall'Africa equatoriale e subsahariana. La strada era di migliaia di chilometri e la Libia era la tappa verso il Mediterraneo.

Gheddafi faceva il carceriere. Berlusconi lo pagava per questo, petrolio a parte. Adesso il raìs ha altre cose cui pensare e semmai si serve del flusso di migranti per dimostrare la necessità di rimettere in sella un carceriere della sua stazza.

Voglio qui trascrivere un pensiero di Luigi Einaudi, un liberale conservatore che in realtà fu una grande persona che fa onore al nostro Paese.

"Le barriere giovano soltanto a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare a ciascuno di essi uno strano e incomprensibile linguaggio, di spazio vitale, di necessità geopolitiche e a far pronunciare ad ognuno di essi esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi che fossero lebbrosi e quasi il restringimento feroce d'ogni popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza".

Questo scrisse Einaudi in un discorso pronunciato all'Assemblea Costituente il 29 luglio del 1947. Parole che sembrano scritte oggi. Gettate al vento in un Paese del quale fu il primo presidente della Repubblica appena nata.

                                                                      ***

Questa è la deplorevole, mortificante, lacerante situazione in cui ci troviamo mentre il Parlamento, forte d'una maggioranza che sta in piedi solo perché una ventina di deputati ricatta con successo il presidente del Consiglio, si occupa dei problemi giudiziari dell'imputato Silvio Berlusconi: cancellare i processi colpendoli con la legge "ad personam" sulla prescrizione brevissima, sollevare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, intimidire i magistrati con la responsabilità civile personale.

La Lega acconsente perché ha il suo tornaconto e passa all'incasso. Almeno il suo è un ricatto politico ma gli altri sono ricatti di altro genere. Passano all'incasso gli "irresponsabili" dei vari gruppi di parlamentari comprati con cambiali che ora debbono esser pagate per non andare in protesto; passano all'incasso le veline e le escort, passano all'incasso i difensori d'ufficio e anche gli esiliati "pro tempore" come Scajola.

A me a volte Berlusconi fa tenerezza. Ma se penso allo scempio che ha fatto di questo Paese la tenerezza cede il posto ad un sentimento di giustizia che non saranno le aule giudiziarie a soddisfare ma l'isolamento morale e la disfatta politica che le sue azioni e omissioni si sono ampiamente meritate. 

(27 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri/2011/03/27/news


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un governo fantasma e un paese allo sfascio
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 10:53:57 am
IL COMMENTO

Un governo fantasma e un paese allo sfascio

di EUGENIO SCALFARI

IL PRESIDENTE della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un'iniziativa insolita, un'iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: "Così non si può andare avanti".

Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l'occasione determinante dell'intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un'altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.
La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l'ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione. Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull'operato dell'esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.

In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l'allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all'espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.

* * *

Temo che l'allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi. I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d'un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell'opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.
La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c'è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell'economia, della cultura, dell'informazione. Perfino della libertà e perfino dell'eguaglianza.
Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d'accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell'informazione. L'elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d'una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del "Foglio". Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l'ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.
"L'Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un'isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la "Crociera dello Sfigato", pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell'istituendo campo da golf; ma che cazzo  -  esplose  -  il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l'offesa".
Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.

* * *

Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d'attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell'apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest'ultimo tema; sugli altri non c'è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l'assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l'incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un'incolpazione civile per "violazione di diritti" significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.
Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l'obiettivo di bloccare il processo "Ruby-gate".

Il conflitto d'attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l'invasore ed impedire che l'invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?
Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell'imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell'ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.
Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L'evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché  -  lo ripeto  -  si tratta di un conflitto di competenza all'interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.

* * *

Le vicende della Libia, dell'immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell'intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell'economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell'Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un'impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.
Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l'auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall'estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?
Ma Tremonti ricorda  -  ed ha ragione di farlo  -  che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi  -  sostiene il ministro  -  se lo fa la Francia perché non può farlo l'Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché...
Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l'obiettivo è la difesa dell'italianità delle aziende nazionali. Dice un'altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l'Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.
Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest'ipotesi si avveri, chieda per l'ennesima volta l'ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un'impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?
Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.
È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l'inizio. Che cosa ne pensano i partiti d'opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d'Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?
La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell'informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.
La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.

(03 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/03/news/scalfari_3_aprile-14432573/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. In quel film Silvio non si piacerà
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 04:51:00 pm
In quel film Silvio non si piacerà

di Eugenio Scalfari

Berlusconi racconta se stesso nello specchio di Faenza: un arci-italiano nel peggio.

E dovrà rivedere tanti fatti come accadevano, non come la sua memoria oggi li manipola o li rimuove

(24 marzo 2011)

Roberto Faenza è un bravissimo regista, Rizzo e Stella due ottimi ricercatori e in questo caso anche sceneggiatori e Berlusconi un grande attore, anzi "showman", uomo di spettacolo. Perciò "Silvio forever", il film sulla sua vita che in questi giorni è nelle sale, aveva tutte le premesse per un buon risultato e l'ha pienamente realizzato.

L'intuizione di Faenza (leggi l'intervista) è stata cinematograficamente perfetta: raccontare la vita di un personaggio così comune e al tempo stesso così eccezionale si poteva fare in vari modi. Si poteva affidarne l'interpretazione a un attore, come ha fatto il regista Sorrentino con Andreotti nel "Divo"; si potevano intervistare i suoi collaboratori più intimi, quelli che hanno condiviso le sue imprese e i suoi successi, insieme ai suoi più tenaci avversari e concorrenti. Oppure si poteva chiedere a lui medesimo di raccontarsi, una intervista "autorizzata" dove i fatti fossero narrati dal protagonista e quindi presentati a suo modo.

L'intuizione di Faenza è stata appunto questa ma effettuata all'insaputa del protagonista. Non è Berlusconi che racconta oggi la sua vita a un interlocutore, ma è il regista che mette insieme tutta la documentazione e il tessuto di una esistenza, colta dalla viva voce del protagonista, registrando il passato così come avvenne. Il montaggio dei fatti non lo fa Berlusconi filtrandoli con la sua memoria di oggi, ma lo fa Faenza all'insaputa di Berlusconi. � questa la trovata scenica ed è stato questo l'improbo lavoro dei ricercatori-sceneggiatori. Che cosa arriva allo spettatore, qual è il senso di quella vita vista in retrospettiva?

Il personaggio è un esempio di coerenza, non è mai cambiato dall'infanzia fino ad oggi, da quando faceva i compiti di scuola e li vendeva ai compagni, da quando suonava e cantava sulle navi di crociera e faceva "l'entraineur", e poi i mesi di Parigi, le prime case costruite (con i soldi di chi?), Milano Due, l'amicizia con Craxi, il crollo della Prima Repubblica, la nascita di Forza Italia, fino alla D'Addario, al "bunga bunga" e a Ruby-rubacuori. Un pezzo di storia d'Italia attraverso la vicenda pubblica e privata di un protagonista.

Lo spettatore vede all'opera un inarrivabile venditore di patacche, un formidabile illusionista, un bugiardo in buona fede, che non appena detta l'ennesima bugia, si persuade che quella sia la pura verità e giura sui figli perché ne è assolutamente convinto. Così quando firma da Vespa il contratto con gli italiani, nel quale scrive che si dimetterà dalla politica se almeno quattro dei cinque impegni presi in vista delle elezioni non saranno realizzati. Neppure uno di quegli impegni fu raggiunto ma lui è sempre lì.

Mamma Rosa, anch'essa ripresa mentre racconta il figlio, è un'altra pennellata del quadro; tutte le mamme adorano i figli ma questa lo vede e lo dipinge come lui si vede e si dipinge. L'identificazione di Mamma Rosa con Silvio è totale ma analoga a quella di milioni di italiani; i comizi e le feste di Forza Italia, le canzoni, il "meno male che Silvio c'è", sono momenti di reale entusiasmo per la gente che vi partecipa mentre i suoi compagni d'avventura sorridono sotto i baffi. Loro sanno benissimo chi è Silvio e si identificano con lui per i benefici che ne ricevono.

Il montaggio di Faenza non è partigiano: è un occhio che guarda, non dà giudizi. Ma nel corso degli anni il personaggio si decompone: dal bel ragazzo al vecchio, dal narcisismo giovanile a una patologica megalomania, dal maschilismo al machismo, dal sesso al vizio. Il tutto appena accennato nel film, ma colto nei momenti determinanti. Ne risulta, per dirla con una sola parola, un arci-italiano nel peggio.

Il film è divertente, fa pensare. Farà discutere. Il finanziatore è lo stesso Faenza, il che gli ha consentito un'assoluta neutralità. Ha fatto parlare i fatti. Ciascuno li interpreterà a suo modo, perciò probabilmente piacerà a tutti. Ma chi lo conosce sa che non piacerà a Berlusconi. Dovrà rivedere quei fatti così come li raccontò lui stesso mentre accadevano, non come la sua memoria li manipola oggi o li rimuove. No, lui non sarà contento di rivedersi nello specchio di Faenza e di quanti quei fatti li hanno volta per volta registrati sulle pagine dei libri e dei giornali.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quella giunta che uccide la speranza
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 12:25:13 pm
Quella giunta che uccide la speranza

di Eugenio Scalfari

La commissione che valuta i procedimenti sui parlamentari con il suo comportamento spegne la fiducia dei cittadini.

Era così nel 1976 e oggi non è cambiato nulla. Come dimostra il caso Ruby

(08 aprile 2011)

"Ho sotto gli occhi l'elenco dei membri della Commissione parlamentare inquirente sui procedimenti d'accusa, un nome in verità troppo lungo per il niente assoluto che questo importante organo del Parlamento ha fatto finora. Sono venti tra deputati e senatori e tra di essi, ne sono certo, non mancano le brave persone. Alcuni li conosco da tempo e sono disposto a giurare che nessuno di loro ha mai schiaffeggiato un bambino, depredato una vedova, approfittato d'un debole o commesso comunque atti in qualche modo riprovevoli. Eppure queste venti persone sono secondo me, dal punto di vista della moralità pubblica, tra coloro che si sono macchiati del più grave dei reati e cioè di spegnere nei cittadini di questo Paese ogni fiducia e ogni speranza nell'istituto parlamentare.

A questi deputati e senatori è stato affidato un compito delicatissimo. Spetta a loro infatti giudicare dei reati politici eventualmente commessi dai ministri e perfino, se del caso, dal presidente della Repubblica. Essi sono il giudice inquirente, il braccio inflessibile del Parlamento che tutela l'eguaglianza di tutti dinanzi alla legge.

In realtà questi deputati e questi senatori stanno facendo da anni mercato del potere a essi affidato e lo stanno facendo senza nemmeno il pudore di nascondere le loro intenzioni. Hanno fatto di tutto; hanno tolto dalle mani dei magistrati processi sui quali non avrebbero avuto, in base alla legge, alcuna competenza; hanno privato il giudice ordinario perfino della possibilità di trattenere presso di sé le copie degli atti; hanno rifiutato di restituirgli le istruttorie almeno per quanto riguardava gli imputati non coperti dalle prerogative istituzionali. Hanno avocato tutto e hanno insabbiato tutto.

Su di loro e sulla loro squallida commissione sono state coniate barzellette, gli sono stati affibbiati nomi d'arte, gli sono state dedicate vignette di scherno, ma a nulla è servito perché essi hanno proseguito imperterriti nel loro comportamento".

I lettori che hanno letto fin qui queste righe che ho trascritto tra virgolette penseranno che mi sia stato suggerito dall'attualità del tema. La giunta delle autorizzazioni a procedere ha infatti sollevato il conflitto di attribuzione per bloccare il processo "Ruby" e trasferirlo al tribunale dei ministri. Se questo trasferimento dovesse avvenire quel tribunale prima di procedere dovrebbe avere il benestare della giunta che certamente glielo negherebbe.

Ebbene, le righe che fin qui avete letto io le ho scritte sulla "Repubblica" del 25 gennaio 1976, nel primo mese di vita del nostro quotidiano. Sembrano scritte oggi, non è vero?

In quell'articolo - che aveva come titolo "Venti nomi da ricordare" - davo anche l'elenco dei componenti della giunta. Potrei trascrivere qui i venti nomi dei membri attuali e dei gruppi parlamentari di appartenenza, ma a che cosa servirebbe? Sono passati 35 anni da allora e il problema è sempre lo stesso. Quasi tutti i problemi dell'etica pubblica nel nostro Paese sono gli stessi. A volte, rileggendo gli articoli che ho scritto sull'"Espresso" e su "Repubblica" nel corso di tanti anni, mi sorge un sentimento di disperazione. � mai possibile? Speravamo in un Paese migliore e ci ritroviamo invece in una situazione peggiore di prima, con problemi aggravati ma non diversi.

Disperazione significa scomparsa della speranza. Appunto, è proprio questo che mi sta capitando.

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da - espresso.repubblica.it/dettaglio/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Geronzi sperava, Tremonti sapeva
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2011, 04:45:27 pm
L'ANALISI

Geronzi sperava, Tremonti sapeva

di EUGENIO SCALFARI


LO CHIAMANO il banchiere di Marino ma è uno sberleffo che Cesare Geronzi non merita: è stato molto peggio che un semplice provincialotto, ma anche molto di più. Ha avuto in mano per lungo tempo le leve che governavano un sistema di potere ed ha ambito che quel sistema prevalesse su tutti gli altri. Non ce l'ha fatta ed è caduto. Gli era già capitato altre volte ma era sempre riuscito a rialzarsi; questa volta è difficile che accada.

Il suo sistema di potere nacque dalla fusione del Banco di Roma con il Banco di Santo Spirito, di proprietà d'una Fondazione di origine vaticana. Il Banco di Roma era una delle tre banche d'interesse nazionale, le altre due erano possedute dall'Iri: la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano. Le tre Bin avevano il controllo di Mediobanca, guidata da Enrico Cuccia.
Il sistema era questo: l'Iri, le tre Bin, Mediobanca. Cuccia diceva che il corpo di Mediobanca era pubblico ma la testa era privata. La testa privata era la sua, il corpo pubblico era l'Iri, ma il sangue che circolava nel sistema e lo teneva in vita era frutto delle tre Bin perché erano loro a collocare tra i risparmiatori le obbligazioni emesse da Mediobanca per raccogliere i capitali necessari a farla funzionare come banca d'affari. Queste erano le entità societarie, alla testa delle quali c'erano uomini in carne ed ossa con le loro storie e i loro caratteri.

Cuccia era uno di quegli uomini, ma insieme a lui e prima di lui ce n'erano altri, tutti molto speciali: Raffaele Mattioli,
Adolfo Tino, Ezio Vanoni, Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Pasquale Saraceno. E la Banca d'Italia di Donato Menichella e poi, dal 1960, di Guido Carli.
Questa era la struttura di quel sistema e di quell'intreccio tra finanza e politica: la rete di sostegno che proteggeva l'economia reale, la finanziava e la regolava. I pilastri dell'economia reale erano: la Fiat di Valletta e poi, dal 1968, di Gianni Agnelli; l'Eni di Enrico Mattei, la Edison di Giorgio Valerio, la Montecatini di Carlo Faina, la siderurgia a ciclo integrale, le autostrade, i telefoni e le telecomunicazioni, la Rai, l'Alitalia, la Finmeccanica, tutte dell'Iri insieme alle tre Bin. Ma delle banche l'Iri si limitava a custodire le azioni; la politica bancaria la guidava la Banca d'Italia e nessuno si sognava di metterne il ruolo in discussione.

Così andarono le cose dal 1947 fino agli anni Settanta. Adesso sembra preistoria, sono cambiate le strutture, sono cambiati gli uomini. La spinta in avanti dell'economia italiana cominciò a rallentare fino a quando si fermò del tutto. Il debito pubblico prese a crescere fino a diventare, dagli anni Ottanta ad oggi, una mostruosa montagna. La disoccupazione, dopo esser stata riassorbita per tutto il decennio 1955-65, ricomparve fino a diventare strutturale. La competitività e la produttività scesero a livelli infimi. Ma soprattutto il rapporto tra gli affari e la politica diventò perverso e la sua perversità andò sottobraccio con la corruzione. Fino a quando la Prima Repubblica cadde e la Seconda che la sostituì si rivelò peggiore al punto da far rimpiangere quella che l'aveva preceduta.

* * *

Geronzi diventò un elemento del sistema quando già il rapporto tra affari e politica era imputridito, la rete di protezione e di regolazione era stata strappata in più punti, gran parte delle grandi imprese erano scomparse o avevano cambiato padrone. Per di più era ancora un elemento marginale perché il Banco di Roma che aveva cambiato il nome in Capitalia era molto più debole di Unicredit mentre la Commerciale era addirittura scomparsa nelle ampie braccia di Intesa-Sanpaolo. Tanto debole da mettersi in vendita poiché nella nuova era della globalizzazione le banche italiane non reggevano il confronto; per sopravvivere dovevano assumere ben più ampie dimensioni. La scorciatoia obbligata per Geronzi che guidava Capitalia fu la fusione con l'Unicredit di Profumo.
 
Nella spartizione dei ruoli a lui toccò la presidenza di Mediobanca, da tempo orfana di Cuccia e poi del suo successore Maranghi.
Non ebbe deleghe, gli amministratori Nagel e Pagliaro se le tennero ben strette salvo il comitato "nomine" che era ed è la cabina di regia delle società partecipate. Ma Geronzi era un bravissimo navigatore ed aveva un suo speciale talento: utilizzava le aziende per accrescere il suo potere. Talvolta le sue iniziative andavano anche a vantaggio dell'azienda, ma più spesso il vantaggio era suo soltanto. Così fece anche con Mediobanca. C'era entrato quasi di soppiatto, per "generosità" di Profumo; ma ne prese sempre più saldamente le redini lasciando le operazioni bancarie alle mani dei manager. Lui si occupò del suo potere. Diventò il referente di Gianni Letta e di Berlusconi; in quella veste si attribuì il ruolo di supervisore di una delle società partecipate, la Rcs-Mediagroup, cioè il Corriere della Sera la Gazzetta dello sport e i tanti settimanali del gruppo.

Strinse un sodalizio con i francesi di Bolloré e di Tarak Ben Ammar, che avevano un piede in Mediobanca e un altro nelle Generali. Vagheggiò una fusione tra Generali e Mediobanca; tenne l'occhio su Bernabè e su Telecom, con la sua importante rete di comunicazioni e la sua televisione La7, la sola esistente fuori dal duopolio Rai-Mediaset. E forse non fu estraneo alla caduta in disgrazia di Profumo e alla sua defenestrazione da Unicredit. A quel punto pose la sua candidatura alla presidenza di Generali. Si era convinto che fosse più agevole guidare Mediobanca dall'alto di Generali anziché guidare Generali da Mediobanca. Forse pensava che il management del Leone (Perissinotto e Balbinot) fosse più malleabile di Pagliaro e di Nagel. Ma su quel punto sbagliò. Non aveva previsto che quei quattro si sarebbero messi d'accordo per farlo fuori. Ci hanno impiegato un anno. Più veloci di così...!

* * *

Chi volesse definire con una sola parola Cesare Geronzi, potrebbe chiamarlo l'Uccellatore, colui che per professione ha quella di catturare uccelli vivi. Non è poi tanto male acchiappare uccelli vivi e metterli in gabbie dorate e provviste di buon mangime. Certo, con poca o pochissima libertà. Ma c'è un altro personaggio di questa storia ed ha anche lui il suo soprannome: chiamiamolo Convitato di pietra o Gran Commendatore, secondo il testo di Da Ponte. Parliamo naturalmente di Giulio Tremonti, ministro dell'Economia. Tremonti non ha armato la mano dei manager di Mediobanca e di Generali, tanto meno li ha ispirati e guidati. Però sapeva. Aveva anche avvertito, ma molto alla lontana, Berlusconi, come se parlasse di un'ipotesi remota e abbastanza facile da bloccare. Invece era questione di ore. Non sapeva nulla Geronzi, non sapevano nulla Bolloré e Tarak Ben Ammar, non sapevano nulla Marina figlia e Silvio padre; ma il Convitato di pietra sì, lui sapeva.

Palenzona sostiene che il nuovo sistema, la nuova astronave, è composta di tre moduli: a valle ci sono le Generali, il comando di Generali è in mano a Mediobanca, il comando di Mediobanca è in mano a Unicredit. Cioè a Palenzona che ne è vicepresidente. Il presidente è il tedesco Dieter Rampl, che sta dietro Palenzona e forse è lui il vero perno alla faccia dell'italianità. Ma probabilmente alle spalle corporalmente possenti di Palenzona c'è il Gran Commendatore, Giulio Tremonti, protettore della Lega e fautore delle banche territoriali. Negli anni Ottanta un'architettura di questo genere avrebbe potuto essere immaginata e costruita, ma oggi non direi. L'economia globale, la finanza globale, la libera circolazione dei capitali non vanno in questa direzione. Le economie nazionali non reggono se non hanno dimensioni continentali. Usa, Cina, India, Russia, Brasile, queste sono le dimensioni. L'Europa le avrebbe ma per ora l'Europa non c'è. I finanzieri, i banchieri, gli industriali debbono immaginare e operare come se l'Europa ci fosse. Le architetture pensate sulla dimensione del cortile di casa non reggono all'urto della realtà, sono attendamenti fabbricati con le carte da gioco dei bambini. L'Uccellatore così come il Convitato di pietra sono anomalie nel paese delle anomalie.

Perciò è più corretto prevedere che i manager di Mediobanca, di Generali, di Unicredit, di Intesa, di Telecom, di Fiat-Chrysler, punteranno sul valore delle aziende e saranno giudicati su quella base. Valori non effimeri, non ottenuti con accorgimenti speculativi, ma di media-lunga durata, aggiornati ogni anno ma proiettati almeno verso il quinquennio o meglio ancora il decennio. Incrementi di valore, ampliamento delle basi produttive, regole di concorrenza, titoli giudicati dal mercato, competitività, creazione di nuovi prodotti, conquista di nuovi mercati. Le "matrioske" immaginate da Palenzona non servono più. Dietro Generali c'è il mercato internazionale delle assicurazioni; dietro Mediobanca c'è il mercato degli affari da intermediare e da finanziare; dietro Intesa e Unicredit c'è la banca generale, il credito da offrire sul territorio e in Europa. Lo Stato ha un solo e vero modo di stare sul mercato: produrre servizi pubblici e infrastrutture efficienti e far rispettare le regole di concorrenza che impediscano monopoli, conflitti d'interesse e rendite non tassate.
Buona giornata e buona fortuna.
 

(10 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/04/10/news


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il golpe puritano di Pisanu e Veltroni
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:02:30 pm
   
IL COMMENTO

Il golpe puritano di Pisanu e Veltroni

di EUGENIO SCALFARI

Le notizie della settimana sono queste:
1. Berlusconi ha dichiarato alla stampa estera che alla fine della legislatura nel maggio del 2013 non si candiderà più come capo del governo ma resterà leader del suo partito.
2. Ventiquattro Paesi dell'Unione europea su ventisette hanno respinto la richiesta italiana di accogliere gli immigrati sbarcati sulle nostre coste. A fianco dell'Italia sono rimaste Malta e la Grecia.
3. Il piano economico e finanziario preparato da Tremonti per il prossimo biennio prevede una crescita del Pil dall'1 all'1,6 per cento. La disoccupazione e la pressione fiscale resteranno ferme sulle posizioni attuali. Il debito pubblico si è nel frattempo attestato al 120 per cento e non diminuirà fino al 2014.
4. La guerra contro i giudici deve proseguire a ritmo serrato: dopo la prescrizione breve sarà la volta della legge sulle intercettazioni e comincerà l'iter parlamentare della riforma generale della giustizia.
Come si vede, il panorama politico è al tempo stesso agitato e immobile.
Diciamo che è il tremito d'un organismo paralizzato e dura così da due anni.

La prospettiva, almeno per quanto riguarda l'economia e l'immigrazione, è che si andrà avanti così per altri due anni.
Il governatore della Banca d'Italia avverte che in queste condizioni ci vorranno cinque anni per uscire dalla crisi attuale.
Per poterne uscire nel 2013 sarebbe necessaria una crescita del Pil del 2 per cento in ciascuno dei due anni: obiettivo
possibile ma soltanto con una politica economica diversa da quella attuale.
Chi viaggia all'estero e incontra persone di altri Paesi con le quali ha rapporti di amicizia o di affari, riferisce la domanda che gli viene fatta in ogni occasione: perché Berlusconi è ancora al governo e riscuote ancora la maggioranza relativa dei consensi? Il viaggiatore non sa rispondere.
La stessa domanda ce la poniamo da tempo anche noi, sebbene essa si sia notevolmente ridotta negli ultimi mesi.
Ridotta, ma ancora consistente nel Paese e in Parlamento.
Come si spiega?

La risposta è contenuta in due diverse narrazioni di quanto accade in Italia, inconciliabili tra loro. Il Paese è dunque irrimediabilmente spaccato in due parti che non comunicano?
In realtà il Paese è diviso in tre parti e la terza è composta da chi ha perduto ogni interesse ad occuparsi di questo problema. La situazione è dunque terribilmente seria: stasi economica, isolamento in Europa, Paese diviso in tre parti quantitativamente equivalenti. Una palude, con i miasmi e i malanni d'ogni palude. Di qui una seconda domanda: come uscirne?

* * *

Pisanu e Veltroni hanno indicato un modo: un nuovo governo sostenuto da tutti coloro che in Parlamento e nel Paese vedono i rischi di questo agitatissimo immobilismo e decidono di uscirne unendo le forze per riscrivere insieme le regole provocando una "discontinuità" rispetto a quanto finora è accaduto.
La parola "discontinuità" significa politicamente una rottura con la situazione attuale. Che l'abbia pronunciata Veltroni non è una notizia ma che l'abbia scritta e firmata Pisanu, senatore del Pdl e presidente della Commissione antimafia, questa sì, è una notizia. Nel lessico dei seguaci dell'"Amor nostro" probabilmente sarà definita un "golpe" o almeno un para-golpe o un proto-golpe. Non Badoglio, ma Pisanu.

Che cosa ne pensano i poteri forti? Che cosa ne pensa la Chiesa? Ci vuole una premessa, per quanto ovvia, in questi tempi di vistosa confusione lessicale: la discontinuità non può aver luogo senza che emerga una maggioranza parlamentare diversa da quella attuale. E un'altra premessa: qualora quella nuova maggioranza emergesse, spetterebbe al presidente della Repubblica decidere se dar luogo ad un nuovo governo senza por fine alla legislatura oppure consultare il corpo elettorale.
Nel 1994, quando la Lega decise di ritirarsi dal governo passando all'opposizione dopo appena cinque mesi di esperimento, la legislatura continuò fino al  '96.

L'ossessione del ribaltone ancora non c'era per la semplice ragione che costituzionalmente il cambiamento di alleanza da parte di un gruppo parlamentare è pienamente legittimo e rientra nella normale dialettica democratica. Del resto in questa legislatura di ribaltoni ne sono già avvenuti parecchi: Fini è stato cacciato dal Pdl ed ha formato un partito che si è dissociato dalla politica del governo; alcuni parlamentari che l'avevano seguito hanno poi cambiato opinione tornando nel partito d'origine; altri parlamentari eletti con partiti di opposizione hanno varcato la soglia e sono passati con la maggioranza.
Nessuno ha invocato la fine della legislatura per questo motivo.

* * *

Esaurite le premesse procediamo con l'analisi delle forze in campo. Gli imprenditori, i rappresentanti dei lavoratori, la gerarchia cattolica, i movimenti ecclesiali, l'opinione laica, gli interessi e i sentimenti del Nord, gli interessi e i sentimenti del Centro-Sud.
La Confindustria reclama da tempo una politica orientata verso la crescita della domanda, dell'occupazione, degli investimenti e dei consumi. Tanto più urgente in una fase di crescente inflazione globale, di aumento del tasso di interesse e di un tasso di cambio dell'euro che penalizza fortemente le esportazioni.

Negli ultimi tempi questa posizione della Confindustria si è radicalizzata, con l'adesione pressoché unanime delle imprese grandi, medie e piccole. Queste ultime finora avevano considerato con favore e speranza le promesse berlusconiane, ma negli ultimi tempi le speranze sono appassite e il favore è venuto meno.

Analoghi mutamenti sono avvenuti nell'ampio settore delle costruzioni (Ance) e nelle organizzazioni dei commercianti e degli artigiani. Gli interessi di queste categorie sono penalizzati dalla politica del rigore senza crescita. Ciò non vuole necessariamente significare che le intenzioni di voto di queste categorie siano cambiate; la paura dei "comunisti" e degli immigrati gioca in favore della continuità politica e non della discontinuità. Ma quando è leso l'interesse, la tenuta ideologica diventa friabile e può favorire il mutamento delle intenzioni di voto soprattutto in favore dell'astensionismo.

Per quanto riguarda le forze del lavoro, il ragionamento è analogo salvo l'assenza di elementi ideologici. Sono molti i lavoratori e i pensionati che passarono da sinistra a destra nelle scorse occasioni elettorali, sedotti dalle promesse e dalle capacità seduttive di quella vera e propria macchina di voti che è il Grande Comunicatore. Ma il problema dei "comunisti" per loro non si pone e quello della sicurezza anti-immigrazione ha un peso assai minore rispetto ad altri ceti. Il problema dei lavoratori è il lavoro. Se manca o si devalorizza gli effetti prima o poi si vedono e infatti cominciano a vedersi.
Il Sud è terra incognita per un motivo evidente: è la parte del Paese socialmente meno strutturata. La classe dirigente locale è sempre stata "ballerina", il lavoro difetta, l'iniziativa imprenditoriale è scarsa, il credito di difficile accesso, le infrastrutture sono miserevoli e i trasporti ancora peggio.

Dove manca il radicamento degli interessi suppliscono radicamenti alternativi: la clientela, le organizzazioni malavitose. Aumenta l'emotività e contemporaneamente l'indifferenza politica. Il combinato di questi elementi rende appunto incognita la risposta politica meridionale anche se l'opinione pubblica strutturata (quel poco che esiste) è particolarmente reattiva allo sradicamento sociale e quindi molto sensibile all'etica pubblica. Può sembrare un paradosso ma è proprio nell'ambiente sociale più degradato che il desiderio di un'etica pubblica più rigorosa ed un salto di qualità nell'efficienza e nell'innovazione si manifestano con maggiore intensità.
Questa apparente contraddizione va guardata con particolare cura dalle forze politiche che puntano sulla discontinuità.

* * *

Il Nord invece non è terra incognita. Gli interessi sono ben radicati ed anche l'ideologia. Il nordismo è ormai un modo di pensare e di sentire che accomuna le genti della grande pianura dove scorre il Po, la stella cometa che ha la sua testa tra Varese Milano e Bergamo e la coda luminosa che s'irradia fino a Udine e Treviso da un lato e Mantova Ferrara e Rimini dall'altro, fino alle propaggini della costa adriatica marchigiana. Ci sono differenze e rivalità in questa ampia superficie che produce il sessanta per cento del reddito nazionale e ospita il quaranta per cento della popolazione, ma coincidono le priorità: libera impresa, regole al minimo livello, investimenti pubblici e infrastrutture come prima scelta dello Stato, Comuni e Regioni fiscalmente e istituzionalmente autonome, ricchezza reinvestita sul territorio, immigrazione condizionata all'offerta di lavoro.
La Lega costituisce il cemento e fornisce l'ideologia, ma non è esportabile, perciò la sua compromissione con il governo nazionale non è popolare. La condizione ideale del leghismo è il federalismo inteso come confederazione.

Il nordismo confederato rappresenta una metà degli abitanti di quei territori e molto meno della metà dei giovani. I giovani sono sempre più cosmopoliti e sempre meno attratti dalle patrie, grandi o piccole che siano.
Non amano la ghettizzazione né le tradizioni. Vogliono successo, ricchezza, competizione e cultura. Sono propulsivi e dinamici. Il mito di Pontida non è cosa loro, Bossi e Calderoli non sono i loro punti di riferimento. Forse il Berlusconi giovane sì, quello di oggi non più o sempre meno.
Se si aggiunge che la Chiesa è entrata nell'ordine di idee che la palude attuale non sia giovevole né ai suoi valori né ai suoi interessi, il quadro complessivo sembrerebbe favorevole ad un'evoluzione che privilegi la discontinuità rispetto al presente e pericolante assetto. Ma a questa salutare evoluzione fa ostacolo una difficoltà non da poco ed è una natura molto diffusa nella nostra gente. Francesco De Sanctis ne parla a lungo in un suo saggio e definisce quella natura come l'uomo del Guicciardini perché fu appunto lo storico fiorentino che meglio di tutti ne fece il racconto. Lo fece nelle "Historiae fiorentinae" e nei "Ricordi". Ma valeva ancora, quel racconto, tre secoli dopo, quando ne parlava De Sanctis nelle sue lezioni all'Università di Napoli. Purtroppo vale ancora oggi.
"Mancava la forza morale; supplì l'intrigo, l'astuzia, la simulazione, la doppiezza. Ciascuno pensava al proprio particulare sì che nella tempesta comune naufragarono tutti. La consuetudine nostra non comportava che s'implicassi nella lotta tra i principi, ma attendesse a schierarsi, ricompagnandosi con chi vinceva secondo le occasioni e le necessità. Noi abbiamo bisogno di intrattenerci con ognuno dè potenti e mai fare offesa ad alcun principe grande".

E il De Sanctis così conclude questa lunga citazione guicciardiniana: "Non c'è spettacolo più miserevole di tanta impotenza e fiacchezza in tanta saviezza. La razza italiana non è ancora sanata da questo marchio che ne impedisce la storia. L'uomo del Guicciardini lo incontri ancora ad ogni passo; ci impedisce la via se non avremo la forza di ucciderlo nella nostra coscienza".
È un obiettivo da puritani? Oppure la condizione necessaria per far vivere una società moderna dove libertà e giustizia siano equilibrate e consentano di affermarsi al merito onestamente guadagnato?

(17 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Pasqua, lo spirito risorge per tutti
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2011, 12:03:30 am
IL COMMENTO

Pasqua, lo spirito risorge per tutti

di EUGENIO SCALFARI


IL MALE non esiste. Dio decise di incarnarsi, di assumere natura umana e assumere su di sé tutti i peccati del mondo. Ripristinò l'alleanza tra l'umanità e il suo creatore e indicò la via della salvezza lasciando agli uomini la libertà e la responsabilità di scegliere.

Nel giorno del giovedì cenò con i suoi apostoli. La sera si ritirò con loro nell'orto del Getsemani. Nella notte fu arrestato. Il venerdì fu processato, torturato e crocifisso. Sepolto. Dopo tre giorni (ma il sabato secondo la liturgia) resuscitò da morte, apparve alle donne e poi agli apostoli. Così raccontano i Vangeli.

Un altro racconto, pur sempre condotto sui testi della Scrittura ma diversamente interpretati, narra la storia di un uomo, figlio di Giuseppe e della giovane Maria, nato a Betlemme nei giorni del censimento, ma residente a Nazaret. Di lui, dopo la nascita ed una fuggitiva presenza al Tempio, i Vangeli non dicono più nulla, non esiste alcun racconto della sua infanzia e della sua adolescenza. Non sappiamo nulla del suo lavoro, dei suoi studi, della sua famiglia, della sua vita.

Lo ritroviamo a trent'anni, quando inizia la sua predicazione in Galilea e in Tiberiade. Va al Giordano a farsi battezzare dal Battista, raduna un gruppo di discepoli, pescatori, artigiani, mendicanti. La sua predicazione ha all'inizio contenuti soprattutto sociali; sostiene che nel regno di Dio gli ultimi saranno i primi, i deboli, i poveri, gli ammalati, saranno confortati, i giusti avranno giustizia,
gli ingiusti saranno castigati.

Ma intanto quell'uomo sente crescere dentro di sé una potenza misteriosa, connessa a capacità medianiche e taumaturgiche. Ed è allora che domanda: "Voi chi credete che io sia?". Alcuni dei discepoli rispondono: "Tu sei il "rabbi", il Maestro". Altri: "Tu porti in te lo spirito di Mosè". Ed altri: "Un grande profeta, più grande di Ezechiele e di Geremia". Altri ancora: "Tu sei il Messia, discendente dalla stirpe di David e sei venuto ad annunciare la fine dei tempi".

Gesù ascolta, si chiude in sé. Si ritira nel deserto passando dalle terre dove vive la comunità degli Esseni, rimane quaranta giorni solo con le sue tentazioni, ode la voce del Tentatore e ne respinge le impure proposte. Torna tra i suoi. Ora è convinto di essere il Figlio di Dio, il solo tramite attraverso il quale l'unico Dio manifesta il suo amore per gli uomini e la sua sconfinata misericordia.

Questi due racconti, pur svolgendosi nello stesso modo e configurando lo stesso percorso, sono però profondamente diversi, ma convergono nella stessa conclusione: quell'uomo dà inizio ad un'epoca che si ispira al principio dell'amore e della carità, del perdono e della misericordia. Il peccato è una caduta dalla quale ci si può rialzare. Il male è soltanto l'eccezionale assenza del bene. Il bene è il regno dei giusti che godono la beatitudine di poter contemplare Dio nelle sue tre consustanziali epifanie di Padre, di Figlio e di Spirito Santo.
In questa fine del viaggio e della storia il male avrà cessato di esistere, non ci sono né purgatorio né inferno, ma soltanto paradiso, senza tempo e senza luogo.

* * *

Ma c'è un terzo racconto, quello che caratterizza l'epoca della modernità. In esso non esistono né il male né il bene, non esiste il peccato. Ogni essere vivente è dominato dalla natura dei suoi istinti e vive in perfetta innocenza. Ma noi, unica specie dotata di mente riflessiva e capace di pensiero, noi ci vediamo vivere, invecchiare e morire; noi siamo animati da due forme di amore: quello verso se stessi e quello verso gli altri. Nessuno di questi due amori riesce a cancellare l'altro e la nostra vita non è che la dialettica convivenza di essi che si confrontano nella caverna dove abitano i nostri istinti, le nostre più segrete pulsioni e la nostra energia vitale.

In questo terzo racconto non esiste metafisica, nulla è divino oppure tutto è divino, due modi per significare la stessa cosa: "Deus sive natura".

Il terzo amore che tutto sovrasta è quello verso la vita e il solo peccato pensabile è quello contro la vita, la sua dignità, la sua libertà. Non una vita idealizzata, ma una vita storicamente determinata dagli istinti che si misurano, si combattono, si trascendono, si trasfigurano, diventando passioni e sentimenti analizzati dalla lente della ragione, cioè del pensiero che pensa se stesso e che si vede vivere.
Questo pensiero è capace di inventarsi e di raccontarsi molti mondi, è una fabbrica di illusioni che ci aiutano durante il viaggio, di speranze che alimentano la nostra energia vitale, di architetture morali indispensabili a tutelare la nostra socievolezza.

Noi siamo una specie pensante e socievole, perciò costruiamo regole morali che consentono la convivenza in quel dato contesto storico. Ecco perché non esistono peccati ma esistono reati.
Quando finisce un'epoca, finisce anche una morale, si verifica una rivoluzione che smantella la vecchia architettura per costruirne un'altra affinché la vita possa proseguire alimentata e incanalata da nuovi limiti, da nuove correnti, da nuove sorgenti.

* * *

Ognuno di questi racconti ha una sua Pasqua, ognuno raffigura un'epifania, una morte apparente e una resurrezione. Non c'è fine perché non c'è principio. Non c'è altro senso fuorché la vita che la nostra specie è in grado di raccontare, interpretare, trasfigurare, inventare. Abbiamo perfino inventato il tempo.
Il tempo morirà con noi. La morale morirà con noi. Purtroppo stanno già morendo e questo non è buon segno.
Quando si rifiuta di ricordare il passato non si può costruire il futuro, si vive schiacciati da un eterno presente come gli animali che vivono infatti fuori del tempo.

Quando si smonta un'architettura morale senza costruirne un'altra il fiume della vita cessa di scorrere diventando imputridita palude.
A questa sorte dobbiamo ribellarci, questo pericolo dobbiamo scongiurare.
"Resurrexit" suoneranno oggi le campane. La Pasqua è di tutti ed è lo spirito di tutti che deve risorgere.
 

(24 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Gino Strada non sorride mai?
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:52:15 pm
L'amore per sé e quello per gli altri

di Eugenio Scalfari

Perché Gino Strada non sorride mai?

Il fondatore di Emergency ha capito che il suo sforzo per diffondere il pacifismo non porterà a nulla.

Nella natura umana prevale infatti un istinto contrario

(22 aprile 2011)


Alcuni giorni fa ho ascoltato Gino Strada, il medico che ha fatto della carità e dell'assistenza ai feriti d'ogni guerra e d'ogni colore lo scopo della sua vita, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione "Che tempo che fa".

Strada, oltre che medico caritatevole e coraggioso, è anche un pacifista integrale, propagandista e ideologo della pace e nemico - ovviamente pacifico - del potere e dei potenti. In questo è molto coerente: le guerre non sono che le conseguenze della brama di potere. Distruggere quella brama, riuscire a scacciarla dal cuore degli uomini, quello sì, sarebbe un formidabile passo avanti verso il trionfo della pace universale e Gino Strada, insieme a tutti quelli che appoggiano l'associazione "Emergency" da lui fondata, cerca di diffondere ovunque può il sentimento pacifista. Ma è triste, Gino Strada, ci se ne accorge guardandolo e ascoltandolo, al punto che lo stesso Fazio gliel'ha fatto notare nel corso della trasmissione.

I due sono vecchi amici e Fazio condivide il pacifismo di Strada e cerca di aiutarlo concretamente. Ma non vorrebbe vederlo triste.
"Sorridi ogni tanto", gli ha suggerito davanti a quattro milioni di ascoltatori. "Sei in pace con la tua coscienza, tanta gente ti vuol bene.
Sorridi e ridi, carità e tristezza non vanno d'accordo".
"Hai ragione", ha risposto Gino e ha abbozzato un sorriso, ma si capiva che era forzato. Infatti è presto scomparso e il suo volto si è fatto di nuovo triste e cupo.

Mi sono chiesto il perché di quella tristezza e ogni tanto mi torna in mente. Gli esempi di carità sono quasi sempre associati alla letizia. Francesco d'Assisi mendicava in letizia, digiunava e dava tutto ciò che poteva ai poveri in letizia e così facevano i suoi frati.
Così facevano Santa Chiara e Santa Caterina e ai tempi nostri Madre Teresa di Calcutta.

Così faceva Gandhi. La letizia fa parte integrante della carità perché l'uomo caritatevole è felice di quanto fa, la sua coscienza si sente alleggerita dalla colpa e lo riflette nello sguardo e nel sorriso buono che gli spiana il volto. Perché Gino Strada è triste?

Mi ci sono arrovellato su questa domanda. In questa fase della mia vita sto studiando gli istinti e i sentimenti, perciò chiarire questa questione non è un'oziosa curiosità, fa parte del mio lavoro.
Dopo averci pensato su sono arrivato a una conclusione: Strada ha capito che la sua predicazione pacifista non approderà a nulla.
E non perché lui sia un cattivo predicatore, non perché i suoi argomenti non siano persuasivi, non perché le persone di buona volontà non si riconoscano in lui. Ma lui deve aver capito che la brama di potere, la volontà di potenza, lo scontro con gli altri e infine la guerra sono un istinto della nostra specie.

Non è un vizio, non un'indole perversa da rieducare: un istinto che convive con quello della generosità e con l'amore per gli altri.
L'uomo è un groviglio di due amori: quello per gli altri e quello per se stesso. E se mai ci si chiede quale sia il più forte e il più irruente di questi due istinti amorosi, s'arriva presto a concludere che l'amore per sé è quello dominante. Lo si può contenere, si può fare in modo di arginarne la pericolosità, ma non si riuscirà mai a spegnerlo perché si dovrebbe trasformare l'uomo in un angelo, dotarlo cioè di un'altra natura che estingua la natura umana.

La storia biblica comincia con Caino che uccide Abele. E neppure Cristo riuscì a spegnere l'amore di sé nell'umana natura.
Provò a compiere questo miracolo ma non riuscì. Se non c'è riuscito lui sembra difficile che ci possa riuscire Gino Strada.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Dire Nato non è più come dire Usa
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 11:20:05 am
Dire Nato non è più come dire Usa

di Eugenio Scalfari

Obama non vuole fare il gendarme del mondo. E l'alleanza Nord-atlantica si trasforma in una rete di "poliziotti di quartiere".

Dove però gli interessi dei Paesi coinvolti non sempre coincidono

(05 maggio 2011)

Se si facesse un sondaggio per sapere quale sia, tra le migliaia di sigle che infestano i media, quella più conosciuta, credo che ai primissimi posti figuri la Nato, Alleanza del nord-atlantico. La conosciamo da oltre sessant'anni e raduna anche paesi che con il nord atlantico hanno poco o nulla a che vedere: Italia, Turchia, perfino Germania. Per gli europei infatti la sigla Nato e la relativa organizzazione militare che costituisce il nerbo dell'alleanza non è altro che la forza armata americana opportunamente travestita con una mezza divisa europea.

L'Europa non ha una forza di difesa comune e le singole difese nazionali hanno tutt'al più una potenzialità locale. Quindi, lo ripeto, la Nato è sempre stata vista dall'opinione pubblica europea e anche americana come un "travestito": si dice nord-atlantico ma si intende Stati Uniti d'America. Però da qualche tempo la situazione è cambiata, soprattutto negli ultimi due anni, da quando alla Casa Bianca c'è Barack Obama. Gli Usa sono meno interessati a mantenere il ruolo di gendarme mondiale, anzi vogliono abbandonarlo perché, con l'emergere di Paesi che sono veri e propri continenti come Cina e India, quel ruolo è diventato insostenibile.

Le guerre hanno cambiato natura: non sono scomparse ma non sono più globali. La deterrenza nucleare non è più in grado di fermarle come fu ai tempi della guerra fredda tra Usa e Urss. Perciò il gendarme mondiale non esiste più. Esistono ormai gendarmi locali, poliziotti di quartiere. La Russia è uno di quelli, la Francia, la Turchia, la Siria, l'Iran, altri. C'è una grande quantità di poliziotti di quartiere nel mondo e ci sono anche reti che coordinano la loro azione. La Nato è una di quelle ma gli europei ancora non se ne sono resi conto; continuano a pensare che Nato significhi Usa. Non è più così e la guerra di Libia ha reso palese questa trasformazione.

Gli Stati Uniti seguono quella guerra da lontano ma ne hanno delegato l'esecuzione a due poliziotti di quartiere: la Francia e la Gran Bretagna. In sott'ordine anche l'Italia, soprattutto a causa della nostra posizione geografica. Ci sono però alcune vistose contraddizioni in questo coordinamento di ruoli. I tre poliziotti di quartiere incaricati di seguire le direttive Nato hanno obiettivi e interessi diversi. L'Unione europea, che dovrebbe parlare con una sola voce, è tutt'ora inesistente per quanto riguarda la politica estera, la difesa e la politica dell'immigrazione. Quindi ogni paese membro dell'Ue in queste materie fa da sé e non è affatto vero, almeno in questo caso, che chi fa da sé fa per tre. Questa è la vera e sola ragione per la quale Gheddafi resiste dopo due mesi di guerra. In realtà il rais libico è in guerra contro una squadra aerea di una trentina di apparecchi. E' vero che dominano incontrastatamente i cieli libici ma poco possono fare senza fanterie che si muovano a terra. I cosiddetti ribelli non sono un esercito combattente, vanno bene per dimostrazioni di piazza ma dal punto di vista militare non hanno alcun peso. Perciò Gheddafi resiste mentre la Nato se la cava con un paio di "raid" al giorno in un paese dove i trasporti contano poco, le città sono al massimo cinque e il deserto si estende sui nove decimi del territorio.

Questa situazione rischia d'andare avanti ancora per parecchi mesi. In Italia poi, a differenza degli altri paesi europei, le forze politiche sono divise sulla questione libica e l'opinione pubblica è in grande maggioranza contraria a una "guerra umanitaria" che ha notevole peso sui flussi di immigrazione. La nostra opinione pubblica è un vero mistero. L'uomo che riscuote i maggiori consensi è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. In occasione dell'evento dei 150 anni dalla nascita dello Stato unitario l'opinione pubblica ha riscoperto il Risorgimento. Però se ne infischia della Nato e non tiene in alcun conto la linea di Napolitano su quel tema. Quanto agli immigrati da distribuire equamente in tutte le regioni, è un tema che mette in soffitta lo stato unitario. Strano paese. Si chiama Italia ma sembra anch'esso un "travestito". Sotto il vestito che cosa c'è?

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che comunisti, quei giudici Usa
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:16:16 am
L'opinione

Che comunisti, quei giudici Usa

di Eugenio Scalfari

La procura di New York ha arrestato uno degli uomini più potenti del mondo. Da noi subito direbbero: hanno rovistato nelle sue lenzuola e nella sua vita privata! Senza testimoni! Magistrati eversivi! Però, per loro fortuna, negli Usa non hanno Ghedini e la Santanchè

(18 maggio 2011)

La Procura di New York ha fatto arrestare nell'aereo dell'Air France che stava per decollare da New York con destinazione Parigi uno degli uomini più potenti del mondo: Dominique Strauss-Kahn direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, favorito competitore alla presidenza della Francia nelle elezioni che avverranno l'anno prossimo.

Solo le manette gli sono state risparmiate. Rischia vent'anni di reclusione. I suoi sogni di gloria sono crollati. Aveva tentato di violentare una cameriera nell'albergo Sofitel di New York.

Ragazzi, direbbe Crozza! Ma sono matti in quella Procura? Ma chi credono di essere? E quei poliziotti? Bloccano l'aereo e fanno prigioniero un uomo da cui dipende la salvezza o il baratro della Grecia, dell'Irlanda, del Portogallo, dell'Europa, la sopravvivenza dell'euro, la sorte di centinaia di milioni di persone. Rovistano tra le lenzuola di un appartamento, danno immediato seguito alla denuncia di una cameriera.

Non c'erano testimoni, la parola di questa ragazzetta contro quella dell'uomo che sarebbe stato tra pochi mesi il presidente della Repubblica francese! Lesione della vita privata, garantismo alle ortiche, dittatura di magistrati. E se fosse tutto un complotto ordito da Sarkozy o il raptus di un "prosecutor" in preda a una sconsiderata volontà di potenza?

Noi, qui in Italia, lo sappiamo bene. Noi, brutture di questo genere le viviamo da anni. Noi siamo schiacciati dalla dittatura delle Procure dove si annidano veri e propri terroristi che non hanno altro obiettivo fuorché quello di ferire la democrazia, la libertà del popolo sovrano e l'uomo che quel popolo ha liberamente designato a guidarli.

Oh, noi italiani purtroppo possiamo dar lezione al mondo intero su questa cancrena che deturpa il Paese; questo cancro e le sue metastasi, questa persecuzione contro l' uomo più amato, più dolce, più necessario al nostro bene comune, e proprio per questo ha contro di sé una setta di puritani faziosi, tutta la stampa, tutte le televisioni. E come non bastasse, tutte le istituzioni: la magistratura, la Corte Costituzionale, il presidente della Camera e perfino (perfino!) il presidente della Repubblica.

Ci vuole una grande alleanza internazionale per schiacciare la testa di questa piovra che minaccia tutti. Il caso Strauss-Kahn è l'ultimo tassello di un complotto. Lo si capisce chiaramente perché i complottisti si ripetono e si copiano. Il reato che imputano alle vittime che vogliono distruggere è sempre il medesimo: il sesso libero, il libero desiderio, il libero amore. Sono sessuofobici, sono puritani, sono dei sessisti repressi, sono ossessionati dai loro fantasmi.

Ma noi, qui in Italia, non ci siamo fatti mettere sotto i piedi da questa setta di veri criminali che indossano abusivamente la toga e l' ermellino dei giudici. Noi stiamo reagendo e chiamiamo a raccolta le persone per bene, quel poco di giornalisti per bene che ancora resistono, quel poco di magistrati per bene. Abbiamo con noi il popolo. Anzi, noi siamo il popolo. Il popolo sovrano. Il popolo italiano non è più stregato dalle ideologie: la separazione dei poteri, le autorità di controllo, la Costituzione vista come una religione civile, balle, balle inventate per ingabbiare il popolo privandolo dei suoi poteri, riducendolo ancora una volta in servitù.

Il nostro popolo è per fortuna adulto e sa come difendersi anche se la lotta è durissima. Ma la vinceremo. E voi americani, voi francesi, liberatevi anche voi dalle ideologie che ancora vi inceppano. Ripensate criticamente alle vostre rivoluzioni. Credete ancora che vi abbiano liberato dall'assolutismo? Non siate così ingenui. Le vostre rivoluzioni hanno soltanto cambiato un assolutismo con un altro, un'ideologia con un'altra.

Il sesso, sempre il sesso è stato il pretesto. Le amanti del Re Sole, le amanti del suo successore, il peccato. E oggi, Dominique Strauss-Kahn ridotto in ceppi perché aveva sfiorato il culo di una cameriera!

Ragazzi! Siamo matti! Se volete, a voi americani e a voi francesi, vi prestiamo la Santanché. Statela a sentire.

Quanto a Dominique, l'avvocato Ghedini è pronto ad assumerne la difesa. Nel suo interesse gli consigliamo di chiamarlo subito.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'estremista Golia e il David moderato
Inserito da: Admin - Maggio 23, 2011, 04:53:27 pm
L'EDITORIALE

L'estremista Golia e il David moderato

di EUGENIO SCALFARI

L'INVASIONE televisiva di Berlusconi è un fatto vergognoso che si ripresenta ad ogni campagna elettorale, alla faccia della "par condicio" dietro la quale si riparano i berluschini. La novità di questa volta consiste - per quanto possiamo cogliere dalle prime reazioni del pubblico - nell'inefficacia del messaggio berlusconiano: è passato come acqua sul vetro. Se quello è lo strumento per rimontare la sconfitta subita dal centrodestra nel primo turno elettorale, tutto porta a ritenere che il risultato dei ballottaggi confermerà che il "tappo è saltato" e la fascinazione mediatica del Cavaliere di Arcore è ormai diventata una logora liturgia che non riesce più a sedurre i fedeli ormai in libera uscita.

La domanda che a questo punto si pone riguarda la Lega, poiché la sconfitta del Pdl al primo turno elettorale ha scompaginato il leghismo altrettanto se non addirittura di più. Come si spiega questo fenomeno del tutto inatteso? Dipende da un parziale disimpegno di Bossi e dei suoi colonnelli? Da errori commessi soprattutto nella politica dell'immigrazione? Oppure anche nella Lega come nel Pdl, da una crisi del carisma del leader? Anche per la Lega il tappo di bottiglia è saltato?
Le risposte a queste domande sono di importanza capitale per l'intera situazione politica. La Lega è infatti un partito territoriale che detiene però la "golden share" del governo nazionale. Aveva puntato su un travaso di voti in tutto il Nord dal Pdl a proprio favore.

Non solo quel travaso non è avvenuto, ma la Lega ha perso massicciamente voti. Perché? I dati sui flussi segnalano due fenomeni molto diversi tra loro. I leghisti "puri e duri" sono profondamente scontenti della politica "moderata" di Bossi e di Maroni sull'immigrazione; vorrebbero che gli immigrati, clandestini o profughi, siano ributtati a mare, non siano fatti sbarcare, siano comunque respinti subito dopo lo sbarco, non gli vengano dati permessi di soggiorno sia pure transitori. Si collocano cioè molto più a destra dello stato maggiore leghista e questo spiega il mutamento tattico della leadership in senso massimalista per riguadagnare i voti perduti nel primo turno elettorale.

Ma si è verificato anche un deflusso di voti di chi ha negli anni scorsi votato per la Lega senza essere leghista nel senso proprio del termine. Questo secondo tipo di deflusso si spiega con motivazioni del tutto opposte alla precedente: un richiamo al patriottismo nazionale patrocinato dal Presidente della Repubblica, un crescente disagio per i comportamenti di Berlusconi nei confronti della magistratura e dello stesso Capo dello Stato, un giudizio severo su Letizia Moratti; infine e soprattutto una critica forte della politica economica del governo e quindi della Lega che ne fa parte determinante.

Questo secondo tipo di deflusso non è facilmente riassorbibile e rischia addirittura di aumentare di fronte al massimalismo filo-berlusconiano messo in scena da Bossi in queste ultime ore. Due tappi di bottiglia stanno saltando contemporaneamente?

* * *

Molti osservatori, di quelli cosiddetti "distaccati" (ma sono mai esistiti osservatori distaccati? Non è anche il distacco un'ideologia?) hanno fissato la loro lente sul Partito democratico del quale segnalano una deriva a sinistra. E la deprecano. Dio sa perché.
Ma i distaccati hanno la risposta pronta: il Pd ha dimenticato i moderati? Li lascia tra le braccia accoglienti di Berlusconi? Bersani abbandona Casini per inseguire Vendola e Di Pietro? Pisapia sarà sicuramente un galantuomo, De Magistris assai meno, ma tutti e due sono a sinistra; i moderati sono un'altra cosa, la pancia dell'Italia è moderata. E allora dove andrà a sbattere Bersani?

Sono domande insidiose, dettate dal senso comune che non sempre coincide con il buonsenso. Si potrebbe rispondere con altre domande: Berlusconi è un moderato? La Santanché è moderata? Sallusti e Belpietro sono moderati? Stracquadanio è moderato? E la Brambilla? E la Gelmini? Non si tratta di personaggi di periferia, fanno parte dell'"inner circle" del presidente del Consiglio. Se questi sono i moderati, si salvi chi può.

E tuttavia non è questa la risposta giusta da dare. Il tema proposto dagli osservatori distaccati merita un approfondimento oggettivo e una risposta adeguata.

* * *

Le vicende dell'economia globale e della crisi sociale che ne è stata conseguenza hanno determinato negli ultimi mesi fenomeni di portata mondiale che anche l'Italia ha inevitabilmente registrato. Il nostro governo riteneva, dopo averne pervicacemente negato l'esistenza fin quando ha potuto, che la crisi fosse ormai alle nostre spalle. Le Cassandre (tra le quali noi in prima fila) avvertivano invece che il peggio non era ancora arrivato. Infatti.

Proprio ieri mattina la grande agenzia di rating "Standard & Poor's" ha declassato il giudizio sul "trend" dell'economia italiana da "stabile" a "negativo". Non c'è alcun segnale di crescita. Non c'è uno straccio di riforma capace di riavviare lo sviluppo. L'Europa chiede una manovra per rafforzare i conti pubblici e avviare una consistente diminuzione del debito. Tremonti la valuta sui 14 miliardi da effettuare per due anni di seguito; la Banca d'Italia ha parlato di 40, l'opposizione la valuta in 60.
Dovrebbe servire a portare il bilancio in pareggio e a ridurre sia il deficit sia il livello della spesa corrente la quale, dal canto suo, dovrebbe esser ridotta di due punti di Pil all'anno nel prossimo triennio.

Una cura da cavallo, in presenza di un "trend" al rialzo dei tassi d'interesse in tutto il mondo a cominciare dall'Europa.

In queste condizioni i giovani che hanno visto confiscato il loro futuro stanno insorgendo in tutti i paesi della costa mediterranea e mediorientale.
Cominciò la Tunisia, seguirono l'Egitto, gli Emirati, lo Yemen, la Libia, la Siria, perfino l'Iran. La settimana scorsa il vento della rivolta è sbarcato in Spagna e da lì riecheggia anche da noi.

Questi giovani non hanno futuro. Le classi dirigenti gliel'hanno confiscato e loro vogliono riappropriarsene. È molto difficile fare spallucce ad una richiesta così corale, che non ha per ora alcuna canalizzazione politica, anzi si colora di antipolitica. Si tratta d'una spinta sociale che però ha trovato uno sponsor fin qui imprevisto ma estremamente autorevole: il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. "Non sappiamo quali ne saranno gli sbocchi" ha detto tre giorni fa dal Dipartimento di Stato "ma sappiamo che questi giovani chiedono futuro e libertà e l'America democratica deve appoggiarli".

E l'Europa? E l'Italia?

* * *
Perciò la risposta che oggettivamente si deve dare agli osservatori distaccati è questa: le forze politiche democratiche, a cominciare dal Pd che è il maggior partito d'opposizione, non possono che stare sulla linea di Barack Obama, il che significa prendere atto che l'asse sociale della politica italiana si è spostato a sinistra. Questo è il senso del risveglio registrato nel primo turno elettorale: uno spostamento sociale a sinistra. A cominciare dai moderati. Le donne e i giovani in particolare. Chiedono futuro e libertà, pane e libertà, diritti e libertà, lavoro e libertà, civismo e libertà. Non sono anarchici. Non sono estremisti. Non sono "contro" ma sono "per".

Il Partito democratico - se vogliamo parlare di una formazione politica che è coinvolta direttamente in queste vicende - sembra aver compreso questi nuovi elementi di realtà e sembra aver deciso, finalmente compatto, in questa decisione, di gettare tutto il peso di cui dispone in questa battaglia.

Rileggete quelle parole sopracitate che terminano sempre con la parola libertà alla quale accoppiano le parole: futuro, pane, lavoro, diritti, civismo. Questo è il programma, questo il percorso, questo dovrebbe essere il patto generazionale che coinvolga le forze sindacali, l'imprenditoria, gli artigiani, le partite Iva, gli agricoltori, gli studenti, i docenti, l'impiego pubblico e privato. Questo è il nuovo blocco sociale.
I moderati innovatori e liberali sono al centro di questo blocco. I moderati conservatori sono contro e per la forza delle cose sono diventati estremisti.

Sapremo domenica prossima chi avrà avuto la meglio questa volta, ma la strada è ormai disegnata.

* * *
Dedico il finale a un problema specifico del quale tuttavia non può sfuggire l'importanza. Si tratta di colmare il vuoto che Mario Draghi lascerà nel prossimo novembre quando assumerà la sua nuova carica di presidente della Banca centrale europea. Chi sarà il suo successore alla Banca d'Italia? L'importanza delle Banche centrali nazionali è molto diminuita in questi ultimi dieci anni. L'intera politica monetaria è passata nelle mani della Bce e con la politica monetaria anche la fissazione dei tassi d'interesse, il tasso di cambio dell'euro e la vigilanza sul sistema bancario europeo nel suo complesso. Alle Banche centrali nazionali (i cui governatori fanno parte del Consiglio della Bce) è rimasta la vigilanza sulle banche del proprio paese sotto la supervisione della Bce e soprattutto la formazione dei quadri e lo studio dei dati strutturali e congiunturali del paese in questione.
Monitoraggio e pilotaggio intellettuale, in costante raccordo con le autorità nazionali preposte alla politica del bilancio, cioè con i rispettivi ministri del Tesoro e delle Finanze.

Non ripeteremo qui ciò che è stato ampiamente scritto nei giorni scorsi a proposito di Mario Draghi. La sua presenza alla Banca d'Italia e la sua presidenza d'un organismo internazionale che ha studiato e messo in opera alcune riforme essenziali per la stabilità dei mercati, sono state il "pedigree" sulla base del quale è stato scelto a guidare la Bce. La nazionalità italiana non gli ha giocato né contro né a favore, a quei livelli la sola nazionalità che conta è quella europea. Avrà un compito delicatissimo in questa fase di crisi perdurante, tra spinte all'inflazione e pericoli di deflazione, acquisti su un mercato aperto di titoli di Stato dei paesi europei, debiti sovrani al limite del "default", politiche tributarie ancora fortemente differenziate e tassi di sviluppo altrettanto divergenti tra i vari paesi.

C'è una sola via ed un solo sovrastante obiettivo da perseguire per chi guida la Bce - oltre alle capacità operative da mettere in campo: accrescere il potere delle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali. Draghi ne è perfettamente consapevole e crediamo di sapere che opererà in quella direzione.

Il suo successore a Roma non ha comunque un ruolo secondario. Anzitutto partecipa con i colleghi degli altri paesi dell'euro-gruppo, alle decisioni della Bce. In Italia è il principale interlocutore del ministro dell'Economia.

Le due istituzioni (ministro e governatore) hanno poteri e ruoli autonomi ma convergenti. Non sono subordinati l'uno all'altro mai si muovono comunque all'interno di un sistema che non sopporterebbe scosse violente e comportamenti difformi. Autonomia all'interno del sistema: è un obiettivo indispensabile anche se non facile da raggiungere.

La scelta del nuovo governatore, che dura in carica sei anni, è dunque delicata ed avviene sulla base di una concertazione tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, con un decreto da entrambi firmato.

La tradizione consolidata vorrebbe che il governatore sia scelto all'interno dell'Istituto. Luigi Einaudi veniva da fuori, ma fu il primo governatore del dopoguerra ed era ovvio che la scelta non potesse in quel caso che essere esterna. Menichella, Baffi, Ciampi, Fazio, provengono tutti dall'interno dell'Istituto e di fatto anche Carli perché quando fu nominato direttore generale e poi governatore proveniva dalla presidenza dell'Ufficio dei cambi che era posseduto interamente dalla Banca d'Italia.
La sola vera eccezione è stata proprio quella di Mario Draghi.

La tradizione vorrebbe dunque che si scelga all'interno tra i membri del Direttorio, dove non mancano personalità di livello europeo.
Per una scelta al di fuori i nomi adeguati non mancano. Spetta comunque a Napolitano e a Berlusconi vagliare le diverse personalità e decidere di conseguenza.

Auguri a loro e al prescelto.

(22 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/22/news/


Titolo: EUGENIO SCALFARI.E se domani l'Italia fosse stanca di te...
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2011, 05:46:08 pm
L'EDITORIALE

E se domani l'Italia fosse stanca di te...

di EUGENIO SCALFARI

PER LA seconda volta in quindici giorni queste mie riflessioni sulla situazione politica arrivano ai lettori ad urne aperte per le elezioni amministrative nelle Province e nei Comuni in ballottaggio.
Si vota oggi e si voterà ancora domani, lunedì. Avremo i risultati domani pomeriggio.

Molti osservatori hanno definito assai negativamente la campagna elettorale.
Hanno usato aggettivi di sconsolato pessimismo: drammatica, aggressiva, confusa, disperante, calcando la mano sul crescente distacco tra la gente e la politica, sull'indifferenza dei giovani, sulle astensioni che aumentano. La sentenza definitiva è stata quella di mettere sullo stesso piano la destra e la sinistra; eguali i difetti, eguale l'impotenza, eguali le responsabilità.

Questo quadro a me sembra completamente sbagliato, costruito su una narrazione di comodo. Gli aggettivi pessimistici si attagliano bene alla coalizione guidata da Berlusconi e da Bossi, ma non ai candidati che la fronteggiano e alle forze politiche che li sostengono. Qui non c'è indifferenza ma passione, non ci sono astensioni di massa ma partecipazione, non vi sono lotte intestine ma compattezza e obiettivi condivisi, non c'è confusione ma lucida diagnosi dei vuoti da colmare e dei vizi da estirpare.
Questo modo di descrivere la situazione non deriva da opinioni soggettive ma poggia su dati di fatto e sarà probabilmente confermato dai risultati dei ballottaggi.

Di Silvio Berlusconi, protagonista per sua scelta della campagna elettorale, si può
dire solo questo: nell'ultimo mese ha cercato, ma invano, di identificarsi con il Caimano; negli ultimi giorni ha dato di sé un'immagine patetica: ministeri da spostare a Milano, taglio di tasse, sanatorie di abusivismi edilizi, messa in atto immediata d'un colossale programma di infrastrutture, miracolosi interventi sui "rifiuti" napoletani. Promesse lanciate al vento elettorale già nel 1994, rinnovate nel 2001, ancora nel 2005 e 2006, mai realizzate e neppure avviate.
È regolarmente avvenuto l'esatto contrario: la pressione fiscale è bloccata da dieci anni al 43 per cento e tende ad aumentare, il debito pubblico cresce, le infrastrutture continuano ad essere una presenza fantasmatica, la Confindustria ha certificato nell'assemblea di giovedì scorso che gli investimenti in opere pubbliche sono scesi dai 38 miliardi del 2009 ai 32 del 2010 e ai 27 del 2011; il rapporto investimenti-Pil era del 2,5 per cento tre anni fa ed è oggi dell'1,6 malgrado che nel frattempo anche il Pil si trovi in pessime condizioni.
La riforma fiscale si farà nel 2014 e nessuno sa ancora se alleggerirà tasse e contributi o ne aggraverà il peso. Di certo c'è soltanto che nel frattempo sarà necessaria una manovra che il Tesoro stima di 40 miliardi, la Corte dei Conti 46, l'opposizione 60. I contribuenti sono avvertiti.
Quanto al Sud dire che la finanza dei Comuni e delle Regioni si trovi in pessime acque è una forma morbida per descrivere la realtà. L'evasione merita un discorso a parte: ogni anno gli sforzi meritori della Guardia di Finanza scoprono una ventina di miliardi ma contemporaneamente lo stock complessivo dei tributi e dei contributi evasi non solo non diminuisce ma aumenta: si chiude un buco e se ne apre immediatamente uno nuovo ancora più grande.

Promesse patetiche dunque, alle quali gli elettori non credono più anche perché alle cifre fornite dall'Istat, dalle agenzie di rating, dalla Banca d'Italia e dallo stesso Tesoro, si affiancano le esperienze personali degli italiani; la crisi morde sempre di più, i giovani disoccupati e inoccupati sono ormai una marea, i consumi scendono, gli investimenti sono vicini allo zero, la nostra competitività è agli ultimi posti della graduatoria internazionale.
Il tocco finale l'abbiamo visto nel G8 di venerdì, quando il nostro Caimano azzoppato ha pietito l'attenzione di Obama e la sua solidarietà personale per il fatto d'esser vittima dei giudici di sinistra. Il tutto pochi minuti dopo il discorso del presidente americano che aveva inneggiato ai valori dell'Occidente e alla democrazia fondata sulla divisione dei poteri e l'indipendenza della magistratura.
Obama ha finto di non aver udito, la Merkel e Sarkozy si sono guardati stupefatti e ironici verso una pulcinellata di proporzioni mai viste prima sulla bocca di un capo di governo con il cerone e il parrucchino.
Ezio Mauro ha scritto venerdì che l'ex Caimano deve solo scomparire. Il voto di oggi e di domani può dare un contributo decisivo a questa che ormai non è più soltanto una priorità ma una necessità di decenza nazionale.

* * *

Il Pdl sta attraversando una fase di implosione sempre più evidente e avanzata, ma la Lega non è da meno. Anche lì i colonnelli disputano tra loro sempre più scopertamente; quanto a Bossi, sembra anche lui alquanto confuso. Sul trasferimento dei ministeri da Roma a Milano si è impuntato e non si capisce perché, quale vantaggio rappresenti per la capitale lombarda ospitare due centri del governo nazionale la cui produttività dislocata lontano dalla struttura governativa sarebbe molto più bassa e enormemente più costosa.
L'alternativa indicata dai leghisti è lo sciopero fiscale padano: o arrivano i ministeri o non pagheremo le tasse. Non si tratta d'un cittadino qualunque a dire enormità di questo genere ma del ministro della Repubblica Calderoli. Dovrebbe dimettersi un minuto dopo aver pronunciato quelle parole, e infatti è questo che chiede l'opposizione; ma dovrebbe essere il capo del governo a imporlo. Il quale però dice a sua volta tali altre enormità da aver perso titolo a pretendere alcunché di sensato.
Lo spettacolo è miserevole ed è tipico della fine d'un regno, ma può durare a lungo e sarebbe - questa sì - una tragedia per il Paese. Qualcuno pensa che una crisi di governo indebolirebbe la tenuta dell'economia? E pensa che il protrarsi di questo impudico galleggiamento senza più timoniere né timone sia meglio? Che sia meglio galleggiare sulla "nave dei folli" o sulla "zattera di Medusa" mentre le acque sono sempre più torbide e agitate?
Quali che siano i risultati dei ballottaggi a Milano, a Napoli e in tanti altri centri importanti, una cosa però a me sembra certa: Berlusconi non se ne andrà. Se si dimette sa bene di aver chiuso con la politica e con il potere, perciò resterà tra Chigi e Grazioli aggrappato a quelle poltrone e a quei tendaggi come le dive del cinema muto a Sunset Boulevard.
La maggioranza di Scilipoti lo tiene in vita sotto ricatto. La Lega potrebbe staccargli la spina, ma Bossi non se la sente. Dovrebbe navigare in mare aperto e non ne ha nessuna voglia. È invecchiato anche lui, preferisce restare in darsena. A meno che il popolo leghista non mandi segnali forti e anche dentro la Lega si manifesti un'implosione della quale si avvertono già alcuni segnali. Il voto di Milano ci aiuterà a capire anche questo.
E l'opposizione? Che cosa farà l'opposizione in caso di vittoria dei candidati da lei appoggiati?

* * *

Non credo che l'opposizione reclamerà le dimissioni del governo. Sarebbe comunque una richiesta respinta dai passeggeri della zattera galleggiante.
L'opposizione immagino che chiederà al governo di governare. Non a parole ma con fatti, disegni di legge, proposte concrete sui grandi temi del Paese, economici ma non soltanto.
Questa richiesta tuttavia resterebbe anch'essa generica se l'opposizione non prendesse l'iniziativa d'esser lei a formulare leggi e concrete proposte su quei temi. Possibilmente pochi, ma decisivi: il fisco, i giovani, l'energia, le infrastrutture, l'immigrazione, la legge elettorale. Scopra le sue carte il Partito democratico, verifichi se su questi temi c'è accordo con le altre formazioni riformiste (Vendola, Di Pietro, ecologisti, socialisti, radicali) e con il Terzo Polo. E sfidi la maggioranza.
Probabilmente su questo terreno e su questa sfida la maggioranza si sfalderà. Penso a persone come Pisanu che sono da tempo sulla soglia dell'addio al Pdl; ma anche a molti giovani parlamentari di quel partito per i quali cresce il disagio e la voglia di imboccare un processo politico diverso e più consono alla serietà dei tempi che stiamo vivendo.
Se la maggioranza imploderà, se ne potrà formare un'altra che su quei temi impegni gli ultimi due anni di legislatura, oppure - se questa fosse la scelta delle Camere e del Capo dello Stato - si arriverà alle elezioni anticipate dalle quali la nuova maggioranza può emergere confortata dal voto.
Il referendum del 12 e 13 giugno, specie se la Cassazione manterrà i quesiti riguardanti l'energia nucleare, potrebbe essere un altro segnale che confermi la svolta dei ballottaggi amministrativi.
L'attualità ci propone anche un altro tema di grande rilievo: la crisi dei debiti sovrani, l'euro, la successione a Draghi nella Banca d'Italia. Ne parleremo subito dopo la relazione che il governatore leggerà all'assemblea dell'Istituto la mattina del prossimo 31 maggio.

(29 maggio 2011) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it/politica/2011/05/29/news/scalfari


Titolo: Scalfari si racconta, tra filosofia e rimpianto per gli amici scomparsi
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2011, 05:49:47 pm
L'INCONTRO

Scalfari si racconta, tra filosofia e rimpianto per gli amici scomparsi

Il fondatore di Repubblica  a Siena ospite della Festa del documentario con Zingaretti e Asor Rosa.
Il ricordo di Calvino che proprio nella città toscana morì e le domande sulla vita che hanno acceso la passione del suo percorso intellettuale

dal nostro inviato SILVIA FUMAROLA


SIENA - Il rimpianto per gli amici che non ci sono più, le riflessioni sulla mancanza di un lessico per scrivere di filosofia, la curiosità intellettuale che guida un percorso di vita, lungo e ricco di incontri. Eugenio Scalfari si racconta alla Festa del documentario di Siena, ospite di Luca Zingaretti che l'ha invitato per parlare del suo ultimo libro "Scuote l'anima mia Eros" insieme ad Alberto Asor Rosa. La sala del Complesso di Santa Maria della Scala è stracolma, l'applauso che l'accoglie degno di una rockstar. "Ho saputo solo stamattina racconta il fondatore di Repubblica - che saremmo venuti qui, in questo luogo che una volta era l'ospedale della città e dove sono entrato - per la prima e ultima volta - quando Italo Calvino stava agonizzando. Ricordo che insieme a Bernardo Valli ci fermammo nella sala d'attesa, non ci fecero entrare, Italo morì due o tre giorni dopo. Non nascondo che questa cosa mi tocca da vicino".

Scalfari, che ha dedicato il saggio all'amico degli anni dell'adolescenza, per parlare delle differenze caratteriali  -  "lui era un saturnino che sognava di essere mercuriale, io un mercuriale che sognava di essere un saturnino" - riparte dai ricordi del liceo Cassini di Sanremo, che frequentava insieme al futuro scrittore. "Italo era molto introverso, però quando si trovava a suo agio aveva una vena d'ironia, uno spirito allegro. Ci facemmo una foto insieme ad altri amici su una panchina del lungomare di Sanremo: eravamo in sette.
Cinque sono morti, ho telefonato all'amico che è rimasto di quel gruppo, Gianni Pigati, e le nostre mogli ci hanno fatto una foto ricordo su quella stessa panchina". Scalfari ricostruisce le vite parallele: dopo il liceo Calvino all'università a  Torino, lui a Roma,  ancora insieme per le vacanze. "Poi il sodalizio s'interrompe, ma aveva avviato una crescita: il desiderio di capire chi eravamo, dove andavamo e da dove venivamo. Attorno a questa domanda è nata la filosofia del pianeta". Quando fonda "Repubblica" Calvino scrive sul "Corriere della sera". "Non me la sono sentita di chiamarlo, il giornale appena nato vendeva un quinto. Quando le vendite salirono andai a Parigi a incontrarlo: il tuo vero pubblico sono i lettori di "Repubblica", gli spiegai. Mi disse che si stava trasferendo a Roma, e arrivò da noi".  Nel libro, che, come osserva Asor Rosa, è "la terza tappa di un viaggio", Scalfari parla anche dell'istinto di sopravvivenza. "Coincide con la vita. Come si manifesta alla nostra mente? Con l'amore per sé e per gli altri, un po' di egoismo è sano, ma troppo amore per sé... diventa egolatria, che caratterizza certi personaggi. E noi speriamo che lunedì...", dice riferendosi ai ballottaggi. Non fa in tempo a finire la frase che la platea applaude a lungo, entusiasta, un applauso che sembra non finire più, mentre lui sorride ironico: "Ecco qua, finisce sempre così".

Ma lo Scalfari politico, in questo incontro, lascia spazio all'intellettuale che s'interroga sulla ricerca di uno stile, sul modo di scrivere di filosofia "perché molti critici dicono che faccio bricolage tra autobiografia e considerazioni filosofiche. Dopo Nietzsche nessuno ha più potuto scrivere decentemente di filosofia, non a caso per poter esprimere la sua concezioni di filosofia, è costretto a inventare un personaggio, Zarathustra. Quando parla Cacciari è un uomo di passione e di pensiero, ma quando scrive, scrive in cinese per me che non capisco il cinese". Luca Zingaretti gli chiede quanto l'eros, la passione, abbia influito nella sua vita. "Questo libro è anche un'autobiografia sentimentale" risponde Scalfari: "Pochi giorni fa sono stato invitato alla Società psicanalitica italiana per parlare di Freud. Ho spiegato che non ho mai fatto analisi, ma autoanalisi.  Conosco le riserve che hanno gli analisti:  nell'autoanalisi la mente è predisposta a perdonare. Poi ho spiegato che Eros lo sento con una tonalità paternale. Ho avuto tanti tipi di amore: per le donne, per un progetto. Il lavoro è stato un amore: ho scritto che ci si sente soli nel potere ma a me è sempre piaciuto esercitare il potere in compagnia. Al giornale non mi sono mai sentito solo: c'erano i redattori, gli impiegati, i tipografi. Uscivo la notte e stavo bene, non sentivo la stanchezza. Ero felice".

(28 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/05/28/news/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Bankitalia alla guerra d'indipendenza
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2011, 04:56:18 pm
IL COMMENTO

Bankitalia alla guerra d'indipendenza

di EUGENIO SCALFARI


C'È STATO un momento particolarmente significativo dell'Assemblea annuale della Banca d'Italia dell'altro ieri: l'ingresso di Carlo Azeglio Ciampi accompagnato da Mario Draghi al posto che gli era stato assegnato al centro della prima fila, proprio di fronte al leggìo dal quale il governatore ha poi letto le sue considerazioni sull'andamento dell'economia e della finanza nel mondo e nel nostro Paese. Draghi ha ricordato con giusta enfasi il ruolo di Ciampi nel risanamento dell'economia italiana quando guidò per 13 anni la Banca centrale e poi da presidente del Consiglio, da ministro del Tesoro con Prodi e ancora da Presidente della Repubblica. L'Assemblea ha accolto quella rievocazione con commossa partecipazione concludendola con un applauso diventato un'ovazione.

Ricordo quest'episodio perché non si è trattato d'un fatto di cronaca marginale ma d'un aspetto significativo che ha dato il tono all'intera mattinata: un uomo che ha servito il Paese in ruoli sempre più prestigiosi tornava a casa per salutare il suo successore nel momento in cui Draghi dava il suo addio alla Banca per andare alla guida della Bce a Francoforte.

Dai tempi di Menichella ad oggi ne ho viste molte di quelle assemblee ma questa è la stata più intensa, emotivamente e politicamente, e tutti i partecipanti, dai membri del Consiglio generale dell'Istituto al folto gruppo d'imprenditori, alle alte cariche del Parlamento e della politica, ai giornalisti, ne sono stati pienamente consapevoli.

Tanti eventi aleggiavano su quel salone gremito: antiche memorie, antichi volti, fatti recenti, fatti avvenuti appena poche ore prima, una svolta politica in atto dopo i ballottaggi del 30 maggio. Aleggiava anche il tema della successione a Draghi in un momento delicatissimo dell'economia e della politica italiana. Draghi leggeva le sue considerazioni doppiamente finali; la platea seguiva sul testo che era stato distribuito e alla fine d'ogni pagina lo sfoglio simultaneo segnava il ritmo di quella lettura, ma il pensiero poneva a tutti la stessa domanda: Einaudi, Menichella, Carli, Baffi, Ciampi, Fazio, Draghi. Chi verrà dopo? Sarà professionalmente all'altezza? Preserverà l'indipendenza che costituisce il requisito fondamentale dell'Istituto? Sarà, come sempre è stata, la suprema tribuna dove parla l'Interesse Generale contrapposto a quelle che Guido Carli chiamò le Arciconfraternite del potere, le lobbies, le corporazioni, gli appetiti dei forti, le scorrerie delle clientele che spesso manomettono le casse dello Stato?

Draghi ha concluso amaramente definendo le pagine appena lette come "prediche inutili" prendendo a spunto il titolo che il suo lontano predecessore Luigi Einaudi aveva dato ad una raccolta di suggerimenti indirizzati ai governanti del Paese. Ed ha ricordato: "Nel mio primo intervento da governatore, nel marzo del 2006, notavo come l'economia italiana apparisse insabbiata, ma che i suoi ritardi strutturali non andavano intesi come segni d'un destino inevitabile; potevano essere affrontati dandone conto con chiarezza alla collettività, anche quando le soluzioni fossero avverse agli interessi immediati di segmenti della società. E mi rivolsi a voi con le parole "Tornare alla crescita". Con le stesse parole chiudo queste considerazioni finali".
Prima aveva indicato concretamente i modi per tornare alla crescita e le nostre pagine di ieri ne hanno dato ampio resoconto. Chi le abbia lette vi avrà trovato un vero e proprio programma di governo. Purtroppo (e per fortuna) il suo autore andrà ad occupare una carica assai prestigiosa. Ma il suo programma di governo non sarà certo quello dei nostri attuali governanti. Forse sarà fatto proprio dal suo successore se verrà scelto con il criterio di proseguire le prediche, forse inutili ma sempre più necessarie per uscire dalla palude economica e morale nella quale è affondato l'Interesse Generale.

* * *

La nomina del governatore della Banca d'Italia è un atto complesso. Così diceva Carli. Ai suoi tempi il Consiglio generale dell'Istituto proponeva un candidato al presidente del Consiglio dei ministri che - se d'accordo - lo proponeva al Presidente della Repubblica. Quest'ultimo, se d'accordo, emanava il decreto di nomina controfirmato dal presidente del Consiglio.
Nel 2005 questa legge è stata sostituita da un'altra nella quale il presidente del Consiglio - sentito il Consiglio generale dell'Istituto - propone il nome prescelto al Capo dello Stato che emana, se d'accordo, il decreto che avrà doppia firma.

Nella sostanza il Consiglio dell'Istituto ha perso il potere di proposta. Gli interlocutori con pari poteri restano dunque il Capo dello Stato e il capo del governo. Tra i due deve esserci necessariamente una fase di concertazione informale dopo la quale ha inizio l'iter formale della nomina.

Con questa nuova procedura fu scelto Draghi nel 2006. Era scoppiato da poco lo scandalo dell'Antonveneta e Fazio era sotto processo e aveva dato le dimissioni. Tra Ciampi e Berlusconi ebbe inizio la fase della concertazione informale. Il presidente del Consiglio, accompagnato da Gianni Letta, si recò al Quirinale e propose a Ciampi di nominare l'intero direttorio della Banca oltre al governatore. Ciampi respinse la proposta e a sua volta propose tre nomi: Padoa-Schioppa, Grilli, Draghi. Berlusconi scartò subito Padoa-Schioppa e chiese un giorno di riflessione per scegliere tra gli altri due. La scelta cadde su Draghi ed ebbe inizio la parte finale della procedura che si concluse con la nomina.

Ho ricordato questi fatti dove la procedura - informale e formale - è sostanza. Da questo racconto emerge infatti che i due interlocutori principali hanno i medesimi poteri d'iniziativa. Il Quirinale non ha soltanto potere di veto ma anche di iniziativa; egualmente l'inquilino di Palazzo Chigi. Finché i due non sono d'accordo la nomina non avviene.

Dal 1946 in poi il criterio pressoché ininterrotto della scelta è stato quello della successione dall'interno della Banca. Einaudi fu il fondatore della Banca risorta dopo la sconfitta della guerra. Portò con sé Menichella come direttore generale. Di lì comincia una continuità senza eccezioni. Carli infatti, prima d'esser nominato direttore generale e poi governatore, era stato presidente dell'Ufficio italiano dei cambi, costola della Banca d'Italia. La sola eccezione dall'esterno fu proprio quella di Draghi ma in un certo senso fu anch'essa una rifondazione, avvenuta in occasione dello scandalo dell'Antonveneta. La ragione della scelta dall'interno si è quindi consolidata per preservare scrupolosamente l'indipendenza dell'Istituto e ancor oggi essa appare (l'abbiamo già ricordato) come un requisito essenziale. Draghi ha molto insistito sul valore sostanziale di quel criterio. Il direttore generale della Banca e il suo vice hanno personalità che garantiscono indipendenza e professionalità di prim'ordine, tali da soddisfare i requisiti richiesti. Non sembrerebbe dunque che ci siano problemi. Invece ci sono.

* * *

Il primo riguarda Bini Smaghi, attualmente membro del direttorio della Banca centrale europea. Con l'arrivo di Draghi al vertice di quell'Istituto gli italiani nel direttorio sarebbero due. Nello statuto della Bce non c'è alcuna norma che vieti questa duplice presenza ma Sarkozy, nel dare il suo appoggio alla candidatura di Draghi, chiese ed ottenne da Berlusconi che Bini Smaghi uscisse dalla Bce. L'interessato è disposto a dimettersi ma, a quanto si sa, chiede in contropartita la carica di governatore a via Nazionale.

La richiesta appare eccessiva anche perché provocherebbe con tutta probabilità una serie di dimissioni a catena all'interno del direttorio di via Nazionale. Il caso dunque esiste. Se non sarà risolto in qualche modo, Bini Smaghi potrà restare in Bce e Sarkozy non sarà contento. Pazienza.
Un'altra ipotesi di candidatura è sostenuta da Tremonti in favore dell'attuale direttore generale del Tesoro, Grilli. Il quale ha sicuramente i titoli per accedere a quell'incarico, tranne uno: è il candidato di Tremonti, di cui è fedelissimo collaboratore. Se fosse lui il prescelto, il ministro dell'Economia avrebbe riempito la scacchiera del potere economico di pezzi da lui gestiti e che a loro volta guidano istituzioni di grande importanza: Cassa depositi e prestiti, Banca del Sud, Fondo speciale per operazioni di finanziamento a banche e imprese di importanza strategica, Consob. Con Grilli a via Nazionale, Tremonti avrebbe in mano l'intera scacchiera del potere economico. Non va affatto bene.

Altri nomi che, pur non essendo interni alla Banca, abbiano tuttavia tale biografia e tale prestigio da soddisfare i due requisiti della professionalità e dell'indipendenza? Ce n'è uno indiscusso ed è quello di Mario Monti. Lui ha pubblicamente dichiarato d'esser fuori da questa partita ma non ha avuto finora nessuna chiamata. Forse se la chiamata ci fosse e facesse valere l'interesse generale e nazionale, Monti si sentirebbe costretto ad accettare.

C'è un altro nome apprezzabilissimo che è uscito per sua personale decisione qualche anno fa dalla carica di vicedirettore generale della Banca d'Italia. Si chiama Pierluigi Ciocca. Ho chiesto a Ciampi un suo giudizio su quel nome. Mi ha risposto: "Sarebbe il candidato ideale, ma Berlusconi dirà di no". Il catalogo è questo. Chi deve provvedere, provveda.

(02 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/06/02/news/commento_scalfari-17098696/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Soffia il vento del popolo sovrano
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2011, 04:43:49 pm
EDITORIALE

Soffia il vento del popolo sovrano

di EUGENIO SCALFARI

Venticinquemila persone hanno formato una lunghissima fila a Milano per poter stringere la mano al neo sindaco Giuliano Pisapia nel giorno del suo insediamento a Palazzo Marino. Un fatto simile non era mai accaduto né a Milano né altrove anche perché una fila lunga chilometri non somiglia ad una piazza affollata e urlante di passione e di insiemità. La fila invece è silenziosa e ciascuno sta con se stesso e con i propri pensieri tra i quali domina la decisione di testimoniare che un cambiamento è avvenuto e che il testimone l'ha vissuto con civica partecipazione.

Segnalo questo episodio per rispondere a coloro che subito dopo i ballottaggi del 30 maggio si sono posti la domanda su chi abbia perduto e su chi abbia vinto le elezioni amministrative. La loro sentenza ha avvistato come perdente Silvio Berlusconi e la coalizione da lui guidata, ma non ha trovato alcun vincitore. O meglio, un vincitore secondo loro c'è stato ed è il popolo delle astensioni, schifato dalla politica e dalla casta che accomuna in un unico disprezzo la destra, il centro e la sinistra. Il vincitore sarebbe stato insomma Beppe Grillo e chi la pensa come lui.

Coloro che hanno emesso questo responso non si sono forse accorti che il suddetto comico, subito dopo avere appreso i risultati elettorali, è esploso in una rabbiosa invettiva contro i vincitori manifestando la sua delusione. Dunque il vincitore non era lui.

La verità è che ha vinto lo spirito civico contro chi finora aveva manipolato le istituzioni e le coscienze. Ha vinto a Milano, a Torino, a Napoli, a Bologna, a Cagliari, a Trieste, a Vicenza, a Novara, a Mantova, a Crotone, a Macerata e in tanti altri luoghi e con esso hanno vinto le forze politiche che si sono identificate con quel risveglio delle coscienze e del civismo, hanno lavorato per farlo emergere, si sono offerti come sostegni, strutture organizzative, punti di riferimento politici.

Non è l'antipolitica grillina ad aver vinto ma la Politica una volta tanto con la P maiuscola. Capisco che a molti Soloni da strapazzo questa lettura oggettiva dei fatti non piaccia; capisco che il rabbioso sfogo di Grillo li imbarazzi e ancor più il fatto della presenza di molti grillini che hanno inneggiato a Pisapia in piazza del Duomo, a Fassino in piazza San Carlo e a de Magistris in piazza Plebiscito; ma così sono andate le cose e a questa vittoria della politica dovete rassegnarvi.

* * *

Il primo riscontro di quella vittoria c'è stato appena due giorni dopo nei giardini del Quirinale, all'assemblea della Banca d'Italia, durante la sfilata del 2 giugno ai Fori e poi nella cena di Giorgio Napolitano con i capi di Stato venuti da tutto il mondo per celebrare a Roma i 150 anni dalla nascita dello Stato unitario italiano.

Napolitano non gradisce che lo si descriva come il contraltare politico di Berlusconi e sottolinea la diversa natura della presidenza della Repubblica rispetto alla presidenza del Consiglio. Sono due istituzioni che si muovono su piani diversi, l'inquilino di Palazzo Chigi è uno dei giocatori nel campo della politica mentre l'inquilino del Quirinale ha il compito di far rispettare le regole della partita che si svolge sotto la sua sorveglianza arbitrale.

Accade tuttavia che i due piani confliggano con frequenza crescente per la semplice ragione che Berlusconi ha una concezione autoritaria della democrazia profondamente diversa da quella configurata nella nostra Costituzione. Ma sarebbe tuttavia sbagliato trasformare il Quirinale in un soggetto politico deformandone con ciò la natura e il ruolo.

Resta il fatto che quel ruolo è cresciuto d'importanza e riscuote consenso e fiducia sempre maggiori in proporzione inversa a quanto sta accadendo per il governo e per chi lo guida. Questa non è un'opinione ma una notizia e con le notizie è inutile polemizzare.

* * *

La sconfitta del centrodestra alle elezioni amministrative ha fatto emergere la crisi che da tempo covava all'interno del Pdl ed ha seriamente indebolito il rapporto di alleanza con la Lega.

I referendum del 12 e 13 giugno possono infliggere - a distanza di due settimane - un secondo colpo ancor più micidiale al centrodestra provocandone la definitiva implosione. Siamo ora in attesa della decisione che la Corte costituzionale prenderà martedì prossimo sul quesito che riguarda il referendum sull'energia nucleare dopo la pronuncia della Cassazione che ha giudicato tuttora in piedi la richiesta referendaria confermando la consultazione del 12 giugno prossimo.

Se la pronuncia della Consulta sarà conforme a quella della Cassazione, se i referendum raggiungeranno il quorum "del 50 per cento più uno" e se i "sì" avranno la meglio sui "no" verrebbero cancellati tre aspetti fondamentali della politica di centrodestra attinenti all'energia, all'ecologia e alla giustizia.

Il governo aveva tentato nei giorni scorsi di de-politicizzare l'appuntamento referendario, ma venerdì ha deciso di cambiare rotta opponendosi con un ricorso alla Corte costituzionale alla consultazione referendaria. Ha in tal modo imboccato la stessa strada e ripetuto lo stesso errore che aveva compiuto nelle elezioni amministrative politicizzando al massimo anche quella referendaria.

Esiste tuttavia una profonda differenza tra quei due appuntamenti. In quello amministrativo sono andati alle urne circa 7 milioni di elettori su 13 milioni di aventi diritto. Se i referendum del 12 giugno raggiungeranno il "quorum" saranno nell'ipotesi minima 25 milioni e mezzo di elettori a deporre la loro scheda nelle urne. Si esprimerà cioè il popolo sovrano direttamente, senza dover passare per il filtro dei partiti e delle liste. Il popolo sovrano e il cittadino diretto portatore della sovranità diffusa esprimeranno la loro volontà anzitutto con la partecipazione e poi nel merito con un "sì" o con un "no".

Se questo avverrà, sarà molto difficile per il Pdl continuare ad appellarsi all'autorità che gli deriva da un popolo che gli ha dato torto per la seconda volta nell'arco di un mese. Vorrà dire che il vento è veramente cambiato e che la sola strada da percorrere sarebbe quella d'un governo nuovo di zecca che gestisca gli ultimi due anni di questa legislatura oppure - se quell'ipotesi non si verificasse - lo scioglimento anticipato delle Camere e nuove elezioni.

* * *

Si pone a questo punto la domanda: che cosa accadrebbe se Berlusconi e il suo governo rifiutassero di passare la mano e continuassero pervicacemente a restare appoggiati alle poltrone? Possono farlo?

Teoricamente sì, possono farlo: un governo, a norma della Costituzione, deve dimettersi quando il Parlamento gli vota la sfiducia. Senza questo passaggio rimane in carica. Per fare che cosa? Per governare.

È quello che gli si chiede invano da tre anni. Finora l'ha chiesto l'opposizione ed una parte consistente dell'opinione pubblica, ma ora glielo chiedono anche gli italiani che fin qui l'hanno sostenuto con un consenso che sta smottando ogni giorno di più. Lo chiedono addirittura i suoi più fedeli sostenitori che si sono auto-battezzati "servi liberi e forti". Una definizione singolare e non facile da interpretare, forgiata dal Foglio che fa della libera servitù una sorta di nuova divisa fondata sul paradosso.

Che cosa vogliono questi "pasionari" che hanno liberamente accettato di servire il Cavaliere? Lo scrive per tutti loro Giuliano Ferrara: vogliono che Berlusconi torni ad essere quello che fu nel '94, rinverdisca la sua grinta e il programma di allora, si ripresenti in questa nuova foggia e si riprenda il suo popolo che gli è sfuggito di mano.

Sembra una richiesta difficile quella di rimettere le lancette del tempo indietro di 17 anni per poter riprendere lena e saltare in avanti. Perciò siamo andati a rivisitare con la memoria e la documentazione come era 17 anni fa l'uomo Berlusconi e il suo programma.

Ebbene, i "servi liberi e forti" non chiedono assolutamente niente: il Cavaliere era allora quello che è oggi (a parte la pancia che allora non aveva e i capelli che invece gli ornavano il cranio). Lui era sbruffone, bugiardo e megalomane tal quale è tuttora. Il programma era meno tasse, meno Stato, crescita economica, maggiore reddito, più lavoro, più sicurezza. Ed è ancora quello per la semplice ragione che quel programma non è mai stato attuato.

Cari servi liberi, la vostra richiesta è la più eloquente testimonianza che 17 anni sono stati dissipati. La vostra libera servitù ha soltanto contribuito a creare una palude piena di miasmi nella quale avete impantanato un Paese che ora finalmente ha deciso di alzarsi e camminare senza di voi.

(05 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Aiuto, si prepara Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:47:39 pm


di Eugenio Scalfari

Di giorno fa il ministro dell'Economia, ma di notte studia le mosse che lo rendano «indispensabile» per Palazzo Chigi. Che, secondo i suoi piani, deve cadergli in mano come una pera matura, visto che B. è agli sgoccioli

(03 giugno 2011)

Tempi duri per tutti. Sobrietà? Macché: implosione. Nessuno ha capito che cosa vuole esattamente dire e proprio per questo fa paura. è una parolona che può riservare sorprese tremende ma anche qualche imprevisto beneficio. Perciò bisogna camminare col passo silenzioso e gli occhi che vedono anche al buio come i gatti quando sentono al tempo stesso la minaccia di un pericolo e l'odore del cibo.

Tempi duri per i Responsabili. Se si sciolgono le Camere per loro è finita, neanche un posto in lista perché voti non ne portano e c'è ben altro cui pensare. Perciò più che mai legati a puntellare la maggioranza che si sfalda. Ma puntellarla a gratis non conviene. Perciò pochi, maledetti e subito. Per averli, quei pochi, bisogna tenere viva la forza del ricatto, minacciare l'astensione, adombrare la possibilità di un abbandono e magari cambiare gruppo parlamentare. Dai Responsabili al Misto. Puntellare ma con parsimonia. "Adelante, Pedro, con juicio". Un ossimoro da niente!

Tempi duri anche per i deputati e senatori dell'opposizione. Se Bersani farà quello che ha preannunciato, presentando i progetti, i disegni di legge, prendendo l'iniziativa delle riforme urgenti, assentarsi, presentare libri, chiedere permessi di viaggio o semplicemente distrarsi non sarà più possibile. Franceschini e la Finocchiaro dovranno placcare continuamente deputati e senatori, emanare circolari e lettere a pioggia, stare attaccati ai telefonini, e lo stesso dovranno fare Bocchino e Cesa e Di Pietro e i Verdi e i Socialisti. Tutti in aula e nelle commissioni, legati ai banchi come Vittorio Alfieri. Qui si fa (si rifà) l'Italia o si diventa macchiette.

Tempi duri per Calderoli. Aveva acquisito un certo credito negoziando i decreti federalisti con flessibile abilità, ma dopo le più recenti sortite (i ministeri a Milano o non paghiamo le tasse, il capo dello Stato resti pure a Roma tanto non conta una mazza) il suo credito è svanito. E poi l'abbigliamento! Quei pantaloni verde bandiera su camicia verde pisello con giacca verde marcio e cravatta verde shocking, sono inaccettabili anche dai leghisti. Zaia è disgustato, Cota distoglie lo sguardo, Maroni se la ride.

Tremonti. Per lui non saranno tempi duri ma molto molto difficili. Ci vorrà un lavoro fino, un'opera di gioielleria e d'intarsio, roba che neanche Bulgari. Finora ha giocato sul riserbo e sulle assenze significative, ha promesso progetti di riforme magnificenti allontanandone sempre più la data di realizzazione, ha immaginato riforme a costo zero. Soprattutto ha manifestato disinteresse a salire di ruolo. Nessuna aspirazione a Palazzo Chigi. Lui sta bene dove sta. Legge Aristotele e Agostino. Adesso pare si sia immerso in Tacito e Svetonio perché quando i tempi si fanno duri bisogna prepararsi ai colpi maestri.

Andrà a Chigi se sarà chiamato da tutti. Vuole il plebiscito. Di giorno lavora dietro la scrivania di Quintino Sella, di notte "alla fioca lucerna" studia le mosse che lo rendano indispensabile. Danaro da spendere non c'è e le tasche degli italiani non debbono essere manomesse, ma la benzina e le sigarette, condite con un po' di inflazione è roba accettabile. E poi ci sono le banche. E' il loro momento. Se faranno sistema con il Tesoro, il Tesoro farà sistema con loro.

E' un Paese bancocentrico il nostro, lo è sempre stato e sempre lo sarà e adesso che Draghi finalmente ha tolto il disturbo anche la Banca d'Italia dovrà prendere il suo posto a tavola. Non dovrà avere l'ossessione della vigilanza e non dovrà rompere sempre gli zebedei. E a Francoforte bisognerà far capire a Draghi che non si monti troppo la testa perché i governatori che siedono nel Consiglio della Bce non sono pupetti ma semmai pupari con i quali bisogna fare i conti.

Palazzo Chigi? Deve cadergli in mano come una pera matura. La Lega lo appoggerà, Napolitano non avrà scelta, la sinistra manderà giù il rospo pur di eliminare il Cavaliere. E poi lui, Giulio, proporrà più Stato che mercato. Stato leggero ma presente, presentissimo: Cassa depositi e prestiti, Banca del Sud, banche popolari al seguito. Consob. E Banca d'Italia sottobraccio al Tesoro. Così matura la pera.

La Lega sarà la pietra su cui costruire il nuovo edificio, ma non si facciano illusioni a Pontida: dovranno tirare il carro senza avere in mano le briglie. Nel Paese delle banche il governo è dei banchieri, non di Calderoli e nemmeno di Bossi. Il federalismo lo pagheranno i Comuni. Credevano forse che sarebbe stata una festa? Le riforme costano ma produrranno ricchezza. Fra trent'anni o al massimo quaranta. Vedere per credere. Del resto il sole è stato sempre quello dell'avvenire.


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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quattro motivi (più uno) per votare
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2011, 05:32:47 pm
L COMMENTO

Quattro motivi (più uno) per votare

di EUGENIO SCALFARI

L'anteprima (rispetto al voto referendario di oggi e di domani) si è svolta ad "Annozero" di giovedì scorso. È stata l'ultima apparizione di questo "talk show" televisivo dove, per l'occasione, Michele Santoro aveva convocato i ministri Brunetta e Castelli da un lato e Bersani e Di Pietro dall'altro. Sullo schermo apparivano poi i cancellieri del Tribunale di Milano e i figli dei magistrati uccisi dalle Brigate rosse trent'anni fa, i cui ritratti campeggiano sulla facciata del palazzo di giustizia milanese. C'era anche il figlio dell'avvocato Ambrosoli, ucciso dalla mafia su commissione di Michele Sindona. Travaglio aveva letto il suo intervento sul legittimo impedimento con il racconto di quanto avviene nelle democrazie "serie" nei rapporti tra magistratura e politica e quanto avviene in Italia. Il confronto è devastante. C'era stata anche l'apparizione di Beppe Grillo che - dopo il suo consueto attacco contro la casta politica - incitava i suoi grillini a partecipare al voto referendario.
Dopo l'esordio di Santoro sui suoi rapporti con la Rai, lo spettacolo - perché di grande spettacolo si è trattato - è cominciato con le riprese sulla riunione dei "Servi liberi" promossa da Giuliano Ferrara martedì scorso al cinema Capranica di Roma. Comparivano i volti e si ascoltavano le frasi dei direttori dei giornali berlusconiani e soprattutto di Ferrara, della Santanché e di Alessandra Mussolini.

Non è stato un rilancio ma un funerale del berlusconismo la riunione del Capranica officiata dai suoi più ferventi seguaci. Basta averli ascoltati per arrivare a questa conclusione. Ma alla stessa conclusione si è arrivati seguendo ad "Annozero" il dibattito tra i due ministri e i due oppositori. Brunetta e Castelli sembravano due maschere buffe del teatro napoletano trasportate al Nord. Bersani e Di Pietro hanno avuto facile gioco. Chi avesse avuto dubbi su come è stata ridotta la democrazia italiana dopo 17 anni di berlusconismo non può averne più: quel dibattito è un documento e dopo averlo ascoltato riesce inconcepibile concepire che quei due personaggi siano due ministri della Repubblica.

Fine dell'anteprima. Chi non l'ha vista se ne procuri la registrazione, ne vale la pena.

* * *

Oggi e domani si vota sui quattro quesiti referendari. Si vota "sì" oppure "no" oppure non si vota affatto con l'intenzione di far fallire i referendum.

Bisognerà a tempo debito riformare la legislazione referendaria introducendo il referendum propositivo accanto a quello abrogativo e togliendo il "quorum". Se una legge vigente non piace o se un gruppo consistente di cittadini vuole proporre una legge, il "quorum" non ha senso come non avrebbe senso per le elezioni politiche e amministrative dove infatti non è previsto.

Ma questo riguarda il futuro. Al momento il "quorum" è previsto e chi vuole che vinca il "sì" deve come prima condizione fare quanto può perché sia raggiunto. Chi punta sull'astensione sa che si gioverà dell'astensionismo fisiologico che oscilla da sempre tra il 15 e il 20 per cento. Basterà dunque che l'astensione attiva sia del 35 per cento per vanificare la massa dei "sì". Così avvenne anche per la procreazione assistita.

I "sì" e i "no" che vanno a votare giocano dunque con un braccio legato rischiando di perdere con un 50 contro un 35. Sarà questo il risultato? Noi crediamo e speriamo di no perché crediamo che i quattro quesiti meritino il "sì". Ed anche per gli effetti politici che una vittoria referendaria potrà provocare.

Dopo la sconfitta al primo turno delle amministrative e quella ancor più cocente nei ballottaggi, l'ottenimento del quorum e la vittoria dei sì completerebbe la serie con effetti imprevedibili. Escludo le dimissioni di Berlusconi, ma non escludo l'implosione sia del Pdl sia della Lega. Implosione già in corso in entrambi quei partiti, resa ancor più acuta dalla situazione economica, dalla precarietà dei mercati finanziari, e dalle richieste dell'Europa ai paesi con bassa crescita ed elevato debito pubblico.

* * *

In entrambi questi due dati di fatto - bassa crescita ed elevato debito pubblico - l'Italia è in testa rispetto a tutti gli altri paesi dell'Unione europea, preceduta soltanto dalla Grecia, dal Portogallo e dall'Irlanda. E qui, sulla politica economica e fiscale, campeggia la personalità di Giulio Tremonti. Anzi il problema Tremonti, perché negli ultimi mesi e in particolare dopo la batosta delle amministrative, il ministro dell'Economia è diventato un problema sia per Berlusconi sia per Bossi. Un problema pressoché irrisolvibile.

Sia Berlusconi sia Bossi hanno bisogno, per tener compatti i loro seguaci, di alleviare la pressione fiscale che grava sulle fasce medio-basse e sulle imprese medio-piccole. Tremonti si dichiara disposto a questi alleggerimenti ma li colloca nel 2014. Nel frattempo preannuncia l'esatto contrario: dovrà prelevare dai contribuenti 40 miliardi di denaro fresco per portare in pareggio il deficit e il bilancio. Ha deciso di spalmare questo prelievo su quattro esercizi: 3 miliardi quest'anno, 8 nel 2012 e 15 in ciascuno dei due anni successivi.
La crescita? Aspetterà. Gli sgravi? Aspetteranno oppure concederà qualche briciola tra un anno purché avvenga a costo zero.

Il termine costo zero significa dare con una mano e recuperare con l'altra. Dare in basso e recuperare in alto, esattamente il contrario di quanto desidera il Cavaliere. Il quale tuttavia qualche cosa ha ottenuto: potrà proclamare che entro il prossimo luglio il governo (Tremonti consenziente) approverà la legge di delega fiscale per attuare una riforma orientata all'abbassamento delle tasse.

Vero? No, falso. Tremonti ha accettato la delega fiscale che però procederà di pari passo con la manovra di 40 miliardi e degli sgravi a costo zero e Berlusconi e Bossi hanno dovuto fare buon viso a questa condizione. I decreti delegati procederanno dunque a passo di lumaca a cominciare dal 2012 e non produrranno alcun beneficio sui consumi, sui redditi medio-bassi, sulla condizione dei giovani e del Mezzogiorno. Ma neppure nel Nord. Nessun beneficio, anzi nel Nord semmai qualche onere maggiore.

Il solo beneficio per B. e B. sarà di carattere lessicale: potranno dire e proclamare che si approverà immantinente la delega fiscale per abbassare le tasse sperando che il colto popolo e l'inclita guarnigione siano composti da imbecilli. Questa è la loro speranza. Piuttosto esile. Nemmeno i "Servi liberi" ci crederanno. Ormai la gente vuole fatti e poiché i fatti saranno addirittura di segno contrario la gente sarà sempre più arrabbiata.

* * *

Come si risolve  il rebus della crescita senza abbandonare il rigore? Che significa "costo zero" in linguaggio concreto?

Non è un rebus di impossibile soluzione; basterebbe ridurre equamente le diseguaglianze e stipulare un patto sociale e generazionale; tutelare la sicurezza del lavoro flessibile ma non precario; portare la tassazione delle rendite a livello europeo e detassare i redditi medio-bassi e le imprese medio-piccole.

Passare gradualmente dalla tassazione sul reddito personale a quella sulle cose è una buona filosofia fiscale e Tremonti fa bene a indirizzare la sua riforma su questa strada, ma non è aumentando l'Iva che ci si arriva. L'Iva colpisce i consumi e genera inflazione, mentre i consumi dovrebbero essere rilanciati per poter rilanciare anche gli investimenti.

Per tassare le cose invece delle persone bisogna scegliere la via delle imposte reali completandole con una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota (per molti anni fu dell'1 per cento quando Luigi Einaudi ne scriveva negli anni Venti dell'altro secolo) allo scopo di mantenere la progressività delle imposte che rischierebbe di perdersi passando dalle persone alle cose.

Su questi pilastri si può costruire il patto sociale e generazionale ed in questo quadro il federalismo acquista un senso nazionale e cementa l'unità del Paese combinando efficienza e solidarietà. La condizione affinché questa rinascita avvenga è che abbia termine al più presto l'ubriacatura populista e sia ripristinata la legalità.
L'appuntamento referendario di oggi e domani costituisce una tappa importante di questo cammino. Questa volta non è mancato l'incitamento della Chiesa a partecipare al voto. Nelle ultime ore quell'incitamento esplicito lanciato dal Papa è stato diffuso dalle parrocchie, dalle Comunità e dai monasteri soprattutto femminili. I giovani dal canto loro hanno usato in massa gli strumenti delle tecnologie. C'è stata una mobilitazione intensa e capillare e questo è di per sé motivo di conforto e di speranza. Se il risultato sarà positivo un grande passo avanti sarà stato compiuto.

(12 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La mossa rischiosa di Calderoli
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:09:57 pm
La mossa rischiosa di Calderoli

di Eugenio Scalfari

Una legge per spostare a Milano alcuni ministeri.

La proposta della Lega risponde a varie esigenze: soprattutto segnala un malessere diffuso nel partito.

Che però potrebbe spaccarsi sulla prospettiva di rompere con il Pdl

(17 giugno 2011)

I disegni di legge di iniziativa popolare sono di solito proposti da gruppi di persone che desiderano realizzare specifici obiettivi non considerati prioritari dai partiti. Servono come minimo 50 mila firme e il deposito in Cassazione per il controllo della loro autenticità.

Martedì 8 giugno il ministro leghista Calderoli ha deciso di presentare una legge di iniziativa popolare sul trasferimento a Milano di alcuni ministeri. E' previsto che quella proposta costituisca il piatto forte della riunione della Lega a Pontida il prossimo 19 giugno e proprio da quel raduno abbia inizio la raccolta delle firme, prevista rapida e abbondante.

Ma perché un ministro e un partito ampiamente rappresentato in Parlamento ricorrono alla formula alquanto anomala dell'iniziativa popolare? Qual è lo scopo e quali le possibili conseguenze?
Gli obiettivi sono tre. Il primo è quello di chiamare a raccolta il popolo leghista dopo la batosta delle amministrative, dandogli la sensazione di un rilancio e riaccendendo entusiasmi che sembrano essersi alquanto sopiti. Avere due o tre ministeri a Milano non ha alcun significato concreto, anzi sarebbe fonte di inutili sprechi e gravosi disservizi, ma può avere un forte contenuto simbolico o almeno così sperano i capi della Lega. Demagogia? Fiducia nell'infantilismo dei loro seguaci?

Il secondo obiettivo contiene invece una forte carica esplosiva e non è rivolto ai leghisti ma all'esterno. Il bersaglio è Berlusconi e il Pdl. Quando la legge di iniziativa popolare arriverà in Parlamento l'implosione già in atto nel Pdl esploderà. A dir poco metà dei parlamentari di quel partito voteranno contro. Si aprirà in modo esplicito un cuneo tra i due partiti alleati e la crisi diventerà inevitabile. Oppure il Pdl si piegherà e risulterà chiaro che la Lega è il vero motore della maggioranza.
C'è infine un terzo obiettivo che è già stato raggiunto: la pura e semplice notizia dell'iniziativa presa da Calderoli ha già anticipato le fibrillazioni all'interno del Pdl e nello stesso governo. Rappresenta la prova che l'incontro di Arcore del 6 giugno è andato malissimo ed è il segnale che la Lega ha rilanciato la propria autonomia rispetto all'alleato.
Tre obiettivi, il terzo dei quali sta già producendo effetti politici di notevoli dimensioni. La manovra ha tuttavia anche alcune controindicazioni per la Lega perché mette allo scoperto una lacerazione all'interno del gruppo dirigente. Il ministro dell'Interno, Maroni, non è infatti d'accordo con Calderoli. Le tensioni diventeranno acute col passar dei giorni. Neanche Tremonti è d'accordo e le ragioni nel suo caso sono evidenti.

Due o tre ministri dislocati al Nord valgono per la Lega un costo politico così elevato? L'alleanza con Berlusconi è stata fin qui essenziale; il federalismo non avrebbe fatto i passi avanti legislativi e non sarebbe diventato un tema di dibattito nazionale senza quell'alleanza. Una rottura, per di più su un tema chiaramente pretestuoso, accentuerebbe il carattere localistico della Lega e le alienerebbe anche molti consensi nelle Regioni dove il suo insediamento è più forte. Le amministrative hanno già registrato lo smottamento di quel consenso che potrebbe assumere dimensioni impreviste da un'iniziativa così inutilmente avventata.

Ma poiché il gruppo dirigente leghista non è composto da imbecilli, se l'iniziativa di Calderoli è stata condivisa da Bossi e dallo stato maggiore è segno che il malessere interno di quel partito è molto più intenso di quanto finora non sia apparso. Oppure è il segno che i dirigenti leghisti si sono rimbecilliti. Nell'un caso come nell'altro, la situazione è grave ma non è seria. Dimostra che i due partiti di centrodestra camminano a tentoni e non sanno come uscire dal labirinto in cui si sono infilati e in cui, purtroppo, hanno infilato il Paese.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il rebus di Tremonti dopo Pontida
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2011, 08:33:11 am
IL COMMENTO

Il rebus di Tremonti dopo Pontida

di EUGENIO SCALFARI


Il REBUS Tremonti. Qualcuno pensa che sia decifrabile? E lui, Giulio Tremonti, ministro dell'Economia, ne possiede la chiave oppure nemmeno lui è in grado di rivelarne la soluzione? Personalmente opto per questa seconda ipotesi; si sono create condizioni tali che neppure il protagonista del rebus riesce a districarsi dalla rete che lui stesso ha contribuito a costruire. A volte capita in natura che il ragno resti intrappolato dalla rete tessuta dalla sua saliva e questo è il caso. Con ciò non voglio affatto dire che Tremonti non abbia le idee chiare su quello che deve fare come ministro dell'Economia, le ha chiarissime; ma non sa quale sarà il suo avvenire di uomo politico, che pure gli sta sommamente a cuore.

Questo è il rebus sul quale si appuntano gli sguardi in questa vigilia di Pontida, dove Tremonti ha il ruolo del convitato di pietra. Che ci sia o non ci sia non ha importanza: il convitato è lui, è con lui che la Lega dovrà fare i conti, Berlusconi dovrà misurarsi, Gianni Letta dovrà incrociare la spada, Bersani dovrà decidere se appoggiarlo o stopparlo e così Casini, così Vendola, Di Pietro, Fini. Gli atteggiamenti di questi interlocutori e le scelte che faranno configurano nel loro insieme la rete di cui Tremonti è il centro. Il rebus è se sarà lui a governarla o se ne sarà governato.

* * *
Intanto i mercati  finanziari sono sempre più agitati, lo "spread" dei Buoni del Tesoro italiani con scadenza decennale
oscillano tra i 180 e i 200 punti rispetto al "Bund" tedesco. Il "default" greco incombe, la Banca centrale europea richiama l'Italia a fissare subito i tempi della manovra da 40 miliardi necessaria per azzerare il deficit e pareggiare il bilancio, mentre l'Italia dei referendari, del precariato, delle famiglie, reclama provvedimenti che rilancino la crescita e una più equanime distribuzione del reddito sociale.

Infine le agenzie internazionali di "rating", con la Moody's in testa, preannunciano un giudizio negativo sul debito sovrano italiano. È la prima volta che accade e le Borse lo stanno già registrando. Lunedì probabilmente la reazione dei mercati sarà anche peggiore.

Questa è dunque la rete in tutte le sue componenti. Dicevamo che essa è stata costruita anche con la saliva del ragno che ne sta al centro ed è esattamente così. Fu infatti Tremonti, ministro del Tesoro nel 2001, a inaugurare la finanza creativa in obbedienza al volere del suo leader che gli aveva imposto di non mettere le mani del fisco nelle tasche degli italiani.

La finanza creativa, fatta di condoni, di "swap", di cartolarizzazioni, fu la trovata tremontiana per obbedire al suo leader e galleggiare sul mare agitato della finanza internazionale. Il risultato fu l'accresciuta propensione dei contribuenti ad evadere, l'azzeramento dell'avanzo delle partite correnti, l'aumento del rapporto tra il Pil e il debito pubblico, l'invarianza della pressione fiscale, l'aumento delle diseguaglianze, l'encefalogramma piatto della crescita reale dell'economia.

Non è propriamente un bel consuntivo quello che il Tremonti del 2001 lasciò ai suoi successori, i quali lo lasciarono al Prodi del 2006, il quale a sua volta con qualche miglioramento lo lasciò al Tremonti del 2008. Nel frattempo il Nostro aveva scritto alcuni libri di notevole interesse tracciando una sorta di filosofia della storia economica non particolarmente nuova ma nuovissima per chi aveva esordito con un programma liberale del "meno Stato, più mercato".

La filosofia del Tremonti 2008 capovolgeva nettamente quel programma, proiettava lo Stato nazionale verso l'auspicata e auspicabile Federazione europea, evocava un'attiva presenza pubblica soprattutto nel mercato del credito, tanto più quando le acque agitate della finanza internazionale divennero tremenda tempesta a causa della bolla immobiliare americana, della crisi dei titoli derivati, del fallimento di alcune tra le più importanti banche d'affari in Usa, in Gran Bretagna, in Germania.

Infine della recessione che si diffuse in tutto il pianeta e dalla quale non siamo ancora completamente usciti. Il nuovo Tremonti rigorista era dunque in linea con le circostanze malgrado che il suo Capo strepitasse sempre di più. Ed ora che cosa farà? In queste condizioni, con questi interlocutori, con questa Europa, con questi mercati?

* * *

Una prima constatazione: Tremonti è solo. Il suo Capo ormai lo detesta anche se non potrà fare a meno di lui. La Lega, della quale sembrava essere il garante, lo ha preso in uggia. Nel Pdl ha tutti contro. Il presidente della Repubblica lo stima ma non è e non vuole essere un soggetto politico. Mario Draghi è sempre stato critico della sua politica; il fatto che abbia lasciato la Banca d'Italia per ascendere alla presidenza della Bce non migliora la condizione del nostro ministro dell'Economia, anzi potrebbe perfino peggiorarla. Dunque Tremonti è solo, salvo l'appoggio della Commissione di Bruxelles e lo spauracchio della speculazione che, paradossalmente, gioca in suo favore perché lo rende indispensabile e inamovibile.

Seconda constatazione: Tremonti vuole passare alla storia della finanza italiana come colui che ha fatto la riforma del fisco, dopo quelle di Quintino Sella, di Giovanni Giolitti, di Alberto De Stefani, di Ezio Vanoni e di Bruno Visentini. Dovrei aggiungere anche i nomi di Vincenzo Visco e Tommaso Padoa-Schioppa, ma potrebbe sembrare provocatorio e quindi me ne astengo.

Il complesso della riforma tremontiana ancora non è noto ma le sue linee maestre sono ormai emerse. Vuole semplificare un'architettura ormai ingestibile lasciando in piedi soltanto cinque grandi imposte: sul reddito personale, sul reddito delle imprese, sull'Iva, sui consumi, sui beni reali mobiliari e immobiliari. Dalle persone alle cose. Dal reddito ai consumi e al patrimonio, sfoltendo e se possibile azzerando la selva dei contributi, degli sgravi, delle deduzioni, degli assegni familiari, dei bonus di vario tipo e specie. Il tutto con gradualità e nel quadro del federalismo.

In teoria una riforma del genere, con diminuzioni di aliquote in alcuni casi e aumento di aliquote in altri, dovrebbe dare un risultato netto di minore evasione, maggior gettito per l'erario, minore pressione fiscale per la platea dei contribuenti. Quest'imponente costruzione dovrebbe esser varata nell'anno prossimo e funzionare a regime entro il 2014. Il calendario sembra alquanto ottimistico. Con i tempi che corrono sarà un miracolo se l'intero edificio - federalismo compreso - sarà pienamente funzionante entro il 2020.

* * *

Di questi traguardi troppo lontani e delle ambizioni di Tremonti di entrar nella storia, a Berlusconi e a Bossi, per dirla crudamente, non gliene frega assolutamente niente. Loro hanno bisogno di soldi, molti maledetti e subito. Invece ne avranno poco e non subito: bene che vada potranno contare su uno spicciolame di dieci miliardi nel 2012 e per di più a costo zero, ribassi di aliquote Irpef e Irap contro aumenti dell'Iva per pari importo, con il rischio che tali aumenti si scarichino sul tasso di inflazione e quindi sul costo della vita. Forse alcuni Comuni che dispongono di importi liquidi non spesi potranno essere autorizzati ad investirli in opere pubbliche di competenza locale: una goccia nel mare e per di più a rilascio non immediato.

Basterà? Lo vedremo oggi sul pratone di Pontida. Le ipotesi sono due: Berlusconi e Bossi faranno finta che basti e troveranno la quadra tra loro per galleggiare. Poi, in contemporanea con la finanziaria per il 2012 che conterrà il primo scaglione della manovra da quaranta miliardi concordata con l'Europa, Berlusconi e Bossi apriranno la crisi e la partita passerà nelle mani del Quirinale.

Oppure: Berlusconi e Bossi cercheranno di imporre a Tremonti il famoso coraggio reclamato da Maroni e Tremonti deciderà di ritirarsi, con grande gioia dei mercati. Questa seconda ipotesi mi sembra altamente improbabile, ma non si può del tutto escludere, come non si può escludere che, prima che tutto precipiti, la Lega punti su una riforma della legge elettorale concordandola con l'opposizione.

Quest'ultima dal canto suo dovrà tirar fuori i progetti concreti che da tempo sono pronti e gettarli nello scontro parlamentare martellando e stimolando l'avversario. Non è ancora arrivato il tempo di mattare il toro. Bisognerà sfinirlo con agguerrite pattuglie di "picadores" e di "banderilleros". Durerà pochi mesi se non saranno commessi errori.
 

(19 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una zattera in tempesta senza timoniere
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2011, 10:08:15 am

IL COMMENTO

Una zattera in tempesta senza timoniere

di EUGENIO SCALFARI

I  RIFIUTI di Napoli. La manovra fiscale da quarantacinque miliardi. La speculazione contro le banche e contro il debito sovrano. La P4 di Bisignani.

Sono queste le questioni attorno alle quali si stanno riposizionando le figure del teatro politico con una differenza rispetto al passato: non sono più le ideologie a guidare i loro movimenti, ma problemi estremamente concreti e un nuovo vento che ha trasformato i modi di sentire degli italiani.

L'ipnosi in cui da alcuni anni erano caduti è terminata, si sono risvegliati dall'indifferenza e non danno più retta alle promesse: vogliono i fatti e li vogliono subito.

Questo positivo risveglio non è tuttavia privo di rischi e pericoli. La soluzione di problemi complessi e antichi non si improvvisa, l'epoca dei miracoli è finita, non esistono bacchette magiche. I risvegliati debbono partecipare con tenace intelligenza alla costruzione della nuova società; è giusto che chiedano fatti e non parole, ma i fatti non cadono dal cielo, sono le tappe d'un percorso e d'un impegno.

I risvegliati debbono contribuire alla costruzione di quel percorso e garantire il loro impegno, altrimenti il vento nuovo si affievolirà, tornerà la bonaccia e l'indifferenza, l'attesa di improbabili miracoli e d'una nuova figura carismatica che si proponga come l'ennesimo uomo della provvidenza.

Non esistono uomini della provvidenza se non nella fantasia di sudditi che si rifiutano di diventare cittadini.

Le esperienze antiche e recenti
dovrebbero averci insegnato che il popolo sovrano esiste soltanto se la sovranità viene esercitata ogni giorno, da tutti e da ciascuno, operando al meglio nel proprio privato e partecipando alla costruzione del bene pubblico. Se il vento nuovo servirà ad infonderci questi sentimenti e questi comportamenti, il risultato ci sarà.

***

Berlusconi è sempre più cupo e si rende conto sempre meno di quanto sta accadendo nel Paese e intorno a lui. Bossi versa in analoghe condizioni. Sono i due capi della maggioranza parlamentare ma hanno perduto lucidità e credibilità, avvinti da un comune destino. "Simul stabunt simul cadent".

Maroni lo dice ormai apertamente. Lo dicono Casini e Fini. Lo dice Bersani e perfino Bisignani lo dice con i suoi mille interlocutori.

Tra le cause dell'umor nero del Cavaliere quella più dolorosa per lui è stata la scoperta dei veri sentimenti che i suoi più fedeli sostenitori nutrono nei suoi confronti. Le conversazioni di Bisignani con ministri e ministre, dirigenti di partito, giornalisti a stipendio, manager di enti pubblici, sono state altrettante coltellate per lui che aveva lanciato il partito dell'amore.

In realtà non l'ha mai amato nessuno; le profferte di fedeltà intrise di amorosi sensi erano una mascheratura per ottenere benefici, carriere, ricchezza, potere. La sua cupezza proviene soprattutto dall'aver scoperto questa realtà. Pensava di rappresentare un Paese, un'ampia cerchia di fedeli, un gruppo di innamorati. Si ritrova solo, intrappolato, irriso. E quindi disperato. Ma ancora indispensabile per la cricca.

La cricca si è divisa in gruppi e gruppetti. Se lui facesse adesso il passo indietro la guerra civile si scatenerebbe
all'interno del berlusconismo.

Perciò se lo tengono stretto in attesa di nuovi equilibri. Ma quali? Si tratta in realtà di una zattera sconquassata, senza più timoniere né timone, a bordo della quale c'è il governo d'un Paese che è ancora uno dei dieci più importanti paesi del mondo.

Questa è la nostra sciagura, dalla quale prima usciremo meglio sarà per tutti.

***
Il tema dei rifiuti di Napoli ha soverchiato tutti gli altri negli ultimi tre giorni sebbene sia un fatto locale, limitato ad una città e ad una provincia.

Per consentire il trasferimento provvisorio dell'immondizia napoletana in attesa che entrino in funzione gli altri necessari meccanismi previsti dal sindaco de Magistris, è necessario un decreto del governo che superi i contrasti locali e imponga alle Regioni una solidarietà nazionale che altrimenti non si manifesta. Ma la Lega si è messa di traverso, non vuole il decreto e non lo voterà in Consiglio dei ministri né in Parlamento. Calderoli ha parlato a nome di tutto il partito e ha messo nero su bianco il no leghista.

Nel frattempo il Presidente Napolitano ha fatto urgente appello a tutte le parti in causa e in particolare al governo affinché scongiuri attraverso apposita decretazione d'urgenza una calamità sanitaria che avrebbe conseguenze incalcolabili. Ma la Lega non ha cambiato atteggiamento e questa è la ragione che ha fatto balzare i rifiuti napoletani a problema numero uno. Poiché Pontida ha registrato una generale insoddisfazione del movimento leghista e poiché quel partito è dilaniato da una guerra intestina che si svolge ormai alla luce del sole, l'unico modo per superare la difficoltà è quello di alzare al massimo i toni dello scontro. Sembra che Berlusconi risponderà a muso duro ai "niet" di Calderoli anche se il decreto sui rifiuti si limiterà allo stretto necessario.

Restano tre giorni di tempo per vedere se ancora una volta la Lega, dopo aver abbaiato, tornerà a cuccia oppure voterà effettivamente contro il governo di cui fa parte.

Ma nel frattempo incalza l'altro tema fondamentale, quello della manovra fiscale che sta massimamente a cuore della Lega e non soltanto di essa. Sta a cuore ai lavoratori e alle loro organizzazioni sindacali, alla Confindustria e alle imprese, alle famiglie, al lavoro in tutte le sue forme. Sta a cuore alle agenzie di rating, ai mercati, alle banche, all'Europa. E sta a cuore - ovviamente - a Giulio Tremonti che su quel tema e su quella politica gioca la sua credibilità e la sua carriera.

***

La Lega vuole ottenere un allentamento del rigore fiscale che premi soprattutto le aziende della Lombardia e del Nordest, i lavoratori autonomi, le infrastrutture padane e le finanze dei Comuni virtuosi. Ma anche l'opposizione vorrebbe provvedimenti che favoriscano la crescita, fermo restando il rigore e i vincoli di stabilità. Il punto di riferimento di questa politica è il discorso che Mario Draghi pronunciò il 31 maggio scorso nel salone della Banca d'Italia: liberalizzazioni, tagli della spesa mirati e selettivi, doppio pedale di rigore e di rifinanziamento della crescita.
Le differenze tra le richieste della Lega e le proposte dell'opposizione sono quelle che passano tra politica nazionale e interessi localistici.

L'opposizione vorrebbe iniziare un percorso che parta da una diversa distribuzione sociale del carico tributario. La Lega privilegia invece una diversa distribuzione geografica. Tra queste due concezioni la differenza è molto elevata tanto più che l'opposizione accetta il paletto tremontiano delle riforme a costo zero mentre per la Lega (ed anche per Berlusconi) il costo zero è un intralcio e nient'altro.

Tremonti sembra più vicino alle tesi dell'opposizione che a quelle leghiste anche se tenda a collocare la crescita e le relative riforme che la rendano possibile in una prospettiva di tre-quattro anni. Rifugge da interventi immediati che scontentino alcune fasce sociali a beneficio di altre; è scettico su una ripresa dei consumi e non vuole dissipare risorse per obiettivi illusori.

Se vogliamo trarre una prima conclusione da questa analisi diciamo che Berlusconi, Bossi, Tremonti sono tutti e tre in una condizione di estrema solitudine politica, con una differenza: i primi due possono esser rimossi dai loro attuali incarichi senza conseguenze catastrofiche, il terzo è per ora inamovibile a meno di non far ricorso a nomi che diano all'Europa e ai mercati garanzie di tenuta e credibilità. Viene in mente Mario Monti. Purtroppo altri non se ne vedono.

***

Che cosa rappresenta il caso Bisignani, esploso proprio mentre è in atto un positivo risveglio della coscienza nazionale? Il caso Bisignani è l'epilogo d'un regno, d'un costume, d'una devianza strutturale purtroppo non nuova per la società italiana.

Qualcuno ne trae argomento per suggerire la legalizzazione delle "lobbies", ma non si tratto di questo. Il sistema Bisignani non è una "lobby", non tutela alla luce del sole un interesse specifico e legittimo.
Il sistema Bisignani è la messa in comune di informazioni riservate d'ogni genere, provenienti da fonti d'ogni genere, utilizzabili per raggiungere obiettivi d'ogni genere.

Le informazioni riguardano procedimenti giudiziari, appalti, nomine nel governo, negli enti pubblici, nei giornali, nelle televisioni. Le fonti sono ministri, magistrati, uomini d'affari, faccendieri, ma anche uffici riservati dei carabinieri, dei servizi segreti e soprattutto della Guardia di Finanza.

È strano il destino di questo corpo armato dello Stato. È quello che con più tenacia e più lucidità persegue evasori e corrotti ma è quello anche che, specie nei dintorni del suo comando generale, fa parte da trent'anni di cosche e reti di malaffare.

Gli obiettivi di questa P4 sono di procurare vantaggi alle fonti.

Un'immensa massoneria che non ha neppure la forma d'una società segreta come fu la P2. Bisignani fu nella P2, ha esperienza, è stato condannato per le malefatte che compì allora; perciò la sua P4 è una rete molto più estesa ma molto più leggera dove la corruzione è il cemento, l'ex magistrato e deputato Papa è il simbolo più smaccato e Bisignani il confessore di tutti. Tutti si confessano, non per essere perdonati ma perché le loro confessioni hanno un valore di scambio e un valore d'uso. Le confessioni sono il patrimonio e l'avviamento della P4, la loro messa in comune è la ricchezza di Bisignani.

Di reati ce ne saranno una infinità e spetta alla magistratura perseguirli, ma la rete scoperchia una realtà obbrobriosa, un sistema istituzionale metastatizzato, un archivio di malefatte e di gossip di cui Bisignani è il paziente raccoglitore e il furbo custode.

Quando il potere si manifesta con queste fattezze lo schifo ti serra la gola. Il vento nuovo che spira da qualche tempo potrà, speriamolo, dissipare questi miasmi e scacciare i loschi mercanti che hanno venduto l'interesse pubblico alle cupidigie private corrompendo e deformando la democrazia, calpestando la giustizia ed elevando il privilegio a canone d'una politica.

Tutto questo deve finire.

 

(26 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/26/news/zattera_tempesta-18236477/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Non va bene un proconsole alla Banca d'Italia
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2011, 04:33:46 pm
IL COMMENTO

Non va bene un proconsole alla Banca d'Italia

di EUGENIO SCALFARI

IL "FORCING" di Giulio Tremonti sulla nomina del governatore della Banca d'Italia va osservato con molta attenzione. Avviene negli stessi giorni e quasi nelle stesse ore nelle quali si discute la sua manovra finanziaria alla luce delle richieste sempre più perentorie che gli vengono fatte da Berlusconi e da Bossi. Si direbbe che la nomina di Grilli al posto che ancora per poche settimane sarà occupato da Mario Draghi possa essere il prezzo di concessioni sulla manovra, nel senso di renderla più mite e di concedere qualche compenso alle famiglie e alle imprese secondo i desideri del governo e della Lega.

Se questo scambio dovesse avvenire la cosiddetta purezza d'intenti del ministro dell'Economia ne sarebbe fortemente compromessa ed è strano che non se ne renda conto. Così pure è strano che il suo appoggio alla candidatura di Grilli alla guida della Banca d'Italia si sia trasformato in una vera e propria imposizione nei confronti di Berlusconi, con sgarri procedurali vistosi in una materia dove il rispetto delle forme ha un'importanza sostanziale. Due giorni fa sul nostro giornale abbiamo pubblicato alcune "indiscrezioni" la cui paternità era facile intuire, che contenevano l'elenco delle ragioni in favore della candidatura di Grilli.

Ha 54 anni e quasi tutti i governatori di Banche centrali hanno più o meno la stessa età; seguiva l'elenco dei nomi e l'età anagrafica dei governatori in questione. Grilli è esterno alla Banca d'Italia e quasi tutti i governatori
di fresca nomina sono stati scelti all'esterno delle rispettive Banche centrali (seguiva l'elenco). In gran parte dei casi i governatori provengono dai ministeri del Tesoro dei rispettivi paesi (ennesimo elenco). Dal canto suo Tremonti annunciava pubblicamente - e Berlusconi confermava - che il Consiglio superiore della Banca di via Nazionale avrebbe dovuto emettere il suo parere martedì 28 (oggi per chi legge) mentre il Consiglio dei ministri avrebbe deciso il 30 sulla nomina e anche sulla manovra. E qui gli strappi di procedura: il Consiglio superiore non avrebbe dovuto dare il parere sul nome del candidato ma avrebbe dovuto limitarsi a tratteggiarne l'identikit; un solo nome sarebbe entrato in Consiglio dei ministri come candidato e ne sarebbe uscito come governatore; il Consiglio dei ministri avrebbe redatto il decreto e Berlusconi l'avrebbe portato alla firma del Presidente della Repubblica il quale però, nel giorno in cui queste notizie venivano diffuse dai giornali, era ancora all'oscuro dell'improvvisa accelerazione.
È opportuno - prima di procedere oltre - ricordare che il decreto di nomina del governatore della Banca d'Italia non è un atto del governo che viene portato al Quirinale per essere controfirmato. Al contrario: è un decreto del Presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio, sentito il Consiglio superiore dell'Istituto. Proprio per questo si è sempre parlato di un "atto complesso" nel quale debbono incontrarsi e coincidere diverse volontà.

A quanto risulta da fonti molto attendibili ci sono stati in proposito due incontri tra Napolitano e Berlusconi. Le stesse fonti escludono che i nomi dei candidati siano stati vagliati e tantomeno che uno di essi sia stato scelto. È stato però riaffermato un criterio: il candidato deve assicurare la piena indipendenza dell'istituto che andrà a presiedere e nei limiti del possibile la continuità con quanto fin qui per tre anni è stato fatto da Draghi e dal direttorio attualmente in carica. Lo stesso criterio è anche stato espresso nei giorni scorsi da Carlo Azeglio Ciampi e dallo stesso Draghi il quale dovrebbe essere ricevuto oggi a Palazzo Chigi Per quanto riguarda il Consiglio superiore della Banca, fonti altrettanto attendibili fanno sapere che il parere richiesto dalla legge, non vincolante ma obbligatorio, sarà dato dal Consiglio superiore soltanto sui nomi e non sui criteri. Fino a quando i nomi o il nome non saranno stati ufficialmente indicati il Consiglio non potrà emettere alcun parere. La procedura sarà dunque sospesa in attesa che i nomi siano stati fatti.

* * *
Dirà forse qualcuno che si tratta di quisquilie e di pagliuzze prive di importanza. Nessuno però l'ha detto per la semplice ragione che non è così. Si sta infatti discutendo di quale sia il ruolo della Banca d'Italia e di chi è preposto a guidarla nei confronti da un lato del governo nazionale e dall'altro della Banca centrale europea della quale i governatori nazionali fanno parte integrante.
A questo punto la discussione si deve necessariamente spostare sulla natura di questo duplice rapporto. Anzitutto con il governo nazionale. La Banca d'Italia non ha più - come tutte le sue consorelle dell'euro-gruppo - attribuzioni concernenti la politica monetaria, la fissazione dei tassi di interesse e di risconto e, di conseguenza, del tasso di cambio con le altre monete. Ha invece competenza sulla Vigilanza del sistema bancario nazionale e rappresenta la più qualificata tribuna sull'andamento dei "fondamentali" e della congiuntura.

L'indipendenza di questa tribuna e l'autonomia della Vigilanza dal potere politico sono requisiti essenziali, ma non collimano con la concezione di Tremonti in proposito. Il nostro ministro dell'Economia non fa mistero del suo pensiero, l'ha espresso e l'ha scritto più volte riaffermandolo ancora nei giorni scorsi: la Banca d'Italia deve marciare di pari passo con il Tesoro evitando le "prediche inutili" che possono dar luogo a discrasie e disturbare il supremo manovratore che è per l'appunto il governo e in particolare il ministro dell'Economia a ciò delegato. La Banca d'Italia, in questa concezione, è una qualificata "struttura servente".

Non è mai stato così. Non lo fu con Menichella, con Carli, con Baffi, con Ciampi. Le loro "prediche inutili" non furono affatto tali, costituirono invece un contrappunto prezioso inducendo i governi a correggere e comunque a tener conto di quelle considerazioni e fornendo orientamenti utili alle parti sociali, agli operatori e al mercato. Tanto importanti da indurre un ministro del Tesoro della levatura di Nino Andreatta a sancire il cosiddetto "divorzio" tra la Banca e il Tesoro sulla delicatissima questione del finanziamento monetario del debito pubblico.

Nessuno nega che l'attuale direttore generale del Tesoro abbia sufficienti titoli di competenza, ma le forzature di Tremonti in suo favore, come del resto la carica che attualmente ricopre, ne fanno un tipico e legittimo esempio di struttura servente che va benissimo per il ruolo che riveste attualmente ma nient'affatto con quello che andrebbe a ricoprire in via Nazionale. Il ministro dell'Economia del resto di strutture serventi ne ha già una quantità, dalla Cassa depositi e prestiti alla costituenda Banca del Sud, al fondo per finanziare banche e imprese "strategiche", alla Consob. Annettersi anche alla Banca d'Italia configurerebbe una sorta di proconsolato del tutto inadatto ad una democrazia liberale che richiede molteplicità di soggetti dotati di sufficiente autonomia nei rispettivi terreni di competenza.

Il rapporto delle Banche centrali nazionali con la Bce è di tutt'altra natura. La Bce è guidata da un direttorio permanente e da un presidente che lo rappresenta al massimo livello. È un soggetto che gode di piena indipendenza nei confronti delle altre istituzioni europee. I governatori delle Banche centrali nazionali compongono insieme al direttorio il Consiglio dell'Istituto, nel quale riversano le informazioni economiche di cui dispongono e le loro valutazioni sulla congiuntura europea e internazionale. In quella sede non rappresentano un potere-terzo ma fanno parte essi stessi d'un potere-terzo e come tale deliberano, indirizzano il direttorio e ne sono indirizzati. Queste questioni sono dunque molto chiare. Confonderle non giova e non giova forzarne l'esecuzione. L'atto complesso della nomina si svolga dunque nel rigoroso rispetto delle procedure e secondo i criteri che debbono tener conto soltanto dell'interesse generale.

(28 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/06/28/news/scalfari_bankitalia-18320003/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. 80 miliardi di rigore senza crescita
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2011, 10:37:50 am
IL COMMENTO

80 miliardi di rigore senza crescita

di EUGENIO SCALFARI
 
 

 È SBAGLIATO sostenere che Tremonti abbia ceduto alle pressioni congiunte di Berlusconi e di Bossi rinviando il grosso della manovra (40 miliardi) al biennio 2013-14. Il calendario era stato concordato da tempo con la Commissione di Bruxelles: i conti pubblici italiani erano considerati in sicurezza fino al 2012 dopo le manovre effettuate nel biennio precedente. Ci voleva una manovra ulteriore per arrivare entro il 2013 all'eliminazione del deficit ed entro il 2014 al pareggio del bilancio.

Perciò - l'ha sottolineato anche Napolitano - tutto procede secondo i ritmi prestabiliti anche se il peso della manovra si scaricherà sui primi due anni della nuova legislatura e del governo che ne sarà l'espressione.

Il Presidente della Repubblica ha anche osservato che decidere oggi quello che dovrà avvenire tra due-tre anni vincola la responsabilità dell'attuale maggioranza. È un auspicio che tenta di stabilire un collegamento e una coerenza di comportamenti tra la maggioranza attuale e quella della nuova legislatura, quale che ne sarà la composizione e il colore; ma è un auspicio scritto sull'acqua perché, fermo restando il fine del pareggio del bilancio, i modi per arrivarci riguarderanno il futuro Parlamento, il futuro governo ed anche il futuro Presidente della Repubblica. Il futuro è sulle ginocchia di Giove, ammesso che Giove da qualche parte ci sia.

Resta il fatto che nel quinquennio 2009-2014 le manovre decise da Tremonti, dal governo e dalla maggioranza ammontano nel complesso a 80 miliardi pagati ovviamente dai contribuenti. Bisogna a questo punto chiedersi a che cosa è servito un prelievo di risorse così imponente ed anche quali sono i ceti che ne hanno sopportato il maggior peso.

Prima però di rispondere a questi due interrogativi è opportuno ricordare che, per quanto riguarda la manovra di 40 miliardi che avverrà nel biennio 2013-2014, è stata finora indicata la copertura per 18 miliardi (Sanità, sfoltimento delle detrazioni, congelamento degli organici e degli stipendi del pubblico impiego, tagli di contributi alle Regioni e ai Comuni). Per oltre 22 miliardi la copertura non è ancora nota ma dovrà esserlo prima che il decreto (ma meglio sarebbe un disegno di legge) venga trasmesso al Parlamento.

È opportuno altresì ricordare che contemporaneamente al decreto (o disegno di legge) concernente la manovra Tremonti presenterà anche una legge-delega per la riforma del sistema fiscale. Si tratta di due operazioni strettamente connesse che incideranno profondamente sull'economia reale ed anche sulla formazione delle risorse e sulla loro distribuzione.

Fa molto bene il Presidente della Repubblica a raccomandare condivisione politica su un fagotto di decisioni e di normative grosso come una montagna; purtroppo anche questa sua raccomandazione, come l'altra già citata, è scritta sull'acqua perché sia Tremonti sia Berlusconi sono disposti soltanto ad accettare che l'opposizione voti le loro decisioni senza tuttavia modificarle perché, come ha detto in proposito il ministro dell'Economia, "quattro deve restare quattro". E sono anche decisi - Tremonti e Berlusconi - a chiedere la fiducia se lo riterranno necessario, per cui l'esortazione di Napolitano non avrà alcun seguito.

Purtroppo non avrà seguito neppure l'osservazione che il Presidente della Repubblica ha formulato dopo aver firmato il decreto sui rifiuti di Napoli. Calderoli gli ha già risposto sprezzantemente a nome della Lega. La situazione in casa leghista deve essere molto seria se Bossi e i suoi colonnelli trattano con questa disinvoltura i suggerimenti del Capo dello Stato.

* * *

Consideriamo ora i due interrogativi che ci siamo posti: quali sono gli obiettivi che la manovra voleva realizzare e chi ne ha sopportato il peso maggiore. Con due necessarie premesse: l'intera operazione è avvenuta nel corso della grande crisi internazionale che ha investito il mondo intero; la suddetta operazione non contempla però le manovre che nel frattempo sono state compiute dagli enti locali con le poche imposte delle quali essi autonomamente dispongono e con i debiti che hanno autonomamente contratto, da aggiungere al debito pubblico che riguarda direttamente lo Stato. Ed ecco gli obiettivi che avrebbero dovuto essere raggiunti.

Un obiettivo politico che governo e maggioranza si erano posti fin dal 2001 (anzi fin dal 1994) fu la riduzione del carico fiscale. Ma questo impegno era una falsa e irrealizzabile promessa e tale si è dimostrata. Tale resterà anche quando nel 2014 la riforma fiscale sarà entrata in vigore.

Bisognava migliorare i servizi, statali e locali. Ma i servizi non sono migliorati, semmai sono peggiorati.

Bisognava ridurre il debito pubblico. Il debito pubblico è aumentato, attualmente viaggia al 120 per cento del Pil.

Bisognava creare una rete di protezione che desse un senso al lavoro flessibile e impedisse che la flessibilità si trasformasse in precariato. Questa rete non è stata costruita.

Bisognava ridurre le diseguaglianze sociali, ma le disuguaglianze sono aumentate.

Bisognava accrescere la produttività e la competitività del sistema. Sono entrambe fortemente peggiorate.

Bisognava bloccare la spesa corrente la quale è aumentata negli ultimi vent'anni ad un ritmo medio del 2 per cento annuo.

Bisognava far crescere gli investimenti e quindi la spesa in conto capitale. È avvenuto esattamente il contrario: la spesa corrente ha continuato nel suo ritmo di crescita del 2 per cento e quella in conto capitale è praticamente vicino allo zero.

Bisognava sfoltire e semplificare la burocrazia e liberalizzare le procedure che governano l'imprenditorialità. Non c'è stata alcuna semplificazione nonostante il falò di leggi abolite dal ministro Calderoli; nessuno ha mai saputo quali carte abbia bruciato quel folcloristico ministro. Sta di fatto che l'obiettivo semplificatorio viene riproposto quasi una volta al mese da alcuni anni. Se ne parla ancora nel progetto di riforma fiscale e se ne è parlato nei recenti provvedimenti sullo sviluppo. Insomma è un mantra ricorrente da vent'anni e mai realizzato. Sarebbe più serio non parlarne più. Doveva essere - la semplificazione burocratica - parte integrante del federalismo, ma anche il federalismo è rimasto allo stato larvale. Perfino i leghisti si sono ormai accorti che con questi chiari di luna il federalismo è diventato una parola vuota.

* * *

Tuttavia quegli 80 miliardi sono stati prelevati. Sono serviti a far diminuire il rapporto tra spese correnti e Pil al netto degli interessi sul debito, ma nel frattempo l'onere di quegli interessi è cresciuto. L'altro obiettivo di quegli 80 miliardi è come sappiamo l'azzeramento del disavanzo di bilancio. Dovrebbe avvenire entro il 2014. Incrociamo le dita.

Si aggiunga che i costi della politica non saranno toccati ora ma se ne parlerà anche per essi nella prossima legislatura.

Questo è il consuntivo. Nient'affatto esaltante.

L'onere della manovra ha pesato finora interamente sul lavoro dipendente e sui pensionati. Nel frattempo l'evasione fiscale è fortemente aumentata. La Guardia di Finanza e l'Agenzia delle entrate hanno quest'anno recuperato 10 miliardi dall'evasione ma nel frattempo l'ammontare complessivo dell'evasione è aumentato di 30 miliardi (cifre Istat, Banca d'Italia, Ministero del Tesoro): recuperano dieci e perdono trenta.

Ci siamo scordati di qualche cosa? Sì, ci siamo scordati della crescita. Sia l'Europa, sia la Bce, sia il Fondo monetario internazionale ci hanno chiesto rigore e rilancio della crescita. Il rigore c'è stato e continuerà, ma di crescita nemmeno a parlarne: non c'è stata e non si prevede che ci sarà, l'encefalogramma dello sviluppo è piatto da vent'anni e tale resterà fino al 2014. Berlusconi voleva, Bossi voleva, ma mettevano una condizione: niente mani nelle tasche. Di chi? Dei ceti abbienti. Tremonti li ha fatti contenti, la crescita aspetterà.

* * *

Nelle ultime ore i complimenti a Tremonti si sono sprecati. L'hanno ringraziato tutti: i ministri, il presidente del Consiglio, i dirigenti del suo partito, i giornali di famiglia, i cugini, anche quelli in quarto grado e oltre. Le autorità europee. Ma di che cosa?

Il debito sovrano è sempre esposto a tutti i venti. Il rendimento dei Btp è arrivato al 5 per cento, record storico. Il differenziale dei titoli italiani rispetto al Bund tedesco viaggia oltre quota 200. Le pensioni minime sia d'anzianità che di vecchiaia sono ferme a 500 euro mensili. I redditi sotto ai 30 mila euro sono tartassati, quelli sopra ai 70 mila sono favoriti dalla riforma fiscale. Il peso delle imposte sarà spostato dalle persone ai consumi e a i servizi.

Per sostenere i massicci rinnovi di titoli pubblici in scadenza, il Tesoro premerà sulle banche affinché sottoscrivano a fermo. Proprio per questo il ministro dell'Economia vuole che la Banca d'Italia diventi una "struttura servente" del Tesoro.

Di che cosa dobbiamo dunque ringraziare Tremonti? Francamente non so rispondere. Mi si potrà dire che poteva andare peggio, ma anche al peggio c'è un limite e a me sembra sia stato toccato.

Post scriptum. Qualche giorno fa il giornale Il Fatto quotidiano ha inventato un "disparere" tra me e il collega Massimo Giannini, vicedirettore ed editorialista del nostro giornale, a proposito delle nostre valutazioni sul ministro dell'Economia. Informo i colleghi del Fatto quotidiano che noi di Repubblica lavoriamo in squadra, fermo restando che non ci sarebbe niente di strano se ci fossero pareri diversi in un libero giornale. Nella fattispecie però quei pareri diversi non ci sono stati. Giannini ha avuto una conversazione con Tremonti e ne ha fedelmente riferito il contenuto con notizie esclusive e importanti sulla manovra. Poi ha scritto alcune considerazioni critiche su quanto il ministro gli aveva comunicato. Due giorni dopo ho scritto un articolo sulla Banca d'Italia che è stato letto, vagliato, messo in pagina e titolato da Giannini. A Repubblica noi lavoriamo così e ne siamo molto contenti.

(03 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/03/news/scalfari-18579776/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un regno che affonda in un mare di scandali
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 05:12:07 pm


di EUGENIO SCALFARI

LA FINE d'un regno ha sempre un andamento drammatico e talvolta addirittura tragico. Pensate a Macbeth e a Lear ma anche a Hitler e a Mussolini, dove la realtà sembra imitare i vertici della letteratura.
Talvolta però alla cupezza del dramma si accompagna la sconcia comicità della farsa; sconcia perché inconsapevole e quindi cupa e drammatica anch'essa. Vengono in mente alcuni comprimari del fine regno berlusconiano: Brunetta, Gasparri, La Russa, Quagliariello, Sacconi, Ghedini, Prestigiacomo, Gelmini, Alfano e il suo partito degli onesti. Con Calderoli siamo al culmine della comicità inconsapevole, a cominciare da come si veste e da come cammina: non è un pavone che esibisce la sua splendida ruota e neppure un tacchino con i suoi bargigli, ma ha piuttosto l'andare del gallinaccio, il più sgraziato dei pennuti.

Bossi no, non è comico ma profondamente drammatico: un leader lucido e sensibilissimo a cogliere gli umori della sua gente, cui la malattia aveva addirittura conferito un di più, quella parlata inceppata, quei gesti di una volgarità voluta, quella faccia segnata ma non rassegnata: così era stato fino a un anno fa, ma poi il vento è cambiato anche nella Lega e il Senatur ha cominciato ad annaspare. Ora sembra un timoniere senza bussola e senza stelle che procede alla cieca in una fitta foschia mentre infuria lo scontro per la successione.

Il dramma di Berlusconi è ancora più complesso ed enigmatica la sua comicità. A volte è anche per lui
inconsapevole e quindi oscena come nel caso della nipote di Mubarak. Ma poi usa consapevolmente quella stessa comicità, la trasforma in barzelletta con la quale strappare al suo pubblico una risata e un applauso con la duplice intenzione di dimostrare la sua autoironia e la sua calma nella tempesta. A volte però la barzelletta non piace, non provoca la risata liberatoria ma un assordante silenzio e in lui sempre più spesso emerge la sindrome della solitudine, del tradimento, della congiura.

Leggendo l'altro ieri la sua intervista a "Repubblica" tutti questi passaggi sono chiarissimi: c'è la stanchezza d'un leader che preannuncia il suo futuro di padre nobile, il disprezzo verso i nemici esterni, l'ira verso i traditori interni, la volontà di mantenere il potere attraverso i figliocci da lui delegati. Infine il colpo di teatro d'affidare il lascito testamentario ad un giornale da lui attaccato, vilipeso, ingiuriato.

E Tremonti? Qual è la parte di Tremonti in questo fine regno sempre più incombente?
Ha appena varato una manovra finanziaria che avrebbe dovuto mettere al sicuro i conti pubblici e il debito sovrano, ma proprio nei giorni del varo i mercati sono stati scossi da una speculazione che ha il nostro debito, le nostre banche, i nostri titoli, come bersagli primari. Invece di rafforzare la stabilità del governo e della maggioranza la manovra ha aumentato le crepe diventando a sua volta un fattore di instabilità.
Potrà in queste condizioni il ministro dell'Economia restare al suo posto? Potrà reggere al dibattito parlamentare che si annuncia estremamente difficile?

* * *

La storia  -  lo sappiamo  -  non si fa con i se, ma i se a volte ci aiutano a capir meglio i fatti che sono realmente avvenuti. Dove saremmo oggi se il 14 dicembre del 2010 Berlusconi non avesse avuto la fiducia?
Il governo sarebbe caduto, il Presidente della Repubblica avrebbe aperto le consultazioni e molto probabilmente avrebbe nominato un nuovo governo, un nuovo presidente del Consiglio, un nuovo ministro del Tesoro. I nomi non mancavano ed erano tutti di primissimo piano, da Mario Monti a Mario Draghi. I mercati sarebbero stati ampiamente rassicurati da quei nomi e dalla loro politica.
Purtroppo non andò così. Oggi i mercati stanno attaccando i titoli pubblici emessi dallo Stato e i titoli delle banche; il rendimento dei buoni del Tesoro decennali è salito al 5 e mezzo per cento, lo "spread" rispetto al Bund tedesco a 2,48.

Nel frattempo ieri mattina la Corte civile d'appello di Milano ha condannato la Fininvest, nel processo di secondo grado sul Lodo Mondadori, a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 560 milioni di euro. Si tratta d'una sentenza che fa giustizia in sede civile d'uno dei più gravi reati che il nostro codice penale contempla: la corruzione di magistrati. Quel reato fu accertato con sentenza definitiva ma Berlusconi ne fu tenuto fuori perché per lui erano decorsi i termini della prescrizione.
Restava tuttavia il diritto della parte lesa al risarcimento del danno e a questo ha provveduto la sentenza di ieri. Essa certifica che l'impero editoriale del presidente del Consiglio è fondato su un gravissimo reato penale. Noi l'abbiamo sempre saputo e sempre detto e questo è per noi il valore politico e morale della sentenza di ieri.

* * *

Ribadito che la reazione negativa dei mercati è motivata principalmente dall'implosione della maggioranza di centrodestra, occorre tuttavia esaminare la manovra nella sua impostazione politica e tecnica, ambedue estremamente manchevoli.

Il ministro dell'Economia aveva inizialmente spacchettato i tempi dell'operazione: per l'esercizio in corso un intervento di un miliardo e mezzo, di semplice manutenzione. Nel 2012 cinque miliardi e mezzo e tanto bastava secondo il calendario concordato con l'Ue. Il grosso nei due esercizi successivi, 20 miliardi in ciascuno di essi per azzerare il deficit nel 2013 e per realizzare il pareggio del bilancio nel 2014. In totale 47 miliardi, ai quali bisognava aggiungerne circa 32 utilizzati nel 2009-2010 per mettere i conti pubblici in sicurezza.
Sembrò che queste operazioni fossero sufficienti e che il loro risultato finale segnasse il pieno successo di Tremonti e per riflesso del governo di cui egli è il perno economico. Mancavano in questo quadro di rigore finanziario, interventi destinati alla crescita del prodotto interno lordo, ma il superministro non mostrava di preoccuparsene. La crescita sarebbe venuta al momento opportuno. Protestavano le imprese, protestavano i sindacati, protestavano le organizzazioni dei commercianti e dei consumatori e protestavano anche Berlusconi e Bossi, ma Tremonti restava fermo e sicuro con l'appoggio dell'Europa e  -  così sembrava  -  anche dei mercati.

Ma poi le cose sono radicalmente cambiate e una realtà del tutto diversa è venuta a galla. Fermo restando lo spacchettamento temporale, si è venuti a sapere che Tremonti aveva effettuato un altro tipo di spacchettamento: la manovra vera e propria non era di 47 miliardi ma soltanto di 40; di questi, 25 erano contenuti nel decreto firmato quattro giorni fa da Napolitano (dopo che era stata ritirata la vergognosa norma mirata a bloccare la sentenza sul Lodo Mondadori). Altri 15 miliardi sarebbero stati invece reperiti con la legge delega per la riforma fiscale, che dovrà anch'essa esser votata dal Parlamento nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

È proprio la riduzione della manovra che ha indotto Giorgio Napolitano nel momento in cui firmava il decreto a indicare la necessità di ulteriori interventi da prendere al più presto possibile. Senza ancora entrare nel merito, la criticità che ha allarmato i mercati si deve soprattutto a quei 15 miliardi affidati alla legge delega. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dovrà poi confrontarsi, nel momento di emettere i decreti delegati, non solo con l'apposita commissione bicamerale ma soprattutto con la conferenza Stato-Regioni. E poiché la parte più rilevante dei 15 miliardi da reperire è prevista proprio a carico delle Regioni e degli Enti locali, è facile prevedere che il negoziato sarà lungo e molto complesso.

La reperibilità e la tempistica restano dunque i punti interrogativi che difficilmente saranno risolti nel prossimo esercizio.
Quanto al merito, la manovra da 25 miliardi e la riforma fiscale per reperirne altri 15 poggiano, come ha più volte osservato Bersani, su prelievi a carico del sociale: il taglio dei contributi agli Enti locali, le maggiori imposte territoriali, il peggioramento dei servizi, il potere d'acquisto delle famiglie, la mancata rivalutazione delle pensioni, i giovani disoccupati, l'età pensionistica delle donne.

Se si dovesse definire con due parole il significato politico di questa imponente operazione, di cui uno degli interventi principali è l'imposta sui titoli depositati nelle banche, si dovrebbe definirla una manovra di classe. Forse questo piacerà al Pdl e per alcuni aspetti anche alla Lega, ma certo non piacerà alle opposizioni e soprattutto a quelle fasce sociali che si sono manifestate nelle recenti elezioni amministrative e nel voto referendario.

* * *

L'ultimo capitolo che marca il fine regno berlusconiano è la marea degli scandali che coinvolge due eminenti deputati del Pdl, Alfonso Papa e Marco Milanese, un ministro di recente nomina, quel Saverio Romano sul quale il Presidente della Repubblica nell'atto di firmare il decreto di nomina voluto da Berlusconi indicò un possibile impedimento giudiziario che in quel momento era soltanto potenziale ma che ora è diventato di stringente attualità perché a suo carico è stato formalizzato dal Tribunale di Palermo un mandato di cattura per associazione mafiosa.
Papa, Milanese, Romano sono i tre terminali sui quali stanno lavorando le Procure di Napoli, Palermo e Roma e che riguardano appalti, nomine in alcune imprese di natura pubblica, dazioni di danaro, gioielli, automobili di altissimo pregio, immobili, informazioni riservate ed usate per ricatti e vere e proprie estorsioni.
Il centro di alcuni di questi scandali e di questi reati è la Guardia di finanza e il suo Comando generale. Il ministro dell'Economia, ascoltato di recente come testimone dalla Procura di Napoli, ha addirittura ammesso che esistono due cordate nella Guardia di finanza che operano per favorire due diversi candidati alla nomina di comandante generale.

Tremonti del resto è coinvolto in pieno dallo scandalo Milanese; un uomo che è al suo fianco dal 2005 e che è stato colto con le mani nel sacco per decine di reati, ricatti, uso di informazioni riservate. Di tutto ciò il ministro garantisce di non essere mai stato al corrente. Delle due l'una: o il ministro non dice il vero oppure la sua dabbenaggine nella scelta dei collaboratori rasenta un livello tale da minare la sua credibilità.
In questa situazione sarebbe estremamente urgente che il Partito democratico producesse una seria proposta alternativa di politica economica, di politica istituzionale e di legge elettorale. Bersani si era impegnato a farlo subito dopo le elezioni del maggio scorso, ma quella promessa non è stata mantenuta, si è restati nel vago di dichiarazioni che non descrivono una politica nella sua completezza e concretezza.
Il Pd rischia di perdere un'occasione storica per ridare un ruolo al centrosinistra e al riformismo. Viene da dire  -  insieme alle donne italiane di nuovo mobilitate  -  se non adesso, quando?

(10 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un cura immediata da 12 miliardi
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 04:13:24 pm
IL COMMENTO

Un cura immediata da 12 miliardi

di EUGENIO SCALFARI

LA BORSA italiana ha paurosamente sbandato nella prima mattinata di ieri, poi si è ripresa. L'emissione di titoli del Tesoro è andata male, c'è stato un calo della domanda e un'ulteriore impennata dei rendimenti e dello "spread" rispetto al Bund tedesco. Le altre Borse europee hanno continuato a ballare per tutta la giornata e la stessa cosa è avvenuta a Wall Street. L'attacco della speculazione è dunque rivolto contro tutta la finanza europea e non soltanto contro l'Italia. Ho avuto modo di parlarne ieri con Mario Draghi. La sua valutazione riguarda la necessità che il Consiglio dei Capi di Stato e di governo dell'Unione europea che si riunirà tra una settimana decida di rafforzare anzi di costruire una politica unitaria che finora non c'è stata e la cui assenza ha stimolato l'aggressività della speculazione e la fragilità dei mercati. Avremo dunque ancora alcuni giorni molto agitati in Europa (e anche in Usa) prima di "riveder le stelle". E in Italia? I commentatori italiani hanno spiegato il miglioramento di Piazza degli Affari con la dichiarazione di Tremonti appena rientrato da Bruxelles a Roma: "Torno al mio posto per chiudere la manovra".

Il presidente del Senato dal canto suo ha fissato per giovedì il voto ed ha incassato l'accordo delle opposizioni a collaborare costruttivamente con il governo. Napolitano segue minuto per minuto l'andamento dei mercati e il comportamento delle forze politiche e ne sollecita il senso di responsabilità. L'insieme di questi fatti spiegherebbe il recupero del mercato italiano dopo un inizio che faceva temere il peggio, ma non dice tutto. I mercati non danno gran peso alle dichiarazioni politiche se ad esse non seguono fatti concreti e se ne infischiano delle intenzioni di Alfano, di Bersani, di Bossi e di Schifani. Se ne infischiano anche delle dichiarazioni di Tremonti. Se l'andamento del mercato italiano ha registrato un recupero, ciò si deve soprattutto ad un massiccio intervento della Bce che ha acquistato titoli pubblici italiani per sostenerne il corso e alleggerire le nostre banche. Questa è la vera ragione del recupero e il deterrente che l'Europa può mettere in campo. Se il prossimo Consiglio dei Capi di Stato e di governo autorizzerà la Bce ad utilizzare il fondo già esistente per intervenire sui mercati in difesa dell'euro, la schiarita sarà duratura. Quel fondo ammonta a 500 miliardi con i quali la Bce può sbarrare il passo alla speculazione con un efficace tiro di controbatteria. Naturalmente ciascun paese deve dal canto suo mettere in campo politiche economiche adeguate che affianchino le iniziative prese dall'Ue e dalla Bce. L'Italia in particolare deve costruire una politica economica che sia all'altezza del suo peso: è il terzo tra i paesi ricchi dell'Eurozona; come ha ricordato ieri Ezio Mauro, il nostro debito pubblico rappresenta il 25 per cento del Pil dell'Eurozona, troppo elevato per farci fallire, ma anche impossibile da salvare se il fallimento diventasse inevitabile. In quel caso sarebbe l'intero sistema dell'euro ad affondare.

*  *  *
C'è un problema di credibilità politica italiana ed anche un problema di credibilità tecnica. E' difficile dire quale sia dei due quello di maggior peso. La credibilità politica del nostro governo è prossima allo zero in Europa, ma anche la credibilità tecnica si aggira su quel livello. Per dirla con parole chiare: la manovra attualmente in discussione in Parlamento è piena di buchi, di contraddizioni, di proposte sbagliate nel merito e nella tempistica. La sua approvazione al Senato entro giovedì dimostrerà soltanto il senso di responsabilità delle opposizioni, ma non cambierà la natura d'una operazione che è del tutto inefficace e a sconfiggere la speculazione e le reazioni negative del mercato.

Abbiamo già esaminato le manchevolezze della manovra. Le principali sono i due spacchettamenti effettuati dal ministro dell'Economia: quello d'aver collocato il grosso dell'operazione nel biennio 2013-14 e l'altro d'avere limitato la manovra vera e propria a 25 miliardi affidando la reperibilità degli altri 15 alla legge delega della riforma fiscale. Questo duplice spacchettamento ha lasciato il campo libero alla speculazione per tutto l'esercizio attualmente in corso. Tremonti ha più volte dichiarato che i conti pubblici italiani erano in sicurezza per tutto il biennio 2011-12. La risposta dei mercati è stata tale da ridurre a zero la credibilità del ministro. Dimostra che alla guida dell'Economia c'è un timoniere che naviga a vista e non ha alcuna percezione degli scogli disseminati sulla sua rotta. Ma questi non sono i soli errori contenuti nella manovra. Un errore è stato quello d'imporre una vera e propria patrimoniale sui titoli depositati presso le banche.

Dovrebbe fruttare un gettito di 3,6 miliardi ma scoraggerà l'affluenza di risparmio in Borsa e quindi il finanziamento degli investimenti sia pubblici sia privati. Un altro errore è stato quello di rinviare "sine die" il taglio dei costi della politica. Potevano fruttare almeno un miliardo. Molto di più se fossero state abolite le Province. Il solo azzeramento dei vitalizi agli ex parlamentari vale 218 milioni. Personalmente riscuoto come ex deputato un assegno netto di 2400 euro mensili.
Cinque anni fa inviai una lettera ai questori della Camera chiedendo che mi fosse annullato. La risposta fu che ci voleva una legge recepita dal regolamento della Camera, in mancanza di che l'assegno mi sarebbe stato comunque accreditato. Mi domando che cosa si aspetti ad annullare i vitalizi, ad allineare lo stipendio dei parlamentari a livello europeo, a diminuirne il numero, ad accorpare le Province e i Comuni.

Tornando all'insieme della manovra, 15 miliardi sono attesi dalla riforma del fisco. Significa che la nuova fiscalità dovrebbe concludersi con un saldo attivo di almeno 15 miliardi da destinare appunto al risanamento dei conti pubblici (ma non ci aveva detto il ministro che erano stati risanati?). Non conosciamo tuttora da dove verranno quei 15 miliardi perché l'architettura della riforma è sconosciuta (perfino al ministro?). Che cosa debbono pensarne gli operatori, i mercati, la speculazione? Penseranno questo: quei 15 miliardi in realtà sono una scommessa, l'intera manovra sarà parzialmente operativa non prima del 2013, la prateria è dunque aperta alle incursioni speculative d'ogni tipo e genere. Questa è stata la lungimiranza di Tremonti. E questa sarà la manovra che il Senato approverà giovedì. Pensare che basterà a calmare i mercati significa sognare a occhi aperti.

*  *  *
C'è una sola cosa da fare e da fare immediatamente: anticipare con decorrenza immediata le operazioni collocate nel 2012 e nel 2013. Anticiparle per un ammontare di almeno 10 miliardi puntando soprattutto sul taglio di spese e non su inasprimenti fiscali. Insomma elevare la manovra per il 2011 dagli attuali due miliardi a dodici. Questo deve proporre Tremonti al governo del quale è parte e questo deve ottenere. La manovra così emendata è quella che il Parlamento deve approvare. Diversamente approverà un documento scritto sull'acqua, privo di qualsiasi attuale efficacia. Dopodiché sia il presidente del Consiglio sia il ministro dell'Economia dovrebbero sgombrare il campo. Di danni ne hanno fatti fin troppi. Il loro ritorno a casa sarebbe l'unico regalo che dovrebbero fare al paese.

(13 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Quei due personaggi senza più autore
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2011, 07:05:07 pm
   
L'OPINIONE Berlusconi Governo

Quei due personaggi senza più autore

di EUGENIO SCALFARI

Abbiamo tutti lamentato il silenzio assordante di Berlusconi in questi lunghi giorni di tempesta finanziaria e sociale, ma il Cavaliere si conosce bene e sapeva che se avesse parlato avrebbe creato altri e serissimi guai. Infatti così è stato. È intervenuto alla Camera venerdì scorso nella seduta di approvazione della manovra economica ed ha letto una dichiarazione di poche righe nella quale si compiaceva della tenuta della maggioranza e della capacità del governo di governare. Ma poi è sceso nell'emiciclo ed ha parlato con i suoi deputati e con i giornalisti nei corridoi di Montecitorio.
Il succo delle sue dichiarazioni è stato questo: è falso che sia "commissariato" da Napolitano e da Tremonti; la manovra è stata imposta dall'emergenza e così com'è non gli piace affatto ma la colpa è dell'Europa; c'è una congiura dei giudici comunisti contro di lui a cominciare dalla Corte d'Appello civile di Milano che vuole rovinare Fininvest e mettere sulla strada duemila lavoratori di Mediaset; al ministro Romano, presente in aula, ha raccomandato di non dimettersi in nessun caso; ai deputati del Pdl ha raccomandato di difendere compattamente il loro collega Alfonso Papa quando tra pochi giorni l'aula di Montecitorio dovrà votare sul suo arresto chiesto dal Gip di Napoli. Infine ha ammonito Bossi perché receda dal preannunciato voto della Lega in favore dell'arresto di Papa, che sarebbe "un fatto gravissimo con effetti estremamente pericolosi". Questo è dunque il Berlusconi-pensiero quale risulta non da indiscrezioni più o meno attendibili, ma da sue dichiarazioni che sono state registrate dagli operatori televisivi e dai telefonini dei giornalisti assiepati attorno a lui. Se l'Europa e i mercati avevano bisogno di un'ennesima prova della confusione che aleggia sulla "governance" dell'Italia, la prova è stata ampiamente fornita dal presidente del Consiglio.
A questo punto si pone la domanda: la permanenza di Berlusconi alla guida del governo contribuisce positivamente alla stabilizzazione finanziaria o è invece un fattore altamente destabilizzante? Si può andare avanti in questo modo fino al gennaio 2013 e poi per altri sei mesi fino alle elezioni di maggio con i poteri del Quirinale affievoliti dal semestre pre-elettorale?
Ce la poniamo in molti questa domanda. Immagino che se la ponga soprattutto Giorgio Napolitano la cui attiva presenza è stata uno degli elementi che ha consentito l'approvazione della manovra in appena cinque giorni. "Un miracolo" ha detto il presidente della Repubblica. È vero, un miracolo mai avvenuto prima, ma i miracoli non si ripetono e non bastano per guidare un Paese. Ci vuole un governo credibile, un'opposizione credibile, una classe dirigente credibile.

***

L'opposizione credibile c'è e tutti (salvo Berlusconi) l'hanno riconosciuto, dallo stesso Napolitano ai presidenti del Senato e della Camera, dal ministro dell'Economia alla Lega e ai capigruppo del Pdl.
Ma proprio perché l'opposizione è credibile e ne ha dato la prova, proprio nel momento in cui il Parlamento dava il via libera alla manovra il segretario del Pd e tutto lo stato maggiore di quel partito hanno chiesto le dimissioni immediate del presidente del Consiglio ed hanno preannunciato che a cominciare da subito formuleranno un programma per capovolgere l'asse portante della manovra evitando la "macelleria sociale" che essa contiene, fermi restando i saldi che la manovra ha posto come paletti necessari a rassicurare i mercati e a tutelare il debito e i titoli dello Stato.
Il Partito democratico, l'Idv e il Terzo Polo hanno accumulato un credito consistente rendendo possibile il "miracolo". Ora hanno il diritto e il dovere di mettere questo credito all'incasso nell'interesse generale, ma è evidente che l'opposizione parlamentare da sola non basta.
Per uscire dallo stallo è necessario un più vasto concorso di popolo e di istituzioni, ciascuna nell'ambito della propria competenza. La classe dirigente, le forze sociali, la società civile sono chiamate a dare un fondamentale contributo. Andare avanti così significa che il miracolo compiuto il14 luglio ha cessato di operare.
Un commentatore molto attento, Fabrizio Forquet, ha scritto venerdì scorso su 24 Ore: "La manovra ha tenuto in carreggiata la macchina, ora è tempo di darle benzina per tornare a macinare terreno. Anche perché quando lunedì i mercati si riapriranno la manovra-sprint sarà già passata. E ai desk dei traders si tornerà a guardare all'Italia in cerca di buone ragioni per acquistare o per vendere titoli italiani". Sarà esattamente così.

***

Ma Tremonti non è da meno quanto a improntitudine. Non parliamo dei suoi cinque anni di "finanza creativa" nella legislatura del 2001, basati sui condoni e sulle cartolarizzazioni senza coperture; parliamo di oggi, di questa manovra. Quando la presentò poco meno di due mesi fa era molto diversa e molto più mite di quella approvata il 14 luglio. Per lui bastava così e per la Commissione europea di Barroso anche.
Poi ci fu il nerissimo venerdì e l'altrettanto nero lunedì successivo e la manovra fu radicalmente cambiata sotto la spinta di Napolitano e con i suggerimenti di Mario Draghi. Da 40 miliardi fu aumentata a 48 ma per metterla ancor più in sicurezza, una clausola di salvaguardia ne prevede altri 20 eventualmente riassorbibili nella riforma fiscale. Siamo dunque ad un totale di quasi 80 miliardi, un salasso di quelli che possono ammazzare un Paese se non saranno gestiti con altissima professionalità e con altrettanto solida credibilità. Osserviamo che il rapporto tra tagli di spesa e maggiori imposte raggiunge il 50 per cento. La vera macelleria sociale è questa perché si tratta di imposte regressive.
Domanda: è credibile un ministro dell'Economia costretto a rivoluzionare un'operazione perché non aveva previsto le reazioni negative dei mercati? Nella seduta del 14 luglio alla Camera Tremonti ha pubblicamente ringraziato l'opposizione la quale gli ha risposto che aveva reso possibile l'approvazione per senso di responsabilità ma senza alcuna corresponsabilità perché giudicava pessima la manovra approvata e si preparava a proporne sostanziali modifiche.
Ora Tremonti parla del Titanic e ricorda che in disastri come quello se la nave va a fondo muoiono tutti. Qualcuno ha interpretato quelle parole come un richiamo alla Germania e alla Francia, altri come un richiamo ai ceti abbienti del nostro Paese, i quali tuttavia escono abbastanza immuni dalla macelleria sociale denunciata dall'opposizione. Ma c'è anche un'altra considerazione da fare: se la nave affonda muore anche il comandante che l'ha guidata a cozzare con l'iceberg, ma se la nave miracolosamente si salva, il comandante finisce comunque sotto processo e viene radiato dalla Marina.
A rigor di logica debbono dunque andarsene sia Berlusconi sia Tremonti. Le loro responsabilità sono molto diverse ma della stessa gravità. La loro presenza è destabilizzante, debbono dunque esser sostituiti con rapidità da persone credibili e competenti delle quali c'è per fortuna ampia scelta e disponibilità.
Nel frattempo il ministro dell'Economia è tenuto a spiegare come sia stato possibile che le nomine nei consigli d'amministrazione di società controllate direttamente o indirettamente dal Tesoro siano state affidate a quel Milanese che non aveva altro titolo fuorché quello di essere un consulente del ministero, scavalcando il direttore generale Vittorio Grilli, che peraltro si è fatto tranquillamente scavalcare senza opporre alcuna resistenza.
Tremonti sapeva che Milanese e non Grilli gestiva le nomine? Se lo sapeva la sua responsabilità politica è enorme, se non lo sapeva la sua credibilità politica è sotto zero.

***

Va di moda da qualche giorno addossare la crisi dei mercati all'inconsistenza dell'Europa e la prova sta nel fatto che la speculazione attacca con assalti ricorrenti tutte le piazze europee e non soltanto quelle più deboli e disastrate. Luigi Spaventa ha sostenuto questa tesi su Repubblica di ieri con dovizia di argomenti. Non è il solo, l'inconsistenza di un'efficace "governance" dell'Eurozona è evidente a tutti e ne sono altrettanto evidenti gli effetti negativi.
Va detto tuttavia che non tutte le istituzioni europee sono state assenti dalla gestione della crisi. Non è stata assente per esempio la più autonoma e la più europea di quelle istituzioni e cioè la Banca centrale che è nei mesi scorsi più volte intervenuta acquistando o accettando in garanzia titoli dei paesi più disastrati a cominciare dalla Grecia, dall'Irlanda, dal Portogallo. Al bisogno ha acquistato anche titoli spagnoli e austriaci.
Lunedì scorso, quando la turbolenza ha investito in pieno per il secondo giorno consecutivo il mercato italiano, la Bce ha massicciamente acquistato titoli italiani attingendo dalla massa monetaria appositamente accantonata per operazioni sul mercato aperto.
Di questa massa monetaria fa parte anche il Fondo di stabilità per la sicurezza dell'euro; ammonta a mezzo miliardo e potrebbe  -  dovrebbe  -  essere incrementato fino a quattromila miliardi. Si tratta d'un deterrente imponente che la Bce può usare per controbattere la speculazione, purché i paesi con più elevati debiti sovrani procedano alla loro graduale riduzione azzerando i disavanzi di bilancio e recuperando saldi attivi nelle partite correnti.
In Italia in questi ultimi tre anni il debito non ha fatto che crescere e il fabbisogno per finanziarlo ad aumentare e così continuerà fino al 2013. Solo in quell'anno avrà infatti inizio la riduzione netta del disavanzo di bilancio.
Questa è un'altra delle manchevolezze della manovra che è ancora troppo spostata in avanti. Occorre dare inizio all'aggiustamento già da questo esercizio e dal successivo se si vuole veramente recuperare la fiducia dei mercati.
Infine bisogna pensare da subito alla crescita e alle riforme di liberalizzazione. Farsi dettar legge dai notai e dagli avvocati circa la liberalizzazione degli ordini professionali è una prova di impotenza; spostare alla prossima legislatura tutti gli interventi che riducono il costo della politica segnala un'altra impotenza. Questi segnali non aiutano a recuperare la perduta credibilità e la smarrita fiducia.
Ancor meno aiuta l'aria di irrespirabile corruzione all'interno della Guardia di Finanza. Non è un fenomeno nuovo, dura a dir poco da trent'anni. Ma ora la sensibilità della pubblica opinione è finalmente aumentata e quel fenomeno non è più oltre sostenibile. Spetta anche in questo caso al ministro dell'Economia dal quale dipende quel corpo dello Stato fornire un quadro esaustivo della situazione, delle responsabilità, degli eventuali peccati di omissione suoi e dei suoi collaboratori e proporre efficienti terapie. Come si vede non siamo affatto fuori dai rischi che tuttora ci sovrastano. La sola vera buona notizia riguarda il nostro sistema bancario: nessuno dei nostri maggiori istituti di credito ha avuto giudizi negativi nei test europei sul patrimonio delle banche. Bisogna quindi evitare di penalizzarle sia con provvedimenti fiscali sia mobilitandole per l'assorbimento dei titoli alle aste del Tesoro. Le banche debbono destinare le loro risorse al finanziamento degli investimenti. Altri compiti sono impropri e debbono essere evitati.

Post Scriptum. È stato approvato alla Camera un obbrobrioso testamento biologico. Probabilmente contiene disposizioni anticostituzionali. Ma indipendentemente dai rilievi eventuali del Capo dello Stato al momento della firma e dagli accertamenti di costituzionalità della Corte, questo è uno dei casi in cui la società civile e le forze politiche sensibili ai temi di libertà debbono mobilitarsi e lanciare il referendum abrogativo. Subito, prima ancora che il Senato completi l'iter parlamentare della legge. La libera stampa parteciperà a questa mobilitazione. Noi di Repubblica certamente ci saremo.

(17 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Bravi i finanzieri, i generali mica tanto
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 11:16:14 am
Bravi i finanzieri, i generali mica tanto

di Eugenio Scalfari

Nell'affare Bisignani rispunta la doppia anima della Guardia di Finanza: affidabile nei suoi gruppi operativi, spesso inquinata al vertice. È una storia che comincia con lo scandalo petroli di quarant'anni fa

(30 giugno 2011)

L'affare Bisignani (uso la parola affare nel significato francese del termine) fornisce uno spaccato raccapricciante di corruzione morale e di bassissima qualità della classe dirigente del nostro paese. I reati che stanno man man emergendo dall'inchiesta della Procura di Napoli sono gravi ma ancor più desolante è il livello delle persone coinvolte, la loro cupidigia, le loro invidie, le loro paure, la loro vocazione al ricatto, la flessibilità dei loro comportamenti e la durezza delle loro vendette.

A volte c'è grandezza perfino nel malaffare, ma nel sistema Bisignani c'è soltanto un'esasperante mediocrità che disegna perfettamente l'epoca berlusconiana. Una raffigurazione letteraria che descrive un sistema analogo si trova nel romanzo "La Curée" di Emile Zola, che prendeva di mira l'affarismo e la corruzione dei "palazzinari" e i faccendieri parigini durante l'impero di Napoleone III. Ecco un titolo - "La cuccagna" - che si attaglia perfettamente a questa "fin de règne" berlusconiana.
Un aspetto particolarmente inquietante di quanto finora è emerso dagli atti dell'inchiesta di Napoli riguarda la Guardia di Finanza. Questo corpo speciale delle forze armate italiane ha un singolare destino e una singolare struttura. A cominciare dalla gerarchia dalla quale dipende.
La dipendenza politica e funzionale risale al ministro delle Finanze, l'eventuale impiego per compiti di ordine pubblico riguarda le Prefetture e il ministro dell'Interno, la partecipazione ad azioni di guerra il ministro della Difesa. Infine per i compiti di polizia giudiziaria la Guardia di Finanza opera alle dipendenze delle Procure della Repubblica.

In quest'ultimo compito i finanzieri si sono guadagnati sul campo il rispetto della pubblica opinione. Le inchieste più delicate li hanno spesso visti protagonisti, alcuni magistrati inquirenti di alto rango si sono appoggiati a loro a preferenza dei Carabinieri e della Polizia di Stato. Insomma la Finanza è un corpo che merita lode e rispetto, ma non altrettanto si può dire per il suo Comando generale. Qui, al vertice di quel corpo, sono stati rari e brevi i periodi di pieno rispetto delle norme di correttezza e legalità.
La norma stabilisce che il Comandante generale non provenga dall'interno ma dall'esterno del corpo proprio per non accentuarne la separatezza e l'autoreferenzialità; ciò nonostante i fenomeni di corruzione con traffici di contrabbando, con episodi di concussione, sono stati molto frequenti a cominciare con lo scandalo dei petroli di quarant'anni fa, quando il Comando generale fu identificato addirittura come il principale centro di contrabbando e di evasione fiscale. Da allora i casi di coinvolgimento del Comando generale e soprattutto dei Capi di Stato maggiore e dei generali della Guardia sono stati pressoché continui. Ed ecco riapparire oggi il Capo di Stato maggiore Adinolfi e una decina di generali e alti ufficiali della Guardia in veste di favoreggiatori, informatori, complici del sistema Bisignani.

Strano destino che la Guardia di Finanza condivide in parte con analoghe deviazioni che hanno coinvolto i Capi di Stato maggiore e dei reparti speciali dei Carabinieri, a cominciare dal caso Sifar-De Lorenzo-Piano Solo. Sicché questi corpi separati sono quelli che riscuotono al tempo stesso la maggiore fiducia e la maggiore sfiducia degli italiani: fiducia nell'arma territoriale e operativa, sfiducia negli alti comandi che la guidano e la rappresentano. Tra le tante contraddizioni del nostro Paese questa è tra le più inquietanti.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nella testa di Bossi
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2011, 06:03:28 pm
Nella testa di Bossi

di Eugenio Scalfari

Ho provato a identificarmi con il capo della Lega. Per capire che cosa pensa davvero e dove vuole arrivare. È stata dura ma ci sono riuscito. Ecco il suo impietoso giudizio su Maroni e Calderoli. Mentre su Berlusconi...

(29 luglio 2011)

Umberto Bossi Umberto BossiChe cosa vuole esattamente la Lega? Che cosa pensa esattamente Umberto Bossi? Questo problema da tempo assilla gli analisti politici. Ma per capir bene un soggetto bisogna identificarsi con lui, uscire dalle proprie scarpe ed entrare nelle sue. Perciò ho tentato di mettere i miei piedi nelle scarpe del Senatur.

Debbo dire che per uno come me quest'operazione è piuttosto difficile. Il mio modo di pensare, la mia concezione del bene pubblico è completamente opposta alla sua. Ho seguito le tecniche raccomandate da Agostino in una pagina memorabile delle sue "Confessioni". Per identificarsi con il diverso bisogna anzitutto vuotarsi la mente sgombrandola dai pensieri e dalle costruzioni mentali che la abitano. Fissare un qualsiasi punto dello spazio che vi circonda, un oggetto, magari un chiodo piantato nel muro, un vaso, il dorso d'un libro, una natura morta, un numero. Fissare gli occhi sull'oggetto prescelto e non abbandonarlo per tutto il tempo necessario a scacciare ogni altro pensiero. Vuotare la mente. Anche i fachiri fanno così e così faceva Agostino per tentare di vedere la luce del Signore e godere della sua beatitudine.

Io ho fatto questo per capire che cosa passa nella mente di Bossi. Obiettivo assai più modesto di quello di Agostino ma, vi assicuro, altrettanto difficile anzi più difficile del suo. Ascendere alla beatitudine si accompagna infatti a un empito mistico; identificarsi con la testa di Bossi non può contare sulla mistica, è un penoso esercizio. Eppure credo d'esserci riuscito. Ci ho messo molte ore. Ho fissato senza mai distrarmi un'oliva che avevo poggiato sulla lastra di marmo della mia cucina. Come un Morandi con le sue bottiglie o un Cézanne con le sue mele. Tutto il resto dei miei pensieri è volato via. La mia mente si è svuotata salvo quell'oliva sul marmo.

A quel punto l'identificazione è avvenuta, io sono stato Bossi. Di Maroni non mi fido. Faceva il tastierista in un'orchestra jazz e di tanto in tanto lo fa ancora. Roba de matt. Si presenta a Pontida con uno striscione dei suoi aiutanti lungo 50 metri che lo propone come presidente del Consiglio. Maroni? Vota e fa votare i nostri parlamentari per l'arresto di Papa e sa che io non sono d'accordo. A Calderoli non voglio nemmeno pensare: è vanitoso, pensa in grande. Un leghista pensa in grande? La forza nostra è di pensare in piccolo e chi non l'ha capito è un imbecille: l'osteria, l'orto, l'officina, la scuola, l'ospedale, il Comune. Ma lui pensa in grande: la legge elettorale, la riforma della Costituzione. Ma ci pensi? Calderoli fa la riforma della Costituzione della Repubblica Italiana. Un leghista? E a me tocca poi sostenere queste cazzate per non fargli fare cattiva figura. Presenta la legge popolare per avere tre ministeri a Monza e poi finiscono con tre camere e cinque impiegati. Bersani dice che è stata una pagliacciata. Ha ragione. Il mio ritratto alle pareti insieme a Napolitano. A me ha fatto piacere ma la gente ci ride su e questo non mi piace affatto. Mi guardano male se vado in giro appoggiandomi al braccio di mio figlio. E a chi mi dovrei appoggiare? E' mio figlio e sa che cosa mi piace e che cosa no. Maroni non fuma il sigaro. Io non mi fido di chi non fuma il sigaro.

Neppure Berlusconi fuma il sigaro, di lui però mi fido: lui sa che non voglio prendergli il posto e io so che non verrà mai al posto mio. I miei mi preparano trappole, lui no. E i suoi ne preparano a lui, io no. E non è lui che non sa fare il suo mestiere ma i suoi consiglieri che lo fanno sbagliare così come i miei con me. Ma se lui continua a sopportarli e a sbagliare allora dovremo fare a meno di lui. Però quando questo avverrà i miei faranno a meno di me. Qualcuno ci ricorda che dovremmo pensare all'Italia. Per me l'Italia finisce a Bologna. E ci penso molto. Queste cose io le so, perciò non stacco nessuna spina.

A questo punto il mio telefono ha squillato e qualcuno ha risposto. L'identificazione è finita, ma io ho capito che avevo capito.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La bandiera nera di un governo in agonia
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2011, 10:51:29 pm
EDITORIALE

La bandiera nera di un governo in agonia

di EUGENIO SCALFARI


BISOGNA evitare che le banche italiane, solide e liquide, siano considerate una propaggine del nostro debito pubblico. Bisogna evitare che il nostro Paese conquisti sui mercati agli occhi degli investitori e delle forti mani della speculazione la palma della fragilità a causa di un quadro politico logorato dal suo maxi-debito pubblico e da una malattia ormai strutturale qual è quella della debole crescita.
 Queste parole i nostri lettori le conoscono ormai a memoria per averle lette infinite volte su queste pagine, ma quella qui sopra riportata è una citazione: le ha scritte ieri il direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, nell'articolo di fondo del suo giornale. È il giornale della Confindustria e Napoletano non è certo un giornalista di sinistra e tuttavia sono nette e impietose e altrettanto impietoso è il seguito dell'articolo. A nostro avviso sono l'esatta rappresentazione dello stato d'animo dei cosiddetti ceti moderati che ormai non esprimono più soltanto disagio ma una vera e propria disperazione.

Un'altra prova di quella disperazione ce la fornisce Sergio Romano in un articolo sul Corriere della Sera con il quale risponde alla lettera che Giulio Tremonti gli aveva indirizzato per giustificarsi sulla questione dell'appartamento a lui affittato dal suo amico e collaboratore Marco Milanese. Romano non è certo un bolscevico, ma l'asprezza del tono e il merito dei suoi giudizi nei confronti del ministro dell'Economia sono tali che Berlusconi l'avrebbe sicuramente ascritto alla genia del Comintern
se non fosse che il Cavaliere è animato da un vero e proprio odio verso il suo ministro che vorrebbe veder morto ma del quale non può disfarsi senza mettere a repentaglio il suo governo sempre più traballante.

Questo complicatissimo rapporto, politico e psicologico, tra il presidente del Consiglio e il suo superministro dell'Economia è un altro dei tanti nodi che costringono il nostro Paese ad una assoluta immobilità salvo i pochi provvedimenti che servono a mettere al riparo Berlusconi dalle sentenze della magistratura. Se cade Berlusconi cadrebbe anche Tremonti che dopo lo scandalo Milanese (che tende ad allargarsi giorno dopo giorno) non ha più alcuna "chance" di potergli succedere a Palazzo Chigi. Ma se cade Tremonti comincerebbe a sussultare l'intero edificio governativo. Perciò "simul stabunt, simul cadent" con gli effetti che questa convivenza forzosa proietta sul governo: un gruppo di naufraghi su una zattera senza timone né timoniere.

Il Paese deve affrontare un mare sempre più tempestoso in queste condizioni, dove ad una situazione economica obiettivamente difficilissima si affianca una crisi di credibilità che coinvolge con la stessa intensità il "premier" e il superministro, avvinghiati l'uno all'altro dall'odio e dall'istinto di sopravvivenza.

* * *

Ma perché le banche italiane, solide e solvibili come abbiamo più volte scritto, sono ritenute "propaggini del debito pubblico" e ne sopportano ogni giorno le conseguenze sui mercati finanziari? Al punto di registrare una capitalizzazione di Borsa che in situazioni normali stimolerebbe numerosi tentativi di Opa nei loro confronti?
Secondo stime ufficiali la percentuale dei titoli di Stato nel loro portafoglio e in quello di privati cittadini e imprese italiane affidabili raggiunge il 56 per cento mentre la percentuale dei titoli del nostro debito in mani straniere non supera il 44, un rapporto che dovrebbe evitare la qualifica di "propaggini".

Purtroppo però le cose non stanno propriamente così. Da un rapporto analitico della Morgan Stanley i titoli italiani in mano a istituzioni, banche e investitori stranieri ammontano a 790 miliardi contro 787 in mano a banche, imprese e investitori italiani. Il rapporto sarebbe dunque del 50 per cento. Ma, osserva la Morgan Stanley, se si aggiungono ai detentori stranieri anche i titoli intestati a italiani ma gestiti dall'estero, la quota "straniera" sale al 56 per cento del totale. Questa proporzione è del tutto anomala ed accresce il rischio che i fondi monetari e le banche d'affari internazionali vendano titoli italiani per alleggerire i portafogli e sostituirli con "asset" più affidabili. Sorge la domanda del perché l'affidabilità dei titoli italiani sia diminuita. Molto dipende dal nostro "spread" con il Bund tedesco che viaggia ormai dai primi di luglio intorno ai 300 punti-base e nelle ultime settimane si colloca al di sopra dei 330.

In più la situazione politica italiana è giudicata universalmente volatile, la credibilità del governo è minima, il tasso di interesse delle nostre emissioni è salito al 6 per cento e tale sarà in autunno quando il Tesoro dovrà emettere una massa notevole di titoli. In queste condizioni l'onere del debito pubblico a carico del Tesoro si è già mangiato un terzo della manovra appena votata dal Parlamento. La crescita è zero. Le previsioni della Confindustria parlano addirittura di un Pil negativo nel 2012.
Speriamo forse che i mercati dormano sonni tranquilli fino alla fine dell'anno?

* * *

È evidente che queste analisi tecniche e politiche che servono a spiegare le reazioni negativi dei mercati finanziari si intrecciano con la questione morale. Il declino della moralità pubblica è ormai un dato oggettivo, testimoniato dalle iniziative della magistratura inquirente e da quella giudicante. Coinvolgono il presidente del Consiglio, il ministro Romano, il deputato Papa, il deputato Milanese, il giudice Capaldo, l'ex capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, Adinolfi. Lambiscono Giulio Tremonti. Investono anche l'ex capo della segreteria di Bersani, Filippo Penati. Le reazioni di Bersani e del Pd sono state molto ferme. Manca la sospensione di Penati dal partito. Abbiamo già scritto che a noi sembra necessaria e urgente. Ma sull'altro lato dello schieramento i comportamenti sono ben diversi e le iniziative legislative sono vergognose, tanto più perché rappresentano il solo soprassalto di vitalità di un governo morente. Processo lungo e prescrizione breve: questi sono gli scatti del governo. Sembrano gli ultimi segnali, più automatici che vitali, d'un corpo che si disfà. Il Presidente Napolitano è ben consapevole di quanto sta accadendo. Ha incontrato tutte le parti sociali firmatarie del documento che invoca "discontinuità". Ha incontrato i partiti di maggioranza e quelli di opposizione. Aspetta che anche Bossi si metta a rapporto. Ma il clima è estremamente pesante.

Enrico Berlinguer, nel luglio del 1981, descrisse la questione morale che stava erodendo lo Stato. Abbiamo rievocato giovedì scorso la sua intervista a "Repubblica" e il significato che ebbe allora la sua denuncia. Oggi tuttavia la condizione della moralità pubblica è molto più grave. Il malaffare di allora serviva a pilotare consensi ai partiti; quello di oggi serve invece a procurare benefici personali a chi inalbera la bandiera del Re. Ricordiamo ancora le parole della Minetti quando aspettava una candidatura al Parlamento che fu poi trasformata nella sua partecipazione al consiglio della Regione lombarda: "Potrei rendere gli stessi servizi a Lui e pagherebbe lo Stato".
Hanno privatizzato i benefici pubblicizzando la corruzione: questi sono i frutti avvelenati del berlusconismo. Nel contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta" nel 2001 non erano previsti ma aveva già avvelenato le radici del partito azienda dalle quali è nata la Seconda Repubblica.

L'intreccio è dunque perverso: questione morale, questione politica, errori e manchevolezze d'una manovra finanziaria che ha il solo effetto di comprimere il potere d'acquisto del ceto medio-basso, penalizzando consumi e investimenti. In realtà l'anomala accoppiata Berlusconi-Tremonti dovrebbe andarsene a casa lasciando al Capo dello Stato il peso delle necessarie decisioni. Ogni indugio aumenta il costo che peserà sulle spalle degli italiani.
 

(31 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il cavaliere e i mercati tra Scilla e Cariddi
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 10:04:31 am
L'ANALISI

Il cavaliere e i mercati tra Scilla e Cariddi

di EUGENIO SCALFARI



IL TOPOLINO partorito dalla montagna è estremamente gracile: sette miliardi e mezzo fuoriusciti dal Fas, il salvadanaio che avrebbe dovuto sostenere le Regioni meridionali e che è stato più volte manomesso e ridotto al lumicino dal ministro dell'Economia.

Con sette miliardi e mezzo non si va lontano, tanto più che ci vorranno parecchi mesi per aprire i cantieri e assumere la manodopera necessaria. Ma ciò che rende grottesca questa trovata, la sola che ha dato un minimo di concretezza a quel discorso, è l'elenco delle opere e la loro tempistica.

Nell'elenco appare niente meno che il completamento dell'autostrada e della ferrovia nel tratto Napoli-Salerno-Reggio. Sono trent'anni che se ne parla e ogni volta i governi l'hanno dato per fatto ma è ancora lì.

Un Parlamento serio avrebbe dovuto seppellire con un'omerica risata quest'opera pubblica ballerina. E un'altra nello stesso elenco, da Bari a Napoli. Il presidente del Consiglio, presentando il topino, ha ricordato che quelle opere erano già state proposte dal governo alla Fiera di Bari dell'anno scorso. Fino a ieri erano finite non si sa in quale cassetto di Palazzo Chigi.

Ho dedicato l'inizio di questo commento al discorso di Berlusconi agli investimenti che dovrebbero rilanciare la crescita perché si tratta della sola proposta che abbia un minimo di concretezza. Mentre i mercati giocano ogni giorno con i debiti sovrani europei e in particolare con quello italiano, il nostro governo offre questa soluzione.
Grottesca, ridicola. Ricordo che Paolo Sylos Labini, quando già si parlava della Napoli-Salerno-Reggio, trent'anni fa disse: "Se sento ancora parlare di quell'autostrada metto mano alla pistola". Aveva perfettamente ragione.


I veri temi sui quali aspettavamo Berlusconi erano tre: il debito, la crescita e la fiducia dei mercati. Il presidente del Consiglio li ha elusi tutti.

La prima metà del discorso aveva l'andamento d'una relazione della Banca d'Italia: il problema del "default" americano scongiurato "in limine", il pericolo d'una nuova recessione che parta dagli Usa e si propaghi, l'intervento dell'Europa sul debito greco e sull'intera scacchiera dell'Eurozona. Grande "aplomb", una rapida ma informata sintesi della situazione dell'economia reale nell'Occidente opulento ma bloccato da un calo generale e drammatico della domanda.Non so chi gliel'ha scritto, ma sembrava d'ascoltare uno di quei dotti sermoni che vanno in scena in via Nazionale ogni 31 di maggio.

Quelle relazioni però, dopo la rassegna dei fatti, affrontano quello che è avvenuto in casa nostra, le cose ben fatte e quelle sbagliate, le omissioni, i ritardi, le confraternite del potere chiamate per nome e cognome.
Insomma un'altissima lezione di politica economica e di etica pubblica, un freno agli appetiti e una frustata alla pigrizia.

Nulla di simile nei trenta minuti dell'orazione berlusconiana. Abbiamo sentito ripetere per l'ennesima volta che tutto va bene, che i "fondamentali" sono solidissimi, che il risparmio delle famiglie è una risorsa che nessuno degli altri paesi possiede quanto noi, che le imprese girano a pieno ritmo e che i mercati, chissà perché, non vedono tutte queste meraviglie.

"I mercati" ha detto il premier "sono nervosi, vorrebbero tutto subito. Bisogna convincerli che c'è bisogno di tempo". Faceva uno strano effetto ascoltare quelle parole. Suggerivano l'idea che nei prossimi giorni Berlusconi faccia un giro delle Borse europee e dei "bureau" delle maggiori banche d'affari per convincere gli operatori a investire nei buoni del Tesoro e le imprese a sbarcare in Italia, auspica il nuovo Statuto dei lavori che il ministro Sacconi sta preparando per mettere definitivamente la mordacchia ai lavoratori italiani.

Ma nella terza parte del suo discorso il premier ha dato il meglio di sé. Ha ricordato, tra gli applausi della maggioranza, che lui è proprietario di tre aziende quotate in Borsa e dunque se ne intende. Ha fatto propri gli appelli di Napolitano alla coesione sociale e politica. Infine ha aperto all'opposizione affinché confronti i suoi programmi con quelli del governo. "Se quelle loro proposte saranno orientate verso il bene dell'Italia noi le accoglieremo".

Da quando è al potere non è mai accaduto per una assai semplice ragione: il bene dell'Italia sta tutto nei programmi del governo; se l'opposizione vorrà aggiungere i suoi voti, lui ne sarà molto contento.

La risposta di Bersani a nome dell'opposizione è stata centrata sul debito, sulla produttività, sulla crescita; cioè su quello che mancava totalmente nella relazione del premier. Con l'offerta pubblica di una maggioranza di tutte le forze parlamentari per fronteggiare l'emergenza della crisi e con un nuovo capo del governo designato dal presidente della Repubblica.

La proposta è sensata ma l'interlocutore non lo è. Gli si chiede un passo indietro che non farà mai perché degli interessi del paese se ne infischia e pensa unicamente ai suoi come l'esperienza pluridecennale ci insegna.

Mi auguro con tutto il cuore che i mercati di oggi e dei prossimi giorni siano sedotti dalla comunicativa berlusconiana e si mettano ventre a terra a comprare titoli di Stato e azioni delle nostre banche. Ma se non dovesse accadere che cosa si fa? Si va avanti con l'autostrada Napoli-Salerno-Reggio? Attenzione, perché alla fine di quell'autostrada ci sono Scilla e Cariddi che ingoiano l'acqua del mare e tutte le barche che navigano nei pressi delle loro fauci. Solo Odisseo scampò, ma era protetto da Atena, la dea dell'Intelligenza, con la quale non mi sembra che il nostro premier abbia rapporti cordiali.

(04 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La polmonite americana e gli zombie italiani
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2011, 12:22:38 pm
L'EDITORIALE

La polmonite americana e gli zombie italiani

di EUGENIO SCALFARI

LE TEMPESTE non vengono mai sole, ma una ne porta appresso un'altra. Si pensava che nella giornata finanziaria di domani il sole si sarebbe aperto un varco tra le nuvole nere dei giorni scorsi e che i mercati avrebbero respirato. Ma probabilmente non sarà così: l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato il debito americano. Non era mai avvenuto e gli operatori si aspettano il peggio in tutto il mondo a cominciare dal governo cinese che ha chiesto ad Obama con toni ultimativi di prendere drastiche decisioni per ridurre il disavanzo federale americano.

Non si era mai visto prima d'ora che uno Stato estero desse ordini alla Casa Bianca. Semmai accadeva il contrario. C'è di che aspettare col fiato sospeso che cosa accadrà domani nelle Borse asiatiche, in quelle europee e soprattutto a New York quando alle nove del mattino (le tre del pomeriggio per noi) si apriranno le contrattazioni a Wall Street. A quell'ora Piazza degli Affari a Milano sarà già da sei ore sull'Ottovolante. Forse ci sarebbe stata in tutti i casi perché la conferenza stampa di venerdì sera a Palazzo Chigi non era stata affatto rassicurante. Se l'America ha il raffreddore  -  si diceva un tempo  -  in Europa abbiamo la polmonite. Ma se la polmonite ce l'ha l'America, che cosa può accadere qui?

                                                                       * * *

In attesa degli eventi e per capire meglio i fatti nostri bisogna rievocarla quella conferenza stampa, i suoi antecedenti e quello che dovrebbe avvenire nel nostro piccolo ma per noi essenziale cortile di casa. Non è un insulto ma una constatazione: sembravano tre zombi quei personaggi appiccicati l'uno all'altro dietro quel tavolo, con l'aria imbambolata di pugili suonati dai pugni che hanno ricevuto.

Berlusconi spiegava alla platea dei giornalisti che l'Italia, cioè lui, erano tornati al centro dell'attenzione mondiale ed enumerava le telefonate ricevute da una parte e dall'altra dell'Atlantico. Cercava le parole per spiegare le decisioni prese, in totale contrasto con quelle comunicate al Parlamento appena 48 ore prima. Ma non le trovava. Si capiva soltanto che per rassicurare i mercati aveva deciso di accelerare d'un anno la manovra. Il pareggio del bilancio previsto per il 2014 sarebbe avvenuto nel 2013. Così, con un colpo di bacchetta magica. I partner europei erano stati informati e anche gli americani e tutti avevano applaudito. I mercati erano un orologio rotto ma stavano producendo un sacco di guai. "Tremonti vi spiegherà i dettagli" così aveva concluso dopo dieci minuti.

Tremonti, poveretto, era più imbarazzato e incespicante di lui. Non sembrava più quel ministro sicuro di sé, sprezzante, arrogante che conosciamo da tempo. Faceva lunghe pause, arruffava le frasi, si correggeva, tradiva continui vuoti di memoria. A un certo punto Letta l'ha interrotto. In realtà non aveva nulla da dire Gianni Letta, ma voleva comunque far sentire la sua voce affinché fosse chiaro che esisteva anche lui. Ma dopo quell'improvvida interruzione Tremonti non trovava più il filo per riprendere il discorso.

Una scena pietosa, conclusa nel modo più involontariamente comico dal presidente del Consiglio il quale, annunciando che il governo non sarebbe andato in vacanza, ha detto: "Palazzo Letta resterà aperto per tutto agosto".

Il giorno dopo è partito per la sua villa di Porto Rotondo. Un week-end rilassante evidentemente si imponeva.

                                                                    * * *

La verità è che il governo italiano, dopo il nerissimo giovedì con Piazza Affari a meno 5,16 maglia nera delle Borse mondiali e lo "spread" a quota 389, è stato commissariato. In un paese normale il premier e il suo governo si sarebbero dimessi, ma poiché la maggioranza Scilipoti esiste ancora, la soluzione dettata dall'Europa d'intesa con la Casa Bianca è stata il commissariamento.

Abbiamo ora un governo che deve eseguire gli ordini che gli vengono dati da Berlino e da Parigi tramite Barroso da una parte e Trichet dall'altra. Soprattutto quest'ultimo perché la Bce è il solo braccio operativo che l'Europa può usare nel tentativo di raffreddare i mercati.

Del resto è ormai ufficiale che l'atto di commissariamento è stato scritto e inviato al nostro presidente del Consiglio la mattina di venerdì con una lettera di Trichet controfirmata da Draghi che sarà a novembre il suo successore. In quella lettera sono fissate le condizioni: anticipare di un anno il pareggio del bilancio, iniziare da subito gli interventi per tagliare la spesa, avviare con decorrenza immediata interventi di stimolo per la crescita del reddito e dell'economia reale.

Per questa ragione quei tre personaggi dietro quel tavolo la sera di venerdì sembravano burattini mossi da fili tenuti da altre mani; appena due giorni prima avevano esposto con sussiego una politica economica che non si spostava d'un centimetro dal rovinoso immobilismo d'una manovra che aveva rinviato tutto di quattro anni. La maggioranza parlamentare aveva punteggiato di fragorosi applausi il discorso del premier. Il ministro dell'Economia, seduto alla sua sinistra, batteva anche lui le mani, felice della ritrovata armonia con il "boss"; il ministro degli Esteri, seduto alla sua destra, sottolineava gli applausi battendo la mano sul tavolo dei ministri.

Dopo un giorno e mezzo tutto ciò è stato capovolto. "È passato un mese e il mondo è completamente cambiato" ha detto Tremonti venerdì. È vero, è passato un mese, ma lui e tutta la banda mercoledì non se n'erano ancora accorti. Meno male che - non potendo dimissionarli - li hanno almeno commissariati. Ma purtroppo non basterà, polmonite americana a parte.

                                                                * * *

Dal balbettio di Berlusconi e di Tremonti si è capito che proporranno nei prossimi giorni alle commissioni competenti di Camera e Senato due disegni di legge di riforma costituzionale da essi ritenuti fondamentali: la modifica dell'articolo 41 e quella dell'articolo 81.

Il primo stabilirà, una volta modificato, che i cittadini sono liberi di assumere ogni tipo di iniziativa salvo quelle vietate dalle leggi. Si tratta di una pura ovvietà ma il veleno sta nella coda: spetta agli interessati autocertificare che non vi sono leggi che vietano le iniziative intraprese. La pubblica amministrazione farà controlli ex post. Dire che si tratta d'un potente incoraggiamento all'illegalità è dir poco.

Quanto all'articolo 81, si tratta di introdurre in Costituzione il pareggio del bilancio come principio inderogabile "salvo specifiche condizioni di emergenza" (terremoti, guerre, eccetera). Non si spiega però se il pareggio riguarda il bilancio preventivo o quello consuntivo o tutti e due. Ma c'è un'altra condizione non ancora detta però ventilata: che la spesa non possa superare il 45 per cento del Pil salvo un voto parlamentare a maggioranza qualificata.

Se passasse una riforma costituzionale del genere il tetto alla spesa che Obama ha a stento superato per evitare il default sarebbe uno scherzo: scomparirebbe ogni politica economica, ogni programma di investimento, ogni politica fiscale di redistribuzione del reddito, ogni politica estera, ogni politica della difesa ed ogni autonomia locale. Il governo sarebbe affidato non al Parlamento ma alla Corte dei conti e alla Ragioneria dello Stato.
Non credo che iniziative del genere troveranno appoggio nell'opposizione e faciliteranno coesione sociale. Comunque ci vorrà un anno prima che l'iter parlamentare sia completato e ancor più se sarà necessario il referendum confermativo. Pensate che i mercati nei prossimi giorni si calmeranno per l'effetto di annuncio di questi due sgorbi di riforma costituzionale?

                                                           * * *

Questi sono i preamboli, poi viene la sostanza: un anno di anticipo per realizzare nel 2013 l'obiettivo del pareggio del bilancio, ferma restando la manovra così come fu approvata in tre giorni un mese fa (ma forse bisognava esaminarla meglio invece di guardare soltanto l'orologio).

La manovra ammonta a 48 miliardi così distribuiti: tre miliardi nel 2011, cinque nel 2012, venti e venti nel biennio successivo. Se tutto viene anticipato d'un anno il nuovo calendario dovrebbe prevedere otto miliardi immediati in quest'esercizio, venti e venti nel biennio successivo. È realizzabile questo programma? I tre zombi venerdì non sono entrati nel dettaglio. I poteri esteri che li hanno commissariati neppure, i mercati nulla sanno e i contribuenti meno ancora, ma è evidente che nelle prossime 48 ore questi dettagli dovranno essere forniti.

La logica suggerisce che i tagli per otto miliardi del 2011 e i venti del 2012 debbano essere effettuati con un'unica visione. L'esercizio in corso è agli sgoccioli ma lo sfoltimento delle prestazioni assistenziali è già previsto nella manovra. Si tratta di renderlo operativo con l'immediata approvazione della legge delega su quei trattamenti.

Nel totale ammontano a 160 miliardi. La macelleria sociale accennata da Tremonti prevede riduzioni discrezionali del 5 per cento il primo anno e il 10 nel secondo con speciale attenzione alle pensioni di invalidità, agli accompagnamenti degli invalidi e alla reversibilità pensionistica. Il 15 per cento di 160 miliardi fa 24 miliardi. Più i ticket già operativi e le accise già in corso. Su quali ceti si scarica questo peso?

In tempi di buriana una dose di macelleria sociale è inevitabile purché sia affiancata dall'equità. È evidente che se tutto il peso è concentrato sul capitolo dell'assistenza, l'equità scompare. Dunque colpire solo l'assistenza è impensabile. Altrettanto impensabili sono le baggianate alternative di Di Pietro che pensa all'abolizione delle Province come un toccasana. Quanto a Casini, ha detto che se le proposte sono efficaci le voterà. Nei prossimi tre giorni ne conoscerà anche lui i dettagli e vedremo la sua risposta.

Ma la vera domanda è questa: si arriverà al pareggio del bilancio entro il 2013? Bisognerà affrontare la seconda "tranche" della manovra, cioè gli altri 24 miliardi. Si può mettere in esecuzione la prima tranche senza nulla sapere della seconda, basata interamente sulla riforma fiscale?

Lo chiederanno le opposizioni, le parti sociali, le Regioni e i Comuni. Ma lo chiederanno soprattutto i mercati e finché non lo sapranno è difficile sperare che si fermeranno. Sempre polmonite americana a parte.

                                                                 * * *

Torniamo ancora un poco alla polmonite americana. Riguarda la diminuzione del debito federale? Riguarda il tasso di cambio del dollaro? Riguarda gli spintoni della Cina?

Soltanto in parte. Vorrei dire in piccola parte. La polmonite americana proviene dai segnali di recessione, dalla caduta della domanda. Ma quella caduta sta avvenendo nel mondo intero e in Italia più che mai.

Per questo i mercati si sentono insicuri e picchiano sui debiti sovrani. Ma se al necessario rigore non si affianca la crescita, la polmonite non guarisce, diventa acuta, purulenta e alla fine attacca il cuore.

Infatti i nostri "lord protettori" hanno chiesto rigore e crescita. Ma la crescita ha bisogno di risorse. Si cresce alimentando il potere d'acquisto, stimolando la domanda, rilanciando i consumi, finanziando investimenti. Si cresce abbassando l'Irpef dei redditi medio-bassi e l'Irap sulle imprese. Si cresce spostando il peso dalle spalle dei meno abbienti a quelle più forti. Si cresce abbattendo l'evasione, generalizzando lo scarico dell'Iva in tutti i passaggi. L'articolo 41 della Costituzione non è la madre delle liberalizzazioni ma soltanto un aborto propagandistico.

Si cresce tassando il patrimonio non con un "una tantum" ma con un sistema fiscale adeguato.
Non illudetevi che sia sufficiente l'intervento della Bce a sostegno dei titoli italiani (e spagnoli). Soltanto un altro zombi come Bossi può pensarlo.

La Bce è intervenuta nei mesi scorsi e ancora l'altro ieri acquistando titoli greci, irlandesi e portoghesi, per 74 miliardi. Equivale all'incirca al 20 per cento di quei debiti. Se dovesse applicare quella stessa percentuale per l'Italia dovrebbe acquistare titoli per 400 miliardi e arriverebbe a 700 con la Spagna. È impossibile. Equivarrebbe a europeizzare un quinto dei debiti sovrani d'Italia e di Spagna. E gli altri paesi resterebbero a guardare?

Bisogna battere la recessione e rilanciare la crescita. Il resto sono chiacchiere e non bloccano i mercati.

(07 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/08/07/news/la_polmonite_americana_e_gli_zombie_italiani-20128615/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Pagano sempre i soliti noti
Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 11:04:33 am
L'EDITORALE

Pagano sempre i soliti noti

di EUGENIO SCALFARI


Sintesi della manovra per Berlusconi: "Il mio cuore gronda sangue, ma ho dovuto farlo per il bene del Paese".

Sintesi della manovra per Tremonti: "La mia coscienza è tranquilla perché ho operato per il bene del Paese".

Sintesi della manovra per noi commentatori cattivi secondo il ministro Sacconi: "È una tardiva e inutile schifezza".

Queste sono le sintesi, ma ora andiamo alle analisi. Questo decreto-manovra che modifica dopo appena due settimane il decreto approvato in tre giorni dal Parlamento, rappresenta il combinato disposto d'un asprissimo conflitto tra Berlusconi e Tremonti nel corso del quale l'uno e l'altro si sono paralizzati a vicenda. Il primo aveva come sponda e come scusante Mario Draghi e la Bce, il secondo combatteva da solo e con un braccio legato da una catastrofe incombente da lui non prevista.

Berlusconi avrebbe voluto aumentare l'Iva di uno o due punti, Tremonti gliel'ha impedito dimostrandogli che il gettito sarebbe stato insufficiente e il rischio di inflazione elevato.

Tremonti voleva un'imposta di scopo sulla ricchezza, analoga a quella che fu varata da Prodi per l'entrata nell'euro. Berlusconi gliel'ha impedito. Berlusconi voleva sbloccare 15 miliardi che i concessionari di beni pubblici erano in grado di mobilitare subito per investimenti in infrastrutture a cominciare dalle autostrade, porti, aeroporti, ferrovie. Tremonti gliel'ha impedito.
 
Tremonti voleva tassare la prima casa. Berlusconi gliel'ha impedito. Bossi, terzo incomodo, non voleva che fossero manomesse le pensioni d'anzianità. In parte c'è riuscito ed ora ne mena vanto.

Il decreto esce oggi in "Gazzetta Ufficiale" ed è il risultato di questa singolarissima collaborazione tra il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia. Una collaborazione perversa che non è mai avvenuta in nessun Paese del mondo dove, quando si manifestano dissidi e versioni così contrapposte uno dei due contendenti (di solito il ministro) rassegna le dimissioni. Da noi no, dimettersi non si usa, c'è sempre uno Scilipoti a tenerli a galla.

Domani in tutto il mondo riaprono i mercati perché il ferragosto è una vacanza solo italiana. Noi commentatori cattivi speriamo di tutto cuore che questo aborto di manovra sia preso sul serio a Francoforte, a Parigi, a Londra, a Wall Street. Ma se così non sarà, saranno guai terribilmente seri.

                                                            * * *

C'è stato un preludio alla manovra-schifezza. Il ministro dell'Economia era profondamente offeso da come i giornali della famiglia regnante (ma non solo loro) l'avevano trattato. E ancor più offeso dal fatto che il presidente del Consiglio aveva pubblicamente assunto come sua guida il governatore Draghi che lui vive come un trave in un occhio. Chiese perciò, a tutela della sua reputazione, l'immediata nomina di Vittorio Grilli, attuale direttore generale del Tesoro e suo fidato seguace, a governatore della Banca d'Italia. Berlusconi chiamò Letta e l'incaricò di darsi da fare: voleva evitare che Tremonti si dimettesse in uno dei suoi sempre più frequenti attacchi di rabbia.

Letta non trovò di meglio che chiedere l'aiuto di Bersani, ma aveva scelto molto male l'eventuale aiutante o forse l'aveva scelto benissimo. Bersani fece quello che onestamente riteneva giusto: informò Napolitano di quanto gli veniva chiesto. La nomina del governatore è un atto complesso e il presidente della Repubblica ne è uno degli attori principali. Perciò dal Quirinale avvertirono Letta che una richiesta del genere in un momento così agitato sarebbe stata respinta. Come preludio alla manovra non c'è male.

Ma ci fu anche un altro preludio, passato quasi sotto silenzio benché gravido di presagi: la Banca d'Italia diramò venerdì la notizia che il nostro debito sovrano aveva toccato la sua punta massima, pari a 1.900 miliardi, un rapporto del 120 per cento rispetto al Pil valutato per quest'anno all'1,1. Se il Pil dovesse ulteriormente scendere come probabilmente avverrà, quel rapporto sarà ancor più elevato.

                                                                * * *

Di buono nel decreto-schifezza c'è una sola cosa e ci sembra doveroso darne atto: l'abolizione d'una trentina di Provincie e dei relativi Prefetti e Questori, più i loro cospicui "indotti". E l'accorpamento dei Comuni piccoli e piccolissimi.

Era un progetto da tempo allo studio, dall'epoca del governo Prodi del '96, ma mai approdato in Parlamento. È stato tirato fuori dal ministro Calderoli col forcipe dell'emergenza. Si tratta d'una riforma vera e strutturale. Bravo Calderoli. A sentirlo ieri nella conferenza stampa con Tremonti e Sacconi, sembrava uno statista al punto da farci dimenticare il ministro che disse d'aver abolito 476mila leggi semplificando lo Stato. Di quella semplificazione nessuno si è accorto, nessun cittadino, nessun contribuente, nessun utente e nessuna istituzione. Il ministro che ieri parlava da statista ha avuto la dabbenaggine di ricordarcelo. Dia retta: non ne parli mai più, consideriamolo un videogame e cerchiamo di scordarci tutti di quella pagliacciata.

Una parola viene qui acconcia a proposito del ministro Sacconi il quale durante la conferenza stampa di ieri ha più volte attaccato il governo Prodi per aver anticipato anziché postergarla l'età dei pensionati. Mancava però il contesto in cui quell'attacco andava collocato. Prodi si era trovato di fronte allo "scalone" di Maroni e l'aveva trasformato in altrettanti scalini per renderlo equamente accettabile.

Egregio ministro, lei appartiene ad un governo di cui c'è solo da vergognarsi. Ma noi, commentatori cattivi, cerchiamo di collocare nel contesto perfino lei. Pensi dove arriva la nostra pietà cristiana e cerchi  -  se può  -  di fare altrettanto.

                                                                 * * *

La manovra-schifezza per anticipare il pareggio del bilancio ha bisogno di almeno 20 miliardi subito e li ha trovati in questo modo: 8 miliardi e mezzo di tagli ai ministeri nel biennio 2011-12; 10 miliardi e mezzo di tagli a enti locali e Regioni; 1 miliardo dalle rendite tassate al 20 per cento, un altro miliardo dal contributo dei redditi oltre i 90mila e i 150mila euro. Il totale fa 21 miliardi, dei quali 19 da ministeri ed enti locali. Questi ultimi significano semplicemente altre tasse locali e/o azzeramento dei servizi.

Non parliamo della macelleria sociale, per altro notevole; parliamo del fatto che, dopo questi 21 miliardi ne restano ancora da reperire 27 per arrivare al totale dell'operazione. Dove andarli a cercare? La risposta c'è: nella delega assistenziale, nello sfoltimento delle detrazioni, nelle pensioni di invalidità, di reversibilità, nei costi della Sanità.

Tutto spremuto e ridotto all'osso si arriva sì e no a 7-8 miliardi. Ne restano altri 20, sui quali c'è il buio assoluto.
Schifezza perché pagano solo i meno abbienti e i soliti noti. Insufficienza perché questa schifezza non basta. E infine non c'è assolutamente niente che finanzi provvedimenti di crescita. Il Tremonti della conferenza stampa rispondendo alla domanda di un giornalista ha detto: "Io sto alle previsioni dell'Istat: il Pil crescerà quest'anno dell'1,1 per cento. Le liberalizzazioni che faremo potranno aumentare questa cifra dello 0,1 nel breve periodo. E poi la crescita non dipende da noi ma dall'America e dall'Europa".

Questa è l'analisi della manovra.

                                                                  * * *

La sorpresa di ieri è il contropiano di Bersani. Fatti salvi i suoi giudizi politici su un governo irresponsabile, sugli errori macroscopici di previsione, sul mancato ascolto di quanto da molti mesi propongono le opposizioni e le parti sociali, giudizi sui quali coincidono quelli dei cattivi commentatori, il contropiano si articola così:

1) prelievo "una tantum" sui capitali illecitamente esportati e poi rientrati in Italia con uno scudo fiscale ottenuto pagando soltanto il 5 per cento dell'ammontare. Negli altri paesi europei che fecero analoghe operazioni il prelievo fu mediamente del 30 per cento. Il Pd propone ora una tassa del 20 per cento che frutterebbe all'erario 15 miliardi.

2) Una lotta all'evasione seguendo lo schema che fruttò, quando Visco era ministro delle Finanze, 30 miliardi in un anno, basati sulla tracciabilità dei pagamenti e sull'elenco dei fornitori.

3) Una descrizione del patrimonio da effettuare ogni anno come allegato alla dichiarazione dei redditi.

4) Un'imposta ordinaria sui cespiti immobiliari ai valori di mercato, con ampie esenzioni sociali e inglobando le imposte comunali relative agli immobili.

5) Dimezzamento dei parlamentari dalla prossima legislatura.

Questi sono solo alcuni dei punti ai quali si affiancano liberalizzazioni negli ordini professionali, della Rc auto, dei mutui e dei conti correnti bancari, dei servizi pubblici locali (acqua esclusa) nonché la separazione della Rete gas dalla Snam.

Il pacchetto poggia interamente sul presupposto che debbano esser messi a contributo i ricchi e gli evasori e non le famiglie, i lavoratori e le imprese che sono già oberati oltre misura.

                                                                 * * *

Sarà interessante assistere al confronto tra queste due filosofie. Berlusconi ha fatto molte aperture all'opposizione. È la prima volta. Se accettasse di ritassare i "patrimoni-scudati" sarebbe una vera bomba.

L'accetterebbe anche Tremonti? E come l'accoglierebbero i mercati?

Maledetti benedetti mercati. Avete svegliato i dormenti, ridato l'udito ai sordi e la vista ai ciechi. Ma purtroppo non possedete la magia di evitare la recessione ed è questa la vera minaccia che grava su tutto l'Occidente e non solo.

Sta calando la domanda globale e il rigore che i mercati pretendono aggraverà quel calo. Della crescita questo governo se ne infischia. A noi sanguina il cuore. A Sacconi no, lui sogna di poter mandare la Camusso in galera e solo allora si addormenterebbe in pace nella convinzione d'aver operato per il bene del paese. 

(14 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. I veri nemici del Cav.
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:08:46 pm
I veri nemici del Cav.

di Eugenio Scalfari

A lui della Merkel, di Sarkozy e di Trichet non può importare di meno.
Anzi, è ben contento che siano loro a prendersi la responsabilità della stangata.
Quelli che davvero lo fanno soffrire, quest'estate, sono l'ex moglie Veronica e l'odiato Carlo De Benedetti.
Più i soliti tribunali, naturalmente...

(16 agosto 2011)

A villa Certosa si gode una splendida vista, il mare trascolora dal verde-acqua all'azzurro-cielo, sulla sinistra il promontorio di Romazzino e i golfi di Porto Cervo, sulla destra le ville di Porto Rotondo. Il giardino E' magnifico, piante rare, aiole fiorite e aiole selvagge, fontane, padiglioni, orti ornamentali. sulla sfondo le colline rocciose di San Pantaleo e le sabbie di San Teodoro.

Lui però guarda poco il paesaggio, se potesse cambiare aria comprerebbe una villetta sulle colline di Saint Tropez. Ma in questi giorni il suo problema è un altro: l'hanno commissariato. Ma chi? Chi ha avuto tanta forza e tanto coraggio da metterlo al guinzaglio? La risposta sembrerebbe nei fatti, nelle agenzie di stampa e negli articoli dei giornali: i commissari sarebbero stati la cancelliera Angela Merkel, il presidente Nicolas Sarkozy e il supergovernatore della Banca centrale europa, Jean-Claude Trichet. Lui che poteva fare? I mercati di tutto il mondo erano in tempesta e quello italiano in particolare. Quei tre gli hanno garantito il salvataggio purché lui smettesse di crear guai e si ritirasse in buon ordine e lui ha accettato per forza maggiore. E così che sono andate le cose?

No, non è affatto così. Le cose sono andate diversamente. Vista la tempesta sui mercati, alimentata contro di lui da Bersani, Di Pietro e Rutelli sostenuti da Comunione e liberazione di Formigoni, lui ha chiamato in teleconferenza la sera di giovedì 5 agosto i tre di Berlino, Parigi e Francoforte e senza tanti convenevoli gli ha imposto la sua volontà: "Dovete intervenire subito altrimenti andremo tutti a fondo e i comunisti si impossesseranno di palazzo Letta. Per loro sarà una passeggiata. Ma se voi vi muovete questa scelleratezza non riuscirà. Voglio che Trichet stampi 400 miliardi, hai capito bene? 400 miliardi e li scaraventi sul mercato italiano. Della Spagna me ne frego, fate un po' voi. Quanto a me, mi ritirerò per qualche giorno a Villa Certosa e per non darvi nessuna preoccupazione andrò qualche giorno più tardi al San Raffaele perché mi sono sbucciato il calcagno destro scendendo le scale e mi debbono fare un piccolo intervento plastico che impone assoluta immobilità. Vi raccomando il rigore. E niente mani nelle tasche degli italiani, a cominciare da quelle di Verdini. La macelleria sociale no, non la voglio, perciò niente prelievi sulle rendite. Se dovete proprio tagliare fatelo sulle pensioni, sugli invalidi, sugli statali e sui precari. Brunetta resterà a Roma per darvi i necessari consigli. Buon lavoro".

Ma "perché queste cose non le fai tu?", ha obiettato la Merkel: "Angela, sei matta? Sono provvedimenti impopolari, ma per voi che siete stranieri sono a costo zero. E poi i 400 miliardi è Trichet che li deve stampare, sta lì per questo e per questo lo paghiamo". Le cose dunque sono andate così. Altro che commissariato, è lui che ha commissariato quei tre. E tuttavia lui è triste, è solo ed è stato veramente commissariato. Ma da chi?
Nessuno se ne è accorto, nessuno ci ha pensato salvo sua figlia Marina, l'unica che gli vuole veramente bene. L'ha commissariato Carlo De Benedetti in combutta con Murdoch che si vuole rifare in Italia delle sberle che ha preso in Inghilterra e con l'appoggio del Tribunale Civile e della Corte d'Appello di Milano.
L'hanno spogliato, non ha più un soldo in cassa, ora gli vogliono strappare anche la Mondadori e l'Einaudi e lanceranno un'Opa su Mediaset. Si sono impadroniti di Mediobanca e gli hanno tagliato i rifornimenti. A lui hanno imposto il pagamento immediato di 560 milioni in contanti. "Se non paghi ti mandiamo in galera", gli hanno mandato a dire da un messaggero. Chi era il messaggero non ci si crederebbe: la sua ex moglie Veronica. E' lei che l'ha avvisato. Per il suo bene, ha detto. Ma intanto lo ha anche informato che vuole metà del patrimonio, metà. Il Tribunale naturalmente è con lei.
De Benedetti, Murdoch, Veronica, i magistrati; Dell'Utri non gli parla da sei mesi. Questa è la situazione. I mercati? Ma chi se ne frega dei mercati.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La missione impossibile di costruire l'Europa
Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 10:19:04 am
L'EDITORIALE

La missione impossibile di costruire l'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Potrà salvarsi l'Europa? Potrà trovare una sua vocazione, una sua missione da compiere e avere la forza per realizzarla? Molte voci si sono cimentate nei giorni scorsi con questo problema che è capitale per tanti aspetti politici, economici e soprattutto esistenziali. Alcune di quelle voci credono che questa "mission impossible" sia possibile, altre temono di no, temono d'una partita persa in partenza e che l'Europa sia ormai un corpo inerte, ripiegato sui suoi egoismi, sulle sue piccole patrie che la condannano all'irrilevanza.

Viene in mente quello che fu il destino delle città greche ai tempi di Alessandro il Grande. Atene, Sparta, Tebe, Corinto erano state grandi, avevano costellato di colonie le coste del Mediterraneo, avevano sconfitto i persiani di Ciro e di Serse ma poi si erano dilaniate in feroci guerre tra loro. Quando Alessandro concepì il suo sogno d'un impero che arrivasse fino al Caspio e all'Indo, cercò di riportare la Grecia all'antico splendore guidandola e associandola alla sua visione, ma non riuscì, le città greche rifiutarono la sua proposta e non riuscirono a scuotersi dalla loro irrilevanza politica. Alessandro partì senza di loro alla conquista delle "terre di mezzo".

Dalla sua impresa nacque l'ellenismo che fu il tramite prezioso tra la cultura greca e quella romana. L'ellenismo contribuì fortemente alla nascita della civiltà europea, ma la Grecia non è più uscita dalla sua irrilevanza. Sarà questo il destino dell'Europa di oggi?

Il nostro continente è ancora molto ricco e popolato, possiede una cultura affinata durante i secoli, ha elaborato valori di tolleranza, di libertà, di eguaglianza e non ha smarrito il gusto dell'innovazione. Sembra però avere smarrito il desiderio e senza il desiderio le missioni impossibili restano tali.

* * *

Tra le voci autorevoli che si sono poste in questi giorni il tema dell'Europa, ce ne sono state due di particolare rilievo: quella di Giorgio Napolitano nel suo recente discorso al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione e quella di Romano Prodi in alcuni articoli e proposte sull'assetto delle istituzioni dell'Unione.

Napolitano ha battuto molto sul tasto del desiderio. Ne cito qui il passaggio più rilevante: "È certamente vero che nel determinare il benessere delle persone gli aspetti quantitativi (a cominciare dal reddito e dalla speranza di vita) contano, ma insieme ad essi contano anche gli stati soggettivi e gli aspetti qualitativi della condizione umana. È a tutto ciò che bisogna pensare quando ci si chiede se le giovani generazioni potranno, in Italia e in Europa, progredire rispetto alla generazione dei padri. La risposta è che esse debbono progredire nella loro complessiva condizione umana. Ecco qualcosa per cui avrebbe senso che si riaccendesse il "motore del desiderio"".

Nella sua conclusione Napolitano ha esortato i giovani ai quali si rivolgeva: "Non fatevi condizionare da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obiettivi di potere, personalismi dilaganti. Apritevi all'incontro con interlocutori rappresentativi di altre e diverse radici culturali. Portate, nel tempo dell'incertezza, il vostro anelito di certezza".

La platea lo ha lungamente applaudito, ma mi domando se quei giovani avessero ben compreso il senso delle sue parole. La loro certezza è il dato che più caratterizza Comunione e Liberazione ma è uno stato d'animo identitario, deriva dallo "stare insieme". Stare insieme in una comunità che non sembra disposta ad aprirsi all'incontro con "portatori di altre e diverse radici culturali" né ad opporsi a "chiusure, obiettivi di potere, personalismi dilaganti".

Sarebbe importante che le esortazioni di Napolitano fossero realmente condivise e il "motore del desiderio" si riaccendesse, in Italia e in Europa. Ma che cos'è esattamente il "motore del desiderio"? Ecco un punto che merita attenzione e approfondimento.

* * *

La nostra - scrisse Hegel nella sua "Fenomenologia dello spirito" - è una specie desiderante. Desidera di desiderare cioè desidera di trascendersi, di superarsi. Non di superare gli altri, ma di superare se stessi. Questo è il lascito che ci ha consegnato la modernità: superare noi stessi, non aggrapparsi alla sicurezza identitaria.
Purtroppo in Italia e in Europa lo spirito oggi prevalente è invece quello di aggrapparsi alle proprie identità. La Germania ne è l'espressione più evidente ma non la sola. Le istituzioni europee non riescono a compiere quel superamento di se stesse indispensabile per la nascita d'una grande potenza che sia in grado di coniugare un vero governo dell'Unione con un Parlamento democratico eletto direttamente dai popoli europei.

Romano Prodi ha proposto una soluzione apparentemente tecnica, ma piena di contenuti politici: l'emissione di eurobond garantiti dalle riserve auree degli Stati membri e dalle loro partecipazioni azionarie, per raccogliere fino a 3.000 milioni di euro sui mercati internazionali assorbendo una parte dei debiti sovrani e finanziando investimenti di dimensioni europee. Al di là delle tecniche finanziarie l'obiettivo è dare consistenza economica ai poteri del Parlamento e di un governo democratico dell'Unione.

Ricordate come nacque la "governance" degli Stati Uniti? All'inizio era una confederazione di Stati sovrani, con poteri federali molto ristretti. Ma quello fu un seme che fruttificò. Era nato da una guerra di indipendenza. Poi fu necessaria una guerra di secessione. E poi ebbe inizio una lunga lotta per l'affermazione dei diritti eguali per tutti. Così, passo dopo passo, il governo federale acquistò poteri sempre più estesi e rese possibile l'assorbimento dell'immigrazione. La prima potenza democratica del mondo è nata infatti dal "melting" d'una quantità di minoranze anglosassoni, irlandesi, italiane, africane, messicane, portoricane, ebree, russe, cinesi.
Così è nata la nazione americana e questa è l'America, vitale perché sempre in cerca d'una nuova frontiera, d'un sogno da realizzare, d'una missione da adempiere.

L'Europa ha svolto ben prima dell'America analoghe missioni, ma non come potenza continentale. Furono le singole nazioni a creare i loro imperi, ma in perenne guerra tra loro: Spagna, Francia, Portogallo, Olanda, Inghilterra, Austria, Germania. Imperi, guerre, interessi e anche valori.

Tornano in mente ancora una volta le città greche, il loro grande destino e poi la loro finale irrilevanza. Avevano almeno una lingua comune. Noi non abbiamo neppure quella e non è certo una piccola differenza.

E tuttavia il salto in avanti è possibile. Paradossalmente la crisi economica attuale può esserne l'occasione. La guerra e la pace in Libia può esserne l'occasione. Le rivoluzioni giovanili nella fascia mediterranea possono esserne l'occasione.

Dobbiamo abbattere il muro che ancora esiste tra il Nord e il Sud del continente dopo il crollo di quello tra l'Est e l'Ovest. Dobbiamo fare dell'euro una grande moneta mondiale, sorretta da interessi ma anche dai valori di libertà, eguaglianza, democrazia. Dobbiamo insomma riaccendere il "motore del desiderio".

Post scriptum. Nel Partito democratico alcuni dirigenti (ma non il segretario Bersani) vedono con sfavore lo sciopero generale proclamato dalla Cgil contro il decreto-manovra in discussione in Parlamento. Non è il momento, dicono, esortando la Cgil a ripensarci. È incomprensibile la ragione di tali critiche. La Cgil è un sindacato. Come tale non gli spetta, né ha l'intenzione, di proporre una contro-manovra. Nel decreto sono tuttavia presenti alcuni articoli, proposti dal ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che mettono in discussione diritti dei lavoratori considerati irrinunciabili dalla Cgil. Lo sciopero è il solo strumento del quale un sindacato dispone e legittimamente ha deciso di usarlo. Proporre una contro-manovra è compito dei partiti d'opposizione, scioperare in difesa di diritti lesi è compito del sindacato e delle sue autonome deliberazioni. E questo è tutto.
 

(28 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/28/news/la_missione_impossibile_di_costruire_l_europa-20953522/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Oggi l'Europa si avvicina rapidamente verso l'irrilevanza.
Inserito da: Admin - Settembre 02, 2011, 06:07:24 pm
Oggi l'Europa si avvicina rapidamente verso l'irrilevanza.

Come accadde alla Grecia, divisa in tante città-Stato, dopo i successi del condottiero macedone che creò un impero senza confini

(25 agosto 2011)

L'Europa si avvia rapidamente verso l'irrilevanza. Lo pensano in molti, domenica scorsa l'ha scritto Romano Prodi sul "Messaggero": il direttorio franco-tedesco ha perso da tempo il contatto con la realtà ed esercita una leadership nel vuoto, gli altri paesi vanno ognuno per proprio conto assediati dai loro popoli sovrani e dai loro debiti altrettanto sovrani.

Un illustre storico di cui sono amico, parlando di questa situazione ha rievocato un precedente molto significativo: quello delle città greche ai tempi di Alessandro. Abbiamo parlato a lungo di quel tema ed è stata una serata molto interessante.
Alessandro, a differenza di suo padre Filippo, aveva grande rispetto e quasi una venerazione per le città che avevano fatto la storia della Grecia, Atene, Tebe, Sparta, Corinto. La lingua, la filosofia, la tragedia, i santuari degli dèi, i miti. E le guerre. Quelle nazionali contro il nemico persiano e quelle tra di loro per la conquista dell'egemonia.
Rispetto e venerazione per quel passato glorioso aveva Alessandro e una speciale devozione verso la figura di Achille, l'eroe per definizione, morto a Troia combattendo la mitica guerra dalla quale ebbe inizio la potenza degli Achei.

Tutto questo era finito nell'irrilevanza, ma Alessandro non disperava di guidare una sorta di rinascimento di quella cultura e di quella potenza ed imporlo al resto del mondo fino al Caspio e all'Indo. Propose alle città greche di confederarsi, di mobilitare un esercito che insieme a quello macedone desse inizio alla più memorabile delle imprese.
La risposta fu negativa. Una sorta di patto consultivo tra le città esisteva ma era puramente formale. Ciascuna continuava ad avere una propria storia, un proprio governo, i propri riti e la propria autonomia. La lingua era la medesima, le Olimpiadi erano comuni e comuni i grandi santuari. Ma la politica era scomparsa perché le città erano diventate irrilevanti e quindi la Grecia nel suo complesso scivolava verso un rapido declino.
Fornirono ad Alessandro un piccolo contingente di guerrieri che però tornò indietro dopo le prime difficoltà militari. Alessandro iniziò da solo la sua marcia, distrusse l'impero dei Medi, conquistò le terre di mezzo e poi l'Egitto e la Libia. Morì giovanissimo ma da quella favolosa cavalcata nacque l'ellenismo, tramite prezioso che tramandò la cultura greca dalla quale è nato l'Occidente. La Grecia è rimasta da allora e per sempre irrilevante, ma la sua lingua fu quella dei romani colti e le sue accademie gli incunaboli culturali dell'impero dei Cesari.
"Secondo te", chiesi al mio amico, "l'Europa attuale si trova nelle stesse condizioni delle città greche dei tempi di Alessandro?". "Molto peggio", mi ha risposto. "Come irrilevanza rispetto al mondo che la circonda l'Europa si trova allo stesso livello delle città greche, ma le lingue dei paesi europei sono profondamente diverse una dall'altra e così pure le radici culturali e persino quelle religiose".

Era difficile dargli torto. Dobbiamo continuare a sperare che questo vuoto europeo possa essere recuperato in un arco ragionevole di anni oppure esser consapevoli che il ruolo dell'Europa come l'abbiamo conosciuta si avvia ormai alla fine del suo cammino?
Mio padre, quando si prospettavano inevitabili declini, commentava a titolo consolatorio: "E' caduto l'Impero romano...". Appunto. Forse è arrivato il momento di sperare nei barbari, come ci ha invitato a fare Alessandro Baricco.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La tela di Penelope d'un governo squalificato
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2011, 05:15:22 pm
L'EDITORIALE

La tela di Penelope d'un governo squalificato

di EUGENIO SCALFARI

I MERCATI non gradiscono. Nella seconda metà d'agosto, con gran parte degli operatori in vacanza, hanno accennato una ripresina. Adesso siamo di nuovo in piena turbolenza. Si muovono tutti insieme, da Tokyo e Seul alle piazze europee e a Wall Street. Ballano i titoli azionari e in particolare quelli bancari, ballano in Europa gli "spread" tra i debiti sovrani non affidabili e il "Bund" tedesco, ballano i tassi d'interesse e le quotazioni delle materie prime e dei beni-rifugio. La fiducia dei consumatori e dei risparmiatori nei confronti dei rispettivi governi è in caduta libera. I governi dal canto loro ce la mettono tutta per farsi sfiduciare e il nostro in questa poco commendevole gara è di gran lunga in testa. Forse conviene cominciare proprio da questo punto, cioè dal cortile di casa nostra che si è da tempo trasformato in una discarica d'immondizia i cui rifiuti si accumulano senza la minima prospettiva che possano sparire.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, parlando ieri mattina in videoconferenza al "meeting Ambrosetti" di Cernobbio e rispondendo ad alcune osservazioni critiche del presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet, ha chiarito senza peli sulla lingua la natura degli errori compiuti dai governi italiani negli ultimi dieci anni; per l'esattezza dal 2001 ad oggi, cioè otto anni di governi Berlusconi con la parentesi di due anni del debolissimo governo Prodi sorretto da due soli voti di maggioranza.

Gli errori sono stati quelli di aver sottovalutato il peso del debito pubblico e di non aver fatto nulla per farlo diminuire; di essersi accorti solo due settimane fa che quel debito era diventato l'obiettivo principale dell'assalto dei mercati; infine d'aver dovuto predisporre sotto la pressione dell'emergenza una seconda manovra che sembrava più attenta alle ripercussioni elettorali che alla gravità della situazione europea e italiana.
Dopo questa diagnosi - del resto largamente condivisa in Italia e in Europa - la terapia suggerita dal presidente della Repubblica è quella di anticipare il pareggio del bilancio dal 2014 al 2013, con misure chiare ed efficaci senza preoccuparsi della loro maggiore o minore popolarità avviando contemporaneamente misure mirate alla crescita dell'economia reale.

Alla domanda sulla tenuta del governo Napolitano ha risposto che il governo c'è e ci sarà fintanto che disporrà della maggioranza in Parlamento e che pertanto ogni ipotesi d'un governo diverso o d'uno scioglimento anticipato delle Camere è fuori dal quadro d'una democrazia parlamentare come la nostra. Infine ha assicurato che il Parlamento approverà la manovra entro i tempi stabiliti e cioè entro la metà di settembre e forse prima e che a questo risultato daranno il loro contributo anche le opposizioni che, quale che sia il loro voto, non ricorreranno a manovre ostruzionistiche. "L'Italia farà il suo dovere per l'Europa e per se stessa, di questo siamo certi": così ha concluso il capo dello Stato.

Parole chiare e ferme anche se la frase finale è più un auspicio che una certezza. Noi, tanto per dire, non siamo affatto certi che il governo farà il suo dovere. Finora non l'ha fatto, come lo stesso Napolitano ha rilevato nel suo intervento e non c'è purtroppo alcuna ragione al mondo per pensare che cambierà nei prossimi giorni.

* * *

Questi decreti (siamo al terzo negli ultimi due mesi) hanno una caratteristica comune: sono come la tela di Penelope, filata di giorno e disfatta la notte. L'ammontare oscilla tra i 48 e i 45 miliardi ma tutto il resto cambia in continuazione. Chiedo scusa, c'è un'altra caratteristica comune ai tre decreti: nessuno di essi prevede misure capaci di rilanciare la crescita. Sembra che la crescita sia fuori dalla strategia di questo governo.
Il rigore colpisce gli statali, i lavoratori dipendenti con redditi fino a 50.000 euro lordi, i pensionati. Colpisce gli enti locali e le cooperative. Colpisce e colpirà il "welfare".

Dunque un rigore socialmente partigiano in un'economia a crescita zero. La novità è arrivata con la stesura del terzo decreto sotto la forma del maxi-emendamento presentato tre giorni fa da Tremonti: al posto del contributo Irpef per i redditi superiori a 90.000 euro che avrebbe dato un gettito complessivo di 3,8 miliardi, abolito da un colpo di mano Sacconi-Calderoli caldeggiato da Berlusconi, il ministro dell'Economia ha tirato fuori dal cilindro la lotta contro l'evasione dalla quale si aspetta nei prossimi tre anni un gettito di 3,8 miliardi di euro. Non un soldo di più né uno di meno, quanto basta a lasciare i saldi invariati con grande giubilo generale.

In realtà il giubilo non è molto generale nella maggioranza e neppure in Confindustria, se ne duole perfino il cuore del premier che ha ripreso a sanguinare. Il popolo degli evasori infatti fa parte integrante della clientela berlusconiana. È stato vezzeggiato in tutti i modi negli otto anni del governo Berlusconi-Tremonti; il governo dei condoni, l'ultimo dei quali "scudato" con il 5 per cento di tassa, una trattenuta ridicola, un regalo in piena regola a chi aveva portato all'estero i suoi capitali. Se quei capitali fossero stati colpiti con un'aliquota del 30 per cento com'è avvenuto da parte dei paesi europei che hanno effettuato analoghi condoni, il gettito per l'erario sarebbe stato di oltre 40 miliardi. Tremonti ne prenderà 3,8 e per ottenerli minaccia sfracelli che culmineranno con la pubblicazione dei nomi degli evasori e con il carcere dai tre ai cinque anni per chi evade più di tre milioni.
In un paese dove il grosso dei lavoratori autonomi dichiara un reddito annuo di 15.000 euro le patrie galere sarebbero costrette ad aprire i portoni a qualche centinaio di migliaia di persone con buona pace di Marco Pannella e dei suoi digiuni. Ma non avverrà niente di tutto ciò. Tremonti si contenta d'un gettito su misura. Gli basta rimpiazzare il gettito della super-Irpef e se il cuore di Silvio sanguina per così poco, a lui non gliene importa niente, anzi ci gode.

Ma li otterrà quei 3,8 miliardi di spicciolame? A Bruxelles non ne sono affatto sicuri e alla Bce neppure. Come mai? L'evasione in Italia supera i 130 miliardi. La cifra attesa dall'Economia rappresenta dunque il 3,2 per cento della stima totale. Vincenzo Visco, quand'era ministro delle Finanze, recuperò in un esercizio 30 miliardi dall'evasione. Eppure nessuno finì in galera. Perché dunque sia Bruxelles sia Francoforte sono così preoccupati?

* * *

La vera preoccupazione delle Autorità europee riguarda la credibilità del governo e la sfiducia dei mercati nel debito sovrano italiano. Quella sfiducia è alimentata da vari elementi. Il primo proviene dalla contrazione economica americana e dall'evidente declino politico del presidente Obama. Il secondo dalla contrazione economica europea e dall'inesistenza d'un vero governo dell'Unione. Questi due elementi si riflettono sull'Italia che, di suo, ci aggiunge la non credibilità del governo, del premier, del suo ministro dell'Economia e del loro maggior alleato nella persona di Umberto Bossi. La contrazione economica sarà inevitabilmente accentuata dal rigore. In Italia il rigore è tanto più sgangherato quanto più è affidato a incrementi di tasse regressive che colpiranno principalmente le fasce basse del reddito. La pressione fiscale (lo dice la Banca d'Italia) nel biennio 2012-13 arriverà alla cifra record del 44,5 per cento del Pil e forse anche di più se il Pil non crescerà dell'1,2 come prevede ancora il governo, ma soltanto dello 0,7 come sostiene il Fondo monetario internazionale.

Un governo che gioca con la tela di Penelope cambiando la sera quello che aveva deciso la mattina; un governo dove Berlusconi, Tremonti e Bossi si fanno i dispetti un giorno sì e l'altro pure, sapendo però che debbono restare aggrappati l'uno all'altro per non cadere tutti insieme; un governo in cui sia Berlusconi sia Tremonti sono ricattabili e ricattati; infine un governo il cui Capo sta per ore al telefono con malfattori e procacciatori di prostitute, confidando ad essi i suoi affanni e rifornendoli di denaro contante; ebbene, un governo di tal fatta è il problema. Napolitano ha ragione quando ci ricorda che fino a quando il governo disporrà d'una maggioranza parlamentare lui non può né vuole pensare a licenziarlo. Ma che cosa accadrà se nei prossimi giorni il fandango dei mercati tornerà ad infuriare?

L'otto settembre (pessima data nella nostra memoria) si riunirà a Francoforte il consiglio direttivo della Bce. Uno dei temi - ma direi il tema - all'ordine del giorno sarà l'aiuto dato alla Spagna e soprattutto all'Italia con l'acquisto dei loro titoli di Stato sul mercato secondario. A metà agosto quell'aiuto fu complessivamente di 22 miliardi, nella settimana successiva di 12, nella terza di 4. Non sappiamo domani, ma sappiamo che il consiglio dell'otto settembre non sarà affatto tranquillo.

Mi domando: se la tempesta infuriasse non come Irene ma come Katrina, che cosa accadrà? Se il governo non è credibile né per i mercati né per l'Europa, noi che cosa facciamo? Mi permetto, con devoto rispetto e profonda amicizia e stima, di sottoporre questa domanda al capo dello Stato. E a chi altro se non a lui?
 

(04 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ultimo rintocco del governo fantasma
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2011, 10:00:48 am
IL COMMENTO

L'ultimo rintocco del governo fantasma

di EUGENIO SCALFARI


LA CRISI economica attuale è più grave di quella che colpì l'America e l'Europa nel 1929 con le sue ricadute nel '31 e nel '37. Allora infatti il sistema monetario mondiale basato sull'oro restò in piedi, sia pure con alcune provvisorie correzioni. Oggi non è così. La globalizzazione, la libertà di movimento dei capitali, i portafogli delle banche gonfie di titoli d'incerta solvibilità, la contrazione dell'economia reale che rischia di trasformarsi in una recessione vera e propria, coinvolgono l'intera struttura monetaria, bancaria e produttiva dell'Occidente ma anche dei cosiddetti Paesi emergenti. Non esistono più compartimenti-stagno.

Qualche settimana fa usammo l'immagine delle "matrioske", una dentro l'altra raccolte in un unico contenitore. E anche l'immagine dei vasi comunicanti soggetti in ogni loro livello alla stessa pressione atmosferica. Queste due immagini configurano l'intreccio esistente nell'economia mondiale e spiegano perché la crisi attuale non è come quella del '29 ma molto peggiore.

Gli Stati Uniti cercano d'uscire dal pantano adottando una politica espansiva. La risposta europea è stata finora l'opposto di quella di Obama: rigore per ridurre i deficit di bilancio e il peso dei debiti sovrani. Questa disparità tra le due maggiori economie occidentali non facilita l'uscita dal pantano della stagnazione, tanto più che l'espansionismo di Obama è frenato dal Congresso e dall'imminenza delle elezioni presidenziali. Insomma,
questa volta le nazioni dell'Occidente si salveranno insieme o insieme andranno a fondo.

Sulla manovra italiana - cinque manovre spalmate una sull'altra con un dilettantismo che non ha precedenti, fino all'ultima scritta sotto la congiunta pressione del Quirinale e della Bce  -  si sono fatte analisi d'ogni genere per metterne in luce gli innumerevoli difetti e infine i pregi dell'ultima redazione "etero-diretta".

Non staremo dunque a ripeterci se non per constatare che essa non è autosufficiente. La protezione monetaria della Bce resta infatti un elemento fondamentale della sua tenuta, come si è visto con estrema chiarezza nel venerdì nero dell'altro ieri. E' bastato che il rappresentante tedesco Juergen Stark si dimettesse dalla Banca centrale europea per dissensi sulle operazioni d'intervento a sostegno dei titoli italiani, a provocare l'ennesimo crollo a piazza degli Affari e l'ennesima impennata dello "spread" rispetto ai "Bund" tedeschi.

La manovra voluta dalla stessa Bce e dalle autorità europee dunque non basta. Perché?
Lo dicono  -  tardivamente  -  gli stessi veri autori tra i quali non si annovera certo il governo per la semplice ragione che il governo non c'è più: la manovra non è credibile perché mancano totalmente provvedimenti destinati a far crescere l'economia reale.

La Bce aveva raccomandato rigore e crescita, è vero. Ma le misure destinate al rigore le aveva dettagliate e sono state infatti inserite nel decreto, mentre quelle destinate a rilanciare la crescita le aveva soltanto auspicate e genericamente indicate: riforme strutturali di liberalizzazione.

Nessuna di quelle riforme è stata presentata se non si vuole prender sul serio come terapia la riscrittura dell'articolo 41 della Costituzione che comunque diventerà legge non prima di un anno e le cui capacità terapeutiche sono una grottesca patacca.
Solo ieri, dopo le dimissioni di Stark e il crollo dei mercati europei e americani, i veri autori della manovra si sono resi conto che il rigore senza crescita non solo non basta ma è addirittura controproducente: avrà effetti ulteriormente depressivi sul ciclo congiunturale.

In medicina si chiama pancreatite una malattia molto spesso mortale: il pancreas secerne acidi che rendono possibile la digestione del cibo; ma se la ghiandola si ammala quegli acidi invece di favorire la digestione del cibo da parte dello stomaco divorano la ghiandola che li ha prodotti. Così accade per il rigore senza la crescita: il rigore divora l'organismo economico invece di rafforzarlo e l'organismo muore per debilitazione.

Il "gabinetto di guerra" che etero-dirige un governo e un Parlamento inesistenti premerà nelle prossime ore affinché la manovra, con una sua sesta versione, contenga anche elementi di rilancio. Ma quali elementi?

* * *
Abbiamo già accennato alle riforme rivolte ad accrescere la concorrenza. Sicuramente sono utili se configurassero una società veramente liberale, con più mercato, disciplinato da regole e controlli che impediscano lo scivolamento verso oligopoli e rendite di posizione. Si tratta però d'una struttura del tutto ignota alla storia economica del nostro Paese, che richiede una visione coerente e una volontà politica talmente forte da poter smantellare corporazioni, clientele, mafie, delle quali la gigantesca evasione fiscale di cui soffriamo non è che l'inevitabile prodotto.

Una riforma del genere richiede tempi lunghi e soprattutto non può essere etero-diretta perché implica coraggio politico, responsabilità verso il Paese, lucidità tecnica, incisività, sfida all'impopolarità. Pensare che sia questa la riforma capace di rovesciare il "trend" depressivo che ci minaccia significa pensare di giocar con le stelle mentre qui ed ora dobbiamo usare la leva del fisco, la sola che possa produrre risultati rapidi e concreti.

La leva del fisco, se si vogliono realizzare risultati tangibili sull'evoluzione del Pil e quindi rilancio sia dei consumi sia degli investimenti, deve puntare su un alleggerimento delle imposte sui redditi medi fino ad un livello di 50-60mila euro annui lordi e un contemporaneo analogo sgravio delle imposte che, insieme ai contributi previdenziali, determinano il cuneo fiscale che grava sulle imprese e sulle retribuzioni.

Ci vuole inoltre un intervento che acceleri il pareggio del deficit e il saldo attivo delle partite correnti.
Si può fare un'operazione del genere a carico del debito pubblico? Evidentemente no, i saldi del rigore vanno tutelati. Allora come, se non ricorrendo ad una qualche forma d'imposta sul patrimonio? Meglio se ordinaria e non "una tantum"?

*  *  *
Una parola sulle dimissioni di Juergen Stark dalla Bce. Non si tratta di un atto conforme alla politica del governo tedesco, ma dell'impennata dei "falchi" della Bundesbank che giocano d'anticipo contro eventuali svolte della Merkel in vista d'una nuova "grossa coalizione" con i verdi e con la socialdemocrazia. I "falchi" della Bundesbank sono da sempre contrari ad un'evoluzione dell'Europa verso un vero governo federale e verso un bilancio europeo che si faccia carico della politica fiscale comune.

Le dimissioni di Stark fanno parte di questo scontro all'interno della politica tedesca, tantoché la persona già designata a sostituirlo ha caratteristiche decisamente opposte a quelle del dimissionario.

Se quelle dimissioni hanno provocato una tempesta sui mercati che aveva come oggetto principale la nostra manovra economica, quell'effetto è la prova provata di quanto abbiamo fin qui scritto sulla drammatica incompletezza della nostra politica economica dal lato della crescita. Questo spiega anche le parole durissime della Marcegaglia che per la prima volta ha reclamato non soltanto una manovra definitivamente efficace, ma le dimissioni dell'attuale governo. Non l'aveva mai fatta una simile richiesta; l'ha fatta venerdì scorso ed è stato come il rintocco d'una campana a morte.

Una politica che dia immediatamente rilancio ai consumi e agli investimenti e trovi le risorse necessarie per finanziare questa operazione non può essere etero-diretta né può essere affidata ad un governo fantasma.

Occorre perciò che questo governo scompaia definitivamente e che dia luogo ad una coalizione di tutte le forze responsabili guidata da una personalità democratica che goda della fiducia dell'Europa. Se non ci sarà al più presto questa soluzione, avremo il marasma e lo sfascio. Tenere ancora in piedi un morto che cammina è la cosa peggiore che ci possa accadere.
 

(11 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un premier allo sbando connivente e ricattato
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2011, 04:25:02 pm
IL COMMENTO

Un premier allo sbando connivente e ricattato

È scandaloso che mentre il Paese attraversa la sua più grave crisi economica il premier confidi alle ragazze che gli si concedono di fare il capo del governo "a tempo perso". E che passi il suo tempo di lavoro con i suoi avvocati per evitare i processi e soffocare le intercettazioni invece di studiarsi i dossier del debito, della disoccupazione, d'una economia che è ormai l'ultimo vagone del traballante treno europeo

di EUGENIO SCALFARI


CE LA faremo da soli? Molti ci sperano, magari per scaramanzia. Oppure per quel "dover essere" che implica un richiamo alla coscienza morale, ma è chiaro e l'abbiamo scritto più volte che da questa crisi si può uscire tutti insieme o tutti insieme affonderemo perché l'economia internazionale è a tal punto intrecciata da costruire un unico sistema di forze e di debolezze.

Lo si è visto venerdì scorso, quando cinque Banche centrali - la Fed americana, la Bce europea, la Banca d'Inghilterra, la Banca giapponese e quella svizzera - hanno inondato di liquidità il sistema bancario europeo con prestiti in dollari a tre mesi per cifre illimitate. I mercati hanno respirato, le Borse sono ritornate in positivo, gli "spread" sono diminuiti. La via di salvezza è questa? Stampare moneta per tirare i Paesi fuori dalla recessione che li minaccia, magari a prezzo di scatenare l'inflazione?

No, non è questa la via e le Banche centrali lo sanno bene. L'inflazione a due cifre  -  che avrebbe il pregio di svalutare i debiti sovrani riducendoli a carta straccia  -  è l'imposta più odiosa perché è la più regressiva che possa immaginarsi, colpisce tutti i redditi fissi, stipendi, salari, pensioni, arricchisce i già ricchi e impoverisce i ceti medi. Spezzerebbe definitivamente una coesione sociale già indebolita da crepe profonde.

Le Banche centrali possono intervenire per fornire all'ammalato una boccata d'ossigeno
in attesa che la terapia contro la malattia faccia il suo effetto. Purché la terapia sia appropriata e somministrata con tempismo nella giusta misura.

Questo discorso riguarda tutti i Paesi convinti dalla crisi, ma da noi, in Italia, esiste ed opera con sempre maggiore intensità un altro elemento aggravante. Noi da tempo non siamo più governati. Da tempo il nostro Paese è scivolato agli ultimi gradini della credibilità internazionale. Il "premier" che guida il governo è diventato una barzelletta, le cancellerie evitano di incontrarlo, le autorità europee alle quali chiede l'elemosina di un incontro rifiutano di comparire insieme a lui nelle conferenze stampa.

Ci vorranno anni e anni prima di poter recuperare la perduta dignità, ci vorrà un tenace lavoro di restauro delle istituzioni, occupate o insidiate da una vera e propria banda della quale il "premier" fa parte o dalla quale è sistematicamente ricattato.

In questi giorni la curiosità dell'opinione pubblica è concentrata soprattutto sulla sfilata di prostitute o di "ragazze di vita" fornite da procacciatori su richiesta del presidente del Consiglio e avviate verso le sue residenze private e semi-pubbliche. Ma l'attenzione principale dovrebbe invece essere rivolta ai contatti sistematici del premier con alcuni lestofanti di professione, a cominciare da quel Lavitola che al tempo stesso lo serve e lo ricatta.

È certamente scandaloso che mentre il Paese attraversa la sua più grave crisi economica il premier confidi alle ragazze che gli si concedono di fare il capo del governo "a tempo perso"; è altrettanto scandaloso che passi il suo tempo di lavoro con i suoi avvocati per evitare i processi e soffocare le intercettazioni invece di studiarsi i dossier del debito, della disoccupazione, d'una economia che è ormai l'ultimo vagone del traballante treno europeo. Ma lo scandalo che non ha precedenti nella storia d'Italia è la connivenza del capo dell'esecutivo con una banda che esplicitamente mette le mani nella casse dello Stato, deturpa e stravolge le istituzioni, i pubblici appalti, le pubbliche imprese.

Connivente e al tempo stesso ricattato. Lavitola concerta con lui le promozioni nel comando della Guardia di finanza. Tarantini ottiene di essere presentato e raccomandato a Bertolaso per essere inserito tra gli interlocutori della Protezione civile. Le "ragazze di vita" vengono compensate con posti alla Rai o nei consigli regionali o addirittura in Parlamento. Imprese pubbliche come la Finmeccanica sono contaminate dalla corruzione che arriva fino ai vertici dell'azienda e ne influenza le scelte.

Tutto ciò avviene non solo sotto gli occhi con l'attiva complicità della più alta autorità di governo. Ma non soltanto, perché alcuni ministri non possono non sapere. Non può non sapere il ministro dell'Economia da cui la Guardia di finanza dipende e da cui dipendono le imprese pubbliche possedute dal Tesoro. Vero è che anche quel ministro non sta messo affatto bene; indipendentemente dall'esito della votazione che si svolgerà tra pochi giorni alla Camera sulla richiesta d'arresto del deputato Marco Mario Milanese, il processo che lo vede coinvolto riguarda appunto il suo ruolo di controllore delle imprese pubbliche delegatogli in esclusiva dal ministro con tutto ciò che ne consegue, ivi compresi i suoi maneggi con i vertici della Guardia di finanza.

Esistevano due "lobbies" (così disse il ministro al nostro giornale poche settimane fa) in quel corpo così importante per la lotta contro l'evasione fiscale e contro la corruzione: una lobby faceva capo ad un gruppo di alti ufficiali con rapporti diretti con palazzo Chigi, l'altra con altri ufficiali con rapporti col ministro. Lo scandalo non consiste nell'esistenza di tali rapporti, che sono dovuti; consiste nel fatto che fossero contrapposti, come erano e sono contrapposti tra loro il "premier" e il ministro dell'Economia, contrapposizione non secondaria nella pessima gestione della crisi che ha richiesto cinque manovre finanziarie in due mesi, le ultime delle quali avvenute (per fortuna) su ordine della Bce come contropartita ai suoi interventi sul mercato dei titoli di Stato.

Questa è dunque la situazione in cui si trova il nostro Paese: il presidente del Consiglio collude con lestofanti che mirano ad ingrassare i loro portafogli con pubbliche risorse; con essi si dà del tu, con essi scambia baci e abbracci, con essi programma appuntamenti e favori, li introduce nella pubblica amministrazione, interviene a proteggerli quando si sentono minacciati, li finanzia con denari contanti che non lasciano tracce, parla attraverso telefoni forniti di schede al riparo (così sperano) di intercettazione.

Ma quando la connivenza non basta, lui, il premier, viene messo "con le spalle al muro" col ricatto.
Un capo di governo ricattabile è un pericolo gravissimo, non sostenibile in nessun Paese del mondo. I magistrati di Bari sono stati finora prudenti: alcune intercettazioni assai sconvenienti verso capi di governo stranieri (Merkel, Sarkozy) non sono state allegate all'ordinanza comunicata alle parti, per evitare una vera e propria crisi diplomaticamente squalificante. Non toglie che quelle frasi sono state dette da un premier evidentemente fuori controllo.
Un personaggio in queste condizioni continuerà a governare, con la maggioranza di Scilipoti fino al 2013?

* * *

Di tanto è crollata la credibilità di Berlusconi (tutti i sondaggi la stimano ormai al 22 per cento contro il "no" del 78) e di altrettanto è cresciuta quella del presidente della Repubblica. Il quale, costretto e indotto dall'emergenza delle circostanze, ha interpretato con il consueto rigore e scrupolo ma anche con accresciuta fermezza i poteri che la Costituzione gli conferisce. L'abbiamo visto nella gestione della manovra finanziaria, l'abbiamo visto anche quando, appena qualche giorno fa, ha rifiutato di firmare il decreto che il premier reclamava per bloccare la pubblicazione delle intercettazioni effettuate dalla Procura di Bari.

Il Presidente conosce e ha sempre rispettato i limiti che la Costituzione pone all'esercizio delle sue prerogative. In occasione della sua partecipazione in videoconferenza al meeting dello studio Ambrosetti di alcuni giorni fa, Napolitano ha ricordato che in una democrazia parlamentare l'esistenza del governo non può esser messa in discussione fino a quando esista una maggioranza che lo sostiene. Soltanto quando quella maggioranza venisse meno il Capo dello Stato diventa il "dominus" della partita, per insediare un nuovo governo che possa ottenere la fiducia del Parlamento ovvero per sciogliere anticipatamente le Camere.

Questo pensa il Capo dello Stato ed è certamente nel giusto, anche se alcuni costituzionalisti sostengono che i suoi poteri sono ancora più ampi per quanto riguarda lo scioglimento anticipato della legislatura, forse dimenticando che il decreto di scioglimento richiede anche la firma del presidente del Consiglio.

Tutto ciò detto, il Capo dello Stato ha, per Costituzione, il potere di inviare messaggi al Parlamento su qualunque tema e in qualunque circostanza. Può anche esternare il suo pensiero in altri modi, comunicati, lettere, interviste; ma il modo solenne è quando rivolge il suo messaggio al Parlamento, cioè ai delegati del popolo sovrano.

Noi pensiamo che quel momento sia arrivato. Pensiamo che spetti al Presidente investire il Parlamento del problema della credibilità del governo. Nel Parlamento ci sono le opposizioni ma c'è soprattutto la maggioranza ed è alla maggioranza parlamentare che un messaggio presidenziale sulla credibilità del governo dovrebbe essere indirizzato.
So bene che il Presidente detesta essere "tirato per la giacca". Noi non vogliamo affatto commettere quella scorrettezza. Ci limitiamo a segnalare che un passo del genere rientra perfettamente nelle sue prerogative. Ovviamente spetta a lui soltanto di decidere se utilizzare il suo diritto di messaggio su un tema così delicato, ma così capitale per le sorti stesse della democrazia.

Nella sua dichiarazione di voto sulla manovra, in nome del gruppo parlamentare del Pd, Walter Veltroni ha denunciato il pericolo dei giovani che nella piazza di Montecitorio gridavano "chiudete il Parlamento". Tra i tanti rischi che corre la democrazia c'è anche questo: la spinta crescente contro le istituzioni democratiche.

Non saranno i mercati a farlo ma la persistenza dell'attuale governo a potenziare l'attacco ai titoli e alle Borse. Non sarà la magistratura a stabilire le sorti del premier, ma la sua connivenza e ricattabilità con chi soddisfa i piaceri che placano la sua malattia psichica. Perciò occorre che il Parlamento esca dall'apatia e dall'afasia. Il Capo dello Stato può stimolarlo a compiere i suoi doveri.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Italia precipita senza paracadute
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 09:27:19 am

L'EDITORIALE

L'Italia precipita senza paracadute

di EUGENIO SCALFARI

Le Borse ondeggiano su un Ottovolante dove le risalite sono lente e le discese mozzano il fiato; lo "spread" con l'aiuto della Bce si mantiene sulla "borderline" a cavallo dei 400 punti-base; l'euro perde colpi rispetto al dollaro; le economie di tutto l'Occidente ristagnano senza speranze e intanto si parla sempre di più di un "default" della Grecia pilotato dall'Europa. Il tema della crescita diventa sempre più cruciale ma sempre più disatteso. I governi nazionali non hanno né la forza né la fantasia per varare interventi di rilancio che rimettano in moto il sistema mentre si profila una crisi bancaria internazionale connessa appunto con il "default" greco e con l'attacco al debito italiano.

I portafogli delle banche di tutto l'Occidente sono imbottiti di titoli italiani. Non sono titoli insolvibili ed ogni paragone con la Grecia è infondato. Ma i tassi d'interesse pagati dal Tesoro alle aste che si susseguono con scadenze ravvicinate sono diventati proibitivi. Siamo ormai in prossimità del 6 per cento. Se si andasse avanti così ancora per qualche mese la finanza pubblica si avviterebbe su se stessa ed allora anche il problema della solvibilità si porrebbe in modo allarmante.

Il nostro governo è in grado di fronteggiare una situazione da brivido come questa? Finora sono stati adottati soltanto provvedimenti di rigorismo finanziario, indispensabili ma depressivi sull'economia reale. E ancora non bastano.
Quanto potremo andare avanti così?

La sfiducia verso il governo è ai massimi e si estende a tutta la classe politica. L'antipolitica non è una risorsa ma un cappio al collo e chi la incoraggia non fa che allevare un mostro e peggiorerà ancora di più una situazione già fuori controllo.

* * *
Venerdì al Quirinale, parlando agli studenti che iniziano sotto pessimi auspici il nuovo anno scolastico, Napolitano è intervenuto ancora una volta sul tema dell'economia. Ha suggerito e in qualche modo imposto al governo tre nuove priorità: abbattere in modo consistente lo stock del debito pubblico, introdurre stimoli fiscali per accrescere il potere d'acquisto dei redditi medio-bassi e la propensione delle imprese a investire, diminuire le diseguaglianze sociali e geografiche che dividono il paese e ne rendono difficile la coesione. Questi provvedimenti, secondo Napolitano, dovrebbero essere adottati entro l'attuale sessione di bilancio, cioè subito.

Gli interventi del Capo dello Stato sulle questioni economiche sono ormai quasi giornalieri, in rapporto diretto con il ruolo di supplenza che il Quirinale è costretto ad esercitare dall'afasia del governo; afasia tanto più perniciosa poiché si accompagna ad uno scontro ormai palese e non ricomponibile tra il "premier" e il ministro dell'Economia. Con quest'ultimo non siamo mai stati teneri ma in quest'occasione riteniamo che il linciaggio cui è stato sottoposto in occasione del voto sull'arresto di Marco Milanese sia inaccettabile. Stava per cominciare a Washington un incontro internazionale presso il Fondo monetario per discutere questioni della massima urgenza ed emergenza. Sarebbe stato a dir poco grottesco se Tremonti fosse arrivato con grave ritardo o affatto per votare alla Camera l'arresto di Milanese. Ciò detto, continuiamo a pensare che sia stato un pessimo ministro dell'Economia alle prese con un pessimo presidente del Consiglio.

Resta da vedere che cosa farà il Capo dello Stato se le sue indicazioni resteranno lettera morta. Nel recente passato furono rispettate sia dal governo sia dall'opposizione salvo quelle riguardanti la crescita, sulla quale in verità la Bce e il Quirinale si limitarono a generiche raccomandazioni. Ora finalmente la crescita è stata posta al primo posto insieme al taglio del debito.

Ma c'è il problema della credibilità del governo e di chi lo guida. Su di esso Napolitano non può fare nulla formalmente. Potrebbe fare molto sostanzialmente ma, almeno per ora, se ne astiene, sicché il tappo che ostruisce il sistema resta ancora conficcato a Palazzo Chigi con gravissimo danno per il paese e per l'Europa.

* * *
Diminuire il debito. Non lo dice soltanto Napolitano ma anche Draghi, anche l'Europa, anche l'America. Ma come? E quanto?

La soglia di sicurezza - secondo il parere di alcuni suggeritori - sarebbe "quota novanta": 90 per cento rispetto al Pil di fronte all'attuale 120, il che significa in cifre assolute non meno di 400 miliardi. Ma come? Vendendo beni mobili e immobili dello Stato? Sarebbe una pessima pezza. La parte maggiore è composta da immobili di difficile "appeal" nell'attuale carenza di domanda. Si potrebbe cartolarizzarli e poi collocare quei titoli nelle mani delle banche. Ma chi accarezzasse quest'idea avrebbe smarrito la ragione: il nostro sistema bancario ha il portafoglio gonfio di Buoni del Tesoro a lungo termine ed è questa la sua attuale debolezza. Vogliamo rifilargli anche una massa di immobili cartolarizzati?

L'altra soluzione intravista sarebbe un forte prelievo "una tantum" sul patrimonio dei contribuenti. Attenzione: provocherebbe una fuga massiccia di capitali e lo "spread" potrebbe toccare livelli molto elevati. Quindi non è questa la strada giusta. Del resto non fu questa l'operazione messa in atto da Ciampi ai tempi del suo governo nel 1993 in una situazione economica anche allora molto pesante. L'obiettivo di Ciampi fu quello di far emergere un consistente attivo delle partite correnti al netto degli oneri pagati sul debito. Quest'attivo superò il 5 per cento.

Quando obiettivi del genere sono raggiunti il debito pubblico comincia a diminuire e continua in quel ciclo virtuoso suscitando effetti di auto-alimentazione perché la diminuzione graduale del debito ne fa diminuire gli oneri e di conseguenza fa accrescere il saldo attivo delle partite correnti.

Queste operazioni possono essere utilmente rafforzate con un prelievo patrimoniale non straordinario ma ordinario e di modesta entità, scaglionato tra 0,5 e 1,50 per cento. Consultare in proposito Mario Draghi sarebbe utilissimo, ma ancor più utile sarebbe consultare Carlo Azeglio Ciampi.

* * *
Un'osservazione per quanto riguarda l'obbligo del pareggio di bilancio da inserire nel nostro ordinamento con legge costituzionale. Il plauso a questa novità sembra generale anche se ci vorrà almeno un anno prima che la legge entri in vigore. A me non sembra affatto una panacea.

Intanto occorrerà precisare se quella norma si applicherà al bilancio preventivo o al consuntivo, alla cassa o alla competenza, ai saldi o ai flussi. Poi occorrerà stabilire a chi spetti accertare se la norma è stata rispettata. Non potrà certo essere il ministro dell'Economia che è parte in causa come ogni altro membro del governo. Si dovrebbe affidarne il compito ad una apposita sezione della Corte dei Conti che dovrebbe poter ispezionare l'andamento delle partite correnti nel momento stesso in cui le decisioni vengono prese. Di fatto si dovrebbe equiparare la Corte dei Conti al funzionamento della Ragioneria generale dello Stato con in più l'indipendenza della quale la Corte gode.

Invece di imbarcarsi in una procedura così complessa che di fatto equivale al commissariamento della politica economica nelle mani d'un Ragioniere "sui generis", sarebbe molto meglio rafforzare l'articolo 81 della Costituzione rendendo obbligatoria la copertura d'ogni spesa soltanto con aumento di entrate o taglio di spese senza ricorso al credito e senza alcuna deroga. Un rafforzamento del genere dell'articolo 81 non ha bisogno d'una legge costituzionale, può essere ottenuto con legge ordinaria che rappresenti l'interpretazione autentica dei principi e delle norme già contenute in quell'articolo.

* * *
Non pensiamo che si possa andare avanti fino al 2013 e neppure fino alla primavera del 2012 con un governo fatiscente e ritenuto addirittura non frequentabile dalle cancellerie internazionali.

Se la Grecia andrà in "default pilotato" ci sarà un concordato fallimentare il cui livello più probabile sarà tra il 50 e il 60 per cento del suo debito sovrano. Molte grandi banche francesi, tedesche, inglesi, americane, si troveranno in gravi difficoltà. Quanto alle nostre banche non risulta che detengano forti quantitativi di titoli greci ma in compenso hanno in portafoglio molti titoli delle banche francesi tedesche e americane coinvolte.

In queste condizioni ci vuole a Roma un governo capace di governare e di essere un interlocutore autorevole per l'Europa e per gli Usa. La supplenza del Quirinale, preziosa fino a quando Palazzo Chigi è di fatto disabitato, non potrebbe tuttavia guidare direttamente la barca in acque ancor più tempestose.

Ci vuole dunque un governo del Presidente sostenuto in Parlamento da tutti i senatori e i deputati che hanno a cuore l'interesse generale dello Stato.

Tra quanti sperano in un nuovo assetto della politica ci sono tuttavia alcuni che vagheggiano governi di centro-destra presieduti da Alfano o da Gianni Letta. Sembra che Casini vedrebbe di buon occhio soluzioni del genere. Soluzioni insensate: sostituire Berlusconi con Letta significa soltanto insediare a Palazzo Chigi un delegato; insediarvi Alfano per pilotare la barca nel mare in tempesta è addirittura un'ipotesi offensiva per il buon senso e per il senso comune.

Ma c'è anche chi preferirebbe le elezioni anticipate. Che Berlusconi sia uno di questi è comprensibile. Meno comprensibile è che ci siano nel novero anche economisti, banchieri e imprenditori. Elezioni anticipate significano Parlamento chiuso per almeno 60 giorni e il Paese guidato da un governo non solo fatiscente ma per di più in carica soltanto per l'ordinaria amministrazione. Un pascolo per i mercati.

Sergio Romano sul Corriere della Sera di mercoledì scorso auspicava che Berlusconi annunciasse che non si ripresenterà più alle elezioni e rinuncerà a far politica, fissando la data elettorale al prossimo mese di marzo. Insomma qualcosa di simile a quanto ha fatto con successo Zapatero. Ma si tratta, gentile ambasciatore Romano, di un'ipotesi inesistente. Berlusconi (che non somiglia in nulla a Zapatero) non farà mai un annuncio del genere che comunque lo manterrebbe a Palazzo Chigi ancora sei mesi d'inferno. E quand'anche si convincesse, nessuno può garantire che un mentitore come lui manterrebbe la parola data.

In mancanza di altre soluzioni il Paese affonda nelle risse, nella generale sfiducia e nel totale isolamento internazionale. L'ultima testimonianza è venuta da Washington l'altro giorno, quando Obama, ringraziando i paesi che hanno contribuito a liberare la Libia da Gheddafi, li ha nominati tutti uno per uno, comprese la Norvegia, la Danimarca e la Lega Araba, con in testa ovviamente i francesi e gli inglesi.

Il solo Paese non nominato è stato il nostro che pure ha fornito basi aeree, comandi militari e la Marina. Ma l'Italia è da tempo confinata in un lazzaretto. Di chi sia la colpa lo si sa.

(25 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/25/news/l_italia_precipita_senza_paracadute-22186141/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché gli italiani hanno amato B.
Inserito da: Admin - Settembre 30, 2011, 03:43:56 pm
Perché gli italiani hanno amato B.

di Eugenio Scalfari

Ora che tutto sta finendo, è tempo di iniziare a chiedersi come mai, per quasi vent'anni, così tanti nostri concittadini gli hanno creduto.
Non per parlare ancora di lui, ma per capire meglio qualcosa di noi

(22 settembre 2011)

In un recente dibattito televisivo promosso su la7 da Enrico Mentana mi è accaduto di discutere sulla personalità di Silvio Berlusconi confrontandomi con Paolo Mieli e con Giuliano Ferrara. Lo spunto era stato la proiezione di un film-documentario intitolato "Silvio For Ever". Il dibattito è durato più di un'ora ed è stato ricco di occasioni polemiche e di riflessioni meditate. Almeno, così m'è sembrato.

Alla fine Mentana ci ha rivolto due domande: qual è il maggior merito che Berlusconi lascia all'Italia futura e qual è il suo maggior errore che peserà su di noi e sui nostri figli e nipoti. Non sto a ricordare qui le risposte date da Ferrara e da Mieli, dico le mie. Alla prima domanda ho risposto: non lascia nessun merito o dono che dir si voglia. Alla seconda domanda ho risposto: non ha compiuto alcun errore perché è sempre stato coerente con se stesso, un gravissimo errore l'hanno compiuto gli italiani che ripetutamente hanno votato per lui. Dopo quel dibattito ho ricevuto molte lettere di persone che avevano seguito quella trasmissione, la maggioranza delle quali mi poneva un'altra domanda: perché tanti italiani l'hanno più volte votato e molti, sia pure in numero ormai molto ridotto, credono ancora in lui?

La risposta è assai complessa. Comporta infatti un'attenta ricerca sugli italiani, sui nostri difetti e sulle nostre virtù, sulle differenze tra noi e gli altri popoli europei, sulla nostra storia, la nostra cultura, i libri che hanno contribuito a formare il nostro carattere nazionale, le opere d'arte che hanno creato il nostro gusto, l'economia che ha plasmato la nostra professionalità e la nostra partecipazione alla divisione internazionale del lavoro. Infine il nostro sentimento morale.
Si tratta dunque di una vasta ricerca che potrebbe intitolarsi "L'indole, i vizi e le virtù degli italiani", insomma un programma di lavoro, forse un libro da scrivere se il tempo e la voglia mi assisteranno.
Mentre facevo queste riflessioni mi è capitato di leggere uno smilzo volume di George Steiner intitolato "Nel castello di Barbablù" (Garzanti, pagg. 125, euro 16). Lo cito perché è pertinente alla ricerca sugli italiani che mi propongo di fare.

Steiner infatti nel "Castello di Barbablù" la sua ricerca la fa sugli europei, sulla cultura del nostro continente e sull'orrendo crimine che fu commesso in Europa a metà del Novecento: la distruzione degli ebrei nei campi nazisti e l'altro analogo eccidio dei campi concentrazionari nell'Urss stalinista. Il primo soprattutto, perché le sue radici sono ancor più orrende e convivono con un livello culturale assai più elevato e raffinato.

Come fu possibile una così lacerante contraddizione? Perché le stesse persone che passavano il giorno a gestire la strage, la sera andavano a teatro ad ascoltare le sinfonie di Beethoven e i "Concerti Brandeburghesi" di Bach e avevano letto i libri di Goethe, le liriche di Schiller e la "Ragion pura" di Immanuel Kant?

Il piano di lavoro di Steiner abbraccia un campo infinitamente più vasto di quello che io mi propongo, ma la natura della ricerca è analoga. Si tratta infatti di vedere quando come e perché l'uomo europeo e l'uomo italiano sono al tempo stesso concavi e convessi.

Attenzione: non si tratta di dividere un popolo tra buoni e cattivi, tra alti e bassi, belli e brutti. Ogni persona del popolo esaminato ha dentro di sé tutti quegli elementi che ne costituiscono la natura e il fondamento. A volte prevalgono quelli positivi a volte quelli negativi e ciò avviene in presenza di certe circostanze, di certi incontri, di forze e di debolezze che si confrontano e si combattono. Leggete il libro di Steiner che vi farà riflettere e vi aiuterà a capire meglio il presente che stiamo vivendo.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-gli-italiani-hanno-amato-b/2161877/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Sull'orlo del vulcano
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 04:40:38 pm
IL COMMENTO

Sull'orlo del vulcano

di EUGENIO SCALFARI

MOODY'S, la principale delle tre agenzie internazionali di "rating" ha declassato di tre punti in una sola volta il debito italiano. "Lo sapevamo  -  ha commentato il "premier"  -  non cambia nulla". Il commento è tipicamente suo. Nel corso degli ultimi quattro anni, da quando la crisi internazionale è esplosa, lui ha commentato le fasi principali di quella tempesta in questo modo: 1. "La crisi non c'è, è un'invenzione dei "media" e dei comunisti". 2. "La crisi c'è stata ma l'abbiamo superata". 3 "La crisi è tuttora in corso ma noi ne usciremo meglio degli altri". Dopo questi tre passaggi, che hanno coinciso con il progressivo aggravamento della situazione economica internazionale e italiana, ci siamo trovati nella condizione d'esser posti sotto il "protettorato finanziario" di Draghi e di Trichet, cioè della Banca centrale europea, che ci ha dettato per iscritto le misure da prendere se volevamo essere aiutati dall'intervento della Bce a sostegno del nostro debito sovrano. Vi immaginate se Trichet avesse dettato il da fare alla Merkel o a Sarkozy o a Cameron o perfino al governo norvegese o danese o austriaco? Sarebbe stato cortesemente accompagnato alla porta di quelle rispettive cancellerie. In Italia no. Noi abbiamo bisogno d'un vincolo esterno perché da soli non sappiamo provvedere al nostro bene comune quando la situazione generale peggiora ma anche in condizioni di relativa normalità. Tuttavia non sempre questo
è accaduto. Nel '65 provvedemmo da soli, egualmente nel '74, egualmente (e fu il caso più grave anzi gravissimo) nel '92. Ma allora la squadra politico-economica era folta e ben assortita: c'erano Vanoni, Saraceno, La Malfa, Visentini, Cuccia, Mattioli, Andreatta, Carli, Amato, Ciampi e probabilmente ne dimentico qualcuno.

Erano tutti di massima competenza ma soprattutto avevano una visione lucida del bene comune. Non c'era bisogno d'un vincolo esterno, sapevano nuotare da soli e talvolta furono loro a dare qualche "dritta" ai colleghi europei. I comunisti allora c'erano veramente. Si occupavano - quelli del Pci - di difendere gli interessi dei lavoratori. Nei limiti del possibile ci riuscivano con l'aiuto delle altre componenti della sinistra. Fu la grande stagione del "welfare", dei diritti civili e di quelli sociali. La cultura azionista servì da collante tra la sinistra e il centro e da antemurale laico alla tentazione clericale. Sappiamo degli errori e degli orrori del comunismo internazionale e della vergognosa copertura che il Pci gli fornì, ma per quanto riguarda l'Italia nel periodo di guerra fredda resta quel contributo che bilanciò e rese possibile l'equilibrio delle forze in campo.
Tutto questo sembra preistoria. Oggi siamo il protettorato d'una Banca e camminiamo sull'orlo d'un vulcano ma siamo così ingombranti che un nostro "default" potrebbe essere letale per l'intera economia europea e perfino americana. Forse il perché di questo nostro esser diventati un pericolo mondiale non è ben chiaro. Cercherò di spiegarlo. Del resto basta leggere il breve testo con il quale Moody's ci declassa, per capire.

* * *
Nello stato dei fatti, dice Moody's, il debito sovrano italiano non è insolvibile e probabilmente non lo sarà nemmeno in futuro se misure adeguate saranno adottate con urgenza ed efficacia. Ma i mercati - dice Moody's - non hanno fiducia che ciò accada. Le misure prese, anche per la provvidenziale pressione del presidente della Repubblica, vanno nella giusta direzione ma sono state adottate solo parzialmente anche per quanto riguarda le parti relative al rigore dei conti pubblici. Per quanto invece riguarda la parte che concerne la crescita del Pil mancano ancora totalmente e quelle delle quali si parla non sembrano tali da provocare effetti significativi. Perciò la sfiducia del debito sovrano non diminuisce, le aspettative dei mercati non migliorano. In tali condizioni i portatori di titoli italiani tendono a disfarsene, i rendimenti aumentano, nelle ultime aste hanno sfiorato il 6 per cento pur trattandosi di collocamenti di modesta entità. Nel 2012 scadranno titoli italiani per circa 250 miliardi, una cifra imponente. Chi li sottoscriverà?
Questi dettagli (che non sono affatto dettagli) non sono scritti nel testo di Moody's ma sono ben noti a tutti, al Tesoro, agli operatori e ovviamente alle agenzie di rating. Mi permetto di aggiungere un altro elemento che non è certo da sottovalutare: la dilagante sfiducia connessa al rigore senza crescita determina effetti depressivi sull'economia reale e sui flussi del credito bancario alle imprese. Esercita effetti devastanti sulla coesione sociale. La paralisi governativa aumenta con l'eccezione dei temi che riguardano gli interessi privati del presidente del Consiglio.
Tutto lascia prevedere che la Grecia dovrà chiedere la moratoria per il suo debito. Vuol dire che i creditori di quel debito, cioè le banche, si troveranno in mano poco più che carta straccia e non si tratta di banche di poco conto ma di grandi istituti soprattutto francesi e tedeschi, alcuni dei quali dovranno necessariamente essere salvati con danaro pubblico, cioè nazionalizzati.
Disfarsi adesso di titoli greci è di fatto impossibile. Ma quelle stesse banche e moltissime altre sparse nel mondo ma soprattutto in Italia, possiedono anche forti quote di titoli italiani che si troveranno in prima linea (ci si trovano già) dopo la moratoria del debito greco. I titoli italiani si commerciano ancora agevolmente, perciò le banche e gli altri enti che li possiedono cominciano a disfarsene e i rendimenti ad aumentare. Sul mercato secondario sono già più elevati del pur elevato rendimento delle aste e lo sarebbero ancora di più se la Bce chiudesse il rubinetto dei suoi interventi. Ecco perché Moody's ha declassato il nostro debito. Berlusconi ha detto che "non cambia niente". In un certo senso è vero, siamo nel peggio e nel peggio continueremo.

* * *
Questo di Moody's è il fatto del giorno ed era giusto occuparsene; ma nel frattempo molti altri ne sono accaduti, importanti e significativi, sempre più rapidi e rovinosi a causa del disfacimento dell'apparato di governo. Ne abbiamo già dato notizia nei giorni scorsi ma credo sia utile ricordarne alcuni affinché non se ne stinga la memoria. è tuttora inevasa la pratica che riguarda la nomina del successore di Mario Draghi al vertice della Banca d'Italia. Se ne parla dallo scorso giugno, la scadenza improrogabile arriverà alla fine d'ottobre. La procedura è stabilita dalla legge: il presidente del Consiglio propone un nome al Consiglio superiore della Banca il cui parere è obbligatorio ma non vincolante. Ottenuto quel parere il presidente del Consiglio riunisce il Consiglio dei ministri e propone la ratifica del nome prescelto. Prepara e firma il decreto di nomina e lo sottopone alla firma del Capo dello Stato che lo rende in tal modo esecutivo. Non è esatto dire che il Capo dello Stato lo controfirma, il decreto infatti non è un atto di legge di competenza esclusiva di Palazzo Chigi ma è un decreto del Quirinale, sicché quella del Capo dello Stato non è una controfirma "dovuta" ma una firma che manifesta una volontà autonoma e non obbligata. Questa complessa procedura derivante dall'importanza della carica in questione implica pertanto che il presidente del Consiglio per scegliere il candidato abbia preventivamente contatti informali con il Quirinale.

Tali contatti ci furono già in giugno e in luglio e sembrò che avessero portato a un risultato, sennonché a quel punto si interpose il parere contrario del ministro dell'Economia la cui partecipazione non è prevista nella procedura di nomina e questa è la sola ragione del grande ritardo che tuttora perdura. Per quattro mesi questa pratica è rimasta inevasa con crescente disagio e stupefazione degli operatori, delle autorità europee e della Bce ed ha contribuito non poco a quella sfiducia dei mercati nei nostri confronti che Moody's lamenta nella sua decisione di declassamento del nostro debito sovrano.

* * *
Si è aperto un ampio dibattito politico dopo l'intervento del cardinale Bagnasco sulla necessità di "purificare l'aria" nella vita pubblica italiana, diventata "eticamente mefitica". Il presidente della Conferenza episcopale non ha fatto nomi ma è stato non di meno esplicito poiché ha richiamato al rispetto dell'articolo 54 della nostra Costituzione che impone a tutti coloro che rappresentano istituzioni pubbliche di "onorarle con comportamenti sobri ed eticamente corretti". Chi sia il principale destinatario (non certo il solo) di tale reprimenda dei vescovi è chiarissimo, ma il suddetto Destinatario ed i suoi fedeli collaboratori hanno accettato fervorosamente le parole di Bagnasco con il presupposto che non riguardano loro ma ovviamente i giudici felloni e i comunisti faziosi.

Lo stesso Bagnasco ha anche informato che la Chiesa sta preparando insieme a molte comunità e associazioni cattoliche un soggetto che interloquisca con la politica affinché i cattolici civilmente impegnati abbiano un luogo di incontro e di discussione comune. Non si tratta di un partito - ha precisato il cardinale - perché "la Chiesa non fonda e non dirige partiti", ma d'una sorta di oratorio pre-politico che serva da raccordo al pluralismo politico dei cattolici.

Alcuni ben noti "atei devoti" hanno polemicamente osservato che i laicisti (neologismo improprio che significa laici non credenti) avrebbero dovuto protestare contro Bagnasco poiché il cardinale avrebbe interferito ben due volte nella sfera di competenza dello Stato. Per loro è un bene ma i laicisti avrebbero dovuto fare fuoco e fiamme. Ma perché? L'articolo 54 fa parte della Costituzione ed è quindi patrimonio di tutti gli italiani. Noi l'abbiamo ricordato assai prima del cardinale e siamo lieti che l'abbia fatto anche lui. Il principale Destinatario se ne infischia, per conseguenza questo è l'ennesimo caso in cui viola la Costituzione sulla quale ha giurato. Quanto al progetto di creare un punto di raccordo tra la pluralità delle associazioni e comunità cattoliche, non è cosa che riguardi i laici non credenti; rientra nello spazio pubblico che la Costituzione garantisce a tutti in ragione di quella libertà religiosa che ai laici sta particolarmente a cuore. Infine: si è acceso un vivace dibattito all'interno del centrosinistra e in particolare del Pd tra chi ritiene che nel breve termine l'obiettivo primario per il bene del Paese sia la caduta del governo e la sua sostituzione con un governo di responsabilità nazionale, da un lato, e dall'altro chi vede come obiettivo primario la caduta del governo e le elezioni immediate. Il presupposto è comune, le tesi derivate hanno segno diverso.

La mia personale opinione è che le elezioni immediate, in questa situazione economica e con questa legge elettorale, sarebbero una pessima soluzione. Un governo di responsabilità nazionale affidato ad una personalità di massima autorevolezza sarebbe invece una garanzia per decantare la situazione, uscire dai "protettorati" e mostrare che siamo capaci di nuotare senza salvagente riconquistando fiducia in noi stessi e ispirandola agli altri.

(06 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/06/news/scalfari_gioved-22774054/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La rabbia dei giovani la miseria del Sud
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2011, 03:54:10 pm
IL COMMENTO

La rabbia dei giovani la miseria del Sud

di EUGENIO SCALFARI

TRA LE numerose e importanti esternazioni che il presidente Napolitano ha indirizzato nel suo viaggio in Piemonte e in Val d'Aosta ai cittadini che sono accorsi in gran numero a salutarlo ce n'è una che mi ha particolarmente colpito: "Non si debbono dividere gli italiani in buoni e cattivi".

Secondo me non era un incitamento retorico alla coesione nazionale, che sta giustamente a cuore a chi rappresenta l'unità del Paese, ma conteneva un concetto assai più profondo.

Bontà e cattiveria, egoismo e altruismo, interessi particolari e solidarietà sociale non descrivono una società antropologicamente spaccata in due. Sono piuttosto due vocazioni naturali, due istinti che albergano in ciascuno di noi. In ogni individuo e in tutti i luoghi della Terra quei due sentimenti sono presenti e la storia delle persone, delle comunità, delle nazioni altro non è che il confronto dialettico tra quelle due forze che si contrastano.

Talvolta prevale l'una, altre volte l'altra senza tuttavia che la forza soccombente sia eliminata. Se questo avvenisse l'antropologia della specie risulterebbe radicalmente trasformata: l'umanità della nostra natura diventerebbe in un caso una natura bestiale, nell'altro una natura angelica. L'uomo non è né una bestia selvaggia né un'essenza angelicata.
Queste riflessioni sulla natura della nostra specie non hanno soltanto un valore antropologico, contengono anche un insegnamento politico e una speranza per quanti confidano e lottano per
un mondo migliore.

Le divisioni restano, il confronto tra le due vocazioni continua, come continua la contrapposizione tra i diversi modi di concepire il bene comune, ma il valore politico di quell'esortazione è di non disperare del futuro e di non abbandonarsi all'indifferenza e all'apatia.

Credo che questo volesse trasmetterci Giorgio Napolitano e so che questo è stato anche il significato dell'incontro che si è svolto ieri a Milano per iniziativa dell'associazione "Libertà&Giustizia". È risultato chiarissimo dalle parole rivolte a molte migliaia di cittadini da Giuliano Pisapia, Roberto Saviano e Gustavo Zagrebelsky: "Non chiediamo niente per noi, ma chiediamo molto per tutti".

Il vento nuovo che spira con sempre maggior lena in tutto il Paese muove in questa direzione, non spinge verso una o l'altra delle parti politiche in accesa competizione tra loro, ma spinge verso il futuro, verso una nuova modernità che congiunge insieme sobrietà, efficienza, sviluppo, solidarietà. Il logo dei promotori li rappresenta con due valori che dal Settecento ad oggi sono stati il punto di riferimento di quanti hanno combattuto per la democrazia: Libertà e Giustizia. Rendiamo onore a quanti, in anni torpidi e tristi, hanno resistito alimentando la speranza anche quando sembrava ridotta alla luce incerta d'una lucciola nelle tenebre. Ora sta tornando a rifulgere in mezzo alle procelle della crisi che continua a infuriare.

* * *

L'epicentro della crisi è il pericolo incombente della recessione. Nel mondo e in Italia. Gli economisti registrano la recessione analizzando l'andamento della domanda; la domanda crolla a causa della caduta dei redditi; i redditi e quindi il potere d'acquisto diminuiscono per mancanza di lavoro il quale a sua volta cede per la scarsità di domanda. Così il cane si morde la coda, l'effetto diventa a sua volta causa, l'economia reale si avvita e il circolo perverso della stagnazione e poi della recessione si autoalimenta.

Per interromperlo deve entrare in gioco un elemento nuovo, capace di bloccare il ciclo perverso e di cambiare il "trend" e le aspettative dei mercati. Bisogna dunque chiedersi quale sia l'elemento nuovo capace di capovolgere le aspettative. Su questa ricerca si sta discutendo da anni e la discussione negli ultimi mesi è diventata sempre più convulsa. Ora siamo alla stretta finale e, come sempre avviene nei gran finali, il problema è ridiventato politico.
Tutti gli attori che partecipano a questa immane partita mondiale hanno assunto rilievo politico: sono politici per definizione i governi, ma anche le Banche centrali hanno assunto quel ruolo; fa politica il governatore della Federal Reserve americano non meno di Obama; fanno politica Trichet e il suo imminente successore Mario Draghi; fanno politica gli imprenditori e le loro organizzazioni; fanno politica i sindacati; fanno politica i "media"; fa politica la gente che va in piazza. e Fa politica - eccome se la fa - chi propugna l'antipolitica.

La politicizzazione della crisi economica è un fatto naturale: si sta infatti discutendo e decidendo di quale sarà il nostro futuro prossimo che porrà le basi per quello dei figli e dei nipoti. E non si può deciderlo che con la partecipazione responsabile della coscienza collettiva. Oppure con il dominio del dispotismo. Una terza alternativa in questi casi non esiste. Ecco perché l'antipolitica non è una risorsa ma un pericolo.

L'antipolitica può essere generata dalla mediocrità della politica presente, ma deve poi approdare ad una concezione positiva del bene comune altrimenti si incanaglisce nel rifiuto di tutto, esprime l'impulso anarcoide latente in ogni società democraticamente immatura. Il terrorismo degli anni Settanta nacque dall'antipolitica del "vogliamo tutto e lo vogliamo subito" e colpì a morte gli esponenti migliori della democrazia riformatrice, giudici, avvocati, giornalisti, politici, operai, servitori dello Stato.

Ma, senza arrivare a queste forme perverse e fanatizzate, guardate al "Tea Party" americano: non è un movimento di destra repubblicana ma una fanatizzata antipolitica che ha puntato perfino sul "default" dello Stato federale ed ora esalta l'isolazionismo e il razzismo "yankee".

L'antipolitica è anche l'inevitabile sbocco della disperazione che finisce però, altrettanto inevitabilmente, nell'indifferenza, nella difesa del proprio "particulare" e nella delega in bianco al dispotismo.

L'antipolitica fu l'incubatrice del fascismo. Ed è la natura profonda del "Forza Gnocca" berlusconiano che non è una battuta ma un appello ai peggiori istinti che, appunto, albergano in ciascuno di noi.

* * *

Per scongiurare questi incombenti pericoli bisogna dunque curare la disperazione.

Ce ne sono tante e di varia specie nell'Italia di oggi, ma due sono quelle che fanno massa critica: il futuro dei giovani, la miseria del Mezzogiorno. Ne hanno parlato in questi giorni con accenti preoccupati ed anche accorati Napolitano e Draghi. Ne ha parlato la Chiesa con i suoi maggiori esponenti, dal Papa al cardinal Bagnasco, al nuovo arcivescovo di Milano Angelo Scola. Ne parlano le opposizioni, dal Pd a Vendola, da Casini alla Camusso. Fa senso constatare che quelle due emergenze - Mezzogiorno e giovani - non siano state neppure nominate e prese in seria considerazione nelle quattro o cinque manovre economiche uscite dalle raffazzonate improvvisazioni del governo e della sua maggioranza.

Eppure quelle due disperazioni potrebbero essere due occasioni storiche per lo sviluppo dell'economia italiana, gli elementi di rilancio per farci uscire dallo stagno e impedire che si trasformi in recessione.

La sfiducia dei mercati verso i debiti sovrani è stata per ora attenuata da una saggia decisione della Bce, sorretta (finalmente) dal consenso indispensabile della Germania: garantisce alle banche europee un accesso illimitato al finanziamento della Banca centrale, con tassi favorevoli e la durata d'un anno.

La minaccia sulle banche è stata il punto sensibile della speculazione; la Bce ha spezzato la punta di quella lancia ed ha tranquillizzato i mercati. Ma questa strategia finanziaria cura i sintomi, è una sorta di cortisone, non rimuove le cause.
Le cause si rimuovono investendo sulla domanda di lavoro, cioè sugli investimenti, sugli sgravi fiscali che rilanciano i consumi, sulla rete d'un "welfare" moderno che copra i precari e i disoccupati.

Una riforma delle pensioni che porti subito tutte le pensioni d'anzianità al sistema contributivo è auspicabile anche dalla sinistra responsabile e dai sindacati, ma ad una condizione: non serva a fare cassa bensì ad essere investita nel "welfare" a favore d'un patto generazionale tra padri e figli.

Questo è vero riformismo. Le aziende debbono riguadagnare competitività e produttività, ma lo Stato e la collettività debbono darsi carico di quanti subiscono i contraccolpi della globalizzazione e della concorrenza che essa ha scatenato su tutti i mercati.

Discorsi analoghi valgono per il Sud. La depressione economica di quelle regioni è lo scarto che non solo consente ma impone il rilancio degli investimenti. Le risorse ci sono: lotta all'evasione come la fece Vincenzo Visco e prelievo patrimoniale ordinario con basse aliquote e vasta platea.

* * *

Poche parole sull'interessante ricordo che Napolitano ha fatto qualche giorno fa di Giuseppe Pella, iniziando da Biella il suo viaggio piemontese.

Pella è nato e sepolto a Biella. Fu ministro delle Finanze quando Luigi Einaudi era ministro del Bilancio; poi fu nominato presidente del Consiglio a Ferragosto del 1953 e durò in carica cinque mesi. Dopodiché di Pella non si parlò più.
È giusto che, visitando varie città storiche del Piemonte, il Presidente rievochi la memoria dei loro più illustri cittadini. Biella è stata storicamente importante perché lì nacque, ad opera di un paio di geniali imprenditori, l'industria tessile dell'Italia moderna, ma a Biella è anche nato Quintino Sella che fu uno dei maggiori protagonisti della politica finanziaria durante il quasi ventennale periodo di governo della Destra storica, dal 1861 al '76.

Napolitano ha scelto di ricordare Pella dedicando agli imprenditori tessili e a Quintino Sella (più che mai attuale nelle vicende di questi mesi) brevi parole di circostanza. Perché questa scelta?

Ieri, parlando a Dogliani e ricordando Luigi Einaudi che lì nacque, il Presidente ha negato che vi fosse alcuna sua intenzione politica nel suo ricordo di Pella. È opportuno che l'abbia detto, ma il fatto obiettivo rimane.

Nell'estate del 1953 ci furono elezioni politiche molto agitate; la Dc e i partiti laici suoi alleati avevano varato una nuova legge elettorale che consentiva l'apparentamento di liste varie e un premio di maggioranza alla coalizione vincente. Doveva raggiungere la soglia del 50 più 1 dei voti e avrebbe ricevuto un premio per governare con piena tranquillità. L'opposizione la chiamò "legge truffa", certamente esagerando. Ci furono proteste violentissime, nacque una lista guidata da Calamandrei, un'altra di liberali intransigenti guidata da Corbino. La conclusione fu la sconfitta della Dc e dei suoi alleati che non raggiunsero la soglia prevista.

De Gasperi decise di ritirarsi dalla politica. Nella Dc stava emergendo Fanfani ma incontrava molte resistenze; la crisi si presentava insomma assai accidentata.

Vigeva fin da allora la prassi delle consultazioni del Capo dello Stato con tutti i gruppi parlamentari; poi un incarico esplorativo, poi l'incarico formale, poi consultazioni dell'incaricato con i partiti di governo e le correnti per l'assegnazione dei ministeri. Infine la presentazione del nuovo governo al Parlamento. Così andarono le cose durante i quarant'anni della Prima Repubblica. Ma la lettera della Costituzione è molto più breve, dice soltanto: "Il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere, nomina il presidente del Consiglio e - su sua proposta - i ministri".

Einaudi, nonostante la prassi, fece esattamente così. Sentì i presidenti delle Camere, poi andò nella villa di Caprarola e convocò Pella informandolo che aveva già scritto e firmato il decreto che lo nominava presidente del Consiglio. Voleva un governo di "decantazione" che preparasse una nuova legge elettorale.

Questo è tutto. Dal che risulta che la lettera della Costituzione consente al Capo dello Stato di saltare ogni prassi restando saldamente nei limiti che la Costituzione prevede. Napolitano esclude che la sua "citazione" contenga una qualunque intenzione. Ho già detto che ha fatto bene ad escluderla ma resta che il precedente einaudiano conferma, ove mai ce ne fosse bisogno, la correttezza procedurale di attenersi interamente e soltanto al dettato letterale della Costituzione. In questo caso ci ha rimesso Quintino Sella, ma noi siamo contenti che, al bisogno, quel comportamento rientri nel novero d'una correttissima procedura e delle prerogative che la Costituzione assicura al Presidente della Repubblica.

(08 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma il governo è morto tre giorni fa
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2011, 11:16:17 am
LE IDEE

Ma il governo è morto tre giorni fa

di EUGENIO SCALFARI

Ma il governo è morto tre giorni fa Berlusconi dopo il voto negativo sul rendiconto (ansa)
FACEVA certamente effetto vedere l'aula di Montecitorio per metà deserta: segnalava con la forza d'una immagine la spaccatura del Paese in due, che dura ormai con alterne vicende dal 1994 avendo raggiunto poi il suo culmine negli anni successivi al 2001. Sono dunque ben tre legislature durante le quali la maggioranza ha imposto la sua dittatura, le regole sono state aggirate o travolte, la questione morale è di nuovo tornata di drammatica attualità.

Ma di nuovo c'è una questione che in precedenza non c'era: negli ultimi tre anni l'intero pianeta e in particolare le nazioni opulente dell'Occidente sono stati devastati dalla più grave crisi economica degli ultimi cent'anni, più grave ancora di quella del '29, mettendo in causa non solo i mercati ma il capitalismo nella sua natura democratica.

In queste condizioni l'intrinseca fragilità della democrazia italiana è purtroppo sbalzata in prima fila, tutte le nostre debolezze si sono accentuate, le nostre scarse virtù civiche hanno ceduto di fronte all'invasione del populismo, della demagogia, dell'indifferenza, dell'incompetenza, della corruzione.

Non è bastato neppure il "vincolo esterno" impostoci a un certo punto dall'Europa attraverso la sua Banca centrale. Un vincolo umiliante ma indispensabile e virtuoso di fronte alla pochezza politica del governo che tuttavia ha funzionato soltanto a metà a causa delle divisioni interne alla maggioranza e allo stesso governo e soprattutto del dominio che il lobbismo corporativo
esercita sul gruppo dirigente del Pdl e sugli interessi che rappresenta, dei quali il "premier" è la più vistosa espressione.

Sì, faceva effetto quell'aula parlamentare disertata dalla metà dei suoi componenti, ma non poteva risolvere il problema che si è aperto mercoledì scorso con il voto di bocciatura dell'articolo 1 del disegno di legge sul Rendiconto generale dello Stato. Né lo potrà risolvere il voto di fiducia che oggi il governo chiederà al Senato e che certamente otterrà. Il problema resterà aperto, anzi si aggraverà ed ecco perché.

* * *

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nella sua impeccabile vigilanza sul funzionamento degli organi costituzionali (così l'ha definito una volta tanto Berlusconi nel suo discorso di ieri e così lo definiamo anche noi fin da quando fu eletto al Quirinale cinque anni fa) ha fatto sentire per due volte la sua voce subito dopo "l'incidente" che ha bocciato il Rendiconto generale dello Stato.

In un primo comunicato ha chiesto al presidente del Consiglio di verificare in Parlamento se la maggioranza fosse ancora compatta e decisa a rinnovargli la fiducia e spiegasse in che modo intendeva rimediare alla bocciatura del Rendiconto generale; ma in un secondo "lancio" diffuso a distanza di poche ore ha ultimato al governo di lavorare con coerenza e rapidità alle misure di risanamento e di crescita senza le quali il Paese rischia di affondare nella tempesta della crisi.

Impeccabile certamente, non poteva dir meglio e tuttavia neppure in questo modo si risolve il problema. La fiducia oggi Berlusconi l'avrà, ma la navigazione successiva del governo nelle agitatissime acque della crisi non sarà diversa da quella che abbiamo visto dai primi d'agosto in poi: una prima manovra raffazzonata, una seconda dettata dalla Bce ma non adeguata per quanto riguarda la parte fondamentale destinata alla crescita; poi una terza perché non erano stati specificati alcuni punti essenziali relativi all'obiettivo di realizzare il pareggio di bilancio entro il 2013. Ora si attende la quarta manovra interamente destinata allo sviluppo. Mario Draghi l'altro ieri è stato impietoso in proposito, lamentando le gravi inadempienze del governo su questa materia. Tra quindici giorni se ne andrà a Francoforte e ancora non è stato nominato il suo successore anche se se ne parla da giugno.

Tutto dunque lascia prevedere che il governo e la sua maggioranza, balcanizzati in cricche e caciccati, non sapranno ottemperare alle richieste di Napolitano. Che cosa farà a quel punto il Presidente, di fronte ad un governo sempre meno credibile ma sempre sostenuto dalla fiducia del Parlamento?

La domanda è questa è non è di poco conto. Per misurare l'esistenza della fiducia parlamentare il Quirinale, come tutti noi, ha un termometro: i voti riscossi dal governo. Ma per misurarne la credibilità, l'operosità, l'efficienza, non esiste un termometro; esistono soltanto valutazioni e risultati. Le valutazioni sono soggettive e quindi differiscono tra loro, i risultati sono invece oggettivi anche se richiedono un tempo tecnico per esser raggiunti. Quelli che abbiamo per ora su questo governo equivalgono allo zero assoluto altrimenti non ci troveremmo in questo stato e peggio di tutti.

Anche la storia della nostra ricchezza privata che sarebbe secondo Berlusconi e Tremonti di gran lunga maggiore di quella della Francia e della Spagna e, sia pur di poco, perfino di quella della Germania, è una storia priva di qualunque significato come ha dimostrato cifre alla mano Romano Prodi in un articolo pubblicato domenica scorsa sul Messaggero. La nostra ricchezza privata mobilitabile ai fini dello sviluppo è di gran lunga inferiore a quella di tutte le altre nazioni europee.

Comunque fino a quando il governo avrà la fiducia del Parlamento il Quirinale non ha mezzi per rimuoverlo anche se credibilità, efficienza e capacità di dominare la crisi per la parte che ci riguarda sono ridotte allo zero.
Purtroppo dunque su questo tema i poteri del Quirinale non ci possono aiutare sicché è inutile farsi illusioni in proposito. So bene che alcuni tra più autorevoli costituzionalisti attribuiscono al Capo dello Stato il potere di sciogliere le Camere se ne constata la sostanziale paralisi.

So molto bene che il decreto di scioglimento deve essere sempre controfirmato dal presidente del Consiglio e so altrettanto bene che, in caso di denegata controfirma, il problema passerebbe nelle mani della Corte costituzionale affinché decida sul conflitto di attribuzione. Ma sono anche certissimo che Napolitano non ricorrerà mai ad iniziative così azzardate. Credo che faccia bene a non farlo. Con una conseguenza però: se il Paese continua così andrà a fondo e tutti gli attori della partita ne saranno responsabili salvo le opposizioni, i media tanto vilipesi perché cercano la verità e il potere terzo della magistratura.

* * *

Ma veniamo, per concludere, all'ormai famoso "incidente" sul Rendiconto generale e diciamo subito che non è affatto un incidente ma un fatto della massima importanza politica e costituzionale. Averne delegato la soluzione al governo e al Parlamento è corretto, ma altrettanto doverosamente corretto sarà di vigilare sulla sua soluzione la quale, nei termini in cui è stata prospettata dal "premier" è del tutto insostenibile e inaccettabile.

Il Rendiconto generale sull'amministrazione dello Stato è previsto nel primo comma dell'articolo 81 della Costituzione che fu scritto direttamente da Luigi Einaudi, allora membro autorevolissimo dell'Assemblea Costituente. Stabilisce che ogni anno il governo deve sottoporre all'approvazione delle Camere il Rendiconto generale, così come deve presentare ogni anno la legge di bilancio. Il Rendiconto altro non è che il consuntivo delle entrate e delle spese, la legge di bilancio (o finanziaria come un tempo si diceva) è il preventivo.

La legge n. 196 del 2009 parla anch'essa del Rendiconto (sebbene Berlusconi nel suo discorso di mercoledì l'abbia escluso) stabilendo che quel documento, proposto dal Tesoro e redatto dalla Ragioneria generale, sia trasmesso alla Corte dei Conti per la "parificazione", un'indagine ulteriore sulla correttezza costituzionale delle "coperture" e poi, così vidimato dalla Corte, inviato al Parlamento il cui voto è un voto politico. Il Parlamento cioè è chiamato a dare un suo giudizio sul consuntivo della finanza pubblica. Il voto negativo significa che il Parlamento dà un giudizio negativo su come il governo ha gestito la finanza pubblica nel precedente esercizio.

Poiché il Parlamento rappresenta il popolo sovrano, quel giudizio negativo è espresso dai delegati del popolo sovrano. E non sarà certo l'attuale governo e il suo "premier" a dissentire su questo punto, visto che il loro potere attuale è continuamente riportato al popolo sovrano e ai suoi delegati.

Dunque: il popolo sovrano attraverso il voto dei suoi rappresentanti ha bocciato l'articolo 1 del Rendiconto generale. Che cosa dice quell'articolo? Eccolo: "Il Rendiconto generale dell'Amministrazione dello Stato e i rendiconti delle Amministrazioni e delle Aziende autonome per l'esercizio 2010 sono approvati nelle risultanze di cui ai seguenti articoli" seguono varie pagine di tabelle, redatte dalla Ragioneria, firmate dal ministro del Tesoro e parificate dalla Corte dei Conti.

Si ricava da tutto ciò senza ombra di dubbio che il voto della Camera è un voto politico che sfiducia il consuntivo del 2010. E poiché la legge finanziaria del 2010 fu redatta dallo stesso ministro e dallo stesso governo di oggi, sono essi ad essere stati sfiduciati. E poiché infine uno dei principi della democrazia parlamentare consiste nel fatto che i ministri e i governi sono giudicati dal consuntivo delle loro azioni, questa è la sfiducia legittimamente votata dalla Camera dei deputati.

Berlusconi vorrebbe ripresentare il Rendiconto cambiandone l'articolo 1. E come può cambiarlo? L'ho citato nella sua letteralità: bocciare quell'articolo ha significato la bocciatura dell'intero provvedimento il quale, come dicono i regolamenti parlamentari, non può essere ripresentato se non dopo sei mesi, cosa che certamente non sfuggirà all'impeccabile vigilanza del Capo dello Stato.

Allora non c'è soluzione? Dobbiamo restare senza il consuntivo fino al prossimo aprile? E come si potrà costruire il preventivo senza avere certezze e approvazione del consuntivo? Una soluzione c'è: le dimissioni del governo. La fiducia di oggi è un sotterfugio perché la fiducia il governo l'ha già perduta l'altro ieri ed oggi si vota la fiducia ad un governo che l'ha già persa e potrebbe ritrovarla soltanto dopo aver rimesso le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato.

Questa è la procedura costituzionale e non mi pare che possa essere ignorata.

Post scriptum. Forse Emanuele Macaluso, che spesso mi dedica la sua acida attenzione sul Riformista opinerà diversamente da me. Ma con tutto il rispetto che gli è dovuto, la sua opinione è, come tutte le opinioni, puramente soggettiva.
 

(14 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Stato sconfitto da un pugno di teppisti
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 09:27:07 am

L'EDITORIALE

Stato sconfitto da un pugno di teppisti

di EUGENIO SCALFARI

La notizia principale di oggi è la mobilitazione degli "indignati" in tutte le piazze dell'Occidente, da Manhattan a Londra a Bruxelles, a Berlino, a Parigi, a Madrid. Ma a noi preoccupa soprattutto ciò che è avvenuto a Roma. Mentre centinaia di migliaia di giovani tentavano di sfilare pacificamente nelle via della capitale poche centinaia di "black bloc" in tenuta da guerriglia hanno compiuto violenze e provocato la polizia tentando di forzarne i cordoni. Gli scontri hanno coinvolto la massa dei pacifici dimostranti, come è avvenuto in molte altre occasioni. Mentre scriviamo gli incidenti  sono ancora in corso, molti manifestanti hanno tentato di isolare i facinorosi che hanno reagito picchiandoli a colpi di spranghe. È deplorevole che ancora una volta la polizia e i servizi di sicurezza non siano stati in grado di neutralizzare preventivamente i teppisti e i provocatori che dovrebbero esser noti e rintracciabili. Speriamo che le violenze non continuino in serata. Le nostre cronache ne daranno ampia informazione.

Quali che ne siano gli esiti il fatto certo è comunque l'esistenza ormai evidente di un movimento internazionale. La sua antivigilia è stata la "primavera araba" come furono definiti i moti di piazza qualche mese fa al Cairo e poi a Tunisi e a Bengasi, senza scordare le sommosse del 2008 e del 2010 nelle "banlieue" parigine.

La vigilia è avvenuta alcuni mesi fa a Madrid, poi la fiaccola è sbarcata a New York al grido di "Occupy Wall
Street". Adesso le dimensioni del movimento sono globali. D'altronde, è contro i danni provocati dalla globalizzazione che il movimento è nato, si è diffuso e si rafforza col passare del tempo.

Effimero? Non credo. Esprime la rabbia d'una generazione senza futuro e senza più fiducia nelle istituzioni tradizionali, quelle politiche ma soprattutto quelle finanziarie, ritenute responsabili della crisi e anche profittatrici dei danni arrecati al bene comune.

Gli "indignati" non sono né di sinistra né di destra, almeno nel significato tradizionale di queste parole. Ma certo non sono conservatori. Hanno obiettivi concreti anche se talmente generali da diventare generici: vogliono che i beni comuni siano di tutti; non dei privati, ma neppure dello Stato o di altre pubbliche autorità poiché non hanno alcuna fiducia nella proprietà privata e neppure in quella pubblica amministrata da caste politiche e burocratiche.
I beni pubblici debbono esser messi a disposizione dei loro naturali fruitori, cioè delle persone che vivono e abitano in quei luoghi e che decideranno sul posto le regole del valore d'uso nelle "agorà", nelle piazze di quel luogo. L'acqua è un bene d'uso comune, l'aria, le foreste, le reti di comunicazione, le case, le fabbriche, i trasporti, gli ospedali. Le banche? Non servono le banche, tutt'al più servono a render facili i pagamenti che avvengono sulla base del valore d'uso e non del valore di scambio.

C'è una dose massiccia di utopia in questo modo di pensare; c'è un'evidente reminiscenza di comunismo utopico; c'è anche una tonalità "francescana". E c'è - l'ho già scritto domenica scorsa e qui lo ripeto - un rischio estremamente grave: un contagio di populismo.

Esiste storicamente il populismo dei demagoghi, costruito per accalappiare i gonzi, e il populismo degli utopisti che predicono la Città del Sole. Ma non esistono Città del Sole, almeno in questa terra. Chi crede che ce ne sia una ultraterrena fa bene a vagheggiarla ma qui, tra questi solchi, neppure il Redentore la portò perché - fu lui il primo a dirlo - il suo regno non era di questo mondo.

Certo le foreste non vanno abbattute. Certo l'aria non va inquinata. Certo le banche non debbono truffare i clienti e ingrassare sulla truffa. Certo i cittadini debbono partecipare alla gestione della cosa pubblica e non limitarsi a votare con pessime leggi elettorali una volta ogni cinque anni. E così via. Bisogna dunque fare buone leggi e farle amministrare da buona e brava gente e bisogna infine che vi siano efficaci e imparziali controlli su quelle gestioni.
Gli "indignati" sono indignati perché tutto ciò manca e il futuro gli è stato rubato. Sono d'accordo con loro anche perché a me e a quelli della mia generazione è stato rubato il presente e la memoria del passato e vi assicuro che non si tratta d'un furto da poco. Ma so che non è con l'utopia che si risolve il problema.
L'utopia è una fuga in avanti alla quale subentra ben presto l'indifferenza.

Il vostro entusiasmo è sacrosanto come la vostra pacifica ribellione, ma dovete utilizzarlo per la progettazione concreta del futuro, altrimenti da indignati finirete in rottamatori e quando tutto sarà stato rottamato - il malfatto insieme al benfatto - sarete diventati "vecchi e tardi" come i compagni di Ulisse quando varcarono le Colonne d'Ercole e subito dopo naufragarono.
* * *
Domani comincia a Todi un incontro promosso da una serie numerosa di associazioni, comunità, sindacati, di ispirazione cattolica sulla scia dell'allocuzione pronunciata un paio di settimane fa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova. L'allocuzione era quella che propugnava un rilancio dell'etica pubblica capace di rinnovare "l'aria putrida" che aveva devastato le istituzioni e esortava i cattolici all'impegno civile e politico.
A Todi, secondo gli intendimenti dei promotori, dovrebbe prender vita un "soggetto pre-politico" che interloquisca con la politica, sia punto di riferimento dei cattolici impegnati ed anche centro di preparazione civile e sociale di una nuova classe dirigente d'ispirazione cristiana.

"Non è un partito" hanno ripetuto all'unisono i promotori dell'iniziativa "perché non è compito della Chiesa fondare e dirigere partiti".

I laici non cattolici (tra i quali mi ascrivo) prendono nota con interesse di questa iniziativa anche se alcune domande sorgono spontanee.

Prima domanda: la Chiesa non ha mai fondato un partito. Il partito è, per definizione, una parte e non un tutto, mentre la Chiesa cattolica è ecumenica per definizione. Quindi l'affermazione che non fonderà nessun partito è talmente ovvia da apparire alquanto sospetta. Del resto, un sacerdote con tanto di veste talare un partito lo fondò. Era il 1919, il partito si chiamò "Popolare", in Italia ha cessato di esistere una decina d'anni fa, nel Parlamento europeo esiste ancora, il fondatore si chiamava don Luigi Sturzo.

Seconda domanda: la Chiesa dispone dello spazio pubblico come ogni altra associazione, religiosa o no, sulla base della nostra Costituzione. Nessuno si è mai opposto all'uso di quello spazio del quale infatti la Chiesa, il Vaticano, le comunità cattoliche, i sacerdoti d'ogni genere e grado, si sono largamente serviti. Se il "soggetto" immaginato a Todi nascesse per usare lo spazio pubblico, sarà un'ennesima voce cattolica a farsi sentire e ben venga. Il rischio semmai è che sia un doppione della Cei. Niente di male, ma inutile. Oppure non sarà un doppione? Dirà cose diverse dalla Cei, dal Vaticano, dalla Gerarchia? Sarebbe molto interessante, potrebbe essere una forza di rinnovamento. In senso modernista oppure un richiamo all'ordine e alla tradizione? Comunque, in ciascuna di queste ipotesi, sarebbe rivolta alla comunità dei fedeli e non certo ai laici.

Terza domanda: se vuole essere invece un centro di preparazione della nuova classe dirigente cattolica, questa sì sarebbe un'ottima cosa. I cattolici impegnati in politica finora, salvo rare e importanti eccezioni, hanno avuto Cristo sulle labbra e Mammona nel cuore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se è questo l'obiettivo di Todi, sarà benvenuto.

Quarta ed ultima domanda: oppure il nuovo soggetto sarà il Quartier generale di tutte le forze cattoliche variamente impegnate nei partiti, in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle istituzioni? Questo sarebbe alquanto preoccupante. In realtà questo Quartier generale c'è già ed è la Segreteria di Stato vaticana. Questo sarebbe un Quartier generale in sembianze laiche. Non mi sembra una grande idea e non credo che i veri cattolici socialmente impegnati la gradiranno. Per quanto so, la regola è questa: la Chiesa diffonde la sua etica, le sue richieste, i suoi valori; i cattolici politicamente impegnati cercano di sostenere quella dottrina tenendo tuttavia presente che le leggi riguardano tutti, cattolici e non cattolici, e che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge in uno Stato laico e non teocratico.
Non c'è bisogno di molti Quartier generali dunque, uno basta e avanza.
* * *
Concludo queste mie note con quanto è accaduto durante e dopo le votazioni di venerdì scorso alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo. Le cronache ne hanno parlato diffusamente sicché mi soffermerò soltanto su alcune questioni non risolte.

1. Dopo la bocciatura di martedì scorso del Rendiconto generale dello Stato, tre questioni dovevano aver soluzione. Una era quella di risolvere quel problema estremamente complesso. Un'altra era verificare che il governo godesse ancora della fiducia del Parlamento. Un'altra ancora di constatare se la maggioranza avesse la credibilità e la compattezza necessaria ad affrontare i prossimi difficili appuntamenti politici ed economici. Tutti e tre questi obiettivi furono esplicitamente indicati dal capo dello Stato con pubbliche e chiarissime esternazioni.

2. La fiducia alla Camera è stata ottenuta e questa questione è quindi risolta.

3. La credibilità e la compattezza della maggioranza restano aperte e se ne avranno prove nei prossimi giorni e settimane soprattutto (ma non soltanto) su questioni economiche. Se i risultati richiesti dal Quirinale ci saranno il governo potrà andare avanti fino alla scadenza naturale della legislatura. Se non ci saranno il governo resterà egualmente in carica perché il Quirinale non ha gli strumenti necessari per farlo sloggiare senza un esplicito voto di sfiducia che finora non c'è stato anche a causa della compravendita di deputati e senatori che è avvenuta ed avviene sotto gli occhi schifati di tutto il Paese.

4. L'incidente (che non è affatto un incidente ma una questione di prima grandezza) del voto contrario dato dalla Camera sul Rendiconto generale non è stato ancora risolto. Il presidente della Repubblica, rispondendo l'altro ieri ad una lettera dei capigruppo di maggioranza, ha suggerito di ripresentare il Rendiconto al Senato dopo un ulteriore controllo della corte dei Conti. Così probabilmente avverrà sebbene esista una prassi secondo la quale quando una legge viene bocciata da una delle Assemblee, non viene ripresentata all'altra. Ma la prassi - quando è necessario - si può superare se non è esplicitamente vietata e questa non lo è.

5. Il Senato approverà certamente il Rendiconto e poi lo trasmetterà alla Camera affinché faccia altrettanto ma qui sorgerà un problema. Il regolamento della Camera prevede che una legge bocciata non possa essere ripresentata se non dopo sei mesi. Quindi, a rigor di logica, la Camera non dovrebbe mettere all'ordine del giorno il Rendiconto se non nel prossimo aprile con la conseguenza che il ministro del Tesoro sarebbe fino ad aprile sfiduciato su come ha gestito la pubblica finanza nell'esercizio 2010 e con lui l'intero governo di cui fa parte.

Debbo immaginare che gli uffici competenti del Quirinale conoscano questo problema e penso quindi di essere io in errore. Me lo auguro e mi farebbe piacere saperlo. Secondo me il solo modo per risolvere il problema erano le dimissioni del governo come insegnano i precedenti, anche perché la bocciatura del Rendiconto, cioè del consuntivo nell'esercizio 2010, è un voto estremamente politico. Significa che la Camera disapprova il modo con cui è stata amministrata l'economia in quell'esercizio. Più politico di così non ce n'è un altro.

Si obietterà che si tratta di questione procedurale. Obietto a mia volta che la procedura non è una formalità ma è la sostanza della politica, contiene le regole alle quali la politica deve conformarsi e affida alle autorità "terze" il compito di rispettarle e farle rispettare.

Vedremo come tutto questo finirà. Intanto abbiamo due viceministri e un sottosegretario in più ma non ho sentito che, a parte l'opposizione, questo vergognoso mercato sia stato censurato come si sarebbe meritato.

(16 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/16/news/stato_sconfitto_da_un_pugno_di_teppisti_di_eugenio_scalfari-23306498/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Strappo istituzionale
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2011, 09:33:03 am
IL COMMENTO

Strappo istituzionale

di EUGENIO SCALFARI

STA per accadere un fatto di estrema gravità, riguarda la nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia, successore di Mario Draghi che tra nove giorni sarà insediato alla guida della Banca centrale europea "nonostante sia italiano", come dissero informalmente la Merkel e Sarkozy quando nel giugno scorso quella scelta fu approvata all'unanimità dal Consiglio dei capi di governo dell'Unione europea.

È appunto dal giugno scorso che se ne parla. Si tratta infatti di un atto complesso con tre attori: il presidente della Repubblica che firma il decreto presidenziale di nomina, il presidente del Consiglio cui spetta il diritto di proporre il nome del candidato e il Consiglio superiore della Banca d'Italia che è chiamato ad emettere il suo parere, obbligatorio ma non vincolante.

Finora il governatore è sempre stato scelto all'interno della Banca d'Italia salvo per l'appunto la nomina di Draghi che avvenne perché l'allora governatore Antonio Fazio era stato rinviato a giudizio sulla questione della scalata della Banca Antonveneta da parte dei "furbetti" e "furboni" del quartierino, come allora furono chiamati.

Ma nonostante i mesi trascorsi e le ripetute sollecitazioni del Quirinale, il tempo passava invano e la proposta di Berlusconi non arrivava. La causa è nota: il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, aveva un suo candidato nella persona di Vittorio Grilli, già ragioniere dello Stato e attualmente direttore generale del Tesoro, cioè principale collaboratore di Tremonti, Marco Milanese a parte. Si contrapponevano dunque l'attuale direttore generale della Banca d'Italia, Fabrizio Saccomanni, che rappresenta la continuità dell'Istituto e gode della fiducia di Draghi, a Vittorio Grilli che anche lui ha buoni titoli nella sua biografia personale.

Con un handicap tuttavia non da poco: Tremonti ha più volte e pubblicamente motivato la sua propensione a favore di Grilli perché ritiene che la Banca debba essere una propaggine del ministero del Tesoro soprattutto nel campo della politica bancaria, in quella importantissima della Vigilanza e infine nelle valutazioni della politica economica del governo che il governatore formula almeno due volte l'anno, il 31 maggio nel corso dell'assemblea generale dell'Istituto e a ottobre nella Giornata del Risparmio. Insomma, un capovolgimento totale dello spirito della tradizione e del ruolo assegnato alla Banca d'Italia fin dall'epoca in cui fu fondata, Ventennio fascista a parte.
Va ricordato che del ministro del Tesoro la legge che disciplina la nomina del governatore non fa affatto menzione. Si tratta dunque in questo caso d'una vera e propria interferenza che il presidente del Consiglio ha subìto e subisce per la strutturale debolezza in cui è finito il governo-fantasma che si ostina a presiedere.

Per questa ragione il tempo ha continuato a passare fino a quando il calendario non ha fatto arrivare la data limite, ma a questo punto è emersa un'altra complicazione. Con l'uscita di Jean-Claude Trichet dalla presidenza della Bce la Francia resta senza alcun rappresentante nel direttorio di quella fondamentale istituzione europea, mentre l'Italia ne ha addirittura due: Draghi e Bini Smaghi.

Il problema era già stato esaminato a giugno. Bini Smaghi aveva dato pubblica assicurazione a Sarkozy che si sarebbe dimesso dalla Bce il giorno stesso dell'insediamento di Draghi. Contemporaneamente aveva informato Berlusconi del suo interesse al governatorato della Banca d'Italia ricevendone, a quanto si sa, una risposta interlocutoria.

Arrivata ormai la scadenza Bini Smaghi avrebbe fatto sapere che se la sua richiesta non verrà accettata intende rimanere alla Bce fino a quando il suo mandato non sarà scaduto, cioè per più d'un anno ancora. Sarkozy a questo punto intende sollevare il caso alla prossima riunione del Consiglio dei ministri europeo e minaccia ritorsioni contro il governo italiano.

Oggi Berlusconi farà la proposta al Consiglio superiore della Banca d'Italia e, a quanto si è saputo ieri, dovrebbe proporre proprio Bini Smaghi  -  anche se mentre scriviamo circolano voci su un suo possibile ripensamento  - , invocando la forza maggiore di evitare un conflitto con la Francia ma soprattutto sottraendosi alla scelta imposta da Tremonti.

La soluzione Bini Smaghi è pessima soprattutto perché frutto d'un ricatto vero e proprio: resta a Francoforte se non gli si dà via Nazionale. Mettere alla guida della Banca d'Italia un personaggio che rischia di suscitare una guerra diplomatica tra l'Italia e la Francia definisce compiutamente la figura morale e politica d'una simile candidatura. Non a caso ieri Bersani e Casini hanno diffuso un comunicato in cui auspicano una scelta del governo che rispetti l'autonomia e le competenze interne dell'istituto. Una decisione che non tenga conto di ciò avrebbe tra l'altro come immediata e probabilissima conseguenza la dimissione di gran parte del direttorio della stessa Banca d'Italia in un momento di estrema delicatezza della situazione economica e finanziaria del Paese.

Non sappiamo ovviamente quale sarà il parere del Consiglio superiore dell'Istituto e ancor meno sappiamo quale sarà l'atteggiamento del presidente della Repubblica. Ricordiamo a questo punto che il parere del Consiglio superiore, pur non essendo vincolante, è tuttavia di grande rilievo istituzionale. Per quanto riguarda il Capo dello Stato, la sua non è una controfirma "dovuta" su un atto del governo ma una firma apposta ad un decreto di sua diretta emanazione. Il diritto di proposta spetta a Berlusconi, ma Napolitano ha pieno diritto di rifiutarlo se lo ritiene inopportuno e chiedere una proposta alternativa.

Questo è l'ennesimo nodo che arriva al pettine a causa del governo che ci sgoverna ed è l'ennesima causa di degradazione dinanzi al concerto delle Nazioni europee che ci ignorano e ci sbeffeggiano. Il tutto in una fase in cui l'appoggio della Bce al nostro debito argina a fatica la pressione dei mercati sui nostri titoli di Stato e sulle nostre banche.

(20 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La lezione attuale di Moro e Berlinguer
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 11:19:58 am
 
L'EDITORIALE

La lezione attuale di Moro e Berlinguer

di EUGENIO SCALFARI


L'uccisione di Gheddafi, la fine della guerra in Libia e il difficile assetto di quel paese hanno dominato le pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni. Non ho esperienza di quei problemi e quindi non me ne occuperò, ma voglio dire che cosa penso della feroce esecuzione del dittatore libico mentre fuggiva da Sirte sulla strada che conduce a Misurata. Concordo con tutti quelli che hanno riprovato la ferocia; bisognava consegnarlo alla Corte di giustizia internazionale per un regolare processo sebbene la stessa Corte, la Nato e i comandi militari del governo provvisorio dei ribelli ne avessero chiesto la cattura "vivo o morto".

Quando cade un tiranno che ha terrorizzato e insanguinato un Paese per anni ed anni, la tentazione del linciaggio è incontenibile e talvolta colpisce perfino degli innocenti supposti colpevoli. Figurarsi quando la colpevolezza è palese e si è macchiata di delitti orribili. Se poi l'autorità legale è debole - come ancora lo è nella Libia di oggi - manca ogni possibilità d'impedire il giudizio sommario. La storia è purtroppo piena di queste esplosioni di rabbia incontenibile e incontenuta, sicché dolersene è doveroso ma stupirsene no.

Ciò premesso, i temi odierni sono soprattutto due: il movimento dei cattolici messo in moto dal cardinale Angelo Bagnasco e dal convegno delle associazioni e comunità da lui promosso a Todi e il movimento degli "indignati" con le violenze degli "incappucciati" che gli hanno rubato la scena a piazza San Giovanni.

Gli "incappucciati" sono un problema di ordine pubblico come gli "ultras" degli stadi e come quelli vanno trattati. Gli "indignati" sono invece un problema sociale che si identifica con la mancanza di lavoro e con l'emarginazione. La situazione che fa da sfondo a questi avvenimenti è la vera e propria paralisi del governo, il disfacimento dei due partiti di maggioranza e l'alternativa ancora indistinta dalla quale le opposizioni non riescono ancora ad uscire.

Partirò da lontano per meglio affrontare e tentar di chiarire questo viluppo di problemi: da due colloqui che ebbi con Aldo Moro il 18 febbraio del 1978 e con Enrico Berlinguer il 28 luglio del 1981. Quei due eccezionali personaggi sono morti da tempo, ma i loro pensieri e le loro previsioni sono attualissimi, sembrano datati oggi, perciò è da quelle parole di allora che partirà il mio ragionamento.

* * *

Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, ha scritto ieri su queste nostre pagine un commento di grande interesse sul nascente movimento dei cattolici. Bianchi è anche lui un cattolico, ma di una caratura molto particolare. Ricorda per certi aspetti Pietro Scoppola che fu uno dei fondatori del partito democratico; infatti anche Bianchi come Scoppola non sono molto nelle grazie della Gerarchia, come del resto non lo è il cardinal Martini e neppure l'arcivescovo Tettamanzi che ha da poco lasciato la guida della diocesi milanese.

Quest'ala della cattolicità pone il problema del rapporto tra il laicato cattolico e la Gerarchia sottolineando la notevole sproporzione da sempre esistita tra questi due aspetti della religione, a tutto vantaggio dell'istituzione e a danno del popolo di Dio. Che l'istituzione guidata dalla Gerarchia sia indispensabile è un dato di fatto, ma che il popolo dei credenti sia stato ridotto al pio gregge nelle mani del pastore rappresenta una palese deformazione della predicazione evangelica. Antepone la liturgia alla pastoralità e quindi il dogma e la politica all'afflato della fede.

Questa, con rare eccezioni, è stata la storia della Chiesa, soprattutto a partire dalla guerra delle investiture e dalla vendita delle indulgenze, almeno fino al Concilio del Vaticano II. Di lì, cioè dal pontificato di papa Giovanni, ebbe inizio un tentativo di modernizzare la Chiesa, ponendola come un seme destinato a confrontarsi con il pensiero illuminista sul piano culturale e con il laicato cattolico su una più intensa concezione della fede e dei comportamenti etici da essa ispirati.

Non sembrino peregrine queste considerazioni; esse costituiscono la base necessaria per chiarire la natura di quel movimento di rilancio cattolico promosso dal cardinal Bagnasco, che si propone di affrontare un altro ed essenziale tema che la modernità pone alla Chiesa e cioè il confronto tra la Chiesa-istituzione e la democrazia dello Stato laico.

Un'ultima osservazione su questa questione preliminare. Era sembrato, all'esordio del pontificato di papa Ratzinger che egli parteggiasse piuttosto dalla parte di chi voleva frenare l'ispirazione conciliare del Vaticano II. Si sta invece verificando che non è questo, o non è più questo, il pensiero del Papa. Ne ha fatto fede il discorso da lui tenuto nelle scorse settimane al Bundestag di Berlino e in particolare nel discorso, durante quel suo viaggio in Germania, sul cristianesimo protestante.

Ratzinger è un agostiniano e questa sua formazione la dice già molto lunga sulla natura della sua fede, agganciata al pensiero di chi fece della "grazia" il pilastro della salvezza. Ma la frase più significativa Benedetto XVI l'ha riservata al promotore della "riforma": "Lutero - ha detto - ha creduto in Dio più di noi". Forse voleva dire che Lutero propugnò il rapporto diretto tra il credente e il suo Creatore, senza la necessaria intermediazione della Gerarchia, del dogma, della pratica liturgica.

La frase comunque è stata quella che di per sé evoca una vera e propria rivoluzione come l'altra: "Meglio un non credente di retto sentire che un ateo devoto".

* * *

Veniamo all'incontro con Aldo Moro. Si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza di Corrado Guerzoni, suo stretto collaboratore. Il tema era l'ingresso del Pci nella maggioranza del governo che si insediò, presieduto da Andreotti, pochi giorni dopo il nostro incontro e poche ore dopo il rapimento di Moro in via Fani e la strage della sua scorta.

Alla mia domanda Moro rispose così: "Molti si chiedono nel mio partito e fuori di esso se sia necessario un accordo con i comunisti. Quando si esaminano i comportamenti altrui bisogna domandarsi anzitutto quale è l'interesse che li motiva. Se l'interesse egoistico c'è, quella è la garanzia migliore di sincerità. E qual è l'interesse egoistico della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza: se continua così, questa società si sfascerà, le tensioni sociali non risolte politicamente prendono la strada della rivolta anarchica e della disgregazione. Se questo avviene noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso. Noi non siamo in grado di "tenere" da soli un Paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle maggiori forze politiche stia all'opposizione. Su questo punto il mio e il suo pensiero sono assolutamente identici. Dopo la fase dell'emergenza si aprirà quella dell'alternanza e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi".

Questo disegno moroteo fu attuato e consentì di battere il terrorismo. Lui ci rimise la vita ma il frutto d'una democrazia finalmente compiuta si realizzò.

Quel disegno era valido allora (e proprio per questa ragione gli interessi interni e internazionali che non volevano una trasformazione riformista del Pci organizzarono l'agguato di via Fani) ma è ancora più valido oggi perché il partito comunista non c'è più e la sinistra - tutta la sinistra - è interamente democratica.

I cattolici che militano nel Pdl (ma quelli veri sono assai pochi) dovrebbero riflettere sulle parole di Moro, ma ancor più dovrebbe riflettere Casini che ancora recalcitra di fronte all'ipotesi dell'alleanza che il Pd gli offre. Casini vuole essere l'ago della bilancia, accetta l'alleanza col Pd solo se sarà dimezzato, solo se Vendola andrà per conto proprio portandosi appresso metà del partito democratico.

Ma valgono anche per Vendola e per Di Pietro le parole che Moro allora indirizzava all'intero Pci. Chi pensa alla propria bottega vede l'albero ma non la foresta, antepone i propri interessi e le proprie ambizioni alla salvezza del Paese. E chi, nel partito democratico, si divide tra l'alleanza con Casini e quella con la sinistra radicale, fa lo stesso errore. Ci vuole - e tutti dovrebbero volerla - la grande alleanza del centro e della sinistra riformista. Con un programma comune, limitato ai pochissimi punti necessari a superare l'emergenza. Poi verrà il tempo dell'alternanza tra i moderati e i riformisti, entrambi ligi all'etica costituzionale e repubblicana.

***

Il colloquio con Berlinguer avvenne tre anni dopo quello con Moro. Il Pci aveva sperimentato l'alleanza con la Dc, il terrorismo era stato battuto lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Ma i nodi del Paese non erano stati risolti, la questione morale si era diffusa con tutte le sue brutture, la Dc aveva registrato una regressione con l'alleanza Craxi-Andreotti-Forlani, mafia e corporazioni dominavano, il debito pubblico aveva superato la soglia della tollerabilità.

Berlinguer illustrò a lungo la questione morale individuandone la causa nell'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti (anche del suo in alcune diffuse situazioni locali). Poi parlò della "diversità" comunista. Ne enumerò tre, ma le prime due avevano piuttosto l'aria di voler lanciare una sollecitazione contro il pericolo che anche il Pci diventasse "casta" anziché rappresentanza popolare quale fino ad allora era stato.

La terza "diversità" ha invece un tratto sorprendente di attualità: "Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici, ma anche quelle degli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, dai giovani e dagli anziani. Il principale malanno delle società industriali è la disoccupazione. L'inflazione è l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro tutte e due, ma guai se per domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e di un'altrettanta massiccia disoccupazione. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili. Noi abbiamo sostenuto l'austerità contro il consumismo. Abbiamo detto anche che i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di risanamento, ma che l'insieme dei sacrifici doveva esser fatto applicando un principio di rigorosa equità. Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e contenuto operando soprattutto sul fronte della produttività. Voglio dirlo però con tutta franchezza: quando si chiedono sacrifici al Paese si comincia sempre con il chiederli ai lavoratori; quando poi si abbia alle spalle una questione come la P2 è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili". Su queste parole debbono meditare tutti, al centro e a sinistra. Della destra non parlo nemmeno perché la destra non c'è.

C'è un'accozzaglia di clientele tenute insieme dall'interesse e da residui di un ex comunicatore che ha scelto come amici intimi Scilipoti, Lavitola e Verdini. "Unicuique suum" direbbe la liturgia. Quanto alla fede, chi ce l'ha avrebbe dovuto sapere da gran tempo che nei luoghi del morente Pdl la fede non è mai stata di casa. Quel partito e il suo premier possono aver concesso qualche favore ai "valori non negoziabili". Al quale proposito -da un non credente interessato alla questione - concludo con due osservazioni: 1) anche i laici hanno valori non negoziabili; chi vuole affermare i propri deve concedere la reciprocità. 2) I valori non negoziabili non sono separabili l'uno dall'altro, costituiscono nel loro complesso una coscienza etica e dunque è su quella che ci si confronta.

Ora aspettiamo di vedere se le intimazioni alla manovra di crescita che l'Europa e la Bce ci hanno rivolto saranno accolte dal governo. Altrimenti su questo cadrà.
 

(23 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Europa ci protegge ma diffida di lui
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2011, 05:40:06 pm
L'EDITORIALE

L'Europa ci protegge ma diffida di lui

di EUGENIO SCALFARI


L'ORMAI famosa lettera di intenti firmata da Berlusconi e approvata dai 17 Paesi dell'Eurozona e soprattutto dalla Germania, dalla Francia e dalla Commissione di Bruxelles, fu riscritta e corretta in una lunga telefonata con Gianni Letta, avvenuta la mattina e consegnata a Bruxelles nel pomeriggio da Berlusconi. Questa cronaca è ormai ufficiale. Di fatto la lettera fu scritta dai destinatari e poi riconsegnata con la loro approvazione al mittente. In più ci fu la decisione europea di affidare al presidente del Consiglio europeo e al capo della Commissione un monitoraggio costante sull'adempimento degli "intenti" indicati in quella lettera con tanto di cifre e calendario. Ieri, tra l'altro, è arrivata la proposta dell'Fmi, e accettata dalle autorità europee, di creare una rete di sicurezza aggiuntiva per Italia e Spagna, il che conferma che le misure finora prese non sono sufficienti perché affidate a un governo di dubbia credibilità. Il commissariamento dell'Europa nei confronti dell'Italia è dunque fuori discussione ed equivale a quello già in atto nei confronti della Grecia, dell'Irlanda e del Portogallo. Questa conclusione che emerge dai fatti significa che quando discutiamo della lettera di Berlusconi non stiamo esaminando la sua politica economica che non esiste, ma quella delle autorità europee. Stiamo cioè esaminando il contenuto del cosiddetto "vincolo esterno" che l'Europa ha costruito per istigare i Paesi recalcitranti ad accettare la disciplina imposta dai "Protettori" se accettano d'esser protetti per non far saltare in aria Eurolandia.

Questa è la realtà, dalla quale emerge la prima domanda: è necessario per l'Italia avere un vincolo esterno? La nostra risposta è sì, è necessario. L'hanno ricordato sia Ciampi sia Prodi, in aperta polemica con Berlusconi che aveva appena dichiarato quanto l'euro sia dannoso alla vita dell'Europa.

È opportuno tuttavia ricordare che i governi di Prodi e di Ciampi che portarono l'Italia nell'euro non erano commissariati dall'Europa. Avevano accettato le regole europee per rendere possibile la moneta unica, dopo averle a lungo discusse con gli altri Paesi membri dell'Eurozona: le regole di stabilità, la supervisione della Commissione sul loro rispetto e sull'indice che ne era il misuratore, cioè il rapporto tra Pil e deficit di bilancio con le sanzioni comminate a chi sforava quei limiti.

L'attacco ai debiti sovrani e a quello italiano, che non può e non deve diventare insolvibile perché provocherebbe in quel caso il disfacimento dell'intero sistema economico occidentale, ha segnato la data di inizio dello speciale vincolo esterno a noi riservato, l'inizio del "Protettorato" o commissariamento che dir si voglia. La data di inizio si colloca alla fine di luglio di quest'anno, il primo documento dei "Lord protettori" è la lettera firmata da Trichet e Draghi e diretta al nostro governo (un documento analogo viene spedito anche al governo spagnolo); l'effetto consiste nella seconda manovra dello scorso agosto varata da Tremonti, poi corretta e rinforzata poche settimane dopo da un'altra manovra e infine da ulteriori correzioni, sicché il nostro Parlamento stava appena approvando la prima mentre già aveva in lettura la seconda e la terza.
Adesso c'è stata la lettera d'intenti scritta dai destinatari e accettata dal mittente, cui si affianca il monitoraggio dei "Lord protettori" e dei loro delegati.
Se tutto questo è chiaro, procediamo.

* * *
La lettera di intenti contiene varie promesse e impegni, alcuni dei quali del tutto ornamentali rispetto ai veri intenti dei "Protettori". Esaminiamo dunque qual è l'essenza del documento che disegna una complessa politica economica: l'eliminazione del deficit entro il 2013, il pareggio del bilancio entro lo stesso anno, la diminuzione del debito sovrano che dovrebbe scendere al 90 per cento del Pil entro il 2014 (adesso siamo al 120 con tendenza ad aumentare), la crescita del Pil che è sostanzialmente ferma da dieci anni, la diminuzione della disoccupazione e in particolare di quella dei giovani, l'adeguamento della pensione alle mutate aspettative di vita e infine la massima equità sociale come indispensabile lubrificante per una politica che impone scelte severe senza dover mettere a rischio la coesione sociale.

Con un governo come il nostro è evidente che un progetto di tali dimensioni sarebbe stato impossibile da mettere in moto senza quel vincolo esterno di cui si è detto e senza il diretto intervento dei "Lord protettori". Perciò, per quanto ci riguarda, fin qui piena lode al vincolo, piena lode al programma, ai tempi di realizzazione e piena lode al monitoraggio.
Avanziamo l'ipotesi (ma di pura ipotesi si tratta) che i "Protettori" avrebbero preferito un governo più credibile di quello in carica, ma questo è fuori dalle loro competenze. Da questo punto di vista Scilipoti ha maggior potere di Barroso, di Sarkozy e perfino di Angela Merkel e la vince anche  -  Scilipoti  -  su Lavitola e perfino su Putin. Almeno nel breve periodo. Solo Bossi è più forte di lui e infatti lo dice tutti i giorni. Salvo incidenti di percorso.
* * *
Per realizzare quegli obiettivi i "Protettori" hanno messo in pista alcuni strumenti. Una parte di essi rimonta alla manovra di agosto e sono il taglio (lineare) di risorse ai Ministeri, agli enti locali, alle protezioni sociali, per accelerare di un anno il pareggio del bilancio. Fu prevista anche una riforma del mercato del lavoro che spostasse la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. La ciliegina sulla torta doveva infine essere un "contributo di solidarietà", in pratica una maggiorazione di imposta che gravava in modo diverso a partire dai redditi di 90 mila euro annui, aumentando dai 110 mila in su.

Il totale delle risorse in tal modo ottenute avrebbe dovuto essere di 40-50 miliardi nel biennio 2012-13, più altri diecimila da incassare fin dall'esercizio corrente con accise ed altre furberie dell'Agenzia delle entrate. Tremonti gioì di questo vincolo esterno, ancorché la sua manovra precedente di pochi giorni la lettera di Trichet avesse diluito quelle cifre spostandone il grosso al 2014. Berlusconi non gioì invece affatto, lui non ama l'austerità e l'ha scritto l'altro ieri al Foglio. Lui ama improvvisare e la gabbia predisposta dai "Protettori" gli andava stretta.

Adesso le cose sono cambiate: la gabbia dei "Protettori" a lui va bene perché può prolungare la vita del governo; invece non va per niente bene a Tremonti che infatti la lettera di intese non l'ha neppure firmata. A chi gli chiedeva se il programma dei "Protettori" gli andava bene, ha risposto: "Mi va bene, ma il diavolo sta nei dettagli". È vero, il diavolo sta appunto nei dettagli. Perciò diamo anche noi un'occhiata a quei dettagli, ma prima diamo un'occhiata alle più recenti reazioni dei mercati che non sono affatto un elemento marginale dell'intera vicenda. Anzi.

* * *
Mercoledì scorso i mercati hanno galleggiato con un po' di fatica, specie per quanto riguardava il famoso "spread" tra i titoli italiani e quelli tedeschi. Giovedì sono volati al rialzo in preda ad una comprensibile euforia dovuta non tanto al caso Italia ma ai provvedimenti annunciati dall'assemblea plenaria dei 27 Paesi dell'Unione sul debito greco, sulla ricapitalizzazione delle banche e sul Fondo "salva Stati". Venerdì Piazza degli Affari è ripiombata nel buio profondo.

Che cosa era accaduto venerdì? Era accaduto che all'asta dei Btp il rendimento aveva superato il 6 per cento toccando il massimo storico dal 1997. Ricordiamo che il "default" del debito greco  -  che è infinitamente più piccolo di quello italiano  -  cominciò quando il rendimento dei titoli greci raggiunse il 7 per cento. Siamo cioè a una spanna da quella porta d'inferno.

Si potrebbe pensare che si tratti di un incidente di percorso. Speriamolo, ma teniamo presente un altro dato di fatto: nel corso del 2012 andranno in scadenza 290 miliardi di titoli italiani, una parte cospicua dei quali con scadenze pluriennali. Nello stesso anno scadranno titoli di altri Paesi dell'Unione europea per un totale (Italia esclusa) di 500 miliardi. Ci saranno insomma l'anno prossimo 800 miliardi di titoli europei da rinnovare e sarebbe arduo pensare che i nostri saranno preferiti agli altri. Sicché quel 6 per cento di venerdì potrebbe essere largamente superato, specie in presenza d'un governo che fa ridere i suoi "Protettori". La lettera di intenti non fa parola di questi dati di fatto sebbene essi siano di pubblico dominio.

Il solo rimedio per affrontare il 2012 che sarà da questo punto di vista l'anno terribile è quello di puntare sulla crescita rapida del Pil, ma qui casca l'asino. Qual è il provvedimento che potrebbe far crescere il nostro Pil, appiattito da dieci anni sullo zero? Ce ne sono tre: accrescere il potere d'acquisto dei ceti medio-bassi e in particolare dei giovani per stimolare i consumi e di conseguenza gli investimenti; diminuire imposte e contributi che gravano soprattutto sulle imprese, cioè il famoso cuneo fiscale; lanciare un programma di lavori pubblici cantierabili entro i prossimi tre mesi, non può che trattarsi di opere pubbliche locali delle quali del resto c'è gran bisogno anzi necessità. Basterebbe provvedere  -  come è sempre stato promesso e mai fatto  -  alle difese degli argini di fiumi e torrenti (Cinque Terre insegni) alla messa in sicurezza delle scuole, ai porti, alle strade, alle ferrovie.

Mi rivolgo qui a Mario Draghi verso il quale ho profonda stima e amicizia: sono questi i provvedimenti necessari alla crescita da te molto voluta? Nella lettera di intenti ne ho letti altri che se riusciranno a implementare la concorrenza daranno qualche effetto a due o tre o quattro anni da oggi. Ho letto anche che si vuole accrescere la mobilità del lavoro aumentando la facilità di ingresso e al tempo stesso la facilità di uscita. Ingresso per i lavoratori precari e uscita dal lavoro a posto fisso. E tu, caro Mario, pensi veramente che in questo modo aumenteranno complessivamente i posti di lavoro e il monte salari e verrà varato quel patto generazionale tra padri e figli? Licenziate i padri (che stanno mantenendo i figli) e sperate che al loro posto i figli possono sostituirli?

Nel frattempo avete dimostrato soddisfazione per la riforma delle pensioni che però non avete affatto ottenuto. La vera riforma sarebbe stata di passare tutti i pensionati al regime di contributo ma Bossi ha messo il veto. I 67 anni di età pensionabile erano previsti da un pezzo ma i modesti benefici che ne verranno all'Inps e quindi allo Stato negli anni a venire, come saranno impiegati? Nella vostra lettera di intenti non c'è scritto nulla in proposito. Non dovrebbero compensare i figli costruendo un nuovo welfare che copra la flessibilità del lavoro? Non dovrebbe questo nuovo tipo di protezione essere approvato prima o almeno contemporaneamente alla licenziabilità facile e all'allungamento dell'età pensionabile? Se volete mantenere la coesione sociale, la carota va data insieme al bastone e soprattutto va contrattata con le parti interessate. Tutte le parti interessate e non una soltanto.

Concludo: bene il vincolo esterno, evviva i "Protettori" quando decidono bene, ma quando decidono male oppure omettono di decidere su questioni di fondo, allora va malissimo. A me personalmente gli "omissis" non sono mai piaciuti. Cercate di rimediare se potete.

Post scriptum. Il Rendiconto generale dello Stato, bocciato dalla Camera circa un mese fa, è ritornato alla Camera ed è stato calendarizzato per l'8 novembre prossimo. La calendarizzazione è stata approvata all'unanimità da tutti i gruppi parlamentari che in tal modo hanno sospeso l'articolo 72 del loro regolamento dove c'è il divieto a presentare la stessa legge bocciata prima che siano trascorsi sei mesi.

Posso ben capire che i gruppi d'opposizione abbiano deciso, insieme alla maggioranza, di rimuovere l'ostacolo formale e si accingano perciò ad approvare all'unanimità il Rendiconto. Se l'ostacolo regolamentare non fosse stato rimosso non sarebbe possibile approvare né la legge di bilancio né quella di stabilità finanziaria e si andrebbe all'esercizio provvisorio con tutte le conseguenze del caso.

Mai come in questo caso dunque i gruppi d'opposizione hanno fornito una prova del loro senso di responsabilità. Questo avviene mentre il presidente del Consiglio continua a trattarli in tutte le sedi come comunisti, settari, faziosi, inconcludenti e quindi indegni di proporsi come alternativa.

Mi sarei aspettato che quest'atto di apprezzabilissima responsabilità fosse pubblicizzato. Mi sarei aspettato che i gruppi di opposizione ne spiegassero le ragioni e ne rivendicassero il merito. Invece c'è stato un silenzio tombale, quasi che si vergognassero d'averlo fatto. Lui continuerà ad insultarli come prima e peggio di prima e la gente crederà alle fanfaluche rottamatrici di Renzi e di Beppe Grillo.

No, così non va bene. Non si acconsente tacendo ma motivando, specie quando non c'è da vergognarsene ma da rivendicare il proprio senso dello Stato che in tutti gli altri è spaventosamente assente.

(30 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Forse stavolta l'Italia s'è desta
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2011, 11:04:54 pm
Forse stavolta l'Italia s'è desta

di EUGENIO SCALFARI


CHE IL tempo di Berlusconi fosse scaduto era chiaro a tutti da un pezzo, ma la cosa singolare è che ormai è finalmente diventato chiaro anche allo stato maggiore del suo partito e, a quanto sembra, anche a lui.

Altrettanto chiaro è che la via delle elezioni anticipate non è praticabile; la sconfitta del Pdl e della Lega sembra inevitabile e catastrofica. Ma c'è anche un'altra e più stringente ragione: l'Italia non si può permettere due mesi di campagna elettorale con i mercati che porterebbero lo "spread" a 600 punti base e il rendimento dei titoli pluriennali all'8 per cento.

Non resta che un governo del Presidente guidato da una personalità al di fuori dei partiti, che abbia grande autorevolezza internazionale e l'appoggio di tutte le forze responsabili rappresentate in Parlamento. Tra queste ci deve essere anche il Pdl affinché la fiducia parlamentare sia solida e non esposta a trabocchetti che avrebbero un effetto devastante sulla crisi economica.

Questi sono i dati ormai certi della situazione. Incerte sono ancora - ma non lo saranno per molto poiché il tempo stringe - le modalità del "passo indietro" berlusconiano: farsi battere in Parlamento o dare le dimissioni prima che la sconfitta sia certificata da un voto?

Gianni Letta, che insieme ad Alfano e a Verdini ha informato il presidente del Consiglio che la sua maggioranza numerica non c'è più, propende per le dimissioni prima d'un voto di sfiducia. L'occasione potrebbe esser
quella dell'8 novembre, giorno in cui si voterà alla Camera il Rendiconto economico dello Stato.

Questo documento è essenziale perché, in mancanza della sua approvazione, non è possibile approvare la legge di Bilancio e quella di stabilizzazione economica.
Le opposizioni potrebbero astenersi e l'ex maggioranza approvare il Rendiconto, in tal modo apparirebbe chiaro che la maggioranza ha appunto cessato di esistere perché è scesa al di sotto dei numeri che la rendono tale.
A quel punto il presidente del Consiglio si presenterebbe dimissionario al Quirinale e la partita passerebbe nelle mani di Napolitano. Il resto riguarda il capo dello Stato verso il quale si concentra da tempo la fiducia del Paese e di tutti i governi dell'Europa e dell'Occidente.
Questo è uno dei possibili passaggi, ma altri ce ne sono che conducono allo stesso risultato: un nuovo governo presieduto da un "Papa straniero" con l'appoggio di tutti e in particolare dell'Europa, della Bce e del Fondo monetario internazionale. Con quale programma?
* * *
Alcuni dicono che il programma è quello contenuto nella lettera d'intenti che Berlusconi presentò pochi giorni fa alle Autorità europee e che queste avevano corretto e integrato prima ancora di riceverla. Ma quel documento era comunque assai vago e non conteneva alcuni elementi fondamentali.
Altri dicono che il programma sia quello contenuto nella lettera della Bce firmata da Trichet e da Draghi inviata al nostro governo lo scorso agosto e parzialmente recepita nelle successive e raffazzonate manovre berlusconiane (con Tremonti alla finestra).
Conclusione: il futuro governo dovrebbe assumersi un durissimo compito di macelleria sociale che aumenterebbe la disistima della pubblica opinione verso la "casta", cioè verso tutti i partiti aumentando pericolosamente il solco tra il Paese reale e le istituzioni.
Ebbene, a mio avviso questa diagnosi è completamente sbagliata.

* * *
Il nuovo governo dovrà fare una scelta di fondo prima ancora di metter mano ai concreti provvedimenti che la realizzino e dovrà farla in pochissimi giorni.
Ma io credo che questa scelta sia già stata fatta e coincida con quanto sostengono da tempo sia Draghi (ormai insediato alla guida della Bce) sia il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama: crescita e rigore, ma probabilmente prima crescita e poi rigore.

Francamente non so quanto questa scelta coincida con le ondivaghe indicazioni delle Autorità europee e soprattutto della Germania. Finora l'Europa e la Germania in particolare hanno privilegiato il rigore, ma gli effetti sono stati assai poco soddisfacenti.

Il rigore è certamente necessario per arrestare, anzi per far diminuire il peso dei debiti sovrani e il rischio d'un blocco del sistema bancario internazionale. I governi interessati - in particolare quello italiano - hanno cercato di eludere quella precettistica senza tuttavia imboccare la strada della crescita. Le conseguenze - già in parte verificatesi e ancor più incombenti - aggravano il rischio di una deflazione e insieme di un'emergente inflazione per mancata offerta di beni e servizi, cioè l'anticamera d'una devastante recessione.

La lettera della Bce dello scorso agosto e le numerose esternazioni successive di Mario Draghi segnalavano la necessità di abbinare rigore e crescita, ma per il primo indicavano anche misure e tempi, per la seconda formulavano solo esortazioni. Successivamente, il 2 novembre, Draghi ormai nel pieno delle sue nuove funzioni, ha deciso con l'appoggio unanime del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, la diminuzione significativa del tasso di sconto dell'euro.

La sua prima mossa da Francoforte ha dunque indicato la via della crescita.
Obama dal canto suo è stato ancora più netto: ha esortato l'Europa a puntare sullo sviluppo produttivo, sulla creazione di nuovi posti di lavoro e su una rete di protezione dei disoccupati e dei lavoratori precari prima ancora di passare a nuove strette rigoriste.

Queste diagnosi e le conseguenti terapie dovrebbero - dovranno - costituire la base d'azione del futuro governo del Presidente. Lo definiamo così perché il nostro Presidente è il solo depositario della fiducia interna e internazionale ed è dunque il solo garante effettivo dell'azione di governo.

Uscito di scena Berlusconi non avremo più bisogno d'esser commissariati dalla Commissione di Bruxelles e dall'Fmi se non per il rispetto delle regole che abbiamo a suo tempo approvate con tutti i Paesi membri dell'Unione. Il controllo sulla situazione italiana sarà il Quirinale ad effettuarlo per quanto riguarda l'aderenza della sua politica alle scelte di fondo per uscire dal drammatico stallo in cui ci troviamo.

L'obiettivo è dunque chiarissimo: bisogna che il prodotto interno lordo cresca a ritmi più adeguati perché solo la sua crescita contribuisce a far diminuire il deficit e a far aumentare il saldo delle partite correnti.
Per ottenere questo risultato è necessario un aumento della domanda per consumi e investimenti e quindi uno sgravio fiscale consistente sul lavoro e sulle imprese. E poiché queste agevolazioni non possono esser fatte accrescendo il fabbisogno e quindi il debito, occorre spostare l'onere tributario dalle spalle dei più deboli a quelle dei più abbienti e degli evasori, dalle aziende alle persone, dai redditi ai patrimoni. Un'altra terapia riguarda i redditi dei disoccupati e dei precari affinché essi possano contribuire all'aumento della domanda. E qui si apre anche il capitolo delle pensioni.

Il nuovo governo dovrebbe impegnarsi alla costruzione di un patto generazionale tra padri e figli, facendo passare tutti gli attuali pensionati - con l'esclusione dei lavori usuranti - al sistema contributivo e ad un prolungamento dell'età pensionabile, a condizione che i risparmi derivanti da quest'operazione siano interamente destinati ad una nuova rete di "welfare" che preveda salari minimi di disoccupazione e copertura previdenziale sul lavoro precario discontinuo.
Infine, per quanto riguarda la riforma del lavoro, occorre adottare le proposte di Ichino e di Boeri che consentono maggior libertà di entrata e di uscita dal posto di lavoro, impedendo licenziamenti discriminatori e incentivando l'assunzione di giovani. Va da sé che l'evasione fiscale e il taglio delle spese superflue debbono essere tenacemente perseguiti. Per evitare che il miglioramento strutturale si accompagni ad ulteriori aumenti di spesa e di evasione come purtroppo finora è avvenuto.

Un governo di questa natura non ha certo davanti a sé una strada fiorita di rose, ma neppure di macelleria sociale. È un programma di ricostruzione economica che manca da dieci anni, culminati nel disastro in cui ora ci troviamo.

* * *
Ma un governo di ricostruzione non si può limitare al capitolo, pur di estrema importanza, dell'economia e della finanza. Deve - dovrà - ricostruire l'etica pubblica devastata dal ventennio berlusconiano. Deve - dovrà - riformare la legge elettorale restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i loro rappresentanti attraverso le preferenze o, meglio ancora, i collegi uninominali almeno per una parte notevole dei seggi in palio. E dovrà dimezzare il numero dei parlamentari, abolire i vitalizi degli ex membri del Parlamento, tagliare le spese politiche al centro e negli enti territoriali.

Ma deve soprattutto unire le forze della sinistra e quelle del centro nell'opera ricostruttiva che ha giganteschi appuntamenti: i giovani, le donne, i vecchi, il Sud, l'immigrazione, la lotta alla violenza e al crimine organizzato. Un anno non basta a realizzare questi obiettivi. Ci vorrà una legislatura costituente nel senso sostanziale del termine, come auspicò Aldo Moro quando promosse l'apertura al Pci di Berlinguer pochi giorni prima del suo rapimento.

Le sue parole - che ho ricordato su queste pagine due settimane fa - ancora risuonano per la loro attualità e sono oggi tanto più facili da tradurre in concrete decisioni in quanto non si tratta di un accordo tra forze antagoniste ma tra forze che torneranno ad essere alternative non appena la ricostruzione sarà stata avviata verso il suo compimento e nuove regole saranno entrate nella politica e soprattutto nel costume.

Mentre scrivo queste mie riflessioni una folla di aderenti e sostenitori del Pd si è riunita in piazza San Giovanni per dar forza al nuovo corso e arriva la notizia che sono più di venti i deputati che hanno abbandonato il Pdl. È un numero sufficiente per costituire subito un gruppo autonomo, ma è sensazione generale che lo smottamento continuerà in Parlamento e ancora di più tra i cittadini elettori. La svolta che questo giornale invoca da anni è dunque ormai un fatto compiuto.

Concludo con le parole del nostro Inno nazionale: Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta.

(06 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/06/news/forse_stavolta_l_italia_s_desta-24518539/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il sindaco di Firenze ricorda molto Craxi.
Inserito da: Admin - Novembre 10, 2011, 11:39:22 pm
Un kingmaker per Bettino Renzi

di Eugenio Scalfari

Il sindaco di Firenze ricorda molto Craxi. Che cacciò i dinosauri del Psi. Per conquistare l'elettorato rampante della Milano da bere.

E, guarda caso, c'è Ferrara tra i suoi sostenitori

(08 novembre 2011)

Matteo Renzi.
Se ne fa un gran parlare in questi giorni, nei "media", nel partito democratico e negli altri partiti. Perciò ne parlo anch'io, così porto anch'io il mio mattoncino alla costruzione d'un personaggio, che è poi quello che lui più desidera. Per dirla tutta, la mia "faziosa" intenzione sarebbe piuttosto quella di de-costruire quel personaggio che considero irrilevante se non addirittura dannoso per un necessario riassetto della politica italiana, già molto disastrata da vent'anni di berlusconismo; ma l'eterogenesi dei fini può perfino far sì che quanto sto per scrivere si volga in suo favore. Correrò questo rischio.

La prendo da lontano. La prendo dalla riunione del comitato centrale socialista all'Hotel Midas. Correva l'anno 1976. Il Psi partecipava già da 13 anni ai governi con la Dc. Ne era presidente Pietro Nenni, già malandato dagli anni, e segretario Francesco De Martino. Ma era un centrosinistra ormai svaporato, sfibrato, senza più una seria capacità riformista. In una prima fase quella capacità c'era stata soprattutto per opera di Riccardo Lombardi e di Antonio Giolitti. La segreteria di Giacomo Mancini l'aveva alquanto attutita. De Martino aveva cercato di ritrovarla, ma non c'era riuscito. Il Psi era diventato un partito di dinosauri - come oggi Renzi definisce il Pd - ma volti nuovi non se ne vedevano. La stessa sinistra di Lombardi era di fatto sfuggita di mano al suo vecchio leader finendo nella mani di Gianni De Michelis e di Claudio Signorile che pensavano più ai denari e ai piaceri del potere che alla politica del bene comune.

Sembrava venuto il tempo dei giovani, del salto generazionale, del nuovo. Nella stessa corrente di maggioranza il nuovo premeva e l'attenzione era piuttosto su Enrico Manca che su De Martino. Ma non era un nuovo che potesse scompaginare i dinosauri. Per realizzare quest'obiettivo ci voleva una carta fuori dal mazzo. Ci voleva un jolly del tutto imprevedibile. Lo trovò Mancini, che ormai non poteva certo ritornare in prima fila ma aspirava al ruolo di "kingmaker".

Il jolly di Mancini si chiamò Bettino Craxi e fu quella la carta calata sul tavolo del partito. Il programma di Bettino era chiaro: sotterrare i dinosauri, prendere le distanze dal partito comunista ancor più di quanto non era già avvenuto, aprire il Psi a un nuovo ceto medio-alto che la Dc non riusciva a intercettare, affermare la supremazia della politica sui boiardi della razza padrona. Insomma inventarsi un'Italia "da bere", un'Italia di emergenti, di giovani, di felicità, di aggressività, di poteri forti anch'essi rinnovati.

Ma ci voleva qualcuno che avviasse il lavoro sporco, e cioè Manca. Solo Manca poteva compiere il patricidio disarcionando De Martino e così avvenne. Il patricidio fu compiuto. Manca votò per Craxi che fu eletto segretario. Il resto è noto. Craxi inglobò ben presto De Michelis e poi Signorile; alla fine inglobò lo stesso Manca e prese le distanze da Mancini.

Aveva una grande volontà di potenza, Bettino Craxi. Voleva trasformare il partito socialista in una macchina da guerra che dissanguasse il Pci, governasse in un condominio paritario con la Dc dorotea e trasformasse la democrazia parlamentare in una democrazia presidenziale. Per condurre a termine questa operazione aveva bisogno di denaro. Denaro per conquistare il potere e potere per procurarsi denaro. Una trasformazione antropologica del socialismo: questo era al tempo stesso lo strumento e l'obiettivo.

Matteo Renzi. E' un moderato-radicale. Se gli domandi un programma economico non ha risposte salvo farti intendere che la Cgil di Susanna Camusso non è nelle sue corde. Si rivolge ai poteri forti, a quel tipo di ceto medio che non ha mai votato a sinistra ma capisce che la stella di Berlusconi volge al termine e cerca alternative per avere ancora un'"Italia da bere".

E' cattolico praticante e come tale potrebbe intercettare l'appoggio dei cattolici di Comunione e liberazione e di Raffaele Bonanni. Insomma dei moderati. Un berlusconismo purificato e una trasformazione antropologica dei democratici. Naturalmente senza Nichi Vendola. Vendola si faccia il suo partito a sinistra del Pd. Renzi sostituirà i democratici che se ne vanno con altrettanti che arriveranno. In nome del nuovo. Per fare che cosa? Per fare il nuovo. Certo ci vorrebbe un "kingmaker" di prestigio. Per ora ce n'è uno. Si chiama Giuliano Ferrara. No lo sapevate? Leggete "Il Foglio" del 31 ottobre e lo scoprirete. Non è alquanto inquietante?

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un cittadino al servizio del Paese
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 10:49:21 am
IL COMMENTO

Un cittadino al servizio del Paese

di EUGENIO SCALFARI

MENTRE scrivo queste mie riflessioni domenicali Giorgio Napolitano ha ricevuto la lettera di dimissioni del presidente del Consiglio, salito al Colle tra la folla che gli urla "buffone" e canta l'Inno di Mameli. E mentre oggi il nostro giornale è nelle edicole le consultazioni al Quirinale sono già cominciate e dureranno per l'intera giornata.

Non sarà una giornata facile quella del Capo dello Stato. Le forze dell'opposizione  -  tutte senza alcuna eccezione  -  indicheranno Mario Monti e un esecutivo di soli tecnici per portare l'economia italiana fuori dal disastro che ne sta devastando la stabilità dei cosiddetti "fondamentali": al tempo stesso la competitività e la coesione sociale.

Ma l'ex maggioranza aggiunge a questo quadro già di per sé assai fosco un ulteriore tasso di drammaticità che la dice lunga sulla natura dei due partiti che la compongono, il Pdl e la Lega. La dice lunga sul prevalere dei loro gruppi dirigenti, degli interessi individuali, settoriali e clientelari su quelli generali della Nazione e quindi sulla loro irresponsabilità di fronte alla crisi che sta imperversando su tutto l'Occidente.

Il gruppo dirigente del Pdl è spaccato in due tra chi si oppone alla candidatura di Monti e chi l'accetta come l'unica via d'uscita possibile. Quanto alla Lega il suo vero obiettivo sono le elezioni immediate e la separazione dal Pdl per non subirne il contagio d'una inevitabile sconfitta elettorale.

Berlusconi galleggia nel mare tempestoso che lo circonda ma, dalle sue recenti sortite, dai suoi cambiamenti di rotta improvvisi, dalle proposte assurde e dagli anatemi ripetitivi, dà l'impressione d'essere in uno stato di stordimento e di incoerenza totale, come un pacco sballottato nella stiva d'una nave che imbarca acqua dalle falle del suo sconnesso fasciame.

È evidente che la disgregazione del Pdl complica ulteriormente il quadro; è anche evidente che il Capo di quel partito non è più in grado di comandare ma è altrettanto evidente che non c'è nessuno in grado di sostituirlo. E tuttavia i voti in Parlamento dei deputati e dei senatori berlusconiani sono un ingrediente significativo per la sussistenza d'un governo di emergenza.

Per risolvere questo problema Napolitano ha dodici ore di tempo. Conoscendone le capacità politiche, la lucidità delle intuizioni e la dedizione al bene comune, confidiamo nella sua riuscita. In mezzo a tanti guai, errori e manchevolezze che hanno agitato la storia del nostro Paese negli ultimi vent'anni, abbiamo però avuto la fortuna di tre presidenti della Repubblica, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, che hanno costituito l'antemurale difensivo della Repubblica contro le ondate del populismo, della demagogia e dell'avventura.

* * *

Prima di fare il punto aggiornato sulla situazione della finanza e dell'economia italiana di fronte ai mercati che lunedì daranno il loro giudizio sulle decisione politiche che nel frattempo saranno state prese, va chiarita una questione importante che finora ha diviso la pubblica opinione: l'eventuale nascita d'un governo Monti rappresenta la sconfitta della politica e la vittoria della tecnocrazia? Un governo di tecnici che confisca i diritti del popolo sovrano?

Napolitano, più volte interrogato in varie occasioni pubbliche su questo argomento, ha dato una risposta definitiva: "Non esistono governi tecnici poiché un governo, comunque composto, ha bisogno per esistere d'ottenere la fiducia del Parlamento, cioè dei rappresentanti del popolo depositari pro tempore della sovranità popolare". Del resto la nomina di Mario Monti a senatore a vita e in quanto tale membro del Senato a tutti gli effetti è stato un elemento in più, mirato a rafforzare la politicità dell'eventuale candidato.

Ma aggiungo un'ulteriore considerazione: le dimissioni di Berlusconi non sono un evento caduto dal cielo; sono avvenute a causa d'una sconfitta parlamentare in occasione del voto sul Rendiconto generale dello Stato, avvenuto la scorsa settimana. Quel Rendiconto è un atto fondamentale nella vita dello Stato perché senza la sua approvazione non si può approvare né la legge di Bilancio né la legge Finanziaria.
In quell'occasione le opposizioni, rafforzate da un gruppo di dissidenti usciti dalle file del Pdl, decisero di astenersi e in questo modo di contarsi e di contare i voti della maggioranza. Il risultato fu duplice: da un lato il Rendiconto fu approvato come era assai opportuno per non bloccare la macchina dello Stato; dall'altro il risultato della conta fu di 308 voti della maggioranza e di 321 voti dell'opposizione. Poiché la maggioranza, per esser tale, deve avere almeno 316 voti, da quel giorno ha cessato di esistere tant'è che Berlusconi, responsabilmente, andò al Quirinale e presentò le proprie dimissioni "a scadenza". La scadenza è arrivata oggi ed oggi infatti quelle dimissioni sono diventate esecutive.

Conclusione: la caduta di questo governo è avvenuta in Parlamento ed è stata un evento politico a determinarla, con buona pace di chi continua a parlare d'una politica asservita al dominio dei tecnocrati.

* * *

Per completare quanto scritto fin qui voglio ora trascrivere l'inizio del discorso che Carlo Azeglio Ciampi pronunciò davanti alle Camere il 6 maggio del 1993, dopo essere stato nominato presidente del Consiglio da Scalfaro. Sono parole di estrema attualità, forse non diverse da quelle che dirà Monti in analoga eventuale circostanza.

"È per la prima volta nell'applicazione della Costituzione repubblicana che un semplice cittadino, senza mandato elettorale, parla davanti a voi nelle funzioni di presidente del Consiglio ed io sento innanzitutto di dover testimoniare in quest'Aula il rispetto profondo, l'amore civico mai venuto meno, l'orgoglio degli italiani per le istituzioni rappresentative. La storia della democrazia italiana, della progressiva attuazione dei suoi valori, dello stesso avanzamento civile del nostro Paese, coincide con la storia del Parlamento.
Con grande emozione sono qui per ottenere la vostra fiducia non soltanto ai sensi dell'articolo 94 della Costituzione, ma in un senso molto più largo. Intendo una fiducia che prescinda dalla contabilità dei voti dati o dei voti negati. Mi riferisco ad una fiducia morale del Parlamento anche da parte da chi riterrà di dare voto negativo riconoscendo però l'utilità e forse la necessità e l'onestà dello sforzo che questo governo si propone di compiere.

Come la stragrande maggioranza dei nostri concittadini, guardo con speranza al moto di profondo rinnovamento che attraversa il Paese".
Quel governo durò un anno ponendo le basi della ripresa economica e morale. Votò anche la riforma della legge elettorale e poi si dimise avendo assolto al compito che gli era stato affidato. Purtroppo dopo di lui arrivò Berlusconi e sappiamo che cosa è avvenuto e quale sia stata la devastazione delle istituzioni che ne è seguita.

Ora siamo ad una svolta e mi è sembrato che rileggere le parole di Ciampi sia di buon auspicio per il futuro.

* * *

Ed ora facciamo il punto dell'economia, lo stiamo facendo ogni settimana perché ogni giorno i mercati operano sotto stelle diverse e spesso addirittura sotto cieli coperti di nebbia e di nuvole.
Quella alle nostre spalle è stata una settimana di tregenda, conclusa da due giorni di pausa e di respiro in attesa del meglio. Per i mercati il meglio è Monti il peggio è l'incertezza e l'indecisione.

Nei giorni di tempesta lo "spread" è arrivato a 600 punti dal "Bund" tedesco e il rendimento dei nostri titoli pluriennali ha raggiunto il 7,10 per cento, un livello che provocherebbe l'avvitamento del sistema se non fosse un picco ma diventasse uno standard. Il professor Penati ha spiegato su queste colonne che un rendimento del 7 per cento provocherebbe illiquidità nelle banche e poi insolvibilità. Penati teme che questi fenomeni siano già in atto. Forse è troppo pessimista ma ci va vicino. Personalmente penso che una terapia sia ancora possibile purché applicata con urgenza. Credo sia questo il programma di Monti: efficacia e urgenza, crescita e rigore. Ho scritto altre volte, parafrasando Draghi, Roubini e Stiglitz, che a questo a punto i provvedimenti di crescita sono più urgenti del rigore perché consentono un rigore "sano". Senza crescita il rigore diventa una tremenda malattia che si chiama deflazione e recessione.

Concludo sul tema di eventuali elezioni anticipate. Ci sono ragioni che le sconsigliano ed altre che le motivano tirando in ballo il popolo sovrano. Ma ce n'è una che è decisiva e definitiva: le elezioni significano a dir poco due mesi di campagna elettorale, due mesi dominati dall'incertezza del risultato. Una festa per i ribassisti che avrebbero una prateria a disposizione in una fase di scadenze massicce dei nostri titoli pubblici. Per di più con un'ipotesi di maggioranze diverse tra Camera e Senato e quindi con un'incertezza protratta ancora oltre i risultati.

Pare che i sostenitori di elezioni immediate siano sordi da quest'orecchio. Portano l'esempio di Spagna e Grecia ma si tratta d'un esempio profondamente sbagliato: la Spagna non ha i titoli in scadenza come noi e la Grecia ha già un debito sovrano svalutato del 50 per cento. Il nostro debito è il terzo del mondo e se salta, salta l'euro. Il punto è questo. Perciò noi facciamo il tifo per Monti.

(13 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il governo tecnico e la destra storica
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2011, 05:14:10 pm
L'EDITORIALE

Il governo tecnico e la destra storica

di EUGENIO SCALFARI


LA DOMANDA ancora in parte inevasa riguarda Mario Monti: chi è veramente? Qual è la sua formazione culturale e la sua concezione politica? E che cosa rappresenta il suo governo di tecnici nella storia italiana?

Le risposte finora fornite da chi lo conosce e da chi ne ha seguito il percorso di studioso, di rettore della Bocconi, di commissario alla Commissione dell'Unione europea e infine di neo-premier, lo definiscono un liberale cattolico; forse - azzardano alcuni - un liberale radical-moderato, dove la parola radicale sta a significare che la sua moderazione non inclina tanto al compromesso ma piuttosto all'intransigenza. Un moderato intransigente, coi tempi che corrono, rappresenta una felice anomalia quanto mai necessaria per raddrizzare l'Italia del post-berlusconismo.

Raddrizzare mi sembra un termine più adatto di ricucire perché non c'è molto da ricucire, non ci sono due lembi di stoffa da mettere insieme: ne verrebbe fuori un mantello da Arlecchino. Da raddrizzare invece c'è un Paese intero, da rimettere in piedi, da ricollocare nel rango che gli spetta, da ridargli fiducia nelle istituzioni ripulendole dalle brutture che ne hanno deformato il funzionamento.
Queste risposte sono appropriate al personaggio, ma non ci dicono ancora come si collochino, lui e il suo governo, nella storia d'Italia, chi siano i punti di riferimento e i personaggi che possono esser considerati i predecessori ed è su questo aspetto che desidero ora soffermarmi.

Credo che il primo riferimento risalga a quella
che fu chiamata la Destra storica, che guidò la costruzione dello Stato unitario dopo Cavour governandolo dal 1861 al 1876 e avendo come primi obiettivi il sistema fiscale, il pareggio del bilancio e l'unità monetaria di cinque diversi Stati.

I personaggi che illustrarono quei primi quindici anni della nostra storia nazionale furono Marco Minghetti, Quintino Sella, Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis.

Alcuni di loro erano cattolici, altri no, ma tutti erano laici perché costruivano uno Stato laico, orgogliosi difensori della sua autonomia di fronte ad una Chiesa che ne contestava la legalità e durò per mezzo secolo in quell'atteggiamento.

Quest'aspetto sembra ormai superato e noi ci auguriamo che lo sia, ma è anche vero che la Chiesa è tuttora tentata da un temporalismo non più territoriale ma politico, non meno pericoloso del precedente.
Su questa questione dovremo tornare. Per ora limitiamoci a constatare che i temi della costruzione fiscale, del pareggio del bilancio e della moneta sono attuali oggi quanto allora e sono in parte nazionali, in parte europei.
Monti lo sa perfettamente e, proprio per questo, ha rivendicato che il direttorio franco-tedesco sull'Europa abbia come terzo partecipante anche l'Italia con l'obiettivo d'un governo federale europeo, una Banca centrale a pieno titolo, un fisco comune e un debito sovrano europeo.

Da questo punto di vista - a distanza di 150 anni - la Destra di Minghetti, Sella e Spaventa rappresenta un perfetto riferimento all'opera che si propongono Mario Monti e il suo governo. De Sanctis no: fu di fatto l'artefice della cultura italiana ed ho qualche dubbio che gli ottimi professori Ornaghi e Profumo possono fare altrettanto. Anche se è vero che De Sanctis fu per breve tempo ministro dell'Istruzione, la cultura italiana la formò scrivendone la Storia della letteratura, i Saggi critici e le monografie su Manzoni, Leopardi, Mazzini, Machiavelli. Erano altri tempi. Allora non c'erano i giornali a grande tiratura, la radio, la televisione e Internet; l'80 per cento della popolazione era analfabeta e il popolo sovrano, selezionato per grado di istruzione, si limitava agli uomini e rappresentava il 2 per cento della popolazione.


                                                                 * * *


Un altro precedente storico, assai più recente e di minore rilievo ma anch'esso molto appropriato alla situazione politica attuale, è quello del terzo governo Fanfani che si formò nel 1960 sulle ceneri del governo Tambroni, sconfitto dalla piazza dopo la repressione sanguinosa dei moti di Genova e di Reggio Emilia. La Dc, di cui Tambroni era uno degli esponenti di origine gronchiana, dopo la sua virata repressiva ne chiese le dimissioni. Il segretario della Dc era allora Aldo Moro, che promosse un governo monocolore democristiano, con dentro i maggiori esponenti del partito: Andreotti, Taviani, Scelba, Colombo, Piccioni, Segni, Sullo. E negoziò con i socialisti e con i cosiddetti partiti minori (socialdemocratici, repubblicani, liberali) l'appoggio parlamentare al monocolore dc.

Era la prima volta, dopo la rottura degasperiana con la sinistra nel 1947, che i socialisti entravano a far parte della maggioranza. Avevano rotto il patto d'unità d'azione con il Pci ma i legami d'amicizia politica erano ancora in piedi. "Non ci saranno nemici a sinistra" aveva detto Nenni, ma la novità del suo ingresso aprendo la strada al centrosinistra e a riforme organiche che gran parte della Dc e dei partitini non volevano affatto, avevano aperto un acceso dibattito. Moro si era speso come non mai per tranquillizzare il suo partito ed aprire ai socialisti, ma anche Nenni aveva molto faticato per tenere insieme i suoi.

Il risultato fu il governo delle "convergenze parallele", come Moro stesso lo definì con una felice innovazione lessicale oltreché geometrica. Un governo di tregua e di decantazione, cui seguì dopo due anni un governo da lui stesso presieduto che inaugurò con la nazionalizzazione dell'industria elettrica la lunga (e non sempre proficua) stagione del centrosinistra.

Mario Monti ha definito il suo come il governo dell'impegno nazionale. Ben detto per indicare la natura dell'esecutivo, ma per descrivere l'attuale situazione parlamentare mi sembra che il modo più appropriato sia quello che usò Moro per il monocolore fanfaniano: convergenze parallele. Le parallele non si incontrano per definizione, ma possono otticamente convergere e questo è quanto per ora, con buona pace di Bossi, Scilipoti, Santanché e Alessandra Mussolini.

                                                                     * * *

Ma esiste un terzo precedente, ancor più recente (1980) e ancora più appropriato rispetto al governo attuale. Porta il nome di Bruno Visentini e merita un'attenta analisi.

Penso sia inutile illustrare qui la figura culturale e politica di Visentini. Ricordo soltanto che militò nel Partito d'Azione e poi nel Partito repubblicano del quale fu uno dei principali esponenti accanto a Ugo La Malfa.
Allievo di Ezio Vanoni, fu per due volte al ministero delle Finanze rinnovandone la struttura amministrativa e riformando profondamente il sistema fiscale.

Contemporaneamente si batteva per la riforma delle società per azioni e per una legge antitrust che allora in Italia non esisteva.

Nel 1980 - e questo è il punto - sollevò il problema del governo istituzionale, non già come un'ipotesi da attuare in tempi di emergenza, ma come la soluzione permanente in linea con la Costituzione. Un governo nominato dal presidente della Repubblica e non negoziato con le segreterie dei partiti, come la cosiddetta Costituzione materiale della Prima Repubblica praticava, ma nominato dal capo dello Stato e ovviamente fiduciato dal Parlamento.

I partiti, nell'idea di Visentini, dovevano essere lo strumento di raccolta del consenso popolare sulla base delle loro rispettive concezioni del bene comune. Il governo istituzionale doveva trasformare la concezione del bene comune della maggioranza parlamentare in provvedimenti legislativi e amministrativi sotto il controllo del Parlamento. Questa fu la proposta di Visentini, che sosteneva anche lo Stato di diritto come la premessa necessaria della democrazia parlamentare.

Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti - compreso quello repubblicano - contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. Il solo "sì" - con alcuni "ma" - venne dal Partito comunista allora guidato da Longo e da Berlinguer.
Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent'anni l'idea-guida di Bruno Visentini che - lo ripeto - lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l'organizzazione ottimale dello Stato di diritto e della democrazia parlamentare.

Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici.

                                                                   * * *

Riprendo la questione dei cattolici impegnati, che fu già ampiamente discussa dopo il convegno di Todi promosso dal cardinal Bagnasco, presidente dei Vescovi italiani. Ricordo in proposito che almeno tre degli attuali ministri (Passera, Ornaghi e Riccardi) furono relatori di quel convegno.
Noi laici vediamo con molto favore l'impegno civile e politico dei cattolici, così come siamo favorevoli - proprio perché laici - allo spazio pubblico a disposizione della Chiesa come di qualsiasi altra associazione o individuo per diffondere le proprie idee.

La Chiesa predichi la sua fede. Offra la sua visione etica, censuri quanti a suo giudizio si rendano colpevoli di riprovevoli comportamenti. I cattolici impegnati tengano conto degli indirizzi dottrinali e dei valori predicati dalla Chiesa e cerchino di trasfonderli in politica nella misura giudicata opportuna ma senza mai dimenticare che le leggi hanno valore erga omnes e non possono dunque obbligare i non cattolici di obbedire a norme che riposano su dogmi non vincolanti per chi non li condivide.

Tutto questo è chiaro e accettato sia dalla Chiesa, sia dai cattolici "adulti", sia dai laici non credenti o di altre religioni. Esiste però un punto di scontro e lo pone la Chiesa quando parla di valori non negoziabili.
Anche i laici hanno valori non negoziabili e sono per l'appunto quelli che ho qui indicato come la concezione della laicità dello Stato. Spetta dunque alla Chiesa spiegare che cosa intenda quando parla di valori non negoziabili.

I suoi valori sono noti e nessuno di noi li discute. Il punto da chiarire dunque non è quello ma è la loro negoziabilità.

Personalmente penso che la discussione non possa vertere sui singoli valori ma sul loro complesso, cioè sull'esistenza d'una coscienza nazionale.

Esiste la coscienza individuale e anche quella collettiva, un valore egemone che rispetta tutti gli altri purché si esprimano senza mettere a rischio la laicità dello Stato e quindi senza imporre a nessuno valori agganciati al dogma, monopolio interpretativo della gerarchia cattolica.

La gerarchia è un potere esterno rispetto allo Stato laico e democratico.

Non può dettare norme erga omnes. Ma in realtà non può dettare norme neppure nei confronti dei credenti.
Ho sottolineato, commentando alcuni discorsi del Papa nel suo recente viaggio in Germania, una sua affermazione che mi è apparsa rivoluzionaria, quando ha detto che "Lutero aveva più fede in Dio di quanta ne abbiamo noi".

Affermazione che richiama quella fatta più volte dal cardinale Carlo Maria Martini: "Lutero è stato il più grande riformatore della Chiesa cristiana".

Vedo qui un'apertura verso il contatto diretto tra il credente e la divinità trascendente, senza l'intermediazione della Chiesa che la gerarchia ritiene invece indispensabile. Vedo il riconoscimento implicito del relativismo sulle pretese di assolutezza della gerarchia.

Da questo punto di vista il cattolico adulto è una figura della modernità che recupera il ruolo fondante del laicato cattolico e il ruolo importante ma sussidiario dell'ordine sacerdotale.

Mi direte che tutto questo ha poco da vedere con il governo di Monti ed è vero. Ma ha da vedere con i ministri cattolici presenti in quel governo in posizioni di grande responsabilità. Mi piacerebbe sapere da loro se sono cattolici adulti, come si definì Romano Prodi, che non accettano deleghe da parte della gerarchia. Anche questo è un conflitto di interessi, ideali e per questo ancor più importanti. Quanto ai conflitti materiali, che pure ci sono, il Parlamento e la pubblica opinione vigileranno affinché siano risolti al più presto, cosa della quale non vogliamo dubitare.

(20 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/20/news/il_governo_tecnico_e_la_destra_storica-25296577/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Finalmente il risveglio dall'accidia
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:49:43 pm
Opinione

Finalmente il risveglio dall'accidia

di Eugenio Scalfari

Come disse il cardinal Martini 12 anni fa "il livello di allarme si raggiunge quando lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso".

Ce n'è voluto di tempo...

(17 novembre 2011)

Per sfuggire da un'attualità che mi obbligherebbe a parlare ancora una volta di Berlusconi, di Mario Monti e delle risse interne di questo o quel partito, dedico questa pagina al cardinale Carlo Maria Martini.

Potrà sembrare una stranezza o se volete una fuga dalla realtà, ma non lo è. Martini è un prete, un gesuita, è stato per molti anni prefetto della Congregazione della Fede, poi rettore dell'Università Gregoriana, poi arcivescovo di Milano. Insomma ha percorso tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica, ma non è certo questo che lo raccomanda alla nostra attenzione e in particolare alla mia. E' stato ed è un uomo di grandissimo coraggio intellettuale e spirituale. Ha cercato la verità senza mai esorcizzare il dubbio e gli è accaduto talvolta che il dubbio facesse parte della sua ricerca di verità.

Adesso è molto ammalato di Parkinson, la malattia gli ha leso le corde vocali allo stesso modo che accadde a Wojtyla: un tormento in più per chi ha fatto della parola lo strumento per conoscere gli altri e se stesso. Ma non si rassegna, continua a esprimersi come può, scrivendo e affidando al soffio di voce che gli è rimasto i suoi pensieri e anche le emozioni dell'anima sua.

Nelle scorse settimane è uscito un "Meridiano" di 2 mila pagine che raccoglie i suoi scritti, i suoi libri, le sue allocuzioni, i suoi dialoghi. Ed è uscito anche un altro libro (l'autore è Aldo Maria Valli) che racconta i tratti salienti della sua vita e del suo pensiero.

Io l'ho incontrato più volte nel corso degli anni e spero di rivederlo nel prossimo dicembre. Ne ho scritto su "Repubblica" e in alcuni dei miei libri. Oggi voglio ricordarlo per meglio scolpirne il carattere e l'esempio attraverso qualche citazione dei suoi pensieri.

La prima citazione la ricavo da un nostro incontro dell'anno scorso. Gli avevo chiesto quali fossero secondo lui i peccati più gravi per un cristiano e per la chiesa. Rispose: "I peccati gravi non sono molti, anzi c'è un solo peccato dal quale tutti gli altri derivano ed è l'ingiustizia. L'ingiustizia è il peccato del mondo ed è contro di essa che bisogna combattere educando gli animi e trasformando i cuori".
Gli chiesi che cosa fosse per lui l'ingiustizia, se fosse un sinonimo della disuguaglianza sociale. No, non era quella l'ingiustizia di cui parlava Martini o almeno non quella soltanto. Mi disse che era la mancanza di amore, di "caritas" nel senso cristiano di quella parola. L'amore verso Dio si trasforma, per un vero cristiano, in amore verso gli altri. "Dio - mi disse - non si può amare che amando gli altri e anche per amare se stesso il solo modo è di rapportarsi agli altri e amarli".

Io non sono credente e non ho alcuna tentazione di diventarlo, ma quelle sue parole mi colpirono molto perché coincidevano, sia pur in modo diverso, con quello che anch'io penso: un amore circolare che va dal "sé" all'altro e torna indietro come dono. Del resto la predicazione evangelica è chiarissima su questo punto: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Sei dunque tu la misura dell'amore che hai per gli altri e per te.

Ecco un altro passo molto significativo tratto da un suo discorso: "Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è il padre di tutte le genti, perciò è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo". Il cardinale ha una visione ecumenica e non identitaria del Dio trascendente. Questo è secondo lui il principale messaggio del Concilio Vaticano II.
Ma non si sottrae alla politica. Non se n'è mai sottratto. Non la politica politichese, ma quella alta che impegna lo spirito e l'etica pubblica. Lo disse con parole chiarissime nel discorso per la ricorrenza di Sant'Ambrogio nel 1999, che intitolò "Coraggio, non abbiate paura". Trascrivo le sue parole: "L'accidia politica porta a una neutralità appiattita senza più alcun criterio etico di riferimento. Il livello di allarme lo si raggiunge quando lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso. Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose per aprire gli occhi".

Queste parole furono dette dalla cattedra di Sant'Ambrogio dodici anni fa. Ce n'è voluto di tempo perché i nostri concittadini si svegliassero dall'accidia e con loro si svegliasse anche il Vaticano. Martini era già molto più avanti anche su questa delicatissima questione.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/finalmente-il-risveglio-dallaccidia/2166641/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Due Mario italiani per salvare l'euro
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:13:49 pm
IL COMMENTO

Due Mario italiani per salvare l'euro

di EUGENIO SCALFARI


La crisi dei debiti sovrani dell'Europa - di tutta l'Europa, Germania compresa - ha provocato una reazione in Inghilterra e in Usa: le banche di quei due Paesi hanno dichiarato che si stanno preparando alla scomparsa dell'euro dal sistema monetario mondiale. Non è certo un aiuto a resistere, quella dichiarazione, e non è comunque un utile campanello d'allarme, ma piuttosto una campana a martello, di quelle che si suonavano un tempo quando un intero paese andava a fuoco e la popolazione accorreva con le pompe e i secchi d'acqua per spegnere l'incendio.

Ma qui ed oggi non c'è una popolazione da chiamare a raccolta, né bastano i pompieri nazionali a sostenere la moneta europea anche se il loro contributo è necessario. Qui ed oggi c'è un solo soggetto che può impedire una frana generale ed è la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Mario Monti è il pompiere nazionale ed il suo contributo è necessario ma insufficiente. Salvare l'Europa spetta a Draghi; che la Germania sia d'accordo oppure no, nessuno può impedirglielo perché la Bce è indipendente dai governi purché resti nei limiti previsti dal suo statuto il quale gli pone il divieto di finanziare i governi ma non di finanziare il sistema bancario europeo a rischio di insolvibilità.

Draghi conosce perfettamente questo suo diritto-dovere d'intervenire per evitare il cosiddetto "credit-crunch", cioè il passaggio dall'illiquidità all'insolvibilità. Probabilmente avrà bisogno d'un paio di settimane per mettere a punto un intervento di così ampie dimensioni; dovrà contattare le principali banche di credito commerciale dei 17 Paesi dell'eurozona e anche quelle inglesi e americane perché ormai tra le grandi banche e i grandi fondi d'investimento del risparmio esiste un intreccio intricatissimo di flussi e di reciproci impieghi. Due settimane, ancorché sotto l'infuriare della tempesta sui mercati, sono sopportabili; andare oltre diventerebbe una scommessa andata male, non una battaglia ma una guerra perduta.

Le dimensioni di un salvataggio del genere ammontano almeno a 1.000 miliardi di euro e forse anche di più, ma sbagliano quanti pensano che basti l'annuncio e la garanzia da parte della Bce per ottenere il risultato senza bisogno di scomodare la cassa. Non è così. Il sistema bancario europeo è già in condizioni di scarsa liquidità e un semplice annuncio non basterebbe. La cassa è indispensabile, la Bce dovrà stampare moneta e iniettarla nel sistema bancario perché è questa la preziosa acqua necessaria per estinguere l'incendio. Non la darà ai governi ma alle banche e non già per una settimana ma per due o tre anni, con un duplice obiettivo: assicurarne la solvibilità e rendere possibile il finanziamento delle imprese affinché contrastino la recessione incombente. E qui entrano in scena i pompieri nazionali, cioè i governi, ciascuno responsabile del proprio debito sovrano e della crescita del proprio prodotto interno.

* * *

Il governo italiano è in primissima linea perché, come hanno detto la Merkel e Sarkozy dopo l'incontro di Strasburgo con Mario Monti, gli interventi che il nostro neo-premier ha in programma sembrano a loro perfettamente in linea con le necessità e perché - come hanno aggiunto - se dovesse diventare insolvibile il debito italiano salterebbe l'euro e con esso l'intera costruzione europea.

Monti deve realizzare due obiettivi: il rigore e la crescita e semmai ci fosse da stabilire un prima e un dopo, la crescita verrebbe prima e non dopo. C'è un terzo obiettivo che Monti si propone ed è l'equità che in realtà rappresenta il giusto equilibrio tra crescita e rigore. L'equità si realizza infatti attraverso l'equilibrio tra quei due termini, attraverso la coesione sociale e attraverso lo sforzo di evitare la recessione e la deflazione. Questi sono i compiti di Monti e del suo governo. Il loro fucile ha due soli colpi in canna: crescita e rigore. La prima si ottiene sostenendo il potere d'acquisto delle fasce sociali medio-basse e diminuendo il carico fiscale delle imprese. Il secondo tagliando la spesa improduttiva, i privilegi e le disuguaglianze. In concreto: riformando le pensioni, equiparando le condizioni di lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, destinando i risparmi così realizzati alla fondazione del nuovo "welfare" destinato a tutelare i giovani e a instaurare un patto generazionale a loro favore.

Il governo ha ormai in avanzata preparazione la riforma pensionistica e quella del lavoro, attingerà risorse immediate dall'Iva e dall'Ici (che è di per sé un'imposta patrimoniale) nonché dalla vendita dei beni pubblici. Rilancerà i lavori pubblici con un pacchetto che vede insieme il ministero di Passera e quello di Barca (Infrastrutture e Coesione territoriale). Due colpi in canna. Ha preso tempo fino al 5 dicembre, una dilazione che coincide con quella di cui ha bisogno Draghi. Neanche a Monti bastano gli annunci, anche lui deve muovere la cassa e non può sbagliare. Dieci giorni sono sopportabili, il di più sarebbe del Maligno e quindi va escluso.
Intanto siano nominati domani i vice-ministri e i sottosegretari affinché il Parlamento possa lavorare. Qui la dilazione non è permessa.
* * *

I debiti sovrani hanno un calendario di aste da tempo stabilito. Quello italiano prevede nel 2012 emissione di titoli in gran parte pluriennali per 270 miliardi. Quello degli altri Stati dell'eurozona ne prevede altri 800, metà dei quali emessi dalla Germania. Nel complesso sarà un anno terribile che si inaugura con un'asta italiana di 40 miliardi nella prima decade di febbraio. Draghi, quand'era ancora in via Nazionale, aveva consigliato Tremonti nel 2010 di anticipare le aste ma il consiglio non fu seguito, erano ancora i tempi nei quali il governo di allora negava la crisi o sosteneva che comunque ne saremmo usciti prima e meglio degli altri. Adesso Cicchitto e La Russa si sbracciano a dimostrare che il loro governo non ha nulla a che fare con quella che Giuliano Ferrara chiama Lady Spread. Ma Lady Spread è stata svegliata proprio da quel governo e dalla sua micidiale immobilità. Tre anni d'immobilità, di cui paghiamo adesso il durissimo scotto.

Se Draghi e Monti faranno quel che debbono entro la coincidente scadenza, anche l'anno terribile potrà essere padroneggiato. Ma per quanto riguarda l'Italia, noi abbiamo una scadenza tra pochi giorni, modesta per tempi normali ma assai scabrosa per l'oggi: un'asta di 5 miliardi di titoli pluriennali.

Si potrebbe cancellarla e rinviarla perché il Tesoro può farne a meno, ma sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Il rimedio, se si vuole, c'è: la Banca d'Italia, imitando la Bundesbank, potrebbe prendere in parcheggio i titoli in scadenza e collocarli gradualmente sul mercato secondario. Le banche, una volta che la Bce avesse varato il suo programma di prestiti, sottoscriverebbero senza problemi quel ricollocamento come dovranno fare per una buon parte delle aste successive. Questo è il solo modo per trasmettere gli effetti della politica monetaria a sostegno dei debiti sovrani, in attesa che i Trattati siano riveduti, il fisco diventi appannaggio dell'Europa e gli Eurobond siano accettati anche dalla Merkel. Allora intoneremo il "Magnificat" e ne saranno contenti anche i cattolici di Todi e del governo dei tecnici.

* * *
 Questa storia del governo dei tecnici continua ad esser vissuta malamente da una parte notevole dell'opinione pubblica, anche da quella vastissima (75 per cento) che appoggia Monti riconoscendo l'esistenza di ragioni di urgenza e di emergenza. Nel mio articolo di domenica scorsa avevo ricordato tre illustri precedenti per collocare l'attuale governo in un contesto storico: i 15 anni di governo della Destra storica (1861-1876), i due anni del governo Fanfani delle "convergenze parallele" (1960-62), la proposta di Bruno Visentini d'un governo istituzionale come soluzione permanente prevista dalla Costituzione (1980).

Dedico la conclusione di quest'articolo al tema sollevato da Visentini, per renderne più chiari i lineamenti e la sua attualità.
1. I governi sono tutti politici se avvengono nel quadro della democrazia parlamentare poiché la loro esistenza e la loro permanenza dipendono dalla fiducia che il Parlamento gli accorda o gli ritira.

2. Il governo istituzionale cui pensava Visentini prevedeva che i partiti non fossero agenzie di collocamento dei loro dirigenti e clienti, ma organi di generale indirizzo politico e di raccolta del consenso popolare sulla base d'una loro visione del bene comune.

3. La legge elettorale doveva (dovrebbe) offrire lo "spazio pubblico elettorale" ai candidati dei partiti o di qualsivoglia associazione o individuo che volesse cimentarsi. Il Parlamento uscito dalle elezioni esprime una sua maggioranza che risponde agli elettori così come ne risponde la minoranza di opposizione.

4. La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, "nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". Il governo così nominato deve ottenere entro pochi giorni la fiducia del Parlamento.
Il risultato di questo "combinato disposto" consiste nel fatto che nella formazione del governo il capo dello Stato tiene necessariamente conto della maggioranza parlamentare dalla quale l'esistenza del governo dipende, ma lo nomina senza trattarne la composizione con le segreterie e i gruppi parlamentari dei partiti.

Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille.

(27 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/11/27/news/due_mario_italiani_per_salvare_l_euro_di_eugenio_scalfari-25666637/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'ossigeno della Bce
Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2011, 06:16:04 pm
IL COMMENTO

L'ossigeno della Bce

di EUGENIO SCALFARI

NELL'INTERVENTO di ieri, parlando della crisi attuale dinanzi all'Europarlamento, Mario Draghi così ha concluso: "La Bce può fare il prestatore di ultima istanza solo per le banche solventi. È in corso in Europa una stretta del credito che stringe soprattutto le piccole e medie imprese e per questo serve riparare il circuito del credito che ora non circola". Questa è una frase-chiave per capire le prossime mosse della Banca centrale europea. Cerchiamo anzitutto di decifrarne il senso perché il linguaggio del banchiere è alquanto gergale e quindi oscuro per i non iniziati.

La Bce si può muovere solo all'interno dei limiti previsti dal suo statuto. Tra questi limiti c'è il divieto di finanziare direttamente i governi. Gli interventi che fa fin dallo scorso agosto sul mercato secondario acquistando titoli pubblici sono limitati nelle dimensioni e nella durata. Difficilmente servono a mantenere liquido il mercato. In realtà servono a contenere il rendimento dei titoli affinché non superi troppo la soglia del 7 per cento che è già alla lunga insostenibile per l'equilibrio dei conti pubblici. Le banche commerciali  -  dice Draghi  -  stanno praticando una stretta del credito, di conseguenza il circuito è bloccato a detrimento soprattutto delle imprese, cioè dell'economia reale.

E infine conclude: "La Bce può fare il prestatore di ultima istanza per le banche solventi perché questo è previsto dal suo statuto". Domenica scorsa avevo scritto proprio questo: la Bce si accingeva ad aprire linee di credito alle banche europee con prestiti a due-tre anni per un ammontare complessivo di oltre mille miliardi di euro, se necessario anche stampando moneta. Le parole di Draghi confermano che questa è l'operazione che ha in mente. Nel frattempo le sei maggiori Banche centrali dell'Occidente hanno fortemente diminuito il costo degli "swap" in dollari, cioè hanno creato la possibilità per le banche commerciali di approvvigionarsi in dollari illimitatamente con prestiti a tre mesi.

Considerata in sé, quest'operazione è una bombola d'ossigeno al letto d'un ammalato grave, cioè del sistema bancario occidentale e in particolare di quello europeo. Una bombola d'ossigeno, non più di tanto. Potrà attutire la crisi respiratoria ma non modificare le condizioni dell'ammalato che non è ancora in uno stadio terminale ma rischia di precipitarvi. Ci vuole molto di più che diminuire il costo degli "swap" in dollari. Ma in realtà quella bombola d'ossigeno serve a realizzare un altro obiettivo: ridare alle banche commerciali fiducia in se stesse. Attualmente non si fidano l'una dell'altra e dei clienti si fidano meno ancora. La Bce offre crediti con scadenze settimanali, le banche ritirano i fondi con la mano destra e con la sinistra li ridepositano presso la stessa Bce: una partita di giro priva di senso.

La riattivazione degli "swap" in dollari mostra ai mercati che le sei Banche centrali d'Occidente sono compattamente schierate per impedire il fallimento dell'euro. L'obiettivo è appunto di tonificare le aspettative dei banchieri. Adesso Draghi dovrebbe attivare la sua operazione strutturale affinché le banche tornino a prestarsi reciprocamente liquidità e ne dirigano una parte a finanziare le imprese e un'altra parte per acquistare titoli di Stato alle aste, possibilmente con rendimenti più bassi di quelli toccati nelle ultime occasioni.

Questo è quanto ci aspettiamo che avvenga. Draghi e il direttorio della Bce hanno ora una grande responsabilità: non possono e non debbono ulteriormente aspettare, il fattore tempo è ora fondamentale. Monti presenterà i suoi primi decreti di risanamento lunedì prossimo. Entro la stessa data sarebbe molto opportuno che Draghi aprisse il rubinetto per finanziare "le banche solvibili", ma non sufficientemente liquide. Sta a lui renderle adeguatamente liquide e consolidarne la fiducia, con ripercussioni estremamente importanti sulla crescita economica del sistema. Monti stringe, Draghi allarga: questo dovrebbe accadere e si prendano ciascuno - governo italiano e Banca centrale europea - le proprie responsabilità.

(02 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/02/news/scalfari_bce-25941937/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Terza Repubblica nel segno di Napolitano
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2011, 11:19:28 am
L'EDITORIALE



di EUGENIO SCALFARI

Oggi, probabilmente conosceremo i primi provvedimenti del governo per raddrizzare i conti pubblici e compensare i sacrifici che graveranno su tutti i cittadini con interventi destinati alla crescita. Mario Monti non ha usato mezzi termini, i sacrifici li ha annunciati senza ipocrisia né diplomazie, ma anche ha profuso nelle sue dichiarazioni il concetto di equità. Ebbene, c'è un solo modo di intendere la parola equità in una situazione come quella che stiamo vivendo: ingaggiare la lotta contro la recessione.

Se ci sarà recessione non ci sarà equità; se la domanda interna  -  privata e pubblica  -  non sarà adeguatamente incentivata, l'equità diventerà una parola vana, salvo la progressività delle misure rigoristiche; ma quella è un'equità assai impalpabile che scontenterà tutti.

Quindi la crescita: maggior potere d'acquisto ai redditi medio-bassi, sgravi fiscali sugli investimenti, incentivi all'occupazione, incentivi alla costruzione di infrastrutture e ai lavori pubblici e soprattutto interventi che volgano in positivo le aspettative di consumatori, lavoratori, imprenditori, banchieri.

Se non riprenderemo a crescere non ci sarà equità poiché il fardello che grava sulle spalle di chi ha un reddito da 5 mila a 15 mila euro annui e paga un'imposta del 23 per cento e chi sta oltre i 200 mila e paga un'imposta del 43 per cento è comunque incommensurabile.

Chiarito questo punto per quanto riguarda l'equità, resta il problema della natura di questo governo.

Molti lo considerano come una sorta di guardiano commissariale il cui compito è soltanto quello di gestire l'economia e la finanza. Una volta che questo compito sia adempiuto, il commissario dovrà fare le valigie e andarsene con tutti i suoi collaboratori, magari con i ringraziamenti della nazione e dell'Europa. Nel frattempo, e fino a quando sarà in carica, null'altro deve fare. Ma le cose non stanno affatto così.

Questo è un governo a pieno titolo e se è vero che il suo compito principale è quello dell'economia è vero anche che ha un ministro degli Esteri che dovrà gestire i nostri rapporti con il resto del mondo; un ministro dell'Interno che dovrà occuparsi non solo dell'ordine pubblico ma della lotta contro le mafie, e la criminalità; un ministro della Giustizia che avrà il compito di riformare l'ordinamento giudiziario, soprattutto quello della giustizia civile ma non soltanto; un ministro del Tesoro che dovrà occuparsi anche delle molte aziende pubbliche e in particolare di quelle che il Tesoro controlla; un ministro delle Comunicazioni cui incombe il tema dell'urgentissima riforma della Rai; un ministro dell'Istruzione che gestirà le scuole e le Università; un ministro dell'Integrazione e della Cooperazione che dovrà affrontare il gigantesco tema dell'immigrazione; un ministro della Coesione territoriale con il compito di far diminuire le diseguaglianze strutturali tra aree evolute e aree depresse.

Che dovrebbero fare questi ministri fino a quando il governo sarà in carica? Costruire barchette di carta e altri origami in attesa di togliere il disturbo? Organizzare partite a briscola e a rubamazzo? O addirittura chiudere i ministeri e mettere i dipendenti in aspettativa?

Questo, lo ripetiamo, è un governo a pieno titolo, un governo politico, il cui scopo primario non diminuisce e tantomeno cancella il compito di governare il Paese nel modo migliore, con spirito innovativo in tutti i campi, fino a quando avrà la fiducia del Parlamento e fino a quando lo scopo primario non sarà portato a termine. Chi lo concepisce come un commissariato dell'economia e nient'altro che questo, ha la testa nelle nuvole o cerca pretesti per metterlo anzitempo in crisi.
Monti non cada in questa trappola. È giusto che abbia trattenuto nelle sue mani l'"interim" dell'Economia, ma non dimentichi che è soprattutto il "premier" e si comporti come tale in conformità al giuramento da lui fatto e da ciascuno dei suoi ministri nelle mani del Capo dello Stato.

***

Nel lessico politico corrente questo è stato definito il governo del Presidente della Repubblica. Anche noi, anch'io, l'abbiamo chiamato così, ma forse (anzi senza forse) abbiamo commesso un errore. In una democrazia parlamentare non esiste un governo del Presidente perché sia per il suo insediamento sia per la sua permanenza è indispensabile la fiducia del Parlamento. Non esiste un governo tecnico visto che la fiducia parlamentare si fonda su una maggioranza politica la quale si fonda a sua volta su una visione condivisa del bene comune.

I motivi e le forme che hanno condotto alla costituzione del governo Monti hanno le loro radici nella crisi economica in atto, ma questo non ha cancellato la natura della democrazia parlamentare. Ho ricordato nell'articolo di domenica scorsa alcuni precedenti significativi. Ho ricordato il governo Fanfani del 1960 la cui maggioranza fu definita "delle convergenze parallele". Ho ricordato il governo istituzionale concepito da Bruno Visentini come la sola e corretta applicazione della Costituzione, deformata da una "costituzione materiale" in cui la partitocrazia si sovrapponeva alla democrazia parlamentare.

Il governo Monti, motivato dall'emergenza dell'euro, realizza in pieno il ritorno alla Costituzione che configura con chiarezza sia il ruolo dei partiti sia quello del Presidente della Repubblica. Il fatto che la partitocrazia abbia deformato la corretta applicazione costituzionale non significa che quando il governo Monti avrà compiuto la sua opera e realizzato i suoi obiettivi, tutto debba tornare come prima e la partitocrazia di nuovo dominante il campo. Non significa insomma che nel maggio del 2013 si debba inalberare l'insegna dell'heri dicebamus.
La Costituzione è precisa su questi punti. I partiti non debbono essere le agenzie di collocamento delle loro clientele e non debbono occupare le istituzioni, ma comportarsi come organi di indirizzo politico e di raccolta del consenso dei cittadini attorno ad una concezione del bene comune, d'una scala di valori e di legittimi interessi che ogni partito rappresenta.

Le istituzioni dal canto loro sono gli strumenti erga omnes che traducono operativamente l'indirizzo della maggioranza, a patto di preservare la distinzione fondamentale tra lo Stato e il governo. I governi cambiano se cambia il consenso popolare; lo Stato invece permane ed è il contenitore dell'interesse generale.
Su questa distinzione tra Stato e governo si aprì un dibattito storico quando fu formato lo Stato unitario 150 anni fa. Ne discussero in Parlamento, nei loro scritti, nelle leggi costitutive di quello Stato, uomini del valore di Marco Minghetti, Silvio Spaventa, Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis e poi Giustino Fortunato, De Viti De Marco, Benedetto Croce, Luigi Einaudi. Il tema era quello del rapporto tra i partiti e l'Amministrazione e l'altro strettamente connesso della giustizia nell'Amministrazione.

Penso che, per una sorta di eterogenesi dei fini, il governo di Mario Monti nato dall'emergenza sarà il pronubo d'un rapporto nuovo tra i partiti e le istituzioni e che questo debba essere l'essenza della terza Repubblica. Penso e mi auguro che il futuro Parlamento sia espressione vera e non fittizia del popolo sovrano che abbia il diritto di scegliere i propri rappresentanti. Penso e mi auguro che i futuri governi siano sempre governi istituzionali che riflettano gli indirizzi della maggioranza parlamentare ma la cui composizione sia decisa dal capo dello Stato come la Costituzione prescrive con estrema chiarezza. Penso e spero che il Parlamento eserciti non solo il potere legislativo ma il controllo sull'attività del governo e cessi di essere il luogo di passiva registrazione dei suoi voleri.

Penso infine che il presidente del Consiglio debba avere maggiori poteri rispetto ai suoi ministri e disporre di corsie privilegiate per i disegni di legge di speciale importanza e urgenza. Anche su questi punti il governo Monti rappresenta un buon esempio che in futuro non dovrà più avere la motivazione dell'emergenza ma semplicemente quella della correttezza costituzionale.

***

Si ricava dalle precedenti riflessioni su quanto è accaduto e sta accadendo che il presidente Giorgio Napolitano non ha compiuto alcuna "forzatura costituzionale", come alcuni suoi critici gli hanno rimproverato in occasione della nascita dell'attuale governo. Napolitano ha valutato la drammaticità della crisi che scuote l'intero Occidente, ha incontrato più volte tutte le forze politiche e le più alte autorità europee e internazionali. Alla fine  -  dopo le volontarie dimissioni del precedente governo  -  ha nominato il nuovo presidente del Consiglio e i ministri da lui proposti.

Il fatto che nessuno di quei ministri provenga dai partiti non è necessariamente il connotato dei governi istituzionali, i quali possono esser composti anche interamente da uomini di partito; ma la scelta non spetta alle segreterie, spetta al capo dello Stato e questa è una distinzione fondamentale che preserva l'essenza del governo-istituzione e toglie ai partiti una tentazione che deformerebbe il loro stesso prezioso ruolo.

Tante cose si dovranno ancora fare per dar corpo alla terza Repubblica: una legge elettorale che restituisca ai cittadini la sovranità effettiva che loro compete, la trasformazione del Senato in Camera di rappresentanza delle Regioni, lo sfoltimento del numero dei parlamentari, i consorzi tra piccoli Comuni, lo snellimento degli ospedali e dei tribunali e tante altre cose ancora. La normalità intesa come ordinaria amministrazione è ancora molto lontana. C'è da ricostruire uno Stato, per di più federale, improntato a criteri di efficienza, modernità e solidarietà sociale e territoriale molto più di quanto non lo sia lo Stato centralista. Questo sarà il compito della terza Repubblica che  -  è bene ripeterlo  -  è già cominciata.

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Post scriptum. Il governo Monti ha deciso di presentarsi martedì sera al "talk show" di Bruno Vespa dopo essersi presentato in Parlamento domani pomeriggio e martedì mattina ad una conferenza stampa con i giornalisti italiani e poi con la stampa estera.

C'è un più di troppo, onorevole presidente del Consiglio. Se voleva comunicare con gli italiani doveva scegliere il "caminetto" come hanno sempre fatto i presidenti della Repubblica e i presidenti del Consiglio in occasione di speciali ricorrenze o circostanze. Se voleva essere interrogato dai giornalisti dovevano bastare le conferenze stampa ad essi riservate. Lei ricorderà certamente il Vangelo di Matteo dove è detto che "il di più è del Maligno". Con tutto il rispetto personale per Bruno Vespa, quello è "un di più" che a molti darà grande fastidio.

(04 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2011/12/04/news/la_terza_repubblica_nel_segno_di_napolitano-26053764/?ref=HREA-1
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/04/news/la_terza_repubblica_nel_segno_di_napolitano-26053764/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I due Mario l'Europa l'hanno salvata
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2011, 11:26:55 am
L'EDITORIALE

I due Mario l'Europa l'hanno salvata

di EUGENIO SCALFARI


Due domeniche fa intitolai il mio articolo "Due Mario italiani per salvare l'euro". Ero abbastanza ottimista in quell'articolo e così pure nell'altro della domenica seguente. Oggi lo sono ancora di più perché le previsioni sono diventate fatti e i fatti hanno un diverso peso, producono effetti, modificano aspettative, comportamenti e decisioni. Dopo la firma di Giorgio Napolitano e la presentazione alle Camere del decreto "Salva Italia", dopo la decisione della Bce annunciata giovedì scorso di aprire un credito illimitato al sistema bancario dell'Eurozona e dopo il Consiglio dei capi di governo dei 27 paesi dell'Unione di venerdì, il mio ottimismo si è rafforzato. Lo dichiaro qui perché, oltre ad essere un giornalista, sono anche un risparmiatore, un consumatore, un elettore, sicché il mutamento delle mie aspettative potrebbe anche rappresentare un "test" di analoghi mutamenti sociali. Del resto i mercati di venerdì l'hanno già resi visibili ed è probabile che i mercati di domani emettano un giudizio ancora più esplicito per quanto riguarda lo "spread", l'andamento delle Borse e il rendimento dei debiti sovrani.
Il decreto "Salva Italia" sarà approvato dal Parlamento entro il 18 dicembre; il 20 la Bce erogherà alle banche la prima ondata di liquidità; ai primi di marzo la Commissione di Bruxelles renderà esecutivo l'accordo intergovernativo già siglato a Parigi l'altro ieri dai 26 paesi dell'Unione. Ne è
rimasta fuori l'Inghilterra ma è lei che si marginalizza rispetto all'Europa e non viceversa.
Questi sono i fatti sui quali siamo chiamati a ragionare.

***

Il decreto "Salva Italia" ha già suscitato un'ampia letteratura di commenti e di approfondimenti. I primi sono stati positivi, se non altro perché non c'erano alternative: tutte le forze politiche erano consapevoli che il rigore era necessario; se non l'avesse deciso Monti in autonomia ci sarebbe stato imposto dall'Europa. La differenza tra queste due posizioni è politica: quel decreto ha consentito al governo italiano di riprendere a pieno titolo il suo posto di interlocutore primario nel consesso europeo. Quanto agli approfondimenti, essi hanno messo in luce alcuni errori o manchevolezze del decreto ai quali si spera di porre rimedio nel dibattito parlamentare e nei limiti in cui non si alteri l'architettura del provvedimento e i suoi saldi.A sua volta l'accordo integrativo di Parigi che sancisce l'obbligo dei 26 membri dell'Unione di realizzare il pareggio dei rispettivi bilanci e di conferire all'Unione i propri poteri fiscali, è un percorso decisivo verso una maggiore sovranità europea nel campo economico, che diventerà piena con la revisione dei Trattati: un obiettivo storico ancora incerto ma altamente auspicabile. Nel frattempo la sovranità fiscale rassicura i mercati e rassicura l'America; non a caso il segretario americano al Tesoro ha partecipato informalmente alle varie fasi che hanno preceduto l'accordo e il presidente Obama è più volte intervenuto per affrettarne il buon esito.

Ma il fatto nuovo e decisivo di tutta questa vicenda risiede nell'intervento della Bce di liquidizzare il sistema bancario dell'Eurozona. Quando ne fu data notizia nel primo pomeriggio di giovedì scorso i media quasi non se ne accorsero, salvo il "Wall Street Journal " e il "Financial Times". Non se ne accorsero neppure i media italiani, ad eccezione di Repubblica, che a questo tema dedicò una parte del titolo di apertura di prima pagina. Tutti gli altri si limitarono a segnalare la riduzione del tasso di sconto da parte della Bce. Ma non se ne accorsero neppure i mercati che infatti giovedì pomeriggio erano di nerissimo umore e colpirono duramente i titoli delle banche, i listini delle Borse e fecero schizzare di nuovo verso l'alto i rendimenti dei titoli pubblici.

Il "24 Ore" di venerdì apriva ancora con un editoriale assai scettico verso le "incertezze" e "l'inazione" della Bce, corretto soltanto ieri da un articolo di Carlo Bastasin finalmente improntato a una più attenta analisi dei fatti: "Tutti gli strumenti necessari sono finalmente disponibili: leader nazionali credibili, fondi di salvataggio adeguati e un allentamento quantitativo del credito. La prima reazione era stata di delusione perché il comunicato dei capi dell'Eurozona sembrava ancora elusivo sulle situazioni immediate. Ma un secondo sguardo fa leggere il comunicato diversamente".

Meno male che il secondo sguardo c'è stato. Dico meno male perché l'informazione è essenziale per l'andamento dei mercati e i comportamenti dei risparmiatori e degli operatori. Quello che con qualche timidezza viene chiamato l'"allentamento del credito" è in realtà il pezzo forte della manovra a livello europeo, sia per quanto riguarda il "credit-crunch", sia per la crescita, sia per il rendimento dei titoli di Stato. La vera risposta europea si chiama dunque Mario Draghi così come la risposta italiana si chiama Mario Monti. Non ci voleva un occhio di lince per capirlo.

***

Ma vediamola più da vicino la manovra della Bce.
La prima mossa è la diminuzione all'un per cento del tasso di sconto, decisa  -  a quanto ha detto lo stesso Draghi  -  dopo una vivace discussione e non all'unanimità dal Consiglio direttivo della Banca. La radicata ossessione anti-inflazionistica della Bundesbank deve avere avuto il suo peso ma, probabilmente proprio per non dare troppo spazio ai suoi incomodi falchi, la Merkel quel giorno stesso disse che il suo governo non sarebbe mai intervenuto né avrebbe commentato le decisioni della Bce che "nei limiti del proprio statuto è indipendente e può decidere come meglio crede nell'interesse dell'Unione europea".

Il nocciolo della manovra tuttavia non è nel ribasso dello 0,25 per cento del tasso, bensì nell'apertura di un gigantesco sportello: prestiti illimitati per la durata di 36 mesi a tutte le banche dell'Eurozona al tasso fisso dell'un per cento. Il collaterale di garanzia è costituito da titoli di Stato dell'Eurozona, ma non soltanto: per quanto riguarda le banche territoriali di piccole dimensioni, che servono imprese medio piccole e che di solito non hanno titoli pubblici in portafoglio, la Bce accetterà come collaterali di garanzia i mutui e i debiti della clientela certificati dalla banca creditrice. Si tratta di una novità di grande importanza perché incentiva l'accesso al credito delle imprese medio piccole che  -  specialmente in Italia  -  costituiscono il nerbo dell'imprenditoria nazionale.

Quell'allentamento quantitativo del credito ha almeno quattro obiettivi: sblocca la circolazione del credito interbancario e favorisce con ciò la diminuzione dei tassi a breve e brevissima scadenza; consente alle banche di riprendere in grande stile l'erogazione dei prestiti alla clientela lucrando una forte differenza tra il costo dello sconto all'un per cento e il tasso di interesse parametrato sullo "spread". Attualmente questo tasso oscilla intorno al 6 per cento; quando i mercati saranno più tranquilli scenderà al 5 e sperabilmente al 4 e forse al 3, ma anche in quel caso ci sarà sempre un discreto margine di profitto, oggi altissimo.

Il terzo obiettivo della Bce, che per le banche è più opportuno chiamare occasione, concerne la partecipazione alle aste dei titoli pubblici. In questi ultimi mesi le banche erano molto restie ad accrescere il loro portafoglio-titoli, già ampiamente imbottito; le banche estere e i fondi di investimento erano anzi prevenuti negativamente verso i titoli italiani e spagnoli e se ne disfacevano nella misura del possibile. L'operazione-Draghi mira a invertire questo "trend", inversione tanto più necessaria in vista delle massicce emissioni italiane ed europee che avranno luogo nel 2012 e  -  per quanto riguarda l'Italia  -  soprattutto nel primo trimestre e nell'autunno dell'anno che sta per arrivare. Quando si dice che l'aumento di liquidità bancaria tende a trasferirsi anche alle emissioni dei debiti sovrani, si descrive appunto uno degli effetti dell'allentamento del credito.

Infine: una maggiore attività d'intermediazione delle banche significa anche un aumento delle prospettive di profitto e quindi migliori aspettative di dividendi per gli azionisti. Per restare al caso italiano che più ci interessa, il nostro sistema bancario  -  secondo le direttive dell'Eba  -  dovrebbe ricapitalizzarsi per complessivi 15 miliardi. L'Abi (Associazione banche italiane) ha già definito erronee e illegali le raccomandazioni dell'Eba (che è il suo omologo a livello europeo). In ogni caso una maggiore redditività del sistema può sdrammatizzare questa disputa e comunque facilitare il rifinanziamento dei capitali bancari. Resta il problema dei debiti sovrani che l'Europa richiama all'osservanza del livello massimo del 60 per cento rispetto al Pil e qui si apre il tema della crescita economica.

Dal governo Monti ci aspettiamo ora che  -  dopo il bollino del rigore che ha recuperato la nostra credibilità nelle sedi internazionali  -  si passi con la massima rapidità ai provvedimenti di stimolo della domanda nei settori del consumo, delle infrastrutture, del cuneo fiscale tra salario lordo e busta paga netta. Questo è l'appuntamento decisivo. Finora Monti ci ha lasciato a bocca asciutta. Ne abbiamo capito il perché, ma non può che consentire una dilazione di due o tre settimane. Passate le feste (che non saranno troppe festose) non ci sarà spazio per ulteriori ritardi. Stavolta tocca a Passera e a Barca. Speriamo non ci deludano.


Post scriptum. A Passera incombe anche il compito di nominare un commissario alla Rai dove la situazione è ormai insostenibile e di indire un'asta vera sulle frequenze. Comprendiamo che l'argomento è politicamente indigesto, ma lo è comunque, che l'asta vera si faccia o che si accetti quella truccata. "Le tue parole siano Sì o No". Passera è cattolico e tragga le sue conclusioni.

(11 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/11/news/editoriale_scalfari-26416727/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La grande forza del dubbio
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:21:07 am
Opinione

La grande forza del dubbio

di Eugenio Scalfari

L'obiettivo di Ravasi è sempre il dialogo attraverso il quale si convince l'interlocutore o se ne è convinti, senza pregiudizi.

Un percorso che mette in discussione l'assolutezza della verità

(01 dicembre 2011)

Due settimane fa dedicai questa pagina al pensiero del cardinale Carlo Maria Martini, un religioso molto moderno le cui riflessioni sulla vita e sulla fede sono così profonde da intrigare anche un laico non credente. Feci anche un cenno alle recenti esternazioni del Papa che dimostravano un mutamento inatteso e per certi aspetti rivoluzionario rispetto alle tendenze del più alto Magistero della Chiesa.
Sulla stessa linea si è posto il cardinale Bagnasco nella sua prolusione al Convegno delle associazioni cattoliche a Todi e un laico come Riccardi, fondatore della comunità di Sant'Egidio, ora ministro nel governo Monti.

Mi sembra utile proseguire questa rivisitazione del pensiero cattolico più aggiornato segnalando gli scritti di monsignor Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura della Santa Sede, nominato cardinale nell'ultimo concistoro. Ravasi pubblica tutti i giorni un suo corsivo nella prima pagina dell'"Avvenire", il quotidiano della Conferenza episcopale italiana ed è una lettura estremamente istruttiva.

Il corsivo si apre sempre con una citazione di poche righe, cui segue il commento ravasiano. A volte il testo della citazione è tratto dalla Sacra Scrittura o dal libro di un Santo della Chiesa, ma più spesso l'autore citato è uno scrittore non religioso che coglie un aspetto della vita e lo illumina con la sua artistica fantasia. Su quella citazione Ravasi si sofferma, approfondisce il tema, contraddice l'autore citato o più spesso consente con lui.

I lettori si chiederanno forse perché mai io mi interessi a queste manifestazioni che con qualche azzardo si potrebbero definire eterodosse. La ragione è proprio questa: mi sembra che si stia configurando una vera e propria svolta nel pensiero cattolico e la novità consiste nel fatto che questa volta non proviene soltanto dal basso, dal clero delle parrocchie, degli oratori o da qualche Ordine religioso, ma dal livello più alto della gerarchia. Non è un tema che interessa tutti i laici, non credenti o credenti di altre religioni?
L'8 novembre scorso monsignor Ravasi pubblicò il suo corsivo col titolo "Dare ombra alle parole". La citazione era tratta da un libro di Paul Celan, un poeta ebreo nato in Romania e morto suicida gettandosi nella Senna a Parigi nel 1970 dopo una tragica vita durante la quale era stato anche testimone dello sterminio della sua famiglia in un lager nazista.

La citazione è la seguente: "Parla anche tu / parla per ultimo / di' la tua sentenza. / Parla, ma non dividere il sì dal no. / Alla tua sentenza dà anche il senso. / Dalle ombra / dalle ombra sufficiente, / dagliene tanta".
Nel suo commento Ravasi ricorda, non a caso, quanto scrive l'evangelista Matteo (5,37): "Sia il vostro parlare: Sì, sì. No, no. Il di più viene dal Maligno". Ma Celan - prosegue Ravasi - "vuole colpire chi pronuncia sentenze definitive quasi fosse l'unico interprete autorizzato della verità, senza mai lasciarsi frenare da un'esitazione, asseverando senza l'ombra del dubbio". E continua "E' proprio l'esatto contrario della chiacchiera che non ammette spazi e interstizi, oppure dell'urlato che impedisce il dialogo".

Mi sono soffermato su quest'intervento di Ravasi perché mi sembra sia molto esplicativo, ma altri ne potrei citare dello stesso autore. Così un suo recente intervento sul "Corriere della Sera" che concerne il libro sapienziale dell'"Ecclesiaste", così anche una sua intervista con la "Stampa" sull'ingiusta sofferenza dei bimbi innocenti colpiti da devastanti malattie. E' il tema del "male ingiusto" che fu al centro d'uno dei pamphlet più significativi di Voltaire dopo il terremoto che distrusse Lisbona.
L'obiettivo di Ravasi è sempre il dialogo attraverso il quale si convince l'interlocutore o se ne è convinti, senza pregiudizi.

Ravasi si rende conto certamente di aprire in questo modo un percorso alquanto rischioso per un cattolico tradizionalista; un percorso che mette in discussione nientemeno che l'assolutezza della verità e può condurre al relativismo, alla verità relativa che nasce nella coscienza autonoma di ogni individuo e che, anche per un credente, conduce verso un rapporto diretto con Dio scavalcando l'intermediazione della gerarchia sacerdotale.
Del resto, non è stato Benedetto XVI a dichiarare nel suo recente viaggio in Germania che "Lutero crede in Dio più di noi"? Sant'Agostino contro San Tommaso, si potrebbe argomentare. E bisognerebbe diffondersi a lungo sulle differenze di pensiero e di fede tra quei due pilastri del pensiero cattolico. Che Ratzinger sia un agostiniano è noto. Lo era anche Pascal. La Chiesa del Ventunesimo secolo si sta dunque affacciando veramente su quella modernità che finora il Magistero aveva compattamente esorcizzato?

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Comincia dopodomani la manovra del dragone
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 04:27:37 pm
L'ANALISI

Comincia dopodomani la manovra del dragone

di EUGENIO SCALFARI


SIAMO in recessione, lo dicono tutti, le proiezioni dei centri-studi, le Autorità economiche internazionali, i governi, i mercati. Lo dice l'esperienza quotidiana di ciascuno di noi, ricchi e poveri, occupati e disoccupati.
 
Il reddito in Europa non cresce, le esportazioni languono e languono investimenti, consumi, ricostituzione delle scorte. Il rigore è necessario ma altrettanto lo è la crescita.

Il governo promette che entro gennaio varerà provvedimenti importanti di crescita, affidati soprattutto alle liberalizzazioni; in parte sono già stati varati nel decreto approvato dalla Camera l'altro ieri; quelli sulle farmacie, sulle aste delle frequenze televisive, sugli ordini professionali, lo saranno entro un mese. Così si è impegnato a fare l'ex commissario europeo alla concorrenza Mario Monti, che merita d'esser creduto e merita un appoggio senza riserve dai partiti che lo sostengono; ma i risultati d'una più attiva concorrenza cominceranno a manifestarsi non prima d'un anno e saranno a regime tra due o tre.

Che cosa accadrà nel frattempo? Lasceremo che la recessione si trasformi in depressione? "Ah, padron, siam tutti morti" canta Leporello quando appare il Commendatore a fare le sue vendette su Don Giovanni. E questo ha detto Monti alla Camera mentre infuriavano i lazzi della Lega e le scriteriate rampogne di Di Pietro: senza il rigore saremmo già saltati in aria, ma senza un rilancio della crescita con effetti rapidi saremo morti egualmente tra poche settimane.
comincia dopodomani la manovra del dragone.

Questo è il punto sul quale occorre ora concentrarsi. Scrissi la settimana scorsa che ero ottimista e tuttora lo sono. A patto che l'eterogenea maggioranza parlamentare faccia fino in fondo il suo dovere e sostenga il governo collaborando ad affinare i suoi interventi e non invocando elezioni anticipate. Berlusconi prevede elezioni generali a maggio e Bossi borbotta lo stesso vaticinio. Significa che staccheranno la spina a marzo? Nel pieno della stagione di scadenza d'una mole enorme di titoli pubblici e di obbligazioni bancarie in Italia e in tutta Europa? Una strategia di questo genere porterebbe dritti all'uscita dell'Italia dall'euro e c'è perfino qualcuno che pensa d'un ritorno alla lira come ad una panacea perché "la lira si può svalutare". Ma sono matti?

* * *

In Europa c'è una crisi finanziaria e una crisi dell'economia reale. La prima ha il suo nocciolo nel blocco del circuito bancario, la seconda nella caduta della domanda di consumi e di investimenti. L'una influisce sull'altra e i mercati registrano e influiscono a loro volta e questo è il gomitolo che occorre dipanare.

Capita spesso che sia i cosiddetti esperti sia la pubblica opinione non vedano quale sia il filo che serve a dipanare il gomitolo o vedano un filo sbagliato che invece di dipanarlo lo arruffa ancora di più. L'ottimismo di cui ho detto prima mi viene dal fatto che l'unica istituzione europea indipendente, cioè la Banca centrale guidata da Mario Draghi, ha individuato il filo giusto da tirare ed ha già predisposto le misure per effettuare la manovra necessaria. Ne ho scritto più volte nelle scorse settimane, ora ci siamo, quella manovra avrà inizio martedì prossimo 20 dicembre quando le banche dell'eurozona chiederanno alla Bce e alle Banche centrali dei rispettivi Paesi prestiti per cifre illimitate della durata di 36 mesi, eventualmente rinnovabili per quelle banche che avranno corrisposto alle aspettative della Bce, la quale ha messo a disposizione un plafond che può arrivare complessivamente fino al tetto di duemila miliardi.

Le banche dovranno offrire equivalenti garanzie che la Bce ha indicato in tre possibili "collaterali": titoli dei debiti sovrani al loro valore di rating, obbligazioni emesse dalle banche che chiedono i prestiti, crediti cartolarizzati dalle medesime banche nei confronti della loro clientela. Il tasso per questa gigantesca operazione è fissato all'1 per cento.

La Bce si aspetta i seguenti risultati: lo sblocco del credito interbancario, la ripresa in grande stile del credito alle imprese, l'ampia presenza delle banche alle aste dei debiti sovrani in scadenza i cui titoli hanno rendimenti oscillanti - per quanto riguarda l'Italia - tra il 6,50 dei decennali e il 5 per cento dei biennali. Il differenziale a favore delle banche tra il costo del risconto (1 per cento) e il rendimento alle aste è tale che le banche avranno tutto l'interesse ad acquistare quei titoli provocando in tal modo una costante diminuzione dei rendimenti che equivale ad una rivalutazione dei titoli del debito sovrano e ad una diminuzione dello "spread".

Ho già notato domenica scorsa che la maggior parte dei "media" ha quasi sottaciuto le dimensioni e l'importanza di quanto sta per accadere; la Bce dal canto suo ha mantenuto un basso profilo, probabilmente per non attizzare le critiche di quei Paesi che sono ossessionati dall'idea di dover aiutare Paesi "scialacquatori". Ma la Bce con questa manovra sta perfettamente nei limiti del suo statuto: non finanzia gli Stati ma sblocca il "credit-crunch" del sistema bancario europeo e modera l'impennarsi degli "spread". I mercati se ne sono già accorti: le emissioni di titoli a breve scadenza - da sei mesi fino a due anni - hanno già da una settimana rendimenti in diminuzione; i decennali non registrano ancora benefici e la ragione è evidente: scontano i rischi della recessione che i titoli a breve non considerano o considerano meno. I decennali cioè aspettano di vedere quali saranno gli effetti dello sblocco del credito sull'economia reale.

Segnalo un altro obiettivo della manovra di Francoforte: sblocca anche la segmentazione nazionalistica del mercato dei titoli pubblici. Rispetto al 2007 le banche dei paesi del nord-Europa hanno diminuito del 44 per cento i titoli pubblici del sud-Europa che avevano largamente acquistato, stimando che il rischio di averli in portafoglio era divenuto eccessivo.

L'operazione che la Bce metterà in atto tra tre giorni può indurre le banche tedesche, olandesi, austriache, francesi, a tranquillizzarsi per quanto riguarda i titoli italiani e spagnoli che hanno ancora in portafoglio e probabilmente a riprenderne l'acquisto, visto che possono usarli come graditi collaterali per accedere ai prestiti della Bce; un risultato molto importante per "europeizzare" la segmentazione del mercato dei debiti sovrani.

* * *

Lo sblocco del credito e l'eventuale discesa degli "spread" e dei tassi di rendimento costituiscono obiettivi necessari anche se non sufficienti al rilancio della domanda di consumi e di investimenti. Per rendere positivamente influente questo risultato preliminare occorre utilizzare le diseguaglianze come da tempo suggerisce Stiglitz ed altri autorevoli economisti. Utilizzare le disuguaglianze, che sono estremamente aumentate negli ultimi dieci anni in Italia ma anche in Europa e in America, significa tentare di farle diminuire tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud ma anche all'interno delle regioni ricche, non meno diseguali di quelle povere.

Il ministro dello Sviluppo e quello della Coesione territoriale, Passera e Barca, sono gli attori principali di questa strategia che dev'essere messa in campo mobilitando in parte risorse esistenti (lo hanno già fatto sbloccando tre miliardi e mezzo già accantonati ma non utilizzati dal precedente governo e destinati a finanziare infrastrutture in ferrovie, porti, scuole, carceri), ma in gran parte cercandone di nuove. Non si rilancia la crescita a costo zero, salvo le liberalizzazioni che operano a tempo medio-lungo.

Il governo ha avviato la mappatura della "spending review", cioè dei tagli di spesa mirati nei settori dei trasferimenti. Una parte di questi tagli è già contenuta nel decreto e riguarda la sanità. Un'altra fonte, verrà (a tempo medio-lungo) dalla riforma della giurisdizione civile e dall'accorpamento delle strutture giudiziarie inutilmente disseminate sul territorio. Un altro analogo accorpamento riguarda i piccoli Comuni. Ma il grosso concerne l'acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione e la selva dei trasferimenti a sostegno di categorie di imprese, privi di utilità, veri e propri sprechi e regalie elettoralistiche.

Ci sono varie stime su questi possibili tagli di spesa, la più prudente delle quali fissa intorno ai 10-15 miliardi l'ammontare di questi risparmi. In attesa d'una mappatura più attenta e più estesa - che va avviata subito - un taglio limitato agli sprechi più evidenti che frutti nel 2012 la cifra di 10 miliardi sarebbe un passo avanti notevole. Senza dubbio un'altra fonte dovrebbe venire dalla lotta all'evasione che però non si può limitare al tetto del contante spendibile fissato a mille euro. Vincenzo Visco prese provvedimenti molto efficaci a questo proposito e sarebbe oltremodo opportuno che Monti e il suo viceministro del Tesoro, Grilli, lo consultassero e lo imitassero. L'evasione e i tagli alle spese di spreco potrebbero fornire le risorse necessarie a finanziare due obiettivi: il rilancio della domanda e i provvedimenti per rinnovare il welfare con l'occhio ai giovani e ai precari.
I partiti collaborino e sostengano senza se e senza ma perché questo governo non ha alternative.

* * *

Non ha alternative per questa legislatura ma, in quanto governo istituzionale, non ha a mio avviso neppure alternative per il futuro nel senso che, al di là dell'emergenza che lo ha reso necessario, la sua nascita corrisponde ai principi e alla normativa prescritta dalla Costituzione, soverchiata per mezzo secolo dalla partitocrazia.

Questo avevo scritto in precedenti articoli e questo mi è stato rimproverato, con molto garbo, in un articolo di fondo sul Corriere della Sera, di domenica scorsa da Galli della Loggia che vede un errore grave in ciò che avevo scritto sulla natura istituzionale dei governi e sui poteri del Capo dello Stato a questo riguardo.

Della Loggia si è rammaricato che i costituzionalisti non siano finora intervenuti in proposito lasciando il dibattito nelle mani dei giornalisti. Ma ora molti costituzionalisti di notevole prestigio hanno detto la loro: Gustavo Zagrebelsky su questo giornale il giorno stesso in cui della Loggia scriveva la rampogna a me diretta e quindi senza ancora averlo letto; più tardi Capotosti, Onida, De Siervo.

Tutti senza eccezione hanno ritenuto infondati i rilievi mossi dall'editorialista del Corriere nei confronti di Napolitano (e diretti a me che ne sostenevo l'assoluta correttezza costituzionale).

Alcuni di loro tuttavia (e De Siervo in particolare) hanno criticato anche me; la titolarità esclusiva del presidente della Repubblica nella nomina del presidente del Consiglio ignorando i partiti, sarebbe giustificata dall'emergenza ma non lo sarebbe quando si tornasse alla normalità.

Che senso ha questo distinguo? Con tutto il rispetto: nessun senso. Se la procedura di Napolitano è riconosciuta corretta è perché conforme alla Costituzione laddove attribuisce in via esclusiva al capo dello Stato la "nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri".

I partiti, secondo l'articolo 49, "concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale". Cioè - come spiegano i lavori della Costituente - raccolgono il consenso popolare e determinano l'indirizzo politico attraverso i membri del Parlamento che aderiscono a quei partiti. Il governo deve avere la fiducia del Parlamento per nascere e sussistere; il Capo dello Stato, quando nomina il presidente del Consiglio, dovrà dunque preventivamente esser consapevole che la sua scelta dev'essere soddisfacente per la maggioranza parlamentare e quindi interpellerà i gruppi parlamentari per conoscere quale sia il loro "indirizzo politico" il loro programma di legislatura, ricavandone l'identikit del nuovo "premier".

Lo sceglierà lui e il prescelto gli farà le sue proposte in un rapporto fiduciario che passa tra capo dello Stato  -  presidente del Consiglio-ministri.

Questo percorso esclude le famigerate "delegazioni" dei partiti all'interno del governo e impedisce che la partitocrazia deformi gli stessi partiti e la democrazia parlamentare.

Queste sono le procedure corrette, non lo dico io ma lo dice la Costituzione. Si può obiettare che i partiti di maggioranza definiranno "governo amico" e non "loro governo" quello così formato. E' probabile, ma questo sarebbe un ottimo risultato. I governi hanno una maggioranza di riferimento ma sono indipendenti in quanto istituzione così come la maggioranza parlamentare è autonoma nelle sue determinazioni se non altro perché ha il compito di legiferare ma anche di controllare, insieme all'opposizione, il governo e la pubblica amministrazione.

Governo amico: va benissimo così.

(18 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/18/news/scalfari_manovra-26802457/?ref=HRER1-1


Titolo: Eugenio Scalfari e il cardinale Martini ragionano sui nodi ...
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2011, 07:22:42 pm
IL DIALOGO

Il senso della vita nelle parole di Gesù

Eugenio Scalfari e il cardinale Martini ragionano sui nodi che stringono fede ed esistenza terrena.

Due punti di vista partiti da premesse diverse cercano nella giustizia nella carità e nel perdono una prospettiva comune

di EUGENIO SCALFARI


IN FONDO ad un lungo corridoio una porta a vetri si apre su una piccola stanza dove scorre il tempo di Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, biblista, pastore di anime e di coscienze, cardinale di Santa Romana Chiesa. Siede su una poltrona accanto ad una finestra dalla quale si vedono un pezzo di cielo e un cipresso.

Accanto a lui c'è il suo assistente, don Damiano, che è quasi la sua ombra, lo aiuta a muoversi, gli somministra le medicine alle ore stabilite, lo accompagna nei suoi spostamenti ormai rari. Non è frequente che un gesuita diventi cardinale e ancor meno frequente che sia stato alla guida della diocesi più importante d'Europa, ma Martini è un'eccezione per tante cose ed anche per la sua carriera ecclesiastica.

A me è capitato di vedere molto da vicino i gesuiti in una fase particolare della mia vita: avevo vent'anni, era il 1944, Roma era occupata dai nazisti; i giovani di leva e gli ebrei erano ricercati dalle SS, la polizia militare del Reich, ed io trovai rifugio insieme ad un centinaio di altri giovani nella Casa del Sacro Cuore dove i gesuiti gestivano i cosiddetti "esercizi spirituali". Duravano al massimo una settimana, ma nel nostro caso durarono più d'un mese. La Casa era extra-territoriale, con bandiera del Vaticano alla finestra e guardie palatine al portone.
 
Poiché, come ci disse il padre rettore, i gesuiti non dicono bugie, gli esercizi spirituali dovemmo farli in piena regola sebbene tra di noi ci fossero molti ebrei e alcuni non
credenti.

Per me fu una preziosa esperienza anche perché il rettore era padre Lombardi, un prete di notevole personalità e grande finezza intellettuale cui in seguito fu dato il soprannome di "microfono di Dio" per le sue attività che a dire il vero erano più politiche che pastorali.

I gesuiti che conobbi in quell'occasione e che guidavano le "meditazioni", celebravano la messa e le altre funzioni religiose che costellavano la nostra giornata, li osservai con molta attenzione; il rettore, quando ci separammo, mi propose addirittura di iscrivermi all'Università Gregoriana, eravamo entrati in confidenza ed anche in polemica durante una serie di dibattiti su Sant'Agostino e su San Tommaso.

Ricordo queste vicende personali per dire che i gesuiti che conobbi allora non somigliavano in nulla a Carlo Maria Martini. Erano molto accoglienti e amichevoli, ma piuttosto arcaici nel loro modo di considerare la religione; Martini invece è pienamente coinvolto nella modernità di pensiero. Quanto all'intensità della fede, non sta certo a me misurarla; dico solo che la fede di Martini ti fa pensare perché emerge dal suo profondo; quella che si respirava al Sacro Cuore aveva invece un sentore di sacrestia piuttosto sgradevole per chi come me la fede non ce l'ha e neppure sente il bisogno di cercarla.

Vi domanderete allora quale sia la ragione per la quale io frequenti Martini e lui accetti di buon grado questa frequentazione. La mia risposta è che siamo sulla stessa lunghezza d'onda, ci sentiamo in sintonia l'uno con l'altro e il motivo probabilmente è questo: ci poniamo tutti e due le stesse domande: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Sembrano essere diventante un luogo comune queste domande e forse lo sono, ma continuano a costituire la base d'ogni filosofia e d'ogni conoscenza. Le nostre risposte spesso differiscono ma talvolta coincidono e quando questo avviene per me è una festa e spero anche per lui.

Il nostro di oggi è il quarto incontro che ho avuto con lui; è il 6 dicembre, fuori piove, siamo nella casa di riposo della Compagnia di Gesù a Gallarate in un edificio che fu donato alla Compagnia una cinquantina d'anni fa dalla famiglia Bassetti. Gli incontri precedenti sono avvenuti nel 2009 e nel 2010, ma il primo fu un dibattito che avvenne a Roma alla fine degli anni Ottanta a palazzo della Cancelleria, organizzato da don Vincenzo Paglia, della comunità di Sant'Egidio.

Il cardinale è ammalato di Parkinson, è lucidissimo, ma cammina con difficoltà. Da qualche tempo il male gli ha molto affievolito la voce che è diventata quasi un soffio, ma don Damiano ha imparato a leggere dal movimento delle sue labbra le parole senza voce e le traduce per renderle comprensibili.

Il nostro colloquio qui trascritto è stato rivisto dal cardinale: le difficoltà della comunicazione rendevano necessario il suo "imprimatur".

Scalfari Vorrei cominciare il nostro dialogo da un nome e dalla persona che lo portava: Gesù. Per me quella persona è un uomo nato a Betlemme, dove i suoi genitori Giuseppe e Maria che vivevano a Nazareth si trovavano occasionalmente il giorno e la notte del parto. Per lei, eminenza, quel bambino è il figlio di Dio. Sembrerebbe che la differenza tra noi su questo punto sia dunque incolmabile. Eppure è proprio quel nome che ci unisce. Lei lo chiama Gesù Cristo, io lo chiamo Gesù di Nazareth; per lei è Dio che si è incarnato nel Figlio, per me è un uomo che è creduto essere il Figlio e in quella convinzione ha vissuto gli ultimi tre anni della sua vita, gli anni della predicazione e poi della "passione" e del sacrificio. Ma la predicazione è appunto quel tratto della sua vita che ci unisce. Ho pensato molto all'incontro di due persone già avanti negli anni che vengono da educazioni, culture e percorsi di vita così diversi che sono desiderosi di conoscersi sempre più e sempre meglio. Ha un senso tutto questo? Qualche volta penso che lei speri di convertirmi, di farmi trovare la fede. Questo rientrerebbe nei suoi compiti di padre di anime. È questo che lei si propone?

Martini No, non penso di convertirla anche se non possiamo escludere né io né lei che ad un certo punto della sua vita la luce della fede possa illuminarla. Ma questa è un'eventualità che riguarda solo lei. Lei cerca il senso della vita. Lo cerco anch'io. La fede mi dà questo senso, ma non elimina il dubbio. Il dubbio tormenta spesso la mia fede. È un dono, la fede, ma è anche una conquista che si può perdere ogni giorno e ogni giorno si può riconquistare. Il dubbio fa parte della nostra umana condizione, saremmo angeli e non uomini se avessimo fugato per sempre il dubbio. Quelli che non si cimentano con questo rovello hanno una fede poco intensa, la mettono spesso da parte e non ne vivono l'essenza.

La fede intensa non lascia questo spazio grigio e vuoto. La fede intensa è una passione, è gioia, è amore per gli altri ed anche per se stessi, per la propria individualità al servizio del Signore. Il Vangelo dice: ama il tuo prossimo come ami te stesso. Non c'è in questo messaggio la negazione dell'amore anche per sé, l'amore  -  se è vera passione  -  opera in tutte le direzioni, è trasversale, è allo stesso tempo verticale verso Dio e orizzontale verso gli altri. L'amore per gli altri contiene già l'amore verso Dio. Lei ama gli altri?

Scalfari Non sempre, non del tutto. Mentirei se dicessi che amo gli altri con passione come amo alcune persone a me vicine e mentirei se dicessi che l'odio è un sentimento a me ignoto. Detesto l'ingiustizia e odio gli ingiusti. I diversi da me li tollero e in qualche caso li amo pensando che la loro diversità sia ricchezza. Ma gli ingiusti no.
Martini Forse lei ricorderà che sul tema dell'ingiustizia abbiamo molto discusso nel nostro precedente incontro.
Scalfari Lo ricordo benissimo. Io le domandai quali fossero i peccati più gravi e lei mi rispose che la precettistica della Chiesa enumera una serie di peccati numerosa. In realtà  -  mi disse e io l'ho trascritto fedelmente nell'articolo che feci dopo quel nostro incontro  -  il vero peccato del mondo è l'ingiustizia, dal quale gli altri discendono.

Martini Sì, lei ricorda bene, dissi così. Ma forse non approfondimmo abbastanza che cosa intendevo con la parola ingiustizia.

Scalfari Può spiegarlo adesso.

Martini Ebbene l'ingiustizia è la mancanza di amore, la mancanza di perdono, la mancanza di carità e il sentimento di vendetta.

Scalfari Lei mi disse anche che il sacramento della confessione e della penitenza, fondamentale per i cristiani, non è più vissuto e praticato come dovrebbe essere.

Martini La penitenza non è quella di recitare dieci "paternostri" ma scoprire la bellezza della carità e metterla in pratica.

Scalfari Mi ricorda il pentimento dell'Innominato del Manzoni nei Promessi sposi....

Martini La lotta contro l'egoismo è molto lunga.

Scalfari Ne deduco che il Creatore ha creato un mondo ingiusto.

Martini Il Creatore ha donato agli uomini la libertà. Essa può generare la solidarietà verso gli altri, ma anche l'egoismo, la sopraffazione, l'amore verso il potere. Ho letto il suo ultimo libro, lei parla di queste cose.
Scalfari Sì, anch'io penso che l'istinto d'amore pervada la vita delle persone ma abbia diverse dimensioni e direzioni. Lei lo chiama amore, io lo chiamo eros, lei chiama il bene carità ed io lo chiamo sopravvivenza della specie, cioè umanesimo. Mi sembra che con parole diverse diciamo la stessa cosa. Gesù, per quanto capisco, tentò il miracolo di cancellare l'amore per se stessi, ma quel miracolo non riuscì.

Martini Gesù non tentò di cancellare l'amore per se stessi, anzi lo mise come misura per l'amore degli altri.
Scalfari Io penso che la vita sia cominciata da un essere monocellulare e poi sia andata vertiginosamente avanti secondo l'evoluzione naturale. Noi abbiamo una mente riflessiva che ci consente di pensare noi stessi e di vedere le nostre azioni, ma nell'economia dell'Universo siamo un piccolo evento: così è nato il mondo e noi tutti e così scomparirà. A quel punto nessun'altra specie sarà in grado di pensare Dio e Dio morirà se nessun essere vivente sarà in grado di pensarlo. Noi non siamo una regola, noi siamo un caso, una specie creata dalla natura, come credo io, o da un dio trascendente come crede lei. Spinoza dice: Deus sive Natura, oppure anche Natura sive Deus. Lei sa che questa concezione della divinità, così intensa come lei ha, sconfina nell'immanenza? Una scintilla di Divinità sta dunque in tutte le creature viventi ed è appunto la vita.

Martini Lei mi domandò nel nostro precedente incontro che cosa io pensassi dell'affermazione del teologo Hans Küng che sostiene la fede verso la vita come la condizione preliminare e necessaria per arrivare alla fede in Dio. Lo ricorda?

Scalfari Sì, ricordo anche che lei era d'accordo con quell'affermazione.

Martini È vero e lo si vede osservando un bimbo appena nato il quale si affida nelle mani dei genitori totalmente. Anche lei è venuto qui nella fiducia che non avrebbe trovato nessuno con un fucile spianato. Questa è una forma primaria di fede.

Scalfari Chiaro. Lei ha detto in un suo scritto che è un errore affermare che Dio sia cattolico.

Martini Sì, l'ho detto. Dio è il Padre di tutte le genti, quindi apporgli l'aggettivo cattolico è limitante.

Scalfari Ammetterà tuttavia che il monoteismo cristiano è assai diverso da quello ebraico e anche da quello dell'islam. In quelle religioni la Trinità sarebbe considerata eresia inconciliabile con il Dio unico. In quelle religioni il Dio unico è innominabile e non raffigurabile, per i cristiani invece ha il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ed è stato dipinto e scolpito per millenni. La storia dell'arte occidentale è in gran parte la storia di Dio, del Figlio, della madre del Figlio, dei Santi. Si può dire che il cristianesimo è una religione monoteista? Oppure storicamente è una religione ellenistica?

Martini La Trinità è Dio-comunione. Il Figlio è la Persona con cui il Padre si manifesta agli uomini. Forse il modello "ontologico" con cui si è pensata la Trinità fino ad oggi dovrebbe cedere il passo al modello "relazionale" che aiuterebbe meglio anche il dialogo orizzontale. Quanto ai Santi, non sono solo intermediari tra noi e Dio ma anche testimoni del bene e forse la Chiesa ne ha canonizzati troppi.

Scalfari Dunque quando la nostra specie scomparirà e quando il giudizio universale sarà avvenuto il Figlio non avrà più ragion d'essere e lo Spirito santo neppure.

Martini Non esattamente, il Figlio sarà la beatitudine delle anime che vivranno nella luce.
Scalfari Senza memoria del sé terrestre che hanno abbandonato?
Martini Noi uomini non siamo in grado di sapere queste cose, di conoscere l'aldilà. Sappiamo però che Paolo dice che la Carità non avrà mai fine. Quindi supponiamo che riconosceremo ciò che abbiamo vissuto nell'amore.
Scalfari Dio è il padre di tutte le genti, ma la Chiesa ha fatto del Dio cattolico anche una bandiera d'identità, di guerra e di stragi.
Martini Quando ha fatto questo ha sbagliato. La Chiesa, come tutte le istituzioni terrene, contiene il bene ed il male ma è depositaria di una fede e di una carità molto grandi. Anche Pietro rinnegò.
Scalfari Forse è troppo istituzione.
Martini Forse è troppo istituzione.
Scalfari Forse è troppo dogmatica.
Martini Direi in un altro modo: l'aspetto collegiale della Chiesa è stato troppo trascurato. Secondo me questo punto andrebbe profondamente rivisto.

La conversazione dura ormai da oltre un'ora. Guardo don Damiano in modo interrogativo e lui mi fa di sì con la testa. Dico al cardinale che è arrivata l'ora di congedarmi. "Ma le faccio un'ultima domanda: che cosa pensa dei fatti politici italiani di questi ultimi mesi? La Chiesa, dopo un silenzio troppo lungo, mescolato con alleanze oltremodo discutibili, ha infine chiesto con il cardinale Bagnasco che venisse ripulito il fango che ha imbrattato l'etica pubblica. È d'accordo con questa posizione?".

Martini Sono d'accordo. In Italia esiste una cattolicità avvertita e consapevole e ci sono anticorpi preziosi che alla fine si manifestano contribuendo a recuperare il bene anche nella sfera dove si amministra il potere.

Mi alzo. Anche lui si alza aiutato da don Damiano. Ci abbracciamo. Lui mormora qualcosa e don Damiano traduce: "Ha detto che prega spesso per lei". Io rivolgendomi a lui gli dico: "Io la penso molto spesso, è il mio modo di pregare". Lui si avvicina al mio orecchio e con un filo di voce dice: "Prego per lei, e anch'io la penso spesso", sorride e mi stringe la mano. Forse voleva dire che pensare l'altro è più che pregare. Io almeno ho capito così.
 

(24 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/12/24/news/scalfari_martini_ges-27141465/?ref=HREC1-10


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come il soggetto plasma l'oggetto
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2011, 07:02:02 pm
Come il soggetto plasma l'oggetto

di Eugenio Scalfari

La stessa casa può diventare tutt'altra cosa quando ad abitarla è una persona diversa. Perché chi ci vive dà ad essa la sua impronta. È così che siamo di volta in volta contenitore e contenuto. Come insegnano i filosofi

(15 dicembre 2011)

La discussione sull'oggetto e sul soggetto, il loro contrastato rapporto, i fatti e l'interpretazione dei fatti, ha illuminato per millenni la filosofia, anzi è stato ed è la filosofia se con questa parola d'origine greca si vuole dire l'amore per la conoscenza.

Tanto più accesa è diventata la discussione quando la modernità ha messo l'io in primo piano identificandolo con la soggettività. La modernità, a partire da Giordano Bruno e da Montaigne ha scardinato l'oggettività fino al punto di negarla. Kant, teorizzando la "cosa in sé" e la sua incomunicabilità, ha isolato i soggetti l'uno dall'altro; altrettanto aveva teorizzato Leibniz recuperando la comunicazione delle monadi attraverso la trascendenza del Creatore; Nietzsche aveva distrutto ogni architettura sostituendo ai fatti una rete infinita di interpretazioni.
Queste considerazioni mi sono venute in mente pensando al rapporto che ciascuno di noi ha con gli oggetti che lo circondano, con le case che li contengono e contengono anche noi. Pensate fino a che punto ciascuno di noi si affeziona alla casa in cui vive e in quelle nelle quali ha vissuto nel corso della vita, alle altre persone che insieme con lui hanno abitato in quella casa, gli animali domestici che vi hanno fatto compagnia, i quadri alle pareti, i tappeti stesi sul pavimento, la vista che si gode dalle finestre e dai balconi, i libri che riempiono gli scaffali e che segnano il percorso della vostra mente e della vostra fantasia.

C'è uno strano rapporto tra noi e le nostre case perché è vero che noi siamo fisicamente loro ospiti, ma ne siamo anche i padroni e siamo noi che a nostro piacimento le riempiamo di altri ospiti che con noi convivono, siamo noi ad arredarne le stanze. Se cambia il padrone cambia anche la casa pur restando la stessa nelle strutture portanti e nella sua architettura.

A me è capitato qualche volta di aver ceduto la casa a persone amiche ed esserci tornato in visita dopo qualche tempo avendone un'impressione di estraneità: la casa non era più la stessa, quasi non la riconoscevo. Ma nella mia memoria restava intatta e mi riportava alle persone che con me vi avevano abitato, al cane che si accucciava ai miei piedi davanti al camino acceso (i nuovi padroni quel camino l'avevano eliminato), alla mia scrivania colma di carte, alla parete coperta di scaffali pieni di libri fino al soffitto e alla scala che correva su un regolo di ferro per consultare gli scaffali più alti. Al suo posto ora i miei amici avevano messo un arazzo molto bello di manifattura cinese che trasformava l'intera stanza.

Ricordo queste sensazioni per dire che nella mia memoria la casa non era quella. Nella mia memoria viveva un'altra casa legata alla mia storia e alle persone che ancora vivono con me o sono scomparse ma tornano a me insieme a quelle stanze, a quegli oggetti, a quegli odori che mi par di sentire quando il pensiero me li ripropone.
Vedete come è complesso il rapporto tra l'oggetto e il soggetto. La casa in quanto edificio esiste (finché esiste) e sarebbe insensato negarlo; ma in questa visione e ricordo non è lei che mi contiene, sono io che la contengo, la costruisco e la ri-costruisco, come ieri la vissi e come oggi la rivivo e non è affatto sicuro che la mia ricostruzione sia fedele a quella che allora era la realtà. La vita scorre e cambia cose e persone, fatti e memoria dei fatti, oggetti e soggetti e noi siamo di volta in volta un soggetto che agisce e un oggetto che da altri è agito, un contenitore e un contenuto.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Caro amico Giorgio Bocca una vita insieme alla tua fantasia
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2011, 07:35:41 pm
LA MEMORIA

Caro amico Giorgio Bocca una vita insieme alla tua fantasia

di EUGENIO SCALFARI


È STATA l'ultima volta che l'ho visto, era il 6 dicembre scorso, le 11 del mattino e lui stava seduto alla sua scrivania, pallidissimo, il volto scavato con le ossa della fronte, degli zigomi e delle mascelle coperte dalla pelle e gli occhi fissi davanti a sé che guardavano il vuoto. Gli chiesi se avesse dolore in qualche parte del corpo, rispose "No, nessun dolore". "Questo è un buon segno  -  gli dissi mentendo  -  ma come ti senti?", mi guardava senza alcuna espressione, poi la bocca accennò un sorriso. La risposta fu "non ci sono". La moglie Silvia si era seduta accanto a lui, gli carezzò lievemente la guancia e quasi per cambiar discorso disse: "Per pranzo gli ho preparato la luganiga, gli piacciono quelle salsicce cotte nel vino". "Ma le può mangiare?", "Le assaggia".

Gli domandai se leggeva i giornali. Rispose: "Non c'è niente da leggere". Insistei: "La politica ti interessa sempre?". Rispose: "Non c'è politica". Poi fu lui a chiedermi: "Tu come fai a scrivere ancora?". Risposi che il mestiere, se lo hai imparato fin da ragazzo, è lui che ti porta sulle spalle e tu vai avanti senza fatica. Lui commentò "per me il mestiere non c'è più, se n'è andato prima di me ma l'attesa ormai sarà breve". Poi si voltò verso Silvia e lei mi disse che era stanco. Mi alzai, andai verso di lui e ci baciammo. "Tornerò presto". "Non mi troverai, non venire, sarebbe inutile".

Sono uscito con una grande tristezza in cuore. Ora l'amica del destino è arrivata all'appuntamento e ha portato via la sua spoglia ma l'anima se n'era già andata e lui me l'aveva detto: non ci sono più. Per quanto mi riguarda continuerà a vivere finché vivrò. La memoria serve anche a questo: tiene vive le persone che ci sono state compagne di vita, di pensiero, di progetti e con le quali abbiamo discusso, litigato, gioito, sperato.

* * *

Giorgio è stato un grande giornalista, un grande cronista e un grande scrittore. Non era un letterato ma uno scrittore sì, dei vezzi letterari non aveva bisogno, era la fantasia a muovergli la mano e la penna. Vedeva i fatti, i luoghi, i personaggi e li raccontava, ma la fantasia li associava ad altri personaggi, ad altri luoghi e ad altri fatti. Passava da un tempo ad un altro e da un luogo ad un altro luogo senza separarli neppure con un "a capo", neppure con un punto, al massimo una virgola. La fantasia fa di questi miracoli e lui, sotto la maschera del contadino e del provinciale, sentiva e raccontava l'avventura delle persone, poi all'improvviso alzava gli occhi verso il cielo e descriveva le stelle come intermezzo e poi tornava a raccontare la storia d'un bandito o d'un corruttore, d'un mondo dove i leoni avevano lasciato il posto alle volpi e alle faine.

Io gli ho voluto molto bene. Lui non so, era burbero nei modi e anche chiuso in sé quanto io ero aperto. "Tu vuoi sedurre la gente  -  mi diceva  -  e capisco che questo è il tuo mestiere". Un giorno mi disse che ero un cinico. Un altro giorno che la mia presenza gli dava sicurezza. Era insicuro e timido, Giorgio Bocca, ma puro come il diamante. A vederlo da fuori tutto avresti pensato fuorché fosse impastato di fantasia, che avesse un mondo fantastico dentro di sé e invece era proprio così e basta leggere le prime pagine del "Provinciale"  -  forse il più bello dei suoi libri  -  per capirlo.

* * *

Tra le mille inchieste, interviste, cronache di guerra e di dolorosa pace, ricordi di vita partigiana che Giorgio ha pubblicato in libri e giornali, dall'Europeo al Giorno, e poi su Repubblica, è difficile scegliere.
Da noi venne fin dal primo giorno della fondazione e c'è rimasto fino a ieri, è durato 36 anni questo sodalizio. È incredibile la sua scrittura. Per la professione che faccio ho letto migliaia di articoli e le firme di chi vi scriveva sono state tra le più pregiate. I confronti sarebbero impropri, ognuno aveva la sua cifra, il suo stile, ognuno la sua visione della vita e del Paese. Ma quello di Bocca è stato unico. Pensava, vedeva, raccontava, si indignava, si innamorava dei personaggi, li faceva rivivere e vivere sulla pagina.

Tra i tanti luoghi che ha visto il Sud è stato una passione. Aveva in testa racconti di banditi, liturgie di iniziazione alla mafia e alle "'ndrine", violenze, soprusi, corruzione, ma anche gli antichi insediamenti della Magna Grecia, Sibari, Crotone, Agrigento, Locri e Ulisse, il mare azzurro di Scilla e Cariddi, le coste ioniche, Pitagora, il ratto di Proserpina, gli aranceti, le spiagge a perdita d'occhio. E il cielo. Un cielo blu da Croce del Sud che invece era quello dell'Orsa Maggiore e delle costellazioni di questa parte del pianeta, le Pleiadi, Orione, Andromeda.
Quel cielo blu sopra di lui gli ispirava il ricordo di Omero e di Odisseo che naviga tra l'isola di Circe e quella di Calipso. Ma poi lasciava all'improvviso quel mondo di fantasia, s'arrampicava per i sentieri dell'Aspromonte e raccontava i mafiosi, le donne matriarcali, i pastori, la cosca di Mommo Piromalli e infine i bronzi di Riace, apollinei nelle loro posture guerriere.

Ho riletto, proprio dopo il nostro ultimo incontro di Milano, alcune delle sue inchieste tra le quali quelle che intitolammo "Aspra Calabria", scritta oltre vent'anni fa. L'inizio è sbalorditivo. È in Calabria e deve raccontare per i nostri lettori che cosa è l'Aspromonte, i suoi borghi arrampicati, le tane dove sono imprigionati per mesi e anni i rapiti. E invece comincia così: "Nel 1968 a Saigon, Vietnam, alloggiavo all'hotel Metropole, in una stanza liberty color avorio, solo il geco incollato sul muro mi ricordava che ero nel lontano sudest asiatico. Nella sala da pranzo camerieri in giacca bianca servivano "tournedos" alla Rossini e volendo lo chef ci faceva le "crepes" alla fiamma. Poi uscivo e a duecento metri passavo lungo la caserma dei rangers vietnamiti, con le porte e le finestre murate perché non si vedessero e non si sentissero i prigionieri vietcong chiusi nelle gabbie di bambù, corpi martoriati dalle torture sotto i pigiami neri".

Ma che cosa scrive? È matto? È andato a raccontare l'Aspromonte e descrive l'hotel Metropole e le gabbie dei vietcong. Ah, non conoscete Giorgio Bocca. Va a capo e scrive: "Oggi, 1992, sono in un hotel della Locride e posso vedere di qui l'Aspromonte" e continua "in questi boschi c'è un uomo, il giovane Celadon, che da due anni sta in una tana alta mezzo metro e quando lo fanno uscire deve star lì, sulla buca della tana, legato a una gamba con una catena come un maiale".

E da lettore ormai sei avvinto da quel racconto, ci sei entrato dentro fino al collo, ti sembra di leggere un romanzo di uomini d'avventura, guardie e ladri, corrotti e corruttori, un Hemingway, ma no, un Conrad che scrive sul cuore di tenebra. E invece stai leggendo il "reportage" d'un giornalista che s'è arrampicato fino a Platì, poi scenderà a Taurianova, a Gioia Tauro, poi risalirà di nuovo sulla montagna e intanto fruga nella memoria e rivede Saigon e una guerra spaventosa, ma quella guerra è finita e Saigon è ora una città moderna e ricca, ma qui questa guerra primitiva non finisce mai. Ieri leggevate Bocca, oggi leggete Saviano. Mafia, 'ndangheta, camorra sono sempre là da un secolo e mezzo. Solo che oggi da Platì e dagli altri borghi-rifugio gli ordini e gli affari arrivano a Milano, a Marsiglia, ad Amburgo, a Bogotà, a Tokyo, in Kosovo, in Montenegro, a Mosca. Si commercia la droga, si comprano i casinò di Las Vegas, fabbriche in Brianza, ristoranti a Roma, aree fabbricabili a Firenze e a Brescia. Il volume degli affari supera i 200 miliardi l'anno. Ma i capi vivono ancora nei tuguri sulla montagna o scontano il carcere duro e continuano a mandare ordini, a comandare, a governare il commercio insieme a tutte le mafie del mondo, mentre i figli e i nipoti parlano le lingue, sono seguiti da uno stuolo di avvocati e discutono di fidi e di prestiti con le banche e le fondazioni nei Caraibi, nel Liechtenstein, a Zurigo e a Miami.

Dopo due anni da quella sua inchiesta arrivò un altro tsunami, sembrava un intermezzo da cabaret, Berlusconi, Dell'Utri, Previti, il partito dell'amore, il contratto con gli italiani, le televisioni, le paillettes e le escort.
I Piromalli e i Macrì sono sempre lì e il cabaret è gestito da una cricca "money money money", un vecchio satiro nel Palazzo e una certa Italia che recita la giaculatoria "meno male che Silvio c'è". Ma noi continuiamo a pensare che alla fine la brava gente vincerà e il mistero doloroso diventerà un mistero gaudioso. Così è stato e finalmente quella cricca ha fatto le valigie, cacciata dagli italiani di buona volontà ma anche da una tempesta che minaccia di travolgere un Paese impreparato ad affrontarla.

Giorgio Bocca s'è battuto per tutti questi anni affinché l'Italia si rialzasse dal letamaio ed ha anche visto il finale di quella drammatica farsa. Poi se n'è andato anche lui che si considerava un anti-italiano perché detestava l'Italia che aveva sotto gli occhi.

Io ti ricorderò sempre, caro amico e compagno, tu la tua guerra partigiana non hai cessato mai di combatterla e ora hai il diritto di riposare in pace.

(27 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/27/news/l_amicizia_di_una_vita-27248451/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel gran genio dell'Umberto
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2012, 11:14:48 am
Opinione

Quel gran genio dell'Umberto

di Eugenio Scalfari

Eco compie ottant'anni. Quando scrive di semiologia è imbattibile. E i suoi romanzi sono esempi di sapiente ricerca, fantasia e presa narrativa. Gli manca solo la poesia. Ma per i 90 chissà...

(03 gennaio 2012)

Umberto Eco compie ottant'anni. Li porta benissimo, di corpo e di mente. E' un po' ingrassato e si è tagliato la barba, ma la sua mobilità - fisica e creativa - con gli anni è aumentata invece di diminuire. Schizza di continuo in tutte le direzioni del mappamondo. Interviene a convegni culturali, insegna con "lectio magistralis" in decine di Università, vince premi, scrive libri, prolusioni, romanzi, firma manifesti politici, acquista "aldine" cinquecentesche, trattati rari di alchimia e di negromanzia, le storie dei Templari e dei Rosacroce, gioca col computer ogni giorno. I generi letterari li ha frequentati tutti, gli manca solo la poesia e non escluderei che quando festeggerà i suoi novant'anni anche ballate, sonetti e versi liberi svincolati dalla metrica saranno entrati nel suo repertorio. La "Bustina" della scorsa settimana sui versi di Montale prelude a una nuova vocazione? Sarebbe una novità clamorosa alla quale mi piacerebbe assistere.

Lo conosco dai primi anni Sessanta e da allora ha sempre collaborato ai giornali del nostro gruppo, all'"Espresso" e poi anche a "Repubblica". Quando, per il troppo lavoro che portava avanti, decise che la sua "Bustina di Minerva" diventasse quindicinale anziché settimanale, toccò a me condividere la sua quindicina e da allora ci alterniamo su questa pagina.

Ci siamo voluti bene e frequentati per molti anni quando eravamo giovani. Da vecchi la frequentazione è diminuita, abitiamo in città diverse e lui fa il giro del mondo una volta al mese o giù di lì. Politicamente la pensiamo allo stesso modo. La semiologia è un suo dominio e io mi guardo bene dall'entrarci sebbene sia una scienza della comunicazione che professionalmente mi riguarda. La scrittura invece è materia di tutti e due. E bene, è sulla sua scrittura che voglio intrattenervi nel giorno del suo compleanno.

Quando scrive della sua materia è imbattibile, prosa asciutta e chiarissima, non priva di qualche ironia; spesso sconfina nella filosofia che è un'altra delle sue passioni, ma lo sconfinamento è pertinente perché la semiologia è la scienza dei segni e del linguaggio e il linguaggio ha un rapporto strettissimo col pensiero, con la logica e con l'estetica.

A un certo punto della sua vita decise di cimentarsi col romanzo. Nessuno se lo aspettava, nemmeno lui. Ha poi raccontato che "Il nome della rosa" nacque per puro caso: stava facendo ricerche filologiche su alcuni codici antichi, la ricerca lo portò in un convento benedettino dove gli raccontarono alcune leggende che partivano dalla religione e finivano nel giallo. Se ne appassionò e ne venne fuori uno dei libri più venduti al mondo, con edizioni in tutte le lingue e in tutti i continenti, un film di successo e l'ingresso di quel titolo tra i classici.

Da lì partì una collana narrativa dove la sua fantasia si sbrigliò creando personaggi fuori dall'ordinario, collocati in luoghi improbabili e animati da desideri inconsueti. Al centro di questo percorso c'è la regina Luana e i fumetti della sua e della nostra infanzia; il prodotto finale è stato "Il cimitero di Praga", un giallo in piena regola dove si intrecciano molte storie e si muovono personaggi protagonisti di doppie e triple vite. Si direbbe una ricerca dell'ubiquità e dell'onnipresenza, che conduce al confronto col mistero e con la morte.

La struttura narrativa di tutti i suoi romanzi ha il suo punto di riferimento nel "Bouvard et Pécuchet" flaubertiano: mentre racconta le sue storie l'attenzione dell'autore è tutta rivolta all'analisi del meccanismo romanzesco, la trama è un pretesto che serve ad accompagnare i lettori dentro un ingranaggio continuamente montato e rismontato sotto i loro occhi senza allentare la presa narrativa e il giallo che ne è l'ingrediente principale. Da questo punto di vista "Il cimitero di Praga" rappresenta il culmine di questa sapiente ricerca.

Una volta scrissi a Umberto tutto il bene che pensavo dell'opera sua di scrittore e di scienziato con una riserva: nei suoi romanzi non trovavo poesia. Forse la mia riserva era ingiusta: in alcune pagine della "Rosa" di poesia ce n'è molta. Lui si arrabbiò e mi dette del crociano tardivo. Io a mia volte risposi piccato. Poi tutto finì con reciproche scuse e ininterrotta amicizia. Festeggiamo i tuoi ottant'anni, caro Umberto. Avendo sorpassato quell'età da parecchi anni posso assicurarti che sei ancora giovane ed hai molta strada da fare e molte pagine da farci leggere che accresceranno i nostri saperi e stimoleranno i nostri pensieri.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quel-gran-genio-dellumberto/2170205/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Italia guida la battaglia salva-Europa
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:27:35 am

IL COMMENTO

L'Italia guida la battaglia salva-Europa

di EUGENIO SCALFARI

Abbiamo più volte osservato che Mario Monti non è un tecnico ma un uomo politico di grande livello, attento alle relazioni con la società civile, con le organizzazioni sindacali e con le forze politiche. Ma sta rivelando un'insolita capacità nella politica estera, applicata principalmente ai temi che riguardano l'economia e agli strumenti finanziari che ne costituiscono la leva; ma non soltanto.

La politica estera di Monti mira più in alto. L'obiettivo finale, se riuscirà nel suo intento, si propone di rafforzare un potere federale europeo che, pur mantenendo in vita i governi nazionali, ne restringa la sovranità e modifichi la distribuzione dei poteri all'interno delle istituzioni europee, accrescendo quelli del Parlamento di Strasburgo, della Commissione di Bruxelles e della Banca centrale.

Questo disegno appare ormai chiaro e passa per l'attenzione che il nostro "premier" sta dedicando alle alleanze politiche all'interno dell'Unione con gli altri Paesi dell'eurozona ma anche al di fuori di essa a cominciare dalla Gran Bretagna. Questa rete diplomatica non ha come finalità quella di stringere e di costringere la Germania a piegarsi - obiettivo impensabile - ma di rassicurarla e convincerla che un'Europa forte coincide con una Germania forte, economicamente e politicamente.

Questo è il motivo del prezzo che l'Italia ha salatamente pagato nelle scorse settimane con la legge "salva Italia" di marca rigorista.

Era necessaria per salvare il nostro Paese dal baratro, ma anche per procurarsi un biglietto d'ingresso al vertice dell'Europa. Quella legge potrebbe a buon diritto chiamarsi "salva Europa" poiché il peso del nostro Paese nel concerto dei 27 Stati dell'Unione non è mai stato così determinante come oggi, specie se abbinato alle capacità di Monti, politiche ed economiche, che non hanno riscontro negli altri leader europei.

La durezza rigorista della Merkel aveva l'obiettivo di rassicurare l'opinione pubblica tedesca che la Germania non avrebbe pagato il conto dei Paesi spendaccioni. Ci è riuscita recuperando una popolarità che supera il 60 per cento, preziosa in una fase di elezioni regionali che culminerà nel 2013 nelle elezioni politiche generali.

Ma la Cancelliera non ignora che il rigore dei bilanci è parola vana se non è abbinato a politiche di crescita in tutta l'Unione, poiché da quella politica dipendono le esportazioni tedesche, gli investimenti e la creazione di nuovi posti di lavoro che ne sono il corollario.

In alcune riunioni informali ma informalmente rese note la Merkel ha più d'una volta manifestato la sua consapevolezza di queste realtà e ne è tanto più convinta a causa del rischioso intreccio che mette in pericolo alcune banche tedesche imbottite di titoli tossici. Ma ha trovato in Sarkozy un partner inutilmente impulsivo e anche lui condizionato dalle imminenti elezioni presidenziali.

La scommessa di Monti consiste nella necessità di un terzo protagonista che non ha condizionamenti pre-elettorali e per di più superiore ai due partner per le sue specifiche competenze, a patto che l'appoggio parlamentare delle forze politiche italiane, delle organizzazioni sindacali e della pubblica opinione sia il più compatto possibile. La sua autorevolezza si fonda sulla fiducia degli italiani e sulla distanza dall'appuntamento elettorale. Un anno scarso perché con l'inizio del semestre bianco (gennaio 2013) anche qui da noi la campagna elettorale avrà inizio e le prerogative del Quirinale saranno affievolite. Ecco perché Monti deve agire con la massima velocità ed ecco perché, se gli italiani saranno consapevoli della posta in gioco, il loro appoggio non può essergli lesinato.

* * *
La settimana che si chiude oggi è stata purtroppo funestata da alcuni fatti non prevedibili ed altri al di fuori dal controllo del nostro governo: l'Sos del "premier" greco per un rischio di default del debito che sembrava superato ma è tornato a manifestarsi con virulenza (anche per una improvvisa diminuzione delle entrate tributarie che desta il fondato sospetto d'uno sciopero dei contribuenti e d'un consapevole lassismo del governo); l'incidente (chiamiamolo così) ungherese, il crollo della sua moneta e del suo debito sovrano; la prolungata attesa delle banche europee e italiane ad utilizzare la massiccia iniezione di liquidità della Bce; le perdite in Borsa registrate dal titolo Unicredit in occasione dell'aumento di capitale da sette miliardi imposto dall'autorità bancaria europea (Eba).

L'andamento borsistico di Unicredit denuncia una situazione cui bisognerebbe porre rapido rimedio: le grandi banche italiane dipendono dal controllo delle Fondazioni che sono strutturalmente inadatte ad adempiere a questo delicatissimo compito. Occorre sostituirle al più presto riportandole alle loro attività statutarie e affidando la proprietà di banche ad un azionariato più idoneo.

Per quanto riguarda l'attendismo del sistema bancario italiano dopo l'operazione di liquidità della Bce, ne parleremo tra poco. Quanto agli incidenti greco e ungherese, si tratta di fatti che chiamano in causa l'Europa con pressante insistenza e vanno dunque affrontati nei modi che abbiamo già indicato.

* * *
L'attendismo delle banche era prevedibile e previsto. Durerà ancora per qualche settimana ma dovrebbe cessare o attenuarsi fortemente con l'inizio delle aste di titoli dei debiti sovrani in scadenza. Tra febbraio e marzo scadranno in Europa 500 miliardi di titoli pubblici dei quali 150 riguardano il nostro debito.

Le ragioni dell'attendismo delle nostre banche sono le seguenti:
1. Si è verificato negli ultimi mesi una sensibile diminuzione sia dei depositi sia delle richieste di prestiti.
2. Le sofferenze di crediti non esigibili sono sostanzialmente aumentate fino a rappresentare il 9 per cento dei bilanci.
3. Molte banche europee sono oberate da titoli scadenti o addirittura tossici. Non essendovi un prestatore di ultima istanza questa situazione blocca la reciproca fiducia tra gli istituti di credito europei e li incita a vendere sul mercato i titoli di debiti sovrani ritenuti rischiosi.
4. Malgrado queste difficoltà le banche, ma anche i fondi d'investimento e i risparmiatori, hanno effettuato rilevanti acquisti di titoli pubblici a breve termine. In particolare il rendimento dei nostri Bot a tre mesi è diminuito, tra il 9 novembre e il 5 gennaio, del 70 per cento passando dal 6,60 all'1,95 per cento; per i Bot a sei mesi la diminuzione è stata del 68 per cento passando dall'8,30 al 2,66; per i Bot a dodici mesi diminuzione del 62 per cento (da 9,47 a 3,61); per i Btp a due anni diminuzione del 30 per cento (da 7,26 a 5,09). La diminuzione del Btp quinquennale è stata più bassa: 12 per cento. I decennali sono sostanzialmente stabili attorno al 7 per cento.

Va aggiunto a chiarimento che l'alto rendimento dei decennali è virtuale; ridiventerà attuale con le prossime aste di febbraio. A questo proposito sarebbe opportuno che il Tesoro, anziché portare in asta Btp decennali, abbreviasse i termini di scadenza a un anno o al massimo due. Li collocherebbe a rendimenti molto più bassi superando un appuntamento molto impegnativo senza incidere sulla durata media del nostro debito pubblico che è attualmente di sette anni.

Sarebbe altrettanto opportuno che il Tesoro azzerasse il fabbisogno dello Stato. L'operazione ha un costo di 15 miliardi e non presenta particolari difficoltà.

* * *
La Bce la sua parte l'ha fatta con l'operazione di prestito triennale di 500 miliardi all'1 per cento di tasso. Il 19 febbraio riaprirà lo sportello a richieste di prestiti triennali per importi illimitati. Non porrà condizioni alle banche per quanto riguarda l'utilizzo di quei fondi, ma è facile prevedere una discreta "moral suasion" per erogazioni alla clientela e partecipazione attiva alle aste del Tesoro. Si tratta per di più di operazioni profittevoli anche se il Tesoro abbreviasse le scadenze dei nuovi titoli.

Non credo che nella strategia di Monti ci sia la richiesta di equiparare la Bce alle altre Banche centrali. Se il nostro premier vuole rassicurare la Merkel questa non sarebbe, almeno per ora, la richiesta giusta. Ma in un futuro più lontano, diciamo nel 2015, potrebbe divenire praticabile e bene ha fatto il ministro Passera a metterla in calendario.
Quello che Monti vuole oggi portare a casa con la riunione del Consiglio europeo del 30 gennaio, è il dimezzamento della quota di debito da diminuire per i Paesi che superano il 60 per cento nel rapporto debito-Pil e il defalco degli investimenti strutturali dal calcolo del deficit rispetto al Pil. Sarebbero due passi nella giusta direzione per quanto riguarda la crescita. Messi insieme al contenimento dei rendimenti consentirebbero un quadro di maggiore tranquillità e l'avvio immediato di iniziative per la creazione di posti di lavoro e nuovi meccanismi di ammortizzatori sociali.
Insomma una politica di rilancio a piccoli passi ma con perseverante continuità, purché vi sia l'appoggio degli italiani ed in particolare delle parti sociali.

Da questo punto di vista la Camusso e la Fornero hanno grandi responsabilità. Innovare profondamente il contratto di lavoro tenendo fermo l'articolo 18: questa è la scommessa. Non è impossibile, soprattutto se sapranno guardare la luna e non il dito che la indica.

Post scriptum. Voglio qui inviare i nostri sentiti auguri al professor Befera, presidente dell'Agenzia delle entrate. Non badi alle minacce e agli insulti che le vengono lanciati. Le prime confidiamo siano soltanto sciagurate esibizioni di teste balorde, i secondi, se vengono da personaggi tipo Santanché, sono titoli onorifici.

(08 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/08/news/l_italia_guida_la_battaglia_salva-europa-27751404/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quelle verità scomode e le comode bugie
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2012, 06:25:38 pm
   
IL COMMENTO

Quelle verità scomode e le comode bugie

di EUGENIO SCALFARI

All'indomani del cosiddetto "tsunami" provocato dall'agenzia di rating Standard&Poor's ci sono alcuni fatti certi dai quali bisogna partire. Sono i seguenti:

1. Lo "tsunami" non c'è stato. Le Borse hanno registrato modesti ribassi, Piazza Affari ha perso l'1 per cento, le altre Borse europee hanno oscillato intorno al mezzo per cento di perdita, l'Austria, colpita anch'essa dal "downgrade", ha addirittura chiuso in rialzo.

2. Standard&Poor's ha declassato nove paesi su diciassette, cioè ha attaccato non un paese specifico ma l'intera economia europea e quindi, indirettamente, anche la Germania che senza l'Europa vivrebbe malissimo. Si è trattato dunque d'un giudizio politico più che economico.

3. Per quanto riguarda l'Italia questo attacco ha avuto come effetto quello di rafforzare il governo Monti, tanto più che la stessa Standard&Poor's ha apprezzato la politica di Monti nel momento stesso in cui declassava di due punti il nostro debito sovrano mandandolo in serie B.

4. I rendimenti dei nostri Bot e dei nostri Btp alle aste di giovedì e di venerdì sono stati ottimi per i Bot e buoni per Btp triennali.

5. La Bce ha confermato che il valore dei "collaterali" che le banche danno in garanzia dei prestiti loro accordati dalla Banca centrale non subiranno alcun mutamento; la Bce cioè non terrà in nessun conto i giudizi negativi dell'agenzia di rating. Le notizie che davano per certo un peggioramento del valore dei collaterali erano dunque sbagliate o false.

Le aste italiane di giovedì e venerdì hanno comunque confermato che la fiducia nel nostro debito sta tornando e dai Bot si sta gradualmente allargando anche sui Btp ed infatti, confrontando i tassi spuntati alle aste di gennaio con quelli delle aste di novembre si hanno i seguenti risultati: Bot a sei mesi dal 6,5 al 3,2; Bot a dodici mesi dal 5,9 al 3,2; Btp a tre anni da 7,9 a 4,8; Btp a dieci anni da 5,7 a 4,9.

È possibile che nella seduta di domani alcuni di questi tassi peggiorino sul mercato secondario che però, per quanto riguarda gli oneri del Tesoro, non hanno alcuna ripercussione. Per quanto riguarda l'Italia, se ne riparlerà soltanto alle aste di febbraio e marzo che avranno dimensioni imponenti. Il Tesoro tuttavia, come la stessa Bce ha suggerito e dal canto nostro abbiamo raccomandato, dovrebbe aumentare il numero dei titoli in scadenza a breve durata, che il mercato vede con favore. Dovrebbe altresì azzerare il fabbisogno con un'operazione che rientra agevolmente nelle sue attuali capacità.

La prima conclusione che questi dati suggeriscono nel loro complesso è dunque abbastanza rassicurante. I risparmiatori e le banche hanno ricominciato a investire in titoli italiani di breve scadenza ma anche in Btp di scadenza media. Auspichiamo che questo processo si estenda tenendo presente che il 19 febbraio la Bce aprirà un secondo sportello alle banche europee per prestiti triennali di ammontare illimitato al tasso dell'1 per cento e con collaterali a valore invariato. Si tratta di fatto di uno schiaffo sulla faccia dei dirigenti di Standard&Poor's.

* * *

Il presidente Napolitano ha indirizzato due messaggi pubblici all'Europa con due principali destinatari: la Merkel e Sarkozy, che saranno a Roma nei prossimi giorni. Un messaggio, il giorno precedente al downgrade di Standard&Poor's, puntava sulla necessità di un governo economico europeo e in particolare dei diciassette paesi dell'Eurozona; il secondo auspicava un ruolo non solo economico ma politico dell'Unione, esteso dunque non solo all'economia ma all'immigrazione, alla giustizia, agli investimenti intraeuropei e a una diversa configurazione della governance.

La Francia continua ad essere riottosa alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali all'Unione; la Germania lo è altrettanto, ma ambedue cominciano a rendersi conto dell'urgenza di un nuovo trattato e della necessità di ridurre al minimo i poteri di veto dei singoli Stati. Sullo sfondo ci dovrebbe essere l'istituzione degli eurobond e i poteri di intervento diretto della Bce anche sui debiti sovrani.
Le dichiarazione della Merkel di ieri non dicono granché su questi obiettivi di sfondo ma finalmente puntano anche sulla necessità della crescita oltreché del rigore. Ma soprattutto vogliono sottoporre le agenzie di rating a una disciplina giuridica che vada al di là di un semplice codice etico peraltro inesistente, almeno finora.

Non c'è dubbio che l'esigenza di disciplinare le agenzie di rating con regole oggettive sia a questo punto una necessità senza tuttavia negare ad esse la libertà di esprimere documentati giudizi. L'attenzione va posta soprattutto su quell'aggettivo: documentati. Ma lo spazio pubblico europeo non può esser negato a nessuno. Se le agenzie di rating passano da giudizi strettamente economici a giudizi prevalentemente politici come è avvenuto l'altro ieri, le regole non valgono più ma in compenso l'oggettività del giudizio economico diminuisce di altrettanto.
Se l'onorevole Di Pietro e il senatore Bossi reclamano elezioni a primavera nessuno può né deve metter loro il bavaglio ma ogni persona sensata e consapevole del fatto che durante tutto l'anno ci saranno in Europa 1200 miliardi di titoli pubblici in scadenza non può che giudicarli demagoghi pericolosi o personaggi fuori di testa. Analogo giudizio daranno i mercati se le agenzie di rating attaccheranno l'esistenza d'una moneta e le politiche di un intero continente anziché dimostrare la fragilità dei suoi "fondamentali".
Da questo punto di vista la Merkel è sulla buona strada quando dice  -  come ha dichiarato ieri  -  che il Fondo di intervento sui debiti sovrani opererà comunque, anche se non otterrà la tripla A dalle agenzie di rating e Draghi ha fatto benissimo a mantenere inalterato il valore dei collaterali di garanzia ai prestiti della Bce anche se composti da titoli di debiti svalutati da quelle agenzie.

* * *

Abbiamo già osservato che il downgrade di Standard&Poor's ha rafforzato la statura di Monti e del suo governo. Soprattutto gli ha dato ottime carte da giocare nei prossimi incontri trilaterali e alla riunione del vertice europeo di fine gennaio. Ma ha rafforzato il governo anche di fronte alle forze politiche e a quelle sociali.
Il programma di liberalizzazioni sarà varato tra pochissimi giorni. Ha già il pieno favore del Pd e del Terzo Polo. Il Pdl manifesta alcune incertezze e le maschera dietro la distinzione tra poteri forti da liberalizzare e poteri deboli (leggi tassisti ed altri) da risparmiare o postergare. La risposta di Monti è ineccepibile: le liberalizzazioni riguarderanno tutte le categorie, poteri forti e poteri diffusi. Tutti nello stesso decreto.
Osservo dal canto mio che i tassisti sono un potere diffuso ma non un potere debole. Come lo sono i camionisti. Come lo sono gli allevatori di mucche inadempienti alle regole comunitarie. Chiamarli poteri deboli è un errore lessicale e alquanto demagogico. Ci sono certamente alcuni punti sostenuti da queste categorie che vanno risolti con equità a cominciare da quello che riguarda le vecchie licenze dei tassisti. Per il resto, il trasporto urbano è un pubblico servizio e va regolato a vantaggio dei consumatori, altrimenti che servizio pubblico sarebbe?
Farmacie, notai, ordini professionali, vanno tutti ripensati alla luce del concetto di tutela della concorrenza. Così sembra formulato il decreto che sta per essere emesso. Gli ordini non vanno aboliti ma debbono avere un solo e fondamentale obiettivo: essere i custodi del canone etico e deontologico degli associati. Gli ordini non sono un sindacato, perciò non possono occuparsi di tariffe e di altre questioni economiche. Debbono occuparsi dell'etica e lo debbono fare nell'interesse della società civile per la quale l'esistenza degli ordini deve essere una garanzia di professionalità dei loro aderenti.

* * *

Il referendum è stato respinto dalla Corte costituzionale. Era previsto e prevedibile. Una democrazia parlamentare non può restare priva di una legge elettorale neppure per un minuto. Il nostro istituto referendario è abrogativo e non propositivo. I referendum elettorali andrebbero dunque esclusi come lo sono quelli relativi ai trattati internazionali e alle leggi di imposta. Questa disposizione non fu messa in costituzione affinché fosse possibile anche un referendum elettorale quando si limiti ad abrogare qualche parola o qualche comma da una legge elettiva esistente trasformandola in una nuova legge attraverso l'istituto referendario. Nel nostro caso però il secondo quesito effettuava sulla legge esistente un'operazione chirurgica di tale complessità da non configurare una nuova legge attuabile e per questo è stato respinto come il primo quesito che si limitava alla richiesta di un'abrogazione pura e semplice.

Si può criticare nel merito la sentenza ma non si può accusare la Corte d'essere diventata un organo politico e fazioso, per di più alle dipendenze del Capo dello Stato. Da questo punto di vista personaggi come Di Pietro e alcuni editorialisti qualunquisti meritano d'esser considerati demagoghi e politicamente scorretti. Hanno evidentemente un disperato bisogno di "audience" e quindi di avere sempre e comunque un nemico sul quale sparare. Prima avevano Berlusconi, adesso Monti e Napolitano. Ed anche il Partito democratico. Usano un fucile a due canne con il quale dirigono i colpi su un duplice obiettivo nella speranza di mantenere e magari di estendere il consenso di un'opinione pubblica dominata dall'emotività e dall'incostanza.
La parola "casta" è così entrata nel lessico qualunquista ed è stata largamente applicata anche per quanto ha riguardato la votazione della Camera sul caso Cosentino. Quella votazione, come hanno detto giustamente Bersani e Casini, è stata una sorta di suicidio parlamentare. Ma chi ha compiuto quel suicidio e ha lavorato per ottenere quel voto? Il Pdl e la Lega di Bossi (non quella di Maroni). Pd e Terzo Polo hanno votato in massa per l'arresto di Cosentino (285 voti su 295). Dov'è dunque il voto di casta? Perché blaterano contro la politica invece di individuare i comportamenti dei singoli parlamentari e dei singoli partiti? Questo è l'opposto della ricerca della verità e come tale va condannato.

Noi siamo favorevoli alle verità scomode ma contrari alle comode bugie. Trentasei anni di storia di questo giornale (l'anniversario era ieri) lo dimostrano ampiamente.


Post scriptum. Anche se ci hanno messo una pezza a colore nelle ultime ore, la spaccatura tra la Lega di Bossi e quella di Maroni è il fatto di maggiore importanza nella politica dei partiti. È un movimento democratico quello in cui il segretario impedisce con una pubblica deliberazione ad un esponente storico di quel partito di intervenire nel dibattito congressuale? Sembra la Corea del Nord. Ed hanno l'ardire di ridurre il grande Nord italiano alla loro miserabile Padania?

(15 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/15/news/scalfari-28136320/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come si declina la parola libertà
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2012, 05:03:34 pm
Come si declina la parola libertà

di Eugenio Scalfari

Liberale, liberal, liberista, libertario: ogni definizione si adatta a modi di pensare molto diversi tra loro.

E i personaggi che ne sono simbolo lo dimostrano. Pertanto non bisogna fare confusione

(16 gennaio 2012)

Nel vocabolario politico italiano ci sono quattro parole apparentemente sinonime ma che sinonime non sono affatto e che generano frequenti confusioni: liberale, "liberal", liberista, libertario. La seconda nel lessico anglosassone coincide con la parola italiana liberale la quale però designa principalmente i moderati nel senso conservatore del termine mentre il "liberal" anglosassone indica piuttosto un liberale progressista, riformista o, se volete, un liberale di sinistra.

Il liberista designa invece un seguace della libertà di mercato e ha quindi un contenuto prevalentemente economico. Infine libertario ha un significato trasgressivo; il libertarismo è un'ideologia che esalta la trasgressione provocatoria come atto fondativo di nuovi diritti civili ancora non riconosciuti dalla società e quindi privi di tutela giuridica ma meritevoli di ottenerla al più presto.

Ciascuna di queste quattro parole fu fatta propria da personalità rilevanti nella storia delle idee nell'Italia del Novecento. Vale la pena di nominarli per renderne ancora più chiari i significati.

Benedetto Croce fu nella storia delle idee il liberale per eccellenza, pose la libertà al centro della storia del mondo, principio animatore di ogni evoluzione, forza attiva e insopprimibile la cui assenza provocherebbe una regressione della nostra specie al livello animalesco dal quale l'"homo sapiens" emerse nelle nebbie della preistoria.

Luigi Einaudi personificò il liberista accentuando l'aspetto economico che Croce aveva trascurato e teorizzando che i due termini non sopportano d'essere dissociati: un liberale non liberista secondo Einaudi non poteva essere neppure concepito. Purtroppo sono invece storicamente esistiti molti liberisti non liberali. Einaudi ne era perfettamente consapevole tant'è che pose rimedio a quell'aspetto del suo liberismo qualificandolo con il corollario della eguaglianza dei punti di partenza e con una imposta successoria che avocasse allo Stato una parte del patrimonio ereditario. In sostanza l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge veniva, nel sistema di pensiero einaudiano, affiancata dall'eguaglianza dei cittadini di fronte al mercato.

I "liberal" nella storia politica del Novecento furono impersonati da quel gruppo di intellettuali che dettero vita al movimento Giustizia e Libertà e alla sua variante di "liberal-socialisti". Ricordiamo i fratelli Rosselli, Guido Calogero, Omodeo, Ugo La Malfa, il gruppo del "Mondo" di Mario Pannunzio e di Nicolò Carandini e - prima ancora - Salvemini, Giustino Fortunato e De Viti De Marco.

Quanto ai libertari, il nome più adatto a rappresentarli nella politica recente è stato quello di Marco Pannella e del Partito radicale. Ma nuovi esempi di massa si ravvisano ora nei movimenti rivoluzionari in corso in Medio Oriente e nei Paesi del Maghreb, negli "indignados" europei e in "Occupy Wall Street" americani. Un precedente novecentesco fu quello dei "Figli dei fiori" e il movimento studentesco del Sessantotto.

Lo spunto per chiarire quelle quattro parole mi è venuto qualche giorno fa leggendo su "Repubblica" un articolo di Alessandro De Nicola del quale conosco i pregevoli studi sul tema del liberalismo e della democrazia, applicati all'attualità della situazione politica italiana. Con tutta la buona volontà, non ho capito a quale delle definizioni qui esaminate possa ascriversi De Nicola. Certamente non è un libertario. Non direi che sia un "liberal". Sicuramente è un liberista ma non mi sembra che segua l'Einaudi della politica sociale. Croce era un liberale storicista e quindi continuamente in divenire.

Forse De Nicola è un liberista fondamentalista, ma possono stare insieme quei due termini? Mi farebbe piacere che De Nicola si definisse da sé, sarebbe un utile contributo a questa discussione.

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. I nostri benefici imprigionati nella rete delle lobby
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:10:13 am
IL COMMENTO

I nostri benefici imprigionati nella rete delle lobby

di EUGENIO SCALFARI


Il decreto "salva Italia", ormai diventato legge, suscitò molte critiche, soprattutto a causa della riforma delle pensioni che creava sofferenza ma aboliva anche diseguaglianze notevoli tra quanti godevano ancora del privilegio del sistema retributivo e quanti (i più giovani) erano già passati al sistema contributivo.
Ma l'opposizione alla grandinata di tasse, necessaria per evitare lo sfascio dei conti pubblici, non è paragonabile all'ondata di recriminazioni, contestazioni, scioperi, blocchi stradali, riserve da parte delle forze politiche (del Pdl soprattutto), manifestazioni di "indignati". Scioperano i tassisti, i camionisti, i pescatori siciliani, i farmacisti, i benzinai, gli avvocati; in Sicilia la protesta ha paralizzato l'isola intera ed ha inalberato addirittura la bandiera separatista della Trinacria. Solo adesso si intravede qualche segnale di resipiscenza.

Era prevedibile, il nostro è il Paese corporativo per eccellenza, tutti i tentativi di introdurre qualche modesta liberalizzazione sono puntualmente falliti contro la muraglia delle lobbies. Ma questa volta è diverso, non a caso Monti è stato per anni commissario alla concorrenza nella Commissione di Bruxelles, dove ha ingaggiato memorabili battaglie contro il potere monopolistico di alcune potenti multinazionali.
Il decreto varato l'altro ieri ha uno spessore politico che va molto al di là dei singoli provvedimenti, configura una politica economica che ha come obiettivo la crescita dell'economia, della produttività,
dell'iniziativa individuale e lo smantellamento delle clientele lobbistiche. Un programma di lunga lena di cui il decreto rappresenta solo il primo passo al quale altri seguiranno come lo stesso Monti ha preannunciato.

I beneficiari saranno i consumatori, le famiglie, i giovani e la crescita nel suo complesso perché gli effetti della concorrenza premiano il merito e accrescono la competitività del sistema. Ma le resistenze saranno fortissime.

La modernizzazione di un paese appesantito da mali antichi e dall'incombenza di poteri forti - concentrati o diffusi che siano - è impresa necessaria ma difficilissima.
Se i partiti fossero forti e moderni sarebbe spettato a loro realizzare un obiettivo così ambizioso. Invece è toccato a un governo strano, come lo ha battezzato lo stesso Monti, che ha il vantaggio di non doversi cimentare con le elezioni politiche e l'handicap d'essere appoggiato da una maggioranza parlamentare altrettanto strana, tenuta insieme dall'emergenza e dall'attiva presenza del presidente della Repubblica che sta esercitando un ruolo essenziale pur restando rigorosamente nell'ambito delle prerogative che la Costituzione gli riconosce.

Se si dovesse definire con una parola la natura di questo governo, la più sbagliata sarebbe quella finora più usata di governo tecnico. Non significa nulla l'etichetta di tecnico. Questo è un governo riformista e innovatore e proprio per questo più vicino al centro e al centrosinistra, sebbene sia il centro sia il centrosinistra siano riformisti e innovatori solo parzialmente. Quanto al centrodestra, avrebbe voluto esserlo a parole, ma non lo è stato affatto perché il populismo ha soffocato e stravolto il liberismo liberale che fu all'inizio la sua bandiera.

La crisi dei partiti ha fatto il resto. Per avviare un percorso nuovo essi hanno poco tempo a disposizione: undici mesi, perché a gennaio 2013 comincerà la campagna elettorale ed anche il semestre bianco che limita i poteri d'iniziativa del Quirinale.
Undici mesi, nel corso dei quali dovrebbero dar prova d'una rinnovata capacità d'azione varando una nuova legge elettorale e le riforme istituzionali che riguardano il nuovo ruolo del Senato e la diminuzione del numero dei parlamentari. Riusciranno ad adempiere questi compiti?

* * *

Giorgio Napolitano ha incontrato nei giorni scorsi i loro rappresentanti nel tentativo di mobilitarli su questo programma riformatore che è di loro stretta competenza ma, a quanto risulta, sia la riforma del Senato sia lo snellimento del numero dei parlamentari trovano ostacoli pressoché insormontabili.
Maggiori spiragli si sono manifestati per quanto riguarda la riforma della legge elettorale, anche se non sarà facile comporre le divergenze esistenti tra il centro che punta al sistema proporzionale e i due partiti maggiori che preferiscono mantenere il criterio maggioritario.
Il compromesso si potrebbe trovare sulla linea del sistema elettorale tedesco: una soglia del 5 per cento per evitare la frammentazione dei partiti e un doppio sistema di voto affidato per una parte a collegi uninominali e per un'altra parte a liste con sistema proporzionale. L'ideale sarebbe accrescere la quota riservata ai collegi uninominali rispetto alle liste votate col criterio proporzionale. Forse su questo progetto si potrà trovare l'accordo e sarebbe un passo avanti, ma del tutto insufficiente a riannodare il rapporto tra i partiti e il consenso popolare.

Questo rapporto è ormai del tutto inesistente perché i partiti hanno perso da molti anni il loro ruolo di indirizzo e di visione del bene comune da usare come raccordo tra il popolo e le istituzioni. Il nodo da sciogliere è quello che presuppone però il ritiro dei partiti dalle istituzioni. Fu il più importante obiettivo di Enrico Berlinguer quello di porre fine all'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti e il ritorno alla lettera della Costituzione per quanto riguarda la formazione dei governi e la scelta del presidente del Consiglio che la nostra Carta riserva al capo dello Stato.
Ma recuperare il ruolo proprio dei partiti non basta perché le istituzioni sono anche occupate da un'oligarchia annidata nel Consiglio di Stato. Esso accoppia una preziosa funzione giurisdizionale con l'improvvida prassi di fornire ai governi lo stuolo dei capi di gabinetto e dei dirigenti degli uffici legali ministeriali, realizzando in tal modo un gigantesco conflitto di interessi dove i controllori appartengono allo stesso organismo dei controllati col risultato di un gretto conservatorismo e di molteplici benefici clientelari. Neppure l'attuale governo è sfuggito a questa malformazione nella sfera dei sottosegretari e dei capi di gabinetto, mentre ha evitato l'occupazione da parte dei partiti.

Queste sono le vere innovazioni all'insegna del buon governo. Quello di Monti, per come è stato nominato dal capo dello Stato, sta dando dimostrazione di una nuova qualità che dovrà essere preservata anche in futuro e dalla quale deriva un rafforzamento dell'autonomia del Parlamento rispetto ad un potere esecutivo di carattere istituzionale. Preservare ed anzi rafforzare la separazione dei poteri: questo è l'obiettivo da perseguire ed è da esso che deriva anche il recupero di dignità dei partiti e il loro insostituibile ruolo. L'antipolitica e il qualunquismo dilagante si combattono soltanto così.

* * *

Nel frattempo e nonostante il brutale declassamento che l'agenzia di rating Standard & Poor's ha effettuato all'intera Eurolandia, i mercati sono orientati da qualche giorno in positivo: le Borse sono in rialzo, i titoli bancari anche, lo spread rispetto ai Bund della Germania è in calo e così pure i rendimenti, soprattutto quelli dei titoli pubblici a breve e media durata.
Questi andamenti favorevoli hanno coinciso con i messaggi negativi delle agenzie di rating, con le previsioni sull'aggravarsi del ciclo e con il persistere della politica rigorista del governo tedesco. Come si spiega questa contraddizione tra le previsioni pessimistiche di alcuni dati e il comportamento ottimistico dei mercati?
Vari elementi hanno contribuito al capovolgimento delle aspettative. Elenchiamone alcuni: il miglioramento della domanda interna e la creazione di nuovi posti di lavoro negli Stati Uniti, la fondata previsione d'un accordo sul debito greco tra il governo di Atene e le banche europee interessate, la straordinaria "performance" del governo Monti e soprattutto la politica monetaria della Bce.

Erano state fatte molte riserve critiche sugli interventi di Draghi in materia di liquidità. Si era ironizzato sul quel bazooka dei prestiti triennali di volume illimitato al tasso dell'1 per cento, che si era trasformato (così sembrava) in un boomerang, visto che le banche europee avevano prelevato 500 miliardi dallo sportello della Bce e li avevano quasi tutti ridepositati nella stessa Bce.
Bazooka potenziale, boomerang effettivo, questo era il giudizio. Abbiamo più volte affrontato questo tema spiegandone le caratteristiche e l'ovvia gradualità della messa in atto. Ora se ne cominciano a vedere i risultati: la Bce ha accresciuto i suoi interventi sui mercati "secondari" dei titoli pubblici, le banche hanno ricominciato a frequentare le aste dei debiti sovrani, si sta rianimando il flusso del mercato interbancario, si sta anche rianimando il flusso dei prestiti alla clientela sebbene la richiesta di tali prestiti sia ancora piuttosto esile a causa della stagnante domanda interna.

Le prime vere somme sull'esito di questa operazione le avremo dalle prossime aste europee di febbraio e marzo. Al secondo sportello che la Bce aprirà in febbraio per i prestiti triennali, le prenotazioni delle banche europee sono raddoppiate rispetto a quelle dello scorso dicembre. Questo è il modo con cui la Bce sta perseguendo il risultato di garantire indirettamente i debiti sovrani europei e questa è anche la ragione per cui Monti non insiste - per ora - sul ruolo della Banca centrale e sulla creazione degli eurobond. La Germania sa che l'approdo dovrà esser questo ma per ora lo esclude perché la Merkel non vuole mettersi in rotta con la sua opinione pubblica in vista delle elezioni politiche. Monti sta al gioco. L'uno e l'altra fanno affidamento sul bazooka di Draghi.

* * *

C'è un'ultima questione della quale è bene far memoria al nostro governo. Abbiamo già detto dello spessore politico delle liberalizzazioni, ma il loro effetto sull'economia si avrà dopo un certo tempo. Il rilancio della domanda interna e la creazione di nuovi posti di lavoro sono però obiettivi che richiedono interventi immediati.
Un primo effetto si è già avuto per merito dei ministri Passera e Barca: lo smobilizzo di 5,5 miliardi per la realizzazione di opere pubbliche, dalla linea C della metropolitana di Roma alla ferrovia Napoli-Bari-Lecce-Taranto, a quella Salerno-Reggio Calabria, a quella Potenza-Foggia. Oltre a questi lavori sono stati stanziati 680 milioni contro le frane di fango e 550 per l'edilizia scolastica.
Ottime iniziative, ma insufficienti. Ci vuole ora con la massima urgenza una robusta esenzione fiscale a favore dei redditi medio-bassi, destinando a copertura le somme che saranno ricavate dalla spending review che dovrebbe esser pronta a marzo.
Nella settimana che inizia domani si aprirà il negoziato sul lavoro, il nuovo contratto di apprendistato e la nuova scala di ammortizzatori sociali. L'articolo 18 per ora resterà come è.
Berlusconi l'altro ieri ha detto che questo governo non ha dato alcun frutto e che forse gli italiani stanno pensando di richiamare lui in servizio. Era una battuta, lo si è capito dal tono scherzoso, ma i giornali di famiglia, e non soltanto loro, l'hanno presa sul serio. Peccato, perché come battuta fa ridere ma se non lo fosse stimolerebbe serie riflessioni sullo stato mentale del suo autore.

(22 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una lettera per la Camusso che viene da lontano
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2012, 11:52:34 pm
L'EDITORIALE

Una lettera per la Camusso che viene da lontano

EUGENIO SCALFARI

Quando il sindacato mette al primo posto del suo programma la disoccupazione vuol dire che si è reso conto che il problema è angoscioso e tragico e che ad esso debbono essere sacrificati tutti gli altri obiettivi. Per esempio quello, peraltro pienamente legittimo per il movimento sindacale, di migliorare le condizioni degli operai occupati. Ebbene, se vogliono esser coerenti con l'obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati passa in seconda linea.

La politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta e il meccanismo della cassa integrazione dovrà esser rivisto da cima a fondo. Non possiamo più obbligare le aziende a trattenere un numero di lavoratori che supera le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. La cassa può assistere i lavoratori per un anno e non oltre salvo casi eccezionalissimi che debbono essere esaminati dalle commissioni regionali di collocamento. Insomma, mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza. Si tratta d'una svolta di fondo. Dal 1969 in poi il sindacato ha puntato le sue carte sulla rigidità della forza-lavoro, ma ora ci siamo resi conto che un sistema economico aperto non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente.
I lavoratori e il sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto che il salario e la forza-lavoro sono variabili indipendenti.  Sono sciocchezze perché in un'economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall'altra.
Se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla produttività, il livello dell'occupazione tenderà a scendere e la disoccupazione aumenterà perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco. Naturalmente non possiamo abbandonare i licenziati al loro destino. Il salto che si fa ammettendo il principio del licenziamento degli esuberi e limitando l'assistenza della cassa integrazione a un anno è enorme ed è interesse generale quello di non rendere drammatica ed esplosiva questa situazione sociale. Perciò dobbiamo tutelare con precedenza assoluta i lavoratori licenziati.

Alla base di tutto però c'è il problema dello sviluppo. Se l'economia ristagna o retrocede la situazione sociale può diventare insostenibile. La sola soluzione è la ripresa dello sviluppo. Quando si deve rinunciare al proprio "particulare" in vista di obiettivi nobili ma che in concreto impongono sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di coscienza politica e di classe. Si è parlato molto, da parte della borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di classe. Ebbene, se non ci fosse un'alta coscienza di classe, discorsi come questo sarebbero improponibili. Abbiamo detto che la soluzione delle presenti difficoltà e il riassorbimento della disoccupazione sta tutto nell'avviare un'intensa fase di sviluppo. Per collaborare a questo obiettivo noi chiamiamo la classe operaia ad un programma di sacrifici, ad un grande programma di solidarietà nazionale.

Naturalmente tutte le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto. Se questo programma non dovesse passare vorrebbe dire che avrebbero vinto gli egoismi di settore e non ci sarebbe più speranza per questo Paese.

* * *
Debbo a questo punto avvertire i lettori che il testo che hanno fin qui letto non l'ho scritto io e tanto meno il ministro Elsa Fornero, anche se probabilmente ne condivide la sostanza. Si tratta invece d'una lunga intervista da me scritta praticamente sotto dettatura di Luciano Lama, allora segretario generale della Cgil. Era il gennaio del 1978, un anno di gravi turbolenze economiche e sociali, che culminò tragicamente pochi mesi dopo col rapimento di Aldo Moro e poi con la sua esecuzione ad opera delle Brigate rosse.
 
Lama parlava in quell'intervista a nome della Federazione sindacale che vedeva uniti con la Cgil anche la Cisl, allora guidata da Carniti, e la Uil presieduta da Benvenuto. Il segretario generale aggiunto della Cgil era il socialista Ottaviano del Turco, tutto il ventaglio sindacale era dunque rappresentato dalle parole di Lama.
Quella stessa Federazione fu poi l'elemento fondamentale della lotta al terrorismo che trovò nelle fabbriche e nella classe operaia il più fermo baluardo contro le Br da un lato e contro lo stragismo di destra e dei "servizi deviati" che facevano capo a Gladio e alla P2.

Le contropartite che Lama e tutto il sindacalismo operaio chiedevano erano due, una economica e l'altra politica.
Chiedevano, e nell'intervista è detto con estrema chiarezza, una politica di sviluppo e di piena occupazione e chiedevano anche che il sindacato potesse dire la sua sui temi della politica economica, la politica degli investimenti e quella della distribuzione del reddito, cioè della politica fiscale.

Le linee di questo programma erano chiare fin da allora e furono perseguite negli anni successivi come risultò anche dalle interviste che ebbi con Lama nel 1980, nell'82 e nell'84. Eravamo diventati amici e con me si apriva con grande sincerità, ma ne parlava anche in interventi pubblici e nelle sedi confederali. Nell'84 la Federazione si ruppe. D'altra parte la mitica classe operaia si stava rapidamente sfaldando sotto l'urto delle nuove tecnologie produttive e dell'economia globalizzata e finanziarizzata.

Tanto più è apprezzabile oggi il tentativo che Susanna Camusso sta perseguendo   -   già iniziato a suo tempo da Guglielmo Epifani   -   di fare del sindacato un interlocutore essenziale del governo. Il governo Monti persegue una linea riformista e innovatrice, che trae dall'emergenza la sua investitura ma se ne vale per cambiare i connotati della società italiana, ingessata da molti anni dalle corporazioni, dai conflitti d'interesse a tutti i livelli, dalla partitocrazia prima e dal berlusconismo poi. L'emergenza economica impone al governo gravissimi compiti che producono una diffusa impopolarità e crescenti resistenze. In questa situazione un sindacato forte è l'interlocutore indispensabile a condizione che sia capace di darsi un programma nazionale (come Lama aveva detto nell'intervista sopracitata) che anteponga l'interesse generale del Paese al "particulare" delle singole categorie.

Perciò l'intervista di Lama dovrebbe essere riletta nel suo testo integrale dalla Camusso, da Bonanni e da Angeletti, perché è del sindacalismo operaio che si parla e del suo compito d'interprete delle esigenze dei lavoratori e dei pensionati ma anche del bene comune.

Naturalmente la situazione del 2012 non è quella del 1978. Sono cambiati gli elementi strutturali dell'economia e della politica; è cambiata la divisione internazionale del lavoro; è cambiato il capitalismo, si sono decomposte le classi, è affondato il comunismo reale. Quello che dovrebbe essere recuperato nella sua integrità è lo spirito della democrazia formale e sostanziale che si basa soprattutto su un principio: la sovranità del popolo è proporzionale ai sacrifici che gli interessi particolari sono chiamati a compiere in favore del bene comune. "No taxation without representation", questo fu il motto della nascente democrazia liberale inglese del diciottesimo secolo e questo dovrebbe essere anche il criterio d'una società come la nostra dove l'85 per cento delle imposte personali gravano sui lavoratori dipendenti e sui pensionati, dove il salario reale è eroso dal costo della vita in costante aumento e dove la ricchezza sfugge in gran parte al fisco. Sono 280 i miliardi che evadono secondo le stime dell'Agenzia delle entrate, e 120 i tributi non pagati.

I principali interessati al rinnovamento del Paese  -  ma meglio sarebbe dire alla rifondazione dello Stato  -  sono dunque i lavoratori dipendenti e i pensionati. Se saranno lungimiranti; se anteporranno l'interesse nazionale a quello particolare e quello dei figli a quello dei padri. Naturalmente ottenendo le dovute garanzie tra le quali quella che una volta tanto alle parole corrispondano i fatti e che l'equità impedisca la macelleria sociale.

* * *
La Cgil, ma anche la Cisl e la Uil, vogliono che l'agenda non sia scritta dal governo ma dai sindacati. Questa richiesta presuppone una forza che in questa situazione il sindacato non ha. Forse l'avrebbe se la crisi riguardasse soltanto l'Italia, ma riguarda il mondo intero, riguarda l'Europa e in generale i paesi di antica opulenza che sono costretti a confrontare i loro costi di produzione con quelli infinitamente più bassi dei Paesi di nuova ricchezza, i diritti sindacali con quelli di fatto inesistenti dei Paesi poveri, i diritti di cittadinanza con quelli anch'essi inesistenti dell'immensa platea dei migranti. Ecco perché l'agenda dei problemi, delle domande, delle richieste, non può essere scritta né dai sindacati né dai governi: è scritta dall'emergenza e dalla necessità di farvi fronte.

Noi siamo uno spicchio della crisi. Abbiamo fatto il dover nostro e il nostro interesse con la manovra sul rigore dei conti appesantiti da una mole di debito. Adesso è il momento della crescita e dello sviluppo. Non dipende solo da noi, lo sviluppo dell'economia italiana. Dipende dall'Europa ed ha del miracoloso il prestigio che il governo Monti ha recuperato dopo la decennale dissipazione berlusconiana. La crescita dipende in larga misura dalla produttività e dalla competitività del sistema Italia. Sono state entrambe imbrigliate dalle lobbies ma la produttività dipende da tre elementi: il costo di produzione (che è cosa diversa dal salario), la flessibilità del mercato del lavoro, la capacità imprenditoriale. Il sindacato può e deve favorire la flessibilità del lavoro in entrata e in uscita. Se farà propria la politica sindacale di Lama che la portò avanti tenacemente per otto anni, avrà fatto il dover suo.

La riforma della cassa integrazione è uno dei tasselli. Non piace alla Camusso e neppure alla Marcegaglia ed è evidente il perché. Infatti non potrà essere adottata se simultaneamente non sarà rinnovato e potenziato il sistema degli ammortizzatori sociali. In mancanza di questo il sindacato ha ragione di dire no per evitare quella macelleria che farebbe esplodere una crisi sociale estremamente pericolosa. Ma in presenza d'un meccanismo di protezione efficiente e robusto il sindacato dovrebbe farlo proprio e accettare la riforma della cassa integrazione.
Questi sono i termini del problema se il sindacato vorrà riassumere il ruolo di protagonista. Altrimenti decadrà al rango di lobby come l'avrebbe voluto e ancora lo vorrebbe l'ex ministro del Lavoro Sacconi. A Camusso, Bonanni e Angeletti la scelta.
 

(29 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il galantuomo e il cavaliere
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2012, 04:10:08 pm
ADDIO A OSCAR LUIGI SCALFARO

Il galantuomo e il cavaliere

di EUGENIO SCALFARI

Il galantuomo e il cavaliere Oscar Luigi Scalfaro (lapresse)
NON ERA un uomo delle istituzioni ma un uomo politico prestato alle istituzioni. In questo tratto della sua biografia Oscar Luigi Scalfaro somigliava più a Napolitano che a Ciampi.

Anche Napolitano infatti è stato per molti anni un uomo di partito, un dirigente politico, ma nella seconda parte della sua vita emerse una vocazione che fino ad allora era rimasta sopita e le istituzioni, sia a Roma sia a Bruxelles, diventarono per lui una condizione molto importante. Forse fu il suo modo di superare l'esperienza comunista senza tuttavia rinnegarla.

Scalfaro non aveva nulla da superare se non un episodio di intemperanza che per molti anni lo perseguitò: il preteso schiaffo che aveva dato ad una giovane signora incontrata in un ristorante e abbigliata in modo troppo audace, che aveva scandalizzato il cattolico magistrato (allora era quella la sua professione). Nel suo racconto non ci fu nessuno schiaffo ma un diverbio sì. Quando molti anni dopo ne parlammo insieme, lui ancora si rimproverava d'essere andato oltre la giusta misura.

La nostra amicizia cominciò in occasione d'un dibattito parlamentare sul tema del Concordato. Avvenne nei primi mesi del 1971, eravamo tutti e due deputati (ma lui da molto più tempo) e partecipammo a quel dibattito che la presidenza della Camera aveva indetto in vista d'una riforma dei Patti Lateranensi stipulati nel 1929 in epoca fascista.

Scalfaro indicò nel suo intervento le linee della possibile riforma; seguirono altri discorsi e poi venne il mio turno. Alla
fine del mio intervento ci fu un solo applauso: era lui, il cattolico per eccellenza, che applaudiva un discorso anticoncordatario. La mia tesi era infatti l'abolizione di quel trattato e la rigorosa applicazione del principio cavouriano della libera Chiesa in libero Stato.

Scalfaro s'era alzato dal suo seggio e veniva verso di me battendo ancora le mani. Gli andai incontro e mi spiegò che se avessi fatto un discorso anticlericale l'avrebbe aspramente criticato; avevo invece sostenuto che la Chiesa doveva esser libera di diffondere i suoi principi nello spazio pubblico che la democrazia riserva a tutti.

"Lo Stato democratico è laico" mi disse "e può decidere di accordarsi con la Chiesa su alcune modalità di comune convenienza oppure distinguere nettamente le rispettive sfere di competenza garantendo la libertà religiosa. Oggi noi due abbiamo rappresentato con chiarezza queste alternative e questo è il compito del Parlamento".

Ho citato questo lontano episodio perché mi dette la misura del rapporto che un cattolico politicamente impegnato deve avere con la religione. Quando Scalfaro diventò presidente della Repubblica ebbe naturalmente rapporti frequenti con il Papa e furono cordiali e rispettosi da ambo le parti.

Ma i suoi furono più rispettosi che cordiali perché tanto più viveva la sua intima religiosità tanto più sentiva di dover rappresentare anche nella forma e nel cerimoniale lo Stato laico del quale era il più alto rappresentante. L'ho sempre ammirato per questo.

* * * *

Il tratto saliente della sua biografia politica riguarda tuttavia il suo rapporto dialettico con Silvio Berlusconi. Scalfaro fu eletto al Quirinale nel 1992 e fu sostituito da Ciampi nel '99. Attraversò dunque tutta la stagione di "Mani pulite", il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica e il debutto politico di Berlusconi e di Forza Italia. Tenne a battesimo il suo primo governo che durò pochi mesi. Poi venne la rottura con la Lega, il governo Dini con caratteristiche istituzionali, infine il governo Prodi e il rilancio del centrosinistra. Il suo settennato arrivò al termine in coincidenza con il governo D'Alema.

Nei cinque anni di convivenza con il populismo berlusconiano rifulsero le capacità politiche di Scalfaro e insieme la piena consapevolezza dei limiti che la Costituzione poneva al suo ruolo. Rispettò quei limiti con estremo rigore ma con lo stesso rigore difese ed esercitò le sue prerogative.

Quando Berlusconi dovette dimettersi perché sfiduciato dalla Lega, il partito di Forza Italia chiese lo scioglimento delle Camere. Scalfaro obiettò che non poteva richiamare alle urne gli italiani senza aver prima verificato se esistesse una soluzione alternativa. Ci fu un'accesa contestazione su questo punto ma il Quirinale non cedette. Fece tuttavia un gesto di cortesia e anche di saggezza politica: chiese a Berlusconi di designare lui il nome del suo successore, chiarendo al tempo stesso che si sarebbe trattato d'un governo istituzionale necessario per decantare la situazione e poi tornare a interpellare il popolo sovrano.

Fu Berlusconi a indicare Dini che era stato fino ad allora il suo ministro del Tesoro. Dini accettò e formò un governo che non aveva una maggioranza precostituita ma aveva alle spalle il Quirinale e funzionò benissimo alimentando però un'antipatia non solo politica ma anche personale di Berlusconi nei confronti del presidente della Repubblica.

Va ricordato che Scalfaro si tenne sempre nei limiti delle sue prerogative e reagì alle contumelie che gli venivano scagliate contro solo quando esse divennero una vera e propria aggressione alla vita privata sua e della sua famiglia, tirando in ballo anche la magistratura.

Ricordo anche che fu lui, d'accordo con l'allora presidente del Consiglio Giuliano Amato, a chiamare Ciampi e nominarlo capo del governo. Era il 1993; qualcosa di molto simile è avvenuto diciannove anni dopo quando nel novembre scorso Napolitano ha nominato Monti a Palazzo Chigi.

Infine un ultimo ricordo privato. Nel 1996, pochi mesi dopo le mie dimissioni dalla direzione di Repubblica, Scalfaro mi nominò Cavaliere di Gran Croce. Ci fu una piccola cerimonia nella Sala della Vetrata al Quirinale e io gli dissi scherzando che con quella onorificenza diventavano cugini poiché era quello il cerimoniale dei Cavalieri dell'Annunziata ai tempi della monarchia.

Mi rispose: "Ma noi cugini lo siamo già. Ho fatto delle ricerche in proposito perché i miei genitori erano di origini calabresi. Scalfaro e Scalfari provengono da un unico ceppo. Siamo cugini in trentesimo grado". Ci abbracciammo ridendo e da allora la nostra amicizia è diventata ancora più stretta.

L'Italia saluterà oggi a Santa Maria in Trastevere uno dei grandi servitori dello Stato. Anch'io ci sarò a dolermi della sua scomparsa e ad onorare la sua memoria.

(30 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se il sindacato intonasse la marsigliese
Inserito da: Admin - Gennaio 31, 2012, 11:29:14 pm
IL DIBATTITO

Se il sindacato intonasse la marsigliese

di EUGENIO SCALFARI


MI ASPETTAVO una risposta di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, al mio articolo di domenica che si apriva con una lunga citazione da un'intervista che Luciano Lama ci dette nel gennaio del 1978. Me l'aspettavo e la ringrazio vivamente di avercela inviata. Avevo anche deciso che non l'avrei commentata poiché speravo che  -  pure ribadendo i punti di vista del sindacato da far valere al tavolo del negoziato con il governo  -  avrebbe dimostrato d'aver capito quale sia la situazione attuale nella quale si trova l'economia dell'Italia, dell'Europa e di tutto l'Occidente
 
L'intervista con Lama da me citata poteva essere di grande insegnamento: un dirigente sindacale metteva l'interesse generale al di sopra del pur legittimo "particulare" e faceva diventare il sindacato un protagonista attraverso una politica di sacrifici che andavano dalla licenziabilità alla moderazione sindacale, alla riduzione della cassa integrazione, con la principale finalità di far diminuire la disoccupazione e aprire l'occupazione alle nuove leve giovanili.

Purtroppo non ho trovato, nella risposta della Camusso, l'intelligenza politica che in altre recenti circostanze aveva dimostrato.

È possibile che la sua rigidità su tutti i piani della discussione sia una tattica negoziale, ma temo di no. La Camusso sa che il governo tenterà di arrivare a un accordo, ma se la controparte sindacale dicesse no su tutti i punti, andrà avanti comunque perché la riforma del mercato del lavoro è un tassello essenziale del mosaico che il governo sta componendo.

Ogni tattica negoziale è quindi inutile, il tempo a disposizione è limitato, la crisi e la recessione sono ancora tutt'altro che domate. Non di tattica sindacalese c'è bisogno, ma di strategia politica e realistica. Perciò risponderò alla lettera del segretario della Cgil; servirà almeno a chiarire alcuni aspetti del problema che mi sembra siano sfuggiti alla sua attenzione. La Camusso sostiene che l'elemento dominante della crisi sta nell'occupazione precaria e nella disoccupazione.

Che il precariato sia un fenomeno deprecabile che va affrontato con energia e priorità è una verità ammessa da tutti. Il governo Prodi del 2007 lo poneva al primo posto del suo programma, anche se non riuscì a ottenere alcun risultato: era un governo con due voti di maggioranza e poteva far ben poco. Ma il governo Prodi del 1996, che aveva ben altra forza politica, fu quello che introdusse la flessibilità del lavoro con i provvedimenti caldeggiati dal ministro Treu.

Dunque il precariato è un male, la flessibilità un bene in un'economia aperta e globalizzata. Il Lama del '78 già lo diceva a chiare lettere, era uno dei punti essenziali dell'intervista da me citata.

Il precariato non si sconfigge abolendo la flessibilità perché la flessibilità, se è ben strutturata attraverso una riforma dei contratti, rappresenta l'alternativa al precariato. La Camusso dovrebbe saperlo e aprirsi a questo discorso, non arroccarsi.

Ma se è vero che il precariato è un male (ed è certamente vero) non è invece vero che il precariato sia la causa della crisi. Qui la Camusso sbaglia radicalmente. Il precariato e la disoccupazione sono gli effetti della crisi insieme alla recessione e alla "stagflation", ma le cause sono del tutto diverse.

Le cause sono l'esplosione del debito, la finanziarizzazione dell'economia. L'emergere di nuovi attori nell'economia mondiale e la legge dei vasi comunicanti che la globalizzazione ha reso effettiva.

Dice la Camusso che il mondo attuale è molto cambiato rispetto a quello di Lama. L'ho detto anch'io domenica scorsa e del resto è ovvio che sia cambiato, ma in che modo è cambiato? Nella divisione internazionale del lavoro, nell'inesistenza dei diritti sindacali nei Paesi nostri concorrenti, nell'inesistenza dei diritti di cittadinanza in quegli stessi Paesi, nella povertà di milioni e milioni di persone nell'Africa centrale e settentrionale, decisi ad affrontare la morte pur di sbarcare sulle sponde mediterranee dell'Europa opulenta.

I lavoratori e le imprese europee (e italiane) debbono fronteggiare le esportazioni cinesi, coreane, indonesiane, prodotte a costi molto più bassi dei nostri e non si tratta più di pigiamini di seta o di chincaglieria di varia amenità, ma di alte tecnologie dove l'invenzione si accoppia con bassissimi costi della manodopera. Come si impedisce in un'economia aperta una concorrenza di questa natura? Con i dazi? La Camusso pensa di blindare l'Europa (e l'Italia) con una impenetrabile cinta di protezionismo? E come pensa che quei Paesi reagirebbero se non rispondendo in egual modo alle nostre esportazioni? Come pensa di fermare la de-localizzazione delle imprese italiane che hanno convenienza a portare all'estero interi settori delle loro lavorazioni? L'esempio di Marchionne non insegna nulla? Vuole la Camusso generalizzare al sistema Italia la politica ideologico-sindacale della Fiom?

Difendere i diritti sindacali è sacrosanto, dare battaglia per i diritti di rappresentanza anche ai sindacati che non hanno firmato i contratti è più che giusto, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà è una sciagura.
Quanto al debito, è un dato di fatto che i suoi nodi vengano inevitabilmente al pettine dopo una o due generazioni ed è quanto sta accadendo. La recessione - come il precariato - non è causa della crisi ma effetto. Se la fiducia scompare non è colpa della speculazione. La speculazione, gentile Susanna, gioca indifferentemente al rialzo come al ribasso. Se scompare la fiducia gioca al ribasso e finché la fiducia non torna il ribasso ha la meglio.

Il ribasso ha come effetto un costo del debito insostenibile. Lei, cara Camusso, sostiene che i lavoratori hanno già dato. E le famiglie che hanno investito in titoli del debito pubblico italiano come pensa che stiano? Il 17 per cento di quel debito pubblico è posseduto da privati cittadini italiani, il 40 per cento da banche italiane. Lei pensa che con queste cifre si possa scherzare?

Nel 1978, quando Lama proponeva ai lavoratori una politica di austerità e sacrifici, la situazione era certamente diversa; allora la Cina e le "tigri asiatiche" erano ancora addormentate. L'economia italiana non aveva problemi di questa portata. Eppure Lama riteneva che solo con una politica di sacrifici la classe operaia poteva aspirare alla guida morale e politica della società italiana.

Oggi si tratta di salvare il salvabile e di far valere il principio dei vasi comunicanti anche all'interno della nostra società.

Concordo pienamente con Lei, cara Camusso, sulla necessità di combattere le disuguaglianze. Questo nostro giornale ha fatto di questo tema uno dei punti essenziali del nostro discorso con la pubblica opinione. Libertà ed eguaglianza.

Con cautela. La libertà ha bisogno di regole, l'eguaglianza significa aprire al merito a pari condizioni di partenza.
Questa è la società aperta, con un fisco che redistribuisca il benessere con equità. Ma produrre benessere oggi è più difficile di prima e la libertà è l'altro principio fondamentale affinché il benessere sia prodotto.

Personalmente non mi sono mai commosso quando sentivo cantare Bandiera rossa, ma quando ascoltavo la Marsigliese, allora sì, sentivo qualcosa che si agitava nel mio animo.

Fu l'inno che celebrava i tre grandi principi dell'Europa moderna: libertà, eguaglianza, fraternità. Se il sindacato dei lavoratori li facesse propri, potrebbe ancora ridiventare (lo fu per molti anni) il protagonista della nuova modernità sapendo però che non si tratta d'un protagonismo indolore.

Lei parla d'una dose massiccia di intervento pubblico in economia. Ci vuole sicuramente l'intervento pubblico ma non è mai a costo zero. Bisogna che ci siano risorse. Bisogna che ci siano anche per una nuova ed efficiente architettura degli ammortizzatori sociali. La lotta all'evasione può dare risorse e può far diminuire la pressione fiscale. Le altre risorse possono derivare dalla lotta agli sprechi e ai privilegi.

Questo governo è impegnato al raggiungimento di questi obiettivi. La riforma del mercato del lavoro fa parte di questa strategia e non può esser fatta se non col vostro aiuto che, a mio modo di vedere, può esser dato con l'intento di farvi carico dell'interesse generale entro il quale la coesione sociale e il rispetto dei diritti dei lavoratori sono legittimi obiettivi.

"No taxation without representation" ma "no representation without taxation". Non è una metafora ma la realtà e scacciare dalla porta la realtà è impossibile perché rientrerà inevitabilmente dalla finestra. Luciano Lama questo l'aveva capito.


(31 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il tempo coincide con la vita
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2012, 11:52:37 am
Opinione

Il tempo coincide con la vita

di Eugenio Scalfari

La fisica e la filosofia si interrogano sulla possibilità di viaggiare nel passato e nel futuro.

Ma sono i fatti a scandire l'esistenza: si rinnovano di continuo e di continuo muoiono

(26 gennaio 2012)

Quando si parla di un viaggio va da sé che esso avviene nello spazio. Ma si può viaggiare anche nel tempo? Cioè andare su e giù dal presente al futuro e dal presente al passato? Con l'immaginazione e con la memoria sì, questo è possibile ed è possibile anche con i sogni, quando la mente esce dai suoi parametri abituali e dalle dimensioni entro le quali si svolge il pensiero e vagola su praterie prive di sentieri e di punti d'orientamento.
Nei sogni non esiste l'impossibile, non esiste la connessione tra causa ed effetto, non esiste la forza di gravitazione, sicché muoversi nel futuro e nel passato come se questi movimenti fossero reali è una delle caratteristiche dello stato sognante. O della follia.

Muoversi invece nel futuro con l'immaginazione e nel passato con la memoria fa parte delle nostre facoltà naturali. Il futuro si può progettare e dentro certi limiti prevedere; il passato si può rievocare con un'avvertenza tuttavia: sia i progetti futuribili sia le rievocazioni del passato presuppongono la nostra condizione radicata nel presente. Guardiamo il futuro con i nostri occhi di oggi e gli occhi di oggi rievocano il passato; ciascuna mente pensante immagina e rievoca a suo modo ed è dunque il presente a plasmare i fatti avvenuti e quelli che avverranno a misura delle proprie aspettative.

La filosofia, da Nietzsche in poi, ha elaborato il percorso conoscitivo sulla base delle interpretazioni. La scienza ha seguito una strada diversa fondata sulla matematica, che ha trovato la sua teorizzazione un secolo fa nella relatività di Albert Einstein e un arricchimento ulteriore nella meccanica quantistica.
Ho pensato di dedicare la pagina che state leggendo a questi brevi cenni al viaggio nel tempo perché il tema è ridiventato attuale a causa delle ricerche più recenti sulle particelle elementari, sulle stringhe, sulla cosmologia dei buchi neri, sull'entropia e sulle scoperte - ancora allo stato di ipotesi - di una particella capace di viaggiare a una velocità maggiore di quella della luce. Se quest'ultima ipotesi venisse provata il viaggio dei corpi sull'asse del tempo diventerebbe matematicamente possibile, sconvolgendo radicalmente l'architettura della fisica teorica e, alla lunga, le sue applicazioni pratiche.

La fisica teorica confina - e spesso sconfina - con la filosofia e proprio per questo mi ha affascinato fin dalla prima giovinezza. Ma per quanto riguarda il tempo mi sono formato una convinzione molto diversa dalle ipotesi scientifiche delle quali ho fatto cenno. Il tempo è una dimensione essenziale per la nostra mente insieme allo spazio; a queste due dimensioni Einstein ne aggiunse una terza che chiamò spazio-tempo dandone anche una figurazione ottica: affermò che lo spazio-tempo è ricurvo e quindi circolare in tutte e due le dimensioni che lo compongono. Il mondo spazio-temporale, cioè il mondo tridimensionale, ritorna su se stesso e per questa ragione nello spazio-tempo si può viaggiare visto che la fine del percorso coincide con il suo principio. Nietzsche chiamò questo processo l'eterno ritorno. La sua non era una tesi scientifica e neppure filosofica poiché non riuscì a darne una compiuta spiegazione concettuale. Era un'intuizione che definisco artistica, come molte manifestazioni del pensiero nietzschiano. A volte l'arte è lo strumento più penetrante per comprendere o avvicinarsi alla natura dell'Essere.

Ma dicevo dello spazio-tempo. Io credo che siano i fatti a scandirne il movimento. I fatti accadono nello spazio e il tempo scorre attraverso i fatti, gli eventi, ciò che l'Essere getta nell'esistenza. Il tempo scorre dentro l'esistente, il presente è l'attimo istantaneo del futuro che transita sprofondando nel passato. Quando il futuro diventa per un istante attuale e poi si dilegua le schegge dell'essere esistenti nascono e muoiono.

Per ciascuna di quelle schegge il tempo cessa di esistere quando quella scheggia cessa di esistere diventando passato e vivendo soltanto nella memoria altrui finché vi sarà memoria. Voglio dire che il tempo è una dimensione connessa con la vita e non si può dare senza la vita. Ho scritto "connessa" ma avrei forse meglio detto "identificata". La vita e lo spazio-tempo sono elementi che rispecchiano l'esistente, si rinnovano di continuo e di continuo muoiono.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-tempo-coincide-con-la-vita/2172785/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Articolo 18, l'ossessione di governo e sindacati
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2012, 03:46:36 pm
L'EDITORIALE

Articolo 18, l'ossessione di governo e sindacati

di EUGENIO SCALFARI

COME in molti temevamo, l'articolo 18 è diventato un'ossessione ideologica sia per il governo sia per i sindacati. Il governo ne fa una condizione preliminare per la riforma del mercato del lavoro: se non si abolisce o almeno non si riscrive togliendo di mezzo l'ipotesi del reintegro dei licenziati, non si potrà migliorare la flessibilità in entrata e in uscita dei posti di lavoro e non si potrà combattere efficacemente il precariato.

I sindacati dal canto loro lo considerano la sola vera protezione dell'occupazione esistente nelle piccole aziende, che sono l'enorme maggioranza dell'economia italiana e quindi si oppongono a qualunque ritocco di quella norma.

Sbagliano sia il governo sia i sindacati. L'articolo 18 non serve infatti a impedire i licenziamenti discriminatori che i giudici possono in ogni caso bloccare ove ne accertino l'esistenza. Ma non impedisce affatto un miglioramento sostanziale della flessibilità e una riforma positiva del mercato del lavoro.

Sembrava fino a pochi giorni fa che Monti e Fornero avessero deciso di accantonare il tema e di procedere allo snellimento dei contratti di lavoro e di normative di contrasto del precariato. Ma ora si sono di nuovo impigliati in questa questione motivando che l'Europa e il mercato chiedono l'abolizione di quella norma. I mercati in realtà dell'articolo 18 se ne fregano, fino a un anno fa lo "spread" oscillava tra i 100 e i 150 punti nonostante che l'articolo 18 fosse in vigore.

Quanto all'Europa (e alla Germania) quella
norma non ha niente a che vedere con il rigore e non è certo essenziale per la crescita per la quale semmai siamo noi in credito sia con l'Europa sia con la Germania.

Monti ha detto - nell'intervista data venerdì al nostro giornale - che i governi precedenti al suo "hanno avuto troppo buon cuore nei confronti degli italiani". Ancora una volta si è espresso in modo improprio come ha fatto riguardo al posto fisso "monotono". Il buon cuore dei precedenti governi sarebbe la causa dell'immenso debito pubblico accumulato negli anni Ottanta e mai affrontato con serietà per ottenerne la diminuzione. È esatto, salvo la notevole riduzione ottenuta da Ciampi e da Prodi che però fu rapidamente dissipata da Berlusconi e Tremonti. Ma l'immenso debito non si può attribuire al buon cuore, bensì alla preferenza di quei governi di scaricare sulle future generazioni l'onere d'un bilancio in pareggio da ottenere attraverso il fisco.

Meglio indebitarsi che tagliare la spesa o far pagare le imposte. Questo non è buon cuore ma furba demagogia.
L'articolo 18 dunque non deriva dal buon cuore di nessuno.

Fu introdotto nello statuto dei lavoratori per tutelare i dipendenti delle piccole imprese dove il sindacato interno non esiste. In tempi duri se ne può discutere purché non diventi un'ossessione né per gli uni né per gli altri.

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Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera.

Quest'ultima dipende dall'andamento dell'economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati.
Gli ultimi due - sindacati e imprese - possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività e della competitività. Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d'acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino.
Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l'edilizia scolastica, l'edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo "sfasciume pendulo" delle montagne.

Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all'immobilismo più disastroso.

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Ci sono quattro modi per procurare risorse:
1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari.
2. Recuperare i miliardi evasi.
3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico.
4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.

Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il "trend" dell'economia reale occorre che la loro disponibilità sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall'evasione è realistico aspettarsi quest'anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.

Dall'utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi.
L'imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo.
Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d'una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all'1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell'Ici contiene già un prelievo "progressivo".

Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già nel 2013.
L'operazione della liquidità attuata dalla Bce sta già producendo i primi benefici e altri ne verranno dal secondo sportello che Draghi ha predisposto per il prossimo febbraio. Si tratta d'un meccanismo di cui beneficiano sia le imprese sia i rendimenti dei titoli di Stato con conseguenze notevoli sull'andamento dell'economia reale e sulle aspettative dei mercati.

                                                                * * *

L'ottimismo è dunque motivato sempre che il governo possa continuare il suo lavoro fino al termine della legislatura.

Personalmente credo che questo avverrà, l'ipotesi che il Pdl venga meno all'impegno assunto non mi sembra realistica.

Esiste tuttavia un problema politico che riguarda i partiti e la loro innegabile crisi. Questo problema ha due aspetti: la legge elettorale e la natura stessa dei partiti che non potrà più essere quella che abbiamo fin qui conosciuto.

I partiti, di fatto, non esistono più. Esistono soltanto sparuti gruppi dirigenti e autoreferenti, che hanno perso ogni contatto col territorio e con gli elettori; una sovrastruttura che conserva un potere parlamentare, circondato però da una generale e crescente disistima che alimenta pericolosi fenomeni di antipolitica, mentre i compiti che si prospettano nella futura legislatura saranno non meno impegnativi di quelli che il governo Monti si è addossato.

Per riguadagnare il terreno che la politica ha perduto a causa dei partiti, diventati gusci vuoti e agenzie di collocamento delle proprie clientele, è dunque necessaria una profonda riflessione autocritica che purtroppo non è neppure cominciata né a destra né a sinistra. Non la sta facendo il Pdl e neppure il Pd. Il centro è più al riparo da quella crisi perché beneficia del fatto di essere un'opzione tra due debolezze ed in più beneficia anche d'una evidente attenzione da parte della Chiesa.

Ma il centro, da solo, cesserebbe di esistere; non a caso ha assunto il nome di Terzo polo che ne presuppone l'esistenza di altri due.

La destra dovrebbe rinascere dalle ceneri del berlusconismo, impresa quanto mai difficile fino a quando il Pdl non imploderà. Prima o poi quell'implosione avverrà perché è scritta nella natura di quel partito, un'accozzaglia di tribù tenute insieme dal populismo del vecchio padre-padrone, ormai finito in una rovina. Ci sarà ben poco di utilizzabile in quella rovina.

Resta il Partito democratico e la sinistra. Bersani, dopo le recenti amministrative e i referendum, ebbe una giusta intuizione: mettere il partito al servizio dei movimenti congeniali con la visione riformista del Pd e chiamarli a manifestare la loro vitalità in occasione delle primarie.

Nel frattempo fare del partito il luogo di dibattito e approfondimento dei temi di fondo: una visione dell'Italia e dell'Europa del futuro, un processo costituente da realizzare nella prossima legislatura, l'avvio della terza Repubblica ridando alla politica la forza propulsiva che ha da tempo e in larga misura smarrito.
Dopo questo governo nulla sarà più come prima. I partiti non si illudano di ricondurre la politica alla partitocrazia della prima Repubblica; si uscirà dal presente guardando al futuro e non tentando di recuperare un passato ormai sepolto per sempre.

Purtroppo questa tentazione esiste e se non sarà debellata porterà altre sciagure. Sta agli uomini di buona volontà far sì che questo non accada.

 
(05 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/05/news/articolo_18_l_ossessione_di_governo_e_sindacati-29360284/?ref=HREC1-22


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il paradosso di Atene e le due sedie dell'Europa
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2012, 06:32:41 pm
L'EDITORIALE

Il paradosso di Atene e le due sedie dell'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Ci sono due temi di stringente attualità ai quali voglio oggi dedicare queste mie riflessioni: il probabile fallimento greco e le sue ripercussioni sull'Europa; i partiti e la democrazia italiana dopo Monti (e dopo Napolitano). Al centro di questa tenaglia c'è il paese Italia con i suoi vizi (molti) le sue virtù (poche) le sue contraddizioni (infinite).

Comincio dal primo: il fallimento greco e la sua uscita dall'euro è ritenuto pressoché inevitabile entro il prossimo marzo o al più tardi nel prossimo autunno. La società di quel paese ha dichiarato guerra al governo che ha tentato di attuare il piano di austerità impostogli dall'"Europa tedesca". Inutilmente. L'aumento del debito in rapporto al Pil è alle stelle (180 per cento) e altrettanto alle stelle i rendimenti del debito sovrano che il sistema bancario internazionale giudica ormai carta straccia tanto da accettarne (malvolentieri) una liquidazione solo con uno sconto del 70 per cento.

La situazione si è dunque avvitata e non si avvistano alternative valide, se ne può soltanto prolungare l'agonia.
La cancelliera Merkel ha detto due giorni fa che il fallimento della Grecia avrà rischi incalcolabili sull'Unione. Voce dal sen fuggita, si potrebbe dire, poiché proviene dalla stessa persona che si è finora tenacemente opposta ad adottare la sola misura che poteva mettere al sicuro la Grecia dal trauma e con essa il Portogallo che la segue a ruota e l'Irlanda, per non parlare della Romania e della
Bulgaria: la creazione degli Eurobond e la sostituzione dell'Eurozona nella titolarità dei debiti sovrani dei 17 paesi che ne fanno parte. Una soluzione di questo genere significava la nascita dello Stato federale europeo, almeno per quanto riguarda i paesi che hanno adottato la moneta comune. Ma né la Germania né la Francia sono ancora disposti a questo passo. Il loro obiettivo resta quello d'una Confederazione rafforzata da alcune parziali cessioni di sovranità dagli Stati nazionali: una via di mezzo che significa di fatto sedersi tra due sedie, cioè col sedere per terra.

* * *
Francamente non so valutare se l'economia greca, una volta che sia uscita dall'euro e tornata alla dracma, riuscirà a sopravvivere e perfino a riprendersi. Probabilmente sì, una svalutazione "selvaggia" della dracma, un sostanzioso slancio del turismo, la vendita di alcuni formidabili asset culturali migliorerebbero la situazione patrimoniale. Potrà bastare? Oppure precipiterà il paese in una vera e propria guerra civile e nella sua frantumazione politica e geografica? Le previsioni sono quanto mai azzardate su temi di questa natura.
Meno azzardate sono le previsioni su quanto potrebbe accadere agli altri membri dell'Eurozona, rimasti in 16 o magari in 14 se anche Portogallo e Irlanda arrivassero al "default". Abbiamo già ricordato che la Merkel parla di danni incalcolabili per il resto dell'Eurozona e anzi di tutta l'Unione. Certo non sarebbe una passeggiata amena gestire una crisi di quella natura, non tanto per le dimensioni dei debiti sovrani in questione quanto per il fatto che alcune grandi banche, soprattutto tedesche e francesi, ne possiedono una notevole quantità nei loro portafogli. A loro volta le obbligazioni di quelle banche tedesche e francesi sono in ampia quantità possedute da banche importanti in tutto il mondo.

Insomma, il fallimento di due o tre paesi dell'Eurozona avrebbe ripercussioni molto serie sul sistema bancario internazionale obbligando gli Stati nazionali a nazionalizzare totalmente o parzialmente una parte notevole dei rispettivi sistemi bancari. Con quali strumenti? Stampando moneta attraverso le rispettive Banche centrali: Federal Reserve, Bce, Banca d'Inghilterra, Banca nazionale svizzera e probabilmente anche le Banche centrali della Cina, India, Giappone, Russia.

Gli effetti generali d'un salvataggio bancario di queste dimensioni in tempi di recessione già in corso, ne prolungherebbe la durata producendo al tempo stesso inflazione. Si chiama "stagflation" che è quanto di peggio possa capitare specialmente in Europa e in Usa. Forse la Merkel è questo che aveva in mente. Per farvi fronte l'Europa ha due strade (che sono state indicate nell'articolo del direttore del "Times" che il nostro giornale ha pubblicato venerdì scorso): marciare dritti verso la costituzione d'un vero e proprio Stato federale europeo oppure ritrarsi in una Confederazione europea di libero scambio senza più moneta unica. Due scenari densi d'incognite.

Personalmente continuo ad essere moderatamente ottimista. Credo cioè che l'eventuale crisi bancaria non sarebbe di dimensioni ingestibili; credo che - Grecia a parte - non ci sarebbero altri "default" e credo anche che il fallimento della Grecia produrrebbe un'accelerazione verso un'Europa federale. Credo infine che dal male possa venire un bene e che l'Italia, se Monti potrà proseguire nel suo programma di modernizzazione dello Stato e della società, possa contribuire al bene dell'Europa e al proprio. Probabilmente questi risultati avranno bisogno d'un tempo più ampio che vada oltre la scadenza elettorale del 2013 e questo mi porta ad esaminare il secondo tema di queste riflessioni: la democrazia italiana del dopo-Monti.

* * *
Pensare come alcuni politici italiani ancora pensano, che dopo le elezioni del 2013 tutto torni al "heri dicebamus" è pura follia. La seconda Repubblica è ormai smantellata, la prima è stata sepolta vent'anni fa e non potrà essere resuscitata perché dal 1992 ad oggi l'intera struttura del paese è cambiata e ripristinare la sovrastruttura politica e culturale di allora è manifestamente impossibile. Ci vogliono mutamenti costituzionali e istituzionali, ci vuole una nuova legge elettorale consona, ci vuole soprattutto la rinascita dei partiti che attualmente vivono in uno stato larvale. I partiti come li prevede la Costituzione debbono essere strumenti di elaborazione politica e culturale, portatori d'una visione del bene comune e capaci di raccogliere il consenso degli elettori, cioè la rappresentanza parlamentare, che tuttavia dev'essere anche aperta all'accesso di movimenti e singole persone espressione diretta della società civile.

La legge elettorale costituisce lo strumento che consente la rappresentanza e assicura al tempo stesso la governabilità. Si debbono dunque riformare i partiti anche attraverso l'istituzione delle primarie; si debbono adottare come base elettorale i collegi uninominali, si deve abolire il premio e sostituirlo con un'adeguata soglia di sbarramento per evitare soverchie frantumazioni e improprie alleanze pre-elettorali. Infine si deve impedire che i partiti restino quel che sono e cioè conventicole e consorterie di varia e non sempre esaltante natura.

Le Camere esprimeranno maggioranze e opposizioni. Le maggioranze esprimeranno al Capo dello Stato i valori e gli indirizzi ricevuti dal corpo elettorale ed eserciteranno il doveroso controllo sull'operato del governo. Le opposizioni a loro volta prospetteranno una visione alternativa del bene comune partecipando a pieno titolo al controllo sull'operato del governo e della pubblica amministrazione.

Il finanziamento dei partiti e dei gruppi parlamentari dovrà essere fin d'ora disciplinato in forma idonea; l'argomento fu posto al numero uno del decalogo con il quale il Partito democratico si presentò alle elezioni del 2008 sotto la guida di Veltroni, ma non fu mai concretamente affrontato così come non è stata mai adottata la norma costituzionale che impone una struttura democratica all'interno dei partiti e dei sindacati affidandone la verifica ad autorità terze. Varrebbe la pena che argomenti come questi fossero posti all'ordine del giorno delle forze politiche e sindacali.

* * *
Il presidente della Repubblica ha i poteri che la Costituzione gli affida e questi poteri culminano nella nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei ministri. Evidentemente il Quirinale si deve porre il problema che il suo candidato ottenga la fiducia del Parlamento, ma è al Quirinale che spetta la scelta per compier la quale non è prevista alcuna procedura di preventiva consultazione. La nomina di Monti insegni.
Fu dettata dall'emergenza? Non soltanto. Pur tenendone conto, il presidente Napolitano avrebbe avuto largo campo di scelta perché c'erano almeno altri tre nomi che potevano soddisfare quell'esigenza. Napolitano scelse direttamene e in perfetta aderenza al dettato costituzionale. Questa è dunque la corretta e la più che opportuna procedura e penso che debba essere uno dei pilastri portanti della terza Repubblica.
I contatti tra le forze politiche su questo complesso di questioni è già in corso. Fare previsioni sugli esiti è un'ardua impresa, ma è auspicabile che esse tengano ben presenti le esigenze che qui abbiamo indicato e che emanano dal mutamento dei tempi e delle strutture politiche, sociali, economiche e culturali. Altrimenti saranno costruiti castelli di sabbia, preda dei venti e privi di futuro.

Post scriptum. Alcuni deputati che fanno parte della segreteria del Partito democratico sembrano decisi a presentare ai loro organi dirigenti la proposta di trasformare il Pd in un partito socialdemocratico sullo schema del partito socialista europeo. Ciascuno pensa e fa quel che "il core mi ditta dentro e va significando" ma il senso di questa proposta mi sfugge.

Sono tra gli elettori del Pd ed ho partecipato alle primarie fin dai tempi dell'Ulivo di Prodi e poi del Pd come certificano le liste stilate nei gazebo dove il voto delle primarie veniva raccolto insieme ai dati anagrafici dei votanti. Credo sia il solo partito italiano che adotta le primarie e me ne rallegro, ma non credo che avrei votato per un partito socialdemocratico che oggi a me sembra del tutto anomalo nel panorama italiano. Se la proposta passasse penso che sarebbe un favore per il partito dell'Udc, un genere di favore che non può essere ricambiato.
Il Pd è nato appena quattro anni fa come partito riformista e innovativo ed ha avuto il voto anche di molti liberali di sinistra ed ex azionisti come anch'io sono. Quando si presentò alle elezioni ebbe il 34 per cento dei voti: mai i riformisti italiani, durante la monarchia e poi durante la repubblica, erano arrivati ad un terzo del corpo elettorale. Era lo stesso livello raggiunto dal Pci di Berlinguer, di cui però il Pd non era la continuazione.

Sarei molto lieto di conoscere in proposito l'opinione del segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Tanto per sapere, come elettore del partito da lui guidato.

(12 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/12/news/scalfari_12_febbraio-29737119/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Internet sfida la madre Russia
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2012, 05:06:33 pm
Opinione

Internet sfida la madre Russia

di Eugenio Scalfari

A Mosca il senso di sicurezza e di protezione dall'alto ancora oggi fa premio sulla libertà.

E una gracile società civile difficilmente batterà l'oligarchia economica che comanda attraverso Putin

(09 febbraio 2012)

Avevo letto qualche giorno fa il racconto di Ezio Mauro che era andato a Mosca e aveva incontrato i capi della protesta anti-Putin che preparavano la manifestazione del 4 febbraio. Quando è tornato mi ha raccontato la sua esperienza. Ezio a Mosca ha vissuto per due anni come corrispondente di "Repubblica" nel periodo della "Glasnost" e della "Perestroika", al tempo di Gorbaciov e poi di Eltsin e il suo racconto mi ha ricordato quei tempi.

Andai anch'io due volte a Mosca e intervistai Gorbaciov, insieme alla nostra Fiammetta Cucurnia. Avevamo molta simpatia per quel leader che si batteva per instaurare il "comunismo dal volto umano". Allora non c'era la rete di Internet, i blog e gli i-Pod attraverso i quali Aleksej Navalny ha mobilitato 120 mila persone e le ha guidate in corteo a piazza Bolotnaja. Scandivano lo spot "Russia senza Putin", gridavano "libertà" e cantavano l'inno del film "Spartacus" che ha messo in scena la rivolta degli schiavi contro Roma.

Gorbaciov nei giorni scorsi è tornato a Mosca e ha pubblicamente manifestato apprezzamento per i "protestanti". Spera che Putin si convinca a smantellare l'autocrazia che è la sostanza del suo regime e riprenda il filo gorbacioviano che fu bruscamente interrotto dal colpo di stato di Eltsin. Avranno, gli indignati russi di oggi, la forza di imporre una così radicale trasformazione? E Putin sarebbe disposto a cambiare fino a questo punto il suo modo di governare?

I "protestati" non lo pensano e soprattutto non lo vogliono. La loro parola d'ordine è "Repubblica e libertà". Sanno che non riusciranno a impedire la vittoria di Putin alle presidenziali del 4 marzo, ma credono nella rivoluzione pacifica che - dice la scrittrice Ulitskaja - farà nascere in Russia quella società civile che non c'è mai stata.

I "protestanti" hanno vari punti di riferimento storico. Il più lontano è la rivoluzione russa del 1905 che impose allo zar una forma sia pur timida di Parlamento e l'effettiva soppressione della servitù della gleba nelle campagne che era stata decretata 40 anni prima ma mai realmente attuata.

Il secondo punto di riferimento è quella della nascita dei "figli dei fiori" che ebbe come punto di partenza i campus delle università californiane e i grandi concerti di massa al ritmo del rock, nei primi anni Sessanta. Il terzo è il Sessantotto francese ed europeo. Il quarto gli "indignados" dei giorni nostri e - forse - i giovani egiziani di piazza Tahrir. Ma la Russia è un'altra cosa, un'altra realtà.

A me pare, per quel poco che ne so, che - a differenza di ciò che pensa la Ulitskaja - la Russia abbia avuto e abbia una società civile. Ce l'ha fin dai tempi della grande letteratura dell'Ottocento, dei Puskin, dei Turgenev, dei Gogol, dei Cechov e di Dostoevskij e Tolstoj. Ce l'ha soprattutto dalla rivoluzione della primavera del 1917, che proclamò la Repubblica, guidata dai menscevichi e dal partito socialista-rivoluzionario. Lì nacquero i soviet che furono, all'inizio, l'espressione d'una società civile formata da intellettuali, borghesi e operai.

Certo non fu mai una società numerosa e capillarmente diffusa, mancava una classe borghese capace di sostenere i suoi valori liberali. Era una società civile gracile e fu quella gracilità che indusse Marx a vaticinare la rivoluzione proletaria in Germania e in Inghilterra ma non certo in Russia e indusse Trotzkij a predicare la rivoluzione mondiale avversando il socialismo in un solo paese adottato da Stalin.
Ma la Russia, quella di oggi come quella di ieri, è ancora per molti "la madre Russia" e la "Santa Russia", dove il senso di sicurezza e di protezione dall'alto fa premio sulla libertà. La borghesia adesso esiste ma è nata dalla corruzione, dalla svendita dell'industria di Stato e dalla nascita degli oligarchi.
L'autocrazia di Putin - se vogliamo applicare il lessico marxiano - è la sovrastruttura dell'oligarchia economica. Questo è l'ostacolo. Basterà Internet a farlo saltare?


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/internet-sfida-la-madre-russia/2173764/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché nel Paese si continua a rubare
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2012, 11:33:12 am
IL COMMENTO

Perché nel Paese si continua a rubare

di EUGENIO SCALFARI

VENT'ANNI dopo Tangentopoli la Corte dei conti, ripetendo una denuncia più volte portata all'attenzione del governo, del Parlamento e della pubblica opinione, ha segnalato che la corruzione è il male più diffuso nella società italiana e l'ha quantificata in 60 miliardi annui. Sommandola all'effetto tributario di minori entrate derivanti dall'evasione (quantificabile in 120 miliardi), si ha una cifra complessiva di 180 miliardi.
C'è una differenza tra il 1992 ed oggi, è stato chiesto a Gerardo D'Ambrosio che fu uno dei protagonisti della stagione di Mani pulite? Ha risposto: "Sì, allora si rubava per il partito, oggi si ruba per se stessi". Comunque si continua a rubare. Abbiamo un primato sugli altri Paesi dell'Occidente, in fatto di corruzione li superiamo largamente ed invece siamo largamente in coda alla classifica per quanto riguarda la competitività. Evidentemente esiste un nesso tra quei due fenomeni.

Ci sono poi altri aspetti della nostra società che fanno riflettere: la disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni è del 31 per cento (nel Sud molto di più); il precariato è alto in tutte le fasce di età (fino ai 50 anni) e rappresenta ormai un quarto della forza-lavoro; la criminalità organizzata accresce il suo peso delinquenziale e il suo reddito, ha ormai invaso anche il Nord e fa parte di una vasta rete internazionale con propri codici di comportamento, propri valori, proprie istituzioni. Insomma quasi uno Stato nello Stato.
Tutti questi
elementi non fanno che creare un clima di corruttela generale. Non a caso l'inizio di Mani pulite coincise con l'assassinio di Falcone e Borsellino.

Ha detto D'Ambrosio rispondendo ad una domanda dell'Avvenire: "Emerse un sistema generalizzato che aveva contribuito ad una spesa pubblica fuori controllo. Si arrivava perfino a bandire appalti inesistenti pur di ottenere denaro per i partiti. Gli imprenditori sapevano che non c'era altra possibilità di ottenere lavoro se non quella di trovarsi padrini politici, con ripercussioni deleterie nella pubblica amministrazione".

I partiti dal canto loro partecipavano collegialmente al ladrocinio; esistevano percentuali di ripartizione stabilite di comune accordo; la Dc e il Psi incassavano dal 10 al 15 per cento del valore dei lavori appaltati, gli altri decrescevano secondo il peso elettorale e politico; l'opposizione, più che denari contanti, otteneva quote di lavoro per le cooperative ed erano poi queste a trasferire una parte del ricavato al Pci.

Mani pulite rivelò che lo Stato era corrotto fino al midollo perché la partitocrazia aveva occupato le istituzioni. Di qui partì la questione morale denunciata da Enrico Berlinguer. Interrogati oggi su Tangentopoli, alcuni degli esponenti del "pool" di Mani pulite, rispondendo alla domanda del perché le Procure si siano mosse soltanto nel 1992 mentre il fenomeno era in atto dai primi anni Ottanta, hanno risposto che non sapevano nulla fino a quando scoppiò il caso Chiesa e le mazzette del Pio Albergo Trivulzio. Forse non leggevano i giornali quei procuratori, o almeno non leggevano Repubblica. Noi denunciammo sistematicamente la corruttela di Stato a partire dal 1985. Nel '87 denunziammo anche il corrotto sodalizio Craxi-Berlusconi.

Conclusione: Mani pulite fu una benedizione. L'effetto di quell'inchiesta fu l'affondamento della partitocrazia. Ma purtroppo non bastò.

***

Non bastò per tre ragioni. La prima: non vi fu una lotta continuativa, sistemica come ora si usa dire, contro la corruzione. Una legge in proposito fu varata da Giuliano Amato ma era solo un inizio che non ebbe alcun seguito.

La seconda ragione fu il berlusconismo che era caratterizzato da una polemica di alta intensità contro la magistratura inquirente e giudicante e da leggi che indebolirono fortemente le sanzioni contro i reati tipici della corruzione, a cominciare da quelli sul falso in bilancio.

La terza fu l'ischeletrirsi dei partiti che si preoccupavano sempre meno del loro rapporto con gli elettori e si rattrappirono su se stessi. L'antipolitica  -  da sempre latente nello spirito degli italiani - tornò ad essere un fenomeno di massa alimentato dal populismo, dalla demagogia e dal pessimo esempio fornito dalla classe dirigente.

Il solo punto di riferimento positivo e in controtendenza fu la presidenza della Repubblica durante i settennati di Ciampi e di Napolitano. Quest'ultimo - ancora in corso fino al maggio del 2013 - si trovò a dover affrontare la più grave crisi economica dopo quella del '29, ancora in pieno svolgimento. Se il Quirinale non fosse stato e tuttora non sia in mani sicure ed efficienti dal punto di vista della democrazia e dell'economia sociale di mercato, navigheremmo in mari assai più tempestosi di quelli pur agitati che il governo Monti sta affrontando.

***

Il nostro circuito mediatico ha dato in questi giorni molta evidenza alla notizia dell'Istat che negli ultimi due trimestri del 2011 l'Italia è entrata in recessione e all'altra notizia di ottantamila giovani che hanno perso il posto di lavoro nei nove mesi dello scorso anno.

Sono due notizie molto spiacevoli ma erano note da tempo anche se l'Istat ha dato loro il crisma dell'ufficialità; sicché il clamore mediatico è francamente eccessivo. Il vero tema da porre oggi è quello di capire se la recessione continuerà, fino a quando e con quale intensità.

Continuerà, non c'è dubbio, non solo in Italia ma anche in Europa. In Usa sembrerebbe invece che sia in vista una moderata ripresa, ma non tale da far da locomotiva al convoglio. La durata dipende da vari fattori: provvedimenti di crescita adottati dall'Unione europea, provvedimenti di crescita nei singoli Paesi dell'Unione, definitiva soluzione della questione greca, politica monetaria della Bce.

Sui provvedimenti di crescita dell'Unione europea non c'è da farsi molte illusioni, anche se le ultime vicende politico-costituzionali della Germania hanno cambiato sostanzialmente il quadro. Lo si è visto all'evidenza nelle telefonate Merkel-Sarkozy con le quali la Cancelliera ha dovuto motivare con le dimissioni del presidente della Repubblica Wulff la sua impossibilità di abbandonare Berlino. Da quello che è trapelato la Merkel si trova ora in uno stato di notevole difficoltà e le ragioni ne sono ampiamente spiegate nelle nostre pagine dedicate a questo tema. La sua debolezza politica comporta di pari passo un'accresciuta capacità di negoziato da parte di quegli europei che puntano sulla crescita e su una più costruttiva pietas nei confronti del governo e soprattutto del popolo greco. Questi uomini hanno un nome e vedi caso il nome è il medesimo e si tratta di due italiani, Monti e Draghi.  Al punto in cui siamo, per fugare ogni dubbio sulla ripresa dell'Europa occorrerebbe il trasferimento, sia pur parziale, dei debiti sovrani dagli Stati all'Unione. Finora la Germania non è stata d'accordo; sarà possibile una resipiscenza dopo quanto sopra detto? In alternativa ci vorrebbero trasferimenti più corposi dall'Unione agli Stati per aiutare le politiche di sviluppo dei medesimi, ma bisognerebbe stabilire un'imposta europea per rimpinguarne il bilancio; per esempio un'Iva europea, provvedimento peraltro non privo di effetti depressivi e/o inflazionistici.

Ma stimolare la domanda nei singoli Stati è un'impresa necessaria. Il governo Monti ci sta pensando ed è auspicabile che dai pensieri si passi ai fatti. Dal recupero dell'evasione e dal taglio delle agevolazioni fiscali inutili (spending review) ci si possono attendere una ventina di miliardi. La riforma delle pensioni e le liberalizzazioni ne possono dare almeno altri dieci e forse più, ma non prima del 2013-14.

Per quella data si può dunque prevedere una massa d'urto di 40 miliardi strutturali e con un bilancio in pareggio un saldo positivo delle partite correnti di 5 punti di Pil da destinare alla graduale diminuzione del debito sempre che lo spread diminuisca sotto quota 200 o più.

La massa d'urto dovrebbe finanziare sgravi fiscali alle fasce di reddito medio-basse, ai contributi delle imprese sugli stipendi dei dipendenti, agli ammortizzatori sociali. Concludendo: nel 2013 la recessione dovrebbe esser finita e nel 2014 il reddito italiano dovrebbe poter crescere del 2 per cento annuo.
Alla base di questi miglioramenti è prevedibile, anzi è sicura perché già in atto (e se ne stanno infatti vedendo i primi positivi effetti) una politica monetaria espansiva da parte della Bce.

Il temuto default del debito greco sarà certamente tamponato fin da domani, ma lascia quel Paese in condizioni drammatiche. Sappiamo quali sono stati gli errori colposi e per certi aspetti perfino dolosi dei governi greci degli ultimi dieci anni (compreso il dispendio per le Olimpiadi). Ma la responsabilità dell'Europa tedesca in questa triste vicenda è stata gravissima.

Non si può commissariare un Paese solo per tutelare la propria ricchezza nazionale. Non si può giocare con i bisogni primari di un popolo sovrano. Non si può provocare una quasi guerra civile per una manciata di spiccioli lesinati. Non si può mettere a rischio il sistema bancario internazionale.

Due parole ancora sulla Germania. È il nostro principale alleato europeo ma nessuno può dimenticare che la Germania è responsabile di due guerre mondiali e di un genocidio. Dovrebbe tener presente questi dati della sua recente storia e operare con estrema cautela prima di assumersi altre altrettanto gravose responsabilità. Mettere a rischio non solo la Grecia ma il destino stesso dell'Europa è un pericolo che  -  se non segnalato in tempo  -  può creare una situazione politicamente invivibile nel nostro continente e nella sua pubblica opinione che finirebbe con l'additare la Germania per la quarta volta in un secolo come il nemico pubblico numero uno.

Forse è venuto il momento che le voci autorevoli dell'Europa politica, culturale e mediatica lancino questo avvertimento alla Germania democratica. Bloccato il default a durissime condizioni, la Grecia deve essere aiutata a ritrovare un minimo di prosperità alla quale i suoi cittadini, che sono anche cittadini europei, hanno anch'essi diritto.

Post scriptum. Bene Elsa Fornero e bene i sindacati confederali. Il negoziato è cominciato costruttivamente e ci si augura che così possa concludersi togliendo al mercato del lavoro tante inutili ingessature che favoriscono la precarietà e impediscono la necessaria flessibilità in tempi di globalizzazione. Lascino da parte l'articolo 18. La sua esistenza è utile soltanto per impedire licenziamenti discriminatori che vanno comunque bloccati e sanzionati. Per il resto è un numero che non ha alcun significato, sia che rimanga sia che venga abolito.

(19 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/19/news/editoriale_scalfari_19_febbraio-30134098/?ref=HREC1-21


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il governo Monti tra destra e sinistra
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:23:11 pm
IL COMMENTO

Il governo Monti tra destra e sinistra

di EUGENIO SCALFARI


Fino a poco tempo fa si diceva che l'Europa avesse molti problemi, uno dei quali era la Grecia ma i più preoccupanti erano la Spagna e soprattutto l'Italia. Oggi però risulta chiaro che il vero problema è l'Europa, anzi l'Europa tedesca perché è la Germania a dare il "la" a tutta l'orchestra delle istituzioni europee. Il presidente del Consiglio, Herman Van Rompuy, il presidente della Commissione Manuel Barroso, i commissari, i direttori generali e i loro vice, i segretari del Parlamento di Strasburgo e i funzionari delle commissioni parlamentari: una vasta e potente burocrazia plurinazionale dove i posti-chiave sono in mano a tedeschi e francesi e ai loro stretti alleati e dove le funzioni politiche sono esercitate da una tecnostruttura che ha gli occhi costantemente rivolti a Berlino.

Il voto all'unanimità, che è ancora la regola per le decisioni più importanti dell'Unione, costituisce una delle varie armi a disposizione della Germania. È vero che esso conferisce un diritto di veto a tutti i Paesi dell'Unione, ma quei veti possono essere controllati, ammorbiditi, aggirati quando a porli sia uno degli altri 26 Paesi membri; ma quando è la Cancelliera tedesca a dire "no", quel no è insuperabile perché  -  tutti ormai l'hanno capito - è Berlino che fa la legge. Anche la Francia infatti ha ormai piegato la testa riconoscendo d'esser figlia di un Dio minore. La Germania è il Paese europeo più ricco, più produttivo, più
innovativo dell'Unione; è il centro geopolitico del continente ed è ormai l'alleato privilegiato degli Stati Uniti.

Questo è lo stato dei fatti anche se formalmente non appare, anzi non appariva fino a qualche anno fa, ma adesso l'egemonia tedesca sulla politica economica dell'intero Continente è conclamata. Purtroppo si tratta d'una politica ottusamente deflazionistica, ottusamente "virtuosa", ottusamente manichea e quindi socialmente crudele. Per conservare ed accrescere la sua egemonia la Germania rifiuta o rallenta il percorso che dovrebbe portarci alla nascita di un'Europa federale come previsto dallo spirito dei trattati fondativi della Comunità. Rifiuta che l'Europa sia rappresentata da una sola voce e che un suo rappresentante (dell'Europa) entri a far parte come membro permanente nel Consiglio di sicurezza dell'Onu. Rifiuta che lo stesso avvenga nel Fondo monetario (Fmi) e nelle altre istituzioni internazionali. Rifiuta infine che la Banca centrale europea abbia lo "status" delle Banche centrali di tutto il mondo.

La Germania vuole invece che l'Unione rimanga a mezza strada tra una semplice Confederazione di libero scambio e un vero Stato con elezioni popolari dirette e organi federali. A mezza strada significa una struttura intergovernativa dove i governi più forti fanno la legge e dove gli Stati nazionali mantengano piena autonomia salvo alcuni spicchi di sovranità trasferiti all'Unione (vedi il rigorismo economico) se quel trasferimento rafforza l'egemonia dello Stato-guida. La situazione attuale si può dunque riassumere così: la Germania impedisce che ai cittadini degli Stati nazionali siano riconosciuti tutti i diritti che una piena cittadinanza europea comporta. Questo è il problema europeo.

Da qualche mese però si è aperta una falla nella carena dell'Europa tedesca. L'hanno aperta Mario Monti da un lato e Mario Draghi dall'altro. Non credo che ci sia un accordo tra loro, ma una convergenza oggettiva la si vede senza bisogno di lenti d'ingrandimento. L'obiettivo di Monti è di far tornare l'Italia in prima fila sulla scena della politica europea e di favorire ulteriori cessioni di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni dell'Unione. Il documento firmato da Monti e da Cameron, dalla Spagna e dalla Polonia, dall'Olanda, dalla Repubblica Ceca e dagli Stati Baltici, che chiede di concentrare nella Commissione europea la gestione della concorrenza e delle regole che la tutelino soprattutto nel settore dei servizi fin qui trascurato, marcia in quella direzione. Non a caso Germania e Francia per ora non hanno aderito a quell'iniziativa. I "media" dal canto loro l'hanno sottovalutata sebbene essa possieda una forte carica di liberalizzazione intra-europea, mirata non più al rigore già acquisito ma alla crescita. Si tratta in realtà di un'iniziativa contro le "lobby" a livello continentale.

Monti conosce bene quel tema, fa parte della sua lunga esperienza di commissario dell'Unione. Non è un caso che la sua iniziativa europea avvenga in sintonia con il decreto sulle liberalizzazioni in discussione nel Parlamento italiano e non è un caso che proprio l'altro ieri il presidente del Consiglio abbia deciso di disconoscere tutti gli emendamenti che le lobby hanno tentato di introdurre nel decreto attraverso la compiacenza dei partiti di riferimento.

Il presidente della Repubblica  -  che segue con la massima attenzione quanto sta accadendo su questo tema sia in Italia sia in Europa  -  è intervenuto giovedì scorso contro la pioggia di emendamenti eterogenei sul decreto delle semplificazioni ed ha contemporaneamente ricordato l'importanza della politica di liberalizzazioni. Anche il Partito democratico s'è schierato sullo stesso terreno che del resto fu proprio Bersani ad anticipare come ministro dell'Industria all'epoca del governo Prodi. Mario Draghi batte anche lui su quel tasto ad ogni sua uscita pubblica. I veri nodi strategici di questa politica non sono i tassisti, le farmacie e neppure gli ordini professionali. I veri nodi da sciogliere sono i costi dell'energia, la rendita metanifera dell'Eni, l'intreccio degli interessi tra le banche, le fondazioni, le compagnie d'assicurazione. E anche, ovviamente, il mercato del lavoro.

La battaglia delle liberalizzazioni non ha niente a che vedere con l'ideologia liberista. Soltanto una sinistra becera e aggrappata alle mitologie e alle ideologie del secolo scorso può identificare la lotta contro le corporazioni e contro gli intrecci d'interesse con il thatcherismo e il reaganismo. Il capitalismo democratico e la politica sociale di mercato furono l'esatto contrario del liberismo selvaggio che porta sempre nel suo ventre l'oligopolio e il monopolio. L'economia globale ha riaperto questo problema ponendolo su basi del tutto nuove. Il capitalismo democratico rese possibile l'incontro con il riformismo socialista nel felice trentennio che va dal 1945 alla metà degli anni Settanta. Ora quel modello va ricostruito su nuove basi.

Nuovo modello ma identici obiettivi. Per questo è un'assurdità porre la domanda se Mario Monti sia di destra o di sinistra. Monti è un riformista e un innovatore. Ci può essere una destra riformista e innovatrice (la Destra storica lo fu) e una sinistra riformista e innovatrice e così pure un sindacato e un'imprenditoria con quei medesimi obiettivi. Qualche nome del nostro passato, tanto per avere concreti riferimenti? Li ho già fatti in altre occasioni quei nomi ma forse è bene ripetersi per chi non ha orecchi per ascoltare o cervello per intendere: Luigi Einaudi, Ezio Varoni, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Raffaele Mattioli, Altiero Spinelli, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Luciano Lama, Pasquale Saraceno, Nino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi. L'elenco è assai più lungo, per fortuna c'è stata e c'è ancora un'Italia perbene, responsabile e consapevole, che antepone l'interesse generale a tutti gli altri. Credo che i nostri due Mario facciano parte di questo elenco.

La riforma del mercato del lavoro fa parte della politica di liberalizzazione la quale non si limita a liberalizzare le merci e i servizi. Questa è la parte più facile ed è già in gran parte avvenuta in Europa con la nascita della Comunità e i trattati di Roma del 1957. Può e dev'essere migliorata e completata, ma il nodo da sciogliere ora è un altro e riguarda le persone. Il mercato del lavoro non è uno spazio unitario ma uno spazio segmentato. C'è un mercato del Sud e uno del Nord, un mercato del lavoro per gli uomini e uno per le donne, uno per i giovani e uno per gli anziani, uno a tempo indeterminato e uno a tempo determinato, uno alla luce del sole e uno sommerso, uno per le piccole imprese e uno per le grandi, uno per i privati e uno per lo Stato e gli enti pubblici, uno per i cittadini e uno per gli immigrati. Infine ci sono gli occupati, i sotto-occupati e i disoccupati e ci sono tutele sociali per alcuni e nessuna tutela per altri.

Si può dire che il mercato del lavoro in Italia in queste condizioni di intensa segmentazione fatta di veri e propri compartimenti-stagno non comunicanti tra loro, sia un mercato libero dove liberamente si confrontano la domanda e l'offerta di lavoro? Certamente no e lo sanno benissimo le rappresentanze sindacali dei lavoratori e quelle degli imprenditori. Un vero mercato libero e unitario non ci sarà mai perché alcune segmentazioni dipendono dalle diverse tipologie di lavoro; ma l'intensità delle segmentazioni attuali è irrazionale e insostenibile, impastata da privilegi e da rendite di posizione. Un governo che voglia modernizzare la società e accrescerne la produttività puntando sulla liberalizzazione del sistema ha dunque tra i primi obiettivi quello di riformare il mercato del lavoro, gli strumenti contrattuali che ne costituiscono le nervature, i meccanismi di tutela sociale e la parità di accesso e di recesso privilegiando i settori più sfavoriti e più deboli, cioè i giovani e le donne.

In un quadro di queste dimensioni la discussione sull'articolo 18 dovrebbe essere del tutto marginale. Forse simbolica, ma nella sostanza marginale sia per il governo sia per le parti sociali riunite intorno a quel tavolo. Quell'articolo sta per tutela della giusta causa. È evidente a tutti che la giusta causa in un Paese moderno e civile è un canone da rispettare. Non si può licenziare un lavoratore solo perché è antipatico al padrone; tanto meno per le sue opinioni o per il colore della pelle. Ma si deve poter licenziare se il lavoratore non rispetta i ritmi di lavoro previsti dal contratto, se rompe la disciplina che il contratto prevede, se l'azienda deve ridurre la produzione per ragioni economiche dimostrate. Questo complesso di elementi che configura sia l'accesso al lavoro sia il recesso, sono tutelabili in vari modi. L'articolo 18 è alquanto generico ed ha generato una giurisprudenza discutibile e discussa. Può esser sostituito da un testo diverso oppure modificato oppure lasciato tal quale chiarendo meglio la giurisprudenza. In ogni caso  -  come giustamente ha detto Anna Finocchiaro in una pubblica e recente intervista  -  le norme che regolano l'entrata e l'uscita dal lavoro vanno estese a tutte le aziende e a tutti i lavoratori mentre l'articolo 18 restringe la tutela agli occupati in aziende che occupano più di 15 dipendenti. I dipendenti di imprese al di sotto di quella soglia sono privi di tutela e questo non è ammissibile.

Il mercato del lavoro non è mai stato così frastagliato. Lo è da vent'anni in qua. Bloccare l'orologio agli anni Ottanta dell'altro secolo è una richiesta irricevibile e se questo fosse lo spirito del sindacato bisognerebbe concluderne che esso è fuori dal tempo; ma ancor più fuori dal tempo sono coloro che in Confindustria o in altre consimili associazioni vorrebbero tornare all'epoca del "padrone delle ferriere". Le basi per un accordo ci sono perché l'obiettivo comune non può che essere liberalizzazioni moderne, coesione sociale e tutele per i più deboli. Due parole sul governo tecnico e quello politico. In una democrazia parlamentare questa distinzione non può esistere, ogni governo deve avere la fiducia del Parlamento e perciò tutti i governi sono politici. Ci sono invece vari modi per scegliere il Capo del governo. Lo può scegliere direttamente il popolo, lo possono scegliere i partiti e i loro gruppi parlamentari, lo può scegliere il Capo dello Stato. Nel primo caso  -  scelta popolare diretta  -  siamo però fuori dalla democrazia parlamentare. Nel secondo e nel terzo caso ci siamo dentro. La nostra Costituzione prevede il secondo e il terzo caso. Durante la prima Repubblica si praticò la scelta affidata ai partiti e ratificata dal presidente della Repubblica. Nella seconda Repubblica il sistema si avvicinò a quello presidenziale e si distaccò notevolmente da quello parlamentare. Complessivamente sono stati molto rari i casi nei quali è stato rispettato il dettato costituzionale. Avvenne durante il settennato di Luigi Einaudi, un paio di volte in quello di Scalfaro (l'incarico a Ciampi e l'incarico a Dini) e con la nomina di Monti e del suo governo da parte di Giorgio Napolitano.

Chi continua a sostenere che il governo Monti sia soltanto "tecnico" e dettato dall'emergenza, sostiene una cosa giusta (l'emergenza) e un'altra falsa (il governo dei tecnici). A mio avviso il meccanismo adottato da Napolitano è quello che meglio corrisponde al dettato costituzionale e deve dunque sopravvivere al governo Monti diventando norma stabile visto che è l'unica prevista in Costituzione. Nel frattempo il governo governi. L'economia soprattutto, perché l'emergenza lo richiede, ma anche tutti gli altri temi e problemi che riguardano la vita del paese e del suo futuro.

Post scriptum. Il processo Mills-Berlusconi si è concluso con la prescrizione, decisa in sentenza dal Tribunale di Milano. È prassi consolidata che se l'imputato è giudicato innocente, il dispositivo della sentenza ne dia atto. Se invece è giudicato colpevole o se seriamente indiziato di colpevolezza, ma sia caduto in prescrizione, la sentenza applichi la prescrizione nel dispositivo e parli della colpevolezza nelle motivazioni. Attendiamo dunque di leggerle. La difesa dell'imputato sembra orientata ad appellarsi contro le motivazioni della sentenza se esse accogliessero la tesi della colpevolezza. È evidente tuttavia che non ci si può appellare contro le motivazioni se non si fa formale rifiuto della prescrizione. Se questo fosse la decisione della difesa e dell'imputato prescritto, essa sarebbe altamente apprezzabile e noi saremmo pronti a riconoscerlo, ma qualche cosa ci fa pensare che questo non avverrà.

(26 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/26/news/il_governo_monti_tra_destra_e_sinistra-30515312/?ref=HREC1-3


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Il trionfo dei nuovi barbari
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2012, 11:07:03 am
Opinione

Il trionfo dei nuovi barbari

di Eugenio Scalfari

C'è una massa che vive il presente senza progetti e con uno sbiadito ricordo del passato.

Il Festival di Sanremo è l'apoteosi di questa società. Che non ha una visione politica del bene comune

(23 febbraio 2012)

Ho letto domenica scorsa sulla "Repubblica" tre articoli che riguardano un tema molto importante, visto da diverse angolazioni. Ne cito gli autori perché vale la pena di leggerli: Massimo Recalcati, Benedetta Tobagi, Giuseppe Videtti. Il tema è questo: "E' sempre più difficile crescere in un mondo che sogna l'eterna giovinezza. Dai videogame ai social network si è diffuso un modello di società a "responsabilità zero"".

E' un bel tema, non è vero? Ne parlò un anno fa il compianto Tommaso Padoa-Schioppa con la parola "bamboccioni" che allora fece molto discutere. Più recentemente l'ha ripreso Mario Monti a proposito della monotonia del posto di lavoro fisso. Ma qui si tratta d'altro. Non più e non soltanto di giovani che non vogliono invecchiare ma di adulti che non sono tali e diventeranno vecchi essendo rimasti bambini per tutta la vita. Ce ne sono sempre stati al mondo di tipi così, a cominciare da Telemaco col padre Odisseo; ma ora sono diventati massa, una massa che vive il presente senza progetti e speranza di futuro e con uno sbiadito ricordo del passato.

Questo tema dell'eterno presente mi è familiare e gli ho dedicato molte pagine nei miei ultimi libri, ma forse vi stupirete se dico che, dopo aver letto gli articoli sopracitati, m'è venuto in mente per associazione di idee il Festival di Sanremo da poco concluso. Gianni Morandi, Pupo, i cantanti e il pubblico, quello dell'Ariston e quello appiccicato ai televisori: 12-14 milioni di persone con punte anche superiori.

Bamboccioni? Adulti non cresciuti? E Celentano, bravissimo cantante e modesto profeta, per il quale vale la perfetta definizione datagli all'Ariston da Geppi Cucciari: "Nessuno deve sapere prima che cosa dirà e nessuno deve capire dopo che cosa ha detto". Ma forse siamo noi, io e voi che mi leggete, a essere fuori del tempo, chiusi in torri non certo d'avorio ma di plastica per ripararci dal nuovo che avanza?

Il discorso è lungo e per quanto mi riguarda l'ho già fatto nel mio libro "Per l'alto mare aperto" dove racconto che cosa è stata l'epoca della modernità fino all'arrivo dei nuovi barbari.

Io vedo i nuovi barbari come una generazione di giovani vigorosi che scelgono nuove forme di linguaggio e lottano per costruire un futuro del tutto diverso dal nostro lascito, ma confesso che questa visione positiva dei barbari ha trovato fin qui scarso riscontro.

La modernità è certamente un'epoca ormai conclusa, ma la società attuale è profondamente imbarbarita, non crea nuovi valori e si limita a deturpare quelli ricevuti dal passato. Non è capace né di custodire il ricordo della modernità né di rinnovarla e di proiettarla verso il futuro.

Una società imbarbarita può avere una visione politica del bene comune? Ne dubito. Una visione del bene comune comporta un'assunzione di responsabilità poco compatibile con l'imbarbarimento. Le società imbarbarite sono piuttosto sedotte dal populismo e dall'antipolitica. Gli interessi particolari soverchiano quelli generali, lo Stato è considerato un nemico, la Costituzione un vincolo inutile, la legalità una parola vuota, una sorta di plastilina che ciascun interesse lobbistico modella a proprio uso e consumo. E questa è appunto la situazione dalla quale il nostro Paese è appena uscito, o almeno così sembra. Naturalmente il rischio di ricascarci dentro è tutt'altro che scongiurato.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-trionfo-dei-nuovi-barbari/2175021/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una strana gioventù che odia la velocità
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2012, 11:08:23 am
L'EDITORIALE

Una strana gioventù che odia la velocità

di EUGENIO SCALFARI

Ieri è stato il sabato dei No-Tav in Valle e fuori Valle, a Roma e a Milano, a Mantova, ad Imperia, a Pisa, ad Alessandria, a Pesaro, ad Avellino e in molti altri luoghi urbani e universitari. Gli studenti sono infatti molto impegnati e la Tav  -  cioè l'Alta Velocità  -  è diventata l'obiettivo su cui puntare i fucili della polemica, la sfida alla politica e al governo, alle banche e al capitale, all'Europa dei tecnocrati e ai "media" servi dei padroni.

Però i cortei di ieri erano colorati e anche festosi. Qua e là qualche incidente e qualche occupazione stradale ma per fortuna nulla di grave.

Resta pur sempre il problema di come sbloccare la situazione nella Valle. L'idea d'una moratoria (Di Pietro) è bizzarra: i lavori sono in ritardo di sei anni e tutte le indagini geologiche, economiche, ambientali, impiantistiche che dovevano esser fatte sono state fatte; le modifiche al tracciato per venire incontro ad alcune richieste dei sindaci e delle popolazioni che rappresentano, sono state effettuate.

L'idea avanzata da Adriano Sofri d'una consultazione para-referendaria solleverebbe una quantità di questioni molto più spinose di quelle che in teoria dovrebbe risolvere. Anzitutto: chi dovrebbe votare in quella consultazione? I residenti nella Valle o anche le popolazioni servite dalla linea ferroviaria direttamente e indirettamente? E quali sono quelle popolazioni? Torino? Alessandria? Genova? Modena? Il Nordest?

O addirittura tutta l'Italia
se si sta discutendo d'un interesse generale che confligge con alcuni interessi particolari? Per questo c'è un Parlamento e un governo. Il referendum non è previsto né prevedibile, specie quando c'è di mezzo una direttiva europea ed un accordo internazionale tra Italia e Francia.
Infine, una consultazione para-referendiaria creerebbe un precedente che sarebbe certamente invocato per ogni opera pubblica. Capisco le buone intenzioni di Sofri, ma in questo modo si sfascerebbe definitivamente l'amministrazione di un Paese che è già molto sfasciata.

Mi stupisce in particolare la posizione degli studenti, ostile all'Alta Velocità. I treni stanno accrescendo le loro "performance" in tutto il mondo. Sono palesemente in gara con i trasporti aerei. Le linee "dorsali" consentono la costruzione di nuove reti che sviluppino i trasporti locali e "pendolari". Cinquant'anni fa un meccanismo analogo e un'analoga rete furono creati per i trasporti su gomma. Ricordo che la sinistra italiana pose il problema dell'altissimo livello di inquinamento creato dal trasporto su gomma. Il problema fu discusso fin dagli inizi degli anni Cinquanta dello scorso secolo; lo sostenevano uomini come Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, La Malfa, Natoli, ma furono sconfitti: l'alleanza tra l'Eni e la Fiat puntava sul trasporto su gomma e fu quella la scelta. Ma oggi la tecnologia consente di riproporre il treno e gli ecologisti dovrebbero essere in festa ai cortei favorevoli all'Alta Velocità. E i giovani insieme a loro.

Perché sono contrari? Ho letto che tra i più contrari ci sono gli studenti dell'Università della Calabria. Sono di origini calabresi e conosco bene quei territori. Le amministrazioni locali non avevano mai raggiunto un livello di degrado organizzativo e morale come adesso. I giovani dell'Università della Calabria ne avrebbero di problemi da affrontare. Invece si mobilitano contro l'Alta Velocità. Ma che senso ha? Lo "sfasciume pendulo" calabrese segnalato da Giustino Fortunato 150 anni fa continua a far precipitare le montagne fangose nei torrenti e nel mare sottostante. Cristo si era fermato a Eboli, ma nel frattempo la 'Ndrangheta ha fatto man bassa su tutti i territori di quelle zone.

Si teme che le organizzazioni mafiose si aggiudichino le commesse per la costruzione delle reti Tav. Questo sì, è un problema assai grave che va affrontato; non per impedire le opere ma per farle con tutti i crismi di legalità. Se il movimento e i sindaci della Valle si mobilitassero per garantire questi obiettivi; se gli studenti, i giovani, i lavoratori, lottassero per consimili risultati in tutto il Paese: questa sì, sarebbe una battaglia che potrebbe rappresentare un salto in avanti di tutta la società italiana e l'inno per quei cortei è già bello e pronto: "When the Saints / go marching in / I want to be in that number". Coraggio, studenti del Duemila. I vostri padri e i vostri nonni avrebbero voluto qualche cosa di simile, ma rimasero a mezza strada e le loro speranze furono riassorbite dagli interessi delle "lobby". Oggi si può tentare una spallata a quegli interessi, ma bisogna stare dalla parte giusta, non da quella sbagliata.

                                                                    * * *

Le riflessioni fin qui fatte ci portano a riconsiderare (l'ho già fatto più volte nelle scorse settimane) la politica di Monti e il tema del "dopo Monti" che col passare dei mesi si pone con crescente attualità.

Il governo ha compiuto da poco i suoi cento giorni. Ha fatto qualche errore di percorso (chi non ne fa?) sostanzialmente veniale. In qualche punto ha dovuto tener conto della maggioranza che lo sostiene e degli interessi che i vari partiti rappresentano. Ma nel complesso la sua azione si è svolta nella giusta direzione e con la massima velocità.

I dati economici e finanziari parlano da soli e il loro linguaggio è talmente univoco che non vale la pena di sottoporli di nuovo all'attenzione dei lettori.

Nei prossimi giorni entrerà nel concreto la riforma del mercato del lavoro. Ci sono ancora molti punti da decidere tra le parti, ma la sensazione è che un accordo si stia profilando anche se la sua messa in opera avverrà per fasi successive. La sostanza della riforma è che l'accordo copra tutti i vari aspetti del sociale e proceda in modo bilanciato, senza abbandonare vecchie tutele se non quando le nuove saranno pronte e le relative coperture finanziarie disponibili.

Ci vorranno anni perché la riforma possa dirsi compiuta e i suoi obiettivi raggiunti: l'eliminazione del precariato, la flessibilità in entrata e in uscita, il mantenimento della giusta causa per tutti i lavoratori, lo sfoltimento delle diverse tipologie contrattuali, le tutele estese a tutti indipendentemente dal contratto e dalle dimensioni dell'azienda, i processi di formazione.

Ma soprattutto ci vorrà la crescita del sistema e della sua produttività che richiede interventi del governo e impegno degli imprenditori e dei lavoratori. C'è un grosso equivoco ancora da chiarire su questo punto: la responsabilità degli imprenditori per quanto riguarda la produttività è nettamente superiore a quella dei lavoratori. Sarà molto opportuno che questo elemento del problema sia sottolineato e rappresenti un impegno concreto delle associazioni imprenditoriali.

A questo punto si pone la questione del "dopo Monti". Il presidente del Consiglio  -  al quale l'ironia non fa certo difetto  -  ha detto qualche giorno fa che "se farà bene, alla scadenza della legislatura la sua presenza non sarà più necessaria né richiesta; se farà male invece gli si chiederà di restare". Ma c'è una terza ipotesi: che abbia fatto bene ma che il lavoro sia ancora incompiuto. Questa è una parte del tema che chiamiamo "il dopo Monti". Ma c'è un'altra parte non meno importante (anzi di più): la discontinuità che il governo Monti ha prodotto e non perché interamente composto da tecnici ma per le modalità che hanno determinato la sua nascita. Questo è il vero tema del "dopo Monti".

                                                                     * * *

Per colmare quella discontinuità occorre una riforma seria dei partiti, del loro modo di funzionare e soprattutto del loro ruolo nella società. Spetta agli interessati riformarsi anche se non è facile che il malato sappia auto-curarsi. Questa comunque è la prova cui tutte le forze politiche, nessuna esclusa, sono chiamate e che incrocia la riforma della legge elettorale e le riforme istituzionali della "governance".

Ci sono poi le operazioni di schieramento. Berlusconi ha lanciato il "tutti per l'Italia" proponendo che sia Monti a guidare una coalizione basata su due pilastri: i moderati da un lato (con Casini e Fini sottobraccio a lui medesimo) e il Pd dall'altro.

Quest'operazione (l'ha scritto Massimo Giannini ed è l'esatta verità) è disperata: è il solo modo che resta a Berlusconi di garantire l'esistenza del suo partito e la propria. Ma proprio per questo, né Casini né Fini e tantomeno Bersani accetteranno quest'ipotesi. Anzi l'hanno già proclamato e quindi l'ipotesi è inesistente.
L'altra possibilità è un'alleanza (elettorale o post-elettorale) tra il Centro e la Sinistra riformista. Un Centro ovviamente rinforzato dall'implosione del Pdl e una Sinistra riformista che recuperi l'ampia fuga che l'ha assottigliata rispetto alle politiche del 2008.

Su questo tema si discute molto ma spesso con idee assai confuse. Se può essere utile l'esperienza d'un vecchio testimone della politica italiana, il mio parere è questo: il Partito democratico è cosa diversa sia dall'Ulivo sia  -  ancor più  -  dai partiti post-comunisti e post-democristiani che lo precedettero. Si può definire un "cappuccino", fatto di latte e di caffè. Questi due elementi possono essere diversamente dosati secondo le contingenze, ma nessuno dei due può essere eliminato perché  -  se lo fosse  -  il cappuccino non esisterebbe più e ci sarebbe soltanto il caffè da una parte e il latte dall'altra.

Ho usato un'immagine pedestre per esser chiaro e me ne scuso, ma la sostanza è quella.

Il Pd e il Centro possono allearsi per una legislatura costituente. Possono chiedere a Monti di presiedere il governo. Monti risponderà come crede, ma ove la risposta fosse positiva penso che il Parlamento riunito per eleggere il presidente della Repubblica dovrebbe votare per un nuovo settennato di Giorgio Napolitano. Lui e Monti ci stanno portando fuori dal tunnel. Se il lavoro si deve compiere nessuno meglio di quel tandem può farlo. Napolitano  -  lo conosco bene  -  dirà risolutamente di no, ma se il nuovo Parlamento decidesse in quel senso penso che dovrebbe arrendersi alla volontà dei rappresentanti del popolo sovrano. 

(04 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/04/news/una_strana_giovent_che_odia_la_velocit-30907056/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Vendola non entra nel Pd?
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2012, 12:18:35 pm
Opinione

Perché Vendola non entra nel Pd?

di Eugenio Scalfari

Il Pd deve restare un partito liberal-socialista se vuole vincere.

Ma nulla vieta che la quantità di latte e di caffè nella miscela possano cambiare. Per esempio, con l'ingresso di Vendola

(14 marzo 2012)

Domenica scorsa, in un articolo su "Repubblica", ho paragonato il Partito democratico a un cappuccino, non un frate ma la bevanda che è una gustosa mistura di latte e caffè. Ho aggiunto che il dosaggio può variare secondo le vicende congiunturali, ma né il caffè né il latte possono essere eliminati o ridotti a dosi impercettibili, altrimenti il cappuccino cessa di esistere. Poi mi sono scusato con i lettori per aver proposto un esempio pedestre per dare la maggior chiarezza possibile all'argomento.

Non immaginavo l'eco che quell'esempio ha suscitato. La mia posta elettronica in poche ore mi ha recapitato una quantità insolita di messaggi; altri sono arrivati via telefono o con lettere recapitate di persona. Quasi tutti gli interlocutori si dichiaravano d'accordo; qualcuno però - giustamente - mi ha chiesto di dare all'immagine del cappuccino uno sfondo culturale e politico. Raccolgo con piacere questa richiesta.

Quando il gruppo dirigente dell'Ulivo - l'alleanza elettorale e politica che si era raccolta attorno a Romano Prodi nel 2006 - incaricò Veltroni di dare sviluppo al nuovo partito del quale l'Ulivo costituiva il seme, le primarie confermarono quella scelta politica e quella candidatura con 3 milioni di voti. Era l'autunno del 2007, le elezioni generali erano state indette per la primavera e Veltroni espose al Lingotto di Torino il programma del nuovo partito che fu approvato con grande entusiasmo e all'unanimità.

Il programma era molto chiaro: vocazione maggioritaria, riforme strutturali di modernizzazione del sistema-paese, lotta contro ogni discriminazione, piena libertà religiosa, lotta contro le mafie, le lobby e i monopoli. Non sarebbe stato un partito post-comunista né post-popolare, ma riformista e innovatore. Giovani, donne e Mezzogiorno dovevano essere obiettivi di massima importanza. La cultura doveva rappresentare lo strumento-principe della modernizzazione, a cominciare dai partiti il cui ruolo era stato deformato dalla partitocrazia della prima Repubblica e dal populismo della seconda.

Assistetti a quella lunga giornata del Lingotto e nei giorni seguenti pensai a quali ne fossero i precedenti culturali e politici nella storia d'Italia. Mi vennero in mente Turati, Gobetti, il socialismo riformista dei fratelli Rosselli, il liberalsocialismo di Guido Calogero e infine Norberto Bobbio, Piero Calamandrei e Galante Garrone. Queste furono le patenti nobili del riformismo italiano che transitò assai brevemente nel Partito d'Azione ma segnò una traccia profonda nella cultura politica italiana che dura tuttora e che a mio avviso rappresenta (o dovrebbe rappresentare) l'identità profonda del Partito democratico.

Capisco che l'immagine del cappuccino non sia all'altezza di questi precedenti, ma è servita se non altro a suscitare riflessioni che credo utili per il proseguimento di quell'esperienza che conta soltanto quattro anni di vita.
Purtroppo negli ultimi tempi si sono levate alcune voci che contestano quell'identità e si riconoscono piuttosto nella "narrazione" di Nichi Vendola e nelle "declamazioni" di Antonio Di Pietro. Non sono iscritto al Pd ma ho votato alle primarie di quel partito e nelle varie elezioni politiche, europee e amministrative. Faccio un mestiere che mi induce a occuparmi della politica italiana con la maggiore oggettività possibile.

Ebbene: se Vendola si riconoscesse nell'identità del Pd e decidesse di farne parte per accrescere la dose di caffè in quel cappuccino, credo che sarebbe un fatto positivo. Caffè inteso come socialismo riformista. Ma il liberalsocialismo resta lo spirito di fondo d'un partito riformista, senza il quale si ripeterà l'esperienza della "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto e la sinistra italiana uscirà di scena per altri dieci o vent'anni.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-vendola-non-entra-nel-pd/2176156/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Governo e sindacato uniti nell'errore
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2012, 11:55:44 am
L'EDITORIALE

Governo e sindacato uniti nell'errore

di EUGENIO SCALFARI


Due simbolismi contrapposti: l'ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell'articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l'opinione pubblica e il dibattito politico.

I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all'estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l'uccisione del delfino degli Asburgo da parte d'un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.

Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo "spread" potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l'Europa e tutto
questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire  -  mi si passi un'espressione scurrile ma appropriata  -  chi ce l'ha più lungo.

Infatti il peso e l'importanza dell'articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell'economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell'articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all'articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato.

Conosco bene l'obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d'una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale.

Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del "salva Italia" ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita.
Infine osservo che l'articolo 1 della Costituzione recita che l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d'una banalità o d'un principio che deve ispirare il legislatore?

Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall'inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell'estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell'estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all'entrata ed anche all'uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico - come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere - ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.

Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l'errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l'articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione?

* * *

Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch'essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d'accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l'articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l'intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell'etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.

Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato.
L'articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile.

Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un'intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.

La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C'era un solo modo di realizzare quell'obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe.

Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l'articolo 18.

Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all'interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d'allarme.

Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della "strana" maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.

* * *

Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l'imprenditore e il sindacato d'azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l'11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo.

Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D'Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione.

L'incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l'equità e la pre-condizione d'una crescita che d'ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti.
 

(25 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/25/news/governo_e_sindacato_uniti_nell_errore-32158824/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tre chiavi per aprire la gabbia della crisi
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2012, 12:15:25 pm
L'EDITORIALE

Tre chiavi per aprire la gabbia della crisi

di EUGENIO SCALFARI

 
I PROBLEMI da risolvere sono tanti, economici e politici, ma tre sovrastano tutti gli altri perché rappresentano la chiave che può aprire la porta oltre la quale c'è la salvezza, e sono: l'evasione fiscale, il precariato, la creazione di nuovi posti di lavoro.

Ce n'era un quarto, la messa in sicurezza dei conti pubblici e del debito sovrano, ma questi sono già stati risolti nei primi tre mesi del governo Monti dalle congiunte azioni dei due Mario, quello che lavora a Palazzo Chigi e l'altro che sta a Francoforte nella sede turrita della Bce. Le dimensioni dell'evasione appaiono lampanti dalla tavola dei redditi resa nota nei giorni scorsi, aggiornata al 2010. Di solito, nelle società dove le imposte sono normalmente pagate, la distribuzione del reddito configura una trottola con un vertice sottile, una coda altrettanto sottile e un grosso corpo al centro; i ricchi, i poveri e la grossa pancia dove si addensa il ceto medio. Ma in Italia non è così, non è mai stato così. In Italia la grossa pancia poggia quasi a terra, sorretta da un piolo corto, mentre in alto si impenna un sottilissimo vertice. La grande pancia di questa trottola sui generis non si può definire ceto medio perché la fascia dei redditi che la compongono sta tra i 12 e i 20mila euro annui. Non sono tecnicamente poveri ma stentano molto a campar la vita e sono composti da pensionati, lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi con partite Iva e piccoli imprenditori.

Le prime due categorie pagano le imposte fino all'ultimo centesimo col sistema della ritenuta alla fonte cui non possono sfuggire; le altre categorie dichiarano il loro reddito e sono soggette agli accertamenti del fisco.

L'evasione è fondatamente stimata in 280 miliardi di reddito che equivalgono ad un minor gettito fiscale di 130 miliardi. Le sue dimensioni ammontano a un quinto del reddito nazionale. Criminalizzare nominativamente i contribuenti collocati nelle suddette categorie sarebbe scorretto, ma che gli evasori si trovino lì, in quella vastissima pancia schiacciata verso il basso nell'anomala trottola sopra descritta, è una certissima realtà, inesistente negli altri Paesi di capitalismo evoluto. Una lotta seria per recuperare il maltolto che danneggia al tempo stesso il fisco e la vasta platea dei contribuenti (forzatamente) onesti, non è mai stata fatta ma fino agli anni Ottanta dello scorso secolo la figura della distribuzione del reddito aveva la forma della piramide.

L'anomalia dell'evasione di massa è diventata intollerabile negli ultimi trent'anni e  -  vedi caso  -  è andata crescendo di pari passo con la crescita del debito pubblico.

Evidentemente c'è un nesso tra questi due fenomeni.

Quest'anno i primi risultati della lotta contro l'evasione sembrano positivi: 13 miliardi sono stati già recuperati; la cifra prudenzialmente prevista dall'Agenzia delle entrate è di 20 miliardi, ma potrebbe essere anche di più. Il governo non vuole ipotecare la sua distribuzione ma è logico pensare che il primo obiettivo debba essere quello di evitare l'inasprimento dell'Iva previsto  -  se necessario  -  dal prossimo settembre. Altri obiettivi, non necessariamente alternativi, potrebbero essere sgravi fiscali ai ceti medio-bassi, riduzione del cuneo fiscale e contributivo, infine una diminuzione delle aliquote Irpef cioè un generale sgravio fiscale socialmente modulato.
Il buon risultato della lotta all'evasione costituisce dunque la pre-condizione per risolvere le altre due emergenze: la creazione di nuovi posti di lavoro e la lotta contro il lavoro precario.

                                                                        * * *

C'è un'altra verità da tenere molto presente per avviarsi verso la porta oltre la quale c'è l'uscita dalla crisi attuale: l'importanza di diminuire la pressione fiscale. I conti pubblici sono stati messi in sicurezza, il pareggio del bilancio sarà raggiunto senza altre manovre, ma la pressione fiscale è poco diffusa (evasione) e troppo alta.
Purtroppo la diminuzione della spesa corrente, che pure rappresenta uno degli obiettivi dell'attuale governo, non si è verificata poiché la sua diminuzione si è finora ottenuta soltanto trasferendola a carico di Regioni e Comuni. Alcuni autorevoli economisti (Boeri, Penati, Giavazzi, Alesina) segnalano da tempo questo tema. Oggi certamente il rigore è necessario ma tagliare la spesa è meglio che accrescere la fiscalità. Spostare in futuro il peso delle imposte da quelle dirette a quelle indirette è una riforma da meditare con estrema cautela perché le indirette di solito hanno effetti socialmente regressivi per contrastare i quali sarebbe necessaria una patrimoniale ordinaria a bassa aliquota. Comunque la spesa corrente va contenuta, magari compensandola con l'aumento degli investimenti pubblici attualmente ridotti quasi allo zero.


                                                                         * * *

Oltre a quelli economici incombono con crescente urgenza alcuni problemi politici che richiedono un più attento coordinamento per i prossimi appuntamenti parlamentari e la riforma del lavoro che dovrebbe finalmente decollare con i cambiamenti necessari a recuperare una pace sociale gravemente turbata.
Se l'obiettivo di Monti e Fornero è quello di rassicurare gli investitori sul fatto che la concertazione con le parti sociali è ormai definitivamente archiviata, ci permettiamo di osservare quanto segue: ai fini dell'occupazione, della stabilità e dello sviluppo, la concertazione tra il governo e le parti sociali è di grandissima importanza purché non intacchi l'autonomia e la responsabilità di ogni istituzione. Non si deve confondere la concertazione con il consociativismo. Quest'ultimo, indebolendo l'autonomia e la responsabilità delle istituzioni, snerva le decisioni e impedisce di chiamare l'opera di governo con il suo nome appropriato che è "azione". Il consenso invece - che proviene dalla concertazione  -  è l'aria che deve sempre respirare un governo democratico, specie in una democrazia complessa e difficile che ha come riferimento economico il mercato aperto. Gli accordi di concertazione sono stati, a partire da quello del luglio 1992, la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese.

Leggete con attenzione questa frase che viene subito dopo i due punti.

Non è mia, ma potrebbe esserlo tanto è attuale e calzante con i fatti di questi ultimi giorni. Si tratta d'una citazione letterale del discorso che Ciampi, ancora presidente del Consiglio, tenne a Verona nell'aprile 1994, dopo aver già rassegnato le dimissioni a pochi giorni dalle elezioni che dettero inizio all'era berlusconiana: "La concertazione è la trama istituzionale su cui si è raccolto il consenso del Paese".
Questo è il punto di fondo e fu un tecnico emerito a dirlo dopo averne sperimentato gli esiti come capo del governo. Ci auguriamo che su questa inoppugnabile realtà meditino insieme Monti, i leader dei partiti, i ministri Passera e Fornero e Susanna Camusso. L'impasse sull'articolo 18 va superato con un accordo imposto dalla logica. Se il lavoratore licenziato per motivi economici ricorre al giudice com'è suo diritto e il giudice non ravvisa l'esistenza di quei motivi economici, la motivazione del licenziamento cade e con essa viene meno la limitazione dei poteri del giudice prevista dall'attuale bozza di legge. Il giudice cioè ha la potestà di annullare il licenziamento oppure di stabilirne l'indennizzo. Se questa potestà gli fosse negata saremmo davanti ad un impedimento del libero convincimento del magistrato, tutelato dalla Costituzione.


                                                                     * * *

L'altro e anch'esso incombente problema politico non riguarda il governo ma i partiti ed è la necessaria e urgente riforma della legge elettorale.

Anche qui c'è una bozza che diventerà, stando ai reciproci impegni dei tre partiti della "strana" maggioranza, una proposta di legge entro il corrente mese d'aprile.

Stando alla bozza, si tratta d'un meccanismo elettorale che ha la sua base nella proporzionalità del voto affidata a liste di candidati in collegi a base territoriale limitata; una soglia di sbarramento al 5 per cento, diritto di tribuna per i partiti che non superano la soglia e, infine, iscrizione sulla scheda elettorale del nome del leader del partito. È abolito l'apparentamento di coalizione tra partiti. Nulla invece si dice sul premio di maggioranza al partito che ottenga il maggior numero di voti, ma l'ipotesi più logica in un meccanismo dove ogni partito si presenta da solo, è che il premio sia abrogato o condizionato al raggiungimento d'un livello molto elevato e prossimo alla maggioranza assoluta dei voti espressi.

Viene dunque sancita la fine del bipolarismo. Le coalizioni si faranno nel nuovo Parlamento ad elezioni avvenute poiché è fin troppo ovvio prevedere che nessun partito da solo potrà mai raggiungere il 50,1 dei voti espressi.
Gli elettori non voteranno la coalizione ma il partito, il suo programma e i candidati in liste non bloccate. Può dispiacere la fine del bipolarismo, ma può piacere che in una legislatura con forte impegno costituente il consenso popolare sia equamente distribuito e la proporzionalità sia moderatamente corretta in favore della governabilità.

Sembra però del tutto inutile e inutilmente scorretto nei confronti del capo dello Stato l'iscrizione sulle schede elettorali del nome di riferimento dei leader di partito. A che cosa serve? A nulla per quanto riguarda la formazione del governo per la quale resta ferma l'indicazione costituzionale che attribuisce la nomina del presidente del Consiglio al capo dello Stato senza alcuna indicazione di procedure consultative. È stata questa la procedura adottata da Napolitano per la nomina di Monti e fu questa la procedura adottata da Pertini per la nomina di Spadolini e da Scalfaro per la nomina di Ciampi. Ci auguriamo che continui ad esser questa fino a quando l'attuale Costituzione sarà vigente e le sue norme non saranno manipolate dalla partitocrazia nella prima Repubblica e dal populismo nella seconda.

Post  scriptum. Formulo gli auguri più sinceri e affettuosi a Pietro Ingrao in occasione del compimento dei suoi 97 anni, nel corso dei quali è stato dirigente autorevole del Partito comunista italiano ed anche presidente della Camera dei deputati al servizio dello Stato democratico e della Costituzione.
 

(01 aprile 2012) © Riproduzione riservata

 da - http://www.repubblica.it/economia/2012/04/01/news/tre_chiavi_per_aprire_la_gabbia_della_crisi-32552093/?ref=HREA-1     


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Piazza Fontana, il film che racconta quarant'anni di misteri..
Inserito da: Admin - Aprile 03, 2012, 09:49:47 am
LA STORIA

Piazza Fontana, il film che racconta quarant'anni di misteri italiani

Esce la settimana prossima la pellicola di Giordana sull'attentato del 1969.

Destra estrema, sinistra estrema, Stato deviato hanno "impestato" il Paese impedendo alla democrazia di crescere. Ed ora l'opera cinematografica riapre il caso

di EUGENIO SCALFARI

ROMANZO di una strage è un film e non è un film. I personaggi sono veri ma ovviamente rappresentati da (bravissimi) attori. I fatti sono realmente accaduti e fanno parte della galleria storica del nostro Paese, ma alcuni sono frutto di induzioni e libere interpretazioni degli sceneggiatori e del regista Marco Tullio Giordana. Gli eventi narrati sono costellati di morti, violenze, congiure, complotti. Le donne sono poche ma emergono, amorevoli, devote ai loro uomini, fiere nel loro coraggio e nella loro dignità. A descriverlo così sembrerebbe una storia triste, anzi disperata, fortemente ansiogena, dove l'invenzione rende ancora più cupa la realtà. Ma tuttavia è affascinante.

Comincia con la strage di piazza Fontana a Milano, nella Banca Nazionale dell'Agricoltura, 1969, e si conclude con l'uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, finito a colpi di pistola a pochi passi da casa sua. Al centro della storia la morte di Giuseppe Pinelli, anarchico ma non violento, caduto (o gettato) da una finestra della Questura milanese in via Fatebenefratelli qualche giorno dopo la bomba (o le bombe) di piazza Fontana.

Quella scena ti fa stare col cuore in gola per dieci minuti nei quali la macchina da presa è centrata sul volto di Pinelli e poi si allarga in campo lungo sul gruppetto di poliziotti che lo interrogano, sempre più accesi d'ira verso quell'anarchico strano che sembra un pastore protestante che predica il socialismo del Vangelo
più che un bombarolo di professione.

Pinelli è digiuno da trenta ore, non gli danno nemmeno l'acqua da bere, il volto è stravolto dalla stanchezza, gli occhi di tanto in tanto si chiudono e i poliziotti lo risvegliano a suon di ceffoni. Solo il commissario Calabresi che partecipa all'interrogatorio cerca di riportare i suoi uomini alla calma e ad un minimo di equità ma non sempre ci riesce, loro sono furibondi perché le trenta ore d'interrogatorio pesano anche sui loro volti e sulle loro gambe. A un certo punto Calabresi è chiamato dal Questore e lascia la stanza. Allora i poliziotti si scatenano, spintonano Pinelli, lo trascinano verso la finestra. La macchina da presa si sposta su Calabresi che sta discutendo col Questore e sente all'improvviso un tonfo proveniente dal cortile. Come presago si slancia verso la stanza dell'interrogatorio e vede i suoi uomini alla ringhiera della finestra e il corpo di Pinelli sfracellato sui ciottoli del cortile.

Ho detto che è un film affascinante. Merito del regista, degli attori, del produttore Riccardo Tozzi che ha affrontato il rischio dell'impresa garantendo a Giordana piena libertà d'espressione senza la quale sarebbe stato impossibile girare quelle scene realizzando una testimonianza così incisiva e terribile. Anzi tremenda. Il terribile sgomenta, il tremendo è invece qualche cosa che ti fa consapevole e ti aiuta a crescere. Per questo affascina: esci da quell'ora e mezza di spettacolo sapendone di più sull'Italia, sullo Stato in cui vivi, sulla gente con la quale condividi le tue sorti nel bene e nel male, sui veleni che inquinano la società e sul doppio o addirittura triplo livello sui cui piani si è svolta la storia dell'Italia del Novecento, la nostra storia.

Alcuni storici illustri hanno definito il Novecento come "il secolo breve" perché sarebbe cominciato nel 1914 (la "Belle Époque" non sarebbe altro che la continuazione del secolo precedente) e sarebbe finito con la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Settantacinque anni invece dei cento canonici. Ma non è vero, fu invece un secolo lungo. Cominciò con le cannonate di Bava Beccaris contro i socialisti e gli anarchici milanesi (1898) e poco dopo con l'uccisione di Umberto I e a dire il vero non è ancora finito sicché il doppio o triplo livello sul quale scorre il flusso dei fatti non è ancora stato smantellato, la verità non è ancora stata compiutamente svelata e le cricche, le lobby, le clientele, le mafie, non sono ancora state debellate.

Forse l'Europa, forse l'esperimento del governo Monti, forse Giorgio Napolitano, riusciranno a purificare l'aria ammorbata che ancora ci opprime. Forse il nocciolo duro delle complicità sarà portato alla luce. Forse la P2 che continua a riprodursi sotto forme diverse ma con identica sostanza sarà infine sterilizzata. Forse la democrazia conquisterà il capitalismo invece di esserne conquistata e confiscata. Forse. Ma non è ancora avvenuto e il film di Marco Tullio Giordana testimonia proprio questo: i veleni del Novecento durano ancora. Le ideologie sono spente ma il pragmatismo che le ha sostituite non ha attenuato il disagio e lo sconquasso morale.

 ***
Spetterà ai recensori mettere in luce i pregi e i difetti di quest'opera, la qualità della sceneggiatura, degli attori, della regia, delle riprese e del loro montaggio. Quanto a me, intervengo perché io c'ero. Ho assistito direttamente a gran parte di quei fatti come cittadino, come giornalista e come deputato al Parlamento (lo fui dal 1968 al 1972 nel Partito socialista). Ero a Milano in via Larga in compagnia di Umberto Eco quando fu ucciso il poliziotto Annarumma. La sera di quel giorno ero nell'aula magna dell'Università Statale dove si svolse una gremita e appassionata assemblea del movimento studentesco. Capanna e Cafiero che lo guidavano resero onore al poliziotto caduto e tutti si alzarono in piedi e stettero silenziosi e piangenti per molti minuti. Ed ero con altri deputati di sinistra in piazza Santo Stefano dove si formavano i grandi cortei del movimento, per cercare di evitare gli scontri tra le decine di migliaia di studenti che protestavano contro la repressione e la polizia in tenuta antisommossa guidati dal vicequestore Allegra.

E c'ero anche nel corteo che sfilò da via Larga al Palazzo di Giustizia per la morte di Giangiacomo Feltrinelli. Ero direttore dell'Espresso quando rivelammo il Piano Solo, progettato dal Comando generale dei carabinieri con l'accordo del Presidente della Repubblica Antonio Segni. Ed ero direttore di Repubblica quando Aldo Moro fu rapito e poi ucciso, quando le Br fulminarono a colpi di pistola sulla porta di casa il generale Galvaligi e quando rapirono il giudice D'Urso e tentarono di imporci la pubblicazione di un loro lunghissimo documento minacciando che se i loro ordini non fossero stati eseguiti il prigioniero sarebbe stato ucciso. Rifiutammo e la notte di quel terribile giorno il prigioniero fu liberato da un blitz della polizia.

Insomma ho vissuto da vicino il lungo periodo della strategia della tensione che ha profondamente inquinato la vita pubblica italiana e ne ha rappresentato per molti anni l'aspetto più rilevante e ho partecipato a quel "partito della fermezza" che schierò insieme forze politiche che fino ad allora si erano aspramente contrapposte ma si unirono per fronteggiare il pericolo mortale del terrorismo dello stragismo. Romanzo di una strage ritrae una parte di quel periodo e ne rende artistica testimonianza. La mia è dunque una testimonianza diretta sulla validità della testimonianza filmica. Può avere da questo punto di vista un qualche valore.

 ***

La strategia della tensione è stata purtroppo una presenza dominante nella seconda metà del secolo scorso. La si può descrivere con una figura geometrica, un triangolo retto, due cateti e un'ipotenusa che li unisce. E se vogliamo animare la geometria con la carne e il sangue delle persone, ci furono un'estrema destra e un'estrema sinistra che si contrapponevano usando i mezzi illegali della violenza, delle armi, delle bombe, dei complotti e delle stragi; e c'è un'altra forza che aizza la destra e la sinistra affinché la violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo. In questa arena si è cimentato anche un certo tipo di stampa e soprattutto si cimentano i servizi segreti, le agenzie di "intelligence" di Stati stranieri, le logge segrete para-massoniche e la criminalità organizzata.

L'Italia fu il terreno privilegiato di questa strategia (ma non il solo) dove si confrontarono anche il Kgb sovietico, la Cia americana, il Mossad di Israele e i servizi di sicurezza inglesi e francesi. Gladio fu una delle centrali di pilotaggio della tensione e altrettanto lo fu il servizio di spionaggio del ministero dell'Interno creato da Tambroni e guidato per molti anni dal prefetto Federico D'Amato. La P2 fu un punto di raccordo clandestino ed essenziale di queste varie forze. La mafia e la camorra fornirono, quando fu richiesto, la loro manovalanza contrattando benefici e spazio per le loro iniziative delinquenziali.

La destra estrema, la sinistra estrema, lo Stato deviato: questi sono stati i punti essenziali di quel triangolo che ha impestato il Paese per mezzo secolo, impedendo alla democrazia italiana di crescere e di metter salde radici e condannandola a una perenne fragilità. Le forze politiche ed anche la business community sono state il terreno sul quale si è svolta questa partita perversa ed è questa una delle cause che hanno rattrappito sia i partiti sia il capitalismo italiano. Le democrazie si sviluppano in un quadro di legalità, di autorevolezza delle istituzioni, di regole certe e di comportamenti esemplari che la classe dirigente ha il compito di indicare ai cittadini come punti di riferimento. Tutti i paesi hanno difetti e debolezze ma hanno anche sistemi immunitari che producono anticorpi con l'incarico di neutralizzare i virus che attaccano quotidianamente gli organismi.

Da noi il sistema immunitario è stato il vero obiettivo della strategia della tensione e di chi ne ha alimentato e rafforzato l'esistenza. Questa è stata l'endemica malattia che ha afflitto l'Italia e che ancora non è stata guarita. Romanzo di una strage ne è la drammatica rappresentazione.

(22 marzo 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/03/22/news/scalfari_piazza_fontana-31993082/index.html?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Il ritratto di un paese tra Padania e Wall Street
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2012, 05:23:30 pm
IL COMMENTO

Il ritratto di un paese tra Padania e Wall Street

di EUGENIO SCALFARI
 

DI UMBERTO BOSSI parlerò poco, dopo quanto abbiamo saputo di lui e della Lega. Le testimonianze che coinvolgono non soltanto i suoi familiari e la Rosy Mauro (che è addirittura vicepresidente del Senato) sono certamente testimonianze di parte, di chi ce l'ha con lui perché non ha difeso l'indifendibile Belsito, ma sono tuttavia confermate, quelle testimonianze, da documenti inoppugnabili, intercettazioni chiarissime, lettere, ricevute, assegni e bonifici bancari con intestazioni che parlano da sole.

Aspettiamo i seguiti dell'istruttoria e l'eventuale rinvio a giudizio, ma il giudizio politico va dato subito e l'ha già scritto venerdì scorso Ezio Mauro 1. La linea del nostro giornale è chiarissima: Bossi è stato al centro del malaffare che ha inquinato la famiglia e gran parte del gruppo dirigente leghista, specie quello di provenienza lombarda.

Quel gruppo dirigente è interamente presente nel triumvirato che reggerà la Lega fino al Congresso. L'immagine che hanno del vecchio capo e fondatore è quella d'un uomo assolutamente integro e raggirato eventualmente dai familiari. Quanto a lui, il "Senatur" si dice convinto d'esser vittima d'un complotto. I militanti leghisti dal canto loro si identificano con il vecchio capo carismatico, qualunque verità emerga dal processo.

Infine gli elettori, che sono molto più numerosi dei militanti, con un rapporto che sta tra i cinque e i dieci elettori per ogni militante a seconda delle province e dei comuni esaminati. Ebbene gli elettori sono in fuga.

Il grosso si asterrà, una piccola parte si orienterà verso il Pd o formazioni di accesa protesta sociale. Quanto all'"appeal" di Casini, tra gli ex elettori leghisti è bassissimo.

Se queste previsioni si verificheranno i partiti maggiori ne trarranno comunque beneficio a causa di un'astensione leghista massiccia. Solo a Verona dove Tosi ha un consenso che le attuali traversie leghiste non scalfirà se non marginalmente, riuscirà forse a mantenere le sue posizioni.

Bossi, dopo l'ictus che lo colpì otto anni fa, è stato un personaggio drammatico e al tempo stesso grottesco. Che un partito ed un elettorato lo abbia considerato, nelle condizioni in cui era ridotto, un punto di riferimento per ciò che diceva e per come lo diceva, è un segnale disperante del livello culturale d'una parte rilevante della società civile. Sul medesimo livello purtroppo si collocano anche tutte le clientele che sorreggono personaggi e situazioni di potere inquinate dalla demagogia e dalla corruzione, a Palermo come a Milano, a Bari, a Napoli, a Roma, a Imperia, a Genova, a Parma, in Calabria, a Cagliari.

La lebbra del clientelismo e l'analfabetismo leghista collocano la società civile del nostro Paese ad un livello ancora più basso del già bassissimo livello della classe politica. E l'antipolitica ne è il segnale.

Esiste una parte del Paese che, disgustata da quanto ha visto e vede attorno a sé, è da tempo mobilitata per un rinnovamento profondo, per riforme strutturali e per un mutamento radicale di abitudini e di modi di pensare. L'emergenza della crisi economica si è sovrapposta a questa situazione, ma in un certo senso ha risvegliato le persone perbene che sono ancora numerose in tutti i ceti e su tutto il territorio. Questo risveglio le preserva dal rifugiarsi nell'indifferenza. Il destino della nazione è affidato a loro, alle loro capacità di curare un Paese gravemente ammalato, invecchiato, inutilmente ribellista, anarcoide e corrotto.

* * *

Il governo Monti è stato un buon segnale di questa capacità terapeutica che va oltre l'emergenza economica, ma soffre anch'esso di alcune contraddizioni interne e di un quadro europeo a dir poco sconfortante dal quale la sua azione riformatrice è strettamente condizionata.

La composizione del governo è stata improvvisata in poche ore. Mediamente le scelte sono state di buon livello, ma alcune presenze non si sono dimostrate all'altezza delle responsabilità che incombevano. Non si tratta per fortuna di falle devastanti, ma di scarsa capacità di lettura politica, specialmente a livello dei sottosegretari. Le condizioni di emergenza e la brevità del tempo a disposizione rendono tuttavia impossibile rafforzare il Ministero che ha un tempo d'azione estremamente breve: dalla fine dell'anno avrà inizio la campagna elettorale e l'azione innovativa del governo sarà interrotta. Governerà per amministrare le novità già avviate.

Il tempo utile si restringe dunque a sette-otto mesi, con dentro le elezioni amministrative del prossimo 6 maggio il cui esito potrebbe anche modificare le prospettive attuali. La tenuta del Pdl è una di quelle, la crisi della Lega un'altra.

Chi pensa che il governo Monti sia al riparo dagli effetti delle amministrative di maggio è in errore. Il governo dipende dal Parlamento e dunque dai partiti che vi sono rappresentati. Dipende perfino dal voto degli Scilipoti. Lo so che non piace a nessuno ricordare questa situazione e scrivo quel nome solo per render ben chiaro che il Parlamento e le forze politiche che vi sono rappresentate sono quelle che sono, nel bene e nel male, nella loro presenza o nella loro irrilevanza nel Paese, ma i loro comportamenti parlamentari saranno condizionati dalle prospettive elettorali.

Del resto lo si vede già in questi giorni: è bastato un articolo del Wall Street Journal e un giudizio avventato della Marcegaglia a mettere in allarme il Pdl rispetto alla modifica dell'articolo 18 introdotta da Monti subito dopo il suo rientro dalla Cina; una modifica  -  va detto  -  che tiene conto d'una logica costituzionale sottovalutata nel progetto originario e niente affatto sconvolgente dell'impianto complessivo della riforma del lavoro. Se quella modifica non fosse stata introdotta avremmo avuto uno sconvolgimento della pace sociale con effetti devastanti sui mercati e per il governo.

Mi stupisce molto il giudizio di Andrea Ichino che sul Corriere della Sera ha definito pessima quella modifica dell'articolo 18 perché, impedendo alle imprese di licenziare, le scoraggia anche ad assumere, e si sono anche messi in due a firmare questa sentenza.

Ragionamenti di questo genere hanno una validità risibile perché non possono essere in alcun modo dimostrati. Autorizzano anzi il ragionamento opposto: la modifica in questione impedisce i licenziamenti in una fase recessiva in cui il mercato del lavoro tende a far diminuire la forza lavoro impiegata e quindi la modifica ha il buon effetto di impedire questo assottigliamento evitando conseguenze ulteriormente recessive.
I due punti di vista simmetricamente opposti sono entrambi chiacchiere, che dimenticano tra l'altro che la riforma Fornero estende l'articolo 18 nella sua nuova formulazione a tutte le imprese mentre attualmente quelle con meno di 15 dipendenti ne erano escluse.

La verità è che la riforma attuale è positiva, combatte il precariato, estende il numero delle tutele dai 4 ai12 milioni di lavoratori, accresce la buona flessibilità e, per quanto riguarda l'articolo 18, si limita (ma era fondamentale farlo) ad assicurare l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e la libertà del giudice di emettere la sentenza sulla base del suo libero convincimento.

Questi sono diritti non negoziabili da una Marcegaglia in libera uscita. Quanto all'opinione dei giornali che riflettono anche nella testata quella dei banchieri d'affari di Wall Street, essi partono dall'idea che Monti fosse un clone della Thatcher e poiché si accorgono ora che non lo è, scoprono d'improvviso che Monti è un comunista.
Che valore possono avere opinioni di questa natura? Zero, anche se dimostrano che i banchieri d'affari americani alimentano la speculazione contro l'euro. Questo sì, è un pericolo che bisogna conoscere per poterlo evitare.

* * *

Non credo affatto che Monti voglia continuare a governare dopo le elezioni del 2013, ma non credo neppure che il suo lavoro contro l'emergenza a quella data sarà compiuto. E mi stupisco anche che ci siano persone che non si rendono conto della fine di un'epoca che stiamo vivendo.

La globalizzazione non è un incidente di percorso. I suoi aspetti negativi (e ce ne sono) possono essere evitati o almeno contenuti solo avendone capito bene la natura. La sua intima essenza è quella dei vasi comunicanti. Questa legge fisica ed anche economica operava anche all'epoca del "gold standard" ma con modalità e tecnologie completamente diversi.

Adesso è una realtà e significa: libertà di movimento di merci, capitali, persone e tendenza a pareggiare i dislivelli. Sicché i redditi dei Paesi di antica opulenza dovranno cedere una parte del loro benessere ai paesi di antica povertà. Con tutte le implicazioni sociali (e fiscali) che ciò comporta poiché il sistema dei vasi comunicanti vale  -  deve valere  -  anche all'interno dei Paesi di antica opulenza dove il principio delle pari opportunità per i ricchi e per i poveri deve essere realizzato con la massima energia e tempestività.

Ci vorranno due o tre generazioni per risolvere questi problemi, ma i primi passi debbono essere compiuti da subito e debbono coinvolgere tutte le parti sociali. Lo sappia il ministro Fornero ma lo sappia anche Susanna Camusso; Bersani lo sa e Casini pure, ma lo sappia anche Alfano e i suoi amici non tanto amici.

Bossi queste cose non le ha mai sapute, anzi ha fatto di tutto per impedirle e in parte c'è anche riuscito preparando all'Italia un destino di provincia. Ora sappiamo che preparava anche un destino di bordello, così il verso dantesco risulterà completo. Berlusconi, ovviamente, solidarizza con lui, ma forse per limitare le perdite proprie.
 

(08 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/08/news/paese_padania_wall_street-32953398/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ebbene sì, siamo radical-chic
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2012, 11:45:58 am


di Eugenio Scalfari

L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt

(11 aprile 2012)

Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco.

Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio.

Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto.

Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale.

I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori.

Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ebbene-si-siamo-radical-chic/2178199/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il dare e l'avere di Mario Monti
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2012, 10:48:50 pm
L'EDITORIALE

Il dare e l'avere di Mario Monti

di EUGENIO SCALFARI


Mario Monti è scoraggiato. Lo capisco. Il compito di mettere al sicuro i conti pubblici per evitare che l'Italia facesse la fine della Grecia l'ha portato a termine egregiamente, ma subito dopo un secondo compito gli incombeva: quello di avviare la crescita della domanda e degli investimenti, ma questa seconda fase, senza la quale anche il "salva Italia" rischia di diventare periclitante, è molto più difficile, stenta a mettersi in moto. La ragione di questo surplace è evidente: la lotta contro la recessione - perché di questo si tratta - non si può fare se non è l'intera Europa ad intraprenderla e questo non è avvenuto.

L'Europa continua ad essere latitante. La Francia è concentrata nelle elezioni presidenziali e per ora non pensa ad altro. La Germania non condivide le politiche di rilancio della domanda che per essere efficaci comporterebbero che fosse proprio Berlino ad assumersene la guida.
La Gran Bretagna è isolata e comunque impotente. La Spagna non ha ancora messo al sicuro i suoi conti ed è sotto attacco della speculazione, appesantita per di più da un incredibile 23 per cento di disoccupazione. Perfino la Bce, la sola istituzione veramente europea che è stata finora all'altezza dei compiti che le sono affidati, deve ora difendere la propria autonomia, messa in questione dai falchi della Bundesbank.

Questo è il quadro e le sue tinte sono fosche. Monti è scoraggiato ed ha ragione di esserlo. Ma c'è un'altra ragione che motiva il suo scoraggiamento ed è lo sfarinamento della maggioranza politica che lo ha fin qui sostenuto.

Finora i tre partiti hanno rispettato la tregua che avevano stipulato tra loro e che aveva reso possibile la "strana maggioranza" di sostegno al governo dei tecnici; ma è bastato l'approssimarsi delle elezioni amministrative del 6 maggio prossimo per mandarla in pezzi. Sono emerse con irruenza le differenze di programma e di elettorato di riferimento tra Pdl e Pd, con una differenza aggiuntiva: il gruppo dirigente del Partito democratico è abbastanza compatto, quello del Pdl è frantumato e Alfano ne sta perdendo il controllo. L'implosione del berlusconismo era attesa ma rinviata all'esito delle elezioni politiche future; invece sta avvenendo adesso: pullulano in quasi tutti i Comuni capoluoghi le liste civiche che hanno preso il posto di quelle del Pdl; la crisi della Lega coincide con la crisi evidente della Regione Lombardia; avanzano gli anarcoidi di Beppe Grillo; l'Udc è filo - montiana ma lo scandalo della Margherita si ripercuote sia pure alla lontana anche su Casini.

Infine la crisi dei partiti ha raggiunto il culmine, Tangentopoli è tornata con prepotenza d'attualità, Penati, Lusi, Belsito, il Consiglio regionale lombardo, il Comune di Palermo e la Regione Sicilia, Emiliano, Vendola, Tedesco, Rosi Mauro, Calderoli: uno sconquasso di queste proporzioni non s'era mai visto dal 1992 con la differenza che allora la crisi economica che si affiancò a quella politica era soltanto italiana, mentre adesso coinvolge l'economia mondiale e dura ormai da cinque anni.
Monti è scoraggiato, ma chi al suo posto non lo sarebbe?

* * *
È scoraggiato ma non ci sono alternative al suo governo, come Giorgio Napolitano ha più volte ricordato in questi giorni. Non ci sono alternative e lui lo sa, perciò il coraggio deve averlo e lo avrà anche perché gli elementi di forza non mancano. Cerchiamo ora di formulare una sorta di bilancio politico ed economico dove metteremo al passivo i punti di debolezza e all'attivo le risorse che possono essere mobilitate e vedremo qual è il risultato. Cominciamo dagli aspetti negativi della situazione.

 -  Bisogna incentivare gli investimenti delle imprese.
 -  Bisogna incentivare i consumi delle famiglie.
 -  Bisogna evitare l'aumento di due punti dell'Iva previsto per settembre per blindare il pareggio del bilancio nel 2013.
 -  Bisogna pagare i debiti che lo Stato ha nei confronti dei suoi fornitori.
 -  Bisogna finanziare la costruzione di infrastrutture e una politica attiva di lavori pubblici.
 -  Bisogna approvare la riforma del lavoro nel testo presentato al Parlamento.
 -  Bisogna alleggerire il debito sovrano.
 -  Bisogna chiarire il problema degli "esodati" che sta mettendo in discussione la pace sociale.
 -  Bisogna che i partiti approvino una nuova legge elettorale.
 -  Bisogna risolvere la "governance" della Rai il cui Consiglio d'amministrazione è scaduto da tre settimane.
 -  Bisogna che i partiti decidano la riforma del loro finanziamento che sta vertiginosamente accrescendo il discredito da cui sono circondati.
 -  Bisogna che il governo presenti al più presto la legge anti-corruzione e la riforma della giustizia.
Fin qui l'elenco dei "buchi" da colmare e dei problemi ancora aperti da risolvere. E vediamo ora gli aspetti positivi e le risorse mobilitabili.
 -  La lotta all'evasione ha già recuperato 13 miliardi di nuove entrate; è quindi probabile che nell'intero esercizio 2012 si arrivi a 20 miliardi e forse più, una parte dei quali può rimpiazzare l'aumento dell'Iva. Il resto potrebbe servire ad accrescere i crediti d'imposta alle imprese che effettueranno nuovi investimenti o a rinforzare le tutele previste per i disoccupati o altre finalità scelte dal governo (abolizione dell'Irap?).
 -  La Cassa depositi e prestiti detiene  -  al di là delle riserve a garanzia del risparmio postale  -  un fondo di liquidità disponibile per finanziare investimenti in opere pubbliche o in impieghi di pubblica utilità. Queste risorse potrebbero essere utilizzate per consentire al Tesoro di sbloccare subito i 30 miliardi di debiti che ha nei confronti dei suoi fornitori. Sarebbe una boccata d'ossigeno per tutto il sistema, senza pesare sul debito sovrano e sui parametri del patto di Maastricht.
 -  La "spending review" è ancora allo studio ma le sue conclusioni dovrebbero esser pronte tra poche settimane. Il ministro Giarda è scettico sulla sua applicabilità a causa delle prevedibili resistenze che saranno opposte dalle categorie interessate. Queste resistenze sarebbero probabilmente superate se le risorse venissero utilizzate per una diminuzione delle imposte sul lavoro e del cuneo fiscale tra salari lordi e salari netti. Le minori spese sono stimate come minimo a 20 - 25 miliardi.
 -  Il patrimonio dello Stato ammonta a centinaia di miliardi ma se ne potrebbero facilmente cartolarizzare cento e portarli a riduzione del debito sovrano. Quantitativamente è poca cosa ma avrebbe un effetto politico non trascurabile.
 -  Una riforma senza spese ma suscettibile di notevoli economie sarebbe quella di concentrare il numero degli aeroporti tagliandone parecchi del tutto inutili. Sullo stesso piano sarebbe estremamente opportuna una concentrazione dei Tribunali e delle Università. I risparmi e la maggiore efficienza sarebbero notevolissimi.
 -  Il recente viaggio di Monti in Asia e le accoglienze che gli sono state riservate sono altrettanti e ben meritati contributi al suo prestigio internazionale. Questo lo mette in grado di riprendere il "manifesto dei Dodici" per una politica di crescita e di più intensa concorrenza intra - europea che fu promosso da lui stesso e dal premier inglese Cameron, ma di cui non si è più parlato nelle sedi europee.
Come si vede i punti di forza sia economici sia politici sono in grado di bilanciare e forse di lasciare un saldo positivo rispetto ai punti di debolezza. La variante dipende dalla volontà politica che a sua volta proviene dal governo e dai partiti che lo appoggiano, soprattutto dal Pd e dal Terzo polo. Del Pdl abbiamo già detto: nelle mani di Alfano può mantenere la tregua in favore del governo, se sfugge al controllo del segretario comincerà l'esodo in larga misura diretto verso il Polo di centro. La "strana maggioranza" dovrebbe in tal caso reggersi su due gambe anziché su tre, ma non sarebbe più "strana" ma politica a tutti gli effetti, con i vantaggi che ne derivano.

* * *
Ci restano ancora due temi da affrontare. Il primo riguarda la coesione sociale e in particolare il tema degli "esodati", il secondo riguarda la questione settentrionale in presenza della crisi della Lega. Si dice che Monti abbia messo la parola fine alla concertazione e al supposto diritto di veto che le parti sociali e i sindacati in particolare avrebbero avuto all'epoca di Ciampi. Su questo argomento ho avuto nei giorni scorsi uno scambio di idee (e di notizie) proprio con Ciampi, fonte autentica per eccellenza su un'architettura politico - sociale da lui costruita.

La concertazione ciampiana aveva come tema le politiche degli investimenti e delle risorse necessarie il che vuol dire l'intera politica economica del Paese, quindi non si trattava di temi sindacali in senso stretto e non esistevano diritti di veto e tanto meno votazioni su quegli argomenti. Le parole che Ciampi più volte pronunciò in pubblico su queste questioni mettevano bene in luce che la concertazione avveniva nel rigoroso rispetto delle competenze istituzionali e cioè del governo e del Parlamento nella loro assoluta autonomia. "Non si è mai votato in quelle riunioni e nessuno ha mai posto un veto su alcunché, e non si è mai discusso di problemi specificamente sindacali. I sindacati confederali in quella sede discutevano temi di pubblico interesse con il governo ed erano portatori essi stessi della loro visione dell'interesse generale" il sindacato cioè si spogliava della sua veste di rappresentante delle categorie e si faceva interprete dell'interesse generale. Credo che Guglielmo Epifani, che partecipò in tutti quegli anni a quelle riunioni, potrà confermare quanto Ciampi ha detto.

E che cos'altro hanno fatto Monti ed Elsa Fornero se non una concertazione consultiva con le forze sociali per quanto riguarda la riforma del lavoro? Non è anche quella una questione di interesse generale? Nulla dunque cambierà se le forze sociali andranno a quegli appuntamenti come portatori anch'essi dell'interesse generale ma tutto cambierebbe se vi andassero come portatori degli interessi delle categorie che ad esse fanno riferimento. In quel caso la sede non sarebbe più Palazzo Chigi.
Quanto al problema degli esodi, si fa molta confusione su di esso. Il ministro Fornero ha dato la cifra di 65 mila con riferimento ai lavoratori che risolsero il loro contratto di lavoro prima della riforma delle pensioni. Pensavano di andare in pensione subito e ci andranno invece nel 2019, cioè tra sette anni. Fornero ha provveduto a coprire quest'intervallo insopportabilmente lungo.

L'anno prossimo ci sarà un'altra quota di lavoratori con contratti in scadenza e pensione a sei anni di distanza. Il ministro ha preso impegno di coprire il nuovo esodo e così via, anno dopo anno, con esodi che vedranno ridursi il numero di anni intercorrenti dall'uscita dal lavoro all'accesso alla pensione.
Questo è il meccanismo. La somma degli esodati, secondo i sindacati, ammonterebbe a 330 mila. Può darsi, bisognerebbe conoscere le fonti di questo calcolo, ma sta di fatto che ogni anno vede diminuire l'arco di tempo da coprire e quindi sommarli insieme non ha alcun significato. Dispiace che su un tema di facile comprensione si sia impostato addirittura uno sciopero generale. Per rivendicare che cosa, visto che l'impegno alla tutela man mano che ne matureranno le condizioni è già stato preso?
 
* * *
La crisi della Lega ripropone in pieno la questione settentrionale. La Lega ha avuto il merito di portarla, quando nacque, all'attenzione dell'opinione pubblica ma il demerito di non individuare gli strumenti per risolverla. Questo stesso errore era stato compiuto a suo tempo dai "meridionalisti" i quali (salvo poche eccezioni come Giustino Fortunato e Francesco Saverio Nitti) ne avevano segnalato l'esistenza ma scelsero cattivi strumenti per risolverla.

La questione settentrionale non consiste nell'esodo di capitali dal Nord al Sud che la Lega ha denunciato e per impedire il quale ha proposto il suo federalismo o addirittura la scissione. Quell'esodo non c'è mai stato, c'è stato semmai il suo contrario perché le banche si sono concentrate al Nord, il grosso degli investimenti pubblici e dei prestiti bancari è avvenuto al Nord e le imprese che hanno investito al Sud sono state tutte e sempre provenienti dal Nord e al Nord sono affluiti i loro profitti e la distribuzione dei loro dividendi. Il vero problema del Nord è il capitalismo dei "padroncini", delle imprese con meno di 20 addetti che costituiscono a dir poco il 95 per cento dell'intera struttura imprenditoriale italiana, disseminata da Varese e da Novara fino a Trieste, Treviso, Padova, Ferrara, Rimini, Ancona, Pesaro, Pescara, Foggia, Bari. Bisognava che i "padroncini" del Nord - Nordest - Est - Sudest diventassero imprese vere, con almeno 50 dipendenti, consorzi, distretti industriali, capacità di ricerca e d'innovazione. Così non è stato. Il tentativo dei distretti è il più delle volte fallito o restato sulla carta, i punti d'eccellenza ci sono stati e ci sono ma il grosso di quest'immensa fascia di capannoni che ha costellato tutte le pianure del Nord e dell'Est ha funzionato fino a quando il cavallo dei consumatori e degli utenti ha bevuto. Con la crisi iniziata nel 2008 il cavallo beve ormai pochissimo e i "padroncini" stanno di male in peggio.

Questa è la questione settentrionale, alla quale la Lega non ha dato alcuno sbocco politico, anzi l'ha impantanata nell'alleanza populista con Berlusconi che non solo non ha visto la crisi ma l'ha negata fino a quando la crisi l'ha travolto.
La Lega ha dato molti buoni amministratori comunali, questo sì, ma al di sopra di quel livello localistico è stata un esperimento disastroso per il Nord e per l'intero  Paese. In più anche un luogo di malaffare. Prima scomparirà, meglio sarà. Ma resterà in piedi la questione settentrionale, così come resta in piedi quella meridionale. E resteranno in piedi fino a quando non sarà risolta la questione nazionale.
Il governo Monti ha mosso i primi passi su questa strada ma ci vorrà almeno una generazione per condurla a termine. Dove sia questa generazione io non lo vedo, ma forse dipende dai troppi anni che ho sulle spalle. Mi auguro che sia così e che la generazione cui quel compito è affidato ci sia, sia pronta e si faccia vedere.

 

(15 aprile 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/04/15/news/scalfari_domenica_15_aprile-33330777/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che nostalgia di Beppe Grillo
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2012, 05:14:39 pm
Che nostalgia di Beppe Grillo

di Eugenio Scalfari

Una volta faceva ridere a crepapelle, con le sue battute fulminanti sui potenti di turno. Ora si è trasformato in un rauco urlatore che vuole distruggere anche la Costituzione, per mettere al suo posto non si sa bene cosa

(23 aprile 2012)

Noi che scriviamo sui giornali e quelli di noi che raccontano in televisione la realtà che ci circonda, descriviamo una società preoccupata, violenta, impoverita, piena di paura e di odio. E un potere egoista e corrotto.

Sarebbe dunque - quella che stiamo vivendo - la stagione più adatta alla satira. Infatti lo è stata negli ultimi due anni del berlusconismo. Ma l'arrivo del governo Monti ha cambiato molte cose. La preoccupazione, la paura e l'egoismo sono, se possibile, addirittura aumentati, ma la satira e la comicità sono entrate in crisi; perfino Crozza, uno dei più bravi e dei più seguiti, è diventato fioco, gli altri sono letteralmente scomparsi e se venissero ancora in scena provocherebbero sbadigli e cambiamento di canale.
Di comici ancora in piena attività ne sono rimasti solo due, ma definirli in quel modo è sbagliato: sono diventati personaggi molto diversi da quelli che erano un tempo.

Uno si chiama Beppe Grillo. Faceva ridere a crepapelle con la sua parlata ligure, i suoi occhi sgranati, i suoi capelli arruffati e le sue battute fulminanti che non risparmiavano nessuno, dai potenti di turno all'uomo della strada. Aveva superato il suo conterraneo Gilberto Govi, il siciliano Angelo Musco e perfino il romanaccio e grandissimo attore Aldo Fabrizi.

Ma adesso Beppe Grillo non fa più ridere. Cavalca l'onda dell'antipolitica, lancia i suoi urli rauchi e i suoi insulti contro lo Stato, contro i partiti, contro il Parlamento, contro il Quirinale, ma non soltanto per gli errori che possono aver commesso e i vizi quando ci sono, ma per il fatto stesso di esistere in quanto istituzioni.

Esorta allo sciopero fiscale, si augura il fallimento delle banche e la disintegrazione dell'euro, vuole la galera per chiunque tenti di riformare la democrazia.

La rottamazione che ha reso celebre il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, per Beppe Grillo è un gioco da bambini. Lui predica la necessità di uno "tsunami" che distrugga sotto le sue ondate l'intera struttura costituzionale per mettere al suo posto non si sa chi e non si sa per che cosa. E trova molta gente che gli va appresso come accade per tutti i pifferai che marciano impavidi verso il disastro.

L'altro è Roberto Benigni. Gli ho dedicato già questa pagina qualche settimana fa, ma sento il bisogno di tornare ancora a parlare di lui dopo averlo visto e ascoltato da Fabio Fazio domenica scorsa.
Benigni è stato un grande comico e un grande attore, Federico Fellini lo descrisse anni fa come una figura eccezionale al di là del semplice spettacolo. Ma nel frattempo Benigni è cresciuto ancora. Fa ridere solo a vederlo muoversi, correre, asciugarsi la fronte con una pezzuola bianca, ma tutto questo ormai è solo contorno.

Le lacrime che vengono agli occhi degli spettatori sono lacrime di commozione e non soltanto di ilarità. Benigni è ancora un comico grandissimo e un attore d'eccellenza, ma è un poeta che recita i poeti e soprattutto è l'interprete di tutto quanto c'è ancora di buono, di civile e di profondamente umano in questo paese.

Gli italiani si specchiano in lui, lo applaudono non solo perché li diverte ma perché li istruisce, li fa crescere, cerca di renderli migliori. La retorica lui non sa neppure che cosa sia, la risata la leggerezza e la satira sono i soli strumenti che usa e con i quali diffonde il senso del civismo, fustiga i vizi e rafforza ed evoca le virtù e l'impegno.

Un Pinocchio formidabile è Benigni, che da burattino di legno sta diventando uno dei padri della patria, un fenomeno quale finora non si era mai visto. E scusate se è poco.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La rabbia sociale male del secolo
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2012, 11:25:32 am
La rabbia sociale male del secolo

di EUGENIO SCALFARI

L'ondata dell'antipolitica si sta ingrossando e proviene da destra, da sinistra e anche dal profondo della società, indipendentemente dalle etichette politiche di originaria appartenenza.
L'ondata ricorda lo "tsunami", si verifica a lunghi intervalli, è capace di produrre distruzioni e danni enormi ma con la stessa velocità con cui arriva si placa lasciando tuttavia dietro di sé un cumulo di rovine.
L'onda lunga è invece quella degli oceani, un moto naturale delle acque che alimenta la vita del mondo marino e terrestre e dell'atmosfera che ci circonda e ci sovrasta. Se vogliamo utilizzare questi fenomeni per meglio comprendere quanto sta accadendo da qualche anno nelle economie dell'Occidente, possiamo dire che allo "tsunami" dell'antipolitica fa riscontro l'onda lunga della politica. Ma dobbiamo anche aggiungere che in alcuni paesi l'ondata antipolitica è più frequente che in altri. L'Italia è uno di questi; l'antipolitica da noi è quasi un fatto permanente e minaccioso d'una società che ha conosciuto assai tardivamente lo Stato e lo ha visto sempre come una potenza ostile da combattere e da frodare.

I democratici di buona volontà dovrebbero dunque sforzarsi di rinnovare e rafforzare l'onda lunga della politica, cioè di una consapevole visione del bene comune da opporre allo "tsunami" dell'antipolitica. Accade invece che la politica galleggi su acque stagnanti e paludose, infestate da miasmi e malarie.

I democratici di buona volontà si trovano insomma a dover combattere l'ondata dell'antipolitica e la palude della politica. In Italia la situazione è questa e se guardiamo all'Europa come al progetto di un futuro Stato federale, le cose stanno più o meno allo stesso modo. Anche la politica europea galleggia infatti su acque stagnanti e paludose. Non c'è un'opinione pubblica seriamente europeista, non ci sono interessi forti che spingano verso la federazione e tanto meno valori egemoni che servano da punti di riferimento. Ci sono soltanto minoranze elitarie, non sufficienti a mutare l'acqua stagnante in onda lunga e vitale.

* * *
Ho più volte ricordato in questi mesi che c'è un punto preliminare da cui dobbiamo prender le mosse: l'economia globale ha messo in contatto tra loro le masse di persone che vivono in paesi di antica opulenza e le masse che abitano paesi di antica povertà.

Questi due campi di forze così diversi e finora refrattari tra loro sono entrati in comunicazione ormai permanente e crescente e questa comunicazione ha creato un improvviso squilibrio nell'uno e nell'altro campo. La tendenza ad un nuovo equilibrio crea un trasferimento inevitabile di benessere dai paesi ricchi a quelli poveri o meno ricchi e quel trasferimento è destinato a continuare fino a quando l'equilibrio tra i due campi non sarà stato raggiunto.

Ci sono molti strumenti economici e politici per ridurre i costi sociali di questo percorso che tuttavia resta un dato di fondo al quale è del tutto inutile ribellarsi.

* * *
Ribadita questa premessa, veniamo ai fatti rilevanti di questa fase. L'evento principale è la vittoria del socialista Hollande al primo turno delle presidenziali francesi, la forte probabilità della sua elezione al secondo turno e la contemporanea comparsa del neo-lepenismo di massa (18 per cento dei voti espressi) che potrà notevolmente influire sul formarsi d'una nuova destra populista e anti-europea.
Se Hollande sarà proclamato Presidente della Repubblica domenica prossima, sappiamo già che il suo primo incontro dopo la formazione del governo sarà quello con Angela Merkel con l'obiettivo di costruire su nuove basi il patto di amicizia che lega le due maggiori nazioni europee.

Hollande punta sulla crescita dell'economia europea, ma anche la Merkel punta sulla crescita. Prima lo diceva con voce sommessa, ora lo dice con voce alta e sicura. Con la stessa voce alta e sicura lo dice anche Mario Draghi e anche il nostro Mario Monti, sostenuto in questa sua linea da tutti e tre i partiti che appoggiano il suo governo. E perciò crescita crescita crescita. Ma con quali strumenti per ottenerla? E con quali tempi necessari a vederne gli effetti?

* * *
Gli strumenti proposti da Hollande sono di ottenere l'esenzione delle spese per investimenti dal patto di stabilità fiscale voluto dalla Germania e approvato dalle Autorità europee; ottenere l'emissione di "project bond" per finanziare infrastrutture europee; accrescere le risorse del bilancio europeo amministrato dalla Commissione di Bruxelles e aumentare le risorse della Banca d'investimento (Bei) destinate anch'esse a specifici progetti di infrastrutture inter-frontaliere.

Le richieste francesi sono in larga misura condivise dalle Autorità di Bruxelles. La Germania - e la Bce di Draghi - ne condividono alcune ma escludono i "project bond" e sono molto caute sugli investimenti della Bei. Mario Monti si colloca a metà strada tra le richieste di Hollande e le probabili risposte negative della Merkel ad alcune di esse. In più Monti aggiunge la richiesta dei diciotto paesi dell'Unione di aumentare l'intensità delle liberalizzazioni sul mercato dei servizi in tutta l'area dell'Unione.

Il negoziato - sempre che Hollande vinca il secondo turno delle presidenziali - avverrà tra l'8 maggio e le riunioni dei vertici europei di fine giugno. Un compromesso positivo è molto probabile. Per quanto riguarda l'Italia l'esito del negoziato ha grande importanza ma non esaurisce i nostri problemi politici, economici e sociali. Restano infatti da risolvere le maggiori tutele sociali (esodati), la tenuta dei partiti della "strana maggioranza" e i loro reciproci conflitti; l'esito politico delle amministrative del 6 e 7 maggio; la riforma della legge elettorale; gli strumenti da adottare nella lotta contro la recessione; l'approvazione della riforma del lavoro; la "governance" della Rai. E scusate se è poco.

* * *
Tralascio di approfondire i temi di questo lungo elenco che sono stati già ampiamente esaminati su queste pagine nei giorni scorsi. Ma ce n'è uno che tutti li contiene e può determinarne l'esito; riguarda l'atteggiamento dei partiti che appoggiano l'attuale governo. Essi temono che l'ondata antipolitica, già prossima ad intercettare il 20 per cento dei voti stando ai sondaggi, possa ulteriormente crescere fino a rappresentare un quarto dei voti espressi e a creare anche una diffusa astensione, tale da ridurre fino al 60 per cento il numero degli elettori che andranno alle urne. Il combinato disposto tra astensioni e voti antipolitici produrrebbe un colpo estremamente grave per i partiti "costituzionali" (chiamiamoli impropriamente così) e metterebbe in serio periglio la stessa sopravvivenza della democrazia parlamentare.

La tentazione di anticipare il voto al prossimo ottobre traluce ormai da ripetute sortite e rende più incerta l'azione del governo e l'andamento dei mercati. D'altra parte la preoccupazione dei partiti è comprensibile. L'"impasse" in cui si trovano è di difficilissima soluzione: anticipare il voto rischia di squalificarli ancora di più e getterebbe il paese in una fase d'insicurezza assai grave; aspettare ancora un anno fino alla scadenza naturale della legislatura prolungherebbe però la loro cottura a fuoco lento. Qual è dunque la soluzione del rebus?

Una soltanto: i partiti che chiamiamo costituzionali votino intanto una legge elettorale che abolisca il premio di maggioranza o lo faccia scattare soltanto per chi superi il 40 per cento dei voti, ponga una soglia alta (5 per cento) per entrare in Parlamento, vieti le coalizioni elettorali, abolisca dalla scheda elettorale il nome del leader, prenda a modello la legge elettorale tedesca applicata a collegi di piccole dimensioni come previsto dalla legge spagnola.

Nel frattempo il governo, ricevuta l'assicurazione formale e solenne della sua permanenza in carica fino al termine della legislatura, adotti una serie di provvedimenti capaci di accrescere le tutele sociali estendendone la durata e ampliandone la sfera d'applicazione, tagli le spese improduttive e persegua - come sta già energicamente facendo - il recupero dell'evasione fiscale; cartolarizzi una parte del patrimonio pubblico vendibile e mandi avanti il pagamento del debito pregresso verso le imprese fornitrici.

Con le risorse prodotte con questi interventi, diminuisca le imposte sul lavoro, aumenti i crediti d'imposta per investimenti destinati a innovazioni e ricerca, rilanci l'apertura dei cantieri edilizi e introduca sgravi d'imposta sui redditi medio-bassi del lavoro dipendente.

Le risorse recuperabili dalle fonti sopra indicate possono arrivare sicuramente a 80 miliardi, forse a cento e quindi sono in grado di produrre un allentamento della tensione sociale in attesa che le liberalizzazioni e la riforma pensionistica producano gli attesi effetti sul gettito delle entrate.

Questi interventi-ponte sono oltremodo necessari e urgenti per diminuire o almeno non far aumentare il tasso di rabbia sociale che, se lasciato alla deriva, può creare uno sconvolgimento economico con i relativi effetti sui mercati finanziari.

Chi si preoccupa soltanto dello "spread" e considera la rabbia sociale come un fenomeno marginale e sopportabile, non coglie un aspetto fondamentale del problema. La "polis" deve tenere nello stesso conto le leggi economiche e le dinamiche sociali da esse provocate; non a caso i classici della scienza economica, a cominciare da Adam Smith, insegnavano filosofia morale. Chi si proclama "smithiano" dovrebbe almeno studiare il pensiero e la formazione culturale del suo autore di riferimento prima d'impegnarsi sui precetti del liberismo senza se e senza ma.

Un'ultima osservazione: il presidente Monti punta giustamente sull'aumento della produttività delle imprese e sulla loro competitività. Mi auguro che non cada nell'errore di far coincidere l'aumento della produttività con la diminuzione del costo del lavoro. Quest'ultimo è soltanto uno dei componenti d'una maggiore produttività e neppure il più importante. I più importanti sono l'innovazione dei prodotti e dei processi di produzione e dipendono sia l'uno che l'altro dagli imprenditori e non dai lavoratori. Quanto al costo del lavoro dipendente esso deriva in buona parte dalla differenza tra salario lordo e salario netto. In questo caso la sua diminuzione si verifica con un taglio del cosiddetto cuneo fiscale e cioè con la fiscalizzazione dei contributi. Sono sicuro che il professor Monti queste cose le conosce molto meglio di me e agirà quindi di conseguenza.

(29 aprile 2012) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. In Francia deve vincere l'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2012, 10:39:15 pm
In Francia deve vincere l'Europa

di Eugenio Scalfari

L'affermazione del socialista Hollande o la riconferma di Sarkozy contano meno dei rapporti tra i transalpini e la Germania.

Per questo le due potenze continentali, indipendentemente da chi le guida, dovranno continuare sulla linea del compromesso

(03 maggio 2012)

Ancora non sappiamo se sarà Hollande a vincere le elezioni presidenziali e se alle elezioni legislative di giugno la maggioranza sarà conforme al risultato presidenziale, ma è probabile che sarà questo il risultato finale. Ci sarà stata cioè un'inversione di tendenza in Europa da destra verso sinistra, dal populismo a un riformismo di tonalità socialista.

La novità è tanto più grossa in quanto avverrà in Francia. Non è soltanto uno dei paesi fondatori della Comunità europea e non è soltanto la nazione che da vent'anni rappresenta insieme alla Germania il motore dell'Unione. La Francia è la Francia, è stata per tre secoli la potenza egemone del nostro continente nella politica, nella cultura, nella lingua. E nel costume. Diciamo, nella "civilizzazione" dell'Europa moderna.

Certo, la sua economia non brilla, il suo debito pubblico è notevole, la sua economia zoppica, la sua agricoltura vive con il sostegno che riceve dall'Europa. E tuttavia una rottura sugli obbiettivi e sui destini tra la Francia e la Germania rappresenterebbe oggi un evento funesto per tutti i paesi del nostro continente. E' dunque probabile - e auspicabile - che sia Hollande sia la Merkel sentiranno il peso di questa responsabilità e punteranno verso una dialettica positiva e verso un compromesso probabile anziché verso una vera e propria rottura.

I compromessi tuttavia sono di due tipi: al ribasso e al rialzo. La politica marcia spesso verso quelli al ribasso perché sono i più facili da conseguire. Bisognerebbe invece cercare non il minimo ma il massimo comune denominatore, specie in tempi di crisi globale come quella nella quale l'Europa e l'Occidente si trovano da oltre quattro anni. Per uscire dal generico vediamo dunque dove si collocano il minimo e il massimo dell'auspicabile comune denominatore.

Il minimo sta nell'aumento dei fondi a disposizione della Banca europea per gli investimenti (che è un'istituzione del tutto diversa dalla Bce). Questa è una delle richieste di Hollande che la Merkel è pronta (per quanto se ne sa) a soddisfare.

L'altro compromesso possibile consiste nell'ottenere dalla Cancelliera il suo assenso a riconoscere l'importanza di una politica di crescita europea. Non costa nulla dirlo; Angela Merkel l'ha già proclamato più volte e probabilmente lo ripeterà con enfasi ancora maggiore dopo l'incontro con Hollande. Dopo di che restano le distanze tra due politiche di crescita: quella affidata a riforme "liberiste" (Merkel, Draghi, Monti) e quelle affidate a interventi fiscali e infrastrutturali pubblici (Hollande, la socialdemocrazia tedesca, i ministri Passera e Barca e il Pd in Italia).

C'è un altro tema che divide questi due fronti: i "project bond", cioè l'emissione di titoli europei per finanziare investimenti della Ue.

Il massimo comune denominatore non prevede quest'ultimo punto perché la Germania sarà sicuramente contraria ai "project bond"; ma comprende tutti gli altri, anche quelli delle riforme fiscali che riguardano i singoli paesi e non l'Europa in quanto tale. Sarà probabilmente questo l'obbiettivo di Hollande che non sposta granché la situazione italiana dove Monti è più vicino alla visione liberista che a quella interventista.

La Francia è la Francia, e l'Italia è soltanto l'Italia.


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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La rabbia dei barbari chi urla e chi spara
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2012, 05:54:35 pm
    L'EDITORIALE

La rabbia dei barbari chi urla e chi spara


di EUGENIO SCALFARI


Sono avvenuti molti fatti nuovi negli scorsi giorni, che riguardano l'Europa in tempesta, ma l'evento centrale che tutti li riassume è stato l'elezione del socialista François Hollande alla guida della Francia. Non è soltanto una svolta politica francese, ma di tutta l'Unione ed ha un doppio significato: riafferma la volontà di rafforzare l'unità europea e di puntare sulla crescita economica e sulla moneta unica nel quadro della stabilità.

Molti temevano che quell'evento fosse bocciato dai mercati producendo così nuovi sconquassi finanziari; ma le cose sono andate diversamente. I mercati hanno capito e si sono allineati, anche i governi hanno capito e si sono allineati anch'essi. Si sta di fatto manifestando una convergenza di intenti che coinvolge l'Italia, la Spagna, l'Olanda, i tre paesi baltici, i Balcani, l'Irlanda, il Portogallo e perfino la Grecia. In Germania il partito socialdemocratico aumenta il suo peso in tutte le elezioni cantonali che si susseguono in questi mesi; quando l'anno prossimo ci saranno le elezioni politiche la soluzione che fin d'ora si profila sarà quella della coalizione tra Cdu e Spd.

Il Parlamento europeo e la Commissione di Bruxelles sono già su questa linea. Il riformismo non solo economico ma sociale emerge ormai come il solo sbocco possibile per uscire da una crisi recessiva che dura da anni e che sta producendo ovunque fenomeni preoccupanti.

L'evento francese è avvenuto attorno a due parole: i giovani, le diseguaglianze. Esse contraddistinguono
la sinistra del ventunesimo secolo. Ma eguaglianza senza libertà è una parola vuota e fa intravedere sullo sfondo dittature e tirannie; libertà senza eguaglianza spalanca la via a privilegi e a caste oligarchiche. Bisogna dunque coniugarli insieme quei due valori per costruire un presente accettabile e una speranza di futuro.

 Su queste due parole dobbiamo dunque concentrarci limitando il nostro ragionamento al caso italiano che riecheggia anche gli altri con cause ed effetti sempre più interdipendenti.

*  *  *

Chi dice di amare la politica ma di detestare i partiti esprime una dicotomia priva di senso perché la politica non si può fare senza i partiti. Da che mondo è mondo è sempre stato così. La politica è affidata a persone che decidono di operare insieme perché condividono una visione del bene comune.

Possono avere l'obiettivo di distruggere le istituzioni esistenti, ma una volta che quella distruzione sia avvenuta ed anzi nel momento stesso in cui avviene debbono dire che cosa vogliono mettere al suo posto. A questo punto sono essi stessi diventati un partito, comunque lo si voglia chiamare.

In tutti i paesi dell'Occidente sono sorti in questi anni di crisi movimenti di "arrabbiati". La recessione e i sacrifici che ne derivano sono stati il loro brodo di coltura, in Grecia, in Spagna, in Olanda, in Austria, in Germania, in Usa e naturalmente anche in Italia. Da noi gli arrabbiati si sono radunati sotto le insegne di Beppe Grillo e dello slogan "Vaffa" con quel che ne segue. Alcuni di loro però si sono presentati alle elezioni amministrative già cinque anni fa e si propongono ora di esser presenti anche alle future elezioni politiche.

Chi di loro ha partecipato con evidente successo alle recenti comunali ha dovuto indicare un programma, sia pure limitato, di obiettivi amministrativi usando un linguaggio politico per ottenere consenso. Il cemento per ora è il "Vaffa", cioè il rifiuto dell'esistente, ma anche un elenco di obiettivi da realizzare che comporterà inevitabili alleanze e modalità politiche. Grillo non vorrebbe quelle modalità ma le sue urla comiziesche si affievoliranno inevitabilmente se i suoi seguaci vorranno cimentarsi con la politica.

La Lega in questo senso fa testo. Quando nacque aveva come finalità la conquista d'una regione inventata, la Padania, e la sua secessione dall'Italia; ma via via che conquistava Comuni e poi Province e infine due Regioni, diventò inevitabilmente un partito. Condivise per anni il governo berlusconiano avallandone i pregi (pochi), i difetti (molti), le nefandezze (numerose). Degenerò trasformandosi in un partito inquinato dai virus della clientela e della corruzione. Ha perso in queste elezioni metà del suo elettorato. Ha vinto a Verona dove c'era e c'è un bravissimo sindaco la cui lista personale ha raccolto il 30 per cento dei voti mentre la lista del suo partito ne ha raccolto soltanto il 10. Tosi non è più un leghista, ma un sindaco come Fassino e Pisapia. Con una differenza però: il bravo Tosi non ha una visione del bene comune appropriata all'Italia ma soltanto quella della sua città. E così sarà anche per gli amministratori eletti nelle liste "5 Stelle".

Gli arrabbiati nella Lega non sono molti. Gli scontenti che rifiutano di pagare le tasse, quelli sì sono tanti, è un fenomeno assai diffuso coi tempi che corrono. Gli scontenti sono dappertutto. In Francia si sono ammucchiati in un partito vero e proprio che risucchierà una parte del gollismo e rappresenterà la nuova destra francese. In Grecia hanno messo in crisi i partiti tradizionali ma ora si trovano davanti a un bivio assai impegnativo: nelle nuove elezioni dovranno scegliere se vogliono restare in Europa dove stanno male o uscirne con la fondata prospettiva di stare molto peggio.

Questa è la vera linea di frattura in tutta Europa e riguarda anche la cancelliera Merkel. Anche per lei il problema è quello se uscire dall'Euro e quindi sfasciare l'Europa. Senza l'Europa i tedeschi starebbero meglio o peggio? La pancia suggerisce a molti di loro che starebbero meglio; la ragione suggerisce il contrario.

L'alleanza che si sta formando intorno a Hollande fa appello alla ragione.

Se la Merkel non lo capirà, l'Euro affonderà e annasperemo tutti in mezzo alla tempesta. Gli arrabbiati che oggi assediano le sedi di Equitalia staranno peggio di tutti.

*  *  *

Monti è un liberale pragmatico come gran parte dei suoi ministri; sono tutti consapevoli che il rigore era necessario purché affiancato da provvedimenti di crescita.

Il rigore era più facile (e più doloroso) da conseguire; la crescita presupponeva invece una politica europea perché non si può crescere da soli.

La Commissione di Bruxelles è da tempo su questa linea, la Bce anche, ma la Germania no, non ancora. La vittoria di Hollande è stata il punto di svolta e lo si comincia a vedere anche in Italia. Alcuni ministri, finora piuttosto in ombra, sono emersi in prima fila: Passera, Barca, Balduzzi, Riccardi. Il ministro dello Sviluppo l'altro ieri ha illustrato a Napolitano gli interventi previsti per la crescita e ne ha ottenuto il plauso. Il presidente della Repubblica batte da tempo su quel tasto ed ha inviato a Hollande più di un messaggio auspicando uno stretto raccordo col governo italiano. Monti dal canto suo è sulla stessa linea.

Il problema non è quello di isolare la Merkel ma di modificarne le priorità. E quindi: investimenti in infrastrutture europee affidate alla Banca degli investimenti (Bei), accettazione di investimenti nazionali per infrastrutture e ricerca che non gravino sul debito sovrano e sul deficit, raccolta di fondi sul mercato europeo con le stesse destinazioni produttive.

E intanto ricerca di risorse italiane e misure italiane di immediata attuazione, a cominciare dal pagamento dei debiti del Tesoro verso le imprese fornitrici che attendono da tempo il saldo dei propri crediti. Sarebbe un'iniezione di liquidità benedetta e dovrebbe accadere tra pochi giorni.

*  *  *

Dei tre partiti che sostengono il governo Monti, ciascuno per proprio conto e per le proprie ragioni, uno, il Pdl, è uscito a pezzi dalle elezioni amministrative del 6 maggio; un altro (Udc) non ha perso voti ma è diventato irrilevante perché non è riuscito ad intercettare neppure un voto di quelli che defluivano dal centrodestra. Infine il Pd: ha perso moderatamente in voti assoluti e in percentuale ma rimane tuttavia il solo vero perno aperto al futuro, con un riformismo consapevole dei sacrifici imposti dalla situazione ma pienamente aderente agli obiettivi del socialista Hollande con il quale del resto è affratellato nell'Internazionale.

Il Pd è tornato a proporre le elezioni a doppio turno sul modello francese, ma non è contrario alla riforma proporzionalistica abbozzata dagli "sherpa" dei tre partiti (Violante, Adornato, Quagliariello) e neppure al mantenimento del "Porcellum" se il Pdl dovesse schierarsi su quella posizione senza consentire alternative.
In quest'ultima ipotesi sarebbe molto opportuna la formazione d'una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità, del cui recupero c'è urgente bisogno e che interpella la società civile prima ancora dei partiti politici.

Nel principio di legalità c'è anzitutto l'etica pubblica da rispettare, la lotta alle mafie e alle oligarchie corporative, la giustizia nella pubblica amministrazione, la legalità fiscale (evasione) e la legalità costituzionale.
Una lista formata da persone competenti e civilmente impegnate nella difesa di questi valori darebbe un tono quanto mai riformatore al partito democratico e lo accrediterebbe come struttura portante a servizio della società civile.

Da questo punto di vista sembra inopportuno aprire oggi la competizione per la nomina del leader che guiderà il Pd nelle elezioni del 2013. Quel nome esiste già ed è il segretario in carica. Le primarie ci saranno se sarà necessaria una coalizione. Dipende dalla legge elettorale ma meglio sarebbe comunque che il Pd fosse il luogo politico della riunione di tutti i riformisti, a cominciare da Vendola. I moderati sono un'altra cosa, non c'è dubbio che il governo che uscirà dalle elezioni dovrà essere il risultato d'una alleanza politica tra riformisti democratici e moderali liberali. Da questo punto di vista è quanto mai opportuno non scrivere alcun nome d'un leader sulla scheda elettorale, anche per evitare il ripetersi di una grave scorrettezza costituzionale in palese contraddizione con le prerogative del capo dello Stato cui spetta la nomina del presidente del Consiglio e dei ministri.

Il Pdl scalpita ed è praticamente imploso. Gruppi e sottogruppi disputano la loro futura collocazione. Il vecchio Capo pensa probabilmente ad una sorta di lista civica nazionale che tenga uniti i moderati di centro e gli ultrà di destra, da Casini a Storace passando per La Russa.

Credo che sia un vano pensiero, almeno per quanto riguarda Casini. Le liste civiche hanno un senso se si prefiggono la difesa di valori specifici ma non se sono la foglia di fico per nascondere un partito logoro e scaduto.

Il presidente Napolitano guarda con attenzione al comportamento dei partiti e del governo, ma guarda soprattutto alla società italiana, ai suoi punti di debolezza e ai suoi punti di forza e d'impegno civile.
L'opera continua che assorbe tutto il suo tempo è un monitoraggio incessante per evitare fughe improvvise all'indietro e recuperare il senso di un riformismo attivo.

Le due parole "giovani e diseguaglianze" sono state le sue prima ancora che Hollande le pronunciasse. È una vita che Giorgio Napolitano ha speso per dare ai giovani certezze sul presente e speranze per il futuro e garantire pari opportunità per tutti gli italiani. Mai come oggi quei valori sono bersaglio degli irresponsabili e mai come oggi debbono essere scritti sulla bandiera della modernità politica e civile.
 

(13 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Parole ambigue e teste ribalde
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:56:46 am
Opinione

Parole ambigue e teste ribalde

di Eugenio Scalfari

La trasmissione di Fazio e Saviano ha uno scopo giusto: restaurare il senso dei vocaboli. Perché il significato è cambiato.

Persino alcuni nomi propri sono irriconoscibili

(17 maggio 2012)

Fabio Fazio e Roberto Saviano hanno mandato in onda lunedì sera su La7 una trasmissione dedicata alle parole e l'hanno proseguita per qualche giorno. Ce n'era bisogno. Viviamo in un periodo in cui persino le parole si sono corrotte e sono diventate ambigue. Debbono dunque essere restaurate ed è proprio quello lo scopo della trasmissione.

Proverò anch'io a fornire qualche esempio con parole di uso corrente. I restauri mi piacciono molto e spero che i miei lettori ne ricavino qualche vantaggio.

Comincio con la parola onore. La prima osservazione che mi viene di fare è che l'onore ha due significati diversi per gli uomini e per le donne. Per molto tempo l'onore maschile è venuto dal coraggio con il quale si affrontano gli avversari e le avversità. L'onore femminile invece derivava dalla fedeltà rispetto al proprio uomo, si trattasse del padre, del marito, del fratello. Se rompeva la fedeltà la donna si disonorava e disonorava anche l'uomo cui apparteneva. Questo concetto di onore è stata una delle manifestazioni più evidenti del maschilismo che ha imperato per secoli e secoli. Adesso è in crisi.

L'aspetto negativo del mutamento in corso riguarda il valore della fedeltà. Anche la fedeltà è entrata in crisi, ma non solo quella della donna rispetto al suo uomo, ma quella verso una causa, un ideale, un contratto liberamente sottoscritto, una patria.

Il venir meno della fedeltà spesso viene bollato con la parola tradimento, usata da chi ne sopporta gli effetti per lui negativi. La usano anche i mafiosi contro chi si pente dei reati commessi per fedeltà al crimine e li puniscono selvaggiamente.
In politica è frequente il caso di chi rompe la fedeltà a un'idea e a un partito per passare nel campo avverso. Si chiamano trasformisti. Il trasformismo ha caratterizzato interi periodi storici. In questo che stiamo vivendo ne abbiamo avuto numerosi e non edificanti esempi.

Libero arbitrio potrebbe sembrare sinonimo di trasformismo e in alcuni casi è infatti invocato come motivazione nobilitante. Il corretto significato di questa espressione è invece del tutto diverso. Significa infatti agire secondo la propria e autonoma coscienza e non obbedendo a precetti e a discipline imposte dal di fuori.
Amore è una delle parole più usate da quando esiste la nostra specie. Ha un'infinita quantità di significati. Ne cito alcuni: c'è l'amore-passione, l'amore sensuale, quello romantico, quello casto (o platonico), quello filiale, quello materno e paterno. Molti lo definiscono una malattia, altri il massimo ineffabile della felicità. C'è l'amore per sé (egoismo) e l'amore per gli altri (altruismo, solidarietà). E' anche diventato un intercalare, "amò", molto usato tra ragazze che spesso usano il proprio corpo come merce di scambio.
La parola apparenza ha due significati contrastanti. Il primo sottolinea la sua mancata corrispondenza con la realtà: ciò che appare spesso non è. Il secondo significato sostiene invece che ciò che appare è la sola realtà possibile e non è mai la stessa; ciò che appare varia da persona a persona, da luogo a luogo, da tempo a tempo. L'apparenza è la realtà del relativismo.

Concludo su una parola che designa un nome di città ma è anche un frequente cognome: Ferrara. Tralascio la città, è bella e importante. Ho conosciuto una famiglia con quel cognome ed è a quella che dedico queste ultime righe.

Sono stato molto amico di Mario Ferrara. Fu un grande avvocato che durante il fascismo difese gli antifascisti nei processi politici contro di loro. Fu anche un grande liberale, editorialista del "Mondo" e del "Corriere della Sera". Suo figlio Giovanni ha seguito nobilmente le orme del padre e ne ho carissimo ricordo. L'altro figlio Maurizio fu un esponente del Partito comunista, e anche poeta e scrittore.

Giuliano è il figlio di Maurizio. Ha avuto molti innamoramenti politici: Amendola, Craxi, Berlusconi, il cardinal Ruini, il cardinale Ratzinger e poi papa Benedetto XVI, di nuovo Berlusconi e ora anche Mario Monti. Ha fondato e dirige "Il Foglio". Lunedì 14 maggio ha attaccato e pesantemente offeso Roberto Saviano e ha proposto la fondazione di un'associazione che abbia il compito di insultare sistematicamente il predetto Saviano. Sapevo che Giuliano è dominato dalla passione di mettere il piede sul petto dell'avversario, ma fino a questo punto non era mai arrivato, segno che la ragione è volata via dalla sua testa ribalda.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Da Pacelli a Ratzinger la lunga crisi della Chiesa
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 04:55:36 pm
L'EDITORIALE

Da Pacelli a Ratzinger la lunga crisi della Chiesa

di EUGENIO SCALFARI


La vecchia Italia affondò durante una giornata gonfia di tempesta e di presagi, nell'autunno del 1958: Papa Pio XII moriva in mezzo a una corte disfatta di cardinali decrepiti, di astuti procacciatori d'affari, di monache fanatiche, di nipoti parassiti. Nel palazzo papale di Castel Gandolfo, mentre il temporale gonfiava le acque del lago e lo scirocco spalancava le imposte e si ingolfava tra le tende e nei corridoi, dignitari laici ed ecclesiastici si preparavano a sgombrare. Ciascuno cercava di portar via, anche fisicamente, quanto più poteva; ma soprattutto ciascuno brigava per conservare qualche beneficio; una carica lucrosa, una fetta, per piccola che fosse, di quel potere che fino a quel momento da oltre dieci anni era stato amministrato senza scrupoli e senza concorrenze. L'affanno era visibile dovunque, nelle sale di ricevimento, nelle anticamere e fino intorno al letto del moribondo che, già in agonia, veniva impudicamente fotografato dal suo medico e dalla sua suora assistente, con la cannula dell'ossigeno in bocca, e i tratti del volto devastati dalle ombre della morte. Non era l'affanno della pietà; era l'affanno della cupidigia e della paura perché tutti sapevano, entro il palazzo, che non moriva un Papa ma finiva un regno.

Nel salotto privato del Papa, circondato dai porporati più anziani e potenti, dai capi del Sant'Uffizio, delle Missioni, del Tesoro, dei Seminari, il Camerlengo della Chiesa rappresentava l'ultimo anello d'una continuità che stava per spezzarsi definitivamente. Aveva, come sempre, un
volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale. Ma intorno a quella carica e all'uomo che ci stava dentro si andava tessendo proprio in quelle ore e in quel luogo la trama del conclave. Aloisi Masella, il Camerlengo, fu il primo e forse decisivo mediatore insieme ad Agagianian, il prefetto di propaganda Fide, tra il gruppo dei cardinali stranieri e i curiali. Cominciò di lì la ricerca che si sarebbe conclusa qualche settimana dopo sotto le volte della Sistina con un risultato che avrebbe sconvolto tutti i programmi, di un terzo uomo, un Papa che avrebbe dovuto essere al tempo stesso abbastanza pastorale per assorbire le irrequietezze della cattolicità, abbastanza diplomatico per non dimenticare le leggi del potere, abbastanza umile per restituire al Collegio e agli Episcopati le prerogative che Pacelli aveva confiscato. E abbastanza vecchio per non durare troppo a lungo.

Quando in quell'alba di tuoni e di vento il medico del Papa, Galeazzi Lisi, ne ebbe dichiarato la morte clinica, dignitari, curiali, camerieri segreti, banchieri, politici, fuggirono verso Roma su grandi automobili nere per preparare l'incerto avvenire. Uno stuolo di corvi abbandonava le strutture corrose d'un luogo dal quale una monarchia assoluta aveva governato un paese.

* * *
Il brano che avete letto è tratto da un mio libro intitolato L'autunno della Repubblica del 1969, nel pieno del movimento studentesco. Il capitolo qui citato s'intitola "La fine d'un regno" e racconta appunto la morte di Papa Pacelli, Pio XII, che impersonò per lunghi anni la Chiesa trionfante e combattente che conteneva però fin da allora quella crisi sistemica di cui parla il cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati in questa materia.
Gli avvenimenti in corso segnano il momento culminate di questa crisi: la destituzione di Gotti Tedeschi dalla guida dello Ior, l'arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, la sorda lotta in corso tra le diverse fazioni curiali e anticuriali, la posizione sempre più traballante del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Infine, la disperazione di Papa Ratzinger, chiuso nelle sue stanze e manifestamente incapace di tener ferma la barra in un mondo pervaso da cupidigie, ambizioni, complotti e contrastanti visioni della Chiesa futura.
Non mi occuperò tuttavia delle inchieste in corso, che il nostro giornale ha già ampiamente trattato in questi giorni e ancora oggi con tutti gli aggiornamenti di cronaca. Mi interessa invece - e spero interessi i nostri lettori - di dare un'occhiata di insieme ai pontificati che si sono susseguiti da Pacelli a Ratzinger. Sono stati attraversati tutti dal filo rosso del confronto tra la Chiesa e la modernità. Perciò questi pontificati meritano una speciale attenzione per capire quale sia l'essenza di questa crisi sistemica che avviene sotto i nostri occhi.

* * *
Il conclave che elesse Giovanni XXIII venne dopo la monarchia assoluta ma molto avveduta di Pio XII, un diplomatico per eccellenza che governò la Chiesa in tempi durissimi, con la guerra in corso e poi a guerra finita con la ricostruzione della democrazia e il governo della Dc degasperiana.
Pacelli ebbe tutti i difetti e tutte le qualità dei grandi pontefici. Abbiamo detto che eccelse nelle capacità diplomatiche e lo dimostrò ampiamente, soprattutto nel tormentatissimo periodo dell'occupazione nazista di Roma. Ma non mancava di pastoralità e neppure di grandi capacità sceniche. È ancora negli occhi di tutti i suoi contemporanei la sua visita al quartiere di San Lorenzo in Roma distrutto dal bombardamento americano, dove la sua veste bianca fu macchiata di sangue quando s'inoltrò tra le rovine per benedire i morti e soccorrere i feriti ancora distesi nelle strade devastate.

Il partito conservatore era anche allora asserragliato in Curia. Il Papa si guardò bene dal disperderlo, anzi lo rafforzò purché si sottomettesse. Decideva lui quando era il caso di farlo emergere o di farlo tacere. Del resto chi parlava per lui era il gesuita padre Lombardi, detto "il microfono di Dio" che combatteva i socialcomunisti a spada sguainata. Un'altra spada era nelle mani di Gedda e dei comitati civici che sconfessavano addirittura la politica di De Gasperi che non fu più ricevuto in Vaticano in udienza privata.

Ma Pacelli era anche nepotista nel senso classico e familista del termine. Era un principe e come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri. Il populismo di Berlusconi fa ridere rispetto a quello di Pio XII che ora è in predicato di santità.

* * *
Papa Giovanni fu l'esatto contrario sia pure con alcuni condizionamenti. Fu eletto con una condizione: che restituisse alla Curia la sua indipendenza funzionale. A questo mandato si tenne fedele ma i curiali non avevano messo in conto che il Papa era comunque in grado di procedere a nuove nomine quando la morte avesse aperto vuoti nella gerarchia. C'era bisogno d'un Papa soprattutto pastorale e lo ebbero nel senso più pieno della parola. Giovanni fu molto più pastore che Romano Pontefice. Il fisico lo aiutava e l'eloquio anche ma soprattutto lo aiutò l'anima sua o se volete lo Spirito Santo. Amava i bimbi, le mamme, la famiglia, i poveri, gli esclusi.

Richiamò Montini alla Segreteria di Stato e convocò il Concilio Vaticano II dove affluirono i vescovi di tutto il mondo cattolico. Era passato un secolo dal Vaticano I che si radunò a poca distanza di tempo dalla fine del potere temporale dei Papi. Lì fu proclamato il Papa-Re, infallibile quando parla dalla cattedra, e fu elevata a dogma la verginità di Maria.

Il Vaticano II proclamò invece la necessità che la Chiesa si confrontasse con la modernità. Fu una rivoluzione, avviata ma ovviamente non compiuta. Fu la scelta d'un tema che doveva essere portato avanti a cominciare dalla modernizzazione della Chiesa, lo sconvolgimento della liturgia, la messa recitata nelle lingue correnti e non più in latino, col sacerdote rivolto ai fedeli e non più di spalle; l'apertura del dibattito sul ruolo dei laici e delle donne. Infine, il disinteresse del Vaticano nei confronti della politica italiana e quindi l'autonomia dei cattolici impegnati.
Ma su un punto i curiali avevano visto giusto: nel suo quarto anno di pontificato il Papa si ammalò, nel quinto anno morì.

Ricordo ancora i funerali: una folla immensa che dalla piazza arrivava al Tevere ed oltre, tutte le vie gremite da piazza Cavour e da Villa Pamphili, tutto Borgo Pio. Un Papa come lui non si era visto da gran tempo e non s'è più visto da allora.

* * *
Poi venne Montini. Di dire che ebbe qualità pastorali sarebbe dir troppo. Diplomatico, certo. Di populismo neppure l'ombra. Fu un politico, forse fin troppo. Ma non conservatore.
Il confronto con la modernità non lo portò avanti ma impedì che ci fossero ulteriori arretramenti. Fu un pontificato con fasi drammatiche in quegli anni di piombo culminati con l'assassinio di Aldo Moro, del quale officiò la messa funebre in Laterano.
Fu un Papa di interregno.

Forse Papa Luciani aveva con Papa Giovanni qualche lontana somiglianza ma morì dopo appena un mese. Dopo di lui salì in cattedra un cavallo di razza, un grande, grandissimo attore. Non so se la Chiesa avesse bisogno d'un attore, ma lui lo fu dalla testa ai piedi, nel momento dell'elezione, nel momento dell'attentato, nel momento della rivoluzione in Polonia, nel momento della caduta del Muro, nei suoi viaggi continui intorno al globo, nel Giubileo del 2000 e nella lunga fase della malattia e poi della morte.

Quando il Camerlengo pronunciò il suo nome dopo la fumata bianca dal camino della Sistina, tutta la piazza pensò che avessero eletto un Papa africano. Solo quando si affacciò si capì che era un bianco ma non italiano. "Se mi sbaglio mi corrigerete" ricevette un'ovazione da stadio e così cominciò.
Fino a Solidarnosc e poi alla caduta del Muro di Berlino, Wojtyla fu il Papa della libertà religiosa contro il totalitarismo comunista. In Occidente ebbe l'appoggio dei conservatori, dei liberali, dei democratici. Caduto il comunismo accentuò la sua critica verso il capitalismo ma contemporaneamente represse la "nuova teologia" e l'esperienza dei preti operai. L'indifferenza nei confronti dell'assassinio del vescovo Romero mentre officiava la messa in Salvador fu una delle pagine sgradevoli del suo pontificato, compensata tuttavia dalla sua peregrinazione ininterrotta in tutti gli angoli del mondo dove gli fu possibile arrivare.

Tentò d'avviare la riunificazione delle Chiese cristiane senza tuttavia compiere passi avanti significativi. Riconobbe le colpe storiche della Chiesa a cominciare dall'accusa di deicidio contro gli ebrei e dalla condanna di Galileo e di Giordano Bruno.

L'agonia fu molto lunga e scenicamente grandiosa. Non certo per calcolo ma per autentica vocazione. "Santo subito" fu l'invocazione della folla immensa che anche per lui occupò mezza città.
Un bilancio? I problemi della Chiesa alla sua morte erano gli stessi: potere della gerarchia, emarginazione del popolo di Dio, crisi delle vocazioni, crisi della fede in tutto l'Occidente, nessuna modernizzazione all'interno della Chiesa. Ma una modifica sì, si era nel frattempo verificata: il messaggio del Vaticano II non solo non aveva fatto passi avanti, ma li aveva fatti all'indietro. Non a caso al Conclave i martiniani furono marginalizzati fin dalla prima votazione e dalla seconda emerse Ratzinger mentre Ruini era pronto a intervenire se Ratzinger fosse stato battuto.

* * *
Benedetto XVI non è un grande Papa anche se l'ingegno e la dottrina non gli mancano. Non è un attore, anzi è il suo contrario. Wojtyla aveva un guardaroba grandioso perché tutto era grandioso in lui. Il guardaroba di Ratzinger è invece lezioso perché è il Papa stesso ad esser lezioso, come si veste, come parla, come cammina. Scrive bene, questo sì, i suoi libri sul Cristo si fanno leggere, le sue encicliche non sono prive di aperture ed anche alcuni suoi discorsi. La sua rivalutazione di Lutero ha suscitato sorpresa e qualche speranza di progresso verso la modernità, contraddetto però dalle sue scelte operative, dalla conferma di Sodano in segreteria e poi all'avvicendamento con Bertone: dal mediocre al peggio. Bertone: un Ruini senza l'intelligenza e la duttilità dell'ex vicario ed ex presidente della Cei. La gerarchia è ridiventata onnipotente ma spaccata in molti pezzi. L'ecumenismo è ormai è un fiore appassito anzitempo.

Benedetto XVI ha riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d'Aquino con tanti saluti ad Origene, Anselmo d'Aosta e Bernardo. Agostino sembrava uno degli ispiratori di Ratzinger, ma quale Agostino? Il manicheo, il coadiutore di Ambrogio o l'autore delle Confessioni?  Agostino fu molte cose insieme arrivando fino a Calvino, a Giansenio e a Pascal. Se volesse dire qualche cosa di veramente attuale Papa Ratzinger dovrebbe dare inizio alla beatificazione di Pascal ma mi rendo conto che nel mondo dei Bertone, della Curia romana e delle attuali Congregazioni, questo sì, sarebbe un gesto radicale verso la modernità. Non lo faranno mai.

Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti.

(27 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/27/news/scalfari-35992713/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il pagliaccio che ride ma dovrebbe piangere
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2012, 09:36:00 am
IL COMMENTO

Il pagliaccio che ride ma dovrebbe piangere

di EUGENIO SCALFARI

CE NE sono tante di questioni delle quali oggi bisogna occuparsi: la recessione mondiale che ormai morde dovunque e non solo in Europa e in America ma anche nei Paesi emergenti come la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica; la corruzione presente ovunque vi sia il potere ed ha raggiunto con drammatica intensità perfino i vertici della Chiesa di Cristo; l'incapacità europea di darsi un governo e una linea di politica economica. E poi ci sono le questioni italiane dove il dramma e a volte la tragedia si mescolano con il "burlesque" determinando una miscela esplosiva e comica. Il "ridi pagliaccio, la faccia infarina" con dietro la maschera dell'attore che piange lacrime di dolore e di sofferenza meriterebbe d'essere oggi assunto come simbolo delle sventure nazionali che contengono una dose di comicità tale da configurare un personaggio mostruoso in preda a passeggere ma intense emozioni prive di qualunque punto di riferimento razionale.

In questo ampio ventaglio di problemi partiamo dal più urgente che minaccia di sospingere tutti gli altri verso la catastrofe: la Spagna e la crisi bancaria spagnola. Si scatenò anche nel 2008 a ridosso della bolla immobiliare americana che provocò poco dopo il fallimento della Lehman Brothers. In Spagna stavano fallendo le principali casse di risparmio del Paese. Zapatero, ancora per poco al potere, le riunì nella Bankia, un nuovo istituto capitalizzato dallo Stato che avrebbe dovuto intraprendere una più tranquilla navigazione.

Sono passati quattro anni. Nel 2008 c'era la crisi finanziaria e bancaria ma non c'era la recessione, non c'era la crisi dei debiti sovrani, non c'era il crollo del mercato del lavoro. Adesso è l'economia reale a soffrire senza però che la finanza abbia distrutto i virus che l'avevano invasa. Bankia è di nuovo con la febbre a quarantuno e altrettanto male stanno le Casse di risparmio di Madrid e di Barcellona. Servono per domani diciannove miliardi e nei giorni seguenti un'altra cinquantina. Il governo spagnolo aveva pensato di procurarli emettendo un'analoga cifra di titoli di Stato e spostando d'un anno in avanti il pareggio del deficit. Ma poi ha pensato che l'aggravamento del debito avrebbe scatenato i mercati e perciò si è fermato. I mercati però si sono scatenati egualmente e per di più i depositanti creditori delle banche spagnole si sono messi in fila agli sportelli per ritirare i loro risparmi. Le società finanziarie hanno fatto prima: cliccando sui computer aziendali hanno trasferito milioni di euro dalla Spagna a più sicuri rifugi. Dove? In Germania ovviamente. Infatti l'interesse del Bund tedesco è calato di quasi un punto: valeva due euro, ora ne vale uno o poco più. La Spagna è in stato agonico, le banche tedesche e la clientela ingrassano.

Capisco che non bisogna irritare la Merkel perché l'Europa ha bisogno di lei. Però c'è un limite. Mi vengono in mente i "furbetti" di casa nostra che alla notizia del terremoto dell'Aquila ridevano commentando al telefono i pingui appalti che avrebbero ottenuto. Forse è irriverente paragonare le banche tedesche ai furbetti di casa nostra, ma purtroppo si tratta d'un paragone appropriato che non si verifica solo in Spagna ma in tutta Europa.

Dall'Italia, dalla Francia, dall'Olanda, dall'Austria, dal Portogallo, dalla Grecia, le banche rimborsano i depositanti mettendo in moto flussi di capitali a senso unico da tutta Europa alle banche tedesche. Salgono gli spread da un lato, scendono gli interessi dall'altro. Il governo tedesco ha una responsabilità politica e con esso ce l'ha la Commissione di Bruxelles e il presidente del Consiglio europeo. La Bce di Draghi ha lanciato l'sos, raccolto l'altro ieri dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco. Monti ha lanciato lo stesso segnale, Obama e Hollande altrettanto. Analogo allarme è stato manifestato da alti esponenti tedeschi dell'Spd e dei Verdi. Ma temo che non bastino i segnali. Bisogna che entro i prossimi giorni, anzi entro le prossime ore, ci sia una pubblica riunione di tutti i protagonisti e sia avanzata al governo tedesco una proposta concreta, accettabile ma ultimativa. Draghi l'ha già formulata: garanzia europea sui debiti bancari e unificazione del mercato bancario continentale. Contemporaneamente finanziamento alla Spagna coi fondi del Salva-Stati da rendere operativo con una dichiarazione comune del Consiglio dei ministri europeo e della Commissione. Se il fondo non disponesse materialmente dei denari necessari la Bce sia autorizzata ad anticiparli.

* * *
Queste sono misure d'urgenza e di estrema necessità senza le quali gli spread europei saliranno alle stelle e le Borse scenderanno in picchiata. È vero che Grillo e la Santanché, in prevista alleanza tra loro, predicano la nostra uscita dall'euro ed è vero anche che l'altro ieri un redivivo Berlusconi, tra gli applausi dei suoi deputati e senatori, ha proposto che la Zecca italiana stampi euro da distribuire alle famiglie e alle imprese in difficoltà.
Questa è la (involontaria) comicità di Berlusconi. Come se il ritorno alla lira fosse neutrale sul potere d'acquisto degli stipendi e delle pensioni; come se la Zecca italiana fosse agli ordini di Cicchitto e non della Banca centrale di Francoforte. Eppure queste dichiarazioni o esternazioni che dir si voglia non sono fatte a caso. Servono alla convergenza politica di quel che resta del Pdl, della Lega di Maroni ("Siamo disposti a costruire un nuovo rapporto amichevole col Pdl se ritirerà da subito la fiducia al governo Monti"), di Di Pietro e di Grillo. Gli obiettivi di questo schieramento le cui linee di tendenza sono ormai ben visibili, sono: abbattere Monti, abbattere le tasse, abbattere l'euro. Ridi pagliaccio, la faccia infarina: tragedia e comicità. Non fanno ridere, ma piangere sì.

* * *
Abbiamo già indicato una via d'uscita urgentissima, ma c'è una via d'uscita più solida da realizzare. Anche questa è stata prospettata da Draghi nel rapporto indirizzato ai governi del G8 e resa pubblica giovedì scorso. Si tratta d'una proposta lanciata quattro anni fa da Vincenzo Visco e recuperata l'anno scorso dal comitato dei cinque saggi nominato dal Parlamento europeo per trovare una soluzione al problema dei debiti sovrani europei (nel comitato c'era anche un tedesco e le conclusioni furono approvate all'unanimità). Si tratta di mettere in un Fondo comune europeo tutta la parte dei debiti sovrani in euro che eccedano il 60 per cento del rapporto tra il singolo debito sovrano e il Pil del Paese in questione. Il tasso d'interesse pagato dal Fondo sarebbe una media dei tassi d'interesse vigenti nei vari Paesi che hanno conferito una parte del debito. La media ponderata penalizzerebbe i Paesi virtuosi e premierebbe i Paesi meno virtuosi. L'Italia cioè pagherebbe un tasso minore del quattro per cento e la Germania un tasso maggiore del due. La proprietà del debito sovrano conferito al Fondo resterebbe tuttavia di pertinenza del Paese conferente. La Germania cioè - per andare al concreto - non dovrebbe addossarsi la compartecipazione dei debiti conferiti ma soltanto del proprio e così l'Italia, la Spagna e tutti gli altri. Non ci sarebbe cioè nessun trasferimento di titolarità del debito; il sacrificio (o il beneficio) sarebbe limitato al tasso d'interesse. La garanzia dei debiti conferiti al Fondo sarebbe europea e la sua copertura sarebbe il bilancio europeo opportunamente ricapitalizzato secondo le quote che spettano a ciascun Paese in base al reddito e alla popolazione.

Una riforma di questo genere sarebbe risolutiva, bloccherebbe la speculazione, farebbe scendere gli spread, consentirebbe importanti programmi di crescita economica e di tutela sociale e fiscale. Dovrebbe essere accompagnata anche da alcune importanti cessioni di sovranità dai governi alle Autorità europee a cominciare dall'unità del mercato bancario, dalla politica dell'immigrazione e dalla politica fiscale.

* * *
Questi obiettivi, quelli di emergenza e quelli di sfondo, hanno bisogno evidentemente di una politica per esser realizzati e - come è evidente - alcuni debbono essere raggiunti nei prossimi giorni, altri tra pochi mesi e altri ancora tra un paio d'anni. Alla confusa, demagogica e pericolosa convergenza anti-Monti e anti-euro va dunque opposta una responsabile coalizione di tutte le forze di centrosinistra in Europa e in Italia. Ripeto: centrosinistra, cioè la sinistra di governo e il centro. Negli altri Paesi i partiti hanno il peso che gli spetta per le funzioni che debbono svolgere: mettere in comunicazione il popolo e le istituzioni. In Italia purtroppo da molti anni non è più così. Quale più quale meno i partiti sono diventati clientele e uffici di collocamento del personale dirigente. C'è chi ha conservato una dignità ed una visione moderna del bene comune; chi è rimasto appoggiato a valori arcaici e ideologici e chi infine ha perso anche la dignità. Perciò è giusto dire - come dice Bersani - che non si può fare di ogni erba un fascio, ma è altrettanto spiacevole dover constatare che i partiti, anche quelli che hanno conservato la dignità, hanno tuttavia trascurato il rapporto con il popolo ed hanno contribuito a occupare le istituzioni invece di riconoscerne ed esaltarne l'autonomia.

Tutto il discorso sulle liste civiche - che rischia tuttavia di esser fattore di confusione se viene affrontato con retropensieri inaccettabili - verte su questo punto. La società civile, cioè gli elettori sovrani al momento del voto, dovrebbero riscoprire i partiti e "invaderli" laddove si riconoscano nei loro valori. Oppure formare liste civiche collegate con quei partiti, legge elettorale permettendo. Cioè: trasfusioni di sangue nuovo oppure circolazione extracorporea di sangue nuovo. I partiti - se vorranno rinnovarsi - debbono accogliere sia l'una sia l'altra soluzione purché gli obiettivi siano chiari e le persone appropriate per quanto riguarda l'etica pubblica, la competenza e l'entusiasmo per un'impresa molto audace.

PS. Alcuni giornali (Il Foglio, Il Fatto) e alcune trasmissioni televisive (il Tg di La7) hanno dato notizie che io, Carlo De Benedetti ed Ezio Mauro propugneremmo una lista civica di Repubblica che intraprenda una "scalata ostile" al Pd portando come personaggio di sfondamento Roberto Saviano. Saviano da un lato e noi dall'altro abbiamo smentito questa notizia degna soltanto del sito Dagospia, peraltro preclaro per chi ama il gossip.

Queste sono invece questioni molto serie e non gossippare e come tali dovrebbero esser trattate. Il giornalismo che usa il gossip fa molto male il suo mestiere e reca danno non alle persone ma al Paese.
 

(03 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Draghi, Bersani varie ed eventuali
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2012, 11:20:12 pm

L'EDITORIALE

Draghi, Bersani varie ed eventuali

di EUGENIO SCALFARI

Il cantiere per la costruzione dell'Europa e per la messa in sicurezza dell'euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell'emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un'Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.

I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall'altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall'angolo in cui era stata chiusa dai fautori d'una politica europea di sviluppo e propone l'obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.

Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall'emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.
 
Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del "fiscal compact" e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.

Su un solo punto importante tra quelli imposti dall'emergenza anche Berlino sembra d'accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l'intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest'operazione la "proprietà" di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l'intera architettura finanziaria dell'eurozona.

                                                                  * * *

La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d'un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell'Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l'ennesimo "niet" sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell'autunno del 2013. Poi si vedrà.

Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l'obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l'emergenza e salvare l'euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all'Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell'eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d'ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo "spread" e l'andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all'uscita di quel Paese dall'euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell'euro e  -  spero  -  la costruzione dell'Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la tempesta arriva la quiete.

                                                                   * * *

Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell'Unione, dell'euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.

Monti è alla guida d'un governo sorretto dalla "strana maggioranza" di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due  -  Udc e Pd  -  sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.

In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l'importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell'autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l'appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i "guastatori" fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria. In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell'altro ieri della direzione, come si trattasse d'una questione di secondaria importanza.

È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.

La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l'ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d'innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l'obbligo di emettere: o fa corpo con l'imputato fino in fondo o lo espelle fin dall'inizio dai propri ranghi.

Ma c'era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch'esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell'elezione dei membri dell'Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.

Si sperava che i partiti avrebbero scelto  -  secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie  -  persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C'è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti.

Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.

Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l'elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l'unanimità dei consensi.

                                                                        * * *

Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l'Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l'esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.

Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l'ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.

A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al "meeting" di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.

1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell'occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest'occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l'Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l'intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell'Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti "terzi" chiamati a garantire il controllo e l'efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?

2. L'ex ministro dell'Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell'Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un'Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.

                                                                       * * *

Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l'altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei "poteri forti" che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro.
Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni "poteri forti" sono insediati fin dall'inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.

Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.

(10 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/10/news/draghi_bersani_varie_ed_eventuali-36901047/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI SCAMBIO DI LETTERE CON MARIO MONTI
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2012, 05:57:58 pm
LA LETTERA

Io, i poteri forti e il diritto alla lealtà

di MARIO MONTI


CARO direttore, la ringrazio per l'invito, che ho accolto volentieri, ad un'intervista pubblica con lei, Eugenio Scalfari e Claudio Tito per sabato prossimo a Bologna, nell'ambito della "Repubblica delle idee".

Nel suo bell'editoriale di ieri ("Draghi, Bersani, varie ed eventuali 1"), Eugenio Scalfari ha voluto farmi conoscere in anticipo due delle domande che potrebbero venirmi rivolte in quell'occasione: se esista in Italia una "questione morale"; se un'Europa federale comporti la messa in comune di una parte del debito pubblico degli Stati membri. Implicitamente, ha anche accennato ad un terzo tema che immagino verrà evocato: i cosiddetti "poteri forti". Sarò lieto di discutere con voi su questi ed altri argomenti. Mi preme tuttavia replicare fin d'ora in merito ad alcune esemplificazioni che Scalfari ha ritenuto di fare a proposito del terzo tema. Per comodità dei lettori, cito l'intero passaggio.

"... Alcuni 'poteri fortì sono insediati fin dall'inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica. Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi [in realtà, del ministero dell'Economia e delle finanze], Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della
Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano".

 Quando ho nominato sottosegretario Catricalà e confermato nelle loro posizioni Fortunato e Canzio, non ero certo all'oscuro dei loro rispettivi percorsi di carriera, né di chi avesse avuto un ruolo decisivo nel valorizzarli in passato. Ma si tratta di qualificati funzionari dello Stato e nel decidere di avvalermi della loro collaborazione li ho valutati alla luce di quelle che, dopo attento esame, mi sono parse le loro caratteristiche di competenza, integrità, autorevolezza nell'esercitare le funzioni ad essi attribuite, lealtà. Lealtà allo Stato e alle linee programmatiche del Governo, non ad una "mia" parte politica (che, come è noto, non esiste).

Certo, le due posizioni al ministero dell'Economia e delle finanze - oltre, beninteso, a quella di sottosegretario - rientrano nello "spoil system". Avrei perciò potuto modificarne a mia discrezione i titolari, magari per il fatto che il Ministro che li aveva nominati non sempre aveva mostrato particolare rispetto per le mie tesi di politica economica (o per la mia persona) nel corso degli anni. Ma non credo che sia questo il modo corretto di intendere lo "spoil system". Soprattutto se si è a capo di un governo sostenuto da una maggioranza che è composta da forze politiche antagoniste tra loro, con anime culturali e ambienti di riferimento spesso antitetici. Devo cercare, è stata la mia convinzione fin dall'inizio, di estrarre il meglio da ogni forza e di rendere compatibile ciò che "in natura" (cioè nei molti anni di acceso bipolarismo che ci hanno portato alla crisi del novembre 2011) ha mostrato di non esserlo.

In altre parole, non avrei potuto - ma neppure voluto - evitare di prendere in considerazione professionalità di valore solo perché erano "creature" di Gianni Letta o di Tremonti. O di Bersani, Casini o Alfano.
Nel caso di Catricalà, Fortunato e Canzio (il quale in più, come Ragioniere generale dello Stato, deve essere visto e rispettato dallo stesso ministro dell'Economia e perfino dal presidente del Consiglio, oltre che ovviamente da ciascun ministro, come imparziale garante della credibilità dei conti pubblici), non ho avuto finora alcun motivo per rammaricarmi delle scelte che ho fatto nel novembre scorso. Ho anzi apprezzato le loro qualità e il loro spirito di servizio.

Naturalmente, nel caso riscontrassi in loro, come in qualsiasi altro collaboratore, anche un solo caso di mancata correttezza o lealtà, non esiterei a privarmi della loro collaborazione. Nei primi mesi del mio mandato di Commissario europeo, nel 1995, un direttore generale si mise d'accordo con il governo del suo Paese, in una procedura di infrazione, senza riferirmene preventivamente, come avrebbe dovuto. Quell'alto funzionario, pur appartenente ad un grande Stato membro, venne rimosso dal servizio.

L'autore è presidente del Consiglio

LEGGI LA RISPOSTA DI EUGENIO SCALFARI 2
 

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/11/news/io_i_poteri_forti_e_il_diritto_alla_lealt-36964933/?ref=HRER1-1


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Grazie, ma io resto preoccupato

di EUGENIO SCALFARI


Ringrazio il presidente Mario Monti per le gentili parole che mi ha indirizzato e attendo con interesse le risposte che darà alle domande che gli rivolgeremo nel nostro incontro a Bologna nel corso del meeting su la Repubblica delle Idee del 16 giugno prossimo.

Il presidente si intrattiene sull'ultima parte del mio articolo di ieri e sulle osservazioni che ho rivolto ad alcuni importanti componenti del suo staff: il sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà e il suo capo di gabinetto Vincenzo Fortunato, nonché il segretario generale del Tesoro, Mario Canzio. Per quest'ultimo il professor Monti ricorda che il ragioniere generale esercita con scrupolo il suo ruolo di controllore della pubblica spesa e della sua corretta copertura. Non metto in dubbio quel ruolo ma osservo che il tema della copertura contiene inevitabilmente una dose di discrezionalità che in alcuni casi deve essere sottoposta al ministro del Tesoro, il quale di quella copertura ha comunque la responsabilità politica oltre che tecnica. Se così non fosse il ministro del Tesoro verrebbe scavalcato proprio nella sua funzione più gelosamente esclusiva. Il professor Canzio segue - così mi sembra - la filosofia tremontiana dei tagli lineari che è stata ritenuta esiziale dallo stesso Monti, che è per l'appunto titolare
del Tesoro.

Per quanto riguarda le altre due personalità da me indicate comprendo bene le ragioni politiche fatte presenti dal presidente Monti; faccio però dal canto mio due osservazioni a proposito di Catricalà.

1) Mentre il governo era ancora in fase di formazione si parlò di due vicepresidenti del Consiglio "politici", nelle persone di Gianni Letta e di Giuliano Amato. In corso d'opera quest'ipotesi fu abbandonata e la candidatura di Letta, spostata al sottosegretariato alla Presidenza, fu rifiutata dallo stesso interessato. Nel frattempo era stata avanzata la proposta di nominare Giuliano Amato ministro degli Esteri mentre al posto di Letta veniva indicato Catricalà. Il Partito democratico chiese allora che quella carica fosse divisa tra due persone aggiungendo che Giuliano Amato sarebbe certamente stato un ottimo ministro degli Esteri ma non rappresentava il Pd. Amato si ritirò, Catricalà rimase e la conseguenza fu che l'equilibrio politico risultò sbilanciato.

2) Il sottosegretario Catricalà propose un disegno di legge che tutti i costituzionalisti hanno giudicato ad altissimo rischio di incostituzionalità; esso modificava le proporzioni tra membri togati e membri laici a favore di questi ultimi negli organi disciplinari della magistratura. Inizialmente esso riguardava anche il Csm, cioè la giustizia ordinaria ma le proteste immediate del vicepresidente di quell'organo di autogoverno indussero il governo ad escludere quella norma dal disegno di legge preparato dal sottosegretario. Quest'ultimo però proseguì nella sua iniziativa per quanto riguardava la magistratura amministrativa e quella contabile (Consiglio di Stato e Corte dei conti). A questo punto l'intera vicenda venne alla luce, scoppiò un vero e proprio scandalo e Catricalà ammise (in una lettera a noi indirizzata e da noi pubblicata) d'aver fatto un errore e ritirò il disegno di legge che aveva già inoltrato alle magistrature interessate e che dal canto loro dissero che non avrebbero mai dato parere favorevole a quelle disposizioni che contrastano palesemente con l'ordinamento costituzionale.
Il minimo che il sottosegretario doveva fare sarebbe stato di dimettersi ma non lo fece.

Ho già detto che mi rendo ben conto che il nostro presidente del Consiglio deve tener conto della "strana maggioranza" che sostiene il suo governo ma il fatto che il suo segretario proceda così leggermente in una materia delicatissima è motivo di preoccupazione per tutti coloro che seguono con attenzione l'operato d'un governo prezioso in questo momento per tutta la collettività. Sul capo di gabinetto Fortunato non aggiungo nulla. Che sia un tremontiano di stretta osservanza lo sanno tutti ed anche questo, trattandosi della persona più vicina al presidente del Consiglio, ci lascia molto perplessi.
 

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/11/news/grazie_ma_io_resto_preoccupato-36964997/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Scalfari racconta l'Italia e Repubblica
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2012, 06:44:24 pm

L'INTERVISTA

Scalfari racconta l'Italia e Repubblica

Poi confessa: "Oggi sono felice"

Il colloquio del fondatore del giornale con Concita De Gregorio. Dalla nascita al quotidiano nazionalpopolare. Poi la novità con Berlusconi.

E la ostinanta riaffermazione dell'importanza della politica nella vita di un Paese e dei suoi cittadini: "La responsabilità della disaffezione è dei partiti". Poi l'abbraccio finale con Ezio Mauro

di LAURA PERTICI


E finalmente arriva Eugenio Scalfari. Salone del Podestà, le sedie tutte piene, ragazzi a gambe incrociate, in terra. Signore e signori tra poco si chiude. Per esserci ancora, adesso e una volta di più, si sopporta di rimanere in fila strizzati, per ore. Poi si ascolta magari in piedi, appoggiati alle pareti, o a palazzo Re Enzo, qualche scalino più sotto. La gente partecipa anche se in strada, si assiepa addirittura davanti al maxischermo di piazza Maggiore, dove c'è il sole che abbaglia ma almeno si sente la voce. Perché il fondatore di Repubblica adesso parla, da programma è a mezzogiorno. Viene a guardare in faccia non il suo pubblico ma gli italiani-lettori, che chiama bolognesi, anche se chi ce l'ha fatta ad entrare è di qui come di tante altre città.

Concita De Gregorio prova a seguire il filo dei ricordi. Che Scalfari condisce con battute - "Come vi saluto? Preciso che non sono mai stato comunista ma mi viene da salutarvi col pugno"- verità taglienti, sentenze senza rete, divagazioni. La sua storia glielo consente e gli 88 anni aggiungono serenità, leggerezza. "Hai raccontato che il 14 gennaio del 1976, quando è nata Repubblica, tu sei andato davanti all'edicola a vedere chi avrebbe comprato un nuovo quotidiano" comincia Concita. "Sì. All'inizio i nostri lettori li conoscevo fisicamente. Gente che leggeva Proust. Li vedevi da lontano, l'aria straniata, spaesata ma intensa. Dentro di me pensavo 'questo lo compra'. Lo seguivo. E andava così. Poi, col tempo, è arrivato il successo. In tanti si mettevano in tasca il giornale in modo che almeno uscisse la testata e si potesse vedere che era Repubblica. Avevamo inventato un nuovo formato". Con una sessantina di compagni di viaggio, redazione in piazza Indipendenza, Roma. "Come faccio a ricordare tutti? Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Bernardo Valli, Giorgio Bocca, Miriam Mafai, Giuseppe D'Avanzo". Alcuni ci sono. Dopo un anno impossibile, altri non più. Loro e tutti quelli che li hanno seguiti formano oggi una strana famiglia. Con tanti figli. Diversi.

Perché tanto nel frattempo è cambiato - "All'inizio eravamo maschilisti", dice Scalfari. "Sicuro che ora sia diverso?", De Gregorio -. E tante sono state le trasformazioni, gli aggiustamenti, gli esperimenti, i salti in avanti del giornale. Ascoltando il Paese e provando a immaginarne il cammino. Negli anni Repubblica è diventato un quotidiano nazionalpopolare. Uno dei balzi, con l'arrivo delle Br, con il sequestro Moro. "Ci leggevano i democristiani e i brigatisti. Nella sua foto dal covo, Moro tiene in mano Repubblica". E non hai mai pensato, direttore, che potesse essere difficile tenere il passo, la voce degli altri troppo distante per riuscire a capire? "Ci ho pensato quando c'è stata la discesa in campo di Berlusconi. Invece è diventata una delle nostre risorse". Ma ora siamo di nuovo ad una svolta. Crisi. Governo tecnico. Società civile. La lontananza siderale dei partiti. Tutto è in movimento, tutto sembra scomposto. E noi siamo dentro questa oscillazione. De Gregorio ha in testa le domande che arrivano da un'Italia intera. "Direttore, bisogna dire qualcosa su Grillo. Se nasce l'antipolitica una qualche responsabilità ce l'avrà anche la politica, no?". Scalfari non cede. Segue i suoi, di pensieri, non arretra di un centimetro finché non ha finito. Il discorso pulito. Il quadro chiaro, se si può. Ma poi risponde. "La responsabilità è di questi partiti, non della politica. Quello della politica è un concetto ineliminabile, è come la metafisica. Sono i partiti a creare una stortura, deformando la loro funzione, quando occupano le istituzioni". Ma quale sarà il futuro degli italiani, e quale quello del nostro giornale? "Qui a Bologna - dice De Gregorio - la differenza l'ha fatta l'ascolto, sono venuti tutti ad ascoltare. Hanno partecipato moltissimi giovani. Direttore, tu cosa pensi per loro e per il domani?". "Il futuro - ne è certo Scalfari - non può che organizzarsi in un'architettura destinata all'interesse generale. E per quanto riguarda il giornale, lo sappiamo che è anomalo, i nostri lettori lo sanno. Quando, ben 16 anni fa, dovevo lasciare il testimone ad Ezio Mauro, lui ha voluto che tenessi la mia stanza in redazione. Io gli dicevo che volevo passargli le consegne e lui rimandava di settimana in settimana, di mese in mese. Di anno in anno. Ancora adesso ci sentiamo tutti i giorni, quattro volte al giorno. Ma io non interferisco. Ci parliamo solo per dirci qual è la nostra sensazione del Paese".

A questo punto l'argine è rotto. Gli occhi si inumidiscono. Si alza un applauso immenso. Scalfari guarda Mauro, seduto in prima fila. Mauro guarda Scalfari. Provando, inutilmente, a non muovere un muscolo. Ieri, ancora una volta insieme, hanno intervistato il premier Mario Monti, uno seduto di qua e l'altro di là. "Quando siamo usciti Ezio mi ha chiesto 'sei felice'? Io gli ho risposto 'molto'. E lui: 'Anche io'".

© Riproduzione riservata (17 giugno 2012)

da - http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/06/17/news/arti_scalfari-37379542/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Rinnovare i partiti. Liberare le istituzioni
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 04:46:21 pm
IL COMMENTO

Rinnovare i partiti

Liberare le istituzioni

di EUGENIO SCALFARI


Questa mattina si sta votando in Grecia e tra poche ore conosceremo il risultato, ma hanno sbagliato quanti (ed io con loro) hanno attribuito al voto il valore d'un referendum pro o contro l'euro e pro o contro l'Europa. Non è affatto così. Tutti i partiti greci, quelli tradizionali e quello di opposizione (socialista massimalista), non vogliono affatto uscire dall'Unione europea e abbandonare la moneta comune. Quanto agli elettori, essi sono perfettamente consapevoli che tornare alla dracma sarebbe un disastro di proporzioni immani; un sondaggio pre-elettorale prevede addirittura una vittoria dei partiti tradizionali, quelli cioè che si sono assunti la responsabilità del rigore tedesco, il che è tutto dire.

La Grecia quindi non se ne andrà dall'euro a meno che non sia la Germania a sbatterla fuori. Molti pensano che quest'ipotesi sia probabile: ucciderne uno per educarne cento; ma io non credo che sia così. Non solo è improbabile ma è addirittura impossibile. Sarebbe un esercizio di accanito sado-masochismo che un grande popolo non può permettersi. Il popolo e le classi dirigenti tedesche non possono permetterselo ed è inutile ricordarne il perché, stampato nella memoria del mondo intero a caratteri indelebili.
Però c'è un però: anche se l'esito del voto greco non potrà essere utilizzato dagli speculatori come pretesto, ne troveranno certamente altri per proseguire il loro attacco all'eurozona, ai debiti sovrani più esposti e alle banche più
fragili.

Del resto hanno già cominciato, con la Spagna prima e con l'Italia poi. L'obiettivo finale è la disarticolazione dell'eurozona, l'isolamento della Germania, la cancellazione d'ogni regola che miri a incanalare la globalizzazione in un quadro di capitalismo democratico e di mercato sociale.

Ormai è evidente che questa è la posta in gioco. Altrettanto chiara è l'identità delle forze contrapposte. Da un lato ci sono le principali banche d'affari americane che guidano il gioco, le multinazionali, i fondi speculativi, le agenzie di rating, i sostenitori del liberismo selvaggio e del rinnovamento schumpeteriano. Un impasto di interessi e di ideologie che noi chiamiamo capitalismo selvaggio e che loro nobilitano chiamandolo liberismo puro e duro.
Queste forze della speculazione hanno una capacità finanziaria enorme ma non imbattibile. La controforza è guidata dalle Banche centrali. Nei loro statuti è garantita la loro indipendenza e la ragione sociale prevede per tutte la tutela del valore della moneta e il corretto funzionamento del sistema bancario sottoposto alla loro vigilanza. Ma il compito implicito è anche lo sviluppo del reddito e dei cosiddetti "fondamentali" tra i quali primeggiano il risparmio, gli investimenti, la produttività del sistema e l'occupazione.

Le Banche centrali dispongono anch'esse di mezzi imponenti di contrasto, mezzi a loro immediata disposizione in caso di necessità e di emergenza. E poiché l'ala ribassista si scatenerà al più presto per non lasciar tempo ad accordi politici che affianchino al rigore lo sviluppo, le Banche centrali dovranno far mostra di tutta la loro potenza di fuoco per impedire la devastazione dei tassi d'interesse e l'ondata di panico che può rovesciarsi contro gli sportelli delle banche. Dovranno insomma impedire che si stringa la tenaglia sui debiti sovrani, che metterebbe a rischio gli Stati dei quali le Banche centrali sono una delle più importanti articolazioni. Indipendenti ma certo non indifferenti e non neutrali quando si tratti di vita o di morte non solo di uno Stato ma d'un intero sistema continentale.
Il panorama delle prossime settimane si presenta dunque molto movimentato. A mio avviso  -  ripeto quanto scritto la scorsa settimana e che vado scrivendo ormai da vari mesi  -  l'esito finale sarà positivo perché non è pensabile che uno dei continenti più popoloso, più culturalmente avanzato e più provvisto di esperienza storica decida di suicidarsi. Ma certo egoismi nazionali ed errori di tattica renderanno lungo e faticoso il guado verso un solido approdo di stabilità, rilancio dell'occupazione e uscita dalla deriva della recessione.

* * *

Tra gli errori di tattica che direttamente riguardano il nostro Paese è emerso nei giorni scorsi il problema degli esodati. In un contesto sociale già molto agitato dai sacrifici necessari per contrastare l'attacco dei mercati e dalla caduta del potere d'acquisto dei ceti più disagiati, il tema di quasi 400mila lavoratori di circa sessant'anni d'età privi sia di lavoro sia di pensione è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo: un dramma umano che si aggiunge a quello ancora più vasto dei giovani anch'essi in larga misura privi di protezione sociale e senza prospettive di futuro.

Il ministro Fornero ha sbagliato il tono della risposta al documento redatto dall'Inps accusando i dirigenti di quell'ente di provocazione voluta e quindi dolosa. Quanto al predetto documento che formula in 390mila la cifra complessiva degli esodati, il ministro l'ha definito impreciso e di dubbia interpretazione.

Come si vede il giudizio del ministro sull'operato dell'Inps in questa occasione è dunque molto duro ma contiene tuttavia un nucleo di verità. La massa degli esodati dovrebbe essere infatti classificata con molta attenzione per quanto riguarda il tipo di contratto originario che li legava al loro datore di lavoro, le cause e le modalità della loro uscita da quel contratto e i tempi precisi in cui quest'uscita diverrà operativa. L'Inps non ha approfondito come probabilmente avrebbe dovuto questa classificazione. Ha semplicemente diviso i 390mila in due categorie: i "prosecutori" e i "cessati". I primi secondo l'Inps ammontano a 130mila e sono quei lavoratori che hanno deciso di porre fine al rapporto di lavoro anticipatamente utilizzando le finestre a loro disposizione e continuando a pagare i contributi volontari fino a maturazione della pensione. I "cessati" sono stimati a 180mila e la causa della cessazione sono stati accordi aziendali di prepensionamento con uno "scivolo" che accompagnava il lavoratore al pensionamento. Accordi aziendali tuttavia che sono stati fortemente modificati in peggio dalla riforma pensionistica che ha spostato in avanti da cinque a sette anni la pensione adottando il metodo contributivo per tutti.

Queste specificazioni che si trovano nel documento dell'Inps non sono tuttavia sufficienti a parte l'attendibilità delle cifre il cui ordine di grandezza è comunque fortemente superiore a quanto finora ha previsto il governo. Manca nel documento la natura del contratto originario e mancano anche quei lavoratori coperti dalla cassa integrazione come rimedio estremo al già avvenuto licenziamento per fallimento o cattivo andamento dell'azienda. Manca infine la data nella quale il licenziamento già deciso e notificato al dipendente diventerà operativo.
La Fornero è sempre stata consapevole dell'entità del fenomeno. Lo dichiarò pubblicamente nel momento stesso in cui annunciava la riforma e garantì che i lavoratori colpiti sarebbero stati protetti man mano che la perdita di lavoro si fosse verificata. Ebbi l'occasione in quei giorni di incontrarla proprio per approfondire questa questione. Ricordo che mi ripeté l'impegno preso e le modalità di copertura. "Questa "tagliola" tra la data attesa per la pensione e quella prolungata dalla riforma non scatterà subito per tutti. Adesso è scattata per un gruppo di lavoratori che abbiamo valutato in circa 50mila" così mi disse allora "e abbiamo provveduto per loro anticipando la scadenza pensionistica. Agli altri penseremo quando la cessazione del rapporto di lavoro diventerà operativa".
Questa sua posizione gradualistica è stata riconfermata nei giorni scorsi di rovente polemica conclusa con una mozione di sfiducia personale al ministro presentata dalla Lega e da Di Pietro. La mozione non considera che una copertura preventiva di un debito dalle cifre ancora incerte iscrive quella posta passiva nella contabilità nazionale "sopra la linea", il che significa che va ad aumentare ulteriormente l'ammontare del già gigantesco debito pubblico.
Ciò che il ministro dovrebbe fare ora con la massima urgenza è di chiarire e indicare cifre certe rinnovando l'impegno alla loro copertura nella data corrispondente allo scatto della "tagliola". Che la pubblicazione del documento Inps abbia acceso un incendio di rabbie aggiuntive è un fatto incontestabile che poteva essere evitato non nascondendo le notizie ma dandole in modo sommario e quindi impreciso.

* * *

Ogni Paese europeo deve fare la sua parte per mettersi in sintonia con l'obiettivo finale che è quello di costruire uno Stato federale di dimensioni continentali.
Noi italiani ne abbiamo molto di lavoro da fare ma un punto domina su tutti gli altri: si chiama questione morale.
Enrico Berlinguer  -  l'ho già più volte ricordato  -  pose questo problema spiegando che in Italia la partitocrazia aveva stravolto il dettato costituzionale e il governo dei partiti aveva occupato le istituzioni, nessuna esclusa. Bisognava dunque liberarle, restituendole alla loro funzione di organi di governo depositari dell'interesse generale e non dei pur legittimi interessi particolari. Stato di diritto, separazione dei poteri, interesse generale rappresentato dal complesso delle istituzioni, forze politiche guidate da una propria visione del bene comune da sottoporre al voto del popolo sovrano.
Questo modello non aveva assolutamente nulla di comunista e stupì molto vederlo fatto proprio dal leader del Pci. Probabilmente Berlinguer usò la questione morale come risposta alla esclusione del Pci dall'alternarsi al potere delle forze costituzionali a causa della guerra fredda.
Sia come sia, quel tema fu posto e colse un aspetto essenziale della crisi italiana. Ora la sua soluzione non solo è matura ma necessaria.
 

(17 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/17/news/scalfari_17_giugno-37361255/?ref=HREC1-5


Titolo: E. SCALFARI. Napolitano: L'Italia deve farcela sì alla Costituente senza dI me.
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2012, 10:54:04 am
L'INTERVISTA

Napolitano: "L'Italia deve farcela sì alla Costituente senza di me"

Colloquio con il presidente della Repubblica: nel 2013 io lascio.

"Nel vertice di Bruxelles l'Europa ha aperto una nuova strada. Sul caso Mancino il mio comportamento sempre corretto"

di EUGENIO SCALFARI

È UNA calda domenica di estate e l'automobile sta percorrendo il viale di Castel Porziano che porta alla residenza del presidente della Repubblica. Ai fianchi della strada si stagliano gli alti tronchi dei pini marittimi intervallati da querce. Un cinghialotto ci passa davanti e scompare nel folto del bosco. Sulle strisce di prato ai lati del viale saltella qualche merlo e un'upupa, "ilare uccello" cammina impettita con la piccola cresta sul capo. Sarà pure ilare, io invece sono preoccupato.

Con il Presidente abbiamo concordato di scambiarci idee e opinioni su quanto sta accadendo in Italia e in Europa ed io metterò in carta i suoi pensieri e le sue valutazioni, ma non sarà un compito facile con i tempi che corrono e la crisi che continua ad infierire ormai da quattro anni.
L'auto è arrivata al Castello. Girando a destra si va verso il mare, a sinistra una breve salita conduce alla residenza. Ci sono stato molte volte con Sandro Pertini, con Cossiga, con Ciampi ed anche con Napolitano due o tre anni fa.

Ora siamo arrivati. Napolitano mi viene incontro e mi conduce in una piccola stanza. In un tavolo c'è la televisione, accanto alla finestra che guarda sul prato un tavolinetto con due sedie. Chiedo il permesso di togliermi la giacca, lui m'aiuta a sfilarmela; indossa una maglietta azzurra, io resto in maniche di camicia. Ci sediamo e la nostra conversazione comincia.

Non posso tuttavia esimermi dal chiedergli le sue reazioni ad una vera e propria campagna che è stata lanciata contro
di lui partendo da telefonate al Quirinale, che sono state intercettate, dell'ex ministro e vice Presidente del Csm Nicola Mancino.

Giorni fa Napolitano è intervenuto direttamente, ha fornito i chiarimenti che gli erano stati richiesti da varie parti ed ha messo per quanto lo riguarda la parola fine a quella polemica, "costruita sul nulla". "La correttezza dei miei comportamenti ha trovato il più largo riconoscimento. Ho perfino resa pubblica la lettera da me inviata al Procuratore generale della Cassazione cui sono attribuiti precisi poteri per il corretto andamento dell'amministrazione della giustizia".

Ma torniamo ai temi essenziali. Alcuni ritengono che i poteri del Quirinale abbiano registrato una forzatura in questi mesi. Come se ci fosse stata, in quest'ultima fase del settennato di Giorgio Napolitano una sorta di accentuazione presidenzialista a detrimento dei partiti e del Parlamento. È così? A me non pare, ma ho davanti a me l'autore di questa supposta forzatura. Lui che ne pensa?

Lui comincia con una constatazione comune a molti studiosi: quando il potere politico è forte il ruolo del Capo dello Stato resta ben circoscritto, quando la politica è debole esso naturalmente si espande.
"Sai - mi dice - in questi sei anni al Quirinale ho potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia forse il Capo di Stato europeo dotato di maggiori prerogative. I Re, dove ancora ci sono, sono figure importanti storicamente ma essenzialmente simboliche. Gli altri Capi di Stato "non esecutivi" hanno in generale poteri molto limitati. Il solo al quale, oltre a rappresentare l'unità nazionale, la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi è quello italiano. Naturalmente il presidente francese ha prerogative di rilievo molto maggiore ma in Francia c'è una forma di presidenzialismo, la nostra invece è una Repubblica parlamentare la cui Costituzione però ha riservato al Quirinale un peso effettivo. Penso sia stata una scelta molto meditata dei padri costituenti".

Domando quale sia il suo ruolo e lui spiega: sollecita quella "leale cooperazione istituzionale" che deve essere un criterio costante nei rapporti tra i vari poteri dello Stato e le diverse articolazioni della Repubblica. Presiede l'organo di autogoverno della magistratura; presiede il Consiglio Supremo di difesa che si riunisce periodicamente con la partecipazione del Presidente del Consiglio e dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell'Interno e dell'Economia. Inoltre il Presidente nomina i senatori a vita, 5 dei 15 giudici della Corte Costituzionale e concorre alla scelta di membri di altre istituzioni pubbliche secondo quanto previsto da disposizioni di legge. Ma soprattutto spetta al Capo dello Stato il potere di sciogliere anticipatamente le Camere quando esse non siano più in grado di esprimere una maggioranza e di svolgere correttamente la loro funzione e spetta a lui la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di quest'ultimo, dei ministri.

Così dispone la nostra Carta, gli dico, ma tu sai bene che questo fondamentale potere di nomina è stato rarissimamente esercitato. Certo che lo sa. La prima volta lo esercitò Luigi Einaudi. Era l'agosto del 1953. Einaudi si era ritirato nella villa di Caprarola e chiamò Giuseppe Pella, ministro del Tesoro del governo dimissionario. Gli comunicò che l'aveva nominato presidente del Consiglio. Lo pregò di mettere al Commercio Estero l'economista Bresciani Turroni e gli chiese di portargli la lista dei ministri entro i prossimi tre giorni.

La Dc fu presa alla sprovvista; votò la fiducia a Pella ma definì "governo amico" quello da lui presieduto. Una forma di distacco? Risponde: "Il governo non può mai essere pertinenza esclusiva di un partito. È un'istituzione, il governo, e risponde a tutti gli italiani. Naturalmente deve avere la fiducia di una maggioranza parlamentare che lo consideri un governo da sostenere attivamente. Quando non fosse più così, le Camere lo sfiducerebbero. Questo è il funzionamento corretto dì una democrazia parlamentare: il Capo dello Stato nomina tenendo ben presente che il governo dovrà avere la fiducia del Parlamento".

Bene. Questa prassi è stata sempre rispettata? Vediamo. Fu seguita da Scalfaro quando nominò Ciampi nel '93 e poi quando nominò Dini un anno dopo. Poi da te nello scorso novembre quando nominasti Monti dopo averlo nominato senatore a vita. "Per nominarlo senatore a vita c'era bisogno della controfirma di Berlusconi che era ancora a Palazzo Chigi. La diede subito".

Insomma, la Costituzione esiste da 65 anni e per un atto importantissimo com'è la nomina del capo del governo è stata rispettata solo quattro volte. Qui il Presidente obbietta: "Intendiamoci, è normale, nelle democrazie parlamentari, che sia il partito cui gli elettori abbiano dato la maggioranza, anche se solo relativa, in Parlamento, a esprimere il Primo ministro. Quel partito, in Italia, è stato per oltre 40 anni la Democrazia Cristiana; e se in due occasioni (1981 e 1983), a formare il governo di coalizione imperniato sulla Dc fu chiamato un non democristiano, molto pesò la valutazione e propensione del Capo dello Stato, anche in rapporto agli equilibri politici interni alla coalizione. Altro furono i quattro casi da te citati, nei quali il Presidente della Repubblica dové esercitare il suo potere per dare soluzioni a delle crisi politiche senza sbocco".

Gli ricordo che cosa sia stato il fenomeno della partitocrazia. Risponde: "Pressioni abnormi dei partiti sono state a lungo esercitate, più che per l'individuazione del capo del governo, per la nomina dei ministri (già con Einaudi Presidente) e soprattutto per la spartizione degli incarichi negli enti pubblici e nel sottogoverno, in una condizione - per di più - di democrazia bloccata fino agli anni '90".

Napolitano ritiene i partiti insostituibili; il loro ruolo è previsto in Costituzione: contribuiscono con metodo democratico all'indirizzo politico del Paese e sono il raccordo tra il popolo e le istituzioni. Ma per farlo devono oggi profondamente rinnovarsi e operare in modo trasparente, non possono e non debbono incombere sulle istituzioni.

La nomina di Monti è stata un'innovazione, ma oggi? Che cosa accadrà dopo Monti? Si ricomincerà col predominio dei partiti?

Arriva una telefonata e lui risponde brevemente. Stiamo chiacchierando da un'ora e gli domando se gli dà noia il fumo. "Clio fuma spesso, lo sai". Così accendo anch'io. "Vuoi fare due passi in giardino?". Meglio no, gli dico, non siamo forti di gamba nessuno dei due. Tu però non porti neanche il bastone. Telefona a Clio che ci aspetta in riva al mare per il pranzo. Le dice che abbiano ancora una mezz'ora di lavoro. Poi riprendiamo, ma parliamo di Sraffa e delle lettere di Gramsci. Lui era divenuto amico di Sraffa negli anni '60, l'aveva conosciuto attraverso Giorgio Amendola e andava a trovarlo ogni tanto al Trinity College a Cambridge. Sraffa aveva incontrato Gramsci da giovane a Torino e gli era rimasto legatissimo nei lunghi anni del carcere. Il giovane Gramsci aveva anche scritto su "Ordine Nuovo", ed era in rapporto con Piero Gobetti. Vedi, gli dico, lì i liberali si incontrarono con i comunisti. "Sì, diciamo però che Gobetti era un liberale molto sui generis". Diciamo pure che anche Gramsci era un comunista fuori ordinanza.

Mi racconta come riuscì a convincere Sraffa che custodiva una parte importante della corrispondenza gramsciana, a depositarla presso l'istituto che porta quel nome. Sraffa non si fidava. Chiese garanzie. Giorgio gliele dette in nome del partito e Sraffa si convinse. Intanto la mezz'ora è passata e lui ritelefona a Clio per spostare il pranzo alle due.

Mi sembra venuto il momento di parlare dell'Europa. "Non mi domandare se ce la faremo. Io so soltanto che dobbiamo farcela". Sì, ma come? "Hanno provato ad aprire nuove strade, e con successo, a fine giugno a Bruxelles Monti, Hollande, Rajoy, Draghi e altri". La Merkel secondo te come si muove? Terreno scivoloso. Un Capo di Stato non dà giudizi sul cancelliere della Germania parlando con un amico che poi scriverà. Ma lui qualche cosa la vuole dire: "Nei diversi scambi di opinioni che ho avuto in questi anni con la signora Merkel, si è sempre espressa reciproca comprensione e fiducia tra noi. Sono in giuoco questioni complesse, si sono manifestati disaccordi non lievi, ma il rapporto tra l'Italia e la Germania, e quindi tra i due governi e le rispettive rappresentanze e opinioni pubbliche, rimane un pilastro fondamentale della costruzione europea".

Napolitano ha incontrato pochi giorni fa l'ex cancelliere Schmidt, governò la Germania per molti anni, è stata una delle figure che fanno parte del pantheon nazionale ed europeo come Adenauer e come Kohl. Schmidt parla della solidarietà europea come di una necessità assoluta e sa bene come per uscire dalla crisi occorrano, nel rispetto delle discipline di bilancio, investimenti pubblici e interventi che mettano al sicuro il sistema bancario europeo. Nei giorni scorsi si sono in effetti prese da parte del Consiglio Europeo e dell'Euro Summit decisioni significative in questo senso. E non c'è bisogno di essere di sinistra per apprezzarle. Keynes era un liberale, Beveridge era un liberale, ma il primo, per dominare la crisi rilanciando la domanda, volle a suo tempo l'intervento pubblico, e l'altro tracciò, già alla fine della seconda guerra mondiale, le linee del welfare state.

"Io posso citare Luigi Einaudi, a te che sei liberale farà piacere. Ad esempio, l'Einaudi delle "Lezioni di politica sociale". La libertà è un principio fondamentale e l'eguaglianza pure: così si costruiscono le libere società e si fa crescere la democrazia".
Appunto. Da tempo ho la sensazione che Napolitano, da Presidente della Repubblica, sia più attento al pensiero di Einaudi. Ad un certo punto mi ha ricordato una pagina dello "Scrittoio del presidente" sulla quale Einaudi scrisse che uno dei suoi compiti era quello di trasmettere intatte le prerogative costituzionali del Capo dello Stato ai suoi successori. Questo è anche l'impegno di Napolitano, non ne fa un mistero anzi lo considera un dovere.

Gli domando se è favorevole allo Stato federale europeo, lui che rappresenta lo Stato italiano. Certo, bisogna muovere in quella direzione senza remore e tabù. "Gli Stati nazionali, dice, garantiscono una tradizione, una cultura, una storia, ma soltanto l'unione politica dell'Europa, secondo l'originaria ispirazione federale, garantisce la speranza del futuro". C'è chi vuole uscire dall'euro. "Sciocchezze o peggio pura demagogia".

Gli pongo l'ultima domanda: si può passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale con un emendamento e nel quadro delle modifiche previste dall'articolo 138? La risposta è un secco no a ogni approccio improvvisato e parziale. "Non mi pronuncio nel merito di progetti volti a cambiare l'architettura costituzionale, ma occorre in ogni caso una visione ponderata dei nuovi equilibri da stabilire tra le istituzioni e tra i poteri, una visione ponderata alla luce di fondamentali principi e garanzie. E' stata appena presentata la proposta della elezione di un'Assemblea costituente, e dopo trent'anni di tentativi abortiti di riforma costituzionale non si può negare che questo approccio abbia una sua motivazione. Tocca al Parlamento valutare quella e altre proposte".
Montiamo in macchina e finalmente raggiungiamo Clio a tavola. Parliamo di comuni amici. Di vacanze. Lui ne farà poche. Di solito va a Stromboli e poi sta qui. Finché tocca a lui, deve stare al pezzo. "Però conto i giorni alla rovescia fino al maggio del '13". Tu sai come la penso, gli dico. Ma mi ferma subito. Prendo congedo con un "a presto" reciproco.

Durante il ritorno a Roma rimugino su quanto ci siamo detti. L'Europa si può suicidare? Sembra impossibile ma un colpo può partire per caso ed esser fatale, perciò con le pistole  politiche e mediatiche non bisogna giocare.
Quando ci siamo lasciati, Giorgio mi ha regalato il "Doppio diario" di Giaime Pintor, una copia sua con molte sottolineature. Una frase (della lettera al fratello Luigi) sottolineata due volte è questa: "La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d'una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo".
Questo è un testamento: Giaime morì poco dopo mentre attraversava le linee tedesche. Era il 1943 e lui aveva 24 anni. Vale la pena di ricordarla la storia di quel giovane e insegnarla ai giovani d'oggi. Quella "corsa verso la politica" di cui egli parlava condusse alla libertà e alla democrazia. Dove mai può condurre  -  si chiede Napolitano  -  il fenomeno opposto, la allarmante tendenza attuale a una "fuga dalla politica"?
 

(05 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/05/news/napolitano_scalfari-38541395/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ho parlato con Draghi di Balotelli e di Germania
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2012, 10:39:19 pm
L'EDITORIALE

Ho parlato con Draghi di Balotelli e di Germania

di EUGENIO SCALFARI


LA SITUAZIONE economica si è di nuovo imbruttita. Non parlo di quella italiana e neppure soltanto di quella europea, parlo della situazione mondiale, compresi i colossi emergenti, la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica. La recessione che ha fatto la sua comparsa già da un paio d'anni ed è diventata una realtà da sei mesi, si aggrava; nuove "bolle" si profilano su alcuni mercati: quella immobiliare  -  pensate  -  in Cina; quella dei derivati un po' dovunque perché le banche occidentali sono quasi tutte inquinate di titoli sporchi, di scommesse, di "Corporate bond" e di obbligazioni sovrane che stentano a mantenere i valori nominali e perdono colpi sotto le ondate speculative.
 
Ma il fatto nuovo di questi ultimi giorni viene dalla Germania: la locomotiva europea è ferma. Non accadeva da molto tempo. I tedeschi consumano poco ma esportano e investono molto e il saldo tra questi "fondamentali" era positivo e consentiva al treno tedesco di correre con buona velocità. La novità sgradevole è che quel saldo ormai è in pareggio, perciò la locomotiva si è fermata. Non a caso Angela Merkel nella sua visita a Roma dell'altro giorno ha detto: "Anche noi sentiamo il morso della recessione, perciò dobbiamo rilanciare la crescita tutti insieme".

Parole sante anche se alquanto tardive. Però  -  ed ecco un'altra novità di questi giorni  -  politicamente la Merkel è in minoranza.
Quel suo "adesso noi europei dobbiamo agire tutti insieme" non è piaciuto né ad alcuni "poteri forti" né alla gente.

Non è piaciuto all'alleato storico della Cdu, la Csu cattolica che ha la sua base in Baviera, non è piaciuto alla Bundesbank che critica perfino il suo rappresentante nel direttorio della Bce e quasi sempre solidarizza con Draghi. Non è piaciuto ai magistrati della Corte costituzionale tedesca che vegliano a tutela della sovranità nazionale. E alla gente, cioè al tedesco medio che rimpiange ancora il marco e assiste frastornato a quanto accade o rischia di accadere anche in patria.
Per capir meglio in quale modo questi diversi umori si combinano tra loro e quale ne sia il risultato ho pensato che la persona più adatta a farmi da Virgilio attraverso l'inferno economico di questi mesi fosse Mario Draghi. Con lui ho da tempo una consuetudine di amicizia, perciò l'ho cercato e ci siamo scambiati sensazioni e opinioni.

* * *
Draghi non rilascia interviste. Spesso si esterna pubblicamente e l'ultima volta è di pochi giorni fa quando ha illustrato i motivi che hanno suggerito alla Bce di abbassare d'un quarto di punto il tasso di sconto ufficiale.

Decisione unanime, come ha voluto precisare. Ma in quella stessa occasione ha anche ricordato che l'economia reale non va bene, che recessione e disoccupazione sono preoccupanti e che i Paesi europei sotto attacco dei mercati debbono muoversi con la massima celerità e nel modo appropriato per scongiurare pericoli maggiori.

Queste sue parole  -  appaiate a quelle analoghe pronunciate contemporaneamente da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale  -  hanno avuto come conseguenza che la decisione positiva del taglio del tasso di sconto non ha avuto alcun effetto sui mercati che hanno dato maggior peso al pessimismo manifestato dalla Lagarde e dallo stesso Draghi e hanno depresso le Borse e fatto di nuovo impennare gli "spread" dell'Italia e soprattutto della Spagna. Insomma un flop (così è stato definito) sia della Bce, sia della Banca d'Inghilterra che aveva iniettato sul mercato notevole liquidità supplementare quello stesso giorno.

Della mia conversazione con il presidente della Bce non ho molto da riferire, non perché mi abbia rivelato misteri da custodire con la bocca cucita, ma perché una chiacchierata tra due amici non fa notizia. Tutt'al più contiene un po' di colore e quello a volte aiuta ad orientarsi.

Ho cominciato infatti con una battuta che l'ha fatto ridere di gusto. Gli ho detto: fino alla scorsa settimana l'Italia aveva tre Super Mario che facevano titolo su tutti i giornali, tu, Monti e Balotelli. Debbo dire che il terzo vi superava di gran lunga anche perché aveva segnato due gol proprio alla Germania eliminandola dalla gara. Adesso però non è più così. Dopo la sconfitta con la Spagna Balotelli si è addirittura inginocchiato piangendo.
Siete rimasti in due. Non è che finirete anche voi come il Super Mario in maglia azzurra?

"Spero di no" ha risposto, e ancora rideva. "Ma come mai hanno perso in quel modo con la Spagna?".

Hai visto la partita? Gli ho chiesto, Monti c'è andato.

"No, non ho visto niente, sono stati giorni per me molto pieni e poi il calcio non è il mio forte. Però mi stupisce, quattro a zero. E con la Spagna...".

Non credere che la Spagna a causa dello "spread" non sia degna di aggiudicarsi il Campionato europeo, gli ho detto.
Anzi è addirittura campione del Mondo. "Questo lo so, ma vorrei capire in che consiste la sua forza".

Debbo ammettere che non sono un esperto ma un po' ne mastico e gliel'ho spiegato così: gli spagnoli si schierano su due linee orizzontali di cinque giocatori ciascuna, quando sono sulla difensiva sono dunque in dieci nella loro metà campo ed è difficilissimo aprirsi un varco per gli attaccanti avversari. Ma quando avanzano si muovono sempre tutti insieme e sono in dieci nella metà campo avversaria.

Non passano mai la palla in avanti, se la passano orizzontalmente avanzando come una macchina da guerra. Non hanno una o due o tre punte ma ne hanno cinque ed altrettante alle spalle. Vincono così.

Mi stava a sentire ma evidentemente pensava ad altro.

Infatti mi ha detto: "Noi abbiamo lavorato in quattro per preparare il memorandum sulla futura architettura dell'Unione europea. Un po' come gli spagnoli, quelli del calcio s'intende".

Quelli del calcio, certo. Gli altri, i ministri, i capi delle banche, non lavorano affatto tutti insieme e soprattutto sono molto lenti. Sanno che debbono promulgare una legge, firmare un documento, avviare una procedura, ma rinviano e tutto resta fermo. Queste considerazioni Draghi le ha fatte più volte pubblicamente e più volte le ha comunicate alle autorità spagnole interessate, ma i risultati finora non si sono visti, gli spagnoli continuano a rinviare con il risultato che le loro banche sono ancora in pessima situazione. Per far intervenire il fondo "Salva Stati" e "Salva banche" ci vuole una richiesta del governo ma il governo finora tergiversa.

Gli spagnoli sono molto orgogliosi, sono hidalghi, ti guardano in faccia con occhi di sfida e battono il tacco con rabbia se tu rispondi a loro con lo stesso sguardo.

Come nel ballo flamenco, dove inarcano la schiena e le sopracciglia.

Trattare con loro non deve essere facile.

Ti piace la Spagna? gli chiedo. Circospetto: "In che senso?" il paesaggio, dico. "Certo, ma negli ultimi tempi ci vado tra un aereo e l'altro, di paesaggio ne vedo assai poco". Una domanda: spetta a te la vigilanza sulle banche?

"Spetta alla Bce, sì, lo ha deciso l'Eurosummit, lo sai, è una decisione ufficiale. Vigilanza sulle banche, garanzia sui depositi e assicurazione per le banche in crisi. Ma la vigilanza sarà nettamente separata dalla nostra politica monetaria. È tutto scritto nel comunicato dell'Eurosummit".

Ma mi piace sentirlo ripetere. "Però il governo interessato lo deve chiedere e ancora non l'ha chiesto". Sono hidalghi.
Possono fallire se non lo chiedono? "Penso a Balotelli".

Che c'entra? "Niente, ma mi viene in mente quando piangeva".

* * *
Dunque ricapitoliamo. La Merkel è politicamente in minoranza nel suo Paese.

Non era mai accaduto. Il governo spagnolo balla il flamenco dell'orgoglio e perde tempo prezioso per non piegarsi a chiedere l'intervento del fondo "Salva banche". I mercati guidati dalle banche d'affari americane e dagli Hedge Fund speculano al ribasso sui titoli bancari europei, la Bundesbank e l'opinione pubblica tedesca sognano un euro di prima classe insieme alla Finlandia e all'Austria, in Italia crescono i movimenti antipolitici che predicano l'uscita dall'euro. Intanto il cambio euro-dollaro è a 123 e tende a scendere ancora.

La battuta di Draghi su Balotelli che piange mi dà da pensare sicché, per concludere sparo qualche domanda finale: ti preoccupa l'inflazione? Risposta: "È l'ultimo dei miei pensieri". Ti preoccupa il ribasso dell'euro sul dollaro? "Favorisce le esportazioni, è uno stimolo". Allora ce la faremo? "Napolitano ha detto che ce la dobbiamo fare. Io ho grande affetto e stima per lui, mi associo alla sua esortazione e al suo impegno per quanto mi riguarda".

Personalmente continuo ad essere ottimista ma le stelle stanno a guardare.

Tocca a ciascuno di noi fare la sua parte e non allo stellone che è stato soltanto e sempre un'invenzione consolatoria.

Post scriptum: alcuni giornali conducono da tempo una campagna sul cosiddetto caso Mancino per mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica. Negli ultimi giorni lo esortano a rendere pubbliche le telefonate che ha avuto con Nicola Mancino e che sono stare registrate dalla Procura di Palermo.

Non entro nel merito, che riguarda le Procure interessate, i gip che ne autorizzano gli interventi, il Procuratore generale della Cassazione che ha la vigilanza sul corretto esercizio della giurisdizione e detiene l'iniziativa di eventuali procedimenti disciplinari. Osservo soltanto che quei giornali così legittimamente desiderosi di chiarire eventuali misteri e possibili ipotesi di reato scrivono come se sia un fatto ovvio che il Presidente della Repubblica è stato intercettato e che il nastro dell'intercettazione è tuttora esistente e custodito dalla Procura di Palermo. Quei giornali dicono il vero perché l'esistenza delle intercettazioni è stata confermata da uno dei quattro sostituti procuratori palermitani in un'intervista al nostro giornale.

Quando qualche settimana fa Nicola Mancino, la cui utenza era vigilata dalla suddetta Procura, chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione col Presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero. Forse l'agente di polizia giudiziario incaricato dell'operazione non sapeva o aveva dimenticato che da quel momento in poi stava commettendo un gravissimo illecito.

Ma l'illecito divenne ancora più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova.

La gravità di questo comportamento sfugge del tutto ai giornali che pungolano il Capo dello Stato senza però dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quella Procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando  -   in seguito ad un "impeachment"  -  non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia. Si tratta di norme elementari della Costituzione e trovo stupefacente che né i Procuratori interessati, né i giudici che autorizzano i loro interventi, né i magistrati preposti al rispetto della legge, né gli opinionisti esperti in diritto costituzionale abbiamo detto una sola sillaba in proposito con l'unica eccezione dell'ex senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione parlamentare sulle stragi.

(08 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/08/news/ho_parlato_con_draghi_di_balotelli_e_di_germania_eugenio_scalfari-38712664/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E su Formigoni la Chiesa tace
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:07:02 am
E su Formigoni la Chiesa tace

di Eugenio Scalfari

L'inchiesta appurerà le sue eventuali responsabilità penali. Ma è impressionante il silenzio del Vaticano sulla questione morale che riguarda uno dei  più importanti tra i politici cattolici del nostro Paese

(04 luglio 2012)

Il nocciolo della questione morale è l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Le istituzioni sono portatrici dell'interesse generale; i partiti invece sono portatori di una loro visione del bene comune che si contrappone ad altre visioni. Questo nel caso migliore. Nel caso peggiore i partiti possono difendere interessi particolari che si identificano con una classe sociale, con una rete clientelare, con un'oligarchia collocata al vertice del partito e rinnovata soltanto per cooptazione.

Naturalmente analoghe deformazioni possono anche verificarsi in alcune istituzioni; i loro dirigenti anziché l'interesse generale a essi affidato possono coltivare il loro profitto e la loro inamovibilità. Ma per reprimere queste distorsioni esiste la magistratura, quella ordinaria e quella amministrativa, che vigilano sull'eventualità di istituzioni deviate. Un controllo analogo sui partiti è assai più difficile: essi sono infatti libere associazioni alle quali la Costituzione attribuisce il solo compito di "orientare la vita pubblica" senza tuttavia stabilire le modalità della loro organizzazione.

Quando il potere dei partiti li conduce a occupare le istituzioni o le loro propaggini (quello che si chiama il "parastato"), l'inquinamento dell'interesse generale con gli interessi particolari raggiunge il massimo suo livello e questo è per l'appunto il nocciolo della questione morale. Le cronache di questi giorni hanno portato alla ribalta alcuni personaggi emblematici. Uno si chiama Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita (il partito nato dalla fusione tra i democratici-liberali di Rutelli e i popolari di Enzo Bianco); l'altro si chiama Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega.

Lusi si è mangiato 25 milioni di euro e di un'altra cinquantina dice di averli versati a Rutelli e a Bianco che avrebbero dovuto utilizzarli per finalità politiche. Quali non è dato sapere. Belsito afferma di aver gestito analoghe situazioni facendo affluire soldi a Bossi e ai suoi familiari ma nel suo caso le finalità politiche non sono neppure menzionate. Belsito, prima ancor di essere nominato tesoriere della Lega, era stato fatto nominare da Bossi vicepresidente della Fincantieri, una società partecipata dal Tesoro; la nomina di Belsito fu fatta - su pressione di Bossi - da Marco Milanese, "favorito" dall'allora ministro del Tesoro, Giulio Tremonti.

Vengono in mente anche il caso Penati, esempio rilevante di malcostume politico in Lombardia, e il caso Formigoni, ancor più recente e in un certo senso ancor più emblematico dei precedenti. Formigoni è alla guida della Regione lombarda da molti e molti anni; le Regioni hanno tra i loro compiti amministrativi quello più importante e con maggior giro di denaro: la sanità.

La Procura di Milano lo ha messo sotto inchiesta proprio per le sue intese con una serie di personaggi che ruotavano come faccendieri o come dirigenti della Regione attorno alla sanità e all'istituto di Don Verzé (bancarotta fraudolenta), speculando, peculando, corrompendo. Sarebbe, se dimostrato, un caso gigantesco di malaffare al vertice della più importante Regione italiana, ma c'è un'ulteriore aggravante: Formigoni è uno dei leader di Comunione e liberazione ed è anche un "Memores Domini", cioè una persona dedicata a Cristo nella sua vita pubblica e privata, una sorta di "testimone" del Vangelo attraverso una delle Comunità religiose più importanti della Chiesa cattolica.

Domando: che cosa aspettano i membri di Cl e i giovani in particolare che ne costituiscono il nerbo, a sospendere Formigoni da ogni rapporto con la loro Comunità in attesa che l'inchiesta giudiziaria accerti i fatti e decida sull'eventuale rinvio a giudizio? Che cosa aspetta il Vaticano a intervenire? Qui si raffigura una questione morale ancor più vulnerante perché investe non solo la sfera civile e politica ma anche quella religiosa. Purtroppo non è la prima volta nella storia della Chiesa e verosimilmente non sarà l'ultima.

   
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-su-formigoni-la-chiesa-tace/2185597/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Da Gramsci a Einaudi per rifondare il paese
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:16:04 pm
IL COMMENTO

Da Gramsci a Einaudi per rifondare il paese

di EUGENIO SCALFARI

DAI mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch'essi notevole successo e anch'essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell'Italia con un aumento dell'1 per cento rispetto al giorno precedente.

Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo "spread" del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall'Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno.
Queste le buone notizie. Ma il "downgrading" di Moody's , anche se Piazza degli Affari ha risposto con un'alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il "rieccolo" di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato con estrema attenzione.

Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l'implosione in mille frammenti. Questo risultato l'ha già ottenuto, è bastato l'annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del "Silvio c'è". Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano.

Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Micciché. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell'1 per cento, ma è il "folk" che conta. Il partito non c'era, non c'è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi.

Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell'ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l'ideale. Allora forza con l'aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l'ideale.

Il partito non c'è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale?
Questo è l'obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.

* * *

Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere l'obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo non si discute.
Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c'è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi.
Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza post-elettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l'alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente.

Diciamo: il partito dell'Aquilone al 15-18 per cento, l'Udc all'8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c'è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede.

Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il "Giornale", campane a festa per "Libero" e campane con doppia festa per il "Fatto" che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa.

Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all'opposizione ma un po' spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti.
Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c'è un'alternativa?

* * *

Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali.
Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul "Corriere della Sera" che cos'è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent'anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei "media" compreso e senza eccezioni.
Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest'ultimo punto. L'informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L'eccezione principale è stata "Repubblica" fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l'eccezione era stata "L'Espresso". Nei pochi anni della sua direzione l'eccezione fu anche il "Corriere" diretto da Piero Ottone.

La seconda osservazione riguarda invece la "scivolata" di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata "dannosa per l'Italia perché ha determinato la formazione d'un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d'un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà".

Questa "scivolata" - come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale - è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l'ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d'allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio - come allora lo si chiamava - aveva imboccato da solo la via dell'austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer.

La differenza di ora rispetto all'allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale - direbbe uno chef - al fritto misto.
In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos'altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c'è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché - come Ciampi può testimoniare meglio d'ogni altro - a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell'epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle spalle.

* * *

L'alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l'irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati.
Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull'"Unità" e Alberto Asor Rosa sul "Manifesto". Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un'economia globale; esisterà - se vuole sopravvivere - un'Europa-Stato.

In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell'eguaglianza. Deve togliere le bende che l'hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie.
E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte.

A quel punto si accorgeranno - il centro e la sinistra - che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l'alternativa.
A me ricorda lo slogan "giustizia e libertà"; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle "Lezioni di politica sociale".

Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all'attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale.

Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c'è un'altra strada. Quella è la sola vincente e l'obiettivo è di rifondare l'anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell'uno come nell'altro caso sarà comunque una vittoria.
Berlusconi - ovviamente - con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l'Italia di Santanché che certo non è la nostra.

(14 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/14/news/scalfari_15_luglio-39074568/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nessuno può fermare l'intervento di Draghi
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2012, 07:43:51 pm
L'EDITORIALE

Nessuno può fermare l'intervento di Draghi

di EUGENIO SCALFARI

LA crisi dell'euro rispecchia il fallimento d'una politica senza prospettive. Al governo tedesco manca il coraggio di andare oltre uno status quo divenuto insostenibile. Questa è la causa del continuo peggioramento della situazione, nell'Eurozona negli ultimi due anni, malgrado ambiziosi programmi di salvataggio e innumerevoli vertici di emergenza.

Questo drastico giudizio l'ha scritto ieri sul nostro giornale Jurgen Habermas, un filosofo, uno storico, un profondo studioso dei pregi e dei difetti della democrazia. Concordo da tempo con la sua opinione e con quella di tutti coloro che hanno voglia di capire quali siano le vere cause che attanagliano l'Unione europea e in particolare i 17 Paesi dell'Eurozona.

Personalmente e nonostante questo giudizio di fondo sono stato ottimista sull'esito finale poiché non pensavo che l'Europa arrivasse al punto di volersi suicidare. E riponevo grande fiducia nella competenza tecnica e nella visione politica di Mario Draghi e nella forza e nell'indipendenza della Banca centrale europea da lui guidata. La conferenza da lui tenuta a Londra alcuni giorni fa aveva confermato queste speranze ed era stata anche positivamente accolta dai mercati. Poi nella mattinata di giovedì scorso si è svolta la riunione del consiglio direttivo della Bce e la conferenza stampa del suo presidente il quale, stando a chi gli ha parlato subito dopo, era felice del risultato.

Sedici membri di quel consiglio, formato dai governatori delle Banche centrali nazionali, avevano manifestato opinioni pienamente in
linea con quelle del presidente ed uno soltanto si era dissociato. Ora sono in corso gli studi necessari ad approntare gli strumenti operativi e su di essi ci sarà il voto definitivo del consiglio.
I mercati giovedì hanno accolto molto negativamente i risultati di quel vertice, ritenendoli ancora una volta insufficienti e interlocutori. Ma il giorno dopo  -  venerdì  -  c'è stata una netta inversione di tendenza sia nelle Borse sia negli spread dell'Italia e della Spagna. Eppure non era accaduto nulla di nuovo in quelle 24 ore che giustificasse le aspettative. Un errore di valutazione giovedì e un ripensamento venerdì?

I mercati  -  si sa  -  sono molto volatili ma la loro "volagerie" è sempre motivata da una causa, un dato nuovo, una più chiara e autentica spiegazione. Ma nulla di simile è accaduto. Allora perché un capovolgimento così improvviso e così vistoso? E che cosa c'è da aspettarsi per domani quando i mercati riapriranno?

* * *

Desidero ricapitolare le conclusioni raggiunte dal consiglio della Bce e riassunte da Draghi.
1  -  Il tasso ufficiale di sconto e il tasso riservato ai depositi delle banche presso la Bce sono rimasti invariati: 0,75 il primo e zero il secondo.
2  -  La Bce entro la fine di agosto interverrà sul mercato secondario per acquistare titoli pubblici a scadenza breve per cifre illimitate. Scadenza breve s'intendono Bot a un anno.
3  -  Si tratta dunque di operazioni tipicamente monetarie che possono tuttavia essere molto utili anche al Tesoro se limiterà le emissioni di Bpt e accorcerà la durata media del debito pubblico. Questa politica di accorciamento della durata media può essere adottata per un paio d'anni senza particolari difficoltà.
4  -  L'intervento della Bce avverrà però soltanto sui titoli pubblici di quei Paesi che lo avranno chiesto al fondo "salva Stati" sottoscrivendo con le autorità dell'Eurozona nuove condizioni ritenute necessarie. Una volta ottenuto l'ok dalle predette autorità la Bce darà inizio agli acquisti limitatamente ai Bot con scadenza breve fino al massimo di 12 mesi.
5  -  La Bce non esclude  -  ma senza impegno  -  altre iniziative come per esempio nuova liquidità alle banche che ne facessero richiesta, allentamento dei collaterali offerti in garanzia e perfino finanziamento diretto di imprese con l'acquisto di obbligazioni da esse opportunamente garantite.
Fin qui il resoconto di Draghi. Come sopra ricordato i mercati giudicarono negativamente sia la limitazione dell'intervento a titoli a scadenza breve sia il rinvio delle operazioni alla fine d'agosto sia, soprattutto, la necessità dell'ok del fondo "salva Stati". Ma il giorno dopo cambiarono idea. Forse sarà opportuno a questo punto qualche spiegazione e qualche osservazione.

La Bce non è una Banca centrale come tutte le altre. In comune ha soltanto l'indipendenza dai governi con un aspetto che ne rafforza l'azione operativa: le altre Banche centrali hanno il governo del loro Paese come interlocutore. La politica fiscale ed economica è esclusivo appannaggio del governo, la Banca centrale ha come compito la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la fissazione del tasso di sconto e la vigilanza sul sistema bancario.

La Bce invece non ha alcun governo come interlocutore e non lo avrà fino a quando non sia nato il nucleo d'un governo europeo con sovranità sul fisco e sulla politica economica degli Stati confederati.
Naturalmente anche la Bce ha dei vincoli operativi che risultano dai Trattati europei e dal suo Statuto. Le sono vietate operazioni di acquisto di titoli pubblici sul mercato primario. Le finalità da perseguire sono: assicurare la liquidità al sistema, evitare che il tasso di inflazione superi i limiti ritenuti appropriati, evitare situazione di deflazione, mantenere la stabilità dei prezzi, fissare il tasso ufficiale di sconto.

Questo è il quadro. Aggiungo  -  l'ho già scritto molte volte e lo ripeto  -  che la Bce è il solo istituto europeo dotato d'una formidabile potenza di fuoco e d'una capacità operativa rapida, naturalmente entro i limiti stabiliti dai Trattati e dallo Statuto.

* * *

Né i Trattati né lo Statuto prevedono che la Bce abbia bisogno d'un ok dal fondo "salva Stati" per adottare interventi che Trattati e Statuto prevedono nelle sue finalità. Per la semplice ragione che Trattati e Statuto enumerano i poteri e i vincoli della Bce da quando fu fondata quattordici anni fa mentre il fondo "salva Stati" non ha più d'un anno di vita.
E allora: non c'è dubbio alcuno che non esistano pericoli d'inflazione, Draghi l'ha detto decine di volte in pubbliche dichiarazioni e i tassi d'inflazione sono certificati dal bollettino della Banca.
Non c'è tuttavia dubbio alcuno che la stabilità dei prezzi e la stessa politica monetaria sono fortemente turbate dalle differenze dei tassi d'interesse derivanti dai diversi rendimenti dei titoli sovrani a scadenze quinquennali e decennali.
Non c'è infine dubbio alcuno che in alcuni Paesi dell'Eurozona è in atto una profonda recessione e una altrettanto marcata deflazione.

Poiché questo stato di cose è certificato dalla stessa Bce e rientra nelle finalità che essa ha l'obbligo di perseguire, non si vede ragione alcuna che essa debba o voglia ottenere l'ok del fondo "salva Stati" per realizzare obiettivi che non menzionano affatto quell'ok.
Ho grandissima stima ed anche affettuosa amicizia per Mario Draghi ma questo non mi impedisce di porgli la domanda: perché l'acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev'essere autorizzato? L'Italia in particolare ha varato con l'approvazione del Parlamento la riforma delle pensioni, la riforma del lavoro, la revisione della spesa e tutte le misure previste nella lettera firmata nell'agosto scorso da Trichet e dallo stesso Draghi, ivi compreso il pareggio del bilancio entro il 2013. È sottoposta, l'Italia, come tutti gli Stati dell'Unione alla vigilanza e al monitoraggio della Commissione europea.

È carente  -  questo sì  -  per quanto riguarda la crescita e la produttività, ma questi obiettivi non sono raggiungibili da un singolo Paese dell'Unione se non sono inquadrati e sostenuti da una politica dell'intera comunità europea. Crescere e aumentare la produttività in un sistema rigorista che non prevede crescita, ma soltanto recessione e deflazione, è impensabile. Non c'è bisogno di citare e demonizzare Keynes, basta ricordare Beveridge e Roosevelt ed anche quel brav'uomo di Hoover che precipitò gli Usa e l'Europa nel baratro del '29.

Domenica scorsa avevo chiesto a Draghi: se non ora, quando? Gli ripropongo la domanda leggermente modificata: perché non ora? Aspetta che Monti si sottoponga a ulteriori condizioni ma con quale certezza per il futuro? Certezze, non promesse da marinaio. Se Monti piegherà la testa stimolerà i mercati ad aggredire i titoli pubblici italiani. Che farà in quel caso Draghi? Difenderà il muro quando già sarà crollato?

Può darsi che questo vogliano i falchi della Bundesbank, i liberali tedeschi, la Csu della Baviera, gli hedge funds e le grandi banche americane ed anche Romney e Wall Street e la City. Ma questa è l'anti-Europa cui si aggiunge la rabbia sociale in tutti i Paesi.
Quanto alla Bundesbank, essa fa parte organica della Bce alla quale ha delegato come tutte le altre Banche nazionali la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la lotta contro la deflazione. Può votar contro nel consiglio direttivo ma poi deve comportarsi come la maggioranza avrà deciso. Questa è la regola e spetta a Draghi farla valere.
Lo ripeto, con amicizia e stima: perché non ora?

(05 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/05/news/scalfari_5_agosto-40382529/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'estremo atto d'amore quando Eros ti abbandona
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2012, 09:08:53 am
L'estremo atto d'amore quando Eros ti abbandona

Hegel, il nuovo realismo e il senso della fine. L'opera costruita dal pensatore tedesco cambia il linguaggio della riflessione filosofica.

Senza più necessità di assoluto resta la ricerca di una forma che organizzi e interpreti il disordine

di EUGENIO SCALFARI

FRIEDRICH Hegel era assolutamente certo che la sua opera, disseminata nei molti libri da lui scritti a cominciare dal primo sulla Fenomenologia dello Spirito, avesse chiuso l'epoca dei sistemi filosofici. Ne conosceva tre che l'avevano preceduto: Platone, Aristotele, Kant. Forse anche Descartes ma non era certo che potesse esser definito un sistema vero e proprio.

Poi era comparso lui nel teatro della mente ed aveva costruito un'architettura completa e definitiva, fondata sullo Spirito e sulla dialettica. Altro non si poteva dire che lui non avesse detto salvo negare tutto senza affermare nulla. Hegel non pronunciò mai la parola "nichilismo" e negò risolutamente la dignità filosofica del relativismo. Il suo principio dell'identità tra il vero e il reale era infatti il pilastro sul quale poggiava l'assolutezza del suo sistema e della dialettica che lo permeava.

Naturalmente i filosofi che vennero dopo di lui continuarono a produrre architetture mentali che descrivevano nuovi teatri e nuovi scenari, ma si trattava piuttosto di rimaneggiamenti, classificazioni, emendamenti e restauri ma la struttura rimase l'hegelismo e la triade dialettica combinata con la filosofia della storia, con lo stato etico e con lo Spirito assoluto che fu il suo modo di insediare la metafisica e la trascendenza. Naturalmente il pensiero continuò a produrre idee, concetti, metodi di ricerca, ma il linguaggio cambiò radicalmente. Cambiò con Leopardi, cambiò con Nietzsche. I prodromi di quel mutamento venivano da lontano; erano cominciati con gli "Essais" di Michel de Montaigne e poi con i "Pensieri" di Pascal; ma fu Nietzsche il punto di svolta: un salto formidabile nel linguaggio e quindi anche nel pensiero che lo crea e ne è a sua volta condizionato.

Da allora il pensiero non può che manifestarsi con narrazioni, aforismi, contraddizioni registrate e volutamente non risolte; la preminenza della ragion pratica sulla ragion pura; lo "Zibaldone", ma anche "Zarathustra", la "Genealogia della morale" ed "Ecce Homo" come testi fondamentali.
La gabbia dei sistemi era saltata e così pure quella dei generi. E saltò anche la gerarchia dei valori. Per lunghissimo tempo la cuspide della filosofia era stata la metafisica. Poi diventò la critica, poi le si affiancò l'estetica. Infine, dalla fine del Novecento a questa prima decade del nuovo secolo, la nuova cuspide è diventata l'etica. Ma queste gerarchie non tengono più e la ragione sta nella scomparsa dell'assoluto e nella contemporanea scomparsa dell'antropomorfismo che per millenni aveva dominato la cultura. Nietzsche aveva decapitato la metafisica e sgominato i valori opponendo a ciascuno di essi un controvalore. Da Platone fino ad Hegel tutta la storia del pensiero era stata contestata; erano stati risparmiati soltanto Eraclito, Montaigne, Spinoza.

Si discute ancora se dopo Nietzsche sia possibile filosofare. Certamente è possibile poiché la storia del pensiero è inarrestabile, ma è cominciato dopo di lui un linguaggio del tutto diverso e il filosofo si è trasformato in un artista che inventa come ogni artista le parole e le forme con le quali esprimersi.

***
La scimmia pensante che noi siamo è in grado di pensare se stessa ma resta comunque radicata alla sua animalità e al coacervo dei suoi istinti. Da quando il nostro lontano antenato si eresse sulle zampe posteriori e poté sollevare la testa verso il cielo stellato, quell'evoluzione coincise con una moltiplicazione prodigiosa delle cellule cerebrali, della rete neuronale che le avvolge e le collega e con la formazione di mappe con funzioni specializzate.

Questa specializzazione ebbe un costo tutt'altro che trascurabile; la comparsa della mente riflessiva comportò infatti l'indebolimento o addirittura l'estinzione di alcune facoltà percettive e anche di alcune forme di socialità che consentirono una maggiore autonomia dell'individuo. Le mappe della memoria acquistarono una funzione primaria declinando in modo del tutto nuovo l'approccio al transito del presente, all'irruenza del futuro e al ricordo continuo ma continuamente cangiante del passato. A questo punto sul nostro schermo mentale apparve la figura della morte e la tremenda necessità che la nostra esistenza avesse un senso.

L'uomo non può vivere neppure un istante senza l'invenzione consolatoria d'un senso, senza una cometa che gli indichi un percorso, senza un tema che organizzi l'affollarsi altrimenti disordinato dei pensieri. Così nacquero i valori, così l'individuo acquistò la sua preminenza, così la cultura, cioè la chiave musicale della mente, è diventata l'elemento coesivo delle comunità. E così è nata la più stupefacente invenzione creativa della nostra specie: gli dei e il concetto stesso del divino, anzi del sacro con tutti i suoi misteri che ci spaventano e ci rassicurano. Così infine l'arte ha interpretato la natura, ne ha raccontato i mutamenti, spesso li ha preceduti guidata dalla necessità di costruire a getto continuo ipotesi consolatorie, riempiendo di senso la nostra esistenza di animali.

***
Prima di procedere oltre in questa rivisitazione del nostro divenire mi preme accennare alla cosiddetta rinascita del realismo, della quale ha scritto di recente Maurizio Ferraris e molti altri autori da lui citati. Il realismo non nega (e come potrebbe?) l'importanza delle interpretazioni attraverso le quali si articolano i giudizi individuali alle prese con un fatto o un soggetto.
L'ermeneutica resta  -  scrive Ferraris  -  un canone cognitivo essenziale anche se gli preferisce l'epistemologia. Ma, aggiungono i realisti, la diversità delle interpretazioni si articola comunque sull'asse della ricerca della verità e questo è il canone al quale l'ermeneutica non può comunque sottrarsi e che tutti i pensatori hanno accettato, da Platone fino a Heidegger.

È un'opinione. Pienamente legittima e pienamente contestabile, che deve però superare un ostacolo non da poco: quello che Immanuel Kant chiamò il "noumeno", la cosa in sé e la sua incomunicabilità. Con il noumeno non si comunica dall'esterno ma neppure dall'interno; il noumeno cioè non è conoscibile neppure da se stesso. Leibniz l'aveva chiamato "monade"; poteva comunicare soltanto col Creatore. Ma il Creatore altro non è che un'invenzione degli uomini per dare un senso al loro transito terrestre.

Freud fu molto incerto su questo tema che pose al centro delle sue riflessioni. Oscillò a lungo sulla conoscibilità dell'Es, cioè del mondo dove si agitano gli istinti. Sono conoscibili gli istinti? Chi può entrare nella caverna del profondo da essi abitata? Solo l'Io potrebbe tentarlo, ma che cos'è l'Io se non una creazione artificiale, una sorta di sovrano simbolico che riassume una quantità infinita di organi, di cellule, di gas, di minerali, di liquidi e miliardi di miliardi di atomi e di particelle elementari?

Noi uomini ci chiamiamo Io, la nostra mente ci ha dato questo nome che nasconde sotto il suo mantello un universo in continuo movimento e in continua mutazione. "Tutto si muove, tutto cambia, si muovono perfino le Piramidi d'Egitto e anch'io mi muovo e cambio ad ogni attimo. Io non racconto di me ma racconto un passaggio". Così scriveva il sere di Montaigne nella prima pagina dei suoi "Essais".

Dov'è dunque l'assoluto? Dov'è l'assolutezza della verità? Forse nell'attimo fuggente. Non a caso Faust voleva fermarlo, ma non ci riuscì. L'attimo fuggente si ferma solo con la morte e la morte è la sola verità che si realizza trasformando un corpo vitale in una spoglia e restituendo alla natura quel tanto di energia che chiamiamo vita.

I fatti esistono attraverso le interpretazioni. Le interpretazioni sono formulate dalla mente. La mente è un'efflorescenza immateriale prodotta da un organo composto da miliardi di cellule ed ha con il cervello lo stesso rapporto che uno strumento musicale ha con la musica. Fate che una corda di quello strumento sia stonata e anche la musica sarà stonata o, se volete, diversamente intonata. Ogni esecuzione musicale dello stesso brano e della stessa orchestra è diversa dalle esecuzioni precedenti e da quelle successive. È un "unicum". Perciò ogni verità è relativa.

Perciò, amici realisti, la verità assoluta non esiste. È soltanto un'ipotesi, non so neppure se consolatoria. Freud intitolò il suo libro fondamentale "Il disagio nella civiltà". Qualcuno cambiò il titolo con "Il disagio della civiltà". Ma l'originale è il primo. Il disagio sta nella civiltà. Noi siamo scimmie pensanti e quello è il disagio: il pensiero. L'animale che non pensa opera soltanto mosso da istinti coatti e non evolutivi. Per lui non esiste l'attimo fuggente perché vive una sequela di attimi che si ripetono. L'animale è innocente. Noi no perché noi pensiamo e sappiamo.

***
Il pensiero è un'immensa architettura mentale e ogni mente ha la propria perché non c'è mente che somigli ad un'altra come non c'è foglia dello stesso albero che sia identica alle foglie che le sono spuntate a fianco. Di più: la stessa foglia cambia man mano che il tempo passa.
Confesso qui che una delle canzoni che mi piace spesso riascoltare si chiama "As Time Goes By". Quel titolo traduce in note musicali una realtà, forse la sola sulla cui interpretazione c'è un accordo pressoché unanime. L'alternativa a quella realtà è l'eternità. Infatti l'abbiamo attribuita a Dio. Dio è eterno, gli dei sono eterni. Ma Odisseo, al quale prima Circe e poi Calipso offrirono l'eternità, la rifiutò. Voleva continuare il suo viaggio e l'eternità glielo avrebbe impedito perché l'eterno è sempre identico a se stesso.

Anche Eros è eterno, ma non è un Dio. È un'immensa forza primigenia che nasce nel momento in cui la luce si separa dalle tenebre. Infatti, stando alla mitologia, Eros è figlio della notte.
Non è un Dio, ma molto di più. Infonde il desiderio negli dei e negli uomini. La nostra infatti è una specie desiderante. Che cosa desidera? Desidera desiderare.
Perfino Hegel lo scrisse anche se non pensava a Eros.

Eros è il nome che la mitologia dette all'amore. E l'amore è il pilastro che sorregge la nostra esistenza, alimenta i nostri desideri, scatena il furore delle passioni e nutre la dolce tenerezza degli affetti. Si tinge  -  l'amore  -  di tutti i colori dell'iride.

Eros ama e infonde amore. Narciso è una sua creatura e anche Afrodite e anche Lucifero lo è perché quasi sempre l'amore desidera il potere e il potere esprime una tensione erotica. L'essere ha una curvatura erotica perché l'istinto di sopravvivere non è altro che amore per sé, amore per gli altri e amore per l'altro.

E dunque il senso. Che cosa è mai il senso? Mi pongo da molti anni questa domanda e alla fine sono arrivato ad una conclusione: il senso è anch'esso una forma di amore, uno specchio in cui guardarti, un'anima che ti conforti e che tu conforti, un corpo che vuoi possedere ed anche l'amore per il comando, il fascino della seduzione, la malinconia dell'abbandono. E l'addio alla vita.

Quello è l'estremo atto d'amore, quando Eros ti chiude gli occhi e ti abbandona insieme al tuo ultimo respiro.

(10 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/08/10/news/scalfari_amore_eros-40681755/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le munizioni di Draghi e il decalogo del Pd
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:09:50 pm
L'EDITORIALE

Le munizioni di Draghi e il decalogo del Pd

di EUGENIO SCALFARI


A LEGGERE i giornali e ad ascoltare i telegiornali di questi ultimi giorni, si ha la sensazione di catastrofi sempre più numerose e incombenti: insolvenza delle imprese, rallentamento drammatico del Pil, disoccupazione alle stelle (e non solo quella giovanile), motore tedesco fermo, motore cinese in visibili difficoltà, Goldman Sachs in fuga dai titoli italiani, deflazione in atto in tutti i Paesi dell'Europa mediterranea, credit-crunch, sistema bancario bloccato. Che cosa vogliamo di più e di peggio? Ci si mette anche la Siria dove è accesa una miccia che rischia di far saltare tutto il Medioriente. Vi basta?
Le fonti di queste notizie sono tutte attendibili: autentiche e ufficiali, non c'è assolutamente nulla di inventato. Solo che andrebbero contestualizzate, ma questo è un esercizio non dirò impossibile ma arduo. Eppure qualcuno dovrebbe farlo. Proviamoci.

La recessione dell'ultimo trimestre per quanto riguarda l'Italia è aumentata dello 0,7 per cento; in termini annui, significa appunto il 2,50 per cento, ma la recessione dell'intero 2012, ormai statisticamente definitiva, è dell'1,9-2 per cento rispetto all'anno precedente, come infatti era previsto da tempo dalle medesime fonti autentiche e ufficiali. Quanto alle previsioni per il futuro, le stesse fonti autentiche ed ufficiali (Istat, Fmi, Bce, Eurostat) prevedono un inizio di ripresa, una luce in fondo al tunnel, che alcuni collocano all'inizio ed altri alla fine del 2013. La disoccupazione è aumentata in modo esponenziale, soprattutto giovanile e soprattutto nel Sud. Il fenomeno purtroppo era largamente previsto fin dall'inizio dell'anno. Va detto che nel frattempo alcuni metodi di accertamento sono cambiati: fino a qualche mese fa i lavoratori in Cassa integrazione non erano conteggiati tra i disoccupati, adesso lo sono secondo alcuni parametri adottati. Il fenomeno comunque è molto preoccupante anche se risulta da molte fonti che sono numerosi i giovani che rifiutano lavori dequalificanti e preferiscono rientrare nelle case di famiglia. In questo modo i risparmi accumulati dalle precedenti generazioni cambiano destinazione e la famiglia diventa una sorta di ammortizzatore privato. Il fatto è spiacevole ma non drammatico se non forse per le sue conseguenze sul tasso demografico il quale, però, era a livello molto basso da almeno trent'anni e, quindi, assai prima della recessione attuale.

Le banche italiane sono in difficoltà? Lo scrive il Trimestrale della Bce ma la Banca d'Italia non sembra dello stesso avviso, il governatore Visco affermò pochi giorni fa nell'intervista a Repubblica che le nostre sono banche particolarmente solide e l'ha ripetuto in dichiarazioni pubbliche di questi giorni. È vero che molte banche, e certo non solo quelle italiane, hanno in portafoglio ingenti quantità di titoli di Stato di vari Paesi, e non tutti di prima scelta, ma la Bce continua a ripetere  -  e va benissimo che lo faccia  -  che l'Eurosistema non verrà mai abbattuto perché imponenti difese esistono per stabilizzarlo e sconfiggere la speculazione. Tutto ciò ci tranquillizza.

Goldman Sachs. Ha ritirato nei mesi scorsi quasi tutti i suoi investimenti in titoli pubblici italiani: lo dicono i suoi stessi dirigenti e quindi è senz'altro vero. Nel frattempo però la Deutsche Bank ha moltiplicato i suoi investimenti in titoli italiani per un ammontare superiore a quello ritirato dalla Goldman. Se queste notizie vengono date contemporaneamente la questione si risolve in una diversa gestione delle due tesorerie. Dice un vecchio proverbio spagnolo: Si no es un problema no te preocupes y si es un problema porque te preocupas?

Si parla invece di insolvibilità d'una parte notevole delle imprese italiane. In quest'allarme c'è purtroppo molto di vero. Il governo è debitore delle aziende fornitrici per almeno 100 miliardi. Aveva deciso di metterne in pagamento subito almeno 30 e il ministro Passera aveva firmato il decreto necessario già il mese scorso, ma si scopre ora che la procedura per ottenere la bancabilità di quei crediti non sarà pronta prima della fine dell'anno.
Questa lentezza è inaccettabile, come pure il rinvio sine die degli altri 70 miliardi ed infine il fatto che i pagamenti di nuove forniture sono previsti nei contratti firmati dalle aziende pubbliche committenti a sei mesi data dalla fatturazione. In questo modo rischia di riformarsi lo stock di debito quand'anche fosse stato interamente liquidato. Tutto questo non va affatto bene, 100 miliardi di pagamenti che venissero effettuati nei prossimi giorni sarebbero, quelli sì, una frustata benefica per tutto il sistema. Passera lo sa meglio di tutti; se fossi in lui minaccerei ed effettuerei le dimissioni dal governo se questa pratica non verrà chiusa entro le prossime settimane.

Ma resta il tema che è il più importante di tutti: Draghi, la Bce, il ruolo che hanno e gli strumenti dei quali dispongono per salvare l'Europa dal default. Perché di questo si tratta. Limitandolo alla Grecia era comunque un rischio; estendere il rischio alla Spagna diventa un pericolo mortale; ma se il contagio si estende all'Italia, allora è l'Europa intera a dover combattere il naufragio. Forse si salverebbe la Germania pagando la sua sopravvivenza con la totale irrilevanza politica.

* * *

La Bce ha un armamentario di strumenti salvo i limiti che il suo Statuto gli pone: non può intervenire alle aste dei titoli sovrani e non può acquistarli sul mercato secondario se non per quantitativi limitati e autorizzati.
L'armamentario consiste in strumenti convenzionali e non convenzionali. Quelli convenzionali rientrano nella politica monetaria affidata alla Banca la quale stabilisce ogni anno la quantità di liquidità di cui l'Eurozona ha bisogno per il suo corretto funzionamento. Quelli non convenzionali sono previsti dallo Statuto in casi particolarmente emergenziali. L'erogazione di prestiti a tre anni all'1 per cento di tasso effettuata nell'inverno scorso dalla Bce alle Banche dell'Eurozona per un totale di mille miliardi rientrava in quella categoria e, checché se ne dica oggi, fu provvidenziale. Oggi forse sarebbe necessaria un'altra analoga operazione, probabilmente accompagnata da incentivi e disincentivi in funzione dell'uso che le banche richiedenti faranno di quella liquidità.
Un altro strumento potrebbe essere l'acquisto di obbligazioni emesse da imprese e un altro ancora nel ripetere l'acquisto di titoli a lunga scadenza sul mercato secondario ma per quantità limitate. Si tratta di strumenti di possibile applicazione ma di scarsa efficacia di fronte ad un attacco massiccio della speculazione.

Ma poi ci sono altri poteri dei quali dispone la Bce, che abbiamo già indicato domenica scorsa. Sostanzialmente sono due: intervento di politica monetaria per impedire l'emergere di isole deflazionistiche e analoghi interventi monetari per impedire turbativa nell'equilibrio dei prezzi e dei tassi di interesse tra i vari Paesi dell'Eurozona.
Non risulta che tali strumenti abbiano bisogno di speciali autorizzazioni. Deve essere solo accertata l'esistenz a dei pericoli dopodiché la Bce può dar seguito agli interventi monetari che consistono nell'acquisto di Bot a 12 mesi di massima scadenza.

Non soffermiamoci ora sull'utilità dell'uso di tali operazioni che avverrebbero per importi illimitati. Diciamo solo che esse avrebbero effetti sicuramente trasmettibili sui titoli a scadenza media e lunga. Ma il punto è un altro: Draghi ha deciso di metter mano a questi strumenti a condizione che il Paese interessato ne faccia richiesta al fondo salva-Stati; solo l'ok di quel fondo consentirà a Draghi di entrare in scena. Questa richiesta è sicuramente una sua facoltà, ma perché la fa? Qualcuno glielo impone? Oppure la fa perché vuole che il governo italiano sia maggiormente controllato dalla Ue? Ma questo non rientra nei compiti della Bce. La Bce deve impedire la formazione di fenomeni deflazionistici e l'instabilità dei prezzi e degli interessi nell'Eurozona. Questi fenomeni vengono certamente da lontano e non si risolvono senza la crescita dell'economia reale, ma la mancata crescita dipende principalmente dalla politica economica dell'Europa, non è un Paese da solo che possa attivarla.

Il presidente della Bce può e anzi deve pungolare l'Europa a muoversi in modo appropriato e Draghi l'ha fatto egregiamente anche se le sue prediche finora sono state inutili; ma non è compito suo sostituirsi all'Europa specie nel regime intergovernativo tuttora vigente. Benissimo lo stimolo, ma nel frattempo intervenga. Se subordina l'intervento all'inchino di Monti al salva-Stati si tratta, a nostro avviso, di una omissione di atto dovuto. Se le cose stanno diversamente sarebbe non solo opportuno ma doveroso che lo dicesse.

* * *

I lettori mi perdoneranno se passo  -  per così dire  -  dal sacro al profano parlando ora dell'intervista rilasciata al Foglio di giovedì scorso da Stefano Fassina al bravo Claudio Cerasa. Per chi non lo sapesse, Fassina è membro della segreteria del Pd e titolare del dipartimento di politiche sociali ed economiche di quel partito.
L'intervista descrive il programma elettorale di quel partito che diventerà in caso di vittoria il programma di un governo di centrosinistra.
È dunque altamente probabile che il contenuto di quell'intervista sia noto e approvato da Bersani visto che l'autore è il suo principale collaboratore.

Tralascio i giudizi su Monti, positivi per quello che ha fatto di buono e negativi per i molti errori e la molta insensibilità sociale. Tralascio anche la dichiarazione che con le prossime elezioni ci sarà comunque la cessazione di governi affidati a tecnostrutture. Vengo al sodo. Fassina espone un decalogo del quale cinque punti sono destinati all'Europa e cinque all'Italia. Eccone una sintesi.

Per l'Europa. "Chiediamo di fare un'unione fiscale nel continente e chiediamo che le leggi di bilancio di ciascun Paese siano autorizzate dal Consiglio Europeo prima di essere approvate e prevedano pesanti sanzioni per gli inadempienti. Va rilasciata al più presto la licenza bancaria al fondo salva-Stati affinché agisca sul mercato primario dei titoli pubblici. E poi Eurobond e Project Bond per mettere in atto una vera politica keynesiana. È necessaria l'unione bancaria e la vigilanza bancaria a livello europeo. L'euro è un progetto irreversibile.
A questo fine è necessario un programma di ristrutturazione dei debiti pubblici e la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali".

Per l'Italia. "Ci vuole una patrimoniale a bassa intensità. Abolizione del Titolo Quinto della Costituzione riducendo il Federalismo e aumentando i poteri del governo centrale per quanto riguarda le opere pubbliche e le politiche sociali. Bisogna rivoluzionare la pubblica amministrazione. Bisogna salvaguardare l'italianità delle imprese strategiche. Proseguire senza tregua la lotta all'evasione e ridistribuire il carico fiscale in favore dei lavoratori e delle imprese". Naturalmente Fassina pensa che il protagonista politico italiano sia il Pd e i suoi alleati del centrosinistra e in Europa tutte le forze socialiste e democratiche (per ora al governo soltanto in Francia).
Che dire? per quanto riguarda l'Europa il programma è esattamente quello della Merkel, salvo che lei vorrebbe esserne la promotrice e non Bersani. Per l'Italia è, grosso modo, il programma di Monti rinverdito con una forte dose di sensibilità sociale. Per la politica monetaria sembra ricopiata da quella di Draghi. Aggiungo: personalmente constato che Fassina ha adottato, direi riga per riga, le esortazioni e i suggerimenti più volte da me indicati in questi mesi. La cosa, dopo molte critiche rivoltemi dallo stesso Fassina, mi rallegra all'insegna del motto "meglio tardi che mai".

Una sola osservazione: non credo che l'esponente del Pd possegga una sua bacchetta magica. E pertanto: lo Stato europeo da lui (e dalla Merkel) propugnato lo avremo tra cinque o dieci anni; l'unione bancaria tra un paio d'anni; la riforma dell'amministrazione italiana richiederà a dir poco una generazione. Nel frattempo e cioè nell'immediato che cosa farà il governo Bersani? Chiamerà Monti per proseguire tenendo conto del decalogo di Fassina? Casini ne sarà felice e anche noi.
 

(12 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/12/news/scalfari-40811119/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Europa federale tra il sogno e la realtà
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2012, 05:25:59 pm
L'EDITORIALE

L'Europa federale tra il sogno e la realtà

di EUGENIO SCALFARI

MARIO Monti sarà ancora operativo fino a gennaio, poi la campagna elettorale inevitabilmente lo congelerà. Quattro o cinque mesi, ma ricchi di eventi e di decisioni che possono avere effetti notevoli su quanto ne seguirà nella prossima legislatura.

La prima decisione da prendere riguarda il rapporto tra il governo, il mercato e la Banca centrale europea. Finora Monti ha battuto e ribattuto sul tasto che l'Italia ce la farà da sola a rimettersi in piedi, restando fedele al programma di rigore già in atto, procedendo con le riforme soprattutto per quanto riguarda la rapidità dei tempi della giustizia civile, la riqualificazione della spesa, l'evasione e infine il rifinanziamento, per quel che è possibile, dell'economia reale.

Questo orgoglio nazionale è stato un buon "incipit" per avviare il negoziato con la Bce e ottenere il suo intervento sul mercato dei titoli. Parliamoci chiaro: quell'intervento è indispensabile per difendere la moneta unica e garantire l'efficacia della politica monetaria, ma Draghi non darà mai inizio all'operazione da lui battezzata "non convenzionale" senza il via libera del fondo "salva Stati", cioè della Ue e del governo tedesco.

Si tratta dunque d'un passaggio obbligato. Il disegno di Monti sembra questo: formulare lui le condizioni del "memorandum" e sottoporlo al "salva Stati" per l'approvazione. Monti conosce benissimo quale sia la condizionalità che la Ue e la Bce ci chiedono in aggiunta a quanto già fatto. Non si tratta di ulteriori dosi di rigore ma di ulteriori riforme che stabilizzino il quadro finanziario e consentano perfino un inizio di ripresa produttiva (di cui nel "seminario" del Consiglio dei ministri di venerdì).

La partita è assai complicata e i giocatori al tavolo sono a dir poco quattro: Monti, Draghi, la Bundesbank, la cancelliera Merkel. Ciascuno di loro ha una sua strategia e le alleanze nel corso della partita saranno variabili. Se il risultato sarà positivo ci sarà un alleggerimento degli spread di Italia e Spagna, un costo minore dei rispettivi debiti sovrani e soprattutto un vincolo che il governo Monti trasmetterà ai governi che verranno dopo le elezioni; questo vincolo risulterà di altissimo valore per i mercati e di rafforzamento sia di Draghi sia della Merkel nella complessa partita che essi stanno giocando con i falchi della Bundesbank e con le forze politiche che li appoggiano.

Il 6 settembre il Consiglio direttivo della Bce prenderà le sue decisioni. Monti dal canto suo dovrà uscire allo scoperto nei giorni successivi. Entro settembre questo problema dovrà dunque essere definitivamente risolto.

* * *

Ma ce n'è un altro, di problema, ancora più grosso ed è quello dello sfondo politico e istituzionale in cui l'intervento "non convenzionale" della Bce si colloca: l'eventuale passaggio dalla confederazione dei governi europei alla nascita d'una Europa federata. Si chiama, con parole concrete, "cessione di sovranità" dei governi nazionali agli organi federali dell'Unione europea, sia quelli già esistenti che andrebbero comunque riformati, sia organi nuovi da creare se necessario a completamento delle strutture della Ue.

Ne abbiamo già parlato qualche settimana fa. Allora sembrava che la Merkel avesse puntato sulla nascita dell'Unione federale tutte le sue carte. Non era ancora chiara la posizione di Hollande ma si sperava che anche la Francia alla fine riconoscesse la necessità di questa soluzione in un mondo ormai globalizzato.

Ne riparliamo oggi perché nel frattempo si è verificato un fatto nuovo: il tema dell'Europa federale è uscito di scena, la Merkel non ne parla più, la questione della cessione di sovranità si limita ormai al fiscal compact e si attende la sentenza imminente della Corte costituzionale tedesca sui fondi "salva Stati", si dubita perfino della fattibilità di un'Unione bancaria e d'una vigilanza unica affidata non più alle Banche centrali nazionali ma alla Bce. Insomma una ritirata vera e propria da un progetto certamente assai complesso da realizzare in un continente diviso da lingue diverse e da secoli di guerre e di diverse etnie e tradizioni, ma assolutamente necessario per non far precipitare l'Europa in una totale irrilevanza politica. Come si spiega questa ritirata? E che cosa si può fare per rimettere in moto quel progetto?

* * *

La Merkel deve aver capito due cose che forse qualche mese fa aveva trascurato o sottovalutato. La prima: il grosso dell'opinione pubblica del suo Paese non vede affatto di buon occhio un'egemonia politica tedesca su un'Europa cui tutti gli Stati nazionali, Germania compresa, abbiano ceduto quote rilevanti di sovranità. I tedeschi preferiscono fare buoni affari e conservare una supremazia industriale e finanziaria sull'Europa, ma rifiutano di esercitare un'egemonia politica. Che implicherebbe notevoli responsabilità e cessioni di indipendenza nazionale.

La seconda questione è la resistenza al progetto federativo da parte di molti altri Paesi a cominciare dalla Francia e dai Paesi del Nord e dell'Est. Soprattutto quelli che sono fuori dall'Eurozona, Gran Bretagna e Polonia in testa.
Perciò, per dirla tutta, quel progetto sembra rientrato salvo alcune cessioni di sovranità che riguardano il bilancio europeo, la politica fiscale, la difesa della moneta comune. La quale tuttavia, se quello sfondo politico verrà a mancare, non avrà mai la forza d'una moneta di riserva.

Il venir meno di questo progetto allarga tuttavia probabili spazi di negoziato e consente iniziative altrimenti impensabili. Per esempio consentirebbe a Paesi interessati ad un'Europa federata di federarsi tra loro. Il "chi ci sta ci sta", minacciato tempo fa dalla Germania quando si parlava di due velocità monetarie, potrebbe essere ora capovolto parlando di cessioni di sovranità politiche.

Se l'Italia, la Spagna, il Portogallo, l'Irlanda, l'Austria, ma anche soltanto i primi tre, fondassero anzi rilanciassero un Club mediterraneo con proprie regole e istituzioni comuni che mantenesse la sua presenza nell'Unione europea e nell'Eurozona non più come singoli Stati ma come Club, il contraccolpo sarebbe forte se non addirittura fortissimo.

Proseguo nell'esempio. Se i Paesi del Club stabilissero rapporti di consultazione e amicizia economica e politica con altri Paesi mediterranei, Algeria, Marocco, Libia Egitto, Israele, Turchia, rapporti che già esistono ma che cambierebbero titolare: non più i singoli Paesi ma il Club in quanto tale?

Se analoghi accordi fossero stipulati con tutta l'area di lingua latina nel Centro e Sud America, e principalmente con Argentina, Brasile, Uruguay, Messico? Argentina e Brasile hanno già dichiarato di essere molto propensi a studiare e concordare rapporti di questo genere. Un Club mediterraneo non potrebbe prendere un'iniziativa in tale direzione?

Se gli interessi e la fantasia suggeriscono nuovi orizzonti, non è affatto escluso che la stessa Europa federale possa rimettersi in moto. A volte bisogna saper sognare per affrontare le più dure realtà.

* * *

C'è un ultimo aspetto del quale voglio far cenno a proposito di Europa federale. Qualora prima o poi ci si arrivasse sarebbero necessarie alcune importanti modifiche istituzionali e cioè:
1. Il Parlamento europeo dovrebbe essere eletto su basi europee e non nazionali.
2. I referendum su questioni pertinenti l'Europa dovrebbero anch'essi esser votati dal popolo europeo e non dai popoli dei singoli Stati.
3. La struttura internazionale dell'Unione federale dovrebbe avere carattere presidenzialista del tipo degli Stati Uniti d'America: un presidente eletto che nomina il governo federale; un Parlamento che controlla l'operato del governo, la nomina dei funzionari di importanza federale, le leggi che incidono sul bilancio, le spese, le entrate. Una Corte costituzionale a tutela della costituzione federale.
Quando lo Stato ha le dimensioni di un continente e per di più in un mondo ormai globale, la democrazia deve assicurare al tempo stesso rapidità di decisioni, visualizzazione del leader che rappresenta quel continente e partecipazione dei cittadini. Il fondamento di queste strutture poggia sulla divisione dei poteri.
Si tratta, con tutta evidenza, di obiettivi lontani, ma spetta alla pubblica opinione averli presenti, dibatterli preparandone il possibile avvento.

Post scriptum. L'articolo di venerdì scorso 1 del nostro direttore Ezio Mauro sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente della Repubblica tratta un tema che è stato ampiamente e liberamente esaminato con ricchezza di argomenti. Aderisco a quanto scritto da Mauro. Del resto lo ha detto lui stesso e lo ringrazio per questo: noi ci siamo scelti reciprocamente diciassette anni fa ed è stata una scelta della vita che quotidianamente si rinnova. Sul tema in questione null'altro c'è da dire salvo le notizie di cronaca e il verdetto di merito della Corte che commenteremo con libertà e rispetto verso quell'istituzione che garantisce la costituzionalità delle leggi e dei comportamenti.
 

(26 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/26/news/l_europa_federale_tra_il_sogno_e_la_realt-41490496/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dialogo su etica e fede tra un credente e un non credente.
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:53:47 am
IL DIALOGO

Il laico, il cardinale e il Paese senza etica

Dialogo su etica e fede tra un credente e un non credente. L'incontro con il cardinal Martini è avvenuto ieri nel corso del convegno organizzato dalla Comunità di S. Egidio: La pace è il nome di Dio. "Mi preoccupano molto la diffusione dello scetticismo, il disimpegno dai valori forti, la convinzione che nulla vi sia nella vita che valga la pena di realizzare se non il proprio piacere e la propria istantanea felicità. Non si vuole crescere, avere responsabilità"

di EUGENIO SCALFARI

LE SALE del palazzo della Cancelleria mantengono le promesse del loggiato ideato dal Bramante cinque secoli fa e dello scalone che vi conduce: il grande stile del Quattrocento italiano, nel quale l' armonia delle proporzioni si coniuga con la leggerezza aerea delle strutture, col travertino dei vestiboli, col fasto degli affreschi che coprono le pareti e la solenne severità dei soffitti e degli scanni dove sedettero per secoli i cancellieri della Segnatura Apostolica e i giudici dei Tribunali ecclesiastici.

Salgo quelle scale con il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, e con monsignor Paglia della comunità di Sant'Egidio che ha organizzato un convegno di quattro giorni all'insegna d' uno slogan che è anche una dichiarazione di fede, "La pace è il nome di Dio": tavole rotonde, dibattiti, incontri tra sacerdoti e intellettuali di tutto il mondo e di tutte le religioni, croci dorate sulle talari, tuniche ocra di monaci buddisti, copricapi variopinti e delle fogge più strane, preti, pastori, patriarchi, rabbini, musulmani, copti, 400 rappresentanti delle religioni, due o trecento tra dignitari di Curia, dirigenti di associazioni cattoliche, vescovi di diocesi da tutt'Italia.

Martini, mentre sale, è assediato da televisioni e fotografi e da colleghi di sacerdozio che gli si stringono intorno con affetto venato da un'ansia che non è difficile cogliere: quell'uomo, quel pastore di anime è una riserva per la Chiesa che attraversa una fase di transizione non facile e assai impegnativa.

Gli chiedo se, pur essendo cardinale di Santa Romana Chiesa, è ancora membro della Compagnia di Gesù. Mi risponde di no: un vescovo non può far parte di un ordine né esser sottoposto alla sua gerarchia. "Però - dice - chi è cresciuto nella Compagnia non ne dimentica lo spirito e la formazione mentale che lì acquisì nei primi anni del sacerdozio".

Siamo stati invitati, il cardinale ed io, a dar vita ad un "confronto sulla fede" con tutte le problematiche che possono esistere tra un eminente membro della gerarchia ecclesiastica e un laico non credente. Sarà l'ultima iniziativa del convegno, prima della sua conclusione.

Le sale sono colme, s'intravede dai finestroni il cielo terso dell'ottobre romano. Monsignor Paglia introduce il tema e i due interlocutori, restando inteso che a me toccherà il compito di porre le questioni e al mio porporato interlocutore di fornire le risposte.

Il confronto comincia alle 9 e mezzo e durerà due ore. Si concluderà con un lunghissimo applauso a Martini, ai temi discussi e alle conclusioni raggiunte.

Un confronto sulla fede tra noi due, cardinal Martini? Non le nascondo che il tema, definito in un modo così esplicito, mi turba. Lei ha tutta l'autorità oltre che l' abito che indossa per poterne parlare con cognizione e passione ed io non potrei far altro che testimoniare la mia non credenza. Arriveremo a parlarne ma non credo possa esser questo il centro del nostro incontro. Può essere invece - se lei è d' accordo - l' impegno morale e le opere che ne derivano. Lì ci può essere, io mi auguro che vi sia, un terreno di convergenza tra religiosi e non religiosi. Perciò le porrò una prima domanda quasi a guisa di introduzione: riguarda l' egoismo. Si ha la sensazione che l' egoismo degli individui e dei gruppi sociali abbia raggiunto nell' epoca nostra un livello molto elevato, mentre vediamo un declino dell'impegno morale, della comprensione e della solidarietà verso gli altri. Da che cosa dipende quest'indebolimento della moralità e questa prepotente diffusione dell' egoismo? E' un male del secolo? E quali ne sono le cause? Ecco la mia prima domanda all' arcivescovo di Milano, che siede sulla cattedra che fu di Ambrogio e di Carlo e Federico Borromeo.

MARTINI - Sono d'accordo con questa impostazione del nostro dialogo. Del resto le domande sulla fede non possono vederci contrapposti ma desiderosi entrambi di approfondire il tema perché quelle domande, quelle contraddizioni sono dentro ciascuno di noi. Ciascuno di noi è al tempo stesso credente e dubbioso, pieno di speranza e disperato, fiducioso in un aldilà e timoroso della morte. Ne parleremo, ma intanto lei mi chiede dell'egoismo. Vede, io non sono affatto certo che il livello dell'egoismo sia aumentato rispetto ai secoli passati. Certo ci sono segnali drammatici in questa direzione; penso alla crudeltà delle guerre tra diverse e intolleranti etnie, alle stragi che ne sono derivate; penso anche al dilagare della corruzione, alle mafie, all' ossessione di privilegiare su tutto il proprio avaro interesse calpestando quello degli altri e rifiutandogli ogni comprensione. Purtroppo questi fenomeni non sono esclusiva caratteristica della società moderna: li abbiamo in retaggio a cominciare da Caino. Ma accanto a questi aspetti che violano i valori più alti della dignità umana, altri ve ne sono che infondono fiducia e speranza: la partecipazione con la sofferenza delle vittime e la sensibilità verso gli sconfitti, per esempio, hanno raggiunto proprio in questo scorcio di secolo un' intensità mai vista prima e così pure la partecipazione di un numero imponente di giovani al volontariato, all' assistenza ai poveri, ai derelitti, ai vinti. Non si tratta di fatti isolati ma di fenomeni di massa perciò non mi sento di affermare che il livello dell'egoismo sia aumentato e quello della moralità sia in declino. Ma ho invece un' altra e profonda preoccupazione: nel nostro secolo ci sono state ideologie che hanno legittimato o tentato di legittimare l'egoismo, quello di gruppo, di etnia, di nazione; ideologie che hanno chiamato luce le tenebre e tenebre la luce. Questo io temo soprattutto: la legittimazione ideologica del male e questa sì, è una paurosa novità dell' epoca nostra.

Lei ha ragione, signor cardinale, l'egoismo è un istinto dal quale la nostra umana condizione non può prescindere; direi un istinto biologico mirato alla sopravvivenza di ciascun individuo. La stessa cosa io penso della moralità: anch'essa si fonda su un istinto che mira a tutelare la sopravvivenza della specie. Il conflitto tra queste due pulsioni è costante e avviene in ogni momento dentro di noi, a volte prevale l' uno, a volte l'altro...

MARTINI - Venne detto a Caino: "Il peccato sta alla tua porta, ma tu dominalo". Ma io non credo che si tratti soltanto di due istinti di natura biologica come lei sostiene.

Lei pone nel divino la spinta verso il bene, io ne ravviso l'origine nella stessa nostra natura umana.

MARTINI - La differenza c'è ed è radicale, ma mi lasci dire che mi conforta constatare che anche chi, come lei, non crede, sente tuttavia un così profondo radicamento del sentimento morale nella natura umana.

Lei parlava prima di ideologie legittimanti l'egoismo di gruppo, di etnia, di potenza e ricordava le sofferenze e i massacri che ne sono derivati. Quelle ideologie sono cadute, infrante dalla loro follia e dal loro porsi contro la natura stessa degli uomini. Ma al loro posto ne è cresciuta un'altra, più sottile, priva per fortuna degli esiti feroci di quelle crollate, ma non meno insidiosa e devastante per le coscienze. Parlo dell' utilitarismo che sta ormai dilagando su tutto il pianeta. Non pensa, signor cardinale, che anche questa vera e propria ideologia rappresenti un pericolo per il sentimento morale?

MARTINI - Infatti mi preoccupa molto. Anch'essa tende a legittimare l' egoismo degli individui a scapito della moralità solidale e chiama luce ciò che ai miei occhi è tenebra, come diceva Isaia. Essa di fatto codifica il diritto dei forti a prevalere sui deboli cioè l' opposto delle beatitudini evangeliche. Ma vede, c'è un'altra ideologia che mi preoccupa e che si va anch'essa diffondendo ed è uno scetticismo diffuso, un disimpegno dai valori forti, la convinzione che nulla vi sia nella vita che valga la pena di realizzare se non il proprio piacere e la propria istantanea felicità. Ci si disimpegna dal rischio e dalla responsabilità, non si vuole crescere, si vuole restare in un'infanzia non più innocente ma comunque non responsabile, si rinviano i matrimoni, la procreazione, la fatica, ci si rifiuta di darsi carico degli altri. Insomma si gioca, si coglie l'attimo e nient'altro.

Mi scusi, cardinal Martini. Lei descrive una società ludica e infantile che sfugge al senso di responsabilità e vede questa tendenza contemporanea come un fatto degenerativo. Sono anch' io della stessa opinione, ma lei attribuisce questa degenerazione allo scetticismo, quindi introduce nel nostro dibattito l' antica contrapposizione tra la fede da un lato e dall' altro l' atteggiamento critico che privilegia la ragione. Non dimentichi che ci sono scettici che hanno dimostrato un profondo impegno morale. Mi sta sulla punta della lingua il nome di Voltaire e la sua vita spesa nella difesa della tolleranza e dei deboli contro l' arbitrio dei potenti.

MARTINI - Non pensavo allo scetticismo nobile, filosofico, di anime forti. Pensavo piuttosto all' indifferenza verso  tutto ciò che non sia l'effimero piacere da cogliere giorno per giorno. Lei mi sta chiedendo in pratica a che punto è, dal nostro punto di vista, la disputa secolare tra la Chiesa e l'Illuminismo dal quale ha preso le mosse gran parte di quello che viene chiamato il pensiero moderno. Ebbene, certamente nel secolo scorso quella polemica raggiunse da entrambe le parti toni aspri ed eccessivi. Oggi la cultura post-moderna formula nei confronti dell'Illuminismo la stessa critica che la Chiesa gli rivolse fin dall'inizio: d' aver gettato il seme giacobino della concezione totalitaria della società.

E la Chiesa, monsignor cardinale, non ha imparato nulla da quel confronto?

MARTINI - Ha imparato, eccome. La Chiesa ha imparato il valore della libertà politica e non ne ha più paura. Anzi ne ha fatto la sua divisa. Le sembra poco?

Mi sembra moltissimo purché lo si riconosca. La ringrazio per averlo detto. Le pongo un'altra domanda, se permette: lei non pensa che ci sia qualche rapporto tra un certo ottundimento del senso morale e un evidente declino del sentimento religioso nel mondo?

MARTINI -L'argomento è complesso, cerchiamo di analizzarlo con chiarezza. A me non pare che ci sia un declino del sentimento religioso ma certamente c'è un indebolimento delle grandi religioni monoteistiche tradizionali. Affiorano e si diffondono altri tipi di religiosità, alcuni con una concezione molto vaga e indistinta del sacro, altri con una visione - come posso dire? - settaria e militante. La conseguenza è appunto un ottundimento dell'impegno e della responsabilità morale.

Lei pensa alle sette che si moltiplicano nelle società occidentali più tecnologicamente avanzate e pensa - mi par di capire - al fenomeno dei fondamentalisti.

MARTINI - Esattamente, è a questi due aspetti che penso.

Sono entrambe due devianze rispetto alla visione del sacro come è stato predicato e vissuto dalle grandi religioni monoteistiche e in particolare da quella cristiana. uole approfondire questi aspetti, signor cardinale? Perché queste due devianze incidono negativamente sull'impegno morale?

MARTINI - Vede, non sempre la religiosità coincide col bene. C'è una religiosità debole, vaga, quasi indistinta che tende a coincidere con il vitalismo. Direi con l'estasi, con l' ebbrezza. Lì allignano le sette. Le sette partono da un rifiuto della modernità ma non si propongono di operare per introdurre nella modernità elementi di correzione, bensì scelgono vie di fuga, sentieri che possono portare verso pratiche magiche e, a volte, in casi estremi e orribili, addirittura a pratiche di suicidio collettivo e ad altre consimili aberrazioni. L' altra devianza, come lei l'ha definita, è quella del fondamentalismo: la visione di un Dio talmente forte e violento da opporsi e schiacciare tutte le altre concezioni del sacro e del divino. Contro queste due distinte concezioni del sacro si pone la mitezza arcana del Cristo sulla croce. Essa si fa compagna di tutte le debolezze umane, di tutte le cadute, di tutte le contraddizioni e costruisce l'amore per l'altro, fosse pure il nemico, a partire dalla croce. Qui c'è il recupero dei valori di libertà, giustizia e fraternità e non esiste dunque alcuna contraddizione tra una forte identità cristiana e il pluralismo dell'ecumene.

Lei parla monsignore, me lo lasci dire, un linguaggio molto toccante. Evinco che l'immagine biblica del Dio degli eserciti è dunque interamente tramontata.

MARTINI - Erano eserciti angelici.

Le crociate, tutte le crociate, anche quelle che di tanto in tanto vengono indette ancora ai tempi nostri, non erano e non sono certo eserciti angelici...

MARTINI - La Chiesa di oggi non fa crociate. Semmai fa opere di missione, che sono tutt'altra cosa.

Lei parlava prima di difesa della vita, da non confondersi con i vitalismi di vario conio. Il tema della vita porta il nostro discorso su un terreno assai concreto, terreno di frontiera tra laici e cattolici: intendo tutta la questione dei rapporti sessuali in genere e di quelli della procreazione in particolare. Non vorrei discutere qui il tema dell'aborto, se ne è parlato tanto e ciascuna delle parti in contrasto è rimasta sulla propria opinione. Mi interessa piuttosto il suo parere sul controllo dell'esplosione demografica in atto in vaste aree del pianeta, che coincidono poi con le zone più povere e sottosviluppate. In quei paesi ostinarsi a non controllare le nascite non è tutela della vita ma semplicemente preparazione sicura di morte per i bambini messi al mondo in situazioni insostenibili.  Perché, malgrado l'evidenza dei fatti, la Chiesa insiste in un atteggiamento di condanna di ogni strategia di controllo delle nascite?

MARTINI - Lei ha ragione nell'indicare nell'esplosione demografica uno dei fenomeni più gravi che ci troviamo a dover fronteggiare, la Chiesa ne è perfettamente consapevole. Ma faccio due osservazioni: 1) il fenomeno avviene soprattutto in paesi poveri e poverissimi. In quei paesi la presenza e quindi l'influenza della Chiesa è minima. 2) Il problema del controllo delle nascite non ha rapporto con la religione ma con la cultura storicamente esistente in quelle zone. Detto questo, la Chiesa si è posta da tempo la questione della maternità e della paternità responsabile e della programmazione delle nascite. Certo, la Chiesa vuole che i metodi utilizzati siano conformi alla cultura dei luoghi e rispettosi della natura umana. Trovo francamente eccessivo far carico a noi dell'esplosione demografica; nei paesi di presenza cattolica importante le nascite sono semmai fin troppo rallentate, in Europa e in Italia in particolare.

Eminenza, come ci si sente ad esser pastore di anime in un paese dove i cattolici sono ormai una piccola minoranza? Forse in Italia i veri cattolici sono sempre stati una minoranza a dispetto della quasi totalità dei battezzati. Ma adesso il fatto è diventato palese e questo segna una differenza. Personalmente mi auguro che ciò migliorerà la qualità del cattolicesimo italiano. Qual è il suo parere?

MARTINI - E' vero, i cattolici impegnati sono sempre stati una minoranza ed è altrettanto vero che solo da poco i cattolici stessi se ne sono fatti consapevoli...

Lei dispone di qualche cifra, di qualche statistica?

MARTINI - Sì, ci sono molte ricerche in proposito. Vorrei utilizzare l'immagine d'un albero per farmi capire meglio. Un albero si compone di tante parti; diciamo la linfa, il midollo, la corteccia. La linfa sono i cattolici molto impegnati; secondo le cifre di cui dispongo rappresentano circa l' 8 per cento della popolazione. Il midollo dell' albero è costituito dai cattolici che frequentano regolarmente la messa e i sacramenti senza altri impegni particolari. Le varie rilevazioni oscillano da un minimo del 20 a un massimo del 40 per cento. Tutto il resto è la  corteccia: battezzati, con un minimo di educazione cattolica infantile e poi nessun altro contatto, anzi un allontanamento pressoché totale anche se non necessariamente ostile. Diciamo: indifferenza, estraneità. Non è facile amministrare pastoralmente una situazione così complessa. Lei dice che il fatto d' averne preso coscienza  ci migliorerà? Può darsi; uscire dall'indifferentismo anche in minor numero è comunque un progresso.

Nella sua ultima lettera pastorale di qualche mese fa e poi in successive pubbliche dichiarazioni lei formulò una critica molto severa al secessionismo di certi movimenti politici e affermò come un valore quello dell' unità nazionale. Vorrei chiederle: prese quella posizione per ragioni di opportunità politica o per considerazioni di indole morale?

MARTINI - La seconda ipotesi è quella giusta. Un vescovo non ha e non deve avere preferenze politiche, ma quando si rende conto che sono in gioco discriminazioni etnico-geografiche, che si alimenta l' esclusione degli altri dal benessere proprio, che si fa crescere un sentimento di superiorità e di disprezzo verso cittadini di altre regioni, lì allora siamo in presenza di quegli egoismi nefasti dei quali parlavamo all' inizio e lì è obbligo nostro di intervenire parlando alto e forte.

L'ultima domanda, signor cardinale. Voi dovrete ripresentare Dio alla società moderna se è vero, come molti di voi dicono, che è diventata terra di missione. Con quale immagine lo presenterete?

MARTINI - Con quella che ha sempre storicamente avuto e che non è né logora né inattuale; è anzi di grandissima modernità. Il divino si presenta nell'umiltà delle beatitudini: beati i poveri, beati i semplici, beati gli umili, beati i deboli e i sofferenti. Il divino ha anche il volto del santo di Assisi; il divino ci libera dall' angoscia della morte, infonde gioia nella vita e ci dà la certezza dell'aldilà. Noi ripresentiamo la mitezza di Gesù di Nazareth non in termini trionfanti e schiaccianti; Gesù non schiaccia nessuno, anzi è il Dio che si è fatto schiacciare per l'amore verso l'uomo. Ma vedo che ora faccio il pastore anche con lei, me ne scuso. Piuttosto lasci che per concludere il nostro incontro le ponga io due domande, spero che vorrà rispondermi. Prima domanda: siamo di fronte a grandi sfide ed è necessario che gli uomini di buona volontà le affrontino insieme anche partendo da culture e punti di vista diversi. Come possiamo capirci di più e aiutarci di più? Seconda domanda, questa molto personale: un laico non credente come lei, in che modo legge il senso globale della vita e dell'esserci?

Le sono molto grato per le domande che mi rivolge. Alla prima mi è facile rispondere che dobbiamo capirci meglio e di più. L'incontro di oggi può essere molto utile e non esito a dirle che personalmente ne esco più ricco e più consapevole. La seconda domanda mi obbligherebbe ad una lunga esposizione, troppo privata per interessare un pubblico così vasto e qualificato. Ma non voglio eluderla. Risponderò dunque su un solo punto ma che a me pare comunque quello centrale. Io considero la nostre specie come una delle tante del mondo animale perché noi siamo in tutto animali salvo che per una particolarità: noi guardiamo noi stessi dall'interno, possediamo una mente che riflette su se stessa ed abbiamo la consapevolezza di dover morire. L'insieme di queste facoltà si chiama coscienza ed essa è il nostro tratto distintivo, la nostra natura. Vede, cardinal Martini, io credo che, arrivato il momento della morte, null'altro vi sia, null'altro ci aspetti, ma questa convinzione non mi dà né disperazione né disimpegno. La consapevolezza del dover morire non è l' atto finale ma l'atto iniziale della vita di ciascuno, quello che condiziona tutto ciò che faremo poi. Noi sfidiamo la morte per tutta la vita ed è questo che ci spinge alle opere e all' impegno. Su questo terreno possiamo incontrarci, anzi ci siamo già incontrati.

MARTINI - Anch'io, voglio dirglielo, esco da questo incontro con più fiducia e maggiore speranza.

(L'articolo è apparso su Repubblica l'11 ottobre 1996)

(11 ottobre 1996) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/1996/10/11/news/il_laico_il_cardinale_e_il_paese_senza_etica-41738584/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Mali antichi insidiano il nostro fragile paese
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 11:55:23 am
L'EDITORIALE

Mali antichi insidiano il nostro fragile paese

di EUGENIO SCALFARI


Ho ancora nel mio cuore e nei miei pensieri l'immagine di Carlo Maria Martini mentre il popolo sfila davanti al suo feretro e gremisce il Duomo e la grande piazza di Milano dove per tanti anni esercitò la sua missione di Vescovo. Se n'è andato un padre che poteva anche essere un Papa alla guida della Chiesa in tempi così procellosi?

No, non poteva essere un Papa e non era un padre. È stata una presenza ancora più toccante e inquietante: è stato un riformatore che si era posto il problema dell'incontro tra la Chiesa e la modernità, tra il dogma e la libertà, tra la fede e la conoscenza. "Non sono i peccatori che debbono riaccostarsi alla Chiesa ma è il pastore che deve cercare e ritrovare la pecora smarrita". Così diceva e così faceva.

È morto nel pomeriggio di venerdì, i medici l'avevano già sedato, ma la mattina di giovedì aveva ancora celebrato la messa e mormorato dentro di sé il Vangelo perché la voce era del tutto scomparsa, le mani non reggevano più neppure l'ostia e non deglutiva. Ma la mente era vigile, la fede intatta e lui sorretto davanti all'altare ne era la prova vivente.

Pochi giorni prima aveva risposto ad un suo confratello che gli chiedeva quale fosse lo stato della Chiesa: "C'è ancora una brace ardente nel braciere, ma lo strato di cenere che la ricopre ha un tale spessore che rischia di spegnerla del tutto. Perciò bisogna disperdere quella cenere perché il fuoco torni a riaccendersi".

Chi l'ha seguito condividendone la fede dovrà ora impegnarsi a disperdere quella cenere ma dubito molto che si riesca. Chi ne ha apprezzato il coraggio e la modernità di pensiero dovrà farne uso per evitare che la modernità si incanaglisca nello schiamazzo e si impantani negli egoismi e nella palude dell'indifferenza.
Questo è il tema che oggi voglio affrontare. Lo dedico a lui per la sua lotta contro tutte le simonie. Quella lotta è anche la nostra e la sua immagine ci incita a restarle fedele.

* * *

Noi viviamo in un Paese arrabbiato, in un continente arrabbiato, in un mondo arrabbiato. Questa situazione non è normale. La rabbia sociale è un elemento permanente in ogni epoca perché in ogni epoca ci sono ingiustizie, invidie, rancori. Ma non dovunque, non in tutto il pianeta contemporaneamente. Questo invece sta accadendo. C'è rabbia in Siria, in Iran, in Palestina, in tutto il continente africano dal nord al sud e dall'est all'ovest; c'è rabbia in Russia, in Ucraina, in Cina, in Giappone, nelle Filippine. E in tutti i Paesi di antica opulenza, oggi in crisi, in perdita di velocità e costretti a darsi carico delle rabbie altrui e delle proprie.

La rabbia sociale accresce gli egoismi e ottunde la consapevolezza. Chi odia è posseduto da nevrosi di gelosa invidia e da istinti distruttivi. Chi odia vuole distruggere. La rabbia divide e al tempo stesso unisce, gli individui arrabbiati diventano folla, la folla è una forza anonima sensibilissima alle emozioni che evocano i demagoghi.

La demagogia è il climax ideale di questa fase e di solito  -  così insegna la storia  -  non ha altro sbocco se non la perdita della libertà. I demagoghi lo sanno ma rimuovono questo pericolo confidando nel loro virtuosismo di trattenere le folle agganciate al loro precario carisma.

Rabbie sociali, folle emotive, demagoghi che cavalcano quelle emozioni e ne diventano le icone; poi quelle stesse folle applaudiranno e isseranno sulle loro spalle i dittatori che imbavaglieranno le loro bocche e li legheranno alla catena della servitù.

La storia è gremita di esempi, ma noi ne abbiamo avuti in casa di recenti. L'arma di cui si servono sia i demagoghi sia i dittatori, che spesso sono le stesse persone e coprono gli stessi interessi, è la semplificazione. Le folle non sopportano i ragionamenti complessi, vogliono risposte immediate, vogliono emozioni forti, vogliono il nemico da abbattere, il traditore da linciare, il bersaglio sul quale concentrare i colpi.

I Paesi di antica democrazia possiedono anticorpi robusti che riescono di solito a contenere e a vincere il virus demagogico. Ma noi italiani non viviamo in un Paese di antica e solida democrazia.

La democrazia ha come condizione preliminare l'esistenza dello Stato. L'Italia ha uno Stato, creato appena 150 anni fa, che la maggioranza degli italiani non ha mai amato. Non lo amò quando nacque, si ribellò contro di esso tutte le volte che poté. Il fascismo nacque da una ribellione contro lo Stato che nasceva da sinistra e fu utilizzata dalla destra. Ne venne fuori lo Stato totalitario, cioè la negazione della democrazia.

Poi la democrazia arrivò, frutto delle catastrofi della guerra, ma quanto fragile! Basta una spinta, basta un buon venditore di slogan, basta una dose di antipolitica per ammaccarla e mandarla in pezzi.

Il procuratore generale dell'antimafia ha detto l'altro giorno che "menti finissime sono al lavoro per colpire le Procure e il capo dello Stato". Può darsi che sia così, ma non credo ci vogliano menti finissime. In un Paese nel quale alligna la furbizia e il disprezzo delle regole, basta una ciurma di demagoghi da strapazzo per provocare un incendio. I piromani mandano a fuoco ogni estate decine di migliaia di ettari di bosco e ancora non si è capito il perché.

* * *

I focolai dell'incendio sono numerosi ma il più esteso deriva dal fatto che l'economia europea è da un anno in recessione e ci resterà per un altro anno ancora. Noi siamo purtroppo in testa a questa classifica per una ragione evidente: siamo in coda nel tasso di produttività, di crescita e di investimenti; per di più abbiamo accumulato uno dei debiti pubblici più grandi del mondo.

Responsabilità? Generali. La politica ne ha molte perché ha sempre preferito guardare all'oggi anziché al domani; una responsabilità non minore ce l'hanno il capitalismo italiano, le lobby, le clientele. Anche i sindacati, forse un po' meno di altri ma comunque non trascurabili: hanno difeso più il posto di lavoro che il lavoro, favorendo in questo modo l'ingessatura del sistema produttivo e rendendo difficile la mobilità sociale. Questo non è un errore da poco, caro Landini.

Adesso molti di questi nodi sono arrivati al pettine e i sacrifici sono diventati necessari. Ma i sacrifici non piacciono a nessuno e scatenano la rabbia sociale. "Vengono colpiti i soliti noti". In gran parte è vero ma bisognerebbe anche capire che mille euro tolti a 20 milioni di persone dovrebbero salire a duecentomila euro se le persone fossero soltanto centomila di numero. Gli evasori ovviamente sono infinitamente di più e per quanto li riguarda il problema è la loro rintracciabilità.
Comunque: i sacrifici non piacciono a nessuno ed è quindi normale che creino disagio, in certi casi anche molto acuto. Poi ci sono focolai di incendio più ristretti nella loro estensione ma molto più intensi.

* * *

Uno di questi è certamente l'Alcoa che gestisce le miniere sarde di carbone allo zolfo. Quelle miniere  -  lo ricorda Alessandro Penati su la Repubblica di ieri  -  furono aperte a metà dell'Ottocento. Poi furono chiuse perché il carbone di quella qualità non aveva mercato e la sua produzione era antieconomica. Ma poiché in quella zona della Sardegna non c'erano altre risorse per creare lavoro, la sequenza di aperture, chiusure e riaperture delle miniere fu continua ed è durata fino ad oggi passando dallo Stato all'Iri, all'Enel, all'Eni. Infine anche l'Eni chiuse perché il carbone allo zolfo non lo comprava nessuno.

Lo Stato però riuscì a vendere le miniere alla società canadese Alcoa che produce alluminio ed ha bisogno di carbone. Il costo di quello del Sulcis era fuori mercato e l'Alcoa accettò il contratto solo se lo Stato gli avesse fornito l'energia elettrica necessaria alla produzione di alluminio a prezzo sussidiato. Il contratto è durato 15 anni, il sussidio è stato pagato da ciascuno di noi nella bolletta dell'energia elettrica. Adesso è scaduto e lo Stato non lo ha rinnovato, per cui l'Alcoa se ne va salvo nuove trattative per nuove soluzioni.

La rabbia dei cinquecento minatori si è almeno in parte placata dopo l'annuncio dato dal ministro Passera a trecento metri di profondità e forse una soluzione sta per essere trovata.

È invece ancora in altissimo mare la questione dell'Ilva di Taranto. La riassumo con le parole del giovane attore Riondino che è uno degli esponenti nel movimento di protesta tarantino: "I lavoratori dell'Ilva, compreso l'indotto, sono diciottomila. Diciamo pure che considerando il sub-indotto arrivino a trentamila. Sono molti e la chiusura dell'azienda per loro è una catastrofe. Ma la popolazione di Taranto, compresi quei trentamila lavoratori, è di 186 mila abitanti, tutti quanti, bambini e neonati compresi, respirano polvere di carbone dalla mattina alla sera: un'incubazione che passa da una generazione all'altra e che mette Taranto al più alto livello di tumori delle vie respiratorie".

Questo è il problema. La rabbia dei lavoratori si somma a quella di tutti gli abitanti per due ragioni diverse anzi opposte: il lavoro e la salute. I sindacati e le parti politiche di riferimento vorrebbero conciliare le due cose, ma ci vuole molto tempo e moltissimi soldi che lo Stato non ha. E quindi la rabbia infuria.
Di esempi analoghi c'è una lista lunghissima. Ciascuno produce rabbia. I motivi, le cause, le responsabilità sono diversi, ma tutto si unifica. Agitate con energia e il cocktail è pronto.

* * *

Tanti fiumi più o meno fangosi si uniscono a valle in un solo grande fiume e un solo delta, ma quel delta diventa palude perché manca  -  vedi caso  -  la liquidità.

Nel caso specifico la liquidità è Draghi che dovrebbe darla e a quanto risulta sembra deciso a farlo. Darà battaglia il 6 prossimo al Consiglio direttivo della Bce e aspetterà il 12 la sentenza della Corte costituzionale tedesca sul fondo salva-Stati. Poi si muoverà. Forse, per superare l'opposizione della Bundesbank, chiederà l'ok dell'Ue e Monti dovrà fare in modo di farglielo avere impegnandosi ad un calendario rigoroso per attuare iniziative già approvate dal Parlamento che attendono però i decreti attuativi.

L'intervento di Draghi sarà della massima importanza per uscire dal pantano, mitigare le rabbie, depotenziare i demagoghi e consentire che Monti porti a termine il suo lavoro con l'appoggio indispensabile del presidente della Repubblica, senza il quale saremmo da un pezzo finiti nell'immondezzaio dell'Europa.

Ma è anche necessario uno sfondo politico per un'Europa politica. Ci sarà?

Il cardinale Martini si occupò anche di questo problema e lo espose con parole chiarissime dinanzi al Parlamento di Strasburgo dove fu invitato a parlare nel 1997. Trascrivo le sue parole a chiusura di questo articolo che ho a lui dedicato.
"L'Europa si trova dinanzi a un bivio decisivo della sua storia. Da un lato si apre la strada d'una più stretta integrazione politica che coinvolga i popoli europei e le loro istituzioni. Dall'altro ci può essere un arresto del processo di unificazione o una sua riduzione solo da alcuni aspetti economici e limitatamente ad alcuni Paesi".

Questo è il dilemma: la nascita d'una vera Europa in un mondo globale o la sua irrilevanza politica e storica. Gli italiani responsabili non possono essere indifferenti di fronte a questo dilemma.

(02 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/02/news/mali_antichi_insidiano_il_nostro_fragile_paese-41831471/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Per l'Europa o contro la scelta è questa
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2012, 08:44:50 pm
L'EDITORIALE

Per l'Europa o contro la scelta è  questa

di EUGENIO SCALFARI

Mario Monti è molto soddisfatto delle decisioni prese da Mario Draghi: le Borse europee sono state in netto rialzo dopo quelle decisioni, lo "spread" è in netto ribasso, la speculazione si è "accucciata". Ad un giornalista tedesco che gli domandava se l'euro avesse ancora un futuro il presidente della Bce ha risposto: "L'euro è irrinunciabile".

È vero, il piano d'azione deciso dall'Eurotower rappresenta una svolta epocale di questa crisi ed anche un rafforzamento significativo della Banca centrale, della sua indipendenza e dei suoi poteri. Ma, per quanto ci riguarda, è necessario un altro passo avanti del governo, del Parlamento e dei partiti: bisogna europeizzare l'Italia affinché l'Italia contribuisca efficacemente ad europeizzare l'Europa. L'ha detto con estrema chiarezza Giorgio Napolitano nel suo recente discorso di Venezia: l'Italia deve puntare sulla nascita d'uno Stato federale europeo e non può farlo se non europeizzando i propri comportamenti.

Monti ha già iniziato questo percorso ma ora si trova anche lui di fronte ad una svolta difficile: deve accettare le nuove "condizionalità", cioè ulteriori "compiti da fare a casa" ottenendo l'okay del fondo "salva Stati", senza il quale Draghi non renderà operativo il suo intervento per quando riguarda il nostro Paese.

Le Borse, l'abbiamo già detto, hanno festeggiato e lo "spread"
è calato di cento punti in pochissimi giorni, la speculazione è stata bloccata, ma questi positivi risultati non dureranno a lungo se l'intervento della Bce non diventerà operativo.

Tanto più se la Spagna, come è assai probabile, accetterà di chiedere l'okay del fondo "salva Stati". Se noi restassimo fermi nella nostra posizione di non chiedere quell'aiuto, la speculazione probabilmente lascerebbe in pace la Spagna e piomberebbe addosso a noi con rinnovato vigore.

Questo è dunque il passaggio che il nostro governo dovrebbe compiere e la maggioranza parlamentare che lo sostiene dovrebbe votare.

Per evitarlo senza conseguenze negative Monti ha in mente di creare un organo di controllo indipendente "in ambito parlamentare" che esamini quotidianamente tutti i provvedimenti in corso e dia il suo parere vincolante. In realtà questo organo esiste già in ambito parlamentare ed è il comitato di bilancio del quale è necessario il bollino di copertura prima che le commissioni competenti procedano sul merito. Fuori dall'ambito parlamentare ma nell'architettura costituzionale c'è poi la Corte dei conti. Non si vede dunque la novità della proposta allo studio.

***

In che cosa consiste il piano d'intervento della Bce è noto: acquisterà sul mercato secondario titoli pubblici con scadenze fino a tre anni, anche residuali rispetto alle date di emissione; la quantità degli acquisti sarà illimitata; la Bce non sarà un creditore privilegiato; nel frattempo il fondo "salva Stati" interverrà se necessario alle aste indette dal Tesoro italiano.

L'obiettivo è quello di far diminuire i tassi di interesse dei Paesi "aiutati" con l'obiettivo di armonizzare i tassi in tutta l'eurozona. Ma per ottenere questi risultati estremamente significativi i paesi interessati  -  e cioè Italia e Spagna  -  dovranno accettare ulteriori condizioni il cui adempimento sarà controllato dalla "troika" composta da Bce, Fondo monetario internazionale e Commissione di Bruxelles. Controlli trimestrali e risultati certificati dall'Eurostat.

Non è un commissariamento tipo Grecia, specialmente per quanto riguarda l'Italia che la maggior parte dei suoi "compiti a casa" li ha già fatti, ma certo è l'assunzione di ulteriori responsabilità. Mario Draghi ha fabbricato il "bazooka" per bloccare la speculazione e Mario Monti dovrà metterselo sulla spalla e farlo funzionare.
Non c'è molto tempo. Prima avverrà e meglio sarà per noi e per l'euro, cioè per l'Europa.

***

Non è detto che le "nuove condizioni" chieste dalla "troika" si concentrino su nuovi sacrifici, nuova fiscalità, nuovi tagli alla politica sociale. Da questo punto di vista infatti il governo Monti ha già fatto molto, a cominciare dalla riforma delle pensioni, da quella del lavoro, dalla lotta all'evasione, dalla riforma della sanità e da un inizio di riqualificazione della spesa. Il risultato è l'avanzo della spesa corrente che sfiora ormai il 4 per cento.

Se l'intervento della Bce farà diminuire il tasso di interesse, ogni punto in meno di quel tasso significherà una diminuzione di 16 miliardi annui nell'onere del Tesoro per il debito pubblico.

Con ogni probabilità le "nuove condizioni" riguardano dunque l'incremento della produttività, lo snellimento della pubblica amministrazione, una "spending review" più incisiva, una tassazione sulle rendite per eliminarle. Infine l'esecuzione rapida dei provvedimenti già approvati.

Le "nuove condizioni" hanno dunque un obiettivo che unisce il mantenimento del rigore e i presupposti della crescita. Se il nostro governo, dopo opportuni negoziati, arriverà all'accordo, entreremo in una fase nuova dove anche le istanze sociali potranno trovare più ampio accoglimento.
Ma le "nuove condizioni" hanno anche e inevitabilmente un risvolto politico: esse impegnano il nostro Paese fino a quando la crisi non sarà superata. Detto in modo ancora più chiaro, significa che il nuovo governo che si insedierà dopo le elezioni del 2013 avrà, per quanto riguarda l'economia nel suo complesso, la strada già tracciata. Alla pietanza in corso di cottura potrà aggiungere una manciata di basilico o di prezzemolo o di menta ma non molto di più.

Il rilancio contro la recessione vero e proprio sarà l'Europa tutta insieme a doverlo sostenere e un'Italia in regola potrà dare un contributo di grande importanza. Quando il nostro Presidente della Repubblica parla di europeizzare l'Italia ed europeizzare l'Europa è proprio questo che pensa e che esorta a fare. Ben per noi se seguiranno la sua esortazione.

***

Alcune forme d'opposizione hanno preso iniziative che si definiscono da sole. Roberto Maroni ha lanciato un referendum leghista che riserva l'uso dell'euro alle sole regioni virtuose (ovviamente del Nord). Le altre tornino alla liretta d'un tempo.

Antonio Di Pietro invece ha avuto un'altra pensata: raccogliere le firme e indire un referendum per l'abolizione dell'articolo 18 del codice del lavoro. Vendola si è associato. Acqua fresca per racimolare qualche voto vagante ma incitare le piccole imprese a scomparire nel sommerso.

Immaginiamo per amore d'ipotesi che i voti populisti di questo tipo si raccolgano insieme e mettano in imbarazzo la maggioranza parlamentare futura o addirittura la scavalchino come reagirebbero i mercati? E immaginiamo che quel bel ragazzo di Matteo Renzi, abilissimo nell'arrampicarsi sulla pertica dell'"outsider", sia lui a guidare un moncone dell'ex Pd insieme ad un moncone del Pdl e spetti a lui di rappresentarci in Europa. Il presidente della Bundesbank un'ipotesi del genere per buttare l'Italia fuori dall'euro se la sogna la notte.

***

Angela Merkel sta attraversando un passaggio molto stretto. I falchi della Bundesbank non si limitano a manifestare il loro dissenso dalla politica di Draghi votandogli contro nel Consiglio direttivo della Bce, ma lo attaccano ripetutamente e radicalmente sui giornali di mezzo mondo in compagnia dei liberali e della Csu bavarese e perfino di alcuni "colonnelli" del partito della Cancelliera. Gran parte dell'opinione pubblica tedesca è con loro, non vuole che la Germania ceda sovranità all'Europa spendacciona. Rifiuta l'Europa ed auspica che la Corte costituzionale di cui si attende il verdetto il 12 prossimo, dichiari incostituzionali i fondi "salva Stati".
Che cosa farà la Cancelliera nei prossimi giorni per bloccare quest'offensiva? Tra le varie ipotesi c'è quella che attribuisce alla Merkel l'intenzione di pretendere per il suo governo la supervisione sulle "nuove condizioni" da imporre ai Paesi che chiedano l'auto del "salva Stati", ma si tratta di un'ipotesi priva di senso: le "nuove condizioni"  -  se la Spagna e anche l'Italia decideranno di chiederle  -  prevedono il controllo della "troika" (Bce, Commissione Ue, Fmi). La Germania è ampiamente rappresentata in tutte e tre le istituzioni; inoltre la Bce è indipendente dai governi, sicché quest'ipotesi non sta in piedi.

In realtà la Merkel ha un'altra strada da seguire, che ha già imboccato da alcuni mesi senza però farne il centro della sua politica. Adesso è venuto il momento di porre come obiettivo primario la fondazione dello Stato federale europeo del quale la Germania non può che essere il perno di sostegno.

Ciò significa dare la priorità  -  almeno per quanto riguarda la politica economica e sociale  -  all'Europa rispetto agli Stati nazionali. Se sceglierà questa la strada, la prossima campagna elettorale tedesca si svolgerà all'insegna d'una scelta tra Europa e Germania.

Stando agli attuali sondaggi non c'è dubbio che l'opinione pubblica tedesca sceglierebbe la "nazionalità" e rifiuterebbe l'europeizzazione, ma un risultato del genere farebbe saltare l'intera costruzione europea a cominciare dalla moneta comune. Questa è una responsabilità che per ragioni se non altro storiche la Germania non può assumersi.

Infine: le previsioni dell'Ocse dicono che nei prossimi due trimestri il Pil tedesco sarà negativo, rispettivamente dello 0,2 e dello 0,8 per cento. Recessione dunque anche in quel paese fin qui considerato il motore del continente. Se la previsione sarà confermata la Germania avrà un disperato bisogno d'una politica di rilancio della domanda e degli investimenti, che è l'esatto contrario di quanto predicano gli avversari di Draghi
L'europeizzazione degli Stati nazionali è la sola strada pensabile e questa è la sfida che tutti ci coinvolge, Germania in testa. La Cancelliera ha la capacità politica di percorrerla ponendola fin d'ora al primo posto nell'ordine del giorno dell'Europa.

L'Italia non può che essere parte attiva di questa partita. Monti ha sempre sostenuto questo obiettivo, Napolitano altrettanto e non a caso l'ha richiamato nel suo discorso di Venezia e lo richiamerà ancora proprio oggi a Cernobbio. Noi abbiamo una campagna elettorale ormai imminente. Se le forze politiche la smetteranno di "pettinare le bambole" (come ha scritto Alfredo Reichlin sull'"Unità" di ieri) e capiranno che anche per noi è venuto il momento di porre la costruzione dell'Europa al centro della politica italiana, si sarà compiuto un passo avanti fondamentale. Oppure, nel caso contrario, un passo indietro drammatico perché il baratro in cui non siamo caduti è ancora lì, aperto e a poca distanza.
 

(09 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/09/news/per_l_europa_o_contro_la_scelta_questa-42199643/?ref=HREC1-3


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Martini non sarà santo
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:26:51 pm
Opinioni

Perché Martini non sarà santo

di Eugenio Scalfari

All'interno della Chiesa non aveva una sua corrente. La Curia e la segreteria vaticana lo vedevano come un disturbatore. Quindi ora le gerarchie cercheranno di 'annetterlo', ma di far dimenticare le sue tesi

(11 settembre 2012)

Il cardinale Martini, finalmente per lui, è andato in pace. Il popolo l'ha salutato con cordoglio e affettuoso rispetto; le autorità della Chiesa e quelle dello Stato gli hanno pubblicamente reso gli onori che meritava. Gli amici, cattolici e non cattolici, si sono stretti intorno alla sua memoria e al suo insegnamento. Ora è il momento delle interpretazioni. Confrontiamole.

ANZITUTTO LA GERARCHIA che amministra la Chiesa e di cui lui stesso ha fatto parte. Già vivo Martini è stato rispettato ma non amato dalla gerarchia, salvo poche eccezioni tra le quali segnalo quelle dei cardinali Silvestrini e Tettamanzi e di alcuni vescovi. Ma in Curia e nella segreteria vaticana era visto da alcuni come un disturbatore, comunque come un elemento estraneo. Il papa attuale ebbe motivi di riconoscenza perché alla terza votazione in Conclave fu la confluenza dei cardinali "martiniani" su Ratzinger a determinare la successiva fumata bianca. Ora che è morto, la gerarchia se lo annette con la consueta abilità.

Basta leggere le dichiarazioni del cardinal Forte che è uno dei pilastri dell'architettura ecclesiastica. La decisione di rifiutare l'accanimento terapeutico rinunciando all'alimentazione forzata? Una prassi riconosciuta e addirittura sostenuta dalla Chiesa. Paragonarla al caso Englaro? Chi lo fa non capisce la profonda differenza, fermo restando che Martini confermò a Forte, pochi giorni prima di render l'anima a Dio, che mai avrebbe preso decisioni che non fossero quelle dettate dal Signore alla sua coscienza. Il suo preteso "relativismo"? Una bestemmia solo a supporlo. La sua critica radicale alla Chiesa? Martini venerava papa Ratzinger e le sue critiche erano marginali e utilissime; di esse la gerarchia terrà adeguato conto.

Non so fino a che punto il cosiddetto popolo di Dio, cioè quello dei veri credenti e praticanti, concordi con l'interpretazione della gerarchia. Ma il popolo di Dio che conta non è la massa sparpagliata che si ritrova insieme alle messe domenicali. Nella Chiesa degli ultimi cinquant'anni il popolo di Dio si riconosce in alcune comunità organizzate e potenti, ciascuna delle quali ha un peso e i suoi punti di riferimento nell'architettura ecclesiale: Comunione e liberazione, Sant'Egidio, i Focolarini, l'Opus Dei, più alcuni Ordini della Chiesa regolare come i Salesiani, i Francescani e le loro varie famiglie, i Gesuiti. Una comunità martiniana non esiste e non credo esisterà.


La ragione è evidente: Martini era un riformatore, uno dei pochi nella Chiesa che venne rifondata dopo la scissione luterana. E' stato sepolto in Duomo accanto alla tomba di San Carlo Borromeo. L'accostamento è importante dal punto di vista della solennità; Carlo Borromeo fu uno dei pilastri della cattolicità nata dal Concilio di Trento e fu anche il pastore che invocò Dio per metter fine alla peste. Ma fu un contro-riformatore, cioè l'opposto di Martini.

QUALCHE ANTECEDENTE alle posizioni martiniane si può trovare nel modernismo che si manifestò ai primi del Novecento ed ebbe i suoi epigoni durante il pontificato di Pio XI che li liquidò definitivamente. Ma l'essenza del modernismo si riallacciava a Rosmini ed era soprattutto di carattere etico. L'etica è fondamentale anche per Martini, la lotta alle ipocrisie, alla casistica, alla temporalità del Papato: questi sono temi che accomunano Martini e i modernisti. Ma c'è in lui qualche cosa di diverso che va molto oltre: è il tema dell'incontro della Chiesa con la modernità che distingue Martini dagli altri ed è il suo grido d'allarme per le condizioni attuali della Chiesa.

Appena dieci giorni prima di morire, in un'intervista alla Bbc, Martini dice che «la brace della Chiesa, cioè lo spirito che deve pervaderla e la fede che deve alimentarla, sono ricoperte da uno strato di cenere il cui spessore è tale da spegnere quella brace. Il compito dei cristiani è di liberare il braciere da quella cenere per vedere di nuovo il fuoco della fede».

EPPOI VOLEVA CHE IL CONCILIO diventasse uno strumento di governo della Chiesa. La gerarchia amministra la gestione ordinaria attraverso le varie istituzioni, congregazioni, tribunali, ma l'essenza della religione, le questioni supreme, la convivenza tra il dogma e la modernità, siano appannaggio dei Concilii, da applicare a temi specifici, quello del celibato, il percorso della penitenza, la nomina dei Vescovi. Il papa è il vertice, ma il corpo della piramide sono gli episcopati e a loro compete la politica dell'ecumenismo, l'unità profonda delle religioni.

Dio non è soltanto cattolico e neppure soltanto cristiano; Dio è dovunque ed è di tutti. Queste sono bestemmie? Se lo sono per la gerarchia, allora Martini è stato un bestemmiatore. Se noi fossimo credenti lo vorremmo Beato, ma dubitiamo che il popolo di Dio riesca in questa iniziativa per la semplice ragione che nessuno la prenderà. Noi lo rimpiangiamo come maestro e amico, dal quale molto abbiamo imparato sul Figlio dell'uomo che per lui era il Figlio di Dio.


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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2012, 10:54:50 am

EDITORIALE
Chi guiderà tra sette mesi il governo e il Quirinale?

di EUGENIO SCALFARI

I MERCATI europei festeggiano gli ultimi eventi favorevoli alla tenuta dell'euro che pongono le premesse per un rilancio dell'economia reale, mentre sull'opposta sponda del Mediterraneo si è scatenata una vera e propria ondata di anti-americanismo quale non si vedeva da molto tempo.

Per ora assistiamo a due fenomeni che sembrano svolgersi su due diversi livelli, ma non è questa la realtà; i due livelli sono strettamente intrecciati l'uno con l'altro. Se l'ondata anti-americana non sarà al più presto contenuta il rischio è la sconfitta di Obama nelle presidenziali americane. Per l'economia europea sarebbe un colpo temibilissimo; mancano 50 giorni a quel voto che anche l'Europa attende col fiato sospeso.

Intanto i mercati privilegiano il bicchiere mezzo pieno e le ragioni non mancano: la Corte di Karlsruhe ha definito il fondo "salva-Stati" compatibile con la Costituzione tedesca; la Merkel ha dato a Draghi l'ok definitivo allo scudo anti-spread se sarà richiesto dalla Spagna e dall'Italia; le elezioni olandesi sono state vinte dai partiti europeisti; infine la Fed di Bernanke ha deciso di iniettare nell'economia Usa una marea di liquidità al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese per un periodo di almeno due anni.

Le condizioni d'un rilancio generale contro la recessione e a favore di nuova e maggiore occupazione ci sono dunque tutte e il buon andamento delle aste italiane di questi ultimi giorni ne sono la più visibile manifestazione.
 
Gli effetti sull'economia reale tuttavia non saranno immediati ma dovrebbero manifestarsi fin dall'autunno del 2013.
C'è tuttavia un problema tutt'altro che marginale che ha fatto la sua comparsa in modo imprevisto: che ne sarà della politica di Monti e della sua posizione personale dopo le elezioni del 2013? I governi europei vorrebbero che restasse alla guida d'un nuovo governo ma quest'ipotesi si scontra ora con un quadro politico italiano a dir poco confuso nel quale tutte le prospettive che fino a poco tempo fa sembravano plausibili sono invece saltate, le alleanze previste si sono rotte, la polemica tra i partiti e anche all'interno di essi si è trasformata in una lotta di tutti contro tutti. Infine la nuova legge elettorale il cui varo era stato dato per imminente, è diventato una "araba fenice".
Dicevamo che i mercati festeggiano ed hanno buone ragioni per farlo, ma sulla politica italiana batte invece la campana a martello. Gli italiani voteranno per l'Europa o contro di essa? Questo è il punto al quale le forze politiche non hanno ancora risposto e che anzi, a guardarle da come si stanno comportando, sembrano ignorare o addirittura non capire.

                                                                 * * *

Il governo Monti adottò un anno fa una politica di rigore che, pur con molti errori ed eccessivi annunci non sempre seguiti dai fatti, evitò che il paese precipitasse nel baratro del default. Contemporaneamente ha guadagnato all'estero e in particolare in Europa una credibilità che da tempo i nostri governi avevano perduto. Questa credibilità ci consente di riprendere il nostro posto al tavolo europeo e di esercitare un ruolo non marginale nella costruzione di un'Europa politica e federata.

Ma non sono solo queste le novità introdotte dalla svolta "montiana". Ce n'è un'altra che potrebbe produrre un mutamento addirittura rivoluzionario nella storia dell'Italia repubblicana ed è il ruolo delle istituzioni nel quadro costituzionale e politico.

Noi ci siamo abituati a considerare le istituzioni come altrettanti snodi delle attività dei partiti. Non è così, o meglio non dovrebbe essere così poiché non è questo il ruolo delle istituzioni in uno Stato di diritto nella sua versione di democrazia parlamentare.

Le istituzioni sono titolari dell'interesse generale, ciascuna nell'ambito della propria competenza, e rappresentano lo Stato. Il governo-istituzione rappresenta il potere esecutivo dello Stato, il Parlamento ne rappresenta il potere legislativo e quello di controllo sull'operato dell'esecutivo e della pubblica amministrazione; la magistratura rappresenta il potere giudiziario che è un potere diffuso e non gerarchicamente organizzato e per questo motivo i suoi membri necessitano di rigorosi comportamenti e di organi di autocontrollo poiché ogni magistrato è titolare del potere di giurisdizione nell'ambito del suo ruolo e dalle regole previste per quel ruolo non può discostarsi.

Anche le "autorità" sono istituzioni che esercitano le proprie competenze in nome dello Stato e con spirito di "terzietà" che è lo strumento caratterizzante dell'interesse generale.

I partiti non sono titolari dell'interesse generale e non possono ovviamente aver caratteristiche di terzietà proprio perché sono "parti". Sono invece (o dovrebbero essere) portatori di una loro visione del bene comune. In libere elezioni le varie visioni si confrontano e, secondo le decisioni del popolo sovrano, ne emerge una maggioranza e un'opposizione. In Parlamento vengono discusse e approvate le leggi e ogni intervento del potere esecutivo che abbia valore erga omnes. È molto delicato il rapporto tra Parlamento e governo: sono due istituzioni e rappresentano poteri distinti, ma la prima è formata da persone alle quali il popolo ha affidato il compito di realizzare la visione del pubblico bene che ha ottenuto la maggioranza dei consensi. Il governo deve dunque operare nel quadro di quella visione per ottenere l'approvazione dei delegati del popolo ma il governo deve anche aver ben presente la totalità dei cittadini e quindi deve inquadrare la visione del bene comune della maggioranza nel quadro dell'interesse generale. Quando queste due diverse angolazioni non trovassero una sintesi il governo va in crisi oppure il Parlamento viene sciolto e si torna dinanzi al popolo sovrano.

All'indomani della fondazione dello Stato unitario centocinquanta anni fa questa delicatissima questione del rapporto tra i partiti e le istituzioni rappresentò uno dei problemi principali dei governi chiamati ad amministrare lo Stato. Uomini come Minghetti, Spaventa, Bonghi, Lanza, Zanardelli, ne discussero a lungo; magistrature speciali furono create a tutela della terzietà della pubblica amministrazione.

A guardar bene, la storia politica dell'Italia è stata scandita principalmente dal rapporto tra le istituzioni e la politica, tra l'interesse generale rappresentato dallo Stato e quello dei partiti e delle associazioni che ne rappresentano varie visioni e interpretazioni. Entrambe queste realtà costituiscono elementi essenziali della politica; compito dei partiti è di imprimere dinamismo allo Stato attraverso riforme che ne modernizzino il funzionamento e ne aggiornino gli obiettivi; compito delle istituzioni è di impedire che le leggi siano violate e che la distinzione dei poteri si indebolisca favorendo così interessi particolari a detrimento della generalità.
La novità che ha avuto Napolitano come autore e Monti come strumento di attuazione è stata esattamente questa: recuperare la terzietà delle istituzioni e ricondurre i partiti al loro compito che è quello di mettere le istituzioni a contatto con il popolo.

Non è stato e non è un compito facile; la crisi economica in corso e il quadro globale dell'economia hanno accelerato e drammatizzato questo percorso introducendovi un tema ulteriore: la necessaria costruzione di un'Europa federata con cessioni di sovranità dai governi nazionali a quello europeo. In prospettiva dovrà nascere uno Stato europeo con istituzioni europee e popolo europeo. Questo è l'obiettivo del prossimo futuro. Susciterà incomprensioni e resistenze che già sono all'opera. La strada è lunga, la crisi economica ne rende il percorso al tempo stesso più accidentato e più necessario. Tra sette mesi il governo Monti cesserà le sue attività e la legislatura sarà conclusa; negli stessi giorni il Capo dello Stato avrà concluso il suo settennato. Si tratta purtroppo di una coincidenza che rende molto visibile il vuoto al vertice delle istituzioni. Come sarà colmato quel vuoto? Chi ci rappresenterà in Europa? Chi troverà la sintesi tra il rigore economico e il rilancio dello sviluppo e dell'occupazione? Chi risolverà quella questione morale che non è soltanto la lotta alla corruzione e all'evasione ma anche il recupero dell'autonomia delle istituzioni dal predominio dei partiti?

Manderemo Grillo a rappresentarci in Europa? Di Pietro o Diliberto a tutelare la salute degli abitanti di Taranto che respirano da mezzo secolo polvere di carbone e contemporaneamente a mantenere al lavoro i 18mila operai dell'Ilva? Manderemo Renzi a discutere con Draghi e con la Merkel sul futuro dell'euro? Oppure riaffideremo ai vecchi partiti e alle vecchie oligarchie, che hanno fallito l'obiettivo di rinnovarsi e adeguarsi alle nuove mappe del futuro, il compito di riprendere i loro posti dopo una parentesi solo dall'emergenza (che peraltro dura tuttora)?

                                                                 * * *

I cittadini chiamati a votare nell'aprile dell'anno prossimo avranno dunque molte questioni da risolvere con il loro voto. Le seguenti:

1 - Vogliono una nuova Europa capace di avere un suo ruolo nel mondo globale dove si confrontano i continenti, le loro economie, le loro monete, le loro politiche? Oppure rifiutano queste prospettive e preferiscono invece tornare alla lira e all'Italietta dei Montecchi e Capuleti?

2 - Vogliono che la nuova Europa  -  e l'Italia che ne fa parte  -  abbiano una visione politica dominata dal liberismo economico oppure da un socialismo dirigista oppure da un liberalsocialismo riformista che unisca insieme la libertà di impresa e di mercato con l'equità sociale e la lotta contro le diseguaglianze?

3 - Vogliono che l'interesse generale prevalga sulle lobby e le clientele oppure lo considerano una parola vuota di fronte alla concretezza degli interessi particolari che antepongono il presente alla costruzione del futuro?
Il nuovo Parlamento rispecchierà le risposte che gli elettori avranno dato a queste domande sempre che la legge elettorale registri gli orientamenti degli elettori tutelando la libertà e la governabilità. Il tira e molla sulla predetta legge ha ormai raggiunto un livello non più oltre tollerabile e il Capo dello Stato ha ben ragione di elevare contro questo modo di procedere la sua più indignata protesta.

Spetterà comunque al presidente della Repubblica eletto dal nuovo Parlamento di nominare il nuovo governo tenendo ovviamente conto che esso dovrà ottenere la fiducia delle Camere.

Non vorremmo più vedere il nome dei leader sulle schede elettorali e neppure vorremmo vedere delegazioni di partiti nei governi. Tutto questo appartiene ad un passato che non deve più ritornare. Non si tratta di giovani o vecchi secondo l'anagrafe ma di giovani o vecchi secondo le idee, il talento, la preparazione e l'umanità. Il resto è fuffa demagogica, purtroppo in Italia ce n'è in abbondanza.

(16 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/16/news/chi_guider_tra_sette_mesi_il_governo_e_il_quirinale_-42623282/?ref=HREC1-7


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Governo batti due colpi
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2012, 10:55:29 am
Opinioni

Governo batti due colpi

di Eugenio Scalfari

La Fiat che forse chiude gli impianti. E Mediaset che vuole La7. C'è un conflitto tra interesse pubblico e privato. E l'esecutivo ha più armi nel caso della tv che in quello dell'auto

(20 settembre 2012)

La Fiat (Marchionne) e Mediaset (Berlusconi) sono gli ultimi due casi di potenziali conflitti tra governo e imprese, tra interesse pubblico e interesse privato. Le dimensioni del conflitto e anche la sua natura sono molto diverse. L'intenzione di Marchionne di chiudere uno o due stabilimenti minaccia l'occupazione di alcune migliaia di lavoratori più quelli dell'indotto che vive attorno a quelle fabbriche e suona come campanello d'allarme per la scomparsa dell'industria automobilistica dal nostro paese.

Mediaset invece ha manifestato il desiderio di acquistare da Telecom l'emittente televisiva La7 e un gruppo di frequenze "multiplex". Quando quest'ipotesi diventasse realtà la posizione di Mediaset, già dominante nel settore privato dell'industria televisiva, diventerebbe monopolistica e dominante rispetto alla Rai. Qui per fortuna non sono in gioco posti di lavoro ma la pluralità dell'informazione che è cosa diversa ma altrettanto importante (forse addirittura più importante rispetto all'interesse generale).

LE FORZE POLITICHE e sindacali sono in allarme su entrambe queste questioni. Il governo sembra molto sensibilizzato sul problema Fiat e poco o niente su Mediaset. Ma si pone comunque per tutti e due questi conflitti tra interesse pubblico e privato una domanda fondamentale: quale potere ha il governo di intervenire sulle decisioni di un'impresa privata e con quali strumenti? La "Repubblica" ha affrontato le due questioni e quella Fiat in particolare. Luciano Gallino ha segnalato la responsabilità di Marchionne sulla mancanza di nuovi modelli capaci di risvegliare la domanda di auto e ha escluso che il governo possa assistere passivamente allo smantellamento della Fiat. Alessandro Penati ha invece sostenuto che Marchionne fa il suo mestiere, che i nuovi modelli non avrebbero alcun effetto in un momento di riduzione del reddito e di domanda calante e che il governo non ha alcuno strumento e alcun titolo per intervenire su imprese private.

Convinzioni analoghe potrebbero essere estese al conflitto tra interesse pubblico e quello privato di Mediaset. Per i miei gusti Penati è eccessivamente liberale ma nel caso Fiat ha purtroppo ragione: il governo non ha il potere di intervenire e non ne ha neppure i mezzi. Marchionne e anche i suoi azionisti di controllo - cioè il gruppo Agnelli-Elkann - debbono dare al più presto chiarimenti e rispondere alle domande che il governo gli porrà, ma sappiamo già quali saranno le riposte dell'amministratore delegato della Fiat: la riduzione della produzione è imposta dalla riduzione della domanda; se la domanda crolla la produzione si deve diminuire; se quel calo è temporaneo la manodopera esuberante sarà parcheggiata in cassa integrazione, le modalità e la dimensione dell'assistenza riguardano comunque lo Stato e non l'impresa. Ma se la contrazione della domanda è un fatto che l'impresa giudica permanente allora la chiusura di una o due fabbriche sarà inevitabile.

La Fiat è da tempo e sempre più un'impresa multinazionale. Perché per ridurre la produzione decide di chiudere impianti in Italia e non in altri paesi? Questi sono i termini di base del conflitto governo-Fiat. In un'economia globale, in un mercato libero come quello europeo la politica non ha strumenti per intervenire. Può solo richiamare l'azienda e i suoi azionisti alle loro responsabilità storiche ma, "moral suasion" a parte, non può far altro. Un tempo non era così. La Fiat si difese dalla concorrenza estera ottenendo per molti anni dazi e limitazioni all'entrata di automobili straniere in Italia soprattutto americane e giapponesi che avevano un costo di produzione molto più basso degli europei. Ma oggi quel tipo di difesa non esiste più. Aiuti dello Stato alle imprese sono vietati dai trattati europei. Il solo aspetto di competenza pubblica riguarda l'assistenza e la riqualificazione professionale dei lavoratori in esubero. Umanamente questa realtà è inaccettabile ma nel concreto le alternative sono pressoché inesistenti.

 DIVERSO E' IL CASO MEDIASET. Lì, qualora l'acquisto de La7 si verificasse, ci sarebbe una palese e devastante lesione del pluralismo in un settore estremamente delicato; in più esiste nel medesimo settore un'azienda legata allo Stato da un contratto di servizio pubblico, che risentirebbe anch'essa gli effetti di dover convivere con un concorrente proprietario di un numero di emittenti e di frequenze incomparabilmente più elevato.

I mezzi e le iniziative di cui dispone il governo sono numerosi a cominciare dalle famose aste delle frequenze tante volte annunciate e sempre rinviate. Qui non c'è "moral suasion", ma il dovere di contrastare un'operazione di turbativa della concorrenza, vietata dalla legislazione italiana ed europea.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/governo-batti-due-colpi/2191485/18/1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come arrivare al dopo Monti in buona salute
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2012, 09:39:39 am
L'editoriale

Come arrivare al dopo Monti in buona salute

di EUGENIO SCALFARI

La dichiarazione di Monti sul dopo-Monti, fatta a New York e riconfermata a Roma dopo il suo rientro dall'assemblea dell'Onu, è esattamente quanto si aspettavano le Cancellerie dei paesi alleati, i mercati e soprattutto i cittadini responsabili del nostro paese. Monti non parteciperà alla campagna elettorale e non ha posto una sua candidatura ad alcuna specifica carica elettiva. Ha semplicemente detto che qualora dopo le elezioni che si svolgeranno nel prossimo aprile il Parlamento e le forze politiche che usciranno vittoriose da quella consultazione avranno bisogno dell'opera sua, lui sarà disponibile.

Qual è la vera novità di questa dichiarazione, fatta ora per allora? La novità sta tutta nel linguaggio che in casi come questo è al tempo stesso forma e sostanza: un linguaggio non politico ma istituzionale, così come è istituzionale la sede dalla quale Monti ha parlato. È da undici mesi il capo dell'Esecutivo e si è rivolto al futuro Parlamento e al futuro presidente della Repubblica. Saranno nel prossimo aprile queste istituzioni a valutare se ci sarà bisogno di lui.

Il prossimo governo sarà certamente politico, ma anche questo lo è perché anche questo vive sulla fiducia che il Parlamento gli esprime. È composto da tecnici, ma lo stesso Monti offrì ai politici di parteciparvi. La partecipazione non vi fu perché il Pd la rifiutò e bene fece mettendo in tal modo la "strana maggioranza" nella giusta dimensione richiesta
dall'emergenza. L'emergenza purtroppo continuerà anche nella prossima legislatura ma la maggioranza sarà quella che gli elettori avranno scelto. In questo senso il nuovo Parlamento potrà esprimere una maggioranza non più "strana" ma portatrice d'una visione coesa del bene comune.

È implicito che l'elemento di fondo di quel bene comune è costituito dagli impegni che lo Stato italiano  -  attenzione, lo Stato non solo il governo  -  ha preso nei confronti dell'Unione europea. Quegli impegni consentono una limitata ma importante discrezionalità; possono accentuare il tema dell'equità e dell'eguaglianza einaudiana delle condizioni di partenza tra i cittadini oppure affidarsi alla diseguaglianza come stimolo dell'efficienza. Spetta al popolo sovrano scegliere tra queste due diverse opzioni nei limiti, come già detto, della loro compatibilità con gli impegni verso l'Europa.

Monti sa bene che la nuova maggioranza non sarà più "strana" ma effettiva e coesa. Questo non significa che Monti sia disponibile per qualsiasi maggioranza, ma a quella sin d'ora schierata per un futuro Stato federale europeo con la sua moneta comune e con una Banca centrale che abbia i poteri di tutte le Banche centrali di uno Stato. Questa è la maggioranza alla quale il nostro premier ha offerto la sua disponibilità e la sua credibilità internazionale, che di quella disponibilità rappresenta il tassello più importante e difficilmente sostituibile.
* * *
Restano comunque cinque mesi di lavoro al governo attuale e alla maggioranza che lo sostiene. I problemi che attendono soluzione sono i seguenti:
1 - Una nuova legge elettorale.
2 - La legge contro la corruzione.
3 - Una legge costituzionale che riesamini il titolo V della Costituzione per quanto riguarda le competenze tra Stato e Regioni.
4 - Il taglio della spesa corrente e la riduzione delle accise e delle imposte sui lavoratori e sulle imprese, cioè una riqualificazione fiscale nell'ambito del poco tempo disponibile.
5 - Ammortizzatori sociali capaci di attenuare le rabbie accese dalle crisi aziendali.

Sono cinque tematiche da far tremare le vene e i polsi, ma non possono essere eluse perché costituiscono il nucleo centrale dell'emergenza. Accoppiano rigore e crescita. Puntano su un accordo con le parti sociali per l'aumento della produttività.
Il contratto dei chimici ha rappresentato una buona partenza ed è molto deludente che la Cgil, dopo essere stato firmato dal segretario della categoria, l'abbia disconosciuto come Confederazione. La Camusso conosce bene le condizioni in cui si trovano l'Italia, l'Europa, l'Occidente. Un contratto che aumenta le ore di lavoro e quindi il salario per i giovani e le diminuisce per gli anziani rappresenta un patto generazionale che non accresce il rigore ma l'equità. Questa è la strada alla quale non ci sono alternative e va seguita per i molti altri contratti in scadenza se non si vuole che non siano rinnovati, con quanto ne seguirebbe sul potere d'acquisto dei lavoratori.

Il governo può e deve arbitrare questi conflitti se le parti sono disponibili al negoziato. La logica può cambiare quando cambiano le condizioni; pretendere che il cambiamento avvenga prima significa abbaiare alla luna.
* * *
Nel nucleo dell'emergenza c'è anche un altro tema e questo è eminentemente tecnico: il governo dello "spread". La contraddizione, apparente, riguarda il diverso andamento delle aste e del mercato secondario. Le aste vanno bene anche quella dei Bpt a 5 e a 10 anni, il secondario invece va male e influisce negativamente sul tasso di interesse praticato dalle banche con la clientela. Dipende dal contagio che proviene dalla Grecia e soprattutto dalla Spagna la quale, nei prossimi giorni, dovrà decidere se ricorrere all'aiuto del fondo salva-Stati e all'intervento della Bce.

Questa decisione probabilmente verrà presa nella prossima settimana.

Che cosa faranno Monti e Grilli a quel punto? Due scuole di pensiero si confrontano in proposito: c'è chi pensa che l'intervento della Bce in Spagna scoraggi la speculazione e si ripercuota favorevolmente anche sul mercato italiano; ma c'è invece chi sostiene esattamente il contrario. Personalmente credo che questa seconda tesi sia la più probabile; la speculazione abbandonerà la Spagna e si riverserà sull'Italia. La logica porta a questo, la speculazione, cioè le grandi banche d'affari e i fondi che puntano sul rischio realizzano i loro profitti giorno per giorno. Se abbandonano la Spagna sotto il randello di Draghi, si riverseranno probabilmente sul mercato italiano fino a quando anche noi chiederemo l'intervento dell'Esm e della Bce. Ma in quell'intervallo di tempo balleremo la rumba e non sarà un bello spettacolo. Sicché, se s'ha da fare è meglio farlo il giorno dopo la Spagna. La questione è certamente opinabile, la logica no.
* * *
Restano alcuni problemi che si riassumono in tre nomi: Polverini, Formigoni, Renzi.

Polverini si è dimessa. Era ora. Adesso deve indicare la data delle elezioni che debbono avvenire entro tre mesi. Così recita la legge. L'interpretazione estensiva secondo la quale entro tre mesi deve essere indicata la data delle elezioni che non avrebbe alcun limite di tempo, è del tutto insostenibile anche se così fece Montino che subentrò a Marrazzo e fissò la data a parecchi mesi di distanza dalle dimissioni del governatore. Allora nessuno fiatò, ma è un caso che non può fare precedente. Se lo facesse potrebbe avvenire che il presidente dimissionario alla fine del terzo mese indica una data elettorale a un anno di distanza e governa da solo senza Consiglio regionale. È sostenibile un'ipotesi di questo genere? Evidentemente no. Le elezioni debbono essere fatte entro tre mesi dalle dimissioni del Consiglio e del presidente della giunta. Se la Polverini si rifiutasse di seguire questa procedura il governo può nominare un commissario che stabilisca la data elettorale nei tre mesi previsti dalla legge.

Il caso Formigoni è altrettanto chiaro: un governatore già indagato di gravi reati non può guidare una Regione come la Lombardia. I consiglieri d'opposizione dovrebbero dimettersi subito e creare i presupposti di una crisi e di nuove elezioni. Non si capisce che cosa aspettino. Il precedente del Lazio è un pessimo precedente e c'è da augurarsi che i partiti della sinistra a cominciare dal Pd non ripresentino alle prossime elezioni nessuno dei consiglieri uscenti.

Renzi. Per quanto riguarda il suo programma politico, per il poco che risulta dalle sue carte e dalle sue prolusioni, si tratta di un'agenda generica che enuncia temi senza svolgerli. I temi sono quelli che campeggiano da mesi sui giornali, le soluzioni però Renzi non le indica. Quindi il suo programma è carta straccia.

Una sola cosa è chiara: Renzi sa parlare e richiama molto abilmente l'attenzione sotto l'oculata gestione di Gori, ex dirigente di Fininvest. Renzi piace perché è giovane. È un requisito sufficiente? Politicamente è molto più di centrodestra che di centrosinistra. Se vincerà le primarie il Pd si sfascerà ma non perché se ne andrà D'Alema o Veltroni o Franceschini, ma perché se ne andranno tutti quelli che fin qui hanno votato Pd come partito riformista di centrosinistra.

Non a caso Berlusconi loda Renzi pubblicamente; non a caso i suoi sponsor sono orientati più a destra che a sinistra e non a caso lo stesso Renzi dice che queste due parole non hanno più senso. Hanno un senso, eccome. Nell'equilibrio tra i due fondamentali principi di libertà e di eguaglianza la sinistra sceglie l'eguaglianza nella libertà e la destra sceglie la libertà senza l'eguaglianza. Questa è la differenza e non è cosa da poco.

Io sono liberale di sinistra per mia formazione culturale. Ho votato per molti anni per il partito di Ugo La Malfa. Poi ho votato il Pci di Berlinguer, il Pds, i Ds e il Pd. Se i democratici andranno alle elezioni con Renzi candidato, io non voterò perché ci sarà stata una trasformazione antropologica nel Pd, analoga a quella che avvenne nel Partito socialista quando Craxi ne assunse la leadership, senza dire che Craxi aveva una visione politica mentre Renzi non pare che ne abbia alcuna salvo la rottamazione. Francamente è meno di niente.

(30 settembre 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/30/news/come_arrivare_al_dopo_monti_in_buona_salute-43558769/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il convitato di pietra al tavolo del dopo-voto
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 03:57:23 pm
IL COMMENTO

Il convitato di pietra al tavolo del dopo-voto

di EUGENIO SCALFARI


La legge elettorale ancora non c'è anche se se ne comincia a intravedere una possibile soluzione. Le primarie del Pd non sono ancora state effettuate e l'esito dello scontro tra Bersani, Renzi e Vendola è ancora incerto. Le sorti del Pdl sono appese al filo delle decisioni di Berlusconi; potrà rappresentare ancora un 15 per cento dei voti o implodere dissolvendosi come nebbia al sole. Il centro moderato per il quale lavora Casini è un'ipotesi che fatica a tradursi in realtà.

In un quadro così agitato aleggia l'immagine di Mario Monti, una sorta di convitato di pietra la cui figura è variamente interpretata dai protagonisti della scena politica e mediatica. Per alcuni è un salvatore della patria, per altri un demiurgo, per altri ancora un tecnocrate che ruberà il posto ai politici e per i più pessimisti un moderno Cesare che affonderà per sempre la democrazia parlamentare come fin qui l'abbiamo conosciuta.

A tutti questi elementi d'incertezza aggiungiamone un altro non da poco: al momento della scelta del nuovo governo e della nomina del futuro presidente del Consiglio non solo ci sarà un nuovo Parlamento ma anche un nuovo presidente della Repubblica. Napolitano finirà in maggio il suo settennato; chi ci sarà al suo posto?

Queste domande non preoccupano soltanto noi italiani ma anche  -  e forse ancora di più  -  i nostri alleati europei e tengono in fibrillazione i mercati.

L'Italia, con la sua buona o cattiva salute economica e politica, rappresenta un elemento determinante per la solidità della moneta comune e per l'evoluzione di tutto il continente dalla attuale confederazione alla federazione, cioè alla nascita di un vero e proprio Stato europeo.
Un'Italia risanata è indispensabile e preliminare ad un'Europa federale, un'Italia perennemente ammalata blocca invece qualunque speranza di futuro europeo.

Ho la sensazione che questo nostro peso sull'evoluzione politica del continente non sia ben chiaro ai cittadini che andranno alle urne nell'aprile del 2013; soprattutto che non sia ben chiaro alle forze politiche, preoccupate soltanto o principalmente delle loro fortune elettorali.

In realtà il senso del voto che il corpo elettorale sarà chiamato ad esprimere sarà in primo luogo a favore o contro l'Europa unita, a favore o contro della moneta europea, a favore o contro la cessione di sovranità dagli Stati nazionali al nascituro Stato federale europeo.

Naturalmente ci sono anche altri elementi che caratterizzeranno quel voto e riguardano il colore politico che assumerà la futura democrazia europea: se sarà più orientata verso l'equità e la socialità oppure verso il liberismo; se sarà riformatrice o conservatrice; se privilegerà l'eguaglianza nella libertà o la libertà senza l'eguaglianza. Questioni certamente della massima importanza, ma destinate ad alternarsi come sempre avviene nelle democrazie funzionanti. La prima e fondamentale questione da decidere però riguarda il futuro dell'Europa e il contributo che l'Italia può e deve dare alla costruzione di quel futuro. Le forze politiche e i cittadini elettori debbono farsi carico del fatto che questa scelta precede tutte le altre e che sarà questa la domanda numero uno alla quale le urne dovranno fornire la risposta.

* * *

Mario Monti è ben consapevole della necessità di questa scelta ed è per questo, per rassicurare i governi europei e i mercati, che si è dichiarato disponibile a servire il suo (il nostro) paese se questo sarà necessario e nel ruolo che sarà ritenuto opportuno. Le forze politiche hanno già dato le loro prime risposte, gli elettori le daranno tra sei mesi.
Noto tra parentesi che molti dicono e scrivono che bisogna sottrarsi all'influenza dei mercati. Dicono una banalità priva di senso. I mercati determinano il tasso di interesse oltre a molte altre grandezze. Il tasso dell'interesse è il regolatore del nostro andamento economico. Quindi liberarsi dal peso dei mercati è parlare a vuoto non conoscendo la realtà.

Chiudo la parentesi.

Alcune forze politiche sono decisamente contrarie sia all'Europa sia alla moneta comune. Grillo è contrario al 100 per cento, Di Pietro all'80 per cento, la Lega al 50 per cento.
Berlusconi va a corrente alternata: alcuni giorni parla contro l'euro, altre volte si esprime come Mario Draghi; oscilla tra Storace e Frattini; a volte vagheggia di andare in vacanza permanente ai Caraibi e altre volte di sedersi al Quirinale al posto di Napolitano. Insomma, è una carta coperta non per segreti calcoli ma per mutamenti di umore.

Casini e il centro moderato da lui vagheggiato sono favorevoli all'euro e all'Europa federata; il Pd anche, ma sia l'uno che l'altro danno grande importanza ai contenuti politici: Casini ritiene incompatibile il suo apporto ad un'Europa socialista, il Pd si ritiene incompatibile con un'Europa conservatrice.

Forse non hanno ancora messo a fuoco che nel corso dei prossimi cinquant'anni l'Europa potrà essere a volte guidata dai conservatori a volte dai liberali a volte dai socialisti, ma queste alternative avranno un senso se l'Europa esisterà come Stato. Altrimenti i singoli paesi (Germania in testa e figuriamoci noi) precipiteranno nella più totale irrilevanza. Di fronte alla competizione tra continenti gli staterelli europei non avranno alcuna voce in capitolo per quanto riguarda le scelte di fondo sui problemi della divisione internazionale del lavoro, delle politiche climatiche, dell'uso delle fonti di energia, dell'immigrazione, della bioetica, del commercio internazionale, delle politiche monetarie e valutarie.

Decideranno gli altri: gli Usa, la Cina, l'India, il Brasile, i paesi emergenti. Gli staterelli europei sono paesi di antica opulenza ma in declino; declino demografico anzitutto, ma presi isolatamente non avranno più la massa critica per discutere alla pari con le superpotenze e con le multinazionali. Saranno ammessi in anticamera ma non nella sala delle decisioni.

Queste verità vorrei che fossero capite, ma non mi faccio molte illusioni in merito.

* * *

Il nostro convitato di pietra può esser "richiamato in servizio" in vari ruoli se la nuova maggioranza emersa dalle elezioni lo vorrà.
Potrebbe essere eletto al Quirinale oppure gli potrebbe essere affidata la presidenza del Consiglio in un governo di ministri politici e tecnici, o infine gli potrebbe essere offerto il ministero dell'Economia e degli Affari europei. Sempre che dalle elezioni future emerga una nuova maggioranza. Per esempio Pd-Centro. Questa sarebbe la maggioranza ideale per proseguire il percorso verso la messa in sicurezza dell'euro e verso un'Europa federata.

Se una maggioranza del genere fosse numericamente insufficiente, bisognerebbe estenderla a quanto resterà del Pdl, ma questa estensione è del tutto improbabile. Personalmente la ritengo addirittura impossibile per il Pd: la "strana maggioranza" ha avuto un senso e continuerà ad averlo fino alla prossima scadenza elettorale, ma dopo non più, sarebbe considerata un tradimento per gli elettori del Pd e non posso immaginare che i dirigenti di quel partito abbiano nella mente e nel cuore (sì, in certi casi c'entra anche il cuore) di commetterlo.

Quanto al ruolo da offrire al convitato di pietra, la mia sensazione (posso certamente sbagliare ed essere smentito dall'andamento dei fatti) è che Monti rifiuterebbe sia la scelta del Quirinale, che comunque dipende dal voto del plenum parlamentare, sia quella del superministero economico. In realtà non resta che Palazzo Chigi da offrire all'attuale inquilino.

Ha scritto Giorgio Galli su Repubblica di giovedì scorso: "Il montismo rappresenta l'archetipo della politica come autorità, non come potere. L'idea cioè che la politica sia affare serio che dev'essere gestito da persone autorevoli per competenza e saggezza; un'idea certamente elitaria ma non antidemocratica solo se per democrazia non si intenda la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico. Il montismo è il contrario del politico populista e carismatico, è la rivoluzionaria restaurazione dell'immagine della politica da tempo perduta, dell'idea che è bene essere governati da uno migliore di noi piuttosto che da uno come noi o peggiore di noi".

Non saprei dir meglio di Galli e perciò condivido quest'immagine del montismo, comprendo la difficoltà che la politica professionale la faccia propria, ma auspico che sappia superare i suoi pregiudizi e i suoi limitati interessi. Il suo vero rinnovamento sarebbe proprio questo.


(07 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/07/news/scalfari_7_ottobre-44023265/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il lascito di Napolitano per svegliare l'Italia
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2012, 04:11:08 pm
IL COMMENTO

Il lascito di Napolitano per svegliare l'Italia

di EUGENIO SCALFARI

SECONDO alcuni (molti) l'Unione europea sta per affondare, questione di mesi se non addirittura di settimane. Secondo la giuria norvegese del premio l'Unione merita invece il Nobel per la pace, la guerra infatti è scomparsa dall'Europa ormai da sessant'anni, un periodo di pace così lungo non c'è mai stato nel nostro continente dai tempi di Ottaviano Augusto e scusate se è poco.

In realtà la gente di questa grande conquista che è la pace non se n'è neanche accorta. Probabilmente perché gran parte di quelli che avevano dieci anni nel 1939 sono morti e gli europei di oggi la guerra la conoscono soltanto attraverso i film e gli effetti speciali della televisione.

Dell'Europa però conosciamo bene i guai economici, i discordi interessi tra le nazioni e tra le classi sociali, la disperazione, il lavoro precario, le speranze perdute, le diseguaglianze crescenti, l'incertezza dei diritti, il malaffare dilagante, la politica sfiduciata, le istituzioni inquinate dalla corruzione. Il premio Nobel ad un'Unione europea che è vista e vissuta in questo modo da una parte cospicua e forse dalla maggioranza dei suoi abitanti, sembra dunque una presa in giro o una buffonata o un'ipocrisia. Eppure...

Eppure centinaia di migliaia di persone rischiano ogni anno la vita per arrivarci, per trovarvi un lavoro e metterci su casa e lasciano dietro di loro una tragica scia di morti pur di fuggire dall'inferno in cui vivono.

Scappano dall'Africa,
scappano dall'Oriente vicino e lontano, attraversano deserti, montagne, mari tempestosi pur di toccare terra sulle nostre coste. Sono già milioni e gli studiosi che esplorano il futuro ci dicono che tra cinquant'anni un terzo degli europei saranno colorati e alla fine del secolo la maggioranza sarà meticcia. Per loro l'Europa è la speranza anche se a molti europei d'oggi sembra piuttosto una terra di desolazione. La verità mai come in questo caso è relativa, ma una cosa è certa: qui da sessant'anni la guerra non c'è stata e i popoli europei vivono pacificamente tra loro, c'è libertà di movimento delle persone, libertà di scambio delle merci, libertà religiosa e politica. L'eguaglianza purtroppo no, è fortemente diminuita; i privilegi sono aumentati, la corruzione è più diffusa, l'egoismo domina la società portando con sé l'indifferenza verso il bene comune.

Ma questi lati oscuri che inquinano ed esasperano la vita pubblica del nostro continente non sono una fatalità alla quale è impossibile sfuggire; dipendono da una passività imputabile soltanto a noi stessi. L'Europa è stata la culla della democrazia e del diritto. È stata ed è ancora il continente più ricco del pianeta. Da un secolo in qua ha cominciato a vivere la sua decadenza, via via sempre più accelerata col passare degli anni. Ma se soltanto si svegliasse, se reagisse al declino, se riconquistasse fiducia in sé, se soprattutto capisse che il suo futuro dipende dal sentirsi nazione, nazione europea, popolo europeo, Stato europeo, democrazia europea; se questa rivoluzione avvenisse e fosse il coronamento dei sessant'anni di pace dopo mille anni di guerra durante i quali la pace fu soltanto una serie di brevi tregue per riprendere a scannarsi subito dopo; ebbene, se questo accadesse i nostri giovani potrebbero di nuovo sperare, ma non si aspettino che il dono gli cada dal cielo.

Noi adulti, noi anziani, noi vecchi che le guerre le abbiamo ben conosciute dobbiamo aprirgli la strada per quanto è possibile, dobbiamo mettere la nostra esperienza al loro servizio. Dobbiamo raccontargli il passato nel bene e nel male e spingerli a entrare nel futuro.
Il Nobel all'Unione europea è questo che deve significare: un augurio e un'esortazione. Voi giovani non lasciatela cadere.

* * *

Il primo dei Paesi fondatori che sarà chiamato a votare in Europa è ora il nostro. Negli scorsi mesi hanno votato la Spagna, la Grecia, la Francia, l'Olanda. Tra venti giorni voteranno gli Stati Uniti d'America: non è Europa ma è Occidente e dell'Occidente costituiscono ancora il perno dal quale dipende una parte non trascurabile del nostro destino. Il candidato "europeo" è Barack Obama, non c'è dubbio; ma non è certo una panacea, non ha fatto e non farà miracoli, tuttavia per l'Europa rappresenta il meglio (o il meno peggio) di quanto può accadere. Perciò speriamo che vinca e ottenga la riconferma alla Casa Bianca e la maggioranza democratica al Congresso.
Chi gli si oppone è il partito conservatore repubblicano, sostanzialmente isolazionista, ideologicamente liberista, assai poco cosmopolita e religiosamente fondamentalista. Da molto tempo le differenze tra i due partiti non erano così profonde. Profonde ma legittime in un Paese grande come un continente.

Ma l'aspetto più preoccupante è un altro: le grandi banche d'affari americane, quelle che dominano i mercati mondiali, sono tutte schierate contro Obama, con in testa la più influente di tutte, quella che conduce la danza ogni mattina, la Goldman Sachs con il seguito nella JP Morgan, Bank of America, City Group, Morgan Stanley e i grandi fondi d'investimento.

Questo formidabile schieramento di capitali e di talenti rappresenta il pilastro del capitalismo finanziario mondiale. Quattro anni fa sostenne Obama per riparare gli errori catastrofici di Bush; ora ha cambiato fronte perché Obama ha tentato di imporre regole severe ai mercati; c'è riuscito in piccola parte perché l'avversario è molto potente, ma ha deciso di riprovarci ancora e con maggiore energia. Perciò lo scontro questa volta sarà radicale.

Ci riguarda? Sì, ci riguarda molto da vicino perché questo capitalismo che ha notevoli alleanze in Europa vuole scardinare l'euro e con esso l'Europa stessa. Perciò le elezioni americane fanno parte della nostra partita e noi della loro.

* * *

Poi toccherà votare a noi italiani. Tra sei mesi. Le nuove Camere si riuniranno per eleggere i loro presidenti e il presidente della Repubblica che, per una sua definitiva e irrevocabile decisione non sarà Giorgio Napolitano. Molti di noi, ed io tra questi, hanno sperato che accettasse una riconferma la cui durata sarebbe comunque dipesa da lui, ma sarebbe stata opportuna per guidare la formazione del nuovo governo. A questo punto però non c'è che rassegnarsi alle sue decisioni; del resto non mancano validi candidati alla successione, anche se la sua esperienza, la sua moderazione e la sua fermezza non sono qualità facilmente rimpiazzabili.

Gli obiettivi sui quali Napolitano si è ora concentrato e che rappresentano il lascito più importante del suo settennato sono: la lotta contro la corruzione che ha pervaso la vita pubblica; il rinnovamento dei partiti e il recupero del loro ruolo di rappresentanza effettiva della sovranità popolare e di rigenerazione della democrazia parlamentare; la ferma determinazione di condurre fino in fondo il risanamento economico italiano, il rilancio urgente dello sviluppo, l'equità sociale e territoriale, la messa in sicurezza della moneta comune. Infine la nuova legge elettorale che ridia agli elettori la libertà di scelta dei loro rappresentanti e assicuri al tempo stesso rappresentatività e governabilità.

Non sono obiettivi facili anche perché non rientrano nella competenza operativa del presidente della Repubblica. Rientrano tuttavia in pieno nella sua competenza ordinamentale, poiché la Costituzione gli assegna di rappresentare la nazione, di tutelare il patto costituzionale, di difendere la struttura e lo spirito dello Stato di diritto e dei valori che vi presiedono. Il Presidente ha diritto di messaggio al Parlamento e al Paese. Non è lui che opera ma è lui che può e deve suggerire, ricordare, denunciare abusi e storture.

Non a caso la nascita del governo Monti e la sua tenuta sono state opera di Napolitano. Di questo tutti, compresi coloro che criticano la politica montiana, debbono dare atto e lo danno infatti (a parte Grillo e Di Pietro) se non altro ricordando il punto limite cui eravamo arrivati nell'autunno del 2011 sul piano della credibilità del nostro Paese di fronte al mondo e all'Europa.

Degli obiettivi che stanno a cuore a Napolitano il più urgente anche perché influisce su quasi tutti gli altri è la legge elettorale che è ancora in alto mare. I punti che sembrano acquisiti (anche se appena adesso arrivati all'esame del Senato e successivamente della Camera) sono due: il principio proporzionale corretto da un premio di governabilità e la restituzione agli elettori della scelta dei loro rappresentanti.

I punti controversi sono però parecchi: il sistema delle preferenze, voluto a tutti i costi dai centristi di Casini e il sistema dei collegi preferito dal Pd; l'ammontare del premio di governabilità sul quale il Pd gioca le sue carte mentre il centro e il Pdl sono assai più avari; l'ammissibilità al premio delle coalizioni o soltanto dei singoli partiti.

Sul nostro giornale in più occasioni (l'ultima ieri di Gianluigi Pellegrino) abbiamo motivato l'impraticabilità delle preferenze che esaltano il ruolo delle clientele, delle lobby e soprattutto della criminalità organizzata. I recenti episodi del Consiglio comunale di Reggio Calabria e del Consiglio regionale della Lombardia sono casi estremi ma purtroppo assai diffusi che le preferenze consentono e incoraggiano.

Quanto al premio di governabilità esso consente che la maggioranza parlamentare relativa possa governare con sicurezza; questa sicurezza è fondamentale per la solidità dei governi nei mari agitati attuali, ma va contemperata da un secondo e non trascurabile principio che è quello della rappresentatività.

Se un partito o una coalizione raccoglie il 30 per cento dei consensi e ottiene un premio del 20 per raggiungere la maggioranza assoluta, il sistema della rappresentatività viene stravolto tanto più tenendo presente che una quota rimarchevole di elettori non andrà a votare e dunque l'ammontare dei consensi rappresenta una quota minore rispetto alla totalità del corpo elettorale.
Il problema richiede saggezza da parte dei diversi interessati e un punto di mediazione che a noi sembra raggiungibile con il 15 per cento netto di premio (il 18 lordo). Probabilmente non basterà ad assicurare maggioranza assoluta ma questo in fin dei conti può essere un bene, saranno necessarie alleanze post-elettorali, la più appropriata delle quali è quella tra il centro e la sinistra democratica. Quest'ultima si va profilando con una coalizione che include Vendola ma sulla base di un patto proposto dal Pd in quanto partito di maggioranza della coalizione. Quel patto assicura la piena lealtà e il rispetto della traccia europea segnata da Monti e dagli impegni che l'Italia ha preso con le autorità europee; ma nel medesimo patto viene rilanciato il principio di equità sociale e territoriale e la creazione di nuovo lavoro. Il patto infine prevede e sottolinea la necessità d'un contributo italiano alla nascita dell'Europa federata che rappresenta l'obiettivo di fondo di tutta questa politica. Secondo le ultime notizie Vendola avrebbe aderito a questo patto e questo rappresenta un passo politico di notevole importanza. Se il popolo, se i giovani, se gli adulti, se tutti noi recupereremo fiducia e saggezza forse la luce in fondo al tunnel si farà vedere sul serio.

P. S. I bambini figli di coppie separate debbono essere cresciuti, educati e trattati con grande attenzione e affetto. Quanto è accaduto al bambino Lorenzo nei giorni scorsi non deve ripetersi mai più. La polizia, gli insegnanti e soprattutto i genitori se ne debbono fare carico e le leggi che disciplinano gli affidamenti senza ascoltare neppure a titolo puramente conoscitivo il parere del bambino da una certa età in su debbono essere riformate in modo appropriato. Quanto è accaduto in questo caso è vergognoso ivi compresa la denuncia della polizia per il reato di resistenza del nonno e della zia di Lorenzo. In casi analoghi dovrebbero resistere perfino i cittadini presenti. Non si tratta in quel modo un bambino "rapito" a scuola.

(14 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/14/news/napolitano_italia_scalfari-44490380/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Come votare alle primarie e alle urne d'aprile
Inserito da: Admin - Ottobre 21, 2012, 11:39:00 am
L'EDITORIALE

Come votare alle primarie e alle urne d'aprile

di EUGENIO SCALFARI


LA SETTIMANA che oggi si chiude è cominciata a Bruxelles, si è spostata a Roma tra Palazzo Chigi e il Senato, si chiude con le primarie del Partito democratico, precedute dal ritiro di Veltroni dalla carica parlamentare e da quello più "rabbioso" di D'Alema. Nel frattempo il berlusconismo continua a precipitare nel nulla, con gli ultimi sondaggi che danno il 5 per cento ad una lista guidata dal Silvio in versione Santanché. Enrico Mentana direbbe, come fa tutte le sere preannunciando i titoli del suo telegiornale, che c'è una mole di fatti drammaticamente interessanti, ma questa volta è proprio così.

Le conclusioni di Bruxelles penalizzano la Spagna: la Merkel ha dovuto accettare che la vigilanza della Bce su tutto il sistema bancario europeo abbia inizio alla fine del 2013 e sia compiuta nel 2014, ma ha sentenziato che nel frattempo non si estenderà alle banche spagnole. Ciò significa che il Tesoro spagnolo dovrà finanziare le proprie banche ormai prive di liquidità facendo aumentare il debito pubblico.

La domanda è questa: la Cancelliera tedesca esprime un'intenzione o ha il potere di trasformare l'intenzione in un precetto esecutivo? La risposta è no, per diventare esecutiva l'intenzione deve esser fatta propria dalla Commissione europea e questo finora non è avvenuto. L'Italia e la Francia non hanno alcun interesse a veder lievitare il debito di Madrid che è anche alla prese con le richieste di fondi dalla Catalogna e da altre regioni di
quel paese. La questione è quindi aperta e Monti e Hollande dovranno impegnarsi al più presto su questo terreno.

* * *

Monti dal canto suo ha ricevuto una pagella sostanzialmente positiva dalla Commissione per quanto riguarda la sua legge di stabilità, ma la medesima pagella è stata invece accolta con molte riserve dai partiti che lo sostengono in Parlamento.

Le critiche, specialmente del Pd, riguardano vari punti di notevole importanza: le detrazioni con un tetto troppo basso, l'aumento dell'1 per cento dell'Iva che annulla di fatto la diminuzione dell'Irpef, l'assenza di provvedimenti a favore dei redditi al di sotto degli ottomila euro. Il governo non si oppone a eventuali modifiche nel corso dell'iter parlamentare purché i saldi restino invariati. In questo caso la domanda riguarda le alternative di copertura: ci sono o non ci sono?

Le alternative ci sono: una maggiore incisività nella lotta contro l'evasione (anche la Commissione europea ci incita a procedere con più energia su questo punto); tagli più consistenti sulle spese correnti, sia quelle delle forze armate sia quella dei contributi alle imprese; il calo degli oneri sul debito pubblico che, a causa della discesa dello "spread", sono diminuiti di oltre cinque miliardi secondo le ultime stime.

Le cifre complessive di questi interventi sono molto consistenti; il recupero dell'evasione potrebbe fornire dieci miliardi in più del previsto, dei cinque miliardi ricavabili dal calo degli interessi abbiamo già detto; lo sfoltimento dei contributi alle imprese e la riduzione di spesa delle forze armate possono fornire economie fino ad almeno 50 miliardi.

Naturalmente la tempistica richiede parecchi mesi, ma siamo ad un totale realistico attorno ai 70 miliardi. C'è dunque spazio sia per cancellare l'aumento dell'Iva, sia per dare sollievo ai redditi di povertà, sia infine per ridurre il cuneo fiscale attuando per questa via un incoraggiamento alla crescita in attesa che la riforma delle pensioni e le liberalizzazioni entrino a regime.

A rinforzare questa politica economica in sostegno dell'economia reale si tenga presente la previsione (ufficiale) d'una diminuzione del fabbisogno di 40 miliardi nel 2013, con ripercussioni sull'andamento del debito nonché la cessione di alcuni "asset" alla Cassa depositi e prestiti per rendere finalmente esecutivi i crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione.

Cogliamo l'occasione di questo "panorama" per osservare che la diminuzione dello "spread" non è, come molti vorrebbero far credere, uno specchietto per allodole ma un fenomeno estremamente positivo per l'economia reale: riduce gli interessi sul debito pubblico e per conseguenza riduce anche l'interesse praticato dalle banche alla clientela e aumenta la propensione degli investitori esteri a sottoscrivere titoli e obbligazioni pubbliche sul mercato finanziario.

Ciampi a suo tempo stroncò la crisi finanziaria e valutaria che stava soffocando la nostra economia operando unicamente sull'altezza del tasso di interesse. Monti e Grilli stanno anch'essi procedendo su quel terreno che Ciampi aveva indicato. Le forze politiche che respingono come inefficace la cosiddetta agenda Monti guardino più a fondo a questi risultati prima di emettere giudizi temerari.

***

Nell'agenda così "questionata" c'era anche la lotta alla corruzione. Il ministro della Giustizia si è impegnato e ne è uscita una legge che ha ottenuto il voto favorevole del Senato e ora sarà discussa alla Camera dove il percorso è più incerto.

La Severino ha spiegato in un'ampia intervista al nostro giornale il perché della sua soddisfazione per quella legge, ha riconosciuto la validità di alcune critiche ma ha spiegato che le lacune evidenti del provvedimento in discussione non sono errori ma lacune volute che troveranno posto in un altro disegno di legge.

Questo è il pensiero della Severino ma, con tutto il rispetto per le opinioni del ministro, noi la pensiamo diversamente come ha scritto ieri Ezio Mauro.

È comprensibile il rinvio ad altro provvedimento (purché sia presto redatto e presto trasmesso al Parlamento) del ripristino del reato di falso in bilancio e di riciclaggio, ma non altrettanto per la riduzione della pena, e della prescrizione nel reato di concussione per induzione, spacchettato da quello per costrizione che si verifica molto più raramente.

La realtà è che quella norma avrà l'effetto di salvare molti concussori e di estinguere molti processi. Se entrerà in vigore costituirà anche un ostacolo alla sua successiva eventuale revisione avendo posto in essere un'attenuazione punitiva "pro reo" che sarà difficile capovolgere.

Almeno su questo punto, di estrema attualità, il governo dovrebbe emendare la legge o accettare eventuali emendamenti proposti dalle forze politiche più sensibili ai reati di cui si discute e sui quali c'è una profonda diversità tra i partiti dell'attuale maggioranza.

La neutralità del governo non può e non deve essere un limite alla sua azione su un terreno che investe in pieno non soltanto principi di moralità ma infligge anche pesanti danni all'economia e alla competitività dell'imprenditoria italiana.

Quest'ultima considerazione chiama in causa la produttività delle aziende, problema centrale della nostra crisi. Sembrava che le parti sociali stessero per raggiungere un accordo sul tema della contrattazione di secondo livello (aziendale) rispetto al contratto nazionale, ma poi tutto è saltato per iniziativa (corporativa e lobbistica) della Rete imprese e dell'Api e per l'opposizione della Cgil.

Il governo su questo punto è in regola: ha stanziato un miliardo e 600 milioni per detassare i salari se l'accordo ci sarà. Con tempi così grami opporsi all'accordo è un vero e proprio atto di autopunizione, sia da parte delle imprese sia del sindacato massimalista e populista in una fase storica che non consente errori così macroscopici.
Speriamo che le teste inutilmente calde si ravvedano, almeno di fronte al concreto rischio di essere abbandonate dai loro stessi seguaci.

***

Qualche parola per concludere questa rassegna, sullo stato dei partiti.

Il Pdl di fatto non c'è più. Il suo fondatore e capo non sa e non pensa. Ci vuole uno strappo, ha detto Giuliano Ferrara in un'intervista al nostro giornale. Ma non si capisce chi debba farlo e con quali obiettivi. Mantenere la Polverini ancora in circolazione non è cosa tollerabile: il ministro dell'Interno sa bene che la norma di legge in proposito è chiara: con un Consiglio regionale sciolto le elezioni debbono essere celebrate entro novanta giorni. O lo fa la Polverini o lo fa un commissario nominato dal Prefetto o dallo stesso ministro dell'Interno.
Perciò la Cancellieri deve muoversi; assistere passivamente allo sperpero continuo e illegittimo di denaro pubblico la renderebbe corresponsabile d'uno spettacolo vergognoso.

Formigoni, con tutte le nefandezze che ha sulle spalle, lo strappo l'ha fatto lui: vuole indire le elezioni da celebrarsi entro l'anno. Una volta tanto è uno strappo salutare. Il centrosinistra indichi un candidato adeguato. Si può. L'avvocato Ambrosoli sembra la persona giusta e non soltanto per l'onorato nome che porta.

Sulle primarie del Pd esprimo una mia personale opinione. Non voglio entrare nel dibattito su Renzi, ne ho già parlato altre volte e non aggiungo nulla al già detto. Ma una cosa sì, deve essere chiara perché non è un'opinione ma un fatto: chi ha messo concretamente in moto queste primarie democratiche, il cambiamento che ne deriva e la mobilitazione che si sta verificando attorno ad esse, è stato Pierluigi Bersani quando ha deciso di abolire l'articolo dello statuto del partito che prevedeva il segretario come unico candidato alle primarie di coalizione.
L'Assemblea del Pd ha approvato quasi all'unanimità che le primarie di coalizione fossero aperte a tutti. Bersani ha messo quindi in gioco se stesso con ripercussioni sia sui sondaggi che vedono il Pd in crescita, sia sugli altri partiti nessuno dei quali prevede le primarie.

La rottamazione fa parte d'un lessico più barbarico che democratico, ma ormai non è più quello il tema e lo stesso Renzi ha dovuto riconoscerlo.

Ora si discutono programmi, contenuti, visioni chiare del bene comune. Un partito di riformismo radicale come quello che Veltroni disegnò al Lingotto di cinque anni fa non può che privilegiare l'eguaglianza nella libertà e non la libertà senza l'eguaglianza.

Non può ignorare i vincoli che abbiamo assunto con l'Unione europea e deve battersi per un'Europa federata con le relative cessioni di sovranità da parte di tutti gli Stati nazionali che ne sono membri.

Voteremo in aprile per la democrazia italiana ed europea e per lo stesso obiettivo gli elettori del Pd voteranno il 25 novembre alle primarie.

Il sermone è stato un po' lungo, spero almeno che sia stato chiaro.
 

(21 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/21/news/scalfari_votare_primarie_elezioni-44962263/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Assassini con la tastiera
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:41:12 am
Opinioni

Assassini con la tastiera

di Eugenio Scalfari

Una ragazza canadese spinta al suicidio da una persecuzione via Internet.

Il caso di Amanda Todd deve farci riflettere sulla dipendenza dalla Rete e sui suoi effetti psicologici. Che riguardano soprattutto i giovani

(18 ottobre 2012)

Amanda Todd, una giovane canadese di 15 anni, si è suicidata per una persecuzione messa in atto da un personaggio sconosciuto attraverso Internet, utilizzata per diffondere tra i suoi compagni di classe alcuni comportamenti "discutibili". L'intera vicenda è a dir poco sconvolgente.

Il personaggio sconosciuto contatta Amanda via Internet e dopo un breve corteggiamento a distanza la prega di consentirgli di fotografarla a seno nudo. Dopo qualche pudica resistenza Amanda accetta. Passa un anno, poi d'improvviso la ragazza si accorge che i suoi compagni di scuola la beffeggiano e la insultano; infine la informano d'aver ricevuto la foto in questione. Contemporaneamente la foto appare sul social network della scuola e sui siti di tutti gli studenti che la frequentano.

AMANDA CERCA DI DIFENDERSI ma viene sempre più respinta e insultata. A questo punto uno dei suoi compagni le confessa di essersi innamorato di lei e manifesta la sua indignazione per come viene trattata. Segue un breve periodo di corteggiamento fino a quando i due decidono di far sesso, ma quando lei esce dalla casa del suo "innamorato" trova davanti al portone una piccola folla che la insulta e la sbeffeggia; tra quei giovani c'è anche il suo innamorato che fa parte di quel coro di persecutori ed è lui infatti ad aver organizzato la trappola.

Amanda cade in una fortissima depressione, si droga per evadere da quell'incubo. Passano alcuni mesi, la ragazza si ricovera in una clinica per disintossicarsi, ma viene sempre più perseguitata. Tenta di suicidarsi ma viene ripresa in tempo. Il personaggio sconosciuto da cui è partita l'intera vicenda manda in rete l'etichetta del farmaco da lei usato per suicidarsi. Altra ondata di dichiarazioni sui blog dove, tra insulti e irrisioni le si consigliano farmaci e veleni più efficaci per darsi la morte. Dopodiché il suicidio che questa volta raggiunge l'effetto voluto.

Questa è la storia. Raccapricciante, tanto più che gli insegnanti di quella scuola dichiarano che gli studenti sono tutti giovani perbene, seri e studiosi e che non hanno commesso nulla di riprovevole nei confronti della vittima.

DUE PROBLEMI SI PONGONO a questo punto: il giudizio sulla condotta di quei ragazzi e sulla scuola e sulle famiglie che li hanno educati e - secondo - l'efferata potenza di Internet quando la tecnologia diventa strumento di vera e propria tortura. Il giudizio non può che essere estremamente negativo. Non sappiamo se le autorità scolastiche interverranno come dovrebbero; in realtà dovrebbe intervenire anche la magistratura e individuare l'identità del misterioso persecutore: si può essere un "serial killer" anche usando la tecnologia che protegge l'anonimato.

Ma c'è un terzo problema implicato in queste riflessioni ed è quello della dipendenza dalla rete e degli effetti che ne derivano sulla psicologia delle persone. La dipendenza è già da tempo oggetto di studi e di sondaggi da parte di istituti specializzati esistenti in tutto il mondo e specialmente nel Nord-America. Si ha dipendenza quando una persona passa mediamente otto ore al giorno cliccando e viaggiando sulla rete. I risultati delle numerose indagini effettuate danno cifre diverse da luogo a luogo ma alcuni dati ricorrono in tutte: i più coinvolti nella dipendenza sono i giovani tra i 14 e i 25 anni; la media dei vari test oscilla attorno all'8 per cento; tre quarti di questi "navigatori in rete" sono giovani e un quarto adulti al di sopra dei 25 anni. Gli effetti psicologici più ricorrenti sono il senso di solitudine, l'impossibilità di uscire dalla dipendenza, l'ottundimento della socievolezza fisica con altre persone, la decadenza culturale dei soggetti in questione.

Infine, ed è il segnale più preoccupante, l'aumento numerico delle persone affette da queste "disturbo mentale" da vent'anni a questa parte. La rete procura certamente molti e importanti vantaggi alla società moderna ma contiene anche terribili pericoli ai quali nessuno finora ha tentato di porre un serio riparo.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una follia eversiva destabilizza il paese
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2012, 10:43:50 pm
IL COMMENTO

Una follia eversiva destabilizza il paese

di EUGENIO SCALFARI


NON SO dire se si stia assistendo a un'opera comica o a un'opera tragica; certo vedere e ascoltare un personaggio che è stato protagonista della politica e del costume nell'Italia di questo ventennio completamente fuori di testa è allo stesso tempo grottesco e preoccupante.

Qualche giorno fa l'ex premier aveva dichiarato di rinunciare definitivamente alla candidatura alla premiership. Due giorni dopo sembrò averci ripensato: "Il popolo mi vuole" aveva detto sotto la spinta della Santanché (!) poi aveva di nuovo battuto in ritirata, la sua candidatura a Montecitorio restava un'opzione ma per Palazzo Chigi avrebbe corso il vincitore di improbabili primarie.

Infine il colpo di scena di sabato dopo la sentenza di Milano che lo condanna a quattro anni (tre condonati) e all'interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale. La conferenza stampa 2 durata quasi l'intero pomeriggio ha spaziato dall'attacco alla Germania a quello contro il governo Monti, poi una raffica di contumelie contro i magistrati comunisti e contro la Corte costituzionale di sapore decisamente eversivo, tirando in ballo lo stesso Capo dello Stato che ne ha scelti cinque (ovviamente proni ai suoi voleri). Infine la minaccia di staccare la spina al governo e andare alle elezioni in gennaio per sollevare il popolo dalle miserie in cui il governo dei tecnici l'ha precipitato, e di nuovo sullo sfondo la riconquista di Palazzo Chigi con l'aiuto della Lega e del bravo Maroni, con tanto di faretra piena di frecce da lanciare contro i nemici della patria che il nostro Silvio tanto ama.

Non c'è molto da commentare su una deriva populista ed eversiva di queste dimensioni. Solo Giuliano Ferrara riesce a intravedere in questa tragica pagliacciata qualcosa che rievochi la saga dei Nibelungi. Ma c'è di che riflettere sulle possibili conseguenze.

I mercati anzitutto. È difficile pensare che assistano a questo sconquasso mantenendo la calma. Magari sarà solo una sfuriata passeggera e la calma tornerà se il Pdl che è ancora maggioritario in Parlamento scaricasse il suo capo.

Ma esiste ancora quel partito? E sopporta senza emettere un fiato o muovere un dito una vicenda di questo genere?

Se i suoi seguaci non lo sconfesseranno i mercati ci martelleranno duramente e a lungo con conseguenze molto serie su un Paese già tormentato e rabbioso.

Qualche segnale politico arriverà oggi dalla Sicilia. Sia pure con tutte le singolarità di quella regione, il test siciliano avrà una portata nazionale sia per quanto riguarda i consensi alla lista di Grillo sia per la tenuta o lo sfascio del Pdl nello scontro tra il suo candidato e quello del Pd-Udc.

Alla fine bisognerà decidere, perché se da quella bocca continueranno ad uscire parole deliranti, se i mercati useranno il randello contro il debito italiano, se la Lega da un lato e Grillo dall'altro urleranno nei loro megafoni lo slogan del "Monti no", aspettare la fine naturale della legislatura fino al prossimo aprile diventerà impossibile.
Occorrerà naturalmente che il Parlamento approvi la legge di stabilità finanziaria, ma poi si porrà concretamente il tema dello scioglimento anticipato delle Camere per poter votare a febbraio.

In queste condizioni sembra molto difficile che si possa varare una nuova legge elettorale. Resterà l'orribile Porcellum ma i partiti che abbiano un senso di responsabilità potranno almeno introdurre le preferenze al posto delle liste bloccate restituendo agli elettori la facoltà di scegliere i loro candidati.

Se le cose andranno in questo modo, in mezzo a tanti aspetti negativi ce ne sarà almeno uno positivo e tutt'altro che marginale: l'avvio della nuova legislatura e la nomina del nuovo governo che tenga conto della volontà degli elettori, ed anche dell'interesse generale dello Stato, spetteranno a Giorgio Napolitano. Un timoniere lucido, una mano ferma e un'ancora solida sono indispensabili quando il mare è in tempesta.

(29 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/29/news/follia_eversiva-45477923/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quanto vale la luce in fondo al tunnel
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 03:56:19 pm
L'EDITORIALE

Quanto vale la luce in fondo al tunnel

di EUGENIO SCALFARI


La novità della giornata di ieri è una dichiarazione di Monti del tutto inattesa. Ha raccomandato di non perder tempo a discettare sulla futura "premiership" ma di discutere piuttosto sui contenuti e sulle riforme che si debbono ancora fare fino alle elezioni del prossimo aprile. Ancora una volta questa dichiarazione è in piena concordanza con quella di Mario Draghi nel discorso da lui pronunciato in occasione del compimento di un anno dalla sua nomina alla guida della Bce; anche Draghi ha battuto e ribattuto sul tasto delle riforme che sono a suo parere la sola via per rafforzare l'euro e portare fuori dalla crisi economica sia l'Europa sia l'intero Occidente.

La sortita di Monti è diretta ai partiti e all'intera classe dirigente italiana a cominciare dalle forze sociali. Ma a quali partiti in particolare si dirige il premier?
L'esortazione a non insistere sul tema della futura "premiership" riguarda soprattutto quelle parti politiche che fanno del Monti-bis un elemento primario della loro campagna elettorale: l'Udc di Casini, Montezemolo e tutti coloro che chiamano a raccolta i moderati.

Monti non ha alcun interesse a diventare l'icona dei moderati i quali, comunque andranno le elezioni di aprile, non possono certo aspirare alla maggioranza assoluta nel Parlamento e neppure ad essere il primo dei partiti votati.

La seconda raccomandazione che riguarda i contenuti è rivolta a tutte le forze politiche della strana maggioranza che tuttora sostiene il governo ma principalmente al Pd di Bersani
che  -  soprattutto nella sua ala vendoliana  -  si propone di smantellare la cosiddetta agenda Monti.

Questa intenzione è diventata la caratteristica principale di Vendola, di Fassina e della Camusso e viene sventolata sia nelle primarie del Pd sia nella campagna elettorale ormai in corso. Ma è pura demagogia.

Lo scrivo e lo ripeto ormai da tempo: l'agenda Monti coincide perlomeno al novanta per cento con gli impegni che l'Italia ha contratto con l'Europa e in alcuni casi (per esempio il pareggio del bilancio) sono entrati a far parte della nostra Costituzione. Smantellarli significherebbe uscire dall'euro e quindi dall'Europa. A sostenerlo c'è soltanto Grillo e, quand'è di cattivo umore, Silvio Berlusconi. Quindi in questo caso purissima demagogia pre-elettorale.

Monti ha dunque ragione, bisogna parlare di contenuti e di riforme ancora da fare o da completare e poi di quello che dovrà essere il programma del nuovo governo che uscirà dalle urne elettorali.

* * *

Monti continua a segnalare una luce in fondo al tunnel e lo prendono per matto. La sua mattana sarebbe infatti contraddetta sia dalle previsioni dell'Istat sul Pil sia da quelle analoghe della Commissione di Bruxelles. Eppure  -  oltreché da Monti  -  quella luce in fondo al tunnel la vedono anche Draghi e il Fondo monetario internazionale. Come si spiega questo così netto contrasto di opinioni?

A parte una legittima differenza di punti di vista sull'andamento delle cose, c'è una cifra condivisa da tutti gli interlocutori di questo dibattito: l'andamento del Pil in Italia.
Sarà del meno 2,4 o meno 2,3 quest'anno e meno 0,2 o addirittura in pareggio nel 2013. Il segno meno permane in tutti e due gli anni considerati ma tra l'uno e l'altro si registra un miglioramento di tre punti il che significa un aumento di circa 50 miliardi in cifre assolute. Non è molto ma neppure poco. Tre punti di Pil non sono una luce?

A me sembrano considerazioni elementari. Certo l'aumento del Pil non è il solo dato da considerare, bisogna infatti vedere da dove proviene. Un aumento degli investimenti? Un aumento delle esportazioni? Della produttività? Dei consumi? Dell'occupazione? Non farei molto affidamento sui consumi, potrà semmai essere un effetto non una causa. Lo stesso vale per l'occupazione. Allo stato dei fatti le cause del miglioramento possono provenire dagli investimenti, dalle esportazioni, dalla produttività. Ed anche dai tassi di interesse delle banche e da una ripresa del credito.

Tutti questi elementi sono comunque condizionati da un recupero della fiducia e questo è un fattore che coinvolge l'intera Europa e anche gli Usa. La fiducia può essere paragonata al respiro del corpo d'una persona: se i suoi organi sono in grado di funzionare ma quel corpo non respira, la persona muore. Respirare non è una condizione sufficiente ma necessaria.
La fiducia e quindi le aspettative sono la stessa cosa: insufficienti ma necessarie. La fiducia c'entra molto con la politica. Senza una buona politica la fiducia avrà molta difficoltà a manifestarsi.

* * *

Tra le tante cose buone (anche se impopolari per i sacrifici che hanno creato per molti) l'attuale governo ha compiuto numerosi errori. Politici.

Per esempio ha traccheggiato troppo a lungo sul tema degli esodati. Ha clamorosamente sbagliato quando tagliò i fondi per gli ammalati di Sla. Per l'accompagnamento degli invalidi.
Alla fine la copertura è stata trovata, ma perché non prima ma solo dopo aver suscitato l'indignazione dell'opinione pubblica? Ha sbagliato sul pagamento dei crediti verso la pubblica amministrazione che ancora tarda a venire e sarà solo parziale. Ha sbagliato sulla legge per la corruzione. Ha sbagliato sui tagli alla pubblica istruzione e per ambedue questi punti dovrebbe assolutamente rimediare.

La politica è un'attività molto complessa. Si impara con l'esperienza ma presuppone anche una vocazione caratteriale. È difficile che un governo politico come tutti i governi ma composto solo di tecnici abbia una vocazione politica della necessaria intensità. I ministri con quella vocazione sono pochissimi: Fabrizio Barca, Corrado Passera, Andrea Riccardi.
Anche il sottosegretario alla Presidenza Catricalà la vocazione ce l'ha ma di solito la mette al servizio d'una cattiva politica e questo è un guaio non da poco.

Monti quella vocazione ce l'ha ma le necessità di un'economia prossima al disastro come quella che ereditò un anno fa l'hanno inevitabilmente ingabbiata. Adesso può finalmente liberarla ed è tempo che lo faccia.

* * *

Molti elementi per una buona politica dipendono ora dalla legge elettorale. Su questa questione occorre ragionare con molta chiarezza.

L'Udc si è alleata con il Pdl e (perfino) con la Lega per uscire definitivamente dal Porcellum che avrebbe stritolato il Terzo Polo. Per Casini era dunque una questione di sopravvivenza e lo si può capire. Ma lui stesso era consapevole che, dopo questo primo passaggio, ce ne voleva un secondo che recuperasse la governabilità. Infatti è quanto dovrebbe avvenire nella definitiva e ultima riunione tra gli interessati prima del voto in aula.

Il compromesso consiste nel "premiolino" da attribuire alla coalizione che avrà più voti di tutte le altre, probabilmente il centrosinistra. Bersani vorrebbe un "premiolino" del 12 per cento, Casini e Pdl offrono l'8. Il compromesso sarà il 10 forse il Pdl non ci starà, ma Casini ci deve stare se la saggezza lo assisterà.

Col "premiolino" il centrosinistra, da Donadi a Vendola, può arrivare fino al 45 per cento, un consenso notevole che però non raggiunge la maggioranza assoluta per la quale, dopo le elezioni, il Centro si alleerà non come ruota di scorta ma come componente necessaria del futuro governo. Del resto che altro potrebbe fare? Si deve ancora risolvere il problema della scelta dei parlamentari, il tema non presenta difficoltà politiche ma tecniche. In un modo o nell'altro dovranno risolverlo.

A questo punto si porrà il problema del Monti-bis e dell'agenda Monti. Di quest'ultima abbiamo già detto. Il primo si pone in questo modo: se Bersani è disponibile a cedere il passo a Monti, va benissimo; se non lo è dovrebbe quantomeno offrire a Monti il ministero dell'Economia e degli Affari europei. Penso che lo farà e a quel punto la palla passerebbe all'attuale premier.

È un declassamento? Formalmente forse, ma nella sostanza no. Del resto c'è un precedente illustre: Ciampi, dopo essere stato premier nel 1993, portò il Paese alle elezioni.
Dopo qualche anno nacque il governo Prodi e a Ciampi fu offerto il ministero del Tesoro. Accettò e insieme portarono l'Italia nell'Eurozona nel momento stesso in cui nasceva la moneta comune. Fu la più grande delle riforme che sia stata fatta in Italia e in Europa. Alla caduta del governo Prodi, nel 1998, a Palazzo Chigi andò D'Alema che pose come condizione per accettare l'incarico la presenza di Ciampi che per la seconda volta accettò di servire il Paese. Poi, approvata la legge finanziaria, si dimise.
Nel 1999 fu eletto al Quirinale quasi all'unanimità.

Cito questo precedente perché Monti si è detto disponibile a servire ancora il Paese. Questo sarebbe un bel modo per darne un'altra dimostrazione.

Post scriptum. Qualche parola sulla signora Polverni e le elezioni alla Regione Lazio. Quello che sta accadendo è semplicemente vergognoso.

La legge regionale del Lazio, unica tra tutte le Regioni, stabilisce che la data delle elezioni sia fissata dal presidente uscente e debba essere indetta entro 90 giorni dalle dimissioni del suddetto presidente. Il tempo scorre ma la Polverini, interpretando a sua modo la norma, si rifiuta di rispettarla e vuole che si voti in aprile insieme alle Politiche. Nel frattempo l'intero Consiglio regionale è dimissionario ma i suoi membri continuano a percepire lo stipendio e la Polverini sforna ogni giorno provvedimenti a dir poco eccentrici, beneficia a destra e a manca, nomina persone amiche nelle aziende comunali, fonda nuove associazioni ed enti vari. Insomma prosegue lo sperpero che rese possibile il caso Fiorito e gli altri analoghi.

L'Avvocatura dello Stato, richiesta dal governo di un formale parere, lo ha dato ribadendo che le elezioni debbano avvenire entro il termine di 90 giorni dalle dimissioni del presidente ma la Polverini nel suo bunker in via della Pisana continua a dilapidare senza ritegno.

Il Movimento in difesa dei cittadini ha ricorso al Tar del Lazio affinché imponga all'Amazzone l'adempimento della norma. L'Amazzone dal canto suo ha arruolato in sua difesa un avvocato che è al tempo stesso segretario ministeriale di Catricalà che  -  vedi caso  -  sostiene l'"election day" con le elezioni regionali in aprile insieme alle politiche. Il segretario di Catricalà si è dimesso dalla carica ministeriale nel momento in cui accettava di difendere la Polverini.

Ma perché Catricalà (e l'avvocato dell'Amazzone) vogliono le elezioni in aprile anziché subito come la norma prevede? Il motivo è evidente: Berlusconi (e Gianni Letta di cui Catricalà è comprovato sodale) non vogliono che la sicura sconfitta del centrodestra avvenga prima delle Politiche. Si vìola una norma? E chi se ne frega, ben altre ne furono violate.

Il governo dovrebbe esprimersi. Eventuali economie connesse con l'"election day" in aprile non compensano la violazione di una norma così importante e sono ampiamente compensati in negativo dalla dissipazione di risorse in atto in via della Pisana.

Il ministro dell'Interno continua a dire che la competenza non è sua. Ciò non dovrebbe impedirle di proclamare chiaro e tondo che la norma è stata violata e va recuperata.

Il Tar ha esaminato il ricorso e farà sentenza martedì prossimo. È possibile che si lavi le mani come fece Ponzio Pilato. In quel caso la vergogna si estenderà anche ai giudici amministrativi e perfino  -  rincresce dirlo  -  alla signora Severino, sistematicamente prudente tutte le volte rischi di dispiacere a qualcuno ancora potente (vedi leggi sulla corruzione).

Questa non è economia, onorevole Monti, ma politica. Lei non ha dunque nessun vincolo salvo quello della sua coscienza. Confido che l'ascolti e la metta in atto.

(11 novembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La dittatura dello spread è soltanto demagogia
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2012, 07:44:30 pm
La dittatura dello spread è soltanto demagogia

di EUGENIO SCALFARI


L'Europa procede a singhiozzo o se volete col passo del gambero e questo è un guaio perché i mercati restano all'erta e la speculazione quando può colpisce. Per fortuna c'è Draghi che vigila ed è pronto ad intervenire.
In quest'alternarsi di giornate buie e meno buie sia le Borse sia lo "spread" si mantengono in un (precario) equilibrio. Galleggiano a livelli accettabili. Siamo ancora in mezzo al guado ma senza affondare.

I contraccolpi sul sociale sono tuttavia assai duri e se ne sentono gli effetti: la rabbia cresce, le piazze protestano, i governi sono in difficoltà, il malumore nei confronti dell'Europa aumenta di tono e questo è il rischio maggiore perché le aspettative non cambiano se la fiducia non le sostiene.

In questo quadro le elezioni tedesche che si svolgeranno nell'autunno 2013 pesano negativamente. La Merkel ne è condizionata e l'Europa ne risente pesantemente.

Anche l'attesa di quelle italiane rappresenta un problema. Chi verrà dopo Monti? Se ne parla da mesi e l'attesa suscita l'ansia di molte Cancellerie, dalla Germania alla Francia e perfino alla Casa Bianca. Il nostro attuale premier ha recuperato una credibilità internazionale che era andata totalmente perduta. Reggerà con i suoi successori senza di lui? Il nuovo Parlamento e il nuovo Capo dello Stato manterranno gli impegni presi con l'Europa? Questo è il tema che domina l'attualità europea e italiana.

Abbiamo più volte ricordato che l'Italia
ha un peso determinante sulla tenuta finanziaria e monetaria dell'intero continente, sui tassi d'interesse, sulla dinamica dei flussi commerciali e degli investimenti e sulla solidità dei sistemi bancari.

La risposta degli arrabbiati (che sono molti e non solo in Italia) è purtroppo inconsistente: i bisogni sociali non possono dipendere dai mercati - dicono - il lavoro non è una variabile dipendente, la dittatura dello "spread" è una menzogna che va denunciata, un totem che va abbattuto ristabilendo la verità. E' così?

No, non è così. Lo "spread" è semplicemente un numero differenziale rappresentativo della fiducia con la quale è misurato il valore dei titoli di Stato. Se le finanze pubbliche di quello Stato non sono in ordine la fiducia nei suoi titoli diminuisce e lo "spread" aumenta, gli investitori stranieri fuggono (anche quelli italiani), le banche che hanno quei titoli in portafoglio vedono diminuire la loro solidità, ma nella stessa difficoltà si trovano anche altre banche di altri paesi che hanno fatto credito alle nostre; i risparmiatori che hanno sottoscritto i titoli vedono a rischio una parte del loro patrimonio e di conseguenza contraggono la loro domanda di beni e di servizi. Gli investitori nazionali non investono e la disoccupazione aumenta.

È curioso che queste elementari verità debbano essere costantemente ricordate ed è curioso che una parte crescente di persone e di forze politiche continuino a predicare che bisogna liberarsi dalla dittatura dello "spread" e dei mercati. Perfino la Russia, perfino la Cina - paesi governati da regimi non democratici e non liberali - sentono il morso dello "spread" e hanno bisogno della fiducia internazionale. La crisi del rublo di qualche anno fa mise Putin a malpartito e lo obbligò a negoziare il sostegno della finanza americana; la crisi economica attuale ha spinto la Cina a sostenere la domanda interna frenando le esportazioni.

In un'economia globale questi fenomeni che testimoniano l'interdipendenza dell'economia dovrebbero essere compresi da tutti. È una sciagura che la demagogia continui ad offuscare la mente di tanti.

* * *

Ovviamente non è soltanto con il rigore economico che si curano questi malanni. Per paesi dissestati il rigore è una condizione necessaria ma assolutamente insufficiente. Purtroppo è molto difficile appaiare la terapia del rigore con quella dello sviluppo. La ragione è evidente: il rigore nell'Europa di oggi ha un campo d'esecuzione nazionale; lo sviluppo, cioè la crescita, dipende in larga misura dall'Europa. Se l'Europa, cioè le Autorità che la governano, non imbocca coraggiosamente la via dello sviluppo, esso non avrà luogo.

Ciò non significa che i singoli governi e le parti sociali del paese in questione non abbiano strumenti per agire, significa però che gli effetti di quegli strumenti sono limitati.

È chiaro però che in Italia quegli strumenti non sono stati finora usati. La responsabilità di questa grave omissione non è tanto colpa dell'attuale governo ma soprattutto delle parti sociali e in particolare della borghesia imprenditoriale.

Da vent'anni o forse trenta l'imprenditoria italiana ha cessato di espandersi. Si è specializzata, si è tecnologicamente ammodernata, si è anche dislocata e al tempo stesso si è contratta. La base occupazionale si è ristretta. La manifattura ha ceduto il campo alla finanza. Le grandi imprese si sono sfilate in gran parte dal mercato nazionale, le medie hanno dismesso una parte delle loro attività, le piccole non sono cresciute e i padroncini sono rimasti quelli che erano con l'aggiunta che la generazione dei fondatori ha passato la mano ai figli e ai nipoti con conseguenze negative come quasi sempre accade in questi casi. Soprattutto l'imprenditorialità italiana ha fatto difetto di invenzione di nuovi prodotti.

Il sindacato dal canto suo è decaduto dai tempi eroici. Vent'anni fa rappresentava ancora non solo i lavoratori occupati ma anche i disoccupati e le nuove leve dei giovani che arrivavano sul mercato. Oggi non è più così, complice la molteplicità dei contratti esistenti. Il sindacato operaio di oggi rappresenta i lavoratori con contratto a tempo indeterminato e i pensionati, il che significa che ogni lavoratore che va in pensione non sarà sostituito con quel tipo di contratto. Tra poco perciò i sindacati operai diventeranno di fatto sindacati dei pensionati. Non è una bella prospettiva.

Dispiace che la Cgil non si sia data carico del tema della produttività e ripeta sulle piazze le consuete giaculatorie contro i mercati e contro lo "spread". Se la Camusso non comprende la questione, la studi; se l'ha compresa non faccia demagogia; se è condizionata dalla Fiom abbia il coraggio di liberarsene e ne spieghi le ragioni.
Le parti sociali da molti anni hanno gravi responsabilità, Montezemolo e Marcegaglia inclusi.

* * *

In queste condizioni Napolitano ha ricordato che il nome di Mario Monti non è spendibile nelle prossime elezioni come leader di uno schieramento o addirittura di un partito. Sembra che Monti se ne sia adontato ma io non lo credo. Monti sa benissimo che un senatore a vita non si può presentare alle elezioni. Tecnicamente. Dovrebbe prima dimettersi da senatore a vita e non credo affatto che abbia questo in mente.

Napolitano ha ricordato questa situazione perché l'iniziativa di Montezemolo e la posizione di Casini, l'uso ripetuto cento volte del nome di Monti come il "conducator" del Centro moderato stavano diventando una sorta di "mantra" pre-elettorale.

Il compito di Monti e del suo governo avranno termine nel momento stesso in cui il nuovo Parlamento uscirà dalle urne e a sua volta scadrà il mandato settennale di Giorgio Napolitano (purtroppo, sottolineato).

Non cadranno però gli impegni che l'Italia ha assunto con l'Europa, quelli che a torto o a ragione si chiamano agenda Monti. Sarà invece non solo possibile ma necessario che al rigore adottato da Monti si affianchi finalmente il rilancio dello sviluppo, come del resto lo stesso Monti sta ora tentando di ottenere in Europa e con l'Europa.

Se la maggioranza che emergerà nel nuovo Parlamento riterrà di aver bisogno di Monti, lo inviterà, lo proporrà come "premier" o gli offrirà un ministero importante. Oppure lo eleggerà al Quirinale. Ma spetta alla nuova maggioranza prendere queste decisioni e non sarà più una maggioranza tripartita: il Pdl di fatto ha cessato di esistere proprio ieri, perché sembra ormai certo che Berlusconi si ripresenterà con una sua lista in contrasto con il suo partito.

Resteranno dunque in campo il centro e il centrosinistra. Monti non può essere il candidato né dell'uno né dell'altro, perderebbe in Italia la credibilità che ha così pienamente acquistato in Europa. Si tratta di questioni talmente evidenti che non ci sarebbe stato neppure il bisogno di ricordarle se i vari gruppi di centro non avessero continuato a spendere il nome di Monti logorandolo e rendendo necessario la precisazione di Napolitano durante il suo viaggio di Stato in Francia.

Va ricordato a questo proposito che erano 21 anni da quando un presidente della Repubblica italiana fu invitato a Parigi. Ora è finalmente avvenuto e il nostro Presidente è stato accolto dal suo omologo francese con solennità e cordialità. L'intesa tra Italia e Francia sui problemi europei è una forza nuova di grande importanza per il presente e per il futuro. Ne va dato atto a Napolitano e a Monti, ancora una volta uniti nel medesimo disegno.
Le elezioni politiche che ci attendono fra pochi mesi tengano conto di questi fatti e del quadro che hanno creato. Ne deve uscire un risultato di governabilità e chi otterrà maggiori consensi dovrà utilizzarli con coraggiosa saggezza.

Post scriptum. Oggi si vota per tutto il giorno alle primarie del Pd e del centrosinistra. Il nostro giornale ha sottolineato più volte la loro importanza e anche la loro unicità positiva nel panorama della democrazia italiana.
I candidati sono cinque e tutti meritevoli di attenzione sia pure con le molte differenze nei loro programmi. Non sta ad un giornale come il nostro schierarsi per l'uno o per l'altro. Ma un collaboratore può certamente farlo e anche dirlo. Io non sono di centro e neppure di sinistra. Perciò voterò un candidato di centrosinistra cioè Pierluigi Bersani. E non credo di sbagliare.

(25 novembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/11/25/news/la_dittatura_dello_spread_soltanto_demagogia-47365773/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le ragioni del diritto
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2012, 10:05:36 pm
Le ragioni del diritto

di EUGENIO SCALFARI

La sentenza della Corte costituzionale sul ricorso del Capo dello Stato per il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo è chiarissima e definisce l'intangibilità delle prerogative presidenziali. Le intercettazioni telefoniche (o con qualsiasi altro mezzo effettuate), sia pure indirettamente acquisite da una Procura (nel caso specifico da quella di Palermo) debbono essere immediatamente distrutte dal Gip su richiesta della stessa Procura che ne è venuta in possesso. La Procura in questione non ha titolo per dare alcun giudizio sul testo intercettato; deve semplicemente e immediatamente consegnare le intercettazioni al Gip affinché siano distrutte senza alcuna comunicazione alle parti e ai loro avvocati.

La Corte renderà pubbliche le sue motivazioni a gennaio ma il dispositivo si appoggia fin d'ora all'articolo 271 del codice di procedura penale (come a suo tempo avevamo già scritto su questo giornale) che dispone questo trattamento per gli avvocati e per tutti i casi analoghi che prevedano l'assoluta segretezza delle notizie connesse alla loro professione. E quindi, per logica deduzione, ai medici e ai sacerdoti su quanto apprendono in sede di confessione. Le prerogative del Capo dello Stato hanno la stessa natura e quindi lo stesso grado di protezione che non deriva soltanto dall'articolo 271 ma dalla stessa Costituzione.

Il Presidente della Repubblica può essere imputato soltanto per tradimento della Costituzione e attentato nei
confronti dello Stato. In quei casi, quando il Parlamento in
seduta comune ne chiede il deferimento alla Corte essa sospende le prerogative del Capo dello Stato e si trasforma in Alta Corte di giustizia iniziando il processo
che culminerà in una sentenza.

Il punto essenziale dell'odierno comunicato della Corte sta nel fatto che a suo avviso l'inammissibilità delle intercettazioni anche indirette e quindi la loro immediata distruzione non sono soltanto ricavabili dall'ordinamento costituzionale e giudiziario, ma da specifica normativa.

Il capo della Procura di Palermo, Messineo, e il procuratore aggiunto, Ingroia, avevano fino all'ultimo sostenuto che non esisteva alcuna norma specifica in materia; forse si poteva ricavare con una interpretazione dell'ordinamento, ma - spiegavano i procuratori in questione - non è compito dei magistrati inquirenti cimentarsi con interpretazioni ardue e comunque dubitabili. Per loro valeva dunque soltanto la norma che prevede per la distruzione di intercettazioni non rilevanti ai fini processuali in un'udienza davanti al Gip insieme alle parti interessate e ai loro avvocati. Il che ovviamente equivale a renderle pubbliche facendo diventare pleonastica la loro successiva distruzione.

Il comunicato della Corte stabilendo invece che una specifica norma esiste, spazza via il ragionamento della Procura di Palermo con un effetto ulteriore e definitivo: la sua sentenza si affianca e addirittura si sovrappone all'articolo 271 rendendone esplicita l'applicabilità anche al Capo dello Stato.

Fu dichiarato più volte dallo stesso Giorgio Napolitano che il suo ricorso alla Consulta non intaccava in nessuno modo il lavoro della Procura sull'inchiesta riguardante i rapporti eventuali tra lo Stato e la mafia siciliana. Infatti quel lavoro è già arrivato ad una prima conclusione con la richiesta di rinvio a giudizio di tredici imputati. Gli stessi Messineo e Ingroia hanno più volte e in varie sedi pubblicamente dichiarato che nessuna pressione e nessun impedimento al procedere della loro inchiesta è mai venuto dal Quirinale, il quale anzi ha sempre incoraggiato la magistratura a portare avanti il suo lavoro volto all'accertamento della verità su quel tema storicamente delicato e importante.

La richiesta di rinvio a giudizio è tuttora pendente dinanzi al Gup del tribunale di Palermo il quale, con correttezza professionale, ha deciso di attendere la sentenza della Consulta prima di prendere le sue decisioni. Non sappiamo se vorrà ulteriormente aspettare le motivazioni di quella sentenza, ma probabilmente sarebbe tempo sprecato. A lui interessava sapere se le intercettazioni in questione potevano avere un qualche interesse ai fini dell'inchiesta o di eventuali altri processi connessi. La risposta è arrivata e il Gup di Palermo
potrà ora procedere. Se troverà negli atti della Procura indizi e prove sufficienti il processo andrà avanti; se quegli indizi e prove non fossero decisivi potrà decidere l'archiviazione; se la competenza territoriale non fosse quella di Palermo potrà rinviare gli atti al tribunale di Caltanissetta.

E questo è tutto. Resta l'indebito clamore che alcune forze politiche e alcuni giornali hanno montato attorno a questi fatti lanciando accuse roventi, ripetute e immotivate contro il Capo dello Stato. Se fossero in buona fede sarebbe il momento di chiedere pubblicamente scusa per l'errore commesso, ma siamo certi che non lo faranno. Coglieranno anzi l'occasione per estendere l'accusa di faziosità e di servilismo alla Corte costituzionale imitando in questo modo l'esempio fornito da Silvio Berlusconi tutte le volte che attaccò la "Consulta comunista" per aver cassato alcune leggi "ad personam" proposte da lui o dal suo partito.

Quello compiuto da alcune forze politiche e mediatiche non è dunque un errore commesso in buona fede ma una consapevole quanto irresponsabile posizione faziosa ed eversiva che mira a disgregare lo Stato e le sue istituzioni. Sembra quasi un fascismo di sinistra.

(05 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Viaggio dell'anima tra quaggiù e laggiù
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 04:39:55 pm
Opinioni

Viaggio dell'anima tra quaggiù e laggiù

di Eugenio Scalfari

(15 novembre 2012)

Il libro di David Grossman, "Caduto fuori dal tempo", scritto dopo la tragica morte del figlio durante uno dei tanti scontri delle truppe israeliane al confine con il Libano, è forse il più bello della sua opera letteraria. Non è un racconto, è pura poesia, il viaggio dell'anima tra due luoghi della fantasia, il "quaggiù" e il "laggiù". Può sembrare - e in alcune pagine è certamente questo il senso delle parole - che il "quaggiù" rappresenti la vita e il "laggiù" un oltremondo non identificato, dove la vita continua in forme sconosciute ma altrettanto reali. Ma a parte quelle rare pagine non è questa la vera essenza e il fascino che emana da quella prosa poetica e dalla sua intensità.

IL SENSO E' L'ANIMA VAGANTE in un viaggio nel mistero senza bussola, senza punti di riferimento, senza stelle. Un'anima né disperata né beata ma dolcemente triste, malinconica, solitaria. "Animula tremula" è la definizione che più si adatta alle voci narranti che sono molte ma tutte riconducibili a una sola persona. In questo contesto il "quaggiù" e il "laggiù" non sono così diversi tra loro come potrebbe lessicalmente apparire. Servono - così pare a me - a scandire il moto di quell'anima errabonda e forse il transito continuo da un barlume d'identità e di consapevolezza del sé all'abbandono nelle braccia di un caos di permanente smarrimento dalla penombra all'ombra. Il fascino del libro sta interamente nella sua capacità di suscitare in chi lo legge un'identificazione con quell'anima errabonda che non cerca la verità né il senso ultimo della sua esistenza. Ove mai l'avesse cercato prima di allora, un evento, un'irreparabile sventura le ha tolto il bisogno d'una motivazione. Quell'anima ha subìto un trauma definitivo, una mutilazione insostenibile che ha annullato il pensiero e quindi la ricerca del senso. In un mondo insensato non esistono più le forme, tutto è indistinto, tra l'esistere e il non esistere non ci sono confini, non c'è né vera vita né vera morte ma soltanto l'"essere" allo stato puro. L'"essere" è caotico per definizione, sostanza senza forma, impalpabile fluidità.

QUANDO NOI PENSIAMO al caos l'immagine che il pensiero ci porta è quella di una permanente tempesta cosmica, paurosa e al tempo stesso creativa, dalla quale emergono incessantemente le innumerevoli forme dell'esistente, ciascuna con le proprie leggi naturali, la propria evoluzione e infine il proprio disfacimento e il ritorno all'essere indistinto. Ma il caos in cui vaga l'animula descritta nel libro di Grossman non è creativo, ha perso la capacità di articolare nuove forme, nuovi mondi. Sta celebrando un lutto universale. Il figlio è morto, l'anima che celebra il lutto è quella del padre. Il figlio non tornerà più e insieme a lui è scomparso anche il logos. In principio era il logos, il verbo, dicono le Scritture in cui sia il figlio sia il padre credevano. Ma il verbo è scomparso insieme alla mente capace di pensarlo. Scomparsa è la mente del figlio e scompare quella del padre. L'"essere" permane ma il pensiero è fuggito per sempre e non tornerà più. E poiché l'uomo intanto esiste in quanto è in grado di pensare se stesso, ecco che è l'uomo a essere scomparso. Si potrebbe anche dire che questo libro sia una discesa agli Inferi. Inferi che non hanno nulla dell'Inferno dantesco, delle bolge e malebolge, dell'acqua cupa dello Stige, dei gironi dove viene inflitta la punizione eterna dei peccati. Quell'Inferno fa da specchio cupo al Paradiso splendente delle beatitudini. Le anime dei peccatori soffrono orribilmente seguendo la legge del contrappasso, ma esistono. Le loro anime sono vitali come e addirittura di più di quelle che assaporano nell'alto dei cieli la beatitudine d'essere immerse nella luce di Dio.

MA GLI INFERI DI GROSSMAN non sono un luogo di tormenti. Si intravede semmai una sorta di limbo, senza luce né buio. Ricorda la grande cantata di Rilke su "Orfeo. Euridice. Hermes" se c'è un precedente di altissima poesia al libro di Grossman, è quello. L'autore tuttavia non soltanto ha creato il suo libro ma nei sei anni trascorsi dal trauma subìto ha vissuto e operato, ha mantenuto e perfino accresciuto il suo impegno civile, politico, letterario. Ha insomma continuato a realizzare se stesso al punto di concepire il "quaggiù" e il "laggiù" che postulano poeticamente quell'"essere" che è dovunque e in nessun luogo, che non conosce luce né buio, che ha cessato di creare forme ed estenua quelle esistenti senza tuttavia cancellarle del tutto, ombre di un se stesso che giace non nella morte ma in un eterno e immemore riposo. Questa è l'arte e la sua forza.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Cosa resta (comunque) dei prof
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2012, 04:47:40 pm
Opinione

Cosa resta (comunque) dei prof

di Eugenio Scalfari

In Italia, per anni, hanno prevalso i politici che 'sapevano comunicare' e basta. Il che creava una classe dirigente non migliore dei cittadini. Con il governo uscente, questo meccanismo si è rotto

(06 dicembre 2012)

Tra i tanti talenti che distinguono le persone una dall'altra c'è anche quello della comunicazione; riguarda il rapporto che quella persona riesce ad instaurare con gli altri, a farsi intendere e possibilmente a convincerli ad accettare le sue proposte e a condividere le sue idee.

Il comunicatore è un estroverso e le due parole sono quasi sinonime, quasi ma non del tutto perché può anche essere un estroverso che non ha nulla da comunicare e cerca soltanto d'apparire simpatico. Il vero comunicatore invece, oltre che a riuscir simpatico, deve avere qualcosa da vendere perché il vero sinonimo è la parola venditore. Non importa che cosa venda: cose materiali o immateriali, idee oppure oggetti, informazioni oppure abitazioni, progetti oppure lingotti d'oro. Il comunicatore-venditore è una vocazione innata che spesso diventa una professione. Il giornalista, il capo d'un ufficio stampa, l'uomo politico, il romanziere, possono essere comunicatori-venditori. Se non lo sono falliranno nella loro professione.

COMUNICATORI SI NASCE ma anche si studia per capire alcune tecniche che riguardano soprattutto il tipo di persone alle quali i loro messaggi debbono indirizzarsi, l'abbigliamento da indossare, il linguaggio, le tecniche di approccio. Si chiama "marketing", una parola inglese ormai entrata nel lessico internazionale. Lo stato del marketing suggerisce le tecniche appropriate per conquistare la fiducia di quel pubblico senza il quale le parole del comunicatore sono spazzate via dal vento. Perfino il corteggiamento amoroso si avvale di queste tecniche, il "playboy" infatti è un mestiere. L'amore vero infatti è tutt'altra cosa.

Ma il campo più appropriato è la politica specie da quando si rivolge ad un pubblico di massa utilizzando le nuove tecnologie della radio, della televisione e della rete. Non sono molti i politici dotati di capacità comunicative e non sempre la loro è un buona politica, anzi non lo è quasi mai. La buona politica si dovrebbe giudicare dai fatti e dai risultati, ma i fatti e i risultati hanno bisogno d'un tempo lungo per essere percepiti. Le emozioni invece sono immediate anche se molto spesso producono cattiva politica.


PER I POLITICI che perseguono una visione del bene comune le loro capacità comunicative consistono nello spiegare con chiarezza i loro concreti programmi. Quanto tempo sarà necessario per realizzarli, quali sacrifici bisognerà sopportare e quale benessere ne deriverà. E poi, una volta fornite queste spiegazioni rivolte soprattutto alla razionalità del pubblico che le ascolta, lavorare lavorare lavorare per ottenere i risultati sperati e promessi.

Ma i comunicatori che si rivolgono agli istinti emozionali del loro pubblico promettono felicità immediate e facili da raggiungere. Sacrifici, nessuno, ci penserà il comunicatore a sopportarli, è cosa che riguarda soltanto lui, è fatica sua. La sola condizione per poterla sopportare e condurre a termine è che gli sia dato il potere per affrontare quella fatica. Il risultato di solito è pessimo o del tutto inesistente, ma gli illusi se ne accorgeranno molto più tardi. Nel frattempo il cattivo comunicatore avrà modificato le condizioni della società in peggio, avrà creato clientele compensate dai suoi benefici, stigmatizzerà gli avversari come nemici della patria.

Noi italiani siamo un popolo particolarmente emotivo. Naturalmente non siamo i soli, l'emotività è un aspetto del carattere diffuso dovunque ed esiste in ciascuno di noi. Quella che varia è la misura, dove si colloca la soglia al di qua della quale l'emotività è fisiologica e al di là diventa una malattia.

Gli italiani sono al limite di quella soglia e un comunicatore talentuoso che abbia interesse a fargliela varcare ci riesce facilmente. Infatti la nostra storia è costellata da politici di cortissima vista, disposti a seminare illusioni, a premiare clientele, a governare per l'arricchimento dei già forti e l'esclusione dei sempre deboli. Ne abbiamo avuta una collezione, si potrebbe definire l'album delle occasioni perdute e talvolta culminate in vere e proprie catastrofi nazionali.

Non è un caso che la disoccupazione, il cosiddetto esercito di riserva, abbia sempre oscillato nel nostro Paese attorno a 2-3 milioni di persone, in gran parte residenti nel Mezzogiorno e nelle campagne. Il mercato economico della piena occupazione si realizzò soltanto tra il 1958 e il 1965, preceduto e seguito da emigrazioni di massa.

E NON E' UN CASO che uno degli strumenti per rendere meno pesante quel fenomeno sia stato - prima e dopo il breve periodo del miracolo - l'impiego negli uffici dello Stato e del parastato, creando una burocrazia pletorica e inefficiente. Non è infine un caso se la borghesia produttiva e "illuminata" sia stata scarsissima, protetta comunque da dazi e commesse pubbliche.

Se è vero che la nostra classe dirigente è stata nel complesso scadente, è altrettanto vero che ogni paese ha la classe dirigente che si merita.

Per questo il governo Monti ha rappresentato una positiva rottura col passato e le primarie del Pd una promessa di miglior futuro.

Un auspicabile governo che abbia una forte impronta di centrosinistra nel quadro di una continuità innovativa con quello attualmente in carica potrebbe finalmente costruire un paese dove una maggiore eguaglianza conviva con una responsabile libertà inaugurando una stagione che dia ai giovani occasioni e concrete speranze.

Questa è la scommessa che dovrebbe cominciare con le elezioni regionali del prossimo 10 febbraio e continuare con quelle politiche dell'aprile. Libertà, eguaglianza, Europa: questo è l'augurio col quale salutare l'anno che sta per concludersi.
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Speriamo che il premier non cada in tentazione
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2012, 11:53:16 pm
   
Speriamo che il premier non cada in tentazione

di EUGENIO SCALFARI


MARIO MONTI è stato tentato. Non è un santo, ma un buon cattolico sì, lo è. Conosce i precetti della Chiesa e li osserva e sa che i santi sfidano la tentazione per mettersi alla prova. Di solito resistono alle lusinghe del tentatore che è lo spirito della terra, cioè Lucifero o comunque si chiami l'angelo decaduto e diventato diavolo. Perfino Gesù sfidò il diavolo ritirandosi nel deserto per quaranta giorni. Ma per lui era facile sconfiggerlo: era il figlio di Dio o credeva di esserlo, perciò sconfisse il tentatore e tornò a predicare la salvezza delle anime.

Monti non si è ritirato nel deserto ma è stato invitato a Bruxelles al congresso del Partito popolare europeo. Non c'era il diavolo a Bruxelles ma i capi del Ppe e i primi ministri europei militanti in quel partito. E tutti - a cominciare da Angela Merkel - si sono congratulati con lui per la politica attuata in Italia e in Europa, l'hanno esortato a continuare l'opera sua anche dopo le elezioni politiche del prossimo febbraio. Non hanno detto esplicitamente con quale ruolo ma implicitamente glielo hanno fatto capire: guidare le forze politiche dei moderati, cattolici o non cattolici. I modi per conseguire quell'obiettivo e guidare anche il governo, questi riguardano lui altrimenti si tratterebbe di un'ingerenza che nessuno in Europa vuole compiere.

Monti si è riservato e farà conoscere le sue decisioni prima di Natale. Perciò nulla sappiamo su quanto deciderà, ci sta pensando. Se cadesse
in tentazione commetterebbe un peccato di ambizione. Ambizione legittima ma comunque un peccato. Massimo D'Alema lo ha pubblicamente diffidato: metterebbe in difficoltà il Pd, il partito che più degli altri lo ha lealmente appoggiato fin dall'inizio quando Berlusconi si dimise e il Pd avrebbe potuto chiedere che si andasse subito alle elezioni che probabilmente avrebbe vinto. Bersani respinse quella pur legittima tentazione nell'interesse dell'Italia. Bersani non è certo un santo e non credo neppure che sia un cattolico praticante, ma dette un contributo alle sorti d'un Paese in emergenza.

L'emergenza dura tuttora e il Pd ha dichiarato di mantenere tutti gli impegni che il governo Monti ha preso con l'Europa. Monti a sua volta ha confermato d'esser disponibile a contribuire al superamento dell'emergenza economica se sarà chiamato a farlo dal nuovo Parlamento e dal nuovo governo che uscirà dalle urne. Con quale ruolo non l'ha precisato.

Ieri però ha detto al nostro giornale una cosa della massima importanza: non starà mai più con Berlusconi malgrado adesso con una giravolta di grande maestria il Cavaliere si sia dichiarato montiano.

Le cose sono dunque a questo punto: Monti non starà mai più con Berlusconi; darà un contributo se richiesto. Perfetto, ma in quale ruolo? Se cederà alla tentazione il ruolo non può che essere quello di primo ministro; ma qui c'è di mezzo il popolo sovrano chiamato al voto e il presidente della Repubblica cui spetta la nomina del premier e dei ministri da lui proposti. Se dalle urne il Pd uscisse vincente, rafforzato nella vittoria dal premio previsto dalla legge che assegna al primo arrivato il 55 per cento dei seggi della Camera, la guida del governo spetterebbe a quel partito salvo il risultato raggiunto al Senato dove il premio scatta con un meccanismo del tutto diverso.

A quel punto la parola passerà al centro moderato, guidato o sponsorizzato da Monti; oppure con Monti in panchina "en réserve de la République", pronto a contribuire sia nell'un caso sia nell'altro.

* * *

Il centro, allo stato delle cose, è senza testa. È composto dall'Udc di Casini; in posizione più defilata dal gruppo di Fini. Sommati insieme, secondo gli ultimi sondaggi, arrivano all'8-9 per cento. Con Montezemolo e Riccardi possono aspirare al 12. Una lista guidata da Passera (o la medesima) potrebbe arrivare al 18 o forse al 20. Sponsorizzati da Monti fin forse al 25. Guidati direttamente da Monti addirittura al 30 o perfino sfondare al 35. A quel punto il risultato complessivo sarebbe sulle ginocchia di Giove ma la cosa certa è che se Monti scenderà in qualche modo in campo lo scontro politico ed elettorale si svolgerà tra il centro e la sinistra riformatrice con Berlusconi e i suoi relitti in posizione di arbitro e il Movimento 5 stelle altrettanto.

D'Alema ha certamente usato toni sconvenienti nei confronti di Monti, ma le ipotesi fin qui esposte corrispondono alla sostanza delle sue parole e configurano una situazione da incubo non per il Pd ma per il Paese. Se si vuole evitarla Monti deve restare in panchina oppure sponsorizzare insieme il centro e il centrosinistra. Questa sarebbe la soluzione ottimale.

* * *

Si dice: ma Vendola? Ma i popolari di Fioroni? Ma Renzi? Ma la sinistra radicale? Non credo che i problemi siano questi e semmai possono emergere nel solo caso d'uno scontro diretto tra centro e centrosinistra.

Si dice anche: l'agenda Monti va comunque rispettata, il resto sono solo chiacchiere. Vero. Personalmente, per quel che vale, l'ho scritto da sempre. Ma qual è l'agenda Monti? Lo sappiamo: rispettare gli impegni presi con l'Europa, in parte già attuati e in parte da attuare.

Quelli attuati riguardano il rigore dei conti pubblici; quelli da attuare riguardano il rilancio dello sviluppo, dell'occupazione e dell'equità sociale.

Bersani si è impegnato a rispettare i primi e ad attuare con equilibrio e gradualità i secondi. Da questo punto di vista l'agenda Bersani coincide con l'agenda Monti e con le richieste dell'Europa e anche con l'agenda del centro con qualche leggera variante. Ma esiste un terzo capitolo, determinante, ed è la costruzione dello Stato federale europeo.

Questo capitolo è al tempo stesso montiano, bersaniano, centrista. È dunque assolutamente chiaro che queste forze politiche debbono stare insieme. Non si esce dall'emergenza se non mantenendo il rigore e rilanciando sviluppo ed equità. E non si costruisce il futuro se non unificando l'Europa o almeno l'Eurozona.

Questi obiettivi sono al tempo stesso ambiziosi e necessari. In Europa hanno molti alleati. La Merkel è una di questi, specie quando avrà superato le elezioni e tanto più se dovrà allearsi con la socialdemocrazia. Mario Draghi è l'altro pilastro che opera efficacemente e fin dall'anno scorso in quella direzione. Obama ha lo stesso obiettivo che conviene all'America anche se deve scontrarsi con una forte opposizione delle grandi banche d'affari americane.

In Italia c'è un precedente che va ricordato. In un altro periodo d'emergenza nazionale, determinato dal terrorismo, la risposta politica della classe dirigente italiana fu l'alleanza tra Moro e Berlinguer. Moro fu rapito e ucciso dalle Br ma l'alleanza restò in piedi, anzi si rafforzò ancora di più, con Zaccagnini (e Pisanu) e Andreotti e Cossiga da un lato, e tutto il Pci compattamente dall'altro. Se lo ricordi Casini, se lo ricordi Vendola. Montezemolo se lo faccia raccontare.

C'era anche Paolo VI in quell'alleanza, naturalmente nei modi e nelle forme appropriate ad un Pontefice. Lo tengano ben presente Benedetto XVI, il cardinale Bagnasco e il vecchio, ma sempre combattivo cardinal Ruini. Non spetta a loro costruire o incoraggiare un partito; loro debbono perseguire la pace, anche quella politica.
Infine c'è un sostegno determinante per l'attuazione dell'agenda Italia, si chiama Giorgio Napolitano. Le elezioni anticipate hanno comportato qualche difficoltà attuativa ma hanno consentito un fondamentale vantaggio: il regolatore della partita, prima e dopo il responso delle urne, sarà il Quirinale. Noi l'abbiamo sempre sperato ed ora è finalmente accaduto. Per iniziativa di Monti e per decisione di Napolitano.

Tutto è dunque di buon auspicio e suggerisce di resistere alle tentazioni. "Unicuique suum" e "Non praevalebunt" diretto agli anti-europeisti e quindi anti-italiani. È questo che speriamo accada.

(16 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. "Centro e Pd dovranno allearsi dopo il voto.
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2012, 06:12:17 pm
Ecco il memorandum di Monti: "Qualcosa mi dice di non candidarmi.

Ma insieme va ricostruito il paese"

Il presidente del Consiglio alla vigilia della conferenza stampa di fine anno in cui proporrà la sua ricetta per il nuovo governo.

"Centro e Pd dovranno allearsi dopo il voto. Mai con Berlusconi, dobbiamo fare muro e limitare il riafflusso della destra populista"

di EUGENIO SCALFARI

   
HO INCONTRATO Monti nel suo studio di Palazzo Chigi. Erano le nove e mezza del mattino e lui m'aveva invitato a prendere insieme un caffè. È stato un caffè molto lungo perché sono uscito alle dieci e tre quarti. In quest'anno del suo governo l'avevo incontrato una sola volta a Bologna dove con Ezio Mauro lo intervistammo nel teatro della città.

Eppure ci conosciamo da molto tempo: nel 1950 io dirigevo l'ufficio estero della Banca Nazionale del Lavoro nella filiale di Milano guidata da suo padre. Diventai amico del Monti senior che di tanto in tanto mi invitava a cena a casa sua insieme ad altri collaboratori del suo staff. Monti junior aveva più o meno dieci anni, io ne avevo ventisette. Ma molti anni dopo, quando lavorava alla Bocconi di cui poi fu rettore, diventammo amici, ci incontravamo e ci telefonavamo spesso e quando veniva a Roma spesso ci vedevamo a "Repubblica".

Racconto queste cose per meglio inquadrare il nostro colloquio. Mentre scrivo queste righe non sappiamo ancora, né voi né io, che cosa dirà stamattina nella conferenza stampa con la quale si conclude la sua azione di governo. Annuncerà qualche cosa, ma che cosa? Nel pomeriggio di venerdì è andato al Quirinale a dimettersi dopo un breve Consiglio dei ministri che ha formalizzato le dimissioni del governo. Nel frattempo Camera e Senato avevano approvato la legge di stabilità finanziaria.

Non credo di commettere un'indiscrezione se racconto i passi principali del nostro colloquio. Due amici si scambiano opinioni sulla situazione politica mentre una legislatura finisce e un governo nato per gestire l'emergenza economica rassegna le dimissioni.

Siamo all'inizio d'una campagna elettorale decisiva per molti aspetti, non solo per l'Italia ma anche per l'Europa di cui l'Italia è un tassello essenziale. Forse le cose che ci siamo dette possono servire a chiarire alcune questioni. Del resto non ci sono segreti da rivelare ma soltanto una trasparenza utile ad orientarci.

* * *

Che cosa pensi di fare? gli ho chiesto quando ci siamo seduti uno di fronte all'altro. Non avevo più messo piede in quella stanza dai tempi dell'ultimo governo Amato, alla vigilia delle elezioni del 2001. "Parla tu e dimmi come vedi le cose" ha risposto.

Io le cose le vedo così. Anzitutto, quale che sia il risultato che uscirà dalle urne, Monti è una persona indispensabile per garantire l'Italia di fronte agli alleati europei e americani e lui ne è pienamente consapevole. Del resto l'ha già detto più volte. Ricordatelo. Hai detto: sarò disponibile a dare il mio contributo se chi ha titolo per farlo me lo chiederà. Ricordo bene? "Sì, ricordi bene, ho detto così".

Il titolo per farlo ce l'ha anzitutto il presidente della Repubblica. Napolitano avrebbe preferito che si votasse ad aprile alla scadenza naturale della legislatura o al più presto a marzo; in quel caso non sarebbe toccato a lui dare l'incarico al nuovo capo del governo, bensì al suo successore. Alfano però, sotto la spinta di Berlusconi, dichiarò che il suo partito considerava chiusa la partita e nel tempo che restava avrebbe votato solo i provvedimenti che approvava. Sugli altri si sarebbe astenuto anche se fosse stata posta la questione di fiducia e così fece fin dalla prima occasione. In Senato, tra l'altro, l'astensione equivale a voto contrario. Insomma volevano cuocerti a fuoco lento per altri tre mesi. La tua risposta è stata quella di preannunciare le tue dimissioni immediate, non appena fosse stato approvata la legge di stabilità finanziaria. Napolitano si è molto rammaricato ma non con te bensì col partito che aveva provocato una crisi inevitabile. Io personalmente sono contento che le cose siano andate in questo modo perché dà molta più sicurezza agli italiani che il risultato elettorale e la formazione di un nuovo governo siano gestiti da Napolitano.

"Questa è anche la mia opinione".

Aggiungo ancora una riflessione a questo proposito: il Porcellum è una legge vergognosa perché confisca la libertà degli elettori di scegliere i loro candidati al Parlamento, ma consente però di decidere qual è la maggioranza alla quale affidare il compito di governare. Nelle attuali condizioni una legge elettorale a base proporzionale avrebbe eletto un Parlamento ingovernabile.

"Su questo punto non sono d'accordo, ci sono già 20 liste in preparazione, ti pare poco?".

Alcune si coalizzeranno tra loro e la maggior parte sono liste di peso numerico assai scarso. Quelle che contano in questa partita a scacchi saranno quattro o al massimo cinque: le liste di Berlusconi, il Centro, il Centrosinistra, Grillo, la Lega. "Non sono pochi". Hai ragione, non è poco ma non sono venti.

"Come valuti Berlusconi?".

Più forte di quanto molti pensino. Il suo vecchio elettorato l'aveva lasciato e preferiva astenersi, ma ora che è tornato in scena e farà campagna contro di te che sei accusato d'aver imposto sacrifici insopportabili sulle spalle dei "soliti noti" cioè delle fasce sociali deboli e del ceto medio, i suoi ex elettori in gran parte lo voteranno ancora. Aggiungi la sua propaganda contro i comunisti e vedrai che i suoi voti aumenteranno un bel po'.

"Per la sesta volta? Dopo aver visto quali danni ha fatto all'economia italiana e alla credibilità del paese?".
Il nostro, caro Mario, è un paese molto emotivo e di memoria assai corta. Ed è anche un paese con molti furbi. Il populismo c'è dovunque ma da noi più che altrove. I furbi scambiano il voto con qualche favore chiesto e ricevuto, i gonzi credono alle promesse che non saranno mai mantenute e si scordano d'esser già stati per cinque volte gabbati.

"A quanto valuti i berlusconiani?"

Al 20 per cento e forse anche di più. "Anch'io faccio analoghe valutazioni. Questo è uno dei motivi per i quali bisogna rafforzare il Centro: fare muro e limitare il riafflusso alla destra populista".

Ma tu quanto valuti il Centro, quello attuale, Casini, Fini, Montezemolo con il tuo ministro Riccardi? "Conosco i sondaggi. Così com'è, lo stimano tra il 9 e il 12 per cento". Così com'è vale a dire senza di te.
"Esattamente, senza di me". Loro però diranno che in ogni caso vogliono te a capo del nuovo governo. "Questo nessuno glielo può impedire". A te fa piacere? "Beh, sì, mi fa piacere". E se tu ti metti alla loro testa, quanto vali tu come moltiplicatore? "Questo non lo so. Vedo che i sondaggi su di me mi danno intorno al 40 per cento; alcuni anche di più".

Secondo me meriti di più, hai salvato il paese dal baratro in cui stava precipitando e gli hai ridato una credibilità che avevamo perso da tempo. Ma tieni conto che più del 60 per cento preferisce che tu non partecipi alla campagna elettorale. Ma c'è un ultimissimo sondaggio: se ti metterai alla testa del Centro, la loro quota aumenterà del 6 per cento. Dal 10 al 16. "Tu pensi che accadrebbe così?". Parliamo di sondaggi, valgono quel che valgono. Se il Centro facesse blocco con Berlusconi, arriverebbe almeno al 30 per cento se non di più.

"Sai bene che non lo farò mai". Certo che lo so. Però si dice che alcuni parlamentari del Pdl vorrebbero transitare in liste da te guidate. "Alcune persone per bene, sì, vorrebbero venire al Centro e io non sarei contrario". Mi viene in mente il nome di Pisanu, ma lì finisce l'elenco. "Ce n'è qualcun altro". Bada, non vanno oltre le dita d'una mano ma comunque la questione non è la transumanza dei parlamentari bensì il consenso degli elettori. Il Centro di Casini esiste ormai da molto tempo, quello di Fini da due anni, ma non hanno mai decollato. Casini oscilla tra il 6 e il 7, Fini con il 2. Non si muovono da lì.

"Perché sono politici fin da ragazzi e la gente non sopporta più i politici professionali. Si parla ormai di esperti e di società civile. È questo che non fa decollare il Centro, cioè i partiti che lo rappresentano e che non sono populisti. Questo è un loro pregio ma non porta voti. Un movimento della società civile forse li porterebbe".

Montezemolo, secondo te, rappresenta la società civile?

"Rappresenta in qualche modo le imprese. Riccardi è il fondatore di Sant'Egidio...". E rappresenta la Chiesa. Anche tu sei cattolico, ma non rappresenti la Chiesa. Io non credo che la religione si debba occupare di politica e di partiti. Purtroppo vedo che se ne occupa ma non credo sia sopportabile. Carlo Azeglio Ciampi è cattolico ma ha rappresentato il laicismo dello Stato. Lo stesso fece Scalfaro che era cattolicissimo ma laicissimo. Napolitano poi è tutt'altra cosa.

"Anch'io sono laico nel senso che tu intendi". Lo so e per questo dico che una lista imbottita di persone pur degnissime che fanno parte di Comunione e Liberazione o di Opus Dei, o di Acli o di altre analoghe associazioni del tipo delle cooperative bianche e dei coltivatori diretti cattolici, non è società civile ma Chiesa militante. Allora il piano cambia, si rifà la Dc.

"Nessuno di noi pensa questo e io non mi propongo un obiettivo del genere". Di te sono certo, di altri tuoi compagni di viaggio sono assai meno convinto. Può darsi che io abbia un pregiudizio su questo argomento, come sai sono laico e non credente. Ma ammiravo e frequentavo il cardinal Martini che non godeva di gran favore nella Chiesa di Bertone. Quanto alla Dc, c'era una forte sinistra nella Dc di allora. Non vedo una sinistra nell'eventuale Dc che nascesse oggi.

"Senti, sono stato a Melfi l'altro giorno...". Posso dirti che stare in una fabbrica da cui era esclusa la Cgil non ti giova? "Mi ha provocato molti attacchi, lo so, ma quel cortile era pieno di operai, migliaia di operai. Non credo che fosse una claque, erano lavoratori che vedevano tornare il lavoro. Per questo applaudivano. Mi sono commosso a vederli e ad ascoltarli". Capisco. Ma fuori dai cancelli ce n'erano altri di operai, che non sono stati fatti entrare. Questo non va bene, non ti pare?

"Infatti mi è dispiaciuto, ma non spettava a me di aprire i cancelli". Mi permetterai di dire che forse dovevi farne cenno nel tuo discorso. Comunque torniamo a te. Hai deciso? Lo dirai domenica nella conferenza stampa?

"Ecco il punto. Domenica farò un bilancio consuntivo dei miei 400 giorni di governo, come ho ereditato una situazione fallimentare e come la lascio oggi. Elencherò gli impegni presi con l'Europa e già adottati, e gli impegni non ancora attuati ma già previsti".

L'agenda Monti insomma. "Sì, gli impegni che ci hanno ridato credibilità e che non possono essere smantellati senza ripiombare nel precipizio che abbiamo evitato". Quello che Grillo contesta e i berlusconiani rimettono in discussione.

"Purtroppo li contestano anche la Camusso e Vendola. Questa è una forte differenza tra il Centro e il Pd".

Per quanto riguarda la Camusso, hai ragione, secondo me però è un personaggio con la quale bisognerebbe aprire un discorso serio.

"Tu l'hai fatto e scritto quando la mettesti di fronte alla politica riformista di Luciano Lama". Sì, lei mi rispose a male parole e soprattutto disse che la situazione di oggi è molto diversa da quella di allora. In questo però aveva ragione.

"Comunque la Cgil vuole smantellare l'agenda degli impegni con l'Europa. Questo è un obiettivo impensabile".

Bersani però ha riconfermato che il Pd rispetterà tutti gli impegni presi ed è andato a dichiararlo a Bruxelles l'altro giorno. L'aveva già detto ripetutamente nei dibattiti nelle primarie. Del resto io ricordo che tra gli impegni presi da te e dall'Europa c'erano anche equità e sviluppo. Il Pd ritiene che anche questi sono impegni da rispettare ma ancora evanescenti. Quanto a Vendola hai torto. Te lo dico perché tu ne tenga conto. Vendola vuole trasformare il welfare perché quello attuale  -  è lui che lo dice  -  non tiene conto della realtà, dei contratti nuovi e innumerevoli, della società invecchiata. Insomma della modernità. Mette al primo posto la necessità di investire nella scuola, prima di ogni altro obiettivo secondo lui c'è quello: scuola, università, ricerca. Gli ho chiesto, in un incontro di pochi giorni fa, chi sono i suoi punti di riferimento, le persone rappresentative dei valori in cui crede e questa è stata la risposta: Gramsci e Gobetti. Mi ha sorpreso. Gli chiesto: e i fratelli Rosselli? Ha risposto: certo anche loro e il liberalsocialismo. Gli ho detto: ma da quanto tempo la pensi così? Ha riposto: da quando ho cominciato ad amministrare la Puglia, una delle regioni più grandi d'Italia e più moderne.

"Sarà così e ne sarei contento, ma per ora non parla in questo modo. Camusso, Vendola e molti altri nel Pd vogliono e dicono di voler smantellare quello che è stato fatto. Io sono del parere di Ichino che del resto è uno dei più fedeli a quel partito e credo nell'onestà intellettuale di Bersani".

Torniamo alla tua conferenza stampa. Gli impegni che hai effettuato e quelli che dovranno essere realizzati. E poi?

"Poi leggerò un messaggio, un memorandum, forse è meglio chiamarlo così, rivolto al Paese". Non anche alle forze politiche? "Al Paese, alla pubblica opinione e alle forze sociali e politiche".

E che cosa dirai?

"Proporrò un programma che a mio avviso dovrebbe essere attuato fin dall'inizio, nei primi cento giorni del nuovo governo". E cioè? "Una legge aggiuntiva contro la corruzione; quella varata poche settimane fa è stata di fatto concordata con la cosiddetta "strana maggioranza", ma è manchevole, consapevolmente manchevole di alcuni punti importanti. Bisogna completarla. Altrettanto bisogna fare con le liberalizzazioni. Bisogna rendere più penetrante l'azione antitrust in favore della libera concorrenza. Portare a termine l'impegno di abolizione delle Province. Cambiare la legge elettorale basandola sui collegi. Dimezzare il numero dei parlamentari. Portare avanti al riforma fiscale. Difendere fino in fondo la riforma delle pensioni. Cambiare il welfare e creare un sistema generale di ammortizzatori sociali. E soprattutto investire nelle scuole superiori, nell'università e nella ricerca".

Ci sono molti punti comuni con il Pd. "Certo". Tu pensi ad un'alleanza post elettorale?

"La considero indispensabile. Dobbiamo ricostruire la pubblica amministrazione e costruire lo Stato dell'Europa federale. Ti sembrano compiti che possano essere portati avanti da un solo partito? Ci vuole una grande alleanza perché si tratta di una vera e propria rivoluzione".

Ma poi che altro dirai? Ti proponi come portabandiera e leader del Centro?

"Non lo so ancora. Ma dentro di me qualcosa mi dice di no. Chi si impegna nelle elezioni lo fa per vincere. Poi ci si può anche metter d'accordo ma alcune ferite possono essere inflitte da una parte e dall'altra. Io non voglio che questo accada tra due forze che poi dovranno necessariamente stare insieme".

E allora?

"Allora ci dormo sopra. So che Napolitano preferirebbe che io, pur incoraggiando la parte politica a me più congeniale, restassi in panchina. Vedrò. La notte porta consiglio. Intanto Buon Natale".

Ci siamo dati la mano e mi ha accompagnato fino all'ascensore. Davanti ai commessi e ad alcuni suoi collaboratori mi ha abbracciato. Sobrio in privato, affettuoso in pubblico. Avrà certo le sue ragioni. A me ha fatto molto piacere.


(23 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/23/news/scalfari_monti-49323281/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che cosa vuol dire questione morale
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2012, 04:23:12 pm
Opinione

Che cosa vuol dire questione morale

di Eugenio Scalfari

Enrico Berlinguer l'aveva spiegato bene già nel 1981: non è solo un problema di onestà della classe dirigente, bisogna difendere le istituzioni dalla partitocrazia che le ha invase. Un obiettivo ancora attuale

(27 dicembre 2012)

La settimana scorsa ero a Bologna per presentare la raccolta dei miei scritti giornalistici e letterari nella collana dei Meridiani.
Le sale della Biblioteca del Comune ospitano un milione di volumi. Le decorazioni di quelle sale non hanno paragone, danno la percezione fisica che le radici del nostro Paese affondano in larga parte in quella terra, dove si respira al tempo stesso un'aria di solide tradizioni e di audaci innovazioni.

Nel corso del dibattito mi sono state poste molte domande sui temi che il mio Meridiano può stimolare sulla filosofia, sull'arte, sul linguaggio e anche sulla politica. Temevo che l'interesse per la politica, mai come in questi giorni di attualità, finisse col mettere ai margini i temi di letteratura e di filosofia; invece non è stato così. La sola domanda politica ha riguardato la mia intervista con Enrico Berlinguer del 1981 sulla questione morale. Che cosa intendeva dire il leader del Pci parlando di questione morale? E il suo pensiero di trent'anni fa è ancora attuale?

BERLINGUER CHIARI SUBITO che la questione morale non riguardava i tanti casi di disonestà e illegalità anche allora commessi nei partiti, nel mondo delle imprese e nella classe dirigente considerata nel suo complesso. Quei casi ci sono sempre stati in Italia e in tutti i paesi del mondo. Sono reati deprecabili, accadono in tutte le epoche e in tutti i regimi, debbono essere denunciati e perseguiti, ma non è questa la questione morale cui si riferì Berlinguer. Lui la definiva invece «l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti».

I partiti, compreso lo stesso Pci a livello locale ma tutti gli altri anche a livello nazionale, stavano deformando la democrazia italiana.
Le istituzioni sono – dovrebbero essere – depositarie dell'interesse generale dello Stato, mentre i partiti sostengono ciascuno la propria visione del bene comune e su quella base chiedono il consenso dei cittadini. I partiti cioè debbono essere strumenti di comunicazione tra il popolo degli elettori e le istituzioni, dunque tra la società, i ceti sociali e le categorie professionali che la compongono, i loro legittimi interessi dei quali reclamano la tutela, e le istituzioni che rappresentano lo Stato e la comunità nel suo insieme. La società esprime interessi del presente, le istituzioni debbono avere invece una visione più lunga che guarda anche al futuro dei figli e dei nipoti.

Questa è la differenza che richiede una mediazione costante tra presente e futuro, garantita dall'autonomia delle istituzioni.
Se i partiti le occupano questo equilibrio si rompe, la democrazia si deforma e il populismo invade lo Stato. «E' dunque necessario – disse Berlinguer in quell'intervista – difendere le istituzioni dalla partitocrazia che le ha invase».

PURTROPPO IL PROBLEMA è più che mai attuale perché l'autonomia delle istituzioni non è stata ancora recuperata, anzi la loro occupazione ha raggiunto il culmine durante il ventennio berlusconiano. A guardar bene, i due settennati dei Presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano si sono svolti all'insegna di questo tema e qualche passo avanti nella giusta direzione è stato compiuto.
L'esperienza del governo Monti, dettata soprattutto dall'emergenza della crisi economica, ha però avuto anche questo significato: il recupero dell'autonomia istituzionale, dello stato di diritto, della separazione dei poteri; la Corte costituzionale come sede suprema, il Capo dello Stato come garante.

Le prossime elezioni ci diranno qual è la visione del bene comune preferita dalla maggioranza degli elettori e sarà quella visione a esprimere il nuovo governo, sempre avendo presente che governo, Parlamento, magistratura, sono autonome istituzioni. I passi avanti compiuti su questa strada dovranno essere preservati e portati ancora più avanti. La questione morale è questa, non è ancora stata risolta, non è alle nostre spalle ma dinanzi a noi.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/che-cosa-vuol-dire-questione-morale/2196927/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Per favore Professore non rifaccia la Dc
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2012, 05:11:34 pm
Per favore Professore non rifaccia la Dc

di EUGENIO SCALFARI


È CAMBIATO in appena una settimana. Domenica scorsa, davanti ad un'affollata platea della Federazione della stampa, Mario Monti aveva parlato da uomo di Stato tracciando le linee maestre d'un programma (o agenda che dir si voglia) per completare l'uscita dall'emergenza e proiettare il Paese verso il futuro dell'Italia e dell'Europa. Aveva ripetuto un punto di fondo che già conoscevo e avevo scritto riferendo una conversazione avuta con lui il giorno prima: "Dobbiamo riformare la pubblica amministrazione per adeguarla alla società globale e dobbiamo costruire lo Stato federale europeo. Si tratta di compiti estremamente impegnativi, pieni di futuro e di speranze e per condurli a termine è necessaria una grande alleanza di forze sociali e politiche che accettino questo programma".

E poi l'agenda delle cose concrete da fare: completare la legge contro la corruzione, portare avanti le liberalizzazioni, ripristinare il reato di falso in bilancio, varare una legge che risolva il conflitto d'interesse. E soprattutto, mantenere gli impegni assunti con l'Europa, stabilizzare il rigore dei conti pubblici e avviare la seconda parte di quegli impegni, la crescita economica, il lavoro, l'equità, il taglio delle spese correnti, l'alleggerimento delle imposte sul lavoro e sulle imprese, la produttività e la competitività, l'abolizione delle Province, il ruolo delle donne, il tasso demografico. "Fate più bambini" aveva concluso.

Quanto a lui, avrebbe atteso di vedere quali forze sociali e politiche avessero fatto propria la sua agenda.

Se gli avessero chiesto di dare il suo contributo alla realizzazione di quel programma, era pronto ad assumerne la responsabilità. Un bellissimo discorso, di chi opera nel presente guardando al futuro, all'insegna di uno slogan che era molto più di uno spot: il cambiamento contro la conservazione.

Ma appena due giorni dopo aveva già iniziato colloqui riservati con l'associazione di Montezemolo e con i centristi di Casini e di Fini, avendo come consiglieri i suoi ministri Riccardi e Passera; poi aveva incontrato il giuslavorista Ichino in rapido transito dal Pd alla montiana coalizione centrista; i dissidenti del Pdl guidati da Mauro, mentre cresceva il numero dei ministri del suo governo interessati a proseguire con lui l'esperienza iniziata un anno fa.

Intanto fioccavano gli "endorsement" da quasi tutte le cancellerie europee e americane ed uno decisivo da ogni punto di vista del Vaticano, proveniente dai cardinali Bertone e Bagnasco e dall'"Osservatore Romano". La Chiesa, o almeno la sua gerarchia, lo vorrebbe alla guida dell'Italia per i prossimi cinque anni.

Quindi centrismo e una spolverata cattolica. Era salito in politica domenica ma già da martedì stava scendendo per mettersi alla testa di una parte. Si era alzato dalla panchina dove, secondo l'opinione del Capo dello Stato, avrebbe dovuto restare fino a dopo le elezioni, pronto a dare soltanto allora, a chi glielo chiedesse avendone acquisito il titolo elettorale, il contributo della sua competenza e della sua autorevolezza.

Invece non è stato così. Restano naturalmente da definire ancora parecchie questioni: "Per l'agenda Monti" oppure "Per Monti" o addirittura "Monti presidente"? Su questi punti si discute ancora ma si tratta di dettagli. Intanto il commissario Bondi che finora si era dedicato con efficacia alla revisione della "spending review" si sarebbe impegnato al controllo delle nuove candidature per quanto riguarda i redditi, il patrimonio e gli eventuali conflitti di interesse.

Con il fronte berlusconiano la rottura politica è stata completa e definitiva. Questo è un fatto certamente positivo. Bersani è definito invece affidabile ma la Camusso e Vendola sono considerati più o meno bolscevichi. Casini e Fini sono appendici interessanti ma ovviamente subalterne, aderiscono ma è lui a dettare le condizioni. Benissimo il Vaticano purché senza ingerenze. Ovviamente. Del resto il Vaticano non ne ha mai fatte, neppure ai tempi di Fanfani, di Moro, di Andreotti. Ha sempre e soltanto suggerito su questioni concrete e specifiche. La prassi è sempre stata la buona accoglienza del suggerimento. Con Berlusconi poi non ci fu nemmeno bisogno di suggerire: lui giocava d'anticipo. Gli bastava un monosillabo o addirittura un mugolio, tradotto da Gianni Letta. Perciò adesso si sente tradito e forse tra poco si dichiarerà anticlericale.

Da venerdì scorso comunque Mario Monti è a capo della coalizione centrista. La panchina è vuota, perfino i palazzi del governo sono semivuoti, eppure nei 60 giorni che mancano alle elezioni ce ne sarebbero di cose da fare, di provvedimenti già approvati ma privi di regolamentazione, di pratiche da portare avanti, per quanto mi risulta in ufficio c'è rimasto soltanto Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale. Lui ha idee di sinistra, quella buona per capirci, non quella di Ingroia dove si parla solo della rivoluzione guidata dalle Procure e dell'agenda di Marco Travaglio.

Perfino il commissario Bondi ha smesso di occuparsi di "spending review" per il nuovo compito sulla formazione delle liste. Lo fa nel tempo libero o in quello d'ufficio? Ecco una domanda alla quale si vorrebbe una risposta.

* * * *

Sono andato a controllare l'agenda Bersani. Sì, c'è anche un'agenda Bersani che senza strepito è da tempo disponibile a chi vuole conoscere i programmi dei partiti.
Ce ne sono pochi in giro di partiti che non siano proprietà d'una sola persona. Anzi non ce ne è nessuno tranne il Pd. Dispiace, ma questa è la pura realtà.

L'agenda Bersani dice questo:
1. Mantenere gli impegni presi con l'Europa in tema di rigore dei conti pubblici e di pareggio del bilancio.
2. Tagliare la spesa corrente negli sprechi ma anche nelle destinazioni non prioritarie.
3. Destinare il denaro recuperato per diminuire il cuneo fiscale e le imposte sui lavoratori e sulle imprese.
4. Aumentare la lotta all'evasione e la tracciabilità necessaria.
5. Completare la legge sulla corruzione (il testo è già stato presentato in Parlamento).
6. Ripristinare il falso in bilancio.
7. Varare una legge sui conflitti di interesse e sull'ineleggibilità.
8. Adempiere agli obblighi assunti con l'Europa anche per quanto riguarda equità, occupazione, sviluppo, ancora fermi al palo.
9. Destinare le risorse disponibili alla scuola e alla ricerca, come proposto dal bolscevico Nichi Vendola e già realizzato in Francia da Hollande (che però bolscevico non è).
10. Cambiare il welfare esistente e non più idoneo con un welfare moderno e comprensivo di salario sociale minimo per i disoccupati.
11. Tagliare drasticamente i costi della politica, le Province, la burocrazia delle Regioni, privilegiando i Comuni e avviando i lavori pubblici territoriali finanziandoli con i fondi derivanti dal ricavato dell'Imu.
12. Diminuire il numero dei parlamentari come si doveva fare in questa legislatura e non si fece per l'opposizione del Pdl.
13. Rifare la legge elettorale basandola su collegi uninominali a doppio turno.

* * * *

Tra l'agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna salvo forse alcune diverse priorità e un diverso approccio alla ridistribuzione del reddito e alle regole d'ingresso e di permanenza nel lavoro dei precari. E salvo che l'agenda Bersani è stata formulata prima di quella Monti e in alcune parti avrebbe potuto utilizzarla anche l'attuale governo se avesse posto la fiducia su quei provvedimenti.

Conclusione: non esiste né un'agenda Bersani né un agenda Monti. Esiste un'agenda Italia che dovrebbe essere valida per tutte le forze responsabili e democratiche. Non è certo l'agenda di Berlusconi, né di Grillo, né della Lega, né di Ingroia.

L'agenda Italia - è utile ricordarlo - è un tassello dell'agenda Europa ed è realizzabile soltanto nel quadro di un'Europa federata che tutti dobbiamo avere a cuore e costruire. Chi voterà l'agenda Italia può affidarne la guida a forze liberal-moderate o a forze liberal-socialiste. Vinca il migliore ma nomini vicepresidente del Consiglio Roberto Benigni con delega alla Costituzione. Scrivetelo nelle vostre agende, sarebbe una magnifica innovazione.

Una nuova Democrazia cristiana no, per favore. Noi vecchi (parlo per la mia generazione) abbiamo già dato. Quanto ai giovani, non è più l'epoca delle Madonne pellegrine.

Post scriptum. I professori Giavazzi e Alesina, delle cui conoscenze economiche ho una riluttante stima, hanno scritto venerdì scorso sul "Corriere della Sera" che il solo modo per tagliare quanto è necessario la spesa corrente dello Stato è il restringimento delle sfere di competenza dello Stato medesimo. Ordine pubblico, giustizia, difesa, scuola (in parte), assistenza ai vecchi e agli ammalati poveri. Solo restringendo il perimetro pubblico e parapubblico diminuirà la spesa. L'obiettivo è 40 miliardi. Come reimpiegarli si vedrà dopo.

Queste proposte (ultrabocconiane) si dice siano ben viste anche da Mario Draghi. Io non ci credo ma non ho notizie in proposito.

Si tratta di vecchi temi del liberismo classico; del resto i proponenti lo sanno benissimo, sono esperti di storia economica. Si tratta di rimettere indietro le sfere dell'orologio risalendo all'epoca gloriosa di Cobden e della lega di Manchester, quando si abolì il dazio sul grano per favorire la nascita dell'industria tessile. Di mezzo ci sono stati quasi duecento anni di storia del capitalismo e della democrazia. Ma meritano comunque considerazione. Anche Berlusconi diceva e dice "Meno stato, più mercato". Poi ha fatto il contrario.

Ma venendo al serio: da trent'anni il grosso delle imprese italiane ha destinato i profitti o a dividendo per gli azionisti o per investimenti finanziari e speculativi. Pochissimo a investimenti nelle aziende per modernizzarne l'offerta e allargare la base occupazionale. Se si vuol restringere la base operativa dello Stato occorre come preliminare che gli imprenditori tornino ad investire nelle aziende, altrimenti non ci sarà più manifattura né nell'industria né in agricoltura. Torneremo ai pascoli. Credetemi, non è un obiettivo degno di due bocconiani.

(30 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/30/news/professore_non_rifaccia_la_dc-49658957/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Monti mi ha deluso
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2013, 06:38:49 pm
Perché Monti mi ha deluso

di EUGENIO SCALFARI


SCRISSI domenica scorsa che esistono varie "agende" sulle quali confrontarsi e varie personalità che le hanno formulate e che concentreranno su di esse  -  cioè sugli obiettivi programmatici  -  le rispettive campagne elettorali per ottenere il consenso dei cittadini.

Confrontai anche le due agende principali, quella di Mario Monti e quella di Bersani, cioè del Pd e dei suoi alleati. Monti ha detto venerdì scorso nella trasmissione "Otto e mezzo" che non accetterebbe mai di partecipare come ministro ad un governo del quale non condividesse il 98 per cento della linea politica.

I due programmi, il suo e quello di Bersani, nelle parti principali coincidono. Entrambi si dichiarano pronti a mantenere gli impegni presi con l'Europa per quanto riguarda il rigore dei conti pubblici, l'equità, la crescita economica. Questi impegni Monti li ha indicati fin dall'inizio ma non è riuscito a realizzarli tutti dovendo dare la priorità al rigore in poche settimane per evitare il crollo dell'economia italiana e il default del debito pubblico che incombevano nel novembre del 2011 quando fu chiamato dal Capo dello Stato alla guida del governo. Perciò di equità se ne è vista pochissima, di crescita non si è visto nulla, ma nell'agenda ci sono, sia in quella di Monti sia in quella di Bersani.

C'è anche in tutte e due una nuova e molto più
incisiva legge sulla corruzione, l'estensione altrettanto incisiva delle liberalizzazioni, una radicale revisione delle strutture burocratiche dello Stato a cominciare dalle Province e dalle Regioni.

E poi c'è  -  più importante di tutto  -  un'ulteriore diminuzione della spesa corrente e delle evasioni fiscali per realizzare nuove risorse da destinare alla riduzione della pressione fiscale in favore dei lavoratori, delle imprese e delle famiglie nonché di un sistema moderno dello Stato sociale.

Infine entrambi i programmi, del centro e del centrosinistra, prevedono una migliore redistribuzione territoriale e sociale del reddito e un contributo efficace alla costruzione dello Stato federale europeo attraverso graduali cessioni di sovranità nazionale.

Esaminati questi due programmi si direbbe trattarsi del medesimo documento nelle sue linee fondamentali, tanto che dal canto mio scrissi che essi ben potevano esser chiamati "agenda Italia" per l'attuazione della quale un'alleanza pre o post elettorale tra il centro e il centrosinistra risultava opportuna data l'importanza ed anche la difficoltà di realizzare le finalità condivise.

Naturalmente permane una differenza tra i protagonisti, le forze politiche da essi guidate e i ceti sociali di riferimento.

Prima di passare all'esame di questi aspetti tutt'altro che trascurabili voglio però ricordare il messaggio con il quale la sera del 31 dicembre Giorgio Napolitano ha salutato gli italiani. È stato soprattutto un messaggio sociale. L'equità, i giovani, l'occupazione, il Mezzogiorno, l'Europa, il senso di responsabilità di ciascuno e di tutti, il rispetto dei diritti, il costo della cattiva politica, il rinnovamento della struttura burocratica: questo è stato il senso del messaggio. Vogliamo dire che esiste anche un'agenda Napolitano?

Sì, esiste. Non indica gli strumenti ma evoca un sentimento, un valore, un modo di pensare e di comportarsi. Costituisce la premessa essenziale dell'agenda Italia, lo spirito con il quale dovrà essere realizzata, la passione e la fedeltà alle due patrie delle quali siamo cittadini, la patria Italia e la patria Europa.

Chi andrà al Quirinale nel prossimo maggio erediterà un lascito di altissimo livello. Auguriamoci che il nuovo Parlamento sappia scegliere un successore capace di far propria quell'eredità. Non sarà una facile scelta.

* * *

Mario Monti, in appena un anno, ha salvato l'Italia dal peggio in cui stava precipitando ed ha recuperato al Paese la credibilità internazionale che da tanti anni aveva perduto.

La nascita del suo governo fu dovuta a varie circostanze e a vari protagonisti che è opportuno ricordare. Anzitutto al voto con il quale la Camera dei deputati bocciando il rendiconto di bilancio mandò in minoranza il governo Berlusconi. Uscì da quel voto una nuova maggioranza formata dal Pd, dall'Udc e da Fini. Su questa svolta parlamentare, sull'aggravarsi della situazione economica, sulla totale caduta della credibilità del governo e sulla lettera di commissariamento indirizzata a Berlusconi dalla Banca centrale europea il Cavaliere dette le dimissioni e Napolitano, dopo averlo nominato senatore a vita, incaricò Monti di formare un nuovo governo.

In quel frangente il Partito democratico avrebbe potuto chiedere lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni. Il Pdl era allo stato comatoso, il Terzo polo valeva al massimo il 6 per cento, Grillo ancora non esisteva o quasi. Il Pd avrebbe stravinto ma sciogliere il Parlamento in quelle condizioni avrebbe spalancato le porte all'assalto dei mercati e il debito italiano sarebbe stato preda d'una vera e propria macelleria speculativa. Prevalse il senso di responsabilità di Bersani e del gruppo dirigente del Partito democratico.

Mario Monti ha cominciato la sua campagna elettorale con molta aggressività. È normale per una forza politica nuova che si batte per vincere.
Ma l'azione di governo di cui porta legittimamente il vanto fu resa possibile dal Pd e il ricordo di quest'antecedente rappresenta un'omissione ingenerosa da parte di chi, utilizzando quel disco verde, si mise e mise il Paese sulla giusta strada.

* * *

Due domeniche fa pubblicammo su queste pagine una mia lunga conversazione con l'amico Mario Monti. Ci siamo conosciuti mezzo secolo fa, non era quindi un'intervista tra un giornalista e un capo di governo ma un incontro tra vecchi amici che resi pubblico senza preavvisarlo e me ne scusai a fatto compiuto. Del resto avevo riferito esattamente quanto ci eravamo detti e lui stesso lo riconobbe.

Sennonché a pochi giorni anzi a poche ore di distanza le sue scelte cambiarono: da uomo "super partes", come lo stesso Presidente della Repubblica avrebbe gradito, è diventato uomo di parte inalberando un'agenda più che accettabile ma nelle parti qualificanti identica o analoga a quella del partito con il quale compete affermando quel suo programma come il solo capace di condurre l'emergenza al suo termine e prospettare nuovi orizzonti per il futuro.

Purtroppo Monti ha cominciato la campagna elettorale con la promessa di diminuire le imposte personali sui redditi minimi. Non mi pare abbia indicato la copertura di questa promessa ma soprattutto ha dimenticato che nel prossimo luglio scatterà l'aumento di un punto dell'Iva, un'imposta regressiva quant'altre mai che colpirà soprattutto i redditi dei più deboli. Se ci sarà spazio per diminuire le tasse è proprio dall'Iva che bisognerebbe cominciare.

Ma non è per questo "dettaglio" che il nuovo Monti mi ha deluso. Parlo in prima persona perché per un anno sono stato tra i suoi più motivati sostenitori. Mi ha deluso e mi preoccupa molto perché la sua azione avrà come risultato inevitabile quella di rendere ingovernabile il nuovo Parlamento gettando il Paese (e l'Europa) nel caos. Vi sembra un'affermazione azzardata? È facile spiegare che purtroppo non lo è affatto ed ecco la spiegazione.

1. Pensare che le liste di Monti superino tutte le altre è estremamente illusionistico. Nei sondaggi effettuati in questi giorni è all'ultimo posto. Se gli va bene supererà Grillo; se gli va benissimo supererà Berlusconi. Per superare il centrosinistra ci vorrebbe un miracolo.
È vero che il Vaticano è con lui, ma non credo che basti.

2. È tuttavia possibile che al Senato nessun partito abbia la maggioranza. Gianluigi Pellegrino ha spiegato ieri la vergogna dell'attuale legge elettorale specialmente per il Senato.

3. Superare quest'eventualità in teoria non è difficile, basterebbe un'alleanza tra centrosinistra e centro, cioè tra uno schieramento che avrebbe la maggioranza assoluta alla Camera e un altro schieramento (il centro) che non ha la maggioranza al Senato ma può renderla possibile.

4. A quali condizioni? Monti e Casini l'hanno già detto: vogliono la presidenza del Consiglio, vogliono un governo che sia il loro governo anche nell'eventualità che il centrosinistra abbia raggiunto nel complesso un consenso doppio a quello da loro ottenuto.
E gli elettori? E il popolo sovrano?

5. Risultato: o il Pd accetta di pagare il pedaggio ad un nuovo Ghino di Tacco o la legislatura diventerebbe ingovernabile con le conseguenze che ciò comporterebbe sui mercati e in Europa.

Ho più volte indicato a Monti l'esempio di Carlo Azeglio Ciampi che, dopo aver risollevato il Paese da una gravissima crisi economica ed aver modificato la legge elettorale, si ritirò dopo un anno di governo a vita privata e ritornò poi a dare il suo contributo al bene pubblico come ministro del Tesoro di Romano Prodi con il quale fece la più grande delle riforme del secolo portando l'Italia nella moneta comune europea.
Ma potrei aggiungere l'esempio di Giuliano Amato che da presidente del Consiglio cedette d'accordo con il Presidente della Repubblica la sua carica a Ciampi dopo essersi assunto la responsabilità d'una manovra economica di proporzioni inusitate nonché la svalutazione necessaria della lira e poi, quando ne fu richiesto, fu di nuovo ministro dell'Interno, delle Riforme o tornò alla sua vita di studi e di cultura.

La classe politica ha i suoi gravi difetti ma anche qualche virtù.

C'è un ultimo punto che mi preme chiarire. Cambiamento, riforme, conservazione: questi secondo Monti sono gli spartiacque tra le forze politiche in campo. Detto così è molto vago. Riforme? Quali? Quelle che propone Monti le propone anche Bersani. Alcune sono state fatte e il Pd le ha votate in Parlamento.

Cambiamento. Quale? Robespierre cambiò la Costituzione ereditata dagli Stati generali dell'Ottantanove. Naturalmente cambiò a suo modo.
Il Direttorio che venne dopo cambiò all'incontrario. Poi arrivò Napoleone e cambiò anche lui. Per dire: la storia cambia di continuo e procede a balzelloni, non c'è un disegno divino ma la forza dei fatti e delle idee. Renzi, tanto per fare un esempio, voleva un cambiamento nel suo partito e c'è riuscito anche se ha perso le primarie. Poi ha mantenuto la parola data, non come Ichino. A me, quando faceva il rottamatore, mi sembrò troppo semplicista e rozzo nel pensare e nel dire. Adesso m'è diventato simpatico perché anch'io cambio.

Anche tu, caro Mario, sei cambiato. Mi piaci molto per quello che hai fatto e che eri, mi preoccupi per quello che sei ora e riesci perfino a spaventarmi per quello che potresti fare se, non vincendo il piatto, lo vorrai comunque tutto per te.

(06 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/06/news/perch_monti_mi_ha_deluso-49977594/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Buffalo Bill, Toro Seduto e l'arbitro al Quirinale
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2013, 11:55:27 pm
Buffalo Bill, Toro Seduto e l'arbitro al Quirinale

di EUGENIO SCALFARI


C'ERA una grande attesa per l'incontro televisivo di Berlusconi con Santoro. Due nemici di vecchia data (ma con una riconciliazione di due anni di Santoro a Mediaset), due "showmen" di provato talento, due venditori di bubbole che rimontano in ogni occasione il vecchio film in cui Totò vende la Fontana di Trevi a Peppino De Filippo. Dove li trovate due personaggi come loro?

Il guaio, il terribile guaio per l'Italia, è stato che uno di loro ha guidato la politica del nostro paese per vent'anni riducendolo come l'ha ridotto. Purtroppo è accaduto spesso nella storia italiana, a partire da Cola di Rienzo, passando poi per i vari Masanielli toccando il culmine con Mussolini che ci rivendette l'Impero che tornava dopo venti secoli sui colli fatali di Roma. Il Cavaliere è stato più modesto: ha impedito che i comunisti conquistassero il potere in Italia quando non c'erano già più nemmeno in Russia. E vive ancora rivendendoci questa patacca.

Ora si discute quanto beneficio il Cavaliere abbia tratto dalla corrida contro Santoro e Travaglio. Due tori contro un matador. Chi ha vinto e chi ha perso? E quanto sono aumentati nei sondaggi i voti di Silvio? "Manco mezzo" ha scritto Giuliano Ferrara. Dall'uno al tre per cento hanno risposto alcuni sondaggisti.

Comunque un vantaggio l'hanno realizzato tutti e due, anzi tutti e quattro: Silvio, Michele, Marco e La7.

Il primo è stato sdoganato ed ora è di nuovo in battaglia, gli altri tre hanno incassato un'audience di 9 milioni di ascolto, come una puntata del festival di Sanremo o una partita di finale dei Mondiali di calcio. Ma non è stata una corrida, anche se la trasmissione era cominciata con le note della Carmen.

Il commento più bello l'ho letto su Repubblica di venerdì e l'ha scritto Francesco Merlo: "Si sono legittimati a vicenda come gli anziani Buffalo Bill e Toro Seduto che in un famoso film di Altman ripropongono il combattimento del Selvaggio West ma sotto il tendone del circo quando ormai molte lune hanno logorato il Grande Spirito e i malinconici compari hanno esaurito i proiettili l'uno e le frecce l'altro".

Alla fine, dopo un'ora soporifica, hanno anche finto di litigare; Berlusconi ha inventato una "gag" degna di Stanlio e Ollio pulendo col fazzoletto la sedia dove s'era seduto Travaglio; Santoro gli ha poi fatto un "assist" prezioso facendo apparire in video un'imprenditrice bergamasca che invocava il ritorno alla lira per poter pagare i suoi debiti alle banche. Berlusconi ha raccolto la palla e l'ha spedita in rete concordando con la signora sulla intollerabilità dei sacrifici ma correggendone la terapia: non tornare alla lira ma imporre all'Europa una politica keynesiana. "Perciò votatemi, solo io potrò ottenere questo piegando la volontà della Merkel, ma debbo avere tutti i voti, un potere assoluto e una Repubblica presidenziale".

Una sola regia ha guidato lo spettacolo e le regole di ingaggio concordate: erano due populismi che s'incontravano e si sorreggevano a vicenda, uno di estrema destra, l'altro di estrema sinistra. Due populismi con la stessa patacca da rifilare a chi li segue con innocente e credulona ingenuità.

* * *

Non sono certo i soli i populismi di Berlusconi e di Santoro-Travaglio. C'è Grillo che vuole sbaraccare partiti e istituzioni instaurando una Repubblica referendaria e uscendo dall'euro e dall'Europa; c'è Ingroia che apre a Grillo ma intanto recluta i suoi dissidenti nella sua lista, si allea con Di Pietro e propone una Repubblica guidata dai magistrati; c'è la Lega che vuole la secessione della multiregione Lombardia-Veneto-Piemonte, che trattenga sul territorio tutte le imposte pagate dai residenti più la quota pro capite degli interessi che ci costa il debito pubblico.

A quanto può arrivare il consenso che uscirà dalle urne a queste varie forme di demagogia che si vale, ciascuna, di imbonitori ben collaudati? All'ingrosso io darei almeno il 40 per cento nel loro complesso. Marciano separati ma colpiscono insieme. Dunque la minaccia è forte.

Non hanno programmi salvo quello di mandare all'aria tutte le strutture esistenti, la democrazia rappresentativa, lo Stato di diritto fondato sulla separazione dei poteri, la Corte Costituzionale, la moneta comune, l'Europa, le imposte che debbono essere ridotte al minimo. E ovviamente la politica e i partiti.

Il mito che aleggia su questo variopinto calderone dove il bollore ha raggiunto il massimo nell'imminenza delle elezioni è la società civile.

Non si sa che cosa rappresentino queste due parole e quale sia il nuovo che esse esprimono e il vecchio che condannano. La società civile non si identifica con una specifica classe sociale, non è la classe operaia, non è il terzo stato, non è la borghesia, non è la nobiltà e non è il proletariato. Direi che sono due parole sinonime di altre due e cioè popolo sovrano, sinonimo a sua volta di un'unica parola, demos, democrazia. Dov'è dunque la novità?

Forse la novità consiste nell'abolizione dell'aggettivo "delegato". Il più coerente da questo punto di vista è il grillismo che prevede i referendum come unici strumenti di governo e i funzionari incaricati di amministrare l'azienda pubblica come impiegati guidati da capi "pro tempore" in carica per pochi mesi a rotazione. Una sorta di condominio al posto dello Stato, cioè come l'esperienza insegna il peggio del peggio.

Se questa è la società civile ipotizzata dall'antipolitica, la storia ci racconta di tutte le volte che una situazione del genere si realizzò: sboccarono sempre nella dittatura o nei casi migliori nell'oligarchia o nella tecnostruttura, tutte soluzioni che degradano il popolo sovrano al rango di gregge. La storia non fa eccezioni, è sempre stato così.

* * *

Se le varie formazioni antipolitiche e populiste avranno come credo un consenso complessivo attorno al 40 per cento dei voti espressi, ne rimane il 60 per le formazioni politiche che si propongono obiettivi di cambiamento e di modernizzazione per rinnovare le istituzioni senza distruggerle, anzi per accrescerne l'efficienza e la moralità, dove l'efficienza significa produrre maggiori risultati a costi minori e la moralità significa superare il "particulare" mirando al bene comune, all'interesse generale e non solo per l'immediato presente ma per il tempo lungo dei figli e dei nipoti.

In questo spazio si muovono sia il partito democratico sia la formazione che finora si era sempre definita come Centro ma questa volta assume come indicazione elettorale il nome di Mario Monti non più nella sua veste di tecnico chiamato per fronteggiare un'emergenza che aveva bisogno dell'appoggio di tutte le forze politiche, ma per impegnarsi e "salire in politica". Con un suo programma. Con civettuola modestia quel programma è stato chiamato "agenda". Si è aperta a questo punto una discussione se il contenuto di quel programma fosse simile al programma dell'altra forza politica in campo e cioè il Pd, il solo in tutto il panorama attuale che sia un vero partito e non si vergogni di dirlo, anzi lo rivendichi con orgoglio.

Personalmente ho sostenuto che i due programmi sono molto simili nelle loro linee maestre. Altri osservatori hanno affermato il contrario. Bersani si è rimesso al giudizio della pubblica opinione sostenendo tuttavia che ad elezioni avvenute il suo obiettivo sarà quello di allearsi con i montiani. Monti invece resta stretto all'unicità della sua "agenda", sostiene che non esiste più un problema di destra e di sinistra ma solo di riformismo e rinvia a dopo le elezioni il tema delle alleanze.

Spenderò poche parole sulla diversità o le analogie dei due programmi di Monti e di Bersani. Tutti e due hanno manifestato la ferma intenzione di rispettare gli impegni presi con l'Europa; tutti e due - nei limiti di quegli impegni - hanno prospettato la necessità e l'urgenza di accrescere il tasso di equità, cioè di giustizia sociale, spesso trascurato se non addirittura schiacciato dall'emergenza; tutti e due mettono al primo posto la ripresa degli investimenti, dell'occupazione, del welfare e la diminuzione delle diseguaglianze sociali e geografiche; tutti e due vogliono un'Europa più federale e una Banca centrale equiparata a quelle esistenti in tutti gli Stati sovrani.

Non sto raccontando favole, ma riferisco i programmi e gli obiettivi dichiarati ripetutamente e pubblicamente dai leader di quelle due formazioni e dai loro alleati, a cominciare da Vendola, che Monti e il Corriere della Sera continuano a descrivere come un pericoloso bolscevico ignorando volutamente le affermazioni da lui ripetute ormai infinite volte a terminare con la trasmissione "Otto e mezzo" di tre giorni fa nel corso della quale Gianfranco Fini anch'egli presente in quell'occasione ne ha preso finalmente atto.

Le linee maestre sono dunque analoghe, la sensibilità sociale del Pd è certamente più marcata di quella dei montiani. Infatti Monti si muove nell'ambito del Partito popolare europeo, Bersani in quello del Partito socialista.
Dov'è dunque  -  se c'è  -  la vera differenza tra questi due soggetti politici?

* * *

Purtroppo questa differenza c'è ed è molto rilevante, anzi addirittura preoccupante ed emerge ormai dalle esplicite dichiarazioni di Monti e di Casini.

Poiché i montiani non possono aspirare realisticamente a scavalcare la forza elettorale del centrosinistra, l'obiettivo che si propongono è quello di rendere impossibile una maggioranza al Senato, favoriti da una legge elettorale che rende possibile quest'ipotesi. Identico obiettivo per le stesse ragioni si propongono Berlusconi e la Lega.

È un obiettivo più che legittimo: chi partecipa a una competizione elettorale si propone di vincere dove può e come può. Nel caso dei montiani tuttavia c'è una postilla estremamente inquietante: se al Senato sarà necessaria un'alleanza tra il centrosinistra e i montiani, questi ultimi pretenderanno un governo guidato da Monti e strutturato a sua immagine e somiglianza.

Da un lato un partito che avrebbe la maggioranza dei voti e dei seggi alla Camera, dall'altro una lista con un numero di senatori appena sufficienti a fare maggioranza insieme al centrosinistra a condizione però di prendere tutto il piatto della partita. Alternativa: legislatura ingovernabile e necessità di nuove elezioni, con quali ripercussioni in Europa e sui mercati lascio ai lettori di immaginare.

Questo è il punto. Può darsi che, ad elezioni avvenute, i montiani si ravvedano. Voglio sperarlo ed escludo che possano proporre la medesima soluzione a un Berlusconi che sarebbe sicuramente molto più arrendevole alle loro richieste. Ma non andrà così anche perché c'è, per fortuna dell'Italia, un arbitro al Quirinale

(13 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/13/news/buffalo_bill_toro_seduto_e_l_arbitro_al_quirinale-50425370/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quando la colpa tormenta l'anima
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 12:30:16 am
Opinioni

Quando la colpa tormenta l'anima

di Eugenio Scalfari

Succede se nasce il conflitto tra l'amore per se stessi e quello per gli altri. È la sola vera fatica del vivere, che agita il nostro inconscio e turba la mente e il cuore. Ma la sofferenza ti fa anche crescere e dà senso alla nostra piccola vita

(03 gennaio 2013)

Nel periodo delle festività tra il Natale e l'Epifania si parla di tante e varie cose: i regali, i sacrifici quest'anno particolarmente intensi, la speranza d'un futuro migliore. Ma soprattutto si parla dell'anima.

Sulla questione dell'anima le opinioni sono molteplici. Malte Laurids Brigge, un personaggio di un libro di Rilke che rappresenta uno dei testi più alti della modernità, in una pagina dei suoi "Quaderni" racconta d'una bottega dove si può andare a prendere un viso o a cambiare quello vecchio con uno nuovo. Anche la durata dei visi è diversa, scrive Malte; alcuni durano per tutta la vita, altri si consumano in poche ore o in pochi giorni e bisogna sostituirli.

Io so che esiste un luogo dove si va a prendere l'anima. L'anima però non è come il viso. A volte si esprime attraverso il viso ma è comunque un'altra cosa. L'anima è un'essenza, invecchia molto più lentamente del corpo, le sue virtù e i suoi vizi resistono. Alcuni esperti che hanno studiato il problema sostengono addirittura che sono immodificabili. Lascio da parte altri esperti che ne proclamano l'immortalità. Le prove non ci sono, né a favore né contro, ma la gente se ne consola e ci crede.

RESTA IL FATTO CHE L'ANIMA C'E'. O te la dà il Creatore toccando il tuo dito con il suo, oppure vai a scegliertela in quella bottega dove sai di trovarla. A me sembra plausibile optare per la libera scelta della quale tu solo sei responsabile.

Quando avviene questa scelta è questione controversa, ma la maggior parte delle persone la fa coincidere con gli anni dell'adolescenza, quando ti comincia ad esser chiaro chi sei, ad avere un'immagine di te. Magari è l'immagine che gli occhi degli altri ti hanno appiccicato addosso oppure quella che lo specchio ti rimanda ogni volta che ci guardi dentro. La questione mi sembra facile da risolvere: arrivato in quel luogo un commesso che forse è un angelo ti accompagna in una stanza dove vari campioni di anime sono esposti e tu la scegli dopo averli soppesati con lo sguardo e con le dita.

SI PU?’ TOCCARE L'ANIMA con le dita? Io quell'anima l'ho toccata perché sentivo che era la mia e me la sono portata a casa ed è rimasta con me, dentro di me. Come sia entrata dentro non lo so, ma so che è accaduto. Non è come i visi di Malte. I visi si vedono, l'anima, una volta che te la sei scelta, ti entra dentro e non la vedi più ma è lei il tuo pensiero, la tua coscienza, i tuoi desideri. L'anima sei tu e non c'è più alcuna differenza tra te e lei. Kant deve averlo scritto da qualche parte ed io debbo averlo letto. Da molti anni comunque penso che l'anima mia sia la "cosa in me", il mio noumeno che nessuno può conoscere all'infuori di me. A volte mi sorge il dubbio che neppure io possa più conoscerla.

Allora, come dicevo, è semplice: ti scegli un'anima e te la porti a casa. Ma perché scegli proprio quella, qual è il criterio che ti guida? In realtà scegliere l'anima significa prender coscienza di sé. Ma esiste anche il sentimento della colpa, la colpa esistenziale, per il fatto stesso che vivendo occupi un posto che nessun altro potrà occupare finché tu viva; e poi oltre alla colpa esistenziale o peccato originale che dir si voglia esistono colpe specifiche e assai concrete.

La colpa tormenta l'anima ogni qualvolta nasce il conflitto tra l'amore per se stessi e quello per gli altri. Questa è la sola vera fatica del vivere, che agita il nostro inconscio e turba la mente e il cuore quando emerge a livello della coscienza. Ma la sofferenza ti fa anche crescere e dà senso alla nostra piccola vita.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quando-la-colpa-tormenta-lanima/2197519/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'araba fenice della società civile
Inserito da: Admin - Gennaio 20, 2013, 10:51:18 pm
L'araba fenice della società civile

di EUGENIO SCALFARI

Alcuni commentatori lamentano che i protagonisti della campagna elettorale parlino poco o niente di economia e concentrano la loro attenzione soprattutto sulla politica.

A me non pare che sia così, si parla  -  e molto  -  di tasse, di disoccupazione, di precariato per giovani e anziani, di sgravi fiscali, di rilancio della domanda, di disuguaglianze. Ed anche, ovviamente, di politica e di visioni diverse e contrapposte del bene comune.

Sarebbe ben strano che si tacesse di politica. Un'economia senza politica non esiste. Non esiste senza legalità, non esiste senza un richiamo costante alla moralità dei comportamenti pubblici, non esiste senza criteri di scelta dei candidati al Parlamento, cioè di coloro che vengono proposti come delegati a rappresentare il popolo sovrano nel grande consesso dove ha la sua sede il potere legislativo.

Da questo punto di vista una decisione rimarchevole è stata presa nei giorni scorsi. Il Pd ha cancellato dalle sue liste tre candidati (due in Sicilia e uno a Napoli) investigati dalla magistratura privandosi con questo atto di molte migliaia di voti che quei candidati avevano ottenuto nelle primarie in due regioni-chiave per ottenere al Senato la maggioranza dei seggi. La moralità ha avuto la meglio sui calcoli di convenienza; è un elemento di merito che il direttore del "Fatto Quotidiano", Padellaro, ha riconosciuto al Pd, mentre il suo vicedirettore, Travaglio, nella stessa pagina dileggiava e insultava Bersani che si sarebbe arreso alle tesi di quel giornale.

Ieri il vertice del Pdl - pare anche Berlusconi, spinto da alcuni sondaggi interni -, ha tentato di compiere la stessa scelta escludendo tutti i candidati indagati e alcuni addirittura colpiti da sentenze di primo grado, a cominciare da Dell'Utri e Cosentino. Nel partito si è scatenata la rivolta degli inquisiti, spalleggiati dai loro accoliti. Si annuncia una guerra breve e sanguinosa. Dell'Utri sa tutto di Berlusconi e ha voglia e necessità di parlare. Il Pdl propone che sia lui a decidere di ritirarsi; escluderlo contro il suo parere potrebbe avere conseguenze letali. Il popolo sovrano rischia dunque d'esser rappresentato ancora da Dell'Utri, esperto bibliografo, co-fondatore di Forza Italia e sotto processo per rapporti di lunga durata con le famiglie mafiose Bontate e Graviano.

In un paese serio questi fatti sarebbero di per sé sufficienti per un giudizio complessivo su quel partito. Qui invece non accade. Perché?

                                                                  * * *

Questa domanda ci riporta a discutere della società civile. È un tema che abbiamo già toccato parecchie volte ma che vale la pena d'esser ripreso poiché ha particolare importanza.

I vizi, i difetti, l'immoralità allignano in tutti i paesi e in tutti ceti, ma da noi hanno un'intensità particolare che deriva da un atteggiamento di generale disprezzo verso le istituzioni e verso lo Stato che tutte le contiene.
Lo Stato è considerato un corpo estraneo o addirittura nemico, che taglieggia i cittadini, impone immotivati sacrifici e fornisce pessimi servizi. Chi lo rappresenta viene odiato oppure  -  se se ne ha la possibilità  -  corrotto da persone della società civile che sarebbe la sede di tutte le virtù.

La scarsa efficienza e il tasso di corruzione di chi giudica le istituzioni è sicuramente più elevato che altrove, ma purtroppo non si limita alla sfera del potere pubblico: ha gli stessi vizi anche in quella parte della società civile dalla quale emerge la classe dirigente economica. Ogni paese ha la classe dirigente che si merita poiché quest'ultima non spunta dal cielo ma ha le sue radici nella terra che amministra.

Constatare questa situazione non significa dare un giudizio morale sugli italiani ma comporta un giudizio storico. Fu anticipato, quel giudizio, da Machiavelli e da Guicciardini che fecero nei primi anni del Cinquecento un'analisi accurata ed anche rattristata e memorabile della società in cui vivevano.

Machiavelli arrivò alla conclusione che per creare lo Stato italiano ci volesse un Principe che con ogni mezzo, anche il più violento e immorale, unificasse un paese altrimenti ingovernabile. Guicciardini aborriva la violenza e constatò anche lui che il paese era ingovernabile perché ogni cittadino badava soltanto al suo "particulare" interesse e disprezzava quello pubblico e le regole che la convivenza sociale inevitabilmente comporta.
Questi giudizi sono purtroppo ancora attuali anche se la democrazia è ormai diffusa in tutto l'Occidente. Quell'indifferenza alla "res publica" che Guicciardini descrisse perdura purtroppo tuttora anche perché lo Stato italiano nacque soltanto 150 anni fa, quando in tutta Europa gli Stati si erano formati tre o quattro secoli prima. Perciò la nostra indifferenza alla vita pubblica, la nostra scelta del "particulare", il tasso di corruzione, di evasione fiscale, d'illegalità, il nostro disprezzo per le regole, la nostra disponibilità alla demagogia, sono un derivato della nostra storia. "Francia o Spagna purché se magna" è un proverbio che sintetizza quattro secoli di servitù a potenze straniere e a Signorie servili e corrotte.

Siamo molto migliorati da allora, ma gli altri paesi sono assai più avanti e in tempi di società globale questo distacco si vede, si sente, si soffre.

                                                                      * * *

E parliamo di economia, dove questi confronti si scaricano in tempi di crisi profonde e diffuse.
I "media" negli ultimi giorni hanno dato un'immagine di nuovo pessimistica dopo un intervallo di barlumi speranzosi: la recessione non cala anzi aumenta, i capitali scappano, il Pil diminuisce, la disoccupazione aumenta, il governo tecnico ha sbagliato tutto. E perfino  -  forse  -  si stava meglio quando si stava peggio, "Silvio consule". Infatti (così parrebbe) i sondaggi danno il Cavaliere in rimonta. È proprio così? Direi di no.
Quanto ai sondaggi, i più recenti danno sempre il centrosinistra a dieci punti sopra il Pdl-Lega e il Veneto addirittura con una Lega al 15 anziché al 25 per cento.

Il governatore della Banca d'Italia stima il Pil del 2012 al meno 2 per cento (finora le previsioni Istat parlavano del meno 3 o anche peggio) e nel 2013 al meno 0,7; ma nella seconda metà dell'anno a più 0,1. Nel 2014 più 1. La risalita è lenta ma dovrebbe avere un (timido) inizio tra sei mesi. Così pure la vendita di beni durevoli e la loro produzione.

Quanto ai capitali Visco dichiara che non c'è stata fuga dall'Italia, anzi c'è un afflusso come testimoniano le aste di questi ultimi mesi sia dei Bot sia dei Btp a 5, 10 e 15 anni di scadenza.

Il credito invece ancora non riparte anche perché molte aziende medie e piccole sono in grave sofferenza. A questo proposito Bersani ha proposto un credito d'imposta (l'aveva istituito Prodi e lo abolì Tremonti) per tutte le assunzioni di lavoratori a tempo indeterminato. Ha inoltre proposto l'abolizione dell'Imu per tutti quelli che pagano fino a 500 euro d'imposta e soprattutto ha proposto l'immediato pagamento di quei 70 miliardi di debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese fornitrici. I soldi in gran parte sono già stanziati ma Regioni e Comuni non li hanno e la Tesoreria generale resiste. Il ministro Passera, almeno per 30 miliardi, aveva trovato la copertura ma la Ragioneria oppose un rifiuto. Questa questione va risolta e i pagamenti vanno fatti nell'immediato, ogni ulteriore indugio sarebbe vergognoso. Monti è ancora il premier credibile, si impegni su questo punto che è più importante della campagna elettorale ed è ora di sua esclusiva pertinenza.

Due parole sulle famose tasse e sulla altrettanto famosa "spending review". Le tasse purtroppo erano assolutamente necessarie in quell'ormai lontano novembre del 2011: l'Italia era sull'orlo del fallimento e non c'erano alternative. Non tutte quelle attuate sono a regime, ci andranno nei prossimi mesi ed il loro morso sarà ancor più doloroso. Perciò ci vogliono correttivi e soprattutto ci vogliono investimenti redditizi e le risorse che essi richiederanno siano considerate un elemento di politica anticongiunturale imposto dalla situazione e quindi accettato dall'Europa come i trattati prevedono.

Quanto al taglio delle spese, esso è certamente opportuno per quanto riguarda gli sprechi, ma per il resto ci vuole una prudenza estrema: un corpo obeso deve sottoporsi a una dieta molto rigorosa e perfino a qualche intervento di chirurgia estetica sul grasso sovrabbondante e deformante; ma in un corpo scheletrito non si taglia il grasso ma le ossa e cioè un'operazione mortale o una mutilazione permanente.

Tutto il resto è chiacchiera. Pensi ogni partito a dare il meglio di sé avendo di mira soltanto l'interesse del paese.

(20 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/20/news/l_araba_fenice_della_societ_civile-50905837/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quando la colpa tormenta l'anima
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2013, 11:07:41 pm
Opinioni

Quando la colpa tormenta l'anima

di Eugenio Scalfari

Succede se nasce il conflitto tra l'amore per se stessi e quello per gli altri. È la sola vera fatica del vivere, che agita il nostro inconscio e turba la mente e il cuore. Ma la sofferenza ti fa anche crescere e dà senso alla nostra piccola vita

(03 gennaio 2013)

Nel periodo delle festività tra il Natale e l'Epifania si parla di tante e varie cose: i regali, i sacrifici quest'anno particolarmente intensi, la speranza d'un futuro migliore. Ma soprattutto si parla dell'anima.

Sulla questione dell'anima le opinioni sono molteplici. Malte Laurids Brigge, un personaggio di un libro di Rilke che rappresenta uno dei testi più alti della modernità, in una pagina dei suoi "Quaderni" racconta d'una bottega dove si può andare a prendere un viso o a cambiare quello vecchio con uno nuovo. Anche la durata dei visi è diversa, scrive Malte; alcuni durano per tutta la vita, altri si consumano in poche ore o in pochi giorni e bisogna sostituirli.

Io so che esiste un luogo dove si va a prendere l'anima. L'anima però non è come il viso. A volte si esprime attraverso il viso ma è comunque un'altra cosa. L'anima è un'essenza, invecchia molto più lentamente del corpo, le sue virtù e i suoi vizi resistono. Alcuni esperti che hanno studiato il problema sostengono addirittura che sono immodificabili. Lascio da parte altri esperti che ne proclamano l'immortalità. Le prove non ci sono, né a favore né contro, ma la gente se ne consola e ci crede.

RESTA IL FATTO CHE L'ANIMA C'E'. O te la dà il Creatore toccando il tuo dito con il suo, oppure vai a scegliertela in quella bottega dove sai di trovarla. A me sembra plausibile optare per la libera scelta della quale tu solo sei responsabile.

Quando avviene questa scelta è questione controversa, ma la maggior parte delle persone la fa coincidere con gli anni dell'adolescenza, quando ti comincia ad esser chiaro chi sei, ad avere un'immagine di te. Magari è l'immagine che gli occhi degli altri ti hanno appiccicato addosso oppure quella che lo specchio ti rimanda ogni volta che ci guardi dentro. La questione mi sembra facile da risolvere: arrivato in quel luogo un commesso che forse è un angelo ti accompagna in una stanza dove vari campioni di anime sono esposti e tu la scegli dopo averli soppesati con lo sguardo e con le dita.

SI PU?’ TOCCARE L'ANIMA con le dita? Io quell'anima l'ho toccata perché sentivo che era la mia e me la sono portata a casa ed è rimasta con me, dentro di me. Come sia entrata dentro non lo so, ma so che è accaduto. Non è come i visi di Malte. I visi si vedono, l'anima, una volta che te la sei scelta, ti entra dentro e non la vedi più ma è lei il tuo pensiero, la tua coscienza, i tuoi desideri. L'anima sei tu e non c'è più alcuna differenza tra te e lei. Kant deve averlo scritto da qualche parte ed io debbo averlo letto. Da molti anni comunque penso che l'anima mia sia la "cosa in me", il mio noumeno che nessuno può conoscere all'infuori di me. A volte mi sorge il dubbio che neppure io possa più conoscerla.

Allora, come dicevo, è semplice: ti scegli un'anima e te la porti a casa. Ma perché scegli proprio quella, qual è il criterio che ti guida? In realtà scegliere l'anima significa prender coscienza di sé. Ma esiste anche il sentimento della colpa, la colpa esistenziale, per il fatto stesso che vivendo occupi un posto che nessun altro potrà occupare finché tu viva; e poi oltre alla colpa esistenziale o peccato originale che dir si voglia esistono colpe specifiche e assai concrete.

La colpa tormenta l'anima ogni qualvolta nasce il conflitto tra l'amore per se stessi e quello per gli altri. Questa è la sola vera fatica del vivere, che agita il nostro inconscio e turba la mente e il cuore quando emerge a livello della coscienza. Ma la sofferenza ti fa anche crescere e dà senso alla nostra piccola vita.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La panna montata e lo scandalo di Siena
Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2013, 06:02:52 pm
La panna montata e lo scandalo di Siena

di EUGENIO SCALFARI
 
   
LA CAMPAGNA elettorale cui stiamo assistendo, in attesa di esercitare il nostro diritto al voto come cittadini attivi, è una delle più terremotate della storia repubblicana: populismi di varia natura che hanno come unico obiettivo l'abbattimento totale delle istituzioni; agende futuribili che si prefiggono traguardi di crescita ambiziosi, ma sorvolano sui mezzi con cui recuperare le necessarie risorse; resurrezioni di personaggi che sembravano ormai politicamente spenti e che si ripropongono alla ribalta confidando nella corta memoria degli italiani; una legge elettorale che "porcata" fu chiamata dal suo autore e "porcata" rimane. Ma come se tutto ciò non bastasse, a turbare ulteriormente il clima elettorale scoppia lo scandalo Monte dei Paschi e diventa inevitabilmente dominante in una scena già così movimentata. Non starò a ripercorrerne la storia, da una settimana è al centro dell'attenzione ed è stata raccontata e variamente commentata per quanto finora era possibile; ma non tutti i fatti sono noti e la Procura di Siena sta indagando e salvaguarda scrupolosamente il segreto istruttorio su una materia così incandescente.

Le linee essenziali della vicenda sono tuttavia evidenti: un gruppo di mascalzoni si impadronì della fondazione e della banca, si dedicò ad operazioni arrischiate di finanza speculativa, falsificò i bilanci, occultò le perdite e probabilmente lucrò tangenti e altrettante ne distribuì.

I poteri di vigilanza fecero quanto era in loro potere scontrandosi con i suddetti mascalzoni i quali avevano nascosto i documenti compromettenti per rendere più difficile l'accertamento della verità.
 Ora finalmente la situazione è più chiara, la banca è stata affidata a mani sicure, i mascalzoni hanno un nome, la magistratura è all'opera; 150 dirigenti dei settori più compromessi sono stati licenziati, l'assemblea degli azionisti si è riunita, ha votato all'unanimità un aumento di capitale ed ha chiesto alla Banca d'Italia di erogare il prestito denominato Monti-Bond che sarà utilizzato per l'aumento di capitale insieme alla sottoscrizione degli azionisti. Il titolo quotato in Borsa, che nei primi tre giorni dello scandalo aveva complessivamente perso il 21 per cento, è risalito venerdì dell'11 per cento.
 La banca non è a rischio di fallimento e i depositi del pubblico sono al sicuro. Restano da individuare con esattezza gli errori, gli eventuali reati e le responsabilità, ma resta soprattutto da rivedere il problema delle fondazioni bancarie in genere e di quella di Siena in particolare.
 Nel frattempo il tema Monte dei Paschi ha deflagrato come una bomba nella campagna elettorale; la destra con i suoi giornali e le sue televisioni lo usa come una clava contro i "comunisti" del Pd e anche Monti lo utilizza con molta spregiudicatezza; il Pd lo ritorce con altrettanta energia; i populisti se ne avvalgono come uno strumento contundente.
 Tutto ciò è sotto gli occhi della pubblica opinione e c'è poco da aggiungere salvo che dietro questo assordante clamore alcuni punti non sono stati ancora chiariti. Si tratta di punti essenziali ed è su di essi che vogliamo oggi concentrare l'attenzione.

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La prima questione riguarda gli effetti che lo scandalo Monte dei Paschi determina nell'opinione pubblica internazionale. C'è molta perplessità tra gli osservatori qualificati, banchieri, operatori, giornali qualificati. Si riteneva che il sistema bancario italiano fosse il più solido e quello che meglio aveva tenuto nelle agitate acque della crisi iniziata quattro anni fa col fallimento della Lehman Brothers, ma la vicenda Monte dei Paschi  -  gonfiata oltre la realtà dalle zuffe elettorali  -  ha intaccato la fiducia che ci era stata accordata. Speriamo che le dichiarazioni della Banca d'Italia e la pulizia in corso da parte dei nuovi dirigenti di Monte dei Paschi dissipino le perplessità degli investitori esteri e dei mercati. Lo vedremo domani. Certo non ha ben disposto il fatto che proprio quel Mussari che è all'origine dello scandalo senese sia stato eletto un anno fa alla guida dell'Associazione delle Banche italiane (Abi) dopo esser stato estromesso dalla presidenza di Monte dei Paschi. I banchieri che lo hanno eletto non sapevano nulla di quanto era accaduto a Siena? Erano ciechi e sordi oppure non davano gran peso a così gravi errori e agli eventuali reati che ne sarebbero conseguiti?

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La seconda questione che va chiarita riguarda la fondazione che controlla il Monte dei Paschi. Unica tra tutte le fondazioni italiane essa nomina la quasi totalità del consiglio d'amministrazione della banca. E qui bisogna fare un passo indietro. Sulle fondazioni bancarie ci sono state due leggi, una fatta da Giuliano Amato nel 1990 e l'altra da Ciampi quando era ministro dell'Economia nel governo Prodi. Poi, nel 2003, una sentenza della Corte Costituzionale. Il tema principale delle leggi e della sentenza riguardava i compiti e i poteri delle fondazioni e l'assetto definitivo della proprietà delle banche. Ciampi mirava alla privatizzazione; nella sua visione le fondazioni rappresentavano un ponte in attesa che il mercato registrasse un interesse ad intervenire. Nel frattempo le fondazioni avrebbero dovuto rappresentare la presenza territoriale e professionale nella dirigenza delle banche, lasciando adeguato spazio ad altri azionisti privati.

Nel 2001 tuttavia questo criterio fu modificato da Tremonti, appena arrivato alla guida del Tesoro. Nella legge finanziaria di quell'anno fu stabilito che gli Enti locali avevano diritto di nominare tutti i dirigenti delle fondazioni. Si trattava di fatto di una pubblicizzazione delle fondazioni e quindi delle banche da esse controllate, del tutto opposto ai criteri di privatizzazione della legge Ciampi. La reazione degli interessati fu il ricorso alla Consulta la quale bocciò le disposizioni di Tremonti ripristinando i criteri della legge Ciampi. Ma perché Tremonti aveva scelto un criterio che dava tutto il potere agli Enti locali? Probabilmente glielo aveva chiesto la Lega ma su questo tema il "superministro" è sempre stato coerente: il potere pubblico deve essere determinante nella politica bancaria e quindi nella proprietà degli istituti e nelle fondazioni. Per questo rifiutò sempre le richieste della Banca d'Italia (allora presieduta da Mario Draghi) di poter revocare gli amministratori delle banche quando si dimostrassero responsabili di illegalità particolarmente gravi. Si oppose altresì ad aumentare i poteri di vigilanza dell'Istituto centrale. Infine creò i Tremonti-bond, cioè prestiti alle banche che avessero bisogno di liquidità, convertibili in azioni e quindi all'ingresso diretto dello Stato.Tremonti, non a caso, è oggi uno dei protagonisti nella strumentalizzazione di questo scandalo. Il suo obiettivo è evidente e risulta dalle sue più recenti dichiarazioni: vuole coinvolgere Draghi nelle vicende Monte dei Paschi. In che modo?

La vicenda ebbe inizio con l'acquisto dell'Antonveneta da parte di Mussari (Monte dei Paschi). L'operazione doveva essere autorizzata dalla Banca d'Italia non tanto nel merito quanto nella capacità patrimoniale dell'istituto richiedente. Era l'autunno del 2007, non era ancora scoppiata la bolla immobiliare americana, i mercati erano tranquilli, Monte dei Paschi era la terza banca italiana ed aveva tutti i requisiti per estendere la sua influenza, ma Draghi per maggior prudenza condizionò l'autorizzazione ad un aumento di capitale, Mussari accettò, Monte dei Paschi fece l'aumento di capitale sottoscritto in massima parte dalla fondazione e l'operazione fu fatta. Il prezzo era alto? Certo, ma Mussari si aspettava che Antonveneta fruttasse un profitto annuo di 700 milioni con il quale in breve tempo Monte Paschi sarebbe rientrata da un investimento di quelle dimensioni. Comunque non spettava alla Banca d'Italia dare opinioni e tantomeno prescrizioni sul prezzo. Avanzo a questo punto una mia personale opinione: Tremonti ha un conto in sospeso con Draghi; il suo obiettivo oggi è di coinvolgerlo nella vicenda Monte dei Paschi. Farà il possibile per realizzare quell'obiettivo che è non solo infondato ma recherebbe gravissimo danno all'Europa e all'Italia. Spero di sbagliarmi e sarò lieto di poterlo constatare.

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Si pone tuttavia una terza e nient'affatto marginale questione che riguarda Mario Monti. Nelle campagne elettorali bisognerebbe evitare, come nella boxe, i colpi sotto la cintura, tanto più tra forze politiche destinate ad allearsi in un prossimo futuro. Ma Monti di colpi sotto la cintura ha cominciato a darne: giovedì scorso ha detto che la vicenda Monte dei Paschi riguarda direttamente il Pd. Contemporaneamente ha detto che il suo "movimento" farebbe volentieri alleanza post-elettorale con il Pdl purché epurato dalla presenza di Berlusconi. È evidente l'obiettivo: scomporre e ricomporre la vecchia "strana maggioranza" da lui presieduta dal novembre del 2011 fino al febbraio 2013. Bersani sì ma senza Vendola; Alfano sì ma senza Berlusconi e Monti federatore di moderati e riformisti. La vicenda Monte dei Paschi, purché fatta montare come la panna, aiuta; quanto a Berlusconi, lui è disposto a tutto purché gli si dia un salvacondotto giudiziario ed economico. E chi glielo negherà? Monti no di certo, Casini meno ancora perché vuole la presidenza del Senato e poi, chissà...
 

(27 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/27/news/la_panna_montata_e_lo_scandalo_di_siena_segue_a_pagina_23-51371980/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se il cavallo del Cavaliere vince la corsa elettorale
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2013, 11:46:05 am
Se il cavallo del Cavaliere vince la corsa elettorale


di EUGENIO SCALFARI

C'E' UNA domanda che mi pongo e che propongo ai cittadini che voteranno (e anche a quelli che finora non hanno intenzione di votare o sono ancora indecisi per chi votare): che cosa accadrebbe in Italia se il Partito democratico non vincesse le elezioni? Né alla Camera né al Senato?

Finora nessuno ha fatto questa domanda e nessuno ovviamente ha dato una risposta. Bersani ha fatto appello al cosiddetto voto di necessità, ma limitatamente ad alcune Regioni il cui esito elettorale può essere determinante per il Senato. Ma il tema è più generale. Se l'è posto soltanto Alfredo Reichlin in un articolo lo scorso venerdì sull'"Unità", nel quale si è chiesto che cosa accadrebbe se non ci fosse una visione del bene comune come quella proposta dal Pd.

La logica della democrazia parlamentare ci dice che si vota per il meno peggio; votare per il meglio, cioè per il partito con il quale ci si identifica al cento per cento, è pertanto impossibile: ciascuno ha una sua visione del bene comune. Dunque si vota per il meno peggio, partito movimento o lista elettorale che sia, il cui programma e i cui rappresentanti siano i meno lontani dal nostro modo di pensare. Del resto di Winston Churchill restò celebre la battuta che "la democrazia è il peggiore dei sistemi politici ma uno migliore non è stato ancora inventato".

Allora ripeto: che cosa avverrebbe se il Pd fosse scavalcato da un altro partito? E quale?
Gli inseguitori sono quattro, ma di essi solo uno insegue per vincere in tutte e due le Camere: quello di Berlusconi con i suoi alleati, Lega Grande Sud, Destra, Fratelli d'Italia.

Gli altri non hanno speranze per la Camera, ma possono creare una situazione di ingovernabilità al Senato e quindi una paralisi parlamentare con tutte le conseguenze del caso: la lista civica di Monti con i suoi alleati e Ingroia.

Grillo è un caso a parte. Potrebbe arrivare terzo e perfino secondo ma è molto difficile pensare che divenga primo. E poi i grillini in Parlamento subiranno inevitabilmente una radicale trasformazione; il Parlamento è la sede d'un potere costituzionale, quello legislativo. Voteranno contro tutte le leggi? Vorranno abolire tutte quelle esistenti? Il Movimento "5 stelle" è un'incognita, il suo bacino elettorale è quello degli indecisi che attualmente viaggiano attorno al 10 per cento. La pesca di Grillo si svolge in quel bacino, ma non è il solo. Nel migliore dei casi potrebbe arrivare al 20 per cento e sarebbe un successo enorme ma comunque non sufficiente a dargli la vittoria.

Superare il 20 per cento e magari arrivare al 25 è anche il traguardo vagheggiato da Monti. Ma il solo che può oltrepassare quel traguardo è Berlusconi. È lui l'inseguitore del Pd e dunque che succederebbe se l'inseguitore raggiungesse e superasse l'inseguito?

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Se questo dovesse accadere crollerebbe in misura catastrofica la credibilità europea e internazionale del nostro Paese; i mercati si scatenerebbero e lo "spread" tornerebbe alle stelle. L'ipotesi di un Berlusconi vincente che riuscisse a "domare" Angela Merkel, cioè la Germania, è puro infantilismo. Accadrebbe però che la Lega conquisterebbe un potere decisivo e spaccherebbe con le sue proposte il Paese in due. Qualora la Germania non si accucciasse ai piedi del redivivo, il Cavaliere ha già previsto ed ha pubblicamente dichiarato che la lira come ritorsione uscirebbe dall'euro. Forse coloro che abboccando alla demagogia berlusconiana pensano che prima o poi l'asino volerà, non hanno ben chiaro che cosa significa il ritorno alla moneta nazionale: le banche americane e la speculazione giocherebbero a palla con la liretta, roba da emigrazione forzata, ma se il Pd non vincerà è esattamente questo che accadrà.
Ci sono altre alternative?

Di Grillo abbiamo già detto; tra l'altro sostiene più o meno le stesse corbellerie di Berlusconi. Ma gli altri partiti potrebbero allearsi con il redivivo vincitore? Monti per esempio? Monti ha governato un anno con la "strana maggioranza" che comprendeva anche il Pdl. Vero è che in quell'anno Berlusconi era praticamente scomparso, oggi viceversa è tornato in scena. Quanto a Monti, ha già dichiarato di essere disposto a ripetere l'esperienza dell'anno scorso sempre che il Cavaliere torni a fare il morto. Ma se il Cavaliere fosse il vincente delle elezioni possiamo star certi che il morto non vorrà tornare a farlo. Oppure potrebbe anche cedere a Monti la presidenza, perché no? Invierebbe a controllarlo il suo cameriere Angelino. Quanto a lui chiederebbe ed otterrebbe un salvacondotto onorifico. E il Pd? Ruota di scorta benvenuta, ma senza Vendola per rompere definitivamente con la propria genealogia politica che - come lo stesso Monti ha affermato - comincia con la nascita del Pci a Livorno nel 1921. Comunisti senza soluzione di continuità, partito vecchio come tutti gli altri salvo la lista civica montiana. E salvo Ingroia, Monti se l'era dimenticato. Anche Ingroia è nuovo di zecca e infatti anche lui non sopporta il vecchio Partito comunista camuffato da riformista e anche lui, da sponda opposta, lavora affinché il Pd affondi.
Noi comunque riteniamo che il centrosinistra vincerà alla Camera perché il "Porcellum", che è una porcata per quanto riguarda la scelta dei candidati e il meccanismo d'attribuzione del premio al Senato, assicura la governabilità alla Camera.

Per il Senato il discorso è diverso, ma lì non c'è soltanto Monti, c'è anche Casini e non è affatto detto che sia in tutto e per tutto allineato con Monti. Probabilmente, se il Pd vincerà alla Camera ma il Senato fosse senza maggioranza, Casini l'alleanza con Bersani la farebbe e la governabilità sarebbe assicurata, gli impegni con l'Europa mantenuti, la politica economica europea e italiana orientate verso la crescita. Ecco perché il centrosinistra deve vincere. Personalmente sono liberale e non sono nato nel 1921 ma dalla morte di Ugo La Malfa in poi ho votato sempre a sinistra per un partito riformista. Ce n'è uno solo in Italia, riformista e democratico, con attenzione ai deboli, ai giovani, alle donne, al Mezzogiorno e alla laicità dello Stato. Quando Monti ha parlato del Pci come del progenitore del Pd ho visto che accanto a lui c'era il ministro Riccardi della Comunità di Sant'Egidio che approvava annuendo con la testa; evidentemente pensava ai tempi beati della Dc e non mi è affatto piaciuto. Dovrebbe ricordare - Riccardi - che Moro fece l'accordo con Berlinguer per governare il Paese in un momento di gravi difficoltà e per questo ci rimise pure la vita. Nichi Vendola, me lo lasci dire il buon Riccardi, il Berlinguer di allora lo tratterebbe come un figlioccio un po' più moderato di quanto lui non fosse.

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Si parlerà ancora a lungo dello scandalo Monte dei Paschi, entrato di prepotenza nella campagna elettorale. Ma è un tema che con la politica c'entra soltanto incidentalmente. Il vero tema non è politico, riguarda piuttosto la struttura del sistema bancario, la vertiginosa moltiplicazione dei titoli derivati, le fondazioni e il loro assetto proprietario, i sistemi di vigilanza.

L'articolo di Luciano Gallino pubblicato ieri sul nostro giornale è molto chiaro in proposito: "La banca di Siena ha messo in pratica un modello di affari identico a quello di tutte le banche europee ed è un modello dissennato che sta all'origine della crisi economica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto molte decine di banche in quasi tutti i paesi del nostro continente e negli Stati Uniti".

Questo modello va dunque riformato radicalmente in alcuni suoi punti nevralgici che sono i seguenti:
1. Occorre separare (come era stabilito nella nostra legge bancaria del 1936) le banche di credito ordinario dalle banche di affari e di lungo finanziamento. Le prime debbono raccogliere depositi e utilizzarli per finanziare le imprese; il loro capitale deve essere investito soltanto in obbligazioni emesse dallo Stato o da esso garantite.
2. La proprietà delle banche di credito ordinario deve essere affidata ad una pluralità di soci nessuno dei quali possa detenerne il controllo: fondazioni, fondi pensione, enti non-profit (leggi Amato e Ciampi).
3. La vigilanza sulle banche affidata alla Banca centrale, deve avere poteri più penetranti di quelli attuali. In particolare debbono avere il potere di revoca degli amministratori la cui condotta e le cui operazioni presentino aspetti rischiosi per la stabilità della banca ad essi affidata.

La Banca d'Italia, allora guidata da Mario Draghi, chiese più volte al governo che i suoi poteri di vigilanza fossero rafforzati e chiese in particolare di poter revocare gli amministratori. Oggi la vigilanza può solo ricorrere alla "moral suasion" che non è un potere ma una semplice raccomandazione. Analoghe richieste furono fatte dal Fondo monetario internazionale, anch'esso preoccupato per gli scarsi poteri della vigilanza della Banca d'Italia. Il governo, nella persona del superministro Tremonti, rifiutò. Sarebbe molto opportuno che su questo punto la Banca d'Italia fornisse alla magistratura e alla Corte dei Conti la documentazione delle sue richieste e la risposta negativa del ministro competente.

Il Presidente della Repubblica è giustamente preoccupato di quanto è accaduto, reclama chiarezza, confida nella magistratura e difende la Banca d'Italia dalle critiche faziose che le vengono rivolte. Ha segnalato anche, e giustamente, possibili "cortocircuiti" tra organi di informazione e autorità giudiziarie, che possano influire negativamente sui depositanti e sul mercato. Occorre tuttavia distinguere tra organi di informazione che ricercano la verità come è loro compito deontologico e istituzionale; possono talvolta incorrere in qualche errore come a tutti può capitare nell'effettuare il loro lavoro. Altra cosa invece avviene quando l'organo di informazione fabbrica notizie inesistenti e le diffonde per influire sui mercati e sulla politica. Queste sono macchine del fango e il cortocircuito che provocano non è occasionale ma consapevole e voluto.

Per rafforzare il risanamento del Monte dei Paschi sarebbe anche molto opportuno a nostro avviso che il ministro dell'Economia nominasse due consiglieri d'amministrazione della banca in occasione del prestito dei Monti-bond. La presenza provvisoria dello Stato nel capitale della banca è garanzia dell'opera di pulizia in corso dopo lo "tsunami" di Mussari e dei suoi accoliti.
Quanto alla fondazione senese, è evidente che debba fortemente diminuire la sua presenza azionaria nella banca. Lo faccia al più presto e discenda al 20 per cento, meglio meno che più.

Post scriptum. Ieri ed oggi il nostro giornale è presente a Torino come lo fu l'anno scorso a Bologna, con manifestazioni intitolate "la Repubblica delle Idee": dibattiti, prolusioni, interviste su temi di perdurante attualità. I torinesi hanno affollato le nostre iniziative con un interesse ed una simpatia dell'intera città.

Invio a tutti i colleghi ed amici e al direttore Ezio Mauro i miei più affettuosi auguri e li invio anche ai cittadini di Torino. Nel lontano 1968 fui deputato in quel collegio, indipendente nelle liste del Partito socialista. Amo molto quella città e faccio voti affinché il lavoro, lo sviluppo economico e culturale abbiano la meglio sulla attuale stasi.
 
Torino fu la culla del nostro Risorgimento e uno dei principali centri di crescita e di solidarietà sociale e nazionale. Questa è la sua vocazione che anche in tempi difficili non è mai stata abbandonata.

(03 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/02/03/news/scalfari_berlusconi-51831873/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Anche Gesù era un narcisista
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:55:51 am
Opinione

Anche Gesù era un narcisista

di Eugenio Scalfari

L'amore di sé viene spesso demonizzato. Invece è indispensabile per vivere con fiducia, per progettare il futuro e ricordare il passato. E alcuni grandi uomini della storia ne sono la prova

(07 febbraio 2013)

La letteratura di marca freudiana ha come personaggio principale delle sue analisi terapeutiche la figura mitologica di Narciso. Anche le grandi opere narrative ne fanno quasi sempre la figura centrale; pensate al Julien Sorel del "Rosso e Nero" di Stendhal, pensate alla "Recherche" proustiana e in tempi a noi più vicini ai personaggi in gran parte autobiografici dei romanzi di Roth e di Saul Bellow.

Ma il primo che teorizzò il dominio sull'anima umana dell'amore di sé fu il duca de La Rochefoucauld nelle sue Massime. Lo chiamava "amour propre" distinguendolo dall' "amour pour les autres" e ne enumerava i pregi e i difetti.

GLI ANALISTI FREUDIANI tendono invece a identificarlo in un disturbo psichico e hanno orientato la loro terapia a farlo emergere a livello della coscienza sperando che la consapevolezza del narcisismo nel soggetto analizzato riesca a limitarne i danni se non addirittura a eliminarlo. Questa posizione è comprensibile poiché chi si rivolge alla terapia psicoanalitica è normalmente una persona disturbata e spesso il disturbo che lo affligge è proprio il narcisismo che ha oltrepassato la soglia fisiologica diventando patologia. Si aggiunga che gran parte delle persone non sa o comunque nega risolutamente che la sua psiche sia affetta di narcisismo; nel linguaggio corrente quella parola ha un senso peggiorativo perché è sinonimo di egoismo e le persone non ammettono mai di essere egoiste, cioè di privilegiare l'io all'amore per gli altri. Su questo tema insomma quasi nessuno dice la verità salvo che sul lettino dell'analista.

L'argomento è diventato di stretta attualità da quando la pubblicistica ha scoperto che le società moderne hanno l'egoismo come caratteristica principale. In realtà hanno scoperto l'acqua calda: tutte le persone, tutte le società, tutte le corporazioni, tutte le nazioni, insomma tutti i soggetti individuali o collettivi sono egoisti, privilegiano su tutti gli altri l'amore di sé quale che sia la loro condizione sociale, sicché Narciso è la figura mitologica fondamentale, la vera e propria icona da sempre, da quando la scimmia si sollevò da terra su due gambe e il suo cervello cominciò a pensare e il suo linguaggio a pronunciare la parola "io". Non a caso l'assunto principale della filosofia di Nietzsche si esprime con la frase che ciascun individuo è il centro del mondo. Non si ritiene ma realmente è il centro del mondo poiché non può guardare il mondo, cioè tutte le cose e le persone che lo circondano, se non dal proprio punto di vista. Perciò è lui il centro e tutto il resto non è che una circonferenza o se volete la sua periferia.

HO LETTO NEI GIORNI SCORSI sulle pagine culturali di "Repubblica" un interessante articolo di Massimo Recalcati che ha proprio Narciso come tema portante. Sostiene l'importanza di guardarsi allo specchio (ma naturalmente in senso metaforico): solo guardandosi allo specchio ci si vede e ci si innamora di sé. Narciso infatti si guardava nelle acque di un lago e si innamorò a tal punto di quella sua figura che alla fine cadde nel lago e morì.

Mi par di capire che Recalcati consideri negativamente l'innamoramento di sé. Se questo è il suo pensiero e il suo giudizio, debbo dire che sbaglia e di grosso: ciascuno di noi vive in propria compagnia ventiquattr'ore su ventiquattro e guai se non amasse se stesso. La sua vita diventerebbe un inferno e non durerebbe a lungo. Chi vive a disagio con se stesso e si disistima cade quasi sempre in stati di depressione che sovente si trasformano in psicopatia e talvolta inducono al suicidio.

LA FIDUCIA IN SE' e quindi l' "amour propre" è un requisito fondamentale e deriva direttamente dall'istinto di sopravvivenza che è il fondamento di tutti gli esseri viventi, dagli animali ai vegetali. L'amore di sé e la fiducia che ne deriva sono la condizione necessaria per vivere e sopravvivere, per progettare il futuro, per ricordare il passato e celebrarlo. Il primo racconto che fonda la letteratura occidentale è l'Iliade e che cos'altro è quel poema se non l'epica degli eroi? E che cosa sono gli eroi se non dei narcisi che si specchiano nelle proprie imprese, nelle proprie vittorie, nel proprio coraggio? Narciso tuttavia non è un dio, non ha un seggio in Olimpo. Nel politeismo ellenico non esiste un dio Narciso come non esiste in nessun'altra religione. Salvo una: quella che ha come punto di riferimento essenziale anzi esclusivo Gesù Cristo figlio di Dio, che assume natura umana per assicurare la salvezza delle creature.

Il miracolo che Cristo dovrebbe compiere sarebbe quello di abolire l'egoismo. In realtà si tratta d'un tragitto amoroso al termine del quale ci sarà l'amore di tutto il mondo cristiano per Cristo Salvatore. Non suoni blasfemo se dico che Gesù di Nazareth figlio dell'uomo fu un caso stupefacente e, questo sì, miracoloso di narcisismo ottenuto attraverso il suo sacrificio e l'immenso amore che tutti i cristiani indirizzarono e indirizzano verso la sua figura.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/anche-gesu-era-un-narcisista/2199470/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il buono, il brutto, il bello e il cattivo
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2013, 04:29:47 pm
Il buono, il brutto, il bello e il cattivo

di EUGENIO SCALFARI


MENTRE cominciavo a scrivere queste note mi sono arrivate due notizie: la prima è una dichiarazione effettuata da un gruppo di candidati nelle liste civiche di Monti che fa capo a Lorenzo Dellai, ex presidente della Provincia autonoma di Trento, che suggerisce agli elettori di votare Ambrosoli alla presidenza della Regione Lombardia anziché il candidato montiano Albertini; uno stesso suggerimento era già stato dato da Ilaria Borletti Buitoni, capolista montiano in Lombardia per la Camera dei deputati. La seconda notizia è che Monti ha da parte sua espresso un parere contrario rilanciando la candidatura di Albertini alla Regione, anche se non ha alcuna possibilità di riuscita e giova soltanto alla eventuale vittoria di Maroni.

Non è un bell'esempio di coerenza con gli interessi generali della democrazia e del paese.
Ma veniamo ora ad un quadro più generale della situazione.

Mancano 14 giorni al voto e la gente si è stufata della politica e di questa campagna elettorale. Lo leggo su molti giornali, ma è proprio così?

A me non pare. Gli ascolti dei dibattiti televisivi sono alti; piazze e teatri dove parlano i protagonisti politici sono pieni; slogan, proposte, invettive, programmi, si incrociano; gli aspiranti a governare elencano i provvedimenti che intendono prendere nei primi cento giorni di governo. Le tifoserie sono mobilitate. Le persone che si incontrano si scambiano tra loro la domanda: come pensi che andrà a finire?

E poi ci sono gli arrabbiati.
La rabbia sociale non è un fenomeno soltanto italiano, c'è in tutta Europa, la rabbia, perché l'intero continente è in recessione, la recessione impone sacrifici, i sacrifici provocano sofferenza e rabbia, gli arrabbiati cercano i colpevoli, ma i colpevoli sono tanti e ciascuno sceglie il suo bersaglio.

Vi sembra che tutti questi fenomeni diano un quadro di indifferenza? Gli indecisi sono ancora molti ma negli ultimi sondaggi risultano in diminuzione. L'astensionismo è valutato tra il 20 e il 25 per cento, più o meno come da molti anni in qua. Quindi non è vero che la gente si è stufata. è vero invece che questa campagna elettorale è tra le più agitate e confuse dell'Italia repubblicana.

La conclusione è questa: il bipolarismo semplifica, il multipolarismo complica e la gente si disorienta. Non è indifferenza ma disorientamento, perciò la gente cerca a suo modo di semplificare. Il populismo è certamente una semplificazione. Avreste mai pensato un anno fa che sommando insieme Berlusconi e Grillo si arrivasse almeno al 40 per cento dei consensi registrati dagli ultimi sondaggi? Se non addirittura al 50?

Berlusconi ormai promette la luna a ruota libera; Grillo lancia il suo "vaffa" in tutte le direzioni, sui partiti, sulla politica, sull'Europa, sullo "spread", sull'euro. Se sapesse che Aristotele enunciò la primazia della politica su tutte le altre attività dello spirito, il "vaffa" colpirebbe sicuramente anche lui.

È possibile che metà degli elettori possano affidarsi a questi Dulcamara? È una semplificazione del tipo "fai da te"; gli schieramenti in campo sono troppi, le differenze tra loro sono sofisticate, il "fai da te" sceglie i due populismi che, ovviamente, sono contrapposti tra loro.

Aggiungeteci la Lega che ha un solo obiettivo: conquistare la regione Lombardia e contrapporre la macro-Regione padana al resto d'Italia. Piemonte-Lombardia-Veneto detteranno legge al governo nazionale, quale che sia il suo colore.

Ma aggiungeteci anche Ingroia che guida una lista molto minoritaria ma che può essere determinante in alcune Regioni, tra le quali la Lombardia, la Sicilia, la Campania. Determinante non per vincere ma per far vincere Berlusconi e la Lega. Analoga in quelle Regioni è la posizione di Monti. A chi contesta ad Ingroia questo gioco a perdere per far vincere il peggiore, la risposta l'ha data Marco Travaglio venerdì scorso a "Otto e mezzo": il risultato sarà un Parlamento ingovernabile e quindi una legislatura che durerà pochi mesi. Poi si tornerà a votare; forse allora saranno nate una nuova sinistra e una nuova destra, formate tutte e due da gente nuova, anzi nuovissima, alla politica.

Dopo 70 giorni di campagna elettorale che sta per chiudersi, queste belle menti auspicano altri cinque mesi di paese ingovernato e altri tre mesi di campagna elettorale. L'Italia resterà dunque senza guida fino al prossimo ottobre con la prospettiva che nasca a quel punto una maggioranza Ingroia-Grillo. Nel frattempo il mercato avrà messo in mutande la nostra economia e quello che avanza di industria e occupazione. Complimenti di tutto cuore.

* * *
Per completare lo scenario che sta davanti ai nostri occhi bisogna ora spostarsi dall'Italia all'Europa di cui siamo parte integrante. Ci sono stati in questi giorni due fatti nuovi: il Consiglio dei primi ministri dei 27 Paesi aderenti all'Unione europea e il Consiglio d'amministrazione della Banca centrale (Bce).

Il Consiglio dei ministri e la Commissione si sono incontrati a Bruxelles e hanno discusso per 25 ore di seguito, senza dormire e mangiando qualche panino. Anche lì c'era molta confusione, ciascuno aveva i propri interessi da difendere, magari a scapito dell'interesse generale europeo. Alla fine è stato trovato un compromesso che si può riassumere così: gli interessi dei singoli Paesi membri sono stati tutti parzialmente soddisfatti e, infatti, le decisioni sono state votate all'unanimità come è previsto poiché ciascun Paese ha un diritto di veto e l'unanimità è quindi indispensabile.

Ma sono stati pagati due prezzi molto alti per ottenere questo risultato: il bilancio europeo, che avrebbe dovuto essere largamente aumentato, è stato invece tagliato rispetto al bilancio in vigore da sette anni.

Il Parlamento europeo, anch'esso quasi all'unanimità, si è però opposto a questo taglio e ha messo il veto a quel compromesso. La questione è dunque aperta ed è della massima importanza. Basteranno due cifre per dare l'idea concreta del problema: il bilancio federale degli Usa rappresenta il 22 per cento del Pil americano, il bilancio dell'Unione europea rappresenta invece l'1 per cento del Pil dei Paesi confederati.

Il secondo prezzo pagato a Bruxelles riguarda la politica di crescita economica, per altro da tutti auspicata a parole però, perché non un centesimo, non un provvedimento, non un'idea che rilanci la creatività è stata messa sul tavolo, se non la raccomandazione ad accrescere la flessibilità dei sistemi economici.

Monti è tornato a casa con un piccolo tesoretto di quasi quattro miliardi di euro. Non è molto ma nemmeno poco. Sul resto nulla poteva fare da solo e nulla ha fatto.

* * *

Mentre queste cose accadevano a Bruxelles, a Francoforte Mario Draghi ha messo a fuoco una questione della massima importanza. Riguarda il tasso di cambio euro-dollaro che ormai da molti mesi si è apprezzato a favore dell'euro toccando il suo massimo di 1,36 dollari per euro giovedì scorso. Ma il giorno dopo è intervenuto Draghi ricordando che la Bce non può intervenire sul mercato dei cambi perché il suo statuto non lo prevede. La Bce ha due soli compiti: garantire la stabilità dei prezzi e assicurare al sistema bancario la necessaria liquidità.

L'apprezzamento dell'euro nei confronti del dollaro  -  ha detto Draghi  -  è un fatto positivo in questa fase di crisi economica perché è il segno che molti investitori acquistano euro dimostrando con ciò di avere fiducia nella moneta europea piuttosto che in altre valute. Tuttavia  -  ha proseguito  -  un eccessivo apprezzamento dell'euro potrebbe abbassare il tasso di inflazione al di sotto dell'attuale livello del 2 per cento che è ritenuto ottimale per la stabilità dei prezzi. Se da questo livello si dovesse scendere nei prossimi mesi verso l'1 per cento, ci si avvierebbe verso una fase di deflazione con un mutamento negativo nella stabilità dei prezzi. In questo caso, intervenire sul cambio estero rientrerebbe nei compiti statutari della Bce che è pronta a farvi fronte.

Risultato: dopo quell'intervento puramente verbale, venerdì il cambio è sceso all'1,33 rispetto al dollaro. Draghi ha confermato così la sua capacità tattica e strategica per salvaguardare il sistema dal punto di vista della politica monetaria, tenendo aperta la porta ai governi affinché prendano le necessarie decisioni per rilanciare l'economia reale. Purtroppo alla sagacia di Draghi non fa riscontro una altrettanto viva sensibilità dei governi per l'interesse generale dell'Europa.

* * *

Mi permetto di suggerire ai lettori il film dedicato a Lincoln: racconta come e con quali prezzi la confederazione degli Stati Uniti d'America diventò uno Stato federale. Per realizzare quest'obiettivo, senza il quale la storia del mondo sarebbe stata completamente diversa, fu necessaria una guerra civile durata quattro anni con seicentomila morti, più della somma dei morti americani nelle due guerre mondiali del Novecento. E, come non bastasse, anche l'assassinio dello stesso Lincoln tre giorni dopo la vittoria e la firma della pace.
L'Europa ha già pagato un prezzo altissimo di sangue, versato in secoli di guerre tra gli Stati europei. L'ultima di esse ha fatto addirittura 41 milioni di morti tra militari, civili e genocidi orrendi. Da questo punto di vista abbiamo larghissimamente pagato e infatti da allora l'Europa ha trascorso quasi 70 anni in pace. Ma l'Europa federale ancora non è nata.

Non abbiamo molto tempo per farla nascere; l'economia globale prevede confronti tra continenti. L'Europa ha più di mezzo miliardo di abitanti, possiede un'antica ricchezza, un'alta vocazione tecnologica e scientifica, è bagnata da tre mari e confina con l'Asia e con l'Africa. Ha una forza potenziale enorme, l'Europa, ma diventerà del tutto irrilevante se continuerà ad essere sgovernata da una confederazione di Stati con una moneta comune usata da poco più della metà di essi.

Abbiamo a disposizione non più di una decina di anni di tempo per arrivare a quel risultato e, poiché si tratta d'un percorso fitto di ostacoli, occorre intraprenderlo da subito. Non è un obiettivo che viene dopo gli interessi nazionali perché è esso stesso un interesse nazionale e non può essere accantonato o timidamente sostenuto. L'Europa deve diventare uno Stato con il suo bilancio, un suo governo, un suo Parlamento, una sua Banca centrale. Per ora ci sono soltanto timidi abbozzi dai quali emerge soltanto un Consiglio intergovernativo che decide solo all'unanimità o con maggioranze altissime dell'80 per cento. Se resteremo in queste condizioni, tra dieci anni saremo solo una memoria nella storia culturale del pianeta. E nulla più.

P. S. È stato detto tutto il dicibile sulla proposta berlusconiana di abolire l'Imu sulla prima casa rimborsandone entro un mese l'ammontare pagato dai contribuenti. Ma non è stato ancora ricordato un punto di fondo: l'Imu varata nel dicembre 2011 è un'imposta patrimoniale progressiva: i proprietari d'una casa di lusso, con più elevata rendita catastale, situata in quartieri di prestigio, hanno pagato con aliquote progressive. Su 3,9 miliardi di gettito l'abolizione prospettata da Berlusconi sarebbe un grosso regalo ai proprietari di reddito medio alto e altissimo e un'elemosina di pochi spiccioli alla massa dei contribuenti. L'imposta progressiva una volta abolita si trasforma in un beneficio "regressivo" che premia pochi ricchi e fa elemosina a molti poveri. Questo è il vero e maggior difetto della velleitaria proposta berlusconiana.

(10 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/02/10/news/il_buono_il_brutto_il_bello_e_il_cattivo-52312214/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Riuscirà a guarire la Chiesa ferita?
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:27:52 pm
Riuscirà a guarire la Chiesa ferita?

di EUGENIO SCALFARI


Torno oggi ad esaminare la rinuncia (o abdicazione) del Papa. Non perché non vi siano altri fatti di grande importanza come la corruzione sempre più diffusa nel corpo ammalato del nostro Paese o le elezioni politiche ormai incombenti o la recessione che morde con denti sempre più acuminati e infine l'Europa e il drammatico oblio della sua costruzione di Stato federale senza il quale tutti gli Stati nazionali che la compongono finirebbero nella totale irrilevanza.

Ma la rinuncia di Benedetto XVI questi fatti li supera tutti perché segna una svolta decisiva nell'essenza della massima religione dell'Occidente e le infligge una ferita dalla quale è molto difficile che possa riaversi.

Le conseguenze saranno enormi nella storia delle idee, dell'etica, della politica, della convivenza sociale e riguarderanno sia i credenti sia i non credenti.

La decisione di papa Ratzinger è stata giudicata in vario modo e con vari aggettivi: rivoluzionaria, epocale, storica, eccezionale nella sua grandezza, ma anche conforme a quanto previsto dal canone ecclesiastico e comunque liberamente decisa nell'interesse della Chiesa.

Vedo che ora si discute molto sul dogma dell'infallibilità del Pontefice ed anche dell'opportunità sostenuta da alcuni ma avversata da altri di porre un termine obbligatorio, come già vige per i cardinali e per i vescovi, oppure di mantenerlo come opzione.

Discussioni, tutte, interessanti ma irrilevanti. Resta, ed è ovvio che così avvenga, la diversa visione tra credenti e non credenti con una zona grigia interposta tra gli uni e gli altri di quelli che relegano la loro fede in una zona marginale della mente.

Ho letto con interesse la lettera inviata al nostro direttore da Julián Carrón, presidente di Comunione e Liberazione. Stando alle sue parole l'evento è certamente eccezionale e accrescerà moltissimo il prestigio della Chiesa, il suo messaggio ecumenico e la forza della fede nel mondo. Benedetto XVI è stato sicuramente ispirato dallo Spirito Santo, tutto il popolo di Dio l'ha compreso e si è stretto ancor più attorno a lui. Questa, scrive Carrón, è la verità; tutte le altre sono interpretazioni.

Purtroppo per lui, anche questa di Carrón è un'interpretazione, come pure è un'interpretazione il fatto che la decisione del Papa sia stata da lui presa in piena libertà, come il canone prescrive.

Che cosa vuol dire "in piena libertà"? Non esiste alcuna magistratura che possa riscontrare l'esistenza di questo elemento e infatti non si tratta di dimissioni che possono essere accettate o respinte. Chi può dire se le divisioni all'interno della Curia e il devastante fenomeno della pedofilia o la fragilità del corpo e dell'anima di Joseph Ratzinger non abbiano condizionato la sua libertà?

Carrón afferma che lo Spirito Santo è quello che determina la scelta dei cardinali e non abbandona l'anima e l'intelletto del Capo della Chiesa.

Questa è la verità della Chiesa che si scontra tuttavia con moltissimi Pontefici che dettero di sé esempio devastante di cupidigia del potere, fornicazione, simonia. Dovremmo allora pensare che anche le loro malefatte furono volute nell'alto dei cieli affinché provocassero un risveglio delle coscienze e in tal modo contribuissero al bene della Chiesa? Del resto, questo singolare rapporto che congiunge il bene con il male lo troviamo anche nel tradimento di Giuda da fedele discepolo ad abietto denunciatore del suo Maestro.

Ma non era previsto e deciso - nell'alto dei cieli - che Gesù fosse tradito e poi suppliziato e crocifisso? Se tutto è stato disegnato e se l'esercizio del libero arbitrio mette chi lo esercita fuori dal popolo di Dio qualora quella libertà sia trasgressiva, allora la colpevolezza diventa impossibile da concepire.

Mi viene in mente quel sonetto del Belli dove un ebreo respinge l'accusa di deicidio lanciata dai cristiani contro il suo popolo, con questi versi: "Se Cristo era venuto pè morì / quarcheduno l'aveva da ammazzà".
Se tutto è disegnato la scelta non è mai libera a meno che non vi sia trasgressione.

***

Nel mio articolo di martedì scorso posi il problema dello scontro tra la Chiesa-istituzione e la pastoralità della Chiesa povera e missionaria.

L'istituzione - così ho scritto - doveva fornire alla pastoralità i mezzi per esercitare pienamente il suo mandato d'amore del prossimo.

È accaduto invece che la storia della Chiesa sia stata quella dell'istituzione che soffoca la pastoralità, cioè della gerarchia che reclama la sua "temporalità" subordinando la pastoralità.

Conosco la risposta di molti storici: l'istituzione avrà pure compiuto o consentito molti peccati ma senza di essa il Cristianesimo non sarebbe durato due millenni, si sarebbe rapidamente disperso in tante sette e infine avrebbe cessato di esistere. E poi non fu Cristo a dire a Simone: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa? È vero, così recitano le Scritture del Nuovo Testamento.

Ci sono tuttavia due altre religioni monoteiste completamente prive di gerarchia, che sono durate fino ad oggi e dureranno ancora: l'Ebraismo ha già tremila anni di storia e non ha gerarchia né sacerdozio, i rabbini sono soltanto maestri della legge. La medesima struttura ha l'Islam. Non ha sacerdoti ma solo dottori del Corano e Imam che insegnano nelle università islamiche. L'Islam ha una storia di millecinquecento anni e durerà ancora, nel bene e nel male.

Dunque non è l'istituzione la custodia della religione. Lo stesso Benedetto XVI se l'è lasciato sfuggire quando, parlando ai fedeli mercoledì scorso e ai preti romani giovedì ha detto che la sua rinuncia è dovuta anche alle divisioni e agli scandali che hanno turbato la Curia ammettendo che questi accadimenti hanno imbrattato il volto della Chiesa e che lui non ha avuto la forza di fare le pur necessarie riforme, augurandosi che sarà il suo successore a compiere ciò che egli lascia incompiuto.

***

La Curia ha sempre adottato il metodo della cooptazione e ha sempre tentato di far trionfare al Conclave uno dei suoi. Spesso è riuscita nel suo intento, talvolta no, ma in ogni caso la dialettica tra Curia e Papa si è manifestata determinando anche rotture traumatiche.

In tempi a noi vicini ce n'è stata una soltanto, quella di papa Giovanni.

Alla morte di Pio XII la Curia, che era ancor più conservatrice del Papa, puntò sull'arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, mentre settori più progressisti del Sacro Collegio preferivano Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna.

Alla fine fu scelto Roncalli, patriarca di Venezia. Fu scelto perché era vecchio e malandato in salute, sarebbe durato poco e non avrebbe comunque messo in discussione i poteri e le strutture curiali a quell'epoca guidate dai cardinali Canali, Pizzardo, Micara e Ottaviani.

Roncalli durò poco, ma determinò un terremoto: dopo meno di novant'anni dal Vaticano I indisse il Concilio ecumenico Vaticano II al quale dette il compito di rinnovare la liturgia e la teologia e di confrontarsi con il mondo moderno. Una rivoluzione.

Wojtyla ereditò questo lascito ma delegò la Curia ad occuparsene. Lui aveva ben altri problemi: la lotta contro il comunismo che soffocava la libertà e i diritti della Chiesa, e poi gli ideali della pastoralità anticapitalistica concentrati nella sua predicazione. Fu ferito in un attentato, viaggiò nel mondo, sconfessò la teologia della liberazione ma chiamò attorno a sé i giovani, i poveri, gli esclusi. Trionfò in America Latina e in Africa, riconobbe gli ebrei come fratelli maggiori.

Era un grande attore papa Wojtyla e morì da grande attore, atrocemente sulla scena fino all'ultimo respiro.

***

Joseph Ratzinger, non dimentichiamolo, era uno dei principali esponenti della Curia quando Wojtyla morì.

Assunse con impeto la guida del Sacro Collegio, officiò la messa di apertura del Conclave e fu il solo destinatario d'una trentina di suffragi alla prima votazione. Nel frattempo il cardinal Martini comunicò ai suoi sostenitori di non votarlo, il suo Parkinson era già molto avanzato e non gli avrebbe consentito di sostenere il ruolo pontificale. Suggerì anche che concentrassero i loro voti su Ratzinger per scongiurare un'ipotesi di Camillo Ruini sul soglio pontificio. Così avvenne, alla seconda votazione Ratzinger superò i cinquanta suffragi, la terza fu fumata bianca.

Ma otto anni dopo è arrivata l'epocale abdicazione. Sono stati otto anni di vera e propria rissa all'interno della Curia, con il Papa che tentava di dare pienezza al suo ruolo di governo non solo religioso ma temporale, senza tuttavia riuscirvi; tensioni crescenti tra Sodano, Bertone, Ruini e poi Bagnasco; scoppio dello scandalo della pedofilia; crollo delle vocazioni soprattutto in Europa; pressioni in tutti i settori e soprattutto sulle strutture e sulle organizzazioni tradizionali da parte delle Comunità: Comunione e Liberazione, Sant'Egidio, Opus Dei, focolarini, salesiani, gesuiti, una fenomenologia del tutto nuova, già presente ai tempi di Giovanni Paolo II ma al culmine con Benedetto XVI.

Infine il processo di secolarizzazione di tutto l'Occidente e in particolare in Europa e nel Nord America.

Nessuno di questi problemi è stato risolto da Benedetto ed è questa la vera ragione che l'ha indotto alla sua clamorosa rinuncia.

Questa decisione ha rotto la sacralità, ha messo a nudo la natura lobbistica della gerarchia, ha indebolito il ruolo del Papa innalzando quello della Chiesa conciliare. Il Concilio sarà d'ora in poi un'istanza suprema, il colloquio con la modernità risveglierà probabilmente una Chiesa minoritaria e depositaria di un'etica meno ingessata dai dogmi.

La Curia dovrà essere inevitabilmente riformata. Ci vorrebbe un Gregorio VII per riuscirci e forse lo troveranno. Lo scontro è ancora e sempre tra il popolo di Dio e la gerarchia. Ma chi c'è dietro Dio? La risposta (blasfema?) dei non credenti è che dietro Dio ci siamo noi uomini che l'abbiamo inventato come esorcismo contro la morte. Ma è un esorcismo che comporta comunque un altissimo senso di responsabilità individuale. Da questo punto di vista la predicazione di Gesù di Nazaret, figlio di Giuseppe e Maria, è un lascito prezioso cui attingere.

(17 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/02/17/news/chiesa_ferita-52826660/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Avanguardia da vagone letto
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:16:29 pm
 
Opinioni

Avanguardia da vagone letto

di Eugenio Scalfari

C'è chi sostiene che il Gruppo 63 era il vuoto assoluto. E chi invece ricorda come (dopo) i suoi artefici abbiano prodotto opere memorabili.
Ma quella rivoluzione oggi è come un trifoglio rinsecchito tra le pagine di un vecchio album

(14 febbraio 2013)

Esattamente mezzo secolo è passato dalla fondazione del Gruppo 63, la neo-avanguardia che affermò la sua presenza e la sua "poetica" (cioè il suo canone di scrittura) per cinque anni e poi fu cancellato dal Sessantotto che, nel bene e nel male, era molto più strutturato e lasciò tracce ben più visibili del suo passaggio.
Sul "Venerdì" di "Repubblica" Umberto Eco ha recentemente raccontato la nascita di quel Gruppo del quale anche lui fece parte e ne fu anzi tra i fondatori insieme ad Antonio Porta, Edoardo Sanguineti, Alberto Arbasino, Angelo Guglielmi, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini e molti altri. Tutti uomini. Di donne non c'è traccia, erano semmai impegnate alla rinascita del movimento femminista che poi confluì nel Sessantotto mantenendo tuttavia una netta distinzione tra il movimento studentesco e il femminismo che fu in realtà il solo vero lascito di quella rivoluzione.

UNA DONNA CHE EBBE rapporti polemici col Gruppo 63 però ci fu e ancora lo ricorda: Maria Luisa Spaziani che, intervistata da Antonio Gnoli su "Repubblica", ripete la sua totale condanna letteraria di quella "avanguardia in vagone letto" (così fu battezzata dai suoi critici e dette il titolo a un articolo di Sandro Viola che pubblicammo sull'"Espresso"): «Volevano solo far rumore, il resto era vuoto assoluto», dice a Gnoli la Spaziani.

Eco, che dà invece un giudizio positivo sull'azione di rottura culturale del Gruppo, arriva però alla stessa conclusione con parole ancor più dirette: «Eravamo sperimentalisti e volevamo soprattutto fare casino. Su questo punto eravamo tutti d'accordo, sul resto (cioè sul lavoro letterario) ognuno andò per la sua strada».
Va ricordato, per meglio inquadrare le gesta di quella neo-avanguardia, che essa coincise temporalmente con il movimento dei "figli dei fiori" che prosperò soprattutto nei campus universitari della California e di New York e con Mary Quant e la sua minigonna nelle strade di Londra e si diffuse di lì in tutto il mondo insieme ai jeans e alle donne in pantaloni.

LA NOSTRA NEO-AVANGUARDIA invece non ebbe alcun risvolto apprezzabile per quanto riguarda il costume; le sue rotture furono soltanto culturali ma, casino a parte per usare le parole di Eco, il solo risultato fu quello di sottolineare la crisi del romanzo che rivendicarono come loro merito mentre, a parer nostro, misero in evidenza un fatto già accaduto da tempo per effetto di tutt'altre cause.

Il Gruppo 63 era alquanto snobistico e molto egotico. Prese di mira quasi tutti i romanzieri di allora, specialmente Carlo Cassola e Giorgio Bassani ma anche Riccardo Bacchelli e i poeti "laureati". Perplessi ma fondamentalmente critici nei confronti di Alberto Moravia e di Pier Paolo Pasolini, dei loro contemporanei salvarono soltanto Carlo Emilio Gadda.

Non produssero opere e del resto la loro "filosofia" o poetica che dir si voglia, aveva promulgato canoni che rendevano di fatto impossibili opere compiute: predicavano che le parole avevano un senso solo in quanto singole parole e se fossero servite a costruire frasi quel senso sarebbe andato perduto.
Avevano, coerentemente con quel presupposto, abolito la punteggiatura, non c'era punto, non c'era virgola, non c'era capoverso o capitolo. Spazi bianchi, quelli sì, ma non per marcare un ritmo, una metrica, ma per disegnare sulla pagina una geometria fatta di parole anziché di linee, di cerchi, di triangoli.

L'assertore di questa poetica senza opere fu Balestrini. Gli altri, come ricorda Eco, andarono per la loro strada e di opere ne fecero, eccome!
A mezzo secolo da allora il Gruppo 63 è come un trifoglio rinsecchito tra le pagine d'un vecchio album. Nostalgia di giovinezze lontane e preavviso - questo sì - di ben più drammatiche rotture.

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Anche Gesù era un narcisista
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2013, 11:17:10 pm
Anche Gesù era un narcisista

di Eugenio Scalfari

L'amore di sé viene spesso demonizzato. Invece è indispensabile per vivere con fiducia, per progettare il futuro e ricordare il passato.
E alcuni grandi uomini della storia ne sono la prova

(07 febbraio 2013)


La letteratura di marca freudiana ha come personaggio principale delle sue analisi terapeutiche la figura mitologica di Narciso. Anche le grandi opere narrative ne fanno quasi sempre la figura centrale; pensate al Julien Sorel del "Rosso e Nero" di Stendhal, pensate alla "Recherche" proustiana e in tempi a noi più vicini ai personaggi in gran parte autobiografici dei romanzi di Roth e di Saul Bellow.

Ma il primo che teorizzò il dominio sull'anima umana dell'amore di sé fu il duca de La Rochefoucauld nelle sue Massime. Lo chiamava "amour propre" distinguendolo dall' "amour pour les autres" e ne enumerava i pregi e i difetti.

GLI ANALISTI FREUDIANI tendono invece a identificarlo in un disturbo psichico e hanno orientato la loro terapia a farlo emergere a livello della coscienza sperando che la consapevolezza del narcisismo nel soggetto analizzato riesca a limitarne i danni se non addirittura a eliminarlo. Questa posizione è comprensibile poiché chi si rivolge alla terapia psicoanalitica è normalmente una persona disturbata e spesso il disturbo che lo affligge è proprio il narcisismo che ha oltrepassato la soglia fisiologica diventando patologia. Si aggiunga che gran parte delle persone non sa o comunque nega risolutamente che la sua psiche sia affetta di narcisismo; nel linguaggio corrente quella parola ha un senso peggiorativo perché è sinonimo di egoismo e le persone non ammettono mai di essere egoiste, cioè di privilegiare l'io all'amore per gli altri. Su questo tema insomma quasi nessuno dice la verità salvo che sul lettino dell'analista.

L'argomento è diventato di stretta attualità da quando la pubblicistica ha scoperto che le società moderne hanno l'egoismo come caratteristica principale. In realtà hanno scoperto l'acqua calda: tutte le persone, tutte le società, tutte le corporazioni, tutte le nazioni, insomma tutti i soggetti individuali o collettivi sono egoisti, privilegiano su tutti gli altri l'amore di sé quale che sia la loro condizione sociale, sicché Narciso è la figura mitologica fondamentale, la vera e propria icona da sempre, da quando la scimmia si sollevò da terra su due gambe e il suo cervello cominciò a pensare e il suo linguaggio a pronunciare la parola "io". Non a caso l'assunto principale della filosofia di Nietzsche si esprime con la frase che ciascun individuo è il centro del mondo. Non si ritiene ma realmente è il centro del mondo poiché non può guardare il mondo, cioè tutte le cose e le persone che lo circondano, se non dal proprio punto di vista. Perciò è lui il centro e tutto il resto non è che una circonferenza o se volete la sua periferia.

HO LETTO NEI GIORNI SCORSI sulle pagine culturali di "Repubblica" un interessante articolo di Massimo Recalcati che ha proprio Narciso come tema portante. Sostiene l'importanza di guardarsi allo specchio (ma naturalmente in senso metaforico): solo guardandosi allo specchio ci si vede e ci si innamora di sé. Narciso infatti si guardava nelle acque di un lago e si innamorò a tal punto di quella sua figura che alla fine cadde nel lago e morì.

Mi par di capire che Recalcati consideri negativamente l'innamoramento di sé. Se questo è il suo pensiero e il suo giudizio, debbo dire che sbaglia e di grosso: ciascuno di noi vive in propria compagnia ventiquattr'ore su ventiquattro e guai se non amasse se stesso. La sua vita diventerebbe un inferno e non durerebbe a lungo. Chi vive a disagio con se stesso e si disistima cade quasi sempre in stati di depressione che sovente si trasformano in psicopatia e talvolta inducono al suicidio.

LA FIDUCIA IN SE' e quindi l' "amour propre" è un requisito fondamentale e deriva direttamente dall'istinto di sopravvivenza che è il fondamento di tutti gli esseri viventi, dagli animali ai vegetali. L'amore di sé e la fiducia che ne deriva sono la condizione necessaria per vivere e sopravvivere, per progettare il futuro, per ricordare il passato e celebrarlo. Il primo racconto che fonda la letteratura occidentale è l'Iliade e che cos'altro è quel poema se non l'epica degli eroi? E che cosa sono gli eroi se non dei narcisi che si specchiano nelle proprie imprese, nelle proprie vittorie, nel proprio coraggio? Narciso tuttavia non è un dio, non ha un seggio in Olimpo. Nel politeismo ellenico non esiste un dio Narciso come non esiste in nessun'altra religione. Salvo una: quella che ha come punto di riferimento essenziale anzi esclusivo Gesù Cristo figlio di Dio, che assume natura umana per assicurare la salvezza delle creature.

Il miracolo che Cristo dovrebbe compiere sarebbe quello di abolire l'egoismo. In realtà si tratta d'un tragitto amoroso al termine del quale ci sarà l'amore di tutto il mondo cristiano per Cristo Salvatore. Non suoni blasfemo se dico che Gesù di Nazareth figlio dell'uomo fu un caso stupefacente e, questo sì, miracoloso di narcisismo ottenuto attraverso il suo sacrificio e l'immenso amore che tutti i cristiani indirizzarono e indirizzano verso la sua figura.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tramonta un sistema di patacche e bugie
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2013, 04:12:05 pm
Tramonta un sistema di patacche e bugie

di EUGENIO SCALFARI

DA QUESTA mattina fino a domani alle ore 15 finalmente si vota e sapremo fino a che punto i sondaggi hanno previsto giusto. Per quel poco che se ne sa Grillo viene dato in forte crescita  e la grande manifestazione di venerdì sera in piazza San Giovanni potrebbe farlo rafforzare ulteriormente portandolo a superare il Pdl (ma non la  coalizione di centrodestra, Lega compresa). È un pericolo?

Certo non infonde allegria sapere che un elettore su cinque o addirittura su quattro dia il suo suffragio a chi ipotizza l'uscita dell'Italia dall'euro, la cancellazione di tutti i debiti, lavoro e tutela per tutti senza indicare nessuna copertura finanziaria. Se queste ipotesi dovessero realizzarsi la speculazione internazionale giocherebbe a palla con la lira, col tasso di interesse, col sistema bancario, con gli investimenti, con l'occupazione e l'Unione europea ci imporrebbe un commissariamento che ci obblighi al rispetto del pareggio fiscale, pena l'intervento della Corte europea che commina in questi casi elevatissime sanzioni.

Ma non credo che andrà così, per due ragioni: la prima è che Grillo non avrà la maggioranza dei seggi anzi ne sarà molto lontano; la seconda che un conto è quello che le sue concioni esaltate e demagogiche declamano e un conto saranno i parlamentari eletti nelle sue liste. Di politica quei deputati e senatori ne sanno poco o niente del tutto. Nel Sessantotto lo slogan era "l'immaginazione al potere", oggi si potrebbe dire l'inesperienza al potere.

È molto peggio perché l'inesperienza politica non è un pregio. Governare un paese non è certo facile ma è facilissimo sgovernarlo. Berlusconi l'ha sgovernato (non solo per inesperienza); il grillismo lo sgovernerebbe se avesse il potere. Il grillismo in Parlamento può essere una remora utile se la rabbia approderà ad una ragionevole proposta. È possibile che questo accada almeno per una parte degli eletti.

Certo se sommiamo i voti previsti per Grillo e quelli per il centrodestra berlusconiano-leghista, potremmo avere quasi la metà degli elettori che rappresentano una zavorra molta pesante. Governare bene in un Parlamento con quel sacco di pietre addosso sarà un'impresa. Va tuttavia ricordato che, nonostante le sue molteplici nefandezze, la legge elettorale detta "porcata" nelle condizioni date offre un vantaggio: alla Camera chi vincerà avrà il 55 per cento dei seggi; il sacco di pietre sarà, in queste condizioni, più facile da sopportare.

Ci sarà comunque un uso e un abuso del "filibustering", cioè dell'ostruzionismo con l'obiettivo di tornare a votare al più presto. Ma non credo che possa durare a lungo. Molti parlamentari del centrodestra non hanno alcun interesse ad un "filibustering" sistematico e ad una legislatura breve e molti grillini-brava gente (cioè la maggioranza di quel movimento) si domanderanno dove li sta conducendo il loro inamovibile leader. Perciò non credo che il peggio accadrà.

Quel peggio  -  cioè nuove elezioni a breve scadenza  -  è una previsione di alcuni sondaggisti che fanno capo a centri finanziari internazionali: Jp Morgan, Mediobanca, Standard & Poor's, Deutsche Bank, Goldman Sachs. Si capisce perché quelle previsioni pessimistiche sulla nostra tenuta politica e sociale incontrino il favore della finanza americana e delle sue derivazioni europee: hanno interesse a disarticolare l'Eurozona trasformando l'Europa in una grande area di libero scambio e impedendo che possa diventare uno Stato federale.

Noi crediamo e speriamo invece che la grande maggioranza degli italiani comprenda la sostanza di quanto sta avvenendo e confidiamo che da queste elezioni esca un Parlamento responsabile e un governo stabile se, come sembra, sarà il centrosinistra a vincere alla Camera e a stipulare un accordo con Monti che metta in sicurezza anche il Senato.

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Alcuni osservatori ed economisti hanno osservato che l'espressione "spending review", fino a pochi giorni fa usata ripetutamente nel lessico della campagna elettorale, è improvvisamente caduta in desuetudine. E se ne sono domandati il perché senza tuttavia trovare una convincente risposta. Eppure sembrava un termine molto chiaro per indicare la strada maestra da seguire nel prossimo futuro: per diminuire la pressione fiscale venendo incontro al desiderio, anzi alla rabbia d'un popolo tormentato dai sacrifici non c'è altra via che tagliare la spesa. Si taglino dunque gli sprechi, si tagli il superfluo e si avranno le risorse per diminuire le tasse rilanciando i consumi e l'occupazione. A dirla così sembra l'uovo di Colombo, lo predica anche Draghi, lo fece una decina di anni fa la Germania socialdemocratica e poi conservatrice da Schroeder a Kohl. Non lo deve fare anche l'Italia?

Certo, la logica porterebbe a questo programma, lapalissiano per eccellenza. Ma c'è qualcosa di sbagliato, come spesso accadeva a Monsieur de La Palice: tagliare il grasso è semplice e quasi sempre salutare, ma quando si interviene su un corpo scheletrico, su un organismo logorato da una lunga anoressia, allora l'operazione diventa estremamente difficile e probabilmente dannosa all'organismo che con quei tagli dovrebbe riconquistare la salute, perché non si taglia più il grasso che non c'è ma l'osso, si disarticola lo scheletro ed è difficilissimo ed estremamente rischioso procedere in questo modo.

Tagliare l'osso significa nel caso nostro che ogni taglio di spesa, anche quando si tratta di sprechi, comporta ulteriori perdite di occupazione, licenziamenti, rescissioni contrattuali, liquidazione di aziende e di enti: ospedali, tribunali, scuole, università, Province. Se sono inutili è certamente una modernizzazione eliminarli, ma chi ci lavorava fino a quel momento finisce sulla strada. Esistono le necessarie tutele? Oggi no ma si potrebbe crearle poiché i tagli creano comunque economie e quindi risorse aggiuntive. Forse con quelle risorse (che tuttavia non saranno disponibili subito) le necessarie tutele potrebbero essere create ma in tal caso resterà poco o nulla per alleggerire le tasse e dunque: tagli di spesa, adeguamento (futuribile) delle tutele sociali per chi è rimasto senza lavoro, ma tasse come prima. Non mi sembra un gran risultato.

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Diverso è il caso di una modifica delle priorità nella spesa corrente. Per esempio il taglio di aerei ed elicotteri destinati alle Forze armate, quelle sì, sono risorse che si ottengono senza costo. Un altro intervento possibile sarebbe la cartolarizzazione di beni patrimoniali di proprietà pubblica che garantisca un'emissione di titoli pubblici "di scopo", da destinare al pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese.

Bersani ha proposto questa operazione ma limitandola ad una prova di 15 miliardi. È troppo poco, si può tranquillamente arrivare a 50 miliardi su un debito totale stimato 170. Un'operazione di questa dimensione che abbia come garanzia beni fondatamente vendibili sul mercato darebbe luogo ad una iniezione di denaro alle imprese creditrici con un salto di qualità molto notevole.
C'è un'altra operazione che il centrosinistra ha previsto e che sarebbe un altro contributo importante ai fini della crescita economica fin qui trascurata: la rimodulazione dell'Imu abolendo quell'imposta per tutti coloro che hanno pagato meno di 500 euro sulla prima casa. Si tratta di molte decine di migliaia di persone il cui piccolo contributo ha rappresentato il 20 per cento del gettito complessivo di quella imposta; l'altro 80 per cento di quei 4 miliardi complessivi l'hanno pagato contribuenti ovviamente più agiati. Ricordo ancora una volta che l'Imu è un'imposta immobiliare progressiva; la sua abolizione promessa da Berlusconi produrrebbe dunque un beneficio "regressivo" a favore dei più agiati e non dei più poveri.

Infine sarebbe di grande sollievo sociale e un notevole contributo alla crescita e all'occupazione un taglio del cuneo fiscale (lo fece nel suo governo Romano Prodi) che avvicini il costo del lavoro alla retribuzione netta in busta paga. Non si tratta di un taglio di imposta ma di contributi sociali pagati in gran parte dalle aziende ma anche dai lavoratori. L'Inps può manovrare sulle varie voci di contributi che compongono il suo bilancio per assorbire il taglio del cuneo fiscale che riguarda il lavoro dipendente. Tutte queste misure che figurano nel programma del centrosinistra dovrebbero essere accompagnate per coerenza ed efficacia economica da un aumento della produttività, realizzabile dalla revisione dei contratti che privilegino quelli aziendali purché i relativi accordi siano discussi e approvati con la partecipazione dei lavoratori dipendenti. Questi ed altri analoghi sono i modi appropriati per evitare che con tagli di spesa indifferenziati l'anoressia del sistema aumenti anziché diminuire.

Si tenga infine presente che sgravi di imposta per rilanciare i consumi possono riservare sorprese negative: secondo recenti indagini la massa dei consumatori è molto più propensa ad utilizzare eventuali sgravi per ripagare debiti o per accantonare risparmi anziché rilanciare i consumi. Perciò attenzione.

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Qualcuno si è chiesto: fa ridere di più Berlusconi o Grillo? Rispondo: nessuno dei due.
Qualcun altro si è chiesto: chi di quei due può fare più danno all'Italia? Rispondo: Berlusconi.
Altri infine hanno posto la domanda: di chi è la colpa? Ha risposto Claudio Bisio, l'attor comico per eccellenza. Ha detto: la colpa è degli italiani che li votano.

Ora aggiungo anch'io una domanda: ma perché tanti italiani li votano? Ho risposto già molte volte ma lo faccio ancora, "repetita iuvant": gli italiani non hanno mai avuto uno Stato fino a 150 anni fa. Prima di allora e per molti secoli furono dominati da Goti, Longobardi, Franchi, imperatori tedeschi, Papi e poi Normanni, Svevi, Spagna, Francia, Austria. Infine, quando tutto sembrava bene avviato, il Piemonte invase il Sud che Garibaldi aveva liberato, così lo visse il Mezzogiorno durante la terribile guerra del brigantaggio alla quale però parteciparono borbonici e sanfedisti.
Conclusione: gli italiani non hanno mai amato lo Stato, lo considerano un corpo estraneo se non addirittura un nemico. Perciò non vogliono regole. Sono furbi o gonzi come capita dovunque e a ciascuno, ma più furbi e più gonzi degli altri. L'asino che vola affascina i gonzi anche se non l'hanno mai visto volare. Per i furbi vale soprattutto il voto di scambio e lo praticano su larghissima scala, non tanto contro danari ma contro favori. Mafia e camorra hanno vissuto e vivono sul voto di scambio, ma anche le clientele, le confraternite, le corporazioni prosperano e crescono sul voto di scambio. Perciò ci vuole un cambiamento. La rabbia da sola porta inevitabilmente alla dittatura, dopo i sanculotti c'è sempre un Robespierre e dopo ancora un Napoleone.

Cambiamento non è rivoluzione ma riformismo radicale. Prodi ci provò e Veltroni anche; adesso ci proveranno Bersani e Vendola. Napolitano ci mancherà ma nominare il nuovo governo spetterà ancora a lui e questo ci dà sicurezza per la lucidità e l'imparzialità delle sue scelte e la fermezza della loro esecuzione.

(24 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/02/24/news/scalfari_elezioni-53282050/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Difficilissimo uscire dalla tempesta perfetta
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2013, 05:25:08 pm
Difficilissimo uscire dalla tempesta perfetta

di EUGENIO SCALFARI


Il nostro Presidente della Repubblica ha fatto molto bene a redarguire il leader dei socialdemocratici tedeschi per le sue dichiarazioni sulle elezioni italiane. Aveva detto che gli elettori avevano privilegiato due "clown", due pagliacci. Era una mancanza di rispetto nei confronti del nostro Paese e Napolitano gli ha risposto con fermezza e dignità. Perfino Grillo l'ha pubblicamente riconosciuto scrivendo sul suo blog "ho trovato finalmente il mio presidente". Bene, ma purtroppo che una metà degli elettori italiani abbia votato per due comici è la pura verità.

Sono due comici assai diversi tra loro, uno mescola alla buffoneria anche il disprezzo dell'etica pubblica e spesso sconfina nella criminalità; l'altro ha in mente la palingenesi cioè il mutamento totale della struttura istituzionale del nostro Paese e fa dell'etica pubblica la leva per arrivare al suo obiettivo, ma per reclutare il consenso necessario usa l'arte del buffone. L'ha detto con piena cognizione di causa Dario Fo che di buffoneria se ne intende, è il suo pane quotidiano: "Parliamo di buffoneria shakespeariana" (ricordate Yorick quando incontra Amleto che torna dall'Inghilterra e si accinge a vendicare suo padre?).

Molti dei nostri lettori mi hanno chiesto se mi aspettavo che Grillo arrivasse al 25 per cento dei voti. Sì, me lo aspettavo e l'ho anche scritto due settimane prima del voto. Ho scritto che il Movimento cinque stelle (che allora era stimato tra il 17 e il 19 per cento) avrebbe superato il 21-22 e anche più.

Perciò non mi ha affatto sorpreso il successo di Grillo. Invece mi ha sorpreso il successo di Berlusconi e la perdita di voti del centrosinistra; mi ha sorpreso la sconfitta in Campania, in Puglia e soprattutto in Lombardia.

Pensavo che il Pd si attestasse sul 30 per cento e con Vendola arrivasse al 33-34, con sei o sette punti di vantaggio rispetto allo schieramento di destra. E speravo che il voto disgiunto facesse vincere Ambrosoli in Lombardia.

Neanche questo è accaduto. La Lega ha perso un terzo dei suoi voti ma in Lombardia ha superato - pur arretrando - il centrosinistra. I voti persi dalla Lega sono andati a Grillo. Il grosso del ceto medio lombardo - salvo a Milano città - non voterà mai a sinistra, quello è un confine invalicabile. La sinistra di governo è composta da bolscevichi; turandosi il naso la maggioranza degli artigiani, delle piccole e medie imprese e delle partite Iva vota qualunque cosa ma non per i bolscevichi.

Spiace ricordarlo ma perfino Luigi Albertini vide il Mussolini del 1920 come un fenomeno da incoraggiare per ripulire l'Italia dalla sinistra e con il suo giornale lo incoraggiò molto, fino al delitto Matteotti e fino a quando quel Mussolini gli tolse la guida del Corriere della Sera.
La borghesia lombarda è un fenomeno molto complesso e assai difficile da capire.

Riassumiamo. In cifre assolute il centrosinistra ha perso tre milioni e mezzo di voti, Berlusconi ne ha persi quasi sei; Grillo ha raggiunto otto milioni e mezzo.

Bersani-Vendola hanno 340 deputati alla Camera avendo superato il centrodestra con lo 0,4 per cento. Il Senato è ingovernabile.
Quanto a Monti, il suo 10 per cento per metà gli viene da Fini (ormai scomparso dal Parlamento) e da Casini rimasto in brache di tela.
Per l'altra metà gli viene da conservatori perbene che non amano i buffoni.

Purtroppo per lui e per la democrazia italiana, il Monti politico è stato un disastro. Ha salvato l'Italia dal baratro ma l'ha messa a bollire a fuoco non tanto lento. Il popolo sovrano la sua agenda l'ha fatta a pezzi, ma l'Europa no. Questo non è un dettaglio. I buffoni (shakespeariani o no) l'hanno dimenticato. Hanno dimenticato che l'Italia non sta nella luna ma in Europa; hanno dimenticato che lo spread non è una malattia ma un termometro che misura la febbre. Possiamo buttarlo quel termometro ma la febbre resta, anzi sta aumentando. I buffoni promettono ma non manterranno perché non hanno i mezzi né le risorse. Gli elettori che li hanno votati non lo sapevano?

* * *

Circa un terzo dei voti di Grillo proviene da quei tre milioni e mezzo persi dal centrosinistra. Perché l'hanno fatto? Molti di loro hanno scritto al nostro giornale spiegando i loro comportamenti così: volevano dare una scossa al Pd, volevano che il suo spirito cambiasse, che il partito si rinnovasse da cima a fondo, ascoltasse la società, la rabbia dei giovani, la sfiducia e l'indifferenza dei lavoratori. In parte questo effetto l'hanno provocato, ma facendo pagare al Paese una situazione di ingovernabilità quale mai c'era stata dal 1947 in poi.

C'erano altri modi per provocare quella desiderata e desiderabile trasformazione? Uno sicuramente: potevano chiedere la convocazione immediata del congresso del partito e delle primarie che ne rappresentano il punto centrale; potevano - usando il web - autoconvocarsi e deliberare. Certo, ci volevano impegno e fatica. Invece hanno scelto la scorciatoia del voto a Grillo. E adesso che faranno? Come voteranno tra pochi mesi, perché così andrà inevitabilmente a finire? Se resta il "porcellum" Grillo probabilmente avrà la maggioranza assoluta oppure l'avrà Berlusconi con la conseguenza della perdita d'ogni credibilità del nostro Paese rispetto all'Europa.

Quando si vota con la pancia e si imboccano le scorciatoie accade quasi sempre il peggio e noi siamo nel peggio, più vicini allo sfascio che ad una palingenesi creativa.

Alcuni grandi imprenditori del Nord fanno anch'essi tifo per Grillo e sperano che conquisti la maggioranza assoluta. Personalmente non mi stupisce.

Perfino la Goldman Sachs sembra soddisfatta del risultato elettorale italiano.

Domandatevi il perché di questo consenso: un crollo politico italiano disarticolerebbe l'Europa e l'euro.
Ripeto: l'Italia non sta nella luna ma in Europa. L'Europa va costruita e noi siamo, dovremmo essere, uno degli attori di prima fila di questa costruzione. Ma siamo passati da Altiero Spinelli, da De Gasperi, da Prodi, da Ciampi, da Padoa Schioppa, a Grillo e a Casaleggio. Shakespeariani forse ma comunque buffoni.
Non si va molto lontano su questa strada.

* * *

Per fortuna c'è Napolitano, ma ancora per poco, il suo mandato scade il 15 maggio ma fin dal 15 aprile il "plenum" del nuovo Parlamento comincerà a votare per eleggere il suo successore. Nel frattempo spetta a lui la nomina d'un nuovo governo che possa disporre d'una solida maggioranza parlamentare.

Il 15 marzo si riuniranno le nuove Camere. Dovranno innanzitutto proclamare gli eletti e poi costituire i gruppi parlamentari, eleggere i presidenti delle due assemblee, i vicepresidenti, i questori, le Commissioni.
Solo a quel punto, che comunque sarà molto meno facile da raggiungere visto che il Senato è privo di maggioranza, Giorgio Napolitano inizierà le consultazioni.

Prassi vorrebbe che dia a Bersani l'incarico di verificare se può realizzare al Senato una maggioranza solida sulla base d'un programma che metta al primo posto la riforma elettorale e una politica economica ed europea che punti sulla crescita, fermo restando il pareggio del bilancio e il rispetto del fiscal compact che è una legge europea già ratificata dal Parlamento italiano.

Riuscirà Bersani a portare a casa questo risultato che per legittima decisione dei Pd ha come unico destinatario il Movimento cinque stelle?
A meno che Grillo e Casaleggio capovolgano la loro strategia, la risposta è negativa.

A quel punto Napolitano avrà la sola strada di nominare un governo tecnico e politicamente neutrale con lo stesso programma affidato ma non realizzato da Bersani: legge elettorale, politica economica di crescita nel quadro degli impegni europei. Il governo del Presidente illustrerà quel programma e chiederà il voto a chi ci sta.

Questo è il quadro che ci aspetta. Poi si passerà all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica e anche questa non sarà una facile impresa.

Essendo stato tra i primi, molti mesi fa, a proporre una riconferma di Napolitano e avendogli poi promesso di non ripetere mai più quella proposta, mantengo con rammarico la parola data; ma un punto deve tuttavia essere chiarito. Napolitano ha correttamente osservato che la Costituzione non prevede una prorogatio del capo dello Stato. Non esclude la rielezione per sette anni ma Napolitano ha ricordato che nel 2020 di anni ne avrebbe 95, perciò l'anagrafe esclude questa ipotesi e conferma la sua decisione di passare la mano.

Tutto esatto salvo che il Presidente in carica può dimettersi in qualsiasi momento del suo settennato. L'ha fatto il Papa, mettendo a rischio lo Spirito Santo che l'aveva scelto al momento del Conclave. Molto più agevolmente può dunque farlo un capo di Stato quando il Paese sia uscito dalla tempesta perfetta nella quale si trova. Ciò detto, poiché il Presidente non vuole, nessuno lo tenga per la giacca e noi meno che mai.

(03 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/03/news/difficilissimo_uscire_dalla_tempesta_perfetta-53756010/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il rebus che il Colle dovrà risolvere
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2013, 11:19:44 am
Il rebus che il Colle dovrà risolvere


di EUGENIO SCALFARI

IN QUESTI giorni di fitta nebbia politica la domanda che domina tutte le altre riguarda Giorgio Napolitano. Le ipotesi sono molte e contraddittorie poiché per saperlo bisognerebbe entrare nella testa del Capo dello Stato, e dunque soltanto la logica può suggerire la risposta. Napolitano, nel suo recente incontro con la Merkel, ha rassicurato la Cancelliera dicendo che l'Italia avrà sempre un governo in grado di governare. Sembra un'affermazione ovvia, ma non lo è. Significa che il Presidente, cui spetta di nominare il premier, non farà salti nel buio e non nominerà un governo che non abbia una maggioranza parlamentare. Perciò da qui bisogna partire per svolgere correttamente la nostra analisi logica.

Il 19 marzo, dopo che le Camere avranno costituto i gruppi parlamentari, le commissioni previste dai regolamenti e le rispettive presidenze, inizieranno le consultazioni al Quirinale, dopo di che Napolitano incaricherà Bersani, leader del centrosinistra che ha la maggioranza assoluta alla Camera e la maggioranza relativa al Senato.

Non sarà un incarico "esplorativo" che in certe occasioni viene affidato al presidente del Senato o ad altra personalità istituzionale. Sarà un incarico di "scopo": deve verificare se attorno al suo nome e al suo programma sarà possibile formare una maggioranza. Se il risultato sarà positivo Bersani otterrà la nomina, se sarà negativo no, nominare un governo
minoritario sarebbe quel salto nel buio che Napolitano ha escluso.

Che cosa accadrà a quel punto, quando il calendario segnerà più o meno la fine di marzo? Teniamo presente che il 15 aprile il "plenum" del Parlamento si riunisce per eleggere il nuovo Capo dello Stato e quello attuale decade da ogni funzione anche se fino al 15 maggio resta titolare del ruolo. Titolare ma ingessato a tutti gli effetti.

Dal 26-27 marzo al 15 aprile a Napolitano restano dunque una ventina di giorni. In quel limitato spazio di tempo dovrebbe perciò nominare un governo con un premier che non sarà più Bersani, capace di realizzare quella maggioranza che il leader del centrosinistra non ha ottenuto ma che tuttavia dovrebbe esser gradito anche al centrosinistra senza il quale nessuna maggioranza si può formare.
Questo è il problema che Napolitano dovrebbe risolvere nella ventina di giorni a sua disposizione. A questo punto l'analisi si sposta dall'attuale Capo dello Stato alle forze politiche che siedono in Parlamento.

* * *

Movimento 5 Stelle. L'obiettivo che si propone è ormai chiarissimo (salvo il colpo di scena di una rivolta degli eletti rispetto alle indicazioni dei due proprietari del movimento stesso). Vuole la palingenesi politica, cioè il rovesciamento della Repubblica parlamentare nella sua architettura modellata dalla Costituzione. Nel caso specifico palingenesi significa puntare sul "tanto peggio tanto meglio". Perciò il folto battaglione dei parlamentari 5 Stelle dirà di no ad ogni governo che non sia il suo; ma con il 25 per cento di seggi un governo 5 Stelle è impossibile, a parte le reazioni dell'Europa e dei mercati.
Potrebbe accettare un governo guidato e composto da persone affidabili dal suo punto di vista? Un governo del tipo di quello immaginato da Santoro? Cioè del tutto svincolato dagli impegni europei?
Non credo che il Pd lo voterebbe ma soprattutto non credo che Napolitano lo nominerebbe, non sarebbe nemmeno un salto nel buio ma un suicidio vero e proprio.

Allora, per completare la nostra analisi, resta soltanto l'ipotesi d'un governo istituzionale o del Presidente come si usa chiamare nel lessico corrente. Molti pensano che sia questa l'ipotesi di Napolitano.

* * *

Una siffatta soluzione - che per le ragioni già esposte esclude l'approvazione delle 5 Stelle - dovrebbe ottenere la fiducia del centrosinistra, di "Scelta civica" e del Pdl perché in mancanza di quest'ultimo la maggioranza al Senato non c'è.

L'accordo del centrosinistra con il Pdl è del tutto improbabile, configurerebbe una spaccatura della coalizione ed anche dello stesso Pd. Ma è anche improbabile dal punto di vista di Napolitano.
Berlusconi è stato proprio in questi giorni condannato ad un anno di reclusione per violazione di segreto istruttorio; ma queste sono quisquilie, ben altro lo aspetta. Il 23 marzo la Corte d'appello di Milano emetterà sentenza di secondo grado nel processo sui diritti cinematografici Mediaset (false fatturazioni, falso in bilancio, costituzione di fondi neri all'estero, frode fiscale). Potrà emendare o annullare o confermare la sentenza di primo grado che ha condannato Berlusconi a 4 anni di reclusione.

A fine mese arriverà anche la sentenza del processo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Nel frattempo si profila un rinvio a giudizio della Procura di Napoli che indaga sulla corruzione e il voto di scambio (De Gregorio, Lavitola e compari). Il tutto è anche complicato dalla vertenza al calor bianco tra Berlusconi e i suoi legati da un lato e i tribunali dall'altro provocata dalla presunta impossibilità di Berlusconi a partecipare ai processi che lo riguardano.

Si può lontanamente immaginare che Napolitano faccia un governo istituzionale "baciato" dalla fiducia di un centrodestra guidato da Berlusconi? Certamente no anche perché sarebbe inutile dato che il Pd esclude quest'ipotesi già da un pezzo.

Ci sono però due subordinate. La prima è che il Pdl esploda in mille pezzi e una parte di essi confluisca con "Scelta civica" che diventerebbe in tal modo determinante per raggiungere la maggioranza in Senato insieme al Pd. Una seconda ipotesi è che il Pdl decida di dare il benservito a Berlusconi; un benservito vero e non soltanto apparente.
Questa seconda ipotesi mi sembra da escludere. La prima invece è possibile. Soltanto a quel punto un governo sarebbe possibile e potrebbe anche avere lunga durata sempre che fosse accettabile. Ma presieduto da chi e composto come?

Personalmente penso che un governo di tal genere debba affrontare i marosi d'una recessione sempre più acuta ed essere pienamente credibile in Europa, ma non possa avere carattere istituzionale, non possa essere un governo d'un Presidente uscente ma debba essere nominato dal nuovo inquilino del Quirinale.
Dopo aver tentato le soluzioni in suo possesso, a Napolitano resterebbe la sola via di lasciare Monti a Palazzo Chigi per l'ordinaria amministrazione che tra l'altro dovrà essere scavalcata almeno su un punto necessario e urgentissimo affinché il "credit crunch" non porti la nostra economia a completa rovina: il pagamento di 50 miliardi da parte del Tesoro alle imprese creditrici.
Il governatore Visco ha lanciato due giorni fa il suo allarme, le rappresentanze delle imprese invocano un'immediata iniezione di liquidità. Tecnicamente ci sono vari modi per renderla possibile, a cominciare dalla cartolarizzazione di beni dello Stato appetibili e vendibili, che servano da garanzia ad obbligazioni scontabili dalle banche e/o dalla Bce direttamente.
Francamente non vedo altre soluzioni per impedire che il "tanto peggio tanto meglio" distrugga lo Stato e le istituzioni repubblicane.

Naturalmente il futuro governo, cioè il primo nella nuova legislatura, dovrà mettere mano come prima misura alla modifica della legge elettorale puntando sui collegi uninominali a doppio turno e ai costi della politica utilizzando gran parte dell'agenda Bersani che merita d'essere tradotta in altrettanti provvedimenti legislativi.
Per il presidenzialismo bisogna fare un discorso a parte. Rappresenta un mutamento radicale della nostra architettura repubblicana, che non può esser certo realizzato come un qualsiasi emendamento di quelli previsti dall'articolo 138, ma neppure con una legge costituzionale. La Corte la invaliderebbe perché contraria allo spirito della costituzione vigente che, non a caso, esclude la possibilità di abolire la Repubblica.
Un presidenzialismo modifica a tal punto quell'architettura da rendere indispensabile la completa riscrittura della Costituzione. La può fare soltanto una nuova Assemblea costituente. Si può anche imboccare quella via ma un'altra strada non c'è.

* * *

Mentre in Italia accadono questi eventi che tutti ci riguardano, dopodomani si radunerà il Conclave per l'elezione del nuovo Pontefice: curioso destino questo mutamento di scenari che avvengono contemporaneamente in due potenze conviventi e distinte: lo Stato e la Chiesa.
Domenica prossima il Conclave sarà probabilmente già concluso e il nuovo Papa avrà già preso possesso del soglio petrino. Qui possiamo soltanto ricordare due verità, già ampiamente esaminate nei giorni scorsi dal nostro giornale.

La prima: le dimissioni di Benedetto XVI hanno testimoniato che il Papa non è il Vicario di Cristo in terra ma un uomo investito dell'altissima funzione di guidare una comunità di credenti che si estende su tutto il pianeta in convivenza con altre religioni o filosofie religiose.
La seconda: Ratzinger ha constatato di non avere più le forze fisiche e mentali per rinnovare la Chiesa come è necessario ed ha anche ricordato che il volto attuale della Chiesa è stato imbrattato e va dunque ricostruito dalle fondamenta.

Il Conclave si apre dunque in presenza di questi problemi. La Curia farà di tutto per pilotarlo in modo da evitare che quel rinnovamento si compia. Punterà su un Papa "curiale" e verticista, si chiami Pio XIII o addirittura Gregorio riferendosi a quell'Ildebrando da Soana che fu il vero costruttore del regno assoluto del Papa.

Oppure, se il bisogno di rinnovamento prevarrà, potrà chiamarsi Giovanni XXIV o Francesco. Sarebbe il primo con questo nome e c'è tra i papabili anche un cardinale cappuccino, Patrick O'Malley che ha tutte le caratteristiche pastorali delle quali la Chiesa sembra avere urgente bisogno. Da non credente interessato mi auguro che la scelta sia quella che sembra la più idonea a suscitare un vento di spiritualità necessario a migliorare la società e ciascuno di noi, credenti o non credenti.
 

(10 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/10/news/scalfari_10_marzo-54229880/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Popoli dalla memoria corta
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 11:24:29 pm
Opinione

Popoli dalla memoria corta

Eugenio Scalfari

(28 febbraio 2013)

In molti miei scritti, motivati dall'attualità elettorale, ho cercato di definire i pericoli che i movimenti ispirati dal populismo possono creare alla democrazia, cioè alla libertà degli individui di esprimere le proprie idee e di partecipare alla loro realizzazione. Ho anche aggiunto che il populismo, quando penetra e affascina una parte rilevante del popolo, finisce per sboccare in forme dittatoriali o comunque autoritarie che sopprimono o deformano la democrazia. Infine ho constatato, ripercorrendo alcune situazioni storiche esemplari, che questi processi si sono verificati con frequenza nell'Europa moderna.

PER QUANTO RIGUARDA L'ITALIA casi del genere sono stati molto frequenti. Si tratta di una caratteristica derivante in gran parte dalla storia di un paese che per secoli e secoli è stato conquistato, invaso, distrutto, ma anche ricostruito da potenze esterne; di fatto una sorta di colonia, dopo aver a sua volta dato vita a uno dei più grandi imperi della storia del mondo e a una cultura che ha promosso le arti e le lettere in tutta l'Europa.

Un destino dunque molto ricco di contraddizioni, con una costante però che cominciò dalla fine della civiltà romana: il servaggio e la mescolanza delle etnie. Si avvicendarono sulla Penisola o su parti di essa Arabi, Normanni, Svevi, Bizantini, Unni, Goti, Visigoti, Longobardi, Franchi e poi la Francia, la Spagna, l'Impero, l'Austria. Il centro geografico del nostro paese fu sede del potere temporale dei Papi e questo fu un altro fattore che impedì l'unificazione politica di quella che fin dal XIII secolo la letteratura chiamò Italia ma che si realizzò come tale soltanto dal 1861, quando già tutti gli altri paesi d'Europa avevano da almeno quattro secoli (ma alcuni molto di più) la loro piena unità politica.

Questi elementi dominanti nella nostra storia, che hanno ritardato la nascita dell'unità, hanno inevitabilmente alimentato sentimenti di indifferenza, timore, odio verso il potere alla cui gestione il popolo (o plebe come si diceva) non ha mai partecipato. Ma neppure le esili minoranze elitarie vi partecipavano se non a titolo di cortigianerie subalterne e ossequienti al potere di turno.

Di qui nasce la tendenza al trasformismo, al populismo, a una condizione servile e al tempo stesso fenomeni diffusi di brigantaggio, rivolte violente quanto effimere, odio contro le regole, rivalità locali, faide tra famiglie e collettività, organizzazioni segrete, mafie e altre formazioni analoghe che imponevano proprie regole e proprie strutture di dominio.

Fu una storia, la nostra, nel corso della quale abbondano le dittature, interrotte da rivolte vandeane, domate da altre dittature. La democrazia, quando con grave ritardo si affermò finalmente anche da noi, fu fragile e precaria. La sua storia ha proceduto a balzelloni e ancora in tempi recenti è sempre stata agitata e spesso insidiata da tentazioni demagogiche e plebiscitarie.

Ma i rischi che gli eccessi di violenza e di demagogia sbocchino nelle dittature non sono stati vizi soltanto italici ma fenomeni universali. Il caso più esemplare di tutti fu fornito dalla Rivoluzione francese. Più esemplare perché quella fu la rivoluzione per eccellenza, che ha plasmato da oltre due secoli la storia di tutto l'Occidente.

Durò oltre cent'anni quella rivoluzione se si includono i suoi esordi culturali ed economici e i suoi postumi. Alla metà del Settecento l'Illuminismo rinnovò alle radici il pensiero e pose le premesse di un radicale mutamento politico ed economico. Nel 1789 scoppia una rivoluzione liberal-democratica che istituisce una monarchia costituzionale e poi una repubblica con tipologie borghesi. Ma appena due anni dopo, a Parigi, la demagogia mobilita la piazza; la violenza diventa sistematica con connotati anarcoidi, fino a quando sbocca nella dittatura di Robespierre e del Terrore. A quello robespierrista subentra dopo altri due anni la dittatura e il terrorismo reazionario del Termidoro e dopo cinque anni la dittatura militare di Napoleone che dura vent'anni, dopo i quali subentra la restaurazione della vecchia monarchia. E poi, in veloce sequenza, la monarchia borghese, la rivoluzione del Quarantotto, il secondo Impero, la guerra perduta con la Germania, la Comune di Parigi.

QUESTA E' LA SEQUENZA , che impegnò l'Europa intera e ne marcò la storia. Quel che venne dopo alternò fasi di libertà a regimi totalitari, guerre e genocidi. Ne siamo usciti finalmente da settant'anni, ma debolezze e deformazioni non sono del tutto sparite. I popoli hanno memoria corta e le classi dirigenti sono quelle che i popoli si meritano. Speriamo nel meglio ma non dimentichiamoci il peggio che l'ha preceduto.

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/popoli-dalla-memoria-corta/2201430/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un prete di strada
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2013, 06:31:29 pm
Un prete di strada

di EUGENIO SCALFARI

PAPA Wojtyla fu ricordato e venerato dai fedeli per aver detto, a conclusione del suo primo discorso pronunciato dal balcone del palazzo apostolico pochi minuti dopo la sua elezione: "Se sbaglio, mi corrigerete". Il nuovo pontefice Jorge Mario Bergoglio resterà nella memoria collettiva per due frasi dette in analoga circostanza: "Mi hanno trovato alla fine del mondo" e poi "ho perdonato i miei carissimi cardinali per avermi eletto".

Gli era già capitato nel Conclave di otto anni fa d'esser stato scelto per contrastare Ratzinger. Senza la sua presenza l'ex papa sarebbe stato eletto al secondo scrutinio, invece ce ne vollero quattro e fu lo stesso Bergoglio e suggerire ai suoi elettori di votare Ratzinger per evitare che spuntasse il cardinal Ruini. Analogo suggerimento aveva dato ai suoi elettori Carlo Maria Martini.
 L'elezione di Bergoglio è stata vista da molti osservatori come la continuazione del pontificato di Benedetto XVI. C'è una parte di verità in questo modo di giudicare l'esito del Conclave: senza l'abdicazione del suo predecessore e la denuncia del malgoverno della Curia oggi non avremmo papa Francesco; ma la sostanza dell'evento non è questa, anzi è il suo contrario: papa Francesco è esattamente l'opposto di Benedetto per almeno quattro ragioni.

La prima è la scelta del nome, la seconda l'insistenza del nuovo Pontefice sulla sua funzione di Vescovo di Roma, la terza sulla pastoralità come rivendicata missione, la quarta la sua provenienza dalla "fine del mondo". Esaminiamole con attenzione queste ragioni perché saranno loro a definire la figura di papa Bergoglio e a determinarne le decisioni.

* * *
In un articolo pubblicato da Repubblica il 12 febbraio scorso, all'indomani delle dimissioni di Benedetto XVI, e poi in un altro articolo di domenica scorsa, avevo già posto la questione del nome che il futuro papa avrebbe potuto scegliere secondo l'esito del Conclave e la figura dell'eletto.

Avevo scritto: "Se la vittoria andrà ad un papa curiale e verticista il nome prescelto potrà essere quello di Pio XIII, ma se invece prevarrà un disegno di rinnovamento, potrà chiamarsi Giovanni XXIV o meglio ancora Francesco, un nome mai usato finora in duemila anni di storia della Chiesa".
Il nome del fondatore dell'Ordine francescano scelto da un gesuita, sembra una contraddizione in termini invece non lo è, anche Carlo Maria Martini era gesuita e molti furono i membri della compagnia di Gesù a condividere le tesi della teologia della liberazione che portò addirittura in politica i diritti dei deboli, dei poveri e degli esclusi. Il gesuita Bergoglio non era un teologo e non lo è mai stato, ma era un "prete di strada" e lo è stato fino a pochi giorni fa, un prete itinerante, quasi mai vestito con l'abito talare e spesso senza neppure col clergyman; abitava in un appartamento modesto, si postava in tram o in treno, ha studiato e lavorato come un giovane qualsiasi, il padre era un ferroviere, veniva dal Piemonte. Questa è la sua storia, molto più vicina a quella del santo di Assisi che ad Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù.

* * *
Francesco I ha molto insistito sulla sua titolarità della diocesi di Roma. Nel discorso d'investitura dal balcone del palazzo papale non si è mai designato come Pontefice ma sempre come Vescovo. Quest'aspetto è della massima importanza. Il papa è stato finora considerato come il Vicario di Cristo in terra ed infatti quando parla ex cathedra su questioni di fede la sua parola è infallibile come decretò il Concilio Vaticano I del 1868. Questo punto è ancora l'ostacolo che ha impedito l'unificazione tra i cattolici da una parte e gli anglicani e gli ortodossi dall'altra.

Queste confessioni cristiane sarebbero pronte a riconoscere la supremazia del Vescovo di Roma come primus inter pares ma non quella di Vicario di Cristo in terra. Si tratterebbe d'un mutamento epocale perché l'ordinamento verticista della Chiesa tende a trasformasi in un ordinamento "orizzontale"; diminuirebbe il potere del papa e della curia, aumenterebbe quello dei Concili e dei Sinodi, cioè dei vescovi.

Questo è il vero punto centrale che ha raccolto intorno al "prete di strada" di Buenos Aires la grande maggioranza dei cardinali sotto le volte della Sistina e fu anche il fulcro del pensiero di Carlo Maria Martini e la ragione della sua amicizia con Bergoglio. E questa fu anche, cinquant'anni fa, l'apertura del Vaticano II verso il futuro. La pastoralità e l'evangelizzazione escono rafforzate da questa visione d'una Chiesa affidata ai vescovi e ai preti con cura d'anime e quindi apostolica, militante e missionaria. Anche il ruolo dei laici e dei diaconi ne esce rafforzato, con una serie di conseguenze a grappolo: il celibato dei preti, il ruolo delle donne nella Chiesa, l'ecumenismo verso le varie confessioni cristiane e le altre religioni monoteiste - l'ebraismo e l'Islam - i contatti con i non credenti.

Infine, il problema dei "principi non negoziabili". Fu il cavallo di battaglia del post-temporalismo ed anche di Benedetto XVI che non a caso fece del relativismo illuminista l'avversario principale della sua visione teologica e politica. Per il "prete di strada" che ha preso il nome del santo che parlava con i poveri, con i fiori, con gli uccelli, con i lupi e con "sorella morte corporale" non possono esistere principi non negoziabili se non quelli dell'amore del prossimo e della carità.

* * *
Infine: c'è un Papa che viene dalla "fine del mondo", non è italiano anche se lo sono le sue origini familiari, non è europeo. È la prima volta che ciò accade ma in realtà la provenienza dall'America Latina corrisponde alla centralità del mondo cattolico. L'Europa è ormai completamente secolarizzata, per la Chiesa può essere terra di missione e di evangelizzazione, ma con scarse probabilità di successo: chi si distacca da un credo monoteistico è molto difficile che vi rientri.
Non a caso il cattolicesimo prospera in Sud America e nelle comunità africane. Terre di poveri e di esclusi.

Questa è la missione. Probabilmente Francesco utilizzerà soprattutto i Sinodi, i Concistori e le Conferenze episcopali come strumenti per rinnovare il quadro della cattolicità apostolica. La politica politichese interesserà sempre meno la Santa Sede e meno che mai quella italiana. L'importanza delle Conferenze episcopali sarà sempre più connessa alla spiritualità e alla pastoralità e molto meno alla temporalità. E poiché la Cei è la sola il cui presidente viene nominato dal Papa anziché dai vescovi, è assai probabile che dall'imminente nomina esca un nome che interpreti questi elementi di novità. Ho cercato di indicare quelli che a me sembrano i contenuti più probabili del nuovo pontificato, che interessano i credenti, i fedeli di altre confessioni e religioni e i non credenti che dell'amore del prossimo e delle anime pellegrine fanno gran conto.

(15 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/03/15/news/prete_strada-54593668/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei segnali in arrivo dai 5Stelle
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2013, 11:31:42 am
Quei segnali in arrivo dai 5Stelle

di EUGENIO SCALFARI

DA MOLTI anni non mettevo più piede a Montecitorio, è passato tanto tempo da quando nel 1968 entrai in quel palazzo da deputato e prima e dopo più volte da giornalista.
Ancora ricordo l'incontro che feci in Transatlantico con Giorgio Amendola. Mi accolse con affetto, ci conoscevamo bene fin dai tempi dei convegni organizzati dal "Mondo".
Mi diede il benvenuto, "c'è bisogno di facce nuove", mi disse ma poi aggiunse: "Resterai deluso perché qui noi costruiamo castelli di sabbia, neppure bagnata".
Non era una prospettiva incoraggiante costruire castelli con la sabbia secca, eppure in quelle stanze, in quei corridoi, in quell'aula c'erano i rappresentanti del popolo sovrano e questo mi dava orgoglio e speranza. Ieri ci sono tornato. Volevo respirare l'aria che tira nel momento in cui le facce nuove e giovani sono il settanta per cento dei deputati e le donne poco meno della metà. M'è sembrato che la curiosità fosse il sentimento dominante che animava tutti, insieme ad un certo imbarazzo sul contegno da assumere verso gli altri, i giornalisti anzitutto, ma anche i funzionari della Camera e i commessi nella loro divisa.

Curiosità, imbarazzo, timidezza. Distinguere tra quei giovani i grillini di 5Stelle non era affatto facile. Di loro si parla come "marziani", ma marziani sembravano quasi tutti.
Sono andato in sala di lettura a sfogliare i giornali e lì si è avvicinato uno di quei giovani. "Volevo salutarla - mi ha detto  -  Lei ci tratta molto male nei suoi articoli ma io mi sono formato leggendola fin da quando ero al liceo, mio padre portava Repubblica a casa e me la dava. Leggi con attenzione  -  mi diceva  -  leggi le pagine della cultura e dell'economia, ti aiuteranno a capire qual è il mondo in cui dovrai vivere e lavorare".

L'ho ringraziato invitandolo a sedersi. Ha voglia di scambiare qualche parola con me? Spero che non le crei problemi. "Nessun problema, anche se la mia posizione politica è quella del nostro Movimento, perciò lei la conosce già". Infatti, non ho domande politiche da farle, vorrei invece capire quali sono i suoi sentimenti ora che è arrivato fin qui. Lei guarda con interesse il lavoro che l'aspetta? "Sì, certamente, siamo qui per questo". Pensa che durerà a lungo oppure si augura nuove elezioni che forse vi darebbero più forza di oggi?
"Credo che ci siano molte cose utili da fare, soprattutto per quanto riguarda la moralità pubblica, il lavoro precario e il sistema fiscale. Queste riforme non possono aspettare, la gente ci ha votato per realizzarle. Quando saranno state fatte si tornerà al voto".

Non potrete farle da soli le riforme che avete in programma. "Certo, ma non saremo noi a cercare gli altri, sarà il popolo ad imporle". Siete contro l'Europa? "Siamo europeisti ma vogliamo un'Europa dei popoli non della burocrazia e dei ricchi". Lei parla un linguaggio di sinistra. Posso chiederle chi ha votato cinque anni fa? "Non ho votato". Non ha mai votato prima che nascesse il grillismo? "Non lo chiami così. Dieci anni fa votai per Berlusconi ma presto mi sono accorto di aver sbagliato". Non mi sembra che la lettura dei miei articoli abbia avuto molto effetto su di lei. "Non è così, capii alcune cose che mi sono rimaste bene fisse nella mente: l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di ciascuno, i diritti di cittadinanza. Le 5Stelle vogliono queste cose, i partiti esistenti le vogliono a parole ma non le hanno tradotte in fatti, perciò con loro non collaboreremo, ma accetteremo i loro voti se ce li daranno". Non importa da dove verranno? "No, non importa". Qual è stato il suo lavoro finora? "Ho fatto volontariato per servizi all'estero dove ci sono i caschi blu dell'Onu.
Sono stato in Libano e anche in Kenya". Ed ora è un cittadino di 5Stelle. "Già e mi sembra molto coerente col mio lavoro". Non ha figli? "No, non ancora". Un personaggio storico che sente vicino? "Direi Papa Giovanni ma adesso la saluto, sento suonare il campanello, si vota". Lei è credente? "Lo sono a modo mio" e se ne andò correndo verso l'ingresso dell'aula.

***

Poche ore dopo le due Assemblee parlamentari hanno eletto i loro Presidenti, Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato. Bello il discorso di insediamento della Boldrini, bellissimo quello di Grasso, la cui elezione è stata tanto più importante perché resa più solida dall'apporto di dodici voti provenienti dai neo-senatori del Movimento 5Stelle.
Era un fatto atteso da alcuni e del tutto imprevisto da molti altri. Non è la rottura del gruppo grillino ma il segnale di una sua evoluzione che potrebbe rendere costruttivamente utile l'inserimento di quel gruppo nelle istituzioni.

Pierluigi Bersani ha avuto l'intuizione di candidare alla presidenza delle due assemblee parlamentari due personaggi del tutto nuovi alla politica e il Partito democratico, anch'esso fortemente rinnovato nella sua rappresentanza, ha risposto con apprezzabile compattezza. Questo risultato non risolve il problema del governo ma segna comunque una tappa essenziale verso una discontinuità che sia creativa e serva ad un cambiamento profondo dell'etica pubblica e della solidarietà sociale.

Nel suo discorso subito dopo l'elezione Pietro Grasso ha ricordato alcuni nomi di riferimento: Aldo Moro, del cui rapimento ricorreva ieri la data; il suo punto di riferimento nel palazzo di giustizia di Palermo, Antonino Caponnetto; la moglie di uno degli agenti di scorta caduti con Falcone nella strage di Capaci ed ha inviato il saluto di tutto il Senato a Papa Francesco che appena poche ore prima aveva evocato una Chiesa povera a servizio dei poveri. A ciascuno di quei nomi l'intera assemblea ha tributato in piedi lunghi e intensi applausi.
Purtroppo c'era nell'aula un settore dell'emiciclo semivuoto e non è stato bello vedere quelle assenze.

L'ultimo e forse e più prolungato applauso è stato per Giorgio Napolitano, la cui presenza istituzionale in questa vicenda è stata decisiva. Senza il suo intervento che ha fermato l'iniziativa di Mario Monti di candidarsi al Senato abbandonando il governo in un momento di particolare delicatezza economica e sociale, non potremmo celebrare oggi il risultato positivo che si è verificato.

***

Può darsi che ora dopo le consultazioni che avverranno al Quirinale a partire dal 20 prossimo, un governo Bersani possa formarsi con la solidità necessaria, ma può darsi anche di no, nel qual caso spetterà al Capo dello Stato nominare un nuovo governo che possa riscuotere un ampio e solido consenso parlamentare.

Credo che non debba esser composto da professionisti della politica ma da persone tratte dalla società civile con le necessarie competenze che ogni governo richiede: economiche, giuridiche, culturali.

Nel frattempo i partiti debbono profondamente trasformarsi diventando o ri-diventando strutture di servizio della società, canali di comunicazione tra i cittadini e le istituzioni, tra i legittimi interessi particolari e quello generale del quale tutte le istituzioni a cominciare dallo Stato debbono essere portatrici.

Elezioni ravvicinate non sono un bene per questo Paese; comporterebbero un prolungato periodo di incertezza che aggraverebbe oltremodo la nostra posizione in Europa con le relative conseguenze sulla nostra già disastrata economia. Un governo solido è dunque estremamente auspicabile e spetta soprattutto al centrosinistra renderlo possibile.

(17 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/17/news/segnali_cinque_stelle-54726364/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E Casaleggio distrugge l'Universo
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2013, 05:55:23 pm
Opinioni

E Casaleggio distrugge l'Universo

di Eugenio Scalfari

«Un mio amico mi ha raccontato il suo pranzo insieme al guru del M5S. Che passava il suo tempo con un videogioco il cui scopo era polverizzare  le galassie usando gas e altri elementi...»

(19 marzo 2013)

Un mio amico di cui non farò il nome ha avuto occasione di pranzare recentemente con Casaleggio. Non capita a tutti, il socio di Beppe Grillo fa vita ritirata, frequenta soltanto le sue vecchie conoscenze e qualcuno degli attivisti più fedeli del Movimento 5 Stelle.

Il racconto di questo pranzo è abbastanza sconvolgente ed è il seguente. Dopo alcune parole di reciproca cortesia i due commensali sono stati serviti e hanno cominciato a mangiare. Il mio amico poneva a Casaleggio domande politiche facilmente immaginabili: che cosa sono le 5 Stelle, che cosa vogliono veramente, come e dove pensano di trovare le risorse necessarie per finanziare i loro progetti, qual è la loro posizione rispetto all'Europa e all'euro e anche di fronte alle altre forze politiche con le quali dovranno ormai convivere in Parlamento.

Il suo commensale rispondeva con poche parole ma tra una portata e l'altra guardava il suo modernissimo telefonino seguendo su di esso un programma di videogiochi; raramente il suo sguardo si posava sul suo interlocutore.

Il mio amico, non riuscendo a ottenere risposte esaurienti, adottò il metodo di rispondersi da solo con un punto interrogativo per consentire a Casaleggio di esprimere il suo pensiero con un sì o con un no. A un certo punto il mio amico gli disse: «Dove vi siederete alla Camera e al Senato?». La risposta fu: «Lo decideranno i funzionari del Parlamento». L'altro suggerì: «Potreste imitare i montagnardi francesi che nell'aula della Convenzione del 1792 scelsero tutti i seggi più alti da destra al centro e a sinistra, due o tre file al di sopra di tutti che abbracciavano però l'emiciclo; che gliene pare?». «Certo è un'idea», gli rispose Casaleggio senza staccare lo sguardo dal videogioco che attirava tutta la sua attenzione.

A questo punto il suo interlocutore per uscire da un crescente disagio che stava diventando irritazione, gli chiese che cosa fosse quel videogioco che lui stava guardando con tanto interesse. «Deve essere una cosa di estrema importanza per lei. Mi permette di guardarlo anch'io e mi spiega di che cosa si tratta?». La risposta fu finalmente cordiale: «Venga pure accanto e me e le spiego la natura del gioco. Il tema è quello della distruzione dell'Universo. Venga a vedere».

Infatti. E' un gioco americano che insegna ai giocatori come si può ottenere la distruzione delle singole stelle, dei loro pianeti, delle costellazioni e delle galassie usando alcuni gas, alcune particelle elementari e alcuni campi magnetici. I giocatori usano la tastiera del telefonino nella quale ciascun numero corrisponde ai gas e agli altri elementi presenti nell'Universo per distruggere di volta in volta alcune delle sue parti i cui residui sprofondano nei buchi neri. Vince chi realizza la distruzione totale nel minor tempo possibile.

Questo è quanto capì il mio amico aggiungendo al racconto che mi stava facendo alcune sue riflessioni. «Forse è quel gioco la ragione per la quale hanno chiamato 5 Stelle il loro movimento; vogliono distruggere tutto in Italia e in Europa salvo cinque cose. Ma non si sa quali siano». «L'hai chiesto a Casaleggio?». «Sì, gliel'ho chiesto ma mi ha risposto no, non è da quel gioco che nasce il nome del loro Movimento». «E qual è allora?». «E chi lo sa, lui non me l'ha detto». «Lo rivedrai?». «Non credo, non debbo avergli fatto buona impressione». «Ma è lui che ti voleva incontrare?». «No, ero io».

Il mio amico si occupa di elettronica, produce programmi e studia strumenti sofisticati, ma videogiochi finora no. Adesso penso che estenderà anche a quelli i suoi interessi; m'ha detto che vuole inventare un gioco in cui dall'Universo distrutto e dai buchi neri si possano far emergere altri Universi. Forse Casaleggio diventerà suo cliente o suo suggeritore.

Dio ce la mandi buona, ma con tutta sincerità temo il peggio se avremo nella stanza dei bottoni un governo che avrà come ideologia un videogioco di quel genere.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-casaleggio-distrugge-luniverso/2202584/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Padre che non c'è e il Paese impaurito
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2013, 05:48:00 pm
Il Padre che non c'è e il Paese impaurito

di EUGENIO SCALFARI


Qualcuno s'incomincia ad accorgere che è venuta meno la figura del padre e che questa lacuna di paternità è una delle cause non marginali della perdita d'identità e della nevrosi diffusa che da molti anni affligge il nostro Paese e non soltanto. Se il padre ha dimissionato non ci saranno più neppure i figli, i fratelli, i cugini; mancano i punti di riferimento. La stessa salutare dialettica tra le generazioni viene meno e si trasforma in una lotta per il potere tra vecchi e giovani.

La gerarchia familiare aveva il compito di trasmettere l'identità, la memoria storica e il sapere orale. Ebbene, questo mondo è affondato ma poiché la natura non sopporta il vuoto, al posto del padre, della madre, dei fratelli, si è insediata la cultura del branco.

Si credeva che l'indebolimento dei vincoli parentali fosse una conquista della modernità, affrancata una volta per tutte dai legami del sangue e della tribalità; si pensava che l'individuo, liberato dai ruoli e dalle usanze ripetitive della gerarchizzazione, recuperasse la sua responsabilità, la sua libertà e la pienezza della propria realizzazione. Ma queste acquisizioni si sono verificate soltanto in piccola parte. Nella maggioranza dei casi l'individuo, abbandonato alla sua solitudine, non ha trovato altro rimedio che quello di confondersi nel branco, cioè in un soggetto anonimo e indifferenziato, sorretto soltanto da motivazioni emozionali quali l'individuazione di un branco nemico, la pratica anche esteriore di segnali distintivi, la volontà di potenza del gruppo, la scelta di un capo cui delegare tutti i poteri di decisione. Il branco è un prodotto della modernità e al tempo stesso è lo sbocco più arcaico che mai si potesse immaginare.
 
Esso contiene una socialità negativa e distruttiva, si basa sull'ideologia del più forte e su valori elementari di violenza, gregarismo, feticismo. Gli "ultrà" delle curve sud ne sono l'esemplificazione più frequente e più primitiva.

L'affievolimento e poi la scomparsa della figura paterna hanno molte cause.

Le più evidenti sono di natura economica, ma non sono le sole e neppure le più essenziali.
Alla base di questa vera e propria rivoluzione istituzionale c'è da un lato l'emancipazione della donna, dall'altro la perdita della trascendenza, due elementi fondanti della modernità e della laicizzazione. Da questo punto di vista la scomparsa del padre sarebbe un fatto positivo e non reversibile, almeno nelle sue forme arcaiche basate sul comando e sull'autorità esercitata per diritto divino.

Ma una società non può vivere senza modelli che le consentano di rispecchiarsi e di conservare memoria di sé.
Il disagio che ha pervaso la società occidentale deriva appunto dall'assenza di rispecchiamento e di memoria. La stessa decadenza delle classi dirigenti ha la sua causa nel deperimento dei modelli paterni. Non a caso venivano chiamati "padri fondatori" coloro che stabilivano le regole della convivenza sociale e politica.

Venuti meno quei modelli la società ha perso la capacità di darsi regole condivise; si parla di continuo della loro necessità, ma nessuno è più in grado di produrle poiché a nessuno viene riconosciuta un'autorità fondativa che superi gli interessi settoriali e s'imponga in nome dell'interesse generale.

Una società senza padri è dunque destinata a una continua e progressiva parcellizzazione che ne paralizza il funzionamento e rende impossibile la produzione di regole democraticamente accettate.

Gli individui non sono in grado di uscire da questa disagiata condizione che, esaltando gli interessi settoriali e gli egoismi di gruppo, si allontana sempre di più dalla auctoritas produttrice di norme generali. Il malessere cresce ed è comunemente avvertito sicché, proprio nella fase in cui la figura paterna ha ceduto il campo, risorge il bisogno di recuperare almeno alcune delle funzioni ad essa affidate; anzitutto quella di indicare le regole basilari del comportamento, di amministrare la giustizia sulla base di quelle regole, di praticare la caritas e la pietas, due attributi tipici della figura paterna e dell'autorità fondativa.

Ma soprattutto la nostalgia del padre è motivata dal bisogno di sicurezza psicologica che egli diffonde. Senza di lui il mondo diventa insicuro per i figli orfani e non preparati a surrogarlo. Questa è diventata infatti la nostra società malgrado le sue mirabili acquisizioni tecnologiche che anzi per tanti aspetti esaltano paura e tristezza: un luogo insicuro, labile, inutilmente motorio, privo di credenze ma ingombro di superstizioni.

Ovviamente non si nasce padri, lo si diventa col vivere e attraverso il vivere. Lo si diventa quando si riesce a comprendere l'Altro superando le ristrettezze nelle quali l'Io inevitabilmente ci racchiude.

I figli sono fisiologicamente i portatori dell'Io; i padri, quelli veri, superano quella costruzione difensiva e vivono per i figli costruendo le condizioni del loro futuro. È superfluo avvertire che in un tempo come il nostro, che ha vissuto nell'emancipazione della donna la sua più grande rivoluzione, la funzione paternale non è legata al sesso.

Ci sono state e sempre più ci saranno donne in grado come e più degli uomini di darsi carico dell'altrui.
In realtà la donna si è sempre data carico dell'altrui, molto più dell'uomo, ma questo avveniva nella sfera del privato. Proprio per il fatto di essere stata confinata in quella sfera da una società governata dagli uomini, il darsi carico da parte della donna difficilmente poteva uscire dall'ambito familiare. Le capacità affettive della donna costituiscono una delle risorse essenziali della carità volontaria che sta diventando uno dei fenomeni più rilevanti e più positivi della società moderna e del moderno umanesimo. Ecco perché la auctoritas paterna, con il suo corredo di giustizia, comprensione, regole condivise, carità e pietas non sarà appannaggio soltanto maschile in un mondo dove i limiti del sesso sono stati infine dissolti in una più ampia concezione della humanitas.

                                                                       * * *

Il nostro Parlamento dovrà eleggere tra poco un nuovo presidente della Repubblica, la persona cioè che ha il compito di rappresentare la nazione.

Nessuno ignora quanto questa carica sia ambita per i poteri che contiene e per l'immagine che conferisce. E nessuno ignora che attorno ad essa si accenderanno contrasti e vivaci ambizioni. Il Parlamento tuttavia tenga presente che il presidente di una Repubblica dev'essere soprattutto e preliminarmente un pater patriae. Si potrà discutere se debba provenire dalla sinistra o dalla destra, dalla cultura cattolica o da quella laica e se debba essere uomo o donna. Ma su un punto non si deve  -  non si dovrebbe  -  discutere: il Presidente deve incarnare quella figura paterna che rassicuri la comunità e la indirizzi a superare gli egoismi del presente in nome dell'altruismo del futuro. Il laico Benedetto Croce invocò, all'inizio dei lavori della Costituente, il "Veni Creator Spiritus". Quella stessa invocazione sia tenuta a mente dai nostri parlamentari quando sceglieranno la persona che dovrà rappresentare e traghettare il Paese nel suo difficoltoso procedere nel nuovo secolo.

                                                                           * * *

Il testo che avete fin qui letto non l'ho scritto ieri ma quindici anni fa, esattamente il 28 dicembre 1998 su questo giornale. Ho deciso di ripubblicarlo perché mi sembra che descriva l'attualità che stiamo vivendo in modo che meglio non avrei saputo fare.

Era allora presidente del Consiglio Massimo D'Alema e stava per scadere il mandato di Oscar Luigi Scalfaro da presidente della Repubblica. Nel maggio del 1999 fu eletto Carlo Azeglio Ciampi e nel maggio del 2006 Giorgio Napolitano, entrambi per nostra fortuna dotati di quel requisito di civica paternalità che sono auspicati nel testo che precede. Mi auguro che anche la scelta ormai prossima del nuovo inquilino del Quirinale abbia analoghe caratteristiche anche se non mi sembra un compito facile.

Prima che questa scelta abbia luogo dev'essere però formato un nuovo governo dotato di una nuova maggioranza. A tal fine il presidente Napolitano ha conferito venerdì un pre-incarico a Pierluigi Bersani. L'impresa sembra impossibile, ma non è così. È certamente difficilissima ma non impossibile.

Il percorso che Bersani dovrà seguire, concordato con Napolitano, si svolgerà su due piani. Il primo riguarda il programma di governo basato sugli otto punti già resi pubblici dall'incaricato; riguardano il taglio dei costi della politica, la diminuzione del numero dei parlamentari, la semplificazione degli apparati del Parlamento e soprattutto i provvedimenti necessari per la crescita economica, fermi restando gli impegni presi con l'Europa.
Il secondo riguarda le riforme istituzionali e costituzionali che, per la loro stessa natura, richiedono maggioranze più larghe.

Gli interlocutori di Bersani per realizzare la prima tappa del suo faticoso percorso sono il movimento montiano di Scelta civica ed anche  -  per alcuni specifici punti  -  il MoVimento 5 Stelle. Le modifiche istituzionali e costituzionali includono anche il Pdl e la Lega e comprendono al primo posto una nuova legge elettorale.
Vedremo entro mercoledì prossimo l'esito di questo complesso negoziato. Se sarà negativo, l'iniziativa tornerà al Quirinale che procederà ad un nuovo tentativo per la formazione d'un governo non più guidato da un uomo politico.

L'obiettivo comunque è quello di evitare elezioni a breve scadenza che sarebbero letali per la nostra economia e la nostra credibilità internazionale. Ma le cause di quanto sta avvenendo sono assai più profonde della crisi politica e perfino di quella economica. Hanno carattere sistemico ed è proprio questa la ragione che rende attuale quell'articolo di quindici anni fa che mi sono permesso di riproporre alla vostra attenzione.
 

(24 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/24/news/il_padre_che_non_c_e_il_paese_impaurito-55236667/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché 'Gaia' mi fa paura - (Movimento 5 Stelle ).
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:26:25 pm
Opinione

Perché 'Gaia' mi fa paura

di Eugenio Scalfari

Dal video di Casaleggio emerge un'ideologia distruttiva e antidemocratica. Sono davvero quelli gli obiettivi per l'Italia e per il mondo che indica il guru del M5S?

(29 marzo 2013)

Il personaggio principale della Teogonia di Esiodo si chiama Gea o Gaia e rappresenta la Terra madre che sta all'origine della cosmogonia mitologica. Nel racconto poetico di Esiodo Gaia si accoppia con il Cielo stellato che sta sopra di lei e l'abbraccia "in tutte le sue parti".
Da quell'accoppiamento nasce il mondo, gli dei, la vita in tutte le sue manifestazioni.

Dal mito alla scienza dei giorni nostri: nel 1969 lo scienziato inglese James Lovelock formulò l'ipotesi Gaia secondo la quale l'Universo è sorretto da una struttura macroscopica e microscopica di flussi gassosi, magnetici, atomici, atmosferici che hanno creato stelle, costellazioni, galassie, pianeti, in alcuni dei quali è nata anche la vita.

Perché cito Gaia e l'ipotesi di Lovelock? Perché la nostra collega Stefania Rossini ha scritto su "l'Espresso" della scorsa settimana un ampio articolo del quale i protagonisti sono Gianroberto Casaleggio e l'ipotesi Gaia. Casaleggio è titolare di un'impresa che edita inchieste, video e "animazioni" che hanno come tema il futuro della Terra. Scrivo Terra con la maiuscola perché quella evocata da Casaleggio è per l'appunto Gaia, la Terra madre di Esiodo e l'ipotesi Gaia di Lovelock.

Casaleggio è il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo; non solo il guru ma anche, insieme a Grillo, il leader politico che ne tiene le fila, l'ideologo che ne indica gli obiettivi. Ma è anche il produttore dei documentari che si ispirano all'ipotesi Gaia di Lovelock.

Il principale di quei documentari ha anche una diffusione di massa e si chiama "Gaia, il futuro della politica". Lo si trova sulla rete Internet cliccando Google. Non conoscevo quel video che circola dal 2008 e ha raggiunto una dimensione di massa nel 2010. L'ho visto nei giorni scorsi ed è al tempo stesso ridicolo e terrorizzante. Prevede la terza guerra mondiale nel 2040, la distruzione di sei miliardi di persone, la vittoria e la sopravvivenza di un miliardo di "buoni" che ricostruiranno la società avendo la Rete come principale strumento di democrazia diretta.

Lascio i particolari a chi, non avendolo già visto, abbia voglia di documentarsi. Naturalmente il produttore Casaleggio premette al suo video una dichiarazione che esclude ogni sua partecipazione alle idee e al progetto di quel video. Una dichiarazione che riecheggia quelle scritte in calce a molti film che escludono "ogni riferimento a personaggi reali": in realtà in quel modo ne fanno intendere la coincidenza tra i loro protagonisti immaginari e quelli realmente esistenti evitando però conseguenze legali a loro carico.

L'articolo della Rossini su "l'Espresso" sintetizza il contenuto del video e quindi non sto a ripeterlo. Dal canto mio avevo raccontato due settimane fa uno strano pranzo di un mio amico (del quale non facevo e non faccio il nome) con Casaleggio nel corso del quale il guru delle 5 Stelle, mentre rispondeva con tacitiana brevità alle domande politiche del suo commensale, seguiva attentamente sul suo smartphone un videogioco intitolato "La distruzione dell'Universo".

Casaleggio è intervenuto su quel mio articolo chiedendomi sull'Ansa di dichiarare il nome del mio amico e di precisare quale fosse il video a cui mi riferivo. Questo suo intervento, a quanto so, ha provocato migliaia di commenti sui blog, a cominciare da quello di Grillo, su Facebook e sul sito dell'"Espresso" critici nei miei confronti e molto critici nei confronti di Casaleggio.

Voglio ora spiegare perché quel ridicolo video intitolato a Gaia mi ha anche terrorizzato oltreché divertito. O forse è meglio dire preoccupato. Mi ha preoccupato perché delinea un'ideologia terrificante, distruttiva, antidemocratica. Se è a quell'ideologia che si richiama il Movimento 5 Stelle o almeno una parte di esso e quindi se sono quelli gli obiettivi e i principi cui si ispira il leader politico di quel movimento, allora la democrazia italiana corre serissimi rischi.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-gaia-mi-fa-paura/2203626/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un incubo di meno
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2013, 11:50:27 pm
Un incubo di meno

di EUGENIO SCALFARI

I GIORNALI di ieri titolavano tutti, in prima pagina e a piene colonne, sulle dimissioni del presidente della Repubblica dal suo incarico.
I più benevoli attribuivano questa ipotetica ma probabilissima decisione ad un alto senso di responsabilità: impossibile varare un governo con maggioranza precostituita; la sola strada per Napolitano era dunque quella di porre fine al suo mandato accorciando di una decina di giorni la nomina del suo successore che, avendo il potere di sciogliere le Camere, avrebbe potuto influire sull'atteggiamento dei partiti oppure per metter fine alla legislatura appena eletta e ridare la parola al popolo sovrano. Ma non mancavano i malevoli: Napolitano abbandonava il campo lasciando la patata bollente al suo successore.

Non so da dove venisse questa pseudo-notizia. So soltanto (e l'ho detto la sera di venerdì rispondendo ad una domanda della Gruber nella trasmissione "Otto e mezzo") che chi conosce il nostro Presidente e la sua storia era certo che non è uomo che si sottragga alle responsabilità anche quando comportano fatica e sofferenza. Napolitano sa benissimo che le sue dimissioni premature rispetto alla naturale scadenza del suo settennato, avrebbero gettato i mercati in grandissima confusione, avrebbero accresciuto la rissa tra i partiti e al loro interno, avrebbe annullato la credibilità internazionale del nostro Paese già abbastanza logorata dagli insuccessi politici che hanno fortemente indebolito l'immagine di Mario Monti. Nel suo recente viaggio a Berlino, il nostro capo dello Stato aveva rassicurato la cancelliera Angela Merkel sul fatto che l'Italia non sarebbe mai rimasta senza governo.

Le sue dimissioni avrebbero aperto un buco al Quirinale per almeno un mese senza che neppure si sapesse chi sarebbe stato il suo successore.
Un mese non è poca cosa, senza contare che il nuovo capo dello Stato avrebbe dovuto riaprire le consultazioni per nominare un nuovo governo e poi, forse, sciogliere le Camere e aprire una campagna elettorale: altri tre mesi (a dir poco) di ulteriore insicurezza.

È vero che questi ultimi passaggi (salvo quello dello scioglimento delle Camere che resta pur sempre deleterio) dovranno comunque esser compiuti; ma le dimissioni anticipate e il vuoto che avrebbero aperto non sarebbero certo state un buon viatico.

Per tutte queste ragioni, che mi rendono moderatamente ottimista, sono stato felice ieri quando alle ore 13.27 ho ascoltato le parole di Giorgio Napolitano confermare che avrebbe rispettato la scadenza naturale del suo mandato, avrebbe nel frattempo preso tutte le misure opportune per facilitare il compito del suo successore ed avrebbe stimolato, firmato e promulgato tutti i provvedimenti urgenti che l'economia del Paese richiede, a cominciare dal decreto sul pagamento dei debiti che la pubblica amministrazione ha nei confronti delle imprese fornitrici di beni e servizi. L'ho già detto più volte, ma lo ripeto ancora oggi: sarà molto difficile - purtroppo - trovare un successore dello stesso spessore e livello di questo, che cesserà dal suo ruolo il 15 maggio prossimo.

****
Un'altra strada avrebbe potuto seguire Napolitano, esclusa una volta per tutte quella delle sue dimissioni anticipate: avrebbe potuto nominare un nuovo governo senza politici di professione, un governo istituzionale che, una volta nominato, andasse in Parlamento a chiedere la fiducia e, qualora non l'avesse ottenuta, restasse comunque in carica per l'ordinaria amministrazione. Personalmente pensavo che questa sarebbe stata la via prescelta. Invece no.
Napolitano sperava di poterlo fare confidando che sia il Pd che il Pdl e forse perfino le 5Stelle facessero confluire i loro voti su un governo istituzionale che, ovviamente, non sarebbe stato il governissimo auspicato da Berlusconi.

Nel corso delle consultazioni-lampo seguite all'insuccesso del tentativo di Bersani, il Pd si è dichiarato disponibile a votare un governo istituzionale "di scopo" del genere di quello affidato nel 1993 da Scalfaro a Ciampi. Ma Grillo ha insultato (come sua turpiloquente abitudine) un'ipotesi di questo genere e Alfano, dopo aver ricevuto l'imbeccata dal suo padrone, ha detto che "il Pdl avrebbe appoggiato un nuovo governo purché fosse un governo politico con programma concertato dai partiti disposti a parteciparvi". Di fatto ha riproposto il governissimo che il Pd aveva già bocciato escludendolo dalle ipotesi negoziabili.

Avendo constatato che questo era l'insuperabile stallo, Napolitano ha scartato la nomina di un governo istituzionale lasciando in piedi il governo Monti. Ma c'è anche un'altra ragione, sia pure marginale: un governo istituzionale senza maggioranza e quindi degradato all'ordinaria amministrazione sarebbe stato una difficoltà aggiuntiva per il suo successore al Quirinale. Di qui la decisione di restare nel suo ruolo prolungando la permanenza di Monti a Palazzo Chigi e procedendo alla nomina di un comitato che metta in luce i punti programmatici sui quali ci sia la concordia delle forze politiche rappresentate in Parlamento, tale da facilitare il lavoro che attende il suo successore.

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Non si tratta affatto d'uno schiaffo ai partiti, che infatti saranno presenti nel suddetto comitato, di cui troverete i nomi nelle pagine del nostro giornale. Va detto che le agenzie di stampa estere stanno già registrando la soddisfazione delle autorità europee, a cominciare da Mario Draghi che si è già complimentato con il nostro Presidente, nonché di molti nomi significativi delle forze economiche e internazionali. Insomma un boomerang di ottimismo che - si spera - sarà registrato martedì alla riapertura dei mercati. Ci sarà anche, nel comitato suddetto, il ministro Moavero per la sua competenza negli affari europei, e molte altre eccellenze del diritto e dell'economia.
Ho già detto che non si tratta affatto d'uno schiaffo ai partiti i quali però i loro problemi li hanno al proprio interno. Ed è questo che dobbiamo ora esaminare per completare il quadro. Cominciando con il Pdl.

Se lo stato maggiore fosse composto da persone responsabili, inviterebbe Berlusconi a ritirarsi dalla politica, togliendo in questo modo l'impedimento principale ad un accordo programmatico con gli altri partiti, evitando anche che il loro capo sia politicamente eliminato per via giudiziaria.
Non parlo del processo Ruby ma di quello sui diritti cinematografici di Mediaset che è già in fase di Corte d'Appello, la cui sentenza si avrà entro il prossimo maggio.

In prima istanza l'imputato è già stato condannato a quattro anni di reclusione e all'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici.
Ove la Corte confermasse questa sentenza, il problema non si porrebbe più, per non parlare di Napoli dove la Procura, che aveva chiesto ma non ottenuto la procedura immediata, ha chiesto pochi giorni fa il rinvio a giudizio per via ordinaria. Se sarà concesso dal Gup, è un'altra tegola ancor più contundente che si prepara.

Purtroppo, il pacifico ritiro in pensione del Cavaliere non si verificherà perché lui non è il capo ma il padrone del suo partito, ed anche della Lega, ed è supportato da dieci milioni di elettori che sperano e credono ancora che Berlusconi gli regalerà un asino con le ali.
Un Ippogrifo asinario. È la quinta volta che glielo promette e la colpa che gli impedisce un così meraviglioso regalo è dei magistrati e dei comunisti.
Gli allocchi ci sono in tutto il mondo e non soltanto in Italia. Ma da noi purtroppo ce ne sono molti di più che altrove. Siamo fatti così e forse un po' di alloccaggine c'è in ciascuno di noi. Pazienza.

Nel Pd la situazione è alquanto diversa ma qualche sintomo di tensione c'è anche lì, alimentato da alcuni giornali e televisioni che hanno un (incomprensibile) interesse a tenerlo vivo. Il Pd è diviso in molte correnti. Un tempo non c'erano, adesso ci sono e comunque esiste un "apparato" numeroso ma non molto rappresentativo degli elettori che sono anche per il Pd una decina di milioni. (Prima di queste elezioni erano circa quattordici e quelli del Pdl più di sedici). Renzi aspetta il suo momento ed ha certamente una sua capacità di richiamo. Cambierebbe alquanto i connotati del partito, ma un cambiamento ci vuole, come no?

Su posizioni fortemente diverse c'è Fabrizio Barca, attualmente ministro della Coesione nel governo Monti. Se domandi a Fabrizio che cosa vorrebbe fare quando questo governo avrà cessato di esistere, ti risponde che gli piacerebbe occuparsi del partito, al quale non è neppure iscritto ma verso il quale sente una profonda vocazione. Per fare che cosa? Per cambiarlo, naturalmente. Non nella linea ma nella struttura.
Come Renzi? No, in tutt'altro modo. Barca non vuole essere più ministro e tantomeno aspirante alla presidenza del Consiglio.
Vuole occuparsi del partito e cambiarlo, punto e basta. Sono in vista nuvole per Bersani? Nella fase attuale non sembra. Se ne parlerà al congresso quando scadrà da segretario. Fino ad allora il partito sembra compatto ed è bene che tale rimanga.

Il movimento montiano di Scelta civica. Di fatto è diventato quantité négligeable. Ci sono i sopravvissuti del Udc e Montezemolo con i suoi circoli sul territorio. Hanno preso, i montiani, 3 milioni di voti che in gran parte erano quelli dell'Udc e di Fini. La prossima volta ne prenderanno probabilmente meno salvo una eventuale implosione del Pdl che in parte (modesta) potrebbero approdare a Scelta civica.

Ma poi, last but not least, ci sono Grillo, Casaleggio e i loro otto milioni di elettori e gli eletti.
Non si può dire che Grillo sia un incidente di percorso, gli allocchi ci sono anche trai suoi (parecchi) ma ci sono anche quelli che vogliono rifare l'architettura della Repubblica. Come? Non è chiaro. Su base referendaria? Sì, ma fatta in Rete. In che modo? Non è chiaro neppure questo salvo su un punto: per ora dalla Rete (dal suo blog) parla soltanto Grillo, Casaleggio e i loro amici certificati; col passare del tempo le maglie della Rete saranno allargate (adelante, Pedro, cum judicio).

Gli eletti sono per ora alquanto smarriti, naturalmente col tempo matureranno. Io li considero i nuovi barbari nel senso greco del termine: parlano un linguaggio diverso dal nostro. Chi parla un altro linguaggio ha anche un diverso pensiero e una diversa visione della società.
Quale? Neanche loro lo sanno, si formerà passo dopo passo; oppure impareranno il nostro linguaggio e contribuiranno a cambiare senza distruggerla la nostra visione del bene comune.

Questo è stato il coraggioso tentativo di Bersani. Sicuramente prematuro, ma la strada è quella, insegnar loro il nostro linguaggio e accogliere i contributi da loro proposti. E chi ha più filo da tessere faccia la tela.

(31 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/31/news/scalfari_pasqua-55682244/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Inventarsi un presidente e inventarsi un governo
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2013, 06:26:02 pm
   
Inventarsi un presidente e inventarsi un governo

di EUGENIO SCALFARI


POCHI punti che è bene chiarire subito a titolo preliminare.

1. Napolitano ha accelerato, non ritardato, il percorso che porta verso uno sbocco costituzionale. Per sua volontà, prontamente recepita dalla presidente della Camera, le votazioni per il nuovo inquilino del Quirinale cominceranno il 18 aprile, undici giorni da oggi. Senza questa decisione le votazioni sarebbero cominciate verso la fine del mese.

2. Il comitato di consulenza nominato dal Presidente ha soltanto l'incarico di preparare un memorandum che delinei alcune soluzioni per i più urgenti problemi costituzionali, istituzionali, economici, sociali. Dovrà consegnare quel documento non oltre il 16 aprile. Se il Presidente ne riterrà congruo il contenuto, lo consegnerà al suo successore il quale potrà metterne a frutto le proposte oppure cestinarle a suo piacimento.

3. Il Ragioniere generale dello Stato e i suoi più stretti collaboratori, da quando nacque il governo Monti nel novembre 2011 fino ad oggi hanno fatto tutto quanto potevano per bloccare o rallentare provvedimenti destinati alla crescita dell'economia, fino al decreto  -  finalmente varato in queste ore  -  sul pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese fornitrici.

L'obiettivo della Ragioniera generale è stato di mantener ferma la politica di Tremonti del "nulla fare e nulla muovere". Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha cercato di superare quegli ostacoli ma senza riuscirvi. È dovuto intervenire direttamente Napolitano e la questione, del massimo rilievo per l'economia italiana, è stata finalmente risolta.

4. Matteo Renzi accusa la politica in genere e il segretario del suo partito in particolare, di perdere un tempo prezioso. E di allontanare quello che secondo lui è il solo sbocco possibile ed urgente e cioè lo scioglimento delle Camere appena elette e, per quanto riguarda il Pd, nuove primarie per designare il candidato premier. Non ha detto però, il sindaco di Firenze, con quale legge elettorale si dovrebbe votare. Sempre con il "Porcellum" così com'è? E non ha detto neppure chi sarebbe il responsabile del tempo perduto.

Forse allude a Bersani? Ma dimentica che Bersani non ha alcun potere di perdere o di guadagnar tempo: lo scioglimento delle Camere auspicato al più presto da Renzi (e da Berlusconi) è nelle mani del prossimo Capo dello Stato, per la nomina del quale  -  come indicato al punto 1  -  Napolitano ha accorciato e non rallentato il tempo.

5. La maggior parte degli osservatori stranieri e delle autorità internazionali ritiene che nuove elezioni in Italia sarebbero esiziali per l'economia italiana e di conseguenza per quella europea e americana.
Napolitano ed anche Bersani la pensano allo stesso modo. Renzi invece ritiene che elezioni a breve siano la sola e vera soluzione. Lascio ai lettori di giudicare chi sia nel vero e chi nel falso.

* * *

Per il resto, la situazione politica è nel buio pesto. Tre partiti hanno ottenuto consensi più o meno di un terzo ciascuno. Il residuo 10 per cento è andato ai montiani.

Rispetto alle passate elezioni politiche il partito di Berlusconi ha perso 6 milioni di voti, la Lega si è dimezzata, il Pd ha perso 3 milioni e mezzo. I montiani hanno guadagnato il 2 per cento rispetto all'Udc e al partito di Fini che avevano l'8 e ora sono scomparsi. Il movimento di Grillo ha ottenuto 8 milioni di voti, nel 2008 non esisteva.

Il voto è sempre più mobile "qual piuma al vento. Muta d'accento e di pensier". Il populismo è aumentato; sommati insieme il Pdl, la Lega e il Movimento 5 Stelle si arriva ad oltre la metà dei voti espressi, raccolti con populismo di vari colori ma di identica tonalità.

Il tasto sul quale l'attuale populismo martella è quello della legalità violata. Il fatto che Berlusconi usi anche lui quel tema è sorprendente.

Grillo lo si può capire; non si capisce però il motivo per cui non cerca il modo corretto di favorire il ripristino della legalità. Da solo, con il 25 per cento dei consensi, non ce la può fare, ma vuole impedire qualunque collaborazione con le altre forze politiche. Questa posizione priva di logica viene però imposta agli eletti, pena la loro espulsione dal movimento.

Chi predica ad ogni piè sospinto moralità e legalità dovrebbe stare molto attento ai significati di queste affermazioni e di queste icone e dovrebbe ripassarsi con spirito critico alcuni precedenti storici.

Robespierre e Saint-Just predicando una astratta e assoluta moralità e interpretando a loro modo la legalità distrussero la democrazia costituzionale dell'Ottantanove trasformandola in una dittatura basata sui tribunali rivoluzionari, sul terrore e sulla ghigliottina. Stalin fece altrettanto su scala enormemente più vasta, accusando i suoi avversari di ruberia, complotto, tradimento del socialismo. Hitler usò altri argomenti: secondo lui la legalità e la moralità la violavano gli ebrei, gli zingari e altre pericolose minoranze da sterminare.

Ovviamente questi precedenti storici hanno tutt'altra dimensione rispetto a quanto accade oggi in Italia, ma la dinamica è quella di estirpare il riformismo democratico e procedere verso sistemi con forti connotazioni dittatoriali. Berlusconi da un lato, Grillo e Casaleggio dall'altro, sono proprietari in senso tecnico oltre che pratico dei rispettivi partiti e dettano legge ai loro aderenti secondo la formula "con me o contro di me".
Grillo vuole l'abolizione dell'articolo della nostra Costituzione che garantisce la libertà degli eletti dal popolo "senza vincolo di mandato".

Berlusconi non ha bisogno di questo perché il partito è suo e senza di lui non vivrebbe. La libertà di scelta dei singoli parlamentari  -  semmai  -  gli è servita per comprarne alcuni a suon di milioni.

Comunque: le quattro forze politiche che rappresentano la totalità dell'attuale Parlamento non riescono a trovare una formula che dia vita ad una solida maggioranza. Ognuna gioca da sola, magari corteggia le altre (salvo Grillo che si ritiene autosufficiente e condanna i suoi eletti allo zitellaggio obbligatorio) a patto che si pieghi ai suoi disegni.

Questo è lo stallo, finora insuperabile. La gente, i cittadini, sono furibondi e disperati; delle forze politiche e delle istituzioni se ne infischiano, le disprezzano e le ritengono irrilevanti, ma reclamano provvedimenti di salvataggio economico e sociale che soltanto un governo sostenuto da una solida maggioranza potrebbe decidere, fermo restando che l'Italia non è un'isola migrabonda ma fa parte dell'Europa nel quadro d'una economia globale dove le merci, i capitali, le persone si muovono secondo le convenienze.
Questa realtà gran parte delle persone la dimentica. I furbi ci speculano sopra e si arricchiscono; i gonzi la subiscono protestando e soffrendo. Molti non votano alle elezioni lasciando mano libera ai furbi; gli altri votano in modo tale da aver determinato lo stallo suddetto.

Capisco che il quadro non è confortante, ma è colpa di ciascuno di noi e su quella colpa occorrerebbe riflettere con spirito critico.

* * *

Il futuro Presidente della Repubblica dovrà anzitutto fare le sue consultazioni e poi nominare un governo che abbia solida maggioranza.
Un governo di scopo, con pochi obiettivi istituzionali ed economici da realizzare.
 
Walter Veltroni ha ricordato in alcune interviste recenti come esempio da imitare il governo Ciampi nominato da Scalfaro. La nomina  -  va ricordato  -  venne proposta da Giuliano Amato che in quel momento era proprio lui alla guida del governo ma riteneva opportuno cederla a persona più adeguata alle circostanze che anche allora erano di stallo e di gravi pericoli economici.

Scalfaro accettò il consiglio ma volle che fosse lo stesso Amato a proporlo a Ciampi in un incontro a tre, così avvenne e così quel governo che giustamente viene indicato come esempio, fu installato.
 
Purtroppo una persona come Ciampi oggi non c'è.
 
Bisognerebbe inventarla, ma non è affatto facile. Una cosa però mi sembra certa: non c'è spazio per un governo guidato da un dirigente di partito. Da questo punto di vista non condivido la tenacia con la quale Bersani ripropone la sua candidatura (e ancor meno quella di Renzi a sostituirlo nella stessa impresa).
 
Bersani è stato molto coraggioso nel tentare un governo di cambiamento ed ha spiazzato molti portando alla guida delle Camere personaggi fuori dai partiti e provenienti da altre esperienze civili. Ma ora il suo tentativo di ottenere una seconda investitura non è a mio avviso realizzabile e sarebbe destinato ad un fallimento.
 
Quand'anche riuscisse ad ottenere la fiducia con l'aiuto di qualche voto fluttuante, non durerebbe che poche settimane e comunque non sarebbe in grado di recuperare la credibilità necessaria per rassicurare l'Europa e i mercati.
 
Il futuro Capo dello Stato dovrà dunque inventarsi un governo di tipo nuovo, che rappresenti la società civile ma i cui componenti e chi lo guida abbiano non solo competenze e moralità ma anche fiuto politico.
 
Non sarà una scelta facile e il nuovo Presidente dovrà seguire quel governo da lui inventato passo dopo passo, accreditarlo in patria e all'estero, vigilare che gli scopi assegnatigli siano raggiunti presto e bene a cominciare dalla riforma del Senato e soprattutto da una nuova legge elettorale (forse il "Mattarellum" che si può ripristinare con un solo articolo che dichiari abolita la legge attuale e faccia rivivere quella precedente?).
 
Purtroppo per noi, oltre a non avere un Ciampi a disposizione, non abbiamo neppure un Napolitano e questo è ora il vuoto e l'incognita più disperante. La ricerca comincerà tra undici giorni e speriamo sia proficua, sebbene i nomi attualmente in circolazione siano in gran parte inadatti e di pura fantasia per quanto riguarda quel tipo di responsabilità. L'identikit ideale per il Quirinale oscilla tra le figure di Einaudi, Pertini, Ciampi, Napolitano. Io un nome in testa ce l'avrei ma non ho alcun titolo per proporlo e quindi non lo dico.

Post scriptum. Il suicidio di un'intera famiglia a Civitanova Marche per disperazione dovuta alla povertà senza uscita, colpisce il cuore di tutta la nazione e reclama con la massima urgenza e il massimo impegno la solidarietà sociale, pubblica e privata, necessaria per arrestare una china divenuta tragica. Forse siamo usciti dal baratro economico ma certamente siamo entrati in un baratro sociale. Bisogna uscirne a tutti i costi, pena il disfacimento del Paese. Ogni altra questione diventa a questo punto subordinata.

(07 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/07/news/inventarsi_un_presidente_e_inventarsi_un_governo-56103507/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Chi saranno i nuovi capi dello Stato e del governo
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 11:08:18 pm
Chi saranno i nuovi capi dello Stato e del governo

di EUGENIO SCALFARI


Giorgio Napolitano ha preso ufficialmente congedo dalla sua carica nel momento stesso in cui il comitato dei "saggi" da lui nominato gli ha consegnato il documento con le proposte su alcuni problemi da lui stesso indicati per risolvere questioni economiche, sociali e istituzionali che saranno trasmesse al suo successore come eventuali linee-guida nella misura in cui il nuovo inquilino del Quirinale vorrà tenerne conto.

Ero andato a salutarlo un paio di giorni prima; spero di vederlo più spesso quando tra poco sarà senatore a vita. Ci conosciamo da molti anni e siamo da tempo legati da sentimenti di amicizia. Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla: avrebbe profondamente turbato l'ordinamento costituzionale senza produrre alcun concreto vantaggio per uscire dallo stallo che stiamo attraversando. Le sue motivazioni mi hanno convinto e tuttavia non sarà facile riempire il vuoto che la scadenza del suo settennato lascerà.

Napolitano è uno dei pochissimi presidenti della nostra Repubblica ad essere stato, dal momento della sua elezione, rigorosamente super partes. Nessuno degli altri, salvo Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi, lo è stato. Non lo fu Gronchi e neppure Segni né Saragat né Leone né Pertini né Cossiga e neppure Scalfaro.

Napolitano sì, lo è stato ed ha instaurato un metodo di ascolto non soltanto delle forze politiche ma anche di quelle sociali e della pubblica opinione e un'attenzione all'Europa, alle potenze internazionali, alla cultura in tutte le sue manifestazioni, che ha scarsi riscontri nei suoi predecessori.

Non sarà facile sostituirlo ma per fortuna non impossibile.

Basterà trovare una persona che non abbandoni quel metodo che fa del capo dello Stato un punto di riferimento capace non solo di rappresentare l'unità nazionale nel senso pieno del termine, ma in particolare delle ragioni dei ceti più deboli, degli esclusi, dei giovani, delle minoranze, garantendo a tutti la libertà, l'eguaglianza dei punti di partenza, l'interesse generale, l'indipendenza delle istituzioni, la separazione dei poteri costituzionali.

Cioè la presenza e il rafforzamento della nostra ancora gracile democrazia.

Questo è stato Giorgio Napolitano. Auguriamoci che il suo successore proceda nel segno della continuità.

* * *

Nelle attuali circostanze il compito primario e urgente del nuovo Presidente è di dar vita ad un governo dotato di una solida maggioranza; un governo di scopo e di lunga durata, capace di mantenere la nostra credibilità internazionale, di collaborare ad un mutamento della politica economica europea per uscire dalla recessione e soprattutto di stimolare la crescita economica e l'occupazione.

L'Italia soffre in questa fase della nostra storia d'una crisi di fiducia della politica. Il popolo disprezza i partiti ed anche le istituzioni da essi indebitamente occupate. C'è una sfiducia profonda che crea un distacco assai pericoloso tra il paese reale e quello cosiddetto legale. Questo distacco è in parte motivato ma in parte va al di là del giusto accomunando tutti i partiti in un medesimo giudizio negativo che non corrisponde alla realtà.

Questo è comunque il dato di fatto che va superato attraverso riforme importanti e sostanziali cambiamenti. Bisogna che avvenga in modo evidente la "disoccupazione" delle istituzioni da parte dei partiti. Fu uno degli obiettivi di Enrico Berlinguer nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ma non ebbe alcuna attuazione. Sono trascorsi trent'anni da allora e la situazione è addirittura peggiorata. Ho visto con piacere che Fabrizio Barca ripropone quell'obiettivo come il principale per uscire dal pantano della corruzione e superare la sfiducia nella politica. Ha ragione, purché alle parole questa volta corrispondano i fatti.

Nel frattempo - non sembri un paradosso perché non lo è - né al Quirinale né alla guida d'un governo di scopo vadano dirigenti di partito. Credo che queste siano le due condizioni indispensabili affinché i partiti riacquistino la fiducia, anch'essa indispensabile affinché la democrazia funzioni nella sua pienezza, le istituzioni tornino a riscuotere consenso dal popolo e i partiti riprendano a svolgere il ruolo prezioso di raccordo tra il popolo sovrano e i poteri costituzionali.

Il capo dello Stato deve avere piena conoscenza della Costituzione, tutelare la separazione dei poteri ed una leale collaborazione tra di loro, avere la necessaria credibilità internazionale, capacità di ascolto, intuizione politica, forza di carattere e di iniziativa. Non serve un notaio al Quirinale, ma un uomo di garanzia e di equilibrio. Ce n'è più d'uno che possiede questi requisiti e una biografia che li documenta. Ce ne sono in particolare tra i membri della Corte costituzionale, nelle accademie delle scienze ed anche in quelle figure (purtroppo ormai pochissime) che sono ritenute "riserve della Repubblica".

Le forze politiche che siedono in Parlamento trovino l'intelligenza di scegliere la persona più adatta al compito e mettano da parte i loro interessi particolari. Se sapranno e vorranno farlo questo sarà il primo passo verso la loro necessaria rigenerazione.

* * *

Il governo delle larghe intese auspicato da Napolitano non solo è possibile ma necessario. Bisogna tuttavia intendersi su che cosa significano le larghe intese.

Bersani è stato molto chiaro su questo aspetto della questione, distinguendo le intese su riforme istituzionali e costituzionali da quelle propriamente politiche. Proprio da questo punto di vista ho scritto prima che anche il governo che dovrà essere al più presto insediato non potrà essere guidato da un dirigente di partito. Ci vorrà anche lì una persona, uomo o donna che sia, proveniente dalla società civile. L'esempio Ciampi del 1993 si attaglia anche in questo caso ad essere imitato. Potrà avere, quel governo, nella sua composizione anche qualche personaggio politico come ministro, ma non come premier. È dunque necessario che sia un governo del Presidente. Un governo politico (non esistono governi tecnici perché hanno bisogno di ottenere la fiducia duratura del Parlamento) che sia votato per il suo programma di scopo e duri fintantoché lo scopo non sarà stato raggiunto.

Maurizio Crozza in una sua recente trasmissione ha mimato un duetto tra Bersani e Berlusconi (video), ritmato da due frasi: Berlusconi dice "ti compro l'anima" e Bersani risponde "ma non te la vendo". È così. Un governissimo è impossibile.

Il voto di fiducia ciascun partito lo darà a quel programma fatto di punti concreti che, essendogli stati affidati dal capo dello Stato, non comportano uno schieramento politico e non raffigurano una grande alleanza. Si chiamarono un tempo "convergenze parallele" e di questo infatti si tratterà.

Una volta realizzati gli obiettivi, ma soltanto allora, il capo dello Stato potrà sciogliere le Camere per indire nuove elezioni, essendovi già - tra gli scopi realizzati - una nuova legge elettorale.

Il percorso è dunque chiaro sia per quanto riguarda la persona adeguata da eleggere tra quattro giorni al Quirinale, sia per il governo nominato dal nuovo capo dello Stato dopo le consultazioni che riterrà di fare.

Grillo e il suo movimento. Stando ai sondaggi di Mannheimer, i 5 Stelle sono in leggero ma costante declino. I sondaggi fotografano l'esistente, sia pure con incerta attendibilità, ma è un fatto che gli eletti grillini in Parlamento non sono più un monolite e lo saranno sempre di meno.

Potranno però essere - e l'hanno già dimostrato per il fatto stesso di esserci - uno stimolo potente al cambiamento se daranno anch'essi una mano per attuarlo.

Potrebbero per esempio condividere l'elezione d'un presidente della Repubblica proveniente dalla società civile e perfino un premier di analoga provenienza votando almeno su alcuni provvedimenti da essi condivisi o proposti. I parlamentari 5 Stelle non possono rinchiudersi nell'autosufficienza, il Parlamento comporta inevitabilmente una partecipazione altrimenti tanto sarebbe valso per i grillini scegliere l'astensione dal voto anziché un movimento-partito. Anche Grillo lo capirà, anzi da qualche indizio sembra lo stia già capendo. Nelle cose giuste che a volte dice e sostiene, merita d'essere ascoltato; il resto sarà la realtà a suggerirgli di cambiare. Nessuno vuole comprargli l'anima, partecipare non significa venderla.

Quanto al Pd, esso rappresenta allo stato dei fatti il solo partito che abbia tuttora un'anima e un corpo, ammaccati tutti e due ma tuttora vivi e operanti. Purtroppo quell'anima e quel corpo, in questa fase di crisi, si sono decomposti in varie correnti. Punti di vista diversi possono essere una ricchezza, correnti organizzate attorno ad interessi di potere sono invece l'anticamera della dissoluzione.

Se Bersani sarà il promotore sia d'un capo dello Stato con le caratteristiche sopra indicate e sia d'un governo del Presidente, lui e il suo partito ne usciranno rafforzati.

Emergono nel frattempo le personalità di Barca e di Renzi e questo è un altro segno di cambiamento, ma non sono i soli emergenti e si vedrà al prossimo congresso di quel partito.

Qualche osservatore obietta che si sente odore di centralismo democratico, cioè di vecchio comunismo. Occorre però analizzare la sostanza del centralismo democratico che ha due modi di essere praticato: uno è il tentativo d'una nomenclatura oligarchica di trasmettere slogan e ordini obbligatori da eseguire alla base dei militanti. L'altro è un movimento che viene dal basso, che elabora e indica i temi che la società richiede e li trasmette agli organi centrali del partito affinché diano a quei temi aspetto concreto ed entrino a comporre la visione del bene comune di quel partito. Questo è l'aspetto positivo e augurabile.

Il futuro dirà quale strada sarà percorsa. Molto dipende dal Bersani dei prossimi giorni e dal partito nei prossimi mesi.

© Riproduzione riservata (14 aprile 2013)

DA - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/14/news/chi_saranno_i_nuovi_capi_di_stato_e_governo-56584968/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Solo lui può riparare il motore imballato
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2013, 06:09:59 pm

Solo lui può riparare il motore imballato

di EUGENIO SCALFARI


IERI, alle ore 15, Giorgio Napolitano ha accettato d'essere rieletto alla carica di Presidente della Repubblica dopo aver ricevuto pressanti inviti da parte di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, Lega inclusa sia pure con qualche riserva e Movimento 5 Stelle e Fratelli d'Italia (La Russa) esclusi. I grillini hanno continuato a votare Rodotà rafforzato dal partito di Vendola. Alle ore 18 Napolitano è stato rieletto con 738 voti. Questa è la cronaca telegrafica dei fatti già universalmente noti.

Tra quanti hanno tirato un respiro di sollievo alla rielezione di Napolitano ci sono anch'io. Conosco infatti bene le ragioni che fino a ieri avevano motivato il suo fermo rifiuto alla proposta di accettare il reincarico per tutto il tempo necessario per sbloccare una situazione pericolosa di stallo della democrazia. Il Presidente quelle ragioni me le aveva spiegate in un colloquio avvenuto due settimane fa, del quale detti allora conto su questo giornale.

Al di là del gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede, altre ce n'erano a spiegare la sua posizione. La principale che tutte le riassume era la necessità che dopo un lungo settennato ci sia un passaggio del testimone ad un'altra personalità con altro carattere e altra biografia politica, che tenga conto della precedente esperienza ma ne aggiorni i contenuti.
Discontinuità nella continuità, questo è l'insegnamento che la storia della Repubblica consegna a chi ricopre il ruolo di rappresentare la nazione, coordinarne le istituzioni e i poteri costituzionali, tutelare i deboli, garantire le minoranze, rafforzare i valori della libertà e dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Napolitano voleva che questo ricambio avvenisse come del resto è sempre avvenuto dalla nascita della Repubblica fino a ieri. Certo non prevedeva quanto nel nuovo Parlamento sarebbe accaduto. Soprattutto non prevedeva che il Partito democratico crollasse su se stesso affiancando la propria ingovernabilità a quella addirittura strutturale del nuovo Parlamento, diviso in tre tronconi (tre e mezzo per l'esattezza) di pari consistenza per quanto riguarda i consensi espressi dagli elettori e ferocemente opposti ciascuno agli altri. E quindi: un Parlamento ingovernabile e partiti autoreferenziali, due dei quali caratterizzati da populismo e demagogia e l'altro dominato da correnti contrapposte che ne segano non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sorregge.

Risultato: blocco dell'intero sistema, Paese allo sbando, credibilità internazionale in calo vertiginoso. I mercati finora non ci hanno penalizzato e questo dipende da alcune cause tecniche che sono state già largamente esaminate. Ma se il blocco fosse ancora durato le acque calme della Borsa e dello spread sarebbero tornate tempestose, la speculazione fa cambiare in pochi minuti la direzione e l'intensità del vento. Tutto questo non era prevedibile due settimane fa, ma non da me che lo sentivo arrivare e ne ero profondamente preoccupato.

Mentre scrivo (è la sera di sabato) è in corso una manifestazione silenziosa e composta di grillini in piazza Montecitorio. Grillo non vuole eccitare i suoi e quindi non andrà in piazza.
Rodotà da Bari, dove ha partecipato ad un dibattito culturale organizzato dal nostro giornale, ha deplorato le marce su Roma ed ha dichiarato che l'elezione di Napolitano si è svolta nell'ambito previsto dalla Costituzione. Poco prima Grillo aveva invece parlato di golpe, ma Grillo, si sa, è un comico.

* * *

Conosco Stefano Rodotà da quasi sessant'anni. Entrò nel Partito radicale fondato nel 1956 dagli "amici del Mondo" e da allora ci furono tra noi sentimenti di amicizia e collaborazione. È stato più volte parlamentare militando nei partiti post-comunisti e, prima, tra gli indipendenti di sinistra associati al Pci. Fu poi presidente del Pds e vicepresidente della Camera, ebbe incarichi nelle istituzioni culturali europee e infine presiedette l'autorità che tutela la privatezza delle persone. Ha scritto molti libri di diritto, è docente universitario, ha lanciato il referendum sull'acqua pubblica e collabora al nostro giornale fin dal primo numero scrivendo sui temi che più lo interessano.
I grillini, nelle loro "quirinarie" su Internet, l'hanno scoperto e piazzato al terzo posto d'una loro lista di candidabili al Quirinale, dopo la Gabanelli e Gino Strada. I due che lo precedevano hanno ringraziato ma rifiutato, lui ha ringraziato e accettato. Il resto è noto.

Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Partito democratico e i vecchi amici non l'hanno contattato. Essendo tra questi ultimi debbo dire che neanche lui ha contattato me. Che cosa avrei potuto dirgli? Gli avrei detto che non capisco perché una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino per la massima autorità della Repubblica.

Il Movimento 5 Stelle, come è noto, vuole abbattere l'intera architettura costituzionale esistente, considera l'Europa una parola vuota e pericolosa, ritiene che i partiti e tutti quelli che vi aderiscono siano ladri da mandare in galera o a casa "a calci nel culo". Come puoi, caro Stefano, esser diventato il simbolo d'un movimento che impedisce ai suoi parlamentari di parlare con i giornalisti e rispondere alle domande? Anzi: che considera tutti i giornalisti come servi di loschi padroni? In politica, come in tutte le cose della vita, ci vuole il cuore, la fantasia, il coraggio, ma anche il cervello e la ragione.

* * *

Adesso Napolitano farà un governo, è la cosa più urgente della quale ha bisogno il Paese. Naturalmente un governo politico come tutti i governi che hanno bisogno della fiducia del Parlamento. Un governo di scopo, adempiuto il quale passerà la mano o proseguirà se il Parlamento lo vorrà.

Il governo seguirà le indicazioni di scopo che il Capo dello Stato gli affiderà in parte già contenute nel documento dei "saggi" a lui consegnato una decina di giorni fa e già reso pubblico. Ai primi posti ci sono la riforma della legge elettorale, la riforma del Senato, la riforma del finanziamento dei partiti, una politica economica che, nel rispetto degli impegni già presi con l'Europa, adotti provvedimenti mirati alla crescita e all'equità per alleviare al più presto e il più possibile la morsa della recessione, iniettando liquidità nelle imprese, alleggerendo il cuneo fiscale, modificando l'Imu per quanto riguarda le piccole imprese e le famiglie meno abbienti, infine sostenendo socialmente gli esodati e i lavoratori precari.

Quanto ai partiti, anch'essi hanno bisogno d'una profonda riforma, tutti, nessuno escluso. Il Partito democratico ha bisogno addirittura d'una rifondazione. Ne avrebbe bisogno più di tutti il Pdl, ma lì c'è un proprietario ed è impossibile riformarlo se non licenziandolo; ma è possibile licenziare il proprietario?

Il Pd non ha proprietari, non c'è un Re nel Pd. Però ci sono i vassalli l'un contro l'altro armati. È una fortuna non avere un Re ma è un terribile guaio esser dominati da vassalli e valvassori. Questo è il problema che dev'essere risolto.

Bersani, credo in buona fede, pensava d'averlo modificato rinnovando il grosso della rappresentanza parlamentare, ma non è stato così. Riempire i seggi parlamentari con persone alla prima loro esperienza, mantenendo però in piedi un ristrettissimo apparato, aumenta la partecipazione della base soltanto nella forma ma non nella sostanza. I nuovi eletti seguono più l'emotività che la ragione e l'esperienza debbono ancora farsela. Qual è la società che vogliono? Qual è l'interesse generale che dovrebbero perseguire? Non mi sembra che questa visione del bene comune sia chiara nelle loro teste e in quelle dell'apparato meno ancora. Si scambia l'interesse generale con quello del partito e l'interesse del partito con quello della corrente cui si appartiene. Questo è accaduto negli ultimi mesi ed ha raggiunto il culmine negli ultimi giorni. Oggi si lavora sulle rovine prodotte da mancanza di senno e da miserabili interessi di fazioni contrapposte.
Bisogna guardare alla nazione e bisogna guardare alla costruzione d'una Europa che sia uno Stato federale che ci contiene. Se questi dati di realtà non entrano nelle teste della classe dirigente, non ci sarà mai né una destra decente né una sinistra efficiente. Gli impuri diventeranno legione, i puri saranno velleitari e inconsapevoli. Carne da cannone.

I grillini? Anche lì c'è un proprietario e anche lì i puri sono carne da cannone. La discontinuità va bene se aggiorna ma non distrugge il patrimonio di esperienze della nostra storia repubblicana nel bene e nel male.

L'Italia l'hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l'affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

© Riproduzione riservata (21 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/21/news/rielezione_napolitano_scalfari-57138214/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Più un popolo è futile più ricorre al gergo
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:01:33 pm
Opinioni

Più un popolo è futile più ricorre al gergo

di Eugenio Scalfari

Spiegando il significato di quella parola il grande Diderot scrisse: un certo cinguettio di società che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. Non si potrebbe dir meglio

(11 aprile 2013)

Ricorre quest'anno il trecentesimo dalla nascita di Denis Diderot e tra tante pubblicazioni che lo ricordano ce n'è una, uscita proprio in questi giorni dall'editore Gallimard, scritta da Jean Starobinski con il titolo "Diderot, un diable de ramage".

Starobinski è un cultore di Diderot ma questa volta si limita a esaminarne il linguaggio. Tra le tante novità che l'Illuminismo ha introdotto nella cultura moderna c'è stata infatti anche quella del linguaggio, del sapere enciclopedico. Del romanzo filosofico, nell'approccio didascalico alla ricerca della verità. Starobinski porta ad esempio di questo nuovo linguaggio l'Encyclopédie di cui Diderot fu l'ideatore, il direttore editoriale e uno dei principali autori. Il sapere enciclopedico, che aveva già fatto la sua comparsa in Inghilterra, raggiunse in Francia il suo culmine a metà del Settecento e la novità fu questa: sostituire alla ricerca intellettuale compattamente deduttiva un approccio guidato da argomenti specifici e non connessi tra loro.

Questo tipo di linguaggio era stato anticipato da Montaigne nei suoi "Essais" e ha il suo centro non più nella verità oggettiva ma in quella soggettiva, non più nella ricerca dell'"assoluto" ma nell'analisi del "relativo". Una vera e propria rivoluzione che teorizzò l'importanza del viaggio dentro il proprio sé a fianco di quello nel mondo esterno che fino a quel momento aveva avuto la dominanza nella cultura europea.

L'enciclopedismo diderottiano ne fu la realizzazione più evidente: singole parole e i loro molteplici significati esaminati da autori diversi, il massimo soggettivismo tenuto insieme dall'ideologia del relativismo.

Non sembri paradossale la parola ideologia applicata al relativismo: esprime un principio che si contrappone a quello di assolutismo, lo scontro degli opposti che costituisce l'essenza del pensiero moderno.

Le opere diderottiane che meglio esprimono l'essenza di quel pensiero, oltre all'Encyclopédie che tutte le riassume e le rappresenta, le troviamo in uno dei suoi "conte philosophique" e in due dei suoi principali dialoghi: "Jacques le fataliste", "Le Neveu de Rameau" e "Le rêve de d'Alembert". Sono i tre capolavori di Diderot e dell'Illuminismo, ovviamente insieme all'opera di Voltaire, anch'essa ispirata alla stessa ideologia relativistica dei due fondatori del pensiero moderno.

Starobinski segnala che Diderot mise anche in guardia i lettori dell'Encyclopédie contro le possibili deformazioni del pensiero relativistico. Lo fece esaminando la parola "gergo" che merita d'essere riferita a chiusura di questa pagina. «La parola "gergo" ha diverse accezioni. Significa: 1. Un linguaggio corretto quale si parla nelle nostre province. 2. Una lingua convenzionale che alcune persone mettono a punto per comunicare in pubblico senza esser capite. 3. Un certo qual cinguettio di società che ha magari una sua eleganza ma che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. E' l'arte di nobilitare con una formula ricercata ideuzze fredde, puerili, comuni. Più un popolo è futile e corrotto e più far ricorso al gergo».

Non si potrebbe dir meglio.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/piu-un-popolo-e-futile-piu-ricorre-al-gergo/2204636/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un medico per l'Italia malata
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2013, 12:02:46 pm
   
Un medico per l'Italia malata

di EUGENIO SCALFARI


IL GOVERNO Letta è nato ieri pomeriggio. Presterà giuramento questa mattina e si presenterà al Parlamento domani. Nelle circostanze date è un buon governo. Enrico Letta aveva promesso competenza, freschezza, nomi non divisivi. Il risultato corrisponde pienamente all'impegno preso, con un'aggiunta in più: una presenza femminile quale prima d'ora non si era mai verificata. Emma Bonino agli Esteri è tra le altre una sorpresa molto positiva; sono positive anche quelle della Cancellieri alla Giustizia e di Saccomanni all'Economia.

L'intervento di Napolitano nella sala stampa del Quirinale dopo la lettura della lista e le parole di ulteriore chiarimento da lui pronunciate confermano la solidità del risultato. Persino il Movimento 5 Stelle dovrebbe prendere atto che un passo avanti verso un cambiamento sostanziale è stato compiuto. Ma ora facciamo un passo indietro per capire meglio qual è la prospettiva che ci si presenta e le cause che l'hanno determinata.

* * *

"L'Italia l'è malada", così cantavano i contadini delle Leghe del Popolo nella Bassa Padana e nelle Romagne, aggiungendo "e il dottor l'è Prampolin": Camillo Prampolini, che fu uno dei fondatori del partito socialista nel 1892. Questo stesso titolo lo usai alcuni anni fa sul nostro giornale commentando un altro periodo di crisi tra i tanti che si sono succeduti nella nostra storia.

Questa volta però la crisi è ancora più grave perché non è soltanto il nostro paese ad esser malato, è malata l'Europa, è malato il Giappone, sono malati gli Stati Uniti d'America, è malata l'Africa e il Vicino Oriente. Insomma è malato il mondo. È un dettaglio? Non direi. Ma spesso ce lo dimentichiamo ed è un errore perché ci toglie la prospettiva, ci fa scambiare gli effetti per cause e prescrive le terapie che sono soltanto "placebo" e non medicine efficaci.

La malattia cominciò nel 2008 con la crisi del mercato immobiliare americano che culminò col fallimento della Lehman Brothers. Poi, nei mesi e negli anni successivi, si allargò all'Europa, coinvolse in varia misura il resto del mondo e infine diventò, in Europa, recessione e crisi sociale. Durerà fino all'anno prossimo e questo è lo stato dei fatti.

La politica ha ceduto al passo all'economia e deve riprendere la sua supremazia e puntare sull'espansione? Lo sostengono in molti e Krugman lo teorizza, ma gli sfugge un elemento fondamentale: nel mondo globale la ricchezza tende a ridistribuirsi tra i paesi che emergono dalla povertà e gli altri che riposano passivamente su un'antica opulenza.

Questo movimento ha una forza e una ineluttabilità che non possono essere arginate; possono essere tutt'al più contenute entro limiti sopportabili attraverso un confronto tra le potenze continentali.

Se ci fosse uno Stato europeo, esso sarebbe in grado di sostenere quel confronto, ma fino a quando non ci sarà i governi nazionali resteranno irrilevanti. Che l'errore lo faccia Grillo invocando la palingenesi è comprensibile, ma che lo facciano anche intelletti consapevoli è assai meno scusabile.

Probabilmente la causa dell'errore sta nel fatto che l'analisi della situazione e la terapia capace di guarirne la malattia sono soverchiate dagli interessi, dalle ambizioni, dalle vanità delle lobbies e degli individui. L'egoismo di gruppo ha la meglio, l'emotività imbriglia la ragione, la vista corta di chi vuole tutto e subito impedisce la costruzione di un futuro migliore. La palingenesi non è la costruzione del futuro, ma un'utopia che porta con sé la sconfitta.

* * *

Il governo si chiama istituzionale perché è stato formato seguendo rigorosamente la procedura indicata dalla Costituzione e lo spirito che ispira il nostro ordinamento democratico. Lo stesso avvenne con il governo Monti nel novembre 2011, in comune i due governi hanno la situazione di emergenza. Quella di due anni fa era un'emergenza della finanza pubblica che rischiava di precipitare in un fallimento del debito sovrano e dello Stato; quella di oggi è un'emergenza economica e sociale che rischia di determinare una decomposizione della società.

Le emergenze limitano la libertà di scelta e impongono soluzioni di necessità. In questi casi il rigoroso rispetto della meccanica istituzionale diventa la sola via praticabile e il primo che ha dovuto cedere a questa scelta obbligata è stato Giorgio Napolitano. Aveva deciso e più volte ripetuto di non voler essere riconfermato al Quirinale e ne aveva spiegato pubblicamente e privatamente le motivazioni. L'emergenza nel suo caso non è stata soltanto la crisi sociale ma la crisi politica che non ha reso possibile la nomina del suo successore. Perciò, suo malgrado, Napolitano ha dovuto restare al Quirinale.

Suo malgrado, ma per fortuna del paese. Napolitano conosce benissimo i limiti e i doveri che la Costituzione gli prescrive; proprio per questo, nell'ambito di quel quadro, può agire con la massima energia. Se le forze politiche non reggeranno ad una "mescolanza" che contiene  -  non c'è dubbio  -  anche elementi repulsivi, se ne assumeranno l'intera responsabilità.

Ci sono molti precedenti in proposito e lo stesso Napolitano ne ha richiamato uno: l'incontro politico tra Moro e Berlinguer a metà degli anni Settanta. La mescolanza ci fu, o meglio mosse i suoi primi passi per iniziativa di quei due interlocutori; ma è stata facile l'obiezione di alcuni critici che hanno ricordato non soltanto la diversità delle situazioni storiche ma anche la diversa qualità degli interlocutori. È vero, ma ci sono altri esempi, forse più probanti.

Nel 1944, quando la guerra era ancora in corso e le armate contrapposte si fronteggiavano sulla cosiddetta "linea gotica" a ridosso del Po, Palmiro Togliatti riuscì ad arrivare da Mosca a Napoli. Il Pci era stato ricostituito nel Sud dai dirigenti clandestini finalmente alla luce del sole; a Napoli il segretario locale del partito era Cacciapuoti, comunista a 24 carati. Sbarcato a Napoli, Togliatti arrivò inaspettato a casa di Cacciapuoti.

Commozione, abbracci, convocazione immediata di tutti i dirigenti del partito, cena improvvisata, entusiasmo. Dopo cena si fece silenzio. Togliatti disse che voleva per l'indomani l'assemblea di tutti gli iscritti, dove avrebbe annunciato le decisioni da mettere in atto. "Ci puoi anticipare quali sono le decisioni?" disse Cacciapuoti e Togliatti rispose "riconosceremo il governo Badoglio e l'appoggeremo". Lo sbalordimento fu generale, ma Togliatti spiegò che non c'era altra via almeno fino a quando l'armata americana non fosse entrata a Roma. Pochi giorni dopo incontrò Benedetto Croce che era arrivato da tempo alle medesime conclusioni e faceva parte del governo Badoglio.

C'è ancora un altro esempio che riguarda Berlinguer. Quando il Pci dall'astensione passò al vero e proprio ingresso nella maggioranza, il presidente del Consiglio designato da Moro era Andreotti, sicché il passaggio dalla "non sfiducia" al voto in favore del governo ebbe Andreotti come interlocutore. Moro fu rapito lo stesso giorno del voto che però era stato deciso già prima da Berlinguer.

Badoglio nel '44, Andreotti nel '78, il Pci di Togliatti e poi quello di Berlinguer. Napolitano era a Napoli nel '44 e a Roma nel '78. Adesso ha responsabilità assai maggiori di quelle che allora ebbero i due leader comunisti. Lui è il primo ex comunista andato al Quirinale 58 anni dopo la firma della Costituzione. Ma un presidente al di sopra delle parti come lui, salvo Ciampi, non è mai esistito. Garantisce tutti, ma garantisce soprattutto il paese e per questa ragione nell'interesse del paese agisce con tutta l'energia necessaria.
Ora vedremo il governo Letta al lavoro. Se i fatti corrisponderanno alle parole molte sofferenze saranno lenite e molte speranze riaccese.

(28 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/28/news/un_medico_per_l_italia_malata-57597866/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Più un popolo è futile più ricorre al gergo
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2013, 12:03:42 pm
Opinioni

Più un popolo è futile più ricorre al gergo

di Eugenio Scalfari

Spiegando il significato di quella parola il grande Diderot scrisse: un certo cinguettio di società che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. Non si potrebbe dir meglio

(11 aprile 2013)

Ricorre quest'anno il trecentesimo dalla nascita di Denis Diderot e tra tante pubblicazioni che lo ricordano ce n'è una, uscita proprio in questi giorni dall'editore Gallimard, scritta da Jean Starobinski con il titolo "Diderot, un diable de ramage".

Starobinski è un cultore di Diderot ma questa volta si limita a esaminarne il linguaggio. Tra le tante novità che l'Illuminismo ha introdotto nella cultura moderna c'è stata infatti anche quella del linguaggio, del sapere enciclopedico. Del romanzo filosofico, nell'approccio didascalico alla ricerca della verità. Starobinski porta ad esempio di questo nuovo linguaggio l'Encyclopédie di cui Diderot fu l'ideatore, il direttore editoriale e uno dei principali autori. Il sapere enciclopedico, che aveva già fatto la sua comparsa in Inghilterra, raggiunse in Francia il suo culmine a metà del Settecento e la novità fu questa: sostituire alla ricerca intellettuale compattamente deduttiva un approccio guidato da argomenti specifici e non connessi tra loro.

Questo tipo di linguaggio era stato anticipato da Montaigne nei suoi "Essais" e ha il suo centro non più nella verità oggettiva ma in quella soggettiva, non più nella ricerca dell'"assoluto" ma nell'analisi del "relativo". Una vera e propria rivoluzione che teorizzò l'importanza del viaggio dentro il proprio sé a fianco di quello nel mondo esterno che fino a quel momento aveva avuto la dominanza nella cultura europea.

L'enciclopedismo diderottiano ne fu la realizzazione più evidente: singole parole e i loro molteplici significati esaminati da autori diversi, il massimo soggettivismo tenuto insieme dall'ideologia del relativismo.

Non sembri paradossale la parola ideologia applicata al relativismo: esprime un principio che si contrappone a quello di assolutismo, lo scontro degli opposti che costituisce l'essenza del pensiero moderno.

Le opere diderottiane che meglio esprimono l'essenza di quel pensiero, oltre all'Encyclopédie che tutte le riassume e le rappresenta, le troviamo in uno dei suoi "conte philosophique" e in due dei suoi principali dialoghi: "Jacques le fataliste", "Le Neveu de Rameau" e "Le rêve de d'Alembert". Sono i tre capolavori di Diderot e dell'Illuminismo, ovviamente insieme all'opera di Voltaire, anch'essa ispirata alla stessa ideologia relativistica dei due fondatori del pensiero moderno.

Starobinski segnala che Diderot mise anche in guardia i lettori dell'Encyclopédie contro le possibili deformazioni del pensiero relativistico. Lo fece esaminando la parola "gergo" che merita d'essere riferita a chiusura di questa pagina. «La parola "gergo" ha diverse accezioni. Significa: 1. Un linguaggio corretto quale si parla nelle nostre province. 2. Una lingua convenzionale che alcune persone mettono a punto per comunicare in pubblico senza esser capite. 3. Un certo qual cinguettio di società che ha magari una sua eleganza ma che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. E' l'arte di nobilitare con una formula ricercata ideuzze fredde, puerili, comuni. Più un popolo è futile e corrotto e più far ricorso al gergo».

Non si potrebbe dir meglio.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. RINGRAZIO Rodotà delle precisazioni che ci ha mandato.
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:42:29 pm
I 5Stelle fuori dall'Europa



di EUGENIO SCALFARI

RINGRAZIO Rodotà delle precisazioni che ci ha mandato.

Rispondo quanto segue.

1. Gli errori da lui rilevati e compiuti da parte del Pd nei suoi confronti, io stesso li ho rilevati in due modi.Consigliando a Bersani per il tramite dell'amico Luigi Zanda di prendere contatto con Rodotà affinché ricordasse pubblicamente la sua biografia politica strettamente legata alla sinistra democratica; questo a mio avviso sarebbe stato sufficiente a far convergere i voti del partito su di lui. Evidentemente questo mio suggerimento non fu accolto. Per quanto riguarda la situazione attuale di quel partito, l'ho descritta come Rodotà e i nostri lettori hanno potuto leggerla: divisa in correnti che antepongono il loro interesse a quello del partito e soprattutto del Paese segando non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sostiene. Il Pd -  ho ancora aggiunto  -  non deve essere soltanto riformato ma rifondato. Come è chiaro questo va molto ad di là del fatto di non aver votato per Rodotà.

2. Grillo negli ultimi giorni più convulsi ha detto che se il Pd avesse votato per Rodotà, lui avrebbe appoggiato un governo fatto da quel partito ma a distanza di qualche ora ha aggiunto mai per un partito guidato da Bersani. Voleva cioè scegliere lui anche il presidente del Consiglio?

3. Un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto applicare la politica delle Cinque stelle che ho riassunto brevemente nel mio articolo di
domenica anche per chiedere a Rodotà se condivide quei punti; ma lui a quella mia domanda non ha dato alcuna risposta nella sua lettera. Che tipo di governo sarebbe dunque nato con l'appoggio di Grillo? Un governo col quale la speculazione avrebbe giocato a palla e l'Europa avrebbe severamente sanzionato.

4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano "convergenze parallele" e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011.

5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell'uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un'Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo  -  sempre che i risultati corrispondano alle aspettative  -  dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l'ha reso possibile ma, per l'esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla.

Ho già detto che mantengo stima e affetto per Rodotà ma penso che, prima che avvenisse l'ultima votazione a Montecitorio, avrebbe dovuto annunciare il suo ritiro come pure penso che i suoi elettori di Cinque stelle avrebbero dovuto almeno alzarsi in piedi invece di restare seduti sui loro scranni. Anche l'educazione fa parte della cultura che evidentemente non c'è.

(22 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/22/news/risposta_scalfari-57201731/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Opinioni Il Dio di Francesco più trino che uno.
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2013, 04:19:00 pm

Opinioni

Il Dio di Francesco più trino che uno

Eugenio Scalfari

Il papa ha definito Gesù il nostro avvocato che ci attende e ci difende. Ha così accentuato la distinzione dei ruoli del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Quasi a voler dare un'impronta politeista al cattolicesimo

(26 aprile 2013)

L'Osservatore Romano del 18 aprile è uscito con un titolo in prima pagina a tutte colonne alquanto sconcertante. Due parole: «L'Avvocato Gesù» e sotto la foto di Papa Francesco in piedi sulla sua piccola auto scoperta che si muove in mezzo ai fedeli in piazza San Pietro.

L'Avvocato Gesù: questo è l'appellativo che il Papa ha usato nell'udienza generale del 17 aprile. Con queste parole: «Gesù è il nostro Avvocato. Quando uno di noi è chiamato dal giudice la prima cosa che fa è avere un avvocato affinché lo difenda. Il nostro Avvocato ci difende dalle insidie del diavolo e ci difende da noi stessi, dai nostri peccati. Gesù è un capocordata quando si scala una montagna legati alla corda. Ci attira a sé conducendoci a Dio. Lui ci apre il passaggio e ci attira a sé e intercede per noi. Gesù è l'unico ed eterno Sacerdote che ha attraversato il supplizio e la morte in croce, è resuscitato e asceso al Cielo ed è presso Dio Padre dove intercede sempre a nostro favore. Egli è vivo in mezzo a noi e ci rassicura; non è più in un preciso posto del mondo come era prima dell'ascensione, ma è nelle signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, accanto a ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli, abbiamo accanto questo Avvocato che ci attende e ci difende». Fin qui il Papa. Proveremo ora a tirarne qualche conclusione e a porci qualche domanda.

Chiamare Gesù l'avvocato di tutti è naturalmente una metafora che non intacca la sua natura divina di Figlio di Dio che il Papa anzi sottolinea (semmai ce ne fosse bisogno) in ogni riga del suo discorso. La missione del Figlio di aiutarci a sfuggire ai nostri peccati e a respingere le tentazioni del diavolo è connaturata alla recuperata alleanza tra il Creatore e le sue creature. Il Dio "uno e trino" è quello dell'amore, della misericordia e della carità. In questo senso è un Dio del tutto diverso da quello del Vecchio Testamento; non più il Dio degli eserciti che si identificava col popolo eletto d'Israele, la sua parola è diretta a tutte le genti e a lui sono attributi sentimenti umani che lo rendono comprensibile ai fedeli chiamati a onorarlo e adorarlo. Sentimenti però che sono concentrati nel Figlio cui la Chiesa riconosce il ruolo dell'intercessione. Gesù Cristo intercede affinché il Padre conceda il suo perdono. Le creature debbono passare attraverso Gesù, è lui che apre la porta e conduce alla vetta della salvezza e il Padre ascolta soltanto la voce del Figlio. Ma, secondo la tradizione cattolica, anche Maria sua madre assunta in Cielo intercede per rendere più facile che la voce delle creature arrivi al Figlio. Si direbbe che la tradizione abbia costruito una sorta di catena che coinvolge vari anelli, vari scalini da percorrere. Una scala santa: i Beati, i Santi, Maria, il Figlio, il Padre. La trinità non è prevista nelle altre due religioni monoteiste, dove il dio è uno e uno soltanto il cui nome non deve essere neppure pronunciato e di cui è impossibile qualunque raffigurazione.

La chiesa cattolica, vista in questo modo, è assai poco monoteista. Si colloca ­ ?€“ si direbbe ?€“ in una zona intermedia tra il monoteismo e il politeismo, ricorda alla mente la figura dello Zeus olimpico, depositario di un ruolo di padre e fratello delle altre divinità a ciascuna delle quali è affidato un ruolo specifico. Zeus è l'ultima istanza, i figli e i fratelli conservano però la loro autonomia nel governo degli istinti umani e degli elementi del cosmo.

E' questa la natura del cristianesimo cattolico? Il Figlio ?€“ che si è anche incarnato ?€“ è il depositario della misericordia e del perdono, lo Spirito Santo avvolge le creature e le predispone al bene, il demonio le insidia e le mette alla prova. Il Padre unifica le invocazioni e da lui proviene la luce della beatitudine che illumina le anime dei salvati.
I "riformati" sono però un'altra cosa. Il loro è un rapporto diretto con Dio, la catena delle intercessioni e degli intercessori è di fatto inesistente. C'è un solo Dio per loro ma si potrebbe anche dire che ciascuno ha il suo Dio poiché ci arriva da solo e da solo lo pensa. E' così?

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-dio-di-francesco-piu-trino-che-uno/2205797/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tutti ai remi per salvare la nave
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2013, 04:20:05 pm
Tutti ai remi per salvare la nave

di EUGENIO SCALFARI


DOMANDIAMOCI anzitutto che cosa vuole la gente, le persone che incontriamo o di cui sappiamo tutti i giorni e che appartengono alle più diverse categorie: lavoratori, consumatori, giovani, anziani, occupati, disoccupati, indignati, disperati, civicamente impegnati, indifferenti, antipolitici.
Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo chiamavamo il popolo, il "demos", sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il futuro.

La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai crimini commessi da una classe dirigente anch'essa degradata; ma anche per colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura sguazzandovi dentro. Le colpe non stanno mai da una parte sola, chiamano in causa ciascuno di noi sicché  -  come diceva il Nazareno che parlava per parabole  -  chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Dunque la gente, simulacro sconcertante del popolo sovrano. Che cosa vuole? Vuole un immediato sollievo dai propri disagi, vuole il recupero di almeno una parte del benessere perduto e un po' più di giustizia sociale; vuole che si diradi la nebbia e si riaccenda la speranza di futuro.
Questo vuole la gente. Detesta la disperazione e per questo è disperata.

Ha bisogno d'essere governata ma non si fida. Un nuovo governo finalmente c'è e il Parlamento gli ha votato un'ampia fiducia ma la gente aspetta di vedere i primi fatti. Le promesse non bastano, gli impegni neppure, quante volte furono traditi?

Ma attenzione, gente: molto dipende anche da te. Se ancora una volta cadrai nell'inganno della demagogia, se ti lascerai sedurre dal canto delle sirene, se non vorrai e non saprai ritornare popolo, sarà poi troppo tardi per piangere perché qui e ora si gioca il tuo destino.

***

Molti temono ed altri sperano che questo appena costituito sia un governo "balneare". Altri si augurano che rappresenti una svolta: dopo la guerra civile durata vent'anni tra berlusconismo e antiberlusconismo, finalmente la pacificazione.

Abbiamo già detto che la gente non è interessata a nessuna di queste ipotesi, ma soltanto (e non è poco) al recupero d'una parte del suo benessere, a tutele sociali e al rilancio del lavoro e della crescita. Gli obiettivi sono questi; al governo spetta di trovare gli strumenti e metterli in opera. Può sembrare paradossale, ma i mercati pensano la stessa cosa e la loro risposta finora è positiva. Perciò la natura di questo governo è chiarissima: stato di necessità per oggettiva mancanza di alternative. Dovrà durare fino a quando quei risultati non saranno stati raggiunti.

Un governo balneare non corrisponde a questo mandato perché non è in pochi mesi che gli obiettivi assegnati potranno essere raggiunti. I partiti che lo appoggiano debbono averlo ben presente.

Le provocazioni di sapore pre-elettorale che Berlusconi continua a lanciare ogni giorno, non giovano affatto, inaspriscono una conflittualità che rende friabile una compagine tenuta insieme con gli spilli. Forse il Cavaliere pensa di consolidare in questo modo il ruolo di "kingmaker" cui aspira e di attrarre almeno in parte i sei milioni di voti perduti. Quando vorrà, staccherà la spina come ha fatto con Monti; ma commette un grave errore a coltivare queste ipotesi. Napolitano non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere fino a quando la legge elettorale e le altre riforme da lui ritenute indispensabili per avviare il Paese verso una solida ripresa non saranno state effettuate.

Chi pensa che in quel caso lo scontro avverrà tra Berlusconi e Letta si sbaglia, lo scontro contrapporrebbe il Cavaliere a Napolitano, che avrebbe con sé le Cancellerie europee, i mercati e soprattutto la gente. L'immagine del "meno male che Silvio c'è" andrebbe in frantumi nel breve spazio d'un giorno, perfino tra le file dei suoi fedeli. Forse qualcuno di loro dovrebbe avvertirlo prima che sia troppo tardi.

Quanto ai partiti, dovrebbero riformarsi e rifondarsi perché così come sono ridotti hanno perduto ogni capacità di rappresentanza. Tutti, movimenti compresi. Spetta ai loro militanti di provvedere e alla pubblica opinione di stimolarli mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Viviamo in un Paese dove non è mai esistita una destra liberal-moderata e una sinistra riformatrice e non trasformista. La destra dovrebbe ripudiare il populismo e la sinistra il frazionismo nascosto sotto il mantello dell'utopia.

Se così non sarà, avrà avuto ragione chi ci definì un'espressione geografica. Sono passati duecento anni da allora, ma con scarsissimi progressi.

***

L'abolizione e il rimborso dell'Imu sono richieste prive di senso salvo per quanto riguarda i proprietari di case con redditi bassi. Per il resto l'Imu altro non è che un'imposta progressiva sul patrimonio ed è bene che come tale sia mantenuta. L'economia reale ha bisogno di tutele sociali estese e robuste, alleggerimento del cuneo fiscale, incentivi al consumo e alla creazione di posti di lavoro.

Le risorse disponibili e quelle che l'Europa dovrà mettere a nostra disposizione nel quadro delle trattative in corso vanno canalizzate in questo modo. La lotta all'evasione va continuata con decisione. Le vendite di patrimonio pubblico debbono finalmente essere intraprese; i debiti della pubblica amministrazione liquidati, se ne parla da un anno, che cosa si aspetta? La "spending review" ha dato ben poco finora, eppure l'obiettivo è di palmare evidenza: la burocrazia, cioè la semplificazione amministrativa mai fatta. Questo dovrebbe essere uno dei compiti primari del governo, altro che balneare!

Walter Veltroni sostiene che anche la lotta contro la criminalità organizzata  -  a cominciare da quella che domina il settore dei videogiochi  -  è un obiettivo economico di essenziale importanza, ed ha perfettamente ragione. Dai un seguito in questo senso, caro Enrico Letta, sarebbe benvenuto.

E meno male che Draghi c'è. Qualcuno  -  a cominciare dalla Bundesbank ma non solo  -  ha dato un'interpretazione riduttiva della diminuzione del tasso di interesse della Bce ed ha trascurato altre parti dell'intervento preannunciato da Draghi: l'accelerazione dell'unione bancaria, i prestiti trimestrali illimitati alle banche europee e il tasso negativo sui loro depositi presso la Bce. Si tratta di iniezioni di liquidità della massima importanza, che sono all'origine del buon andamento dei mercati e dello "spread". La ripresa dell'occupazione in Usa e la politica di liquidità della Federal Reserve sono altrettanti elementi positivi della situazione. Forse siamo veramente all'inizio della ripresa a cinque anni dallo scoppio della crisi.

***

Un altro sparo a salve di Berlusconi riguarda la sua candidatura alla presidenza della Convenzione indicata nel programma di governo. Non starò a ripetere quello che è stato già detto da persone non sospettabili di faziosità sulla impossibilità di dare al Cavaliere un ruolo di "terzietà". Fa ridere la sola idea.

Ma il problema è un altro: creare questa Convenzione non ha alcun senso. Poteva averne quando Bersani la indicò come uno strumento utile per discutere i temi delle riforme costituzionali, distinte da un governo formato dal Pd al di fuori della logica delle larghe intese. Ipotesi rivelatasi ben presto irrealizzabile. Ma ora non ha senso alcuno, espropria le commissioni parlamentari e propone una sorta di Assemblea costituente del tutto sconsigliabile.

Noi non abbiamo affatto bisogno di una generale rilettura critica della Costituzione vigente, tantomeno con l'obiettivo di passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale.

Abbiamo bisogno di specifiche e limitate riforme di stretta competenza del Parlamento sulla base dell'articolo 138 della Costituzione: la riforma del senato federale e del bicameralismo perfetto, la diminuzione del numero dei parlamentari, la riforma del finanziamento dei partiti, l'abolizione delle Province.
Questi sono i temi; per realizzarli la prevista Convenzione è una via sbagliata. Ho visto che anche Stefano Rodotà è su questa linea e me ne rallegro.

Ed ora, come disse l'ammiraglio Nelson a Trafalgar, faccia ciascuno il proprio dovere. Lui purtroppo ci rimise la pelle ma la battaglia fu vinta. Noi speriamo che la vinciamo restando in piedi sul cassero della nostra nave che batte le insegne dell'Italia e dell'Europa.

(05 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/05/news/tutti_ai_remi_per_salvare_la_nave-58077821/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dialogo con i non credenti nel nome di Gesù di Nazareth
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2013, 11:41:57 am
Dialogo con i non credenti nel nome di Gesù di Nazareth

Esce il nuovo libro di Vincenzo Paglia.

Un lungo testo in forma epistolare indirizzato a chi non ha la fede.

L'obiettivo non è di convertire l'interlocutore ma di trarre profitto dalle due posizioni

di EUGENIO SCALFARI


CARISSIMO amico non credente, così comincia il libro di Vincenzo Paglia e il titolo lo rispecchia fedelmente: A un amico che non crede (Piemme). Ma in realtà quelle 230 pagine, dense di riflessioni, citazioni e narrazioni, sono dirette all'uomo in quanto tale, credente e non credente, cristiano o non cristiano.

Mi sento tra i destinatari di questa lunga lettera anche perché Vincenzo, anzi don Vincenzo, lo conosco da vent'anni e forse più e la conoscenza è diventata amicizia e scambio di sentimenti e pensieri. Pensieri discordi nelle reciproche conclusioni, ma coincidenti nel metodo, cioè nel dialogo alla ricerca di quanto i laici non credenti debbono alla storia e all'esperienza cristiana e reciprocamente quanto i cristiani debbono al pensiero critico dei non credenti e alla sua storia.
L'autore, per chi non lo sapesse, è stato il co-fondatore della Comunità di sant'Egidio e da una decina d'anni è vescovo di Terni. Di recente Benedetto XVI l'ha nominato presidente del "consiglio delle famiglie", tema di fondo della Chiesa e della società. Non è un "martiniano" don Vincenzo, ma ha molto apprezzato le posizioni del cardinale da poco scomparso. I suoi punti di riferimento sono stati papa Wojtyla, Benedetto XVI e ora, a quanto capisco, papa Francesco.

Il suo libro tocca tutti i punti del confronto tra il credente e l'amico non credente. L'obiettivo non è di convertire alla fede il suo interlocutore né di esporsi all'eventuale reciprocità, ma di trarre reciproco profitto spirituale dal saggiare le posizioni dell'uno e dell'altro. I temi del confronto sono: la zona del mistero che l'autore chiama l'Oltre; l'affermazione e la negazione di Dio; il Dio assente o presente di fronte al Male; Gesù il Cristo; la fede e la scienza; l'amore verso gli altri; la verità e l'assoluto; la morte e l'aldilà.

L'elenco comprende gran parte del dibattito in corso da sempre, anche prima che il cristianesimo facesse la sua comparsa. Ma è un dibattito che non si svolge mai allo stesso modo perché cambiano le culture che si confrontano, le società e i problemi della convivenza. Cambia il mondo e gli interrogativi che si pone l'"homo sapiens" da quando l'evoluzione dette forma ad un animale pensante. Rimane tuttavia come tema costante del confronto quella zona del mistero che a volte sembra restringersi e a volte estendersi, ma è direttamente connessa alla ricerca del senso.
Questo è il punto di fondo che il libro affronta. Viviamo in un'epoca che ha reso ancor più incalzanti le domande e ancor a più difficili le risposte e il dibattito è diventato sempre più acceso rivelando aspetti di drammaticità.

* * *

Al primo punto c'è il dibattito sull'esistenza o la negazione di Dio. Debbo dire che monsignor Paglia non è un patito delle cinque regole di San Tommaso, le ritiene importanti ma non decisive e pensa piuttosto che la vera prova dell'esistenza di Dio derivi dalla fede. Da questo punto di vista gli è molto utile rievocare l'intuizione ontologica di sant'Anselmo: se tante persone pensano Dio come trascendenza eterna che tutto pervade, è impossibile che questa fede non poggi sulla realtà oggettiva.

La maggior parte dei non credenti pensa invece (ed io sono tra questi) che l'idea stessa della divinità sia una meravigliosa invenzione dell'"homo sapiens", a quale scopo? Per sconfiggere la morte immaginando un aldilà che eternizza l'anima e dà un senso al passaggio terreno riscattandone la precarietà. La tesi del dio inventato è presente da molto tempo e fu anche ufficializzata da alcuni imperi d'Oriente e da quello romano: l'imperatore era un dio umano durante la sua vita. Dunque era la carica, il ruolo ad essere divinizzato.

Comunque non è l'ufficializzazione imperiale che interessa e preoccupa il credente, ma l'invenzione della divinità da parte della mente umana. A quell'idea l'autore del libro obietta che la mente umana, pur capace di sorprendenti invenzioni, non può arrivare a tanto, troppo complessa è l'invenzione di un Divino che non abbia un fondamento di realtà, qualunque cosa s'intenda per Divinità. Perfino il bosone di Higgs? Questo vorrei domandare all'autore della lettera all'amico non credente: una particella elementare può essere Dio?

Credo di conoscere la risposta, ed è un'altra domanda: chi ha creato la particella elementare? Anzi le particelle elementari non sono un'invenzione ma una scoperta degli scienziati come la meccanica dei quanti, le onde magnetiche, i buchi neri e il big bang che la scienza ipotizza arrivando a tracciarne la storia fino ad un miliardesimo di miliardi di secondo, arrestandosi a quel punto prima che il big bang avvenga. Ma prima ancora che cosa avviene? Il credente gli risponde che prima ancora c'è Dio. Il non credente invece continua da parte a ritenere che quel Dio che ha creato perfino le particelle elementari sia un'invenzione della mente per esorcizzare la morte. Io rispetto la fede, rispetto il mio amico credente, rispetto il mistero, ma Dio è un'invenzione, un mito che personifica il concetto dell'Essere.

Anche qui credo di conoscere le risposte del credente: se Dio è l'Essere, l'Essere non è un'invenzione della mente ma una realtà come è una realtà il suo rapporto con gli Enti. Gli Enti emergono dall'Essere, nascono, muoiono e si disfano nell'Essere il quale sta, esattamente come Dio. Infatti sono la stessa cosa.

Siamo arrivati dunque ad un punto comune? In un certo senso sì, siamo arrivati a un punto comune con alcune precisazioni. L'identificazione di Dio con l'Essere spoglia Dio da ogni umanesimo, non è pensabile che sia misericordioso o vendicativo o giusto o sapiente o qualunque attributo umano che gli si voglia attribuire, salvo forse quello dell'eternità ma anch'esso con molte riserve poiché l'Essere è fuori dal tempo.

L'altra precisazione riguarda noi umani: la nostra mente arriva fin qui, può esprimere Dio attraverso equazioni matematiche o attraverso metafore che lo raccontino come un personaggio, ma al di là di questo la nostra mente non può andare. C'è l'Oltre? Cioè qualcosa di non esprimibile? Sicuramente c'è l'Oltre, per noi inconoscibile, terra ignota e non esplorabile. Qui finisce in disaccordo il discorso sull'esistenza di Dio. Ma voi, credenti cristiani, avete un altro capitolo da raccontare che per voi anzi è il primo perché da esso prendete il nome ed è il capitolo di Gesù di Nazareth, figlio dell'uomo e figlio di Dio. Forse su questo capitolo potremo incontrarci.

* * *

Le fonti sono i Vangeli, gli atti degli Apostoli, le lettere da essi inviate alle comunità cristiane e poi Paolo e poi Girolamo e poi Agostino e Ambrogio e Bernardo, la dottrina, la mistica, la Chiesa di Gregorio di Saona e quella di Bonifacio e duemila anni di storia del potere spirituale e di quello temporale passando attraverso gli scismi, le crociate, l'Inquisizione, la Riforma. Infine lo scontro con la filosofia moderna da Montaigne a Cartesio, a Kant, all'illuminismo, a Hegel, a Nietzsche, a Freud. Infine il Vaticano II che ha cercato di rompere la gabbia costruita dal Vaticano I.
Tutto questo è stato messo in moto e dominato dal personaggio Gesù di Nazareth, raccontato dagli evangelisti che hanno parlato di lui senza averlo conosciuto fondandosi sulle narrazioni di alcuni apostoli.

Gesù di Nazareth. Il libro di don Vincenzo, che ricorda tutte queste tappe di storia religiosa con dovizia di citazioni e di riflessioni  -  fornisce di Gesù un ritratto dove risplende la sua dolcezza, la sua mitezza, il suo amore per il prossimo, la sua consapevolezza del destino che lo attende e soprattutto la sua predicazione.

Il ritratto è molto bello, ne emerge la forza di quell'uomo ed anche le debolezze insite nella sua forma umana; perfino alcuni momenti culminanti dove l'essere uomo sommerge la sua fiducia e lo spinge a dubitare di sé e perfino del Padre: nell'orto del Getsemani qualche ora prima dell'arresto e poi sulla croce del Golgota.

Questo è il ritratto. Quanto alle fonti esse offrono varie possibilità d'interpretazione, dovute alle molteplici trascrizioni dall'aramaico al greco antico e poi al latino, soprattutto per quanto riguarda il Vangelo di Marco. Cronologicamente esso è il primo poiché Matteo aveva scritto alcuni appunti andati perduti ma la scrittura del suo Vangelo è posteriore a quella di Marco.

La differenza tra i vari Vangeli consiste in questo: il ritratto di Marco raffigura un personaggio in certi momenti mite e dolce ma in altri aspro, triste e inquieto. Una personalità forte, bizzarra e contraddittoria. Comincia a trent'anni la sua storia, senza che poco o nulla si sappia sulla nascita, sull'infanzia e sull'adolescenza. Comincia col battesimo nelle acque del Giordano dove predica ed urla Giovanni Battista. Dopo il battesimo, il deserto e le tentazioni del demonio, poi la predicazione, le parabole, i discepoli, le folle; le parole dure nei confronti della famiglia, anche della propria; l'identificazione di sé con il figlio di Dio. Attenzione: non il Messia ma il Figlio. Quello di Marco è un ritratto in parte alternativo ma che sottolinea quasi ad ogni riga la divinità del personaggio e coincide con tutti gli altri Vangeli sulla dottrina dell'amore come carità nei confronti del prossimo.

Io penso che l'uomo Gesù abbia predicato un'umanità cui dobbiamo riferirci come il modello nobile e ad esso ispirare i nostri comportamenti. Ciascuno nell'autonomia della propria coscienza e  -  oso dire  -  costi quel che costi. Su questo, caro Vincenzo, siamo d'accordo e tu lo sai.
 

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/cultura/2013/05/06/news/libro_paglia-58144680/?ref=HREC1-11


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La leggenda di Belzebù
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:15:14 pm
La leggenda di Belzebù

Eugenio SCALFARI

GIULIO Andreotti è stato il vero  -  e mai risolto  -  mistero della prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l'incrocio accuratamente dosato d'un mandarino cinese e d'un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant'anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno. L'elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all'epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena).

E poi lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l'arresto del direttore generale della Banca d'Italia, Mario Sarcinelli, e l'incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti ad una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e, infine, lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.

Ciascuno di questi casi può assumere l'aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso
Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.

Quest'uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d'ira o di gioia, non un risentimento percepibile né di odio né di riconoscenza. Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell'immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti, ne fanno un enigma vivente. Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l'immagine d'un alto consigliere della Città Proibita dell'impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto di scorcio dal Tiziano, tra un cardinal dè Medici e un cardinal Barberini. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.

Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.

Non so se sia stata un'inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l'obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio. È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l'importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.

In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell'inclinazione del carattere di cui abbiamo detto che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, con il Vicariato di Roma e con alcuni dei sostituti della Segreteria.

Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. Ma in alcune cose importanti i due si somigliavano. Per esempio nel radicarsi al centrodestra per meglio aprire sulla sinistra. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d'affari: se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e i suoi Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato.
Ma Moro, proprio perché aveva il gusto della strategia, puntò fin dall'inizio sul partito come strumento indispensabile per attuarli. Andreotti invece sul partito non puntò mai. In un'ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per "apparigliare", mentre Andreotti è il giocatore "sotto mano" che gioca per "sparigliare". Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. Ad eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.

Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il "divo" avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un'epoca tramontata per sempre. Che possiamo dire oggi di lui se non augurargli che riposi in pace? "Sic transit gloria mundi" oppure "Ai posteri l'ardua sentenza", ma i posteri sono già tra noi e c'è da scommettere che molti di loro che hanno appena vent'anni non sanno neppure che sia mai esistito.

(07 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/07/news/andreotti_scalfari-58213516/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'esecutivo appena nato, a Brescia rischia il crac
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2013, 12:00:18 pm
L'esecutivo appena nato, a Brescia rischia il crac

di EUGENIO SCALFARI


L'uscita in piazza di Silvio Berlusconi a Brescia per attaccare la magistratura e i giudici che l'hanno condannato in appello a pene severe, commisurate alle malefatte da lui ripetutamente commesse, si è svolta  -  e questo è l'aspetto politicamente più grave  -  con la presenza e la partecipazione di Angelino Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno, e dei ministri  Gaetano Quagliariello (Riforme) e Maurizio Lupi (Trasporti e Infrastrutture). Enrico Letta, parlando nella mattinata di ieri all'assemblea del Pd, aveva già manifestato il suo dissenso dalla presenza di ministri del suo governo all'iniziativa di Berlusconi. Parleremo più dettagliatamente nel seguito di questo articolo delle conseguenze che quel che è accaduto a Brescia può avere, ma intanto ne segnaliamo la gravità e la necessità assoluta che mai più si ripetano fatti analoghi.

Fatta questa premessa che tra poco svilupperemo, seguiamo ora i fatti accaduti ieri e le loro implicazioni secondo l'ordine cronologico in cui si sono svolti.

È la prima volta che un ex leader della Cgil diventa segretario del maggior partito della sinistra italiana che è in qualche modo l'erede del Pci. Non ci riuscì Giuseppe Di Vittorio né Bruno Trentin né Luciano Lama e neppure Cofferati sebbene ne avessero tutti i numeri. Ce l'ha fatta invece Epifani, sindacalista al cento per cento ma di fede socialista nella corrente guidata allora da Antonio Giolitti.

Epifani governerà fino al prossimo ottobre, quando avrà luogo il congresso del partito. A stretto rigore nulla impedisce che il "traghettatore", come molti lo chiamano per indicare il compito che gli è stato assegnato, si candidi alla successione di se stesso, ma i concorrenti sono molti, a cominciare da Matteo Renzi, la Bindi, Speranza, Cuperlo, Civati, Orfini, Zingaretti, Franceschini, per non parlare di Fabrizio Barca. Comunque Epifani oggi c'è. Guiderà il partito nei prossimi cinque mesi con compiti estremamente impegnativi che lui stesso ha indicato ieri nel suo discorso di presentazione.

Il primo sarà di assicurare la compattezza del Pd nell'appoggiare il governo Letta; il secondo di far sì che quell'appoggio sia attivo e non di rimessa, cioè intessuto di proposte che restituiscano al Pd la primogenitura e quindi la forza per disputare a Berlusconi il ruolo d'ispiratore numero uno del governo. L'appoggio attivo presuppone che il governo sia vissuto come necessario, utile e senza alternative in questa fase di crisi economica e sociale che l'Italia e l'Europa stanno attraversando. Infine il terzo compito che riguarda la ricostruzione del partito, la partecipazione della base, il rinnovamento della squadra che affiancherà il segretario e, nei limiti del possibile, lo smantellamento delle correnti che ne sono da tempo diventate altrettanti tarli, altrettanti feudi, altrettante confraternite di potere.

 Cinque mesi, durante i quali Epifani dovrà attraversare le fiamme a piedi scalzi. Se ci riuscirà, quei cinque mesi diventeranno una fase essenziale nella storia della sinistra italiana e lui meriterà un oscar per averla guidata.

* * *
Enrico Letta è consapevole di quanto è accaduto all'assemblea del suo partito: se a partire da domani il Pd non gli assicurerà quell'appoggio attivo del quale abbiamo già detto, Letta vedrà aumentare il ruolo di Berlusconi e le sue pretese, la principale delle quali è che le promesse da lui fatte in campagna elettorale costituiscano la base dell'attuale governo. L'indipendenza del governo Letta e la stessa sua credibilità europea ne risulterebbero fortemente diminuite. È pur vero che l'iniziativa del Pd che abbiamo chiamato appoggio attivo al governo non deve andare al di là del limite implicito in un governo definito di larghe intese. Ma su questo punto diventa preminente il ruolo del presidente del Consiglio poiché è a lui che spetta di stabilire e tradurre in atti esecutivi il programma del governo.

L'ha già fatto nel discorso di presentazione alle Camere, ma il discorso non basta anche perché in esso erano delineati due distinti piani di lavoro e due distinte finalità che hanno già suscitato pericolosi equivoci e inquietanti strumentalizzazioni che a nostro avviso debbono esser chiariti con la massima urgenza.

I due piani di lavoro sono da un lato gli interventi di politica economica e sociale necessari per avviare una concreta politica di crescita e di equità in Italia e in Europa nel rispetto degli impegni già presi con le autorità di Bruxelles e con i governi degli altri Paesi a cominciare dalla Germania.

Dall'altra parte le riforme costituzionali e istituzionali senza le quali la politica economica non avrebbe a sua disposizione gli strumenti adeguati e la democrazia italiana rischierebbe un tracollo già in parte verificatosi.
Quanto alle due (pericolose) finalità, esse sono gli scopi concreti per adempiere i quali è nato questo governo e la "pacificazione" auspicata tra le forze politiche che lo sostengono.

 Se la pacificazione è limitata all'esistenza di questo governo, è ovvio che essa sia un requisito indispensabile d'una maggioranza parlamentare, sia pure di necessità; non significa buttarsi con le braccia al collo gli uni con gli altri, ma rispettare i legittimi interessi, l'equa ripartizione dei compiti, lo spirito di servizio e di squadra per i rappresentanti dei partiti chiamati a far parte del governo. Il che vuol dire che i ministri e sottosegretari, come pure i presidenti delle commissioni parlamentari, debbono avere rispettivamente come referenti primari il governo stesso e i presidenti delle Camere. Ma se invece il concetto di pacificazione viene visto come un definitivo oblio di quanto ha diviso e divide le forze politiche presenti in Parlamento e nel Paese, se si tratta d'una definitiva cancellazione dell'incompatibilità tra le parti in questione; allora va detto che quest'obiettivo non è accettabile e non lo sarà fino a quando il centrodestra sarà guidato da Silvio Berlusconi.

 Si è fatta molta polemica sulla parola "impresentabilità" ma francamente il vocabolario non ne contempla un'altra per esprimere un dato di fatto oggettivo. Un personaggio con una biografia come quella di Berlusconi non può avere il ruolo che da vent'anni riveste senza che lo spirito stesso della vita pubblica e delle istituzioni ne siano profondamente deturpati. In nessuna delle democrazie occidentali quest'elemento di degradazione sarebbe mai stato accettato e infatti nessun governo occidentale ha accettato Berlusconi e l'Italia da lui rappresentata come un partner credibile e affidabile.

 Non si tratta d'una questione personale e soggettiva, ma politica e oggettiva: Berlusconi non è presentabile e non si tratta di un giudizio morale ma politico. Purtroppo il partito da lui fondato non ha saputo né potuto né voluto uscire dalla minorità ed è tuttora, dopo vent'anni, di sua personale proprietà. Ecco perché una pacificazione non è possibile. Chiederla al Partito democratico significa precludere che esso partecipi ad un governo reso necessario dall'esito delle elezioni dello scorso febbraio e questo è il punto che Enrico Letta deve al più presto chiarire; se non con le parole, con i fatti.

 Con le parole l'aveva in parte già chiarito nel suo discorso d'insediamento parlamentare quando, ricordando il pensiero di Nino Andreatta che fu il suo maestro, disse: "Questo governo non si propone di fare la politica ma le politiche, cioè le cose concrete delle quali la gente ha necessità e bisogno". Dunque un governo di scopo come lo fu quello Ciampi del 1993 e poi quello Dini del 1994. Del resto l'incompatibilità di Berlusconi è stata plasticamente riconfermata da quanto è avvenuto a Brescia con l'aggravante che a quella manifestazione contro la magistratura milanese, accusata d'avere emesso una sentenza sfavorevole a Berlusconi, hanno partecipato non solo tutti i dirigenti del Pdl ma anche il vicepresidente e ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Nello stesso contesto (Alfano sempre presente e partecipe) Berlusconi ha anche definito la Corte costituzionale come un'istituzione infeudata alla sinistra politica. Ripeto: ad una pubblica manifestazione di piazza contro la magistratura. Cioè i rappresentanti del potere esecutivo che interferiscono sull'autonomia del potere giudiziario. Berlusconi, imputato e privo di cariche di governo, può spingere la sua protesta fino al ricorso alla piazza, ma i membri del governo no. Sarebbe intollerabile che questo "vulnus" si ripetesse.

Crediamo dunque indispensabile che il presidente Letta intervenga ancora con la massima ed esplicita chiarezza al riguardo. Un aut-aut è indispensabile se il governo vuole continuare ad esistere con l'appoggio del Pd e della pubblica opinione democratica.

(12 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/12/news/scalfari_12_maggio_2013-58606000/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La proposta rivoluzionaria di Hollande all'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2013, 11:53:41 pm
La proposta rivoluzionaria di Hollande all'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Riformisti o rivoluzionari? Questa domanda sta al centro del problema italiano ed europeo, ma può essere declinata in molti altri modi. Per esempio: socialisti o liberali? Progressisti o moderati? Di destra o di sinistra? Innovatori o conservatori? Sostenitori dei diritti o anche dei doveri?

Spaccare la società in due è quasi sempre una semplificazione e semplificare i problemi complessi è quasi sempre un errore. Senza dire che bisogna analizzare con attenzione il significato delle parole. Se restiamo alla prima domanda che tutte le riassume, arriviamo alla conclusione che spesso una riforma fatta come le condizioni concrete richiedono può rappresentare una svolta radicale e quindi una rivoluzione; mentre accade altrettanto spesso che una rivoluzione che abbatta tutta l'architettura sociale preesistente spesso sbocca nel suo contrario, cioè in una dittatura.

Ma applichiamo questa griglia di domande all'Europa di oggi e all'Italia chiamando in soccorso anche qualche esperienza storica che possa aiutarci a capire il presente col ricordo di un passato analogo e quindi attuale.

La moneta unica europea è stata una riforma rivoluzionaria: ha reso impossibili le svalutazioni delle monete nazionali come strumento di competitività, ha unificato il tasso del cambio estero per una popolazione di oltre 300 milioni di persone, ha consentito un mercato libero per le persone, le merci e i capitali.

Un'altra riforma rivoluzionaria è stata quella del servizio sanitario nazionale. Un'altra ancora quella della scuola dell'obbligo. Una quarta il divieto di licenziamento senza giusta causa, una quinta il riconoscimento di pari diritti tra uomo e donna, una sesta quella delle pari opportunità e cioè della lotta contro le diseguaglianze nelle posizioni di partenza. Infine ultima della serie la tutela della libera concorrenza sul mercato degli scambi economici.

È pur vero che alcune di queste conquiste, tutte avvenute nel mezzo secolo trascorso dopo la fine della guerra, sono state in parte vanificate o deformate da interessi precostituiti che ne hanno impedito o limitato la piena realizzazione. Ed è altrettanto vero che nuove esigenze, nuovi bisogni e nuove tecnologie sono nel frattempo emersi rendendo necessari ulteriori mutamenti che spesso sono mancati. La necessità di una continua manutenzione e di mutamenti successivi è una dinamica indispensabile senza la quale le riforme effettuate si trasformano in uno stato di fatto che non progredisce ma invecchia. Il riformismo correttamente inteso coincide con l'innovazione, se diventa consuetudine cessa di esistere.

Purtroppo l'Europa e gli Stati che ne fanno parte versano in questa condizione. Il dinamismo delle riforme è cessato da almeno 20 anni e forse più. Perciò molti invocano la rivoluzione e rimproverano i riformisti di essersi addormentati. Ma che cos'è la rivoluzione quando è sganciata dal riformismo ed anzi gli si oppone?
                                     
                                                                    * * *

La rivoluzione che si oppone al riformismo di solito si ispira all'utopia. I rivoluzionari utopisti si propongono la distruzione dell'esistente, non il suo ammodernamento. Perciò usano il "senza se e senza ma" e dicono di no a tutto. Nove volte su dieci finiscono in una dittatura.

Nel suo libro appena uscito col titolo "E se noi domani - L'Italia e la sinistra che vorrei" Walter Veltroni ricorda e concorda su una frase che Piero Calamandrei pronunciò in un ampio discorso da lui tenuto all'Assemblea costituente il 5 settembre 1946. La frase è questa: "Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici".

Veltroni ricorda anche che l'ultimo governo democratico governante fu quello dell'Ulivo presieduto da Romano Prodi dal '96 al '98. Dopo di allora i governi arrancarono e dal 2001 al novembre del 2011 furono gestiti dal populismo berlusconiano con la breve parentesi del biennio prodiano 2006-2008 che registrò il penoso spettacolo d'una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti e un solo voto di maggioranza al Senato.
Per fortuna - aggiunge Veltroni - si susseguirono al Quirinale Scalfaro, Ciampi e Napolitano che sono stati i migliori presidenti della Repubblica che l'Italia abbia avuto ed hanno supplito alle terribili carenze del sistema.
Concordo pienamente con questi giudizi e con la necessità d'un profondo mutamento dei partiti e della società. Siamo percossi da una terribile crisi economica e sociale e in Italia ma anche in Europa da uno smarrimento della pubblica opinione. E siamo schiacciati da due populismi contrapposti e dalla crisi profonda del partito che ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato, ma non è in grado di risollevarsi dalla crisi che l'ha atterrato.

Quanto all'Europa, versa anch'essa in condizioni che dire drammatiche è dir poco: una marea di disoccupati, una recessione che ha colpito quasi tutti i Paesi che la compongono, una politica economica profondamente sbagliata, una politica bancaria in fase di stallo, una lentezza decisionale che aggrava i malanni e vanifica le incerte terapie.

Questa è la situazione. Ci sono speranze di riportarla sulla giusta rotta?

                                                                      * * *

La speranza (lo dico con le parole di Calamandrei) è un governo che governi e che duri. Quello di Enrico Letta è nato per necessità e si regge su una maggioranza anomala e rissosa ma, allo stato dei fatti, senza alternative. Grillo non è un'alternativa e i suoi voti, quand'anche saltassero ancora in avanti (ma i sondaggi attuali lo danno al 23 per cento) da soli non bastano. Dal bacino elettorale di Berlusconi non succhia più, anzi sta avvenendo il contrario: è Berlusconi che si sta riprendendo i voti dei delusi che erano emigrati dal Pdl verso l'astensione o verso Grillo.

I cinque stelle continuano invece ad affascinare i giovani di sinistra, i delusi del Pd, i sognatori della palingenesi, quelli che sono rimasti schifati dall'apparato chiuso e correntizio d'un partito che nel 2008 si era presentato come una sorta di partito d'azione moderno, aperto, che avrebbe dovuto plasmare una società civile forte e porsi al suo servizio.

Su questi delusi i cinque stelle esercitano la loro tentazione che però ha un punto debole: non esprimono nulla che sia di sinistra, né di quella tradizionale né di quella che pensa in termini di cultura moderna. Ce ne sono ancora nel Pd e molti, ma non pare che abbiano voce o almeno non abbastanza, capace di rovesciare gli equilibri malsani che ancora dominano quel partito.

Un Pd moderato non corrisponde alla sua genesi e soprattutto non riempirebbe alcun vuoto, al contrario ne aprirebbe uno a sinistra con conseguenze letali nel quadro italiano ed europeo.

Il Pd può avere, dovrebbe avere, i voti dei liberali, che non sono affatto moderati nel senso conservatore del termine. Nelle democrazie mature i liberali sono sempre stati alleati della sinistra riformatrice, è sempre stato così dovunque, in Inghilterra, in Usa, in Francia, in Germania, in Spagna. Ed anche in Italia, nei rari momenti di democrazia vincente. Rari, perché una parte rilevante di italiani non ama lo Stato, lo considera estraneo se non addirittura nemico e soggiace alle lusinghe della demagogia e del populismo. Predomina in loro un elemento anarcoide ed un'indifferenza verso la politica che porta inevitabilmente verso forme a volte nascoste e a volte palesi di dittatura.

Questo è il dramma italiano, un risvolto del quale, certamente non marginale, estende l'antipatia verso lo Stato nazionale ad un'analoga antipatia verso l'ipotesi di uno Stato europeo. Da questo punto di vista il populismo berlusconiano coincide con il populismo grillino: lo Stato italiano, per quel che poco che esiste, dev'essere raso al suolo e lo Stato federale europeo non deve nascere. Quel tanto che esiste dell'uno e dell'altro dev'essere completamente abbattuto. Poi, sulle loro ceneri, si potrà forse edificare il nuovo. Ma se li interroghi sul come distruggerli e come ricostruirli, riceverai come risposta una scrollata di spalle e un generico "si vedrà".

                                                                      * * *

Non è così che si costruisce il futuro dell'Europa e quello dell'Italia che le è strettamente legato. Da questo punto di vista giovedì scorso è avvenuto un fatto nuovo di straordinaria importanza: il presidente francese Hollande per la prima volta nella storia politica della Francia ha abbandonato la posizione tradizionale del suo paese di scetticismo e di ostile distacco verso un'Europa federata ed ha chiesto in modo perentorio la nascita entro il 2015 d'un governo unitario europeo con un bilancio comune, un debito pubblico sovrano comune, una politica economica, estera e di difesa comuni, un sistema bancario ed una Banca centrale con i poteri di tutte le Banche centrali dei paesi sovrani.

Non era mai accaduto prima, la Francia era anzi vista come un ostacolo insuperabile a questa evoluzione, imposta ormai dall'esistenza d'una società mondiale globale. Il progetto di Hollande prevede anche l'elezione del presidente dell'Europa col voto diretto dell'intero popolo europeo.

Il governo spagnolo si è già dichiarato pronto a sostenere la proposta francese. Il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta aveva anch'egli sostenuto per primo questa necessità ma non aveva fissato date. Hollande ha rotto gli indugi: due anni di tempo e se gli altri paesi europei (la Germania soprattutto perché a lei è rivolto il messaggio di Hollande) non saranno d'accordo, la Francia andrà avanti con chi ci sta.
I partiti italiani finora non si sono fatti sentire; i giornali hanno riportato la notizia ma senza rilevarne la novità e la fondamentale importanza. Questa sì, sarebbe una rivoluzione: un governo ed un presidente eletto di uno Stato europeo fra due anni. Le elezioni tedesche che avranno luogo in autunno dovranno cimentarsi soprattutto su questo tema e così pure quelle italiane quando avverranno e le elezioni europee che si svolgeranno interamente su questi temi. La messa in comune dei debiti sovrani nazionali fu, non a caso, il primo passo della Confederazione americana verso la Federazione.

Il futuro si può costruire soltanto così e soltanto così può rinascere la speranza nel cuore degli europei e degli italiani.

 

(19 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Morire e uccidere per narcisismo
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:11:40 am
Morire e uccidere per narcisismo

di Eugenio Scalfari

Trasformare in gesto estremo una vendetta sociale. Per comparire sui media. Anche questo è un modo di avere successo

(15 maggio 2013)

C'è molta disperazione in giro e cresce il numero di quelli che dalla loro sofferenza di anima e di corpo fanno derivare effetti estremi. Il loro numero è in costante aumento, probabilmente anche a causa di un complesso di imitazione. Va di moda (si può dire così?) punire se stessi e punire gli altri, dilagano i suicidi e anche gli omicidi. Il movente è l'insostenibilità dei sacrifici imposti dalla crisi, che non è soltanto economica ma anche sociale e morale.

Questa "moda" suscita grande preoccupazione in chiunque rifletta sulle condizioni della società. Il peso dei sacrifici è naturalmente un elemento che spiega l'indignazione e la rabbia anche perché in molti casi non si accompagna all'equità e colpisce, come si dice, i soliti noti. Ma quando sconfina in gesti estremi il movente dei sacrifici non è una motivazione sufficiente, anche perché talvolta quei gesti sono compiuti da persone le cui condizioni economiche non sono tali da provocare una così insopportabile disperazione. Quindi bisogna scavare più a fondo, nell'intimità delle coscienze e di quanto si agita nella zona oscura della psiche.

Lo ha fatto con grande lucidità Massimo Recalcati, uno degli studiosi più attenti a queste problematiche, esperto analista e seguace del pensiero di Sigmund Freud e di Jacques Lacan. In un suo recente articolo su "Repubblica" Recalcati individua due simboli che dominano da anni la psicologia collettiva e ne influenzano i comportamenti; questa sindrome è in costante aumento e si basa sul mito del successo e su quello del fallimento, che costituiscono le due facce della stessa medaglia.
Il successo è l'obiettivo che ormai da anni domina la vita delle persone e soprattutto dei giovani che iniziano la loro corsa dopo la stagione felice dell'adolescenza: successo nella carriera, nello stile di vita, negli agi, nella notorietà e popolarità; ma anche successo in amore, ostentabile come capacità di fascino e seduzione.

Il risvolto negativo di un mancato successo è il sentimento di fallimento. Chi non riesce a conquistare la vagheggiata vetta si sente un fallito anche se non è affatto in coda nella scala sociale ma più semplicemente ne ha scalato almeno la metà o addirittura i tre quarti. Non è in coda, ma neppure sulla vetta e questo è sufficiente a farlo sentire un fallito, uno sconfitto, un umiliato d'una battaglia perduta.

Per Recalcati è chiaro che entrambi i due simboli, successo e fallimento, sono il prodotto di un narcisismo esasperato, un amore per se stesso che ha varcato la soglia fisiologica per entrare in una condizione patologica, in una egolatria che suscita comportamenti abnormi. Nel caso di successo conseguito, un'enfasi fuori misura che conduce alla fine a una solitudine inquietante e a tentazioni di prevaricazione e di imperio su quanti lo circondano. Nel caso di fallimento, a sentimenti di invidia e vendetta sociali contro avversari specificatamente eletti come tali.

Per soddisfare il narcisismo - presente in dosi patologiche anche in chi si sente e si vive come un fallito - la vendetta va compiuta in modo eclatante, fino al punto da trasformarsi anch'essa in un successo poiché nessuno sarebbe riuscito a vendicarsi in quel modo, con quella efficienza e con quella efferatezza al limite della follia. Non è tecnicamente un pazzo chi si compiace di quei gesti estremi, anzi è perfettamente lucido e ha piena capacità di intendere e di volere, come recitano le scienze giuridica e medica. Ma l'obiettivo che determina la sua azione è quello di fare notizia, di conquistare le prime pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni e, per di più, di trasformare il suo gesto estremo in una vendetta sociale compiuta nel nome dell'intera comunità. Il fallito diventa così un giustiziere e come tale sarà ricordato.

Questa è l'analisi di Recalcati, che trovo molto convincente. Esempi d'attualità ce ne sono molti, a cominciare da quello dello "sparatore" di piazza Montecitorio. L'inchiesta giudiziaria che lo riguarda è tuttora in corso, ma la molla narcisistica che ne ha fatto per molti sconsiderati un'icona di vendicatore-giustiziere anziché semplicemente un omicida a sangue freddo, fornisce un'idea adeguata del degrado che la società ha in questi anni subìto. Su questo punto bisognerebbe fare ulteriori considerazioni poiché quel degrado coinvolge la classe dirigente ma insieme con essa anche una parte non trascurabile di quella che un tempo chiamavamo popolo e ora chiamiamo gente per definire con questo termine più anonimo la decadenza morale e culturale che ha colpito allo stesso modo in alto e in basso, governanti e governati. Evidentemente è il frutto di un'epoca dove il consumismo fa premio sulla morale, l'emotività sulla responsabilità e il narcisismo sul bene comune. La colpa è di tutti, nessuno escluso.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Opinioni La cultura annoia chi non ce l'ha.
Inserito da: Admin - Giugno 07, 2013, 07:10:03 pm

Opinioni

La cultura annoia chi non ce l'ha

di Eugenio Scalfari

Il Salone del libro di Torino ha dimostrato come leggere, informarsi e confrontarsi sia una delle esperienze umane più interessanti. Ma c'è chi invece della vivacità intellettuale ha fastidio: ed è un peccato

(03 giugno 2013)

Se c'era un argomento che non mi sarebbe mai venuto in mente di fare oggetto di questo "Vetro soffiato" era il Salone del Libro svoltosi a Torino come ogni anno e concluso domenica scorsa. A suo modo un evento, come sono eventi sul cinema i Festival di Cannes, di Venezia e di Berlino, la Fiera del Libro di Francoforte e gli appuntamenti musicali di Salisburgo e Lucerna. Mi ha fatto riflettere un articolo di Vittorio Feltri sul "Giornale".

E' una stroncatura in piena regola del Salone torinese, reo secondo lui d'esser stato monopolizzato dalla cultura di sinistra e in particolare del Partito democratico di cui il Salone ha rappresentato (secondo Feltri) il pre-congresso. Sono stati presentati i libri appena usciti di Veltroni e di Renzi, riproposto un libro di Gramellini, uno di Gianni Riotta e un altro di Giuliano Amato. Non è molto per giudicare una manifestazione culturale dove erano presenti tutti gli editori italiani, dove una quantità notevole di libri è stata venduta a un pubblico in larga misura giovanile e dove i dibattiti si sono avuti su una larga rassegna di temi dove la politica politichese ha avuto assai scarsa rappresentazione. Si è parlato di cultura, di morale, di religione, di storia, di filosofia, di musica, di arti figurative, di scienza, di architettura, di antichi miti e di futuribile. Insomma di tutto.

Ma per Feltri no e il titolo del suo articolo riassume efficacemente il suo pensiero a proposito del Salone: "Chiacchiere, noia e i soliti noti". Un articolo, sia pure scritto da un giornalista che ha una sua notorietà, significa poco, è un parere che dura un giorno per chi lo legge, ma è rappresentativo d'uno stato d'animo che, guarda caso, è condiviso da una parte politica alquanto vasta ed è il populismo berlusconiano per il quale hanno votato due mesi fa 10 milioni di italiani e i potenziali sostenitori aumentano a 15 milioni e forse più, un quarto del Paese.Mi guardo bene dal dire che si tratti di analfabeti e di illetterati e neppure che oppongono a una cultura che secondo Feltri è di sinistra un'altra cultura antagonista. Dico semplicemente che sono indifferenti alla cultura. Li annoia. Disertano le librerie oppure no? Mi piacerebbe sapere che cosa comprano. Forse l'articolista del "Giornale" ci può illuminare su questo punto?


I libro sono in crisi da un paio di anni, è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e in parte dovuto alle ristrettezze economiche e alla proletarizzazione delle classi medie. Ma in parte, come dimostra l'analoga crisi dei giornali, questo mutamento ha come causa di fondo le nuove tecnologie della comunicazione: la Rete ha sostituito la parola scritta per un numero crescente di persone. La lettura dei giornali e dei libri è stata sostituita dalla lettura "on line". Salvo, ovviamente, i "best-seller", ma quello è un fenomeno marginale rispetto alla vendita globale, come pure marginale è la vendita di libri che avviene nel corso di un evento. A Torino però le presenze di pubblico (prevalentemente giovanile) e l'acquisto di libri è fortemente aumentato rispetto all'anno precedente: 330 mila persone in più e molte decine di migliaia di volumi venduti rispetto al Salone del 2012.

Rilevante è stata la presenza di giovani e di donne che hanno costituito circa il 70 per cento dei presenti negli "stand" delle case editrici e ai dibattiti. Noia molto poca. Chiacchiere ovviamente molte perché, fino a prova contraria, ci si esprime ancora con le parole. Resta da vedere se le parole hanno un senso. Non ho nulla nei confronti di una cultura diversa e opposta alla mia, anzi mi interessa molto, sono assai curioso per natura, lo ero da giovane e lo sono ancora di più da vecchio, ma resto indifferente di fronte agli indifferenti alla cultura. Da loro non ho niente da imparare. Dovrei semmai fare opera missionaria per convincerli a leggere Proust o Tolstoj e Rilke o magari DeLillo e McEwan o Roth e Yehoshua. Ma lascio a gente più giovane questa missione. Feltri, tanto per dire, potrebbe farlo facilmente visto che vive in mezzo a loro e li ha dunque a portata di mano.

   
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Evviva l'improvvisazione
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2013, 11:18:12 am
Opinioni

Evviva l'improvvisazione

di Eugenio Scalfari

L'azienda è una jam session, spiegano Fresu e Salvemini. Hanno ragione.Dall'auto ai giornali, occorre cogliere i cambiamenti del mercato. Ci vuole estro, ma anche organizzazione. Guai ad adagiarsi sulla routine

(06 giugno 2013)

La prefazione di un libro di Frank J. Barrett che ha un titolo insolito e affascinante ( "Disordine armonico. Leadership e jazz") è intitolata: "L'azienda è una jam session". Intrigante. Perché che cosa c'entra un Marchionne - tanto per fare un nome - o un Diego Della Valle con Duke Ellington o Thelonious Monk o Louis Armstrong?
Invece c'entrano ed ecco perché. In una "jam session" si parte da un ritmo e da una melodia molto scarna, non più di sette-otto note. Il solista, tromba o clarino o sassofono che sia, imposta melodia e ritmo; attorno a lui ci sono altri strumenti ad archi o a fiati o a percussione, tra i quali quelli indispensabili sono il contrabbasso, il pianoforte e la batteria i quali, sul ritmo e su quelle poche note di melodia, impostano una molteplicità di variazioni. Suonano per ore e non è mai la stessa musica a uscire da quegli strumenti né c'è qualcuno che diriga un inesistente spartito anche perché a sua volta il solista, che ha dato il ritmo e lo scheletro melodico, è quello che ancor più degli altri si sbizzarrisce nelle variazioni.

Gli autori della prefazione sono un musicista, Paolo Fresu, e un economista, Severino Salvemini. Il loro testo comincia così: «Bisogna rifuggire dal potere seduttivo della routine e assumersi i giusti rischi per sfidare lo "status quo". Bisogna dunque disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessare il prodotto stimolando gli individui alla massima autonomia. Per improvvisare bisogna però rispettare poche regole. La struttura è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro leader e individualità svettanti, si staglia un collettivo che dà forza e coesione all'intera organizzazione. Altro requisito fondamentale è il dialogo, dove ogni affermazione trova una replica».

Le cose avvengono proprio così in una "jam session" di artisti che suonano musica jazz. Molti suonano fino a notte in locali d'intrattenimento ma poi, invece di andarsi a riposare, si ritrovano in qualche cortile disabitato e fanno mattina per loro divertimento improvvisando nel modo descritto con le parole dei due autori (anche Salvemini è un musicista oltre che economista).

Ma in un'azienda? Che cosa avviene o può avvenire in un'azienda alle prese con le varie fasi dell'invenzione del prodotto, dei modi di produrlo, della confezione con cui presentarlo al pubblico e del marketing per conoscere i destinatari? Noi che facciamo giornali o editori e autori di libri vediamo che spesso anche il nostro fare somiglia a una "jam session". Penso per personale e ormai semi-secolare esperienza alle riunioni mattinali di redazione che debbono produrre il giornale identificando i fatti rilevanti del giorno da mettere in primo piano, come impaginarli, come titolarli, a chi affidarne la scrittura e quale spazio concedergli. Ma il tutto deve avvenire accordando le pagine con la struttura sociale e culturale del pubblico di appartenenza e queste informazioni non te le fornisce solo il marketing con sondaggi sulla diffusione, ma anche i giornalisti che conoscono i lettori e ne ricevono consenso o dissenso sugli articoli pubblicati.

Chi dirige deve tener conto di tutte queste risposte al prodotto messo in vendita, conoscerne i risultati giorno per giorno e tenerne conto per il prodotto successivo senza tuttavia seguire passivamente le preferenze manifestate dai lettori-consumatori. C'è un'interdipendenza tra i lettori di libri e giornali e chi confeziona quei prodotti, gli uni influiscono sugli altri reciprocamente. Non c'è quindi uno spartito e una routine ma un'improvvisazione continua conservando però la linea scelta del ritmo e della melodia.
Ho fatto l'esempio degli autori e degli editori di giornali e di libri. Ma vale anche per un produttore di scarpe o di automobili o di manufatti d'ogni tipo e genere? La risposta di questo libro è affermativa: vale per ogni tipo di azienda. L'industria dell'automobile sforna di continuo nuovi modelli, a volte e per certi mercati punta sulle utilitarie, in altri su berline o limousine o Suv, o jeep con traino a quattro ruote o a volte sull'auto coupé. E non parliamo della confezione del cibo o di una partita di calcio. In questo caso l'obiettivo è sempre quello di subire meno reti possibili e di farne il più possibile ma i modi, lo schieramento e gli allenamenti e la scelta dei giocatori variano di continuo.

Insomma: schema sobrio, leadership chiaramente stabilita, personalità svettanti, collettivo intonato a fungere da sottofondo e improvvisazione. Vale perfino per i partiti politici: se si arroccano su apparati rigidi che ripetono la stessa routine, affondano in pochi mesi.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lunga la strada, stretta la via. Ma la marcia è cominciata
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2013, 09:10:15 am
Lunga la strada, stretta la via

Ma la marcia è cominciata


di EUGENIO SCALFARI


FABRIZIO Saccomanni non è semplicemente un banchiere che conosce a menadito le tecniche della politica monetaria. È anche dotato di fiuto politico, rafforzato da una lunga esperienza di contatti con uomini di governo e istituzioni internazionali come le altre Banche centrali, il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti, la Banca europea degli investimenti, la Commissione di Bruxelles e soprattutto la Bce guidata da Mario Draghi, di cui la Banca d'Italia è una costola.

Chi lo conosce sa o è in grado di prevedere quali sono i suoi comportamenti di fronte alla crisi recessiva che attanaglia l'Europa e l'Italia.
In questa fase ha due problemi da risolvere: come gestire la questione dell'Imu e dell'Iva nell'ambito degli impegni europei e come ottenere dall'Europa (e dalla Germania) la maggiore flessibilità compatibile per attuare una concreta crescita in Italia e nel continente e un aumento della base occupazionale e giovanile.

Ha un ottimo punto di riferimento nel suo presidente del Consiglio, Enrico Letta, che a sua volta, può contare sull'appoggio sistematico di Giorgio Napolitano.

La strada che il nostro governo - e Saccomanni in particolare - stanno percorrendo è la seguente: rinviare l'aumento dell'Iva per tre-sei mesi; rinviare di altrettanto le rate di pagamento dell'Imu. Questi due rinvii hanno un costo, ma non molto elevato, tre o quattro miliardi che possono esser coperti almeno in parte con operazioni di tesoreria.

Ad ottobre l'Imu sarà interamente abolita e sostituita con un'imposta immobiliare comprensiva dell'imposta sui rifiuti ed altre minori, su basi nettamente progressive. Altrettanto avverrà per l'Iva che non riguarda soltanto le aliquote ma soprattutto i settori merceologici ai quali si applica, movimentando le aliquote al rialzo e al ribasso, anche qui su basi progressive in modo da gravare di più su settori di più alto reddito (o rendite) e meno sui consumi e i servizi primari.

C'è un gioco politico per guadagnare questi mesi e il tandem Letta-Saccomanni lo sta conducendo con consumata abilità. L'importante per ora è di gravare il meno possibile sulle scarse risorse esistenti.

***

Nel frattempo bisogna intervenire sulla crescita e sul lavoro. Il decreto del "fare" è stato approvato dal Consiglio dei ministri e prevede investimenti in infrastrutture locali (in gran parte già predisposti da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel precedente governo), incentivi alle piccole imprese per l'acquisto di macchinari produttivi, pagamenti della pubblica amministrazione ai Comuni e alle imprese, semplificazioni e liberalizzazioni che tagliano inutili lungaggini burocratiche.

Le risorse sono in parte già disponibili, in parte anticipate dalla Cassa depositi e prestiti, in parte fornite dal sistema bancario sotto forma di anticipazioni su fatture autocertificate e "mini bond" emessi dalle imprese. A occhio il complesso di questi interventi ammonta a 8-10 miliardi. Le coperture previste sono all'esame della Ragioneria e della Banca d'Italia. Un primo sollievo per il sistema che si avrà entro un paio di settimane.
Ma il secondo terreno di gioco - anch'esso già in corso - riguarda la politica economica europea. L'Italia non accetterà compromessi sul tema dell'unione bancaria. L'incontro a quattro di venerdì scorso è andato bene, il fronte comune dei quattro più importanti Stati dell'Eurozona (Germania, Francia, Italia, Spagna) sosterrà negli incontri imminenti europei il criterio della crescita e della flessibilità, fermo restando il mantenimento del "fiscal compact" e del controllo sul deficit. Perfino il ministro tedesco Schäuble è d'accordo su questa linea che, da parte italiana, prevede misure europee per l'occupazione giovanile. Non saranno immediate, ma l'importante è che siano approvate e messe in calendario per il 2014.

È tuttavia chiaro che tutto questo non basta. L'Italia chiederà di poter avviare investimenti pubblici e incentivare quelli privati anticipando l'uso dei fondi europei, attivando la Bei a mobilitare una leva di 60 miliardi per investimenti e ottenendo che le risorse italiane necessarie siano tenute fuori dal patto di stabilità.
Questi obiettivi non sono chimerici, esistono concrete probabilità che siano raggiunti. Ma esiste tuttavia un'incognita che già esercita una forte tensione sui mercati: l'incognita viene dal processo già in corso da mercoledì scorso della Corte costituzionale di Karlsruhe che dovrà sentenziare sulla politica economica tedesca rispetto al patto di stabilità di Maastricht e se la Bce da parte sua non sia andata al di là di quanto il suo statuto e le norme europee prevedono. Questo procedimento apre una fase nuova nei rapporti della Germania con le istituzioni europee. Maggiore crescita e maggiore flessibilità europea nonché il mantenimento della politica di liquidità della Banca centrale sono evidentemente condizionati da quanto sarà sentenziato a Karlsruhe nei prossimi mesi.

Una cosa è certa e la si ricava dall'articolo 3 del trattato di Lisbona: le direttive europee per quanto riguarda la politica economica e in particolare quella monetaria non possono essere condizionate o modificate da uno degli Stati membri o da istituzioni nazionali; soltanto gli statuti delle istituzioni europee configurano le norme di comportamento; la loro interpretazione in caso di dubbi di legalità spetta unicamente alla Corte di giustizia di Strasburgo. Le sentenze di Corti di giustizia nazionale, qualora intervenissero su queste materie, sarebbero invalide e addirittura censurabili.

Come si vede, il terreno di gioco è accidentato ma la posizione sostenuta dall'Italia, dalla Francia e dalla Spagna è incomparabilmente la più favorita nell'eventuale partita che dovesse aprirsi.

Sarebbe opportuno che i governi nazionali dell'Eurozona cominciassero fin d'ora a prender posizione sulla base del trattato di Lisbona e stimolassero la Corte di Strasburgo a pronunciarsi anche preventivamente rispetto al Karlsruhe. Quanto alla cancelliera Angela Merkel, sembrerebbe più solidale con la Bce che con la Corte del proprio paese. Forse -ce lo auguriamo - è più attratta dall'obiettivo di un'Europa federale che si muova col peso d'un continente nell'economia globale, piuttosto che da una Germania isolata di fronte agli altri paesi europei e soprattutto di fronte ai paesi emergenti del pianeta.

***

Il nostro governo, che è più esatto chiamare di necessità anche se si autodefinisce di "larghe intese" per evidenti ragioni di opportunità, si sta muovendo nel modo migliore tra questi scogli della crisi economica e delle incertezze europee. Immaginare che la necessità venga meno tra pochi mesi è del tutto illusorio. Altrettanto illusorio, anzi assai pericoloso, è supporre che una nuova maggioranza di cui il Pd sia il perno e la dissidenza dei 5Stelle il nuovo alleato, significa sognare ad occhi aperti. Pd più dissidenza grillina possono essere un governo adatto quando la crisi economica sarà superata, non prima. La sola eventualità che questo avvenga potrebbe sconvolgere i mercati, quello italiano e di riflesso quelli europei.

Vendola non si rende conto di questa realtà? Renzi capisce quello che ho fin qui scritto con informata coscienza? Preparare il campo di gioco per una futura competizione e rinnovare nel frattempo la sinistra italiana è un compito degno d'esser portato avanti, ma pensare che quel futuro sia dietro l'angolo oppure operare addirittura per affrettarlo con le proprie querimonie sarebbe un caso grave di irresponsabilità.

Il Movimento 5Stelle sta vivendo una fase di ricerca di libertà. Non sappiamo quanto sia estesa tra i cittadini entrati in Parlamento. È comunque giusto dire che Grillo e il suo iniziale successo sono stati utili al risveglio della democrazia italiana così come è utile oggi che gli eletti delle 5Stelle rivendichino la loro dignità di teste pensanti e scoprano la politica.

La politica - lo dice la parola stessa - è una visione del bene comune, la visione di una società al cui servizio la politica si pone. Attenzione: il "demos" cioè il popolo, esprime una società, cioè un insieme di comportamenti che spesso non collimano con la visione del bene comune di una parte politica. Questa distinzione non va dimenticata da quanti riflettono su ciò che avviene intorno a loro.

Tra il "demos" e le diverse parti politiche che competono c'è sempre un rapporto interrelazionale: il "demos" modifica le parti politiche e queste a loro volta modificano il "demos", ciascuna a proprio modo. Questa è l'etica della politica: quella di Aristotele, non quella di Platone. Il resto è futile chiacchiera o esperta demagogia.

***

Un campo molto agitato si è aperto anche nel centrodestra. Lì non c'è alcuna visione del bene comune. Ci sono interessi coalizzati attorno ad un proprietario che è l'asso dei venditori e c'è un "demos" emotivo e dominato dall'imbonitore. Impaurito dai comunisti (pensa un po'!), impaurito dal fisco (qualche ragione ce l'ha), impaurito dagli immigrati, impaurito dai gay, impaurito dallo Stato, ostile all'euro, ostile all'Europa.

Alle elezioni amministrative il Pdl è letteralmente crollato. Scomparso. Come i grillini. Molti elettori si sono astenuti, alcuni per indifferenza, altri come atto politico, per incidere sui partiti e scuoterli dal loro abbattimento. L'astensione in Italia in queste dimensioni è un fatto nuovo ma non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: nella Russia di Putin vota circa il 90 per cento degli elettori, ma in Usa e nelle democrazie di Francia, Gran Bretagna e Germania votano dal 40 al 55 per cento degli aventi diritto.

Comunque, da noi è un fatto nuovo e auguriamoci che il Pd operi su se stesso come si conviene. Quanto a Berlusconi, sta pensando a una nuova Forza Italia, guidata ovviamente da lui, con Alfano segretario e imprenditori famosi e facoltosi come quadri regionali. Gli piacerebbero Montezemolo, Marchini, Malagò, Marcegaglia e perfino Totti; insomma personalità di spicco dallo sport all'industria alle finanze. Purtroppo per lui, gli hanno tutti chiuso la porta in faccia.

Comunque finirà quella partita, un'altra ce n'è che preoccupa un po' tutti: che cosa farà il Cavaliere quando, tra pochissimi giorni, si aprirà il Festiva delle sentenze a cominciare da quella attesa per il prossimo 19 della Corte  costituzionale sul legittimo impedimento? Manderà per aria il governo? Chiederà le elezioni anticipate? Con le conseguenze che è facile immaginare?

Personalmente penso che non accadrà nulla di tutto questo. Ci sarà naturalmente un gran fracasso e il circuito mediatico - come è inevitabile - lo amplificherà. Santanché sarà in primo piano ma, con maggior "aplomb" anche Alfano e Schifani. Ma altro non accadrà.

Elezioni adesso con un partito a pezzi? Impensabile. Scioglimento delle Camere? Dovrebbe scioglierle Napolitano. Pensate che lo faccia? Con un "Porcellum" ancora in piedi? E allora, che cos'altro può accadere?
Non accadrà nulla. Sentenze definitive ancora non ci sono e la più vicina è tra un anno, prescrizione permettendo. Pensiamo dunque a cose più serie: lavoro, investimenti, Europa, riforma del Senato, lotta all'evasione, riforma elettorale, magari provvisoria.
Buona domenica e buona fortuna.

Post scriputm.
Ho visto e ascoltato a "Otto e mezzo" Dario Fo che parlava di Grillo. Con tutto il rispetto: ma è mai possibile? Un attore con una degna storia di teatro alle spalle e anche di pensiero. È mai possibile? Ah, Narciso! Quanti guai combini nella vita delle persone.
 

(16 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/16/news/lunga_la_strada_stretta_la_via_ma_la_marcia_cominciata-61185470/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quando Renzi vincerà, il gran ballo comincerà
Inserito da: Admin - Giugno 23, 2013, 11:57:05 pm
Quando Renzi vincerà, il gran ballo comincerà

di EUGENIO SCALFARI


CI SAREBBERO oggi molti temi da passare al vaglio; riguardano i mercati, la liquidità, l'accoppiata Iva-Imu, il lavoro, la corruzione. Ma il numero uno dal quale partire riguarda una persona ed un nome. Strano a dirsi: non è Berlusconi, è Matteo Renzi, sindaco di Firenze e probabile candidato alla segreteria del Pd e alla leadership di quel partito. Scioglierà la riserva il primo luglio prossimo ma dall'aria che tira la sua decisione sembra affermativa. E se dirà sì, vincerà perché non ha veri avversari capaci di sbarrargli la strada.

Renzi propone un partito con "vocazione maggioritaria". Queste due parole significano un partito che combatta da solo per un riformismo radicale con forti venature di liberismo, ma attento anche a non perdere voti a sinistra; sensibile quindi ai temi del lavoro, ad un nuovo "welfare", a incentivi alle imprese, alla diminuzione del cuneo fiscale, ad un ribasso dell'Irpef, al taglio di ogni finanziamento pubblico ai partiti.

Cercherà di recuperare voti dal grillismo in decadenza e dagli elettori che hanno abbandonato Berlusconi rifugiandosi nell'astensione ma che non voterebbero mai un partito con connotati socialdemocratici. E infine un partito che non metta le dita negli occhi a Berlusconi (Renzi ha dichiarato che voterà contro la sua ineleggibilità perché vuole sconfiggerlo politicamente e non per via giudiziaria).

Una legge elettorale con premio a chi prenda consensi almeno del 40 per cento dei votanti. Questa
è la "vocazione maggioritaria".

La definizione non l'ha inventata Renzi, la coniò e ne fece la sua bandiera nelle elezioni del 2008 Walter Veltroni. Incassò il 34 per cento dei voti e fu giudicata dall'allora nomenclatura di quel partito (nato pochi mesi prima) una sconfitta, mentre a guardar bene le cose era una vittoria avendo raggiunto la cifra massima che il Pci di Berlinguer aveva toccato a metà degli anni Settanta.

Veltroni, in pura teoria, dovrebbe dunque essere lui il candidato che incarni la vocazione maggioritaria ma - vedi caso - si è autorottamato sotto la spinta di Matteo e quindi è fuori concorso.

Dunque Renzi. Tutto bene? Tutti contenti? Parrebbe di sì, con qualche eccezione, ma non stiamo a cincischiare e ad asciugare gli scogli, Renzi vincerà e Berlusconi con i processi e le sentenze se la vedrà per conto proprio. Se decidesse di andarsene in pensione ad Antigua o in qualche altro sito ameno, Matteo gli farà certamente un regalino, un dolcetto, un ricamo, insomma una gentilezza.

Ma Letta e il suo governo? Questo è il punto. Non pensate male: Matteo ha stima di Letta. Lo lascerà lavorare fino a quando avrà realizzato lo scopo per il quale il governo è stato nominato ed è sostenuto dalla strana maggioranza che conosciamo.

Lo scopo, ecco il punto. Su questo Matteo ha idee chiarissime: deve fare quelle tre o quattro cose che la gente si aspetta in tempi di vacche magre: un po' più di lavoro ai giovani, un po' di soldi agli esodati, un po' di cantieri per opere pubbliche locali, l'abolizione del patto di stabilità per i Comuni virtuosi, Senato federale senza poteri di fiducia. E poi a casa. Quando? Mica subito. Diciamo che le elezioni si faranno a primavera del 2014. Letta può lavorare tranquillo fino a Natale prossimo, poi a marzo campagna elettorale e Renzi premier nel prossimo maggio. Questo è quanto.

C'è un punto però: dal prossimo primo luglio, cioè tra una settimana, quando Renzi scioglierà la riserva, tutti gli interessati in Italia e in Europa (e anche in America) sapranno quello che accadrà poi. E comincerà il ballo: sullo "spread", sui tassi di interesse, sulla speculazione contro il nostro debito sovrano, sull'evasione fiscale, sul rigorismo tedesco e via enumerando. Un ballo che durerà almeno un anno, per cui quelle "tre o quattro cose" che Letta dovrebbe fare entro il prossimo marzo finiranno nel pallone. Il fatto che il congresso riguardi soltanto la carica di segretario del partito non cambia le cose perché se Renzi lo diventerà avrà la guida di una gamba del tavolo parlamentare, e che gamba!

Dunque niente Renzi? A me era antipatico, poi a Firenze, nel corso della nostra "Repubblica delle Idee" l'ho conosciuto e mi è parso simpatico; ma le cose stanno esattamente come ho fin qui esposto. Se si presenta vince, se vince comincia il ballo (al quale anche Berlusconi parteciperà).
Allora gli scogli bisognerà asciugarli e francamente non vedo nessuno che ci possa riuscire.

***

Ma i mercati - mi si obietterà - sono agitati anche adesso, da qualche giorno le Borse perdono colpi in Europa, ma anche a Tokyo e anche a New York; lo "spread" italiano (e quello spagnolo) hanno perso terreno, il nostro veleggiava verso i 240 punti e adesso è di poco sotto ai 300; il dollaro è debole rispetto all'euro, la Fed fa intravedere che tra sei mesi potrebbe cessare l'acquisto di titoli di Stato e aumentare il tasso di sconto. Draghi dal canto suo è alle prese con i falchi della Bundesbank, dietro ai quali, secondo i sondaggi, c'è il 48 per cento degli elettori che vorrebbe l'uscita della Germania dall'euro.

Ebbene sì, i mercati sono allarmati per tutti questi "rumors" ai quali bisogna aggiungere anche la crisi di governo in Grecia, ipotesi tutt'altro che incoraggiante. Ma sono cosucce, pinzellacchere come avrebbe detto Totò. Ci fanno misurare che cosa accadrebbe quando il gran ballo ripartisse avendo l'Italia come epicentro.
Intanto noi dobbiamo risolvere, entro la settimana che comincia domani, il problema del rinvio dell'Iva per almeno sei mesi, che porta con sé l'abolizione dell'Imu (il problema del rimborso è di fatto archiviato). Per fare queste operazioni ci vogliono, secondo una stima attendibile, otto miliardi che non ci sono. Letta e Alfano hanno deciso di attendere Saccomanni il quale venerdì aveva incassato l'uscita formale dell'Italia dalla procedura di infrazione per eccesso di deficit. Gli effetti concreti di quell'uscita - che valgono una disponibilità di risorse per mezzo punto di Pil, pari a una decina di miliardi - si produrranno a gennaio 2014, ma il tema dell'Iva è invece immediato ed è richiesto con forza dal Pdl, dal Pd, dai commercianti e dagli industriali. Scrivendone domenica scorsa dissi che Saccomanni avrebbe trovato la soluzione. La conosceremo domani o al massimo martedì, ma mi sento di confermare quanto scrissi la settimana scorsa: il ministro del Tesoro, d'intesa con Letta, proporrà il solo rinvio dell'Iva e delle rate Imu all'autunno (ottobre-novembre). Per l'Imu l'imposta sarà abolita e sostituita con un'imposta sugli immobili quale esiste in tutti i paesi dell'Occidente, nel quadro d'una riforma generale del fisco. Per l'Iva si manovreranno le aliquote per scelte merceologiche secondo criteri di equità. Nel frattempo, entro le prossime quarantott'ore, ci vogliono dai 3 ai 4 miliardi per rinviare l'Iva di sei mesi e indennizzare i Comuni per il rinvio dell'Imu. Non avendo "tesoretti" da mettere sul tavolo, ci vorranno nuove imposte o tagli equivalenti. Una soluzione sarebbe di colpire le rendite, un'altra di alienare o cartolarizzare beni pubblici di facile spendibilità: sarebbe un taglio "una tantum" ma anche il rinvio Iva è un "una tantum".

Credo che sarà questa la strada. Si tratta di una scelta di forza maggiore e anche Alfano - dopo aver schiarito l'ugola con qualche colpo di tosse - dovrà rassegnarsi e digerire il rospetto. È molto piccolo rispetto a quanto può arrivare.

***

Aggiungo, per chiuderla qui, che se le politiche economiche hanno un senso, all'eventualità di una politica meno espansiva della Federal di Bernanke (o del suo successore) la Bce dovrebbe agire in senso opposto. Se Bernanke chiude il rubinetto perché spera che l'America stia superando la crisi, Draghi deve mantenerlo aperto affinché i mercati non sentano la stretta. E se il cambio euro-dollaro vedesse un indebolimento controllato della moneta europea, per esempio attorno a 1.20 dollari per un euro, sarebbe un fenomeno positivo per le nostre esportazioni e una politica anticiclica come è compito della Banca centrale.

Ci vuole una ferma e prestigiosa pressione di Letta e di Hollande (con l'appoggio di Obama e di Cameron) nei confronti di Merkel e di Schäuble, e della Corte di Lussemburgo nei confronti di quella di Karlsruhe. Insomma un'azione politica di lungo raggio che è la condizione permanente per consentire a Letta di fare quelle "tre o quattro cosucce" delle quali c'è estremo bisogno.

Post scriptum. La notizia sulla quale richiamo l'attenzione dei lettori è la decisione di Mediobanca di metter fine alla politica dei patti di sindacato che, per oltre mezzo secolo, hanno ingessato il capitalismo italiano in una situazione di oligopolio finanziario e industriale.

Mediobanca uscirà gradualmente ma senza ripensamenti da quasi tutti i patti di sindacato o alleggerirà molto la sua presenza. I sindacati dei quali si tratta sono la Telecom (Telco), la Rizzoli, la Pirelli, l'Italmobiliare. Nelle Generali scenderà del 3 per cento restando azionista col 10.

Si tratta d'una novità assai importante che aumenterà la concorrenza e attirerà fondi di investimento e investitori istituzionali esteri. Dopo mezzo secolo Mediobanca toglie le bende a un sistema che era ormai mummificato, si tratta di un evento positivo che come tale va valutato.

(23 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/23/news/quando_renzi_vincer_il_gran_ballo_comincer-61676144/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel piatto di lenticchie per un'Italia affamata
Inserito da: Admin - Giugno 30, 2013, 05:00:40 pm

Quel piatto di lenticchie per un'Italia affamata

RITORNA vincitore? Molti sostengono di sì e fanno l'elenco delle vittorie ottenute da Letta al vertice di Bruxelles: un miliardo e mezzo per l'occupazione dei giovani, l'attivazione di prestiti per le piccole imprese da parte della Bei, l'approvazione definitiva dell'uscita dall'Italia dal procedimento d'infrazione del deficit, i complimenti della Merkel per i compiti a casa scrupolosamente portati a termine. Ma molti altri sostengono invece che si tratta d'un pugno di mosche o d'un piatto di lenticchie.

Che il tesoretto sia quantitativamente modesto è certamente vero, ma che a Bruxelles sia avvenuta una svolta positiva nella politica economica europea (e tedesca) è incontestabile, soprattutto se si esaminano i progressi dell'Unione bancaria voluta da Francia, Italia e Spagna e soprattutto dalla Bce. C'è ancora molto da fare sul tema delle garanzie dei depositi, ma il principio è stato ribadito e questo è un fatto di grande importanza che mette i debiti sovrani al riparo da eventuali dissesti bancari.

Nel frattempo, mentre Bernanke si propone di metter fine all'espansione della liquidità e di rialzare sopra lo zero attuale il tasso di interesse, Draghi non lo seguirà né sull'una né sull'altra di queste decisioni. Questo è il vero aspetto positivo del vertice di Bruxelles di cui l'Italia è stata uno dei protagonisti.

Non si poteva sperare di più; anche se la svolta è appena agli inizi.

Ma - obiettano i critici - la strana coalizione che sostiene il governo è sempre più rissosa. Berlusconi al mattino promette appoggio pieno e leale a Letta, nel pomeriggio spara contro la politica del governo, alla sera minaccia elezioni a breve scadenza e prepara un nuovo partito d'assalto che sarà il motore d'una vasta coalizione.

Il tormentone non ha tregua e il governo delle larghe intese non potrà reggere a lungo. Sarà un miracolo se arriverà alla fine dell'anno. È così?

In realtà non è così perché questo non è mai stato e non si è mai proposto di essere un governo di larghe intese, di pacificazione e di definitiva concordia. Questo, al di là delle opportune ipocrisie che fanno parte del cerimoniale, è stato fin dall'inizio un governo di necessità e di scopo. Si è concentrato - come il presidente del Consiglio non cessa di ripetere - sulle politiche concrete, sui temi che interessano la gente, i giovani, i lavoratori, le imprese, i consumatori, il Mezzogiorno. Le politiche, al plurale, non la visione politica globale che semmai tocca ai partiti e ai movimenti di elaborare.

Questo è un governo a termine, lo sappiamo tutti. Tra un anno avremo le elezioni europee la cui importanza non può sfuggire a nessuno. Poco dopo, nel luglio 2014, avrà inizio il semestre di presidenza europea spettante all'Italia e sarà Letta a presiederlo. Con ogni probabilità all'inizio del 2015 il governo sarà dimissionario e la legislatura avrà termine.

A quella data, Berlusconi avrà quasi ottant'anni. Quali che siano state nel frattempo le sue vicende giudiziarie, il suo percorso politico si chiuderà. La strana alleanza, non essendo più necessaria, cederà il posto al normale scontro politico tra conservatori e riformisti o se volete tra destra e sinistra, tra chi mette l'accento sulla libertà senza ignorare l'esigenza dell'equità sociale e chi lo mette invece sull'eguaglianza purché conviva con la libertà e i doveri con i diritti. Cioè la normale dialettica di ogni democrazia. Sempre che l'Europa stia uscendo dalla crisi che ormai da tre anni ci tormenta ed abbia imboccato la strada di uno Stato federale.

Questo percorso non ha alternative. Abbiamo più volte scritto che l'uscita dell'Italia dall'euro, vista come un modo per superare il divario di produttività rispetto agli altri Paesi del continente, è una solenne sciocchezza. Il ritorno alla liretta equivarrebbe ad un vero e proprio "default" che ci farebbe precipitare al di sotto di tutti i Paesi mediterranei abbandonandoci nelle braccia della speculazione. Capisco che Grillo indulga a quest'ipotesi, spesso adombrata anche da Berlusconi: puntano tutti e due a prender voti dai tanti allocchi che attribuiscono all'euro gli antichi e nuovi mali dei quali soffriamo. Capisco assai meno che analoghe tesi siano sostenute da un finanziere come Caltagirone che non ha ambizioni politiche e dovrebbe avere qualche nozione di finanza e di economia.

***

Accanto alle "politiche" il governo Letta ha anche lo scopo di avviare un pacchetto di riforme costituzionali. Qui, a nostro avviso, è stato commesso un errore: si sono escluse riforme che tocchino la prima parte della Costituzione, quella che riguarda i principi, lasciando invece libero il campo a riforme che il Parlamento dovrà avviare senza stabilire esplicitamente quali.

Siamo per fortuna ancora in tempo poiché la legge costituzionale è ancora allo studio e sarà poi trasmessa al Parlamento seguendo la procedura immaginata di affidarne la redazione alla Commissione bicamerale competente e poi, per la decisione definitiva, alle due Camere secondo il dettato dell'articolo 138 rinforzato da vari referendum finali sui singoli beni.

E bene, i temi in realtà sono soltanto tre e sarebbe opportuno precisarli per evitare sortite spesso inconsulte: la riforma del Senato e del bicameralismo perfetto, che non esiste in un nessun Paese dell'Occidente; l'abolizione delle Province; il taglio nel numero dei parlamentari e dei senatori.

Queste sono le riforme da portare a termine. L'abolizione del finanziamento dei partiti è già stata oggetto di una legge del governo della quale urge l'inizio della discussione parlamentare. La riforma della giustizia civile è già parzialmente iniziata e va rapidamente condotta a termine. La legge elettorale, che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all'apposita commissione dei 40 va a nostro avviso rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un improbabile ma possibile ritiro della fiducia al governo da parte di un partito della strana maggioranza avvenga senza che l'abolizione del "Porcellum" sia avvenuta.

Non dico che la nuova legge elettorale debba esser fatta subito; dico soltanto che non deve essere ingabbiata e condizionata dalle riforme costituzionali. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento.

***

Ci sarebbero molti altri argomenti da esaminare: i tagli di spesa per procurare risorse aggiuntive, la riforma del fisco che farà parte della legge di stabilità del prossimo autunno. E poi il congresso del Partito democratico.
Sui temi della spesa e del fisco segnalo due importanti e chiarificatrici interviste di venerdì scorso: quella del ministro Giovannini su Repubblica e quella di Fabrizio Saccomanni sul Corriere della Sera.

Una parola sul congresso del Pd. Che il dibattito, come sempre dovrebbe avvenire, abbia inizio nelle istanze di base locali, sezioni o circoli che siano, mi sembra ovvio. Qual è il tema per un partito che sembra aver smarrito la sua identità? Appunto quello, la visione della società come la concepiscono i militanti che dal basso la trasmettano alle istanze regionali e nazionali. Alfredo Reichlin ha ben interpretato questo percorso affidando un suo documento alla lettura online nel sito del partito. Altrettanto faranno Renzi, Cuperlo, Fassina, Civati, che siano candidati oppure no alla segreteria del partito.

Questo è il dibattito sull'identità, il quale culminerà poi con le primarie nazionali come è sempre avvenuto da quando esiste il Pd.

Altra cosa è l'elezione del candidato alla presidenza del Consiglio. Le elezioni politiche non sono imminenti e comunque non si elegge un candidato a guidare il governo nel momento in cui un governo c'è ed è guidato da un'eminente personalità del Pd. L'incongruenza sarebbe talmente evidente che non sembra neppure il caso di discuterne.

Post Scriptum. È di ieri la notizia che John Elkann, presidente della Fiat, ha telefonato al Capo dello Stato per informarlo che la sua società è diventata l'azionista di maggioranza relativa del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.

È stato un atto di apprezzabile gentilezza, ma la notizia contiene una realtà alquanto preoccupante. Con una posizione di maggioranza relativa che diventerebbe quasi assoluta nel patto di sindacato azionario, la Fiat avrà la proprietà di tre quotidiani nazionali: il Corriere della Sera, La Stampa, La Gazzetta dello Sport, più una società di libri, molti periodici, molti siti sulla rete, una società unica di pubblicità. Aggiungo che tra gli altri azionisti di Rcs ci sarà anche la Banca Intesa che sottoscriverà gran parte delle azioni inoptate. Forse Elkann avrebbe fatto bene a sottoporre preventivamente l'operazione alla Commissione antitrust visto che si avvia ad assumere nel mercato mediatico una posizione dominante.

La concorrenza su quel mercato c'è, è molto vivace e presumibilmente aumenterà. Non è dunque questo il dato preoccupante, ma lo è il fatto che un gruppo industriale come la Fiat abbia il controllo d'un gruppo mediatico di quelle dimensioni. Il peso dei suoi interessi sullo Stato e sulle regioni diventerebbe schiacciante, con conseguenze preoccupanti sulla politica economica e sociale del Paese.


(30 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Modello Midas per il congresso Pd
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2013, 06:15:06 pm
Opinioni

Modello Midas per il congresso Pd

di Eugenio Scalfari

Nel 1976 Craxi divenne il capo del Psi grazie ai giochi di potere tra le correnti: invece di durare un anno restò fino al 1992.

Chi credeva di usarlo per far fuori gli altri fu fatto fuori da lui. Anche i democratici di oggi sono frantumati...

(25 giugno 2013)

Dovrei oggi occuparmi della situazione del Partito democratico dopo la strana sconfitta delle elezioni politiche nel febbraio scorso e la strana vittoria alle amministrative di maggio. Due stranezze, e ora un congresso alle viste nel prossimo novembre e un partito accucciato in una crisi di identità e frantumato in una decina di correnti, correntine e spifferi. Dovrei occuparmene, ma non ne ho molta voglia, non ho voglia di prender posizione per questo o quello, vecchi leader consunti dal tempo o giovane guardia divisa in cento rivoli. Del resto questa rubrica si chiama "Vetro soffiato" e vuol dire che debbo parlare lateralmente dei temi che ci propone l'attualità. Ed è proprio questo che farò: vi racconterò che cosa accadde all'Hotel Midas a Roma nel luglio del 1976, dove si riunì il comitato centrale del Partito socialista italiano per eleggere il suo segretario.

A quell'epoca i segretari in tutti i partiti venivano eletti non dal congresso ma dal comitato centrale, una sorta di elezione di secondo grado. Bene. Il segretario del Psi era all'epoca Francesco De Martino, il presidente ormai ottantenne Pietro Nenni. Si stimavano e reciprocamente si sopportavano. Anche De Martino era vecchio ma di qualche anno meno di Nenni il quale diceva spesso ai suoi, quando lo pregavano di intervenire per ridare slancio al partito: «Oh, se avessi i miei settant'anni!». Portava le bretelle e la cintura dei pantaloni gli arrivava al petto ma la testa era vigilissima. Con lui si identificava la corrente autonomista guidata da Giacomo Mancini, che aveva inaugurato il centrosinistra 14 anni prima.

Il centrosinistra del '76 era sfiancato, il Psi frazionato anch'esso in correnti, correntine e spifferi. De Martino non voleva nemici a sinistra, ma del partito si occupava poco anche lui. Era il capo della corrente di maggioranza che rappresentava il 40 per cento dei militanti. Gli autonomisti registravano sì e no il 15; la sinistra di Lombardi, De Michelis e Signorile il 35. A questi ultimi due piacevano molto le donne e naturalmente non erano i soli: Bacco e Venere erano allora le divinità più frequentate dai dirigenti giovani del Psi, Manca e poi Craxi non eccettuati. Giolitti aveva un posto a sé, era rispettato da tutti e proprio per questo di scarsa efficacia operativa. De Martino tornava a Napoli appena poteva; in realtà pendolava tra le due città. Voleva sempre "equilibri politici più avanzati" ma ogni tentativo in quel senso finiva sempre con equilibri più arretrati. L'avevo intervistato nel primo numero di "Repubblica" nella sua bella casa al Vomero con vista sul mare, in una stanza ariosa che conteneva 40 gabbie di canarini. Per ottenere il silenzio durante l'intervista lui aveva coperto ogni gabbia con salviette di tela bianche predisposte per la bisogna.

Nel comitato centrale di luglio Manca aveva predisposto il "parricidio": era stufo d'essere il vice. Ma il parricidio gli ripugnava. Andò da Mancini, gli propose che si sarebbe ufficialmente astenuto ma che almeno metà dei suoi voti si sarebbero spostati su Mancini il quale però non voleva agire per conto terzi. La decisione fu la scelta di Craxi come killer di De Martino. A quell'epoca era ancora una specie di "nessuno", sarebbe stato un segretario di transito. Decise così le cose, Craxi risultò eletto di stretta misura con l'opposizione della sinistra. Nel discorso di insediamento il neo eletto disse che sarebbe stato il segretario di tutti.

Le tappe seguenti avvennero così: Craxi fece alleanza con Manca, gli promise che avrebbe tenuto quel posto per un anno e non di più. Poi, come primo provvedimento, d'accordo con Manca liquidò Mancini che l'aveva fatto eleggere. Successivamente, sempre d'accordo con Manca, staccò De Michelis da Lombardi con la neutralità di Signorile. Sapeva come prenderli tutti e due. A quel punto i seguaci di Manca erano ridotti al 20 per cento e si allinearono anche loro.

Craxi governò il Partito e il sottogoverno (e poi anche il governo per tre anni e mezzo) dal '76 al '92. A quel punto il Psi aveva già cambiato la sua natura antropologica e quando due anni dopo Berlusconi fondò Forza Italia, i socialisti salvo pochissime eccezioni finirono tutti con Berlusconi dove tuttora (sempre salvo pochissime eccezioni) ancora stanno. Che c'entra tutto questo con la situazione del Pd di oggi? C'entra molto e se ci riflettete ne capirete il perché.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/modello-midas-per-il-congresso-pd/2209777/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel ministro non può restare al suo posto
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:54:07 am

Quel ministro non può restare al suo posto

di EUGENIO SCALFARI


ANGELINO Alfano non si dimetterà da ministro dell'Interno e da vicepresidente del Consiglio nonostante l'immane pasticcio di cui è responsabile per l'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua e la sua consegna al regime dittatoriale del Kazakistan. Non si dimetterà perché Berlusconi lo incoraggia a restare al suo posto, Enrico Letta cerca di evitare la crisi di governo che avverrebbe qualora il premier sconfessasse il suo vice e il Pd ha dal canto suo le medesime preoccupazioni.

Il partito democratico è pressoché unanime nel considerare Alfano responsabile di quanto è avvenuto, sia che ne fosse al corrente, sia che (come lui afferma) fosse stato tenuto all'oscuro dai suoi più intimi collaboratori; ma il gruppo dirigente ha invece deciso, sia pure turandosi il naso, di non votare la sfiducia ad Alfano per evitare una crisi di governo con conseguenze nefaste sull'economia, sui mercati, sulla credibilità italiana in Europa che il pasticcio kazako ha comunque fortemente indebolito.

La conseguenza di questi fatti, che messi insieme determinano un vero e proprio evento politico, sarà comunque una crisi profonda del governo e del Pd, la cui base è in gran parte profondamente scontenta di quanto è accaduto e soprattutto di quanto non è accaduto, con tutte le conseguenze che questo scontento provocherà.

Il nostro giornale ha dato ampio conto dei fatti di questi giorni e la nostra posizione è stata nettamente manifestata dall'intervento di Ezio Mauro lunedì scorso e nei giorni successivi dai nostri principali editorialisti. Noi siamo per le dimissioni di Alfano e per un voto conforme da parte del Pd, anche se ci rendiamo perfettamente conto delle conseguenze negative d'una crisi di governo. Vorremmo cioè che il governo Letta continuasse nell'opera intrapresa che riteniamo positiva nonostante le difficoltà che deve superare. Non vorremmo affatto una crisi di governo ma giudichiamo che in ogni caso il rischio vada affrontato perché un cedimento costerebbe l'implosione a breve scadenza di quel partito e quindi del perno della sinistra democratica italiana.

Personalmente  -  oltre a condividere pienamente queste valutazioni  -  penso che non sia nell'interesse politico di Berlusconi la prova di forza sul caso Alfano.

Conosco Berlusconi da quarant'anni. Siamo stati concorrenti quando era semplicemente un imprenditore televisivo. Amici mai, già allora troppe cose ci dividevano, interessi e valori; ma conoscenti sì, fino alla sua entrata in politica. Da allora non ci siamo mai più né visti né parlati. Ma ora, in quest'occasione, ritengo opportuno fargli presente che i suoi interessi (non parlo di quelli generali sui quali abbiamo opposte valutazioni) dovrebbero consigliargli di far ritirare Alfano dal governo e sostituirlo con altra persona di sua fiducia e più adatta a ricoprire gli incarichi governativi che gli spettano.

A Berlusconi, qualunque sia il vero giudizio che dà dell'attuale segretario del suo partito, di Alfano non importa nulla. Gli è servito e gli serve anche se i contrasti tra loro non sono mancati. Ma gli serve assai di più che il governo Letta resti in carica per tutto il tempo non certo breve necessario a portare il paese fuori dalla recessione. E gli serve, affinché questo avvenga, che il Pd non diventi ingestibile, come la presenza al governo di Alfano lo renderà.

L'attuale ministro dell'Interno riaffermi pure la sua "innocenza" nel caso kazako; Letta dia per certa questa tesi e Berlusconi ancora di più, ma suggerisca al suo rappresentante di ritirarsi per ragioni di opportunità. Avvenne già in Italia un caso analogo quando il ministro per la Difesa, Vito Lattanzio, fu indotto dall'allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, a dimettersi per la fuga del massacratore nazista Kappler dal carcere in cui stava scontando la pena inflittagli da una sentenza definitiva. Il ministro era all'oscuro della trama che aveva reso possibile quella fuga, ma Andreotti, su consiglio di Ugo La Malfa, lo invitò pressantemente a dimettersi per evitare che il governo fosse messo in crisi da un suo importante alleato.

Questo dovrebbe fare oggi Berlusconi. Se lo facesse, una volta tanto i suoi interessi coinciderebbero con quelli del paese.

(19 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/19/news/quel_ministro_non_pu_restare_al_suo_posto-63278056/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il solo modo per salvare un governo ammaccato
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2013, 10:03:11 am

Il solo modo per salvare un governo ammaccato

di EUGENIO SCALFARI


LA MOZIONE di sfiducia individuale contro il ministro dell’Interno (e vicepresidente del Consiglio) Angelino Alfano è stata respinta con il voto pressoché compatto dei tre partiti della “strana maggioranza”. Nel Pd ci sono stati tre astenuti e tre assenti nei confronti dei quali (voglio sperare) non ci sarà alcuna censura. Si tratta infatti di un tipico caso di obiezione di coscienza motivato dal fatto che sia Enrico Letta, sia il segretario Epifani e sia il presidente della Repubblica avevano definito il caso kazako come incredibile e intollerabile al punto da rivolere indietro madre e figlia incautamente e inopportunamente estradate in Kazakhstan.

Resta tuttavia in piedi la questione della permanenza al governo di Alfano, sanata solo parzialmente dalla non del tutto provata sua ignoranza dei maneggi dei suoi più intimi collaboratori, in parte già sostituiti nei ruoli che avevano. Enrico Letta ha assunto su di sé la certificazione di quella ignoranza-innocenza, ma resta comunque aperta la questione della responsabilità politica che rappresenta uno dei cardini della pubblica amministrazione. L’ha ricordato ieri su questo giornale Stefano Rodotà, ma – mi piace qui ricordarlo – si tratta di un principio che ha contraddistinto la storia costituzionale italiana fin dai suoi albori, da quando la affermò Marco Minghetti e con lui Ruggero Bonghi e Zanardelli e da quando Silvio Spaventa creò la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato proprio per difendere i cittadini dai possibili arbitrii della pubblica amministrazione.

Nel caso specifico, la responsabilità politica di Alfano risulta tanto più piena e ineludibile in quanto il ministro era perfettamente al corrente delle richieste dell’ambasciatore kazako al quale, qualora le due estradate non dovessero esserci al più presto restituite, il nostro ministero degli Esteri dovrebbe togliere il gradimento e rispedirlo in patria.

Del resto il Senato e in particolare il Pd, come risulta dalla dichiarazione di voto del capogruppo Luigi Zanda, ha votato contro la mozione di sfiducia dando al proprio voto il significato di un voto di fiducia a Letta e al governo da lui presieduto. Lo stesso Zanda ha rilevato che Alfano ha troppi incarichi per poterli adempiere con la dovuta diligenza, una constatazione che lo stesso Alfano, avendo ormai ottenuto il riconoscimento della sua ignorante innocenza ma non certo l’esenzione dalla responsabilità politica che incombe su di lui come un macigno, dovrebbe riconoscere e al più presto dimettersi lasciando al suo partito il diritto di mettere un altro al suo posto.
Questo dovrebbe avvenire, questo ho suggerito venerdì scorso a Berlusconi e questo – penso io – sarebbe gradito anche al Quirinale perché rafforzerebbe il governo nel momento in cui ne ha il maggior bisogno.

Non dovrebbe esser dimenticato da alcuno che dei tre partiti favorevoli al governo il Pd è quello che dispone della maggioranza
assoluta alla Camera e della maggioranza relativa al Senato. È vero che all’attuale formula di governo non ci sono alternative politiche, ma possono esserci alternative numeriche; sicché, qualora le condizioni politiche cambiassero, un’alternativa potrebbe configurarsi sempre che abbia come perno, numericamente e politicamente indispensabile, il Pd. Fino quando durerà questa legislatura senza di loro nulla si può fare. Questo punto è bene sia tenuto presente da tutti, a cominciare dallo stesso Pd che a volte sembra dimenticarsene sia a livello degli organi dirigenti sia a quello dei militanti e degli elettori. *** Non mi pare ci siano altre considerazioni da aggiungere sulla stretta attualità politica e tantomeno sulla sentenza definitiva che riguarda il processo Mediaset alla quale mancano esattamente dieci giorni. Si tratta, come lo stesso interessato-imputato ha più volte riconosciuto, di un evento molto importante per lui ma del tutto distinto dalla vita del governo.

Nessun salvacondotto è disponibile e neppure pensabile, fermo restando che la sentenza può confermare la condanna o decidere di una parziale o totale invalidazione nei limiti dei poteri che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione. Le sentenze, proclamate a nome del popolo italiano, possono essere tecnicamente discusse, ma accettate con rispetto nella loro sostanza. Ripercussioni politiche squalificherebbero chi le mettesse in atto e non penso sarebbero gradite dai cittadini elettori, quali che siano le loro personali convinzioni.

***
Desidero invece riprendere brevemente un tema sviluppato qualche giorno fa sul nostro giornale da Michele Serra, del quale sono amico ed estimatore di quanto pensa e scrive; ma sul suo ultimo intervento intitolato “Dire qualcosa di Sinistra” sento di dovergli sottoporre qualche osservazione.

Serra sostiene che, a partire dalla Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ebbe inizio un cambiamento politico che con fasi diverse ed anche alterne è arrivato fino ai nostri giorni e ancora durerà, sempre opponendo la destra alla sinistra, la prima incline a conservare l’esistente e la seconda a cambiarlo.

La parola che distingue la sinistra è dunque cambiamento, che può andare dal più spicciolo riformismo fino alla vera e propria rivoluzione che tutto abbatta e tutto ricostruisca. Certe volte è preferibile l’uno e altre volte l’altra purché di cambiamenti si tratti visto che questa evoluzione è il destino della nostra specie. C’è chi frena e anche il freno è talvolta necessario purché ceda infine all’acceleratore cioè appunto al cambiamento. Spero di aver fedelmente ricapitolato.

La descrizione di Serra è giusta ma estremamente semplificata. Manca un elemento fondamentale che si chiama realtà, ed un altro ancor più determinante che si chiama “resto del mondo”. Sia la realtà sia il resto del mondo debbono esser tenuti presenti quando
si parla di cambiamento e dei due pedali che lo regolano, cioè il freno e l’acceleratore.

La rivoluzione dell’Ottantanove richiamata da Serra era in realtà cominciata due secoli prima con Colombo e la scoperta del Nuovo Mondo, poi con Galileo e Copernico nella scoperta della nuova scienza e con Montaigne nella cultura e nel pensiero; infine con l’Il-luminismo e l’Enciclopedia.

Di lì comincia un’epoca che si chiamò la modernità e i suoi cambiamenti, i primi dei quali, nella politica propriamente detta, ebbero inizio nientemeno con il regno di Luigi XVI che fu un sovrano riformista anche se alla fine ci rimise la testa insieme alla sua famiglia. Infatti chiamò al governo i fisiocratici e Turgot, indisse dopo circa due secoli la riunione degli Stati Generali e ne accettò la trasformazione in Assemblea costituente, anche per combattere una recessione che stava impoverendo le campagne; infine accettò la Costituzione del 1791 e l’Assemblea legislativa che ne fu il risultato.

Qui si ferma il cambiamento democratico che, avendo perso di vista l’elemento della realtà, si trasformò rapidamente nella dittatura di Robespierre ispirata dai giacobini e dalla Comune di Parigi e culminata nel terrore. Danton cercò di impedire quella deriva e di deviarla nella difesa patriottica contro gli eserciti delle monarchie europee, ma ci rimise la pelle anche lui, insieme ai repubblicani democratici della Gironda. Poi Robespierre fu rovesciato e cominciò il terrore del Direttorio; poi Napoleone e vent’anni di guerre, poi la restaurazione borbonica, poi il regno parzialmente liberale di Filippo d’Orleans, poi la seconda rivoluzione del Quarantotto che coinvolse tutta l’Europa cui seguirono i prussiani da un lato e Napoleone III dall’altro con l’annessa “cuccagna” del primo capitalismo corrotto fin nelle midolla, poi Sedan, poi la Comune e infine la repubblica parlamentare.

Insomma dall’Ottantanove alla fine dell’Ottocento tre anni di cambiamenti progressisti e un secolo di dittature, terrore, stragi, guerre. Seguirono trent’anni di Belle Époque e poi di nuovo terrore, stragi e guerre dal 1914 al 1945. Finalmente una destra e una sinistra accettabili e un capitalismo di tonalità democratica. Nel frattempo però la modernità è terminata. Siamo agli albori di un’epoca nuova, socialmente “liquida”, globale, tecnologica, nella quale il linguaggio è radicalmente cambiato e quindi anche il pensiero che lo articola e ne è articolato.

Questa, caro Michele Serra, è la situazione nella quale dire qualcosa di sinistra, come tu chiedi, è certamente necessario, ma dove la parola che continua a significare cambiamento sta vedendo la fine di un’epoca mentre l’epoca nuova non è ancora cominciata. Per questo siamo liquidi, acqua priva di forma e assenza di contenitori.

Il cambiamento spetterà farlo ai giovani. Tu ed io, caro amico mio, abbiamo vissuto il nostro tempo. Chi vuole il cambiamento e si rivolge a noi può solo essere aiutato a non dimenticare l’esperienza passata ma non ad immaginare il futuro. Sarebbe come aver chiesto a Boezio i rudimenti della civiltà medievale mentre lui aveva in mente ancora la romanità e perciò non era adatto.

(21 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/21/news/il_solo_modo_per_salvare_un_governo_ammaccato-63392738/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Evviva l'improvvisazione
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:39:22 am
Opinioni

Evviva l'improvvisazione

di Eugenio Scalfari

L'azienda è una jam session, spiegano Fresu e Salvemini. Hanno ragione.Dall'auto ai giornali, occorre cogliere i cambiamenti del mercato. Ci vuole estro, ma anche organizzazione. Guai ad adagiarsi sulla routine

(06 giugno 2013)

La prefazione di un libro di Frank J. Barrett che ha un titolo insolito e affascinante ( "Disordine armonico. Leadership e jazz") è intitolata: "L'azienda è una jam session". Intrigante. Perché che cosa c'entra un Marchionne - tanto per fare un nome - o un Diego Della Valle con Duke Ellington o Thelonious Monk o Louis Armstrong?
Invece c'entrano ed ecco perché. In una "jam session" si parte da un ritmo e da una melodia molto scarna, non più di sette-otto note. Il solista, tromba o clarino o sassofono che sia, imposta melodia e ritmo; attorno a lui ci sono altri strumenti ad archi o a fiati o a percussione, tra i quali quelli indispensabili sono il contrabbasso, il pianoforte e la batteria i quali, sul ritmo e su quelle poche note di melodia, impostano una molteplicità di variazioni. Suonano per ore e non è mai la stessa musica a uscire da quegli strumenti né c'è qualcuno che diriga un inesistente spartito anche perché a sua volta il solista, che ha dato il ritmo e lo scheletro melodico, è quello che ancor più degli altri si sbizzarrisce nelle variazioni.

Gli autori della prefazione sono un musicista, Paolo Fresu, e un economista, Severino Salvemini. Il loro testo comincia così: «Bisogna rifuggire dal potere seduttivo della routine e assumersi i giusti rischi per sfidare lo "status quo". Bisogna dunque disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessare il prodotto stimolando gli individui alla massima autonomia. Per improvvisare bisogna però rispettare poche regole. La struttura è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro leader e individualità svettanti, si staglia un collettivo che dà forza e coesione all'intera organizzazione. Altro requisito fondamentale è il dialogo, dove ogni affermazione trova una replica».

Le cose avvengono proprio così in una "jam session" di artisti che suonano musica jazz. Molti suonano fino a notte in locali d'intrattenimento ma poi, invece di andarsi a riposare, si ritrovano in qualche cortile disabitato e fanno mattina per loro divertimento improvvisando nel modo descritto con le parole dei due autori (anche Salvemini è un musicista oltre che economista).

Ma in un'azienda? Che cosa avviene o può avvenire in un'azienda alle prese con le varie fasi dell'invenzione del prodotto, dei modi di produrlo, della confezione con cui presentarlo al pubblico e del marketing per conoscere i destinatari? Noi che facciamo giornali o editori e autori di libri vediamo che spesso anche il nostro fare somiglia a una "jam session". Penso per personale e ormai semi-secolare esperienza alle riunioni mattinali di redazione che debbono produrre il giornale identificando i fatti rilevanti del giorno da mettere in primo piano, come impaginarli, come titolarli, a chi affidarne la scrittura e quale spazio concedergli. Ma il tutto deve avvenire accordando le pagine con la struttura sociale e culturale del pubblico di appartenenza e queste informazioni non te le fornisce solo il marketing con sondaggi sulla diffusione, ma anche i giornalisti che conoscono i lettori e ne ricevono consenso o dissenso sugli articoli pubblicati.

Chi dirige deve tener conto di tutte queste risposte al prodotto messo in vendita, conoscerne i risultati giorno per giorno e tenerne conto per il prodotto successivo senza tuttavia seguire passivamente le preferenze manifestate dai lettori-consumatori. C'è un'interdipendenza tra i lettori di libri e giornali e chi confeziona quei prodotti, gli uni influiscono sugli altri reciprocamente. Non c'è quindi uno spartito e una routine ma un'improvvisazione continua conservando però la linea scelta del ritmo e della melodia.
Ho fatto l'esempio degli autori e degli editori di giornali e di libri. Ma vale anche per un produttore di scarpe o di automobili o di manufatti d'ogni tipo e genere? La risposta di questo libro è affermativa: vale per ogni tipo di azienda. L'industria dell'automobile sforna di continuo nuovi modelli, a volte e per certi mercati punta sulle utilitarie, in altri su berline o limousine o Suv, o jeep con traino a quattro ruote o a volte sull'auto coupé. E non parliamo della confezione del cibo o di una partita di calcio. In questo caso l'obiettivo è sempre quello di subire meno reti possibili e di farne il più possibile ma i modi, lo schieramento e gli allenamenti e la scelta dei giocatori variano di continuo.

Insomma: schema sobrio, leadership chiaramente stabilita, personalità svettanti, collettivo intonato a fungere da sottofondo e improvvisazione. Vale perfino per i partiti politici: se si arroccano su apparati rigidi che ripetono la stessa routine, affondano in pochi mesi.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/evviva-limprovvisazione/2208574/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Modello Midas per il congresso Pd
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:40:06 am
Opinioni

Modello Midas per il congresso Pd

di Eugenio Scalfari

Nel 1976 Craxi divenne il capo del Psi grazie ai giochi di potere tra le correnti: invece di durare un anno restò fino al 1992. Chi credeva di usarlo per far fuori gli altri fu fatto fuori da lui. Anche i democratici di oggi sono frantumati...

(25 giugno 2013)

Dovrei oggi occuparmi della situazione del Partito democratico dopo la strana sconfitta delle elezioni politiche nel febbraio scorso e la strana vittoria alle amministrative di maggio. Due stranezze, e ora un congresso alle viste nel prossimo novembre e un partito accucciato in una crisi di identità e frantumato in una decina di correnti, correntine e spifferi. Dovrei occuparmene, ma non ne ho molta voglia, non ho voglia di prender posizione per questo o quello, vecchi leader consunti dal tempo o giovane guardia divisa in cento rivoli. Del resto questa rubrica si chiama "Vetro soffiato" e vuol dire che debbo parlare lateralmente dei temi che ci propone l'attualità. Ed è proprio questo che farò: vi racconterò che cosa accadde all'Hotel Midas a Roma nel luglio del 1976, dove si riunì il comitato centrale del Partito socialista italiano per eleggere il suo segretario.

A quell'epoca i segretari in tutti i partiti venivano eletti non dal congresso ma dal comitato centrale, una sorta di elezione di secondo grado. Bene. Il segretario del Psi era all'epoca Francesco De Martino, il presidente ormai ottantenne Pietro Nenni. Si stimavano e reciprocamente si sopportavano. Anche De Martino era vecchio ma di qualche anno meno di Nenni il quale diceva spesso ai suoi, quando lo pregavano di intervenire per ridare slancio al partito: «Oh, se avessi i miei settant'anni!». Portava le bretelle e la cintura dei pantaloni gli arrivava al petto ma la testa era vigilissima. Con lui si identificava la corrente autonomista guidata da Giacomo Mancini, che aveva inaugurato il centrosinistra 14 anni prima.

Il centrosinistra del '76 era sfiancato, il Psi frazionato anch'esso in correnti, correntine e spifferi. De Martino non voleva nemici a sinistra, ma del partito si occupava poco anche lui. Era il capo della corrente di maggioranza che rappresentava il 40 per cento dei militanti. Gli autonomisti registravano sì e no il 15; la sinistra di Lombardi, De Michelis e Signorile il 35. A questi ultimi due piacevano molto le donne e naturalmente non erano i soli: Bacco e Venere erano allora le divinità più frequentate dai dirigenti giovani del Psi, Manca e poi Craxi non eccettuati. Giolitti aveva un posto a sé, era rispettato da tutti e proprio per questo di scarsa efficacia operativa. De Martino tornava a Napoli appena poteva; in realtà pendolava tra le due città. Voleva sempre "equilibri politici più avanzati" ma ogni tentativo in quel senso finiva sempre con equilibri più arretrati. L'avevo intervistato nel primo numero di "Repubblica" nella sua bella casa al Vomero con vista sul mare, in una stanza ariosa che conteneva 40 gabbie di canarini. Per ottenere il silenzio durante l'intervista lui aveva coperto ogni gabbia con salviette di tela bianche predisposte per la bisogna.

Nel comitato centrale di luglio Manca aveva predisposto il "parricidio": era stufo d'essere il vice. Ma il parricidio gli ripugnava. Andò da Mancini, gli propose che si sarebbe ufficialmente astenuto ma che almeno metà dei suoi voti si sarebbero spostati su Mancini il quale però non voleva agire per conto terzi. La decisione fu la scelta di Craxi come killer di De Martino. A quell'epoca era ancora una specie di "nessuno", sarebbe stato un segretario di transito. Decise così le cose, Craxi risultò eletto di stretta misura con l'opposizione della sinistra. Nel discorso di insediamento il neo eletto disse che sarebbe stato il segretario di tutti.

Le tappe seguenti avvennero così: Craxi fece alleanza con Manca, gli promise che avrebbe tenuto quel posto per un anno e non di più. Poi, come primo provvedimento, d'accordo con Manca liquidò Mancini che l'aveva fatto eleggere. Successivamente, sempre d'accordo con Manca, staccò De Michelis da Lombardi con la neutralità di Signorile. Sapeva come prenderli tutti e due. A quel punto i seguaci di Manca erano ridotti al 20 per cento e si allinearono anche loro.

Craxi governò il Partito e il sottogoverno (e poi anche il governo per tre anni e mezzo) dal '76 al '92. A quel punto il Psi aveva già cambiato la sua natura antropologica e quando due anni dopo Berlusconi fondò Forza Italia, i socialisti salvo pochissime eccezioni finirono tutti con Berlusconi dove tuttora (sempre salvo pochissime eccezioni) ancora stanno. Che c'entra tutto questo con la situazione del Pd di oggi? C'entra molto e se ci riflettete ne capirete il perché.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un pianoforte chiamato cervello
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:40:52 am
Opinioni

Un pianoforte chiamato cervello

di Eugenio Scalfari

La mente nasce dalla materia. Come la musica dallo strumento. Una scoperta che sconvolge sempre. Anche se è vecchia come il pensiero

(05 luglio 2013)

Il 5 luglio quelli che leggeranno queste mie righe sappiano che avrà inizio a Barolo un Festival letterario dal titolo "Collisioni". Durerà cinque giorni e sarà aperto dallo scrittore inglese Ian McEwan. Scrittore di romanzi ma attentissimo alle ricerche scientifiche e filosofiche sulla mente umana.

Poiché sono anche io molto interessato a quelle ricerche, leggerò con attenzione la relazione di McEwan ma intanto voglio ragionare su quanto il romanziere inglese ha già scritto e detto in varie occasioni sull'argomento. Lo riassumo così: la mente umana nasce in modo materialistico, da una materia grigia situata nella cavità del cranio, alimentata dall'afflusso del sangue e composta da miliardi di cellule e di collegamenti neuronali organizzati in mappe ciascuna delle quali è sede di funzioni che mettono in moto il corpo attraverso fasci nervosi. In quel luogo ancora in larga misura misterioso, nasce la mente e con essa la coscienza. Questo è il fatto sconvolgente: la coscienza nasce dal funzionamento dei neuroni e delle cellule cerebrali che essi collegano. E' possibile dopo una notizia di questo genere non essere profondamente turbati se non addirittura sconvolti?

Questo, in sintesi, è ciò che pensa McEwan che ne ha fatto il nucleo portante di molti suoi romanzi e su questo presumibilmente si aprirà il dibattito con gli altri scrittori e artisti che interverranno al Festival.

La sorpresa "sconvolgente" di McEwan sull'origine materialistica della coscienza non è una novità: gli scienziati che studiano il cervello ci sono arrivati da tempo e da tempo hanno reso noto i risultati delle loro ricerche. Del resto lo stesso Freud partì dalla cultura-psicofisica per costruire la ricerca analitica come metodo di diagnosi e di terapia di alcuni disturbi mentali e per individuare le figure psichiche dell'Es, dell'Io e del Super-Io attraverso le quali cercò di spiegare le varie fasi che partendo dagli istinti li trasformano in sentimenti e pulsioni che il cervello percepisce e alle quali risponde. Ma se vogliamo risalire ancora più indietro, questo tema è stato in realtà il nocciolo di tutto il pensiero, l'arte, e gli accadimenti reali e quelli immaginati.

Pensate a  Shakespeare, a Cervantes, a Rabelais, ad Ariosto, a Dante e su su a Platone, ai sofisti, a Socrate e ai presocratici, per limitarci alla cultura occidentale. La cultura dei sogni, delle profezie e, insieme con essi, della ragione e della scienza. Noi siamo un animale pensante che la storia della nostra specie ha definito ?€“ non a caso ?€“ «homo sapiens»: animale ma sapiente, con desideri istintivi ma consapevoli e una mente capace di riflettere su se stessa. Insomma una scimmia pensante che si vede agire e pensare; questa noi chiamiamo coscienza, anzi auto-coscienza che è una parola ancor più precisa per descrivere questa situazione.
Ho utilizzato più volte, in alcuni dei miei libri dedicati a questi argomenti, un'immagine che può aiutare alla comprensione di questi complessi problemi conoscitivi; l'immagine riguarda il rapporto tra uno strumento musicale come il pianoforte (o qualsiasi altro) e la musica.

Il pianoforte è un oggetto materiale composto di legno, corde di metallo, pedali, tasti d'avorio, martelletti, viti e altri ingredienti. Lo strumento è pronto, nella stanza d'una casa o sul palcoscenico di un teatro. Finché qualcuno o qualcosa non tocchi i suoi tasti, resta muto; quando però viene usato ne scaturisce un suono che chiamiamo musica, rumore organizzato con un suo ritmo, una sua armonia, una sua melodia.

E dunque il pianoforte è un oggetto materiale, la musica è prodotta da quell'oggetto ma è immateriale, composta da onde sonore che i nostri sensi non possono né toccare né vedere ma soltanto ascoltare.

Un rapporto analogo passa tra il cervello e la mente, le cellule cerebrali e i neuroni che le collegano producono immagini e pensieri, concreti o astratti e associazioni di pensieri o idee che mantengono lo strumento cerebrale in continua attività. Un'attività che si attenua ma non scompare quando il corpo cade in sonno.

Il sonno attenua ma non spegne l'attività del corpo, il sangue continua a circolare, il cuore a pulsare, i polmoni a respirare e il cervello a produrre sogni.
La musica dei sogni è assai meno organizzata della mente ragionante ma per certi aspetti più rappresentativa degli istinti che emergono da un "sé" recondito che influisce direttamente sui sogni e che infatti Freud e Jung usarono come strumento di analisi per tentar di decifrare i misteri dell' "Es".

Come vedete, McEwan vede giusto quando dice che la coscienza è un fenomeno materialistico che si manifesta però attraverso immagini, pensieri, volontà, concetti, figure archetipe immateriali. Amleto e Don Chisciotte potrebbero essere utilmente ricordati nel convegno di Barolo e aiuterebbero i convenuti ad approfondire la presenza di questi temi nelle arti e nella letteratura.


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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Per salvare l'Italia il catalogo è questo
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 10:47:08 am

Per salvare l'Italia il catalogo è questo

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO molte iniziative che in queste settimane di luglio si sono addensate e che riguardano in parte il governo e in parte il parlamento, producendo addirittura un ingorgo che metterà a dura prova di calendario le Camere costringendole ad un lavoro molto intenso. Alcuni pensavano che Enrico Letta eccedesse in annunci e rinvii. Si sbagliavano di grosso. Letta e i suoi ministri preparavano i percorsi appropriati. Ci hanno messo pochi giorni e adesso sono tutte o quasi tutte ai nastri di partenza, ma si scontrano, come era prevedibile, con ostacoli e diverso sentire della maggioranza ed un'opposizione di sistema. Questa è la difficoltà o altrimenti detto i nodi che arrivano al pettine.

Il governo delle larghe intese non è mai esistito e non poteva esistere anche se l'ipocrisia che è un elemento della politica l'ha battezzato in quel modo. Abbiamo più volte detto (e l'ha detto esplicitamente anche Letta) che è un governo di necessità e di scopo. Lo scopo è di portare l'Italia e l'Europa fuori dalla recessione. Non è una "cosetta", è un obiettivo che coinvolge ciascun governo dell'Unione e l'Unione nel suo complesso e Letta a questo obiettivo sta lavorando con il nostro parlamento, con i partiti della maggioranza, con l'Unione europea, con la Bce, con i governi dei paesi di maggior peso politico ed economico. Qualche risultato si intravede ma i frutti più consistenti cominceranno ad arrivare nel prossimo ottobre e poi nel 2014.

Lo sbocco è previsto nel 2015 se non interverranno gelate o grandinate che in un'economia globale possono arrivare da qualunque parte del pianeta.

La mitologia greca  -  sembra una divagazione ma invece è pertinente alla situazione che stiamo vivendo  -  diceva che il mondo è dominato da una forza che si chiama "Ananke" che significa necessità e fatalità, alla quale fa fronte un'altra forza che si chiama "Metis" che significa astuzia e fluidità. Spesso Metis riesce a raggirare Ananke. Aggiungo per maggior chiarezza che Metis è la madre di Atena, dea dell'intelligenza e della "polis" cioè della città, della convivenza e della politica. Noi speriamo che Metis e sua figlia Atena prevalgano su Ananke. Il mondo globale è quanto mai liquido e solo Metis può dargli una forma accettabile.

***

Breve elenco delle iniziative da portare a termine. La prima è la riforma della legge elettorale. La vogliono tutti a parole, pochissimi nei fatti. Tra i pochissimi c'è il presidente Napolitano, c'è Letta, c'è Epifani e buona parte del Pd. Per quel tanto che vale c'è anche questo nostro giornale. Non una legge di semplice garanzia ma una riforma vera e propria che abolisca la "porcata" vigente e la sostituisca con una legge che dia al tempo stesso possibilità ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti, un'equa rappresentanza alle forze politiche e una sufficiente governabilità.

Gli studi in proposito sono già molto avanzati. Il Pd prenda dunque l'iniziativa di proporla e chi ci starà ci starà, dentro o fuori della maggioranza. La legge elettorale non ha carattere costituzionale e non mette in discussione il governo. Potrebbe essere discussa e approvata dal parlamento già per ottobre e anche prima.
Poi viene il resto e non è da poco. La legge sul finanziamento dei partiti. Leggo su alcuni giornali che quella presentata dal governo non abolisce il finanziamento pubblico. È falso, lo abolisce con un approccio graduale di due anni salvo alcune facilitazioni sulle tariffe postali della spedizione del materiale di propaganda. Naturalmente i "tesorieri" dei partiti  -  tranne i 5 Stelle  -  vorrebbero conservare un po' di sostegno pubblico ma Letta ha imboccato una strada diversa con la quale noi concordiamo totalmente. Perciò, se necessario, ponga la fiducia.

La legge sull'omofobia. L'ostruzionismo dei grillini contro il disegno di legge sulle riforme costituzionali ha sconvolto il calendario, ma l'omofobia non può e non deve aspettare. Se necessario si restringano al minimo le vacanze parlamentari ma la si voti subito.

A settembre arriverà il momento di discutere e votare la riforma costituzionale preparata dalla Commissione costituzionale delle due Camere in sede referente e non deliberante. Mi permetto di raccomandare che siano quelle strettamente necessarie e cioè l'abolizione delle Province (che Letta ha già svuotato dei poteri) il taglio del numero dei parlamentari e il Senato federale senza più il bicameralismo perfetto che non esiste in nessun Paese europeo (e del mondo).

Ingroia, con Vendola e Grillo, parla di soppressione dell'articolo 138 e di conseguenza di vero e proprio golpe costituzionale. Ma non mi pare che esista nulla di tutto questo. Nel progetto di legge l'articolo 138 è scrupolosamente rispettato e c'è addirittura un'estensione del referendum confermativo anche per le riforme che avessero ottenuto alle Camere la maggioranza qualificata che esclude l'obbligo referendario. Mi sembra che sia un rafforzamento e non l'abolizione del 138.
Il catalogo è questo. Il tempo necessario arriva fino al semestre di presidenza europea assegnato all'Italia e quindi a Enrico Letta con scadenza al 31 dicembre del 2014. Poi, nei primi mesi del 2015 il governo si dimetterà e chi avrà tessuto di più ne raccoglierà i frutti.

Nel frattempo però si pone la questione non marginale del congresso del Partito democratico.

***

Il Pd è ancora accartocciato su se stesso. Non ci sono leader, così leggo in quasi tutti i giornali, salvo Matteo Renzi. A me non sembra che Renzi sia il solo, anche se ha carisma e una sua corrente ormai numerosa.

Epifani è un buon segretario e può aspirare ad essere eletto dal congresso. Cuperlo anche. Civati è un oppositore consapevole. Ma poi ci sono persone come Chiamparino, Fassino, Barca, Bindi, Rossi, ma anche Veltroni, anche Bersani, anche D'Alema.

Si dirà: è la vecchia nomenclatura. In parte sì ma in parte no. Non Renzi, non Cuperlo, non Civati, non Barca. Molti sono stati rottamati o si sono autorottamati ma se decidessero di candidarsi e piacessero agli elettori non esistono che io sappia impedimenti alla loro elezione. Dico queste cose solo per segnalare che tra vecchi e nuovi la classe dirigente del Pd è ricca di nomi nessuno dei quali ha l'età di Matusalemme.

Le regole. Le primarie finora sono sempre state aperte. Io personalmente non sono mai stato iscritto al Pd ma ho partecipato a tutte le primarie votando Veltroni, Franceschini, Bersani. Nessuno di loro è stato presidente del Consiglio. Alle primarie di coalizione ho sempre votato Romano Prodi e lo voterei ancora.

Penso che si voti il segretario e non il candidato premier. Primarie aperte per il segretario. Quando si dovrà scegliere a fine legislatura il candidato per la premiership sarà il segretario a decidere se vuole presentarsi anche in quella occasione oppure no. Spetta solo a lui una decisione che lo vedrà sfidarsi con gli altri contendenti.

***

Quando leggerete questo note mancheranno due giorni alla sentenza della Cassazione sul processo Mediaset. La precedente sentenza ha condannato in appello l'imputato Berlusconi a quattro anni di carcere (tre condonati per indulto) e a cinque anni di decadenza dai pubblici uffici.

È opportuno non fare previsioni sulla sentenza, salvo che essa non può che riguardare questioni di diritto e non un nuovo approfondimento dei fatti che restano in ogni caso quelli accertati dalla Corte di appello.

Se sarà un sentenza di conferma, la Camera di appartenenza (in questo caso il Senato) dovrà ratificare la sentenza per renderla applicabile. Normalmente si tratta di una pura formalità poiché la commissione del Senato non può mettere in discussione le decisioni di un giudice ordinario. Ma qualora i senatori del Pdl perdessero la testa, la maggioranza ci sarebbe comunque perché è da immaginare che i senatori di tutti gli altri gruppi ratificherebbero il pronunciamento della Cassazione.

Il governo subirà contraccolpi? Berlusconi lo ha più volte escluso. Per quanto mi riguarda lo prendo in parola. E Alfano?

Il tema della sua responsabilità politica sul caso Shelabayeva è ancora in piedi e lui lo sa. Sarebbe opportuno che ne traesse le conseguenze. Personalmente sono quasi convinto che non sapesse dell'estradizione ma sono altrettanto convinto che un ministro dell'Interno, preventivamente informato dei precedenti, avrebbe dovuto esser lui a chiedere notizie sul seguito di quella pratica. Non è dunque soltanto politicamente responsabile di quanto è avvenuto, ma anche tecnicamente inadeguato a ricoprire quel ruolo. Perciò in punta dei piedi se ne deve andare e sarà un bene soprattutto per lui oltreché per il governo.

(28 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quando il ronzio si fa monumento
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:22:51 am
Quando il ronzio si fa monumento

di Eugenio Scalfari

Secondo Walter Siti nelle opere di Montaigne e dei suoi discepoli manca la struttura. E così la frammentazione del pensiero diventa rumore diffuso. Invece l'organicità è spesso data proprio dalla molteplicità

(18 luglio 2013)

Non ho letto finora i romanzi di Walter Siti, ma quello che ha vinto lo Strega l'ho già comprato e lo leggerò durante le mie imminenti vacanze. Leggo invece i suoi articoli su "Repubblica" che trovo sempre interessanti e che spesso condivido, ma non sono affatto d'accordo con l'ultimo, intitolato "Il nuovo protagonismo dei figli di Montaigne". Il sottotitolo è decisamente impietoso e recita: "Spesso la superficialità sostituisce struttura e disciplina. Il rischio che corrono molte opere è la carenza meditativa".

Accidenti! poiché mi considero uno dei molti figli dell'autore degli "Essais" son corso a leggere la scomunica di Siti che riassumo così: l'autore degli "Essais" si oppone al pensiero dogmatico e salta di palo in frasca. Non è detto naturalmente che il dilettantismo sia sempre superficialità, ma talvolta può diventarlo quando rifiuta la struttura meditativa rischiando di diventare "bricolage". L'ambivalenza del mondo, che la si rappresenti in un saggio o in un romanzo, è nutriente solo se la si affronta con una devozione maniacale alla precisione della struttura. Il nuovo stile che sta nascendo dal ronzio ha bisogno di nuovi monumenti, non di schiuma.
Spero d'aver reso fedelmente il pensiero di Siti. Debbo dire che ho tratto un respiro di sollievo, dal titolo temevo il peggio non tanto per Montaigne quanto per i suoi figli. Alcuni immagini di Siti mi sono anche piaciute ma debbo dire che non ho capito bene il suo pensiero.

Ho capito che per lui la struttura è indispensabile e richiede una «attenzione maniacale». Ho capito che sta nascendo un nuovo stile, ma quale? Quali opere lo rappresentano nella saggistica e nella narrativa? In Italia e fuori d'Italia? Siti aggiunge che finora il nuovo stile ha dato luogo soltanto a un ronzio (quest'immagine è assai efficace) ma ora ci vuole un monumento. Certo, ma qual è il ronzio?

Personalmente un'idea sul ronzio io ce l'ho, ma forse non è la stessa di Siti. Per me il ronzio è esattamente la modalità o se volete il "format" che Montaigne adottò negli "Essais", La Rochefoucauld nel "Maxims", Pascal nei "Pensées ", Baudelaire nei "Fleurs du mal" e Nietzsche in tutta la sua opera da "Zarathrusta" a "Gaia Scienza", a "Umano, troppo umano", a "Ecce Homo". Cioè - vedi caso - la voluta mancanza di struttura, la frammentazione del pensiero in aforismi, citazioni, brevi storie, riflessioni profonde ma apparentemente scollegate, voci parlanti, autore direttamente presente nel testo e/o attraverso un suo doppio.

Il romanzo, che è un'opera necessariamente corale, è in crisi per questo e da tempo. Si salva soltanto dove c'è ancora una coralità che ormai è sempre più rara. Il vero grande romanzo moderno sono i "I quaderni di Malte Laurids Brigge " di Rilke. Siti vuole un monumento? E' quello, ma ha già cent'anni. Dopo quello, solo ronzio in Europa. In altre parti del mondo no perché la coralità c'è ancora.

Il discorso sarebbe lungo e lo spazio è tiranno, ma a Siti non mancheranno certo gli argomenti. Vorrei però aggiungere un aspetto alla questione. La struttura si è frantumata, questo è certo, ma perché?

Io credo che la causa stia nel fatto che le contraddizioni interne all'animale pensante che noi siamo sono esplose ed è impossibile rimontarne l'architettura. Non c'è più un'architettura, non c'è più un sistema filosofico, non è più possibile scrivere un trattato. Dopo Hegel e Schopenhauer non esistono più trattati e sistemi. Hegel del resto l'aveva previsto e scritto più volte.

Il pensiero, quello c'è sempre, è un connotato della specie, ma si esprime senza organicità. O meglio, l'organicità interiore a quel pensiero è appunto la sua molteplicità, la sua pluralità e addirittura la sua polverizzazione.

Lo sguardo di "Palomar" fisso sulla sabbia del mare dell'ultimo Calvino: quella è l'organicità e se questo vuol dire Siti quando parla di ronzio, allora ha ragione ma in quel caso è il ronzio a essere il monumento di sé.

 
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il governo è un'istituzione ed è bene ricordarselo
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2013, 11:46:16 am

Il governo è un'istituzione ed è bene ricordarselo

di EUGENIO SCALFARI


Qualche settimana fa, già in vista della sentenza che la Cassazione ha emesso giovedì scorso, il direttore di questo giornale, Ezio Mauro, aveva usato la parola "dismisura" per definire l'influsso improprio che Silvio Berlusconi ha esercitato per vent'anni sulla fragile democrazia di questo paese.

La parola dismisura mi colpì molto per la sua efficace rappresentatività. Un uomo posseduto da un'egolatria straripante, con capacità di imbonire non solo una parte rilevante di popolo ma addirittura di deformare il funzionamento di istituzioni da tempo asservite ai partiti politici dominanti, guidava il paese con una ricchezza di assai dubbia provenienza, un impero mediatico di proporzioni inusitate, una spregiudicatezza politica senza limiti.

Del resto l'allarme di Repubblica nei confronti di quel personaggio così anomalo ad ogni principio democratico era scattato da tempo, quando Silvio Berlusconi non aveva ancora fatto il suo ingresso in politica ma già aveva con i politici contatti e rapporti di complicità e addirittura di compravendita. La nostra campagna era cominciata fin dagli ultimi anni Ottanta ed è del '92 l'articolo da me pubblicato con il titolo "Mackie Messer ha un coltello ma vedere non lo fa" in cui il padrone della televisione commerciale italiana era paragonato al gangster protagonista dell'Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Mackie Messer è stato finalmente condannato con sentenza definitiva in uno dei tanti processi intentati da 19 anni nei suoi confronti.

Non già per sentimenti persecutori della magistratura inquirente e giudicante, ma per la quantità di reati da lui commessi e da lui abilmente ostacolati, rallentati, bloccati, muovendo le leve politiche delle quali disponeva, rallentandoli con l'uso e l'abuso del legittimo impedimento, con l'accorciamento mirato della prescrizione, con l'immunità delle cariche da lui rivestite e addirittura con la corruzione di magistrati e giudici.

Inusitatamente - è il caso di dirlo - il processo sui diritti cinematografici di Mediaset è riuscito a farsi largo in questa selva di ostacoli e arrivare con poche settimane di anticipo sull'imminente prescrizione, alla sentenza definitiva. Ora l'imputato è un condannato ad una pena carceraria e ad una pena accessoria d'interdizione dai pubblici uffici. Nel frattempo altri processi incalzano per reati altrettanto gravi e forse più, presso i Tribunali e le Corti di Milano, Roma, Napoli, Bari.

Gli uomini del partito da lui fondato, e del quale è il leader e il proprietario nel senso tecnico del termine, lo sanno. I suoi elettori in parte l'hanno capito e l'hanno abbandonato, in parte sono ancora dominati dalla sua demagogia o da interessi da lui concessi e tutelati.

Su questa massa consistente di ministri del governo in carica, di parlamentari, di elettori ancora imboniti, Mackie Messer ha lanciato la sua campagna e vorrebbe annullare la sentenza con il ricatto di far saltare il governo e provocare lo sfascio d'una economia già fortemente in crisi.

Mackie Messer questa volta il coltello non solo non lo nasconde ma lo mostra apertamente agitandolo minacciosamente dalle sue televisioni ed anche dagli schermi della Rai che, non si capisce il perché, danno ripetutamente a reti unificate la parola di un pregiudicato e condannato per gravi reati comuni. Non accadrebbe in nessun altro paese anche perché l'uomo politico - in democrazie notevolmente più mature della nostra - si sarebbe da tempo dimesso dalle cariche ricoperte affrontando i processi e subendone le eventuali conseguenze.

Fatta questa premessa, che ricorda fatti peraltro ben noti ai nostri lettori, ma che è bene comunque ricordare per completezza d'informazione, parliamo ora del tema principale che oggi domina lo scenario politico ma non solo: oltre che politico anche economico, anche sociale, anche internazionale e infine istituzionale.

Non allarmatevi dei tanti aspetti di questa situazione: sono fortemente intrecciati tra loro e costituiscono un unico nodo ed è quel nodo che in un modo o nell'altro va sciolto nei prossimi giorni, anzi direi nelle prossime ore.

* * *

I sudditi (come altro chiamarli?) del condannato hanno inscenato una farsa da lui guidata, si sono dimessi nelle sue mani da ministri e da parlamentari e una loro deputazione vorrebbe incontrare Napolitano per ottenere la grazia per il loro padrone e signore. È probabile che Napolitano non li riceva ma è comunque certo che la grazia non la darà poiché non ne ricorrono gli estremi né morali né tecnici.

La minaccia, anzi il ricatto, è di mettere in crisi il governo e andare a votare in ottobre, ma Napolitano ha già più volte chiarito che non si parla di scioglimento anticipato delle Camere con questa legge elettorale palesemente incostituzionale. Bisogna dunque riformarla e il governo ha già fissato la data di discussione dei vari progetti allo studio il prossimo ottobre. Ammesso e non concesso che la si approvi entro ottobre, c'è nel frattempo l'obbligo di discutere e approvare la legge di stabilità finanziaria e il bilancio e si arriva così alla fine dell'anno. Qualora a quel punto Napolitano sciogliesse le Camere, si voterebbe alla fine di febbraio o a marzo ma nel frattempo - sempre che i sudditi del signore e padrone avessero dato le dimissioni - il governo sarebbe ancora in carica per l'ordinaria amministrazione. Quindi privo di qualunque autorevolezza anche in Europa, anzi soprattutto in Europa.

Non è da escludere che il signore e padrone di Arcore, divenuto a quel punto la sua comoda prigione dalla quale però non può incontrare nessuno se non i propri figli, abbia fermato le dimissioni e gli Aventini minacciati e così pure le elezioni anticipate. Ma non è soprattutto da escludere che Napolitano abbia accettato le dimissioni di Letta ed abbia nominato un "Letta bis" impostato sul Pd che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato che diventerebbe assoluta con il voto di Scelta civica, Vendola e dei 5 Stelle, che probabilmente a quel punto arriverebbero.

Questi sono i vari scenari, l'ultimo dei quali è, a mio avviso, il più auspicabile perché significa che il governo Letta prosegue fino al semestre europeo di presidenza italiana con l'uscita di scena nel gennaio 2015.

Questo richiede lo "scopo" per il quale Letta fu insediato a Palazzo Chigi. Lo scopo è di combattere la recessione in Italia e avviare una politica europea basata sulla crescita e sull'Europa proiettata verso uno Stato federale.

Queste considerazioni sono presenti esplicitamente nelle dichiarazioni non solo di Letta ma anche del segretario del Pd Guglielmo Epifani e del presidente del gruppo del Senato del Pd Luigi Zanda nell'intervista pubblicata ieri su questo giornale.

L'impegno del Pd nel sostenere questo progetto è fondamentale e coincide con le finalità di un partito riformatore di sinistra democratica. Poi - a suo tempo - bisognerà votare per un nuovo Capo dello Stato quando Napolitano deciderà scaduto il suo tempo. Quest'uomo, tra i tanti pregi e qualità che ha mostrato nel suo pluri-mandato presidenziale, ha dato prova di una fermezza di carattere molto rara e di una visione istituzionale, già anticipata a suo tempo da Carlo Azeglio Ciampi, inconsueta in questo paese di fragile democrazia: il governo è un'istituzione, titolare del potere esecutivo. I partiti possono fornirgli alcuni loro uomini che però, una volta nominati, cessano di essere uomini di partito e diventano membri d'un potere costituzionale dello Stato di diritto.

Nel nostro paese questi principi vengono spesso dimenticati. Voglio qui ricordare che furono sostenuti a spada tratta da Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Aldo Moro e da questo giornale. I partiti servono a raccogliere il consenso, non ad occupare le istituzioni, governo e Parlamento compresi. Chi dimentica che la democrazia ha come fondamento la separazione dei poteri compie un grave errore e rischia di procurare danni al paese e ai cittadini, che non sono più soltanto italiani ma anche, e speriamo sempre di più, europei.


(04 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/04/news/governo_istituzione-64250097/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francescos
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2013, 05:24:08 pm

Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco

Il pontefice argentino è lo scandalo benefico della Chiesa di Roma. Ma cosa risponderebbe agli interrogativi di un illuminista?

di EUGENIO SCALFARI


PAPA Francesco è stato eletto al soglio petrino da pochissimi mesi ma continua a dare scandalo ogni giorno. Per come veste, per dove abita, per quello che dice, per quello che decide. Scandalo, ma benefico, tonificante, innovativo.

Con i giornalisti parla poco, anzi non parla affatto, il circo mediatico non fa per lui, non è nei suoi gusti, ma il suo dialogo con la gente è continuo, collettivo e individuale, ascolta, domanda, risponde, arriva nei luoghi più disparati ed ha sempre un testo da leggere tra le mani ma subito lo butta via. Improvvisa senza sforzo alcuno a cielo aperto o in una chiesa, in una capanna di pescatori o sulla spiaggia di Copacabana, nel salone delle udienze o dalla “papamobile” che fende dolcemente la folla dei fedeli.

È buono come Papa Giovanni, affascina la gente come Wojtyla, è cresciuto tra i gesuiti, ha scelto di chiamarsi Francesco perché vuole la Chiesa del poverello di Assisi. Infine: è candido come una colomba ma furbo come una volpe. Tutti ne scrivono, tutti lo guardano ammirati e tutti, presbiteri e laici, uomini e donne, giovani e vecchi, credenti e non credenti aspettano di vedere che cosa farà il giorno dopo.
Di politica non si occupa, non l’ha mai fatto né in Argentina da vescovo né dal Vaticano da papa. Criticò Videla sistematicamente, ma non per l’orribile dittatura da lui instaurata ma perché non provvedeva ad aiutare i poveri, i deboli, i bisognosi. Alla fine il governo, per liberarsi di quella voce fastidiosa, mise a sua disposizione una struttura assistenziale fino a quel momento inerte e lui abbandonò la
sua diocesi ad un vicario e cominciò a battere tutto il paese come un missionario, ma non per convertire bensì per aiutare, educare, infondere speranza e carità.

Due mesi fa ha pubblicato un’enciclica sulla fede, un testo già scritto dal suo predecessore con il quale convive senza alcun imbarazzo a poche centinaia di metri di distanza. Ha ritoccato in pochi punti quel testo e l’ha firmato e reso pubblico.

L’enciclica è alquanto innovativa rispetto ad altre sullo stesso tema emesse dai suoi predecessori. La novità sta nel fatto che non si occupa del rapporto tra fede e ragione. Non esclude affatto che quel rapporto ci sia, ma a lui (e a Benedetto XVI) interessa la grazia che promana dal Signore e scende sui fedeli. La grazia coincide con la fede e la fede con la carità, l’amore per il prossimo, che è il solo modo – attenzione: il solo modo – di amare il Signore. Si sente il profumo intellettuale di Agostino. Più di Agostino che di Paolo. Ma qui andiamo già nel difficile. Si dovrebbe pensare che siano tre i Santi di riferimento per l’attuale Vescovo di Roma (che insiste molto su questa qualifica che accompagna e addirittura precede il titolo pontificale): Agostino, Ignazio, Francesco.

Ma è quest’ultimo che dà al Papa che ne ha preso il nome il connotato più evidente e da lui sottolineato in ogni occasione. Vuole una Chiesa povera che predichi il valore della povertà; una Chiesa militante e missionaria, una Chiesa pastorale, una Chiesa costruita a somiglianza di un Dio misericordioso, che non giudica ma perdona, che cerchi la pecora smarrita, che accolga il figliol prodigo.

Certo, la Chiesa cattolica è anche un’istituzione, ma l’istituzione, come la vede Francesco, è una struttura di servizio, come l’intendenza di un esercito rispetto alle truppe combattenti. L’intendenza segue, non precede. E così siano l’istituzione, la Curia, la Segreteria di Stato, la Banca, il Governatorato del Vaticano, le Congregazioni, i Nunzi e i Tribunali, tutta l’immensa e immensamente complessa architettura che tiene in piedi da duemila anni la Chiesa, Sposa di Cristo.

Questo, finora, è stato il volto della Chiesa. La pastoralità? Certo, un bene prezioso. La Chiesa predicante? La Chiesa missionaria? La Chiesa povera? Certo, la vera sostanza che l’istituzione contiene come un gioiello prezioso dentro una scatola d’acciaio.

Ma attenzione: per duemila anni la Chiesa ha parlato, ha deciso, ha agito come istituzione. Non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere, non c’è mai stato un papa che abbia sentito come proprio il pensiero e il comportamento del poverello di Assisi. E non c’è mai stata, se non nei casi di debolezza e di agitazione, una Chiesa orizzontale invece che verticale. In duemila anni di storia la chiesa cattolica ha indetto 21 Concili ecumenici, per lo più addensati tra il III e il V secolo dell’era cristiana e tra il IX e il XIII. Dal Concilio di Trento passarono più di trecent’anni fino al Vaticano I preceduto dal Sillabo e poi ne passarono ottanta fino al Vaticano II.

I Sinodi sono stati ovviamente molto più numerosi, ma tutti indetti e guidati dalla Curia e dal Papa.

Il cardinale Martini (vedi caso anch’egli gesuita) voleva accanto al magistero del Papa la struttura orizzontale dei Concili e dei Sinodi dei vescovi, delle Conferenze episcopali e della pastoralità. Non fu amato a Roma, come Bergoglio nel conclave che terminò con l’elezione di Ratzinger.

Bergoglio ama anche lui la struttura orizzontale. La sua missione contiene insomma due scandalose novità: la Chiesa povera di Francesco, la Chiesa orizzontale di Martini. E una terza: un Dio che non giudica ma perdona. Non c’è dannazione, non c’è Inferno. Forse Purgatorio? Sicuramente pentimento come condizione per il perdono. «Chi sono io per giudicare i gay o i divorziati che cercano Dio?» così Bergoglio.
* * *
Vorrei però a questo punto porgli qualche domanda. Non credo risponderà, ma qui ed oggi non sono un giornalista, sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, ebreo della stirpe di David. Ho una cultura illuminista e non cerco Dio. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini.
Ebbene, è in questa veste che mi permetto di porre a Papa Francesco qualche domanda e di aggiungere qualche mia riflessione.
Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla.

Ed ora una riflessione. Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo.

Lunga vita a Papa Francesco.

(07 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/07/news/le_domande_di_un_non_credente_al_papa_gesuita_chiamato_francesco-64398349/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Machiavelli non fu machiavellico
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2013, 04:46:19 pm
Machiavelli non fu machiavellico

di Eugenio Scalfari

L'autore del Principe non teorizzò la conquista del potere con qualsiasi mezzo. Coltivò invece il sogno di un'Italia unita

(01 agosto 2013)

Lo pensiamo e lo scriviamo tutti che il pensiero politico moderno sia cominciato in Italia con Machiavelli e con Guicciardini. In modi alquanto diversi l'uno dall'altro ma cogliendo entrambi gli stessi nodi che avvincono e dividono l'etica dalla politica.

Machiavelli e Guicciardini . Più tardi Vico e un secolo dopo De Sanctis. Non so se Machiavelli ebbe un influsso sul pensiero europeo: la questione è controversa e resa più complicata dal fatto che Caterina dei Medici, andata sposa a Enrico II di Valois, portò alla corte di Francia molti italiani e anche il pensiero e le opere di molti artisti e pensatori medicei. La parola "machiavellismo" comparve allora per definire una doppiezza di comportamenti, la pratica sistematica del complotto e del tradimento e infine un amore per il potere che superava i limiti della normalità e sconfinava nella cupidigia che giustifica qualunque crimine.

Il machiavellismo così interpretato raffigura il vero pensiero dell'autore del "Principe" o lo deturpa infangandolo con i delitti più obbrobriosi che Machiavelli avrebbe legittimato?

Ai miei tempi (parlo della fine degli anni Trenta del secolo scorso) il "Principe" si leggeva e il suo autore veniva studiato nel secondo anno del liceo classico e poi di nuovo ripreso a approfondito nei corsi di scienze politiche dell'omonima facoltà universitaria. E poiché la libertà di insegnamento continuò a esistere, sia pure con molti limiti, anche durante il fascismo, molto dipendeva dalla qualità culturale degli insegnanti oltre che dalle letture e dal discernimento degli studenti.

Il mio ricordo e il bagaglio culturale che personalmente ne ho ricavato sono quelli di una netta contrapposizione tra Machiavelli e il machiavellismo. Il pensiero di quell'autore (e il suo pregio) non è affatto quello di aver legittimato la cupidigia del potere e i crimini che quel sentimento può comportare, bensì d'aver dato un fondamento teorico all'autonomia della politica e dell'etica che fornisce a quell'autonomia un punto di riferimento senza il quale la politica diverrebbe un'attività abietta di sopraffazione e di arbitrio.

La prima distinzione che Machiavelli introdusse nei suoi scritti politici (dei quali il "Principe" è certamente il più affascinante ma non il più importante) è quello tra i fini e i mezzi: i fini configurano una visione del bene comune, i mezzi debbono essere appropriati a realizzarli ma senza mai prenderne il posto. Quando i mezzi diventano essi stessi altrettanti fini, la cupidigia del potere non ha più come obiettivo la visione del bene comune ma semplicemente il mantenimento e il rafforzamento del potere, che è cosa completamente diversa e immorale.
Machiavelli aveva direttamente vissuto la democrazia comunale della sua città con la carica di segretario, che non era il vertice della gerarchia comunale fiorentina ma tuttavia abbastanza importante. Le lotte di fazione, la supremazia delle Arti, il malcontento popolare ma soprattutto le clientele e i mezzi finanziari nelle mani di alcune famiglie del notabilato fiorentino, gli avevano dato la misura d'una decadenza ormai insostenibile: una città sia pure importante come Firenze non era più in grado di affidarsi a una democrazia popolare limitata al territorio d'un tratto della valle dell'Arno; le Signorie, i Capitani di ventura, le potenze straniere e soprattutto la Chiesa e il suo potere temporale incombevano.

Machiavelli aveva ben chiaro che il sogno d'una confederazione italiana diventava sempre più necessario ma vedeva altrettanto chiaramente che era il potere temporale del Papa a renderlo impossibile. E fu allora che puntò sul Borgia. Il figlio del Papa ambiva a costruire uno Stato che fosse guidato da lui e non dalla Chiesa, puntando sulle Romagne e sulle Marche e poi Pisa e poi Napoli e poi Milano e naturalmente Firenze. Il Papa - forse - come autorità religiosa benedicente, ma la famiglia Borgia come autorità governante quello Stato, cioè una prima parvenza di Italia.

Questo fu il sogno di Machiavelli: una speranza, anzi un'illusione, ancorata però a una consapevole necessità che anche l'Italia, come già gran parte delle altre potenze europee, unificasse le sue genti e non restasse in balia di piccole e volatili tirannie che presto sarebbero franate dinanzi agli eserciti invasori, come difatti avvenne.

Ricordo ancora quella pagina della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis in cui, mentre sta esaminando alcune delle Canzoni del Leopardi, cambia improvvisamente tono e argomento e scrive: «In questo momento mi giunge notizia che reparti dell'esercito italiano sono entrati a Roma e la città è stata proclamata dal Parlamento capitale d'Italia». E prosegue ricordando il sogno presago di Machiavelli tre secoli prima.

Il machiavellismo è tutt'altra cosa. E' uno dei mali della politica, purtroppo ormai diffuso dovunque ma in Italia soprattutto. Quando la politica e l'etica della politica sono deboli è l'intera società a disfarsi. Arriva allora il momento del cinismo e dell'utopia, due mali che dimostrano soltanto l'assenza letargica della politica.

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/machiavelli-non-fu-machiavellico/2212355/18/1



Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2013, 04:46:26 pm
   
Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni

di EUGENIO SCALFARI


HO già ricordato qualche giorno fa quanto accadde a Roma il 25 luglio del 1943 di cui ricorre quest'anno il 70° anniversario. Mi sembrava attuale: la liquidazione di Mussolini votata con larga maggioranza dal Gran Consiglio del Fascismo, il supremo organo del regime, ben più importante d'un Parlamento che da tempo era di fatto inesistente. Nello Ajello ha ripercorso quella vicenda con dovizia di particolari e di riflessioni politiche e psicologiche, descrivendo un Duce ormai diventato consapevole d'una sconfitta storica e della rovina che incombeva tragicamente sul paese che per vent'anni aveva ipnotizzato e magato col carisma della sua egolatria e la religione del Capo inviato dalla Provvidenza a riportare l'Impero sui colli fatali di Roma.

Nel frattempo è arrivata la sentenza della corte di Cassazione che condanna definitivamente il "boss" di Arcore a quattro anni di reclusione e alla pena aggiuntiva dell'interdizione dai pubblici uffici; il tema del 25 luglio è così diventato ancora più attuale.
Berlusconi ha ancora cinque processi che incombono sulle sue vicende pubbliche e private, uno più gravoso dell'altro. Le possibilità di scamparla sono inesistenti, i salvacondotti immaginati privi d'ogni consistenza. Ai suoi seguaci non resta che separare la sua sorte personale da quella d'un partito che da vent'anni ha riscosso il consenso di milioni di italiani, conservatori o liberali, moderati o estremisti.

Erano tutti stregati dall'ennesimo uomo della Provvidenza capace di creare ricchezza, gloria, prestigio internazionale, pari opportunità per tutti, solo che lo amassero e riponessero in lui la massima fiducia votandolo di conseguenza.

Il 25 luglio del '43 restituì al Re i poteri che il fascismo gli aveva confiscato. I suoi promotori speravano che la monarchia  -  restaurata da quel voto  -  affidasse a loro il compito di riportare l'Italia sulla giusta via costituzionale e alla fine d'una guerra ormai perduta. Non sapevano che il Re aveva già incaricato Badoglio e con lui l'esercito di accudire al compito disperato della resa e del cambiamento del fronte di guerra.

Ma qui ed ora tutto sarebbe molto più facile. Il capo dello Stato è nel pieno esercizio delle sue prerogative repubblicane, un governo legittimo è in carica con la partecipazione anche del partito fondato da Berlusconi, le sorti di quel governo e il programma ad esso affidato è ampiamente gradito a tutte le potenze occidentali a cominciare dall'Unione europea della quale siamo uno dei principali paesi costitutivi e costituenti.

C'è soltanto da superare il generale discredito riguardante il carismatico buffone che ancora farnetica della sua indispensabilità.
Ma nessuno tra i "berluscones" pensa al ravvedimento. L'ipnosi ancora continua e condurrà al peggio se non sarà interrotta. Il tempo è quasi scaduto, venti giorni per decidere di sgombrare il campo dal gangster che ancora lo occupa o la rissa civile che accrescerà i guai della crisi anziché rafforzare i primi segnali di ripresa che cominciano finalmente a manifestarsi.

Napolitano è deciso, Letta è deciso, Epifani è deciso e con lui maggior parte del Partito democratico. Occorre risolvere difficoltà non lievi ma tutt'altro che insuperabili, con quelli di loro disposti ad un operoso ravvedimento o senza di loro. È da loro che dipende l'alternativa.

L'incontro di due giorni fa a Castel Porziano tra Napolitano e i rappresentanti del Pd ne ha chiarito le premesse e le fasi di svolgimento. Non si naviga al buio ma con una rotta definita e timonieri capaci.

* * *
I segnali congiunturali  -  l'abbiamo già detto  -  tendono finalmente al meglio. L'Europa nel suo complesso è di nuovo al segno positivo per quanto riguarda il Pil, la produzione di beni e servizi, gli ordinativi delle imprese e le riserve. Gli Usa sono ancor più avanti, anche le cifre dell'occupazione registrano una costante ripresa. Qualche rallentamento si manifesta in Cina e in Brasile ma del tutto fisiologico e governabile.

In Italia fenomeni analoghi si manifestano ma con molta timidità, tuttavia dimostrano una continuità che non conoscevamo da molto tempo. Non ancora sul livello del reddito e dei consumi di massa, e tanto meno sull'occupazione, ma sicuramente nella produzione industriale, negli ordinativi e nelle esportazioni.

La pubblica amministrazione ha finalmente erogato 16 miliardi alle imprese creditrici, altri 20 saranno pagati entro la fine dell'anno; per un sistema strozzato dalla sua dipendenza dal credito questa liquidità è preziosa.

Tanto più lo sarà l'ingresso della Cassa depositi e prestiti sul mercato dei crediti a tassi accettabili e sul finanziamento di nuove infrastrutture con una disponibilità aggiuntiva di 97 miliardi, una cifra che può avere un effetto determinante sul mercato non solo della crescita ma del lavoro.

Infine il collocamento dei nostri titoli di Stato e delle emissioni obbligazionarie delle imprese. Il Bpt a medio termine va molto bene, il termometro dello "spread" è sceso a quota 250, con i risparmi che ciò comporta sugli oneri del Tesoro.

Insomma i segnali non mancano e le aspettative neppure; gli investitori esteri affluiscono, il turismo invece è ancora fiacco e quello è un punto che chiama soprattutto in causa le autorità territoriali. Incontri proficui avverranno questa settimana fra il Tesoro e i rappresentati dei sindaci. Per quel che si sa le prospettive di un accordo sono positive.

Sarebbe molto urgente una vera semplificazione burocratica. La legge sul "fare" è stata finalmente approvata ma è soggetta ad un'ampia serie di provvedimenti attuativi. Uno degli obiettivi è appunto la semplificazione, giustamente richiesta da economisti e operatori. Mi permetto solo di ricordare che l'economia Usa annovera una quantità di adempimenti burocratici diversi e moltiplicati dalla struttura federale che non ha riscontro in nessun paese del mondo; eppure la sua efficienza operativa è fuori discussione.

Il nostro vero problema (in questo giornale l'abbiamo segnalato da anni) sta soprattutto nella pluralità delle anime (uso volutamente questa parola per alludere alla molteplicità delle intenzioni) annidate nel Consiglio di Stato. Quello è il vero problema sul quale bisognerebbe intervenire rafforzando l'anima giurisdizionale di quel consesso e riducendo o addirittura annullando tutte le altre.

Quello che con brutta parola viene chiamato cronoprogramma di questo governo è comunque uscito rafforzato dall'incontro di Letta con i suoi più stretti collaboratori e di Napolitano con i rappresentanti del Pd.

L'Imu sarà abolita ma sostituita da una nuova imposta che avrà anche la casa come elemento ingrediente. L'aumento dell'Iva è praticamente scongiurato. Se non interverranno improvvisi tsunami Letta presiederà il semestre europeo di spettanza italiana e probabilmente nel 2015 il governo di scopo, o meglio il governo-istituzione, vedrà il suo termine.

Nel frattempo, in questo prossimo ottobre dovrebbe essere approvata la nuova legge elettorale con la maggioranza del "chi ci sta ci sta". Quanto alla riforma costituzionale, premono la riforma del Senato, il taglio nel numero dei parlamentari, l'abolizione delle Provincie. Entro quest'anno si deve anche approvare l'abolizione del finanziamento dei partiti, la legge sull'omofobia e il lavoro giovanile con il concorso finanziario europeo.

La presidenza semestrale italiana sarà essenziale per proiettare l'Unione europea verso un percorso federale e l'Unione bancaria.
Queste sono le "cosucce" che attendono Letta e scusate se è poco.

* * *
Non mi viene molto da dire sul congresso del Pd. La data è stata praticamente fissata, la partecipazione alle primarie sul nuovo segretario sarà aperta, ma si vota per il segretario e non per il candidato premier. Questa carica è palesemente inopportuna mentre l'attuale presidente del Consiglio proviene dal Pd ed ha un impegno che  -  salvo sorprese  -  durerà due anni, strettamente abbinato con l'Autorità che ha il compito di nominare i presidenti del Consiglio e i ministri nonché quello dello scioglimento anticipato delle Camere quando ne ricorrano le condizioni e solo in quei casi.

I candidati alla carica di segretario sono numerosi, ciascuno con pregi e difetti come sempre e dovunque accade. La scelta è libera e il numero di possibili concorrenti è ampio. Quando saremo vicini al voto nei gazebo sceglieremo. Personalmente non sono tra quelli che considerano un logoro e inservibile "arnese" il Partito democratico e la sua classe dirigente.

Certo va risvegliata, rinnovata, svecchiata. Ma attenzione: non è l'anagrafe che comanda, è la capacità, la probità intellettuale ed anche l'esperienza. A me non piacciono molto gli uccelli canterini ma di più i seminatori e i coltivatori. Ognuno ha i suoi gusti.

(11 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/11/news/il_25_luglio_arrivato_il_cavaliere_si_rassegni-64608412/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Epifani e Barca per rifare il nuovo Pd
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2013, 07:32:23 pm

Epifani e Barca per rifare il nuovo Pd

di EUGENIO SCALFARI


È difficile pensare che questo governo stia per cadere. Molti lo temono, alcuni se lo augurano e pongono come data limite il febbraio-marzo del 2014; ma ragionano male scambiando le loro incertezze, le loro paure, le loro speranze per dati di realtà.

Il dato di realtà è che il governo durerà fino alla primavera del 2015, dopo il semestre di presidenza europea che spetta all'Italia e quindi a Enrico Letta.

Questo dato di realtà è sostenuto da molti elementi, il primo dei quali proviene dal documento che Giorgio Napolitano ha diffuso martedì. Non starò a commentarne il contenuto che è già stato analizzato da tutti i giornali e dal nostro in particolare con il commento di Massimo Giannini. Mi limito qui a segnalare due punti essenziali. Il primo riguarda la procedura prevista dalla legge per la domanda di grazia: occorre sia presentata dal condannato di sentenza definitiva o da un suo familiare di primo grado e comporta una serie di accertamenti che riguardano il ravvedimento del condannato stesso e soprattutto l'accettazione della sua colpevolezza che è implicita nel fatto stesso di chiedere la grazia.

Si tratta insomma di un atto di umiliazione che la richiesta di grazia comporta e che - nel caso del personaggio Berlusconi - avrebbe una risonanza mondiale. È pensabile che lo compia? I suoi avvocati, a cominciare da Coppi, premono per il sì, ma chi conosce il personaggio scommette piuttosto sul suo no.

Significherebbe infatti la smentita d'una vita intera, dominata dall'egolatria e dalla spregiudicatezza; insomma la definitiva uscita di scena poiché - come scrive Napolitano nel suddetto documento - essa comporta anche la definitiva rinuncia agli attacchi eversivi che Berlusconi e i suoi seguaci lanciano da vent'anni contro la magistratura.

Tiriamo dunque le somme su questo tema: se Berlusconi chiederà la grazia - indipendentemente dal fatto che la ottenga oppure no - si metterà fuori dalla politica; se non la chiede, a metà ottobre la sentenza sarà eseguita ai domiciliari o alla rieducazione connessa all'assistenza sociale.

Restano tre ulteriori elementi legati a questo tema: l'eventuale provvedimento di grazia non concerne le penalità accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici; la legge Severino che dispone l'ineleggibilità di un condannato a cariche parlamentari; il voto che sarà dato a settembre sulla ratifica della sentenza della Cassazione, voto che avrà comunque vasta maggioranza al Senato quand'anche i senatori del Pdl votino contro.

In sostanza: Silvio Berlusconi è già definitivamente fuori dalla partita politica.

* * *

Ma al di là del tema che abbiamo fin qui esaminato il documento di Napolitano ne contiene un altro che riguarda il governo Letta. Napolitano ricorda la stretta connessione esistente tra la sua decisione di accettare la rielezione al Quirinale con la nascita d'un governo e di una maggioranza di assoluta necessità e priva di alternative, cui avrebbe affidato il compito di agire per portare il paese fuori dalla recessione, di sviluppare il ruolo dell'Italia in Europa avendo come obiettivo quello di orientare concretamente le autorità europee verso la crescita economica e l'occupazione; infine di perseguire la nascita di un'Europa federale tuttora inesistente.

Napolitano affidava anche al governo da lui nominato il compito di avviare alcune riforme costituzionali che aggiornassero la Costituzione non già nei principi intoccabili ma in alcuni settori non più adatti ai tempi molto mutati.

Per adempiere a queste incombenze tutt'altro che marginali il tempo previsto dal Presidente avrà termine con la fine della presidenza semestrale europea affidata all'Italia. Solo allora Napolitano prevede le dimissioni del governo e probabilmente (ma questa è una mia personale induzione) le proprie.

Fino a quel momento, cioè per i prossimi 18 mesi, il governo non si tocca e tanto meno la legislatura parlamentare. A meno che uno dei partiti che lo sostengono in Parlamento decida di staccare la spina. Il più indiziato da questo punto di vista è il Pdl. Lo può fare per soddisfare il suo (ex) Capo, ma lo può anche fare paralizzando l'azione di governo e quindi mettendo Letta nella condizione di esser lui a dimettersi per l'impossibilità di governare.

È probabile che avvenga questo tsunami? E che cosa farebbe in tal caso Napolitano?

* * *

Che parlamentari, ministri e dirigenti del Pdl solidarizzino con (l'ex) Capo nel momento in cui la sua uscita di scena sarà definitivamente avvenuta è possibile; lo stesso documento di Napolitano dimostra comprensione verso questa manifestazione "sentimentale" purché si astenga da giudizi vituperevoli nei confronti della magistratura e di altre istituzioni.

Ma che a quest'ultimo atto di addio facciano seguito le dimissioni aventiniane dei parlamentari del Pdl e/o dei ministri sembra estremamente improbabile. Il Capo sarà comunque fuori; il paragone con Grillo - che opera anche lui fuori dal Parlamento - è del tutto improprio perché il Pdl non è confrontabile col Movimento 5 Stelle, hanno tutti e due uno sfondo populista, ma il partito berlusconiano è un tessuto di interessi, di clientele, di affari tra politica ed economia dei quali i 5 Stelle ignorano perfino l'esistenza.

E allora? Che cosa farebbe un partito che provocasse una tempesta politica in una fase di tensione economica e sociale, assumendone la responsabilità e suscitando come tutti sappiamo un'esplicita ostilità da parte dell'Europa rispetto al ritorno (peraltro impossibile) dei berlusconiani al potere?

Questa via non solo è chiusa ma addirittura sbarrata. Il tema dei dirigenti del Pdl è un altro: avviare la costruzione d'un partito e la ricerca di un nuovo quadro dirigente. Casini si muove già in questa direzione e non è il solo, ma anche dentro al Pdl esistono candidati adatti alla guida di un partito moderato e alla nascita di una destra "europea". E non è affondando il governo Letta che questa strada è percorribile. Senza dire che Napolitano non scioglierà mai le Camere senza una nuova legge elettorale e senza aggiungere che quand'anche il Pdl andasse fuori di testa e affondasse il governo, Napolitano può benissimo nominare un Letta-bis che vada a cercare la fiducia in Parlamento.

Ma siamo seri: niente di questo accadrà.

* * *

È necessario a questo punto che l'attenzione si sposti sul Partito democratico. Qualcuno dice che è il solo partito esistente oggi in Italia. Per certi aspetti è vero e anche noi lo diciamo. Gli altri, partiti e movimenti che siano, hanno un padrone; alcuni poi sono talmente piccoli che il padrone proviene da un inesistente peso quantitativo.

Quindi il Pd. Doveva riformarsi e rinnovarsi. Qualcuno ci sta provando con idee, progetti, intenti estremamente diversi tra loro. Ho già scritto altre volte che le correnti sono molte ma ancor più le fazioni che coltivano le ambizioni dei capi più dei valori politici. Ma anche tralasciando questa distinzione che vige nella politica di tutti i tempi e in tutti i luoghi, i nomi in circolazione si escludono a vicenda: Cuperlo, Fassina, Onofri, Civati, senza dire di Vendola. Renzi forse ha più chance numeriche ma è difficile pensarlo come un segretario che potrà tentare l'avventura della "premiership" solo nella primavera del 2015.

In realtà restano due nomi con caratteristiche molto diverse ma in qualche modo complementari. Uno è Guglielmo Epifani, che non appartiene a correnti né vagheggia un futuro ma può rappresentare un partito che sostenga il governo e prenda nei suoi confronti le iniziative che gli competono per il fatto stesso di avere la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato. Iniziative responsabili e non provocatorie che rafforzino l'azione di Letta e ridiano un ruolo attuale e sociale al Pd.

L'altro è Fabrizio Barca che lavora ad un futuro partito capace di rappresentare consapevolmente la sinistra riformatrice, la sinistra sociale, la sinistra di governo. Un partito che parte dalle ispirazioni del Veltroni del Lingotto ma non sia "liquido"; un partito che ascolti la società, che raccolga consensi non solo nei ceti urbani ma tra i lavoratori che nel partito attuale non sono affatto presenti. E che possa fin d'ora suggerire a Letta iniziative fattibili nei limiti delle possibilità. E giochi fino in fondo quel ruolo europeo che Letta - secondo Barca - sta degnamente rappresentando. A cominciare per esempio da una rete di asili che servirebbe non solo ad alleviare gli oneri delle madri lavoratrici ma susciterebbe un "indotto" di notevoli proporzioni. Un partito che incida sulle strutture della pubblica amministrazione ormai logore se non addirittura inesistenti.
Ecco perché Epifani e Barca - che lo sappiano o no - sono complementari. O almeno io come osservatore e cittadino interessato al buon funzionamento della polis per quel che vale la penso così.

Enrico Letta parlerà oggi al "meeting" di Rimini di Comunione e liberazione. Ascolteremo ciò che dirà e come risponderà alle domande. Immagino che saranno molte e anche cattive come accade in convegni aperti. Qualcosa mi dice che falchi e amazzoni ce ne saranno in abbondanza. Ma Letta è abituato a farsi sentire in Europa dove si è già guadagnato un'autorevolezza non inferiore e forse superiore a quella di Monti nei primi mesi del suo mandato.

Il Pd deve imprimere al governo la sua tonalità che finora è mancata. A cominciare dalla legge elettorale. A nuovi progetti per l'occupazione. Alla programmazione di nuovi strumenti dei fondi europei per investimenti e opere sociali. All'impiego già in corso dei 97 miliardi disponibili dalla Cassa depositi e prestiti. Ai pagamenti già in corso dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese e ai Comuni.
Lo spread continua a scendere. L'occupazione ancora non aumenta e quello è il punto da tener presente. Iniziativa, consapevolezza, responsabilità. Forse i tanti italiani colpiti da indifferenza e rabbia potrebbero tornare in linea. Questo - diciamolo - è l'obiettivo finale: che si sentano al tempo stesso più italiani e più europei.


(18 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/08/18/news/epifani_e_barca_nuovo_pd-64921742/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. 'E io invece dico: bravo Letta'
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2013, 05:07:04 pm
Discussione

Eugenio SCALFARI

'E io invece dico: bravo Letta'

«Non è vero che fa solo annunci: ha già messo in moto parecchie cose e ottenuto diversi risultati». Un articolo 'elogiativo' di Eugenio Scalfari sul nostro settimanale ha aperto il dibattito. Dite la vostra

(20 agosto 2013)


Pubblichiamo qui di seguito l'ultimo articolo di Eugenio Scalfari per 'l'Espresso', intitolato 'Altro che cosucce, Letta governa eccome'. Ai nostri lettori, come sempre, chiediamo di aggiungere la loro opinione in merito.

Tutti coloro che si occupano di politica e ne parlano e ne scrivono nei convegni di partito, sui giornali, dagli schermi delle televisioni, su un punto sono d'accordo: il governo Letta deve smettere di fare annunci e deve finalmente produrre fatti; magari piccoli fatti, cosucce – come dicono quanti (e sono parecchi) giudicano il governo e chi lo presiede come una zattera di fortuna che al massimo può tenere in vita per qualche settimana un paese allo stremo per poi finalmente cedere il posto a vascelli più consistenti e a capitani e timonieri più adatti alla bisogna.

SOTTOLINEO che su questa valutazione minimalista del governo in carica, sulla sua dimensione politica appropriata per "cosucce" e non altro e infine sulla sua prosopopea di vasti annunci di panna montata che si sgonfiano non appena arrivati in tavola, l'accordo è pressoché generale. Lo pensano in massa i "berluscones", lo pensano i montiani e i montezemoliani, lo pensano i grillini ed anche il 90 per cento dei democratici, militanti di un numero impressionante di fazioni o semplici elettori influenzati da dibattiti che hanno tutti la stessa impronta.

Le sole eccezioni a questa "communis opinio" che potrebbe perfino essere promossa a "vox Dei" sono: la Commissione di Bruxelles dell'Unione europea, il presidente della Bce Mario Draghi, il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, il presidente americano Barack Obama, la cancelliera tedesca Angela Merkel, il premier spagnolo Mariano Rajoy, il presidente francese François Hollande, il premier inglese David Cameron e - guarda caso - il presidente della nostra Repubblica Giorgio Napolitano. Per quel che vale, mi permetto di aggiungere il sottoscritto. La compagnia è buona, anzi eccellente, ma in patria il segno è inverso e la stima di cui gode Letta presso l'elettorato è ancora abbastanza elevata, il 45 per cento circa, ma il governo nel suo complesso supera di poco il 20. Giornali e televisioni ripetono il ritornello ogni giorno e ogni ora, i sacrifici di un'economia in crisi fanno il resto ed è di scarso conforto il fatto che siano sopportati da almeno tre quarti dell'Europa.

Ma questo modo di sentire e di dire corrisponde a verità? Questo è il punto chiave cui bisogna rispondere partendo da una premessa che molti tendono a dimenticare: il governo esiste da tre mesi, nominato da un Capo dello Stato che aveva già lasciato il suo mandato ed era stato indotto a reiterarlo nonostante una sua conclamata ritrosia. E' sostenuto in parlamento da tre partiti, due dei quali (i maggiori) hanno modi di pensare, comportamenti pubblici e privati, storie politiche e geografie private completamente diverse e anzi di segno opposto. Per di più uno dei due partiti in questione è di proprietà del suo "boss" mentre l'altro è di proprietà dei suoi militanti e dirigenti che purtroppo da parecchio tempo antepongono i propri interessi e le proprie personali visioni politiche a quelle del partito considerato nella sua interezza.

Ricordata questa premessa, peraltro assai importante, e quella del breve tempo fin qui trascorso, andiamo ai fatti. E' stato rinviato (ormai di fatto abolito) l'aumento di un punto dell'Iva che sarebbe dovuto scattare il primo luglio e che avrebbe prodotto un aggravio molto pesante del costo della vita che è già agli estremi della sopportabilità.

CONTEMPORANEAMENTE è stata sospesa la rata di pagamento dell'Imu e le rate successive; il nostro ministro del tesoro Fabrizio Saccomanni sta preparando la sostituzione dell'imposta con una diversa tassazione che colpirà principalmente le fasce sociali con più consistente capacità patrimoniale e reddituale, esentando o ribassando fortemente il prelievo sulla prima casa per i ceti non abbienti.

Se questi primi passi vi sembran pochi aggiungo che già da un mese la pubblica amministrazione ha pagato 16 miliardi alle imprese creditrici e si accinge a un nuovo versamento di 20 miliardi entro l'anno. Si tratta di liquidità preziosa per le imprese in una fase di stretta bancaria assai gravosa per un sistema industriale fortemente dipendente dal credito.

TRA LE "COSUCCE" che il governo sta preparando con la revisione costituzionale prevista (che non altera affatto le procedure dell'articolo 138 se non riducendo l'intervallo tra la doppia approvazione delle Camere) ci sono la riforma del Senato in senso federale, il taglio del numero dei parlamentari e l'abolizione delle province. Il "filibustering" dei grillini ha rinviato al prossimo settembre l'approvazione di questo disegno di legge facendo inutilmente perdere tempo prezioso, con l'avallo di molte e anche illustri firme le quali, nella loro larga maggioranza, hanno dato il proprio nome solo per motivi di intolleranza politica e non per la specifica questione concernente il 138, come si desume chiarissimamente dalle motivazioni pubblicate dalle firme più autorevoli.
Tra le altre "cosucce" c'è la pressione crescente che l'Italia sta esercitando su tutto lo scacchiere europeo per una politica di finanziamento dell'occupazione in genere e di quella giovanile in particolare. Infine l'Unione bancaria e forme di garanzia statale ai depositi fino a una quota di 90-100 mila euro a depositante.

Cento giorni, mentre i partiti si azzuffano all'interno e all'esterno. E' evidente che se il Pdl non accetterà la sentenza che riguarda Berlusconi e risponderà con atteggiamenti e iniziative eversive il governo non durerà. Ma la colpa e la responsabilità andrà data a chi avrà voluto questo risultato precipitando il Paese in un marasma senza alternative. Questa è la realtà e non quella che si racconta giornalmente.


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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-io-invece-dico-bravo-letta/2213319/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Silvio il rais che porta al disastro il Paese
Inserito da: Admin - Agosto 27, 2013, 11:28:56 pm

Silvio il rais che porta al disastro il Paese

di EUGENIO SCALFARI


LA RIUNIONE ad Arcore di tutto lo stato maggiore berlusconiano, ministri compresi, è stata lunga e contrastata. Erano in tanti, ministri e non ministri. Non risulta invece la presenza di Gianni Letta, ormai in palese disgrazia agli occhi del capo.

Il giorno prima c'era stato un consiglio di famiglia, orientato alla moderazione per evitare contraccolpi sfavorevoli sulle aziende e sulle partecipazioni azionarie berlusconiane.

La conclusione è stata una fumata nera come il carbone, che avrà come risultato assai probabile la caduta del governo Letta.

Valuteremo tra poco le conseguenze di questo concertone dove tanti strumenti hanno suonato spartiti diversi tra loro e con diverse tonalità, unificati però dalla sudditanza al Capo-padrone al quale non esistono nel partito da lui fondato e da lui posseduto alternative praticabili.

A titolo di premessa facciamo intanto un'osservazione: nonostante i rischi concreti che il governo Letta non riesca a continuare il suo lavoro e crolli tutta l'architettura costruita da Napolitano per far uscire l'Italia dalla recessione, i mercati hanno tenuto, sia le Borse sia i rendimenti e gli "spread"; quando qualche seduta borsistica ha avuto esiti negativi le cause non sono state determinate da questioni italiane ma piuttosto da alcuni squilibri nelle economie dei paesi emergenti: Cina, India, Brasile, Indonesia. O con ulteriori difficoltà della Grecia.

Si direbbe che la situazione italiana sia considerata irrilevante o addirittura solida e capace di superare senza danni per l'Europa una tempesta politica. È così?

No, non è così. La verità è che l'Europa non crede possibile che la classe dirigente italiana sia talmente fragile da cedere agli eventuali colpi di testa d'un personaggio da tempo evitato e dileggiato da tutte le cancellerie europee.

Insomma l'Europa si fida. Ma se quella fiducia si manifestasse infondata, le ripercussioni purtroppo sarebbero inevitabili e molto pesanti. Non scordiamoci che l'ammontare del nostro debito pubblico è uno dei più alti del mondo e che in nostri titoli e quelli delle nostre banche che in larga misura li hanno in portafoglio, sono largamente diffusi nei sistemi bancari e nei fondi di investimento internazionali. E non ci scordiamo che lo stesso Mario Draghi cambierebbe atteggiamento e politica rispetto ad un'Italia senza più timone né timoniere.

***

Nel corso del vertice di villa San Martino i ministri hanno manifestato l'intenzione di non abbandonare il governo ponendo tuttavia due condizioni agli altri membri della maggioranza: l'abolizione totale e immediata dell'Imu e la permanenza di Berlusconi nel suo seggio di senatore. Soffermiamoci per ora su questa seconda condizione che coinvolge la legge Severino già da tempo oggetto di dibattito e di polemiche.

La tesi berlusconiana è l'inapplicabilità retroattiva della predetta legge, ma affinché questa tesi abbia successo occorre che nella Giunta per le elezioni ed eventualmente anche nell'Aula del Senato ci sia la maggioranza dei voti.

Il Pd, per bocca del suo segretario Guglielmo Epifani, ha già preventivamente rifiutato questa richiesta la quale comunque cozza contro la sua evidente irricevibilità. La Giunta e l'Aula non hanno alcun potere di ricorrere alla Consulta e stupisce che un presidente emerito come Capotosti attribuisca a questi organi parlamentari un potere "occasionalmente" giurisdizionale. Capotosti sa benissimo che il potere giurisdizionale ha come requisito fondamentale la terzietà che nel caso specifico mancherebbe del tutto se la maggioranza parlamentare avesse preventivamente concordato il suo voto favorevole. Il giudice "occasionale" avrebbe cioè manifestato il suo giudizio prima ancora di averlo espresso nella sede ufficiale. Capotosti può pensarla come crede ma non può commettere errori così marchiani. Senza dire che comunque è attesa nei prossimi giorni la delibera della Corte d'Appello di Milano sulla durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici prevista dalla Cassazione e non coperta neppure dalla eventuale grazia del Capo dello Stato qualora quella grazia fosse concessa dopo esser stata chiesta nelle forme di legge.

La posizione dei ministri del Pdl è dunque priva dei fondamenti necessari. Se vogliono far vivere il governo ci restino, altrimenti si dimettano.
Il resto sono chiacchiere inutili anzi inaccettabili.

***

Un'ultima premessa prima di valutare l'esito del vertice di Arcore: l'atteggiamento della pubblica opinione e in particolare dei dieci milioni che nello scorso febbraio hanno votato ancora per Berlusconi (il cui partito ne ha persi comunque sei milioni che hanno preferito astenersi).

I sondaggi, per quel che valgono, sono controversi. Dopo la sentenza di condanna definitiva secondo alcuni il Pdl sarebbe in leggera ripresa e supererebbe il Pd; secondo altri sarebbe invece in ulteriore caduta. Comunque i messaggi di Berlusconi sono ancora ascoltati da un 15-18 per cento di elettori. Non è molto, ma neanche poco se si considera che dopo sei elezioni (questa sarebbe la settima) il bilancio consuntivo dei risultati promessi è zero.

Qui subentra la diagnosi storica di Giovanni Orsina, autore di un libro di grande interesse intitolato "Il berlusconismo nella storia d'Italia".
È una diagnosi spietata, che del resto abbiamo più volte anticipato su queste pagine: un populismo congenito ad una parte rilevante di cittadini italiani, che per alcuni si tinge di moderatismo conservatore, per altri di "peronismo", per tutti di disprezzo e indifferenza nei confronti della politica, delle istituzioni, dello Stato. L'uomo della Provvidenza rappresenta una sorta di ciambella di salvataggio. "Ci pensi lui, purché lasci a noi la libertà di arrangiarci come meglio ci pare, salvo darci una mano nei momenti di bisogno". Ma se la mano non gliela dà, allora la colpa non è sua ma di chi glielo ha impedito: le istituzioni, lo Stato, la politica, le toghe rosse, i comunisti.

La diagnosi di Orsina è impietosa. Gli esempi punteggiano la storia di questo Paese e ne spiegano la fragilità democratica. L'opposizione purtroppo ci ha messo del suo. Si spera che, almeno in questo passaggio così difficile, ritrovi compattezza e quel senso di servizio che dovrebbe essere l'essenza d'una forza politica consapevole della sua funzione.

***

Abbiamo già visto che l'inapplicabilità della legge Severino voluta dai sudditi di Berlusconi non ha i presupposti giuridici prima ancora che politici. La richiesta tassativa di Alfano dell'abolizione dell'Imu manca dei presupposti economici.

Il progetto Letta-Saccomanni era un rinvio, già abbastanza oneroso, di quell'imposta ed una sua "rimodulazione" che favorisse i ceti più deboli dei proprietari di prima casa. Questo fu l'impegno assunto con queste precise parole dal presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia accordatagli dal Parlamento.

La richiesta di Alfano sovrappone all'impegno del governo un impegno preso dal Pdl con i suoi elettori lo scorso febbraio. Qual è l'ostacolo? La totale mancanza di copertura. Il rinvio e la rimodulazione costerebbero 4 miliardi e già trovarli sarebbe stato un problema, ma l'abolizione totale ne costerebbe più del doppio con effetti proiettati negli anni successivi, rendendo pertanto impossibile mantenere il deficit entro il 3 per cento e il pareggio del bilancio entro l'esercizio in corso.

Aggiungiamo che i veri beneficiari dell'abolizione dell'Imu sono i possessori di case di elevata consistenza patrimoniale. Se l'Imu fosse interamente abolita bisognerebbe infatti lasciare a terra tutti gli impegni per rilanciare l'occupazione, finanziare la Cassa integrazione in deroga, sostenere il precariato, la cultura, la scuola, i Comuni.

L'abolizione dell'Imu non mette cioè in pericolo soltanto gli impegni assunti con l'Europa, ma ha un contenuto socialmente regressivo che va respinto con assoluta decisione.

In queste condizioni il governo Letta è praticamente in crisi. Ma Letta non deve esser lui a dimettersi, debbono essere i ministri del Pdl ad andarsene. È facile prevedere che il Presidente della Repubblica rinvii Letta in Parlamento e, se sarà sfiduciato, ci sarà probabilmente un Letta-bis con un obiettivo teorico ed un altro politico; quello teorico è che si apra una "faglia" all'interno del Pdl e arrivino di lì i voti necessari ad avere in Senato una nuova anche se esile maggioranza.

L'obiettivo pratico è quello di un governo che riformi la legge elettorale sulla base dei rilievi già enunciati dalla Consulta: premio al 40 per cento e libertà di preferenza agli elettori.

A questo punto nasce il problema Grillo. Lui vuole andare al voto con la legge esistente sperando di vincere per poi rifare lui il Porcellum abolendo la libertà di mandato in modo da continuare a tener per la briglia i suoi parlamentari. Ma questa volta, se il Pd sarà compatto nella difesa dell'interesse generale e dello stato di diritto, è non solo auspicabile ma probabile che molti degli astenuti e degli elettori di sinistra emigrati nel febbraio scorso verso Grillo rientrino in linea nel Pd.

Questa è la posta in gioco. Il Paese è in gioco e la destra populista al comando del sire di Arcore se ne sta assumendo per la settima volta la responsabilità.

(25 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un nuovo partito per la destra italiana
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2013, 09:51:53 am

Un nuovo partito per la destra italiana

di EUGENIO SCALFARI


Due notizie meritano una breve anteprima. La prima è la volatilità di Berlusconi che l'altro ieri ha dato per certa la caduta del governo Letta se gli sarà tolto lo scranno di senatore, ma ieri ha detto esattamente il contrario affermando l'incrollabile fiducia nel suddetto governo indipendentemente dalle sue vicende giudiziarie. La seconda notizia è la nomina di quattro senatori a vita da parte di Napolitano alle persone di Abbado, Piano, Rubbia ed Elena Cattaneo.

La volatilità mentale è a volte un dono di natura, altre volte è una sciagura. Quando può influire sui destini di un Paese può arrecare gravi danni e questo è il caso. Resta da capire se nel caso specifico si tratti d'un elemento caratteriale o d'un sopravvenuto disturbo mentale. L'unico rimedio è di non dargli alcuna importanza.

La scelta dei quattro senatori è in perfetta linea con i requisiti previsti dalla Costituzione. Le reazioni del centrodestra, dei giornali berlusconiani e della Lega sono state di motivare quella scelta con ragioni politiche volte a rafforzare al Senato il centrosinistra. La stessa reazione ha manifestato Travaglio. La comunanza non è casuale: si tratta di fango che imbratta le mani di chi lo maneggia.

Fine dell'anteprima.

In un mondo sempre più interdipendente gli elementi negativi e quelli positivi si intrecciano senza posa e il termometro che ne misura l'andamento ne registra ogni giorno l'intensità e le aspettative che ne derivano.

Nella settimana appena trascorsa l'alternarsi degli eventi e gli effetti che hanno prodotto hanno toccato il culmine della confusione tra timori e speranze, ottimismo e pessimismo. Pensate all'Egitto, ai venti di guerra in Siria che potrebbero incendiare tutto il Medio Oriente, ai sintomi di crisi nell'economia dei Paesi emergenti, ma anche alle buone notizie sulla ripresa dell'economia americana e ai segnali  -  timidi ma visibili  -  d'un miglioramento dell'economia europea.

I mercati, sempre molto sensibili a queste diverse sollecitazioni, hanno registrato fedelmente quanto accadeva. Alla fine il bilancio della settimana è moderatamente positivo anche se il circuito mediatico tende a mettere in evidenza le cattive notizie che producono più sensazione delle buone.

Per quanto riguarda l'Italia i temi che hanno tenuto banco sono stati: la sorte politica e giudiziaria di Berlusconi, le conseguenze sul suo partito e sul governo, la questione dell'Imu, dell'Iva, dei rapporti con l'Europa, le attese prevalenti dell'opinione pubblica. Senza dimenticare l'imminenza delle elezioni politiche tedesche che avranno influenza su tutto il continente e anche fuori di esso.

Dalla settimana che ora comincia le agenzie di sondaggio riprenderanno il loro lavoro ma fin d'ora sappiamo che l'opinione più diffusa, al di là delle diverse posizioni politiche, è in favore della stabilità. L'ipotesi di imminenti elezioni politiche o di crisi di governo prive di alternative credibili, creano timore e rifiuto. Questo sentimento è comune al 70-80 per cento dei cittadini e rappresenta quindi una condizione che determina l'intera nostra situazione politica ed economica.

La cosiddetta abolizione dell'Imu è un effetto di quella condizione determinante. La stabilità ne è uscita rafforzata ed è destinata a reggere nonostante le bizze, le rivalità e la faziosità del piccolo mondo politico che stenta a recuperare consapevolezza e dignità di comportamenti.

* * *
Berlusconi si sente perso e fa di tutto per non abbandonare il proscenio dove da vent'anni e più recita la parte del protagonista. Voleva e vuole dominare il governo, logorarlo, ricattandolo e ingraziandosi il favore del pubblico con proposte che possono riscuotere favore popolare. L'abolizione dell'Imu era una di queste. In realtà a lui e ai suoi fedeli importa assai poco dell'Imu. Del resto fu lui a introdurre l'Ici, poi ad abolirla, poi a ripresentarla sotto altra forma. Ma oggi lo slogan di abolirla definitivamente gli avrebbe fatto gioco, era il modo per puntellare la sua presenza sul proscenio nonostante la sentenza di condanna definitiva. "Se io resto l'Imu sarà cancellata": questo è stato lo spot dell'ultimo mese. Adesso questo spot è caduto e resta in piedi la sola questione che veramente interessa il protagonista: non uscire di scena. Si direbbe che, risolta la questione Imu, il re è nudo. Inutile dire che quel nudo offende al tempo stesso la morale e l'estetica, non dei moralisti e giustizialisti ma dei milioni di persone perbene che hanno assistito con indignazione e disgusto alla corruzione dilagante, al prevalere degli interessi privati, al degrado della società e della dignità del Paese.

Il re è nudo e un regime è finito. Questo tema diventerà in un prossimo futuro dominante per tutti i moderati italiani che dovranno trovare nuove forme di rappresentanza, lontane dal populismo e dall'uomo della Provvidenza. È un tema che non interessa soltanto i moderati ma anche la sinistra democratica e riformatrice. Va dunque discusso con consapevole responsabilità.

Il tema dell'Imu merita tuttavia ancora qualche parola per chiarirne la portata che a mio avviso non è stata spiegata secondo realtà.

Nel suo discorso di investitura di qualche mese fa in Parlamento Enrico Letta aveva detto che l'Imu sarebbe stata "rimodulata". In che modo? Sostituendola con un'altra imposta comunale sugli immobili, come esiste in tutti i Paesi europei.

Ci volevano alcuni mesi di tempo per effettuare questa rimodulazione; nel frattempo il pagamento delle rate dell'Imu sarebbe stato sospeso. Così è ora avvenuto. L'Imu 2012 (già pagata) non è stata rimborsata come aveva promesso Berlusconi, ma la prima rata 2013 è stata cancellata con decreto e una copertura certa e approvata dalla Ragioneria dello Stato. L'abolizione del saldo è un impegno politico che prenderà forma di decreto a metà ottobre insieme alla legge finanziaria e al disegno della nuova "service tax" che sostituirà l'Imu rimodulandola.

Questo è avvenuto e avverrà e non si vede in che cosa tradisca gli impegni presi da Letta quando ottenne la fiducia. Le poche risorse disponibili potevano essere utilizzate per altri e più importanti scopi sociali? Credo di sì, ma il governo sarebbe stato battuto con lo spot sull'Imu e il re non sarebbe stato denudato di fronte alle sue private responsabilità. Senza governo è evidente che nessun'altra decisione poteva esser presa. Si sarebbe aperta quella crisi politica che il grosso dei cittadini non gradisce ed anzi rifiuta.

Infine: per quanto riguarda il saldo dell'Imu, la copertura nelle sue grandi linee c'è già, ma il decreto non c'è ancora ed è una delle necessarie astuzie della politica. Soltanto a metà ottobre Berlusconi sarà definitivamente decaduto dagli incarichi pubblici; se il suo partito e lui stesso perdessero la testa e i ministri si dimettessero dal governo, la rata dell'Imu dovrebbe essere pagata dai contribuenti, la rimodulazione non avverrebbe e l'intera responsabilità cadrebbe sulle spalle del Pdl.

Questa è la realtà di quanto è avvenuto. Restano ovviamente aperte le questioni delle risorse, dell'Iva, della crescita e dell'occupazione; questioni in parte di pertinenza europea ed in parte italiana. Le possibilità non mancano. Saranno indicate a fine ottobre con la legge finanziaria. Complessivamente occorrono circa 15 miliardi, fermo restando l'impegno a contenere il deficit entro il 3 per cento. Abbiamo più volte affrontato questa risolvibile questione. Tra due mesi dagli annunci si passerà ai fatti. Se così non fosse, allora sì, il governo verrebbe meno ai suoi scopi e non meriterebbe più la fiducia.

* * *

Nel frattempo  -  lo ripeto  -  i moderati debbono costruire una forma di rappresentanza politica che abbandoni totalmente il populismo e si configuri come una destra democratica ed europea rendendo possibile l'alternanza con una sinistra democratica e riformista. È interesse di tutti che questa trasformazione avvenga e non mancano nel Pdl persone che stanno già lavorando a quel progetto: Quagliariello, Lupi, Cicchitto e molti altri. Vanno incoraggiati, ma il loro compito è molto difficile; la sua riuscita presuppone infatti che in Italia esista una borghesia moderata che dia lo sfondo sociale ad una simile operazione.

Purtroppo in Italia una borghesia moderata non c'è, anzi  -  per essere ancora più chiari  -  in Italia non esiste una borghesia se con questa parola s'intende una classe generale che abbia al tempo stesso un ruolo economico, sociale, politico. E purtroppo non esiste più una classe operaia che sia anch'essa una classe generale con ruoli economici, sociali e politici.

Classe generale significa un ceto sociale che coltivi al tempo stesso i suoi propri interessi nel quadro dell'interesse di tutti. I partiti rappresentano (dovrebbero rappresentare) l'articolazione politica di queste classi che si contrappongono e si alternano nel governo del Paese, divise nelle rispettive visioni del bene comune ma accomunate dal rispetto della democrazia, dello Stato di diritto e dello spirito liberale che tutto consente a tutti nel rispetto dell'eguaglianza di fronte alle legge, delle pari opportunità e del principio di difendere la libertà altrui come la propria.

Sono principi elementari, affermati da molti a parole ma praticati da pochissimi nei fatti e questo è il vero male italiano. Ne ho molte volte esposto le cause originarie e non starò qui a ripetermi. Ma un fatto è certo: l'ultimo in ordine di tempo (con molti predecessori) a danneggiare gravemente questi principi e questi valori è stato Silvio Berlusconi. Il compito dei suoi successori è arduo ma necessario e se anche il risultato fosse parziale sarebbe pur sempre un avvio. Il tempo è venuto, hanno pochi mesi a disposizione. Perciò si muovano subito altrimenti si troveranno di fronte soltanto alle rovine prodotte dall'implosione del regime che hanno consentito a Berlusconi di costruire con la loro complicità.

(01 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il legno storto che vorremmo raddrizzare
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2013, 04:22:00 pm

Il legno storto che vorremmo raddrizzare

di EUGENIO SCALFARI


IL LEGNO con il quale siamo costruiti è storto, lo disse Kant e lo riprese Isaiah Berlin titolandoci un suo libro. Il legno è storto ma guai a tentare di raddrizzarlo perché è impossibile, bisognerebbe cambiare la natura stessa della nostra specie che sta a metà strada tra l'animale che vive di soli istinti e l'uomo animato da istinti ma anche da pensieri.

Di qui, da questa duplice natura di scimmia pensante nascono le nostre contraddizioni, le storture del nostro legno, ineliminabili perché connaturate, nostra disperazione e insieme nostra ricchezza. Le storture connaturate sono ineliminabili, ma spesso impongono una scelta e quindi una sfida perché ogni scelta comporta una sfida e noi, cittadini di questo mondo gremito di contraddizioni, viviamo a tal punto incalzati dalla necessità di scegliere che sempre più spesso precipitiamo nell'indifferenza, vedendo soltanto il nostro interesse immediato e particolare. Farò qui l'elenco di alcune di queste contraddizioni che ci riguardano da lontano, da vicino e da vicinissimo. Julia Kristeva, intervistata ieri da Franco Marcoaldi, ha ricordato che la radice dalla quale sono germinate negli ultimi due secoli sta nell'Illuminismo e nel suo confronto con la cultura dell'assoluto, il potere assoluto, la verità assoluta, cui l'Illuminismo oppone il soggetto individuale, la verità soggettiva e quindi relativa.

Di qui nascono le contraddizioni moderne, la prima delle quali, che ha dominato l'attualità dei giorni scorsi e di quelli che verranno, sta nel dramma siriano e nei due contrastanti modi di risolverlo.

Ovvero la punizione di Assad per le stragi delle quali è imputato e il pacifismo invocato e promosso da papa Francesco che ha toccato il culmine con la giornata di preghiera e digiuno in cui il capo della cristianità cattolica ha coinvolto le religioni di tutto il mondo e i laici non credenti che non condividono "la guerra che chiama la guerra".

Papa Francesco non ignora ed anzi censura con la massima severità le stragi di civili e di bambini innocenti, attribuite al regime siriano, addirittura con bombe al gas nervino vietato da convenzioni internazionali, ma esclude, il Papa, che la forza delle armi sia lo strumento idoneo; spera che la pressione del pacifismo da lui promosso induca le parti a cercare un compromesso e che il regime siriano dal canto suo cessi ogni repressione e convochi le parti in contrasto a discutere e a provare il passaggio dalla dittatura tribale ad un regime di libertà e di pacifica convivenza controllato da osservatori internazionali.

Se questa iniziativa avesse successo, le sue ripercussioni potrebbero servire di esempio per altri Paesi del Medio Oriente a cominciare dall'Iran, dall'Egitto, dall'ormai secolare conflitto tra Israele e Palestina, dal Kurdistan, dal Libano.

La visione del Papa è altissima e non utopica, potrebbe funzionare qui e ora, ma deve misurarsi con interessi di potere difficilmente permeabili.

Obama, che sogna anche lui la pacificazione del Medio Oriente e la convivenza pacifica dell'Occidente con l'Islam, ritiene però che per demolire le posizioni di potere tribale e fondamentalistico in Siria sia necessaria una prova di forza. La visione pacifista non è utopica ma è o può essere velleitaria. Perché il pacifismo abbia successo ci vorrebbe una mobilitazione tenace e duratura di tutte le piazze siriane, un rifiuto delle truppe di Assad a sparare sui cittadini dissidenti, un disarmo controllato bilaterale e totale, che lascerebbe però campo libero ai terroristi di Al Qaeda.

Insomma l'iniziativa "francescana" non basta, può contribuire ma va rafforzata da una punizione esemplare.
 Quanto all'Onu, essa non autorizza l'operazione di forza perché il veto russo e cinese blocca il Consiglio di sicurezza. Questa è un'altra intollerabile stortura: i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non rappresentano più il mondo di oggi e si sono collocati al di sopra di ogni principio democratico. In un organo mondiale dove l'Europa, l'India, il Brasile, l'Africa non sono rappresentati e il diritto di veto supera ogni maggioranza alternativa, la stortura è evidente.

Come si vede, queste diverse posizioni sono molto difficilmente conciliabili. "Tra un giorno, una settimana, un mese" vedremo col fiato in gola che cosa accadrà. Se debbo esprimere un'opinione personale dico: non sono affatto indifferente, mi sento coinvolto nel dilemma, temo una guerra che chiama la guerra, ma credo anche che l'incolumità e i diritti dei cittadini siriani vadano difesi. Conclusione: non so scegliere tra Francesco e Obama.

***

Il tema siriano è al tempo stesso lontano e vicino, ma ce n'è un altro che è vicinissimo, è in casa nostra anche se le sue ripercussioni possono estendersi a tutta l'Europa.

Si chiama Berlusconi, la sua condanna, il suo partito, il governo Letta, il Partito democratico, il Movimento 5Stelle, la magistratura, il capo dello Stato. Insomma l'Italia e le sorti della democrazia italiana la cui fragilità sta attraversando una delle fasi più inquietanti della sua tormentata storia.

Se Berlusconi seguisse il consiglio che alcuni dei suoi collaboratori e familiari gli hanno dato e gli danno, dovrebbe dimettersi da senatore.

Guadagnerebbe un merito, agirebbe per il bene di un Paese che lui ha amato soltanto perché un vasto settore di opinione pubblica lo ha appoggiato e ancora l'appoggia da quasi vent'anni.

Le dimissioni da senatore e l'accettazione della condanna, l'abbandono della vita politica sarebbero il primo e solo merito, tutti gli altri vantati da lui e dai suoi fedeli sono assolute bugie. Questo però sarebbe un merito notevole e denso di conseguenze positive: renderebbe necessaria la costruzione di una destra moderata e liberale rafforzando la democrazia; assicurerebbe il percorso del governo per il tempo necessario per l'adempimento del compito ricevuto a suo tempo dal capo dello Stato che l'ha nominato e dal Parlamento che l'ha fiduciato.

Penso, ma ovviamente esprimo anche in questo caso un'opinione personale, che se a quel punto e nelle forme dovute chiedesse un provvedimento di clemenza, forse l'otterrebbe. Temo però che le cose non andranno in questo modo. Temo che i suoi legulei tentino di sollevare un processo di revisione della sentenza della Cassazione interpellando la Corte d'appello di Brescia.

Per guadagnare tempo, giorni o settimane o mesi qualora il ricorso fosse accettato.

C'è poi la tentazione della sinistra movimentista e para-grillina di buttar giù il governo e andare alle elezioni.

Perfino, come vorrebbe Grillo, col "Porcellum".

Tentazione molto pericolosa, che troverebbe però, come da lui più volte dichiarato, l'opposizione di Napolitano che non scioglierà mai le Camere se il "Porcellum" non sarà abolito e non prima comunque che sia approvata la legge finanziaria. Cioè non prima del febbraio-marzo 2014.

Se questo fosse l'esito, la "tentazione movimentista" avrebbe come risultato quello di riprecipitare l'Italia nel girone dei dannati, dei sorvegliati speciali, dei peccatori congeniti. Ho apprezzato i nobili intenti espressi dall'amico Vittorio Sermonti nella lettera aperta dai noi pubblicata, ma vedo anche lì una mancanza di realismo estremamente pericolosa. Se Berlusconi riuscisse a non andare in galera, dobbiamo rispondere nei prossimi giorni buttando giù il governo Letta. Questa è la tesi di Sermonti, che mi consentirà però di ricordare le vicende di Abelardo ed Eloisa che immagino lui conosca benissimo.

Questo discorso, inutile dirlo, vale anche per il Partito democratico nelle sue varie componenti, correnti, fazioni.

Il Congresso va certamente fatto, ma la questione preliminare è se l'appoggio al governo Letta si limiti a "qualche cosuccia" cui deve provvedere nel giro di pochi mesi, oppure alla durata almeno fino al semestre europeo con presidenza italiana, cioè il tempo minimo per la realizzazione degli obiettivi che gli sono stati affidati.

Se il Congresso non risolverà preliminarmente questo problema, sarà certo importante per ricostruire l'identità d'un partito ancora molto ammaccato e scegliere un leader che la impersoni nel quadro d'una nuova ed efficiente struttura organizzativa, ma affiderà al prescelto una cambiale in bianco su un tema che condiziona la posizione internazionale, sociale ed economica del Paese. Non mi sembra il momento delle cambiali in bianco quando si percorre un sentiero accidentato che attraversa precipizi nei quali si può cadere. Ci pensino bene le componenti, le correnti, le fazioni del Pd e chi le rappresenta. La scelta che sono chiamati a fare li rende corresponsabili di cambiali in bianco rilasciate senza aver chiarito la questione preliminare ed essenziale.

***

C'è un'ultima contraddizione, attuale ma storica perché vecchia di secoli: come mai gran parte degli italiani è politicamente indifferente e perché un quarto almeno dei non indifferenti vota da vent'anni per Berlusconi? La risposta l'abbiamo data già molte volte ma è bene ripeterla in un Paese di corta memoria: indifferenti o berlusconiani o grillini, odiano lo Stato, le istituzioni, la politica. Per secoli hanno visto la loro terra governata da Stati stranieri e tirannici, Signorie, altrettanto tiranniche, una borghesia inesistente, una cultura ristretta a ceti privilegiati, un'economia di rapina.

Di qui il ritrarsi nel proprio interesse particolare, il disprezzo dell'interesse pubblico, la fragilità d'ogni tentativo di modernizzazione affidato ad élite presto trasformatisi in caste.

Questa è stata la storia del Paese e di questa paghiamo il prezzo, sperando in una svolta che ci consenta di uscirne.

Talvolta queste svolte ci sono state, ma sono durate poco e il vecchio andazzo è ricominciato. Speriamo che il buon momento stia arrivando anche se i presagi sono ancora tempesta.


(08 settembre 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una scintilla per la nostra anima
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2013, 04:29:39 pm
Opinione

Una scintilla per la nostra anima

di Eugenio Scalfari

È la quarta forza di questa travagliata fase d'epoca, quella della modernità, insieme a tecnologia, economia e scienza.

Un ente, un io, un soggetto che deve conoscere se stesso e ritrovare la luce che gli appartiene. Un compito difficile

(30 agosto 2013)

Viviamo la fase finale di un'epoca - quella della modernità - dominata dalla potenza di quattro forze: la tecnologia, l'economia, la scienza, l'anima.
La natura delle prime tre è evidente, sono le forze che in un brevissimo arco di tempo hanno compiuto un'accelerazione miracolosa cambiando gli assetti del mondo intero. Se paragoniamo questo XXI secolo appena cominciato con l'assetto sociale di tutto il pianeta agli inizi del XX, ci rendiamo conto che un mutamento così profondo nell'arco di tempo di cent'anni non si era mai verificato prima. E' aumentata l'interdipendenza tra le sue varie parti, l'intelligenza artificiale ha compiuto il miracolo di nascere e di assumere un ruolo di traino incomparabile quando i nostri nonni illuminavano le loro case con la luce a petrolio o le candele e viaggiavano a piedi o a cavallo o in carrozza.

Tecnologia, economia, scienza stanno divorando il tempo e lo spazio, il mondo è diventato più piccolo, si ragiona e si opera in tempo reale, il futuro ci piomba addosso con la forza della velocità d'una cascata immensa che ci sottrae la possibilità di programmarlo individualmente. La tecnologia può immaginare il futuribile, la mente senza l'ausilio e il dominio della tecnologia può soltanto sognare il futuro, con scarsissime probabilità che quel sogno si realizzi. Questo è il vero motivo della scomparsa delle ideologie, diventate a causa di questa spinta irresistibile oggetti d'antiquariato.

Ho detto che la quarta forza che domina la fase d'epoca che stiamo vivendo è l'anima, ma il suo dominio è del tutto diverso da quello esercitato dalle altre tre. L'anima è il centro dove si incrociano le sofferenze di quanto sta accadendo, della vertigine che ci circonda, del futuro che ci attraversa, dei sogni che non si realizzano. E' il crogiolo delle contraddizioni che non possono risolversi e sono infatti uno dei segni distintivi della contemporaneità.
L'anima è il pensiero creativo che ha messo in moto questa fase d'epoca. L'ha immaginata, l'ha voluta, l'ha cantata con la musica e la poesia, l'ha spiegata con la filosofia, sempre sperando che fosse portatrice di felicità. Invece ne ha perso il controllo rimanendone schiacciata.

Questa fase d'epoca è dunque il dramma dell'anima che ne è la protagonista. L'anima di ciascuno di noi, la nostra essenza che chiamiamo io e che si esprime con la parola, è tutt'altro che morta e tutt'altro che arresa. Combatte. Vorrebbe riappropriarsi di quanto è uscito dal suo pensiero. Il suo modo di combattere è quello di conoscere. Se stessa in particolare. E poi la potenza intrinseca delle forze che l'hanno espropriata. Vuole rimettere in trono la parola.
Ricordate come comincia il Vangelo di Giovanni? «In principio era il Verbo e il verbo era presso Dio ed era Dio il Verbo.
Le cose tutte furono fatte per mezzo di Lui e senza di Lui nulla fu fatto di quanto esiste».

Il Verbo, la parola. E' questa l'essenza dell'anima? L'evangelista Giovanni fa coincidere la parola con Dio, ma ci sono stati molti studiosi ed anche molti mistici cristiani e arabi che sostengono esattamente il contrario: Dio non si può esprimere, chiamare, invocare con la parola. E Dio, quanto a lui, non parla. Dio emette luce e una scintilla di quella luce è in ciascuno di noi. Dio - in questa visione che è al tempo stesso mistica e laica - è l'Essere. Se parlasse con noi sarebbe un Ente e non l'Essere.
L'anima è un ente, un soggetto, un io, che può riassumere il suo ruolo in questa agitata fase d'epoca conoscendo se stessa e ritrovando così quella scintilla di luce che le appartiene.
Non è certo un compito da poco, ma di questo si tratta.

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La verità, vi prego, sui confini dell'amore
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2013, 05:12:17 pm

La verità, vi prego, sui confini dell'amore

di EUGENIO SCALFARI


TRA i tanti articoli che sono stati scritti sulla lettera a me diretta da papa Francesco ce n'è uno di Vito Mancuso pubblicato venerdì scorso sul

nostro giornale ("Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino"). Lo cito perché pone un problema che merita d'esser approfondito: chi sono i

non credenti, quelli che nel linguaggio corrente sono definiti atei?

Mancuso non è un ateo, anzi è un fine teologo credente, ma la sua è una fede molto particolare e la descrive così:

"Credo alla luce che è in me laddove splende nella mia anima ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo.

Quella luce ci permette di superare noi stessi e liberarci dall'oscurità dell'ego, da quella bestia che certamente fa parte della condizione umana

ma non è né l'origine da cui veniamo né il fine verso cui andremo. La fede in Dio lega l'origine dell'uomo alla luce del Bene orientando l'uomo

verso la solidarietà e la giustizia".

Insomma Mancuso crede nel Pensiero che porta verso il Bene. Quel Pensiero è Dio e ci ispira solidarietà e giustizia.

Trovo suggestivo questo suo modo di pensare e di sentire. La fede infatti è un sentimento che proviene dall'interno dell'uomo, dal suo "sé" ed

erompe verso la mente dove hanno sede il pensiero e la ragione. Sono molte le persone che, rifiutando le Sacre Scritture, la dottrina della Chiesa e

la sua liturgia, credono "in qualche cosa" che in parte sta dentro di noi e in parte ne sta fuori. Per metà sono credenti, per un'altra metà non lo

sono.

La secolarizzazione della società moderna viaggia in gran parte su questa lunghezza d’onda. A me è capitato più volte di domandare ad amici ai quali

mi legano simpatia, frequentazione, comunità di progetti e di lavoro: tu credi? Molto spesso la risposta è affermativa, ma se ancora domando: in che

cosa? La risposta è appunto “in qualche cosa”. È un’ipotesi consolatoria, un aldilà incognito che comunque promette un proseguimento della vita

“fuori dallo spazio e dal tempo” come scrive Mancuso, oppure è un abbozzo di pensiero che non viene approfondito perché i bisogni e gli interessi

quotidiani, la concretezza dei fatti e degli incontri, incalzano e ingabbiano dentro lo spazio-tempo che non può essere facilmente accantonato?

La bestia pensante è esattamente questo: istinti animali che la mente riflessiva fa lievitare. L’essere sta, diceva Parmenide; l’essere diviene

diceva Eraclito; l’essere è formato dagli elementi della natura, diceva Empedocle. Qualche tempo dopo arrivò Platone e la sua pianura della verità,

i suoi archetipi, modelli trascendenti, punti di riferimento della bestia pensante.

Se bestia pensante non piace possiamo nobilitarla chiamandola “homo sapiens”, oppure darle un nome mitologico che la nobiliti ancora di più. Io lo

chiamo Eros, non il paggetto alato che accompagna Venere-Afrodite e lancia le frecce per infiammare i cuori, ma una forza originaria del cosmo,

signore di tutte le brame e di tutti i desideri. La nostra, prima ancora di essere una specie pensante, è una specie desiderante. Si obietterà che

tutte le specie viventi desiderano ed è vero, ma i desideri dell’animale sono coatti e ripetitivi, quelli della nostra specie sono invece evolutivi

e da un desiderio appagato ne nasce immediatamente un altro. Perciò noi siamo una specie desiderante perché desideriamo desiderare ed Eros è la

forza della vita e ne misura l’intensità.

***

C’è una poesia di Auden che ad un certo punto invoca: «La verità, vi prego, sull’amore»; ma delle varie specie d’amore parlano anche, e molto, La

Rochefoucauld, Pascal, Leopardi, Baudelaire, ciascuno a suo modo.

C’è primo tra i primi, l’amore per se stesso; La Rochefoucauld lo chiamò amor proprio, la mitologia lo chiamò Narciso, il giovane che rimirandosi

nelle acque d’un lago si innamorò di se stesso. L’amore per se stesso è il fondamento della nostra vita perché noi viviamo con noi stessi 24 ore su

24. Se ci odiassimo saremmo vittime di un disturbo mentale che potrebbe arrivare al “tedium vitae” e persino al suicidio. Ma se il narcisismo

oltrepassa la soglia fisiologica al punto di escludere ogni altra specie d’amore, allora diventa egolatria, auto-idolatria. È una patologia alquanto

diffusa e molto pericolosa per la società.

Poi c’è l’amore per l’altro, la coppia di innamorati, anche questo con molte sottospecie, il rispecchiamento reciproco, l’attrazione sessuale per

l’altro sesso oppure per lo stesso, l’amore platonico, l’amicizia amorosa, l’affinità elettiva.

Infine l’altra e grandiosa forma d’amore, quella per gli altri, visti come “prossimo”, cioè l’amore per la specie, la fratellanza dei sentimenti, la

famiglia. Ricordate il detto evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”?

Dunque Gesù non escludeva l’amore per sé, e come avrebbe potuto escluderlo visto che era un uomo, fosse o non fosse il figlio di Dio? Il miracolo

che si proponeva di compiere era di parificare l’amore per il prossimo a quello verso se stesso, ma poi, quando pensò (o rivelò) d’essere figlio di

Dio, allora l’asticella del miracolo diventò molto più alta: non voleva soltanto elevare l’amore verso di sé e quello per il prossimo allo stesso

livello di intensità, ma pensò che dovesse abolire interamente l’amore proprio e concentrare sul prossimo tutto il sentimento amoroso di cui

ciascuno dispone.

Gli è riuscito questo miracolo? Direi di no, anzi dopo due millenni dalla sua venuta l’amor proprio è diventato più intenso e quello verso gli altri

è fortemente diminuito.

Se il mio dialogo con papa Francesco continuerà, come spero ardentemente che avvenga, questo credo che potrebbe essere il tema: far crescere l’amore

per gli altri almeno allo stesso livello dell’amor proprio. Gesù di Nazareth fu martirizzato e crocifisso per aver voluto testimoniare la scomparsa

dell’amore verso di sé. Volle cioè andare oltre la natura della bestia pensante che il Creatore aveva creato.

Il miracolo fallì, ma l’incitamento rimase e fu raccolto dai suoi discepoli, dai suoi apostoli, dai suoi fedeli ed anche dagli uomini di buona

volontà. Siano essi credenti nell’Abba, nel Dio mosaico, in Allah, o in “qualcosa” o atei ma consapevoli.

Per questo continuo a pensare che il vero culmine del Cristianesimo non sia la resurrezione di Cristo, ma la crocifissione di Gesù, non la conferma

dell’esistenza d’un aldilà ma l’esempio e l’incitamento all’amore del prossimo, alla giustizia e alla libertà responsabile nell’aldiquà.

***

Questo che segue è un post scriptum sulla politica, anche se aumenta la mia personale noia per la sua attuale ripetitività. Perciò sarò molto breve.

Berlusconi sembra aver perso — come si dice — la trebisonda; eppure il percorso che ha davanti a sé è molto chiaro: dovrebbe dimettersi da senatore

e, se desidera ottenere provvedimenti di clemenza dal Capo dello Stato, li chieda nelle forme previste dalla legge. A quel punto Napolitano valuterà

e deciderà come ritiene più opportuno. Non esistono altre vie e salvacondotti perché nella nostra Costituzione non esiste il “motu proprio” e

nessuno può inventarselo.

La legge Severino la si può valutare come si vuole, ma la sua applicazione dipende dal confronto delle diverse opinioni. I senatori del Pdl

voteranno compatti per il ricorso alla Consulta, il Pd e quelli che la pensano allo stesso suo modo voteranno contro. Poi si andrà in aula e il voto

sarà ripetuto, segreto o pubblico, si vedrà. Tutto questo è normale e proceduralmente corretto ma quale che sia il risultato arriverà circa negli

stessi giorni il pronunciamento della Corte d’Appello di Milano sulla durata della pena accessoria di interdizione dai pubblici uffici che completa

la sentenza definitiva della Cassazione. Quindi Berlusconi sarà comunque interdetto e i provvedimenti di pena accessoria non rientrano nell’

eventuale atto di clemenza che gli venisse concesso.

Parliamo ora del governo Letta. I ministri, a qualunque partito appartengano, quando sono nominati dal Capo dello Stato acquistano una figura

diversa da quella di uomini di partito poiché le istituzioni sono titolari dell’interesse generale mentre i partiti hanno ciascuno una propria

visione del bene comune.

Infine l’economia. Il timore d’una caduta del governo ha già fortemente danneggiato il nostro Paese. Il valore dei titoli del debito pubblico è

diminuito scendendo al di sotto di quello spagnolo. La recessione continua mentre il resto d’Europa sembra uscirne sia pure lentamente. Un

provvedimento importante sarebbe l’abbattimento del cuneo fiscale. Penso che Letta dovrebbe deciderlo subito. Non ha risorse sufficienti? Emetta

titoli pubblici e ne destini il ricavato a questo obiettivo. Sappiamo che il ministro Saccomanni sta studiando questo problema ed esaminando tutte

le possibili alternative, ma non c’è più tempo da perdere e la stessa Bce ci chiede di non guardare troppo meticolosamente il fabbisogno se lo si

destina alla crescita reale.

Così pure bisogna muoversi sulla riforma della legge elettorale e per l’abolizione del finanziamento dei partiti già prevista nel disegno di legge

all’esame del Parlamento. Se il Parlamento indugia ancora il governo ponga un limite di tempo ed emetta decreti sui quali porre la fiducia.

Questi sono i miei pensieri insieme a quello che ripeto ancora una volta: auspico per il bene del Paese e dell’Europa che Letta continui a

presiedere il governo fino al compimento del semestre europeo con presidenza italiana, cioè fino all’inizio del 2015. Se questo avverrà con il

dinamismo necessario, saremo anche noi fuori dal tunnel.

Quanto al Pd, sia compatto su questo obiettivo e nel frattempo ricostruisca la sua ammaccata identità di partito riformista della sinistra

democratica italiana ed europea.

Buona sera e buona fortuna.

(15 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/15/news/la_verit_vi_prego_sui_confini_dell_amore-66545367/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Napolitano, Letta, Draghi: lo scudo Italia-Europa
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 11:01:48 pm

Napolitano, Letta, Draghi: lo scudo Italia-Europa

di EUGENIO SCALFARI


PER cominciare prendo le mosse da due citazioni tratte dal “Diario” di Friedrich Hebbel: «La caparbietà è il più economico surrogato del carattere » e «la massa non fa progressi ».

Una gran parte dell’odierna situazione italiana è racchiusa in questi aforismi. La caparbietà di Berlusconi nel privilegiare se stesso, i propri interessi e la loro prevalenza rispetto ad ogni altro obiettivo fa premio su ogni altro aspetto del suo carattere, anzi è il suo carattere.
Quanto alle masse, esse mantengono la loro natura attraverso lo scorrere del tempo; nel caso specifico continuano ad essere affascinate e sedotte dalla demagogia, dalle promesse sempre riaffermate e mai mantenute, delle quali è intessuta la storia d’Italia nei decenni e addirittura nei secoli che stanno alle nostre spalle. Gli individui possono cambiare ed evolvere, le masse no; i loro comportamenti sono ripetitivi e i voti incassati dal Pdl e da Grillo ne sono la prova. Ancora una volta la demagogia seduce identificando in un singolo uomo la sorte di un intero Paese, mentre lo spirito critico che dovrebbe essere il lievito della democrazia si rintana nell’indifferenza e nel prevalere degli interessi particolari su quello generale.

Questi malanni non sono un’affezione soltanto italiana, se ne trovano tracce nel mondo intero, ma qui da noi hanno un’intensità e un’ampiezza molto più marcata che altrove, definiscono il carattere di un popolo e la fragilità delle sue istituzioni.

Queste comunque, per fragili e deformate che siano, sono i mattoni dei quali il cantiere Italia dispone. Chiunque voglia cimentarsi a costruire soluzioni appropriate alle difficoltà dei tempi che stiamo attraversando deve possedere la capacità di padroneggiare quel tipo di materiale di cui il cantiere dispone.
Il governo Letta, come il governo Monti, non sono stati una scelta ma il prodotto necessario d’una situazione priva di alternative. Adesso ancora una volta siamo di fronte ad una crisi che rimette in discussione e nega l’esistenza di quello stato di necessità; una crisi tutta nostra, innestata su una crisi più generale che sconvolge da sette anni l’Occidente del mondo. Riusciranno i nostri eroi? con quel che segue.
***
Il pregiudicato Silvio Berlusconi non si acconcia alla condanna che lo ha colpito e alle altre che si profilano all’orizzonte. Risponde attaccando e lo fa con la sua consueta abilità. Si presenta ancora una volta come il perseguitato, l’agnello sacrificale contro il quale si accaniscono le forze del male; promette benessere e libertà con gli stessi contenuti che da vent’anni ripete: meno tasse, più investimenti, più consumi, più lavoro, più mercato e meno Stato. Ha sempre perseguito questi obiettivi ma le forze del male gli hanno sempre impedito di realizzarli.

Le forze del male hanno nomi ben precisi: magistrati e comunisti. Sempre loro, da vent’anni.

Il governo Letta è diventato la proiezione politica di quelle forze. Lui e il partito di cui è il proprietario l’accettarono anzi lo vollero perché ne riconoscevano la necessità e soprattutto lo concepivano come un elemento di pacificazione a loro favore. Ma ora è emerso, con la condanna a lui inflitta dalla magistratura sua nemica, che quel governo necessario è diventato impossibile. A meno che non faccia atto di sottomissione ai suoi voleri, collabori alla sua difesa e al suo riscatto e soprattutto capovolga la sua politica e adotti quella da lui perseguita. Quella politica ci porterebbe fuori dall’euro? Pazienza. Fuori dall’Europa? Ancora pazienza. Forse sarebbe addirittura un vantaggio, potremmo tornare padroni della nostra moneta, padroni di stamparla, di svalutarne il cambio per incentivare le esportazioni, riguadagnando così una maggiore competitività. E dopo tre o quattro anni di questa cura, rientrare in Europa e nella moneta europea a bandiere spiegate.

Questo è l’obiettivo di fondo, ma non è detto che non si possa realizzare “senza spargimento di sangue”. Perciò, per ora, il governo Letta resti pure in vita ma ad una condizione: adotti quella politica. I cinque ministri del Pdl restino pure ai loro posti ma impongano al riluttante presidente del Consiglio il programma prescritto dal loro padrone. Se non lo faranno saranno sconfessati come traditori; se tenteranno di fare quanto possono ma senza risultati, allora il governo cadrà e si andrà a votare.

E se, per impedire ancora una volta un programma così popolare, le famose forze del male passeranno al contrattacco, il popolo si risvegli e si sollevi. Un titolo sul Foglio di ieri indica con obiettiva chiarezza questa situazione: “Come far convivere un Cav. condannato e un premier spendaccione”. Questo è l’evidente e l’esplicito programma di Forza Italia nelle prossime settimane. Il periodo di prova durerà al massimo fino a dicembre, poi la guerra esploderà nella sua imponenza.
***
Il Pd è sempre più alle prese con i suoi problemi interni: l’assemblea che doveva deliberare alcune modifiche di statuto e mettere il timbro sull’accordo tra le varie correnti già raggiunto, è saltata perché all’ultimo momento è mancato il numero legale. Ne è nata
una “cagnara” poco decorosa che Epifani ha tentato di superare ma con scarsi risultati. Queste continue schermaglie tolgono a quel partito la possibilità di risollevarsi e ristrutturarsi. Da elettore democratico Renzi non mi sembra molto adatto alla carica di segretario, ma se questa è l’opinione della maggioranza mi pare più che giusto che essa abbia modo di manifestarsi.

A parte queste osservazioni il Pd per quanto riguarda lo scenario nazionale, reagisce nel solo modo possibile: denuncia la manovra berlusconiana e il pericolo che essa rappresenta per il Paese ma, dal canto suo, si preoccupa anch’esso di tracciare un programma gradito agli elettori se e quando si dovesse andare al voto: non meno tasse ma distribuite in modo diverso, più progressivo sui redditi e sui patrimoni più alti, una redistribuzione del reddito che faccia diminuire le diseguaglianze e rilanci lavoro e produttività.

Questo è anche il programma di Letta ma la differenza è nei tempi di realizzazione. Letta procede con lentezza secondo il Pd. Deve accelerare il passo, rispettare gli impegni europei ma passare al trotto se non al galoppo, e se il Pdl lo impedisse, allora meglio andare alle urne.

La maggioranza dei simpatizzanti Pd è su queste posizioni e Renzi le cavalca con abilità. Vuole vincere il Congresso per attuarle e riesce ad avere l’appoggio non soltanto della parte più moderata del suo partito, ma anche di quella riformista e perfino della sinistra. È di questi giorno l’appoggio del sindaco di Milano, Pisapia, che fu candidato di Vendola.

Renzi è un torrente in piena. Ciriaco De Mita in una recente intervista al Corriere della Sera ha dato di Renzi una perfetta definizione: i torrenti nel nostro Paese hanno una forza che tutto travolge nelle stagioni in cui sono in piena; poi, quando arriva l’estate, vanno in secca. Renzi è in piena se si voterà nei prossimi mesi, ma se dovesse aspettare un paio di anni andrà in secca e la sua forza sarà molto diminuita. Diverso – ha detto De Mita – è l’andamento dei fiumi: procedono più lentamente con una velocità più o meno costante ma ampliando il loro letto sempre di più fino a quando sboccano al mare.

Fin qui De Mita. Ritengo molto appropriata la sua immagine, dove Renzi è il torrente e Letta il fiume. Capisco chi oggi sostiene il primo, purché non impedisca a Letta di fare il suo percorso nell’interesse del Paese. Ove questo accadesse lo fermino o saranno corresponsabili delle conseguenze.
***
Oggi si vota in Germania e Bernardo Valli da Berlino ci ragguaglia su queste pagine delle previsioni e poi dei risultati di quelle elezioni. Appare fin d’ora chiaro che la Merkel vincerà ma che i suoi alleati liberali non entreranno in Parlamento, sicché sembra inevitabile una coalizione con i socialdemocratici e i Verdi. Ma è probabile anche che entrino nel Bundestag l’Adf il partito anti-europeo.

Ne deriveranno conseguenze preoccupanti perché esso farà di tutto per ottenere dalla Corte costituzionale tedesca sentenze che impongano al governo la revisione dei trattati che vincolano la Germania all’Europa. Non credo che la Merkel ceda a quella pressione, ma questo è comunque un fatto di capitale importanza per l’evoluzione dell’Europa verso uno Stato federale senza il quale sarà difficile una politica di crescita economica e di solidarietà sociale nel Continente.

Perciò le elezioni di oggi sono estremamente rilevanti anche per noi. Letta lo sa bene e lo sa altrettanto bene Napolitano e anche Mario Draghi, presidente della Bce. Sono i nostri tre punti di forza, che hanno l’Europa come obiettivo preminente per l’avvenire di tutti.
Se questa realtà è chiara, occorre operare, ciascuno nell’ambito delle sue competenze, affinché si realizzi.

(22 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/22/news/napolitano_letta_draghi_lo_scudo_italia-europa_di_eugenio_scalfari-67005465/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quelle élite che hanno aiutato B.
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:32:47 pm
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Opinione

Quelle élite che hanno aiutato B.

di Eugenio Scalfari


Il ventennio del Cavaliere è stato favorito anche da gruppi intellettuali che hanno scelto il favoreggiamento del senso comune. Non è una novità, in Italia: basti pensare a Longanesi e Prezzolini

(20 settembre 2013)

Di solito non leggo i libri che hanno come oggetto il personaggio Silvio Berlusconi e il berlusconismo.
Non li leggo per un peccato di superbia del quale sono consapevole: presumo cioè di sapere già abbastanza sul tema in questione, ho conosciuto il personaggio e l'ho frequentato quando eravamo concorrenti e poi durante la lunga lite sul controllo della Mondadori. Da quando nel '94 entrò in politica i nostri rapporti personali sono cessati, ma ne sapevo già molto e quel che è accaduto nei successivi vent'anni me l'ha confermato.
Il libro da poco uscito di Giovanni Orsina, dal titolo "Il berlusconismo nella storia d'Italia" l'ho invece letto. L'autore è ancora giovane, insegna alla Luiss, scrive sul "Foglio" e qualche suo articolo mi ha incuriosito.

La tesi di Orsina prende le mosse da due citazioni molto ben scelte: una di Vincenzo Cuoco tratta dalla sua classica opera sulla rivoluzione giacobina della Napoli del 1799 e l'altra di Carlo Levi tratta dal suo libro "Cristo si è fermato ad Eboli". Cuoco sosteneva che «la smania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione» e che il popolo (in tutto il mondo) segue gli usurpatori perché essi si impadroniscono della "volontà generale" ma lasciano agli individui ampia libertà di risolvere a loro modo i loro interessi particolari. Levi partiva invece da un altro punto di vista che non si oppone alla tesi di Cuoco ma la completa aggiungendovi l'elemento della diseguaglianza che divide profondamente i ceti sociali tra ricchi e poveri, colti e analfabeti, inclusi ed esclusi dal progresso sociale e dai suoi benefici: «Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo; nessun messaggio umano o divino si è mai rivolto a questa povertà refrattaria».

Orsina parte da queste due visioni di Cuoco e di Levi, risale (nientemeno) alla "Repubblica" di Platone guidata dai filosofi e definisce il berlusconismo come l'esito sociale e politico di questi fattori combinati insieme. Esiste una terapia per curare un male così esteso e così ricorrente? Secondo Orsina in teoria esiste ma in pratica non ha funzionato. Lui la chiama terapia ortopedica che, attraverso opportune protesi sociali dovrebbe combattere le diseguaglianze segnalate da Levi e modernizzare le società arretrate instaurando finalmente una piena democrazia di eguaglianza e libertà. Il compito non può che essere affidato a una "élite" di modernizzatori, ma ci vuole tempo per ottenere qualche risultato, sicché l'élite finisce per trasformarsi in una vera e propria "casta" che penserà solo a mantenere il suo potere anziché proseguire nei suoi sforzi di modernizzazione. La democrazia ci sarà, ma solo per l'élite; tutti gli altri ne sono fuori e quindi contro.

La tesi non scopre nulla che non sia già stato detto e scritto, salvo una visione volutamente pessimistica che tradisce, magari inconsapevolmente l'intenzione di giustificare il berlusconismo e di mettere sul suo stesso livello l'élite modernizzatrice trasformatisi in casta. La conseguenza è che il cosiddetto populismo risulta essere il prodotto inevitabile di una situazione immobile e di una storia sostanzialmente ripetitiva. E' così?

In parte è così, in parte no. Anzitutto perché spesso i ceti esclusi, deboli, poveri, incolti, prendono coscienza delle cause della loro condizione e generano gli anticorpi che rendono possibile un'evoluzione positiva; in parte perché non sempre le élite modernizzatrici si trasformano in altrettante caste. La democrazia funziona nell'ambito delle élite, il contrasto tra le diverse concezioni del bene comune evita talvolta la formazione di caste, con i benefici che ciò comporta. Ovviamente sono processi lunghi che dipendono dalle sorprese che la storia ci riserva. Dipendono dalla differenza tra il senso comune e il buonsenso, dalla collocazione internazionale del paese di cui si discute, dalla geopolitica che determina i punti di partenza. Il berlusconismo è stato un elemento negativo che ha trovato élite modernizzatrici assai deboli che non hanno saputo contrastarlo con efficacia e gruppi intellettuali che non sono riusciti né a tonificare le élite né a evitare una sorta di favoreggiamento del senso comune contro il buonsenso. Questo favoreggiamento viene da molto lontano ma nella fase a noi più prossima ha come precursori Longanesi, Prezzolini e i loro numerosi successori.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quelle-elite-che-hanno-aiutato-b/2214919/18


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Al Capone è all'angolo ma ancora può colpire
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 07:32:33 pm
Al Capone è all'angolo ma ancora può colpire

di EUGENIO SCALFARI


Il Caimano del regista Nanni Moretti aveva già previsto tutto con qualche anno d'anticipo sui politici e così pure la "ballata" di Roberto Benigni; l'ho ricordati nel mio articolo di domenica scorsa e li ricordo qui ancora una volta.
 
Ma l'attore Moretti che nell'ultima parte del film impersona il Caimano ha poco a che fare con Silvio Berlusconi: è un uomo lucido, severo, terribile e soprattutto coerente. Afferma davanti al Tribunale che lo condannerà, che l'uomo (lui) eletto dal popolo a grande maggioranza non può esser giudicato dalla magistratura e rafforza questa sua posizione anche dopo la condanna esortando il popolo alla rivolta senza mai costruire una qualsiasi alternativa e senza affidarsi al consiglio d'un amico o d'un consulente o d'un esperto.

Non ha dubbi, non ha incertezze, non ha ripensamenti, non ragiona con le viscere ma col cervello.

Il Berlusconi vero non è affatto così, anzi è l'opposto di così e lo si vede chiaramente con quella sorta di film dal vero che si è svolto mercoledì scorso sotto i nostri occhi.

Alle dieci del mattino esce da Palazzo Grazioli di fronte al compatto muro di telecamere e fotografi che lo aspettano al varco e va a Montecitorio dove è riunito il grosso dei dirigenti del partito e dei gruppi parlamentari. Li arringa, ribadisce la necessità di votare contro il governo Letta, non apre contraddittori e se ne va.

Palazzo Grazioli però è una porta aperta e i suoi consiglieri lo seguono e salgono fino al suo appartamento. Falchi e colombe fanno ressa, litigano tra loro, alcuni vengono chiamati nello studio dove sta il Capo, con l'ansia e l'angoscia che gli rodono il fegato e gli pesano sulle palpebre. Alfano, Lorenzin, Gelmini, Cicchitto, Sacconi, sostengono la fiducia al governo; Bondi, Santanché, Verdini, Brunetta, Carfagna, il contrario. Lui ascolta, si tormenta le dita, si passa le mani sul volto, si dimena sulla poltrona. Poi quasi li caccia coadiuvato dalla fidanzata. Soffre ed è evidente a tutti. Fa pena o almeno questo è il racconto che alcuni di loro fanno a chi li attende fuori. Un nuovo confronto è indetto a Montecitorio per il primo pomeriggio.

Intorno alle ore 14 la votazione sulla fiducia sta per cominciare. Letta ha già parlato ed è stato chiaro e deciso, ha esposto le linee del programma economico e di riforma della Costituzione, ha manifestato l'intenzione che il governo duri fino alla fine del 2014, appena terminata la presidenza semestrale del Consiglio europeo. Ma ha anche aggiunto che non vi saranno mai più leggi "ad personam" o "contra personam" riaffermando che le azioni di giustizia, quali che siano, riguardano fatti privati e non debbono avere alcuna conseguenza sul governo che deve soltanto occuparsi degli interessi generali del paese.

Intanto la discussione ferve sempre più accesa nella sala dove il gruppo dirigente del Pdl è riunito attorno al suo "boss". Ma il boss sempre più aggrondato, cupo, tormentato, sudato, che ha perso il piglio dell'Al Capone dei tempi d'oro che gli è stato abituale per trent'anni, ed ora sembra un Re Travicello, sbattuto tra le onde e gli alterchi che s'incrociano intorno a lui. E loro, quelli che disputano sul da fare, sul voto che tra poco ci sarà, sulle conseguenze che ne deriveranno, non si curano più di lui.

Gridano, qualcuno prende a spintoni qualcun altro, alcuni sospirano, altri addirittura piangono. Lui spesso chiude gli occhi che ormai sono diventati due fessure a causa dell'ennesimo lifting mal riuscito e della rabbiosa emozione che lo tormenta.

Ogni tanto un commesso bussa alla porta e avvisa che la "chiama" sta per cominciare. A quel punto lui si scuote, si alza e con voce decisa annuncia che si voterà la sfiducia.

Chi non se la sente resti fuori dall'aula o non voti, che al Senato equivale al voto contrario.

Quasi tutti sciamano, escono nella galleria dei "passi perduti", gremita di giornalisti, infine entrano in aula.

Bondi annuncia pubblicamente con piglio tracotante che il Pdl voterà "no" e così, nell'aula della Camera, fa Brunetta. Non ci sono sorprese in nessun settore delle due assemblee e sui banchi del governo.

Ma Alfano e Lupi sono rimasti dentro e Gasparri con loro.

Per l'ennesima volta gli espongono le ragioni che militano a favore del voto di fiducia. Lui continua a negarle e rifiutarle anche se il sudore riappare sulla sua fronte e le mani sono strette e quasi aggrovigliate l'una nell'altra. A un certo punto  -  la "chiama" è già cominciata  -  arriva affannato il vice di Schifani, presidente del gruppo parlamentare in Senato, e gli consegna un foglio di carta dove sono incollate le foto scattate da un fotografo in aula alle spalle di Quagliariello con sopra scritti i nomi dei senatori pidiellini pronti a varcare il Rubicone e a schierarsi a favore del governo Letta. Sono 23 ma si sa già che stanno per arrivare altre due adesioni ed altre ancora arriveranno. In quelle condizioni, scrive Schifani nel suo biglietto, lui non si sente di fare una dichiarazione di voto a nome di un gruppo ormai spaccato e chiede a Berlusconi di farla lui.

Risultato: il boss si avvia con passo alquanto incerto verso l'aula, va al suo seggio, gli viene data la parola e dice a bassa voce quello che abbiamo sentito in tivù e che tutti i giornali di giovedì hanno pubblicato: il Pdl voterà la fiducia ma insulta per l'ennesima volta la magistratura e il Pd. Luigi Zanda, immediatamente dopo di lui, rinvia all'ancora Cavaliere gli insulti ricevuti con parole dure e annuncia la fiducia a nome del partito da lui rappresentato.

Lo spettacolo, perché di questo si tratta, continua con le telecamere che dal loggione riservato alla stampa inquadrano ininterrottamente Berlusconi che si copre gli occhi con le mani e Letta che dopo quella dichiarazione rivolgendosi ad Alfano seduto accanto a lui gli dice "grande" alludendo ironicamente all'ex boss del centrodestra che ormai ha sancito la propria irrilevanza tentando però di coprire la spaccatura del suo partito.

* * *

Così più o meno sono andate le cose nella giornata-culmine della storia degli ultimi vent'anni. La fine di Berlusconi è anche quella del berlusconismo? Il rafforzamento del governo e la sua stabilità? La crescente forza attrattiva del Pd che sembrava perduta da un pezzo? Così sembrerebbe e così è sembrato quel pomeriggio di venerdì. Ma poi sono sorti alcuni dubbi non infondati che Letta e i suoi più stretti collaboratori stanno valutando e che in questi due giorni drammatici seguiti alla strage degli immigrati a Lampedusa, sono avvenuti sotto traccia anche se qualche indicazione è stata cautamente manifestata.

Se Berlusconi avesse la natura del Caimano recitato da Nanni Moretti, a questo punto non avrebbe avuto dubbi: avrebbe dato ad Alfano la guida del Pdl, si sarebbe dimesso da senatore e si occuperebbe soltanto delle questioni proprie e delle sue aziende. Il Caimano di Moretti fece l'opposto: chiamò il popolo alla rivolta, ma con coerenza, senza mai aver oscillato come il pendolo d'un orologio. Se avesse indicato la strada della conciliazione, l'avrebbe seguita con altrettanta coerenza.

Ma qui, nel Berlusconi vero, sono le viscere a parlare. E' bugiardo, segue gli umori, non ha alcuna visione del bene comune, odia lo Stato e le istituzioni, è un fantastico venditore di frottole, posseduto da un narcisismo finto spinto all'egolatria.

Perciò farà di tutto per vendere ad Alfano e ai suoi moderati un moderatismo di carta d'argento con dentro cioccolatini avvelenati. Tenterà di logorare il governo facendo leva sui ministri che l'hanno ancora nel cuore (Beatrice Lorenzin l'ha detto e ripetuto a "Porta a Porta" di Vespa). Non sarà più senatore ma sarà ancora e sempre presidente della coalizione, perfino se dovesse andare in galera. Impedirà - fingendosi definitivamente persuaso ad appoggiare il governo - che si formi un gruppo parlamentare fuori dal Pdl.

Metterà in disparte pitoni e pitonesse.

Accetterà che i giornali di famiglia siano diretti da persone gradite ad Alfano. Ma coverà la rabbia e la vendetta aspettando che possano manifestarsi con effetti efficaci. E fidando sulla sopravvivenza del berlusconismo in una parte comunque ragguardevole del corpo elettorale.

A queste evenienze occorre che tutti quelli che hanno una visione del bene comune, moderata o progressista che sia, guardino con la massima attenzione.

Il modo migliore sarebbe di far nascere nuovi gruppi parlamentari e un nuovo partito di centrodestra o di centro. E che insieme al Pd governi questa fase di necessità e approvi la legge elettorale proposta da Violante, fondata su criteri proporzionali con ballottaggio tra i primi due partiti o coalizioni che abbiano riscosso più voti.
Quest'ultimo risultato è essenziale, anche in assenza di gruppi elettorali che dividano in due il Pdl.

Il primo appuntamento sarà tra una ventina di giorni: il voto al Senato sulla decadenza di Berlusconi da senatore.

È un voto pieno di insidie. I pidielle voteranno in massa per Berlusconi, forse con qualche defezione ma poche. Il Pd in massa per la proposta approvata dalla Giunta. I grillini altrettanto. Quindi una maggioranza schiacciante sulla decadenza. Ma andrà veramente così? Pesa ancora il ricordo dei 101 voti contro Prodi di cui ancora si ignora la provenienza; in questo caso possono venire da grillini che li attribuiscano a dissidenti del Pd o da dissidenti del Pd che li attribuiscano ai grillini; o da tutti e due che fanno lo stesso gioco. Dunque molta attenzione.

Il serpente è tramortito ma ci mette poco a riaversi e mordere ancora.

Da – repubblica.it


Titolo: GLORIA BAGNARIOL. Scalfari e Cacciari, dialogo sulla democrazia "Non è solo ...
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2013, 04:32:58 pm
Scalfari e Cacciari, dialogo sulla democrazia "Non è solo una questione di voto"

Il filosofo e il fondatore di Repubblica hanno discusso dell'Europa e della qualita della sua democrazia.

L'ex sindaco di Venezia: "Dove il potere politico è debole cresce la forza della burocrazia".

Il giornalista: "Il Comune è il punto dove si realizza la partecipazione"


di GLORIA BAGNARIOL


MESTRE - "Europa e euro: dentro o fuori?" Questo il tema scelto per la quinta edizione di Repubblica delle Idee. che fra l'inaugurazione alla Fenice di Venezia e le giornate mestrine ha visto una grande partecipazione di pubblico in teatro ed anche sui social network, su Twitter l'hashtag #rep2013ve è statto fra i trend topic del week end. La risposta che si è venuta a creare attraverso gli incontri e le tavole rotonde dei primi due giorni che hanno ospitato imprenditori e politici locali, nazionali e europei è stata chiara: dentro. Anche le condizioni sono state condivise: è necessario un salto da un'unione meramente monetaria a una politica. Ma cosa significa? La risposta è stata affidata all'incontro conclusivo della manifestazione: il dialogo tra Eugenio Scalfari e Massimo Cacciari, nel quale si è indagata la qualità democratica di cui questa Europa ha bisogno. Per concludere che "la democrazia non è solo questione di voto".

"Pericle  -  spiega Eugenio Scalfari  -  è ancora raccontato nei libri di storia come il simbolo massimo della democrazia greca, madre di tutte le democrazie. C'era partecipazione nel popolo di Atene? Sicuramente no, e questo può bastare a dire che non c'era democrazia?". Bisogna quindi mettersi d'accordo sul senso del termine e, come chiarisce Massimo Cacciari: "Articolare il tipo di democrazia del quale abbiamo bisogno per poterne salvare l'idea". Partire dalla convinzione che la democrazia non si esaurisce nel voto, ma ha bisogno della partecipazione.

La storia degli Stati nazionali ha portato a una declinazione del concetto di democrazia che non può applicarsi tout court al Vecchio Continente che ha avuto un percorso evolutivo differente. Secondo Cacciari, con il quale Scalfari concorda, "L'Europa è policentrica per sua natura e non può essere ridotta a uno. Tutti coloro che ci hanno provato hanno fallito, ha fallito anche Napoleone". Il presupposto necessario è quindi realizzare il passaggio da confederazione a federazione: "Sganciarsi dall'idea di uno Stato centrale per poter ragionare seriamente e serenamente in termini federalistici".

Una federazione che abbia competenze determinate per poter risolvere le sfide di una società globale alle quali gli Stati-nazione non possono trovare da soli le risposte e che garantisca a livello locale il rapporto con il cittadino, necessario a garantire quella sovranità che ora sente di aver perduto. "Il Comune - sottolinea Scalfari - il municipio nelle metropoli, è il punto in cui si realizza al meglio la partecipazione, mano mano che si sale si può avere solo una democrazia indiretta".

Non bisogna quindi chiedersi se vogliamo l'Europa, ma quale Europa vogliamo e come poterla costruire, come la sua articolazione possa difendere quei valori che riconosciamo come fondanti. Repubblica delle idee ha scelto Venezia per parlarne proprio perché "questa terra - come ha detto il direttore Ezio Mauro - quando parla di Europa parla di se stessa". La quinta edizione termina quindi tra gli applausi del pubblico del Teatro Toniolo e con l'invito di Ezio Mauro a partecipare alle prossime tappe: "Abbiamo scelto questa notte dove andremo nel 2014, ma devo ancora avvertire il sindaco, quindi non posso dirlo".

(13 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

da  - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/venezia-mestre2013/2013/10/13/news/scalfari_cacciari-68499370/


Titolo: Eugenio Scalfari. - Qui si fa l’Europa o si muore
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 06:00:49 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Qui si fa l’Europa o si muore

Eco ha ragione: l’identità europea si è deteriorata. Per ricrearla bisogna partire dalle istituzioni, non dal sentimento popolare
      
Nella “Bustina di Minerva” della scorsa settimana Umberto Eco mette sotto la sua lente d’ingrandimento il tema dell’identità europea, diventato di stringente attualità, e osserva che quell’identità si è assai deteriorata. Si potrebbe anzi dire, ed Eco infatti lo dice, che sia addirittura scomparsa sotto le ondate del razzismo e di un ritornante nazionalismo tanto più nefasto quanto più al di fuori e contro una positiva evoluzione che avrebbe dovuto portarci verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa.

Eco ricorda che fin dagli albori dell’anno Mille gli studenti e i docenti si trasferivano da un’Università all’altra comunicando tra loro attraverso il latino che era rimasta la lingua franca comune a tutti quelli che appartenevano alla classe colta. Per tutti i successivi mille anni le classi colte e gli artisti continuarono a scambiarsi opinioni, opere, scoperte, trasferendosi anche fisicamente da un paese all’altro, trovando committenti dovunque e cordiale ospitalità. Per qualche secolo la lingua franca continuò a essere il latino, ma poi le si aggiunsero e infine la soppiantarono altri linguaggi, in parte derivanti dal celtico, in parte dallo stesso latino e dall’anglosassone. A un certo punto l’ostacolo linguistico fu superato dallo spagnolo, dal sassone, dal francese fino a quando - a partire dal Seicento - la lingua comune delle classi dirigenti divenne il francese, poi affiancato e infine soppiantato dall’inglese.

ECO RICORDA con nostalgia il “germanesimo” che si coglie in alcuni personaggi proustiani, anche mentre infuriavano guerre sanguinose tra i due paesi. Potrei aggiungere che perfino in tempi nazisti c’erano in Germania ufficiali e gerarchi del partito che adoravano l’arte italiana, la musica francese, i romanzi russi e lo sperimentalismo inglese. E perfino le grandi opere di autori di origine ebraica; ma poi, terminata la lettura o il concerto in questione, riprendevano freddamente a trucidare ebrei nei campi di sterminio e a lanciare bombe sulla popolazione civile di Londra e di Parigi. L’identità europea era dunque strettamente limitata alla classe colta e molto spesso dissociata nei comportamenti di quelle stesse persone. Comunque non fu mai un’identità politica: le nazioni europee, le loro classi dirigenti e i popoli si sono massacrati per 2 mila anni di seguito passando da una guerra all’altra con brevi pause che non furono mai una vera pace ma soltanto transitori armistizi. Bisogna arrivare al 1945 per trovare finalmente una pace che sembra ormai consolidata da un comune sentire di popoli e di classi dirigenti che hanno deposto le armi; una situazione del tutto nuova che dura ormai da quasi settant’anni e speriamo duri per sempre. Ma gli Stati Uniti d’Europa no, non sono ancora nati, c’è una confederazione guidata dai governi nazionali di 28 paesi, 17 dei quali hanno una moneta comune e cresceranno ancora di numero.

MA È ESATTO DIRE che l’identità europea è ancora lontana, i popoli non la sentono e anzi regrediscono verso il razzismo, il nazionalismo, l’anarchismo, i localismi, proprio nel momento in cui la società globale si afferma nell’economia in tutto il mondo e crescono Stati che rappresentano interi continenti: la Cina, l’India, il Brasile, l’Africa meridionale, l’Indonesia e - ovviamente - il Nord America. La cultura europea, anzi occidentale, è sempre più integrata, ma l’identità politica resta del tutto inesistente e quella economica procede con passi ancora molto stentati. Esiste una qualche soluzione a questo scottante problema? Per quanto mi riguarda ci ho pensato a lungo e sono arrivato alla conclusione che la costruzione di un’identità politica europea non si può raggiungere partendo dal sentimento popolare. Per questa strada non arriveremo mai a realizzare l’obiettivo che ci proponiamo, anzi andremo (stiamo andando) indietro.

DOBBIAMO PARTIRE DALL’ALTO. Dobbiamo operare sulle classi dirigenti affinché costruiscano vere e proprie istituzioni europee, con successive ma rapide cessioni di sovranità da parte delle istituzioni nazionali. Oggi la sola istituzione europea dotata di poteri autonomi è la Banca centrale (Bce) sebbene i suoi poteri siano ancora limitati e il suo direttorio sia ancora nominato sulla base di accordi tra i governi nazionali. Così non va, ci vogliono istituzioni schiettamente europee, forze politiche europee, un Capo della federazione eletto da tutti i cittadini europei e così un Parlamento con i poteri che attualmente hanno i Parlamenti nazionali.

Questa è la rivoluzione che deve accadere entro i prossimi dieci anni, ma è inutile illudersi che possa avvenire senza che si profili un’egemonia e una leadership politica. Democratica certamente, nel senso che l’egemonia e la leadership debbono risultare dal peso effettivo del paese che lo merita e deve essere contendibile in qualunque momento. Oggi il paese egemone c’è ed è la Germania. È egemone di fatto e vuole esserlo, ma non vuole assumersi la leadership, preferisce personaggi di modesta levatura e senza alcun potere effettivo; vuole insomma gestire l’Europa ma per interposte persone. Questa è l’egemonia peggiore perché non è contendibile e mantiene l’Europa a livello di confederazione.

Abramo Lincoln per superare una situazione analoga scatenò una guerra che fu poi battezzata col nome di guerra di secessione e costò all’America 600 mila morti, più del numero di americani morti nelle due guerre mondiali sommati insieme. In Europa non corriamo più questo pericolo perché “abbiamo già dato” massacrandoci tra noi per 2 mila anni dopo la “pax romana”. Ma dobbiamo insediare una leadership effettiva e continentale, oppure saremo irrilevanti in un mondo globale dove i continenti si confrontano tra loro.
31 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2013/10/23/news/qui-si-fa-l-europa-o-si-muore-1.138714


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Due giorni intensi che non potrò dimenticare
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:17:22 pm

Due giorni intensi che non potrò dimenticare

di EUGENIO SCALFARI
17 novembre 2013
La scissione del Pdl e la nascita di quella che noi chiamiamo la destra repubblicana rappresenta una novità di grandissimo rilievo nel panorama della politica non soltanto italiana ma anche europea.
 
Il governo Letta ne esce rafforzato perché scompare la presenza di Berlusconi e del berlusconismo dalla maggioranza. La prima conseguenza riguarda l'essenza stessa del governo Letta-Alfano. Finora infatti si trattava d'una situazione di necessità anche se, con l'ipocrisia che a volte è politicamente indispensabile, molti si ostinavano a chiamarlo di "grandi intese". Ma dopo la scissione Letta- Alfano consente anche quelle intese per realizzare le riforme e gli interventi che la crisi europea richiede.
 
I partiti che ora compongono la nuova maggioranza senza Berlusconi debbono tener conto di questa novità e comportarsi di conseguenza. Soprattutto il Pd che ora è la maggiore forza politica non solo alla Camera ma anche al Senato.

Non mi diffonderò più a lungo su questo tema del quale da tempo il nostro giornale auspicava la realizzazione. In un futuro ancora lontano anche in Italia una destra moderata e liberale disputerà il potere con una sinistra liberal-socialista; ma nel frattempo entrambe sono impegnate insieme per riformare lo Stato e l'assetto europeo all'insegna del lavoro e dello sviluppo economico.

* * *

Ora però il tema di questo articolo sarà un altro.

Accadono a volte per puro caso delle giornate particolarmente intense, punteggiate da incontri che ti emozionano e ti suscitano una scia di ricordi e di pensieri che dal passato si riflettono sul presente e disegnano un ancora incerto futuro.

A me è accaduto tra giovedì e venerdì, a Roma prima e poi a Milano.

A Roma giovedì mattina ero, insieme a molte altre persone, al Quirinale dove si è svolto l'incontro ufficiale, ma in parte anche riservato, tra il presidente Napolitano e papa Francesco. Non si è parlato certo di teologia, ma di politica, in pubblico e in privato.

Il Concordato - del quale Napolitano ha ricordato l'inserimento nella nostra Costituzione che fu opera dell'Assemblea Costituente con il voto favorevole della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti, del Partito d'azione e dei liberali - assicura la leale collaborazione tra lo Stato (laico per definizione) e la Chiesa cattolica nelle loro due distinte sfere della politica e della religione.

Questa situazione dura dal 1947 ma c'è da qualche mese un'importante novità: la Chiesa non prenderà più iniziative "parapolitiche" né tramite la Segreteria di Stato vaticana né attraverso la Conferenza episcopale italiana.

Di fatto questo non era mai accaduto per secoli e secoli, anche dopo la caduta del potere temporale verificatasi il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma da parte dei bersaglieri. Il potere temporale era rinato sotto altre spoglie.

Ora Francesco ha messo il fermo. La Chiesa predica il Vangelo ed esorta all'amore del prossimo; questo e solo questo è il suo compito, in Italia come nel resto del mondo. Un compito molto impegnativo che servirà (dovrebbe servire) anche alla politica per attuare con i propri strumenti la stessa visione: solidarietà, tutela dei diritti, rispetto dei doveri, libertà e giustizia.

La libertà riguarda anche la Chiesa di Francesco che ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II ha deciso di dialogare con la cultura moderna.

Tutte queste questioni estremamente significative hanno echeggiato nelle sale del Quirinale e così si spiega l'amarissima constatazione di Napolitano che, di fronte a queste mete da perseguire, ha denunciato la situazione politica italiana, ammorbata da spirito di parte, interessi di gruppi e diffusione di veleni.

Ne abbiamo purtroppo conferma tutti i giorni e lì, nelle sale d'un palazzo che fu sede prima dei Papi, poi dei Re d'Italia e infine dei presidenti della Repubblica, erano presenti i vertici del governo, del Parlamento, dei partiti e delle gerarchie della Chiesa. Papa e Presidente hanno dato testimonianza del cammino ancora da compiere e della loro decisione di stimolarne con gli strumenti a loro disposizione il completamento.

Personalmente ne sono uscito assai confortato.

* * *

Milano è città assai diversa da Roma. Ci ho vissuto a lungo negli anni Cinquanta e poi l'ho sempre assiduamente frequentata. Ne fui consigliere comunale dal '60 al '63 e deputato dal '68 al '72; ma a Milano ci sono sempre state le redazioni dell'Espresso (dal 1955) e di Repubblica (dal 1976).

Venerdì scorso ho avuto modo d'incontrare nel corso di una cena in piedi una quantità di amici d'un tempo e di rievocare con loro la Milano di allora.

Qual era la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta? Quella della ricostruzione e poi del "miracolo italiano" nelle sue classi dirigenti politiche ed economiche? Chi erano gli esponenti di quei partiti, di quei sindacati, di quel capitalismo e di quella classe operaia? C'erano parecchi dei loro figli a quella cena dell'altro ieri: la figlia di Bruno Visentini, il figlio di Carlo Draghi, il figlio di Raffaele Mattioli, Maurizio, il figlio di La Malfa, la figlia di Aldo Crespi, la moglie e i figli di Franco Cingano. Io conoscevo i padri, ma poi ho incontrato anche loro e ne sono diventato amico. Sono i vantaggi, per mia fortuna, d'una lunga vita.

Adesso (lo dico tra parentesi) mi preparo a ritirarmi su una panchina del Pincio come mi ha consigliato Beppe Grillo, ma la data non l'ho ancora decisa e Grillo dovrà pazientare ancora un poco.

I cardini del capitalismo milanese d'allora, che forniva al paese gran parte della sua visione degli interessi ma anche dei valori d'una borghesia agiata e al tempo stesso colta, erano una singolare mescolanza d'imprenditori, banchieri e uomini politici e se dovessi indicarne il personaggio più rappresentativo di quella mescolanza farei il nome di Mattioli.

Era abruzzese di nascita, aveva esordito come segretario di Toeplitz; aveva assistito alla crisi bancaria del '32 e poi aveva preso il posto di amministratore delegato. Era stato il rifondatore della Comit (si chiamava così la Banca commerciale italiana) che era diventata con lui la più importante in Italia e una delle più importanti in Europa.

Ma Mattioli finanziava anche l'editore Riccardi che pubblicava in una splendida collana i classici della letteratura italiana; finanziava anche l'Istituto di studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce, dal quale uscirono personaggi come Omodeo, Calogero, Salvatorelli, Romeo, De Capraris.

Era amico di Sraffa, emigrato durante il fascismo a Cambridge e depositario per molti anni delle carte di Gramsci e del suo testamento.

La sera, terminato il lavoro, Mattioli teneva salotto nel suo studio alla Comit in piazza della Scala. Durava un paio d'ore e gli ospiti abituali erano Adolfo Tino che era stato uno dei dirigenti del Partito d'azione durante la Resistenza e che fu poi presidente di Mediobanca; Franco Cingano che era uno dei massimi dirigenti della Comit di cui poi diventò amministratore delegato; Leo Valiani. Ugo La Malfa e Bruno Visentini frequentavano il salotto Mattioli quando venivano da Roma a Milano e altrettanto faceva Elena Croce, figlia di don Benedetto, ed Elio Vittorini.

Mattioli a quell'epoca somigliava a Maurice Chevalier, l'attore francese. O almeno così pareva a me e un giorno glielo dissi. Lui si schermì ma da allora mi volle più bene di prima.

Ma in quegli stessi anni il capitalismo milanese era anche rappresentato da Leopoldo Pirelli, dai giovani membri della famiglia Bassetti, da Vincenzo Sozzani e soprattutto da Cuccia (Mediobanca) e Rondelli (Credito italiano).

Ricordo ancora che uno degli obiettivi di La Malfa, anzi il senso stesso della sua vita, era quello di cambiare la sinistra e il capitalismo. Li conosceva bene tutti e due, anzi era con un piede in una e un piede nell'altro. Lo stesso, nel suo medesimo Partito repubblicano, era l'obiettivo di Visentini e tutti e due videro con speranza e poi con giubilo l'arrivo di Berlinguer alla guida del Partito comunista.

Questo era allora il capitalismo, soprattutto nella sua proiezione bancaria ma non soltanto, e la sinistra riformatrice che aveva Gobetti e i fratelli Rosselli nel suo Dna ma si era anche nutrita del pensiero liberale di Croce e di Luigi Einaudi. Non dimentichiamoci che quest'ultimo fu il primo governatore della Banca d'Italia dopo la caduta del fascismo, poi ministro del Bilancio con De Gasperi e infine primo presidente della Repubblica.

Napolitano, militante e poi dirigente del Pci, deriva direttamente dalla cultura di Croce e di Einaudi. Adesso queste cose sembrano assurdità, ma allora la realtà era quella e fu quella a fare dell'Italia una democrazia e del capitalismo un sistema che apprezzava e sosteneva lo Stato sociale, il welfare e l'economia sociale di mercato.

Poi dalla fine dei Sessanta in giù, la situazione è cambiata, la partitocrazia ha occupato le istituzioni, una piccola parte della sinistra ha inclinato verso il terrorismo, mentre un'altra parte si è corrotta insieme al ventre molle della Dc e il capitalismo ha cambiato natura. Invece di costruire imprese, le ha dissanguate. Il capitalismo reale ha ceduto il posto alla finanza speculativa. I legami tra affari e politica non furono più culturali ma corruttivi e intanto il popolo sovrano diventava "gente", folla emotiva, materiale umano disponibile per i demagoghi e gli avventurieri.

Questo è purtroppo il paese. L'incontro con i discendenti del periodo migliore del Novecento mi ha al tempo stesso dato conforto e profonda tristezza, sperando che i figli emulino i padri ma disperando che riescano a educare la gente e farle riscoprire il popolo sovrano che è tutt'altra cosa.

Vorrei tanto che i giovani s'innamorassero di quest'idea ma se continuano a preferire l'avventura e gli avventurieri, allora non saremo più una nave ma una zattera con quel che ne segue.

* * *

Poi, prima di ripartire per Roma, la sera sono andato con mia moglie allo spettacolo di Nicoletta Braschi al teatro Parenti. Il programma era un testo di Samuel Beckett intitolato "Giorni felici". Nicoletta è una grande attrice di teatro, il testo da lei recitato è terribile ma splendido nella sua terribilità. Poi abbiamo cenato insieme a lei e a suo marito Roberto Benigni, con Franco Marcoaldi e Nadia Fusini.

Una volta scrissi che Benigni, quando Napolitano se ne andrà anche lui sulla panchina del Pincio come auspica Grillo, potrebbe benissimo andare al Quirinale.

Naturalmente era una battuta ma la cultura di Roberto e di Nicoletta è tremendamente seria e quello che pensa e come ama il nostro paese Benigni è esattamente quello che penso ed amo anch'io. Non siamo molti ma, come dice Beckett, la vita è fatta di poche cose. L'importante sarebbe di saperle scegliere e spero che questo avvenga.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/17/news/giorni_che_non_posso_dimenticare-71193754/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Fantasia e ragione al potere
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2013, 04:16:30 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Fantasia e ragione al potere

Nella letteratura moderna non esistono più i generi. Un grande autore esplora sé e la vita intorno con il suo linguaggio
In una recensione molto pregevole di qualche giorno fa pubblicata dal “Corriere della Sera” sull’opera di Milan Kundera, Alessandro Piperno sottolinea l’aspetto secondo lui più importante e innovativo di quell’autore che è certamente uno dei maggiori scrittori contemporanei: il completo e definitivo superamento dei generi letterari.

Riprendo quest’osservazione di Piperno perché concordo interamente con lui: la cultura moderna, a cominciare da Diderot, non tiene più alcun conto della filosofia, della poesia, del racconto, del romanzo, dell’aforisma. Un autore può - se vuole - comporre un libro che si propone un tema e ruota intorno ad esso, l’approfondisce, lo racconta, lo esprime con un suo linguaggio che nelle stesse pagine spazia tra quelli che un tempo erano generi nettamente distinti l’uno dall’altro, con una loro metrica non soltanto lessicale ma espressiva, non soltanto di forma ma di sostanza. La filosofia rispettava sempre nei suoi trattati e manuali la coerenza della logica e i principi della non contraddizione limitandosi all’esame dei concetti e non dei fatti. La lirica e l’etica si esprimevano attraverso la poesia la quale quasi sempre rispettava la scansione sillabica dei versi e la loro rima. Il romanzo - come anche l’opera teatrale - era centrato su personaggi creati dalla fantasia o talvolta romanzati ma storicamente vissuti.

Ora non più. Ho fatto il nome di Diderot; la sua innovazione fu una rottura radicale col passato e basterebbe paragonare uno qualunque dei suoi dialoghi - “Le neveu de Rameau” oppure “Le rêve de d’Alembert” o “Jacques le fataliste” - con la “Princesse de Clèves” di Madame de La Fayette per coglierne le differenze.

Ma dopo Diderot il superamento dei generi letterari tradizionali fece molta strada. Direi che il culmine fu raggiunto dalla “Recherche” di Marcel Proust e, a breve distanza di tempo, dall’“Ulisse” di Joyce, dove l’alternarsi e il mescolarsi dei fatti raccontati in presa diretta e nei minimi dettagli con il flusso di coscienza che nel frattempo si svolge nella psiche del personaggio costituiscono un unico tessuto letterario.
Qualche anno prima Dostoevskij li aveva anticipati con le “Memorie dal sottosuolo”, “I Diavoli” e “I fratelli Karamazov”, e Tolstoj con “Guerra e pace”, “Anna Karenina” e “La morte di Ivan Il’ic”. Qualcuno andò addirittura ancora più oltre e fu Nietzsche con “Così parlò Zarathustra”, con la “Gaia scienza” e con “Ecce homo”.

Io però mi sono affezionato - se è lecito usare quest’attributo parlando delle proprie preferenze letterarie - a due autori che sono vissuti e hanno operato nei primi trent’anni del Novecento. Non si conoscevano tra loro, vivevano in luoghi assai lontani per l’epoca e non lessero mai i libri dell’altro. Sono Rainer Maria Rilke nei “Quaderni di Malte Laurids Brigge”, che a mio avviso è il più bel romanzo moderno che sia stato scritto; e Ferdinando Pessoa nel suo “Libro dell’inquietudine”, l’opera che lo impegnò per tutti i brevi anni della sua vita.

Una citazione che credo valga la pena di fare dai “Quaderni” di Rilke: «La donna era sprofondata tutta in sé, in avanti, nelle sue mani. Era all’angolo di Notre-Dame des Champs. Appena l’ebbi vista cominciai a camminare più piano. Quando i poveri pensano, non bisogna disturbarli. Può darsi che trovino. La strada era troppo vuota, il suo vuoto si annoiava e mi toglieva il passo sotto i piedi risuonando in esso, là e qua, come uno zoccolo. La donna si spaventò e si sollevò via da sé troppo presto, troppo rapida e il suo viso le rimase tra le mani. Potei vederlo posato là dentro, la sua forma vuota. Mi costò uno sforzo indescrivibile fermarmi alle mani, non guardare quanto s’era strappato da essa. Inorridivo nel vedere un viso dall’interno, ma ben altro terrore avrei provato davanti alla testa nuda, piagata, senza viso».

E ora Pessoa, che qui scrive in versi: «Mi sono moltiplicato per sentire, per sentirmi, ho dovuto sentire tutto, sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi, mi sono spogliato, mi sono dato, e in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio differente. Passa tutto, tutte le cose in una sfilata attraverso di me e tutte le città del mondo mi rumoreggiano dentro». In questa rassegna di letteratura nuova che esplora al tempo stesso, nelle stesse pagine e nelle stesse righe il viaggio dentro di sé e quello nel mondo che da fuori ci circonda, ricordo il Montale degli “Ossi di seppia” e delle “Occasioni”, e Italo Calvino - a me carissimo - di “Palomar”, del “Visconte dimezzato” e delle “Lezioni americane”. Termino con brevi versi di Jorge Luis Borges: «Sono chi guarda le prore dal porto; sono i miei pochi libri, le mie poche incisioni dal tempo consunte; sono colui che invidia chi è già morto. Più strano essere l’uomo che ora intesse parole in una stanza di una casa». Questa è la grande letteratura moderna: fantasia e insieme ragione, contraddizioni irrisolte e irrisolvibili e tenace coerenza. Una persona che ha alla base le particelle elementari dell’essere e un pensiero capace di pensare se stesso nel suo corpo di animale, consapevole del passato, del futuro e della morte che contiene il senso del suo vissuto.

12 novembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2013/11/07/news/fantasia-e-ragione-al-potere-1.140351


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Cavaliere che fu e il Letta che sarà
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:20:29 pm
Il Cavaliere che fu e il Letta che sarà

di EUGENIO SCALFARI
24 novembre 2013

VOGLIAMO parlare dei mutamenti del clima che stanno devastando l’intero pianeta dalle Filippine alle terre di Sardegna, dal Pacifico allo scioglimento dei ghiacciai, degli uragani, dell’innalzamento del livello dei mari?

Vogliamo parlare dei Kennedy nella ricorrenza dell’uccisione a Dallas di John Fitzgerald e poi del fratello Bob che hanno avuto un ricordo inobliabile non solo in America ma nell’intero Occidente, relegando nell’oblio le loro inclinazioni di playboy scapestrati e perfino alcune imprudenti collusioni con la mafia di Chicago? Vogliamo parlare di papa Francesco e della Curia che gli si rivolta ora che tocca con mano il pericolo di essere detronizzata dal suo ruolo di guida politica della Chiesa e relegata al compito di fornire i servizi al popolo di Dio e ai vescovi con cura di anime?

Sono tutti temi di portata mondiale che dovrebbero impegnare l’attenzione dei governi e dei popoli se i popoli e i governi, specie nei Paesi di antica opulenza, non fossero alle prese con problemi di minore gittata ma d’assai più acuta urgenza ed emergenza: la crisi economica che ancora affligge l’Occidente, i populismi dilaganti, l’immigrazione dai Paesi poveri a quelli più agiati, l’Europa che non riesce a trasformarsi in uno Stato continentale e competitivo con quelli emergenti che la circondano e la schiacciano verso l’irrilevanza.

La nostra Italia in questo mare tempestoso si trova in una posizione del tutto singolare: è uno degli Stati fondatori della Comunità europea e dell’Unione che ne è seguita; è il secondo Paese industriale europeo dopo la Germania e prima della Francia; ma al tempo stesso la sua finanza pubblica è appesantita da un debito tra i maggiori del mondo, la sua competitività è tra le più basse, la sua classe dirigente tra le più scadenti e invise, la corruzione endemica è crescente, la sua politica stenta ad uscire dalle lotte intestine e a riscuotere un grado di consenso in mancanza del quale la democrazia decade e le divisioni gettano il Paese nell’incertezza e nella paura.

Questa situazione esiste ormai da anni e da anni siamo costretti ad occuparcene. Se parlassimo d’altro parrebbe a noi stessi una fuga in avanti o all’indietro per smarcarsi dal presente e quindi faremo ancora una volta il punto e daremo la nostra libera opinione su quanto sta accadendo a casa nostra. Non è un compito facile perché la confusione delle lingue le ha trasformate in una Torre di Babele. Bisogna dunque recuperare la chiarezza necessaria fugando il timore di servirsene contro l’ipocrisia delle lingue biforcute che, non a caso, sono quelle del serpente.
* * *
Berlusconi che ieri si è esibito in nuove dichiarazioni eversive, è ormai al punto terminale del suo ventennio. La sua decadenza è già avvenuta, si aspetta soltanto che il Senato ne prenda atto cosa che avverrà il 27 di questo mese. Ma se anche dovesse guadagnare qualche giorno, cosa che non sembra tecnicamente possibile, non accadrebbe nulla: c’è una sentenza definitiva che sarà comunque eseguita e lo porterà a scontare la pena che gli è stata comminata.

Nel frattempo è nata una nuova forza politica con una scissione del partito da lui fondato. Quella scissione è lui stesso che l’ha provocata cogliendo la sostanza dei fatti. La sua leadership unica e quindi dittatoriale all’interno del suo partito e la sua ricorrente tentazione di estenderla anche all’esterno era stata messa in crisi ma non dai suoi avversari politici e neppure dalla magistratura rossa di sua invenzione, bensì dal malcontento crescente che dilaga nel Paese e nel suo stesso partito.

Tutte le cose che hanno un inizio hanno anche una fine. Il problema è di saper predisporre una successione che abbia un progetto di futuro senza dimenticare l’esperienza positiva del passato. Ma se il passato è stato soltanto una dittatura personale, la successione evidentemente non esiste. Questo è quanto è avvenuto nel Pdl: i figli sono stati ripudiati e sono usciti sbattendo la porta.

Renderanno al padre gli onori dovuti votando contro la sua decadenza, ma si tratta di un atto formalmente dovuto che non modifica la situazione esistente. È nata la destra repubblicana, i moderati che si raggruppano fuori dal cerchio magico dell’egolatria d’un dittatore furbissimo nel saper vendere il suo prodotto fin quando quel prodotto ha i suoi potenziali compratori. Non ci sono più quei compratori e non c’è più neppure il prodotto da vendere.
Perciò questa storia è finita.
* * *
La nascita d’una nuova destra moderata ha avuto le sue logiche conseguenze sulla natura del governo Letta. Non sulla sua composizione perché i ministri in carica costituiscono parte integrante del nuovo partito; ma nella sua essenza sì, il governo è cambiato, se non altro su un punto fondamentale: non è più sostenuto da un partito che ha alla sua guida un pregiudicato.

Che la sinistra riformista fosse costretta ad allearsi col partito di Berlusconi suscitava, al di là dello stato di necessità da tutti riconosciuto, il mal di pancia di un’ampia fetta dei militanti e dei potenziali elettori del Pd. La nascita e il successo del Movimento 5 Stelle riflette anche quel mal di pancia. Lo sfrizzolamento delle correnti e gli interessi personali di alcuni dei loro esponenti nel Pd trova la sua motivazione giustificativa nel medesimo mal di pancia ma ora quella motivazione è caduta perché non c’è più Berlusconi dietro la nuova destra. Quindi lo sfrizzolamento non dovrebbe più esserci nel Pd. Infatti il correntificio di quel partito cerca ora nuove giustificazioni per sussistere, una delle quali è stata la fiducia data da Letta alla Cancellieri per scongiurare la sua uscita dal ministero e gli effetti negativi che sarebbero derivati da una sfiducia parlamentare: un rimpasto nel momento stesso in cui la maggioranza di sostegno del governo cambiava natura.
La Cancellieri, come tutti sanno e tutti hanno riconosciuto, non ha commesso alcun reato o almeno finora la Procura non l’ha trovato e non l’ha infatti registrata tra gli indagati. Ha però fatto, la Cancellieri, una telefonata o forse due inappropriate ad un ministro della Giustizia. In un’altra situazione era logico che fosse invitata (o costretta) a dimettersi. Nella situazione data è comprensibile che Letta la coprisse. Quando la nuova maggioranza sarà consolidata nella sua autonomia è opportuno che la Cancellieri si dimetta di sua iniziativa e sia sostituita con un altro ministro tecnico scelto al di fuori dei partiti. Allo stato delle cose la sua situazione è del resto del tutto simile a quella di Vendola e della sua telefonata sull’affare Ilva con i rappresentanti della proprietà Riva, ma nessun partito ha chiesto le dimissioni di Vendola dalla presidenza della Regione Puglia.
* * *
La permanenza del governo Letta fino al semestre di presidenza europea a noi assegnata che ci sarà dal giugno al dicembre dell’anno prossimo, è fondamentale perché la vera battaglia per l’uscita dalla crisi economica si combatte in Europa ed è già cominciata. Letta è quello che meglio può condurla con l’appoggio d’una maggioranza politica responsabile e quella, altrettanto indispensabile, del capo dello Stato.

Naturalmente questa battaglia europea dev’essere affiancata a interventi sull’economia italiana che, senza mettere in causa gli impegni europei, faccia il meglio possibile con le (poche) risorse a nostra disposizione. Nella legge di Stabilità qualche cosa si è fatto ma si poteva e ancora si può fare di più. Per esempio si possono rilanciare gli investimenti in infrastrutture con i miliardi disponibili delle erogazioni europee per le Regioni in difficoltà. Si può portare avanti il pagamento dei debiti alle aziende e ai Comuni creditori. Si può restringere la platea dei beneficiari delle detrazioni d’imposta, abbassando il livello del reddito cui la detrazione è consentita e dando di più ad un minor numero di beneficiari. Si può aumentare il taglio del cuneo fiscale a debito dell’Inps e colmare il buco intervenendo sulle aliquote contributive di alcune categorie che hanno maggiori potenzialità di reddito.

Analogo provvedimento si poteva (e si potrebbe ancora) prendere sul pagamento dell’Imu da parte di case il cui valore patrimoniale è più elevato. L’-I-mu fu un’imposta sulle case messa dal governo Monti con l’intento di trovare nuove risorse di tipo sostanzialmente patrimoniale e progressivo nell’ammontare dell’imposta. La sua abolizione fu decisa dal governo Letta con una finalità politica: togliere a Berlusconi la finta motivazione di mandare il governo all’aria per dissensi sull’economia e sulle tasse. Questa finalità è ora venuta meno. Certo il nuovo partito di Alfano non può, nella sua fase di nascita, accettare che l’Imu sia riproposta. È chiaro che non può, ma dovrebbe accettare che oltre alle seconde case paghino anche i proprietari di prime case che abbiano caratteristiche di elevata patrimonialità e quindi rendite catastali più alte. Bisogna certo aiutare la nuova destra ma anch’essa deve aiutare l’economia italiana e le fasce di lavoratori e di consumatori più disagiate.
* * *
La battaglia europea resta però quella fondamentale. Letta e Saccomanni l’hanno già iniziatao, questa settimana e la proseguiranno. Ma un altro che sta sempre più intervenendo su quel terreno è Mario Draghi con l’Unione bancaria da lui sostenuta a spada tratta insieme alla Commissione europea. La Bundesbank si oppone e anche la Merkel frena, ma difficilmente potrà resistere a lungo su quella posizione se si troverà di fronte un forte schieramento europeo del quale Letta rappresenta la nostra punta di diamante.

Mi confortano i giudizi dati in proposito da Asor Rosa sul “Manifesto”, da Reichlin su “l’Unità” e da Massimo Cacciari in una sua recente apparizione televisiva. Asor Rosa in particolare è da sempre un uomo della sinistra italiana, come Reichlin ed anche più a sinistra di lui ai tempi di Berlinguer. Tutti e due e Cacciari dicono la stessa cosa: l’interesse della sinistra per aprirsi una strada futura che non può essere altro che europea, consiste nel dare il proprio appoggio a Letta. Leggere queste affermazioni sul “Manifesto” e su “l’Unità” di fronte a giornali e trasmissioni televisive che si autodefiniscono democratiche tifando per Grillo, fa senso o almeno a me lo fa perché sono del loro stesso avviso.
Adesso Grillo cavalca lo sciopero dei lavoratori di Genova e vuole che si estenda a tutta Italia. Non solo lo sciopero ma anche i cortei di violenza e gli assalti alle sedi del Pd.

Rottamare tutto per ricostruire tutto e tenersi il “Porcellum” ma senza la libertà di mandato per i membri del Parlamento: ecco il caso tipico d’un rottamatore che sogna la dittatura personale. Spero che non abbia imitatori. Lui del resto non fa che imitare il Berlusconi che fu (ma che viva fino a cent’anni).

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/24/news/il_cavaliere_che_fu_e_il_letta_che_sar-71790307/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. C’è un po’ di Bergoglio in quel Tolstoj
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:27:33 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

C’è un po’ di Bergoglio in quel Tolstoj

Per il grande scrittore russo il senso della vita è Dio. Per il papa pure. Ma occorre anche sporcarsi le mani nell’aldiquà

La casa editrice L’Epos di Palermo e la fondazione Amici di Tolstoj hanno pubblicato poco tempo fa un libro di notevole interesse e l’hanno intitolato “Perché vivo”. Il sottotitolo è: “Riflessioni sullo scopo e il significato dell’esistenza”.

Si tratta di saggi e diari scritti da Tolstoj in una fase della sua vita quando l’ispirazione narrativa gli sembrava del tutto inaridita mentre urgeva dentro di lui una vocazione fin lì sconosciuta a predicare il bene e a educare quella che chiamava «la plebe», i lavoratori, i poveri, gli esclusi, i servi della gleba, quelli che Gogol avrebbe poi chiamato le anime morte.

Aveva cinquant’anni l’autore di “Guerra e Pace” e della “Karenina” e durò trent’anni questa sua predicazione scritta in brevi note diffuse in tutta Europa e anche in Asia. Fino ai suoi 82 anni, quando fuggì dalla sua casa e andò a morire nella casa di un ferroviere dove era arrivato vagando senza meta nelle campagne russe.
“Perché vivo” contiene alcuni di questi saggi, credo i più significativi. Ne parlo oggi perché la loro attualità è sconvolgente. Non so se Papa Francesco li ha letti, ma quelle di Tolstoj sembrano parole sue quando si confronta con la cultura moderna e dialoga con i non credenti.

Tolstoj scrisse questi saggi tra il 1880 e il 1910; l’argentino Jorge Bergoglio diventa Capo della Chiesa cattolica nel 2013 e si esprime con pensieri e parole modernissime ma scritte un secolo prima da un russo. Non è sorprendente?

Il tema di fondo lo troviamo nei titoli di alcuni dei saggi tolstojani, il primo dei quali è intitolato “Di che cosa soprattutto ha bisogno la gente?” E poi: “Come e perché vivere”. E ancora: “Perché io vivo?”. E segue: “Credete in voi stessi. Appello ai giovani”. E infine: “Il senso della vita”.

Tolstoj coglie una contraddizione di fondo insita negli individui della nostra specie: siamo animali animati da istinti animali, ma siamo al tempo stesso esseri pensanti e consapevoli di invecchiare e di morire. Questa è la contraddizione, riguarda l’istinto di sopravvivenza e la coscienza della nostra mortalità.

QUESTO PROBLEMA mi è molto familiare e a esso ho dedicato sei libri, l’ultimo dei quali uscito pochi giorni fa si pone il medesimo problema. La conclusione cui arriva Tolstoj è la fede in Dio che a me sembra invece un’ipotesi puramente consolatoria. Ma per far meglio conoscere ai lettori la contraddizione tra chi ipotizza un aldilà e chi cerca il senso soltanto nell’aldiquà, alcune citazioni del libro tolstojano saranno assai utili.
«L’uomo che ripone la sua vita nei godimenti non sarà mai tranquillo perché tornerà sempre nella sua mente la morte e morirà disperato. Proprio per questo si può vivere soltanto per compiere la volontà di Dio».

«Dio è quella forza che mi ha fatto così come sono. Se fossi un animale vivrei come vivono gli animali, senza sapere di vivere e senza chiedermi che cosa mi succederà dopo. Ma poiché so che morirò, io non posso non sapere che nella mia natura animalesca è stato posto qualcosa di non animalesco. Perciò io sono un miscuglio di animalità e spiritualità e mi ha inviato in questo mondo proprio quell’Essere che io chiamo Dio».

«Ogni uomo, appena si desta in lui la ragione, ha la consapevolezza di racchiudere in sé un essere separato: l’uomo considera se stesso separato da tutti gli altri e vuole il bene solo per sé; ma quando si rende conto dell’ineluttabilità della morte considererà la sua separazione priva di senso. La vita d’un essere separato non è vita, ma soltanto apparenza di vita. La vita si manifesta solo quando ci si rende conto di quell’essere nuovo che è nato dall’animale ed è dotato di ragione. Se manca questa conclusione si commette lo stesso errore di una farfalla che, uscita dalla crisalide, continuasse a ritenere di essere quella crisalide dalla quale è ormai venuta fuori».

E INFINE: «Per salvarsi, non essere infelici, non soffrire, bisogna dimenticarsi di se stessi e l’unico modo di dimenticarsi di sé è amare. L’attività più importante della vita, anzi la sola importante, rimasta segreta agli uomini, consiste nel far accrescere l’amore in se stessi e negli altri. Possiamo guardare nella vita futura da due diverse finestre. L’una è in basso a livello animale e attraverso di essa non vediamo che uno spazio buio e questo ci fa paura; l’altra finestra è posta più in alto, a livello della vita spirituale e attraverso di essa scorgiamo la luce e la gioia. Che Dio esista o no, che esista o no la vita futura, in tutti i casi la cosa migliore che io possa fare è far aumentare in me l’amore perché l’accrescimento dell’amore accresce senza indugi la felicità. Per trovare la felicità devi amare la felicità degli altri. Il solo modo di servire se stessi è quello di servire gli altri e tu riceverai in cambio la più grande felicità del mondo: il loro amore».

Queste cose pensava e scriveva Tolstoj. Il mio commento è: ha snidato Narciso che, amando gli altri, ottiene che gli altri amino lui, cioè te. Del resto, che cos’altro predica Bergoglio se non ricordarci il motto evangelico «ama il prossimo tuo come te stesso»? Purtroppo accade sempre più di rado. Questo miracolo Dio non l’ha fatto forse perché i miracoli non esistono al di fuori di noi. Solo ciascuno di noi può farlo nell’aldiquà, illuminando quel buio della finestra bassa di cui parla Lev Nikolaevic quando cerca il senso della vita.
28 novembre 2013 © Riproduzione riserva

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2013/11/21/news/tityre-tu-patulae-recubans-tegmine-1.142096


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Che accadrà di tutti noi senza più il caimano?
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2013, 11:42:27 am
Che accadrà di tutti noi senza più il caimano?

Berlusconi è caduto ma il berlusconismo affliggerà ancora per qualche tempo la nostra società. Per alcuni la fine è più apparente che reale. Per altri si è chiusa una brutta pagina di storia

di EUGENIO SCALFARI
01 dicembre 2013

QUELLA domanda se la fanno in molti e molte e discordanti sono le risposte secondo l'appartenenza politica e il ruolo che ciascuno degli interlocutori ha avuto in passato e conta di avere nel prossimo futuro.

Alcuni mettono in dubbio che il caimano sia veramente uscito di scena e pensano che, anche se già decaduto dal Parlamento, rimane ancora in campo, conserva una piena leadership sui suoi seguaci e la manterrà per molto tempo ancora. Del resto anche Grillo è fuori dal Parlamento, anche Vendola, anche Renzi, eppure contano, eccome. È vero che Berlusconi è condannato per frode fiscale e gli altri no, ma questa differenza incide poco finché potrà mantenere il consenso di molti italiani come i sondaggi di opinione registrano.
 
Chi ha dedicato la propria passione politica al suo sostegno pensa addirittura che sarà ancora più forte di prima, più rispondente alla sua vocazione di lotta, e ne gode. Il tanto peggio tanto meglio risveglia la sua energia e quella dei berluscones, manderà all'inferno chi l'ha tradito e sconfiggerà le sinistre di ogni risma che ancora infettano la cara Italia e perciò: Forza Italia, la vittoria è a portata di mano e questa volta con l'esperienza del passato sarà definitiva.

Chi invece è dalla parte opposta ha una diversa valutazione dei fatti e delle loro conseguenze. Alcuni pensano, come i loro avversari, che la "caduta" sia più apparente che reale e temono che le previsioni di Forza Italia non siano purtroppo prive di fondamento. Altri invece estendono l'anatema contro il caimano a quanti da sinistra l'hanno coperto collaborando col diavolo e quindi dannandosi con lui.

Per costoro la prossima battaglia dovrà dunque esser diretta mettendo definitivamente fuori gioco le finte sinistre corresponsabili della decadenza del Paese. Ma molti infine sono convinti che una bruttissima pagina di storia sia stata finalmente chiusa e si apra il campo al riformismo democratico.

Questi sono i variegati scenari che dividono l'opinione pubblica, le forze politiche (e antipolitiche), i media, la business community e le parti sociali.

* * * *

Quanto a noi, il dissenso nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo è stato uno degli "asset" del nostro giornale molto prima del suo ingresso in politica nel 1994. Cominciò fin dall'87, quando apparve chiaro il connubio di affari tra lui, i dorotei della Dc e soprattutto i socialisti di Craxi.

Nell'89 diventò uno scontro diretto con quella che allora fu denominata la guerra di Segrate, la conquista della Mondadori da parte della Fininvest e quello che ne derivò. La nascita di Forza Italia portò al culmine quella guerra che non fu più soltanto un contrasto aziendale ma un fenomeno devastante della vita pubblica italiana. È durata vent'anni, ora Berlusconi è fuori gioco ma il berlusconismo no, è ancora in forze nel Paese.

Non è un fatto occasionale, non è un fenomeno eccezionale mai visto prima, purtroppo è ricorrente nel nostro passato, recente ma anche più antico.

Ricordo a chi l'avesse dimenticato la polemica non solo politica ma culturale che si ebbe nel 1945 tra Benedetto Croce e Ferruccio Parri sul fascismo. Croce sosteneva che la dittatura di Mussolini era stato un deplorevole incidente di percorso della nostra storia, che aveva certamente avuto conseguenze terribili ma non si era mai verificato prima, sicché una volta terminato dopo una guerra perduta e un paese pieno di rovine, il corso della nostra storia sarebbe ripreso e la libertà avrebbe di nuovo avuto la sua pienezza.

Personalmente credo che Parri avesse ragione e Croce sbagliasse. Demagogia, qualunquismo, assenza di senso dello Stato sono altrettanti elementi che restano nascosti per lungo tempo ma non scompaiono dall'animo di molti e di tanto in tanto emergono in superficie. Un fiume carsico che crea situazioni diverse tra loro ma legate da profonde analogie che hanno reso tardiva la nostra unità nazionale e fragile la nostra democrazia.

Berlusconi è caduto, il caimano tra un paio di mesi non ci sarà più e tanto varrebbe disinteressarsene, lasciando agli storici l'analisi e la collocazione; ma il berlusconismo non è finito e il problema affliggerà ancora per qualche tempo la nostra società, alimentato dagli altri populismi di diversa specie ma di analoga natura. Perciò la vigilanza è un dovere civico per tutte le persone e per le forze politiche consapevoli.

* * * *

Il governo Letta si presenterà in Parlamento dopo l'8 dicembre per ottenere la fiducia poiché la nascita, anzi la rinascita di Forza Italia da un lato e del nuovo centrodestra dall'altro hanno modificato la maggioranza parlamentare e quindi la natura stessa del governo.

È a mio avviso auspicabile che non vi siano rimpasti se i ministri di provenienza del Pdl confermeranno la loro scelta "alfaniana". Il governo ha problemi ben più importanti da affrontare e Letta li ha da tempo individuati: accentuare, nell'ambito delle risorse esistenti, l'obiettivo della crescita economica e la ricerca delle coperture necessarie; le riforme istituzionali e costituzionali da effettuare; la produttività e la competitività da accrescere; la legge elettorale da modificare; l'evasione fiscale da perseguire.

Ma soprattutto la politica europea e la struttura stessa dell'Europa da avviare verso un vero e proprio Stato federale.

Quest'ultimo obiettivo è della massima importanza e noi ne siamo uno dei primi attori. Letta ha già iniziato il confronto con le autorità europee e con gli Stati membri dell'Unione, una politica che toccherà il culmine col semestre di presidenza italiana.

C'è chi sostiene che l'importanza di quella presidenza sia retoricamente sopravvalutata, ma non è così, non solo perché l'Italia è tra i fondatori della Ue ma per un'altra e ben più consistente ragione. L'ho già scritto domenica scorsa ma penso sia utile ripeterlo ricordandolo alla memoria corta di molti concittadini: abbiamo il debito pubblico più pesante d'Europa se non addirittura del mondo.

È la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza.

I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna, semmai dovessero verificarsi (ovviamente speriamo e pensiamo che non avverranno), sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall'Europa. Un default dell'Italia invece no, sconquasserebbe l'Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa; il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato.

Una catastrofe che non avverrà, ma è questa spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell'Unione a cominciare dalla Germania. Fin da subito, ma il culmine di questo confronto ci sarà durante la nostra presidenza europea poiché i governi dei Paesi membri se lo troveranno di fronte istituzionalmente, visto che fissare l'ordine dei lavori spetta al presidente di turno.

Letta non sarà senza alleati. La Francia e la Spagna sono fin d'ora impegnate su questo terreno e perfino l'Olanda.

La Bce mira anch'essa a quell'obiettivo del quale l'unione bancaria rappresenta uno dei capitoli principali.

La Merkel tentenna, ma dopo la nascita della coalizione con l'Spd la situazione è cambiata. I socialdemocratici hanno lasciato nelle mani della Cancelliera la politica europea, ma hanno ottenuto l'aumento del salario minimo garantito, una politica di incentivi ai consumi e di forme nuove di sostegno sociale. Queste misure dovrebbero far aumentare la domanda interna e sono appunto gli obiettivi che la Bce persegue per migliorare l'equilibrio degli interessi bancari tra i paesi europei.

Le imminenti elezioni europee non avranno molto peso sull'evoluzione eventuale ed auspicabile della struttura istituzionale dell'Europa, ma possono avere ripercussioni negative sulla politica interna di alcuni Stati nazionali e soprattutto nel nostro e in quello francese dove il Front National per i francesi e i Cinque Stelle e Forza Italia potrebbero registrare i consensi dell'antipolitica. Ecco un altro appuntamento che impone a Letta di accelerare il passo e al Pd di dargli il necessario consenso per renderlo concretamente efficace.

* * * *

Per chiudere questa rassegna di questioni attuali, ne segnalo ancora un paio.

Si parla con insistenza di un'imminente sentenza della Corte Costituzionale sulla vigente legge elettorale.

Accoglierà il ricorso della Cassazione che chiede lumi sulla costituzionalità del Porcellum oppure si dichiarerà incompetente trattandosi di un tema esclusivamente parlamentare? I giuristi sono discordi. Alcuni ritengono che la Corte si dichiarerà incompetente. Per quel che vale, concordo con questa tesi. La Corte non può stabilire quale debba essere lo strumento corretto con il quale si registra la volontà del popolo sovrano poiché manca un appiglio scritto nella Costituzione. Tanto meno può ledere le prerogative del Parlamento. Spetta ai cittadini eletti (sia pure sulla base di una legge abnorme) correggerla, cambiarla, farne una nuova, non alla Corte. Con Forza Italia nel governo ogni correzione sarebbe stata ed è stata respinta, ma una rappresentanza parlamentare diversa come l'attuale può riuscire in questa impresa. Il governo da parte sua può facilitare l'accordo presentando per l'approvazione parlamentare un suo disegno di legge.

Il secondo tema è stato sollevato dalla Corte dei conti, che chiede anch'essa l'intervento della Consulta. Riguarda le varie leggi che, dopo il referendum negativo sul finanziamento pubblico dei partiti, lo reintrodussero camuffandolo come rimborso ai gruppi parlamentari delle loro spese elettorali.

Il governo Letta ha già cancellato questo stato di cose abolendo con due anni di transizione l'erogazione di denaro pubblico e affidando il finanziamento dei partiti al sostegno privato, ma la Corte dei conti mette in causa il passato e si rivolge alla Consulta.

Sembra assai dubitabile che la Consulta risponda positivamente a questa chiamata in causa. Se alcuni gruppi parlamentari, o anche consigli regionali, hanno usato quei fondi per scopi privati e dunque illegittimi (ed è purtroppo ampiamente avvenuto) si tratta di reati di competenza della magistratura ordinaria. Ma la Consulta non sembra possa cassare leggi votate dal Parlamento ancorché sostanzialmente violino il risultato referendario il quale a sua volta abolì il finanziamento ai partiti ma non lo sostituì con un nuovo sistema. I referendum in Italia non hanno poteri positivi ma soltanto di abolizione. Dopodiché resta un vuoto che spetta al Parlamento colmare anche se spesso lo colma poco e male.

In conclusione c'è molta strada da fare. Speriamo che gli italiani brava gente - come un tempo si diceva con autoironia spesso giustificata - dimostrino ora d'esser brava gente sul serio e ogni volta che spetti a loro di decidere lo facciano facendo funzionare la testa e non la pancia.

Berlusconismo e grillismo in questa vocazione della pancia si somigliano moltissimo. Noi privilegiamo la testa e speriamo di essere ascoltati.

© Riproduzione riservata 01 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/01/news/senza_il_caimano-72385973/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Francesco e il libero arbitrio
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2013, 05:36:48 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Francesco e il libero arbitrio

Ho chiesto al papa chi ha creato il male. Mi ha risposto: Dio si interessa soltanto del bene, è l’uomo che sbaglia. Perché può scegliere. Ecco allora che tocca alla società frenare la tendenza insita nell’animo umano
   

Pochi giorni fa ho ricevuto una lettera da Papa Francesco che rispondeva a una mia precedente. Credo di non commettere alcuna indiscrezione se riferisco qui una frase del Santo Padre che mi onora della sua amicizia ancorché sappia della mia posizione di non credente. Nella mia lettera mi permettevo di comunicare al Papa un tema che avrei desiderato approfondire con lui quando avesse «voluto e potuto» incontrarci di nuovo e portare avanti il nostro dialogo. Il tema si riassume in una domanda: chi ha creato il male?

Sua Santità nella prima parte della sua risposta scrive che anche lui desidererebbe proseguire il nostro dialogo «se la Provvidenza gli darà il tempo libero necessario». Quanto alla domanda da me posta risponde letteralmente così: «Il tema da lei proposto è molto importante. Dio crea soltanto il bene. Quanto alla sua domanda ne modifico soltanto il verbo: chi ha causato il male? L’uomo dovrebbe seguire il bene ma è libero e può scegliere. Se sceglie il male ne è lui la causa».

Detto dal Papa, che è il Vicario di Cristo in terra, questa risposta non fa una grinza ma apre un dibattito estremamente interessante. Anche perché io non credo in Dio e quindi la mia domanda, come Papa Francesco ha certamente capito, non era provocatoria. Se il Papa avesse risposto che non è Dio ad avere creato il male, io avrei dal canto mio obiettato che non credo in Dio ma neppure nel diavolo. L’uomo è libero e libero è stato creato. Quindi il male non può che essere lui, l’uomo, a causarlo.

Sono quindi d’accordo su questo punto con il Papa. La mia domanda infatti voleva appunto proporre un argomento centrale per un nostro eventuale dialogo se ci sarà come vivamente spero, sul male: come e perché è presente nell’animo di tutte le creature umane e che cosa si può fare, che cosa può fare la società, per attenuarne gli effetti e ridurne la quantità e l’intensità. È una sorta di missione che riguarda allo stesso modo e con la stessa responsabilità sia i credenti di qualunque religione e in particolare i cristiani che credono soprattutto nell’amore verso il prossimo, sia i non credenti.

Questo è dunque il tema e a me sembra affascinante e pieno di implicazioni: religiose, sociali, scientifiche, terapeutiche, legislative e quindi perfino politiche. A mio parere, il male si può raccontare, e infatti è il tema principale della letteratura, dei romanzi, del teatro; nella tragedia si racconta il male, nei romanzi il nucleo portante è il male, il dramma, la trasgressione. Si racconta naturalmente anche il bene, ma in che modo? Come lotta e possibile superamento del male. I due concetti sono strettamente legati tra loro, ma senza l’uno non ci sarebbe neppure l’altro con lo stesso rapporto che passa tra le tenebre e la luce. Bisognerebbe a questo punto definire con esattezza che cosa si intende con quelle due parole, che cosa è il male e che cosa è il bene. L’impresa non è affatto semplice: come mai i concetti di bene e di male non riguardano nessuna delle altre specie viventi?

La risposta è facile. Ovviamente i vegetali, che sono anch’essi esseri viventi, ma anche gli animali, tutti gli animali, non hanno coscienza di sé, non hanno l’io e quindi seguono solo i loro istinti che in realtà sono un unico istinto, quello di sopravvivenza, il quale detta i loro comportamenti concreti. L’uomo è la sola specie vivente che ha coscienza di sé e questo, tra le altre numerose implicazioni, comporta il suo rapporto con gli altri, le regole che disciplinano questo rapporto, le eventuali trasgressioni, la creazione continua di nuove regole, la nascita di concetti come “ideali”, “principi”, “valori”. L’uomo conosce la colpa e ragiona su di essa. E qui probabilmente i religiosi in genere e i cristiani in particolare, differiscono dalle opinioni dei non credenti.
Insomma, carissimo e da me molto amato Papa Francesco, a me sembra importante discutere insieme questi argomenti, sempre che la Provvidenza glielo permetta.

 
09 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2013/12/04/news/francesco-e-il-libero-arbitrio-1.144297


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un paese che perde il senso delle parole
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2013, 05:29:18 pm
Un paese che perde il senso delle parole

di EUGENIO SCALFARI
   
IL VANGELO di Giovanni comincia in un modo che neppure un non credente può dimenticarlo. Dice: "All'inizio c'è la Parola e la Parola è presso Dio, la Parola è Dio e tutte le cose che esistono è la Parola ad averle create".
Nel mondo di oggi c'è grande confusione perché siamo al passaggio di un'epoca e la Parola ha smarrito il senso e gli uomini hanno smarrito il senso, il senso del limite, dei diritti, dei doveri. Alcuni lottano per recuperarli, altri per distruggerli dalle fondamenta. Nel Gargantua di Rabelais le parole si erano intirizzite dal freddo ma appena l'uomo ne afferrava una subito si scioglieva e nella mano gli restava soltanto una goccia d'acqua. Piaccia o no, noi siamo a questo punto. Perciò dobbiamo rieducarci e capire. Ha scritto ieri in questo giornale Giovanni Valentini, citando dal libro Una generazione in panchina di Andrea Scanzi, "prima di rottamare gli altri ognuno dovrebbe fare un esame di coscienza per riparare i propri errori". Sono pienamente d'accordo, vale per me, vale per te, vale per tutti.
***
I problemi sul tavolo sono molti. Direi che il primo riguarda la cosiddetta rivolta di piazza dei forconi, dove per fortuna i forconi sono soltanto un simbolo. La rivolta però c'è, coinvolge studenti, contadini, pensionati, ambulanti, camionisti. Salvo pochissimi, non vogliono trattare, vogliono abolire i partiti, il Parlamento, il governo, i sindacati.

In molte cose ricalcano il programma di Grillo ma neanche con lui vogliono avere rapporti. Vorrebbero insediare un governo provvisorio ma non sanno come fare e chi metterci. Hanno una vaga ispirazione fascista e infatti sono visti con simpatia da Casapound e da Forza Nuova; alcuni hanno anche sentimenti razzisti e antiebraici ma sono pochi. Nel frattempo ingombrano strade e città con centinaia di Tir. Gli spostamenti dei Tir sono costosi ma non si sa chi siano i finanziatori.
Questa è la situazione. Grillo comunque li osserva con interesse e Berlusconi con simpatia. Li avrebbe volentieri ricevuti ma poi l'incontro non c'è stato.

I Tir sono comunque il centro di queste manifestazioni. Ricordiamoci che fu la loro rivolta in Cile a mettere in ginocchio Allende aprendo la strada alla dittatura militare di Pinochet.

Da quanto par di capire oggi sembra però che i Tir siano disposti a trattare con il governo, anche se i capi della rivolta negano ogni possibilità di negoziato. Quanto ai disoccupati, i pensionati, i precari, si può fare ben poco finché la situazione economica non presenti miglioramenti sostanziali il che dovrebbe avvenire entro il prossimo semestre del 2014.
Intanto c'è un punto fermo e certificato: la recessione è finita. Il Pil negativo è aumentato di mezzo punto nello scorso trimestre e di un altro mezzo punto in questo, tornando in positivo; la produzione industriale è anch'essa in aumento. Il lavoro e i consumi non ancora. L'esportazione è largamente attiva. In altri tempi queste notizie avrebbero avuto ampia menzione nei telegiornali e sulla stampa, oggi sono ridotte al minimo e le cattive notizie hanno la meglio. Lo spread è a un minino di 226 e le aste dei titoli di Stato hanno rendimenti da minimo storico, ma nessuno se ne accorge.

***

Le elezioni europee di primavera sono un appuntamento inquietante non solo per l'Italia ma per l'Europa intera, Germania compresa. I movimenti populisti, come quelli guidati dalla Le Pen, da Grillo e dalla Lega, sono presenti anche in Germania, in Grecia, in Irlanda, in Olanda, in Austria. Alcuni puntano su un nazionalismo vecchio stampo, naturalmente da loro guidato; altri su un Parlamento europeo ridotto all'impotenza dalla loro presenza minoritaria ma paralizzante; quasi tutti all'uscita dall'euro e al ritorno alla moneta nazionale. Su quest'ultimo punto i 5Stelle sono in testa a tutti gli altri.

In un paese normale basterebbe essere consapevoli di che cosa avverrebbe di una lira fuori dall'euro per far sì che il Movimento 5Stelle scomparisse dalla scena politica; invece viaggia tra il 21 e il 22 per cento con tendenza al rialzo. Come si spiega? Si spiega così: molti italiani pensano che le elezioni europee non contino niente e quindi possono servire a sfogare la rabbia che hanno in corpo e, siccome di rabbia ce n'è molta, sono molti quelli che voteranno Grillo.

La controprova sembra paradossale ma non lo è: molti elettori del Pd con sentimenti di sinistra non se la sono sentita di votare per Grillo e sapete che cosa hanno fatto? Hanno votato Renzi. Il maggior numero di votanti alle primarie che hanno scelto il sindaco di Firenze sono di sinistra. Questo governo non gli piace, Alfano non gli piace, il Nuovo centrodestra non gli piace. Vogliono un monocolore Pd e se necessario si tratti con Grillo; quanto ad Alfano, cammini a pecorone.

Ora parliamoci chiaro: Alfano non è certo Orlando a Roncisvalle e Renzi ha ragione quando contrappone i trecento deputati Pd ai trenta del Ncd, ma forse ignora che cosa sia l'utilità marginale. I trenta di Alfano rappresentano appunto l'utilità marginale. Se escono dall'alleanza la maggioranza non c'è più. E allora, caro neosegretario, che facciamo? Mi piacerebbe conoscere la risposta. So bene che molti non amano la parola "stabilità" applicata al governo. Vogliono che il governo faccia, non che sia stabile.

Rabelais aveva proprio ragione quando diceva che le parole si squagliano nelle mani di chi le prende e diventano gocce d'acqua. La parola stabilità è preliminare, solo se si è stabili si fa, se non si è stabili si cade per terra. Possibile che questo mi tocchi spiegarlo? È umiliante per chi lo spiega e soprattutto per chi da solo non ci arriva.

***

Il rapporto Letta-Renzi è già evidente da quanto fin qui ho scritto e soprattutto da quanto vediamo da tempo e in particolare dalle primarie in poi. Oggi Renzi si presenta all'Assemblea del Pd per l'investitura ufficiale. Parlerà. Ascolteremo. Lui sa bene che il padre guardiano di Letta è Napolitano, a parte il fatto che Letta può fare anche a meno di padri guardiani.

La vera battaglia dell'Italia in questo momento è in Europa e per l'Europa e nessuno meglio di Letta può condurla.

Renzi nel frattempo dovrebbe occuparsi del partito. Se posso dargli un consiglio disinteressato si consulti con Fabrizio Barca. Una nuova generazione alla guida del partito è necessaria ma bisogna educarla. Non riesco a vedere nessuno adatto a questo compito. Renzi di partiti ne sa poco, ha talento ma poca esperienza. Comunque la fortuna aiuta gli audaci.

Intanto il fuoco dei cannoni da strapazzo si concentra su Napolitano. Spara Grillo, spara Travaglio, spara perfino Barbara Spinelli. Quest'ultimo nome mi addolora profondamente. Sento da tempo un profondo affetto per Barbara e stima per la sua conoscenza dei classici, della filosofia, delle scritture d'ogni tempo e luogo. Ma conosce poco o nulla la storia d'Italia quando pensa e scrive che la decadenza cominciò negli anni Settanta del secolo scorso e perdura tuttora.

Questo, cara Barbara, è un Paese dove parte del popolo è incline e succube di demagoghi di ogni risma. Cominciò  -  pensa un po'  -  da Cola di Rienzo; ha sempre odiato lo Stato e le istituzioni; Mussolini non fu un incidente della nostra storia come pensava Croce, ma un fenomeno con caratteristiche antropologiche prima ancora che politiche, come disse Ferruccio Parri.
Ho letto nel tuo ultimo articolo che forse il grillismo potrebbe essere sperimentato. E ho anche ascoltato l'altro giorno i tuoi appunti su Napolitano affidati alla "recitazione" di Travaglio.

Ti assicuro che da questo momento in poi cancello dalla mia memoria quanto ho ora ricordato. Voglio solo pensare il meglio di te a cominciare dal fatto che sei la figlia di Altiero Spinelli. Ricordalo sempre anche tu e sarà il tuo maggior bene.

© Riproduzione riservata 15 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/15/news/un_paese_che_perde_il_senso_delle_parole-73622928/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un dittatore è una sciagura, un vero leader è una fortuna
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2013, 07:57:10 pm
Un dittatore è una sciagura, un vero leader è una fortuna

di EUGENIO SCALFARI
   
Oppressa dai sacrifici e dalla disperazione, la gente ha perso ogni fiducia nel futuro ed è dominata dalla rabbia o schiacciata dall'indifferenza. Nel 2012 questi sentimenti erano appena avvertiti ma quest'anno e specie dall'inizio dell'autunno sono esplosi con un'intensità che aumenta ogni giorno. Siamo ancora lontani dal culmine ma indifferenza, disperazione e rabbia non sono più sentimenti individuali; sono diventati fenomeni sociali, atteggiamenti collettivi che sboccano nel bisogno di un Capo. Un Capo carismatico, un uomo della Provvidenza capace di capire, di imporsi, di guidare verso la salvezza di ciascuno e di tutti. Ha bisogno di fiducia? Sono pronti a dargliela. Chiede obbedienza? L'avrà, piena e assoluta.

L'uomo della Provvidenza non ha bisogno di conquistare il potere poiché nel momento stesso in cui viene individuato, il potere è già nelle sue mani.

Carisma e potere, fiducia e potere, obbedienza e potere: questo è lo sbocco naturale che non solo domina la gente orientando le sue emozioni, ma sta diventando anche l'obiettivo che molti intellettuali vagheggiano come la sola soluzione razionale da perseguire.

Non importa che la loro cultura sia stata finora di destra o di sinistra. L'uomo della Provvidenza supera questa classificazione, la gente che lo segue l'ha già abbandonata da un pezzo e gli intellettuali "à la page" se ne fanno un vanto.

Destra o sinistra sono diventati valori arcaici da mettere in soffitta o nelle cantine, materiale semmai di studio, ammesso che ne valga la pena. L'epoca moderna che ne fece i suoi valori dominanti è finita, il linguaggio è cambiato, il pensiero è cambiato o è del tutto assente.

Questa è al tempo stesso la diagnosi di quanto sta accadendo e la terapia risolutiva. L'ha scritto, ma non è né il solo né il primo, Ernesto Galli Della Loggia sul "Corriere della Sera" dello scorso martedì 17 con il titolo "Puntare tutto su una persona". Ne cito il passo dominante: "Non inganni il mare di discorsi sulla presunta ondata di antipolitica. È vero l'opposto: diviene ancora più forte la richiesta d'una politica nuova, sotto forma di una leadership che sappia indicare soluzioni concrete... La leadership in questione però - ecco il punto - dev'essere garantita solo da una persona, da un individuo, non da una maggioranza parlamentare o da un'anonima organizzazione di partito. Nei momenti critici delle decisioni alternative è unicamente una persona, sono le sue parole, i suoi gesti, il suo volto che hanno il potere di dare sicurezza, slancio, speranza. Nei momenti in cui tutto dipende da una scelta, allora solo la persona conta. Dietro l'ascesa di Matteo Renzi c'è un tale sentimento. Così forte tuttavia che alla più piccola smentita da parte dei fatti essa rischia di tramutarsi in un attimo nella più grande delusione e nel più totale rigetto".

Io non so se Renzi sia e voglia essere il personaggio qui così analizzato ma so con assoluta esattezza e per personale esperienza che Della Loggia ha descritto con estrema precisione Benito Mussolini e il fascismo. Non un leader, ma un dittatore del quale Bettino Craxi fu soltanto una lontana e breve copia fantasmatica e Berlusconi una farsa comica durata tuttavia vent'anni come il suo lontano predecessore.

Io ho conosciuto bene che cosa fu la dittatura mussoliniana. Nacqui che Mussolini era al potere già da due anni, studiai nelle scuole fasciste e fui educato nelle organizzazioni giovanili del Regime, dai Balilla fino ai Fascisti universitari. Il liberalismo e il socialismo risorgimentali ci furono raccontati come una pianta ormai morta per sempre; i comunisti come terroristi che volevano distruggere a suon di bombe lo Stato nazionale. Nel gennaio 1943 fui espulso dal Partito dal segretario nazionale Scorsa per un articolo che avevo scritto su "Roma Fascista", il settimanale universitario. Cominciò così il mio lungo viaggio nella ricerca d'una democrazia che fosse diversa da quella pre-fascista ed ebbi come compagni e guide in quel viaggio i libri di Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Omodeo, Chabod, Eugenio Montale. So di che cosa si tratta; so che in Italia molti italiani sono succubi al fascino della demagogia d'ogni risma e pronti a evocare e obbedire all'uomo della Provvidenza. Caro Ernesto, ti conosco bene e apprezzo la tua curiosità politica. Ma questa volta l'errore che hai compiuto evocando l'uomo della Provvidenza è madornale.

Il leader non è l'uomo solo che decide da solo col rischio che i fatti gli diano torto.

Quando questo avvenisse - ed è sempre avvenuto - le rovine avevano già distrutto non solo il dittatore ma il Paese da lui soggiogato.

Il leader non è un dittatore. È un uomo intelligente e carismatico, certamente ambizioso, attorniato da uno stuolo di collaboratori che non sono cortigiani né "clientes" o lobbisti; ma il quadro dirigente con una sua visione del bene comune che si misura ogni giorno con il leader.

Il Pci lo chiamò centralismo democratico e tutti i segretari di quel partito, dal primo all'ultimo, si confrontarono e agirono in quel quadro.

Togliatti era il capo riconosciuto, Enrico Berlinguer altrettanto, ma il confronto con pareri difformi era costante e quasi quotidiano, con Amendola, Ingrao, Secchia, Macaluso, Pajetta, Napolitano, Reichlin, Terracini, Alicata, Tortorella.

La formula nella Dc era diversa ma il quadro analogo, da De Gasperi a Scelba a Fanfani a Moro a Bisaglia a De Mita. E poi c'erano anche i socialisti di Pietro Nenni e c'era Ugo La Malfa che impersonava gli ideali di Giustizia e Libertà, del Partito d'Azione, di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli.

I leader riassumevano il quadro ed erano loro ad esporlo e ad esporsi, ma prima il confronto era avvenuto e la soluzione non era affatto d'un uomo solo ma di un gruppo dirigente che comprendeva anche personalità rappresentative della società, economisti, operatori della "business community", sindacalisti (ricordate Di Vittorio, Trentin, Lama, Carniti e prima ancora Bruno Buozzi che fu ucciso a La Storta?).

Questo fu il Paese capace di affrontare gli anni difficili. Caro Ernesto, il tuo ritratto del Paese di oggi è purtroppo esatto, ma la soluzione non è quella che tu indichi e fai propria, anzi è l'opposto e non credo sia necessario che io la ripeta qui, l'ho fatto già troppe volte. Dico soltanto che la rabbia sociale c'è, è motivata, va lenita con tutti i mezzi disponibili, ma va anche affrontata sul campo che le è proprio e questo campo è soprattutto l'Europa. Molti che si fingono esperti e non lo sono affatto sostengono che l'Europa non conta niente e che - soprattutto - l'Italia non conta niente.

Sbagliano.

L'Europa è ancora il continente più ricco del mondo e se quel continente fosse uno Stato federale, il suo peso di ricchezza, di tecnologia, di popolazione, di cultura, avrebbe il peso mondiale che gli compete.

Quanto all'Italia, a parte il fatto che è uno dei sei Paesi fondatori dai quali la Comunità europea cominciò il suo cammino, essa trascina sulle sue (nostre) spalle il debito pubblico più grande del mondo. Questo è il nostro più terribile "handicap" che ci distingue da tutti gli altri ma è, al tempo stesso, un elemento di forza enorme perché se l'Europa non ci consente di adottare una politica di crescita, di lavoro, di equità, l'Italia rischia il fallimento economico e il dilagare della rabbia sociale. Ma se questo dovesse avvenire, salterebbe l'intera economia europea insieme con noi.

L'Italia non è la Grecia né il Portogallo né l'Irlanda né l'Olanda e neppure la Spagna. Italia ed Europa si salvano insieme o insieme cadranno.

Questo Letta deve dire e batta anche il pugno sul tavolo perché questo è il momento di farlo. Lo batta sul tavolo europeo ed anche su quello italiano. E non tralasci nulla, né a Roma né a Bruxelles, che ci dia fin d'ora respiro e speranza. Faccia pagare i ricchi e gli agiati (tra i quali mi metto) e dia sollievo ai poveri, ai deboli, agli esclusi. Non si tratta di aumentare il carico fiscale; si tratta di distribuirlo. Questo è il compito dello Stato.

Ma finora - bisogna dirlo - chi chiede a Letta di alleviare il malcontento, si guarda bene di indicargli le coperture, le risorse immediatamente disponibili.

Ho grande stima di Enrico Letta e gli sono amico, ma è adesso che deve parlare e non dica che non può fare miracoli che solo i malpensanti gli chiedono. I benpensanti - che vuol dire la gente consapevole - gli chiedono di fare subito quel che può essere fatto subito. Tra l'altro, proprio in questi giorni, è stato raggiunto un accordo di grandissima importanza sull'unione bancaria: in buona parte è merito di Letta e soprattutto di Mario Draghi.
Tassare ricchi e agiati si può.

Dare una stretta all'evasione e al sommerso si può.

Votare a maggio non si può. Parlare di legge elettorale con Verdini e Brunetta non si può. Debbo spiegare perché? Ma lo sapete tutti il perché.

Quando Alessandro per vincere contro eserciti cinque volte più potenti del suo, schierava i suoi uomini a falange, c'erano soltanto i macedoni a maneggiare lancia e scudo. Brunetta e Verdini e Grillo non sono arruolabili nella falange. Strano che Renzi non lo sappia o se lo dimentichi. Può essere un buon leader e forse vincente al giusto momento, ma di errori ne fa un po' troppi e sarebbe bene che smettesse di farli. È giovane, si prepari per il futuro e intanto crei uno staff preparato, non di ragazzi che debbono ancora imparare a camminare.

Una parola tanto per concludere al capo di Confindustria, che dice di capire i forconi.

È un fatto positivo che Squinzi capisca i forconi e sono positive le richieste che fa per l'economia italiana.

Ma le imprese che rappresenta che cosa hanno fatto finora e da trent'anni a questa parte? Il "made in Italy" ha fatto, ma è una piccola parte dell'imprenditoria italiana che comunque merita d'esser segnalata e appoggiata.

Ma il resto?

Non ha fatto nulla. Ha tolto denari alle aziende abbandonando il valore reale per dedicarsi all'economia finanziaria. Ha ristretto le basi occupazionali; ha distratto i dividendi; spesso ha evaso; spesso ha delocalizzato. Non ha inventato nuovi prodotti e ha usato i nuovi processi produttivi per diminuire gli occupati.

A me piacerebbe sapere da Squinzi che cosa ha fatto dagli anni Ottanta il nostro sistema. Poi ha tutte le ragioni per chiedere, ma prima ci documenti su che cosa i suoi associati hanno dato. Così almeno il conto tornerà in pari.

Quanto al sindacato, vale quasi lo stesso discorso. Il sindacato rappresentava una classe che da tempo non c'è più. Adesso rappresenta i pensionati. Va benissimo, i pensionati hanno diritto ad essere rappresentati e tutelati, ma poi ci sono i lavoratori, gli anziani e i giovani, gli stabili e i precari.

A me non sembra che il sindacato se ne dia carico come si deve. Ripete le stesse cose; dovrebbe cercare il nuovo.

Si sforzi, amica Camusso. Questa è l'ora e il treno, questo treno, passa solo una volta.

© Riproduzione riservata 22 dicembre 2013

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/22/news/dittatore_vero_leader-74248179/?ref=HREC1-7


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2013, 06:01:16 pm
La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato

di EUGENIO SCALFARI
   
SI CERCANO con insistenza le novità e le innovazioni con le quali papa Francesco sta modificando la Chiesa. Alcuni sostengono che le novità sono di pura fantasia e le innovazioni del tutto inesistenti; altri al contrario sottolineano le innovazioni organizzative che non turbano tuttavia la tradizione teologica e dottrinaria; altri ancora definiscono Francesco, Vescovo di Roma come egli ama soprattutto definirsi, un Pontefice rivoluzionario.

Personalmente mi annovero tra questi ultimi. È rivoluzionario per tanti aspetti del suo ancor breve pontificato, ma soprattutto su un punto fondamentale: di fatto ha abolito il peccato.

Un Papa che abbia modificato la Chiesa, anzi la gerarchia della Chiesa, su una questione di questa radicalità, non si era mai visto, almeno dal terzo secolo in poi della storia del cristianesimo e l'ha fatto operando contemporaneamente sulla teologia, sulla dottrina, sulla liturgia, sull'organizzazione. Soprattutto sulla teologia.

I critici di papa Francesco sottovalutano le sue capacità e inclinazioni teologiche, ma commettono un grossolano errore. Il peccato è un concetto eminentemente teologico, è la trasgressione di un divieto. Quindi è una colpa.

La legge mosaica condensata nei dieci comandamenti ordina e impone divieti. Non contempla diritti, non prevede libertà. Il Dio mosaico descrive anzitutto se stesso: "Onora il tuo Dio, non nominare il nome di Dio invano, non avrai altro Dio fuori di me".

Poi, per analogia, ordina di onorare il padre e la madre. Infine si apre il capitolo dei divieti, dei peccati e delle colpe che quelle trasgressioni comportano: "Non rubare, non commettere atti impuri, non desiderare la donna d'altri (attenzione: il divieto è imposto al maschio non alla femmina perché la femmina è più vicina alla natura animale e perciò la legge mosaica riguarda gli uomini)".

Il Dio mosaico è un giudice e al tempo stesso un esecutore della giustizia. Almeno da questo punto di vista non somiglia affatto all'ebreo Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe della stirpe di David. Non contempla alcun Figlio il Dio mosaico; non esiste neppure il più vago accenno alla Trinità. Il Messia  -  che ancora non è arrivato per gli ebrei  -  non è il Figlio ma un Messaggero che verrà a preannunciare il regno dei giusti. Né esistono sacramenti né i sacerdoti che li amministrano. Quel Dio è unico, è giudice, è vendicatore ed è anche, ma assai raramente, misericordioso, ammesso che si possa definire chi premia l'uomo suo servo se e quando ha eseguito la sua legge.

È Creatore e padrone delle cose create. Nulla è mai esistito prima di lui e quindi da quando esiste comincia la creazione. Questo Dio i cristiani l'hanno ereditato trasformandolo fortemente nella sua essenza ma facendone propri alcuni aspetti importanti: il divieto e quindi il peccato e la colpa. Adamo ed Eva peccarono e furono puniti, Caino peccò e fu punito, e anche i suoi discendenti peccarono e furono puniti. L'umanità intera peccò e fu punita dal diluvio universale.

Questo è il Dio di Abramo, il Dio della cattività egizia e babilonese, di Assiria, di Babele, di Sodoma e Gomorra. Nella sostanza è il Dio ebraico o molto gli somiglia salvo che nella predicazione di alcuni profeti e poi soprattutto in quella evangelica di Gesù.

Nei secoli che seguirono, fino all'editto di Costantino che riconobbe l'ufficialità del culto cristiano, il popolo che aveva seguito Gesù offrì martiri alla verità della fede, fondò comunità, predicò amore verso Dio e soprattutto verso Cristo che trasferì quell'amore alle creature umane affinché lo scambiassero con il loro prossimo. Nacquero così l'agape, la carità e l'esortazione evangelica "ama il tuo prossimo come te stesso".
Questo è il Dio che predicò Gesù e che troviamo nei Vangeli e negli Atti degli apostoli. Un Dio estremamente misericordioso che si manifestò con l'amore e il perdono.

Nella dottrina dei Concili e dei Papi restano tuttavia le categorie del Dio giudice, del Dio esecutore di giustizia, del Dio che ha edificato una Chiesa e man mano l'ha distaccata dal popolo dei fedeli. Dall'editto di Costantino sono passati 1700 anni, ci sono stati scismi, eresie, crociate, inquisizioni, potere temporale. Novità e innovazioni continue su tutti i piani, teologia, liturgia, filosofia, metafisica. Ma un Papa che abolisse il peccato ancora non si era visto. Un Papa che facesse della predicazione evangelica il solo punto fermo della sua rivoluzione ancora non era comparso nella storia del cristianesimo.

Questa è la rivoluzione di Francesco e questa va esaminata a fondo, specie dopo la pubblicazione dell'esortazione apostolica Evangelii Gaudium, dove l'abolizione del peccato è la parte più sconvolgente di tutto quel recentissimo documento.

***

Francesco abolisce il peccato servendosi di due strumenti: identificando il Dio cristiano rivelato da Cristo con l'amore, la misericordia e il perdono. E poi attribuendo alla persona umana piena libertà di coscienza. L'uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa affermazione? Se l'uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l'uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L'anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell'attimo che precede la morte, quell'anima accetti la misericordia. Ma se non l'accetta? Se ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui?

Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre. Può abolire l'Inferno, ma ancora non l'ha fatto anche se l'esistenza teologica dell'Inferno è discussa ormai da secoli. Può affidare al Purgatorio una funzione "post mortem" di ravvedimento, ma si entrerebbe allora nel giudizio sull'entità della colpa e anche questo è un tema da tempo discusso.

Papa Francesco indulge talvolta a ricordare ai fedeli la dottrina tradizionale anche se il suo dialogo con i non credenti è costante e rappresenta una delle novità di questo pontificato che ha trovato i suoi antecedenti in papa Giovanni e nel Vaticano II.

Francesco non mette in discussione i dogmi e ne parla il meno possibile. Qualche volta li contraddice addirittura. È accaduto almeno due volte nel dialogo che abbiamo avuto e che spero continuerà.
Una volta mi disse, di sua iniziativa e senza che io l'avessi sollecitato con una domanda: "Dio non è cattolico". E spiegò: Dio è lo Spirito del mondo. Ci sono molte letture di Dio, quante sono le anime di chi lo pensa per accettarlo a suo modo o a suo modo per rifiutarne l'esistenza. Ma Dio è al di sopra di queste letture e per questo dico che non è cattolico ma universale.

Alla mia domanda successiva a quelle sue affermazioni sconvolgenti, papa Francesco precisò: "Noi cristiani concepiamo Dio come Cristo ce l'ha rivelato nella sua predicazione. Ma Dio è di tutti e ciascuno lo legge a suo modo. Per questo dico che non è cattolico perché è universale". Infine ci fu in quell'incontro un'altra domanda: che cosa sarebbe accaduto quando la nostra specie fosse estinta e non ci sarà più sulla Terra una mente capace di pensare Dio?

La risposta fu questa: "La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti". A me sembrò un arduo passaggio dalla trascendenza all'immanenza, ma qui entriamo nella filosofia e vengono in mente Spinoza e Kant: "Deus sive Natura" e "Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me". "Tutto sarà tutto in tutti". A me, l'ho già detto, è sembrata una classica immanenza ma se tutti hanno tutto dentro di sé potrebbe essere concepita anche come una gloriosa trascendenza.

Resta comunque assodato che per Francesco Dio è misericordia e amore per gli altri e che l'uomo è dotato di libera coscienza di sé, di ciò che considera Bene e di ciò che considera Male.

Ma qui si pone un'altra e fondamentale domanda: che cos'è il Bene e che cosa è il Male? Credo sia impossibile dare una definizione a questi due concetti. Una soltanto è possibile: sono necessari l'uno all'altro per poter reciprocamente esistere di fronte ad un essere vivente che ha conoscenza di sé. Gli animali non hanno il problema del Male e del Bene perché non possiedono una mente che si guarda e si giudica. Noi sì, quella mente l'abbiamo. Se ci fosse solo il Bene, come definirlo? Ma se c'è anche il Male l'esistenza di uno fa la differenza dell'altro come accade tra la luce e il buio, tra la salute e la malattia, e se volete, tra esistenza e inesistenza. Il nulla non è definibile né pensabile perché privo di alternativa.

***

Evangelii Gaudium non parla soltanto di teologia. Anzi parla molto più a lungo di altre cose, concrete, organizzative, rivoluzionarie anch'esse. Parla del ruolo positivo e creativo delle donne nella Chiesa. Parla dell'importanza dei Sinodi dei quali il Papa fa parte in quanto Vescovo di Roma, "primus inter pares". Parla dell'autonomia delle Conferenze episcopali. Parla dell'importanza delle parrocchie e degli oratori sul territorio. Parla perfino di politica, non certo nel senso del politichese, ma della politica come visione del bene comune e della libertà per chiunque di utilizzare lo spazio pubblico per diffondere e confrontarsi con le idee altrui. Parla delle diseguaglianze che vanno diminuite. "Io non ce l'ho con i ricchi, ma vorrei che i ricchi si dessero direttamente carico dei poveri, degli esclusi, dei deboli". Così papa Francesco. E parla infine della Chiesa missionaria che rappresenta il punto centrale della sua rivoluzione. La Chiesa missionaria non cerca proselitismo ma cerca ascolto, confronto, dialogo.

Concludo con una frase che dice tutto su questo Papa, gesuita al punto d'aver canonizzato pochi giorni fa il primo compagno di Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia più nobile e più discussa tra gli Ordini della Chiesa e contemporaneamente d'aver assunto il nome di Francesco che nessun Pontefice prima di lui aveva mai usato. I gesuiti mettono al servizio della Chiesa la loro proverbiale e non sempre apprezzabile flessibilità. Francesco d'Assisi era invece integrale nella sua visione d'un Ordine mendicante e itinerante. L'Ordine francescano fu rivoluzionario ma la sua potenza fu molto limitata; la Compagnia di Gesù al contrario fu potentissima e molto flessibile.

Questo Papa riunisce in sé le potenzialità degli uni e degli altri e conclude con due righe che rappresentano la sintesi di questo storico connubio: "È necessaria una conversione del Papato perché sia più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli. Non bisogna aver paura di abbandonare consuetudini della Chiesa non strettamente legate al Vangelo. Bisogna essere audaci e creativi abbandonando una volta per tutte il comodo proverbio "Si è sempre fatto così". Bisogna non più chiudere le porte della Chiesa per isolarci, ma aprirle per incontrare tutti e prepararci al dialogo con altri idiomi, altri ceti sociali, altre culture. Questo è il mio sogno e questo intendo fare".

Questo dialogo riguarda anche e forse soprattutto i non credenti, la predicazione di Gesù ci riguarda, l'amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito.

© Riproduzione riservata 29 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/12/29/news/la_rivoluzione_di_francesco_ha_abolito_il_peccato-74697884/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Il Papa, il peccato e una risposta a padre Lombardi
Inserito da: Admin - Dicembre 31, 2013, 12:49:59 pm
Il Papa, il peccato e una risposta a padre Lombardi

30 dicembre 2013
   
di EUGENIO SCALFARI

Padre Lombardi ha rilasciato alla Radio Vaticana una lunga dichiarazione sul mio articolo uscito ieri su Repubblica e ne segnala l'importanza come l'espressione da parte del mondo laico non credente su come Papa Francesco sta modificando la struttura stessa della Chiesa. Lo ringrazio per l'attenzione che pone al mio lavoro e al mio pensiero. C'è però nella sua dichiarazione alla Radio Vaticana una netta smentita all'ipotesi da me formulata che il Papa abbia abolito il peccato. Questa ipotesi è ovviamente una mia interpretazione la quale tuttavia è da me accompagnata da una constatazione che qui trascrivo:

 "L'uomo è libero e tale fu creato, afferma Francesco. Qual è il sottinteso di questa affermazione? Se l'uomo non fosse libero sarebbe soltanto un servo di Dio e la scelta del Bene sarebbe automatica per tutti i fedeli. Solo i non credenti sarebbero liberi e la loro scelta del Bene sarebbe un merito immenso. Ma Francesco non dice questo. Per lui l'uomo è libero, la sua anima è libera anche se contiene un tocco della grazia elargita dal Signore a tutte le anime. Quella scheggia di grazia è una vocazione al Bene ma non un obbligo. L'anima può anche ignorarla, ripudiarla, calpestarla e scegliere il Male; ma qui subentrano la misericordia e il perdono che sono una costante eterna, stando alla predicazione evangelica così come la interpreta il Papa. Purché, sia pure nell'attimo che precede la morte, quell'anima accetti la misericordia. Ma se non l'accetta? Se ha scelto il Male e non revoca quella scelta, non avrà la misericordia e allora che cosa sarà di lui? Per rivoluzionario che sia, un Papa cattolico non può andare oltre".

Da questa citazione di quanto ho scritto risulta evidente che il Papa non abolisce il peccato se la persona umana, sia pure in punto di morte, non si pente e la mia conclusione, come già citato sopra, è appunto quella che "un Papa cattolico non può andare oltre". Da questo punto di vista Padre Lombardi ed io la pensiamo allo stesso modo. Perché tuttavia io penso che Papa Francesco abbia abolito di fatto il peccato? Ho cercato di spiegarlo subito dopo sottolineando che nel momento stesso in cui il Papa pone come condizione alla conquista della grazia il pentimento, riafferma tuttavia la libertà di coscienza e cioè il libero arbitrio che Dio riconosce all'uomo. Se, a differenza di tutte le altre creature viventi, la nostra specie è consapevole della propria libertà, è il Creatore che gliel'ha consentita. La libertà di coscienza fa dunque parte integrante del disegno divino.

Il Dio mosaico punisce chi esercita la sua libertà. Punisce Adamo ed Eva cacciandoli dal Paradiso terrestre, punisce Caino e i suoi discendenti, punisce l'umanità intera con il diluvio universale. Quanto a Gesù (che sia figlio di Dio o figlio dell'uomo) è comunque incarnato e sente dentro di sé le virtù, i dolori e le tentazioni della carne, altrimenti non si misurerebbe col demonio nei quaranta giorni che passa nel deserto per respingerle. Ma soprattutto non accetterebbe il martirio e la crocifissione assumendosi tutte le colpe degli uomini per ripristinare l'alleanza con Dio. Il Papa cattolico ha come limite tradizionale la punizione di chi non si pente ma a mio avviso la supera nel momento in cui l'uomo esercita la sua libertà di coscienza. La libertà di coscienza fa parte dunque del disegno divino. Sua Santità ha rivendicato come suo autore preferito il Dostoevskij dei Fratelli Karamazov. Padre Lombardi certamente ben conosce le pagine sul Grande Inquisitore e certamente le conosce Papa Francesco. Il rapporto tra il Bene e il Male è dunque molto aperto in chi discute con i non credenti. Mi permetto tuttavia di segnalare a Padre Lombardi la chiusura del mio articolo di ieri che qui desidero riportare testualmente:

"La predicazione di Gesù ci riguarda, l'amore per il prossimo ci riguarda, le diseguaglianze intollerabili ci riguardano. Un Papa rivoluzionario ci riguarda e il relativismo di aprirsi al dialogo con altre culture ci riguarda. Questa è la nostra vocazione al Bene che dobbiamo perseguire con costante proposito".
 
© Riproduzione riservata 30 dicembre 2013

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/12/30/news/lombardi-scalfari-74804027/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Dio che affanna e che consola
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2014, 06:00:38 pm
Il Dio che affanna e che consola

di EUGENIO SCALFARI
   
La curiosità dei vecchi o svanisce o aumenta sensibilmente. I motivi di questa differenza sono stati profondamente studiati dalla neurobiologia, dalla psichiatria, dalla psicanalisi ma anche dalla filosofia, dalla letteratura e dall'arte. Personalmente appartengo alla categoria dei curiosi e finché dura mi ci trovo bene specie in un'epoca come quella in cui viviamo, dove i temi e le persone che destano curiosità sono numerosi e configurano un panorama molto frastagliato.

Volessi farne l'elenco lo aprirei con papa Francesco e poi, a seguire, Giorgio Napolitano, Angela Merkel, Barack Obama, Enrico Letta, Matteo Renzi, la generazione dei giovani nati tra gli anni Ottanta e Novanta, la generazione dei bambini nati dopo il 2000 e che ora hanno almeno cinque anni. Ci metterei anche il mutamento climatico, l'economia globale, le nuove tecnologie della comunicazione, le masse di migranti che vagano nel mondo spinti dal bisogno, spesso rischiando la morte pur di conquistarsi una nuova vita.

Mi rendo conto che l'elenco è incompleto, ma questi sono comunque i temi e i personaggi che interessano me e, spero, anche i lettori di questo giornale. Ne sfiorerò alcuni e mi toglierò anche qualche sassolino dalle scarpe, alla mia età se ne ha il diritto e a volte perfino l'obbligo per fare maggior chiarezza sui propri pensieri e su quelli altrui.

Comincio da papa Francesco. Ne ho scritto già più volte, ma ogni giorno ci reca una nuova sorpresa e anche nuove polemiche, dentro e fuori dalla Chiesa.

Io penso, e non sono certo il solo, che sia un Papa rivoluzionario, come non si erano mai visti da secoli. Ma questo non piace a molti e se ne capisce il perché. Riformista, sì, tutti i Papi hanno introdotto novità e aggiornato la Chiesa con il correre del tempo; ma rivoluzionario no, disturba, preoccupa, rompe tradizioni codificate, interessi esistenti, equilibri consolidati.

Qual è dunque la verità? Francesco l'ha ripetuta più volte e da ultimo proprio nei discorsi di questi giorni: la Chiesa non può chiudersi su se stessa, si isolerebbe, morirebbe. Deve invece aprirsi e il Papato deve convertirsi ad una Chiesa missionaria che non cerchi proselitismo ma ascolto, confronto, dialogo con le altre culture. "Non colpite col bastone, ma predicando il bene con la dolcezza": questo e molte altre cose ha detto all'assemblea dove si è confrontato in Santa Maria Maggiore con i capi degli ordini religiosi maschili e l'ha ridetto nell'incontro di venerdì scorso nella Chiesa del Gesù con i suoi fratelli gesuiti.

È nata una polemica sul tema del peccato e, a detta di alcuni miei critici, io avrei sostenuto che il Papa lo ha di fatto abolito. Io non ho detto questo: un Papa cattolico non può abolire il peccato, può estendere a tutte le anime la misericordia divina fino all'ultimo attimo d'una vita di peccati gravi e ripetuti; ma in quell'attimo finale il peccatore si penta e sarà perdonato. Dunque il peccato c'è e richiede pentimento.

Fin qui siamo nel pieno rispetto della dottrina, del canone e anche del Dio mosaico dei Comandamenti. Ma - questa è la novità di Francesco - il Papa ricorda che l'uomo è stato creato libero. È lui che decide i suoi comportamenti ed è Dio che l'ha creato in questo modo. Qual è la verità rivoluzionaria di questo riconoscimento? Non che l'uomo sceglie il male perché in tal caso muore dannato; bensì che l'uomo sceglie il bene così come lui se lo raffigura. C'è dunque un canone etico in questa scelta. L'etica primeggia in ogni religione, in ogni civiltà, in ogni epoca; ma l'etica è il requisito più mutevole da uomo a uomo, da società a società, da tempo e da luogo. Se la coscienza è libera e se l'uomo non sceglie il male ma sceglie il bene così come lui lo configura, allora il peccato di fatto scompare e con esso la punizione.

Non è una rivoluzione? Come volete chiamarla? Francesco, tra i vari autori da lui preferiti, indica il Manzoni. Ebbene, rileggete la poesia in morte di Napoleone che l'autore così conclude rivolgendosi ai suoi lettori: "Tu dalle stanche ceneri / sperdi ogni ria parola. / Il Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola / sulla deserta coltrice / accanto a lui posò".

Napoleone di peccati ne aveva commessi e non piccoli, né risulta si fosse pentito, ma la misericordia divina, secondo il Manzoni, comunque non l'abbandona.

Concludo su questo punto capitale: la misericordia va oltre il pentimento per chi crede fermamente in Dio che secondo il Papa fu creato libero.

Io, da non credente, posso scegliere la predicazione evangelica di Gesù figlio dell'uomo. Il mio peccato di non avere fede dovrebbe essere punito, ma a me non pare che Francesco pensi questo. Forse i miei critici fanno qualche errore di ragionamento, ma neanche loro, di certo, saranno puniti.

* * *

Lasciamo il Papa rivoluzionario e apriamo un altro scenario dove troviamo tre protagonisti in posizioni reciprocamente dialettiche: Enrico Letta, presidente del Consiglio, Angelino Alfano, vicepresidente e leader del Nuovo centro-destra, Matteo Renzi, segretario del Pd e sindaco di Firenze.

I giornali di ieri hanno dato la notizia che lo spread è sceso a quota 197, il che vuol dire che i Buoni del Tesoro poliennali a dieci anni hanno un valore elevato e un tasso di interesse molto basso. Nel 2014 questo valore procurerà all'Erario un risparmio di circa 5-6 miliardi di euro che dovrebbero avere come destinazione un sostanzioso ribasso del cuneo fiscale con vantaggi sia per le imprese sia per i consumatori.

Letta rivendica questo risultato come l'esito d'una politica di sacrifici che finalmente potranno essere gradualmente attenuati specie se saranno accompagnati da un taglio delle spese correnti non necessarie e da una costante pressione contro l'evasione fiscale.

L'importanza della notizia non è solo questa ma è la crescita del prestigio europeo del nostro presidente del Consiglio e dei risultati che da ciò possono derivare nell'atteggiamento della Germania nei nostro confronti.

Per delineare il programma di governo fino alla primavera del 2015 Letta si appresta a formularne i capitoli entro il prossimo 15 gennaio con i suoi due interlocutori, Alfano e Renzi.

Quest'ultimo a sua volta sta mettendo a punto il programma del Pd per lo stesso periodo di tempo e si già capito che, fermo il suo impegno con il presidente Napolitano a sostenere per tutto l'anno prossimo il governo Letta, il neo-segretario del Pd tenderà a render la vita difficile ad Alfano. E nel frattempo, ieri, gli è scoppiata in mano la grana di Fassina.

L'obiettivo di Renzi è evidente: lui non può rompere con Letta, ma cerca di provocare la rottura da parte di Alfano. I diritti delle coppie di fatto sono soltanto una di quelle punture, ma di spillo poiché non è su quel punto che Alfano romperà.

Le riforme, questo è l'aspetto più arduo e quindi: il cambiamento dei contratti di lavoro, degli ammortizzatori sociali, l'eventuale rimpasto di governo, la legge elettorale, gli esodati. Materia ce n'è, l'obiettivo che Renzi coltiva è un governo monocolore del nuovo Pd. Alfano ci stia come voto aggiuntivo ma non determinante. Dunque elezioni a maggio? Mai dire mai, specie se fosse Alfano a rompere.

Personalmente credo che buona parte dei giovani del Pd coltivino il progetto d'un monocolore del proprio partito e quindi elezioni anticipate. Ma la domanda da porsi è un'altra: un progetto del genere giova all'interesse nazionale oppure no? La mia risposta è no, non giova.

Il paese ha da molti anni a questa parte una destra sovversiva, populista, demagogica. Forza Italia è questo, Grillo è questo, la Lega è questo. Alfano ha rotto con Forza Italia e con la Lega; Grillo non parla con nessuno e - ove mai - sarebbe Berlusconi a parlare con lui.

La sinistra riformista italiana ha interesse a consentire ed anzi ad aiutare per quanto possibile la nascita e il consolidamento d'un centro-destra repubblicano ed europeo. Molti si chiedono quale sia il vero compito della sinistra riformista italiana. Ebbene, è appunto questo: aiutare il centro-destra repubblicano a rappresentare il secondo attore dell'alternanza democratica.

Il programma di Renzi è l'opposto: ributtare un Alfano impotente nelle braccia di Berlusconi. Se questo è l'obiettivo del sindaco di Firenze, a me sembra pessimo. Spero soltanto che né Letta né lo stesso Alfano entrino in questa trappola. La ricerca del compromesso - ha detto più volte il Papa rivoluzionario - è il solo antidoto al fanatismo, all'integralismo e all'assolutismo. Mi auguro che lo ascoltino anche i politici di casa nostra. Soltanto col compromesso e non col radicalismo si rafforza la democrazia.

* * *

Dovrei ora rispondere a Galli Della Loggia (un altro sassolino) che riafferma la sua visione di un leader democratico che, secondo lui, vive e cresce sul carisma e sulle decisioni che deve prendere in perfetta solitudine. Questo è il ritratto da lui disegnato e identificato con Renzi sempre che non si faccia condizionare dai suoi colonnelli.

Ognuno è libero di pensare come vuole. Io continuo a credere che il ritratto da lui fatto due domeniche fa sul Corriere della sera somigliasse molto di più al Mussolini del ventennio 1923-1943, ma se lui pensa a Renzi e non al capo del fascismo, francamente non è un regalo che fa al sindaco di Firenze.

Nella Dc della prima Repubblica De Gasperi era un leader ma non certo solo e dopo di lui il gruppo dirigente fu sempre folto e differenziato, c'era Fanfani, c'erano Moro e Segni, Colombo, Dossetti, Andreotti, Bisaglia, Forlani, Zaccagnini, Gava, De Mita. Me ne scordo qualcuno.

Nel Pci l'ideologia faceva da cemento ma il gruppo era anche lì fitto e il leader lo teneva nel dovuto conto. Insieme a Togliatti, in tempo clandestino, c'erano Tasca, Terracini, Negarville e Scoccimarro. Poi Longo e Secchia e Amendola e Ingrao e Napolitano e Berlinguer e Rodano e Macaluso e Cossutta e Pajetta e Chiaromonte e Occhetto. Anche qui me ne scordo parecchi.

Il capo assoluto e solitario è un'immaginazione. In Italia l'abbiamo vista spesso, anche molto recentemente, ma questo è un altro discorso non certo auspicabile.

Prima di concludere mi permetto di dissentire dal mio amico e collega Gad Lerner che giudica irrilevante la socialdemocrazia tedesca che avrebbe lasciato campo libero alla Merkel in cambio della possibilità di interventi, del tutto irrilevanti, sulla politica sociale.

Caro Gad, temo ed anzi spero che tu sbagli. La politica sociale della Spd ha ottenuto ed otterrà un deciso aumento del potere d'acquisto dei lavoratori e dei consumatori con la conseguenza che già si profila d'un netto aumento della domanda interna ed un freno oggettivo alle esportazioni fuori dall'area dell'euro. La Merkel sa perfettamente quanto sta avvenendo nell'economia tedesca e quali sono le aspettative. Questa stessa politica è stata più volte incoraggiata da Mario Draghi e l'Italia insieme all'Europa possono trarne consistenti benefici.

* * *

Il discorso di fine anno del presidente della Repubblica a me è parso misurato, fermo, commosso e insomma perfetto. Ha raccontato le ambasce di molti italiani schiacciati dalla solitudine, dai sacrifici, dalla disperazione per sé e per i figli; ha ricordato qual era e qual è la situazione del paese, ha sottolineato segnali di miglioramento, ha stimolato partiti e governo a fare meglio e di più, ha considerato l'attenzione che il Capo dello Stato deve riservare alle opposizioni, ha ricordato la sua funzione di coordinare i poteri dello Stato con la persuasione informale che rappresenta in particolare una delle sue prerogative specie nel momento in cui è chiamato a firmare decreti, a trasmettere disegni di legge al Parlamento e a inviare pubblici messaggi. Infine ha respinto insulti e calunnie che non toccano lui come persona ma l'Istituzione che rappresenta e le prerogative che ha il dovere di esercitare.

Ha anche accennato ad un suo possibile ritiro dal ruolo che sta ricoprendo non appena la situazione politica sarà fuori dall'emergenza e fino a quando le forze fisiche glielo consentiranno.

In un paese disastrato una presenza come la sua è preziosa. Avverto i lettori che gli sono amico da tempo ma non credo che l'amicizia mi faccia velo. Talvolta ci siamo trovati in disaccordo e l'ho detto e scritto e ancora lo scriverei se lo ritenessi necessario. Ma resta il giudizio positivo e la speranza che possa tornare presto alle sue letture e al meritato risposo. Vorrebbe dire che l'emergenza è finita e questo - credo - sarà il miglior premio della sua vita.

© Riproduzione riservata 05 gennaio 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/05/news/il_dio_che_affanna_e_che_consola_di_eugenio_scalfari-75144462/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Federalisti sì ma europeisti
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2014, 12:32:42 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Federalisti sì ma europeisti
La Catalogna in Spagna, la Scozia in Gran Bretagna, la Baviera in Germania, le Fiandre in Belgio: tutti riscoprono il separatismo e l’indipendentismo. Ma dentro un forte Stato europeo. La Lega e i lepenisti francesi invece...

La Catalogna farà un referendum sponsorizzato dal governo di quella regione, il cui esito è praticamente già scontato: sarà una regione-nazione che riconosce alla Spagna di rappresentarla nella politica estera e nella Difesa nel solo caso di un’aggressione. Ma anche le altre regioni-nazioni preparano referendum analoghi: l’Andalusia, la Mancia, i Paesi Baschi. Poi voterà la Spagna in quanto tale e probabilmente anche l’esito di questo atto conclusivo sarà la struttura federale dello Stato spagnolo. Un federalismo che va ben oltre l’autonomia amministrativa poiché contiene elementi di forte politicità.

È inutile sottolineare che il linguaggio delle varie regioni-nazioni non ha struttura dialettale; il catalano, il basco, l’andaluso, non sono dialetti ma vere e proprie lingue e hanno alle spalle una vera e propria storia politica che per lunghi secoli ebbe un suo autonomo sviluppo, a cominciare dagli Emirati Arabi di Cordoba e Granada che sopravvissero fino a quando la Castiglia di Isabella e la Catalogna di Alfonso d’Aragona non si unirono e cominciarono la “reconquista”.

Del resto non è soltanto la Spagna a orientarsi verso il separatismo. Il fenomeno della Scozia è ancor più antico e ha fatto già molti passi avanti. Anche lì un referendum è imminente e non è il primo. Dovrebbe sancire nuove e ancor più politiche forme di indipendenza. La realtà è che la Scozia ha da sempre avuto una storia propria, una religione propria e una propria dinastia regnante con un esercito combattente. Perfino quando l’impero di Roma sbarcò, prima con Cesare e poi, più stabilmente, con gli imperatori Antonini, il Vallo di Adriano lasciò fuori dal perimetro di conquista il Galles e la Scozia.

La Scozia fu da sempre cattolica e impose la sua religione a tutta la Gran Bretagna quando il figlio di Maria Stuart divenne re di tutto il paese. Ora la Scozia torna all’indipendenza e l’Inghilterra è d’accordo ma il separatismo si estenderà anche al Galles e alle provincie settentrionali. L’Irlanda è da tempo sulla stessa via. Il medesimo fenomeno si sta manifestando in Francia, il paese dove da almeno mezzo millennio l’unità ha marciato di pari passo con la “grandeur”.

In Germania la tradizione dei principati elettori è invece antica e mai spenta e sta ora manifestando la sua spinta in Baviera, nel Palatinato, in Renania, in Brandeburgo. Le Fiandre riscoprono anch’esse la loro lingua e la loro disposizione indipendentista. Insomma l’Europa intera torna all’ideale federalista, ma con una particolarità un tempo ignota: il federalismo delle regioni-nazioni non solo non è contrario, ma ha come caratteristica essenziale l’esistenza di uno Stato europeo; uno Stato vero, non una confederazione di paesi nazionali guidati da governi nazionali. L’Europa unita e le regioni-nazioni che in essa si riconoscono e in essa trovano quella dimensione continentale, quella moneta unica, quella politica estera che parli con una sola voce e si confronti pacificamente ma affermando i propri valori e interessi rispetto al resto del mondo e alla sua convivenza globale.

Questo è il quadro, questo le forze che lo compongono e in esso si riconoscono e si articolano, con alcune vistose eccezioni: il Fronte nazionale lepenista e la Lega padana.

Queste forze non vogliono affatto uno Stato europeo e tanto meno una moneta comune. Sono forze nazionaliste o favorevoli a confederazioni regionali dove l’accento si ponga contro la globalizzazione mondiale. Quale possa essere il loro futuro è ancora incognito a loro stesse, ma nella situazione attuale è un futuro ignoto che tende soltanto alla totale rottura del presente, nel bene e nel male che in esso convivono.
08 gennaio 2014© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/01/03/news/federalisti-si-ma-europeisti-1.147548


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "Berlusconi è risorto e da sabato è entrato nella maggioranza"
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 05:48:18 pm
Eugenio Scalfari da Lucia Annunziata a 1/2h.
"Berlusconi è risorto e da sabato è entrato nella maggioranza"

L'Huffington Post  |  Pubblicato: 19/01/2014 14:41 CET  |  Aggiornato: 19/01/2014 15:23 CET

"Berlusconi è risorto e di fatto è entrato nella maggioranza. Oggi il vero scontro è tra Letta e Renzi". Eugenio Scalfari, ospite da Lucia Annunziata a 'In ½ h', parla dell'incontro tra il segretario e il leader di Forza Italia, critica l'intesa fra i due e addebita a Renzi l'onere di aver ritirato nel dibattito politico il Cavaliere. E aggiunge: "Non credo a un Letta Bis, al massimo ci sarà un rimpastino"

Il fondatore di Repubblica tira le orecchie al sindaco: "Non si può essere in piena sintonia con un pregiudicato".

15:02 – Oggi
Scalfari: "Il vero scontro sarà tra Renzi e Letta"

"Renzi vuole sostituire Letta. E per farlo ha tirato in mezzo Berlusconi. Di fatto riabilitandolo. Berlusconi non dava più carte da alcuni mesi. Anzi le aveva perse dal mazzo. Adesso rientra in gioco. Renzi è andato anche oltre, dicendo di provare 'profonda sintonia' con il Cavaliere. Non si può essere in sintonia con un pregiudicato. Le parole sono come pietre"
14:56 – Oggi
"Non credo al Letta Bis, al massino un rimpastino limitatissimo"

"Un eventuale Letta Bis è una eventualità remota perché non si possono cambiare molti ministri. In quel caso Letta non avrebbe vita facile: con Grillo e Renzi sarebbe difficile riottenere la fiducia. Non credo al Letta Bis, al massino un rimpastino limitatissimo"

14:54 – Oggi
"Non si può navigare tranquilli. Berlusconi è imprevedibile"

14:51 – Oggi
"Questo accordo prevede una stabilità fino al 2015"

"Questo accordo prevede una stabilità fino al 2015. È vero, Berlusconi ha ancora il 20% dei suffragi ma Renzi dovrà affrontare il problema di trattare con una persona che è ai servizi sociali"
14:48 – Oggi
"Sono cambiati in peggio i tempi. La gente vota Grillo per scassare il Paese e Renzi per rompere il Partito democratico"

"Sono cambiati in peggio i tempi. Oggi è difficile per l'elettorato identificarsi. Molta gente ha votato Renzi per distruggere il Partito Democratico. Molta gente invece ha pensato "Voto Grillo così scasso il Paese". Ma così è impossibile andare avanti. Perché è una follia pensare che si possa ripartire da zero".

14:42 – Oggi
"Berlusconi è risorto"

"La guerra è finita? La sinistra è molto disorientata. Quello che succede è sconcertante e storico. Berlusconi era uscito dalla scena: lo ha fatto una prima volta con Monti (anche se il suo partito restava e cedeva il passo a un governo di necessità) e lo ha fatto dopo la decadenza. Ma dopo l'incontro con Renzi è cambiato l'architrave della politica italiana: "Berlusconi è risorto e da sabato di fatto è entrato nella maggioranza".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/01/19/eugenio-scalfari-lucia-annunziata-_n_4626932.html?1390138871&utm_hp_ref=italy


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I Campi Elisi di Silvio l'Ispanico
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:10:06 pm
I Campi Elisi di Silvio l'Ispanico

di EUGENIO SCALFARI
   
Ieri si è combattuto il giorno intero sulla legge elettorale, anche il giorno prima si era combattuto e anche oggi e domani si continuerà perché lo scontro avverrà su un compromesso ed anche i compromessi contemplano molte varianti.

Per abbreviare il linguaggio politico e mediatico il confronto avviene attorno al modello della legge elettorale spagnola definita Ispanico, scritto con la maiuscola. Mi viene in mente un celebre film il cui protagonista era l'attore Crowe, generale delle legioni e supposto successore di Marc'Aurelio il quale però venne ucciso dal figlio Commodo che diventò imperatore. L'ex generale fu ridotto in schiavitù e chiamato Ispanico; dopo varie vicende affrontò lo stesso Commodo nell'arena del Colosseo. Si uccisero reciprocamente e il film si chiude con l'arrivo di Ispanico nei Campi Elisi dove ritrova sua moglie e i suoi figli.

Resta ora da capire per noi che viviamo duemila anni dopo questa romanzesca vicenda, chi sia l'Ispanico di oggi: se Berlusconi o Renzi o Letta.

Personalmente propendo per Berlusconi, somiglia all'Ispanico del film sia come capo di legioni sia nella fase della schiavitù (condannato dalla Cassazione e deposto dal Senato) sia nel ritorno ai Campi Elisi. C'è tornato infatti ieri sera nell'incontro con Renzi nell'ufficio che era stato di Bersani, e ci resterà ormai per sempre, quali che siano i risultati dell'incontro.

Berlusconi l'Ispanico. Renzi l'ha riportato al centro della politica italiana.

Compiendo quell’atto di clemenza che il Cavaliere aveva invano atteso da un «motu proprio» di Napolitano e che il Presidente si è sempre rifiutato di concedere per la semplice ragione che non può ignorare le sentenze definitive della magistratura, rafforzate dalle decisioni altrettanto definitive del Senato della Repubblica.

La clemenza «motu proprio » gliel’ha accordata Matteo Renzi.

Nessuno lo obbligava, la legge elettorale ha carattere ordinario, non costituzionale, anche se è direttamente legata alla trasformazione del Senato in Camera delle regioni, senza di che resterebbe in piedi la trappola del bicameralismo perfetto che non esiste in nessuna democrazia occidentale, neppure in quella presidenzialistica americana.

Allora perché il sindaco di Firenze ha deciso di riportare nei Campi Elisi l’Ispanico Berlusconi, con la sua fidanzata Francesca Pascale e il cagnolino Dudù?

***

Ho letto con molto interesse qualche giorno fa un articolo di Asor Rosa sul “Manifesto”: un articolo decisamente anti-renziano e altrettanto decisamente filo-lettiano pur essendo Asor Rosa un intellettuale che vagheggia una nuova sinistra- sinistra. Non è paradossale che una personalità come Asor Rosa arrivi ad una conclusione così contraddittoria? Seguendo quale logica? Rosa lo dice: il Pd non c’è più, è un partito lacerato da correnti, correntine e spifferi di corrente, che si è consegnato di fatto a Matteo Renzi, sia in quelli che lo appoggiano sia in quelli che lo contrastano. In entrambi i casi le varie fazioni agiscono alla cieca o per interessi propri. I più contrari a Renzi, come Fassina o Civati, auspicano elezioni immediate e coincidono in questo punto di fondo con il sindaco di Firenze.

Il partito non c’è più, c’è Renzi, il quale deve portare a casa riforme che facciano colpo sull’immaginario degli elettori. La legge elettorale interessa assai poco la gente, i lavoratori, le famiglie che non arrivano alla fine del mese, i poveri e i poverissimi ma anche gli agiati che vivono con l’incubo di precipitare in basso.

Questa gente non ha alcuna stima della politica ma resterebbe colpita dal fatto che un politico di nuovo conio porta a casa un risultato concreto. Quale che sia, in- teressi o meno la gente, è pur sempre un risultato, ottenuto in pochi giorni. La gente ne sarebbe stupefatta se questo avvenisse. Il renzismo guadagnerebbe fiducia tanto più che il nuovo leader promette anche obiettivi economici «a portata di mano».

Chi ha esaminato a mente fredda quelle promesse ha capito che non sono affatto a portata di mano, ma una buona parte degli italiani ha sempre creduto che i miracoli si fanno, la bacchetta magica esiste e anche l’asino che vola c’è da qualche parte. Se così non fosse, non ci sarebbe un venti per cento di elettori che vota ancora per Silvio. Silvio c’è e se non ha fatto miracoli è perché finora gliel’hanno impedito i suoi nemici toghe rosse e comunisti.

Meno male che Silvio c’è e dunque anche meno male che c’è Renzi. Si somigliano? Sì, si somigliano e anche molto.

***

La vera — e formidabile — bravura di Silvio è sempre stata quella d’incantare la gente, ma è la stessa bravura di Matteo che sa incantare la gente come Silvio e anche di più ora che Silvio è vecchio e fisicamente un po’ provato.

Matteo è un Silvio giovane dal punto di vista dell’incantamento e quindi più efficace.

Adesso il suo problema sarà quello di convincere Alfano a contentarsi. Gli ha offerto uno stock di seggi basati sul proporzionale ma corretti da un maggioritario assicurato dal premio di maggioranza che le liste dei partiti maggiori otterranno. Alfano avrà meno di quanto sperasse col doppio turno continuando tuttavia ad esistere, ma con Silvio l’Ispanico restituito al suo ruolo di salvatore della Patria. È terribilmente scomoda per Alfano una convivenza di questo genere. O si oppone al compromesso che gli viene proposto o il suo movimento finirà di nuovo nelle braccia di Berlusconi. Questo è il dilemma che dovrà sciogliere nelle prossime quarantott’ore.

C’è tuttavia un aspetto di questa situazione politica: è interesse della democrazia italiana l’esistenza d’una destra moderata, repubblicana ed europeista, che restauri l’alternanza tra le due ali dello schieramento nell’ambito di quei principi sui quali è nata la democrazia europea simboleggiata dalla bandiera tricolore: libertà, giustizia, fraternità.

In Italia ci fu la destra storica dopo la quale cominciò il gioco malandrino del trasformismo con interruzioni di governi autoritari comunque mascherati.

Alfano può non piacere, non è certo un personaggio attraente, carisma zero, intelligenza politica dubitabile, ma non c’è solo lui in questa prima esperienza di destra moderata, ci sono Lupi, Cicchitto, Quagliariello. Siamo comunque ad un primo esperimento, ma merita di non essere schiacciato e ributtato indietro. È una mossa intelligente quella di Renzi di avergli offerto una ciambella di salvataggio, ma la ciambella funziona se il mare è calmo e la costa è vicina. Con Berlusconi risuscitato la costa è assai lontana e il mare in tempesta. Questo è il punto che Alfano e i suoi dovranno valutare con la massima attenzione.

***

Nel frattempo la recessione economica sembra aver toccato il fondo cominciando a risalire. I dati per la prima volta registrano un aumento dei fatturati; la speranza è che i consumi riprendano e il «credit crunch» delle banche abbia finalmente una fine. La Commissione della Ue, si spera ed è probabile, darà un giudizio favorevole sulla politica economica italiana, specialmente per quanto riguarda le privatizzazioni e la revisione delle spese superflue. Le privatizzazioni consentiranno una diminuzione consistente del debito pubblico, la riduzione della spesa e l’appoggio dell’Europa potrebbero liberare risorse per incentivare la domanda interna ed anche quella estera. Il trattato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche di quel Paese è vicino alla sua conclusione e ci darà una congrua disponibilità di nuove risorse.

Insomma tra un anno il rilancio dello sviluppo potrebbe essere consolidato e i riflessi su investimenti e occupazione potrebbero essere consistenti.

Non siamo certo in grado di giudicare se Renzi sarà lieto di questo risultato, ma tutti gli italiani ne saranno confortati e la rabbia sociale sarà confinata in piccole minoranze.

Il Silvio Ispanico si attribuirà tutti i meriti. È sempre avvenuto e sarà ancora una volta così. Speriamo soltanto che gli italiani che credono nelle favole siano meno numerosi di oggi e i partiti più idonei a capire le differenze tra cultura politica e improvvisazione. Ci vogliono tutte e due queste capacità, una sola è una sciagura.

© Riproduzione riservata 19 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/19/news/i_campi_elisi_di_silvio_l_ispanico-76333648/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. È Internet la causa dell’ignoranza
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:46:41 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

È Internet la causa dell’ignoranza
Umberto Eco sostiene che la Rete è uno stimolo per i giovani. E invece la tecnologia della memoria artificiale è l’origine dell’appiattimento sul presente: non c’è bisogno di ricordare. E poi ha ridotto al minimo la parola scritta
   
Nella sua “Bustina di Minerva” sull’ultimo “Espresso” Umberto Eco racconta un fatto al tempo stesso esilarante e preoccupante. In una trasmissione televisiva di quiz condotta da Carlo Conti erano stati scelti quattro giovani e gli erano state poste alcune domande apparentemente assai facili: in che anno Hitler fu nominato cancelliere della Germania e quando avvenne l’incontro di Benito Mussolini con Ezra Pound. La facilità delle domande consisteva nel fatto che le date proposte dal conduttore consentivano ai concorrenti risposte abbastanza sicure perché alcune superavano largamente la morte sia di Hitler sia di Mussolini. Sicché i giovani prescelti, anche se ignoravano la data esatta, avrebbero dovuto escludere quella decisamente sbagliata. Invece non fu così. La risposta di una dei giovani invitati al gioco collocò l’incontro di Mussolini e Pound nel 1964, cioè vent’anni dopo la morte del Duce.

Eco così commenta l'accaduto, registrato su “You Tube”: «Quest’appiattimento del passato in una nebulosa indifferenziata si è verificato in molte epoche, ma ora non dovrebbe avere giustificazioni visto le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet. Evidentemente la memoria in alcuni (molti) giovani si è contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere. Si tratta dunque d’una malattia generazionale». Del resto lo stesso Eco qualche settimana fa aveva segnalato che, usando attendibili sondaggi, risultava che molti studenti universitari fossero convinti che Aldo Moro era il capo delle Brigate Rosse. Altro che malattia generazionale! Ma perché è accaduto questo? E perché colpisce (o almeno così sembra) soprattutto i giovani?

Il motivo per il quale riprendo su questa pagina le preoccupazioni di Eco (che ovviamente condivido) segnala le cause che hanno determinato la malattia. Eco l’attribuisce soprattutto alle carenze della scuola, delle famiglie, dei vari centri educativi, che non si curano della memoria. La memoria un tempo veniva esercitata obbligatoriamente: i giovani dovevano imparare a memoria una serie di poesie indicate dagli insegnanti. Non importava se capissero o no il loro contenuto, importava di tenere in esercizio le mappe cerebrali dove la memoria ha la sua sede. In seguito quest’obbligo è stato abolito: sembrava che una memoria meccanica non servisse a nulla e anzi fosse disdicevole. Ed ecco le tristissime conseguenze. Osservo tuttavia che Eco considera Internet, e in generale la memoria artificiale affidata alla tecnologia, una risorsa per stimolare i giovani mettendo a loro disposizione una massa enorme di informazioni. Su questo il mio pensiero differisce molto dal suo. Secondo me, infatti, la tecnologia della memoria artificiale è la causa prima dell’appiattimento sul presente o almeno una delle cause principali. La conoscenza artificiale esonera i frequentatori della Rete da ogni responsabilità: non hanno nessun bisogno di ricordare, il clic sul computer gli fornisce ciò di cui in quel momento hanno bisogno. C’è chi ricorda per te e tanto basta e avanza.

Ma c’è di più: la possibilità di entrare in contatto, sempre attraverso il clic, con qualunque abitante del mondo, di parlare con un residente in Australia e, a tuo piacimento, con uno che vive nei Caraibi o in Brasile o nel Sudafrica o a Pechino; sembra inserirti in una folla di contatti e di compagnia. In realtà è l’opposto: ti confina nella solitudine. Molti fruitori della Rete infatti hanno smesso di frequentare il prossimo e restano ritirati in casa a “navigare” sulle onde della nuova tecnologia. L’amore anche fisico attraverso la Rete è diventato abituale per molti. Si chiama da tempo “amore solitario” e infatti lo è.

Infine la rete ha modificato il pensiero, ha ridotto al minimo la parola scritta. Perfino il Papa si serve del linguaggio “twitter” e comunica in questo modo con molti milioni di persone con frasi che non superano i 140 caratteri. Tra il pensiero e la parola scritta c’è un rapporto interattivo. I nostri giovani leggono i giornali e i libri attraverso la Rete. Cioè leggono notizie e cultura ridotte a poche parole. Il numero delle parole usate è ormai al minimo e poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è una interazione, ne deriva che il pensiero si è anchilosato come il linguaggio. La malattia è estremamente preoccupante e segna un passaggio di epoca. Caro Umberto credimi, è qualcosa di più che non una malattia generazionale.

22 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/01/15/news/e-internet-la-causa-dell-ignoranza-1.148803


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il duopolio ai partitoni e il bavaglio ai partitini
Inserito da: Admin - Gennaio 26, 2014, 11:26:15 pm
Il duopolio ai partitoni e il bavaglio ai partitini

di EUGENIO SCALFARI
   
QUALCUNO si ricorda la legge elettorale truffa, proposta dalla Democrazia cristiana e dai suoi alleati laici, i cosiddetti partitini? Ne dubito; sono passati sessant’anni da allora e molti degli attori di quella vicenda non ci sono più. Io ricordo bene: la legge fu sconfitta dall’opposizione di dissidenti da sinistra e da destra, tra i quali emergevano Codignola, Parri e Corbino. Eppure non era una grande truffa: attribuiva un premio del 15 per cento alla coalizione che avesse superato il 50,1 dei voti. Si votava in collegi uninominali, gli stessi con i quali nel 1948 la Dc aveva incassato il 48 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi.

Altri tempi, sembrano la preistoria. C’erano personaggi come De Gasperi, Togliatti, Ugo La Malfa e molti altri di analogo conio; al Quirinale c’era Luigi Einaudi, del quale Napolitano è un devoto cultore nonostante il suo passato di comunista (ma non marxista).

Oggi siamo alle prese con una riforma elettorale voluta da Renzi e da Berlusconi e diventata disegno di legge in pochi giorni, che cerca di realizzare il massimo di governabiltà sacrificando i criteri di rappresentanza. Il punto di frizione con i partiti minori e con i Cinque Stelle è proprio questo: attraverso un complicato gioco di soglie di sbarramento e di premi, le forze minori vengono di fatto ridotte al silenzio lasciando in campo i partiti maggiori. Come si può uscire da quest’imbroglio? Berlusconi se ne preoccupa poco o niente: voleva riguadagnare il titolo di salvatore della Patria e ce l’ha fatta.

Per lui è una posizione di importanza enorme che può avere ripercussioni anche sulle sue vicende personali. Ma per Renzi è diverso; lui deve assolutamente portare a casa il risultato. Se fosse battuto sarebbe un disastro e lo sarebbe anche per il Pd. Nei sondaggi quel partito supera il neo-salvatore della Patria di 12 punti, ma li perderebbe di colpo se Renzi cadesse sulla riforma elettorale. Il crollo dei consensi finirebbe col travolgere anche il governo Letta. Del resto la forza di Renzi è proprio questa: o vincete con me o con me affonderete. È questo l’imbroglio in cui ci troviamo.

A proposito del salvatore della Patria, credo sia giusto segnalare di nuovo un gesto di coraggiosa dignità che Repubblica ha già registrato con un’intervista venerdì scorso. Si tratta di Pietro Marzotto che aveva chiesto da alcuni mesi l’espulsione di Berlusconi dall’associazione dai cavalieri del Lavoro, senza ottenere alcuna risposta. Per protestare contro questo silenzio Marzotto si è dimesso da quell’associazione e ne resterà fuori fino a quando un condannato per frode fiscale non ne sarà escluso. Finora l’esempio di Marzotto non è stato seguito da altri. Bel gesto egli ha fatto e brutto segnale il pesante silenzio degli altri associati. Cavalieri smontati da cavallo?
***
A me Matteo Renzi non ispira molta fiducia né come segretario del Pd né come eventuale presidente del Consiglio; le ragioni le ho più volte spiegate e non starò a ripetermi, riconosco però che la sua iniziativa ha dato una scossa al partito del quale è il leader e di conseguenza a tutta la politica italiana, governo compreso il quale ne aveva urgente bisogno.

La legge da lui presentata, tuttavia, è assai poco accettabile poiché — volutamente e quindi consapevolmente — cancella non soltanto i partiti minori avversari senza se e senza ma del Partito democratico, ma anche quelli disposti ad allearsi col Pd ed entrare a far parte d’una coalizione da esso guidata.

Il gioco delle soglie d’ammissibilità, da quella del 12 per cento a quella dell’8 e del 5, rischia di escluderli dall’eventuale premio previsto per chi raggiunge il 35 per cento dei consensi. Se infatti quei partiti non superano la soglia del 5 per cento non parteciperanno ai voti ottenuti dalla coalizione. Sono soltanto portatori d’acqua che non ricevono alcun tipo di ringraziamento dal partito maggiore che, anche con i loro voti, ha sconfitto l’avversario o comunque diventerebbe il partito d’opposizione. Ai portatori d’acqua non resta nulla fuorché gli occhi per piangere.

Con questa legge, come è uscita dalle stanze del Nazareno, non restano in campo che Pd, Forza Italia e l’incomunicabile Grillo che probabilmente sarà beneficiario di quegli elettori che saranno schifati dal duopolio Renzi-Berlusconi e dalla loro riaffermata e reciproca sintonia.

In una situazione di questo genere restano due punti fermi: la libertà costituzionalmente affermata del mandato parlamentare al quale non si può opporre alcun vincolo e la necessità che Renzi rimanga al suo posto di segretario del Pd per l’esistenza stessa di quel partito.

La legge elettorale si trova ora all’esame del Parlamento che è libero di pronunciarsi. Se viene rivista in alcuni punti essenziali Renzi deve accettarne il risultato e restare al suo posto; dimettersi da segretario avrebbe infatti le stesse conseguenze d’una scissione del partito che nelle primarie ha votato massicciamente per lui.

Un conto è il partito, un conto è il Parlamento. Il primo è una libera associazione, il secondo è un organo istituzionale sul quale si fonda la democrazia rappresentativa. Il primo è depositario di una sua visione del bene comune, il secondo è titolare dell’interesse generale e non ha nessun leader ma soltanto i propri organi previsti dai suoi regolamenti. I leader dei partiti non hanno in Parlamento alcun potere salvo la propria autorevolezza. Ugo La Malfa ai suoi tempi era più autorevole in Parlamento di quanto non lo fossero Rumor o Piccoli o De Martino o Mancini quando erano segretari della Dc o del Psi e guidavano partiti dieci o cinque volte più forti dei repubblicani i cui voti alla Camera oscillavano tra i 5 e i 20, su 630 membri.

Renzi deve dunque restare e far digerire a Berlusconi il nuovo schema di legge approvato dalla Camera, sempre in attesa che il Senato sia riformato come è necessario fare.

La legge più appropriata deve dare il peso che merita al criterio della rappresentanza e diminuire — non certo abolire — il criterio della governabilità.

La soluzione migliore sarebbe quella di votare in collegi uninominali, innalzare la soglia prevista per ottenere il premio di maggioranza al 40 per cento, abolire la soglia del 5 per cento o abbassarla al 3, abbassando in proporzione la soglia dell’8 prevista per i partiti che si presentano da soli.

Più o meno sono questi i lineamenti di una legge elettorale accettabile nell’interesse della democrazia parlamentare. Assai meglio delle preferenze che Renzi fa bene a non volere perché possono inquinare il voto in favore di clientele e mafie, come è spesso avvenuto in passato.

Se Berlusconi non ci sta, il Pd si appelli a tutti i parlamentari di buona volontà e se non ci saranno altre soluzioni che il voto, si voterà con la proporzionale che prevede collegi e non liste. E vinca il migliore.
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Alcuni osservatori ed editorialisti di altri giornali hanno scritto che non esistono “governi amici” se non nei casi di emergenza. I governi amici cioè non sono altro che un commissariamento efficace e destinato ad esser breve.

Su questo punto — che da molto tempo ritengo fondamentale per la democrazia rappresentativa — la mia opinione è completamente diversa; sostengo infatti (e lo sostengo dai primi anni Ottanta del secolo scorso) che il governo è titolare del potere esecutivo e in quanto tale è uno dei tre poteri dello Stato a somiglianza del Parlamento e dell’Ordine della magistratura. Quando un uomo politico, membro del Parlamento o tecnico, diventa presidente del Consiglio o ministro o sottosegretario, quale che sia la sua provenienza egli rappresenta un potere dello Stato. E poiché il governo ha bisogno della fiducia del Parlamento, esso è appunto amico della maggioranza parlamentare che lo sostiene, ma autonomo da essa. Tiene conto della visione del bene comune di quella maggioranza, ma deve sempre privilegiare l’interesse generale e quindi lo Stato che in sé lo riassume.

Questo sostenne Enrico Berlinguer nell’intervista data al nostro giornale nel 1981 e questa egli chiamò “questione morale”. In questo modo si accresce l’autonomia del governo e del Parlamento dai partiti determinando così la nuova natura delle persone che ne fanno parte. La visione della democrazia rappresentativa qui esposta prevede un rafforzamento del potere esecutivo e soprattutto di chi ne è il titolare, così come un rafforzamento del Parlamento nei suoi poteri di controllo della pubblica amministrazione.

Prevede anche una diversa concezione delle magistrature amministrative rispetto a quella ordinaria e quindi una profonda riforma sia della Corte dei Conti sia soprattutto del Consiglio di Stato. Ieri Galli Della Loggia ha documentato sul Corriere della Sera l’invadenza soffocante della burocrazia che si autotutela anziché essere il braccio armato del potere esecutivo. Concordo interamente e non da oggi con questa tesi. Bisogna disboscare e semplificare la pubblica amministrazione. Questa è la madre di tutte le riforme, senza la quale le altre restano barchette di carta nell’acqua, sulla quale a stento galleggiano prima di disfarsi.

© Riproduzione riservata 26 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/26/news/il_duopolio_ai_partitoni_e_il_bavaglio_ai_partitini-76943868/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il bivacco di manipoli accampato in Parlamento
Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2014, 04:58:09 pm
Il bivacco di manipoli accampato in Parlamento

di EUGENIO SCALFARI
   
Premessa: nell'articolo di domenica scorsa scrissi che Matteo Renzi non mi era simpatico riconoscendo però che forte della legittimazione ottenuta massicciamente alle primarie, era il leader del Pd e che la riforma della legge elettorale da lui proposta con Berlusconi aveva dato una salutare scossa all'intera situazione politica ed anche al governo, come lo stesso Letta ha riconosciuto.

Nel frattempo è però avvenuto un fatto nuovo, apparentemente di modesta importanza ma per me molto significativo: il Fatto quotidiano dell'altro giorno ha spedito un suo inviato a Firenze ed ha titolato il servizio dicendo che Renzi dal 2009 ha incassato 4 milioni di finanziamento da donatori privati attraverso eventi di vario tipo: banchetti elettorali, donazioni per primarie di partito e per elezioni alla presidenza della Provincia e a sindaco di Firenze. Si tratta di dazioni pienamente legittime ma si ignora il nome dei donatori. Il sospetto del giornalista è che i donatori siano stati ricompensati da appalti di favore e da altri benefici illeciti dei quali tuttavia il giornale che ha organizzato il servizio non dà alcuna prova. Insomma un attacco bello e buono con l'evidente intenzione di screditare il leader del Pd e lo stesso partito del quale è ormai il capo riconosciuto. Fino a poco fa quel giornale gli era favorevole ma ora ha cambiato fronte in odio al partito da lui guidato.

Per me questo voltafaccia di chi finora l'incoraggiava a dividere il partito, è sufficiente a rendermelo simpatico, fermo restando alcuni errori della riforma elettorale da lui proposta, che spero saranno cancellati durante la discussione in corso alla Camera. Quanto al giornale in questione, i suoi nemici sono da sempre tre: Napolitano, Letta, il Pd. Chi li appoggia entra nel suo mirino. Perciò viva Grillo e abbasso chi gli si oppone.

Ecco un punto che mi sembrava meritevole d'esser chiarito. Fine della premessa.

* * *

Di Grillo ha scritto ieri il direttore del nostro giornale con una diagnosi con la quale concordo interamente. Un'opposizione dura e anche durissima è legittima in una democrazia parlamentare, purché non travalichi nella violenza dei suoi parlamentari che calpestano ogni regola e impediscono il funzionamento delle Camere e delle loro commissioni. L'aula "sorda e grigia, bivacco di manipoli" è un retaggio fascista e teorizzato dal fascismo. Nella sua visita-lampo di venerdì scorso a Roma, il guru del Movimento 5 Stelle ha invitato i suoi parlamentari a moderare le recenti intemperanze. Probabilmente si è reso conto di rischiare l'isolamento rispetto agli elettori che l'hanno gratificato di 8 milioni di voti nello scorso febbraio. I grillini finora hanno soltanto tentato d'inceppare il funzionamento del Parlamento. Null'altro. Odiano l'Europa, odiano l'euro, odiano la politica; fanno leva sul disagio economico per trasformarlo in rabbia sociale, aggrediscono in modo inqualificabile la presidente della Camera Laura Boldrini colpendola anche in quanto donna, danno del boia a Napolitano e lo accusano di tradimento della Costituzione. È diventato un vezzo quello di invocare la Costituzione per travolgerla da cima a fondo. Sono numerosi i giornali e le emittenti televisive divenuti amplificatori del verbo grillino. Il circuito mediatico ama le cattive notizie gonfiandole a dismisura e questo è un malanno grave: la dismisura che giova ai demagoghi e corrompe la pubblica opinione. Gli allocchi ci cascano e purtroppo sono numerosi nel nostro paese. La libertà è il valore più grande della vita associata e la demagogia è il suo nemico. Gran parte dei mali d'Italia proviene storicamente dalla vocazione demagogica, dal carisma che i demagoghi conquistano più facilmente nel nostro paese che altrove. Compito delle persone responsabili è di opporsi a quella vocazione che da molti anni e addirittura da secoli affligge questa nostra terra.

Bisogna conoscer bene le proprie debolezze prima di gettare il sasso sugli altri. Lo predicò proprio Gesù e chi si professa cattolico dovrebbe ricordarselo. Quanto ai laici questa dovrebbe essere la loro insegna naturale.

* * *

Dicevamo che la nuova legge elettorale con le firme di Renzi e Berlusconi è accettabile nell'impianto ma contiene numerosi errori e perfino qualche aspetto di dubbia conformità alla recente sentenza della Corte Costituzionale. Quali sono tali errori è evidente: gli elementi costitutivi debbono essere due, governabilità e rappresentanza. Il giusto equilibrio tra di essi non è facile e Renzi ha provato a raggiungerlo ma c'è riuscito solo in parte per le resistenze che il suo interlocutore gli ha opposto.

L'errore capitale è proprio questo: la governabilità ha gravemente mortificato la rappresentanza. Il gioco delle soglie ha creato questa situazione ed ha anche impedito la libertà di scelta degli elettori rispetto ai candidati da eleggere. Sono due errori molto gravi, solo in parte recuperati dal ballottaggio finale connesso con l'innalzamento del tetto da raggiungere per ottenere il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento dei voti espressi (meglio sarebbe portarlo al 40 o almeno al 38).

Con il ballottaggio gli elettori voteranno per la seconda volta scegliendo tra le due contrapposte coalizioni, ma questa recuperata sovranità del popolo è molto viziata dalla soglia del 4,5 che esclude i partiti della coalizione da ogni presenza parlamentare. Ecco il punto che mortifica il criterio della rappresentanza: i voti degli alleati sono essenziali per la vittoria d'una coalizione sull'altra, ma il premio di maggioranza va unicamente al partito egemone. Questa situazione non è tollerabile, si dovrebbe abolire interamente la soglia che esclude il seggio a chi ha fornito voti preziosi per la conquista del premio; si può vincere perfino con un solo voto in più, perciò la soglia non va soltanto diminuita ma abolita.

L'altro errore è la mancata scelta dei candidati eleggibili. Le liste piccole sono un vantaggio assai modesto per gli elettori. Forse conoscono i candidati scelti dai partiti, ma conoscerli non basta se non possono scegliere, se il capolista è meno gradito di chi lo segue nella lista, se tutto è scolpito dalle segreterie di partito.

Il solo vero risultato è quello di votare senza alternative una lista prefabbricata. Il solo vero rimedio è quello di votare in collegi uninominali, dove ogni cittadino possa presentarsi candidato purché ottenga un numero ragionevole di firme di presentatori. Così si realizza nel modo migliore la libertà di scelta mentre le preferenze contengono tutti i guai che ben conosciamo e limitano comunque la scelta ai candidati presenti nelle liste, senza alternative di sorta. I collegi uninominali sono dunque la sola soluzione valida, ma Berlusconi si opporrà e il suo veto è il limite che Renzi non può superare.

La legge comunque, possibilmente emendata, non entrerà in vigore fino a quando il Senato non sarà stato profondamente modificato con legge costituzionale. Ci vorrà poco meno di un anno perché questo avvenga e quindi l'urgenza è figurativa, ma non sostanziale. Rappresenta tuttavia un elemento di stabilità del governo in carica e questo è un indubbio vantaggio per l'economia nostra e dell'Europa.

* * *

L'economia dell'Europa è in sofferenza per la crisi dei paesi emergenti che si aggiunge ed aggrava la debolezza della domanda e dell'occupazione in tutto il nostro continente.

I paesi emergenti registrano un'improvvisa fuga di capitali che indebolisce le loro monete e si indirizza verso il mercato americano in cerca di investimenti più vantaggiosi. Così dicono i commentatori ma c'è una contraddizione in questi flussi di capitale: il dollaro ha un cambio molto elevato nei confronti dell'euro ed anche di alcune monete di paesi come il Brasile, la Russia, la Turchia ed anche la Cina la cui moneta è solo artificialmente agganciata al cambio del dollaro.

L'afflusso di capitali vaganti verso Wall Street punta evidentemente su titoli di fondi ad alto rischio e non verso i titoli del Tesoro americano. Le aspettative della speculazione non sono in un ulteriore aumento del cambio del dollaro, ma i fondi ad alto rischio dove investono le loro risorse? Non certo sul dollaro. Allora dove? In realtà la speculazione, secondo il parere di molti operatori, pensa di deprimere con la loro fuga il cambio dei paesi emergenti per poi rientrarvi per lucrare la differenza di una speculazione al ribasso, si tratta d'un gioco antico e sempre ricorrente anche perché i fondamentali dei paesi emergenti non sono cambiati, crescono più lentamente, aumenta un po' la loro domanda interna, ma questo non modifica la forza della loro emersione economica bensì i flussi delle importazioni ed esportazioni.

Per quanto ci riguarda, l'Europa e l'Italia dovrebbero accrescere le esportazioni ma hanno l'handicap del dollaro debole. Rispetto all'euro vale 1,35 e anche più. L'interesse europeo e italiano sarebbe che il dollaro scendesse verso l'1 o almeno verso l'1,10. Allora sì, la spinta della nostra domanda diventerebbe potente.

Comunque non siamo in deflazione e ce ne preserva un miglioramento ormai visibile e a quanto pare duraturo della produzione di industrie e di servizi. Purtroppo non si traduce ancora in un miglioramento dell'occupazione perché c'è larga disponibilità di impianti inutilizzati e quindi langue l'investimento privato. Quello pubblico potrà riprendere, così si spera, entro la metà di quest'anno quando il governo riuscirà ad ottenere dall'Europa un "plus" di risorse da investire e da utilizzare per un abbassamento sostanziale del cuneo fiscale. Questo è l'aspetto di maggiore interesse della nostra economia insieme alla indispensabilità dei contratti di lavoro aziendali, in mancanza della quale la crescita dell'occupazione sarà più lenta e la dislocazione produttiva più tentatrice. Tito Boeri ha descritto giovedì scorso con grande chiarezza quest'aspetto essenziale del problema.
Draghi farà - e sta facendo da tempo - il resto, sulla liquidità, sull'Unione bancaria, sulla Vigilanza, sul panorama del futuro e necessario sviluppo dell'Europa federata nei settori decisivi della vita associata.

Da questo punto di vista la stabilità del governo Letta è un punto per noi essenziale. L'ha capito anche Renzi e speriamo che non cambi idea. Ma Berlusconi può cambiarla, lui è abituato alla capriola. Meno male che Napolitano c'è.

© Riproduzione riservata 02 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/02/news/bivacco_di_manipoli_accampato_in_parlamento-77503700/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Quel western all'italiana dove sparano i pistoleri
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 05:16:56 pm
Quel western all'italiana dove sparano i pistoleri

di EUGENIO SCALFARI
   
IN TANTA babele di lingua, di idee e di comportamenti che sta devastando le società europea e italiana, va segnalato in apertura di queste righe il discorso pronunciato qualche giorno fa da Giorgio Napolitano al Parlamento europeo di Strasburgo.

Molti capi di Stato sono stati invitati da quell'Assemblea ed hanno detto gentili parole di circostanza, ma nessuno era intervenuto esponendo un giudizio sull'Europa di oggi e un'esortazione così intensa e dettagliata su quella di domani, non tacendo né le virtù né i gravi difetti della politica europea fin qui attuata e i suoi protagonisti nel bene e nel male.

Era il rappresentante d'uno Stato membro dell'Unione che ha affrontato dalla più prestigiosa tribuna del nostro continente problemi, posto domande, suggerito soluzioni che soltanto il presidente di turno dell'Unione avrebbe dovuto indicare, ma nessuno investito di quella carica l'ha finora mai fatto.

Napolitano ha parlato dell'Europa ma anche dell'Italia; ha approvato la politica dei sacrifici a noi imposti perché necessari, ma ha stigmatizzato il fatto che il rigore fosse ormai diventato un'ideologia dei Paesi più ricchi che non si rendono conto della necessità ormai impellente di puntare sulla crescita economica, sull'occupazione, sull'equità sociale che alimenta lo sconforto e la rabbia contro l'Europa stessa, la sua moneta comune, le sue ancora fragili istituzioni.

Qualcuno potrebbe osservare che forse Napolitano sia andato oltre i limiti che la sua carica gli consente. Chi ha fatto un mantra della critica e a volte addirittura dell'insulto contro di lui l'ha già detto, ma è una delle tante falsità faziose che abbondano purtroppo nel nostro Paese. Il suo discorso a Strasburgo è nel solco della grande politica europea di Adenauer, De Gasperi, Monnet, Delors, Schmidt, Kohl e di Altiero Spinelli che firmò il manifesto europeista di Ventotene assieme ad Ernesto Rossi, ambedue condannati al confino dal regime fascista allora vigente.

Napolitano ha ricordato Spinelli come il profeta dell'Europa la cui costruzione è purtroppo ancora incompiuta anche se mai come ora ce ne sarebbe bisogno. È stato un intervento appassionato ed anche un'apertura di orizzonte e una scossa, quasi una frustata all'Europa e all'Italia per la quale ha posto due obiettivi a salvaguardia di un Paese che sembra stia brancolando alla cieca: la continuità e la stabilità del governo in carica, la maggiore dinamicità cui deve dare tutta l'energia possibile nell'ambito delle risorse delle quali dispone e poiché sono scarse deve agire sull'Europa, utilizzando le possibili alleanze e la propria fermezza di Paese fondatore di una storia che rischia di impantanarsi in una tecnocrazia dominata dagli interessi di pochi a danno dell'Unione nel suo insieme.

I protagonisti della nostra politica e i cittadini consapevoli dell'impegno civico del quale tutti dovremmo dar prova dovrebbero leggere il testo del discorso di Napolitano e i media dovrebbero (avrebbero dovuto) dargli un'attenzione maggiore di quanto non abbiano fatto. Preferiscono il gossip la maggior parte dei nostri media, senza capire che il loro ruolo dovrebbe essere quello di informare e al tempo stesso di educare.

* * *

Guardando ciò che sta accadendo nell'unico partito che esista ancora in Italia, mi viene in mente la tipica scena di ogni film western: la cavalleria di militari o banditi e i carriaggi delle carovane dopo aver superato pianure, attraversato fiumi ed essersi arrampicati su sentieri scoscesi, imboccano alla fine una strada stretta e tortuosa, circondata da alte rocce: una terra di agguati e di trappole. Non sempre i cattivi sono nascosti dietro quelle rocce mentre i buoni percorrono la strettoia; a volte i carriaggi e i cavalieri sono da ambo le parti in quella strada che li porterà ad uno scontro frontale. La vittoria è incerta e gli spettatori attendono il finale per sapere se hanno vinto i buoni, come quasi sempre avviene nei film. Nella realtà invece i tempi sono assai più complicati: chi sono i buoni e chi i cattivi?

E noi giudichiamo dal punto di vista del nostro partito che sempre vorremmo vincesse, o nell'interesse del Paese che non sempre coincide con quello d'un partito?

Questo sta accadendo ora in Italia e non solo nel Partito democratico ma in tutte le forze politiche, grandi o piccole che siano. Se qui ci occupiamo del Pd è perché da esso dipenderanno in gran parte le decisioni degli altri. Letta e Renzi sono i protagonisti ma non mancano i comprimari e la matassa è molto intricata.

* * *

Gli appuntamenti decisivi sono tre: domani c'è l'incontro al Quirinale tra il Capo dello Stato e Letta e già si conosce il principale argomento di cui discuteranno: il programma del governo dei prossimi mesi per rilanciare l'economia nei limiti delle risorse disponibili e le iniziative da prendere affinché la politica europea renda possibile una maggiore elasticità finanziaria e la sostenga con adeguate provvidenze. Si parlerà anche della sostituzione di ministri già dimissionari o in via di esserlo.

Letta ribadirà la sua intenzione di non dimettersi prima del semestre di presidenza europea che avrà termine alla fine di quest'anno con probabili elezioni generali nella primavera del 2015. Napolitano dal canto suo è del tutto d'accordo, ritiene inopportuno che il titolare di Palazzo Chigi cambi adesso e l'ha espresso con chiarezza anche nel suo discorso a Strasburgo quando ha dichiarato che l'aspetto positivo per l'Italia e per l'Europa è la stabilità, la continuità e l'evoluzione dinamica della Ue verso una vera Federazione.

Molti non hanno afferrato quest'aspetto essenziale di quell'intervento di fronte ad una platea gremita e plaudente e continuano a profetizzare di un'imminente staffetta tra Letta e Renzi a Palazzo Chigi. Sul "Foglio" di ieri l'editorialista Cerasa la dà per certa anche perché il governo Letta è ormai di nessuno, lontano dal Partito democratico e perfino dal Quirinale. Mentana fa la stessa previsione da molte sere sulla sua "Sette" e in ogni trasmissione ne aumenta la certezza.

Questi commentatori ed altri che li riecheggiano non hanno capito (o non vogliono capire) che il governo nominato un anno fa dal presidente della Repubblica e più volte confortato dalla fiducia del Parlamento non è affatto "di nessuno" e non è neppure di qualcuno che non sia il presidente del Consiglio e i ministri in carica, titolari del potere esecutivo cioè di un potere distinto dagli altri poteri costituzionali dello stato di diritto. Per buttarlo giù sono necessarie le dimissioni di chi lo guida o una mozione di sfiducia approvata dal Parlamento.

Parlare di staffetta imminente in questa situazione è un marchiano errore lessicale: la staffetta è una gara di corsa a tappe dove il corridore di una squadra, compiuto un tratto di pista passa il testimone al compagno che a sua volta percorre con la massima velocità il tratto successivo. Il passaggio del testimone avviene per regolamento della gara e si compie col pieno accordo dei compagni di squadra.

Nel caso che stiamo esaminando non esiste alcun regolamento e tantomeno l'accordo tra i corridori. Letta non ha alcuna intenzione di passare il testimone (cioè di dimettersi) e Renzi dice e ripete che, quanto a lui, non ha alcuna intenzione di andare al voto perché - così ha dichiarato appena due giorni fa - forse sarebbe utile a lui ma non certo al Paese. Francamente non credo che sarebbe utile a lui, ma certamente non al Paese ed è intellettualmente onesto a dirlo.

Nel partito ci sono, come è naturale, i pro e i contro, ma tutti continuano a parlare di una staffetta che peraltro è inesistente. Chi vuole Renzi a Palazzo Chigi non ha altra strada che spingerlo a presentare o a votare in favore di una mozione di sfiducia presentata da Alfano il quale tuttavia ha più volte dichiarato che non ne ha alcuna intenzione.

Allora la domanda che ci si deve porre è questa: può il Pd provocare la caduta del governo Letta che gode di ampia considerazione non solo dal Capo dello Stato che l'ha nominato, ma anche dalle principali autorità europee e perfino da quella tedesca, sebbene Letta abbia già manifestato e ancor più manifesterà la sua fermezza in Europa affinché la politica economica continentale cambi senza di che il rilancio della crescita resterebbe di fatto ai nastri di partenza, con conseguenze disastrose non solo per i Paesi poveri ma anche per i più ricchi del continente? Giro questa domanda al presidente della Confindustria e a quei membri autorevoli della "Business community" che fanno proposte razionali per il rilancio dell'occupazione e degli investimenti e la giro anche alla Camusso, segretaria della Cgil, che chiedono tutti a Letta di far proprie le loro proposte oppure di andarsene a casa. Ma né Squinzi né i suoi autorevoli colleghi industriali né la segretaria del maggior sindacato di lavoratori indicano le coperture adeguate a rendere attuabili le loro proposte. Non le indicano perché non ci sono o non sono adeguate o sono cervellotiche. Se l'Europa che conta non cambia politica è impossibile procedere al rilancio il cui strumento più idoneo è un taglio consistente del cuneo fiscale che favorisce al tempo stesso le imprese, i lavoratori e quindi gli investimenti e i consumi. Taglio sostanziale con l'aggiunta di ulteriori pagamenti dalla pubblica amministrazione ai propri creditori significa risorse fresche di almeno cinquanta miliardi e forse più. Si possono trovare queste risorse senza un mutamento della politica europea?

In teoria l'alternativa ci sarebbe: un'imposta patrimoniale sui beni immobili e anche mobili. Ma si dovrebbe applicare non solo ai ricchi ma anche agli agiati; per intendersi, non solo a chi ha redditi al di sopra della soglia di mezzo milione l'anno ma a partire dalla soglia di 70 mila euro e cioè alla ricchezza patrimoniale della quale questi redditi sono il segnale.

È possibile socialmente ed anche economicamente e politicamente tassare uno strato di questo genere senza provocare una fuga spettacolare di capitali, una drammatica caduta del valore degli immobili, uno sconvolgimento delle imprese del lusso che sono tra le poche che ancora reggono la competizione ed infine una rabbia sociale non solo dei "forconi" ma di ceti che sostengono l'architettura economico-sociale del Paese? E con un prelievo "una tantum" che non può ripetersi?

Mi piacerebbe ricevere la risposta a questa domanda da Squinzi e dalla Camusso. Mi piacerebbe che fossero loro a proporlo al governo. Diminuire le diseguaglianze, questo sì, bisognerebbe farlo al più presto e in piccola parte si sta già facendo; si tratta di aumentare il numero degli asili, delle borse di studio, dei concorsi che privilegiano il merito; strumenti costosi ma necessari anche se non hanno alcuna attinenza con l'occupazione e i consumi ma soltanto con l'educazione e la cultura preparando a lunga scadenza i frutti in termini di produttività e creatività del sistema.

Queste cose andrebbero dette e ripetute sia da Letta sia da Renzi sia dal maggior partito italiano sia dagli attuali alleati e da quelli potenziali, cioè gli elettori che si sono rifugiati nell'astensione o nei populismi di varie specie ma di analoga natura.

Come si vede, la staffetta non c'è e non ci sarà perché sarebbe soltanto fonte di confusione ancora maggiore di quanto già non ce ne sia.

© Riproduzione riservata 09 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/09/news/quel_western_all_italiana_dove_sparano_i_pistoleri-78077181/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Socrate parlava poco e non scriveva affatto.
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:23:16 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Letteratura silenziosa
Socrate parlava poco e non scriveva affatto. I suoi discepoli li educava con i suoi comportamenti.
E anche oggi questa forma di linguaggio assorbe una parte crescente della società. Cultura e informazione sono diffuse on line


Il tema del linguaggio mi ha sempre molto intrigato. Soprattutto il linguaggio silenzioso che comincia con Socrate. Parlava molto poco, Socrate, e non scriveva affatto.

I suoi dialoghi infatti sono una libera ricostruzione di Platone e anche di altri, scritti quasi tutti dopo la sua morte.

Platone scriveva e parlava, Socrate no. Socrate leggeva silenziosamente.

Ci si può chiedere in che modo educasse i suoi discepoli e la risposta è: li educava con i suoi comportamenti.

Nel dialogo che Platone intitolò “Fedone” si racconta che il maestro, essendo stato imprigionato dai tiranni che governavano Atene con l’accusa di avere complottato contro il governo della città e anche di aver corrotto i giovani con costumi che si ispiravano ad una sorta di pedofilia, decidesse di suicidarsi perché la legge allora vigente prevedeva la pena di morte. A giudizio di Socrate si trattava di una legge ingiusta ma andava comunque rispettata e lui aveva deciso di anticiparne l’esecuzione suicidandosi.

Nel "Fedone" i discepoli, riuniti intorno al suo giaciglio, gli pongono molte domande e lui gli risponde e domanda a sua volta ma parlando con monosillabi o poco più. I suoi interlocutori forniscono ampie risposte e pongono ancor più ampie domande, sull’anima, sulla sua immortalità, sull’etica, ma anche sulla possibilità di difendersi da quella legge ingiusta o di organizzare una fuga che essi ritenevano possibile perché - dicevano - i tiranni l’avrebbero favorita per poi poter usare l’argomento della fuga per diffamarlo di fronte agli ateniesi. Ma proprio per evitare questa fondata ipotesi il maestro aveva preso la decisione d’avvelenarsi con la cicuta e mentre essi parlavano lui cominciò a bere il suo veleno.

Quando parlavano dell’anima lui con i suoi monosillabi li condusse alla conclusione che le anime sono immortali e quando quella conclusione la dichiararono lui rispose assentendo con il capo. Poi cominciò a sentire un gelo alle gambe e se le coprì con una coperta. Il gelo procedeva rapidamente e il maestro (così racconta Platone) si coprì anche la testa. Infine poche parole prima di esalare l’ultimo respiro: «Ricordatevi di sacrificare un gallo ad Asclepio». Furono le sue ultime parole.

Ho sunteggiato il “Fedone” per sottolineare che una delle maggiori figure della filosofia greca che sta all’origine della civiltà occidentale era basata sul silenzio, sulla lettura silenziosa. Ai tempi narrati da Omero, che precedono Socrate di quasi un millennio, non c’era affatto la cultura silenziosa, al contrario: gli aedi raccontavano i fatti avvenuti, la vita degli Dei, le guerre tra gli uomini e i loro amori cantando sulle corde della cetra o soffiando nello zufolo. La cultura silenziosa fu dunque una conquista relativamente moderna, interrotta però nel medioevo dalla comparsa dei menestrelli e dei “trovatori” che poetavano cantando sulle mandole o soffiando nei corni e nei flauti. Così nacque lo “stil novo” nei castelli della Cornovaglia, della Bretagna, della Provenza e dell’Aquitania e in Sicilia da dove salì fino alla Toscana e infine alla Lombardia ed alla Baviera.

Per ritrovare la cultura silenziosa dobbiamo arrivare al Rinascimento, all’invenzione della stampa e dei libri, di Gutenberg, di Aldo Manuzio e di Erasmo. Allora riappare la lettura silenziosa che si è sempre più diffusa. Oggi si è trasferita sulle nuove tecnologie.

La cultura silenziosa assorbe ormai per ore, giornate e nottate una parte crescente della popolazione mondiale. Cultura e informazione sono diffuse “on line” e di questo abbiamo già parlato Umberto Eco ed io su questa pagina nelle scorse settimane.

Leggiamo con gli occhi. La declamazione c’è ancora ed è la televisione ed il cinema a tenerla in vita, il pensiero passa silenziosamente attraverso questi mezzi di comunicazione. Non so dire se sia un pensiero più ricco o più povero di prima. Sembra un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Il numero delle parole usate è comunque in netta diminuzione. Forse ci risparmia uno sforzo, si passa sempre di più dalle corde vocali alla percezione attraverso gli occhi. Il mondo gira perennemente e noi con lui.
06 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da -http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/01/29/news/letteratura-silenziosa-1.150433


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Matteo il seduttore e i conti con la realtà
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2014, 11:04:54 pm
Matteo il seduttore e i conti con la realtà

di EUGENIO SCALFARI
   
ENRICO Letta si è dimesso irrevocabilmente dopo il voto della direzione del Pd che l’ha bocciato quasi all’unanimità dopo la relazione di Matteo Renzi che ne ha ipocritamente lodato l’azione di governo e poi l’ha distrutta come inefficace, sbagliata, inesistente. Un anno perduto — ha detto — con gravi conseguenze sull’economia, sui sacrifici vessatori su tutti gli italiani e sulla rabbia sociale che hanno provocato.

Fino a pochi giorni prima il segretario del Pd non se n’era accorto e così risulta dalle sue pubbliche dichiarazioni molte volte ripetute, nelle quali si impegnava a sostenere il governo fino al semestre di presidenza europea assegnato all’Italia che avrà inizio nel prossimo giugno. Ma poi, improvvisamente, ha cambiato idea e la direzione del Pd con lui.

È stata una sorta di mannaia crudele e senza sconti, senza precedenti nella nostra storia repubblicana. I governi della Dc cambiarono frequentemente ma senza strepiti e condanne “ad personam”. Il premier fiutava l’aria e si dimetteva, il Parlamento votava il suo successore e il presidente della Repubblica ratificava. Il premier decaduto rientrava nella schiera dei notabili, pronti per altri incarichi e persino per un ritorno a palazzo Chigi. Così si alternarono Fanfani, Scelba, Andreotti, Moro, Segni, Piccioni, Forlani, Cossiga, De Mita. Staffetta e gioco dei quattro cantoni, ai quali partecipavano i cavalli di razza. La partitocrazia, bellezza, che nell’ultima fase si estese a Craxi e si estinse con Mani Pulite.

Non fu un bel periodo, ma quello venuto dopo, costato al paese il ventennio berlusconiano, è stato certamente peggiore. Tuttavia la mannaia d’un partito che fa a pezzi un governo guidato da uno dei suoi maggiori dirigenti non si era ancora mai visto. Evidentemente i tempi sono bui, “Stormy Weather”.

Ho riascoltato quella canzone subito dopo avere seguito la cronaca televisiva della direzione del Pd. La voce di Ella Fitzgerald si alternava alla tromba di Louis Armstrong: «I tempi sono bui, il mio uomo mi ha abbandonata e fuori continua a piovere».

Qui non è l’uomo che ha abbandonato il partito, al quale con estrema lealtà voterà la fiducia tra pochi giorni quando toccherà al Parlamento di esprimersi, ma è il partito ad averlo massacrato. Stormy Weather.

***

Grillo e la Lega, che stanno scoprendo tra loro sorprendenti analogie (i populismi hanno diversi colori ma identica natura) attaccano Napolitano perché ha accettato una crisi extraparlamentare. Ma è un procedimento che ha numerosissimi precedenti nella storia dell’Italia repubblicana e anche di quella monarchica. Se un governo viene sfiduciato da un partito che ha la maggioranza assoluta in almeno una delle Camere e se il suo premier dà le dimissioni irrevocabili nelle mani del Capo dello Stato, spetta a quest’ultimo la scelta di accettarle o rimandarlo in Parlamento che comunque avrà l’ultima parola sull’esistenza del nuovo governo nominato dal Quirinale.

Rinviare Letta in Parlamento l’avrebbe esposto ad un’altra umiliazione perché avrebbe avuto contro di lui non solo i voti del Pd ma anche quelli della Lega, dei grillini e di Forza Italia. Cioè la quasi totalità, forse con l’astensione di Alfano e dello sparuto gruppo centrista. In più si sarebbe perso tempo mentre è interesse del paese che la discontinuità nel personale di governo venga superata al più presto per impedire che i mercati e l’Europa entrino in allarme sulla stabilità italiana. Questo spiega perché Napolitano ha accettato la procedura extra-parlamentare che non spossessa affatto il Parlamento dal suo giudizio finale.

Su quel giudizio però si fanno alcune ipotesi in queste ore. Due soprattutto, che riguardano Berlusconi e Alfano. In un certo senso la seconda è condizionata dalla prima.

***

La maggioranza che appoggerà il costituendo governo Renzi dovrebbe essere la stessa di quella che appoggiò Letta anche se il personale di governo sarà quasi interamente modificato. La vera piattaforma su cui l’esperimento di Renzi si basa sta nell’impegno a durare per l’intera legislatura, cioè per altri quattro anni fino al 2018.

Per i deputati questa è una manna e in parte lo è anche per i senatori poiché l’attuale forma del Senato, che dovrà comunque essere cambiata, invece di realizzare il cambiamento entro i prossimi sei mesi, potrà tranquillamente attendere un anno o addirittura due. Non c’è più molta fretta perché ora l’obiettivo si sposta sulla politica economica e sociale. La legge elettorale sarà approvata subito per quanto riguarda la Camera, ma per il Senato non c’è fretta.

Veniamo alle ipotesi: come voterà Forza Italia sul governo Renzi? Non fa parte di quel governo e quindi voterà contro. Ma fa parte del programma di Renzi per quanto riguarda la legge elettorale e le riforme costituzionali. Renzi si è impegnato a non fare governi con Forza Italia e — si spera — manterrà l’impegno, ma gli accordi con Berlusconi si estendono ad una buona parte del suo programma di riforme. Non comprendono la politica economica e i provvedimenti che la riguardano. Ma, nelle ancora vaghe dichiarazioni di Renzi in proposito, non si ravvisano sostanziali diversità da Forza Italia: sgravi ai lavoratori e alle imprese e quindi cuneo fiscale ridotto per quanto possibile; prevalenza del contratto di lavoro aziendale su quello nazionale; nuove forme di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure, più elasticità finanziaria rispetto ai vincoli di Bruxelles; diminuzione delle tasse e tagli delle spese.

Queste finora sono le dichiarazioni di Renzi. Ricordano sia quelle di Letta sia quelle di Squinzi e della Confindustria, sia quelle della Cgil, sia quelle di Forza Italia quando ancora si chiamava Pdl.

Il pregio di Renzi è sempre stato quello d’essere d’accordo con tutti affinché tutti siano d’accordo con lui. In più — e non è poco — ci mette la sua «smisurata ambizione» e la sua smisurata vitalità.

A mio avviso somiglia moltissimo a Berlusconi per quanto riguarda le sue capacità di seduzione. È un leader a 24 carati come il Berlusconi giovane. E perché il Berlusconi vecchio dovrebbe lesinargli la sua comprensione e il suo appoggio?

Questo gli consiglia Giuliano Ferrara sul Foglio e questo gli consiglia anche Verdini e anche Bondi e anche Confalonieri. È un padre della patria? Ma è Renzi che l’ha fatto risorgere dalle ceneri. Berlusconi votò per Monti e anche per Letta fino a quando ci fu la scissione di Alfano che Letta agevolò in tutti i modi. Ma ora Letta non c’è più e c’è Renzi al suo posto, Renzi il simpatico, Renzi che è un Berlusconi giovane. Allora perché non votargli la fiducia? O almeno astenersi? La Santanché è contraria a questo progetto, ma chi se ne frega della Santanché.

Berlusconi forse ha pensato a questa soluzione ma alla fine ha scelto l’opzione negativa e l’ha comunicata a Napolitano e alla pubblica opinione durante le consultazioni di ieri: non voterà la fiducia a Renzi né si asterrà ma voterà contro. Naturalmente sarà un’opposizione costruttiva e comunque manterrà il patto sulle riforme. È un padre della patria, che diamine! E quindi i provvedimenti che giudicherà buoni li voterà.

Per ora dunque Alfano è salvo ma il tremore sotto i piedi lo sente, perciò ha messo i suoi paletti prima di sottoscrivere la continuazione dell’alleanza col Pd: niente accordi a sinistra e tanto meno a destra. Posti chiave nel ministero, programma economico messo in carta e firmato prima del voto di fiducia. Se questi paletti non verranno condivisi Alfano esce dal governo. Ci vorrà comunque il doppio di tempo per soddisfarne le condizioni.
***

Qualcuno rimprovera Napolitano perché non si è opposto all’arrivo in scena al Quirinale per le consultazioni di ieri. Aveva invitato anche Grillo e la Lega e si è irritato per la loro risposta negativa. Quindi non poteva mettere un veto a Berlusconi, ancorché condannato con sentenza definitiva per frode fiscale e decaduto da senatore.

Questo impedisce a Napolitano di concedergli quella grazia “motu proprio” che Berlusconi da tempo chiede anzi pretende. Quella grazia non ci sarà mai perché Napolitano mai la darà in assenza d’una ammissione di colpevolezza da parte del richiedente che significa assunzione delle sue responsabilità e rinuncia a proclamarsi innocente. Ma quest’aspetto della questione è completamente diverso dal Berlusconi uomo politico e leader di un partito con rilevante seguito parlamentare. Se ci sono consultazioni al Quirinale, al capo d’un partito presente in Parlamento non può essere opposto un veto.
Su questo punto debbo dire che, per quel che vale il mio parere, la Costituzione non prevede consultazioni e descrive l’andamento della crisi in un modo estremamente semplice e chiarissimo: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e su sua proposta i ministri». Questo dice e basta, sicché, secondo la lettera della Carta, Napolitano non ha alcun obbligo di consultarsi con chicchessia. Naturalmente può consultarsi con chi vuole ma è lui a stabilire come e con chi; perciò avrebbe potuto anche limitarsi ai presidenti delle Camere o estenderlo ai presidenti dei gruppi parlamentari o addirittura a nessuno. I precedenti non mancano. Luigi Einaudi non consultò nessuno quando nominò il governo Pella; Scalfaro agì nello stesso modo quando nominò Ciampi dopo aver consultato soltanto Giuliano Amato all’epoca presidente del Consiglio. Anzi fu Amato a fargli il nome di Ciampi.

***

Resta il tema della politica economica che è il solo che stabilirà il successo del governo Renzi o la sconfitta sua e del suo partito.

Quello che vuole fare e i problemi che dovrà affrontare sono gli stessi del governo Letta, indicati e aggiornati nelle proposte da lui inviate alla direzione del Pd e giudicate da Renzi come contributi (marginali) ma non erano solo contributi, era l’elenco del fattibile, in parte già in corso di attuazione e positivamente considerato dalle autorità europee e dalla Bce di Mario Draghi.

Ora è il programma di Renzi ma con una differenza non da poco: Renzi vuole andare oltre le coperture previste dagli impegni europei, come vuole Squinzi, come vuole la Camusso, come vuole Vendola, cioè le parti sociali e la destra come la sinistra. Ma possono fare queste operazioni in barba all’Europa e agli impegni assunti dal governo precedente?

Questa è la domanda e la risposta è questa: se rispetta gli impegni con l’Europa il suo governo sarà eguale a quello di Letta e non molto più veloce nelle realizzazioni; se non li rispetta innescherà il commissariamento europeo e i sacrifici ancora maggiori sugli italiani.

Chi fa il mestiere di informatore e di osservatore non ha che da aspettare seguendo gli eventi con costante e obiettiva vigilanza, dandone conto alla pubblica opinione.

© Riproduzione riservata 16 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/16/news/matteo_il_seduttore_e_i_conti_con_la_realt_di_eugenio_scalfari-78721034/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2014, 12:02:59 pm
La rivoluzione di Francesco contro i mandarini del Vaticano

È trascorso quasi un anno da quando Jorge Bergoglio è stato eletto papa. E già sono evidenti gli effetti delle sue riforme

di EUGENIO SCALFARI
   
È passato quasi un anno dall'elezione di Jorge Bergoglio al soglio di Pietro ed ora tutta la Chiesa ha fiducia in lui, i fedeli soprattutto per la sua grande capacità di comunicatore, la sua apertura al dialogo, le sue immagini di una Chiesa povera e missionaria, la sua fede nel Dio misericordioso con tutti.

Ma non solo i fedeli affollano le chiese e le piazze per ascoltarlo; anche le strutture istituzionali, in Italia e in tutto il mondo, lo appoggiano senza più le riserve iniziali che non erano né poche né marginali. Lo appoggiano e puntano sul successo della sua azione riformatrice i Vescovi di tutte le nazioni cristiane nell'America Latina, in quelle americane del Nord, in Europa, in Africa, in Asia, in Oceania; lo appoggiano i cardinali, la Curia, le Conferenze episcopali, i presbiteri, le Comunità, gli Ordini religiosi, le Università cattoliche, gli Oratori, i Protestanti. Lo stimano e vogliono dialogare con lui i rabbini e le comunità ebraiche, gli imam che predicano il Corano e perfino - perfino - i non credenti.

Roma è ridiventata la capitale del mondo. Non l'Italia, ma Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo; non Washington, non Brasilia, non Pechino, non Nuova Delhi, non Mosca, non Tokyo, ma Roma. Non avveniva da duemila anni, ma adesso è così.

Dunque un trionfo in appena un anno non ancora compiuto. Apparentemente è così. Sostanzialmente anche, ma solo in parte e, aggiungo, in piccola parte almeno per ciò che riguarda la struttura vaticana e che Francesco chiama l'Istituzione: la Chiesa che ha come principale obiettivo la sua conservazione e il potere, il temporalismo che ne derivano. Quella che Francesco ha in notevole misura degradato al rango di "intendenza", quella che deve fornire i necessari servizi alla Chiesa combattente e missionaria. Insomma i mandarini, come li chiamerebbero in Cina.

I mandarini nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati dopo i primi tre secoli della Chiesa patristica. Hanno certamente avuto una funzione storica tutt'altro che trascurabile; hanno evangelizzato l'Europa e le Americhe, hanno continuamente aggiornato e riformato, modernizzato l'Istituzione e il suo linguaggio, il suo modo di proporsi al popolo dei fedeli e alle potenze politiche europee. Hanno combattuto guerre non solo teologiche ma con lance e spade e spingarde e cannoni e navi e cavalieri e inquisizioni e persecuzioni. Sconfitte e vittorie e scismi, eresie e vendette e intrighi e diplomazie e dogmi e scomuniche.

Questa è stata la storia del Papato e della Chiesa; non ad intervalli, ma continuativamente. Una Chiesa verticale assai poco apostolica. Ventuno Concili in duemila anni; molti sinodi ma con pochi poteri. Intrecciata alla storia dei regni e dei poteri politici, Francia, Spagna, Inghilterra, principi elettori di Germania, Bizantini, Saraceni, imperatori e califfi. Spesso la Chiesa ha perso, spesso ha vinto, da sola con le scomuniche, o con le armi alleandosi col vincitore.

Ma non è stata soltanto questo. È stata anche la Chiesa missionaria, la Chiesa povera, la Chiesa martire, la Chiesa dell'amore e della misericordia. Ma il nucleo di questo ampio ventaglio è sempre stato tenuto in mano dall'Istituzione.

Ora - e per la prima volta - l'Istituzione è a rischio di perdere il rango di guida. In parte l'ha già perso ma non del tutto. I mandarini ci sono ancora. Hanno fatto atto di sottomissione, si sono allineati, ma ancora combattono. Come? Credono di convincere Francesco ad attuare buone riforme ma non una rivoluzione, giocando sulla doppia natura di papa Bergoglio che come tutti gli uomini che hanno testa e cuore e quindi contraddizioni dentro di sé possono da quelle contraddizioni ricavare ricchezza, pienezza e armonia tra intelletto ed anima oppure confusione e incoerenza.

I mandarini sono sempre stati al passo dei tempi ma con cautela, prudenza, compromessi nel rafforzamento del loro ruolo. Francesco, non dimentichiamolo, è nato e cresciuto nella Compagnia di Gesù. Si sente ancora gesuita? Ma ha scelto di chiamarsi Francesco, come finora non era mai avvenuto. Che cosa significa questa miscela? Come si può mettere insieme il poverello di Assisi e Ignazio di Loyola? Basta la fede in Cristo? Ma chi è Cristo per papa Francesco e chi è per i mandarini che ancora allignano e non solo in Vaticano.

***

Ad una delle domande qui formulate una risposta me la sono data; naturalmente è la mia e deriva soltanto da quanto credo di aver capito di papa Francesco che, secondo me, è tuttora identificato con la cultura e la testimonianza che la Compagnia di Gesù ha dato della Chiesa per cinque secoli.

Oggi la Compagnia è molto meno potente di un tempo, altre forze sono nate nel tessuto dell'Istituzione, il clero regolare ha perso parte del suo ruolo e i gesuiti non hanno più il primato della cultura e dell'educazione della gioventù cattolica. Il cosiddetto Papa nero, cioè il generale della Compagnia, è definitivamente tramontato e il "perinde ac cadaver", che è ancora il motto della Compagnia, non ha più alcun reale significato.

Del resto non l'ha mai avuto perché i contrasti tra il Papato e la Compagnia sono stati frequenti e per ben due volte portarono all'isolamento dei gesuiti e alla loro cacciata da alcuni paesi europei a cominciare dalla Francia, col beneplacito del Vaticano.

Tuttavia la cultura gesuitica e soprattutto la prassi comportamentale che viene insegnata ai loro novizi e ai cattolici che frequentano le loro scuole, le loro università ed i loro esercizi spirituali è ancora di alto livello e di notevole suggestione. Consiste soprattutto in tre punti: la vocazione missionaria fondata non sul proselitismo ma sull'ascolto e sul dialogo con i diversi; la capacità di guidare, capire e in qualche modo influire sui processi della società dove la Compagnia è presente; dividersi tra di loro identificandosi con processi così diversi l'uno dall'altro restando tuttavia profondamente legati alla Compagnia e ai suoi organi centrali. Insomma una sorta di gioco delle parti nel quadro d'una rappresentazione della quale sono gli attori principali.

Un tempo, l'ho già detto, la loro potenza nella Chiesa e nei paesi cattolici del nostro continente fu di altissimo livello; del resto la Compagnia fu fondata da Ignazio per combattere lo scisma luterano e limitarne le conseguenze. In che modo? Non opponendogli il conservatorismo ma una forte riforma. I laici e i protestanti la chiamarono controriforma dando un significato conservatore a quella parola, ma non era così e basta ricordare l'azione pastorale dei Borromeo, Carlo e Federico, del quale ultimo c'è ampio racconto nei Promessi Sposi del Manzoni.

Papa Bergoglio è intrinseco della cultura e della prassi della Compagnia e non è certo un caso che sia il primo Pontefice che da essa proviene in una fase di estrema laicizzazione del mondo e di estremo isolamento della Chiesa. Vuole una Chiesa missionaria così come la Compagnia l'ha voluta e praticata; esorta i preti regolari e quelli secolari a comprendere l'ambiente in cui operano e adeguare ad esso la loro cura d'anime, ma li esorta anche a confrontarsi con culture religiosamente diverse, con particolare attenzione ad aperture di dialogo con non credenti e atei. E vuole, papa Bergoglio, trasformare in questo senso la Chiesa, il ruolo dei Vescovi e delle Conferenze episcopali, il ruolo della Curia, senza mai abbandonare la dottrina né smontare l'architettura dogmatica, semmai interpretarne il significato.

I gesuiti sono maestri nella casistica, anzi ne sono addirittura gli inventori e Bergoglio è, in quanto Papa, il maestro dei maestri. Nelle sue mani la casistica ha compiuto un salto di qualità ed è diventata una visione plurima del mondo, un ventaglio amplissimo di posizioni diverse e contraddittorie da gestire indirizzandole verso una convivenza proficua e di reciproca comprensione e rispetto.

Ecco, una fedeltà alla Compagnia a 24 carati. Ma il gesuita Bergoglio eletto al soglio di Pietro non si chiama, come pure avrebbe potuto, Ignazio, bensì Francesco, con esplicito riferimento al santo di Assisi. Nessuno aveva mai preso quel nome nella storia del papato. Un gesuita si chiama papa Francesco. Qual è il significato e il senso di questa apparente contraddizione?

***

Molti pensano che Francesco d'Assisi, dopo una "jeunesse dorée" finita piuttosto male, cui seguì una radicale conversione almeno agli inizi vissuta per il suo valore espiatorio, sia stato una sorta di fondamentalista della Chiesa dei poveri: piedi scalzi o con sandali anche nei più rigidi inverni, risorse individuali nessuna, risorse della comunità dei frati scarsissime e frutto di elemosine più spontanee che cercate e chieste, fedeltà totale a Cristo, fratellanza e amore tra i seguaci di Francesco, assenza di conventi accoglienti anteponendo un'itineranza pressoché continua, amore per il prossimo da soccorrere, scarsi contatti con la Chiesa ufficiale e istituzionale, identificazione con la virtù, la natura, la preghiera, la poesia che sgorga dall'anima, nessun timore per "sora nostra morte corporale" perché l'anima è immortale e la vita solo un transito.

Questo racconto dell'iniziazione di Francesco e dei suoi compagni coglie senza dubbio alcuni aspetti comuni della Chiesa povera da loro praticata e predicata, ma ne tralascia altri non meno importanti.

Per esempio i contatti che da un certo momento in poi Francesco ebbe e coltivò con i dignitari della Chiesa e col Papa quando decise di consolidare in un Ordine e nelle sue regole le comunità dei suoi seguaci, di dargli una sede, ferma restando la pratica itinerante intervallata però di soste non di riposo ma di contemplazione dello Spirito e di se stessi.

I contatti con la Chiesa ufficiale furono lunghi e piuttosto complessi. La Curia non era molto propensa a riconoscere un Ordine di quella natura nel momento stesso in cui la Chiesa era già nel pieno delle sue lotte temporali e ancora alle prese con la secolare questione delle investiture, dopo la piena vittoria a Canossa di papa Gregorio VII. Una lotta per il potere dalla quale Francesco e i suoi seguaci erano del tutto estranei, anzi del tutto avversi.

Alla fine fu il Papa stesso a ricevere Francesco colmandolo di lodi e condividendo l'idea che ci fosse un Ordine come egli proponeva, ma condizionandone l'approvazione a modifiche non marginali delle regole proposte da Francesco. La trattativa durò a lungo.

Alla fine gran parte delle modifiche furono accettate dalla comunità francescana e l'Ordine nacque. Sarebbe lungo e fuori posto in questa sede dar conto di questa complessa vicenda che del resto è stata ampiamente esaminata dagli storici della Chiesa. Ricordo però che Francesco ha avuto contatti col Papa e con i suoi dignitari ma la sua itineranza lo portò in varie regioni d'Italia e perfino in Terrasanta dove le Crociate avevano da tempo messo quelle terre a ferro e fuoco creando principati cristiani, eserciti stanziali e Ordini militari e religiosi insieme. Francesco ne conobbe i capi e molti cavalieri, ma conobbe anche alcuni dei capi saraceni e con alcuni di loro pregò il Dio che è universale e del cui nome nessuno dovrebbe appropriarsi e farne bandiera di guerra. Alcuni dei cristiani di Terrasanta si convinsero a quanto Francesco predicava e se ne convinsero perfino alcuni dei capi saraceni da lui incontrati che lo frequentarono ed anche lo ospitarono per qualche giorno dimostrando amicizia alla persona e rispetto per la fede da lui manifestata verso il "Dio di tutti".

***

Questi sono i tratti salienti sia pure accennati in modo estremamente sintetico, della Compagnia fondata da Ignazio e della Chiesa povera guidata dal santo di Assisi. Ci sono, tra i due Ordini e soprattutto tra i loro fondatori alcuni tratti comuni; soprattutto la fede in Gesù Cristo e nella Chiesa sua mistica sposa; ma le differenze sono di gran lunga prevalenti. Papa Francesco porta con sé e dentro di sé entrambe queste due possenti manifestazioni di religiosità, di ruolo e di comportamenti.

Mi sono chiesto se si tratti di una contraddizione apparente o sostanziale e la risposta che mi do è: sostanziale.
Ignazio ebbe anche alcuni momenti di misticismo ma non è su di essi che poggiò la sua azione; amava i mistici, li riteneva indispensabili alla Chiesa, ma la sua fede era radicata nella sua testa e non soltanto nel suo cuore. Da questo punto di vista papa Francesco gli somiglia molto.

Il santo di Assisi visse invece in uno stato di misticismo e di identificazione con Cristo quasi permanenti. Basterebbe il suo rapporto di dolcezza e di dialogo continuo con la natura "sive Deus", le stimmate sulle sue mani, l'amore spirituale con Chiara che fu accanto a lui nel momento saliente della sua esistenza.

Che io sappia per quello che ho colto in papa Francesco, quest'aspetto saliente di misticismo e trasfigurazione in lui non ci sono. C'è l'ammirazione e vorrei dire l'adorazione per il santo di cui ha preso il nome.

L'identificazione tra queste due figure si realizza tuttavia su un piano altrettanto importante ed è quello dell'amore per il prossimo, della misericordia diffusa a tutte le anime, della Chiesa povera e missionaria che dialoga con tutti, che è vicina a tutti i deboli, a tutti i poveri, a tutti gli esclusi, dell'identificazione di questa Chiesa con il popolo di Dio e dei suoi presbiteri con cura di anime, dei Vescovi successori degli apostoli, delle Comunità dedicate al volontariato, delle pecore smarrite e dei "figli prodighi" che tornano perché hanno sentito nel loro profondo d'essere cercati.

La Chiesa-istituzione non è stata quella predicata da Gesù se non in parte. Per secoli e anzi millenni la priorità di ruolo l'ha avuta l'Istituzione consapevole del valore della Chiesa povera ma dedicata soprattutto all'esercizio del potere e quindi della temporalità, comunque aggiornata ai tempi ma dedita al rafforzamento e all'ampliamento della temporalità.

Papa Francesco è sempre stato in guerra con la primazia della temporalità. È flessibile e consapevole ed esperto della forza dei suoi avversari, è astuto nella gradualità e nella necessità di compromessi, ma è anche sagace nel cogliere il momento dell'attacco radicale agli ostacoli che i mandarini gli oppongono. Insomma è una guerra e durerà a lungo.

Ratzinger non si era accorto di questa realtà. I brevi anni del suo pontificato li ha vissuti come una sorta di Truman Show, una città del tutto fittizia costruita da una potente società televisiva e abitata da dipendenti di quella società della quale il protagonista era il solo a non sapere che tutto era finto, finte le famiglie, finto il lavoro degli artigiani, finta l'amicizia e il rispetto che tutti gli dimostravano in quel sito della terra che sembrava il più felice, onesto e agiato del mondo. Finto e inesistente fino a quando...

Fino a quando Benedetto XVI si trovò coinvolto nello scandalo del "Corvo", delle malefatte del suo maggiordomo, nelle ruberie dello Ior e nella complicità della Curia. E scoprì che il mondo in cui credeva d'aver vissuto celava un pantano morale. Ne capì la vastità e il radicamento; misurò la vastità di quel mondo e le proprie forze e decise che la sola cosa che doveva fare era denunciarne l'esistenza e dimettersi. L'energia di affrontare una guerra così lunga e complessa il suo corpo non l'aveva. Sperò e pregò affinché il Conclave seguito alle sue dimissioni scegliesse la persona adatta e così accadde un anno fa.

Il Papa che oggi conduce l'opera di bonifica e di trasformazione che Ratzinger non poté fare ha dentro di sé l'obiettivo del santo d'Assisi e la metodica di Ignazio. La contraddizione è questa: la bonifica della palude è uno scopo che anche Ignazio aveva ben presente ai suoi tempi ma la sua metodica si svolgeva nella palude, utilizzava la palude per rendere ancora più necessaria la presenza della Compagnia. Dopo Ignazio, la Compagnia trasformò la metodica da strumento in obiettivo sicché una parte di quell'Ordine alimentò la palude per sguazzarvi dentro.

Ora si dà il caso che il gesuita Bergoglio abbia riportato la metodica gesuita da metodica a strumento. Per questo ha preso il nome di Francesco. Ma questa non è una posizione riformista che i mandarini tollererebbero e addirittura appoggerebbero. Questa è una rivoluzione. Un gesuita che sceglie quel nome è, forse contro le sue intenzioni, forse anche senza che ne sia interamente consapevole, una bomba. Non era mai accaduto nella storia della Chiesa. Era accaduto invece che la Chiesa, dopo i primi secoli, si fosse impestata, corrotta, penetrata da quello che Dostoevskij chiama, lo "Spirito della terra" e cioè il demonio, la corruzione, la lotta per il potere.
Papa Francesco lo sa ed è questa la sua battaglia. Ha molte doti papa Francesco: carità spirituale, curiosità dei diversi, estrema socievolezza ed allegria di spirito, simpatia ed empatia. È la persona adatta per lo scopo che si prefigge. Oltre il novanta per cento dei fedeli è con lui, ma gli ostacoli sono numerosi e lo Spirito della terra, comunque lo si voglia identificare, è una muraglia di gomma difficilissima da sradicare.

I non credenti dal canto loro, hanno anch'essi un muro di gomma che protegge i malgoverni, gli interessi illeciti, la vanità dei potenti, la demagogia, il semplicismo, l'inconsapevolezza, l'irresponsabilità, il dispotismo e il privilegio.

Francesco è amico dei non credenti che combattono questa battaglia ed essi a loro volta sono suoi amici. Per quanto mi riguarda, io mi sento legato da profonda amicizia con papa Francesco e sono da tempo ammirato dalla predicazione e dalla vita di Gesù che considero un uomo e non un Dio, ma certo un personaggio d'eccezione quale ce lo raccontano i Vangeli che sono la sola fonte della sua esistenza storica.

Ammesso che sia esistito un personaggio di quella fatta, l'Istituzione da lui ispirata dura da due millenni e dentro di essa se ne sono viste di tutti i colori ma anche quei principi di carità fraternità, responsabilità, sofferenza e gioie, desideri, amore, debolezza e forza che insieme ai loro contrari convivono dentro gli animali pensanti che noi siamo.

Caro papa Francesco, su sponde diverse noi combattiamo la stessa battaglia. Purtroppo durerà fino a quando esisterà la nostra specie. I leoni e le formiche, i topi e le gazzelle non hanno i nostri problemi e le nostre contraddizioni. Anch'essi sopportano la fatica del vivere, la paura e la soddisfazione quando appagano i loro bisogni primari. La nostra fatica è diversa e forse maggiore della loro e questa è la nobiltà delle nostre umane vicende.

© Riproduzione riservata 19 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/02/19/news/la_chiesa_di_francesco-79003400/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Si cerca il successo per non morire
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2014, 04:56:50 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Si cerca il successo per non morire
Chi arriva al potere ha una malattia psicopatica, sostiene un libro.
Ma la molla che spinge a cercarlo credo sia il desiderio di essere ricordati dai posteri
   
Il nostro bravissimo collaboratore Gabriele Romagnoli ha scritto venerdì scorso su “Repubblica” un articolo di grande interesse recensendo un libro di Jon Ronson e citando a suo supporto statistiche, sondaggi e altri scrittori che hanno trattato temi pertinenti a quelli di Ronson il cui titolo definisce con estrema chiarezza l’argomento: “Psicopatici al potere”. La tesi è che non alcuni ma tutti quelli che conquistano il potere in qualunque campo sono affetti da quella malattia psicopatica della quale l’autore descrive i sintomi che il suo recensore elenca ed integra. Ho letto anch’io il libro di Ronson oltreché la recensione di Romagnoli. Il tema mi interessa da molto tempo e ne ho a lungo parlato in alcuni dei miei libri, specialmente nell’ultimo pubblicato nello scorso ottobre, ma sono arrivato a conclusioni molto diverse.

Prima però di dire la mia in proposito è necessario che riassuma i punti salienti dell’opera di Ronson, uno scrittore che spazia in vari campi del sapere, dalla psicologia al romanzo, al cinema, alla politica. Chi è lo psicopatico di cui parla Ronson e lo psicologo canadese Hare citato da Romagnoli perché anche lui ha recensito il libro in questione? «Egocentrismo, seduzione, loquacità, tendenza al grandioso, menzogna patologica, abilità nella manipolazione, assenza di rimorsi e complessi di colpa, deficit del controllo comportamentale, promiscuità sessuale, mancanza di obiettivi realistici a lungo termine, desiderio di essere amato dagli altri non amandone nessuno, versatilità criminale». Commento di Romagnoli (assai spiritoso e veristico): «Dove trovare persone rispondenti a questo identikit? In galera ovviamente, ma anche a Wall Street o a Davos».

Bene. L’elenco dei connotati di questo genere di psicopatico è piuttosto ampio ma contiene, secondo me, alcune caratteristiche sbagliate. Per esempio non ritengo vero che il soggetto di cui discutiamo non si ponga obiettivi realistici a lungo termine; di solito se li pone, eccome! Resta da vedere se li realizzerà, ma questo è un requisito tipico di ogni obiettivo a lungo termine. E poi: promiscuità sessuale. C’è una quantità notevole di psicopatici che attribuiscono al sesso poca importanza salvo il bisogno primario che fa parte delle caratteristiche di ogni specie animale. E ancora: propensione alla noia. In alcuni casi questo requisito c’è ma in altri affatto. Per il resto l’elenco Ronson-Hare è pienamente accettabile.

Questi sono gli effetti; quanto alla causa, secondo Ronson, si tratta di solito d’un disturbo mentale congenito, ma anche dell’educazione ricevuta e non appropriata, del ceto sociale cui si appartiene, del luogo dove si è nati e insomma dell’insieme delle condizioni che influenzano la formazione di una persona. Ai quali aggiungerei il caso, gli incontri, le amicizie. Come si vede, si tratta di condizioni che riguardano ogni vivente salvo quella del disturbo mentale.

Qui però comincia il mio dissenso sulla tesi di fondo del libro di Ronson che è il seguente: tutti i viventi, dovunque nati e dovunque educati, ricchi e poveri, colti ed incolti, sono spinti a conquistare il successo, a diventare più ricchi (o meno poveri), a poter comandare, a donare amore per riceverne in abbondanza dagli altri, a pretendere libertà per sé anche se essa può limitare quella degli altri, a privilegiare l’amore per alcune persone rispetto all’amore verso tutti. La causa di questi comportamenti estremamente diffusi non è un disturbo mentale che modifica la psicologia e i comportamenti, ma è l’ineluttabilità della morte che condiziona ogni nostro gesto, ogni nostra decisione, ogni nostro pensiero, dominati come siamo dalla triste certezza che a quell’appuntamento finale non potremo mancare anche se non sappiamo né come né dove né quando avverrà.

Le persone consapevoli (sono poche in rapporto al totale degli umani viventi) sanno di questo perenne confronto che ci accompagna per tutta la vita e la cui percezione ha un confuso inizio all’età di due o tre anni dopo che il cordone ombelicale col ventre materno è stato reciso. Ma la grandissima maggioranza dei viventi è inconsapevole e la paura della morte resta rimossa e confinata nei recessi dell’inconscio. Agisce comunque su di noi e ci condiziona ma non ne siamo consapevoli. In che modo agisce? Nel solo modo di allontanare la morte. Non con cure fisiche che allunghino la vita: ben vengano. Ma l’appuntamento finale resta e il fatto che accada mediamente per tutta la popolazione a 70 anni invece che a 60 ed ora si colloca a 81 per gli uomini e a 83 per le donne non cambia minimamente il problema: la Signora di nero vestita è sempre lì che ci aspetta e prima o poi saremo toccati dalla sua mano e diventeremo una spoglia.

I modi per combatterla ci sono. Uno è quello di credere in un aldilà dove la vita continua in altri modi e altre forme ma senza perdere memoria di noi stessi e dei nostri cari che lì ci attendono o che lì ci raggiungeranno. L’altro modo - che vale per tutti, che abbiano fede nell’aldilà o non l’abbiamo affatto - è di ottenere successo: più potere, più ricchezza, più amore, primazia rispetto agli altri, ciascuno al proprio livello. Per lasciare una qualche memoria di sé. A pochi o a tanti, per dieci giorni dalla morte o per dieci anni o per un secolo. Più è lunga la durata della memoria più ci si allunga la vita nel senso che siamo ricordati. Omero ancora lo leggiamo nelle scuole e sono passati quasi tremila anni; Dante ne sono passati 800, Napoleone 200 e così (per noi italiani) Garibaldi.

Costoro avevano caratteristiche psicopatiche? Forse sì, qualcuno; quella che quasi tutti abbiamo è l’amore per sé. Se non sorpassa certi limiti e non deriva da un disturbo mentale, l’amore per sé è un presidio necessario della nostra vita se ben armonizzato con l’amore per gli altri che è un altro istinto innato nella specie socievole cui apparteniamo.

20 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/02/12/news/si-cerca-il-successo-per-non-morire-1.152778


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Recondita armonia di bellezze diverse
Inserito da: Admin - Febbraio 24, 2014, 07:05:52 pm
Recondita armonia di bellezze diverse

di EUGENIO SCALFARI
   
LA SCORSA settimana ero abbastanza triste per il modo inconsueto e molto crudele col quale la direzione del Pd aveva sfiduciato Enrico Letta. Mi venne in mente la canzone jazz americana "Stormy Weather", tempi bui, e la citai nel mio articolo domenicale e nel titolo. Ma oggi è diverso. Oggi, sia pure con qualche cautela, dobbiamo festeggiare l'ascesa al potere di Matteo Renzi, il rilancio in programma della crescita economica, dell'occupazione, dei giovani, il compimento della riforma elettorale, la diminuzione delle tasse, la riforma della pubblica amministrazione, la semplificazione cioè la modernizzazione dello Stato e il prolungamento della vita del governo fino al termine naturale della legislatura nell'aprile del 2018.

È lungo quest'elenco, anche solo a snocciolarne i titoli. Ricordo che Letta fu contento perché per esporre il suo programma, che la direzione del Pd neppure esaminò, aveva scritto 54 pagine. Ma qui, per illustrare quello di Renzi, ce ne vorrebbero almeno 500. Per ora non ci sono, anzi non ce n'è neppure mezza. C'è soltanto l'elenco dei titoli che abbiamo sopra elencato, c'è un doppio criterio che Renzi ha ribadito più volte venerdì nelle sue dichiarazioni successive alla nomina ricevuta dal Capo dello Stato e cioè: concretezza e trasparenza. E c'è anche la tempistica: sei mesi per la legge elettorale, che invece fino all'altro ieri sembrava doversi collocare entro questo mese ed è stata, giustamente, agganciata alla riforma del Senato che richiede una legge costituzionale e una maggioranza comprensiva di Berlusconi.

Gli altri obiettivi invece saranno "avviati" e in buona parte effettuati entro quattro mesi, uno al mese cominciando dal lavoro e dall'occupazione. No, non state sognando, la tempistica indicata da Renzi è proprio questa: un mese per risolvere quei problemi (quasi secolari). Quattro problemi, quattro mesi e il pranzo è servito. E noi dovremmo festeggiare? Un governo di otto donne e otto uomini, il premier più giovane della storia italiana a partire dal 1861. Un altro esempio di grande gioventù per la presa del potere (ancora molto più giovane di lui) fu quello di Lorenzo il Magnifico, anche lui di Firenze, ma erano altri tempi. Anche Napoleone arrivò al vertice più o meno sui trent'anni e non parliamo di Alessandro Magno. Ma erano appunto tempi diversi.

Tra i moderni in Italia, abbiamo un campione; perciò in alto i calici. Personalmente purtroppo ho il divieto medico di bere alcol perciò - il presidente del Consiglio mi scuserà - brinderò alla salute sua e del governo da lui formato con una Coca light. Spero ne sarà ugualmente contento.

Ci sono però in più due punti che vorrei precisare prima di analizzare la situazione attuale del nostro Paese. E sono questi. Il direttore della Stampa, Mario Calabresi, riscontra nel nuovo governo e in Renzi che lo presiede una leggerezza che gli ricorda il Calvino delle Lezioni americane e ne trae ottimi auspici. Non so quanti siano i membri del nuovo governo che abbiano letto le Lezioni americane. L'amico Calabresi, che formula quell'auspicio, certamente le conosce ma ha dimenticato di dire che il personaggio che Calvino indica come la personificazione della leggerezza che lui intende era - pensate un po' - Guido Cavalcanti. Francamente non pare che Renzi abbia qualche affinità con Cavalcanti. Ezio Mauro nel suo editoriale di ieri giudica Renzi un po' bullo. È chiaro che con Cavalcanti non ha nulla a che fare.

La seconda affermazione si rifà a una dichiarazione del neo-premier subito dopo l'investitura ricevuta al Quirinale. Ha detto testualmente: "Il mio governo è il più di sinistra degli ultimi 30 anni". Dice così ma non sembrerebbe. Personalmente, se dovessi dare un attributo, direi che è un governo pop. Forse la sinistra è diventata pop. Non so se sia un progresso. Speriamo di sì.

***

Una novità c'è sicuramente: questo non è più un governo del presidente della Repubblica, come accadde con Monti e con Letta. Questo nel bene e nel male è il governo di Renzi e del suo partito. Napolitano l'ha nominato e non poteva far altro visto che il partito di Renzi ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato dove la maggioranza assoluta viene raggiunta con i voti di Alfano e dei pochi senatori centristi.

Ma c'è un'altra maggioranza della medesima importanza sulla quale né la legge elettorale né le riforme costituzionali potrebbero esser fatte ed è quella stipulata, con "piena sintonia", con Forza Italia di Silvio Berlusconi, il quale ha manifestato ampia adesione all'incarico che Renzi ha ricevuto.

Al punto che ieri il Cavaliere avrebbe espresso apprezzamento per la nomina della Guidi allo Sviluppo economico e comunicazioni, vantandosi di avere un ministro pur stando all'opposizione. C'è un problema per il premier e non è da poco. Anche perché tutto è confermato da una cena avvenuta lunedì a casa di Berlusconi, con la Guidi e suo padre tra gli invitati.

Ci sono dunque due maggioranze che per ora sostengono il nuovo governo, le quali però - è bene averlo presente - non vanno d'accordo tra loro perché Berlusconi, se solo potesse, vorrebbe distruggere Alfano e reciprocamente. Renzi e il suo partito sono perciò il perno che usa a proprio beneficio questa dicotomia. Durerà fino al 2018 o si sfascerà prima? Molto dipenderà anche dall'esito delle elezioni europee ma soprattutto dai risultati che nel frattempo il nuovo governo otterrà in materia economica.

Napolitano non aveva altre soluzioni, ma alcuni elementi della situazione dipendono pur sempre da lui. Per esempio lo scioglimento delle Camere; per esempio l'approvazione preventiva dei decreti e la promulgazione delle leggi o il loro rinvio al Parlamento nei casi di dubbia costituzionalità. Insomma ha ripreso un ruolo non più determinato dall'emergenza, anche se l'emergenza c'è ancora ma con caratteristiche diverse.

Con intelligenza e coraggio del quale è giusto dargli atto, Renzi ha detto che i rischi d'un insuccesso ci sono ma bisognava correrli ed ha aggiunto che lui e il suo partito ci mettono la faccia; se sbaglieranno pagheranno. Si è però scordato di aggiungere che se sbaglieranno pagherà anche il Paese e sarà esattamente il Paese a pagare il prezzo più alto.

In quel deprecabile caso, che dobbiamo tutti cercar di scongiurare, ciascuno operando responsabilmente nel campo che gli è proprio, quali sono le alternative? Solo il populismo dilagante?

Quello è certamente il pericolo da scongiurare, ma ce n'è un altro che a mio avviso è più concreto: se Renzi dovesse fallire noi saremo commissariati dall'Europa con tutte le conseguenze del caso; ma avremo anche contribuito col nostro fallimento a danneggiare fortemente l'Europa nella sua evoluzione. Il nostro continente diventerebbe irrilevante nell'economia globale con tutte le conseguenze del caso. La faccia di Renzi è a rischio e questo è il suo coraggio, ma se solo fosse questo ce ne potremmo tranquillamente infischiare. Il rischio è in realtà terribilmente più elevato ed è opportuno esserne consapevoli.

***

C'è un punto che resta assolutamente oscuro: fino a cinque o sei giorni prima del pronunciamento della direzione del Pd che abbatté Letta e votò per il nuovo governo, Renzi aveva confermato che mai e poi mai avrebbe messo fuorigioco il governo esistente, almeno fino alla conclusione del semestre italiano di presidenza europea. Non sosteneva che quel semestre fosse di grande importanza (anche Berlusconi la pensa così, ma Renzi ora su questo punto ha completamente cambiato idea) ma lui comunque non sarebbe intervenuto e si sarebbe unicamente occupato del partito, cosa che era di grande importanza e ci aveva preso gusto a portarla avanti.

Proprio in quei giorni, cioè un paio di settimane fa, a me capitò di partecipare nella trasmissione di Lilli Gruber ad un dibatto con Delrio che non conoscevo ma sapevo bene chi fosse.

Delrio, su domanda della Gruber e anche mia, ribadì che Renzi non pensava affatto a sostituire Letta e che lui era dello stesso parere e l'aveva consigliato a mantener ferma quella posizione. Ricordo che Delrio era ministro del governo Letta.

Accadde invece che a pochi giorni di distanza anche Delrio abbia cambiato radicalmente opinione e sia stato tra i più fidati dei luogotenenti del leader a spingerlo verso la presa del potere a Palazzo Chigi. In quei giorni Delrio era in predicato per assumere la guida dell'Economia, del quale non risulta abbia particolare esperienza.

Come si spiega questo improvviso cambiamento, talmente sorprendente che, quando avvenne e ancora fino a venerdì scorso, Renzi non aveva affatto formato la squadra di governo e si aggirava tra i nomi di Montezemolo, Baricco, Farinetti, Guerra, Boeri, Moretti ed altri che alla fine sono risultati indisponibili? Che cosa ha spinto Renzi e Delrio a "metter la faccia" loro e quella dell'intero Paese?

Io non so dare alcuna risposta e neanche Renzi la dà. Dice che la situazione era divenuta insostenibile. Perché? E perché non se n'era accorto nei quattro o cinque giorni prima della direzione del partito? Mi sorge un dubbio: forse aveva capito che la situazione congiunturale stava migliorando e che a metà agosto si sarebbe consolidata la fine della recessione con i primi effetti positivi e con il relativo successo di Letta. Questa prospettiva avrebbe messo lui in una posizione secondaria, perciò non c'era tempo da perdere.

Capisco che questa ipotesi è maliziosa, ma altre non ne vedo e voglio ricordare che Renzi aveva riferito anche a Napolitano le sue intenzioni di non insidiare il governo esistente. Questo rinnova la domanda: perché il neo-premier ha cambiato idea?

***

Il problema che adesso si pone (e dovrebbe esser risolto entro un mese stando alla tempistica renziana) è, per dirla in breve, un abbattimento sostanziale del cuneo fiscale o di qualche provvedimento che gli somigli, la ripresa dei pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, la ripresa degli investimenti; il tutto insieme ad una diminuzione del debito pubblico e della pressione fiscale sulle fasce povere della popolazione.

Sono gli stessi temi reclamati da Squinzi e dalla Confindustria i quali, però, alle domande rivoltegli, non hanno mai indicato le coperture che rispettino il limite del 3 per cento del deficit, ricordato da Visco a Renzi nel colloquio di tre giorni fa come asticella invalicabile.

Da calcoli fatti da attendibili osservatori le cifre necessarie oscillano tra i 50 e i 70 miliardi. Ma quand'anche ci si limitasse allo strettissimo necessario facendo passare degli straccetti di carne per bistecche alla fiorentina, ce ne vorrebbero come minimo 40. Da prendere attraverso la spending review. Tagliando gran parte delle inutili sovvenzioni ad imprese del tutto improduttive se ne tirano fuori una trentina e un'altra decina tassando le rendite finanziare. Ma per realizzarle se ne parla alla fine dell'anno perché la bacchetta magica Renzi e Delrio non ce l'hanno.

Avevano detto un mese. Ben che vada ce ne vorranno otto di mesi anche se si aggiungesse - come pure sarebbe necessario - un'imposta edilizia con andamento decisamente progressivo per far fronte agli esodati e ai lavorati delle imprese messe a secco dai tagli della spending review. Il compito spetta al ministro del Tesoro Padoan, il solo ministro che a bocca storta Renzi ha dovuto accettare dal fermo suggerimento di Napolitano.

Purtroppo lo stormy weather permane. Al più ci si può consolare con la "Recondita armonia di bellezze diverse" cantata da Mario, il protagonista della Tosca, come apertura dell'opera. Era molto ardito quel fantasioso pittore che amava la bruna, sognava la bionda e intanto cospirava con i repubblicani per buttare giù il Papa. Alla fine fu fucilato e gettato nel Tevere. Segno che troppe cose insieme non si possono fare.

© Riproduzione riservata 23 febbraio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/02/23/news/recondita_armonia_di_bellezze_diverse-79396502/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2014, 11:29:07 am
Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia

di EUGENIO SCALFARI
02 marzo 2014
   
CHI vuol essere lieto, sia / di doman non c'è certezza. Così poetava il Magnifico Lorenzo che a mezzo millennio di distanza Matteo Renzi ha certamente eletto a proprio modello e questi suoi versi ad insegna della sua operazione politica.

Purtroppo - almeno per quanto ne sappiamo - il neo-presidente del Consiglio non sa poetare, ma la sua eloquenza comiziesca è tra le migliori che si siano sentite negli anni dell'Italia repubblicana. Mi viene in mente Pietro Nenni quando ancora esaltava nelle piazze la Resistenza e la vittoria che la classe proletaria doveva realizzare. Mi viene in mente Vanoni e la forza del suo ragionare e Luciano Lama ed Enrico Berlinguer la cui retorica dell'anti-retorica affascinava milioni di persone. Ma mi viene in mente anche Benito Mussolini che, in materia di comizi di Stato, non fu certo secondo a nessuno.

Renzi non somiglia a nessuno di loro, la sua è un'eloquenza casual di notevole efficacia. Racconta la sua vita, le sue speranze, il suo desiderio di successo. Racconta d'un paese che potrebbe esser felice, di giovani creativi che possono battere i loro coetanei di tutto il mondo sol che lo vogliano e li chiama a mettersi all'opera insieme a lui per riavviare la macchina che si è fermata e che solo a spinte può far ripartire il motore bloccato. Con lui naturalmente al volante.

Ma poi gli viene il dubbio che la spinta non basti e che il motore non sia bloccato ma fuso e quindi bisogna cambiarlo.

Se è così la faccenda si complica perché allora occorre modernizzare lo Stato, la pubblica amministrazione, il fisco, gli ammortizzatori sociali. Ci vogliono intelligenza, costanza, risorse. Ci vuole continuità e insieme discontinuità. Ci vuole una squadra, un partito consapevole, una classe dirigente che abbia coraggio e preparazione, nuova, giovane, ma preparata. Ci vuole il partito dei sindaci e il sindaco d'Italia. E risorse. E riforme. E tempo.

Il programma è dunque cambiato: dalla spinta per riavviare il motore in quattro mesi ad un'operazione che impegna il Paese per un'intera generazione.

Va bene uno come Renzi? O forse era meglio Enrico Letta? O qualcun altro che non conosciamo?

Certo non Berlusconi, cui il peggio di Renzi somiglia (ognuno di noi ha il peggio e il meglio dentro di sé e Renzi non fa certo eccezione); certo non Grillo che comincia a perder pezzi come era prevedibile.

Questo comunque è il tema che ci soverchia. Chi vuole esser lieto sia, di doman non c'è certezza. Lorenzo morì giovane, a 43 anni, dopo esser scampato ai pugnali che uccisero suo fratello. Renzi, per sua e nostra fortuna, questi rischi non li corre, ma ne corre altri e il punto che deve esser chiaro a tutti è questo: se non ce la fa, se è incapace di far ripartire il motore, se non ne ha la forza, la capacità e la preparazione, se ha affrontato il compito solo per aver successo, allora lui perderà la faccia ma tutti noi e cioè il Paese finiremo nel baratro, saremo un Paese politicamente fallito ed economicamente commissariato e i sacrifici che abbiamo fin qui sopportato saranno giuggiole di fronte a quelli che ci aspetteranno. Perciò la vigilanza delle persone responsabili non deve mai venire meno.

***

Alcuni obiettivi economici cominciano a delinearsi ed anche qualche indicazione di copertura dopo la nebbia che tuttora circonda il "Jobs Act" (dove la parola job che in italiano significa lavoro è invece declinata al plurale).

Ieri mattina tuttavia è stata diffusa dal palazzo del governo una notizia "eccitante": tutti i disoccupati avranno un salario minimo garantito indipendentemente dalle loro condizioni economiche. Il governo nella persona del ministro del Lavoro non ha avuto ancora il tempo di esaminare il progetto e tantomeno l'ha avuto il Consiglio dei ministri. Tutto è ancora nelle mani di Taddei che è il capo del settore economico del Pd e parla direttamente con Renzi.

Da quanto siamo in grado di sapere finora l'ammontare del salario garantito sarebbe di circa mille euro mensili (al lordo o al netto di tasse e contributi?). Il costo totale sarebbe di 1,6 miliardi. Ma 7,2 miliardi vengono già da tempo destinati a questo compito. Il totale, cioè 7,2 più 1,6, sarebbe poco meno di 9 miliardi, e il nuovo progetto potrebbe essere finanziato pescando nei 2,5 miliardi della Cig in deroga. Sicché il nuovo stanziamento di 1,6 miliardi produrrebbe solo uno spostamento dall'esubero della Cig in deroga al sussidio di disoccupazione per categorie rimaste finora scoperte, con un'operazione a somma zero.

Fin qui la notizia che in questi termini è una vera e propria matassa poco comprensibile dalla quale emerge che il gran fracasso del governo e dei media è fondato non già sullo splendido inizio della scossa per riavviare il rilancio dell'equità e del lavoro, bensì sul nulla.

L'obiettivo principale è comunque il taglio del cuneo fiscale, indicato in 10 miliardi. Anche Letta l'aveva messo e fatto approvare dal Parlamento nella legge di stabilità, ma per 6 miliardi affinché non vi fossero ripercussioni sul limite del 3 per cento del deficit, imposto dalle regole europee e ribadito dal governatore Visco nel suo recente incontro con il nuovo presidente del Consiglio appena nominato.

Oltre al cuneo fiscale un altro obiettivo è il riassetto degli edifici scolastici affidato all'intervento dello Stato per un totale di 2 miliardi. Assistenza alle piccole e medie imprese (ma l'ammontare non è definito), aiuti agli esodati, ai disoccupati, ai precari (ma anche per queste voci manca l'ammontare). Infine il pagamento "to-ta-le" (scandito così) dei debiti della pubblica amministrazione verso aziende creditrici, effettuato con fondi della Cassa depositi e prestiti. La Cassa è pronta a far fronte a quest'impegno per un ammontare di 30 miliardi, i debiti to-ta-li sono stimati un'ottantina, ma questa cifra va verificata e il ministro dell'Economia, Padoan, si accinge a farlo sperando che siano di meno. Corrado Passera, ai tempi del governo Monti che sembrano ormai preistorici, ne pagò più di 20. Il ricorso alla Cassa è previsto anche nella legge di stabilità, ma deve esser chiaro un punto: ricorrendo alla Cassa lo Stato non estingue il suo debito ma cambia soltanto il nome del creditore: invece di aziende c'è una banca. L'aspetto positivo dell'operazione è comunque un'iniezione di liquidità nel sistema.

Il complesso di questi interventi si aggira sui 50-60 miliardi. Se si defalcano i 30 della Cdp, ne restano da coprire 20-30. Il commissario alla spending review Cottarelli prevede un taglio immediato di 3 miliardi; per gli altri ci vogliono ancora molti mesi. La lotta contro l'evasione è già stata contabilizzata da Saccomanni, forse potrà dare due o tre miliardi in più; cinque miliardi vengono dalla diminuzione dello spread. Il totale di queste cifre è di circa 10 miliardi. Ne restano scoperti dai 10 ai 20. Ricordiamo che in questi conteggi almeno la metà è stata prevista da Letta e già contabilizzata nella legge di stabilità, perciò in tutto questo non c'è alcuna scossa particolare ma soltanto una continuità con più grinta.

A produrre una scossa sarebbe semmai un'imposta edilizia di natura progressiva, ma qui bisognerebbe superare l'opposizione sia di Berlusconi sia di Alfano. Quanto all'imposta sulle rendite è opportuno non parlare più dei titoli di Stato, a cominciare dai Bot, che già sono ampiamente tassati e non si debbono più oltre toccare per non turbare un importantissimo mercato del risparmio dove ogni anno il Tesoro deve prelevare 400 miliardi per rifinanziare i debiti in scadenza.

Questo è quanto. Citando il poeta dirò: "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie". Tutto dipenderà da Draghi, dalla Merkel, dall'Europa.

Alcuni economisti ed esperti dei mercati e del rapporto del dare e dell'avere tra Italia ed Europa suggeriscono un'altra via. In modi diversi ma analoghi la indicano Roberto Perotti sul Sole24 Ore di giovedì scorso ed Enrico Marro sul Corriere della Sera dello stesso giorno. La via è quella di convincere l'Europa a consentire al governo italiano di sforare il limite del 3 per cento e di scambiare il contributo che l'Italia versa al bilancio della Ue con le somme che la Ue versa all'Italia per aiutare le regioni economicamente depresse del nostro Paese che sono quelle del profondo Sud.

La stessa idea l'aveva anche Letta che ne aveva già discusso con Draghi, Barroso e con i governi dell'area mediterranea (Francia e Spagna in particolare) con l'Olanda e la Germania trovandoli abbastanza disponibili. Il punto di svolta si sarebbe verificato nel corso del semestre di presidenza italiana.

È una strada percorribile anche da Renzi? Noi ce lo auguriamo. Questa sì, sarebbe una scossa decisiva per il rilancio economico e sociale del nostro Paese combinando insieme continuità ed energia politica.

***

Ma a proposito di politica c'è da segnalare una novità: il Movimento 5 stelle sta mostrando segni crescenti di sfaldamento parlamentare, sia alla Camera sia al Senato. Sta prendendo forma un gruppo di dissidenti che darà probabilmente luogo ad una nuova formazione politica con intenti simili a quella di Vendola e di Civati. Questa novità modifica in prospettiva i potenziali orientamenti del Pd e della maggioranza parlamentare che sostiene Renzi.

Fino ad ora il partito renziano disponeva di due distinte maggioranze, non necessariamente alternative: quella con Alfano per governare day by day; quella con Berlusconi (ed anche con Alfano) per le riforme costituzionali del Senato e del Titolo V e la legge elettorale. Ma si profila ora una terza maggioranza, alternativa alle prime due: quella con Vendola e con la dissidenza grillina che all'interno del Pd interessa Civati, l'ala bersaniana ed anche D'Alema e Cuperlo. Sposterebbe il Pd verso una posizione di sinistra-centro anziché di centro-sinistra e favorirebbe il recupero elettorale dei tanti simpatizzanti del Pd che hanno però da tempo abbandonato quel partito scegliendo Grillo o l'astensione dal voto.

Renzi resterebbe alla guida del governo ma la natura del partito registrerebbe un mutamento di notevole rilievo. Se quest'ipotesi si verificasse, la sinistra-centro potrebbe essere bilanciata da una posizione moderata centrista, del tipo Tabacci-Casini-Alfano. Renzi potrebbe essere il perno di quest'ampio schieramento che avrebbe una durata medio-lunga fino al 2018 e anche oltre.

Il sindaco di Bari che è estroso nel linguaggio chiama Renzi col nome di Matteo Bonaparte e, sul Foglio di venerdì scorso scandisce "Na-po-leo-ne". Estroso e per me alquanto preoccupante. Napoleone fu ai suoi tempi un genio militare. Politicamente non ne sapeva granché e si serviva di Talleyrand nel bene e nel male. Non mi pare che Delrio e neppure Carrai abbiano la taglia del duca di Périgord.

Concludo ripetendo: chi vuole essere lieto sia, di doman non c'è certezza.

© Riproduzione riservata 02 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/02/news/quant_bella_giovinezza_che_si_fugge_tuttavia-79995401/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma per laici e atei il problema resta: chi ha creato il male?
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2014, 09:01:18 am
Ma per laici e atei il problema resta: chi ha creato il male?

Alla domanda rispondono, partendo da posizioni contrapposte, il capo della comunità giudaica di Roma e il fondatore di "Repubblica" / L'intervento di Riccardo Di Segni

di EUGENIO SCALFARI 
   
Ringrazio Riccardo Di Segni della gentile citazione che fa dei miei numerosi articoli su papa Francesco e il dialogo che ho avuto con il Pontefice nel settembre scorso. Ma lo ringrazio soprattutto per il contributo che fornisce nella sua lettera qui pubblicata. Come sappiamo e come l'articolo del rabbino di Roma conferma, anche l'ebraismo ha avuto una sua evoluzione col trascorrere del tempo; le religioni si adeguano ai mutamenti delle società nelle quali sono presenti e tanto più l'ha avuta quel "popolo eletto" che fu all'origine del monoteismo e che, disperdendosi nella diaspora nel primo secolo dell'era cristiana, portò le sue scritture e la sua visione religiosa in tutta l'Asia minore, in tutta l'Africa settentrionale, in tutta l'Europa dall'Est all'Ovest e infine, più recentemente, nel Nord America. Dopo infinite persecuzioni, il genocidio della Shoah provocò l'orrore, la solidarietà e il rispetto del mondo intero e rimarrà sempre nella memoria nostra e dei nostri figli.

Aggiungo a queste considerazioni una notizia personale che forse potrà interessare Di Segni: ho appreso solo da qualche anno d'avere dentro di me una derivazione ebraica da parte materna; la famiglia di mia madre si chiamava e si chiama Fanuele, ebrei sefarditi stabilitisi in Italia da alcuni secoli, molti dei quali convertiti nel Settecento alla religione cattolica e alcuni di loro fervidamente credenti come mia madre e mia nonna. Ciò detto, il rabbino di Roma pone alcune questioni che meritano una risposta. Anzitutto pone una domanda a me personalmente: io mi dichiaro e sono non credente, ma - dice lui - anche il non credente crede in qualche cosa. In che cosa credo io? Rispondo brevemente così, come risposi anche a papa Francesco nel nostro incontro stampato poi in un libro a doppia firma: non credo che esista un Aldilà dove le anime degli individui umani proseguono in qualche modo a vivere; non credo in nessuna divinità; non credo che le nostre persone siano composte da un corpo mortale e da un'essenza immortale chiamata anima; non credo che il nostro transito terreno abbia un "senso ultimo". Credo che abbia un senso nell'Aldiqua se l'individuo in questione ritiene di darselo, il che molto spesso non avviene. E questo è tutto circa la mia non credenza. Dovrei dilungarmi molto di più sugli aspetti filosofici e anche scientifici della mia non credenza; ne ho parlato ampiamente in alcuni miei libri, un articolo di giornale non è la sede adatta alla bisogna.

Vengo ora ad alcune osservazioni del mio interlocutore su papa Francesco e sulla Chiesa cattolica in rapporto alla religione ebraica. Soprattutto sul tema dell'amore, della giustizia, della misericordia, del peccato.

Storicamente esistono tre religioni monoteistiche che in ordine alla loro apparizione vedono l'ebraismo al primo posto, il cristianesimo al secondo e l'islamismo al terzo. Tutte e tre credono in un solo Dio il quale, per tutte e tre, non ha un nome pronunciabile e infatti non deve essere nominato. Dio è Dio e basta. Creò l'Universo e tutte le cose esistenti.

Le "sacre scritture" che ciascuno dei tre monoteismi ha prodotto come racconti ed anche come leggi alle quali obbedire e regole alle quali adeguare i propri comportamenti, attribuiscono a Dio una serie di potenzialità che non variano molto tra l'una e l'altra anche se si sono notevolmente modificate attraverso i secoli. Il Dio monoteista è amato, rispettato, pregato e i suoi fedeli lo considerano eterno, onnipotente, onnisciente, onnipresente. Credono anche che sia giusto, misericordioso, severo con i malvagi, amoroso con i buoni. Chi non rispetta le leggi divine e le regole provenienti dalle "scritture" commette peccato, ma se e quando si pente sarà perdonato. Questa è l'essenza dei tre monoteismi.

Come non credente osservo: le potenzialità del Dio monoteista non sono possedute dagli uomini ma sono da tutti desiderate: noi vorremmo essere ardentemente eterni, onnipotenti, onniscienti e onnipresenti. Non lo siamo e perciò attribuiamo a Dio ciò che vorremmo per noi.

Gli attribuiamo sentimenti tipicamente nostri: amori, giustizia, ira, perdono, misericordia. Il male no, Dio è soltanto bene. Il male tuttavia esiste. Chi l'ha creato? La risposta a questa domanda è assai incerta da parte dei tre monoteismi, ma se Dio ha creato tutto l'esistente e se il male esiste, la logica vorrebbe che Dio abbia creato anche il male. Oppure chi?

Da questo brevissimo riassunto per me risulta evidente che il Dio monoteista è profondamente antropomorfo, cioè creato dalla fantasia degli uomini. Ma questa è appunto una delle cause della non credenza.

Infine: i cattolici hanno riconosciuto in tempo recente che gli ebrei non sono stati deicidi, non sono loro ad aver condannato Gesù Cristo. La Chiesa si è pentita di averlo affermato ed anche di avere perseguitato gli ebrei. Questo è certamente un progresso: i papi più recenti e soprattutto Giovanni XXIII, Paolo VI, Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio, hanno dichiarato che gli ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" e il loro Dio è anche il nostro. Papa Bergoglio ha addirittura detto nel nostro dialogo sopra richiamato che "Dio non è cattolico perché è universale".

Questa presa di coscienza è certamente encomiabile ma la religione ebraica non contempla il Dio trinitario e tantomeno quella islamica. Quello cristiano è un Dio uno e trino e Gesù di Nazareth è un'articolazione chiamata Figlio. Ma ebrei e musulmani non contemplano alcun Figlio, tantomeno un Figlio incarnato. Gli ebrei credono che verrà un Messia, messaggero del Dio unico, che annuncerà l'arrivo imminente del Regno dei giusti. Anche i cristiani in una prima fase della predicazione di Gesù, pensarono che il loro maestro fosse il Messia ma gli ebrei il Messia lo aspettano ancora e quanto a Gesù di Nazareth non sono neppure certi che sia mai esistito. Non ne hanno la prova né l'hanno mai cercata. In effetti quella prova non c'è se non nei Vangeli.

Da non credente tutto ciò non mi riguarda, ma mi riguardano invece i valori che le religioni contengono, mi riguarda la funzione sociale delle religioni, la loro influenza sui comportamenti e sui sentimenti delle persone. Perciò vedo in modo molto positivo l'azione innovatrice di papa Francesco e il riavvicinamento tra le religioni quando rinunciano all'immagine di un Dio che sia bandiera di superiorità, di fondamentalismo e perfino di guerra come in passato è spesso avvenuto e come tuttora avviene nei fanatici che praticano il terrorismo in nome di un Dio crudele. I terroristi lo hanno trasformato in un demonio che porta stragi e rovine.

© Riproduzione riservata 07 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/07/news/scalfari_a_di_segni-80405480/



Titolo: EUGENIO SCALFARI. Iperdemocrazia fa rima con utopia
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2014, 09:09:39 am
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Iperdemocrazia fa rima con utopia
È illusorio pensare che tutto il popolo possa partecipare al processo decisionale. Per far funzionare il sistema ci vogliono una classe dirigente e un libero dibattito
   
Postdemocrazia, iperdemocrazia, antidemocrazia: si discute molto tra gli studiosi, storici, politologi, sociologi, filosofi e perfino religiosi, di questo problema che comporta anche due questioni accessorie ma tutt’altro che marginali: il significato attuale dei due concetti di destra e di sinistra e il ruolo che le nuove tecnologie del Web esercitano sulla discussione principale.

Sulla “Repubblica” di domenica 23 scorso questi temi sono stati affrontati da tre autori molto diversi tra loro: Matteo Renzi in un’introduzione alla ristampa di un libro di Norberto Bobbio che tratta della questione destra sinistra; secondo Renzi quella distinzione ha assunto oggi significati totalmente diversi e sarebbe più appropriato sostituirla con la dialettica tra conservazione e rinnovamento. Gli altri studiosi sono Dominique Schnapper (intervistata da Anais Ginori) sull’iperdemocrazia e Roberto Esposito sul medesimo tema e sul rischio a cui può esporre l’esistenza stessa del sistema. Ovviamente gli autori di riferimento di questi interventi sono Montesquieu e Tocqueville.

Pagine molto interessanti e dense di implicazioni che inducono anche me a dedicare qualche riflessione ai due testi della Schnapper e di Esposito. Su quello di Renzi c’è poco da dire salvo che appena qualche giorno fa aveva detto che il suo governo è il più di sinistra degli ultimi trent’anni mentre oggi ci comunica che secondo lui la parola “sinistra” ha perso ogni significato e si deve parlare di cambiamento il che vuol dire, tanto per fare un paio di esempi, che Giulio Cesare e Napoleone furono - per come intende la questione Renzi - due uomini di sinistra perché cambiarono il sistema senatoriale esistente; ma così pure fu di sinistra Silla nel senso opposto perché anche lui decapitò (da destra) il sistema senatoriale vigente.

Ma veniamo all’iperdemocrazia, ai rischi che comporta e ai nuovi problemi che può suscitare. Anzitutto che cosa si intende per iperdemocrazia? Si intende un aumento dei diritti politici individuali. L’attenuarsi o addirittura la scomparsa della democrazia rappresentativa e un altrettanto aumento della democrazia diretta di tipo referendario. Nell’epoca classica della democrazia ateniese l’istituto referendario era ignoto e la democrazia diretta veniva esercitata dall’ “agorà”, quella che, anche nei Comuni medievali che nacquero soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, si chiamava “la piazza”.

Oggi i modelli dell’Atene del IV secolo a.C. e della Firenze dal Trecento al Cinquecento sono sostituiti dal referendum che prende il posto dei Parlamenti rappresentativi che operano, legiferano, controllano la pubblica amministrazione nell’ampio quadro d’una legge costituzionale, presidio dei valori che guidano i cittadini che l’hanno votata direttamente. La premessa della democrazia rappresentativa e costituzionale si fonda sull’esistenza di tre poteri autonomi l’uno dall’altro, che nel loro insieme compongono lo Stato e sono il potere legislativo di cui è depositario il Parlamento, il potere esecutivo di cui è titolare il governo e quello giudiziario affidato alla magistratura.

L'esistenza e la reciproca autonomia dei poteri e lo Stato che ne deriva costituiscono la premessa della democrazia rappresentativa ma in teoria potrebbero anche sussistere in una democrazia diretta o iperdemocrazia che dir si voglia. Questo è lo schema entro il quale si svolgono gli approfondimenti della Schnapper e di Esposito il quale ultimo segnala il pericolo che una democrazia diretta si trasformi rapidamente in una democrazia plebiscitaria con le relative malformazioni che la fanno precipitare nella dittatura della maggioranza o della minoranza basata su lobbies e corporazioni.

Osservando i percorsi storici e utilizzando la mia personale esperienza che è stata abbastanza lunga ed anche fitta di incontri e situazioni molteplici procuratimi dal mestiere che faccio, sono arrivato ad una conclusione alquanto diversa da quella degli studiosi fin qui citati, salvo il riconoscimento che tutti ci accomuna sull’importanza del quadro delineato da Montesquieu sulla divisione e l’autonomia dei poteri che compongono lo Stato di diritto, senza il quale parlare di democrazia diventa semplicemente un “nonsense”.

Io penso che la sola forma effettiva di democrazia altro non sia che l’esistenza d’una classe dirigente all’interno della quale il dibattito sia costante e libero, dando luogo a maggioranze governanti e a minoranze in grado di esercitare controllo sulla conformità alle leggi del loro operato. Minoranze che possono liberamente rivolgersi alla pubblica opinione la quale fa parte anch’essa della classe dirigente, composta come è da cittadini responsabili ai quali sta a cuore l’interesse comune.

Questa è la classe dirigente, questa è la “polis” che numericamente rappresenta una parte consistente della popolazione. Un’altra parte non sente queste sollecitazioni e non ha una visione chiara né del passato né del futuro. È sensibile soltanto alle proprie condizioni individuali, familiari, sociali, vota quando ne ha voglia o si astiene dal voto sperando che questo sia un segnale o addirittura un’assenza minacciosa che serva a migliorare le proprie condizioni e soddisfare meglio i propri bisogni. Non è infatti un caso che nelle democrazie più mature circa metà degli aventi diritto al voto non lo esercitano.

Storicamente è sempre stato così. L’ipotesi che vi sia un sistema dove la grande maggioranza o addirittura la totalità del popolo partecipi alle scelte che l’interesse generale suggerisce di effettuare non è una speranza ma un’utopia. Può servire a rafforzare quella parte della cittadinanza civilmente impegnata, ma non più di questo ed è già molto.

05 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/02/26/news/iperdemocrazia-fa-rima-con-utopia-1.155082


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Caro Matteo chi fa da sé non fa per tre
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 05:42:11 pm
Caro Matteo chi fa da sé non fa per tre

di EUGENIO SCALFARI
09 marzo 2014
   
La prima comparsa di Matteo Renzi a Bruxelles è stata funestata da due donne: la portavoce del commissario europeo agli affari regionali ha avvertito il giovane presidente del Consiglio che i fondi destinati dalla Ue all'Italia per finanziare le regioni economicamente depresse non possono essere utilizzati per l'abbassamento del cuneo fiscale o per altre finalità diverse da quelle istituzionalmente previste. Quanto ad Angela Merkel, la Cancelliera l'ha buttata sul calcio come lo stesso Renzi ha raccontato al suo ritorno, parlando del calciatore Gomez che provenendo da una squadra tedesca è stato recentemente assunto dalla Fiorentina. E ha detto: "È un giocatore molto bravo, ma atleticamente fragile; bisogna stare molto attenti alla sua fragilità". Gomez infatti ha giocato benissimo sul campo della Fiorentina ma poi ha avuto un incidente al ginocchio, è stato operato, è rimasto in convalescenza per cinque mesi ed ora è tornato ma ancora in panchina perché deve completare l'allenamento per tornare in campo. "Ha ragione la Merkel - ha commentato Renzi - io non me ne ero accorto" ma forse non si è accorto neppure che la Merkel parlava di Gomez ma pensava a lui. Ah, queste donne!

In Italia la macchina della legge elettorale ancora è ferma. Alla Camera tra qualche giorno sarà approvata con pochi e piccoli emendamenti accettati dalla "triplice" Renzi-Alfano-Berlusconi. Ma al Senato la battaglia sarà più dura per le quote rosa ed anche per altre modifiche volute da una notevole dissidenza interna al Pd oltreché da tutti i gruppi di opposizione, in particolare sulle soglie e sulle preferenze. Il rischio che gli emendamenti passino nonostante la contrarietà della "triplice" esiste e potrebbe mettere a rischio il governo Renzi-Gomez. Speriamo bene ma il rischio c'è e non è da poco.

Il centro del problema Italia tuttavia non è questo ma riguarda l'economia. Le notizie che arrivano non sono impreviste ma neppure consolanti. Sembra che gli interventi fattibili siano già stati avviati e in gran parte già contabilizzati da Enrico Letta e dai suoi ministri a cominciare da Fabrizio Saccomanni. Renzi sta studiando qualche passo in più ma si è reso conto che non può trascurare i vincoli europei. A Bruxelles e a Berlino bisogna tentare la strada della convinzione ma non quella dei pugni sul tavolo.

Per saperne di più ho interrogato Letta, rientrato due giorni fa in Italia e da lui ho avuto la sua versione dei fatti e delle prospettive. Eccone il resoconto.

***

1. Il cuneo fiscale già figura nella legge di stabilità approvata dal Parlamento e prevede una riduzione di tre miliardi per il 2014 e di dieci miliardi per il 2015. La copertura proviene dalla "spending review" per l'anno in corso e di metà per l'anno successivo: l'altra metà dovrebbe esser fornita dal recupero dell'evasione fiscale. Saccomanni ritiene che la "spending review" possa dare di più, non meno di cinque miliardi quest'anno e forse sette nel successivo.

2. Il pagamento dei debiti dalla pubblica amministrazione alle imprese è già contabilizzato e i fondi già stanziati per 20 miliardi da erogare quest'anno. La copertura è fornita dalla Cassa depositi e prestiti che può agire subito e mobilitare altri fondi per i prossimi mesi.

3. La legge di stabilità ed altre leggi specifiche prevedono una serie di investimenti da parte di imprese pubbliche, a cominciare da Rete Imprese, dalla Fincantieri e da altre aziende. I fondi sono già stanziati e il totale supera i tre miliardi.

4. Il debito pubblico sarà ridotto attraverso la privatizzazione di "asset" patrimoniali, anche questi già previsti e contabilizzati con apposita legge approvata il 20 gennaio e già in via di esecuzione.

5. L'andamento dello "spread" fornirà dai tre ai quattro miliardi che Letta aveva previsto di utilizzare per le scuole e l'occupazione giovanile.

6. La Commissione europea è disponibile a fornire fondi per la crescita economica e per l'equità sociale per somme rilevanti, da destinare al nuovo sistema di ammortizzatori sociali e di investimenti pubblici e privati. L'obiettivo è di ridurre le imposte sul lavoro e ripristinare con norme semplificate il credito di imposta per la creazione di nuovi posti di lavoro.

7. Durante il semestre di presidenza europea spettante all'Italia era previsto un decisivo passo avanti dell'Unione bancaria e interventi della Bce che stimolassero le banche ad accrescere i loro prestiti alle imprese.

8. L'Italia avrebbe visto la diminuzione del deficit-Pil dall'attuale 2,6 al 2,3 con un miglioramento dell'avanzo delle partite correnti al 5 per cento al netto degli oneri del debito pubblico.

9. In quello stesso semestre e in piena intesa con la Bce, l'Europa avrebbe dovuto affrontare un tema di grandissima importanza e cioè un mutamento del tasso di cambio tra l'euro e il dollaro. Proprio in questi giorni quel tasso ha visto una ulteriore rivalutazione dell'euro che sfiora ormai 1,40 dollari per un euro, una situazione intollerabile per le esportazioni europee verso l'area del dollaro. L'ideale sarebbe un tasso di cambio attorno all'1,20 o addirittura all'1,10 che rilanciando massicciamente le esportazioni europee ed italiane provocherebbe un apprezzabile aumento degli investimenti e della base occupazionale.

***

Questo è quanto il governo Letta ha avviato e in gran parte messo in opera e queste sono le prospettive che avrebbe fatto valere nel corso del semestre europeo.

Difficilmente Renzi potrà fare di più e di diverso. Quanto alle contestazioni della Commissione di Bruxelles sui conti italiani, il parere di Letta è che esse siano state fatte con l'obiettivo di dare al nostro governo un'arma in mano per vincere le resistenze della maggioranza che lo appoggia e che ora comprende di nuovo Berlusconi. Si tratterebbe insomma di una iniziativa figurativa, tanto più utile oggi che la maggioranza comprende di nuovo Forza Italia, contraria al programma che Letta avrebbe voluto presentare alla direzione del suo partito e che invece fu superata dal massiccio voto contrario che lo fece fuori.

Ho riferito, spero con fedeltà e chiarezza, quanto lo stesso Letta mi ha detto e Saccomanni per quanto lo riguarda mi ha confermato.

Se posso dare un suggerimento a Letta è di riferire questi suoi ricordi alla Camera della quale fa parte stimolando Renzi a proseguire con la stessa filosofia. Di fatto questo sta già avvenendo ma - sempre che gli elementi informativi che ho qui riferito corrispondano interamente alla verità dei fatti - Renzi ci sta rivendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione dal suo predecessore.

Se Letta seguirà il suggerimento ne verrebbe una conseguenza positiva: questa volta sarebbe Letta a stimolare il governo esattamente come fece Renzi per un paio di mesi, prima di scomunicare il governo Letta. Questo rischio Renzi non lo corre, la sua maggioranza è infatti senza alternative salvo che Berlusconi non mandi tutto all'aria. È un'ipotesi improbabile ma fa parte della patologia berlusconiana contro la quale non c'è alcun valido rimedio.

Di Berlusconi però si può fare a meno come ne fece a meno Letta quando dalle cosiddette larghe intese passò alle piccole intese favorendo il distacco di Alfano dal Pdl.

È opportuno avere buona memoria di questi fatti e di questi passaggi ricordando il passato prossimo per costruire un futuro più solido. Passare da un Renzi-Gomez ad un Renzi-Letta sarebbe un netto miglioramento per un Paese così disastrato.

© Riproduzione riservata 09 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/09/news/caro_matteo-80558397/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Matteo Renzi ci vende un programma già formalizzato...
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2014, 06:18:11 pm
Eugenio Scalfari: "Matteo Renzi ci vende un programma già formalizzato dal governo di Enrico Letta

L'Huffington Post  |  Pubblicato: 09/03/2014 10:02 CET  |  Aggiornato: 09/03/2014 10:02 CET

"Renzi ci sta rivendendo come suo proprio il programma già contabilizzato e in piena esecuzione dal suo predecessore". Si legga Enrico Letta. Queste le parole lapidarie di Eugenio Scalfari che in un editoriale su La Repubblica passa in rassegna ciò che concretamente il nuovo capo dell'esecutivo potrebbe fare per stabilizzare e migliorare i conti dell'Italia, senza trascurare i vincoli europei. "Perché a Bruxelles e Berlino bisogna tentare la strada della convinzione, ma non quella dei pugni sul tavolo", sottolinea Scalfari

Non trascurare i vincoli europei. Ma non trascurare neanche il dettagliato programma che l'ex premier e il suo ministro dell'economia Saccomanni avevano imbastito prima di essere scomunicati. Un programma che sembra essere cristallizzato e rispetto al quale "difficilmente Renzi potrà fare di più o di diverso". L'esclusiva chiacchierata che il fondatore di Repubblica ha fatto con Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni è riportata e riassunta in 9 punti programmatici.

    Per saperne di più ho interrogato Letta, rientrato due giorni fa in Italia e da lui ho avuto la sua versione dei fatti e delle prospettive. Eccone il resoconto.

    1. Il cuneo fiscale già figura nella legge di stabilità approvata dal Parlamento e prevede una riduzione di tre miliardi per il 2014 e di dieci miliardi per il 2015. La copertura proviene dalla "spending review" per l'anno in corso e di metà per l'anno successivo: l'altra metà dovrebbe esser fornita dal recupero dell'evasione fiscale. Saccomanni ritiene che la "spending review" possa dare di più, non meno di cinque miliardi quest'anno e forse sette nel successivo.

    2. Il pagamento dei debiti dalla pubblica amministrazione alle imprese è già contabilizzato e i fondi già stanziati per 20 miliardi da erogare quest'anno. La copertura è fornita dalla Cassa depositi e prestiti che può agire subito e mobilitare altri fondi per i prossimi mesi.

    3. La legge di stabilità ed altre leggi specifiche prevedono una serie di investimenti da parte di imprese pubbliche, a cominciare da Rete Imprese, dalla Fincantieri e da altre aziende. I fondi sono già stanziati e il totale supera i tre miliardi.

    4. Il debito pubblico sarà ridotto attraverso la privatizzazione di "asset" patrimoniali, anche questi già previsti e contabilizzati con apposita legge approvata il 20 gennaio e già in via di esecuzione.

    5. L'andamento dello "spread" fornirà dai tre ai quattro miliardi che Letta aveva previsto di utilizzare per le scuole e l'occupazione giovanile.

    6. La Commissione europea è disponibile a fornire fondi per la crescita economica e per l'equità sociale per somme rilevanti, da destinare al nuovo sistema di ammortizzatori sociali e di investimenti pubblici e privati. L'obiettivo è di ridurre le imposte sul lavoro e ripristinare con norme semplificate il credito di imposta per la creazione di nuovi posti di lavoro.

    7. Durante il semestre di presidenza europea spettante all'Italia era previsto un decisivo passo avanti dell'Unione bancaria e interventi della Bce che stimolassero le banche ad accrescere i loro prestiti alle imprese.

    8. L'Italia avrebbe visto la diminuzione del deficit-Pil dall'attuale 2,6 al 2,3 con un miglioramento dell'avanzo delle partite correnti al 5 per cento al netto degli oneri del debito pubblico.

    9. In quello stesso semestre e in piena intesa con la Bce, l'Europa avrebbe dovuto affrontare un tema di grandissima importanza e cioè un mutamento del tasso di cambio tra l'euro e il dollaro. Proprio in questi giorni quel tasso ha visto una ulteriore rivalutazione dell'euro che sfiora ormai 1,40 dollari per un euro, una situazione intollerabile per le esportazioni europee verso l'area del dollaro. L'ideale sarebbe un tasso di cambio attorno all'1,20 o addirittura all'1,10 che rilanciando massicciamente le esportazioni europee ed italiane provocherebbe un apprezzabile aumento degli investimenti e della base occupazionale.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/03/09/scalfari-renzi-programma-enrico-letta_n_4928666.html?utm_hp_ref=italy


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Berlinguer, perché ti abbiamo voluto bene
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2014, 10:35:30 am
Berlinguer, perché ti abbiamo voluto bene
Il comunista timido che mi ricorda Papa Francesco


di EUGENIO SCALFARI
   
COMINCIO quest'articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest'anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco - l'ho già detto - è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati. Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del '77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel '78, nell'80, nell'81, nell'83. Morì nel giugno dell'84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all'uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M'è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d'essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d'un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l'ideologia politica.

Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia. Oltre alle interviste su Repubblica accettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l'idea dell'"arco costituzionale" dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull'altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d'allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all'84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l'Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l'Italia; il problema da lui sollevato della questione morale. Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l'evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all'Urss, al Pcus e al Cominform. "Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta".

Gli risposi che aveva ragione ma che l'uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall'ideologia leninista stalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. "Hai ragione -  rispose Ugo -  ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo". Gli chiesi chi fosse il "miserabile" che avrebbe cercato di bloccare l'evoluzione democratica del Pci. "Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni".

Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome. Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s'innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l'evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall'intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell'occasione (l'avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare.

Rispose così: "Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista". Mi pare -  dissi io in quel punto -  che voi rifiutate tutto di Lenin. "No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d'accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d'accordo".

Questo, gli dissi io, l'ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. "Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva "alla virtù individuale di un Principe" mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società".

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell'intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La questione morale era invece l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l'aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall'81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell'83. "Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell'articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l'esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l'infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev'essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge".

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). "Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l'indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d'una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo".

Ve l'aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent'anni fa, parlando d'un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medio alti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell'attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent'anni. Berlinguer, proprio trent'anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto "sovversivo".

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l'austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l'interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all'aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: "Se n'è andato l'ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà".

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C'era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l'ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s'impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

© Riproduzione riservata 16 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/16/news/berlinguer_scalfari-81114389/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel desiderio di pensare Dio
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2014, 11:48:21 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Quel desiderio di pensare Dio
È il solo modo di dargli una forma. Altrimenti per gli umani sarebbe inesistente

Temo che non avrò il tempo (anche se la voglia c’è) di leggere il manuale in tre volumi dal titolo “Storia della filosofia” curato da Umberto Eco e Riccardo Fedriga e edito da Laterza. È una storia del pensiero (della quale per ora è uscito il primo volume) che interessa tutti per la semplice ragione che il pensiero che nasce dal nostro cervello, dal nostro corpo e dagli istinti dai quali siamo animati, è il solo elemento che ci distingue dagli animali. Ma in che modo? E che cos’è il pensiero? Il manuale queste domande se le pone insieme ad una quantità di altre che spaziano nei nostri sentimenti, nelle nostre ideologie, nel nostro vivere e nelle possibili alternative. In un certo senso, sfogliando questo manuale che è anche integrato da descrizioni delle diverse civiltà e società che hanno periodizzato la nostra storia, si colgono i “fondamentali” che caratterizzano la nostra specie. Anzi si coglie il “fondamentale” dal quale tutti gli altri si dipanano ed è, secondo me, una domanda: io chi sono? riferita contemporaneamente all’individuo che se la pone e alla specie dell’homo sapiens cui apparteniamo.

QUESTE DUE DOMANDE sono all’origine di tutte le altre e definiscono la nostra differenza dagli altri animali poiché non risulta che gli altri animali siano in grado di porsele. Gli animali sono animati da istinti primari, quelli che servono a tenerli in vita e a procreare. Alcuni di loro hanno anche sentimenti e memoria, ma non di sé, non si vedono e non si sentono vivere e quindi il loro pensiero (ammesso che si voglia impropriamente usare questa parola) e il loro linguaggio sono profondamente diversi dal nostro. Parliamo ovviamente di animali superiori e non di esseri viventi allo stadio di molluschi o vermi o esseri cellulari.

Allora, la domanda che caratterizza l’homo sapiens è: io chi sono? La risposta può esser data soltanto intraprendendo contemporaneamente due percorsi: quello all’interno del se stesso e quello del mondo circostante. Entrambi questi percorsi, resi possibili dal fatto che noi siamo in grado di osservare noi stessi dal di fuori, presuppongono una continua esperienza del sé e degli altri ed è proprio per consentire le risposte che è nato il “sapere”, cioè il desiderio e il bisogno di conoscenza.

Il “fatti non foste a viver come bruti” unisce insieme Ulisse, cioè Omero chiunque egli fosse, e Dante rappresentando quindi uno dei punti più alti della nostra cultura occidentale.

Il viaggio dell’Ulisse dantesco oltrepassa le colonne d’Ercole che rappresentavano il limite oltre il quale l’uomo non poteva andare. Geograficamente è il braccio di mare che corrisponde allo Stretto di Gibilterra e mette in comunicazione il Mediterraneo con l’Atlantico, ma quel viaggio termina drammaticamente: in vista di una montagna immensa i flutti divengono tempestosi, la nave affonda e gli uomini muoiono “infin che il mar fu sopra noi richiuso”.

Questo è il racconto affascinante che l’anima di Ulisse rivela al poeta; ma qual è il suo significato che possiamo ricostruire poiché Dante non ce lo dice? Che cosa rappresenta quella montagna? Un’interpretazione a sfondo teologico ritiene che essa raffiguri il Purgatorio o addirittura il Paradiso che sono regni celesti dove le virtù degli uomini vengono premiate ma che sono preclusi ad Ulisse che aveva commesso molti peccati in vita e sarebbe perciò stato relegato all’Inferno dove infatti Dante e il suo accompagnatore Virgilio lo trovano. Un’altra interpretazione – filosofica e laica – ravvisa in quella montagna la sede della verità assoluta che l’uomo non può raggiungere perché la verità assoluta non esiste, la mente dell’uomo non è in grado di pensarla e ciò che non è pensabile è per l’uomo inesistente.

DIO È PENSABILE PERCHÉ è l’uomo ad averlo raffigurato con attributi e sentimenti umani; è una figura antropomorfa. Quando l’uomo gli toglie quegli attributi e quei sentimenti anche Dio diventa impensabile e quindi per l’uomo inesistente. Dio muore se non è più raffigurato con caratteristiche antropomorfiche e comunque morirà per tutti quando la nostra specie si estinguerà.

Ma scomparirà anche l’Universo o gli Universi? Se tutto l’esistente scomparisse insieme alla nostra specie, se non ci fossero più né stelle né galassie né particelle elementari né onde e campi magnetici, ci sarebbe il nulla. Attenzione: non il vuoto ma il nulla cioè neppure il vuoto che è uno spazio. Il nulla non è pensabile poiché non prevede il proprio opposto.

Fin qui arriva la conoscenza di quanto ci circonda e le risposte essenziali sono dunque queste: la verità assoluta non è pensabile, un Dio privo di attributi antropomorfi non è pensabile, il nulla non è pensabile e ciò che non è pensabile dalla nostra mente è per la nostra mente inesistente.

QUALCHE DOMANDA ancora: una forza creatrice è pensabile? Sì, lo è e quindi per la nostra mente esiste. Ma se si tratta di una forza creatrice, è pensabile un “prima” della forza creatrice? La risposta è no. Se la forza è creatrice essa crea in continuazione, per noi non esiste né un prima né un dopo perché la forza creatrice non può far altro che creare, senza inizio e senza fine. E che cosa crea? Crea le forme. Possiamo darle un nome? Qualunque nome: Dio, Cosmo, Caos, Essere, Energia, Natura; qualunque nome, visto che siamo provvisti di immaginazione. Ma possiamo anche designarla con un algoritmo, esprimerla con una formula matematica. Le forme hanno un principio e quindi una fine. Nascono e muoiono, nascono come cose create e si disfano tornando ad essere forza creatrice senza più forma. L’Essere esiste in permanenza ma si esprime creando, quindi l’Essere sta e diviene senza soluzione di continuità e senza tempo. Il tempo è una categoria mentale dell’homo sapiens così come lo spazio. La forza creatrice sta in tutte le forme e con esse diviene, è immanente a tutte le forme ed è questo il solo modo in cui è pensabile, non astratto ma concreto.

Benedetto Croce parlò di universale concreto, Spinoza (e Nietzsche dopo di lui) disse: “Deus sive natura”. Questo è l’Essere che sta e diviene; nella storia della filosofia tiene insieme Parmenide ed Eraclito.

Il viaggio dentro noi stessi è un’altra cosa. Sempre alla ricerca della conoscenza ma limitato all’esplorazione dell’io. Questo secondo percorso lo tratteremo nel prossimo “Vetro soffiato” tra quindici giorni. Nel frattempo avremo letto se e come la “Storia della filosofia” di Eco e di Fedriga avrà affrontato queste domande e queste risposte.

17 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/03/12/news/quel-desiderio-di-pensare-dio-1.156884


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Se Renzi vincerà vent'anni durerà
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2014, 05:18:37 pm
Se Renzi vincerà vent'anni durerà

Di EUGENIO SCALFARI
23 marzo 2014
   
Spero che ai lettori non sembri una stranezza se comincio questa mia predica domenicale con il film di Veltroni su Enrico Berlinguer, proiettato giovedì scorso all'Auditorium di Roma. Ho conosciuto bene quel personaggio sul quale ho scritto un articolo domenica scorsa; poi ho visto il film ed ho letto i commenti che i giornalisti gli hanno dedicato, tra i quali quello bellissimo di Michele Serra sul nostro giornale. Perché dunque ci torno ancora?

Ci torno per chiarire un punto, per rispondere ad una domanda che molti si sono fatta e molti altri si faranno vedendo quel film nelle sale cinematografiche e alla televisione di Sky: Berlinguer e il partito da lui guidato erano comunisti come si chiamavano e credevano di essere, oppure no?

Certamente lo erano ma a loro modo che non somigliava a nessuno degli altri partiti comunisti al di là e al di qua della cortina di ferro che divideva in due non solo l'Europa ma il mondo intero. Il partito comunista italiano guidato da Berlinguer, e prima di lui da Longo e da Togliatti, era nato a Lione, liquidò Bordiga, che l'aveva fondato nel 1921, e si ispirò all'insegnamento di Gramsci. Tra le sue "sacre scritture" non c'erano soltanto Marx ed Engels ma Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce.

Berlinguer accentuò queste caratteristiche e prese le distanze non solo dal partito-guida di Mosca ma anche dal pensiero di Lenin. Il discrimine riguardava una questione fondamentale: la democrazia, quella sostanziale ed anche quella formale, cioè le cosiddette "libertà borghesi".

La democrazia, secondo il pensiero di Berlinguer, doveva essere rispettata e difesa sempre, nessuno spazio alla "dittatura del proletariato" che Lenin patrocinava come prima fase rivoluzionaria. Una democrazia che prevedeva anche alleanze con forze politiche non comuniste purché anch'esse fossero sinceramente e pienamente democratiche.

Questo fu il partito di Berlinguer e se passò dal 25 per cento dei consensi elettorali ereditati da Togliatti al 34 raggiunto da Berlinguer nel 1977, questo accadde perché una parte dei ceti borghesi si avvicinò a quel partito. In realtà, almeno una parte del suo gruppo dirigente e perfino quella aristocrazia operaia che rappresentava la classe lavoratrice, fece propria la cultura liberal-socialista che aveva ispirato "Giustizia e libertà" e poi il partito d'azione e di cui il maestro coevo alla leadership berlingueriana fu Norberto Bobbio insieme a Galante Garrone, a Calogero, a Omodeo, a Salvatorelli, a La Malfa.

Questo è stato il lascito di Berlinguer. Come e perché questa eredità politica sia poi entrata in crisi è un altro discorso che riguarda la crisi della politica, di tutta la politica, del sistema dei partiti, dei loro rapporti con le istituzioni, quella che Berlinguer aveva già identificato definendola questione morale, occupazione delle istituzioni da parte dei partiti, oggi più che mai intensa e di assai difficile risanamento.

* * *

Questa crisi è il tema oggi dominante in Italia e in Europa. A me sembra che ci sia molta confusione nei pensieri di chi se ne occupa e se ne preoccupa. Ho letto su Repubblica di ieri un'intervista di Paolo Griseri a Marco Revelli sul suo nuovo libro intitolato Post-sinistra e mi ha stupito l'analisi che l'autore fa sostenendo che l'economia nella società globale ha ucciso la politica diventando una sorta di pilota automatico che porterà il mondo verso la catastrofe.

Mi sembra con tutto il rispetto per il pensiero di Revelli, che questa sia una semplificazione sostanzialmente sbagliata. L'economia moderna è una disciplina nata dal pensiero di Adam Smith e di Ricardo tre secoli fa, di fatto agli albori dell'illuminismo e assunse non a caso il nome di economia politica. Non esiste e non è pensabile un'economia senza politica o addirittura antipolitica come non esiste una politica priva di una sua economia. Lo stesso Carlo Marx questa verità la conosceva benissimo e la teorizzò quando scrisse L'ideologia tedesca e il 18 Brumaio. Marx riteneva che la rivoluzione proletaria dovesse essere preceduta dalla rivoluzione borghese per la quale manifestò addirittura simpatia e che considerava necessaria. Quella rivoluzione era ancora in corso negli anni Quaranta del diciannovesimo secolo. È evidente che la rivoluzione borghese aveva un enorme contenuto economico così come l'avrebbe avuta nel pensiero di Marx e di Engels la rivoluzione proletaria che ne sarebbe seguita.

La storia prese una strada diversa: la rivoluzione proletaria che secondo Marx sarebbe nata nei paesi europei economicamente più abbienti avvenne invece in Russia, cioè in un paese dove la borghesia non esisteva neppure. Di qui un suo percorso che Marx se fosse stato vivo avrebbe certamente sconfessato poiché non aveva le condizioni per attuare il comunismo annunciato nel manifesto del '48.

Ecco perché ritengo che la post-sinistra descritta profeticamente da Revelli come un'economia che distrugge la politica a me sembra un nonsense. Può essere e probabilmente è un'economia politica non accettabile, ma non distrugge la politica che non è distruttibile visto che è una categoria dello spirito e come tale appartiene alla nostra specie e vivrà con essa fino all'avvento del regno dei cieli (per chi ci crede).

* * *

Oggi abbiamo i populismi e l'antipolitica (che sono tutti e due forme di politica e di economia). Abbiamo un partito che cerca di darsi una nuova forma con la guida di Matteo Renzi e avremo il 25 maggio le elezioni per il Parlamento europeo il quale a sua volta avrà il compito di eleggere il presidente della Commissione di Bruxelles, cosa che non era accaduta prima, quando quell'incarico era di competenza dei governi dei paesi membri della Ue.

Il Partito democratico si può a questo punto definire nei suoi quadri, nei suoi gruppi parlamentari e nei suoi militanti un partito renziano. Fino a qualche tempo fa si diceva che fosse l'unico partito italiano (e forse anche europeo) non personalizzato. Non aveva un Re. Adesso ce l'ha. Per simpatia per il personaggio, per la sua energia e voglia di fare, per il suo desiderio di avere successo e quindi di portare il suo partito al massimo della popolarità elettorale e infine per mancanza di alternative.

Ai tempi dei tempi Pietro Nenni, che fu un tribuno d'eccezione, diceva quando ci fu la scelta istituzionale nel giugno del 1946, "O la Repubblica o il caos". Adesso lo slogan che più corrisponde ai desideri (e alle paure) dei democratici è "O Renzi o il caos".

Questo slogan ovviamente presuppone che Renzi abbia il successo che desidera, ma è un successo che si gioca contemporaneamente su molti tavoli.

Anzitutto su quello della popolarità e Renzi ha scelto: i 10 miliardi (che nell'anno in corso saranno più o meno sette) andranno interamente nelle buste-paga dei lavoratori a partire da quelle del 27 maggio prossimo, due giorni dopo le elezioni europee che sono l'altro tavolo sul quale si giova il successo. Diminuzione dell'Irpef, due giorni dopo le elezioni: il rapporto è chiaro e perfetto.

Naturalmente alcuni settori della società non sono contenti. Non è contenta la Confindustria di Squinzi, non sono contente le imprese che saranno tassate sulle rendite dei titoli e su altri tipi di entrate mobiliari; non sono contente le piccole imprese del Nord-Est in crisi che vorrebbero sostegni e crediti bancari di favore e non è contenta la Cgil che teme un'eccessiva mobilità del lavoro precario. Infine non sono contenti i manager pubblici i cui compensi, secondo la spending review di Cottarelli dovrebbero avere un tetto che tagli il supero così come anche per le pensioni al di sopra di un limite abbastanza elevato.
Renzi questi scontenti li conosce e farà di tutto per placarli usando qualche attenzione concreta nei loro confronti, ma avrà bisogno di tempo.

In realtà avrà bisogno di tempo per tutta questa politica e dovrà prenderselo salvo che sul taglio dei 10 miliardi (sette) da mettere in busta paga per le tasche dei lavoratori fino a 25mila euro di reddito netto annuo. Questa copertura la deve assolutamente trovare.

Ma c'è un altro obiettivo che deve realizzare a corto respiro ed è la riforma elettorale. Questo è a costo zero dal punto di vista finanziario, ma un costo politico ce l'ha. Alla Camera è già passato, al Senato qualche problema ci sarà ma lui spera di risolverlo ed è probabile che ci riesca. Il che tuttavia non risolve il problema della riforma del Senato e quindi della legge elettorale che rimane zoppa a meno che Berlusconi decida di mettersi contro per ottenere lo scioglimento anticipato delle Camere.

Se questo avvenisse si voterebbe alla Camera con un sistema nettamente maggioritario e al Senato con uno nettamente proporzionale. Una manna per Forza Italia, per la Lega, per Grillo e insomma per quasi tutti ma non per Renzi. Tuttavia qui il manico ce l'ha in mano Berlusconi sempre che si superi l'ostacolo del Quirinale, il che sembra tutt'altro che facile. Napolitano non credo accetterebbe di sciogliere le Camere con due percorsi elettorali così diversi e quindi con maggioranze probabilmente contrapposte. Comunque un rischio c'è perché l'alternativa in questo caso potrebbe essere una crisi di governo.

* * *

Infine c'è il tavolo delle coperture da effettuare, dell'occupazione, del pagamento dei debiti verso le imprese e dell'Europa. Questo gruppo di questioni è strettamente interconnesso ed è qui che si gioca realmente la sorte del governo e del partito renziano.

Segnalo un punto non marginale per capir bene il personaggio Renzi. Fino a quando sembrava che il governo Letta sarebbe durato fino al 2015 e quindi sarebbe stato Letta a presiedere il semestre europeo di spettanza italiana, l'allora (e tuttora) segretario del Pd sosteneva che la presidenza europea semestrale non contava assolutamente niente. Letta diceva il contrario ma Matteo ci rideva sopra. Da quando però è arrivato a Palazzo Chigi Renzi ha immediatamente cambiato linguaggio sostenendo che quel semestre sarà fondamentale per l'Italia e per l'Europa (anche per il mondo?).

È fatto così, il Re del Pd: cambia linguaggio di continuo, secondo con chi parla; dà ragione a tutti, capisce tutti, incanta tutti (o ci prova). La sua vera natura è quella del seduttore. Da questo punto di vista somiglia molto, ma con metà degli anni, a Berlusconi.

Non entro nell'esame delle coperture, dell'accoglienza europea alle proposte renziane, ai tempi necessari per arrivare ad una svolta vera, che certo non è quella dei 10 miliardi (sette) dell'Irpef. Dico solo che sui tagli di Cottarelli bisogna stare attenti perché ci saranno anche effetti negativi sull'occupazione come conseguenza di alcuni dei tagli proposti.

Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l'ipotesi che l'eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent'anni di berlusconismo vent'anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.

© Riproduzione riservata 23 marzo 2014
La Repubblica quotidiano digitale

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/23/news/se_renzi_vincer_vent_anni_durer-81657430/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Esce "Novanta" il memoir di Ottone sull'avventura nella sua...
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2014, 04:53:46 pm
Testimone del tempo: Piero, così hai cambiato il giornalismo italiano

Esce "Novanta", il memoir di Ottone sull'avventura nella sua professione.
Ecco la prefazione di Scalfari

di EUGENIO SCALFARI
   
Un giorno dello scorso novembre  -  il mio libro L'amore, la sfida, il destino era appena uscito  -  ricevetti una telefonata da Piero Ottone. Ci conosciamo da oltre quarant'anni, e da più di trentacinque siamo diventati amici. Era esattamente il 1977, quando Piero capì che nella proprietà del Corriere della Sera che lui dirigeva da cinque anni stavano accadendo mutamenti preoccupanti e si dimise.
Te lo ricordi, Piero?

Da allora l'amicizia s'è rinforzata, abbiamo lavorato insieme, lui alla Mondadori alla guida di Mario Formenton ed io alla direzione di Repubblica che per il cinquanta per cento era appunto di proprietà della Mondadori e per l'altra metà del nostro gruppo dell'Espresso; e per anni insieme fino alla famosa guerra di Segrate contro Berlusconi che aveva dato la scalata alla Mondadori. Poi quella guerra finì, Repubblica fu messa in salvo e Piero cominciò a collaborare al nostro giornale e tuttora scrive articoli di politica, di costume, di cultura.

Gli avevo ovviamente mandato il mio libro aspettandone un giudizio che sapevo sarebbe stato imparziale, positivo se gli fosse piaciuto, negativo nel caso contrario e comunque critico nel senso alto del termine. Lui, infatti, appena letto mi telefonò.

Il giudizio fu positivo, mi parlò del capitolo che più di tutti gli era piaciuto, mi chiese alcuni chiarimenti sulla struttura letteraria che era alquanto nuova rispetto ai molti libri precedenti e poi aggiunse: "Quello che più mi ha interessato è l'inizio del tuo libro, che hai intitolato Prologo, dove racconti come si è formata la tua visione della vita durante l'età che definisci fatata dell'adolescenza e poi che cosa ti accadde dopo e come si formò il tuo carattere, la tua coscienza e insomma la tua vita. Anch'io sto scrivendo un libro, molto diverso dal tuo; ma anche il mio comincerà con un Prologo. Vorrei che tu lo leggessi; non il libro che ho già scritto ma leggerai quando tra qualche mese sarà nelle librerie, ma il mio Prologo, e vorrei che tu mi dicessi che cosa ne pensi".

Ebbene, l'ho letto il suo Prologo, mi è molto piaciuto, è scritto benissimo con quello stile piano che si fa leggere senza fatica ma che comunica alcune verità profonde sulle quali il lettore è indotto a riflettere. Contiene però, quel suo Prologo, un giudizio su se stesso che in alcune parti non condivido, e proprio di quelle omissioni voglio parlare. Lo so che dipendono dal suo modo di pensarsi, non si tratta di finta umiltà ma di una convinzione mite e modesta dell'opera sua e della sua presenza e il suo ruolo nella storia del giornalismo italiano. Una presenza che durò a lungo ma un ruolo che durò poco, cinque anni, ma che ebbe un rilievo storico portando la diffusione del giornale a livelli mai raggiunti prima, riunì il meglio dell'intelligenza d'allora e cambiò la collocazione tradizionale di una delle più importanti testate italiane ed europee.

Piero si definisce nelle pagine di introduzione "uno spettatore", avrebbe potuto dire almeno un testimone del tempo, ma evidentemente quest'espressione gli sembrava troppo ridondante. Infatti scrive così: "Questo mestiere sembra fatto apposta per me. Osservo con curiosità quel che succede, non aspiro in alcun modo a far succedere cose diverse. L'animo dello spettatore, insomma: non quello del protagonista".

Ebbene, caro Piero, tu ti vedi certamente così soggettivamente, dal tuo punto di vista. Ma oggettivamente ti sbagli. L'ho già detto prima, ma adesso te lo dimostro.

Tu sei stato il primo della grande stampa italiana allora esistente a dimostrare con le inchieste, le notizie, gli articoli, insomma col tuo modo di fare il giornale, che i comunisti non avevano la coda.

Allora erano ancora in molti a pensarlo, e non solo persone sprovvedute o succubi d'una propaganda politica, ma anche dominate da un pregiudizio rispetto ad un partito legato ancora a doppio filo con Mosca, con il Cominform, con lo stalinismo, senza cogliere i primi segnali di un mutamento sociale, politico e soprattutto culturale.

Qualche segnale in quel senso c'era già stato sulla Stampa, l'altro grande giornale di prestigio nazionale durante la direzione di Giulio De Benedetti; segnali ancor più chiari li aveva manifestati il settimanale l'Espresso, ma il Corriere era un'altra cosa, rappresentava l'intero circuito mediatico del paese in un periodo in cui la televisione non aveva ancora la potenza di fuoco che raggiunse negli anni seguenti, e politicamente era molto legato alla Democrazia cristiana.

Il Pci era chiuso in una sorta di ghetto, per decisione dei suoi avversari ma anche per decisione propria. I suoi dirigenti battevano sul tasto della "diversità comunista", diversità morale ma soprattutto ideologica. Nel ghetto ci volevano stare, sognavano la rivoluzione proletaria che naturalmente sarebbe venuta ma non si sapeva né quando né come; "adda venì Baffone", cioè Stalin, era lo slogan che teneva insieme le masse e quindi era diventato una parola d'ordine da non lasciar cadere.

Ghetto o giardino zoologico, dove dietro le sbarre la gente comune vedeva strani animali e quasi tutti con la coda. La rivoluzione d'Ungheria del '56 aveva dato una scossa potente alle sbarre del ghetto; quella di Dubcek a Praga ancora di più e aveva anche manifestato fortemente la visione politica nuova del gruppo dirigente del Pci. Il Sessantotto aveva coinvolto i licei e le università di tutta Italia, l'immaginazione al potere era stato uno slogan rivoluzionario, ma quella che veniva definita la maggioranza silenziosa non era stata neppure scalfita da queste novità, anzi era diventata ancor più retriva e pronta perfino ad alimentare tentazioni antidemocratiche, sette segrete, servizi di sicurezza deviati, come si diceva con linguaggio criptico e minaccioso.
Non voglio fare qui una storia che è stata già ampiamente esaminata da centinaia di libri e migliaia di articoli. Dico solo che non a caso tu fosti scelto a dirigere il Corriere dalla parte progressista della borghesia milanese (Giulia Maria Crespi per l'esattezza) che non era affatto rappresentativa di quel ceto sociale. Era un'eccezione; prudente, misurata, non certo incline al radicalismo delle posizioni ed anche rispettosa delle tendenze del giornale che aveva avuto in Albertini la sua bandiera nei primi venticinque anni del secolo scorso. Ma un'eccezione che avrebbe oggettivamente dimostrato che i comunisti non avevano la coda o almeno non l'avevano più.

Questo fu il tuo Corriere dal 1972 al '77 e io lo so bene perché Repubblica fu fondata nel '76 ed ebbe fin dall'inizio l'obiettivo di diventare il primo giornale italiano raggiungendo e scavalcando il Corriere. "Hai scelto il momento sbagliato", mi fu detto da molti amici e colleghi. "Proprio adesso che il Corriere si è spostato a sinistra, ti sarà assai difficile inseguirlo con successo".

Ricordo che tu stesso me lo dicesti durante una telefonata amichevole che mi facesti sette od otto mesi dopo l'uscita di Repubblica. Vendevamo fin dall'inizio settantamila copie, era molto per un giornale nuovo ma non sufficiente, e questa cifra iniziale era bloccata e tale rimase fino al '78. In quell'anno ci fu il rapimento di Moro e tu  -  per altre ragioni  -  te n'eri già andato dal Corriere; ma questi due fatti avvenuti quasi contemporaneamente misero in moto la diffusione del nostro giornale che sei anni dopo raggiunse il Corriere e lo sorpassò.

Nella tua telefonata che ho sopra ricordato tu mi consigliasti di sospendere le pubblicazioni. "Lasci", mi dicesti, "nel momento migliore. La vendita attuale del tuo giornale è più che rispettabile e dimostra le tue capacità, ma economicamente non basta, quindi questo è il momento di smetterla, dammi retta, lo dico per te, il Corriere non ha minimamente risentito della vostra uscita, siamo ai massimi della nostra diffusione".

Era vero, ma io non la pensavo affatto in quel modo. Ti ringraziai del consiglio e ti presi anche un po' in giro. Ricordo queste cose per dire che, opinioni tue e mie a parte, oggettivamente tu avevi ragione, il Corriere non sentiva la concorrenza di Repubblica, la scissione di Montanelli e la nascita del Giornale vi avevano intaccato poco. Avevate perso copie a destra ma ne avevate conquistate altre al centrosinistra. Nel frattempo Pasolini era diventato il tuo collaboratore principale e attaccava ogni settimana il Palazzo (fu proprio lui a inventare quella parola per definire il Potere), la tua terza pagina ospitava il meglio dell'intellighenzia italiana, a cominciare da Citati. Quando Pasolini morì tragicamente al suo posto chiamasti Calvino che per certi aspetti era molto più efficace di Pasolini ed io te lo invidiai molto perché ero suo amico fin dai banchi del liceo, ma non potevo certo pensare che sarebbe venuto in un giornale come quello da me fondato ma ancora confinato in un pubblico molto limitato.

Tu hai scritto nel tuo Prologo che non ti sei mai proposto di cambiare la società con il tuo lavoro di giornalista e col tuo carattere di spettatore. Ti ho detto che non condivido il tuo giudizio, che è sbagliato, e spero d'avertelo dimostrato.
 
© Riproduzione riservata 20 marzo 2014
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Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/20/news/testimone_del_tempo_piero_cos_hai_cambiato_il_giornalismo_italiano-81412628/?ref=HRER2-3


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Federalisti sì ma europeisti
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 12:09:17 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Federalisti sì ma europeisti
La Catalogna in Spagna, la Scozia in Gran Bretagna, la Baviera in Germania, le Fiandre in Belgio: tutti riscoprono il separatismo e l’indipendentismo. Ma dentro un forte Stato europeo. La Lega e i lepenisti francesi invece...
   
La Catalogna farà un referendum sponsorizzato dal governo di quella regione, il cui esito è praticamente già scontato: sarà una regione-nazione che riconosce alla Spagna di rappresentarla nella politica estera e nella Difesa nel solo caso di un’aggressione. Ma anche le altre regioni-nazioni preparano referendum analoghi: l’Andalusia, la Mancia, i Paesi Baschi. Poi voterà la Spagna in quanto tale e probabilmente anche l’esito di questo atto conclusivo sarà la struttura federale dello Stato spagnolo. Un federalismo che va ben oltre l’autonomia amministrativa poiché contiene elementi di forte politicità.

È inutile sottolineare che il linguaggio delle varie regioni-nazioni non ha struttura dialettale; il catalano, il basco, l’andaluso, non sono dialetti ma vere e proprie lingue e hanno alle spalle una vera e propria storia politica che per lunghi secoli ebbe un suo autonomo sviluppo, a cominciare dagli Emirati Arabi di Cordoba e Granada che sopravvissero fino a quando la Castiglia di Isabella e la Catalogna di Alfonso d’Aragona non si unirono e cominciarono la “reconquista”.

Del resto non è soltanto la Spagna a orientarsi verso il separatismo. Il fenomeno della Scozia è ancor più antico e ha fatto già molti passi avanti. Anche lì un referendum è imminente e non è il primo. Dovrebbe sancire nuove e ancor più politiche forme di indipendenza. La realtà è che la Scozia ha da sempre avuto una storia propria, una religione propria e una propria dinastia regnante con un esercito combattente. Perfino quando l’impero di Roma sbarcò, prima con Cesare e poi, più stabilmente, con gli imperatori Antonini, il Vallo di Adriano lasciò fuori dal perimetro di conquista il Galles e la Scozia.

La Scozia fu da sempre cattolica e impose la sua religione a tutta la Gran Bretagna quando il figlio di Maria Stuart divenne re di tutto il paese. Ora la Scozia torna all’indipendenza e l’Inghilterra è d’accordo ma il separatismo si estenderà anche al Galles e alle provincie settentrionali. L’Irlanda è da tempo sulla stessa via. Il medesimo fenomeno si sta manifestando in Francia, il paese dove da almeno mezzo millennio l’unità ha marciato di pari passo con la “grandeur”.

In Germania la tradizione dei principati elettori è invece antica e mai spenta e sta ora manifestando la sua spinta in Baviera, nel Palatinato, in Renania, in Brandeburgo. Le Fiandre riscoprono anch’esse la loro lingua e la loro disposizione indipendentista. Insomma l’Europa intera torna all’ideale federalista, ma con una particolarità un tempo ignota: il federalismo delle regioni-nazioni non solo non è contrario, ma ha come caratteristica essenziale l’esistenza di uno Stato europeo; uno Stato vero, non una confederazione di paesi nazionali guidati da governi nazionali. L’Europa unita e le regioni-nazioni che in essa si riconoscono e in essa trovano quella dimensione continentale, quella moneta unica, quella politica estera che parli con una sola voce e si confronti pacificamente ma affermando i propri valori e interessi rispetto al resto del mondo e alla sua convivenza globale.

Questo è il quadro, questo le forze che lo compongono e in esso si riconoscono e si articolano, con alcune vistose eccezioni: il Fronte nazionale lepenista e la Lega padana.

Queste forze non vogliono affatto uno Stato europeo e tanto meno una moneta comune. Sono forze nazionaliste o favorevoli a confederazioni regionali dove l’accento si ponga contro la globalizzazione mondiale. Quale possa essere il loro futuro è ancora incognito a loro stesse, ma nella situazione attuale è un futuro ignoto che tende soltanto alla totale rottura del presente, nel bene e nel male che in esso convivono.

08 gennaio 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/01/03/news/federalisti-si-ma-europeisti-1.147548


Titolo: EUGENIO SCALFARI ... ma Gesù prese anche il bastone
Inserito da: Admin - Marzo 31, 2014, 10:52:28 am
Yes we can, ma Gesù prese anche il bastone

di EUGENIO SCALFARI
30 marzo 2014
   
IL GOVERNATORE della Banca d’Italia, ricordando Guido Carli alla Luiss, ha citato una delle frasi che ripeteva più spesso: «Dobbiamo liberarci dai lacci e lacciuoli che rallentano lo sviluppo dell’economia italiana».

Fui molto amico di Carli e la ricordo anch’io quella frase; i lacci e lacciuoli designavano gli strumenti di cui si servivano le corporazioni, le confraternite del potere, le lobby, gli interessi particolari che spesso avevano la meglio sull’interesse generale e che sussistevano in Italia anche dopo la nascita del mercato comune europeo. L’economia del nostro Paese era in gran parte configurata dall’esistenza di un sistema oligopolistico che creava una serie di ostacoli alla libera concorrenza, al centro del quale chi dava le carte erano la Fiat e l’industria elettrica. Con l’inizio del centrosinistra la vera e anzi unica novità voluta dai socialisti e soprattutto dal leader della sinistra Riccardo Lombardi fu la nazionalizzazione dell’industria elettrica spezzando in questo modo il monopolio più importante mentre l’Europa si apriva anche al mercato internazionale.

Il sindacato operaio di quell’epoca non rientrava affatto nell’elenco delle lobby; rappresentava la classe operaia, i suoi interessi e i suoi valori, ma essi non erano affatto contrari a quelli dello Stato. Luciano Lama nei momenti di difficoltà economica gestiva una politica di moderazione salariale e la stessa politica fu anche quella di Berlinguer e di Giorgio Amendola. La moderazione salariale dei sindacati fu riconosciuta più volte nelle relazioni dei governatori della Banca d’Italia, a cominciare addirittura da Menichella e poi da Carli, da Baffi e da Ciampi.

I lacci e lacciuoli di oggi esistono in un mondo la cui struttura economica e sociale è profondamente cambiata: la popolazione è invecchiata, i giovani tra i 16 e i 29 anni rappresentano meno di un terzo della popolazione, le imprese di grandi dimensioni sono quasi tutte scomparse, le medie imprese devono affrontare mercati dove il costo del lavoro è decisamente più basso che da noi, la delocalizzazione è diventata una prassi, le imprese piccole soffrono di un credito in continua diminuzione e con elevati tassi di interesse, gli imprenditori da trent’anni investono sempre di meno impiegando capitale e dividendi soprattutto nella finanza e sempre meno nell’industria; per conseguenza la base occupazionale si è ristretta e la produttività è fortemente diminuita, il sindacato rappresenta soprattutto i pensionati, la classe operaia come aristocrazia del lavoro non esiste più perché i contratti sono diventati individuali o di piccole categorie diverse tra loro.

Queste sono le condizioni con le quali i lacci e lacciuoli dell’epoca di Carli non esistono più ed hanno cambiato natura. Forse Ignazio Visco avrebbe dovuto spiegarlo alla platea che lo ascoltava.

I lacci e lacciuoli di oggi sono soprattutto la mescolanza tra finanza privata e politica, la carenza di innovazioni nelle manifatture, la scarsità del credito, la corruzione e l’evasione e infine, non ultimo, le mafie.

I contratti aziendali sono una forma idonea per risvegliare le manifatture e le imprese medio-piccole, ma al sindacato resta comunque un compito essenziale: vigilare sui diritti dei lavoratori che non debbono essere lesi ma semmai rafforzati e allargati anche nelle imprese medio-piccole. E al sindacato resta anche il compito e il ruolo di controparte per quanto riguarda il nuovo “welfare” e i nuovi ammortizzatori sociali.

Il governo sembra indirizzato a realizzare questi obiettivi ma non riconosce al sindacato il ruolo decisivo che abbiamo ora indicato. È un grave errore e basterebbe guardare alla funzione dei sindacati in Germania per rendersene conto.

«Yes we can» ha detto Renzi nel suo recente incontro con Obama facendo proprio lo slogan con il quale il senatore di Chicago vinse la sua battaglia per diventare presidente degli Stati Uniti. «Yes we can», ma che cosa esattamente? Adesso si applicherà il decreto di Enrico Letta sul tetto da porre alle retribuzioni dei dirigenti di imprese pubbliche. Sull’occupazione giovanile la legge di Letta ha già prodotto nuovi posti di lavoro per 14 mila giovani e nel 2015 la proiezione statistica prevede un risultato che arriverà ai 60-90 mila. Renzi non lo dice, ma finora i risultati concreti provengono dalle iniziative del suo predecessore. Ora aspettiamo le iniziative che Renzi promette che sono buone e concrete. Do you can? Vi guarderemo con attenzione, ma dovremo aspettare un bel po’ perché la bacchetta magica neanche Renzi ce l’ha.
***
Tuttavia, anche se ho cominciato dal “We can” renziano, non è questo il tema principale di questo articolo. Il tema è Gesù che prende il bastone e bastona cacciando dal tempio gli scribi e i farisei che interpretano malissimo la legge di Dio e i corrotti che hanno gestito i loro sporchi commerci addirittura nei luoghi sacri del popolo di Israele.

Gesù che bastona è stato riportato d’attualità alle sette del mattino del giorno in cui Obama è arrivato a Roma per la sua breve ma intensa visita in Vaticano, al Quirinale e a Villa Madama con Renzi. Alle sette del mattino Papa Francesco aveva convocato a messa in San Pietro 500 membri del Parlamento e tutti i ministri del governo e li ha bistrattati di santa ragione. Non li ha abbracciati, non li ha perdonati, non li ha salutati. Li ha soltanto bastonati.

Il circuito mediatico giornalistico e televisivo, con l’eccezione di pochissimi giornali e di Enrico Mentana, ha sottovalutato quella messa molto particolare di Papa Francesco. Il motivo credo sia quello che le parole del Papa potevano esser ritenute simili agli slogan di Grillo, ma non è così. Grillo straparla contro la casta ma ne fa sostanzialmente parte specie quando si impegna ad abolire la libertà di mandato dei parlamentari per meglio tenerli in pugno impedendo proprio a loro la libertà d’opinione. Il Papa invece parlava ai politici italiani di una battaglia che Lui a sua volta sta combattendo in Vaticano contro tutte le forme di temporalismo.

Il potere temporale, così pensa il Papa, ha deturpato la Chiesa per secoli e secoli se non addirittura per oltre un millennio.

Francesco ritiene che la Chiesa non debba essere sporcata e deformata da questo peccato capitale. Ecco la rivoluzione che da un anno sta conducendo e che dovrebbe avvenire anche nel Paese che è la sede del Papato. Di qui la sua invettiva di giovedì scorso. I media hanno privilegiato Obama ma hanno sbagliato. Il presidente Usa è stato a Roma poco più di 36 ore, ha visto a lungo Napolitano, a lungo Papa Francesco, un po’ meno lungamente il presidente del Consiglio, ha visto il Colosseo e sul predellino dell’aereo il sindaco Marino con tanto di fascia tricolore.

Ma Francesco resta qui, per nostra fortuna. È dolce e mite come il suo Gesù Cristo, ma come Lui quando è necessario impugna il bastone e bastona. Lo fa in Vaticano, lo fa in San Pietro, lo fa con la Curia e lo fa con il Parlamento del paese nella città di cui è il Vescovo; ma il bastone che impugna riguarda il peccato del mondo, il solo vero peccato che mette il mondo fuori dalla grazia e dal bene.

Questo è il suo insegnamento e questa è la sua rivoluzione.

***
Ho incontrato papa Francesco qualche giorno fa, era il 18 marzo scorso, gli avevo chiesto quell’incontro come già accaduto altre volte, non per scriverne raccontando quel che c’eravamo detti, ma per proseguire il dialogo tra Lui e un non credente come io sono. Poi ho scritto raccontando quel dialogo, ma soltanto per me, per ricordare a me i pensieri che ci siamo scambiati. Ma uno di quei pensieri lo voglio qui riferire perché è strettamente pertinente con quello che ha detto alla messa di giovedì scorso. Ha detto: «In tutte le decisioni che ciascuna persona prende esiste il rischio che le sue convenienze personali e di gruppo prevalgano su considerazioni più alte. Ricordo questi versi di Dante: “Ahi Costantin di quanto mal fu matre...” Quei versi ricordano l’editto dell’imperatore Costantino che nel 313 d. C. fece una donazione alla Chiesa e ne autorizzò il culto, anzi lo fece proprio inserendo la croce sui suoi vessilli. Il peccato del mondo è l’ingiustizia e la prevaricazione. Io la chiamo concupiscenza, cupidigia del potere, desiderio di possesso. Questo è il peccato del mondo che noi combattiamo da due diverse sponde».

Questo pensiero è il medesimo che ha ispirato il Papa nell’allocuzione fatta in San Pietro ai membri del Parlamento italiano e probabilmente ad Obama che ha incontrato poche ore dopo. Obama lo sa anche lui che nel suo paese ha combattuto e combatte questa battaglia.

Se tutti i detentori del potere lo usassero per realizzare questa finalità, il mondo affronterebbe quella che Berlinguer chiamò la questione morale. Due domeniche fa, rievocando Berlinguer, scrissi che tra lui e Francesco esistono molti punti in comune ed è vero.

Pensateci, pensateci a lungo e non scordatevene voi che avete il potere. È vero, «You can», ma Gesù a volte prende il bastone. Anche chi non crede, questa verità la conosce, la condivide e non se la scorda.
© Riproduzione riservata 30 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/30/news/yes_we_can_ma_ges_prese_anche_il_bastone-82275650/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Nei romanzi è nascosto il segreto dell’io
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:35:41 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Nei romanzi è nascosto il segreto dell’io
Giudicare se stessi in modo oggettivo è un’arte difficile da mettere in pratica.
Ma può venirci in soccorso la grande letteratura
   
Mantengo l’appuntamento che avevo dato in questa pagina due settimane fa; allora avevo scritto alcuni miei pensieri sul viaggio che ciascuno di noi compie nel mondo che ci circonda. Oggi racconto il viaggio che ho effettuato dentro me stesso. Non c’è ovviamente niente di eccezionale in queste due dimensioni della propria vita e nel raccontarne lo svolgimento; coincidono con la vita di ciascuno, quella vita terrena che tutti sappiamo essere un transito con un inizio e una fine.

Quello che avviene nel mondo che ci circonda ciascuno in qualche modo se lo ricorda; l’altro, quello dentro di sé, non tutti sono consapevoli di farlo e quindi non tutti se lo ricordano e pochi lo mettono sotto esame. Lo fanno, ma spesso senza saperlo e quindi senza ricordarlo se non in alcuni tratti principali: il rapporto con i genitori, con i fratelli e le sorelle, gli amici più vicini e più fedeli, il primo amore e quelli successivi, i propri figli, i propri nipoti, ma per quello che sono non per quello che hanno significato per noi.

È questo il viaggio dentro di noi?  Non esattamente. Diciamo che queste ne sono le premesse, ma la vera essenza consiste nel capire come e perché questi eventi ci hanno cambiati.

All’inizio dei suoi “Essais” Montaigne avverte i lettori che in quel libro parlerà soltanto di se stesso. Perciò li avverte: se quest’argomento non vi interessa è inutile che proseguiate la lettura, chiudete il libro e basta così. Ma se invece il tema vi incuriosisce sappiate che io non vi racconterò la mia storia ma piuttosto un passaggio perché ciascuno di noi cambia continuamente, non è mai lo stesso di prima e anche la memoria cambia, il mondo del nostro passato ci appare col trascorrere del tempo in modo diverso da come lo ricordavamo qualche anno prima. Questo è il passaggio di cui parla Montaigne.

Vogliamo dire un nome che meglio orienti chi si sofferma su questi problemi? Diciamo psicanalisi e facciamo il nome di Freud e della sua scuola che è stata al tempo stesso una terapia che cura alcuni disturbi mentali e una filosofia che serve a mettere in luce quel passaggio del quale scrive Montaigne.

La psicanalisi presuppone il confronto tra due persone: l’analista e l’analizzato. Ma è possibile l’autoanalisi? È possibile che una persona analizzi se stessa? Il viaggio dentro di sé è appunto un’autoanalisi ma è evidente che questo procedimento solitario presenta notevoli rischi il primo dei quali è il giustificazionismo. Noi tendiamo, ma naturalmente senza saperlo, a giustificare noi stessi, a non cogliere i nostri difetti, a rimuovere le nostre cattive azioni verso il prossimo privilegiando invece le nostre virtù o chiamando tali quelle che un altro giudicherebbe invece debolezze, vizi o addirittura malvagità.

Insomma un giudizio presuppone un giudice. L’analisi è fatta, come sappiamo, da due persone. La confessione, che è un sacramento cristiano, si svolge anch’essa tra un penitente ed un confessore. L’autoanalisi la fa una sola persona che riassume in sé l’imputato e il giudice, il paziente e il medico, il penitente e il confessore.

Il rischio l’abbiamo già detto, è la tendenza a rimuovere gli aspetti sgraditi o a giustificarli adducendo circostanze interpretate secondo la propria convenienza. Il tutto - non dimentichiamolo - avviene inconsapevolmente perché è la nostra natura che guida e anche la verità è relativa.
Qual è il rimedio per evitare un’eccessiva distorsione della verità e recuperare nella misura del possibile l’oggettività dell’analisi?

Il rimedio è quello di pensare noi stessi come oggetto, il che significa usare il pensiero come strumento spassionato di indagine su noi stessi. Distaccare la mente dall’io e mettere l’io sotto esame. È possibile?

Teoricamente sì, è possibile. Come tutti sappiamo, ciò che distingue la specie umana dalle altre specie animali è proprio il pensiero, la psiche, la mente riflessiva, la consapevolezza di avere un io. Questo fu l’“homo sapiens” quando l’evoluzione rese possibile all’uomo di alzarsi in piedi e di guardare le stelle e poi di scoprire che esiste il tempo, che il tempo trascorre attimo per attimo, che il nostro corpo invecchia e invecchiano le cellule che lo compongono, e infine che noi moriremo perché tutte le cose che hanno un inizio hanno anche una fine.

Lo strumento per l’autoanalisi è dunque questo: la mente che teoricamente è in grado di distaccarsi dall’io e di sottoporlo ad un esame né malevolo né benevolo ma oggettivo.

Si fa presto a dirlo, assai più difficile farlo. Che cosa può aiutarci? Spero non si stupiscano i lettori se dico ci può aiutare la letteratura, il romanzo, il racconto. La ragione è semplice: l’autore d’un romanzo crea i personaggi e li fa agire. Accadono fatti, si accendono sentimenti, si scatenano passioni d’amore, di odio, di potere, si descrivono concupiscenze, crimini, carità, solidarietà. Tutte queste vicende nascono nella mente dell’autore e dal talento che ha nel raccontare, ma è evidente che l’autore trae da se stesso, dalla propria esperienza, dal proprio vissuto la guida per muovere i suo personaggi.

La grande letteratura è questo, i grandi scrittori sono questo: testimonianze, spesso anch’esse inconsapevoli, del proprio se stesso calato in personaggi creati, inesistenti, ma quanto mai significativi. I “Promessi sposi”, la “Recherche du temps perdu”, “Anna Karenina”, “Delitto e castigo” e tantissimi altri non sono che una sorta di autoanalisi che l’autore mette a disposizione dei suoi lettori.
La cultura nasce dalla vita e a sua volta aiuta a vivere.
31 marzo 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/03/26/news/nei-romanzi-e-nascosto-il-segreto-dell-io-1.158593


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Questa volta il premier mi piace ma...
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2014, 11:18:44 pm
Questa volta il premier mi piace ma...
di EUGENIO SCALFARI
20 aprile 2014
   
Oggi è Pasqua. Per i cristiani è il giorno dedicato alla Resurrezione, ma il Resurrexit riguarda tutti perché ciascun individuo, ciascun popolo, ciascuna generazione attraversano nel corso della loro vita momenti di pena, di abbattimento, di disperazione e di smarrimento della speranza per il futuro.

Gran parte del mondo, l'Europa e l'Italia in particolare, stanno vivendo un momento di crisi profonda e per questo il Resurrexit, incitando a risorgere, rappresenta uno stimolo che va accolto e seguito.

Papa Francesco l'ha ricordato ed in molte occasioni ne ha anche indicato gli aspetti morali che riassumo con le sue parole da me direttamente ascoltate: "Ama il prossimo tuo più di te stesso". Questa è l'indicazione, valida per i credenti e per i non credenti. Valida, anzi obbligatoria soprattutto per i Governi, per le istituzioni e per tutti quelli che operano per realizzare una visione del bene comune. Ama il prossimo tuo più di te stesso significa, in politica, aiutare i deboli, i poveri, gli esclusi, i vecchi che trascinano la vita che gli resta e i giovani che debbono costruirla apprendendo e facendo crescere i loro talenti.

Mai come oggi abbiamo bisogno di risorgere e di conquistarci un futuro. Questo è il metro per capire e obiettivamente giudicare quanto avviene nel nostro Paese che è al tempo stesso l'Italia e l'Europa.

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Il Resurrexit dell'altro ieri nella politica italiana ed anche europea ha il nome di Matteo Renzi. A me di solito non piace e l'ho scritto e detto molte volte.

Riconosco le sue doti di comunicatore e di seduttore; da questo punto di vista è il figlio buono di Berlusconi come anche il capo di Forza Italia ha riconosciuto più volte. Buono perché è molto più giovane di lui e soprattutto perché non ha gli scheletri nell'armadio che abbondano invece in quello dell'ex Cavaliere di Arcore.

Ha coraggio ed ama il rischio, ma politicamente improvvisa e spesso le sue improvvisazioni sono fragili, pericolose e preoccupanti.
La sua operazione di taglio del cuneo fiscale è preoccupante: appartiene a quel tipo d'intervento, specie per quanto riguarda le coperture, gran parte delle quali scricchiolano, cartoni appiccicati l'uno all'altro con le spille che spesso saltano via; sicché non è affatto sicuro che convinceranno le autorità europee a dare via libera e concedergli di rinviare a due anni il rientro nel limite del 3 per cento del rapporto tra il Pil e il deficit del debito pubblico.

E poi: la tassa sulle banche è retroattiva e comunque è una una tantum non ripetibile, i tagli della Difesa sono rinviati ma non aboliti; il maggior incasso dell'Iva è un anticipo d'un anno e ce lo troveremo sul gobbo nel 2015; il pagamento dei debiti alle aziende creditrici, che doveva essere almeno di 17 miliardi, è stato ridotto a 7. Infine gli incapienti con redditi inferiori agli 8 mila euro annui e quindi esentati dal pagamento dell'Irpef avrebbero dovuto precedere per evidenti ragioni di equità il bonus in busta paga che premia i redditi superiori. Senza dire dei contributi da parte dei Comuni il cui pagamento però può essere accompagnato dall'aumento delle imposte comunali che potrebbero vanificare o ridurre fortemente il bonus di 80 euro in chi in quei Comuni risiede.

Questi aspetti negativi sono stati ampiamente segnalati nei loro articoli di ieri dai colleghi Boeri, Fubini, Bei, De Marchis, Conte, sul nostro giornale e da Dario Di Vico sul Corriere della Sera, dando un bilancio nettamente negativo dell'operazione.

Eppure a me questi vari e sconnessi cartoni appiccicati con le spille piacciono. Insolitamente lo trovo soddisfacente nonostante le numerose insufficienze che ho appena segnalato.

La ragione è semplice da segnalare: è una sveglia, uno squillo di tromba in un disperato silenzio di sfiducia e di indifferenza. Probabilmente sposterà voti nelle prossime consultazioni europee pescando nell'elettorato dei non votanti, degli indecisi, dei grilli scontenti, dei berlusconiani delusi e tratterrà in favore del Pd tutti gli elettori incerti e critici di una leadership accentratrice e assai poco sensibile ad un lavoro di squadra che non sia ristretta al cerchio magico degli yes man che restano intorno al giovane fiorentino.

Si è detto da molte parti che l'operazione del bonus in busta paga non è un programma organico ma uno spot elettoralistico. È esattamente così e venerdì sera nella trasmissione Otto e mezzo l'ha ammesso lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, che del cerchio magico è indiscutibilmente il capo. Concordo con lui: è uno spot elettorale che forse, speriamolo, diventerà un programma pensato e strutturato nel 2015.

Ma se, come i sondaggi indicano, il risultato elettorale del 25 maggio vedrà il Pd al primo posto, largamente davanti a Forza Italia e a Grillo, quel risultato non sarà soltanto un effimero successo di Renzi che certamente soddisferà il suo amor proprio; ma cambierà anche i rapporti di forza nella politica italiana e la posizione del nostro paese nella politica europea; aumenterà il nostro prestigio all'interno del Partito socialista europeo; rafforzerà la posizione di Schulz che corre proprio in quei giorni per conquistare la poltrona di presidente della Commissione di Bruxelles; rafforzerà il baluardo contro i populismi anti-europei o euroscettici opponendo ad essi un altro tipo di populismo che in questo caso è costruttivo; relegherà i berluscones ad un ruolo marginale incoraggiando uno schieramento liberal-moderato attorno al centrodestra di Alfano, Lupi, Cicchitto, Quagliariello.

Se vogliamo dire tutto dobbiamo anche aggiungere che il percorso di cui Renzi si è servito per costruire il suo spot era già stato avviato e in molti settori anche portato a termine e contabilizzato in appositi atti legislativi dal governo di Enrico Letta. Di questo ci si scorda spesso ed è un grave errore perché Letta è stato e rimane una delle figure importanti della politica italiana ed europea. Gli si può rimproverare di non aver fatto squillare la tromba per risvegliare i dormienti, ma la ragione c'è: Letta non è un uomo da spot. Preparava un programma che, se fosse rimasto in sella, avrebbe trovato piena applicazione durante il semestre di presidenza europea assegnato all'Italia, anche se alcuni segnali di ripresa si erano già verificati con l'aumento della produzione industriale e la diminuzione del fabbisogno di bilancio di 5 miliardi rispetto all'anno precedente. Del resto è stato proprio Delrio a dirci che lo spot renziano diventerà un programma strutturato nel 2015. Le date oltreché i contenuti coincidono con quelli di Letta, ma la sveglia non ha squillato. La differenza è questa, determinata dalle diversità caratteriali di quelle due personalità.

C'è un terzo uomo che in qualche modo le riassume tutte e due nei loro aspetti positivi ed è Walter Veltroni. E ce n'è un quarto che non va dimenticato e si chiama Romano Prodi. Un quartetto niente male per risvegliare gli animi del Bel Paese, specie se troveranno tra loro un modus vivendi che eviti esiziali lotte intestine.
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Penso d'aver spiegato finora le prime quattro righe del titolo di quest'articolo; resta però il "ma" dell'ultima riga ed è quello che ora debbo chiarire ai miei lettori. Quel "ma" riguarda le riforme istituzionali e in particolare quella del Senato. Ne ho già parlato domenica scorsa ma ritengo opportuno tornarci di nuovo poiché tra pochi giorni dovrà essere votata in prima lettura al Senato e la sua importanza è essenziale.
Quella del Senato non è un riforma importante ma limitata ad un settore specifico della vita sociale. Quella del Senato riguarda l'architettura costituzionale che sorregge lo Stato di diritto e cioè il rapporto e la separata autonomia dei poteri costituzionali: il Legislativo, l'Esecutivo, il Giudiziario. La Corte costituzionale tutela il principio sul quale si fonda lo Stato di diritto e la Costituzione che lo accoglie nei suoi principi e ne articola gli effetti. Il Legislativo approva le leggi proposte dal Governo o dai propri membri o direttamente dall'iniziativa dei cittadini ed è l'espressione del popolo sovrano; controlla l'efficienza e il coretto esercizio del potere Esecutivo. Il potere Giudiziario dirime sulle basi della legislazione esistente i conflitti tra i cittadini ed anche tra essi e la pubblica amministrazione. Il Capo dello Stato non fa parte di alcun potere ma valuta nel momento della promulgazione da lui firmata la conformità delle leggi alla Costituzione e coordina la leale collaborazione tra governo e Parlamento, fermo restando il potere definitivo della Corte.

Queste sono le premesse che fanno del Senato uno degli organi del potere Legislativo previsto dalla Costituzione del 1947 ma esistente anche nello Statuto Albertino, composto da senatori a vita di nomina regia.

La Costituzione repubblicana che prevede un Senato eletto dal popolo, con in più i presidenti della Repubblica che hanno terminato il loro mandato e cinque senatori a vita nominati dal Capo dello Stato sulla base di meriti culturali da lui valutati, può certamente esser modificato nelle sue attuali competenze, ma non credo possa essere abolito o privato di competenze che di fatto equivalgano all'abolizione. Una decisione del genere sulla base dell'articolo 38 metterebbe infatti in crisi l'intera architettura costituzionale e dovrebbe essere quindi accompagnata da una serie di contrappesi tali da modificare l'intera struttura su cui poggia la Repubblica.

Il progetto Renzi-Berlusconi prevede in realtà proprio questo: la riduzione del Senato ad organo competente soltanto ad intervenire sui poteri, gli interessi e la legislazione degli Enti locali. Il rapporto tra tali Enti e lo Stato sono invece rimessi alle Conferenze Stato-Regioni e Stato-Comuni per cui un'eventuale competenza del Senato nella sua nuova configurazione sarebbe soltanto un inutile duplicato.

Come se non bastasse a questa diminutio, un'altra se ne aggiunge: i membri del Senato, ridotti di numero come opportunamente dovrebbe avvenire anche per la Camera dei deputati, sarebbero composti dai governatori di alcune Regioni e dai sindaci di alcuni Comuni nonché dai presidenti dei Consigli regionali e comunali, conservando le loro cariche originarie e assumendo anche la nuova senza alcun compenso aggiuntivo. Ma con un effetto politico rilevante: poiché attualmente Regioni e Comuni sono in larghissima prevalenza guidati dal Pd, il nuovo Senato sarebbe di fatto dominato dal Pd e una formazione politica che allo stato attuale non ha nessun governatore e quasi nessun sindaco, e cioè il Movimento 5 Stelle che raccolse nelle ultime elezioni politiche dello scorso febbraio il 29 per cento dei voti e che i sondaggi attuali per le Europee collocano al secondo posto dopo il Pd, risulterebbe escluso dal futuro Senato. Non sarebbe una gran perdita, visto che si tratta di una scatoletta vuota, ma comunque non sopportabile e probabilmente incostituzionale perché modificherebbe totalmente il criterio della rappresentanza che è un requisito di pari importanza (se non addirittura superiore) a quello della governabilità.

Siamo tutti d'accordo di modificare il Bicameralismo perfetto, riservando alla sola Camera dei deputati il potere di accordare o togliere la fiducia parlamentare ai Governi. Ma non siamo per niente d'accordo di ridurre il Senato a una scatola semivuota, tanto più in una fase in cui si parla di instaurare un "premierato" che accresca fortemente i poteri dell'Esecutivo. Ipotesi a mio avviso valida ma che ha bisogno di veder rafforzati i poteri di controllo del Legislativo e in particolare del Senato proprio perché questa Camera alta debitamente eletta dal popolo sovrano non dà la fiducia al Governo e quindi è la più idonea a controllare la pubblica amministrazione.

La senatrice a vita Elena Cattaneo ha già presentato uno studio molto accurato e ricco di proposte in merito. Andrebbe esaminato, eventualmente integrato con altri suggerimenti e messo in discussione nell'imminente esame dello stesso Senato sul disegno di legge Renzi-Berlusconi che personalmente mi permetto di definire una "porcata" così come la Corte costituzionale definì la legge elettorale di Calderoli finalmente abolita.

Il Presidente della Repubblica di solito non interviene in questioni di leggi elettorali, salvo quando si tratta di riformarle per non lasciare il Parlamento in una situazione anomala. Personalmente credo che sia competente ad esprimere le sue idee su una vera e propria decapitazione del Senato, organo sostanziale nell'architettura costituzionale e credo anche che possa e debba intervenire sul modo di reclutamento dei senatori. Già si espresse evidenziando la necessità di modificare il Bicameralismo perfetto ma nulla ha ancora detto sulla scatola vuota e sull'elezione di secondo grado inflitte alla Camera alta che diventerà non bassa ma bassissima e duplicata dalla Conferenza tra Stato ed Enti locali. Una sua opinione sarebbe di essenziale importanza.

© Riproduzione riservata 20 aprile 2014
Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/20/news/questa_volta_il_premier_mi_piace_ma_-84053027/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Caro Padoan, facciamo gli scongiuri
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:22:57 pm
Caro Padoan, facciamo gli scongiuri
Tutto riposa sulla presunzione che gli 80 euro in busta paga aumenteranno la domanda, cioè i consumi.
Una presunzione non è però certezza

di EUGENIO SCALFARI

Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, mi ringrazia per averlo esortato a chiarire più diffusamente la politica economica da lui adottata per ridare speranza agli italiani modificando positivamente le loro aspettative ad un futuro meno buio del loro disagiato presente e per recuperare un'equità fin qui decisamente trascurata. A mia volta lo ringrazio per averci esposto la sostanza, il metodo e gli obiettivi che egli si propone di realizzare e che daranno frutti tra due o tre anni sostituendosi allo "spot" degli 80 euro nelle buste paga dei lavoratori dipendenti con redditi superiori agli 8 mila euro annui, fino ad un tetto di 24-26 mila euro.

Ciò premesso c'è un paio di questioni che desidero qui richiamare e che il ministro ha accennato sorvolandole un po' alla lontana. Mi sembra invece che occorra tenerle ben presenti e sottolinearle.

La prima riguarda appunto l'equità. Lo spot degli 80 euro ha trascurato i non capienti sotto gli 8 mila euro di reddito, i pensionati con modestissime pensioni, le partite Iva dei cosiddetti autonomi. C'è un buco non colmato che forse lo sarà nel 2015 senza però che ve ne sia certezza, così come non v'è certezza d'una riforma degli ammortizzatori sociali, cioè del nuovo welfare che dovrà sostituire l'antico spandendosi su una platea molto più vasta dell'attuale Cig. Padoan ammette che l'attuale taglio del cuneo fiscale è stato realizzato con coperture in larga misura posticce che saranno trasformate in un vero e proprio programma che lui ha già in mente ma sul quale è stato giustamente sobrio di notizie. Siamo tutti speranzosi e fiduciosi che sarà un buon programma. Perciò crepi il lupo e grideremo evviva a lui e al premier Matteo Renzi.

Quanto alla maggior flessibilità dell'Europa verso una politica di crescita, Padoan ne è certo. L'Italia lo chiede fin d'ora e il ministro ci informa che i presupposti ci sono già per quanto riguarda gli investimenti motivati dal lungo ciclo di depressione economica che non dipende da noi ma dall'intero mondo occidentale. L'Italia può sforare il bilancio perché quegli investimenti sono da tempo autorizzati dal trattato in vigore e non intaccano il paletto del 3 per cento rispetto al quale resteremo al di sotto.

Questa affermazione non è del tutto esatta e lo conferma il fatto che, con apposito voto del nostro Parlamento, il governo è stato autorizzato ad informare la Commissione europea degli investimenti che si accinge ad effettuare per rilanciare nei limiti del possibile la crescita e l'occupazione giovanile.

Saremo senz'altro autorizzati sempre che la Commissione ne approvi la quantità e le modalità nonché riforme che aumentino la competitività e semplifichino opportunamente le istituzioni.

Qualora però l'esistenza di queste condizioni non fosse ravveduta dalla Commissione non credo che il governo possa prenderle senza subirne alcune sanzioni. Se così non fosse non si vede il perché dell'informazione che l'Italia ha trasmesso alla Ue. Perciò aspetteremo e anche qui crepi il lupo poiché se non crepa lui qualcun altro creperebbe in sua vece e non sarebbe un bel vedere.

La seconda questione riguarda invece il pagamento di 20 miliardi dei debiti dello Stato, dei quali 8 alle aziende e gli altri ai Comuni e Regioni debitrici. È un flusso di liquidità preziosa per l'economia italiana, cui si aggiunge l'impegno che d'ora in avanti Stato ed Enti locali dovranno saldare i nuovi debiti a 60 giorni dalle relative fatture, non ricadendo nell'accumulo di altri pregressi.

Benissimo, ma dove prenderanno i soldi i debitori per rispettare quel limite di tempo? Questo Padoan non lo dice e resta un sospetto tutt'altro che marginale.

Ma c'è un altro punto sul quale il sorvolo non mi sembra giusto: le banche sconteranno i debiti certificati pagando le aziende in soldi contanti. Benissimo. Ma a loro volta le banche vanteranno un credito nei confronti del Tesoro. È un debito fuori bilancio e non intacca il paletto del 3 per cento, questo lo sappiamo, ma è pur sempre un debito dello Stato e nasconderlo sotto il tappeto non serve a nulla, il debito c'è e prima o poi dovrà essere onorato, non è vero?

Infine: tutto riposa sulla presunzione che gli 80 euro in busta paga aumenteranno la domanda, cioè i consumi. Una presunzione non è pero una certezza. Molti beneficiari potrebbero invece di spendere risparmiarli quei soldi investendoli in impieghi monetari o tenendoli in contanti sotto il materasso per spese straordinarie che si presentassero in futuro. E se fossero molti di quei 10 milioni di beneficiati? Se fossero la maggioranza? I consumi aumenterebbero molto poco. Qui non si tratta di far crepare il lupo, se a settembre i consumi non avranno registrato aumenti sensibili il governo dovrà andarsene a casa e sarebbe un vero guaio per tutti. Speriamo fortemente di no. I sondaggi dicono positivo, ma i sondaggi non sono un fatto, sono la scommessa che un fatto avverrà.

Caro Padoan, facciamo i debiti scongiuri e intanto diciamo insieme evviva la Roma che però sarà seconda. Noi speravamo di più ma non è accaduto.

(24 aprile 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/04/24/news/scalfari_padoan-84310301/?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Noi strane creature tra angeli e bestie
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 06:24:20 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Noi strane creature tra angeli e bestie
Siamo l’unico animale capace di osservarsi dall’esterno, grazie alla facoltà di pensare. Ma la mente umana è un mistero indecifrabile e oscilla sempre dalle aspirazioni spirituali agli istinti più bassi
   
Da tempo sostengo che noi umani siamo un animale assai strano, l’unico dotato d’un pensiero capace di guardare da fuori di sé in ogni attimo della vita e di cogliere i mutamenti che il passare del tempo produce nella tua persona: crescere, invecchiare, morire, ma anche amare, odiare, sfidare, vincere, perdere.

È certamente così e quando ne diventi consapevole credi d’aver raggiunto un risultato, una certezza, una verità. Ma se rifletti ancora un poco ti accorgi che non c’è alcuna certezza e alcuna verità che possano rassicurarti e darti quiete. Perciò il viaggio dentro di te deve continuare oppure chiudersi sapendo che ciò che credevi d’aver scoperto non ha alcun significato. A me sta accadendo questo. E me ne sono chiesto la ragione.

La risposta che mi sono dato deriva dal mutamento della mente con la quale mi osservo dal di fuori. L’osservazione avrebbe un senso se l’osservatore - cioè la mente - non fosse soggetta anch’essa al mutamento. Un orologio segna il tempo e il suo corso; la colonna di mercurio d’un termometro registra la febbre di un corpo. Si presume che questi strumenti siano inalterabili. Possono guastarsi ma vengono riparati oppure il guasto è irreparabile e allora si gettano via e sono sostituiti da altri che adempiono alla stessa funzione.

Ma il caso della mente non è questo. In realtà la mente di una persona non può esser sostituita. Se si guasta, ti guarda da fuori in altro modo o addirittura perde il suo ruolo. Si tratta in questi casi di malattie, transitorie o permanenti, disturbi mentali leggeri o gravissimi, nevrosi, depressioni, ubriachezza molesta, dipendenza da droghe o addirittura follia.

Se solo di questo si trattasse, esistono cure, disintossicanti oppure luoghi di ricovero che mettono quella persona fuori gioco.

Drammi e a volte tragedie, ma non è di queste anormalità, ben note da tempo, che mi sono impegnato a riflettere.

La mia riflessione riguarda una mente che non soffre di alcun disturbo eppure cambia. È un ordigno che ad un certo punto autodecide di registrare il tempo con una velocità diversa da quella del corpo e con una diversa sensibilità. La mente cioè ha una sua autonomia comportamentale perché anch’essa cresce ed invecchia come gli altri organi del corpo, ma non necessariamente in sintonia con essi.

Se la mente resta giovane e gli altri organi invecchiano, lei ti guarda con occhi diversi e viceversa se invecchia più velocemente degli altri organi. Non è ammalata ma cambia con autonomia così come autonomamente avviene il mutamento del resto di te.

Ho visto di recente un film che racconta di un uomo innamorato di una voce che esce da un computer. Lui sa bene che si tratta di uno strumento elettronico e non di una persona. Lo sa, ma quella voce che è stata programmata proprio per sedurre un uomo, è talmente perfetta per portare a termine il suo compito che lui se ne innamora con passione. S’innamora di un computer. La voce, cioè il computer, possiede anche una propria autonoma capacità sentimentale capace di innamorarsi anche lei dell’uomo e in uno slancio di sincerità gli confessa di essersi innamorata e ricambiata da altri 400 uomini con i quali parla contemporaneamente.

Ho citato questo film (intitolato “Lei”) perché rappresenta una simulazione molto efficace della mente delle persone, in grado di soddisfare sentimenti, desideri plurimi e simultanei.

La mente umana è dunque uno dei misteri del quale dobbiamo tener conto quando viaggiamo dentro di noi. Siamo un animale pensante a mezza strada tra la bestia e l’Angelo. Non ritorneremo mai più allo stadio animalesco e selvaggio e non raggiungeremo mai quello angelico. La nostra identità è in continua oscillazione e il pendolo non può fermarsi se non nel momento in cui la persona diventa una spoglia inanimata.
16 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/04/09/news/noi-strane-creature-tra-angeli-e-bestie-1.160527


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 06:16:39 pm
Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla
Se i consumi restassero al palo la manovra di rilancio sarebbe fallita. Quand'anche riprendessero la nuova occupazione tarderà a venire

Di EUGENIO SCALFARI
27 aprile 2014

I versi del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia "L'incontro de li Sovrani" che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l'attualità politica ci presenta.

Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla "Gazzetta Ufficiale". Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest'anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.

Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.

Se tuttavia l'occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell'Irap e alcuni interventi per l'occupazione dei giovani.

Seguono: il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l'Iva.

Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell'anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l'intervento è piuttosto uno "spot" che un vero e strutturato programma. Quest'ultimo è allo studio del ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento dei consumi. Andrà così?

Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand'anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l'attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell'edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l'amministrazione e a modificare l'architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica.

Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l'innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.

Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell'anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015.

Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici.

In che modo e con quali prospettive?

* * *

Berlusconi non starà fermo e l'ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di "Porta a Porta" di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.

Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d'un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent'anni è il leader d'un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all'opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d'interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l'obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.

Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi "ad personam", altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.

Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d'Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.

Ebbene, io provo vergogna per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell'etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.

* * *

Ed ora veniamo all'attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).

Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all'Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d'occhio agli alfaniani e ai centristi.

Una tattica di galleggiamento che ha l'obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.

Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent'anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le "larghe intese".

Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall'abolizione del "Porcellum" offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell'Europa. Dell'Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.

* * *

Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall'Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L'attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l'altro è stato Dell'Utri.

Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell'ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell'abbraccio d'un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una "pomata fina" di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d'orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/27/news/fregata_sul_mare-84561368/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Forse Renzi sta creando l'alternativa a se stesso
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2014, 11:30:17 pm
Forse Renzi sta creando l'alternativa a se stesso

Di EUGENIO SCALFARI
   
Il tema di questo mio "domenicale" prende spunto dall'articolo da noi pubblicato in cultura il Primo maggio scorso di Michael Walzer con il titolo L'Occidente salvato dalla lotta di classe.

Walzer è un filosofo americano molto apprezzato, si occupa di filosofia politica e morale, insegna a Princeton e solleva problemi di notevole importanza tra i quali la distinzione tra diritti dell'uomo e diritti del cittadino.

Detta così può anche sembrare una tautologia, invece contiene questioni la cui origine e natura sono profondamente diverse e spesso opposte tra loro; descrivono un aspetto della crisi di fine d'epoca che il mondo intero sta attraversando e della quale Walzer coglie i nessi e ipotizza le possibili soluzioni.

Vedremo in seguito il loro svolgimento. Ma intanto mi sembrano necessarie due premesse.

La prima riguarda la decisione di Marina Berlusconi (cioè di suo padre Silvio) di entrare in politica alla guida di Forza Italia. Non siamo più alla monarchia ma addirittura alla discendenza dinastica. Così Berlusconi avrà il suo cognome in testa alla lista in tutte le circoscrizioni elettorali il 25 maggio e poi alle elezioni politiche quando ci saranno. La sua decadenza da senatore non avrà dunque alcun effetto pratico così come non l'ha avuto la sentenza che l'aveva condannato a quattro anni di reclusione.

La seconda premessa è più complessa e riguarda Matteo Renzi e le sue più recenti decisioni. Una soprattutto: la riforma del Senato e della legge elettorale e l'altra, annunciata mercoledì scorso, sulla pubblica amministrazione.

Queste due mosse mi inducono a pensare che il nostro presidente del Consiglio, messo alla prova con la realtà ed energicamente consigliato dalla "moral suasion" di Giorgio Napolitano, sia profondamente cambiato. Detto da me che non sono un renziano e che finora sono stato severamente critico del suo modo di concepire la politica, è un attestato del quale mi sembra opportuno spiegare le ragioni.

Ricordo la telefonata di auguri che mi fece la mattina del 6 aprile. Era il giorno del mio novantesimo compleanno e ne ricevetti molte, di telefonate e messaggi. È normale che avvenga, ma la sua fu cronologicamente la prima e la meno prevista. Mi disse che era stato molto in dubbio se farla, visto che io "lo bastonavo, sia pure civilmente, in ogni mio intervento", ma poi aveva deciso che l'augurio non si lesina a nessuno. Aggiunse che io incitavo le persone politicamente impegnate nel Pd a preparare un'alternativa senza la quale avremmo dovuto avercelo chissà per quanto tempo. Lo ringraziai confermandogli la mia posizione e lui aggiunse: "Ma se io decidessi d'essere l'alternativa del me stesso che lei critica?". Risposi che quell'ipotesi mi pareva assai difficile, ma se si fosse verificata anche la mia posizione sarebbe cambiata. Su questo ci salutammo.

Ebbene, ho la sensazione che quell'ipotesi alquanto paradossale abbia un inizio di realizzazione. Ancora è presto per un giudizio definitivo, ma qualche spiraglio s'è aperto e va preso in considerazione.

Per quanto riguarda la riforma del Senato segnalo tre fatti nuovi: l'elezione diretta di senatori scelti insieme ai consiglieri regionali e comunali. Se così avverrà, il tema dell'elezione di secondo grado sarebbe superato e penso che anche Chiti sarebbe d'accordo. Si parla inoltre di mansioni aggiuntive ai poteri del Senato oltre quelli riguardanti gli Enti locali e si parla anche dell'abolizione delle Conferenze Stato-Enti locali per evitare un inutile doppione.

Il compromesso è dunque avviato e la data di soluzione è stata rinviata dal 23 maggio al 10 giugno; gli ultimatum dunque sono stati sostituiti da costruttivi confronti ed anche questa è una novità positiva.

Quanto alla legge elettorale la discussione è in corso per ridurre le soglie troppo alte consentendo una maggiore rappresentanza senza indebolire la governabilità.

Questo per quanto attiene al Senato e alla legge elettorale. Poi c'è la riforma della pubblica amministrazione, annunciata con concrete statuizioni e sottoposta al confronto con le parti sociali ed interessati per un periodo di 40 giorni, trascorsi i quali il governo deciderà.

Il vero tema è di rendere "neutrale" una burocrazia che col passare del tempo si è trasformata in una casta autoconservatrice che in quanto tale merita di essere rottamata.

Una pubblica amministrazione capace di custodire la legalità di fronte all'alternanza dei governi fu il vero merito della destra storica, da Quintino Sella a Minghetti, a Silvio Spaventa e a Benedetto Croce e - se vogliamo avvicinarci di più all'attualità - da Guido Calogero, Ugo La Malfa, Antonio Giolitti e Riccardo Lombardi.

Il passare del tempo logorò questo disegno trasformando la neutralità in autoconservazione. Questa è la gramigna da estirpare. Se gli annunci saranno realizzati un'opera di notevole importanza sarà stata compita.

Certo Renzi resta un seduttore con tutti i difetti che questo tipo di carattere comporta. Ma queste riforme - se attuate - mitigano la seduzione a vantaggio di programmi selettivi. Aspettiamo dunque con qualche speranza in più, soprattutto se gli errori fin qui commessi saranno riconosciuti ed emendati. Io me lo auguro.

* * *

Vengo al tema introdotto da Michael Walzer: i diritti dell'uomo e quelli del cittadino. Quelli dell'uomo dovrebbero essere estesi e attribuiti a tutti, specie in un'epoca di migranti che vagano in cerca di fortuna per sfuggire a una morte civile e spesso fisica nei loro miseri paesi d'origine.

Questi diritti furono riconosciuti agli inizi della Rivoluzione francese dell'Ottantanove, ma affiancati dai diritti di cittadinanza che spettano appunto ai cittadini di quella nazione. Così nacque la democrazia e le nazioni cessarono di essere proprietà dei sovrani assoluti. Così nacquero l'eguaglianza di fronte alla legge, il popolo sovrano, il patto costituzionale e la divisione dei poteri. Questo fu il lascito dell'Illuminismo, deturpato ma anche arricchito nel corso del XIX e del XX secolo.

Così nacquero il liberalismo, il socialismo, il liberal-socialismo; ma anche e purtroppo il fascismo, il nazismo, il comunismo leninista e stalinista.

Walzer vede una discrasia tra i diritti dell'uomo e quelli del cittadino in un fine d'epoca che mette i nazionalismi in discussione trasformandoli in una regressione populista che nega ogni ipotesi di costruire una patria europea. Il rischio di questo regresso è molto grave ed è la causa del contrasto tra i diritti dell'uomo e quelli del cittadino; il populismo usa infatti i secondi come barriera contro i primi, combatte la società globale anziché correggerne gli errori e il predominio che oggi hanno le grandi banche d'affari e le multinazionali.

Questa è la tesi che sostiene Walzer ed io penso che abbia piena ragione. In un certo senso il filosofo americano mi ricorda il Giuseppe Mazzini dei diritti e dei doveri, che sosteneva al tempo stesso la nascita delle nazioni democratiche e la fratellanza europea al di là e al di sopra dei confini. Mazzini era nazionalista e internazionalista al tempo stesso e lottò per quegli ideali che oggi in Europa sono in serio pericolo.

Questo è il tema delle imminenti elezioni europee, questo è il tema del semestre europeo di presidenza italiana e questo infine è il tema che Napolitano ha infinite volte sollecitato nella speranza che la classe dirigente del nostro paese sia all'altezza di affrontarlo.

Il passato storico che abbiamo qui ricordato ha un senso per orientarci nel presente e per risvegliare la speranza del futuro. La nostra patria italiana dev'essere intensamente vissuta e la nostra patria europea dev'essere decisamente costruita. Sottrarsi a questi compiti non è tradimento ma stupidità, che è un malanno ancora peggiore.

© Riproduzione riservata 04 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/04/news/forse_fenzi_sta_creando_l_alternativa_a_se_stesso-85179305/?ref=HREC1-6


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Perché andiamo a caccia di potere
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2014, 06:48:51 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Perché andiamo a caccia di potere
La volontà di dominio sugli altri prevale su tutti i sentimenti che possiedono la nostra anima.
Anche su amore e amicizia. Non solo riesce a darci un piacere unico, ma risponde anche all’istinto fondamentale: la sopravvivenza
   
Da molti anni sono affascinato dallo studio degli istinti che animano gli umani, uomini o donne che siano nelle diverse età della loro vita. Ho letto molti libri che si occupano di questo problema, ho parlato con persone che operano professionalmente per curare disturbi mentali che con gli istinti sono strettamente connessi: psichiatri, psicoanalisti e con altri che hanno attraversato drammi o addirittura tragedie che ne hanno sconvolto l’anima. Infine ho usato me stesso come documentazione diretta e insostituibile, esperienza tutt’altro che facile poiché richiede un’oggettività e quindi un distacco dalla propria mente, dal sé e dall’io che non sempre si riesce a realizzare: è infatti molto forte il sentimento di giustificazione delle proprie azioni e dei propri sentimenti, guardando ciò che accade nell’anima nostra e nei nostri comportamenti con benevolenza; a volte anche con malevolenza masochista e così deformando la validità documentale del nostro viaggio interiore.

Fatte queste doverose premesse, l’ultimo tratto del suddetto viaggio del quale c’è ampia traccia nei miei libri, riguarda gli istinti che dominano le nostre persone. Quali sono? Qual è la radice che caratterizza la nostra specie?

Non v'è dubbio che la radice primaria sia l’istinto di sopravvivenza, ma esso è presente in tutti gli esseri viventi, dai vegetali agli animali e quindi anche a noi uomini che animali siamo, anche se con caratteristiche che ci distinguono dalle altre specie.

Sono arrivato a concludere che gli istinti dominanti della nostra psiche sono tre: l’amore, l’amicizia, il potere.
La vita di tutte le persone è guidata da questi tre connotati e il loro carattere è da essi plasmato fin dall’infanzia e si perfeziona durante gli anni dell’adolescenza, quando diventa addirittura la visione che abbiamo della vita. Perfino il talento ne è influenzato e la letteratura, l’arte, la poesia, la musica ne dimostrano la presenza. Amore, amicizia, potere.

I primi due sono simili, le analogie tra di essi sono numerose: entrambi riflettono un affetto verso gli altri, un voler bene, un’identificazione verso altre persone, un desiderio d’accompagnarsi ad esse, di scambiarsi idee, progetti, reciproco aiuto. Non sono la stessa cosa, l’amore e l’amicizia, se non altro perché l’amore può anche comportare un’attrazione fisica che è invece assente nell’amicizia. Ma il voler bene è presente in tutti e due quei sentimenti.

Il potere è invece tutt’altra cosa e i sentimenti che quell’istinto genera e attraverso i quali si manifesta e si esprime sono il successo e il possesso.

Di solito diamo al potere un significato politico o economico ed è vero che spesso il successo e il possesso caratterizzano l’economia e la politica. I potenti è in quei due campi che operano: successo, possesso. Ma non soltanto. Il potere infatti si fa sentire anche in campi del tutto diversi dalla ricchezza e dal governo delle istituzioni pubbliche. Si fa sentire per esempio nella gestione della famiglia, nel rapporto tra padre e figli, tra fratelli e sorelle, tra il padre e la madre. Ed è spesso il potere cosiddetto temporale che ispira i sacerdoti ministri della religione in genere e di quelle monoteistiche in particolare.

Infine il successo e il possesso danno spesso il piacere erotico e quindi quegli amori nei quali l’erotismo è presente e determinante. Successo e possesso, quindi conquista, non è anche questa una frequente forma d’amore?

La conclusione di questo esame dimostra che tra amore, amicizia e potere è quest’ultimo ad avere la prevalenza rispetto agli altri due, è presente anche nelle altre specie animali per la semplice ragione che è il prodotto più diretto della sopravvivenza che come abbiamo già detto è la radice stessa della vita.

28 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/04/23/news/perche-andiamo-a-caccia-di-potere-1.162494


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Se vogliono rottamare il Senato ci vuole la Costituente
Inserito da: Admin - Maggio 12, 2014, 05:54:36 pm
Se vogliono rottamare il Senato ci vuole la Costituente

di EUGENIO SCALFARI

11 maggio 2014
   
DA TRE giorni le notizie sulla “cupola” del malaffare che domina gli appalti dell’Expo, gli arresti ordinati dal tribunale di Milano e l’arresto di Scajola accusato di associazione per delinquere, sono state ampiamente diffuse e commentate. Ha sorpreso soprattutto il riemergere delle stesse persone che già furono giudicate e punite ai tempi di Tangentopoli e che tuttora sono al centro del sistema del malaffare pubblico e privato. Gli stessi imprenditori, gli stessi affaristi, gli stessi metodi e le stesse protezioni.

Com’è possibile a distanza di 22 anni una così nefasta e ricorrente potenza della corruzione sulla legalità? E quali saranno le ripercussioni politiche d’uno “tsunami” morale di questa gravità? E infine: il paese è stato ferito e sente di esserlo?

Quest’ultima, a mio avviso, è la domanda più importante e mi suggerisce una risposta: il paese è indifferente e questo è il suo modo di protestare. Gli ultimi sondaggi ci dicono che il partito degli indifferenti, quelli che non andranno a votare alle prossime elezioni europee o sono indecisi e tendenzialmente orientati all’astensione, rappresenta oltre il 40 per cento del corpo elettorale.

L’alternativa all’astensione è il voto a Grillo, che non è né di destra né di sinistra o d’alcun altro colore politico. È antipolitica pura che si concentra su un programma distruttivo. Non ha proposte da fare di nessun genere, né per l’Italia né per l’Europa, tranne una: distruggere tutto ciò che esiste, tutti i partiti, tutte le istituzioni e tutte le persone che le rappresentano. Non ce n’è una sola che sia risparmiata, da Napolitano a Santanché, da Renzi a Berlusconi, dalla Merkel alla Le Pen, da Putin a Vendola.

Tutto va azzerato. I Parlamenti debbono essere ridotti a uffici che diano forma di legge alle decisioni indicate dai referendum. Democrazia diretta. Il governo composto da funzionari che restano in carica per un periodo breve e poi se ne tornano a casa. Per quel pochissimo che conteranno, i parlamentari dovranno rispettare il vincolo di mandato, cioè le decisioni che i partiti hanno scelto nei loro programmi e che il popolo ha in diversa misura approvato.

Ha un senso votare per un programma del genere che, nella fattispecie del Movimento 5 Stelle dà a Grillo tutto il potere trasformando la democrazia, con tutti i suoi vizi e difetti, nella tirannide d’un comico? Infatti, non ha alcun senso e la gente lo vota come protesta. Il voto a Grillo equivale al non voto, ma è molto più pericoloso e il perché è evidente. Per fortuna i sondaggi danno al Pd di Renzi 10 o 11 punti di maggioranza rispetto a Grillo, il quale a sua volta supera Forza Italia di molte lunghezze.

Gli indifferenti, sommando chi non vota e chi voterà Grillo, viaggiano verso il 65 per cento, ma due terzi di questi antipolitici si asterranno e quindi non incideranno sulla composizione politica degli eletti al Parlamento europeo. Il danno avverrà a Strasburgo, non a Roma. Ma può preannunciare ciò che avverrà in Italia quando ci saranno le elezioni politiche. E quindi è di questo che ora dobbiamo parlare.

* * *

Domenica scorsa ho scritto che forse Matteo Renzi stava diventando l’alternativa di se stesso per quanto riguardava la riforma del Senato che rappresenta il tema centrale del suo programma insieme alla politica del lavoro. Sembrava infatti che si stesse convincendo che la sola, vera e necessaria riforma del Senato fosse quella di riservare soltanto alla Camera dei deputati il compito di dare o negare la fiducia al governo, modificando in questo modo quel bicameralismo perfetto che da sessant’anni è una palla al piede della nostra democrazia parlamentare. Per il resto il Senato sarebbe rimasto quello che era, non ridotto ad una scatola vuota, ma direttamente eletto dai cittadini e dotato di nuove e altrettanto penetranti funzioni.

Ebbene mi sbagliavo. Renzi non ha alcuna intenzione di cambiare il bicameralismo eliminando utilmente la sua “perfezione”. Di fatto vuole eliminare totalmente il bicameralismo assegnando al Senato — eletto in secondo grado dalle Regioni e dai Comuni — il compito di rappresentare gli interessi degli Enti locali e al tempo stesso di controllare i poteri che essi detengono e di dirimere i loro eventuali confitti con lo Stato centrale. Altri eventuali poteri di questo Senato delle autonomie (come vorrebbero chiamarlo) sarebbero quelli di partecipare al “plenum” del Parlamento quando esso si riunisce per eleggere il capo dello Stato o i giudici costituzionali e per ratificare i trattati dell’Unione europea; poteri sostanzialmente irrilevanti e che il Senato in gran parte già possiede. Questa posizione ha un solo evidente significato: abolire il Senato. È questo che volete? Ditelo e presentate al Parlamento un disegno di legge di riforma costituzionale. Se sarà approvato avremo in Italia un sistema monocamerale e la rappresentanza degli Enti locali nei loro rapporti con lo Stato sarà gestita, come già avviene, dalle Conferenze che le Regioni e i Comuni hanno con lo Stato centrale.

Certo un regime monocamerale accresce i rischi d’un potere esecutivo non più soltanto autorevole ma tendenzialmente autoritario, tanto più se si trasformasse il governo in una sorta di cancellierato.

Per evitare che il rischio divenga realtà bisognerebbe a questo punto riscrivere la Costituzione e trovare nuovi equilibri, sapendo che non si può certo farlo utilizzando l’articolo 138 della Costituzione, ma convocando una nuova Assemblea costituente. È questo che avete in mente? Non credo. Voi avete in mente di far mangiare la minestra o far saltare dalla finestra chi non la mangia. Ma questo può concepirlo un Berlusconi o un Grillo, ma non il Partito democratico.

Perciò pensate bene a quel che farete; la fretta è sempre cattiva consigliera.

C’è ancora una considerazione da aggiungere sulla riforma del Senato che sarà discussa il 10 giugno, cioè dopo le elezioni europee. Nel disegno di legge che il governo ha in mente ma le cui linee sono già state ufficialmente anticipate, è previsto che i membri del Senato siano eletti dai consigli regionali e comunali. Tuttavia il risultante Senato delle autonomie dovrebbe anche avere il ruolo di “vigilante” sulla gestione degli Enti locali e sulla legislazione di loro spettanza. Cioè: i senatori eletti dagli Enti locali debbono vigilare su quelli che li hanno eletti. Ma chi li scrive questi testi? Del Rio? La Boschi?

Il potere giudiziario che ha il ruolo di giudicare i reati e tutelare la legalità, è reclutato con concorsi e non è eletto da chi dovrebbe poi vigilare. Un Senato delle autonomie non può dunque essere eletto dalle medesime autonomie se deve non solo coordinarle ma vigilare sul loro operato legislativo e finanziario. Per la contraddizione che non lo consente. A me sembra elementare, e a lei, onorevole Renzi?

* * *

I sondaggi elettorali prevedono per il Pd il 34 per cento, per Grillo il 23, a Berlusconi il 18, ad Alfano il 7, alla Lega il 6.

Se i risultati rispecchieranno a grandi linee questi dati, quando si voterà per le politiche al ballottaggio tra i primi due Berlusconi non ci sarà e questo lo impensierisce molto. Ma fino a quando il Parlamento rimarrà quello di adesso, la cui scadenza naturale è nel febbraio del 2018, Forza Italia ed i suoi alleati sono ancora nel gruppo di testa insieme a Grillo e al Pd. Alla Camera il Pd ha la maggioranza assoluta ma al Senato ha una maggioranza risicata con Alfano. Ne consegue che Alfano ha l’ultima parola.

Ma qualora su qualche punto importante Alfano dissentisse da Renzi l’ultima parola l’avrebbe Berlusconi. Questa situazione non è molto tranquillizzante e potrebbe durare fino al 2018: una maggioranza di governo risicata dove i pochi seggi di Alfano hanno un peso marginale determinante e dove l’intero programma di riforme è in mano a Berlusconi. Durare fino al 2018 oppure far saltare dalla finestra Renzi appena possibile: per esempio nell’autunno di quest’anno, proprio mentre è ancora in corso il semestre europeo con presidenza italiana; oppure nella primavera del 2015.

E se la nuova legge elettorale non fosse stata ancora approvata? Se Berlusconi riuscisse a provocare nuove elezioni con la legge elettorale vigente, residuale della sentenza della Corte costituzionale che ha abolito il “Porcellum” e che ha lasciato in piedi una legge elettorale proporzionale?

Il rischio c’è. Se Berlusconi scavalcato da Grillo non potesse neppure partecipare al ballottaggio con Renzi, forse gli converrebbe puntare su elezioni nel tempo più breve possibile, con il sistema proporzionale. Avremmo in tal caso un’unica maggioranza: le larghe intese tra il Pd e Forza Italia. L’ex Cavaliere di Arcore resterebbe sicuramente un padre della Patria e resterebbe al governo per questa e per la futura legislatura.

Debbo dire che non è un bel vedere restare alleati per i prossimi nove anni con un partito fondato e guidato da due pregiudicati. Per lottare contro la corruzione non è certo questa alleanza lo strumento più idoneo.

* * *

C’è ancora un tema che l’attualità ci impone e questo è — finalmente — positivo: l’impegno assunto da Mario Draghi di intervenire a giugno sui mercati europei con una decisa azione anticiclica che avrà lo scopo di combattere i sintomi di deflazione che si stanno manifestando in Europa e allo stesso tempo tentare una riduzione del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro. Attualmente quel tasso di cambio oscilla tra l’1,35 e l’1,40 dollari per un euro. Questo mortifica fortemente le esportazioni europee (e quelle italiane in particolare) verso l’area del dollaro, mentre un ribasso verso l’1,20 sarebbe salutare per rilanciare la domanda e quindi investimenti e occupazione.

Draghi è uno dei pochi personaggi che sta lavorando con una coerenza senza alcuna crepa per un rilancio europeo che passa attraverso l’unificazione bancaria da lui voluta e verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa che dovrebbe essere per le persone responsabili e consapevoli l’obiettivo numero uno di questi anni.

Poiché di Draghi sono amico da molto tempo qualche giorno fa gli ho chiesto se esistesse una sua aspirazione a sostituire Giorgio Napolitano al Quirinale quando il nostro attuale presidente della Repubblica deciderà di lasciare il suo posto (spero il più tardi possibile). Draghi sembra a molti adattissimo a succedergli e gliel’ho detto, ma mi ha risposto con un diniego totale. Non certo perché consideri irrilevante quella carica prestigiosa e faticosa, ma perché il suo obiettivo e quello che considera il suo compito è l’Europa.

Penso che abbia ragione e penso che questo sia un bene anche per noi perché tutti i paesi dell’Eurozona e di tutta l’Unione europea, senza gli Stati Uniti del nostro continente, diventerebbero irrilevanti, senza storia, dopo esserne stati i protagonisti per secoli e addirittura per millenni.

Questo è il bivio di fondo con il quale dobbiamo tutti misurarci. Draghi ne è pienamente consapevole e si comporterà con la sua abituale coerenza.
© Riproduzione riservata 11 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/11/news/se_vogliono_rottamare_il_senato_ci_vuole_la_costituente-85808317/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il 25 maggio bisogna votare per Renzi e per Schulz
Inserito da: Admin - Maggio 18, 2014, 05:34:15 pm
Il 25 maggio bisogna votare per Renzi e per Schulz

Di EUGENIO SCALFARI
18 maggio 2014
   
Da molte settimane, esattamente da quando all'improvviso mise in crisi il governo Letta con un voto quasi unanime della direzione del Pd di cui era (ed è tuttora) il segretario politico, io ho criticato il governo Renzi e soprattutto lui medesimo che accentra nelle sue mani tutto il potere, con una minoranza di sinistra che di fatto si è messa il silenziatore per disturbarlo il meno possibile.

Le ragioni delle mie critiche sono note. Riguardano la legge sul lavoro, la rottura con le organizzazioni sindacali, la legge elettorale, la riforma (di fatto l'abolizione) del Senato e la rivalutazione di Berlusconi. Quest'ultima era forse inevitabile per mandare avanti il programma di riforme, ma in tutte le cose e specialmente in politica c'è modo e modo di ottenere un risultato senza intestarlo con inutile enfasi ad un uomo che per vent'anni ha sgovernato il Paese e - dopo decine di leggi ad personam - è stato finalmente condannato con sentenza definitiva. Un pregiudicato insomma e non un padre della Patria.

Ma la critica maggiore che ho sempre ripetuto al simpaticissimo Matteo Renzi - che sa vendere i suoi "articoli" mirabilmente - è stata quella che, lungi dal risolvere uno per ogni mese a cominciare da subito, i problemi che affliggono il Paese da trent'anni, non avrebbe potuto fare altro che proseguire il programma già impostato da Monti e poi aggiornato e avviato da Letta con i tempi e i passaggi da lui previsti e addirittura, per la sua parte maggiore, già contenuto nella legge di stabilità scritta da Letta con la preziosa collaborazione dell'allora ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni e approvata in via definitiva dal Parlamento.

In effetti le cose sono andate ed andranno così. Ormai a dirlo non è più soltanto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, ma lo stesso Renzi: "Per vedere i risultati ci vorranno un paio d'anni". Noi lo sapevamo, tutti quelli che si occupano dei problemi attuali lo sapevano e Renzi stesso, che è persona di indubbia intelligenza anche se finora la sua sola e breve esperienza politica è stata quella di sindaco, lo sapeva. Ma voleva quel posto subito e perciò ha detto il contrario della verità e il suo partito gli ha creduto. Poi, adesso, la verità è chiara a tutti.

I lettori mi perdoneranno questa lunga ma indispensabile premessa. Indispensabile perché ora debbo infatti dire agli elettori che rappresentano la parte responsabile del Paese e che mi auguro siano una cospicua maggioranza del corpo elettorale, che debbono a mio avviso votare per il Pd e quindi per Matteo Renzi che ne è il leader. Naturalmente il mestiere che faccio mi impone di dimostrare il perché di questa esortazione ed è quanto ora mi accingo a fare.

***

Tra sette giorni da oggi gli europei e quindi anche gli italiani andranno a votare per eleggere i deputati al Parlamento di Strasburgo. La legge con la quale si voterà è proporzionale con una soglia di sbarramento del 4 per cento; chi non la supera resta fuori.

Gli ultimi sondaggi consentiti dalla legge davano Forza Italia in rapida e inarrestabile discesa: rischia un risultato per loro catastrofico.

Grillo è in salita. E molti prevedono che lo scandalo dell'Expo possa farlo ancora crescere: potrebbe avvicinarsi pericolosamente al Pd di Renzi. Le ripercussioni in Europa saranno di una certa gravità ma non catastrofiche. Male che vada i partiti antieuropeisti o euroscettici e contrari all'euro non dovrebbero superare il 30 per cento, anzi le previsioni europee più attendibili li danno più vicini al 20 che al 30.

Si profila come possibile un'alleanza a Strasburgo dei popolari con i socialdemocratici, già più volte avvenuta. Da questo punto di vista dunque non ci dovrebbero essere temibili ribaltoni salvo un punto tutt'altro che trascurabile: questa volta la nomina del presidente della Commissione europea (che è poi l'organo di governo della Ue) spetta al Parlamento e non più al Consiglio dei primi ministri dell'Unione. Si tratta di un passo avanti estremamente importante nella faticosa (e troppo lenta) costruzione dell'Europa federale. Se i popolari prevalessero sia pur di poco sui socialdemocratici, il presidente non sarebbe il socialdemocratico Schulz ma un altro scelto dai popolari che non ne hanno ancora detto il nome. Forse non un tedesco (Schulz invece è tedesco ma non gradito alla Merkel e alla Cdu-Csu) ma un democristiano. È pur vero che a Berlino c'è ora un governo di grandi intese tra democristiani e socialdemocratici, ma il Cancelliere con i poteri del cancellierato è Angela Merkel.

Insomma, l'esito delle elezioni europee e quindi la scelta del nuovo presidente della Commissione Ue, dipende dal voto del 25 maggio. Di tutti i partiti italiani in lizza il solo che ha assicurato di votare Schulz è il Pd di Renzi. Non ci fossero altri motivi (e ci sono e li vedremo tra poco) gli italiani responsabili che vogliono veder progredire l'Unione Europea verso uno Stato federale non hanno altra scelta che votare per il Pd.

***

Prima di lasciare il tema europeo ci sono tuttavia altre importanti considerazioni da aggiungere. Ne ha già parlato con dovizia di notizia di argomenti Bernardo Valli nel suo articolo di venerdì scorso. Ne ho parlato anch'io nell'ultimo numero dell'Espresso recensendo un pregevole libro del germanista Angelo Bolaffi dal titolo Cuore tedesco. Ma vale la pena di parlarne ancora sia pur brevemente.

Che la Germania, dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione dell'Est con l'Ovest, sia di nuovo diventata la potenza egemone al centro dell'Europa è fuori di ogni dubbio e chiudere gli occhi a questa realtà sarebbe comportarsi peggio di uno struzzo.

Ma è la stessa Germania ad essere piena di incertezze e profondamente divisa al proprio interno sulle iniziative da prendere. Direi che ogni tedesco, ogni famiglia, ogni ceto ed ogni azienda tedeschi sono diversi dentro di loro e lo è altrettanto la stessa Merkel.

La conseguenza (deleteria) è che l'incertezza tedesca si riflette inevitabilmente sulle istituzioni europee. Esse sono e si sentono dominate dalla Germania la quale le guida per interposte persone. I tedeschi occupano nell'Unione una serie di strutture operative ma nei posti di vertice appaiono assai poco. Dominano le strutture ma non le rappresentano verso l'esterno.

Si aggiunga a questa situazione le posizioni della Gran Bretagna, che è fuori dall'euro ed euroscettica, della Polonia anch'essa fuori dall'euro e della Francia che è un caso a parte.

La Francia è l'altra grande potenza europea e la Comunità europea prima e l'Unione poi sono nate perché Francia e Germania decisero 60 anni fa di scrivere la parola fine sui loro contrasti secolari e imboccare la via non della tregua ma della pace. La Francia però, finora, si è trincerata dietro la sua storica ma non più attuale, grandeur e non contempla finora un'Europa veramente federale. Vuole che l'Ue resti una confederazione di Stati sovrani con qualche sobria cessione di sovranità. In questa fase tuttavia sta attraversando una crisi economica non molto dissimile dalla nostra. Se continuerà così avrà bisogno che la Germania allenti le briglie dell'austerity e la Germania, di fronte ad una richiesta proveniente da Parigi, non potrà rifiutarsi.

Non potrebbe neppure rifiutarsi se i movimenti anti-europei e anti-euro diventassero una forte minoranza al Parlamento di Strasburgo e nella stessa Germania.

Infine c'è ed opera con coerente fermezza la Bce guidata da Draghi, la sola istituzione finora che sia realmente sovranazionale rispetto alla confederazione degli Stati europei.

Se in questa situazione così complessa e fragile fosse Schulz a guidare la Commissione di Bruxelles, l'Europa potrebbe compiere un passo avanti decisivo e forse la Germania uscirebbe dalla sua incertezza. Schulz alla guida della Commissione sarebbe il primo tedesco al governo dell'Europa ed è il più dichiaratamente europeista ed interventista, politicamente ed economicamente, dei tedeschi. Questo è dunque il significato del 25 maggio. Tenetelo ben presente quando andremo alle urne.

***

Infine c'è il significato di politica interna delle elezioni imminenti. Se il Pd riuscisse ad ottenere almeno 5 punti sopra il movimento grillino, l'affermazione di quest'ultimo sarà stata certamente notevole ma quella del Pd altrettanto. In una situazione di quel genere Renzi avrà interesse a governare fino alla scadenza naturale della legislatura puntando sul rafforzamento del suo governo (che oggi forte non è) e facendo il possibile perché il partito di Alfano faccia breccia nel fronte moderato. Quanto al Pd dovrà essere un perno centrale tra una destra moderata ed europeista e la sinistra di Vendola ma anche, con gli opportuni distinguo, dei Zagrebelsky e dei Rodotà.

Un grande partito democratico deve avere una sua destra e una sua sinistra ed alcune neutralità possibilmente amichevoli di forze sociali che sono anche canali di consenso.

Si porrà anche, ad un certo punto, il problema del Quirinale già preannunciato da Giorgio Napolitano. Ci sono vari possibili e validi candidati anche se sarà difficile che sappiano emulare il Presidente uscente. Personalmente ho un'idea chiara in proposito ma dirla ora significherebbe soltanto bruciarla. C'è ancora tempo ma a quel punto è sperabile che la candidatura quale che sia venga accettata dalle Camere rapidamente. Il Quirinale è la più alta magistratura e personifica lo Stato. Gli italiani amano poco lo Stato ed esso ha fatto complessivamente assai poco per essere amato. Questo sarà il compito del futuro: uno Stato amato, un'Europa federale che sia competitiva sui grandi temi nella società globale. L'Europa è stata la culla dell'Occidente; i diritti dell'uomo e del cittadino sono nati qui e mai come oggi il mondo ha bisogno di conoscerli e di applicarli.

Buona vita e buona fortuna.

© Riproduzione riservata 18 maggio 2014

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/18/news/votare_per_renzi_e_schulz-86440210/?ref=HRER2-1


Titolo: SCALFARI. Per fortuna Renzi ha vinto ma ci sono altri esami da superare
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 04:30:27 pm
Per fortuna Renzi ha vinto ma ci sono altri esami da superare

Di EUGENIO SCALFARI
01 giugno 2014
   
SPERAVO che Renzi vincesse le elezioni europee ed anche le amministrative abbinate ad esse in due Regioni e in migliaia di Comuni sparsi in tutta Italia. Lo speravo e l’ho scritto nelle ultime due domeniche suscitando una certa sorpresa in molti miei amici e lettori che conoscevano la mia diffidenza nei suoi confronti. Ho spiegato le ragioni di quella scelta: il pericolo per la democrazia italiana e per l’Europa era Grillo e Renzi era il solo che potesse batterlo; i sondaggi li davano testa a testa e i più ottimisti tra noi avrebbero sottoscritto a due mani una sua vittoria anche con quattro o cinque punti di vantaggio, ma nessuno, neanche lui, credeva che lo scarto sarebbe stato di venti punti, esattamente il doppio. Impensabile: il Pd al 41 per cento dei votanti, il più forte partito europeo eletto col sistema proporzionale senza un premio di maggioranza che rafforzasse il vincitore.

Sono stato e sono contento. A parte la Democrazia cristiana di De Gasperi e di Fanfani, nessuno era arrivato a quel livello. Se guardiamo alle cifre assolute anziché alle percentuali, il Pd alla sua prima uscita elettorale guidato da Veltroni aveva avuto anche più voti di domenica scorsa: con il 34 per cento aveva incassato 12 milioni di voti, Renzi ne ha avuti 11 milioni. Ma Berlusconi ne prese allora molti di più. Queste comunque sono le cifre e bisogna rifletterci sopra studiando i flussi che hanno prodotto questo risultato.

Dunque: tutti i partiti hanno perso voti sia in rapporto agli elettori con diritto di voto sia agli elettori andati alle urne, facendo il paragone con le politiche dello scorso febbraio.

Tutti hanno perso voti tranne il Pd. Ma da che parte sono venuti i consensi che hanno determinato il successo? Da Forza Italia non più di 300mila; da 5 Stelle 400mila. Poca roba. Dai residui del centrismo montiano circa un milione. Ma due milioni sono arrivati da ex democratici che alle elezioni di febbraio si erano rifugiati nell’astensione perché non credevano più nel loro partito allora guidato da Bersani. Domenica scorsa hanno capito la gravità della situazione e sono tornati a casa. Succede di rado e il merito di Renzi è stato questo, ha recuperato i democratici scoraggiati e arrabbiati. È difficile capire se fossero democratici moderati o di sinistra. Probabilmente dell’uno e dell’altro colore, è un partito plurale e questa è la sua forza.

Luciana Castellina sul Manifesto di qualche giorno fa ha scritto che il Pd somiglia molto al partito democratico americano dove la sinistra “liberal” convive con molti gruppi decisamente conservatori specie negli Stati del sud. Ha ragione, anche se il Pd americano ha un’impronta decisamente innovatrice e progressista. Del resto un’analoga convivenza di segno opposto avviene nel partito repubblicano.

Un’altra caratteristica di quei partiti è che si identificano in un leader carismatico che, in caso di vittoria, diventa presidente e leader di tutto il paese.

Sullo stesso Manifesto un personaggio di sinistra come Alberto Asor Rosa aveva dichiarato il suo favore a votare Renzi. Un altro esponente della sinistra storica del Pci, Alfredo Reichlin, ha scritto ad elezioni avvenute che la vittoria di Renzi è un fatto positivo e l’ha incitato a fare del Pd il partito della Nazione e dell’Europa; Renzi lo ha citato nelle prime righe della relazione letta alla direzione del partito dopo la vittoria.

Cito alcuni di questi interventi perché rappresentano la complessità della situazione. Siamo uno dei paesi europei che la crisi in corso ormai da sei anni ha devastato economicamente e socialmente suscitando negli italiani e specialmente nei giovani frustrazione e rabbia. Potevano incanalarsi verso una disperazione distruttiva oppure verso una speranza costruttiva. Hanno scelto la seconda. Per questo oggi siamo contenti. Una notevole massa di italiani si è dimostrata all’altezza della situazione. Ma il bello, anzi il difficile, viene adesso. Per Renzi, per l’Italia, per l’Europa. Ed anche per noi che di mestiere siamo testimoni del tempo che passa.

* * *
Un difetto di quelli che aspirano alla leadership (di un partito, di un’azienda, di un paese) spesso è l’arroganza. Un altro possibile difetto è la demagogia. Sono difetti abbastanza diffusi in chi ricava soddisfazione dal guidare gli altri e Narciso è il personaggio mitologico che meglio li rappresenta.

I leader di questa fatta sarebbe meglio evitarli, ma è frequente il caso, specie nella storia d’Italia, che siano proprio loro i preferiti. Sanno sedurre e noi siamo un popolo che ama esser sedotto. Talvolta ne ricava anche qualche vantaggio personale perché ci sono molti furbi tra noi. Molti furbi e poco intelligenti nel senso dell’intelligere.

Renzi una dose di narcisismo ce l’ha. Anche Grillo. Berlusconi non ne parliamo. Renzi però ha anche un innato senso della politica, cioè una visione del bene comune. Se quella prevale, Narciso viene richiuso da qualche parte e fa meno danni. Ogni tanto emerge, ma questo è normale ed è anche utile entro certi limiti. Se tutti riuscissimo ad anteporre il bene comune all’amore verso noi stessi che peraltro è legittimo, il mondo andrebbe di colpo assai meglio. Purtroppo non è così e siamo quasi tutti i giorni alla prova in questo difficilissimo confronto.

Anche Renzi e il suo partito sono alla prova. Direi su due punti. Il primo è l’essenza stessa del partito, nato come riformista ed erede della sinistra democratica. Renzi oltre che presidente del Consiglio è anche segretario del partito, ma ha bisogno per ovvie ragioni di delegare a qualcuno il compito di accudire il partito. Con quale obiettivo? Che non sia – come invece si sta profilando – un partito personale di Matteo Renzi. Forza Italia è un partito personale, i 5 Stelle sono un partito personale anche se qualche fremito per liberarsi dalla servitù al binomio Grillo-Casaleggio si avverte, ma è provocato da una sconfitta. Molto più difficile che ciò avvenga dopo una vittoria di inconsuete proporzioni. Eppure è necessario, altrimenti ci sarà un mutamento antropologico e non più una sinistra democratica.

Ho letto ieri sulla Stampa un’intervista che Renzi ha dato ad un gruppo di giornalisti. Ha detto varie cose di comune buonsenso già note al pubblico italiano, ma ne ha detta una che mi ha colpito: «Vorrei lasciare a mia figlia che sarà maggiorenne tra dieci anni un paese tranquillo e felice». Tra dieci anni? Due legislature? Ha ragione di augurarselo, Renzi, se avrà a sostenerlo un partito che lo giudichi per quel che fa o non fa, se lo fa bene o lo fa male; lo premi se il giudizio è positivo e lo sostituisca se è negativo.

Quindi deve delegare a qualcuno il compito di restituire il partito a se stesso. Di questo qualcuno si deve poter fidare, ma non può essere qualcuno dei suoi pulcini di antica o di recente covata. Deve fidarsi della sua onestà politica e intellettuale purché non sia della covata, altrimenti sarebbe del tutto inutile.

* * *
L’altra questione, di cui ho già più volte parlato, è la riforma del Senato. Ne riparlo dopo aver letto i contributi al seminario cui furono invitati dallo stesso Renzi: Elena Cattaneo, senatrice a vita, Gustavo Zagrebelsky e Alessandro Pace. Ho letto anche nel frattempo la legge che istituì il Bundesrat che è il Senato dei Lander della Germania e quella che rimodernò da cima a fondo la Camera dei Lords, varata nel 1999 da Tony Blair allora premier del Regno Unito.

Ne ho tratto le seguenti conclusioni. Il Senato delle autonomie voluto da Renzi con apposita legge costituzionale che dovrebbe andare tra pochi giorni in discussione all’attuale Senato è a mio avviso una riforma profondamente sbagliata. In Germania i Lander hanno una radice storica, sono di fatto gli antichi regni della Germania confederata: la Renania, la Vestfalia, le città Anseatiche, la Sassonia, il Brandeburgo, la Baviera. I Lander hanno una storia secolare e spetta al Bundesrat controllarli e al tempo stesso rappresentarli.

In Italia questo problema è di tutt’altra forma. Le nostre Regioni sono istituzioni amministrative e la loro autonomia è amministrativa. I Comuni, quelli sì, hanno una storia e rivalità tuttora molto accese tra loro e più vicini sono più le rivalità aumentano.

Un Senato che si occupi di questi Enti locali, ne controlli l’efficienza e le modalità con cui operano e ne arbitri i conflitti tra loro e con lo Stato e adempia soltanto a questa funzione e a pochissime altre (la nomina di due giudici costituzionali e l’intervento al plenum che elegge il Capo dello Stato) equivale all’instaurazione di un potere legislativo monocamerale. Ciò comporterebbe una serie di riforme costituzionali, per ripristinare un equilibrio democratico, che non possono essere effettuate con l’articolo 138 della Costituzione. Richiederebbe, secondo me, una Assemblea costituente. Vi sembra possibile nei tempi attuali un fatto del genere? La Camera dei Lords è tutt’altra cosa. I Lords sono nominati a vita dalla Corona su proposta del premier. Non ha molti poteri. Anzi, quasi nessuno. La Camera dei Comuni le trasmette le leggi affinché le valuti, le approvi, le modifichi o le respinga. Di solito le approva. Se le modifica, di solito i Comuni accettano. Se le respinge, i Comuni le mantengono in vita e l’approvano con votazione definitiva. Ma la Camera dei Lords emette pareri su qualunque argomento che ritenga importante ed affronti problemi delicati e attuali sui quali governo e Comuni dovrebbero intervenire. I Lords sono nominati perché rappresentano delle vere e proprie “eccellenze” nei campi della cultura, medicina, scienza, tecnologia, musica, arte, urbanistica. Insomma. la società civile al suo massimo livello. I suoi pareri sono molto ascoltati e assai spesso Governi, Comuni e organizzazioni private intervengono come i Lords hanno auspicato. Questo tipo di Camera alta va considerata con molta attenzione.

Sarebbe nominata nel caso nostro dal Capo dello Stato e basata su rose di nomi proposte da Accademie, Università, parti sociali variamente scelte e indicate da una legge di riforma dell’attuale Senato della Repubblica che comunque dovrebbe continuare a chiamarsi così. Insomma, e per concludere, o si abolisce il Senato e si crea un organo che si occupi degli Enti locali, o si riforma la Camera alta lasciando che alta rimanga, partecipe delle funzioni del potere legislativo salvo quello di dare la fiducia al governo e di votare la legge di bilancio.
Vedremo Renzi alla prova, ma fretta non c’è perché per parecchi mesi avrà molto da fare in Italia e in Europa e lui lo sa. Deve puntare sul lavoro e la creazione di nuova occupazione, e deve puntare su un’Europa che consenta maggiore flessibilità finanziaria ai paesi che ne hanno bisogno e in prospettiva divenga uno Stato federale.

Per ora il Senato se lo tenga com’è e si limiti a togliergli il potere di fiducia al governo e basta così.
© Riproduzione riservata 01 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/01/news/per_fortuna_renzi_ha_vinto_ma_ci_sono_altri_esami_da_superare-87784285/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI: "Matteo Renzi non faccia il Narciso e riformi il Pd.
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2014, 07:20:51 pm
Eugenio Scalfari: "Matteo Renzi non faccia il Narciso e riformi il Pd.
Lo affidi a uno come Fabrizio Barca"

L'Huffington Post

Pubblicato: 01/06/2014 15:18 CEST Aggiornato: 01/06/2014 15:33 CEST
EUGENIO SCALFARI

Per Matteo Renzi, ora, una delle sfide più importanti è la riforma del Partito Democratico. Ne è convinto Eugenio Scalfari, che in un’intervista a In Mezz’Ora su RaiTre riflette sul successo elettorale del presidente del Consiglio e sulle sue conseguenze sulla vita democratica del paese. Il rischio, secondo il fondatore di Repubblica, è di far cadere il Pd nel solco dei partiti leaderistici – come Forza Italia, che è sempre stato il partito di Berlusconi, e il Movimento Cinque Stelle, che si è formato come il partito di Beppe Grillo. “Se oggi si dice che il Partito Democratico è il partito di Renzi, si commette un errore enorme”, spiega Scalfari.

Il consiglio a Renzi, dunque, è di far prevalere il senso del “bene comune” su quel “Narciso” che in una certa misura è presente in ogni leader politico. In che modo? “Se non vuole cedere il posto di segretario – riflette Scalfari – può nominare un presidente o un delegato, una persona che si occupi del partito e che faccia in modo che il partito si riappropri di se stesso. Non necessariamente uno della vecchia guardia, anche una persona giovane, ma esperta…”.

“Tanto per fare un nome a caso – aggiunge l’editorialista – uno come Fabrizio Barca. Abbastanza giovane sì, ma con la solidità e l’esperienza necessarie […] Sempre che Renzi la voglia, una figura come questa. Bisogna invece vedere se preferisce mandare un pulcino della sua covata”. Anche in questo caso, Scalfari non si risparmia i nomi. Il suo prototipo di “pulcino”? “La governatrice del Friuli Venezia Giulia (Debora Serracchiani, ndr) “che è una che parla, ma solo perché Renzi le dice quello che deve dire”.

Secondo Scalfari, il Pd ha la fortuna di aver canalizzato la rabbia del paese in un filone di speranza, invece che nel ‘distruggiamo tutto e tutti’ di Beppe Grillo. “Il buon senso ha coinciso con il senso comune – spiega il fondatore di Repubblica – e quando questo accade è una dinamite, è un elemento propulsivo. Se Renzi lo capisce, sa che la rinascita del partito è una priorità fondamentale. Deve trovare la forza intellettuale per capire che così non va bene. La sinistra democratica e riformatrice deve essere rappresentata da un partito plurale e forte”.

Il presidente del Consiglio - aggiunge Scalfari - deve anche riconoscere che alcuni cambiamenti "erano già sulla rampa di lancio del governo Letta". "Renzi ha il merito di aver acceso i motori, che non è cosa da poco. In un certo senso, il suo successo è il successo della linea di Napolitano". Attenzione, insomma, a non specchiarsi troppo nella propria immagine riflessa: Narciso, lo ricordiamo tutti, ha fatto una brutta fine.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2014/06/01/eugenio-scalfari-matteo-renzi-non-faccia-il-narciso_n_5426875.html?utm_hp_ref=mostpopular,italia-politica


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "La corruzione è un peccato del mondo" mi ha detto Francesco
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2014, 11:22:30 am
"La corruzione è un peccato del mondo" mi ha detto Francesco

Quando lo scandalo del malaffare emerge il reato è già stato consumato.
Il lavoro preventivo può evitare che sia commesso


Di EUGENIO SCALFARI
   
In un colloquio che avemmo lo scorso mese di marzo, parlando del peccato Papa Francesco mi disse la frase che qui riferisco letteralmente: "I peccati del mondo sono l'ingiustizia e la prevaricazione. Io li chiamo concupiscenza, cupidigia di potere, desiderio di possesso. Questi sono i peccati del mondo e dobbiamo combatterli con tutte le forze di cui disponiamo".

Questi peccati indicati da Papa Francesco si servono di alcuni strumenti per esser commessi, il principale dei quali si chiama corruzione. Si tratta certamente di peccati del mondo ma in Italia sono più diffusi che altrove, anche se non sempre vengono a galla.

Vent'anni fa scoppiò lo scandalo che fu chiamato Tangentopoli. Sembrava che fosse riuscito a bonificare la palude della corruttela pubblica, i suoi miasmi e il malaffare che ne derivava. I partiti più implicati e gli imprenditori più compromessi furono travolti. Tutto era cominciato nel 1992 e fu sull'onda del malcontento popolare abilmente cavalcato che ebbe inizio il berlusconismo. Certo non volevano questo i magistrati che avevano sperato d'aver liquidato il malaffare, ma sta di fatto che il frutto che uscì da Tangentopoli era ancor più velenoso di quelli che c'erano stati prima.

La differenza - se questa parola vogliamo usarla - consiste nel fatto che all'epoca di Tangentopoli lo scandalo consisteva almeno per il 70 per cento in denari trafugati per finanziare i partiti e solo il 30 (e forse anche meno) finiva nelle tasche dei mediatori.

Col berlusconismo le cose cambiarono e la refurtiva finì interamente in tasche private. Moralmente si tratta di una differenza assai poco percettibile ma comunque oggi è peggio di ieri. Quelli che allora erano i mediatori, gli affaristi, gli intermediari in tasca ai quali finivano gli spiccioli adesso lavorano in proprio col potente di turno. Si sono formate lobby delinquenziali, mafie d'alto bordo e le abbiamo viste al lavoro nella (mancata) ricostruzione de L'Aquila, nella scandalosa gestione della Protezione Civile di Bertolaso e soci, negli appalti all'isola della Maddalena, nell'Expo di Milano e infine, proprio in questi giorni, nella più bella e più pestilenziale laguna del mondo. Lo scandalo del Mose è probabilmente il più eclatante, non tanto per l'ammontare delle cifre che pur sono assai consistenti, ma sicuramente per la quantità e la qualità delle persone coinvolte. Ci sono, come hanno scritto nei giorni scorsi i nostri inviati, squali, piranha e pesci piccoli. Sono compromessi il sindaco della città, gli azionisti del consorzio Venezia Nuova che è l'unico concessionario dell'opera, il direttore generale del predetto consorzio, un generale che fu comandante della Guardia di Finanza e perfino - perfino - il magistrato della Corte dei Conti distaccato in quella città. Il partito più rappresentato in questa schiera di corrotti-corruttori è, ovviamente, Forza Italia e Galan che fu tra i fondatori scelto per il Veneto - vedi caso - da Dell'Utri; ma anche il Pd è nel novero perché il sindaco non è un iscritto al partito ma la sua lista fu sponsorizzata dai democratici. Era molto stimato dal Patriarca che infatti lo aveva insignito del titolo onorifico di Procuratore di San Marco. Che volete di più?

****

La corruzione in quanto reato si combatte in tre modi e in tre momenti distinti: la prevenzione, l'inchiesta, la punizione dei colpevoli, esattamente come si combattono tutte le malattie. L'altra sera l'ex procuratore di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, ha lamentato, nel corso della trasmissione "Otto e mezzo" l'assoluta mancanza di prevenzione. Non esiste ancora una vera ed efficace legge contro la corruzione, sono state anzi varate in questi anni le turpi leggi ad personam che sono uno dei frutti devastanti del berlusconismo ed hanno abolito il reato di falso in bilancio, ridotto il periodo di prescrizione, non istituito il reato di riciclaggio e via numerando; leggi che non solo non contrastano ma facilitano e incentivano la corruzione. Massimo Giannini, su questo giornale di giovedì scorso, ha esaminato dettagliatamente la mancanza di prevenzione e le cause imperdonabili del ritardo dei governi; berlusconiani prima e post-berlusconiani poi, ma pur sempre condizionati dalle "larghe intese" e perfino dalle "piccole intese" succedute (o affiancate) alle precedenti. Evidentemente non è chiaro l'ordine di priorità dei provvedimenti dei quali il nostro paese ha maggior bisogno. Sono: la creazione di nuovi posti lavoro, l'incentivazione di nuovi investimenti, un moderno sistema di ammortizzatori sociali, la prevenzione della corruzione.

Tutto il resto viene dopo perché non serve né a rilanciare la crescita né ad attutire la rabbia sociale. Quando lo scandalo del malaffare emerge i fatti ovviamente sono già avvenuti, le Procure e i giudici operano quando il reato è già stato consumato. È il lavoro preventivo che può evitare che sia commesso, un deterrente ben studiato e ben formulato in norme di legge. Qualche tentativo fu fatto ma venne stravolto in Parlamento e i governi non seppero impedirlo perché i sabotatori erano inseriti nei posti di comando e impedivano che i motori venissero accesi come si sarebbe dovuto fare.

Urge che un intervento decisivo venga immediatamente effettuato con priorità assoluta se non si vuole resuscitare un grillismo mettendo di nuovo in gioco la democrazia che è uscita rafforzata dalle recenti elezioni europee.

****

Se le cose vanno in questo modo forse è necessario allargare un poco il nostro quadro mentale; forse non basta parlare di governi e di parlamenti insidiati da contrasti interni e di insufficiente o addirittura mancante lavoro di prevenzione; forse bisogna parlare del cosiddetto popolo sovrano.

Quasi il 40 per cento del nostro popolo sovrano si è astenuto dal voto nelle ultime elezioni. Il 20 o anche il 30 per cento di astensione è fisiologico, ma al di là di questo limite no, saremmo e siamo davanti a un evento che va guardato con attenzione.

Se poi osserviamo i votanti che scelgono movimenti e partiti e leader populisti, cioè demagoghi che promettono e non mantengono o addirittura fanno il contrario di ciò che a parole hanno promesso, allora è segno che quel popolo sovrano ha abdicato dalle sue funzioni. Del resto nella terminologia dell'economichese anche il debito pubblico si chiama sovrano. Popolo sovrano, debito sovrano: non vi sembra un gioco da bambini in cerca di sciarade?

Purtroppo è una dura e cruda verità. Questa mattina a Napoli dove mi trovo al festival della Repubblica delle Idee, discuterò anche di queste questioni con Roberto Benigni. Francamente non potrei trovare un interlocutore più adatto: Benigni è un comico di eccezionale cultura, che mette la sua comicità a servizio della conoscenza e proprio per questo avrò (e avranno quelli che lo ascolteranno) molto da imparare da lui.

Lo anticipo con dei versi d'un poeta - Trilussa - che anche lui metteva il cosiddetto popolo sovrano allo specchio affinché si guardasse e si emendasse se possibile. Di questi versi avevo già parlato tempo fa, ma ora trascrivo il brano finale della poesia (romanesca) intitolata "L'incontro tra li sovrani". Mi sembra quanto mai attuale. Leggete, divertitevi ed emendatevi se c'è bisogno di farlo.

"Stai bene? Grazzie. E te?
e la Reggina? Allatta.
E er Principino? Succhia.
E er popolo? Se gratta.
E er resto? Va da sé...
Benissimo! Benone!
La Patria sta stranquilla;
annamo a colazzione...
E er popolo lontano,
rimasto su la riva,
magna le nocchie e strilla:
Evviva, evviva, evviva...
E guarda la fregata
sur mare che sfavilla".

© Riproduzione riservata 08 giugno 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/08/news/corruzione_peccato_del_mondo-88358884/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il pifferaio magico fa miracoli e prende cantonate
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2014, 07:37:17 pm
Il pifferaio magico fa miracoli e prende cantonate
Di EUGENIO SCALFARI

15 giugno 2014
   
Il pifferaio magico di Hamelin è il protagonista di una celebre favola tedesca, anzi per l'esattezza transilvana, immortalata dai fratelli Grimm. Quando aveva scelto chi desiderava che lo amasse e lo seguisse suonava il suo piffero e le turbe affascinate, ammaliate e stregate gli andavano appresso. A volte lo faceva con buone intenzioni come quando i cittadini di Hamelin gli chiesero di stanare i topi che infestavano la città e lui suonò il suo magico strumento e li condusse fin dentro a un fiume dove i topi annegarono tutti. Altre volte invece le intenzioni erano a suo profitto: portò tutti i bambini di Hamelin in una caverna e disse alle famiglie di quel paese di pagargli il riscatto per liberarli. Forse i bambini si divertivano con lui ma i genitori li volevano indietro e li riebbero dopo averlo pagato.

Di pifferai magici l'Italia ne ha avuti più d'uno. Siamo un Paese che è molto sensibile al pifferaio e dove ci sono molti topi da stanare e tanti bambini da sequestrare. Adesso di pifferai ne abbiamo contemporaneamente tre: uno è piuttosto avanti con gli anni e il suo piffero è alquanto stonato; un altro lo strumento non ce l'ha e lo sostituisce con le urla e gli insulti contro il governo di Hamelin; i bambini si divertono a sentirlo urlare e parecchi gli vanno dietro anche se da qualche mese danno segnali di noia alle continue urla che li rintronano.

Il terzo è perfetto, suona meravigliosamente bene, diverte, interessa, piace. È arrivato da poco ma era molto atteso non solo dai bambini ma anche da molti adulti. Perfino l'Europa ce lo invidia.

Pensate che piace perfino alla Merkel e addirittura all'inglese Cameron e al francese Hollande. Evidentemente suona il suo piffero anche a Bruxelles ma lì la faccenda è più complicata. Lui comunque ci prova. E poiché ha una grande fiducia in sé è andato a suonare perfino a Mosca e a Pechino.

In sua assenza però sono accadute alcune perturbazioni ad Hamelin: qualche giorno fa una cinquantina di parlamentari ha votato contro nel segreto delle urne; l'indomani un rompiscatole di professione senatore, ha inscenato una protesta a cielo aperto con altri 13 colleghi. Tutti e due sono brutti segnali e il pifferaio è rientrato in tutta fretta dalla Cina. Stavolta però non ha preso il piffero ma un nodoso bastone. Nei prossimi giorni si vedrà come andrà a finire. La favola dei fratelli Grimm termina qui.

***

Personalmente i pifferai mi piacciono poco ma talvolta servono e lavorano a fin di bene; se ne può avere molto bisogno se mancano alternative migliori.

Nel caso dei 50 franchi tiratori Matteo Renzi ha pienamente ragione. Si votava nell'aula della Camera una legge di riforma della giustizia e c'era un emendamento del partito di Berlusconi che voleva instaurare la responsabilità civile personale dei magistrati per gli errori che possono commettere emanando sentenze o ordinanze esecutive. L'imputato o il condannato che si sente innocente e quindi ingiustamente sospettato o punito può, secondo l'emendamento in discussione, chiamare il magistrato a risponderne dinanzi a un altro. Dunque un processo contro il processo: logica eminentemente berlusconiana.

La legge in vigore non prevede questa ipotesi: la persona che sia convinta della propria innocenza non può attaccare direttamente il magistrato ma può rivalersi nei confronti dello Stato. Spetterà poi allo Stato, cioè al ministro della Giustizia, rivalersi sul magistrato se avrà indizi di colpevolezza. Naturalmente passando attraverso un comitato di disciplina che delibera in proposito.

La motivazione di questa norma che pone lo Stato come intercapedine tra il cittadino e il magistrato è pienamente condivisibile: se non ci fosse quell'intercapedine i processi diretti tra cittadini e magistrati sarebbero continui e influirebbero sulla giurisdizione intimidendo la magistratura e violando la Costituzione che ne riconosce la totale indipendenza. Quindi chi ha sostenuto e votato contro quell'indipendenza ha sbagliato e in particolare hanno sbagliato i franchi tiratori del Pd. Resta comunque il fatto che il Senato correggerà quell'errore. Renzi si dice sicuro che questo avvenga. Speriamo che sia così ma osserviamo, come molti commentatori hanno già fatto prima di noi, che l'errore della Camera sarà corretto dal Senato che però lo stesso Renzi vuole abolire. Dove è la logica? Non c'è. Se e quando il Senato fosse abolito e la Camera sbagliasse, nessun altro organo potrebbe emendare l'errore. È evidente che così non va bene.

***

L'altro caso che ha come protagonista Corradino Mineo e altri 13 senatori del Pd che si sono autosospesi dal partito e tra i quali si annoverano nomi illustri come Chiti e Mucchetti, è del tutto diverso dal precedente. Riguarda la riforma del Senato, di fatto la sua abolizione come seconda Camera del potere legislativo.
Nel progetto Renzi il Senato dovrebbe occuparsi soltanto degli Enti territoriali, della legislazione di loro competenza e degli eventuali conflitti dei suddetti Enti nei confronti dello Stato centrale. La loro elezione non avverrebbe direttamente ma in secondo grado, avendo come elettori i Consigli delle Regioni e dei Comuni. Di fatto si instaurerebbe un sistema monocamerale opportunamente rafforzato per quanto riguarda il potere esecutivo (cioè il governo) e notevolmente indebolito per quanto riguarda il potere legislativo.

Qualche cosa di simile avviene con il Cancellierato tedesco e la premiership inglese con la differenza - non da poco - che le leggi elettorali in quei Paesi sono basate in gran parte in Germania e totalmente in Gran Bretagna su collegi uninominali.

Si sostiene da parte governativa che la Camera dei deputati avrebbe una solida maggioranza e controllerebbe a vista l'operato del governo al quale, in qualunque momento, potrebbe togliere la fiducia. Ma - a parte che in quel caso si dovrebbe inevitabilmente andare a nuove elezioni con tutte le difficoltà che ciò comporta - si ritorna alla presenza di un pifferaio d'eccezionale bravura, sicché non è il governo a dipendere dalla Camera ma esattamente il contrario. Il governo pertanto sarebbe sicuramente autorevole e altrettanto sicuramente autoritario. Ne deduco, nell'interesse della democrazia parlamentare, che in questo caso dalla parte della ragione ci sono i 14 senatori autosospesi i quali hanno anche dalla loro l'articolo della Costituzione che esonera ogni membro del Parlamento dal vincolo di mandato. Certo un partito può espellere chiunque - parlamentare o no - si renda colpevole di scorrettezze etico-politiche, ma certo non chi si avvale di un diritto sancito dalla Costituzione. Il capogruppo del Senato Luigi Zanda, queste cose le sa. Lo conosco e lo stimo da almeno 35 anni e sarei stupito e deluso se questi diritti non fossero tutelati.

Nel frattempo l'Assemblea del Pd, su proposta di Renzi, ha eletto presidente del partito Matteo Orfini, capo della piccola corrente chiamata dei Giovani Turchi. Zingaretti, che sembrava in "pole position" per quella carica, se ne è scartato avendo capito che per lui non c'era spazio. Ma chi erano storicamente i Giovani Turchi? Erano giovani ufficiali che appoggiavano il laicismo di Ataturk contro l'islamismo dei califfi e dei sultani. Francamente non vedo somiglianze tra i giovani ufficiali di Ataturk e i seguaci di Orfini, ma posso sbagliare, chissà quante sorprese positive ci darà Orfini. Prima di lui c'era la Bindi e lei sì, qualche buona sorpresa ce la dette. Poi fu rottamata.

Plaudo invece di gran cuore a Renzi quando ha esortato il partito a tirar fuori tutti gli scheletri che possono esserci negli armadi del Nazareno. Su questo tema il pifferaio ha suonato molto bene e speriamo sia seguito.

***

Poche parole sull'Europa e le nomine che si debbono fare: la nuova Commissione, i commissari, cioè il governo dell'Unione, e il presidente europeo, attualmente Van Rompuy che dovrà esser sostituito nella carica che dura una legislatura.

Ho letto l'altro ieri il discorso di Cameron contro la candidatura di Juncker proposto come presidente della Commissione dal Ppe che ha superato di qualche voto il Pse che aveva Schulz come candidato.

Cameron non sceglie tra l'uno e l'altro e tantomeno indica altri nomi, ma contesta interamente la sovranità del Parlamento europeo. Non la riconosce. La sovranità, secondo il premier inglese, sta soltanto nei governi dell'Unione. Il Parlamento è per Cameron un organo figurativo che collabora con pareri ma senza poteri alla Confederazione europea. Non si può trasformare in un potere legislativo vero e proprio; soltanto i governi di comune e unanime parere, potrebbero riconoscergli questa sovranità.

Da questo punto di vista i conservatori inglesi guidati da Cameron sono su posizioni quasi identiche a quelle della Le Pen e della Lega Nord di Salvini. Questa concezione è aberrante e dovrebbe essere denunciata dagli europeisti e dai governi che a quegli ideali si ispirano, tra i quali da sempre c'è il governo italiano. Tuttavia una parola di Renzi in proposito non si è sentita. È vero che è in tutt'altre faccende europee affaccendato e giustamente: la crescita, la flessibilità economica, gli investimenti europei. Ma è vero anche che pochi giorni fa il Pd ha stipulato un accordo con la Lega per una revisione del Capitolo V della Costituzione in senso leghista e quindi esattamente il contrario del progetto iniziale di riforma fin qui annunciato.

Berlusconi sarà felice: nell'accordo sulle riforme finora c'erano il Pd, Forza Italia, Alfano. Adesso c'è anche Salvini con la Lega. Ma non è Salvini che si è mosso verso gli altri, sono gli altri cioè il Pd, che si è mosso verso di lui.

"Ça je l'aurais jamais cru", dice la Piaf nella canzone "Milord". Se ne vedono di belle e di brutte in questo Paese ma spesso le brutte sono molto più numerose.
 
© Riproduzione riservata 15 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/15/news/il_pifferaio_magico_fa_miracoli_e_prende_cantonate-88993587/?ref=HREC1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tre domande al premier sull'Europa, l'Italia e la riforma
Inserito da: Admin - Giugno 22, 2014, 05:46:19 pm
Tre domande al premier sull'Europa, l'Italia e la riforma

Di EUGENIO SCALFARI
22 giugno 2014
   
COMINCIO con una citazione di papa Francesco dal discorso da lui pronunciato nella chiesa di Santa Maria in Trastevere dinanzi a diecimila persone radunate nella basilica e nella piazza antistante alla Comunità di Sant’Egidio.

Sembrerà una bizzarria tirare in ballo il Papa come “incipit” di un articolo dedicato alla politica italiana ed europea; invece è pertinente a quanto accade nel nostro Paese.

Il Papa, dopo aver a lungo esaminato i problemi della pace, compromessa in molte parti del mondo, ha parlato dei vecchi e dei giovani e ha detto (cito letteralmente perché l’ho scritto mentre Francesco parlava): «I vecchi hanno memoria di quanto è accaduto durante la loro vita ed esperienza di quanto hanno personalmente vissuto. Quella memoria e quella esperienza debbono essere trasmesse alle generazioni di giovani venute dopo di loro. Se quella trasmissione non avviene, i giovani non saranno creativi. Ci sarà qualche genio che potrà farne a meno ma questo non basta a far proseguire la storia d’un Paese e del mondo».

Non è un programma politico ma un esempio prezioso; non predica l’immobilità della storia, al contrario ne indica la mobilità essenziale affinché la storia si svolga creando nuove situazioni che però non possono essere inventate da marziani sbarcati da altri mondi nel nostro. I vecchi debbono raccontare, i giovani debbono aggiornare e perfino rivoluzionare se fosse necessario, ma partendo dal racconto del passato, senza il quale non c’è futuro, non c’è vista lunga e si rimane schiacciati sul presente del giorno per giorno.

Questo Papa è molto saggio ed anche molto audace, non solo per la sua Chiesa ma per tutti gli uomini di buona volontà, consapevoli di non essere angeli ma neppure animali.

* * *
Il racconto di queste settimane, visto da un italo-europeo quale sento di essere, ha ancora una volta Matteo Renzi come protagonista. Lo è dal marzo scorso e ne ha fatta di strada nel bene e nel male.

L’ho incontrato il 7 giugno scorso a Napoli al Festival delle Idee promosso ogni anno dal nostro giornale. Era in programma quella mattina un dialogo tra lui ed Ezio Mauro al teatro San Carlo, gremito in ogni ordine di posti e lui con il direttore di Repubblica aspettavano in una stanza vicino al proscenio che si facesse l’ora per cominciare.

Sapendo che anch’io ero in sala mi fece chiamare e li raggiunsi. Abbiamo fatto chiacchiera per una ventina di minuti, poi io sono tornato in sala e loro sul palcoscenico hanno scambiato idee e affrontato i temi d’attualità per oltre un’ora e mezzo.

Racconto questi particolari di scarsa importanza solo per dire che ora lo conosco più di prima e mi è apparso in più giusta luce. Abbiamo anche deciso di darci del tu e chiamarci per nome. Quel pomeriggio scrissi l’articolo pubblicato domenica scorsa e intitolato “Il pifferaio magico di Hamelin”; il pifferaio naturalmente era lui, Matteo. Capace col suono del suo strumento di farsi seguire da chi è stregato dal suo piffero. Talvolta quel corteo di gente affascinata produce risultati ottimi o buoni, talaltra mediocri o cattivi.

Così è la vita, al di là delle intenzioni. Ma un punto voglio qui notare: bisognava nominare il presidente del Partito democratico e dopo rapidi pensamenti Renzi ha suggerito e la direzione unanime approvato Matteo Orfini.

Tutto si può dire di quest’altro Matteo salvo che sia un vecchio che trasmette memoria ed esperienza al Matteo segretario del partito e presidente del Consiglio. Stavolta il pifferaio ha sbagliato e di grosso.

* * *

L’Europa deve rinnovare tutte le cariche in scadenza: il presidente della Confederazione (chissà perché si chiama Unione); il presidente della politica comune verso l’Estero (che non conta nulla perché non c’è stata alcuna cessione di sovranità da parte dei governi nazionali); la Commissione europea a cominciare dal suo presidente; il presidente del Consiglio europeo (che conta poco o niente perché si limita ad emettere qualche parere); il presidente del nuovo Parlamento eletto lo scorso 25 maggio, dove il Partito popolare europeo ha avuto, pur arretrando rispetto a cinque anni fa, la maggioranza relativa: quindi spetta a loro designare il candidato alla presidenza della Commissione che di fatto è il governo dell’Unione sempre che, oltre alla fiducia del Parlamento, abbia quella ben più determinante del Consiglio dei primi ministri membri della Ue.

Juncker era ed è il candidato a quest’ultima carica sempre che abbia la maggioranza assoluta del Parlamento che gli può venire solo da un accordo con il Partito socialista e il «veni mecum» dei governi confederati. Avrà (ormai è certo) sia l’uno che l’altro con l’appoggio risolutivo di Angela Merkel e quello controvoglia dell’inglese Cameron che sembrava deciso a mettere l’ultimatum contro Juncker minacciando l’uscita dall’Unione. Ora pare ci abbia ripensato ottenendo qualche compenso politico e qualche carica ambita nella Commissione.

Il candidato socialista per la presidenza della Commissione era Schulz, ma ha fatto buon viso restando presidente del Parlamento. Si deve ancora trovare il nome del presidente della Ue al posto di Van Rompuy; al Consiglio d’Europa, su proposta del nostro Renzi, andrà una dinamica finlandese. I nomi dei membri della Commissione sono ancora tutti da fare. Uno spetta certamente all’Italia ma non si sa quale e chi sarà.

Ma lo sceglieranno i governi o il Parlamento? Questo ora è il breve tema che bisognerebbe discutere; ma in realtà nessuno ha voglia di farlo salvo forse Schulz.

Eppure è un tema fondamentale: il Parlamento, eletto dai cittadini europei, ha una sua sovranità, sia pure mediata con i governi degli
Stati membri, oppure è un simulacro i cui sì o no contano come il due di picche? Cameron ovviamente non vuole un Parlamento sovrano. Idem la Francia e così gran parte dei paesi confederati. E l’Italia? Vuole o no perseguire, sia pure gradualmente, le cessioni di sovranità politiche oltreché economiche? E la Germania?

La Germania è consapevole che, fin quando l’Europa non sarà uno Stato federale, i suoi staterelli — Germania compresa — saranno politicamente e quindi anche economicamente irrilevanti. Ma ha bisogno di tempo e di gradualità. L’ostacolo inglese è insormontabile. Quello francese anche, almeno per ora.

Ma l’Europa così com’è non ha destino. Cito ancora papa Francesco di domenica scorsa: «L’Europa è stanca, bisogna che i suoi cittadini tornino a sperare».

Giusto, ma i suoi cittadini non contano niente e il Parlamento che hanno eletto conta assai poco. Quindi emergono a Strasburgo minoranze tutt’altro che irrilevanti di xenofobi, reazionari e ultranazionalisti.

L’Italia, attraverso la clamorosa vittoria del nostro Pd il 25 maggio, ha nettamente aumentato il suo peso sia nel Partito socialista europeo sia nel concerto dei governi confederati. Dunque mi chiedo (e lo chiedo a Renzi se avrà l’amabilità di rispondermi): l’Italia che avvenire vuole per l’Europa e come intende perseguirlo?

Sappiamo che cosa vuole oggi Renzi, questo sì. Vuole che la Merkel sia una sua tifosa e questo l’ha ottenuto. Vuole che dia al suo governo maggiore flessibilità per favorire la crescita e l’occupazione. Anche questo obiettivo l’ha ottenuto ma «nel rispetto degli impegni europei». Quindi poca roba. Vuole che la Merkel non stia con gli occhi puntati sul nostro debito sovrano. E va bene, non ci starà. Però ci starà il Fondo monetario internazionale e anche Juncker e i suoi commissari.

Insomma a giudicare da lontano, non sembra ci sia molta trippa per gatti.

Siamo stati denunciati per infrazione perché paghiamo i debiti nuovi a 90-120 giorni dalle fatture anziché a 30-60 come previsto. Intanto i Comuni e le Regioni aumentano le sovrattasse di loro pertinenza. Ci sono — è vero — segnali di ripresa della produzione; nei consumi ancora no. Aspetta e spera, ma fino a quando?

Comunque il nostro Matteo a Bruxelles sta facendo il possibile. Forse è in Italia che sbaglia.

* * *
Breve premessa. Le leggi di riforma costituzionale dovrebbero essere presentate dal Parlamento e non dal governo perché la competenza in questa caso spetta al potere legislativo e non all’esecutivo il quale, appunto, esegue e non può cambiare le regole. Questa osservazione è attendibile ma non unanime. È invece unanime che su una legge di riforma costituzionale non possa essere chiesta la fiducia del governo. Questo no, è implicitamente esplicito nell’ordinamento costituzionale. Fine della premessa.

Il Senato, secondo gli accordi ormai definitivi tra Renzi, Berlusconi, Alfano e Lega, si dovrebbe comporre di 74 membri eletti dai Consigli regionali, 21 assegnati ai Comuni ma sempre eletti dai Consigli regionali e 5 nominati dal presidente della Repubblica (norma già esistente).

Il Senato dunque rappresenta gli Enti locali negli eventuali conflitti con lo Stato; vigila sui poteri dei suddetti enti e sulla loro efficienza; partecipa — come già avviene — al plenum del Parlamento per le nomine che gli spettano; alla ratifica dei trattati internazionali e alle riforme costituzionali.

Se un terzo del Senato, composto da cento membri, chiede di discutere una legge ordinaria entro dieci giorni dalla sua approvazione alla Camera, la partecipazione è accordata purché entro trenta giorni si arrivi all’approvazione definitiva, altrimenti resterà invariato il testo approvato dalla Camera.

Quest’ultima disposizione è un gioco del pifferaio perché non ha alcun valore pratico. Quanto al resto il Senato della Repubblica cessa di esistere e si instaura un regime monocamerale.

Niente di grave, il monocamerale esiste in molti paesi europei a cominciare da Francia, Gran Bretagna, Germania, dove il cancellierato o la premiership non aboliscono la democrazia. Ma il cancellierato (e il monocamerale altro non è perché i deputati della maggioranza seguono sempre il pifferaio di turno) comporta una riscrittura della Costituzione.

Tanto più quando, con altro provvedimento, il governo legifera sulla messa a riposo anticipata dei magistrati e di conseguenza all’elezione di un altro Csm.

Tutto fa prevedere insomma che i poteri dell’esecutivo aumenteranno; la magistratura e il suo organo di autogoverno ringiovaniranno e l’esperienza dei vecchi sarà anche qui messa in soffitta o in cantina.

Caro Matteo, tu sei bravo e seducente. A volte ottieni risultati utili al Paese, a volte fai errori o persegui il rafforzamento del tuo potere.

Riconosco la bravura, il potere di seduzione, le buone intenzioni. Ma un governo autoritario francamente non lo voglio. Non lo vogliamo.

Quanto al fatto che un Senato vero farebbe perdere tempo prezioso, si tratta d’una totale bugia. Dai dati ufficiali dell’Ufficio del Senato risulta che l’approvazione d’una legge ordinaria avviene mediatamente in 53 giorni (meno di due mesi), la decretazione di urgenza è convertita in legge in 46 giorni e le leggi finanziarie in 88 giorni (meno di tre mesi). Non sono colpe del bicameralismo ma della burocrazia ministeriale i ritardi ed è lì che bisognerebbe colpire. Finora non si è fatto. Il bicameralismo funziona a dovere e i ritardi non provengono affatto da lì.
© Riproduzione riservata 22 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/22/news/tre_domande_al_premier_sull_europa_l_italia_e_la_riforma-89682893/?ref=HRER2-1


Titolo: SCALFARI. Quant'è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 07:19:23 pm
Quant'è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?

di EUGENIO SCALFARI
   
Molte cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull'economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un'epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all'immediatezza che ci sta davanti.

Per capire meglio quanto avviene ho recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l'uno segna l'inizio dell'epoca che chiamiamo moderna, l'altro ne rappresenta la fine.

Montaigne conclude così il terzo libro dei suoi Essais, l'opera che impegnò 27 anni della sua vita e che completò e aggiornò fino al momento della sua morte: "Tanto più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c'è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e senza stravaganze".

E poche pagine prima di questo finale, aveva scritto: "Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento totale che conduce solo all'iniquità e alla tirannia. Quando un pezzo di quell'edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte". Infine: "La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello, ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e l'amore".

Tre secoli dopo di lui, Friedrich Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati - senza saperlo - l'uno all'altro. Basterà citare Albert Einstein, Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx.

Di Nietzsche l'imbarazzo è nella scelta che rappresenti al tempo stesso l'essenza del suo pensiero e il suggello finale all'epoca della modernità.

Secondo me la summa del suo insegnamento è questa: "Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore".

Concludo questa premessa citando un mio giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia.

Voi lettori lo conoscete, lo criticate o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di Walter Veltroni che è intervenuto il 24 giugno scorso al Festival delle Letterature tenutosi in Campidoglio.

"Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent'anni fa per arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l'accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall'automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite.

Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l'immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare".

* * *

Veniamo al nostro vissuto di questi ultimi giorni. I leader europei si sono incontrati, scontrati, accordati, rilassati, tra Bruxelles e Ypres dove hanno ricordato una guerra spaventosamente devastante, primo atto d'un terribile gran finale culminato nella distruzione dell'Europa delle nazioni e in un genocidio orribile che nessuno potrà dimenticare.

Quelle guerre hanno chiuso un'epoca; in Europa non ci saranno più. Ma l'Europa ci sarà ancora? Questa che vediamo non è che il miraggio d'una generazione che l'aveva sognato, ma non è ancora gli Stati Uniti d'Europa.

Sopravvivono i governi nazionali, le istituzioni europee sono deboli e contestate, la nazione egemone che è certamente la Germania è incerta e quasi impaurita dalla sua stessa egemonia; preferisce esercitarla per interposte persone ed istituzioni con tutte le condizioni che ne derivano. Nessuno o pochissimi perseguono veramente la nascita d'uno Stato federale con le relative cessioni di sovranità degli Stati nazionali. Anzi: ciascuno dei governi degli Stati confederati lotta per sé e al suo interno, cerca di avvalersi dell'Europa per rafforzare la propria leadership personale e dei suoi seguaci. Noi italiani abbiamo avuto l'occasione di un leader di notevole capacità che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti.

Matteo Renzi e il paese che rappresenta sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente. La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione.

Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali - che sono la condizione richiesta dalla Germania - saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n'è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all'Italia e - diciamolo - al Partito socialista europeo e all'Europa intera. Però...

Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità.

Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell'esercizio, che sarà in votazione dell'autunno di quest'anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più.

Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la "dazione" degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall'intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure "non convenzionali". Ma qui non c'entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c'entra la Bce e la fermezza di Draghi, sperando che la lotta per alzare l'inflazione abbia successo.

* * *

Draghi richiama un altro tema assai scottante che però non riguarda il presidente della Banca centrale il cui nome nel caso in questione è stato usato a sua insaputa (e molto probabilmente col suo personale fastidio).

È circolata nei giorni scorsi la notizia che uno dei possibili anzi probabili candidati a sostituire Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo sarebbe stato Enrico Letta. La notizia è uscita sul Financial Times e su molti giornali italiani e la candidatura avrebbe avuto il pregio di non provenire dal governo italiano ma da quello inglese e anche francese. Pregio, perché i candidati alle massime cariche dell'Unione non sono scelti sulla base della nazionalità d'origine, ma sulla base del talento e dell'esperienza. Lo stesso Giorgio Napolitano ha ricordato pubblicamente che, dal momento della nomina a presidente della Bce, Draghi non è più considerato come un italiano, così come Jean-Claude Juncker non è considerato un lussemburghese, sicché un altro italiano scelto per un'altra carica non incontra alcuna difficoltà per la presenza d'un suo "originario concittadino".

Questo non è un dettaglio di poco conto ma un punto fondamentale per chi persegue gli obiettivi dell'Europa federale e non confederata. Ma il nostro Renzi (e guai a chi ce lo tocca) ha di fatto risposto: Letta chi? E poi ha aggiunto che la presenza di Draghi costituiva un ostacolo all'eventuale incarico di Letta. Comunque - ha infine aggiunto il nostro presidente del Consiglio - lui non pensava affatto ad ottenere quella carica per un italiano ma piuttosto ad avere la ministra degli Esteri, Mogherini, alla carica di Alto rappresentante della politica estera e della difesa europea.

Abbiamo già scritto domenica scorsa, e qui lo ripetiamo per chi ha orecchie da mercante, che quella carica non conta assolutamente nulla.

Politica estera e difesa sono solidamente nelle mani dei governi nazionali, nessuna cessione di sovranità è prevista in proposito, ogni paese europeo ha la sua politica estera che spesso non coincide con quella degli altri. Si tratta dunque d'un obiettivo di pura facciata, che proprio per questo l'Italia ha già ottenuto e utilizzerà a favore della Mogherini o di D'Alema.

* * *

Concludo ricordando che la flessibilità concessa all'Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull'economia. Altre riforme interessano assai poco l'Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità. Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l'architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo.

Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e - ricordiamolo - da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano.

© Riproduzione riservata 29 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/29/news/bravo_premier_errori-90269092/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Rompere il cerchio magico per salvare il governo
Inserito da: Admin - Luglio 06, 2014, 11:58:18 pm
Rompere il cerchio magico per salvare il governo
Di EUGENIO SCALFARI
06 luglio 2014
   
Non mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere. Non sembra a Bruxelles e neppure a Roma, tanto che lo stesso nostro presidente del Consiglio ha detto: "Attenzione. O le riforme andranno a buon fine nel tempo e nei modi giusti oppure io me ne andrò".

Non è un bel modo di ragionare perché potrebbe darsi che sia la tempistica che le riforme volute da Renzi siano sbagliate e in quel caso sarebbe positivo avere qualcuno che le corregga nel modo più appropriato. Dopodiché Renzi può ringraziare e restare dov'è oppure ringraziare e andarsene; un sostituto si trova sempre e non è una catastrofe.

Le riforme cui pensano sia Renzi sia Berlusconi sono due, tutt'e due in materia elettorale ed una di essa anche in materia costituzionale: quella del Senato e quella della Camera dei deputati. Nessuna delle due si occupa né di crescita economica né di sviluppo né di coesione territoriale, di investimenti, di occupazione giovanile e no, di equità sociale. Niente di simile. Per di più riguardano eventi che si produrranno alla fine della legislatura che avviene nell'aprile del 2018, cioè tra quattro anni.

Perciò - questo è certo - gli italiani e gli europei se ne infischiano totalmente sia che si facciano sia che non si facciano. Le prossime elezioni europee ci saranno nel maggio del 2019, perciò campa cavallo che l'erba cresce.

Ma interessano Renzi e i suoi musicanti, quelli sì.
Quelle riforme, imposte agli altri più che volute, sarebbero un segnale forte della autorevolezza di Renzi, di Delrio, della Serracchiani, della Boschi e quant'altri; un nuovo cerchio magico, il primo dei tempi repubblicani fu quello di Fanfani, poi di Andreotti, poi di Antonio Segni, di Craxi, di Cossiga, di Forlani, infine di Bossi e soprattutto di Berlusconi a cominciare da Dell'Utri e da Galan. Quando nasce un cerchio magico in un partito, il partito muore oppure si esprime. Bisogna che gli italiani lo capiscano ma non mi pare cosa molto facile.

* * *

La vera riforma della Camera sarebbe quella del collegio uninominale con un'unica soglia del 3-4 per cento e un premio riservato al ballottaggio tra i primi due o tre. È un sistema maggioritario che tutela al tempo stesso i due principi - che attualmente sembrano un ideale irraggiungibile - e che furono gli obiettivi costanti di Veltroni e di Bersani. C'è, con varie e modeste varianze, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, in Olanda, in Grecia, e porta con sé il Cancellierato. Ma porta anche qualcosa di più: il rafforzamento insieme del potere esecutivo e di quello legislativo. L'uno è più forte nelle decisioni che deve prendere con chiarezza e con la rapidità richiesta dalla società globale in cui viviamo. L'altro grazie al legame con gli elettori: diminuisce senza tuttavia annullarsi l'appartenenza al partito di origine e giustifica pienamente l'articolo costituzionale sulla libertà da vincolo di mandato.

Non si capisce il motivo per cui, avendo quattro anni davanti a sé un seme così ragionevole e così diffuso che contiene alla perfezione i principi di governabilità e della rappresentanza non venga realizzato. Capisco che significa la fine dei cerchi magici, ma vi sembra un risultato da poco?

La riforma del Senato è motivata sempre da una serie di dati che abbiamo già dimostrato come completamente sbagliati utilizzando fonti di prima mano. Come è stato documentato la settimana scorsa, i decreti attuativi delle leggi definitivamente approvate, a partire dal governo Monti, tuttora giacenti sono ben 511.

Un numero abnorme: tutto questo dipende non già dal balletto (cosiddetto) tra Camera e Senato bensì dalla burocrazia ministeriale che dovrebbe approntarli.

Non lo fa, non si sa per quali ragioni e questo è il punto che bisognerebbe appurare per renderli immediatamente esecutivi e punire o addirittura rimuovere dai loro luoghi i responsabili. Il Senato, secondo i dati da noi pubblicati di prima mano, approva le leggi ordinarie in meno di due mesi, le leggi di conversione dei decreti in cinquantadue giorni, le leggi finanziarie in meno di tre mesi. Vi sembra questo un motivo sufficiente per l'abolizione di uno dei due rami del Parlamento? Il Senato può benissimo esser privato del voto di fiducia e delle leggi di bilancio ad esso connesse. Queste è opportuno riservarle alla sola Camera dei deputati ed avviene in molti dei paesi sopra indicati. Tuttavia i soli poteri restano invariati su tutto il resto e in particolare sul controllo concernente la esecutività delle leggi in questione. Non dovrebbe mai più ripetersi la situazione che stiamo vivendo adesso, con 501 leggi giacenti perché i Direttori ministeriali o i loro collaboratori non fanno il dover loro.

Resta il tema del Senato elettivo in primo o in secondo grado. A mio avviso non sembra così fondamentale. Primo o secondo grado importano poco purché i poteri conferiti a quel ramo del Parlamento - salvo quelli della fiducia e delle leggi di bilancio ad essa connesse - siano invariati. Invariato in particolare ed anzi possibilmente rafforzato - il potere di controllo non sulla legalità, che spetta com'è noto alla giurisdizione della magistratura inquirente e requirente - bensì sul controllo dell'efficienza, della giusta scelta degli obiettivi, e della rapidità. Questo controllo, condiviso ovviamente tra i due rami del Parlamento, può essere esercitato con maggiore efficacia dal Senato proprio per la ragione che esso non è coinvolto con la fiducia accordata dalla Camera al governo in carica e quindi può controllarne l'operato senza necessariamente metterne in discussione l'esistenza.

* * *

Resta il tema dell'Europa. In quello Matteo è bravissimo, personalmente confido che risolverà ogni cosa nel modo migliore rispetto agli obiettivi da ottenere.

Il problema non è tanto quello degli impegni con l'Europa: è pacifico che dovremo rispettarli e lo faremo. Il problema è quello dei tempi. La Germania vuole che la flessibilità non vada oltre il 2015 il che significa che la seminagione dovrebbe avvenire con la legge di stabilità all'esame del Parlamento nell'autunno del 2014. Il significato di questa tempistica è pessimo e pessimo è l'effetto che inevitabilmente avrebbe non solo e non tanto sui mercati quanto sulle istituzioni coinvolte e sui loro movimenti di capitale. Il vero obiettivo da realizzare sarebbe se la Germania accettasse la flessibilità fino al 2016 o meglio ancora al 2017.

È un compito che coinvolge in gran parte (e per nostra fortuna) le operazioni che Mario Draghi sta effettuando non certo nell'interesse italiano ma in quello europeo. Renzi secondo me è capace di utilizzare quell'appoggio e soprattutto di esercitare le pressioni dovute su Angela Merkel e sui suoi alleati i quali, del resto, di agevolazioni di questo genere hanno già in passato più e più volte usufruito. Se queste cose le dico io, che non sono certo un membro del cerchio magico di nessun partito e meno che mai di quello renzista, qualche significato forse l'avrà. Io ci credo e penso che possa realizzarsi.

© Riproduzione riservata 06 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/06/news/rompere_il_cerchio_magico_per_salvare_il_governo-90822528/?ref=HREC1-5


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La sentenza forse è giusta ma disonora il paese...
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2014, 05:58:28 pm
La sentenza forse è giusta ma disonora il paese

L'assoluzione di Berlusconi in appello per il caso Ruby non intacca la ricostruzione di quel personaggio che ha recato al Paese umiliazione e dileggio in tutto il mondo.
Un articolo della Costituzione impone al pubblico ufficiale di onorare la carica. I magistrati avrebbero dovuto tenerne conto


di EUGENIO SCALFARI
20 luglio 2014

Domenica scorsa ho raccontato una mia lunga conversazione con papa Francesco. È la terza che abbiamo avuto nel palazzo di Santa Marta dov'è la sua residenza che non somiglia in nulla al Palazzo Vaticano dove i Pontefici hanno risieduto almeno per quattro o cinque secoli. Per un miscredente che ammira la predicazione di Gesù di Nazareth, come è riferita dai Vangeli e approfondita e commentata dalle lettere di Paolo alle nascenti comunità della nuova religione, conversare con papa Bergoglio e spesso anche scriversi e scambiare telefonate è una profonda stimolazione dello spirito. Io non cambio il mio modo di pensare e il Papa lo sa benissimo; ma sento cambiare o arricchirsi il mio modo di sentire. Così spero accada anche ai miei lettori e così anche il Papa mi dice che avviene. Lui parla con moltissima gente, conforta, aiuta, rafforza la vocazione per il bene del prossimo e contemporaneamente trasforma e rinnova la Chiesa e le sue strutture che ne hanno gran bisogno. Un grande Papa, lascerà una traccia profonda nella storia della Chiesa che ha gran bisogno di uscire da un troppo lungo isolamento. Ho ricordato quel mio incontro di domenica scorsa con papa Francesco perché non capita spesso. Quando avviene è per me un gran sollievo.

Ma già dalla settimana successiva debbo tornare al mio lavoro di commentatore politico, economico, sociale. Anche quei temi mi appassionano, ma molto meno. Sarà il tempo che fugge via, sarà la statura spesso modesta dei protagonisti e sarà soprattutto la modestia della struttura etico-politica che caratterizza la fine d'epoca che stiamo vivendo.

Le fini d'epoca possono essere grandiose o mediocri. Quella che stiamo vivendo è decisamente mediocre e tuttavia bisogna illustrarne la drammaticità. Mediocre e drammatica. A volte è accaduto nella storia del mondo. L'Alto Medioevo fu un caso analogo e assai prima lo era stato la fine dell'Impero romano, da Teodosio in poi. A maggior ragione bisogna occuparsene cercando di capire e di far capire quanto avviene. Spesso sbagliamo anche noi sia le diagnosi sia le terapie.

Nessuno è infallibile, papa Bergoglio sa che non lo è neppure il papa. Per questo è grande anche se non lo sa e non se lo propone. Lasciate che un miscredente lo dica.

* * *

Ieri e oggi e forse per parecchi giorni ancora il fatto dominante in Italia è la piena assoluzione di Silvio Berlusconi da parte della corte d'Appello di Milano, annullando radicalmente la precedente sentenza del tribunale che lo condannava invece a 7 anni di reclusione.

La sentenza non fa storia fuori dal nostro Paese. L'Europa è alle prese con la guerra in Ucraina e con quella tra Israele ed Hamas; ma sta rinnovando tutte le proprie cariche ed è afflitta da una stagnazione economica e teme sempre di più di una possibile deflazione monetaria. Gli strumenti di contrasto non mancano ma la sorte di Berlusconi provoca al più qualche battuta scherzosamente cattiva.

Da noi è diverso: un uomo che ha dominato nel bene e soprattutto nel male il Paese torna di nuovo a farsi sentire quando veniva dato per politicamente ed anche economicamente morto e sepolto. Soprattutto rafforza alcuni protagonisti che nel frattempo hanno conquistato una parte del potere e ne indebolisce altri. Quindi abbiamo buone ragioni per occuparcene.

Personalmente debbo e voglio ribattere ad un grave insulto che Giuliano Ferrara ha lanciato a tarda notte di ieri ai microfoni di La7 con tale veemenza che Mentana, conduttore di quella trasmissione, ha dovuto silenziargli il microfono (video). L'insulto era diretto a Giuseppe D'Avanzo, giornalista di questo giornale e morto qualche anno fa. Ferrara l'ha indicato come un raccoglitore di falsità contro Berlusconi del quale avrebbe deturpato senza darne prova l'immagine privata e pubblica, gettando contro D'Avanzo l'insulto di falsità, di calunnia e di odio privo d'ogni fondamento.

Difendere D'Avanzo da queste contumelie mi sembra superfluo e quasi offensivo tanto è lontano dalle falsità che Ferrara gli attribuisce. Conosco bene il suo accusatore che - per sua sfortuna - ha una doppia natura: è gentile ma coltiva dentro di sé un complesso sado-masochista che a volte prende il sopravvento e lo spinge a farsi del male e a farlo agli altri nel più irruente dei modi. Così ha fatto per D'Avanzo e in molti altri casi. Il mio collega e amico era tutt'altra persona. Faceva il suo mestiere di giornalista con uno scrupolo ed una oggettività che ne fecero uno dei migliori della sua generazione. Raccoglieva con scrupolo indizi e prove del malaffare che avviliva il nostro Paese e lo denunciava descrivendo lo scenario attendibile che sarebbe toccato ad altri, politici e magistrati, di verificare e giudicare. Non sbagliò quasi mai; le rare volte che accadde, quando se ne accorse fu il primo ad ammetterlo e a scusarsi.

Su Berlusconi vide tutto e vide giusto. La sentenza della corte d'Appello non intacca minimamente la ricostruzione di quel personaggio che ha recato al Paese umiliazione e dileggio in tutto il mondo. Ed è di questo che ora dobbiamo parlare.

* * *

Le sentenze (è un detto comune) si rispettano e si eseguono. Per metà è un detto vero, per l'altra metà è sbagliato. Le sentenze, quando diventano definitive, si eseguono, ma possono essere liberamente criticate e gli errori che eventualmente contengono possono (debbono) essere indicati. Purché si tratti di critiche obiettive e non faziose tenendo sempre presente il dettato costituzionale che pone al centro dei poteri del giudice il suo libero convincimento, sempre che esso non sia fonte di intenzioni dolose, nel qual caso il giudizio spetta ad altri magistrati.

Per quanto ci riguarda noi pensiamo che la sentenza dell'altro ieri della corte d'Appello di Milano non sia affatto inficiata da dolo, ma da un libero convincimento che contrasti con gli altrettanto liberi convincimenti del tribunale milanese, della sua procura e perfino della procura generale della corte d'Appello che aveva chiesto nella sua requisitoria la conferma del predetto provvedimento del tribunale e che, come è quasi certo, ricorrerà in Cassazione quando tra 90 giorni le motivazioni della corte d'Appello saranno rese pubbliche.

Resta da capire e da spiegare il capovolgimento così totale tra le due sentenze, la prima delle quali ebbe quasi cinquanta udienze di dibattimento, l'altra quattro in tutto. Ciò significa che non è stato da parte della corte d'Appello un nuovo emergere di fatti ma un diverso libero convincimento.

Motivato da che cosa? Ecco il punto, cioè i due punti da essa indicati perché due sono i reati oggetto dei procedimenti in questione: quello di concussione al pubblico ufficiale e quello di corruzione di minorenne (che per raffigurarsi come reato deve essere non solo effettuata ma consapevole).

Il primo reato si consuma in alcune telefonate a un dirigente alla questura milanese che in quella fatale notte aveva arrestato e trattenuto in questura la ragazza Ruby, rea di un furto compiuto insieme ad una sua compagna. La questura aveva l'obbligo di confermare gli accertamenti necessari e poi assegnare ad una apposita comunità ritenuta idonea la colpevole (minorenne) del fatto commesso. Berlusconi si trovava a Parigi per un incontro internazionale. Viene informato dell'arresto di Ruby da persona a lui nota e in possesso del suo numero di cellulare e tutt'altro che moralmente integerrima. Parte una prima telefonata verso la questura da parte di un segretario del presidente del Consiglio e poi una seconda da lui medesimo con il dipendente della questura milanese. Gli si chiedono precisazioni sull'accaduto, lo si invita a proseguire oltre e poi, in successive comunicazioni, gli si chiede di consegnare la ragazza in questione ad un'incaricata e segretaria del medesimo presidente del Consiglio la quale provvederà a farla custodire dall'apposita comunità. Nel frattempo la questura consulta il giudice dei minori il quale si oppone a tale procedura irregolare. Il tono di voce del presidente del Consiglio non è (dice l'interessato della questura) né imperativo né severo ma mite e amichevole. Infine la notizia che la ragazza è la nipote di Mubarak (il rais egiziano) e che è interesse del governo italiano evitare uno scandalo inopportuno. Il dirigente della questura informa chi deve informare (giudice dei minori compresa) mentre ulteriori insistenze - sempre con tono amichevole - provengono da Parigi e da Roma. Infine la questura accetta perché la persona incaricata di assumersi la responsabilità di affidare Ruby ad una opportuna comunità avvenga e tutto si attiva di gran carriera: la Minetti (perché è di lei che si tratta) prende in carico Ruby, firma in questura, la porta fuori dall'ufficio e la assegna alla sua amica, prostituta e ladra, si fanno insieme una bella dormita e domani è un altro giorno.

Questo racconto, insieme a molte altre circostanze del rapporto Ruby-Berlusconi che non staremo qui a ricordare ma che sono notissime, configura chiaramente il reato di concussione in uno dei termini indicati dalla legge Severino la quale prevede che il concusso abbia tratto vantaggio dalla concussione. Ha tratto vantaggio? E che cos'è un vantaggio in casi del genere? Soldi versati: no. Promozioni ottenute: no. Licenziamento evitato: forse sì. Trasferimento immediato: forse sì. Promozione promessa per il futuro: forse sì. Il tribunale di Milano era certo dei "forse sì". La corte d'Appello milanese era invece convinta del "forse no". In ambedue i casi ha giocato il libero convincimento con quanto ne segue.

Salvo il secondo reato, anch'esso cancellato perché "non commesso". Non commesso perché Berlusconi non ebbe mai rapporti con Ruby? Strano: la ragazza passava spesso le sue notti ad Arcore in una sua apposita stanza; ebbe larghe dazioni in danaro e poi ampio "stipendio" mensile. Faceva "vita allegra" a Milano e altrove. Raccontava agli amici dei suoi rapporti con Berlusconi, tutto e il contrario di tutto e lo raccontò anche alla procura milanese: tutto e il contrario di tutto, riferito da amiche, rivali, colleghe di bella vita.

La corte d'Appello si è formata il suo libero convincimento in quattro udienze, il tribunale in cinquanta. Sentiremo la Cassazione, ma certo l'opinione pubblica italiana e internazionale ci ride (o ci piange) a sentirsi raccontare queste vicende. Ricordo un articolo della Costituzione che impone a qualsiasi pubblico ufficiale (il presidente del Consiglio è il primo di questi) di "onorare con i suoi comportamenti pubblici e privati la carica che ricopre".

Ecco un punto che il libero convincimento dei magistrati dovrebbe tenere nel massimo conto. Una cosa si può affermare con certezza: i tre della corte d'Appello l'hanno volutamente ignorato. Questa non è un'ipotesi ma una certezza della quale è auspicabile che la Cassazione tenga conto anche perché è un principio costituzionale (ancorché non provvisto di regolamento attuativo) resta comunque un principio che sul libero convincimento non può non esercitare il peso dovuto.

Due parole sulla grazia che torna a ricomparire specie nelle valutazioni dell'esimio avvocato Coppi. Dico esimio perché lo conosco e lo stimo anche se i suoi convincimenti politici sono l'opposto dei miei. Coppi sostiene che un provvedimento di clemenza sarebbe più che giustificato dopo la sentenza milanese. Non mi pare proprio che sia così per varie ragioni: 1. La grazia prevede una condanna definitiva. 2. La grazia deve essere chiesta dall'interessato o dai suoi parenti di primo grado. 3. La grazia interviene quando il colpevole ha dato segni certi di ravvedimento. Non si vede quali di queste condizioni siano presenti nel caso Berlusconi, anzi si vede la devastante assenza di tutte.

***

Si dovrebbe discutere a questo punto di Matteo Renzi, delle riforme, dei rapporti con l'Europa, delle nomine alle alte cariche, della crescita. E forse anche di Mario Draghi. Ma per esaminare o almeno introdurre questi avvenimenti bisognerebbe scrivere l'Odissea o almeno i libri su Telemaco.

Renzi non somiglia in nulla a Odisseo che torna ad Itaca e tanto meno a Telemaco che lo aspetta per liberare Penelope dai Proci. I Proci, quelli sì, ce n'è più d'uno a Palazzo Chigi e Telemaco sembra uno di loro, anzi lo è. Altrimenti non avrebbe il piglio che ha avuto ed ha tuttora con Enrico Letta.

Lasciamo andare.
Per Renzi alcune cose vanno bene. Molto bene. L'assoluzione di Berlusconi a Milano è una di quelle. L'ex Cavaliere di Arcore ormai è un padre della patria confermato dal libero convincimento della corte d'Appello. Questo ruolo potrà conservarlo fino a tutto il 2018. Allora avrà 84 anni e poi può anche darsi che ottenga la nomina di senatore a vita fino al 2025. Morire in bellezza, questo conta, e lasciare un figlio che rappresenta il meglio di sé. Non Piersilvio, ma Matteo il quale del resto ai grillini che fanno casino ha detto che "miglior regalo non potevano fargli". È proprio bravo, Matteo e gli applausi del suo partito se li merita tutti.

In Europa va molto meno bene. La Merkel gli fa i sorrisetti ma non sgancia un euro né una carica. Quella di Alta autorità per la politica estera e per la difesa poteva pur dargliela: non conta assolutamente niente. Emette qualche parere e basta. Invece no. Un socialista sia pure, ma non italiano. Perché? Perché no. Semmai gli daranno un commissario di basso profilo. Se vuole emergere si faccia dare una carica importante nel gruppo socialista. Che cosa vuole di più?

D'Alema al posto di Mogherini? No, D'Alema sarà antipatico ma ci sa fare: con gli egiziani, con i siriani, con i curdi, con i libici e poi perfino con Putin. Ed anche con gli italo-americani, quelli che contano. No, D'Alema no. Non l'avevano rottamato?

Quanto a Renzi, deve fare le riforme. Quali? Quelle economiche naturalmente, la produttività, la competitività, l'equità. E deve diminuire le tasse. Al centro e negli Enti locali. Serve a questo la riforma del Senato? Allora la faccia ma rapido perché tempo da perdere non c'è. Quella elettorale? Se ne parla nel 2018. Ma se gli avanza tempo la faccia adesso, all'Europa non gliene importa niente.

Ho scoperto in un'allegra chiacchierata con l'amico Draghi, che è renziano. Nel senso che lo considera uno capace di agire. Naturalmente deve agire in conformità con l'Europa e non contro. E l'Europa l'aiuterà. In che cosa: a galleggiare. Non rivelerei neppure sotto tortura delle cose professionali che alle volte Draghi mi confida perché conosce il mio silenzio. Ma qualche scherzo ridanciano, quello sì, si può dire e Draghi cui piace Renzi è uno scherzo da sganasciarsi dalle risate.

Ecco, Draghi potrebbe essere Odisseo e Renzi il suo Telemaco che l'aspetta. Ma a quel punto il figlio sarebbe inviso al padre.

Intanto aspettiamo l'autunno, quando il tema delle tasse, delle riforme e del debito pubblico diventeranno estremamente attuali. Vedremo. Renzi continua a dire che ci ha messo la faccia. Non vorrei che finisse come quella vecchia battuta di Petrolini.

© Riproduzione riservata 20 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/ ... ef=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2014, 11:17:49 pm
Se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra

di EUGENIO SCALFARI

Oggi il tema che l'attualità mi suggerisce riguarda l'Italia e l'Europa, ma non posso tralasciare quanto sta avvenendo nella striscia di Gaza, un dramma storico che si protrae ormai da oltre mezzo secolo, una strage che non trova soluzione e della quale il resto del mondo ha in realtà cessato d'occuparsi con la serietà necessaria.

Ricordo ancora la guerra dei sei giorni, uno dei tanti episodi della tragedia mediorientale, la sconfitta fulminante che Israele inflisse a Egitto, Giordania, Siria e al movimento palestinese allora guidato da Arafat. Ci fu una crisi all'interno dell'Espresso e una rottura che non posso dimenticare tra il gruppo dei liberali che avevano come riferimento politico e culturale Ugo La Malfa, Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio da una parte e me che allora dirigevo l'Espresso dall'altra. I liberali esaltavano la forza militare di Israele e la civiltà occidentale che lo Stato ebraico rappresentava di fronte a cento milioni di arabi. Io scrissi un articolo che determinò la rottura con quei vecchi e fedeli compagni di idee, intitolato "I veri amici di Israele".

La tesi da me sostenuta era questa: Israele aveva pieno diritto di esistere, e di esser difeso, a patto che a sua volta difendesse i palestinesi dalle vessazioni cui erano sottoposti dalle varie tirannie arabe. Il ricordo della Shoah doveva ispirare lo Stato ebraico a impedire che un altro tipo di genocidio fosse perpetuato in loro nome e addirittura da loro stessi. I veri amici di Israele dovevano dunque esortarlo a percorrere la strada opposta.

Soltanto l'alleanza tra ebrei e palestinesi e la fondazione di uno Stato che li rappresentasse poteva risolvere il problema che avvelenava l'intera regione mediorientale.

I tempi sono cambiati profondamente in tutto il mondo da allora, ma il rapporto tra ebrei e palestinesi è rimasto lo stesso: una ferita purulenta che non si chiude e sparge i suoi veleni in tutta la regione. Con in più un elemento sconvolgente: tra le grandi potenze mondiali quella che dovrebbe esser più interessata a risolvere il problema e invece di fatto lo ignora è l'Europa.

L'Europa dovrebbe essere l'interlocutore principale di quei due popoli e di quei due Stati e collegarli con un trattato che entrambi li coinvolga nell'Unione europea. Questa è la sola via da percorrere a cominciare da subito e questo dovrebbero proporsi i veri amici di Israele.

***

Noi italiani ed europei siamo tuttavia afflitti da un altro tema che riguarda da vicino la nostra sopravvivenza economica e sociale: l'andamento negativo del nostro reddito, della nostra produzione, della nostra occupazione, della discrasia tra le richieste che noi facciamo all'Europa e quelle che l'Europa fa a noi.

Questo tema è rappresentato da una persona: Matteo Renzi. Molti - amici ed anche avversari - lo considerano dotato di coraggio, di intelligenza e capacità e rapidità di sintesi; altri al contrario gli attribuiscono i difetti di un'eccessiva ambizione e di un'insufficiente preparazione; altri infine gli riconoscono una leadership attualmente insostituibile che può oscillare verso il bene e verso il male secondo le persone capaci di esercitare un'influenza positiva o negativa sulle sue decisioni; pongono cioè il problema d'un partito che dovrebbe riappropriarsi di se stesso e sia in grado di influire sul solo leader di cui attualmente dispone.

Non dimentichiamo, in questo panorama che serve ad orientare i nostri giudizi, che Renzi è e sarà fino alla fine dell'anno in corso il presidente di turno dell'Ue ed è il segretario del Partito democratico aderente al Partito socialista europeo, il solo che ha avuto un'inattesa massa di voti che ne ha fatto il vincitore solitario d'uno scontro elettorale nel quale poco si è votato e mediocri sono stati i risultati delle altre formazioni politiche di sentimenti democratici ed europeisti.

Dunque: Matteo Renzi e il suo partito, i rapporti con gli altri governi europei, i rapporti con il Parlamento di Strasburgo, con Juncker già eletto presidente della nuova Commissione, con la Germania che è la potenza egemone, con la Francia, la Spagna e gli altri paesi del Sud Europa che hanno problemi simili ai nostri. Infine i rapporti con Draghi e la Bce. Non è roba da poco e Renzi si è assunto quel compito con lena ed entusiasmo, che è uno dei tratti del suo carattere.

Per chi osserva da fuori con la funzione di giornalista e testimone, il primo guaio è il suo partito che, come tale, ha repentinamente cambiato natura. Dopo tanti nomi, dalla Bolognina di Occhetto in poi, l'approdo di Veltroni al Partito democratico ha subìto una rilevante modifica, non ufficiale ma reale: si chiama ormai partito democratico renziano. Non mancano i contestatori ma sono pochi e discordi tra loro. Manca un gruppo dirigente di cui il leader sia l'espressione ma non il padrone. I luogotenenti sono numerosi, giovani, uomini e donne, ma nessuno di loro ha una voce propria, salvo il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ma questo si sapeva e il suo ruolo tende a restringersi.

Fa bene Napolitano a dichiarare che non esiste un rischio d'autoritarismo; fa bene chi si oppone al contingentamento del dibattito; fa bene chi non vuole l'ostruzionismo. Fa bene chi vede addirittura mettere un termine di calendario alla riforma del Senato: 8 agosto, a costo di non dormire neppure la notte di domenica. Fanno tutti bene ma attenti perché con tutti questi divieti, a volte chiamati ghigliottina e altre volte tagliola senza che sia chiara la differenza tra quelle due parole, l'autoritarismo rispunta inevitabilmente. Rispunta non perché qualcuno lo voglia ma perché se ne creano le condizioni. Se parla e decide solo il capo, la democrazia dov'è? Dice Renzi: ne parliamo da tre anni di queste riforme. Ma chi ne ha parlato? E di quali riforme?

I tre governi "presidenziali" di Monti, Letta, Renzi, alcune riforme le hanno fatte e il Parlamento le ha approvate. I tempi non sono stati particolarmente lunghi; il preteso balletto tra Camera e Senato che sarebbe il male numero uno della democrazia italiana, non ha rallentato le leggi, ne abbiamo già fornito le cifre. Ma ora ne diamo un'altra di cifra, estremamente significativa: 800 leggi, approvate da entrambe le Camere durante i tre governi sopraindicati, non sono ancora entrate in vigore. Pensateci bene: 800 leggi approvate da entrambe le Camere non vengono attuate. Perché? Perché mancano i regolamenti attuativi che dovrebbero essere studiati e ufficializzati dalla burocrazia ministeriale. Ottocento leggi. E poi si parla di balletto tra le due Camere, magari, ma il balletto non è quello: riguarda la burocrazia ministeriale, in gran parte in mano al Consiglio di Stato.

Si vuole abolire il Senato per snellire il potere legislativo e farlo diventare monocamerale. Ma non è affatto questa la ragione. Se la burocrazia resta quella che è, il monocameralismo non farà diminuire i tempi nemmeno di un giorno.

Ricordo ancora la mia ultima intervista con Aldo Moro, quindici giorni prima del suo rapimento. Mi spiegò perché l'alleanza tra la Dc e il Pci di Berlinguer era inevitabile: "Bisogna modernizzare e rifondare lo Stato. È ancora quello della destra storica, poi modificato dal fascismo. Ci vorrà almeno un'intera legislatura, forse non basterà. Quando avremo adempiuto a questo compito, i due grandi partiti riprenderanno il loro posto e si alterneranno democraticamente. Ma non prima e non bastano pochi mesi per ottenere un risultato storico di questa natura".

Forse Renzi non ha mai letto quel documento. Forse, con grandi intese e tre mesi di tempo dati alla Madia pensa di farcela. Ma nel frattempo perché non prova a far attuare quelle 800 leggi paralizzate? Quanto alle tagliole e alle ghigliottine: il presidente del Senato ha il potere di abolire alcuni emendamenti chiaramente ripetitivi, ma la procedura prevista dai regolamenti è estremamente gravosa. Non varrebbe la pena di modificare e dare a Grasso (e alla Boldrini) il potere di cassare gli emendamenti volutamente ripetitivi? Probabilmente gli ottomila previsti si ridurrebbero a poche centinaia e si lavorerebbe col tempo necessario.
Ma in realtà non è per questo che Renzi vuole abolire il Senato. Vuole potenziare l'Esecutivo e ridurre al minimo il Legislativo. È vero che c'è la trovata del referendum confermativo ma è, appunto, una trovata: gli elettori dei partiti delle larghe intese voteranno in massa l'abolizione del Senato; non gliene importa nulla di quella riforma. Provate a mettere a referendum una legge che abolisca il prolungamento dell'età lavorativa o che aumenti gli 80 euro a 100 e vedrete il risultato.

Renzi vuole il monocameralismo, dove agirà come presidente del Consiglio e leader del partito. Berlusconi farà altrettanto. Così andremo avanti fino al 2018. Se almeno riformassero lo Stato, ma temo sia l'ultimo dei loro pensieri.

***

In Europa però le cose non vanno molto bene e l'Italia è guardata con giustificato sospetto. Insiste molto sulla flessibilità, ma intanto il Pil scende, la produzione scende, i consumi scendono, la natalità scende. Dovrebbero abbassare le tasse, ma quali e come? Hanno bisogno di soldi da investire e volete che abbassino le tasse? Semmai dovrebbero tassare un po' di più i ricchi e alleggerire i poveri. Le rendite le hanno toccate, anche le pensioni che superano un certo tetto. Ma sono quisquilie, c'è l'evasione da stroncare. C'è molto e molto da fare. Abolire il Senato non serve a niente e all'Europa non interessa affatto.

Draghi ha detto quali sono le leggi di riforma da attuare: competitività, produttività, aumento della base occupazionale, equità sociale. Lo ripete quasi ogni giorno. Renzi non gli dispiace, anzi gli piace. Se farà quelle riforme che, tanto per dire, la Spagna ha portato avanti e infatti sta andando meglio di noi. La Spagna ha ricominciato a crescere, noi no.
Speriamo nella Madia. E nella Boschi. E nella Pinotti. E nella Mogherini. Se il pifferaio suona bene, loro faranno un buon coro, ma se il pifferaio stona, il concertone rischierà di diventare una gazzarra. Il pericolo è questo.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/27/news/se_il_pifferaio_stona_il_concertone_diventer_una_gazzarra-92485218/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il concetto vi dissi... ora ascoltate com'egli è svolto
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2014, 08:45:47 am
Il concetto vi dissi... ora ascoltate com'egli è svolto (*)

di EUGENIO SCALFARI
   
In questi tempi bui che stiamo attraversando gli eventi si moltiplicano a ritmo serrato, ogni giorno ne accadono decine che si accavallano l'un l'altro, si contraddicono, cambiano il panorama nel costume, nella politica, nell'economia, nella cultura. Oppure i mutamenti sono soltanto apparenze e tutto resta sostanzialmente immutato? Va di moda rievocare il Gattopardo di Luchino Visconti e forse è proprio quella la situazione in cui ci troviamo? Ho fatto un elenco - sicuramente incompleto - degli ultimi sette giorni. Sembra di girare un caleidoscopio con i pezzi di vetro colorati che cambiano continuamente posizione e disegno secondo i movimenti della tua mano, ma vetri e colori sono sempre gli stessi ed anche le combinazioni finiscono col ripetersi. Vediamolo insieme quell'elenco e poi ragioniamoci sopra.

I primi terribili eventi hanno nomi stranieri e sono guerre, attentati, rivoluzioni, caos diplomatico, religioso, militare. Si chiamano Israele, Hamas, Libia, Ucraina. Ma di questi fatti non starò a parlare; gli inviati del nostro giornale li raccontano e li esaminano tutti i giorni nei luoghi dove avvengono e nelle capitali dove hanno sede organismi internazionali direttamente o indirettamente coinvolti.

Passiamo ad altri argomenti. È nato un movimento di donne antifemministe che ha risvegliato le femministe storiche spingendole al contrattacco. È avvenuto in America, a New York in modo particolare, ma si sta spargendo rapidamente anche in Europa.

Donne e femministe a confronto, con parole grosse, a volte ai limiti dell'insulto. Eppure c'è un punto che le accomuna: la parità dei diritti rispetto agli uomini. Il che vuol dire che convengono sull'emancipazione. Il movimento delle donne non vuole altro, non vuole quote rosa, non vuole abbandonare la guida della famiglia e le relative incombenze, non vuole introdurre i cosiddetti nuovi valori che il femminismo storico ha sempre rivendicato.

Un tempo le femministe erano contrarie all'emancipazione, il loro obiettivo era la liberazione. Ma la liberazione non serve a nulla se non hai il potere di cambiare i valori sociali. Vedete: anche in questo caso la conquista del potere diventa un requisito essenziale e passa inevitabilmente per l'emancipazione ed ecco che il Gattopardo fa capolino.

La Federcalcio è in cerca di un nuovo presidente; la Nazionale italiana è uscita malconcia dai Mondiali brasiliani e vuole rilanciarsi. Il candidato alla Federcalcio più forte si chiama Tavecchio, un dilettante che fa gaffe ogni volta che apre bocca ed è la controfigura del presidente della Lazio, Claudio Lotito. Juventus e Roma non vogliono Tavecchio a nessun costo e sperano che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, lo fermi, ma Malagò non vuole coinvolgere il Coni in una diatriba che gli metterebbe contro tutte le leghe dei dilettanti. Se la maggioranza dei club non si schiererà avremo Tavecchio alla guida del calcio italiano, cioè Lotito. L'affarismo diventerà la sostanza e il gioco del pallone una farsa per scalmanati.

                              ***

Matteo Renzi vuole mettere il Senato nelle mani dei Consigli regionali. Sarebbe molto meglio abolirlo che affidarne il simulacro alla classe politica più mediocre e più corrotta che vi sia nel nostro Paese. Personalmente vorrei che il Senato rinunciasse al potere di dare o negare la fiducia al governo ma conservasse tutti gli altri poteri inerenti al Legislativo e i suoi membri, ridotti di numero come possibilmente dovrebbe farsi anche per la Camera dei deputati, continuassero a essere eletti dal popolo sovrano. Ma se questi obiettivi sono impediti dall'alleanza Renzi-Berlusconi, allora aboliamolo e basta. Renzi dovrebbe essere contento perché il suo vero obiettivo è il Monocamerale.

Avete qualcosa contro il Monocamerale? Io no. C'è quasi in tutta Europa, a cominciare dalla Gran Bretagna che è la patria della democrazia.
Il Monocamerale però rafforza notevolmente il potere Esecutivo, quindi ci vogliono contrappesi numerosi altrimenti il pericolo d'un governo autoritario si profila inevitabilmente. Gli osservatori gli hanno dato vari nomi. Qualcuno lo chiama dispotismo democratico. Altri autoritarismo o centralismo democratico. Altri ancora egemonia individuale. Ma la sostanza è la stessa, i pessimisti ad oltranza rievocano addirittura i rapporti tra il Direttorio e Napoleone Bonaparte.

Personalmente sono meno pessimista e quando penso al nostro presidente del Consiglio il cursus di Napoleone non mi viene neanche in mente e neppure quello di Benito Mussolini. Però mi viene in mente Bettino Craxi, quello sì, e debbo ammettere che non mi piace per niente.
Craxi era un socialista, ma di destra non di sinistra. Era alleato della Dc che aveva molti più voti di lui ma i suoi erano determinanti, quelli democristiani erano divisi in correnti molto in contrasto tra loro. Lui avrebbe voluto che Berlinguer lo appoggiasse restando però all'opposizione. Un piano alquanto bizzarro.

Anche Renzi vorrebbe che la sinistra lo appoggiasse e perfino i 5Stelle. Ma il vero cardine è con Berlusconi, la sua forza sta lì, nel patto del Nazareno.

La battaglia al Senato gli sta riservando qualche sgradevole sorpresa, ma il progetto non cambia salvo qualche adattamento di facciata.
La proposta più recente riguarda l'introduzione delle preferenze nella legge elettorale. È una concessione importante alla libertà di scelta degli elettori? Affatto. I "raccomandati" saranno sicuri dell'elezione come capilista, gli altri risveglieranno le lobby di tutta Italia, mafie comprese. Il nostro non è un Paese da preferenze. Il solo vero sistema accettabile è il collegio uninominale, con ballottaggio dei primi due, ma nessuno ci pensa più in questo strano Paese. La classe dirigente pensa ai propri interessi, la gente è indifferente, della riforma del Senato e della legge elettorale non gliene importa niente come del resto non importa niente neppure all'Europa. È un gioco tutto italiano, e il circuito mediatico lo moltiplica. Ci si accapiglia sul nulla, ma dietro a quel nulla ci sono progetti di potere coltivati con grande abilità.

Giuliano Ferrara ha scritto sul Foglio qualche giorno fa che io critico questo governo "con tono burbero". A me non pare. Se fossi burbero come spesso avrei voglia d'essere mi porrei come esempio quello di Gesù di Nazareth quando caccia col bastone i mercanti dal Tempio che insozzavano con i loro traffici e la loro brama di potere.

                                  ***

L'economia non va affatto bene. Questa settimana l'hanno dichiarato esplicitamente il ministro Pier Carlo Padoan e anche Renzi, le cifre fornite dall'Istat sull'occupazione e sull'andamento del debito e del Pil lo confermano; quelle della Svimez danno un quadro di disperazione per l'andamento del Mezzogiorno. Infine il commissario alla spending review Carlo Cottarelli l'ha messo nero su bianco: il governo vuole spendere in lavori pubblici cifre che non ha e che pensa di ricavare dai tagli sulle spese. In teoria quei tagli - che per ora sono solo teorici - dovrebbero servire a diminuire la pressione fiscale e non a finanziare altre spese.

In una conferenza stampa di giovedì scorso il presidente del Consiglio ha garantito che gli ottanta euro di bonus, pagato a partire dal maggio scorso ai lavoratori con redditi da otto a venticinquemila euro all'anno, saranno pagati anche nel 2015, mentre non saranno estesi ai poveri, esenti dall'imposta personale sul reddito (Irpef).

Questa esclusione conferma le difficoltà finanziarie che sono il vero problema del governo, ma i giornali non hanno colto a sufficienza un altro dato estremamente significativo: il bonus di ottanta euro doveva servire a rilanciare i consumi e quindi ravvivare la domanda. Invece non è accaduto nulla, i consumi sono fermi e in certi settori sono addirittura in diminuzione. L'operazione ottanta euro è dunque fallita (come avevamo previsto quando fu annunciata) e rivela ora la vera ragione per la quale fu fatta: suscitare simpatia elettorale a favore del Partito democratico renziano. Da quel punto di vista il risultato c'è stato alle elezioni europee del 25 maggio; le sbandierate finalità economiche sono invece miseramente fallite; molto meglio sarebbe stato destinare i 10 miliardi (tanto è costata l'operazione) ad una diminuzione dell'Irap in favore delle imprese: avrebbe accresciuto gli investimenti e forse avrebbe contribuito ad una ripresa della produzione industriale con conseguenze positive sull'occupazione. Anche questo era stato suggerito, ma naturalmente non fu ascoltato.
                             
                               ***
Senza l'Europa non si cresce. Il nostro governo vorrebbe essere autorizzato a sforare il 3 per cento del deficit almeno per due anni. Può darsi che questa facilitazione si ottenga, darebbe un certo respiro ma non è quella la chiave per uscire dalla stagnazione che minaccia di portarci a fondo. La chiave è nella nascita dell'Europa federale, con opportune cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali e diretti interventi di Bruxelles sulla politica economica e fiscale negli Stati in questione.

Dirò un'amara verità che però corrisponde a mio parere ad una realtà che è sotto gli occhi di tutti: forse l'Italia dovrebbe sottoporsi al controllo della troika internazionale formata dalla Commissione di Bruxelles, dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale. Un tempo (e lo dimostrò soprattutto in Grecia) quella troika era orientata ad un insopportabile restrizionismo. Ora è esattamente il contrario: la troika deve combattere la deflazione che ci minaccia e quindi punta su una politica al tempo stesso di aumento del Pil, di riforme sulla produttività e la competitività, di sostengo della liquidità e del credito delle banche alle imprese.

Capisco che dal punto di vista del prestigio politico sottoporsi al controllo diretto della troika sarebbe uno scacco di rilevanti proporzioni, ma a volte la necessità impone di trascurare la vanagloria e questo è per l'appunto uno di quei casi.

                            ***

Per concludere dirò che stiamo marciando verso un'alleanza stabile e non più limitata alle sole riforme costituzionali, con Berlusconi. Renzi è convinto di questa necessità, Berlusconi è ancora incerto e potrebbe anche romper gli indugi e puntare sul voto anticipato.

Con quale legge elettorale? Anche con quella proporzionale lasciata come residuale dalla sentenza con la quale la Corte costituzionale abolì il Porcellum.

La proporzionale non prevede alcun ballottaggio, quindi è su misura per Forza Italia. L'ipotesi dunque c'è, ma non credo che prevarrà. Alla fine l'ex Cavaliere preferirà fare il padre della patria fino al 2018, stipulando un'alleanza solida e piena e negoziando la sua agibilità politica.
Quella economica per trattare gli affari delle sue aziende l'ha sempre avuta.

Adesso vuole solo essere riconosciuto padre della patria.

"E er popolo? Se gratta. E er resto? Va da sé".
(*) "Pagliacci", di Leoncavallo

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/03/news/il_concetto_vi_dissi_ora_ascoltate_com_egli_svolto_-93014426/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Matteo Renzi è bravissimo ma la pagella finora è negativa
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2014, 06:43:07 pm
Matteo Renzi è bravissimo ma la pagella finora è negativa
Il premier aveva detto che sull'andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea

di EUGENIO SCALFARI
   
Il Senato è stato riformato in prima lettura. Ce ne vorranno altre tre tra Camera e Senato prima che la riforma sia perfezionata e intanto anche la riforma della legge elettorale dovrà esser varata anche se ancora numerose sono le variazioni che il Pd vorrebbe includervi non ancora concordate con Forza Italia in modo definitivo.

Comunque entrambi questi due cambiamenti (ai quali si dovrà aggiungere la riforma del titolo V della Costituzione) richiedono una doppia firma: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Di quest'aspetto della situazione parleremo tra poco ma intanto soffermiamoci sul significato del cambiamento avvenuto già da qualche tempo ma che nel voto dell'8 agosto ha avuto la sua ufficiale consacrazione.

Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d'una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d'una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c'è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l'Italia a tutti gli altri paesi d'Europa.

È vero e anch'io l'ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.

La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un'egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell'Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?
Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà.

***

Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, fu che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio; ora non c'è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.

Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L'ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l'eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un'ideologia: il socialismo è un'ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l'esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un'ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.

Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l'oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l'agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).

Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l'oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla "Repubblica".

Certo l'oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un'oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.

Certo c'è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell'antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c'era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l'Impero, Roma aveva conquistato l'intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l'Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial-democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai "clientes" dell'Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.

***

Spero d'aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l'Europa tutta.

L'attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell'anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.

Renzi aveva detto che sull'andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l'Italia ha la presidenza semestrale dell'Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell'Istat equivalgono ad una pessima pagella.

Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l'autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.

Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l'Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch'esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.

Infine - e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale - Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all'Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l'intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell'euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.

Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l'Italia dovrebbe accettare l'arrivo della "troika" internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l'occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l'aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.

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La riforma del Senato, come pure avverrà per quelle della Camera, del titolo V e della Giustizia, porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Si sapeva, era necessario e nessuno può dir nulla. Del resto accadde la stessa cosa con il governo Monti. Con quello di Letta no perché c'era stata la scissione di Alfano che però non sarebbe bastata per le riforme costituzionali.

Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all'opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l'interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto.

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Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l'abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest'affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.

Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.

Sulla "Stampa" di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l'astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.

Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una "assemblea giacobina" nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni "padri costituenti" contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.
© Riproduzione riservata 10 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/10/news/renzi_bravissimo_pagella_negativa-93492489/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:01:40 pm
Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano

di EUGENIO SCALFARI
17 agosto 2014
   
Non c'è alcun dubbio che l'Italia stia attraversando una fase di recessione e di deflazione e non c'è del pari dubbio che la stessa fase la stiano attraversando quasi tutti gli altri Paesi membri dell'Unione europea, in particolare la Francia e la Germania per citare i due principali: cala il Pil, aumenta il deficit, languono esportazioni e importazioni intraeuropee, sono fermi consumi e investimenti. Del resto fenomeni analoghi si manifestano perfino in Cina e in Brasile, il che accentua il carattere mondiale della crisi.

Il nostro presidente del Consiglio non sembra dare molta importanza a questi fenomeni. Punta sulle riforme istituzionali: Senato, Regioni e Province, legge elettorale, giustizia civile e Sblocca Italia. E punta soprattutto sull'Europa, ancora dominata da una politica rigorista che lui vuole capovolgere.

L'appuntamento culminante si prevede per il 30 agosto quando Renzi parlerà nella sua veste di presidente pro tempore del Consiglio europeo. Parlerà cioè con i rappresentanti degli altri Stati nazionali, nei quali risiede tuttora il potere di governare l'Ue, alla faccia degli altri organi di questa strana Confederazione composta da 28 membri, 18 dei quali hanno una moneta comune.

Renzi ha parlato a lungo nei giorni scorsi con Napolitano e con Draghi. Napolitano lo consiglia e lo appoggia, non si ha notizia d'alcuna critica salvo l'invito a non usare se non in casi estremi toni ultimativi. Del colloquio con Draghi, durato oltre due ore nella casa di campagna del presidente della Bce, si conosce soltanto una sobria versione di Renzi che è notevolmente positiva.

Draghi non parla con i "media", soprattutto con quelli italiani. Alcune sue tesi sull'Europa le aveva indicate in una pubblica comunicazione d'una settimana fa, dalla quale risultava - per quanto di pertinenza all'Italia - l'esortazione a privilegiare le riforme economiche su quelle istituzionali e - per quanto riguardava tutti gli Stati aderenti all'Ue - ad affrontare alcune importanti cessioni di sovranità all'Unione in materia di politica economica.

Nel colloquio con Renzi parrebbe - secondo la versione del Nostro - che su quest'ultimo tasto i due abbiano sorvolato; sulle riforme invece sono stati d'accordo. Draghi non ha detto nulla; evidentemente quando è in vacanza in campagna preferisce andare a caccia di farfalle non sotto l'arco di Tito ma a Città della Pieve e dintorni.

Una cosa però è certa e su questo il presidente della Bce era stato particolarmente facondo la scorsa settimana: l'Europa rischia di affondare sotto il peso della deflazione, ormai presente in tutto il continente. I prezzi diminuiscono, la domanda diminuisce, l'occupazione si restringe.

Contro la deflazione Draghi darà battaglia, cominciando a quanto pare a settembre, con misure anche "non convenzionali" e cioè lo sconto non solo di titoli pubblici ma anche di obbligazioni emesse da imprese che vantano crediti verso le pubbliche amministrazioni e verso la propria clientela; obbligazioni naturalmente garantite dai rispettivi debitori. E poi un'immissione di liquidità in favore delle banche purché esse la reinvestano in buona parte sulla clientela. La premessa dalla quale Draghi parte (così sembra) è che la predetta clientela, cioè le imprese manifatturiere e di servizi qualificati, reinvesta la liquidità che gli arriva. Del resto la scuola ci insegna che la deflazione si combatte così.

Qui però c'è un aspetto che forse è sfuggito all'attenzione dei più: la deflazione è un fenomeno estremamente pericoloso ma non va confuso con la depressione. Spesso vanno insieme, ma talvolta no. Quella del 1929 per esempio non fu un'accoppiata deflazione-depressione, soprattutto negli Usa. Non c'era deflazione, la liquidità non mancava ma non era utilizzata a dovere; i prezzi dei beni e dei servizi non diminuiva, ma la domanda mancava. Bisogna consultare Keynes per capir bene la differenza tra questi fenomeni e anche John Kenneth Galbraiht nel suo Il Grande Crollo. Non c'era deflazione in Usa, ma depressione. Oggi in Europa e in Italia i due fenomeni sono appaiati ma noi, il nostro governo, la Bce, le istituzioni dell'Europa confederata e soprattutto i possessori di capitale si propongono di battere la deflazione ma guardano con palese distrazione alla depressione. Ecco una questione sulla quale converrà soffermarsi e riflettere.

***

La depressione ha varie cause che la determinano. La prima, fatalistica e al tempo stesso consolatoria, la spiega con la teoria del ciclo economico; sarebbe una sorta di respiro: la depressione ha una pausa nel corso della quale la società decresce, la miseria aumenta e si diffonde fino a quando, toccato il fondo, tutta l'attività si rimette in movimento, il benessere torna a diffondersi, il progresso sociale raggiunge vette ancor più alte di prima. Si discute tra i sostenitori di questa tesi quale sia la durata del ciclo; secondo alcuni la depressione arriva ogni 25 anni, secondo altri 50 ed altri ancora prevedono che avvenga ogni 70 anni.

I sostenitori della seconda tesi escludono la teoria del ciclo e ne sostengono un'altra molto più convincente: la cattiva e a volte pessima distribuzione della ricchezza. Il liberismo in realtà genera rapidamente sistemi economici monopoloidi, dove il 10 e a volte perfino il 5 per cento della popolazione possiede il 40 e a volte il 50 per cento della ricchezza nazionale. La depressione sarebbe causata da questa diseguaglianza, una sorta di ribellione improvvisa dei ceti più bassi che sperano di ottenere l'intervento dello Stato per modificare in senso più egualitario le classi della società. Il "New Deal" di Delano Roosevelt puntò su questo aspetto. Lo fece però con molta prudenza e rispettando i privilegi dei ricchi ma sostenendo i bisogni primari dei poveri e affidando allo Stato alcune iniziative economiche.

Del resto tutto il pensiero marxista nacque sulla tesi della pessima distribuzione della ricchezza che avrebbe provocato, una volta compiutasi la rivoluzione borghese, la rivolta proletaria e l'instaurazione d'una società comunista.

C'è però una terza tesi che spiega la depressione dandone la responsabilità principale ai possessori del capitale, ai capi delle aziende e al management; questa rappresenta la vera classe dirigente d'un paese e si comporta come una classe chiusa nella forza dei suoi privilegi. Non reinveste i profitti ma li incassa come dividendi e/o come bonus destinati al management. Questa massa di ricchezza viene affidata alle banche d'affari che investono e speculano su determinati asset, sulle industrie del lusso, miniere non utilizzate, mutui all'edilizia popolare, nuove invenzioni tecnologiche che puntano sul restringimento della base occupazionale. Insomma speculazione; a volte positiva perché fa avanzare il nuovo, altre volte negativa perché sottrae risorse all'industria, all'agricoltura, ai servizi e le destina alla finanza e al suo arricchimento.

Questi comportamenti generano inevitabilmente corruzione, evasione fiscale, disoccupazione, potenza delle lobby, demagogia politica, capitalismo selvaggio. Schumpeter vedeva al tempo stesso l'aspetto positivo di questi comportamenti e l'aspetto negativo dovuto a una distruzione di ricchezza a danno dei molti e a favore dei ricchi. Non a caso sia quella del 1929 sia quella del 2008 sono nate a Wall Street. La deflazione non aveva nulla a che vedere con quegli eventi.

L'Europa dal 2011 a oggi ha importato la depressione (ricordate il fallimento di Lehman Brothers come campanello d'allarme?) ma in Italia questo percorso era già cominciato nientemeno che a metà degli anni Settanta del secolo scorso, si era rafforzato socialmente ed economicamente negli anni Ottanta e Novanta; infine fu ed è infinitamente accresciuto dalla sopravvenuta crisi americana.

Mettete insieme le tre tesi sopra esposte e aggiungetevi come sovrappiù la crisi di deflazione nel frattempo esplosa a causa del credit crunch delle banche, il malgoverno politico e avrete fotografato la situazione.

***

Il 30 agosto Matteo Renzi rivendicherà davanti ai capi di governo europei e al neo presidente della Commissione, la necessità di una nuova politica europea fondata sulla flessibilità, la crescita, la diminuzione della pressione fiscale in Italia e il necessario taglio della spesa pubblica. Rivendicherà inoltre il ruolo di Alta rappresentante della politica estera e della difesa per l'attuale nostra ministra degli Esteri.

Quest'ultima partita è già quasi persa in partenza ma qualora fosse vinta è pura e semplice fuffa. L'ho già scritto tre volte nei miei articoli domenicali: è una carica di semplice apparenza, non ha alcun potere su 28 paesi ciascuno dei quali ha un suo ministro degli Esteri e un suo ministro della Difesa. Avrebbe un senso se ci fosse in quei due settori la cessione di sovranità all'Europa, ma questo è allo stato dei fatti un'ipotesi di terzo grado, cioè irrealizzabile. Debbo dire che, almeno ai miei occhi, sarebbe quanto mai opportuna coi tempi che corrono; ma ove mai da qui a una decina d'anni si realizzassero gli Stati Uniti d'Europa, questa degli Esteri e della Difesa sarebbe l'ultima delle cessioni di sovranità.

Le altre richieste sulla flessibilità, sul rinvio della diminuzione di debito pubblico, sul taglio della spesa pubblica e la diminuzione della pressione fiscale, a me sembrano bubbole.

Bisognerebbe destinare risorse cospicue al taglio dell'Irap. Bisognerebbe che le imprese scoprissero nuovi prodotti e li lanciassero sui mercati, bisognerebbe che investissero in imprese nuove. Bisognerebbe creare un solido sistema di ammortizzatori sociali, bisognerebbe che i contratti aziendali avessero la meglio sui contratti nazionali, sempre che le aziende al di sotto dei 50 dipendenti stipulassero contratti di gruppo con sindacati di gruppo per non lasciare le aziende con pochi dipendenti alla mercé dei padroncini.

E bisognerebbe che Draghi mantenesse i suoi impegni e ai primi di settembre cominciasse la battaglia di fondo contro la deflazione.

Nel frattempo temo che il governo impieghi una parte preziosa del suo tempo alla riforma della legge elettorale che così come la stanno pensando servirà soltanto a rafforzare il potere esecutivo. Ma di questo ho già parlato e ormai me ne è passata la voglia. Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d'aver già imboccato riducendo il Senato a un'istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.
© Riproduzione riservata 17 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/17/news/roosevelt_non_ci_riusc_ora_ci_prova_lo_scout_italiano-93935757/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il califfato ci minaccia ma l'Europa pensa ad altro
Inserito da: Admin - Agosto 26, 2014, 06:28:58 pm
Il califfato ci minaccia ma l'Europa pensa ad altro

di EUGENIO SCALFARI
24 agosto 2014
   
Quella che non a caso papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale. Poiché supera i confini tradizionali, conviene individuare i luoghi con nomi più antichi: i punti centrali sono la Mesopotamia, il Mediterraneo, l'Europa fino agli Urali e l'America del Nord. È una guerra di religione e di contrapposte civiltà. Bernardo Valli e i numerosi inviati del nostro giornale ne seguono gli accadimenti giorno per giorno e ne danno un quadro che cambia di continuo. Vittorio Zucconi ne ha fornito un'immagine molto efficace: un treno in corsa gremito di gente ma privo del personale che dovrebbe guidarlo su un terreno accidentato e in ripida discesa, punteggiato da gallerie oscure e da fragili ponti.

Ma l'Europa che ne è il continente più coinvolto è - strano a dirsi - quello i cui governi meno se ne interessano. I governi che fanno parte dell'Unione europea si limitano a qualche generica dichiarazione di solidarietà con le minoranze sotto tiro, ma la loro propensione - così sembra - è di tenersene alla larga. Il primo e forse l'unico baluardo sono gli Usa, ma anche Washington si muove con estrema circospezione e moderazione.

L'attore principale, anzi unico almeno per il momento, è il Califfato, il movimento islamico che discende da Al Qaeda ma si è molto allontanato dalle finalità e dalle strategie di Bin Laden e dei suoi successori. Al Qaeda era una centrale al tempo stesso terroristica e religiosa. Non si proponeva di modificare la geografia degli Stati. Bensì di imporre l'interpretazione radicalizzata del Corano e delle scritture profetiche che l'avevano preceduto e accompagnato. Il fondamento era sunnita ma non prevedeva una guerra santa contro gli sciiti. La guerra santa era contro i cristiani ma, unita ad essa, c'era anche una guerra sociale dei poveri contro i ricchi; in particolare contro il capitalismo.

L'Is, la sigla che designa il Califfato, è un movimento del tutto diverso. Non è una centrale terroristica anche se il terrorismo è ben presente nella sua tattica di guerra; è un esercito vero e proprio, dotato di mezzi di guerra moderni, dispone di ampi mezzi finanziari ottenuti in parte con i rapimenti e i ricatti ma soprattutto con finanziamenti che vengono da potenze arabe (Emirati e monarchia Saudita) desiderose di guadagnarsi l'intangibilità geopolitica poiché l'alleanza ufficiale con gli Usa ha cessato da un pezzo dal rassicurarli.

Il Califfato vuole conquistare un territorio strategicamente decisivo: una parte della Siria, una parte dell'Iraq possibilmente fino a Baghdad, la regione del Kurdistan e da questo nucleo iniziale ripercorrere le strade che in poche decine d'anni portarono gli arabi maomettani alla conquista di tutta la costa del Mediterraneo fino all'Emirato spagnolo di Cordova e di Granada.

Il contenuto - l'abbiamo già detto - di questo movimento è religioso e sociale: contro i cristiani, contro i laici, contro i ricchi. Eccitando e seducendo anche molti giovani occidentali che amano l'avventura, le novità, la rivoluzione. Non importa molto contro chi e contro che cosa, ma la rivoluzione.

Quelle che scoppiarono due tre anni fa e furono definite primavere arabe erano composte da giovani animati da due diverse spinte: una parte voleva applicare nei loro Paesi i principi e i diritti di libertà e di giustizia imparati dall'Occidente liberal-democratico, e un'altra parte voleva invece una rivoluzione che colpisse e mettesse fuori gioco le dittature logore e corrotte.

Questa parte dei giovani che animarono le primavere arabe è pronta ad aderire al Califfato; in parte l'ha già fatto, in parte lo farà e sarà un apporto numericamente e moralmente fondamentale.

L'America di Obama vede la minaccia ma non ha molta voglia di impegnarsi a fondo nel Mediterraneo e in Mesopotamia. Il suo obiettivo in una società multipolare è l'intesa con l'America Latina e il Pacifico. Non le sfugge l'estrema pericolosità del Califfato ed è pronta a sostenere lo sforzo di quanti dovrebbero essere più interessati e più direttamente coinvolti in questa terza guerra mondiale. Ma, come abbiamo già notato, l'Europa non ha le forze. Di fronte al treno in discesa e senza chi lo guidi, l'Europa è un treno in salita con una quantità notevole di guidatori. Molti più guidatori che passeggeri.

I passeggeri non sono in quel treno; stanno a casa loro, mugugnano, protestano, aspettano l'Uomo della Provvidenza vero o supposto che sia. Del Califfato li terrorizzano le gesta ma lo guardano come un "horror", una favola. Per alcuni giovani perfino affascinante. C'è sempre e dovunque, nelle guerre, una quinta colonna e c'è anche qui.

L'Europa insomma pensa ai suoi guai ed è con questi che ora vuole e deve misurarsi.

***

I governi che contano di più e che fino a qualche anno fa rappresentavano una sorta di Direttorio, e cioè la Germania e la Francia, sono ancora per ovvie ragioni storiche, economiche, geografiche, le due più importanti del continente. Ad esse, nelle elezioni europee del 25 maggio scorso, si è aggiunta l'Italia di Renzi. Ma non sono certamente i soli. C'è la Spagna, l'Olanda, l'Austria e - fuori dall'Eurozona - ci sono la Gran Bretagna e la Polonia. Ma se dovessi dire qual è la persona che conta più di tutte le altre farei il nome di Mario Draghi, per la competenza economica che ha e per la carica che ricopre di presidente della Banca centrale europea, della quale le Banche centrali nazionali sono (o dovrebbero essere) importanti articolazioni contemporaneamente dotate di sovranità in quanto membri del Consiglio direttivo della Bce.

Ho scritto domenica scorsa che Draghi ai primi di settembre avrebbe dato applicazione ad una serie di interventi sulla liquidità, alcuni dei quali non convenzionali. Lo scrissi perché Draghi l'aveva pubblicamente dichiarato e quindi non era una previsione ma una certezza, ripetuta venerdì scorso dal medesimo Draghi dopo l'incontro con i principali banchieri centrali di tutto il mondo a Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose.

L'obiettivo è di battere la deflazione che imperversa in Europa e la recessione - cioè una fase ancora tenue ma già assai allarmante di depressione economica. Su quest'ultima Draghi può far poco se non esortare i governi (e quello italiano in particolare) a varare leggi di riforme economiche soprattutto riguardanti il lavoro, la diminuzione della spesa pubblica improduttiva e a rilanciare investimenti e occupazione nell'ambito d'una flessibilità che i governi e la Commissione europea (la Germania in particolare) dovrebbero consentire.

Queste sono esortazioni; preziose ma purtroppo non affidate alle mani di Draghi. Il suo compito specifico riguarda la liquidità. Lo scopo (previsto dallo statuto della Bce) è di aumentare il tasso d'inflazione, attualmente prossimo allo zero, portandolo verso il due per cento. Lo può fare in vari modi: acquistando titoli pubblici sui mercati secondari, finanziando a bassissimi tassi le banche affinché destinino la maggior parte del finanziamento alla clientela che ne faccia richiesta. Infine finanziare obbligazioni di aziende creditrici e quindi immettendo nelle predette aziende una preziosa liquidità.

Ma lo strumento numero uno cui Draghi mira e di cui ha lungamente discusso con la presidente della Federal Reserve americana è il tasso di cambio dollaro-euro. L'euro fino a poche settimane fa quotava 1,40 dollari con punte fino a 1,45. Da qualche giorno è gradualmente disceso a 1,32, quindi un risultato positivo sebbene la Fed americana non sia disposta per ora a collaborare. La Fed dovrebbe aumentare il tasso d'interesse e dovrebbe diminuire l'acquisto di Bond del Tesoro Usa, ma aspetta d'esser sicura di una solida ripresa del lavoro e fino ad allora non si muoverà dalla politica attuale. Ci vorrà circa un anno, fino alla seconda metà del 2015.

E Draghi? Gli basta un cambio di 1,32 col dollaro, quindi una diminuzione di 8-10 punti? No, non può bastare. Non basta a rilanciare l'import-export dell'Europa verso l'area del dollaro. Il tasso di cambio ideale sarebbe 1,10 ma quello accettabile è intorno a 1,20 cioè un'altra diminuzione di 10-12 punti. Con quali strumenti può ottenere questo risultato con quella rapidità che provoca uno shock positivo nelle aspettative per quanto riguarda soprattutto l'esportazione europea?

È molto semplice: vendendo sul mercato dollari in quantità sufficiente a premere efficacemente sulle quotazioni. La vendita avrebbe un triplo risultato: svalutazione dell'euro, aumento dell'inflazione, investimenti causati dalle esportazioni, cioè da una accresciuta domanda estera.

Quanto al governo italiano, dovrebbe destinare almeno dieci miliardi alla diminuzione dell'Irap a favore delle imprese. Con quali risorse? Stornando la medesima cifra dal finanziamento dei famosi 80 euro i cui risultati di rilancio dei consumi non sono avvenuti; oppure tassando i ricchi il cui reddito sia da 130mila euro in su.

La cattiva distribuzione del reddito è una delle cause più importanti delle depressioni economiche. Possibile che, non dico Renzi  - impegnato nelle secchiate d'acqua gelata anti-Sla - ma dico Padoan non si renda conto di quali sono le manovre da fare?

Un'osservazione voglio ancora aggiungere che riguarda l'inclusione che si farà in tutta Europa ma che è un vero e proprio shock per l'Italia, del reddito malavitoso nella contabilità nazionale. Contabilizzando il reddito che le varie mafie ricavano dalla droga, dagli appalti, dai bordelli, dalle sale da gioco, il Pil nazionale aumenterà di almeno 60 miliardi di euro. Non combattendo il formarsi di quel reddito ma contabilizzandolo. Ne avranno un vantaggio e ne saranno tutti contenti all'Istat, all'Eurostat, al Tesoro.

A me sembra una pura e semplice vergogna.

P. S. Roberto Calderoli, come al solito, prima fa i Porcellum e poi li definisce porcate come infatti sono.

Questa volta la porcata è la legge approvata in prima lettura sulla riforma del Senato. Il senatore leghista che ne ha redatto il testo insieme alla Finocchiaro, una volta approvata l'8 agosto come Renzi voleva a tutti i costi, l'ha definita una merda (sic) ed ha aggiunto: "È stato consumato uno scempio estetico e lessicale che è difficile far funzionare".

Il "24 ore "di lunedì scorso gli ha dedicato una pagina intera che documenta "lo scempio estetico e lessicale". Basta leggere quella pagina per averne conferma. Uno scempio che le Alte autorità preposte al controllo delle leggi costituzionali non hanno contestato al governo e alle competenti commissioni parlamentari auspicando che quella legge deve essere profondamente emendata nelle future letture senza di che - immagino io - difficilmente il Presidente della Repubblica potrebbe promulgarla.

Lo ripeto ancora una volta: meglio di questo sgorbio sarebbe abolire il Senato. De Gasperi si rivolterebbe nella tomba, anzi è presumibile che lo stia già facendo perché per lui il bicameralismo perfetto era indispensabile al buon funzionamento della democrazia.

© Riproduzione riservata 24 agosto 2014
Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/24/news/califfato_minaccia_europa_pensa_ad_altro-94353698/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2014, 05:20:12 pm
Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar

Di EUGENIO SCALFARI
07 settembre 2014
   
Da tre giorni a questa parte i casi nostri si concentrano in un nome, quello di Mario Draghi e sulla sua politica contro la deflazione che sta massacrando l'Europa e l'Italia in particolare.

La strategia di Draghi è stata da lui stesso illustrata in modo molto chiaro e si può riassumere così: ha già ridotto al minimo il tasso di sconto e sotto al minimo quello sui depositi a breve termine delle banche presso la Bce. Metterà a disposizione del sistema bancario europeo una quantità illimitata di liquidità con contratto a quattro anni; sconterà obbligazioni cartolarizzate di imprese europee; se necessario acquisterà titoli di debiti sovrani sui mercati secondari dei paesi in difficoltà.

Questa politica ha un obiettivo primario: rialzare il tasso di inflazione in prossimità al 2 per cento (attualmente in Europa è prossimo allo zero) e un obiettivo secondario ma interconnesso che è quello di abbassare il tasso di cambio dell'euro-dollaro almeno verso l'1,25 ma possibilmente all'1,20 contro dollaro. Questo risultato potrà essere anche attuato con interventi sui mercati di paesi terzi con monete diverse dall'euro, vendendo quote della nostra moneta e deprimendo così il cambio con riflessi sulle quotazioni del dollaro.

L'insieme di questi intenti non è di facilissima esecuzione ma la Bce e le Banche centrali nazionali dell'area europea sono perfettamente in grado di effettuarli con rapidità ed efficienza. Ma c'è un aspetto molto problematico: le imprese europee sono parte attiva di questo programma, debbono cioè essere disponibili a indebitarsi con le banche, sia pure a tassi di interesse abbastanza ridotti rispetto a quelli attuali.

Se hanno progetti di investimenti e se i governi le incentivano a investire, il sistema delle imprese farà quello che ci si aspetta; ma attualmente questa disponibilità non c'è o è comunque insufficiente, sicché questa seconda parte della strategia di Draghi rischia di non dare i risultati attesi.

La motivazione è evidente: la Bce, come tutte le Banche centrali, può agire sulla deflazione, ma gli strumenti per combattere la recessione-depressione non sono nelle sue mani ma in quelle dei governi ai quali non a caso Draghi raccomanda riforme adeguate sul lavoro, sulla competitività e sulla distribuzione più equa della ricchezza. La Banca centrale è perfettamente consapevole di questa situazione e lo è anche la Commissione europea e in particolare la Germania. Di qui l'alternativa (che non consente alibi) ai paesi più colpiti dalla depressione tra i quali al primo posto c'è purtroppo l'Italia: le riforme economiche sui temi che abbiamo prima indicato debbono essere fatte subito; soltanto dopo, quando saranno state varate e rese esecutive l'Italia potrà ottenere quella flessibilità che gli consenta d'avviare un rilancio della domanda e della crescita consistente e duraturo. Perdere tempo in altre iniziative è letale se ritarda questo tipo di riforme.
Meglio in tal caso cedere alla Commissione una parte della propria sovranità nazionale affinché sia l'Ue ad avere la possibilità di emettere direttive direttamente applicate in materia di lavoro e di fisco.

Questo è ora il bivio di fronte al quale il nostro governo si trova.

Finora non sembra sia pienamente consapevole della drammaticità della situazione e delle proprie responsabilità. Renzi si sente politicamente forte nel Partito socialista europeo e per conseguenza anche di fronte all'altro partito, quello Popolare, che con i socialisti fa maggioranza nel Parlamento dell'Unione. Pensa - o almeno così dice di pensare - d'essere in grado di fare la voce grossa a Bruxelles e di ottenere così, almeno in parte, quella flessibilità che gli consenta di alleviare il ristagno della nostra economia.

Le riforme le farà ma ci vuole tempo. Il bivio configurato da Draghi è vero solo in parte e non si può bloccare la forza politica di Renzi. La nomina della Mogherini, secondo lui, ne è stata la prova.

A me, osservando i movimenti del nostro presidente del Consiglio, viene in mente quella vecchia canzone americana nota e canticchiata in tutto il mondo occidentale: "Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar". E l'altra: "Quando i santi marciano tutti insieme a me piacerebbe marciare con loro".

Ma bisogna essere bravi ragazzi o santi. Francamente non mi pare che siamo né l'una né l'altra cosa e basta guardarsi intorno per capirlo fin dalla prima occhiata.

* * *
Dunque siamo arrivati a Matteo Renzi, al suo governo, alla montagna di problemi che si sono accumulati sulle sue spalle. Debbo dire che li porta molto bene, non perde l'allegria, le battute, la mossa.

La mossa per lui è importante, gli viene spontaneamente e riesce quasi sempre a bucare il video delle tivù e le prime pagine dei giornali. Pensate: sono tre giorni che i media hanno tra gli argomenti principali la decisione di Renzi di non andare al "salotto buono" di Ambrosetti a Cernobbio. Ci saranno cinque dei suoi ministri, due o tre premi Nobel, i principali industriali italiani e la stampa di mezzo mondo ma lui ha deciso che andrà a Brescia per festeggiare la ripresa d'attività d'una azienda che aveva avuto alcuni incidenti di percorso. Tre giorni e ancora se ne parla. Mi sembra incredibile.

Mi piace citare un passo scritto da Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì: "Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all'artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista. Finché non faremo un discorso alla nazione, sorridente quanto si voglia, ma pieno di verità, non ce la caveremo. Renzi ha già metà del piede nella tagliola che in Italia non tarda mai a scattare".

Così Ferrara. Personalmente mi auguro che la tagliola non scatti perché allo stato dei fatti non abbiamo alternative. L'ho scritto più volte. Criticavo Renzi per parecchi errori compiuti ma al tempo stesso dicevo: votate per lui, che altro si può fare? Erano in vista le elezioni europee del 25 maggio dove infatti prese il 40,8 per cento dei voti. Non certo per merito mio, ma ne fui contento sperando che cambiasse. Invece è peggiorato. È un artista della comunicazione come scrive Ferrara, io lo definirei un seduttore come Berlusconi, ma tutti e due si credono statisti e questo è il guaio grosso del paese.

L'ultimo mutamento renziano è stato quello dell'annunciazione (meglio che chiamarla "annuncite", come dice lui) del programma dei mille giorni che durerà fino alla fine della legislatura.

Vi ricordate la fase dell'annunciazione? Un giorno diceva: nel prossimo giugno faremo la riforma del lavoro e in un mese la porteremo a termine; io ci metto la faccia, se non si fa me ne vado.

Il giorno dopo annunciava per il mese di luglio la semplificazione della pubblica amministrazione con le stesse parole e metteva sempre la faccia in gioco. Il giorno successivo annunciava per settembre la riforma della scuola. Idem come sopra.

La sola volta in cui riuscì fu la prima approvazione della riforma costituzionale del Senato: la voleva per l'8 agosto e l'ottenne. Quella era a mio avviso una sciagura e si vedrà nei prossimi mesi se e come finirà, ma la ottenne anche perché ci furono i voti di Berlusconi. Due seduttori uniti insieme possono fare uno statista ma di solito di pessima qualità.

* * *
Dunque dall'annunciazione ai mille giorni, perché si è capito che in un mese una riforma che mira a cambiare una parte dello Stato non è neppure pensabile. La faccia non ce l'ha messa. È una fortuna perché oggi ci troveremmo senza un governo, senza un programma, schiacciati dalla recessione e della deflazione proprio nel momento in cui spetta all'Italia ancora per tre mesi la presidenza semestrale dell'Unione europea.

È una fortuna, ma anche una sciagura perché il nostro Renzi, che snobba Cernobbio (e chi se ne frega), adesso interferisce anche con Draghi.
All'esortazione di fare subito almeno la riforma del lavoro per trattare con la Commissione (e con la Merkel) una dose accettabile di flessibilità, ha risposto: "Subito? Ma che dice Draghi? Ci vuole il tempo che ci vuole per una riforma di quell'importanza". Ma lui non ci aveva messo la faccia per farla in un mese?

Io so in che modo la si può far subito: con i voti di Berlusconi il quale altro non vuole che stare nella maggioranza non solo per le leggi costituzionali ma anche per quelle economiche. Per tutte. E non pretende nemmeno che Renzi glielo chieda. Anzi, Renzi dirà che non chiede niente a nessuno, è un bravo ragazzo e nessuno lo fermerà.

Ma Berlusconi si sente un santo, anzi un padre della Patria che vuole marciare con tutti gli altri fino al 2018. Così poi lo vedremo inserito nell'album della storia d'Italia accanto ai volti di Mazzini, Garibaldi e Cavour.

Uno schifo, ma temo assai che finisca così.

* * *
Ci sarebbero tante altre cose da trattare, sulle coperture finanziare che non ci sono, sul taglio lineare di tutti i ministeri, sul blocco per il quinto anno agli stipendi degli statali e sul taglio a quelli delle Forze dell'ordine. Ma tralascio. Una notizia però viene dalla Calabria, anzi due. È una delle regioni più povere d'Italia ed anche purtroppo delle più corrotte.

Non a caso la 'ndrangheta è la mafia più forte d'Europa ed ha ormai i suoi centri più attivi a Milano, Torino, Lione, Amburgo, Bogotà.

La prima notizia arriva dal sindaco di Locri che l'ha resa pubblica, l'ha affissa sui muri della città e l'ha comunicata al presidente della Repubblica e anche a papa Francesco: il Comune ha 125 dipendenti e da tre anni quelli in servizio (non sempre gli stessi) sono 25; gli altri cento stanno a casa o in ospedale perché ammalati o perché l'autobus non funzionava o perché la moglie li ha abbandonati o per altre ragioni più o meno comprensibili.

Il sindaco li ha ammoniti, puniti, ne ha proposto il licenziamento ma il consiglio comunale, la segreteria, i partiti, le famiglie, lo hanno di fatto impedito. I 125 ci sono sempre, i 25 al lavoro anche, i cento assenti pure. Il sindaco si chiama Calabrese ed ama la sua terra. Forse papa Francesco farà un miracolo. Speriamo bene.

La seconda notizia riguarda una sentenza del Tar di Catanzaro ottenuta dall'avvocato Gianluigi Pellegrino che a suo tempo ne aveva ottenuta una analoga sul consiglio comunale di Roma presieduto dalla Polverini.

Nel caso di Catanzaro si trattava della Regione, presieduta da Scopelliti. Indagato per malversazioni varie, Scopelliti fu condannato in primo grado e sei mesi dopo la condanna si dimise dalla Regione. Per automatismo anche il consiglio regionale si sciolse ma prima approvò un atto in extremis: tolse al prefetto il potere di indire le elezioni e lo affidò al vicepresidente del consiglio regionale nonostante anche lui fosse dimissionario.

Nel frattempo il Consiglio dimissionario continuò a riunirsi regolarmente, votare progetti, assunzioni, appalti, incarichi, senza che né la destra (che governava il Comune) né i consiglieri Pd si astenessero da comportamenti indebiti.

A quel punto un comitato di cittadini da tempo esistente, che ha per fine quello di combattere i soprusi e gli illeciti della Pubblica amministrazione, incaricò Pellegrino di citare dinanzi al Tar quanto accadeva a Catanzaro. Contemporaneamente il suddetto comitato e il suddetto avvocato informarono di quanto avveniva la presidenza del Consiglio chiedendone l'intervento. La lettera e l'intera pratica furono passate al capo del Dipartimento uffici giudiziari di Palazzo Chigi, diretto da certa Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze quando il sindaco era Renzi.

Come un capo dei vigili possa assumere la guida dell'ufficio legislativo della presidenza del Consiglio è un fatto misterioso. Forse si sperava in un mistero gaudioso ma non sembra che sia così. Infatti di fronte al ricorso contro il consiglio regionale di Catanzaro la Manzione non ha trovato di meglio che rivolgersi al ministero dell'Interno per suggerimenti sul da fare e la pratica è ancora ferma lì.

Per fortuna il Tar ha provveduto: le elezioni sono state indette per il 10 ottobre e il commissario ad acta è di nuovo il prefetto.

Malgrado la 'ndrangheta, anche alcuni calabresi sono bravi ragazzi e testardi per natura. Sicché "nessuno li può fermar". Meno male.
© Riproduzione riservata 07 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/07/news/noi_siamo_bravi_ragazzi_e_nessuno_ci_pu_fermar-95171756/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI: "Il desiderio è tutto, ma l'Italia ha smesso di sognare"
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:22:33 pm
Scalfari: "Il desiderio è tutto, ma l'Italia ha smesso di sognare"

I nuovi desideri. L'immaginario e le derive del Paese secondo il fondatore di Repubblica. "L'uomo contemporaneo è schiacciato sul presente.
E rifiuta di conoscere il passato. Esiste una società responsabile che ha a cuore il bene pubblico. E poi ci sono mafie e lobby.
De Gasperi fu lo statista che più di tutti capì le aspirazioni di una comunità che cambiava"

di SIMONETTA FIORI
11 settembre 2014
   
VIVERE è essere un altro, scrive Pessoa nel Libro dell'Inquietudine. Bisogna evitare la monotonia, perché sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire ma ricordare. Pessoa e la sua sinfonia di "doppi" ci conducono nello studio-mansarda di Eugenio Scalfari, che al desiderio ha dedicato gran parte dei suoi bellissimi libri. "Si muore desiderando", dice Scalfari. "Quando si esaurisce il desiderio, che può essere quello di sopravvivere o di morire dolcemente, si chiudono le palpebre".

Il desiderio è la vita, in sostanza?
"E' il termometro che misura la vitalità. Per la gran parte del tempo Oblomov vive ma non è vitale, perché non ha desideri. Solo dopo che gli entra in circolo una pulsione più forte riesce a battere la sua inerzia"
 
Tu lo fai discendere da Eros.
"Sì, Eros è il Signore dei desideri. La tarda mitologia lo battezzò dio dell'amore, riducendolo a paggetto della madre Afrodite, il cupido che con la freccia colpisce il cuore. Ma per una più antica mitologia che risale a Esiodo è una divinità primigenia che domina gli dei e gli uomini, suscitando il desiderio e l'entusiasmo del desiderio. Desiderio d'amore e di potere, desiderio di forza o di ricchezza. Desiderio di sopravvivenza. È Eros che ci dà il senso di cui abbiamo disperato bisogno".

Ti posso fare una domanda molto personale? Tu hai indagato la tua vita psichica in molte pagine dei tuoi libri. Ma hai mai pensato di farti aiutare da uno psicoanalista?
"Sì, l'incontro avvenne tardi, verso i quarant'anni. Prima ero persuaso che l'analisi fosse una cosa assurda. Ne ridevo con Simonetta, la mia prima moglie: "ma quelli sono matti, vanno lì a raccontare i loro sogni". Poi però ho conosciuto il senso di colpa. Amavo profondamente e in modi diversi due donne che erano molto diverse. Al principio credevo di non fare del male a nessuno, poi però cominciai a tormentarmi, pensando anche alle mie figlie. Allora nacque il complesso di colpa. E cominciò quel viaggio dentro di me che credo ciascuno di noi debba fare. Anche di questo, del senso di colpa e del viaggio interiore che ne è scaturito, sono debitore a Serena, la mia attuale moglie".

Ma ne parlasti con uno specialista?
"Ebbi un solo colloquio con un'analista che mi diagnosticò una nevrosi. Tutti abbiamo delle nevrosi, mi disse. Uno squilibrio costante, che può oscillare di intensità ma la sua natura rimane la stessa. La mia nevrosi era di tipo paternale. Le avevo raccontato che, quando arrivavo all'Espresso, mi accorgevo subito dei musi lunghi. E io non volevo musi intorno a me. Così chiamavo le persone nella mia stanza e risolvevo i conflitti. Siate allegri, dicevo, perché senza allegria io non riesco a lavorare".

E la psicoanalista come ti curò?
"Decise di non curarmi. Se io la curo, mi spiegò, smonto uno degli assi portanti intorno a cui lei ha costruito un giornale che è indispensabile per l'opinione pubblica italiana. Quindi io preferisco lasciarla con la sua nevrosi".

Le dobbiamo essere riconoscenti.
"Altri mi dicono: un'incapace. Io naturalmente non aspettavo altro e le dissi che avrei fatto da me. Lei mi mise in guardia: va bene, ma come tutti lei tenderà a giustificare. Vede lo squilibrio e dunque il danno che può derivarne, però tenderà a giustificarli. L'autocoscienza è giustificativa, Narciso messo a posto. Per me fu un incontro utilissimo, da allora l'autoanalisi continuo a farla ogni giorno. So che ho un Narciso molto forte, ma almeno io lo so, a differenza di molti altri che ce l'hanno più grande di me, ma negano di averlo".

Desiderio d'amore e desiderio di potere, hai detto prima. Per te il secondo ha rappresentato la volontà di incidere sulla vita pubblica del paese favorendone la crescita civile. È un desiderio appagato?
"Per alcuni aspetti, sì. Esiste una società responsabile, che ha a cuore il bene pubblico. Ed esiste una società irresponsabile che insegue il bene proprio e della propria famiglia: è il paese delle mafie, anche quello delle lobby e delle clientele. Mi sento appagato per il fatto che quel tipo di società che definisco responsabile è stata orientata dai giornali che ho contribuito a fondare, si è riconosciuta nella nostra voce e noi ci siamo riconosciuti in lei. Perché tra i giornali e il loro pubblico c'è un'appartenenza reciproca: loro appartengono a te, ma tu appartieni a loro. Quest'Italia responsabile, con il primo governo Prodi, è divenuta anche maggioritaria: il giorno della vittoria elettorale Prodi mi ringraziò per il sostegno ricevuto, ma io ringraziai lui perché era stato il primo a vincere. Poi tutto questo s'è sfasciato. Oggi mi dicono che sono troppo antirenziano, ma quello che vedo non mi piace per niente".

Tu hai uno sguardo che copre svariati decenni: come sono cambiati i desideri degli italiani?
"Mah, il loro motto potrebbe essere quello del Razzi interpretato da Crozza: "fatti li cazzi tuoi". Non è il desiderio solo degli italiani, ma gli italiani più degli altri considerano lo Stato un ingombro. Perché Berlusconi ha avuto successo? Perché ha detto: di politica mi occupo io, e voi fate quello che vi pare. Con un'unica eccezione: "i principi non negoziabili" della Chiesa. In una congiuntura favorevole, Berlusconi è stato il leader che ha interpretato meglio il desiderio degli italiani".

E lo statista che ha saputo tenere alte le stelle del desiderio?
"Lasciamo stare le stelle, anche se Alcide De Gasperi da cattolico conosceva bene il cielo stellato. Stranamente nessuno oggi ricorda più ciò che scrisse a proposito del Senato della Repubblica: affiancato con pari poteri alla Camera, rappresentava il meglio per la democrazia. Neppure il presidente Napolitano l'ha ricordato, in occasione del recente dibattito. Perché non citiamo mai De Gasperi? Seppe rappresentare un paese sconfitto con grandissima dignità. Ed ebbe un ruolo nella costruzione dell'Europa. Al quinto anno di governo fu fatto fuori".

Fu il dopoguerra un momento in cui gli italiani seppero desiderare in grande?
"Gli italiani facevano la ricostruzione, delle proprie cose ma anche delle cose nazionali. Oggi l'Istat paragona la nostra attuale deflazione a quella del 1959, ma non dice una cosa importante: che allora l'Italia era prossima al miracolo economico. Poco dopo sarebbe esploso il boom, più tardi vanificato da una classe politica che accresce il debito pubblico e da una classe imprenditoriale che prende i profitti ma senza reinvestirli, trasformando pian piano l'industria in finanza e costruendosi i patrimoni all'estero. Prima però c'era stato il miracolo italiano, che porta il nome di Guido Carli. Sono anni che ho vissuto: posso dire che erano molto diversi dagli attuali".

Oggi trionfa "l'uomo senza desiderio", come l'ha definito Massimo Recalcati, ossia schiacciato sul consumo compulsivo e privo di futuro.
"Sì, ne parlai con Recalcati, che mi disse che aveva preso questa idea dai miei libri e io ne fui felice. L'uomo contemporaneo è schiacciato sul presente. E rifiuta di conoscere il passato. Da tremila anni ogni generazione modifica o cerca di modificare le idee portanti e i valori della generazione precedente. Li modifica, ma li conosce: solo così è in grado di programmare il futuro. Poi ci sono momenti rivoluzionari in cui i valori vengono cambiati radicalmente, non solo aggiornati, ma sempre nella conoscenza degli ideali precedenti. Non era mai accaduto che le generazioni non volessero sapere niente dei padri".

Una domanda più personale. Come si coltiva il desiderio quando i margini temporali davanti a sé si restringono?
"Posso risponderti con i miei desideri. Mi piacerebbe scrivere un romanzo che ha come protagonista il mio doppio. Ho in mente il Libro dell'Inquietudine, dove ogni doppio di Pessoa si riproduce in un altro doppio".

Vivere è essere un altro, scrive Pessoa.
"Io sono affascinato da questo gioco della duplicità ma anche triplicità e quadruplicità del se stesso. E qualcosa di simile c'è nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Penso al Malte bambino che mentre è a tavola con il padre assiste all'improvvisa comparsa di una figura enigmatica che sbuca dall'oscurità. E penso alla morte spettacolosa del nonno ciambellano, così rumorosa che la si udì fin dalla fattoria. Voleva essere portato incessantemente da una stanza all'altra, con tutto il corteo di domestici, cameriere e cani ululanti. Pretendeva e urlava, scrive Rilke, svegliando tutto il villaggio. Una morte principesca e terribile".

L'idea del doppio contiene in sé una sfida: il superamento del limite, che è poi quello che hai praticato nella tua vita che ne contempla diverse: il fondatore di giornali, il protagonista politico, il pensatore, il romanziere. Desiderare è sfidare?
"Non è un caso che la parola sfida compaia nel titolo di uno degli ultimi libri: L'amore, la sfida, il destino. Ma la doppiezza ora voglio raccontarla in un romanzo. L'altra cosa che mi piacerebbe è trovare una modalità poetica. Alla fine però non riesco a concludere niente: sono troppo pieno di cose da fare"

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/09/11/news/l_italia_ha_smesso_di_sognare-95480909/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:34:34 pm
In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi

Di EUGENIO SCALFARI
14 settembre 2014
   
L'incontro informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l'Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l'opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d'un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.

È insomma accaduto l'opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.

La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l'Italia dovrà avviare alcune riforme che l'Europa ritiene indispensabili.

Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d'ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell'autunno del 2015.

Se l'Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale.

Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l'obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d'inflazione verso l'1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell'euro nei confronti del dollaro verso l'1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni.

Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l'approvazione delle riforme concordate con la Commissione.

Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.

Come si vede, tutto ciò è esattamente l'opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l'Europa e non come Renzi sperava.

Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: "La strada dell'integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L'introduzione dell'euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento. L'euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l'Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell'area dell'euro. Per l'Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto".

Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.

* * *

Nella famosa commedia napoletana "Natale in casa Cupiello" Eduardo lancia la frase ormai diventata famosa: "'O presepe nun me piace", e la fa dire con cattiveria.

A quell'epoca dalle case di Firenze in giù l'albero di Natale era del tutto sconosciuto. I regali si facevano nel giorno dell'Epifania e il Natale era soltanto una festa religiosa. Il presepio era il solo gioco ammesso e noi bambini passavamo i giorni a prepararlo. Piaceva a tutti, piccoli e grandi. Ma a casa Cupiello no, a Eduardo no.

Perché?
Perché la concordia nella famiglia, ostentata dinanzi al presepio, era fasulla, covava conflitti, interessi contrastanti, bugie, torti fatti o subiti, prevaricazioni.

Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un'altissima percentuale di consensi e molta forza all'interno e all'estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.

Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d'Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento.

Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d'ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce. L'obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l'equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c'è perfino l'ipotesi di abolire l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch'esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.

Non sarà un'impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all'epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall'Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all'evasione senza sconti.

* * *

Ma che cos'è oggi il Pd? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell'Europa mediterranea è rientrata di fronte all'accordo della Germania con la Spagna, all'enigma scozzese che, se vincessero i "sì" alla separazione, metterebbe a rischio l'adesione alla Gran Bretagna all'Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall'Italia.
Che cos'è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico.

Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell'ideologia.
Dai tempi dell'Urss e del comunismo staliniano per i liberali l'ideologia era una peste da cui liberarsi.

Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l'ideologia.

Personalmente credo che l'ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l'ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un'ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l'ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un'esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.

Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l'ideologia cattolico-liberale; Fanfani aveva un'ideologia cattolico-sociale; Moro un'ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.

Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul "Foglio" di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell'articolo intitolato (non a caso) "L'erede", Ferrara scrive: "Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boy-scout della provvidenza e non trovi mesta l'aura che circonda il nuovo caro leader?".

Mi pare molto significativo quest'entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul "Foglio" dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.

Non c'è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.

© Riproduzione riservata 14 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/14/news/in_casa_cupiello_il_presepio_di_renzi_piace_a_pochi_di_eugenio_scalfari-95704158/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Draghi, i governi e i passi falsi
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2014, 05:52:12 pm
Draghi, i governi e i passi falsi

di EUGENIO SCALFARI
20 settembre 2014
   
SUI giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l'asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?

La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l'errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un'economia senza crescita.

Ridotto all'osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l'Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l'economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d'affari, fondi d'investimento speculativi, interessi che vedono l'euro come il fumo negli occhi.

I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell'euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche.

Non c'è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l'attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell'Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l'opposto probabilmente l'Europa oggi sarebbe agitata da un'altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti.

Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L'Europa supererà la recessione che l'ha colpita e la deflazione che la sta soffocando?

* * *

La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell'offerta. L'Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all'anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l'abbiamo superato.

Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l'occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.

La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull'economia reale.

Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell'offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.

Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi sia chiara ai governi confederati nell'Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico.

Trionfo della politica sull'economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l'Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l'economia.

Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell'insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti.

L'America del Nord è un continente, la Cina, l'Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l'America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell'indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.

Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c'è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni.

Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?

Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto.

Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d'essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24.

La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l'età.

Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l'occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull'età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov'è che stiamo sbagliando? L'ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C'è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.

© Riproduzione riservata 20 settembre 2014

DA - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/20/news/draghi_governi_passi_falsi-96210205/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. San Pietro era sposato ma seguì Gesù e lasciò a casa la moglie
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2014, 05:53:31 pm
San Pietro era sposato ma seguì Gesù e lasciò a casa la moglie

di EUGENIO SCALFARI
21 settembre 2014
   
Parlando dei cristiani divorziati e risposati in un secondo matrimonio e del loro desiderio d'esser perdonati e riammessi al sacramento dell'Eucarestia, il cardinale Walter Kasper ha detto una frase che è stata fatta propria da papa Francesco. La frase è questa: "La Chiesa non può dar l'impressione d'essere un castello con il ponte levatoio tirato su, le porte serrate, postazioni e sentinelle dovunque".

L'immagine è molto efficace e papa Francesco l'ha fatta propria. Del resto si era già espresso sull'argomento ed era stato ancor più chiaro. "La Chiesa - aveva detto - deve guardare alla realtà concreta, chinarsi sui fatti del mondo con tenerezza e accoglienza. I dottori delle leggi, gli scribi, i farisei, parlavano bene e insegnavano la legge. Ma lontani. Mancava la compassione e cioè patire con il popolo. Il Signore non è mai stanco di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli il perdono".

Infine, in innumerevoli occasioni Francesco ha ricordato che l'indicazione principale del Concilio Vaticano II è stata quella di aprirsi al dialogo col mondo moderno, entrare con esso in sintonia per poter risvegliare la vocazione del bene e l'amore verso il prossimo, fermo restando il libero arbitrio della scelta.

Queste posizioni il Papa le discute continuamente con i cardinali della Curia oltreché con gli altri dignitari dei Consigli vaticani, delle Congregazioni, dei Ministeri, delle università cattoliche. Poi dice il suo pensiero, la sua concezione e il suo sentimento e quello diventa tema di riflessione di tutta la Chiesa.

Da quando ho letto ciò che scrive e dice e soprattutto da quando ho potuto parlare direttamente con lui, mi sono convinto che la sua non è una riforma della Chiesa, ma una rivoluzione.

Il Papa ritiene che, se l'anima d'una persona si chiude in se stessa e cessa d'interessarsi agli altri, quell'anima non sprigiona più alcuna forza e muore. Muore prima che muoia il corpo, come anima cessa di esistere.

La dottrina tradizionale insegnava che l'anima è immortale. Se muore nel peccato lo sconterà dopo la morte del corpo. Ma per Francesco evidentemente non è così. Non c'è un inferno e neppure un purgatorio. Per le anime che non sono scomparse nel nulla c'è la beatitudine d'essere ammesse alla luce del Dio che le ha create. E quando la nostra specie cesserà di esistere, "la luce di Dio sarà tutta in tutti". Questa è la visione di Francesco. Non è certo il primo ad averla avuta, ma veniva soprattutto dai mistici e da alcune alte figure del monachesimo. È molto raro che sia venuta a un pontefice, il vescovo di Roma successore dell'apostolo Simone-Pietro. In realtà la visione che Francesco ha evoca le comunità cristiane dei primi secoli.



La Chiesa come lui la concepisce è il popolo di Dio e i vescovi successori degli apostoli. Può sembrare e anzi è un paradosso quello di costruire una Chiesa profondamente diversa da quella esistente recuperando il modo d'essere delle antiche comunità cristiane. Ma questa appunto è la sua rivoluzione.

Adesso il tema all'ordine del giorno è la famiglia. Sarà convocato un Sinodo straordinario il prossimo 5 ottobre e poi, nel luglio dell'anno prossimo, il Sinodo ordinario a Filadelfia. Al primo parteciperanno 190 tra cardinali, vescovi e personalità anche laiche invitate dal Papa; al secondo le presenze saranno di circa 300 persone, in gran parte inviate dalle Conferenze episcopali di tutto il mondo.

"La Chiesa cattolica e apostolica parla tutte le lingue del mondo" ha detto nei giorni scorsi Francesco. Letteralmente voleva dire che il Vangelo è diffuso ovunque e quello è il compito dei missionari, ma in realtà il significato di quella frase è molto più profondo secondo me: parlare tutte le lingue del mondo significa per Francesco conoscere il pensiero delle diverse civiltà, delle diverse culture e delle diverse persone che la Chiesa missionaria vuole incontrare; nella misura del possibile capirle, capire l'essenza delle loro anime. Questa è la sintonia col mondo moderno e questo è l'obiettivo cui Francesco ha dedicato il suo pontificato.

* * *
Alcuni giorni fa ho incontrato - ma ci vediamo spesso perché ci lega un'antica amicizia - Vincenzo Paglia, attualmente presidente del Consiglio vaticano della famiglia. I due Sinodi in preparazione avranno al centro questo tema ed è lui che li sta organizzando; il secondo in particolare, quello di Filadelfia che si concluderà con una dichiarazione discussa e votata dai vescovi e affidata all'attenzione del Papa (che naturalmente parteciperà ai Sinodi) affinché ne approvi la stesura e ne renda pubblico il testo. Il tema dei divorziati e del loro rapporto con la Chiesa e con i sacramenti sarà discusso perché è proprio su di esso che si è formata una vera e propria opposizione alle tesi sostenute dal cardinal Kasper e fatte proprie dal Papa.

Naturalmente alcuni dei cardinali che hanno manifestato dissenso, e cioè la non ammissibilità dei divorziati all'Eucarestia, sono stati invitati a partecipare al Sinodo. Francesco non evita la discussione, il confronto, la differenza delle posizioni, desidera che il confronto abbia luogo. Ma non sfugge agli osservatori che il tema dei divorziati è soltanto una parte del confronto tra Francesco e i curiali che resistono alla marginalizzazione della Chiesa istituzionale che il Papa sta attuando.

La Curia organizza i servizi, ma è il popolo dei fedeli e i vescovi con cura d'anime successori degli apostoli che costituiranno la Chiesa: questo è il cuore del contrasto, la cui sostanza riguarda il potere temporale che la Chiesa ha avuto dopo i primi secoli della sua esistenza. Questo è dunque il vero punto di scontro, del quale il dissenso sui divorziati è soltanto non dico un pretesto ma un aspetto assai particolare e poco rilevante.


Discutendone con don Paglia ho appreso una circostanza che ignoravo e che penso sia ignorata da gran parte delle persone: l'apostolo Pietro aveva moglie. In uno dei Vangeli sinottici si racconta che tra i vari miracoli fatti da Gesù ci fu anche la guarigione della suocera di Pietro che lui stesso aveva implorato al Maestro affinché si interessasse in favore di quella sua parente ammalata.

Pietro, che fu il primo vescovo di Roma su designazione di Gesù a quanto raccontano i Vangeli ("tu sei Pietro e su questa pietra tu costruirai la mia Chiesa"), era dunque ammogliato e molti dei dodici apostoli lo erano. Gesù infatti, come recitano gli evangelisti, dice a chi vuole seguirlo e agli apostoli in particolare che lo seguiranno sempre e dovunque dal momento in cui lo incontrano: "Chi vuol seguire me deve abbandonare per sempre la sua casa, il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli". E lui è il primo ad averlo fatto dal momento stesso in cui ha inizio la sua predicazione dopo il battesimo nelle acque del Giordano.

Il clero dei primi secoli non prevedeva il celibato dei presbiteri, la Chiesa cattolica d'Oriente lo pratica tuttora e il problema si ripresenterà di nuovo, anzi si è già presentato perché i pastori anglicani, ortodossi, o delle varie Chiese protestanti, che sono sposati, se decidono di passare al cattolicesimo sono accolti dalla Chiesa con le loro famiglie. Se il problema non si pone per loro, verrà al pettine anche per i sacerdoti cattolici. Forse papa Francesco non avrà il tempo per affrontare anche questo tema, ma ormai esso fa parte integrante del rinnovamento della Chiesa e bisognerà risolverlo.

* * *

Nella disputa attuale apertasi sul rapporto tra i divorziati e i sacramenti, i canonisti affermano che fu proprio Gesù a stabilire che il matrimonio è indissolubile. Del resto i canonisti e i teologi riconosciuti dalla Chiesa citano una serie di affermazioni fatte da Gesù. Le citano letteralmente, direi virgolettate, traendole dai suoi discorsi, dalle sue parabole, dalle preghiere di cui sono loro a stabilirne il testo.

Ma in verità non esiste alcuna parola scritta da Gesù. Direttamente di Gesù non si sa assolutamente nulla. Si conoscono perché lo raccontano i Vangeli, soltanto quattro dei molti esistenti accettati e ufficializzati e diffusi dalla Chiesa. Ma non sfugge a nessuno che dei quattro evangelisti, tre non conobbero Gesù, non lo videro e non l'ascoltarono mai. Scrissero i loro testi tra i 50 e i 60 anni dopo la sua morte che avvenne - secondo gli Atti degli Apostoli - tre anni dopo l'inizio della predicazione quando il Signore aveva trentatré anni.

Il quarto evangelista, Giovanni, scrisse il suo Vangelo tra i 60 e i 70 anni dalla morte del Maestro. E poiché quando Gesù morì l'apostolo Giovanni non poteva certo avere meno di vent'anni, la scrittura del suo Vangelo sarebbe stata fatta da una persona più che ottantenne.

In realtà è molto dubbio che l'autore sia l'apostolo. Comunque gli altri tre raccontano la vita del Signore con fonti di seconda o di terza mano. I loro Vangeli non sono ovviamente fotocopia l'uno dell'altro e differiscono non solo nello stile ma anche in molti fatti e soprattutto nulla ci dicono sui trent'anni che Gesù trascorse nella casa natale con i suoi genitori e fratelli. Di quei trent'anni nulla sappiamo, né di seconda né di terza mano.
Ricordo questa situazione, che del resto è nota a tutti, perché affermare con certezza che Gesù disse, pensò, sentenziò, rispose, è del tutto arbitrario. Noi conosciamo quattro racconti di Marco, Matteo, Luca, Giovanni (della cui identità poco sappiamo), ciascuno con le sue fonti e la sua interpretazione.

Sappiamo anche un'altra cosa: Paolo di Tarso non era un apostolo di quelli che seguirono il Maestro e poi continuarono a diffondere la sua dottrina dopo la sua morte e la sua resurrezione. Paolo non conobbe mai Gesù, gli apparve la sua figura nella mente dopo la caduta da cavallo nell'incidente che gli capitò sulla via di Damasco e il trauma che ne ebbe.

Ma Paolo non solo si proclamò uno degli apostoli al pari degli altri, ma scavalcò gli altri con la sua facondia e la lucida acutezza dei suoi pensieri. In realtà, come tutta la patristica riconobbe e la Chiesa tuttora riconosce, fu lui il vero fondatore della nuova religione e non soltanto per le norme comportamentali e spirituali che si desumono dalle sue molteplici lettere alle varie comunità cristiane nel frattempo sorte, ma soprattutto per la pressione che esercitò sulla comunità di Gerusalemme guidata allora da Pietro e da Giacomo (fratello o cugino di Gesù) che era allora la più importante delle poche comunità esistenti.

Quando Paolo, dopo la caduta sulla via di Damasco, si proclamò apostolo e fu dagli altri accettato come tale, esisteva di fatto quella sola comunità. Essa era considerata da Pietro e da Giacomo come una comunità ebraico-cristiana. In sostanza, come una variante dell'ebraismo. Esistevano molte comunità ebraiche i cui principi differivano molto tra loro e rispetto al Sinedrio che amministrava il Tempio e applicava la legge.

La variante cristiana era dunque secondo Pietro e Giacomo una di quelle. Gesù del resto nacque ebreo e tale rimase, sia pure - a detta degli evangelisti - introducendo nella legge ebraica delle varianti a dir poco rivoluzionarie.

Paolo però voleva che la nuova religione uscisse da Gerusalemme e si diffondesse nel mondo, a cominciare dalla costiera mediterranea e naturalmente da Roma, capitale dell'Impero.

Roma, proprio perché Impero che regnava su molte genti, non era affatto intollerante con le religioni e gli dèi che i suoi sudditi adoravano. Purché tutte le genti dell'Impero riconoscessero gli dèi romani e li trattassero con rispetto. Per il resto adorassero pure i loro dèi, aprissero templi e celebrassero i rispettivi culti.

Infatti i cristiani non furono perseguitati né da Tiberio né dai suoi successori, salvo una persecuzione peraltro limitata che fu effettuata da Nerone perché la sua guardia palatina aveva individuato alcuni pretesi incendiari in un gruppo di cristiani. Le vere persecuzioni vennero dopo, quando i cristiani diffusero la loro religione con molta rapidità e in tutto l'Impero minando l'autorità dell'imperatore, ritenuto sacro dalla Roma tardo-imperiale.

Dunque fu Paolo a dare carattere ecumenico alla Chiesa. Papa Francesco usa oggi proprio il tema di "uscita". La Chiesa deve uscire da sé e andare nel mondo: questa è la Chiesa missionaria da lui vagheggiata. Se non esce, la Chiesa muore. Così predica Francesco ed uscire significa confrontarsi con il mondo, con le altre religioni, con le altre Chiese e con l'opinione secolarizzata, con gli atei e i miscredenti.

La Chiesa per Francesco è come l'anima: se non esce da sé, muore. Il dialogo che ho con lui e che ritengo prezioso per me avviene perché io non credo. Ma il racconto degli evangelisti mi affascina e in molte cose lo condivido.

In uno dei nostri recenti incontri mi domandò qual era la massima cristiana che più consideravo e io risposi: "Ama il prossimo tuo come te stesso". "Questo ci rende simili, ma io dico oggi che bisogna amare il prossimo un po' più di se stessi".

Così disse in quel nostro incontro di tre mesi fa. Pensavamo la stessa cosa e questo mi ha dato forza e conforto.
© Riproduzione riservata 21 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/21/news/editoriale_scalfari_21_settembre-96291107/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. C'è solo acqua nella pentola che bolle sul fuoco
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2014, 03:47:26 pm
C'è solo acqua nella pentola che bolle sul fuoco

Di EUGENIO SCALFARI
28 settembre 2014
   
C'è una massima di Giordano Bruno, citata martedì scorso da Michele Ainis sul Corriere della Sera, che serve egregiamente come epigrafe a queste mie riflessioni domenicali. Dice così: "Non è cosa nova che non possa esser vecchia e non è cosa vecchia che non sii stata nova".

E c'è un'altra massima, in questo caso del nostro Presidente della Repubblica in un suo recente intervento, così formulato: "Non possiamo più esser prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie".

Infine mi si permetta di citare me stesso in una trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris e in un articolo precedente. Avevo scritto e detto che "Matteo Renzi ha da tempo messo a bollire una pentola d'acqua ma finora non ha mai buttato nulla da cuocere". Continuava a pensare che in quattro mesi avrebbe rifondato lo Stato non solo dando inizio alla riforma del Senato e alla legge elettorale ma cambiando anche la giustizia civile e penale, i rapporti tra Stato e Regioni, semplificato la Pubblica amministrazione, saldato tutti i debiti che essa ha presso imprese e Comuni. Visto che la tempistica dei quattro mesi (nella quale aveva più volte ripetuto di impegnare la propria faccia) non poteva funzionare, ha ripiegato sui mille giorni, aggiungendo a quel minestrone già annunciato il problema della crescita economica, la ripresa del lavoro specie quella dei giovani, la fine del precariato e la riforma radicale del sistema del welfare.

Intanto la pentola d'acqua (che è in sostanza il favore dell'opinione pubblica e dell'appoggio parlamentare) cominciava ad evaporare.

E comunque non avrebbe potuto cuocere tutto in una volta quell'immensità di problemi che si erano già presentati fin dai tempi di Aldo Moro quando lui e Berlinguer avevano realizzato un'alleanza tra i due partiti per risolvere i problemi di rifondazione dello Stato valutando che il tempo necessario sarebbe stato almeno di dieci anni.
Queste sono le epigrafi che illustrano l'attualità della quale è mio compito occuparmi.

* * *

Domani, lunedì, Matteo Renzi, nella sua duplice veste di segretario del partito e presidente del governo, spiegherà alla direzione del Pd quali sono i problemi (già sopra indicati) che costelleranno i mille giorni che rimangono fino al termine della legislatura. Poi si voterà e i parlamentari dovranno attenersi a quanto la maggioranza avrà deliberato.


In realtà questa norma non esiste in nessuno statuto di partito. I parlamentari dissenzienti hanno pieno diritto di presentare emendamenti alle leggi proposte dal governo e addirittura di votare contro. Non si tratta di obiezioni di coscienza ma di diritti politici i quali trovano la loro tutela nell'articolo della Costituzione che sancisce la libertà del mandato parlamentare. Questo possono fare i membri delle Camere, sia con voto palese sia con voto segreto.

La tecnica elettorale che meglio tutela quelle libertà è il collegio uninominale, con o senza ballottaggio al secondo turno. Ma questo sistema del ballottaggio, che è il più perfetto per costituire una maggioranza parlamentare rappresentativa al tempo stesso della governabilità e della rappresentanza del popolo sovrano, è stato confiscato da tempo dalle segreterie dei partiti col sistema delle liste ed anche con quello eventuale delle preferenze. In un Paese di lobby e di mafie le preferenze sono quanto di peggio si possa concepire.

Incoraggiano negoziati piuttosto loschi e il voto di scambio il quale se provato è addirittura un reato previsto dal codice penale. Quindi la legge ideale sarebbe il collegio uninominale con ballottaggio al secondo turno tra i due meglio arrivati, ma mi sembra che le maggioranze esistenti sia sulla carta e nella realtà non sono di questo avviso.

Il Capo dello Stato ha anche indicato nel discorso di saluto al nuovo Csm e al vecchio che se ne va censure verso le correnti che dividono la magistratura e che diminuiscono la sua credibilità specie quando si tratta di nominare magistrati a nuovi incarichi o trasferirli come punizione o sottoporli a procedimenti disciplinari. Tutte cose necessarie e giustissime purché ciascuno dei magistrati che partecipa a queste procedure si dimentichi della sua appartenenza ad una associazione il che purtroppo non sempre avviene.

Concludo questa parte del mio ragionamento con una visione molto scettica di quanto accadrà nei prossimi mesi. L'Italia otterrà la flessibilità di cui ha estremo bisogno soltanto se e quando avrà portato avanti alcune riforme economiche che aumentino la competitività e la produttività del sistema. Mescolare queste riforme con tutta la massa di problemi elencati da Renzi significa aver perso (o non avere mai avuto) il ben dell'intelletto.

Mario Draghi ha già dato e ci darà nei prossimi giorni (non solo all'Italia ma all'Europa) tutto l'appoggio monetario e la liquidità che riesce ancora a tenerci a galla. Il tasso di cambio è già sceso all'1,27 nei confronti del dollaro e di molte altre monete. Ne deriva un appoggio concreto all'esportazione e alla domanda. Purtroppo la domanda interna, nonostante il famoso e ultra-lodato provvedimento degli 80 euro mensili al ceto medio-basso non ha minimamente spostato in alto i consumi. Quelli al dettaglio, che costituiscono il grosso di questo "fondamentale" dell'economia, sono diminuiti tra il 2013 e il 2014 dell'1,50 per cento nell'ultimo dato fornito dall'Istat. Chi ci ha messo e continua a metterci la faccia dovrebbe averla persa da un pezzo.

* * *

Aspettiamo dunque i responsi della Commissione di Bruxelles e delle riunioni dei capi di governo per vedere come saranno giudicate le misure che nel frattempo avremo avviato (sempre se qualche cosa si avvierà). E aspettiamo la legge di stabilità che è il documento essenziale sul quale l'Europa giudica i Paesi membri e quindi se stessa.

L'interesse dell'Italia dovrebbe essere quello di rafforzare i poteri del Parlamento europeo, della Commissione e della Banca centrale per avviarsi sulla strada d'una Federazione.

Non mi pare che il nostro governo abbia questo in mente. Mi pare anzi che veda il centro del problema negli Stati nazionali i quali, qualora non cedano sovranità al sistema europeo e non rafforzino i poteri di rappresentanza del Parlamento, saranno sempre più degli staterelli, capaci forse di vendere i loro prodotti e trarne qualche profitto.
Si stanno affermando due fenomeni contrapposti ma allo stesso tempo analoghi: si accresce la spinta verso poteri globali e sorgono esigenze di spezzettare gli Stati nazionali. La voglia di referendum da un lato l'emergere di potenze continentali dall'altro, dovrebbero imprimere a Paesi come il nostro di scegliere il ruolo che fu indicato per primo da Ernesto Rossi e poi dal manifesto di Ventotene redatto dallo stesso Rossi, da Altiero Spinelli, da Colorni e da altri confinati o imprigionati dalla dittatura fascista.

Pochi sanno e pochissimi ricordano questa tradizione che fu uno dei suggelli della sinistra liberal-socialista italiana.

Ho letto con interesse l'articolo di mercoledì scorso del direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. È un attacco in piena regola non tanto contro la politica di Renzi quanto sul suo carattere e il suo modo di concepire la politica.

Debbo dire: mi ha fatto piacere che anche il Corriere abbia capito che il personaggio che ci governa è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci.

Il frutto dei tempi ha le caratteristiche del seduttore e noi, l'Italia, abbiamo conosciuto e spesso anche sostenuto molti seduttori. Alcuni (pochissimi) avevano conoscenza dei problemi reali e la loro seduzione ne facilitava la soluzione. Altri - la maggior parte - inclinavano verso la demagogia peggiorando in tal modo la situazione.

Aldo Moro si alleò con Enrico Berlinguer che era già uscito dal comunismo sovietico, e previde che per rifondare lo Stato ci sarebbero voluti almeno dieci anni di alleanza tra le due grandi forze popolari del Paese.


Dico questo pensando al tema dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Fu introdotto dall'allora ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodolini membro d'un governo di centrosinistra presieduto appunto da Moro. La giusta causa per licenziare: prima lo si poteva fare a discrezione del "padrone". Dopo fu la giusta causa una difesa da questa discrezionalità priva di motivazione, che avrebbe dovuto essere provata dall'imprenditore di fronte al giudice del lavoro. Il dipendente non perdeva infatti soltanto il salario ma anche la dignità di lavorare.

Adesso si dice che la giusta causa è già stata ridotta dalla Fornero a "discriminazione" ma la giusta causa è sempre stata una discriminazione e se licenzio un dipendente solo perché ha gli occhi azzurri o mi è antipatico o piace a mia moglie o è pigro, questo in alcuni casi è giusto in altri no. Penso che bisognerebbe conservarlo l'articolo 18 così inteso e riconoscerlo anche ai lavoratori impiegati in aziende con meno di quindici dipendenti; penso anche che i precari che dopo un certo numero di anni ottengono il contratto a tempo indeterminato, abbiano anch'essi quella tutela.

Si dice però, anche da autorevoli fonti internazionali, che la giusta causa o discriminazione che sia costituisca un ostacolo contro l'aumento della competitività. Ammettiamo che sia così e poiché la competitività è una condizione per attirare investimenti, allora bisogna abolire l'articolo 18 per tutti e sostituirlo con tutele economiche e sistemi di formazione per favorire nuovi reimpieghi. L'America è su questo terreno il Paese più moderno e più reattivo che conosciamo.

Ma le risorse da mobilitare sono molto più cospicue di quelle di cui si parla. Non si tratta di due o quattro miliardi; per compensare chi perde il lavoro ce ne vogliono a dir poco dieci volte tanto e il periodo di sostegno non può essere limitato ad un anno.

L'abolizione dell'articolo 18 si può fare soltanto se compensa il lavoro con l'equità che deve essere massima se è vero che la nostra Costituzione si basa sul lavoro e questo dovrebbe essere l'intero spirito della nostra Repubblica.

I ricchi paghino, gli abbienti paghino, i padroni (con le loro brache bianche come cantavano le leghe contadine ai primi del Novecento) paghino e le disuguaglianze denunciate da Napolitano diminuiranno. Una politica di questo genere, quella sì ci darebbe la forza di indicare all'Europa il percorso del futuro.

Caro de Bortoli, sai quanto ti stimo e ti sono amico e quanto ho apprezzato il tuo articolo di mercoledì scorso. Ma permettimi di ricordarti che su questi temi il Corriere della Sera ha sempre rappresentato l'opinione e gli interessi della borghesia lombarda. Ha reso molti servizi agli interessi del Paese quella borghesia, sempre che il primo di quegli interessi fosse il proprio. Oggi non è più così. Bisogna ricreare una sinistra che riconosca le tutele anche ai ceti benestanti ma metta in testa quelle dovute ai lavoratori. A me non sembra che Renzi sia il più adatto e Berlusconi il suo migliore alleato. Ma questo è solo un aspetto del problema Italia. Gli altri sono ancora più impegnativi e vanno messi sul tavolo con tenace franchezza.

© Riproduzione riservata 28 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/28/news/c_solo_acqua_nella_pentola_che_bolle_sul_fuoco-96827678/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 07:28:19 pm
Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche

di EUGENIO SCALFARI
05 ottobre 2014
   
DATE le palanche, cioè salari adeguati alle persone e ai lavori che svolgono nell'azienda. Questa bella canzone cantata dai braccianti e dai coloni delle leghe contadine nel Veneto e nell'Emilia io l'ho sentita per la prima volta nel bellissimo film "Novecento" di Bernardo Bertolucci. Lui ha raccontato come pochi altri la società italiana del secolo scorso. L'hanno chiamato alcuni storici il secolo breve; invece è stato lunghissimo: è durato almeno centovent'anni e come sempre accade nella storia degli uomini ci ha lasciato del bene e del male.

I padroni con le belle brache bianche che fanno parte integrante di questa storia cominciarono ad apparire nella società nella tarda metà dell'Ottocento e molti di essi lavoravano diversamente ma con eguale intensità dei loro dipendenti. Il loro problema è di creare imprese laddove esistevano soltanto latifondi e paludi. E il sistema in qualche modo funzionò perché ne sorsero in vari luoghi e non più soltanto nell'antico triangolo il cosiddetto "polo" e cioè Torino Milano e Genova. Ad essi si aggiunsero Savona, Alessandria, Novara, Varese, Brescia, Bergamo, Treviso, Padova e poi questa specie di coda di una stella cometa che aveva il suo centro tra Piemonte e Lombardia si diffuse anche sulla costiera adriatica arrivando fino a Pescara, Foggia, Bari, Lecce. Lì si fermò la luce di quelle stelle grandi e soprattutto piccole. E i padroni rimasero più saldi che mai ma in molti punti diventarono padroncini per la piccolezza delle aziende e la scarsità di manodopera che vi era impegnata.

La canzone che serve da titolo di quest'articolo termina con la richiesta dalla quale abbiamo iniziato il testo: "Date le palanche".

Abbiamo già detto che cosa sono le palanche ma nella situazione che stiamo attualmente vivendo la parola serve da metafora: la palanca non è più denaro ma è la pubblica opinione, il consenso, che premia o punisce i padroni. I quali ovviamente vivono soprattutto di relazioni di favore dell'opinione pubblica, di affari con lo Stato e soprattutto di buoni profitti. Lavorano ancor più dei loro predecessori e non portano più le brache bianche. Adesso il governo in carica vuole favorirli abolendo l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè abolendo la giusta causa secondo la quale il licenziamento di un dipendente è condizionato appunto da una motivazione giuridicamente accettabile. Verrebbe mantenuto però il reintegro in caso di licenziamento dovuto a motivi disciplinari e discriminazione che è qualche cosa di più (o di meno secondo i punti di vista) della giusta causa. La discriminazione serve a vietare con l'apposito ricorso alla legge alcuni tipi di licenziamento e cioè quelli determinati da differenze di etnia, di religione e di sesso. Qualcuno pensa di abbinarvi anche provvedimenti discriminatori di tipo economico, ma la norma ancora non è scritta e quindi attendiamo.

A me tuttavia non sembra che questi provvedimenti siano utili e dirò il perché.

* * *
L'illegittimità per discriminazione sarà rigorosamente indicata dalla legge che il giudice dovrà ovviamente e altrettanto rigorosamente applicare. Personalmente ho la sensazione che tra discriminazione e giusta causa ci siano molte coincidenze e in certe circostanze e per certe ragioni possono diventare addirittura sinonimi o essere invocati come tali dagli interessati.

Facciamo un esempio: un dipendente di pelle scura o comunque di etnia diversa viene sospettato di essere colpevole di appropriazione indebita e per questo licenziato. È ovvio pensare che l'interessato incolpato si difenda negando il fatto del quale non esistono prove concrete.

Che fa il giudice a questo punto? Se accerta l'inesistenza delle prove deve far valere la discriminazione in favore del dipendente di colore. A questo punto il giudice può e probabilmente deve appellarsi alla Corte costituzionale perché risolva un caso molto difficile e cioè la perdita del posto di lavoro da parte di persona accusata con prove quantomeno incerte ma coperta da una norma di legge molto precisa che impedisce che sia licenziato soltanto per il colore della pelle.

Che deciderebbe a quel punto la Corte? E a ben pensarci una legge di questo genere è costituzionalmente corretta o invece crea una situazione che rende diseguali i cittadini i quali, sulla base della Costituzione tutelata dalla Corte, debbono essere assolutamente eguali di fronte alla legge. Questa è una situazione molte ingarbugliata che probabilmente darà luogo ad una sequela di processi innumerevoli e potrebbe anche essere eccepita dal presidente della Repubblica.

Ho saputo poche ore fa che il presidente della Confindustria, Squinzi, asserisce che i padroni non esistono più ma ci sono soltanto lavoratori che svolgono lavori diversi, alcuni manuali più o meno sofisticati di primo o di secondo o di terzo livello ed altri, gli imprenditori ed i loro collaboratori, lavori di testa, dedicati a relazioni sociali e politiche, alla creatività aziendale.

Purtroppo questa situazione auspicata da Squinzi avviene di rado e sarebbe bene che avvenisse più spesso. Ma sta di fatto che l'abolizione dell'articolo 18 fornisce al lavoratore-imprenditore una libertà di decisione che nessun altro nell'azienda ha e quindi padrone era, padrone resta anche perché il governo sta mettendo fuori gioco le rappresentanze sindacali. Di palanche, quelle vere, ce ne sono poche o nessuna ma a questo punto voglio ricordare una questione che ho già sollevato nel mio articolo di domenica scorsa. Il governo sta pensando, e fa benissimo a pensarlo ed attuarlo, a compensare almeno i licenziati con appositi sostegni economici che rientrerebbero nella definizione di salario nazionale. Scarso ma sufficiente alla vita: pane ed acqua e poco contorno.

Questo compensa sicuramente, nei limiti del possibile, la perdita del salario o stipendio che sia, ma non compensa la dignità del lavoro cioè la perdita del posto di lavoro il quale nel 99 per cento dei casi non sarà rinnovato perché di lavoro in giro non ce n'è.

Il lavoratore quindi non perde soltanto il salario ma perde la dignità e l'esistenza del lavoro, se ne sta a casa a quarant'anni o poco più in attesa che arrivi l'età della pensione e intanto incrocia le dita o legge la Settimana enigmistica. Questa dignità non va compensata monetariamente? E in cifra superiore perché superiore ne è il danno d'averla perduta, rispetto al sostegno del mancato salario? Ci sono le risorse per far questo? A me non pare ma questo aggrava di gran lunga la situazione che stiamo vivendo anche perché non a caso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci ricorda un giorno sì e un giorno no che la dignità del lavoro va comunque preservata e  -  aggiungo io  -  è tutelata dal primo articolo della Costituzione.

* * *

A questo punto si pone il problema, del resto strettamente connesso a quelli che abbiamo fin qui svolto, sulla natura del Partito democratico italiano. Il nostro giornale ha dato notizia che gli iscritti al Pd sono attualmente centomila mentre furono cinquecentomila appena un anno fa. I circoli del partito sono praticamente vuoti; i leader di corrente quando vogliono mobilitare i loro amici li riuniscono in luoghi fuori dai circoli dove dovrebbero parlare a tutti anziché soltanto ai loro. Si chiama partito liquido o così lo chiamano e sarebbe appunto basato non sui militanti ma sul popolo e sono tre i partiti o movimenti di questa natura: il Pd guidato da Renzi, Forza Italia guidata da Berlusconi e i 5 Stelle guidati da Grillo.

Tre partiti populisti. Può piacere o meno questa definizione ma di questo si tratta e Renzi infatti non sembra affatto preoccupato di questo declino quantitativo; sembra anzi che gli faccia piacere e lo ha anche pubblicamente detto. Lui si rivolge al popolo e naturalmente al popolo di sinistra visto che noi abbiamo aderito per sua iniziativa e come era giusto avvenisse al Partito socialista europeo. Dunque siamo socialisti. Dalle riforme fin qui annunciate (ma pochissimo eseguite) di socialismo non pare ci sia granché. Tant'è che mentre i sindacati battono i piedi e pensano al peggio il presidente della Confindustria è felice della situazione e non è il solo, ce ne sono molti altri come lui altrettanto felici.

Non che ricevano favori specifici ma promesse d'incentivi, quelli sì, miglioramento della loro posizione nelle aziende sicuramente e infine l'abolizione di questo articolo 18 che a loro certo non dispiace.

In realtà Renzi ha realizzato un piccolo capolavoro, bisogna dargliene atto e per quanto mi riguarda lo faccio con piacere: ha creato un nuovo partito il quale in sede europea aderisce ai socialisti ma poi va molto d'accordo sia con Hollande che certamente socialista è sia con Cameron che è un conservatore della più schietta specie. Il partito Pd trattiene o addirittura recupera dagli astenuti una parte dei votanti ma prende anche molti voti dalla destra berlusconiana o da quegli astenuti che votarono l'ultima volta per Forza Italia e questa volta hanno preferito Renzi.

Naturalmente alle elezioni del 25 maggio siamo stati quelli che hanno stravinto rispetto al totale degli altri partiti europeisti. Abbiamo vinto con 11 milioni di voti. Sono molti? Sono il 41,8 per cento degli elettori italiani, una percentuale formidabile e quasi mai raggiunta.

Non si guarda mai però ai voti assoluti. I voti assoluti presi da Renzi sono stati 11 milioni; quelli presi da Veltroni quando guidò il partito per la prima volta al voto politico (non europeo) furono 13 milioni. Le percentuali erano molto più basse perché paragonate con un numero di elettori molto più alto. È curioso che questo rapporto tra cifre percentuali e cifre assolute non venga mai ricordato ed è un errore per un partito che si dice di sinistra e prende soprattutto voti da destra.

Ripeto: è un piccolo capolavoro ma la natura del partito è completamente cambiata.

* * *

Una brava economista che vive a in Inghilterra insegna nell'Università del Sussex, Mariana Mazzucato in un articolo da noi pubblicato venerdì ha analizzato la differenza tra la politica di incentivi agli interventi privati e la politica effettuata da enti di vario genere e specializzati in diversi settori ma tutti della stessa natura pubblica. Questi enti promuovono ed effettuano e guidano gli investimenti e finora i privati hanno accettato con franca soddisfazione queste offerte ed hanno ingrossato le dimensioni di capitale e posti di lavoro di queste iniziative.

Il luogo di tutto ciò si trova nella Silicon Valley dove fioriscono queste iniziative le quali hanno contribuito in modo ampio ad una ripresa negli Stati Uniti. Credo sia opportuno ricordare che iniziative analoghe costituirono la dorsale di politica economica di Roosevelt il quale la portò avanti e la lasciò in eredità al Paese.

Il nostro Renzi è stato di recente alla Silicon Valley, ha visitato una buona parte degli impianti e degli investimenti ivi esistenti, ha parlato con i responsabili sia pubblici sia privati. Se le affermazioni della Mazzucato sono esatte (come ho motivo di pensare) Renzi dovrebbe star per cambiare i suoi progetti che riguardano appunto l'avvio di nuovi investimenti e la creazione di posti di lavoro e in qualche modo ricavarli da quanto ha visto e constatato nella Silicon Valley altrimenti non si capisce a che cosa sia mai servita quella gita.

Del resto voglio ricordare che la nascita dell'Iri avvenne per analoghe considerazioni e l'Iri nei primi quarant'anni della sua esistenza fu una leva di direzione e di esecuzione di investimenti importantissimi per l'Italia, a cominciare dalla siderurgia che a quell'epoca era un investimento modernissimo, alle autostrade che misero sulle ruote l'unificazione linguistica e culturale del Paese. Poi decadde perché mani inesperte (non tutte di certo) e spesso conniventi e non collaboranti con interessi privati, ridussero l'Iri ad un ospedale o poco più. Prodi fu il primo dei suoi presidenti a voler disfare quella istituzione ormai logora e lo fece vendendo o tentando di vendere alcune attività alimentari che erano le più lontane dal ciclo originario.

Comunque oggi non c'è più e nessuno lo rimpiange. Ma l'esperienza della Silicon Valley opportunamente aggiornata e rinnovata come essa stessa fa di continuo, non va dimenticata con leggerezza.

Caro Squinzi, lei dice a volte cose molto sensate e a volte  -  mi permetta di dirlo  -  alcune sciocchezze. I padroni ci sono sempre ed oggi semmai sono più forti e più ricchi di prima e questo è un punto sul quale lei di solito sorvola ma che rappresenta uno degli aspetti essenziali per risanare la struttura economica e politica di questo Paese.

© Riproduzione riservata 05 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/05/news/sior_paron_dalle_belle_brache_bianche_caccia_le_palanche-97358697/?ref=HREC1-4


Titolo: SCALFARI vede similitudini tra Confindustria e CGIL nel creare posti (ASSURDO!)
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2014, 04:41:27 pm
Nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!

Di EUGENIO SCALFARI
19 ottobre 2014
   
I titoli dei miei articoli domenicali li faccio utilizzando spesso i versi dei poeti che si attengono secondo me a descrivere il tema meglio d'ogni altra soluzione. Di solito utilizzo Dante ma non sempre. Questa volta m'era venuto in mente paggio Fernando, un bellissimo giovane che gioca una partita a scacchi con una principessa straniera che corteggia e vuole sposare.

Direi che Renzi che gioca e corteggia Angela Merkel sarebbe stato un buon titolo e un bel finale perché Renzi avrebbe vinto la partita e conquistato la principessa. La gioiosa commedia la scrisse a fine Ottocento Giuseppe Giacosa e fu rappresentata con successo in moltissimi teatri italiani. Ma non credo che le cose sarebbero andate e andranno a quel modo. Sicché sono tornato al canto VI del Purgatorio dantesco di qui il titolo che avrete certamente già letto.

C'è però in quel titolo un errore che mi corre l'obbligo professionale di indicare ai lettori: non è vero che la nave Italia sia senza nocchiere. Il nocchiere c'è ed è Matteo Renzi.

Somiglia, è vero, a paggio Fernando ma è molto più duro di lui e esperto principalmente o soltanto in quella che si chiama politica politichese. Una buona parte dei leader italiani di questo periodo ha questa stessa e sola competenza. Per approfondire temi specifici e specializzati si valgono di collaboratori non sempre all'altezza della situazione. I consulenti di Renzi più noti (a parte Padoan che è un caso speciale emanato a suo tempo dalla volontà di Giorgio Napolitano) sono per lo più donne: la Mogherini, la Madia, la Boschi e tante altre ancora.

Intelligenti senza dubbio ma con scarsa esperienza e conoscenza delle questioni che dovrebbero trattare per dar consigli al loro leader il quale peraltro molti consigli e molto autorevoli non sempre li riceve di buon grado; la politica politichese è appunto questo: si inventa da sola le soluzioni.

Talvolta sono buone e danno buoni risultati, tal altre (il più delle volte) sono pessime e travolgono il Paese nel peggio. Voglio sperare che questa sia la volta buona.

Una delle ragioni per le quali Renzi non può essere battuto in un'aula del Parlamento è che mancano le alternative o almeno così si dice.


È curiosa questa mancanza di alternative della quale l'Italia da quando esiste come Stato repubblicano, ma anche prima, non avvertiva l'assenza. Dopo De Gasperi nella Dc venne Fanfani e con lui La Pira e Dossetti e poi De Mita e poi Cossiga. In un momento di estrema difficoltà economica e politica, l'allora primo ministro Giuliano Amato suggerì al presidente Scalfaro di chiamare a formare il nuovo governo Carlo Azeglio Ciampi e fu un vero e proprio trionfo perché tutte le soluzioni che gli erano state poste furono entro un anno portate a compimento e si fecero le nuove elezioni. Naturalmente Renzi ha degli appoggi ed anche importanti e uno di questi è Giorgio Napolitano il quale, prima di lasciare il suo incarico al Quirinale, vorrebbe che le leggi costituzionali fossero state quantomeno ampiamente avviate e tra queste la legge elettorale, la giustizia civile, la riforma del lavoro. Un tema, anzi un numero sterminato di temi, che farli tutti insieme è molto aleatorio.

Quando Renzi arrivò al governo dopo aver conquistato il Pd con un voto di tre milioni di simpatizzanti, e poi con un colpo di mano si mise al posto di Letta, sembrava che non ci fossero alternative di sorta e sembra tuttora, ma non è affatto vero. Ci sono alternative per il Quirinale, ci sono alternative per la Presidenza del Consiglio. Basta pensare ai nomi di Romano Prodi, Enrico Letta, Walter Veltroni, e molti altri che mi sembra inutile ora elencare e che possono essere tratti anche dalla Corte Costituzionale e da altri luoghi dove persone tra i sessantacinque e i settant'anni hanno formato una loro esperienza di vita.

La mancanza di alternative è dunque una scusa che è stata usata infinite volte in tutti i Paesi. Pensate a Obama di fronte alla dinastia dei Bush o pensate a Mitterrand dopo il postgollismo che aveva in mano il Paese e pensate infine a quanto accadde in Germania quando Schroeder diventò cancelliere e fece riforme fondamentali per ammodernare l'economia tedesca; poi perdette le elezioni successive ma ci fu una larga coalizione con la Merkel che non aveva nulla di simile alle larghe intese che tuttora dominano lo scenario italiano.

La posta in gioco in questo momento (lo dicono tutti e in tutti i Paesi) è quella di ravvivare lo spirito del popolo italiano e da questo punto di vista Renzi sembra la persona più adatta: ha coraggio, è spregiudicato, conosce alla perfezione la politica politichese, è un po' scarso nella qualità dei collaboratori.

All'inizio del periodo renziano, quando con un colpo di pugnale alla schiena fece fuori Enrico Letta dopo averlo rassicurato fino a poche ore prima, sembrava che il processo di risanamento e di rifondazione dello Stato sarebbe stato compiuto nientemeno che in quatto mesi, da giugno a settembre: la riforma elettorale, la riforma del Senato e la sua pratica abolizione, il Titolo V, la giustizia soprattutto quella civile ma non soltanto, e, perla tra tutte le perle, il mercato del lavoro. Quattro mesi per questo lavoro.

Renzi ci mise la faccia, poi quando ha visto come andavano le cose la faccia l'ha ritirata immediatamente e adesso non si sa dove quella faccia la conservi. Da quattro mesi passammo a mille giorni cioè all'intera legislatura.



Sembra molto, ma non lo è. Aldo Moro che di queste cose se ne intendeva a fondo, disse in un'intervista che ci volevano almeno vent'anni per rifondare lo Stato italiano e che quei vent'anni lui li voleva passare in alleanza tra il popolo cattolico e quello operaio dei lavoratori comunisti. Purtroppo lo disse quindici giorni prima di esser rapito dalle Br e due mesi e mezzo prima di esserne trucidato. E così quel disegno procedette ancora un poco zoppicando e poi scomparve. Adesso si parla di manovra. All'inizio, quando dai quattro mesi il crono-programma passò ai mille giorni, si parlò di 23 miliardi che poi salirono a 24, poi a 26, poi a 30, poi a 33 e infine, tre giorni fa, a 36.

Ora si spera che restino questi perché non si tratta di ricchezze miliardarie a nostra disposizione.
C'è un punto che resta fisso: il deficit di bilancio non supererà il 3 per cento. Lo sfiorerà, questo sì, cavandone una cifra di 11 miliardi.

Naturalmente speriamo che la caduta di due giorni fa degli spread di tutto il mondo e delle quotazioni di Borsa delle banche sia decisamente superata come è apparso venerdì mattina, ma coi tempi molti bui nei quali viviamo non ci si può contare in modo certo. Potrebbero nuovamente crescere o non diminuire abbastanza nel quale caso il risparmio che ce ne attendiamo almeno in parte si volatilizzerebbe. Speriamo comunque nel meglio.

C'è poi il ricavo dell'evasione fiscale contabilizzato per circa 3 miliardi. Di solito l'evasione fiscale viene contabilizzata quando è stata incassata e non quando è semplicemente prevista, ma capisco che la situazione è tale per cui la politica politichese impone questo strappo e pazienza.

La spending review dovrebbe dare 15 miliardi. Cottarelli aveva studiato a fondo per due anni questo problema, coadiuvato da persone di estrema competenza. Non paragonabile a quella delle ragazze di paggio Fernando. La conclusione era stata una trasformazione delle strutture dello Stato a cominciare dalla sanità, dai piccoli ospedali, dai posti di pronto soccorso, dai piccoli tribunali o preture. Apparentemente potrebbe sembrare che l'idea centrale di Cottarelli fosse quella di abolire fin dove possibile i piccoli insediamenti sanitari o amministrativi o giudiziari concentrando il massimo del lavoro su quelli maggiori.

In realtà, come sa chi ha avuto modo di parlare con lui e con i suoi collaboratori, il progetto non era esattamente questo. I piccoli ospedali se situati in zone di difficile accesso dovevano restare e diventare semmai più efficienti e la stessa cosa dicesi per i pronto soccorsi che ne diventavano in qualche modo una filiale minore. Naturalmente bisognava rimodernare in tutti i sensi (quello edilizio compreso) i grandi ospedali eliminando alcuni dei baroni che ormai avevano fatto il tempo loro e potevano tranquillamente proseguire i loro studi e le loro consulenze a casa propria o nei propri studi privati. Analoghi criteri valevano anche per i tribunali e le preture. Non c'era una lotta ad oltranza per far sparire i piccoli e concentrarsi sui grossi ma c'era una selezione tra piccoli efficienti e necessari e grossi a volte pletorici e invecchiati.



Questo era il piano - per quanto risulta a me - di Cottarelli. Ma è un piano che mi ricorda le parole e le previsioni tempistiche di Aldo Moro, che non sono certo mille giorni. Io spero tuttavia che Renzi ce la faccia. Tra l'altro mi fa simpatia, del resto è normale perché la seduzione è il suo requisito principale e su quello basa il suo potere in modo non molto dissimile se non in meglio del Berlusca che l'aveva preceduto.

Il "figlio buono". E speriamo che lo sia. Ma se non lo sarà non portiamo in giro la favola che è insostituibile. I principi azzurri sono delle apparizioni di fantasia. Spesso risvegliano le ragazze, ma spesso no e risvegliano soltanto i Cappuccetti Rossi con i guai che ne vengono appresso.

Post scriptum. Vorrei dedicare qualche parola al tema che mi pare non più citato, dell'articolo 18. Ricorderete tutti come fu messo e perché e come fu salutato dai lavoratori che vedevano finalmente scomparire o attenuarsi i padroni e comparire al loro posto imprenditori capaci e disposti a lavorare come e più di loro.

Naturalmente il tempo passa e la società cambia e quindi il tema della giusta causa doveva necessariamente esser ridotto. Lo fece la Fornero, ministro del Lavoro nel governo Monti, donna di sinistra sociale. Restrinse i motivi di giusta causa alla discriminazione indicando a titolo esemplificativo la discriminazione di genere e di etnia. Ma era esemplificativo perché ci potevano essere una serie di discriminazioni abilmente nascoste ma che pure tali erano. Se per esempio l'imprenditore decide di licenziare un lavoratore perché ha gli occhi azzurri e gli sono antipatici, il lavoratore ha diritto di appellarsi al giudice per sapere se questa è una giusta causa non più esistente o una discriminazione esistente. Francamente non so quale sarebbe la risposta del giudice ma ho dei dubbi che sia certamente negativa per il lavoratore. Si possono fare decine e decine di altri esempi, per esempio quello di un lavoratore che viene licenziato perché fa la corte alla moglie dell'imprenditore la quale lo ricambia. È un problema privato o comporta anche un licenziamento? E se lo comporta, il licenziato non può appellarsi alla giurisdizione? E quale giurisdizione, perché alla fine di tribunale in Corte di appello e di Corte d'appello in Cassazione si arriva inevitabilmente alla Corte costituzionale la quale deve affrontare se la discriminazione sia in realtà una giusta causa oppure no. In molti casi non lo sarà, in altri lo sarà, sempre che sia approvata.

Io mi rendo conto che l'abolizione dell'articolo18 - che non conta assolutamente nulla per le ragioni sopraddette - rappresenti però una mano tesa di Renzi alla Confindustria e agli ambienti che ad essa si riferiscono.

Qui il politichese fa il suo gioco ed è naturale che lo faccia. Ma i lavoratori tuttora protetti, sia pure in modi più labili, sono 6 milioni di persone, che equivalgono a 10 milioni comprese le famiglie, ai quali bisogna aggiungere un indotto quindi si parla di molti milioni di persone. Che faranno queste persone? Scenderanno nelle piazze rispondendo alla Camusso e a Landini? Oppure andranno a farsi una partitina a carte e bere una birra in un parco fresco di qualche città? Mancano ormai pochi giorni e per quanto mi riguarda aspetto con molta curiosità se il vero politichese di chi dirige un partito soi-disant di sinistra democratica abbia convenienza a farsi stringer la mano più e più volte dal presidente della Confindustria e lotti a pugni con Camusso, Landini e dieci o dodici milioni di persone. Ecco un punto che per ora non so risolvere ma tra pochi giorni potremo parlarne con più attenzione.

© Riproduzione riservata 19 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/19/news/nave_senza_nocchiere_in_gran_tempesta_non_donna_di_province_ma_bordello_-98458229/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2014, 11:57:08 am
Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio
Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
28 ottobre 2014
   
È MOLTO difficile e per me in particolare che sono da tempo arrivato a considerare Berlusconi un disastro non solo per la nostra vita pubblica ma anche per i pensieri e i rapporti dell’Italia a livello internazionale, interessarmi a quanto scrive Zygmunt Bauman su Papa Francesco. Pochi giorni fa abbiamo pubblicato un suo articolo su Repubblica che tratta a fondo di questa questione ed ha un titolo estremamente significativo: "Se il Papa ama il dialogo vero più della verità". È tratto da una dissertazione tenuta alla Bocconi di Milano ed è chiarissima l’intenzione dell’autore che il titolo fedelmente rispetta: il dialogo vero ha più senso della verità assoluta.

Questo tema solleva com’è evidente una quantità di problemi che pongono in discussione "l’assoluto" e appunto la Verità che lo rappresenta. Si era mai sentito un pontefice che rappresenta il Vicario di Cristo in terra mettere in discussione la Verità assoluta? Il testo di Bauman descrive con molta chiarezza il gruppo di questioni che il suo articolo, ma soprattutto quello che ha detto papa Francesco, solleva. Cito la parte essenziale di quel testo: "La verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro con il suo contrario, con un antagonista. Verità è a suo agio in un lessico monoteistico e in ultima analisi in un monologo ed effettivamente usare 'verità' al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola. Con una mano sola si può soltanto dare un ceffone o una carezza, ma non applaudire. Papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo ma la pratica. Di un dialogo vero tra persone con punti di vista esplicitamente diversi che comunicano per comprendersi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica rappresentata con Eugenio Scalfari da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è dunque una questione di vita o di morte".

Ringrazio l’amico Bauman per la citazione che peraltro è pertinente al tema. È un tema infatti o meglio un gruppo di temi che domina o dovrebbe dominare il mondo intero ma purtroppo non è così perché una parte rilevante di popoli, pur essendo colti e notabili nella politica, nell’economia, nelle scienze sociali, nella medicina, è tuttavia indifferente a queste questioni. Indifferente nel senso che li rimuove perché richiamano l’inevitabile appuntamento con la morte e la morte è qualche cosa di comprensibilmente preoccupante. Alcuni pensano che sia la fine di tutto, altri sperano che sia l’inizio d’una nuova vita sia pure in forme assai diverse da quella precedente e ben conosciuta. Comunque è un pensiero inquietante, quale che sia il modo in cui si definisce e quindi viene rimosso, nascosto in qualche interiore caverna dalla quale comincia a sbucare soltanto quando l’età incalza e quell’appuntamento si avvicina. Non se ne conosce né il come né il quando ma si sa che avverrà e la rimozione diventa da un certo punto di vista ancor più necessaria ma da un altro punto di vista sempre meno possibile.

Papa Francesco è dunque, tra i numerosissimi vicari di Cristo che guidano la Chiesa da ormai duemila anni, uno dei pochissimi, secondo me addirittura l’unico, che affronta in questo modo il problema della Verità e quindi dell’assoluto. In una nostra recente conversazione gli chiesi che mi spiegasse che cosa è per lui la Chiesa missionaria, della quale parla in continuazione e ne incoraggia la crescita.

La risposta fu anzitutto una premessa: "Io sono religiosamente cresciuto nella compagnia di Gesù e sono tuttora interamente gesuita. Lei di recente l’ha scritto ma molti ne dubitano, se non altro perché pur potendo scegliere come nome pontificale quello di Ignazio, mai usato finora da nessun pontefice, ho scelto invece quello del Santo di Assisi. Anche quello non era mai stato scelto prima ma perché un gesuita che tale si sente dalla testa ai piedi non sceglie il nome di Ignazio ma quello di Francesco?"

Gli dissi che credevo di saperlo e cioè perché Francesco era un mistico e lui ama i mistici pur non essendolo affatto.

"È vero, questa è certamente una delle ragioni e forse la prima, ma non la sola. Francesco amava una confraternita itinerante di frati che avevano fatto rinuncia a tutti i piaceri della vita ma non alla gioia, non all’allegrezza, non all’amore. Alcuni di essi e lui soprattutto erano profondamente mistici in ogni atto, in ogni istante della loro vita, nel senso che si identificavano con nostro Signore, dimenticavano il loro io. Sentivano l’amore verso di lui e verso le creature che lui insieme al Padre aveva creato: le stelle, i tramonti, i fiori, gli animali, le donne, i bambini, i vecchi e insomma tutto ciò che ci circonda e al quale noi possiamo offrire soltanto l’amore in tutte le sue manifestazioni filiali, fraterne, paternali. Questo è stato il Santo di Assisi. La sua vicinanza a Santa Chiara è uno dei segnali più significativi, ma quello che lo identifica nel misticismo permanente sono le stimmate che a un certo punto comparvero su di lui com’erano comparse sulle mani del Signore. Ciò non significa che lui non si occupasse anche di questioni pratiche, concrete e vorrei dire politiche. Voleva che la sua confraternita avesse delle regole e passarono molti anni perché il papa gliele concedesse. Fu posta tuttavia una condizione: una parte dei frati francescani doveva predisporre e alloggiare in appositi conventi e soltanto un’altra parte sarebbe stata missionaria e itinerante. Francesco accettò. Quelli nei conventi riscoprirono San Benedetto, lo studio, il lavoro e la questua; ma la vera chiesa francescana missionaria fu quella itinerante".

Perché Santo Padre - gli chiesi - la Chiesa deve essere soprattutto itinerante e comunque missionaria? La risposta di Francesco fu immediata: "Noi dobbiamo parlare le lingue di tutto il mondo il che non significa soltanto e necessariamente i linguaggi veri e propri. Pensi che in Cina esistono almeno cinquantamila diversi linguaggi. La chiesa missionaria deve soprattutto capire le persone che incontra, il loro modo di pensare, la loro sintonia. Questa è la premessa che come vede è al tempo francescana e gesuitica perché la nostra Compagnia ha sempre fatto questo: capire gli altri, che siano miserabili socialmente, impreparati culturalmente, oppure colti, notabili nella vita sociale; e ancora meno rilevante per questa conoscenza degli altri sono le loro posizioni politiche, importanti per la vita pubblica dei popoli ma non per la religione. La religione aborre il politichese, non è e non dev’essere cosa nostra. Se per politica s’intende una visione del bene comune che per noi è quella contenuta nella nostra religione, allora sì, anche la politica diventa importante, le istituzioni diventano importanti per il bene di tutti, poveri e ricchi, colti o ignari, donne o uomini o bambini o vecchi. Il popolo si deve dedicare e realizzare queste istituzioni ma non innalzando il nome di un dio. Nessuno può appropriarsi del nome di un dio che è ecumenico e creatore".

E la Chiesa missionaria verso la quale lei ha così grande attenzione che cosa deve dunque fare? "La Chiesa deve entrare in sintonia con i linguaggi delle persone che incontra, capire come la pensano, quali sono le modalità dei loro rapporti con gli altri e con se stessi e una volta capito questo la Chiesa esorta le persone che ha incontrato verso il bene, fermo restando il libero arbitrio che il Creatore ha concesso a noi esseri umani".

Ricordo queste conversazioni con Sua Santità, cominciate circa otto mesi fa e più volte ripetutesi, l’ultima delle quali nello scorso settembre. Le riflessioni dell’amico Zygmunt Bauman mi hanno indotto a riprendere questi concetti che anche lui a quanto leggo dai suoi vari interventi e in particolare nell’ultimo su Repubblica segue con interesse e in gran parte, credo, condivide. Certo converrà con me su un aspetto peraltro essenziale: i papi hanno sempre riformato la Chiesa, all’interno ed anche all’esterno. Ma soprattutto all’interno, nelle regole che si danno ai vari ordini, nei modi con i quali i loro membri convivono tra loro e nei poteri che hanno nei confronti della Chiesa-Istituzione. All’esterno questi aggiornamenti sono stati molto più rari. Il cardinale Walter Kasper ha paragonato la Chiesa ad un castello con un ponte levatoio quasi sempre alzato. Papa Francesco ha ripreso questa frase e l’ha commentata dicendo che se il ponte levatoio non è abbassato e non consente quindi l’entrata e l’uscita, allora la Chiesa rischia di morire. Il Concilio Vaticano II avvenuto più di mezzo secolo fa, ha concluso, in totale dissenso con il Vaticano I, esortando la Chiesa a prendere contatto col mondo moderno. Se capisco bene, prendere il contatto significa capirlo, entrare, come dice il Papa, in sintonia con esso.

E la verità? Il Papa rifiuta la parola relativismo cioè un movimento vero e proprio con caratteristiche di politica religiosa; ma non rifiuta la parola "relativo". Il relativismo no ma che la verità sia relativa questo è un dato di fatto che il Papa riconosce e il titolo e la dissertazione con Bauman ne fanno piena fede. Naturalmente c’è la dottrina elaborata dai pensatori religiosi della patristica e da quelli che si succedettero nei secoli fino ad arrivare a Domenico e a Tommaso e perfino a Carlo Borromeo. Essi elaborarono, ciascuno a suo tempo e a suo modo, la dottrina la cui fonte principale però fu Paolo, apostolo per autodesignazione. La dottrina fu elaborata principalmente da lui e in parte dalla comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme guidata a suo tempo da Pietro e da Giacomo.

La dottrina che noi leggiamo, cristiani o non cristiani, è il racconto che gli evangelisti fecero della vita e della predicazione e più della predicazione che della vita della quale i punti culminanti furono il discorso della montagna, l’ultima cena, la meditazione solitaria del Getsemani e infine e soprattutto la crocifissione. Questi racconti, l’ho già ricordato più volte ma credo sia utile ripeterlo, furono scritti da persone che non conobbero e non videro mai Gesù di Nazareth; racconti di seconda mano se non addirittura di terza che non di meno hanno fornito nei secoli, sia pure con continui rimaneggiamenti, una struttura dottrinaria che ha dato sostegno alla religione. Allo stesso modo altre religioni monoteiste sono nate su racconti poiché dio non parla con la sua voce. Dio non ha voce così come non ha nome e non ha figura immaginabile. Il Figlio ce l’ha e forse proprio per questo i cristiani lo inventarono così come le altre religioni monoteistiche inventarono le loro figure rappresentabili e immaginabili, a cominciare da quella di Mosè e a chiudere con quella di Maometto e dei suoi successori.

A me piacerebbe molto che l’amico Zygmunt Bauman, se avrà tempo e voglia, esprimesse la sua opinione su questi ed altri pertinenti problemi.
 
© Riproduzione riservata 28 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/28/news/il_vicario_di_cristo_e_la_verit_relativa_che_conduce_a_dio-99162795/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Storia non si fa con un uomo solo al comando
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 05:16:38 pm
La Storia non si fa con un uomo solo al comando

di EUGENIO SCALFARI
02 novembre 2014
   
HO SCRITTO più d'una volta nelle scorse settimane che abolire l'articolo 18 come il governo si propone di fare ritenendolo della massima importanza per il nostro prestigio a Bruxelles, non interessa invece né gli altri Stati dell'Unione né il Parlamento di Strasburgo né la Germania. Che l'articolo 18 esista oppure no è un fattore del tutto irrilevante per quanto riguarda la politica estera e il prestigio italiano in Europa. Così scrivevo ma mi rendo conto che sbagliavo. Ed infatti: "Ai sensi dell'articolo 30 della Carta dei diritti, ogni lavoratore e quindi anche quelli extracomunitari ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato e incompatibile al diritto dell'Ue e alle legislazioni e prassi nazionali". Pertanto dell'articolo 18 il governo e addirittura il Parlamento italiano non possono decidere alcun provvedimento perché la legislazione europea fa premio su quelle nazionali di ciascun Paese, sempre che ovviamente i Parlamenti nazionali abbiano approvato e ratificato le disposizioni europee, ciò che da tempo è ovunque avvenuto. È strano che neppure la Cgil e la Fiom, che portano avanti combattendo a mani nude la loro battaglia, ricordino l'articolo 30 della Carta europea; basterebbe invocarla per bloccare qualunque provvedimento nazionale in merito. Ed è altrettanto strano che neppure l'opposizione interna del Pd richiami quelle disposizioni di Bruxelles. Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra forma fin qui applicata o almeno ostentata.

Esiste ancora un ostacolo al partito interamente personale ed è rappresentato dalle Istituzioni che esercitano la tutela della vigente Costituzione: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, l'Ordine giudiziario. Quest'ultimo non è neppure definito un potere e la ragione è evidente: si tratta di un potere diffuso del quale ciascun membro dell'Ordine è titolare. Il potere diffuso non è un potere costituzionale perché manca una gerarchia democratica che lo renda tale. Il Consiglio superiore della magistratura sì, è depositario di un potere attivo di autogoverno e lo esercita infatti avvalendosi di una gerarchia democratica, ma ovviamente non può e non deve entrare nel merito dei singoli processi, sia nella fase inquirente sia in quella giudicante. La gerarchia esiste ma è molto debole. Le conseguenze si vedono e non sono particolarmente confortanti. In particolare non è confortante la contrapposizione costante tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa.

Accade sempre più frequentemente che i Tar intervengano sull'operato della magistratura ordinaria, la quale è strutturata su una triplice struttura organizzativa. Questo dovrebbe costituire un apparato garante del diritto delle parti in causa: ma il fatto che a questa gerarchia si aggiunga anche l'intervento della magistratura amministrativa non accresce anzi indebolisce quelle garanzie, come del resto ha già notato qualche giorno fa il presidente Napolitano. L'esempio più recente e calzante riguarda il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. È probabile che la magistratura ordinaria avesse male applicato la legge Severino, ma esistevano appunto gli altri gradi di giurisdizione per correggere; invece è intervenuto il Tar con una sospensiva, neppure con una sentenza di merito. La sospensiva ha reintegrato il sindaco con tutti i suoi poteri, rendendo in tal modo inevitabile l'intervento della Corte costituzionale.

Tutto ciò non accresce le garanzie ma accresce la confusione e la perdita di tempo, uno dei fattori di debolezza non solo della giurisdizione ma anche dell'economia italiana e della sua competitività. Quanto all'ostacolo di chi tutela la Costituzione nei confronti del partito personale, esso ha un solo modo per ottenere un risultato: aumentare il ruolo del potere legislativo nei confronti dell'esecutivo. Purtroppo in questo caso, come già abbiamo più volte osservato, il presidente della Repubblica ha manifestato il suo appoggio alla proposta di diminuire la presenza del Senato nel potere legislativo e alla sua nuova funzione di organo amministrativo, per di più nominato o eletto in secondo grado dagli stessi organi e persone che spetterà al Senato controllare, correggere ed eventualmente sanzionare.

Da questo punto di vista mi torna in mente una recente immagine estremamente efficace di papa Francesco. La Chiesa, ha detto Bergoglio, è un castello fornito di un ponte levatoio. Se il ponte non è abbassato consentendo l'entrata e l'uscita delle persone, ma è costantemente elevato e il castello non ha conoscenza della società esistente, la Chiesa morirà. Un Papa non aveva mai detto una simile perturbante verità che se è vera per un organismo che rappresenta addirittura una religione, vale mille volte di più per un organismo amministrativo che ha fatto parte finora del potere legislativo. Se così non sarà più, la forza del potere legislativo decadrà pesantemente e contribuirà al predominio del potere esecutivo. Non è certamente un bel vedere il fatto di assistere ad una così profonda trasformazione del sistema.

***

C'è ancora un tema che desidero esaminare brevemente e che è diventato di attualità tra le persone riunite per tre giorni alla Leopolda. Una riunione di fatto di molti politici renziani, di data antica o recente. Ad un certo punto di quella riunione Renzi ha detto una battuta piuttosto feroce nei confronti dei cosiddetti intellettuali che vengono spesso applauditi. Ed è giusto farlo, ha aggiunto il leader leopoldiano, ed ha battuto tre o quattro volte le mani. Era evidentemente un motto di spirito e come tale è stato interpretato dai presenti i quali hanno anche essi tributato agli intellettuali un ampio applauso-sberleffo e subito dopo l'hanno trasformato in una lunga orchestra di fischi e lazzi di vario genere. Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina? Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.

In effetti, tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola  -  ovviamente fatta di intellettuali  -  sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore.

È questa la realtà? E coloro che si pretendono e sono intellettuali non si amareggiano d'esser fischiati o tutt'al più ignorati? Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora.

© Riproduzione riservata 02 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/02/news/la_storia_non_si_fa_con_un_uomo_solo_al_comando-99558084/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Bismarck la Cancelliera e il premier nell'Italia alle vongole
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2014, 06:03:04 pm
Bismarck la Cancelliera e il premier nell'Italia alle vongole

di EUGENIO SCALFARI
26 ottobre 2014
   
ALCUNI giornali stranieri (i soliti che scommettono da sempre sulla crisi dell'euro o almeno sulla sua divisione in due o tre nuove monete che si chiamano ancora allo stesso modo, ma con una diversa numerazione che li colloca dal ruolo centrale al più debole e precario) hanno scatenato una battaglia che vede Mario Draghi come bersaglio, la Merkel come una statua di Bismarck fuori tempo, la Bundesbank come protagonista vincente e Matteo Renzi come un cavallino che raccoglieva scommesse di una sua vittoria alla testa di un "front mediterranée", ma che nel frattempo si è azzoppato ed è pertanto uscito di gara nella speranza di far ancora parte della grande stalla di riposo cui prima o poi si concorderà qualche premio di consolazione.

A me questa ricostruzione dei fatti e dei misfatti sembra alquanto fantasiosa oltre che gestita da centri speculativi che costruiscono alleanze cospicue e possono anche cambiare o condizionare alcune delle forze in campo.

Intanto la Bundesbank che sogna da almeno sette anni il ritorno al marco come moneta di riferimento occidentale in un mondo molteplice; la Bundesbank non vede una Germania europea ma piuttosto una Europa tedesca. Bismarck è il simbolo di questa visione sebbene lo si conosca storicamente poco perché dopo aver dato brevemente il peggio di sé dette il suo meglio per tutto il resto della vita politica.

Purtroppo per le tesi storicamente sbagliate della Banca centrale tedesca, dopo la Germania vittoriosa del 1870 ci furono le sconfitte della prima guerra mondiale, la Repubblica di Weimar con i suoi disastri; il nazismo con le sue stragi, la sconfitta della seconda guerra mondiale.

La democrazia tedesca di ampia cultura è quella di natura romantica, è la nascita dell'ideale europeo che non ha e non può avere natura bismarckiana. Forse era un sogno che assegnò alla Germania e all'Europa un ruolo di comune natura. Viceversa per una serie di errori e di occasioni mancate questo ruolo si trasformò in quello di commesso viaggiatore invece che di potenza politica, ma niente di più.

È questo l'ideale dei leghisti, degli inglesi anti-euro, dei lepenisti e dei Cinque stelle grillini oltre a movimenti di vario genere ma di analoga natura eversiva. Alcuni sondaggi attribuiscono a queste forze, peraltro dislocate e scarsamente connesse tra loro, il 40 per cento dell'opinione europea ma molto meno come forza istituzionale organizzata. Coltiviamo tempo stesso un punto di forza e una manifestazione di debolezza per quanto riguarda le formazioni istituzionalizzate che nel Parlamento europeo rappresentano comunque il 65 per cento dei deputati.

***

Dicevamo che Bismarck è ormai un simbolo remoto e perciò aggiungiamo che la Merkel non è affatto bismarckiana come qualcuno sostiene. È lei che si serve degli uomini della Bundesbank, ma non viceversa. È lei che vorrebbe utilizzare i socialdemocratici tedeschi che fanno parte della "grossa coalizione" ma dubito che ci riesca se i socialdemocratici trovano le necessarie alleanze all'interno del Partito socialista europeo.
Del resto venerdì scorso, a chiusura del vertice europeo, è stata proprio la cancelliera tedesca a prendere la parola per fare una lunga dichiarazione in favore di Draghi e della politica attuale della Bce, convenzionale e non convenzionale; dichiarazione riportata da quasi tutti i giornali internazionali a cominciare dalla Cina, dall'India, dall'Indonesia, dall'Egitto e dai Paesi arabi.

Certo la politica monetaria della Bce, quella contenuta addirittura nel suo statuto, esorta ad uscire al più presto dalla situazione monetaria in atto. La deflazione procede in termini reali ma svalutare dei crediti equivale a rivalutare i debiti. La Bce punta ad aumentare il tasso di inflazione, quindi svaluta: debiti sovrani in particolare e i debiti di un paese in generale. L'Italia è un paese debitore per eccellenza e ha tutto da guadagnare da una svalutazione dell'euro; la Germania si trova in una situazione più differita perché debiti e crediti grosso modo si equivalgono.
Quanto all'euro come moneta di riserva, un suo raffronto può generare incentivi ad investire nella moneta europea. Queste manovre riguardano soprattutto la tempistica e le aspettative di medio e lungo termine. Per l'Italia i veri interessi riguardano il flusso delle esportazioni. Quanto ai benefici sociali è evidente che i "bonus" diventano più modesti in termini reali ma migliorano nel rapporto col dollaro cosicché i loro percettori sono indotti a trasformarli in risparmio anziché in consumi.

***

Draghi ormai sta praticando in pieno l'aumento di liquidità nel sistema europeo e in particolare in quello che più ne ha bisogno, cioè il nostro. Ma ripete sempre più spesso la necessità di una riforma del lavoro che abbia come obiettivo principale l'aumento della produttività, la semplificazione e la lotta all'evasione.

Renzi naturalmente, ed i suoi porta-parola, rispondono di sì, che questi sono gli obiettivi da raggiungere nell'ambito di pochi giorni. C'è un grande sfarfallio di ricordare l'importanza del taglio delle tasse e di quello delle spese (evasione compresa). Le cifre più o meno si equivalgono ma la tempistica no. L'evasione per esempio avrà il bollino della Ragioneria solo quando sarà stata incassata e quindi sono 3 miliardi di meno del previsto.

I tagli della spending review erano previsti in 15 miliardi, poi sono scesi a 12, ma non si sa ancora dove si andrà a tagliare e con quali effetti  -  positivi o negativi  -  sulle aziende che quei tagli dovranno sopportare e sull'occupazione o disoccupazione che ne risulta. Se si faranno sarebbero una manna ma la loro realizzazione non è certo facilissima.

C'è insomma una situazione di stallo; la si doveva prevedere fin dai tempi in cui si parlava di mesi. Poi si arrivò ai mille giorni cioè alla fine dell'attuale legislatura. Personalmente non so ed anzi dubito molto che i mille giorni siano un lasso di tempo sufficiente a dar frutti. Ricordo di passaggio che venerdì scorso la deputata Simona Bonafè, ospite di Floris nella trasmissione di Otto e mezzo, ha segnalato con molta baldanza l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti decisa e attuata dal presente governo e mai praticata da nessun altro governo del mondo. Mi corre l'obbligo di ricordare che il provvedimento di cui si parla la fu immaginato, deciso e approvato dal governo di Enrico Letta. Bisognerebbe tenere la memoria in maggior esercizio.

Quanto alla partita europea Renzi aveva preannunciato una battaglia contro la politica di rigore e in favore di una ampia e immediata concessione di flessibilità di investire, incentivare produzioni, nuovi posti di lavoro, consumi. Le cose però non sono andate in questo modo e del resto era lecito aspettarselo. Il confronto non è ancora terminato perciò auguriamoci che vada nel modo migliore, ma la situazione attuale è finora sboccata sia pur in un parziale accordo tra l'Italia e la Germania. Noi rispetteremo gli impegni già assunti e ne prenderemo anche di nuovi che riguardano per esempio l'aumento, sia pure assai moderato, della diminuzione del debito. Per ora attendiamo di vedere il finale ma che più o meno è prevedibile: impegni rispettati da parte italiana, nuovi moderati impegni assunti, nuova e moderata flessibilità per quanto riguarda investimenti quasi quotidianamente monitorati dalla Commissione europea e dai suoi assistenti.

Nel frattempo ci sarà nel paese una prova degli umori della pubblica opinione in genere e dei lavoratori in particolare. Il confronto sarà tra la Cgil, la Fiom e alcuni dirigenti di sinistra del Pd. Il Pd come tale non sarà ovviamente presente. Personalmente penso che il sindacato avrà un successo notevole nelle piazze italiane. Ieri a Roma se ne è avuto un anticipo con la manifestazione di un milione di persone. Ma tutto questo sarà permanente o transitorio?

Molto dipende da che cosa nel frattempo diventerà l'attuale Pd il quale, soprattutto stando all'inezia dei suoi iscritti, di fatto ha cessato di esistere. Del resto non è il solo, è un partito personale ed il suo rappresentante è Matteo Renzi e alcuni collaboratori da lui scelti e adibiti ad allacciargli i calzari. Renzi credo sarebbe molto infastidito se i calzari gli venissero scelti da altri.

Ma sono tutti partiti personali: lo era e lo è ancora quello di Berlusconi; lo era e lo è quello dei Cinque stelle grillini. E così la Sel e così altri minori e quasi invisibili. Il Pd è una nuova Dc? No. È un partito di sinistra centro o di centrosinistra? No. E' un partito di centro? No. Sarà il partito di un leader come lo fu Berlusconi e come lo è Grillo (finché durerà) partiti populisti è dir poco; sono partiti personali ma non è un difetto o una colpa di Renzi o degli altri che ho qui nominato. L'abbiamo scritto e riscritto più volte: è la caratteristica degli italiani o per esser più esatti di una larga parte di essi. Fino a quando non cambieranno, almeno in parte, sono sempre stati così. L'aveva detto perfino Leopardi e dopo di lui Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Gobetti, i fratelli Rosselli, Ugo La Malfa, e perfino Gramsci, Aldo Moro e Berlinguer.

Ci vorrebbe una minoranza consapevole che riuscisse ad aggregarsi una parte di questa indifferente maggioranza. Romano Prodi c'era riuscito ma durò solo due anni.

L'Italia è fatta così: alle vongole.
© Riproduzione riservata 26 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/26/news/bismarck_la_cancelliera_e_il_premier_nell_italia_alle_vongole-99030733/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei boss della camorra spaventati da un libro
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:38:10 am
Quei boss della camorra spaventati da un libro
Napoli, si chiude il processo ai capiclan che minacciarono di morte Roberto Saviano

di EUGENIO SCALFARI
08 novembre 2014
   
Lunedì si chiude davanti al tribunale di Napoli il processo contro i boss camorristi che hanno minacciato pubblicamente di morte Roberto Saviano e la giornalista del Mattino e ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. Si tratta di Francesco Bidognetti, Antonio Iovine, che nel frattempo si è pentito, e altri dei quali Saviano scrisse la prima volta su Repubblica del 6 luglio 2007 e sui quali tornò in molte altre occasioni, indicandoli come i principali rappresentanti della nuova camorra casalese.

La tesi di Saviano, che da allora è diventata un punto centrale della politica italiana, sostiene che i fenomeni mafiosi e camorristi condizionano l'intera politica e l'intera economia del nostro Paese e determinano la corruzione, l'evasione fiscale, il lavoro nero. Se si cambiasse questa situazione si trasformerebbe assai probabilmente l'intero assetto della vita pubblica italiana.

Questa tesi  -  nella quale anche io credo  -  è diventata un punto centrale della nostra politica, ma ho sbagliato ad usare il verbo "è diventata". In realtà avrebbe dovuto diventare ma purtroppo non lo è affatto. Le reiterate denunce di Saviano sono rimaste in gran parte lettera morta, la lotta alle mafie avviene soltanto con parole e si concentra su fenomeni antichi che risalgono a più di quindici anni fa.

È oggi che bisognerebbe operare ed è questa la ragione per cui l'esito del processo di Napoli contro la banda dei Casalesi è fondamentale.

Tra l'altro è in gioco anche il modo con il quale vive ormai da anni Roberto Saviano: un incubo permanente, una scorta a sua sicurezza che limita la sua libertà fino all'ultimo respiro, un'esistenza rapsodica che lo obbliga a cambiare ogni giorno il suo domicilio, impedendogli una residenza stabile, una famiglia, una serena compagnia. Questa situazione lo ha obbligato da circa due anni a trasferirsi per lunghi periodi all'estero e in particolare negli Stati Uniti dove le misure di sicurezza nel suo caso sono meno asfissianti e gli consentono un sia pur limitato spazio di libertà che l'ha comunque obbligato ad una assenza dall'Italia. Un sacrificio che i suoi amici sanno quanto gli pesi.

Ho visto Roberto tanti anni fa in una trasmissione televisiva, mi sembra fosse condotta da Daria Bignardi che l'aveva invitato a parlare del suo libro "Gomorra" appena uscito. Lessi il libro che mi piacque e mi colpì molto; poi vidi il film che ne fu tratto, dove il protagonista Toni Servillo incarnava alla perfezione la duplicità delinquenziale della nuova camorra. E infine ci conoscemmo e diventammo amici.

Dal processo di Napoli è emerso quanto importante sia stato il ruolo della stampa libera, di Saviano e del suo libro nella lotta alla camorra, tanto da spingere i boss a minacciare di morte Roberto. Per questi motivi non può sfuggire a nessuno l'importanza del processo e del verdetto che i giudici pronunceranno lunedì.

© Riproduzione riservata 08 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/08/news/quei_boss_della_camorra_spaventati_da_un_libro-100044849/?ref=HRER2-1


Titolo: Scalfari: "Ho inseguito l'ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo...
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 05:53:57 pm

Scalfari: "Ho inseguito l'ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos"
Il fondatore di "Repubblica" compie oggi novant'anni. Ci confessa ricordi, paure, desideri. E affronta nuove sfide intellettuali

Di ANTONIO GNOLI
06 aprile 2014

I dati anagrafici sono la sola cosa che non possiamo travisare: "Sono nato il 6 aprile del 1924". Oggi compie novant'anni. Ragguardevole età che Eugenio Scalfari soppesa con affetto e disincanto: "Non c'è modo di chiedersi quanto tempo ci resta. Bisogna vivere come se fosse sempre l'ultimo giorno pieno", aggiunge. Osservo le mani venate di azzurro e l'ampia poltrona che avvolge il corpo magro. La mansarda dove sostiamo, all'ultimo piano di un attico non distante dal Pantheon, è carica di libri. È un pomeriggio romano. Lieve. Che si smorza nel sole barocco: "Vorrei che tu vedessi la terrazza. Le città osservate dall'alto sono come gli amori visti da lontano, hanno meno difetti". Mi viene da pensare che in quelle parole si nasconda un lato romantico. Una moltitudine di emozioni. Mi sorprende l'energia. E la pienezza dei giorni di cui parla: "Vivono di una densità diversa rispetto al passato e sono trafitti da pensieri ulteriori", precisa, con un velo di sorriso.



Quali pensieri?
"Intorno alle condizioni del tuo corpo. Lentezza, fragilità e quella sensazione che il tempo non lavori più a tuo favore".

Ma non necessariamente contro.
"No, infatti. Siamo animali simbolici e desideranti: costruiamo mondi, relazioni. Viviamo di immaginazione e di futuro. Ma c'è sempre un limite: un segno ineludibile. Un calcio in faccia alla realtà. Ho letto, da qualche parte, che l'esistenza della morte ci obbliga a non essere perfetti".

Hai mai teso alla perfezione?
"È un'ideale. O almeno così per lungo tempo l'ho pensata. La verità è che danziamo dentro il caos".

Cercando un senso e un ordine?
"Cercando, certo. Ma dubito che la perfezione sia di questo mondo".

Le tue incursioni nel cristianesimo e nella fede farebbero pensare a un bisogno di chiarezza ulteriore.
"Fa parte del bagaglio di un buon laico interrogarsi sulle grandi questioni che sono teologiche ma anche filosofiche. Resto un non credente".

E questo papa?
"Questo papa cosa?".

Così diverso.
"È la Chiesa che ti sorprende".

Monarchia seria.
"Le istituzioni vere, forti, collaudate sanno forse reagire meglio alla crisi dei tempi".

Cosa ti sorprende?
"L'assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico".

Ed è un bene?
"La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità. Qualche tempo fa ero ricoverato per una polmonite. Verso la fine della mia degenza mi annunciano una sua telefonata: c'è il papa in linea, mi dice l'infermiera. Non so come l'abbia saputo. Prendo la chiamata. Mi chiede: come sta? Rispondo: molto meglio. Lei non ha risposto, replica. Avverte dolori? Ha la tosse? Come si sente? No, no, sto bene, dico io, apprensivo. Allora auguri. E mette giù il telefono".

Sbrigativo ma efficace.
"È la naturalezza della sua parola e del comportamento che mi colpiscono. Insieme alla dolcezza e alla partecipazione all'altro".

È stato così con qualche altro papa?
"Non ne ho conosciuti molti. Ma li ho criticati quasi tutti. In particolare Pio XII. Ora che mi ci fai pensare ricordo un'udienza pubblica cui fui ammesso con mia madre. Avevo quattordici anni. Poco dopo ci saremmo trasferiti da Roma a Sanremo".

Che anno era?
"Il 1938. Mio padre fu chiamato a dirigere il Casinò della città. Era avvocato. Ma gli piacevano le donne e un po' le carte. Io fui iscritto al liceo Cassini. Arrivando dal Mamiani temevo che non mi sarei adattato facilmente".

Alludi a un certo provincialismo.
"I piccoli centri sono così. Mi avevano soprannominato "Napoli". Agli occhi della classe incarnavo il meridionale. Tra l'altro non ero mai stato a Napoli".

Una forma di razzismo?
"Blando, goliardico. Ma anche fastidioso. Smisero alla fine del primo trimestre. Nel frattempo si era formato un gruppo di studenti animato dagli stessi interessi culturali. Nella classe c'era Italo Calvino. Diventammo compagni di banco. Entrambi ci mettemmo a capo di questo gruppo. Ne sollecitammo gli aspetti più originali, le curiosità più riposte, le letture meno convenzionali. Italo disse che tutto quello che ci stava capitando accadeva nel nome di Atena, la dea dell'intelligenza e della Polis".

Il mondo greco contro quello romano vagheggiato dal fascismo?
"Eravamo studenti e non c'era un contrasto così netto. Ma ci sembrava di aver costruito una cultura parallela e autonoma rispetto a quella sviluppata dal fascismo".

Ma tu eri fascista?
"Convinto, e quando nell'inverno del 1943 il vicesegretario del partito Carlo Sforza mi cacciò dai Guf caddi, per alcuni giorni, in una specie di depressione".

Non riesco a immaginarti affranto.
"Era accaduto tutto in un attimo. Sforza mi contestò violentemente alcuni articoli che avevo scritto per Roma fascista. Mi strappò le mostrine e mentre mi sollevava da terra tenendomi per il bavero della divisa gli guardavo atterrito i polsi delle mani: tanto grandi da sembrare le cosce di un uomo. Ad ogni modo fu così che cominciai a rendermi conto che un'altra società era possibile. E che gli anni del liceo e le amicizie strette allora non erano passati invano".

Come spieghi quel mondo parallelo di interessi e letture che poco avevano a che fare con il fascismo?
"Negli ultimi anni in cui ho diretto Repubblica e in quelli successivi ho molto intensificato la mia ricerca letteraria, filosofica e religiosa. All'inizio qualcuno si sorprendeva di questi miei interessi in un certo senso lontani dal giornalismo. Dimenticando così che le mie prime letture furono ampiamente letterarie e filosofiche. Ricordo la mia prima lettura al liceo: Il discorso sul metodo di Cartesio. La chiarezza espositiva del testo, unita all'idea che il pensiero ha bisogno di regole, mi formò nel profondo. Tanto è vero che il mio approdo successivo all'Illuminismo non sarebbe stato così convinto senza Cartesio".

In questi anni il tuo entusiasmo per il secolo dei Lumi si è un po' raffreddato. Hai spinto in primo piano figure come Montaigne che relativizza la ragione, o come Nietzsche che la distrugge. Sei giunto alla conclusione che il mondo non era solo progresso e felicità?
"Sai, non è che gli illuministi, a parte qualche incallito materialista, fossero tutti beatamente rivolti alle sorti progressive della ragione. Diderot era ben conscio delle trasformazioni e della crisi del proprio secolo. E lo stesso Voltaire non fu da meno. Per non parlare della sensibilità protoromantica di Rousseau".

Insomma non fu solo il secolo dell'ottimismo?
"È così. Poi, sai, nell'intraprendere il lungo viaggio nella modernità, ero consapevole che il quadro mentale che si delinea da Montaigne in poi è mosso, frastagliato, insidioso e perfino contraddittorio. Accennavi a Nietzsche. Non mi sento nicciano. Ma so anche che se vuoi occuparti di filosofia - ossia di una delle forme supreme dei modi del pensare - non puoi prescinderne".

In che senso?
"Con lui si conclude la lunga epoca della modernità. Non è un fatto trascurabile. Mi colpiva che Nietzsche - nei primi giorni della sua follia, quando gli amici lo andavano a trovare a Torino - avesse accanto al letto gli Essais di Montaigne. Cioè la riflessione con cui ha inizio il viaggio nella modernità".

Perché sostieni che quel viaggio si conclude con Nietzsche?
"Perché dopo di lui non si può più pensare e scrivere di filosofia in modo sistematico. Non esiste più un centro da cui si irradia tutto il resto. La perdita della centralità dell'uomo comporta l'infinita moltiplicazione dei centri".

Quindi ciascuno diventa centrale a se stesso?
"Gottfried Benn - che fu un ufficiale medico ma soprattutto un saggista di talento - fa un'osservazione interessante: ho capito perché Nietzsche scrive per aforismi. Chi non vede più connessione può procedere solo per episodi. E noi, aggiungo io, presi singolarmente siamo degli episodi. Io sono il centro della mia periferia che è, a sua volta, la mia circonferenza. Nietzsche comprese che i grandi sistemi filosofici erano tramontati".

Tutto questo non crea smarrimento?
"Cambia il quadro mentale, si modificano i punti di riferimento. Non puoi più oggi metterti a scrivere Il discorso sul metodo come fece Cartesio. Sarebbe ridicolo".

Devi mettere in gioco te stesso?
"Devi farlo: ogni riflessione che riguarda il mondo ti interpella in prima persona. E non solo perché Freud ha scoperto l'inconscio, ma perché la vita - la tua vita e quella degli altri - si è letteralmente scomposta. Lo capì benissimo Rilke quando scrisse il primo grande romanzo dell'ultima modernità: I quaderni di Malte Laurids Brigge".

Un romanzo sovrastato dall'idea della morte e del ricordo.
"Fra tutti gli animali l'uomo è il solo che conosce l'invecchiamento e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, attraverso il ricordo".

Lasciare di sé una traccia?
"Per questo leggiamo Omero da tremila anni e Shakespeare da cinquecento. Ma anche il ciabattino del vicolo accanto vuole fare delle belle scarpe, non solo per lasciar prosperare la sua bottega ma perché così forse sarà ricordato".

È un trauma così forte essere dimenticati?
"In qualunque forma si presenti non amiamo l'abbandono. L'oblio esiste. E la traccia serve a combatterlo, a rinviarlo. Quello che abbiamo fatto di importante desideriamo che resti".

Sei molto narciso?
"L'ho anche scritto".

E vanitoso?
"È un sentimento che mi infastidisce. I nostri tempi sono dominati dalla vanità, come trastullo infantile. Ma essa è anche la forma più ridicola dell'ambizione. Che invece, entro certi limiti, è un tratto sano e importante del carattere".

Importante per il successo?
"Più che per il successo tout court, per il modo in cui lo persegui e lo ottieni. E soprattutto in vista di cosa".

Il potere ha bisogno della saggezza?
"Senza un po' di saggezza si finisce dritti nella tragedia scespiriana".

E il tuo potere come lo giudichi?
"Noto in me una forte componente "paterna". Capisco che la definizione è insolita. Ma credo mi corrisponda. Del resto, è il tratto del narciso: consapevole che solo amando gli altri può essere a sua volta amato".

La tua vita è stata governata dal "due"?
"Che cosa intendi?".

È un numero che ricorre spesso: due sono i giornali che hai fondato e diretto, due figlie, due mogli, due le grandi esperienze culturali che hai condotto. Mi fermo qui.
"Molte delle cose che elenchi sono legate al caso. Però è vero, sento che un "doppio" c'è in me. Mi piace immaginarlo legato ai desideri. Essi misurano la mia vitalità".

Ma anche le tue contraddizioni?
"Indubbiamente. Si può desiderare il bene del prossimo e avere cupidigia di potere, di femmine, di ricchezza. Non è il mio caso per fortuna".

E i tuoi desideri come sono?
"I desideri sono la sola cosa che la vecchiaia non ridimensiona. Per quanto mi riguarda sono stato un uomo plurimo e i miei desideri notevoli e spesso contraddittori. Ho dovuto conciliarli tra dolori e felicità".

Il desiderio allontana la morte?
"Per il fatto stesso di impegnare il futuro l'allontana. Ma anche quello che realizzi ti distanzia da essa".

È la società con i suoi meccanismi celebrativi?
"La festa e i riconoscimenti appartengono alla nostra antropologia. Perfino i miei novant'anni non sfuggono a questo impianto".

Non temi la monumentalizzazione?
"Dici l'eccesso di retorica?".

Sì.
"Certe cose mi imbarazzano e la pomposità, francamente, non mi piace. Ma non vorrei neppure che tutto si risolva in una malinconica ballata. Se è vero che uno dei modi per esorcizzare la morte è, come ti dicevo, nella traccia che lasci, questa la trovi anche quando si celebra un anno tondo e importante come i novanta".

Ti fa paura la morte?
"No, temo la sofferenza. Ma so che la morte è il nostro orizzonte. Ogni vera storia umana dovrebbe cominciare da qui, dalla fine".

© Riproduzione riservata 06 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/04/06/news/intervista_scalfari-82858950/?ref=search


Titolo: EUGENIO SCALFARI. È l'Italia il personaggio pirandelliano in cerca d'autore
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2014, 06:05:47 pm
È l'Italia il personaggio pirandelliano in cerca d'autore
09 novembre 2014

di EUGENIO SCALFARI

I nomi che dominano la scena italiana ed europea in questi giorni sono due: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Qualche osservatore malizioso ha anche messo in rapporto queste due eminenti personalità ipotizzando un’eventuale successione dell’uno all’altro ma le cose non stanno affatto così, Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale, i suoi compiti e i suoi obiettivi sono del tutto diversi come lui stesso afferma pregando i suoi amici di diffonderla. Cosa che, adempiendo al suo invito, faccio con piacere.

Napolitano dunque se ne va. Compirà novant’anni in giugno e molti speravano che restasse fino a quella data, invece non sarà così: le condizioni fisiche che sarebbero sopportabili per sostenere normali responsabilità non gli consentono invece di esercitare ancora per molti mesi le funzioni connesse alla carica estremamente impegnativa che ricopre da otto anni. Darà le dimissioni entro la fine dell’anno e probabilmente ne darà l’annuncio con il messaggio alla Nazione del 31 dicembre prossimo. Si apre quindi fin d’ora il tema della sua successione, nel quale non spetta certo a lui dare indicazioni di sorta.

Avrebbe voluto — e l’ha detto al nostro collega Stefano Folli — che alcune leggi di riforma istituzionale fossero state approvate durante il suo mandato e in particolare quella di riforma elettorale; ma il lavoro del Parlamento si è ingolfato per approvare una serie di annunci e proposte e perciò il desiderio di Napolitano resta inappagato.

Questa è la situazione con la quale la nostra vita pubblica dovrà fare i conti da domani in poi e che chiama in causa altri tre nomi da aggiungere a quelli di Napolitano e di Draghi e cioè Renzi, Grillo, Berlusconi.

"Sei personaggi in cerca di autore", scrisse Pirandello per una delle sue più brillanti tragicommedie. Ma i nostri cinque non cercano autore, lo sono stati e alcuni di loro lo sono ancora. È l'Italia semmai che cerca il suo autore e ancora non l'ha trovato. Io la penso così e non sono affatto felice.

***

Giorgio Napolitano è stato, non c'è dubbio, uno dei nostri migliori presidenti della Repubblica: ha avuto un rispetto non formale ma profondo per gli altri poteri dello Stato e per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Presidente; ha considerato i cittadini come i destinatari dei benefici che la democrazia gli riconosce. La sua fermezza è stata probabilmente la maggiore caratteristica della sua presidenza e gli ha anche consentito di far sentire ai governi in carica la "moral suasion" che il Presidente può e deve usare per aiutare il potere esecutivo a governare il Paese nel modo migliore.

Le circostanze l'hanno obbligato a nominare tre governi senza che avessero ricevuto la preventiva designazione elettorale: quelli di Monti, di Letta, di Renzi. Li ha nominati perché la crisi economica internazionale aveva colpito anche e soprattutto l'Italia ed era necessario tentare di superarla o almeno di contenerla senza renderla ancora più critica ricorrendo ad elezioni anticipate, per di più con una legge elettorale sconfessata dalla Corte Costituzionale.

A volerlo sintetizzare nella sua essenza, questo è stato il ruolo di Napolitano. Le sue dimissioni aprono da domani una fase delicatissima che sarà di non facile né rapida soluzione. La ragione è semplice da spiegare: Renzi e il suo partito vorranno ora un inquilino del Quirinale che riconosca la primazia del capo del governo. Cioè esattamente il contrario di quanto è accaduto nell'ultimo quinquennio.

È un cambiamento? Certamente lo è, ma non nel senso di un'apertura al futuro, bensì di un ritorno al passato. Per tutto il corso della Prima Repubblica furono la Democrazia cristiana e i suoi alleati a "tener per mano" l'inquilino del Quirinale. La Dc lo eleggeva e la Dc lo guidava. Ci furono le sole eccezioni di Gronchi e di Pertini e non a caso: Gronchi era stato eletto da una inconsueta coalizione di minoranze e Pertini aveva un carattere che non a caso ne ha fatto uno dei capi della Resistenza. Per tutti gli altri il motore stava nel governo e il Quirinale aveva un ruolo subordinato. Il progetto di Renzi è di ritornare alla vecchia Dc nel suo rapporto con il Quirinale. Ma una difficoltà c'è: il Pd non ha nel plenum del Parlamento la maggioranza assoluta richiesta per l'elezione del Presidente. Quindi ha bisogno di costruirla. Con Berlusconi e/o con Grillo.

Il gioco sarà questo e comincerà fin da domani.

***

Nel frattempo l'economia italiana ed europea attraversano una fase di gravi tensioni ed è per questo che le carte del gioco sono nelle mani di Draghi.

Osservando con attenzione le sue mosse si capisce che il cardine della sua politica è quello di avvicinare quanto più è possibile l'azione della Bce ai privati. È il solo modo per agire sull'economia reale e quindi superare la crisi in atto.

Quando si parla di privati, specialmente in Italia, si parla di banche. Draghi sa bene che la Bce sulle banche deve operare ma mantiene fermo il principio del rapporto diretto tra Bce e privati, imprese che emettono obbligazioni garantite e ricevono prestiti su di esse.

Quanto alla politica monetaria vera e propria la Bce, con un voto all'unanimità a Francoforte, è autorizzata a portare il suo bilancio dai duemila miliardi attuali a circa tremila. L'obiettivo è di mettere a disposizione delle banche prestiti a quattro anni ad interesse praticamente zero. E in più l'acquisto di obbligazioni cartolarizzate e altre forme di sostegno. Il risultato, in parte già raggiunto in Europa, è la discesa del tasso di interesse e, di riflesso, del tasso di cambio euro-dollaro.

Per quanto riguarda l'Italia, Draghi ritiene che sono necessarie riforme rapide sul lavoro, sulla produttività e sulla concorrenza. Non so che cosa pensi delle battaglie che i sindacati fanno contro l'abolizione dell'articolo 18 ma non credo siano per lui di grande interesse. Ci deve essere, certamente, una protezione dei lavoratori contro vessazioni ingiustificate, ma non può essere limitata e comunque diversa tra un tipo di lavoratore e l'altro. Personalmente credo sia questo anche l'obiettivo della Cgil, ma Draghi di questi problemi non parla. Parla invece dell'Europa riconoscendo che il suo obiettivo sarebbe quello di necessarie cessioni di sovranità dei singoli Stati in favore dell'Unione. Lo preoccupa molto  -  a quanto so  -  il continuo aumentare dei partiti entrati nel Parlamento europeo e che detestano l'Europa, detestano la moneta comune e detestano soprattutto l'immigrazione. Se continua questa tendenza il Parlamento europeo correrà il rischio di essere in mano alle forze che rifiutano moneta comune e immigrazione.

È un tema estremamente preoccupante e Draghi ha perfettamente ragione a denunciarne la gravità.

***

Per quanto riguarda l'articolo18, del quale ho spesso parlato le scorse settimane, ho approfondito il tema della sua abolizione e sono arrivato alla conclusione che l'articolo 30 della Carta dell'Unione ha la sua interpretazione più netta e chiara nell'articolo 52 della Carta medesima.

Anzitutto il titolo di quell'articolo: "Portata e interpretazione dei diritti e dei principi" e poi il primo comma dell'articolo suddetto che così recita: "Eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti. Possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione e dall'esigenza di proteggere i diritti". Il che vuol dire che l'articolo 30 che prevede il ricorso di ogni lavoratore contro licenziamenti ingiustificati non può essere abolito perché andrebbe a ledere "l'interesse generale dell'Unione" già approvato insieme al Trattato di Lisbona.

La Cgil dovrebbe semmai estendere l'articolo 18 a tutti i lavoratori, quale che sia il loro specifico contratto di categoria.

Sarà comunque interessante vedere l'adesione dei lavoratori della Fiom allo sciopero generale ormai imminente.

© Riproduzione riservata 09 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/09/news/l_italia_il_personaggio_pirandelliano_in_cerca_d_autore-100111243/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa
Inserito da: Admin - Novembre 16, 2014, 05:51:11 pm
Torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa

Di EUGENIO SCALFARI

16 novembre 2014
   
MI CAPITA spesso, ma credo che accada a tutti, di capire meglio la natura della realtà che ci circonda se sono stimolato da incontri occasionali che in apparenza non hanno nulla a che vedere con essa: un vecchio film, una vecchia canzone, una frase letta in un libro o su un giornale.

Nei giorni scorsi ho visto un film del 1991 intitolato A proposito di Henry. Il protagonista, che è Harrison Ford, viene colpito da un incidente che lo paralizza completamente e gli toglie anche la memoria e la parola. I medici lo ritengono spacciato ma non è così: le cure che gli praticano dopo molti mesi hanno risultati sorprendenti, al punto che lui torna a casa e perfino al lavoro: era un avvocato molto importante e anche molto autoritario in studio, in tribunale e in famiglia. Ma pur essendo perfettamente guarito, Henry si rende conto che l’autoritarismo d’un tempo e l’autorevolezza che ne derivava non gli piacciono più, li sente come gravi difetti di carattere e concentra tutte le sue forze nel cambiare se stesso. Ci riesce e diventa un altro uomo, umile, affettuoso, caritatevole. Prima era dominato dall’orgoglio e tutto gli era dovuto; adesso vuole soltanto il bene degli altri e nulla per sé. Dopo la parola “End” ho pensato che Henry aveva rottamato se stesso.

 Qualche giorno dopo ho trovato canzoni della mia giovinezza incise su un cd. Tra quelle canzoni ce n’è una che racconta tutti i guai che affliggono il cantante che tuttavia termina con un finale consolatorio cantato in un francese bastardo che si rivolge ad una immaginata marchesa sua amica e dice così: “Malgré cela, Madame la Marquise, tout va très bien, tout va très bien”.

Significa che l’ottimismo è il solo modo per sopportare la fatica di campare. Un giovanotto che voleva parlarmi del suo futuro di giornalista e si dichiarava un cronista perfetto perché privo di idee politiche, ripeteva spesso durante il colloquio che della politica lui se ne fregava. Quel “me ne frego” mi ha fatto ripensare a tempi del passato: i fascisti avevano il “me ne frego” come parola d’ordine e lo mettevano anche nelle loro canzoni. Ho letto sul Manifesto che Asor Rosa parla anche lui del “me ne frego” come di un ricorrente malanno italiano. Stiamo molto attenti, con queste cose non si deve scherzare perché sono pessimi segnali per la vita democratica d’un Paese.

Infine m’è venuto tra le mani il libro di poesie del Parini e sfogliandolo con antico amore ho colto due versi assai belli e speranzosi: “Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languìa”. Recessione, depressione, deflazione: hai visto mai che questo scenario possa improvvisamente cambiare?
Voi vi domanderete perché io v’abbia fatto questi racconti invece di approfondire la realtà. Rispondo che ciascuno di essi configura un’ipotesi e scegliere tra di esse non è affatto facile, ma forse adesso le vediamo più chiaramente.

* * *

L’elemento politico che più degli altri caratterizza la situazione italiana è quello che Matteo Renzi definisce il Partito della Nazione. Non è il solo, si sprecano articoli, analisi, libri su questo tema. Il Partito della Nazione è visto bene da quasi tutto il Pd, ma anche dal centro democratico e comunque è una realtà: è un partito che fa prevalere i concreti interessi nazionali sulle ideologie.

C’è un solo guaio, ma non è affatto piccolo: il Partito della Nazione è soltanto uno. Pensare che ce ne possano esser due è privo di senso. Infatti ce n’è uno solo, quello di Renzi che raccoglie i voti della sinistra moderata, del centro e d’una parte della destra.

Grillo non ha niente a che vedere col Partito della Nazione, la Lega ovviamente è il suo contrario. Berlusconi no. Lui è favorevole, ideologie non ne ha mai avute. Però riconosce che quel partito c’è già e non è il suo, ma lui lo appoggia. Deve inghiottire qualche amaro boccone? Pazienza, purché duri e lui ne sia uno dei tanti padrini. Ha contrattato che la legislatura duri fino alla sua fine, 2018. E se dovesse continuare per un’altra legislatura? Benissimo, lui ne sarà sempre un padrino. L’obiettivo dei suoi fedelissimi è quello. Della famiglia anche. Affari e politica vanno d’accordo per un padrino del Partito della Nazione. E poi Berlusconi ha già detto più volte che Renzi lui sentimentalmente l’ha adottato.

Naturalmente esser guidati da un solo partito non è una conquista per la democrazia, anzi è una bastonata in testa. Attenzione però: ci sono vari modi di intendere la democrazia. Bipartitica? È un’ipotesi. Monopartitica: perché no, se il partito unico è democratico.

Il Partito della Nazione di Renzi è democratico, al suo interno si discute liberamente, Renzi non è solo al comando (l’avevo scritto qualche giorno fa ma lui mi ha smentito), con lui c’è una squadra che lavora, è competente, discute e ascolta tutti. Discute anche con il leader, ma poi è lui che decide.

Questa è la ragione per cui Renzi non vuole più il Senato, ma un assetto monocamerale. Contano solo i deputati e quindi il popolo sovrano che li elegge. Ma come li elegge? Ecco che arriva la riforma elettorale. In buona parte sono designati dal leader, in piccola parte dalle preferenze (pessimo tappabuchi, dovrebbero almeno essere collegi uninominali).

La tecnica è questa. Tony Blair? Certo, Tony Blair, di fronte al quale la Corona non contava assolutamente niente. E sarà così anche tra poche settimane, quando Napolitano si dimetterà. Il nuovo nome sarà Renzi a indicarlo e candidarlo. Qual è l’identikit che ha in mente? * * * In Germania la gente non sa neppure il nome del Presidente della Repubblica.

Quello del Cancelliere naturalmente lo conoscono tutti. Gli italiani però, almeno quelli che vanno a votare ed hanno quindi una sia pure sfocata visione del bene comune, il nome dell’inquilino del Quirinale vogliono conoscerlo, vogliono che abbia un prestigio ed anche qualche potere. Il motore starà a Palazzo Chigi e non al Quirinale, ma il Presidente della Repubblica “rappresenta la Nazione” ed è anche la tutela della Costituzione, quindi dev’essere una personalità che la gente conosce e apprezza.

Renzi lo sa, perciò la sua non sarà una scelta facile, uomo o donna che sia. E poi l’elezione del Capo dello Stato è sempre stata una scommessa. Solo Ciampi passò subito alla prima votazione e Napolitano alla quarta, perché se lo meritavano. Anche Cossiga passò subito, chi comandava allora era De Mita, che ottenne il “placet” immediato del Pci.

Tutti gli altri sono stati contrastati prima che un nome uscisse dalle urne con la maggioranza prescritta e così è possibile che avvenga anche questa volta.

* * *

Sarebbe utile sostituire Renzi e mettere al suo posto una persona che non guidi il Partito della Nazione ma il Pd?

Personalmente non credo sarebbe utile. Oggi il cambiamento lo vogliono tutti e non guardano molto se è un cambiamento ben fatto o mal fatto. E poi c’è la battaglia di Bruxelles che dovrà essere effettuata con coraggio e Renzi il coraggio ce l’ha. Lui pensa di vincere a Bruxelles. Qualora non vincesse, cioè non ottenesse i finanziamenti dei quali ha bisogno, governerà col deficit. Romperà con l’Europa? No, ma cercherà di fare di testa propria finanziando gli investimenti col deficit. Ma fino a che punto?

D’altra parte lui sa che se non ripartono gli investimenti e la nuova occupazione, l’opinione pubblica e soprattutto i giovani e i lavoratori, si arrabbierebbero molto con lui. In parte sta già avvenendo e la sua popolarità sta perdendo smalto.

A me Renzi non piace, vorrei che si auto- rottamasse come Harrison Ford nel film che ho raccontato. Ma per il bene del Paese debbo sperare che il suo programma abbia successo e “torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa”.

© Riproduzione riservata 16 novembre 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/16/news/torni_a_fiorir_la_rosa_che_pur_dianzi_langua-100667442/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le nuove povertà che bussano alla nostra porta
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:36:55 pm
Le nuove povertà che bussano alla nostra porta

Di EUGENIO SCALFARI
23 novembre 2014
   
IL TEMA che oggi desidero trattare è quello quanto mai attuale della povertà. C'è sempre stata da che esiste il mondo, ma oggi la società globale nella quale viviamo l'ha reso diverso da precedenti epoche ed è appunto questa diversità che dev'essere approfondita. Prima però, come talvolta accade in questo nostro appuntamento domenicale, dedicherò una premessa alla lettera che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha indirizzato ieri al direttore del nostro giornale. Non spetta a me rispondergli ma una breve considerazione personale ritengo debba esser fatta.

Quella lettera mi è piaciuta. Spiega che la sua è una politica di sinistra e lo spiega con dovizia di persuasivi argomenti. Sostiene che la sinistra va cambiata per essere adeguata al mondo moderno ma mantenendo fermi i suoi principi che riassume identificandoli con la difesa dei deboli e degli esclusi. Afferma anche che il Pd non è un suo partito personale e che hanno torto quelli che dicono che lui comanda da solo. Questo lo avevo scritto io domenica scorsa e lui se ne era già pubblicamente risentito. Mi spiace rispondere che io continuo ad esserne convinto, come sono convinto che non basta sostenere d'essere per il cambiamento perché si può cambiar bene ma anche cambiar male. A parte queste due osservazioni critiche confermo che la sua lettera mi è piaciuta e ne condivido il contenuto. Purtroppo però essa corrisponde assai poco alla realtà che il nostro Paese sta vivendo e che la politica del governo non è ancora riuscita a modificare. Renzi fa annunci ai quali finora non sono seguiti fatti. Il solo intervento concreto è stato il bonus degli 80 euro, dieci miliardi purtroppo buttati al vento che graveranno sul bilancio dello Stato fino al 2016 e forse oltre. Avrebbe dovuto utilizzarli per creare nuova domanda e nuova offerta di investimenti. Per il resto nulla abbiamo visto finora. Ora il confronto si sposta in Europa. Molti auguri, caro Matteo, a te e a tutti noi, sperando di non uscirne con le ossa rotte ma anzi con un netto miglioramento delle nostre condizioni.

* * *

Che cos'è la povertà e come si può combattere? Esistono molte ricette, per giudicare la povertà bisogna rivisitare il passato. Papa Francesco ne ha parlato infinite volte e proprio in questi giorni ne ha parlato ancora. Cito una sua frase che risponde con molta chiarezza alla domanda che ho qui posta: "Che cos'è la povertà? Di questo solitamente si tace, si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, in formazione, per progettare un nuovo welfare e per salvaguardare l'ambiente. È giusto, ma il vero problema non sono i soldi che da soli non creano sviluppo. La loro mancanza è diventata una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. Il rischio è che l'indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi con lo specchio davanti. Uomini e donne chiusi in se stessi. C'era qualcuno così che si chiamava Narciso. Quella strada no. Noi siamo chiamati ad andare oltre, il che vuol dire allargare, non restringere, creare nuovi spazi e non limitarsi al loro controllo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti".  Così papa Francesco e "L'Osservatore Romano" che pubblica interamente il suo messaggio e lo intitola appunto "La trappola di Narciso". Aggiungo a questa del Papa un'altra citazione che traggo da una poesia d'amore di Pablo Neruda. S'intitola "La povertà" e alcuni versi, rivolti alla donna amata, suonano così: "Amore, non amiamo / come vogliono i ricchi / la miseria. Noi / la estirperemo come dente maligno / che finora ha morso il cuore dell'uomo". "Se non puoi pagare l'affitto / esci al lavoro con passo orgoglioso / e pensa, amore, che ti sto guardando / e uniti siamo la maggior ricchezza / che mai s'è riunita sulla terra". La "Caritas" verso il prossimo di Francesco e l'amore verso la sua donna di Neruda: due modi entrambi fondati sull'amore come unica soluzione per sfuggire la miseria e fare dei poveri e degli esclusi il primo obiettivo della nostra vita.

* * *

Le civiltà antiche avevano come fondamento la schiavitù e questa situazione durò molto a lungo, quasi fino ai tempi moderni cambiando di nome ma restando nella sua essenza sempre presente in gran parte del mondo. Ci furono i servi della gleba, le "anime morte" e i poveri. I ceti dirigenti e possidenti consideravano la povertà come una sorta di schiavitù. I poveri non potevano esprimersi e partecipare alla vita pubblica e alle istituzioni che la guidano. Erano tutt'al più carne da cannone quando c'erano le guerre. I poveri in guerra mettevano a servizio delle classi dirigenti tutta la violenza repressa che gli covava dentro. Ad un certo momento però nacque in alcune zone del mondo la libertà o meglio il diritto di libertà. Quel diritto reclamava, tra le tante altre cose, la lotta contro la povertà poiché la sua presenza avrebbe di fatto limitato ai ceti abbienti la capacità d'esser liberi. Le persone con scarsi redditi sono giuridicamente libere ma non hanno la capacità di esserlo. Se guardiamo, tanto per fare un esempio, all'Egitto di oggi e agli altri Paesi della costiera meridionale del Mediterraneo ci rendiamo conto di che cosa sono state le cosiddette primavere arabe: il tentativo d'una gioventù povera che voleva uscire dalla povertà e conquistare i diritti di libertà che in teoria erano legalmente riconosciuti. Ebbero successo all'inizio, ma poi sono naufragate una dopo l'altra quando la plebe dei poveri è stata chiamata all'appello dal ceto dominante ed ha respinto obbedendo alla consueta e inevitabile servitù. I poveri insomma sono la palla al piede della democrazia. Lo erano nel mondo antico e lo sono ancora oggi.

***

La società globale però, in cui da almeno trent'anni viviamo con l'affermarsi delle nuove tecnologie, ha introdotto alcune notevoli differenze la prima delle quali è l'emergere di nuovi Stati poveri verso un benessere prima sconosciuto e contemporaneamente l'aumento della miseria in zone del mondo già povere. Le diseguaglianze si sono accresciute in misura sconvolgente. Questa situazione ha portato le migrazioni ad un livello mai conosciuto prima. Da quando l'uomo è apparso sulla terra il fenomeno delle migrazioni è sempre stato presente e dominante, ma riguardava comunità relativamente piccole. Ora siamo otto miliardi di persone e continueremo ad aumentare secondo tutte le previsioni, ma le enormi diseguaglianze hanno reso le migrazioni un fenomeno che già ora e sempre più in futuro diventerà dominante. Centinaia di milioni di persone vorranno trasferirsi da Paesi in preda alla miseria ed alla barbarie vera e propria verso luoghi più ricchi e più pacifici. L'Europa in particolare è destinata a diventare un paese meticcio, cioè una mescolanza di etnie che in parte già c'è ma il livello del meticciato è destinato a crescere in misura esponenziale. Siamo già entrati in una fase in cui le migrazioni di massa non saranno affatto pacifiche ma scateneranno scontri violenti ed anche mutamenti politici rilevanti. In Italia, in Francia e in altri Paesi d'Europa queste reazioni sono già in atto ma destinate a crescere. Metteranno in discussione la moneta unica e faranno risorgere i nazionalismi come reazione all'ideale dell'unità europea. Spesso questi mutamenti politici non vengono connessi con l'immigrazione ed è invece proprio quella la loro motivazione profonda. L'antidoto non è quello di abolire la diseguaglianza, che entro certi limiti è perfino un elemento di stimolo della produttività del sistema, ma di contenerla entro limiti accettabili. E qui entra in gioco, tra i vari fattori, anche quello religioso come elemento di ulteriore scontro tra le etnie migratorie da un lato e come elemento potenzialmente positivo di fraternità dall'altro. Papa Francesco predica la fraternità tra le religioni perché Dio è ecumenico ed è lo stesso per tutti, non è cristiano, non è musulmano, non è asiatico: è Dio per tutti. "Noi cattolici  -  ha detto più volte  -  parliamo tutte le lingue del mondo, cioè cerchiamo di capire gli altri e di amarli perché questo è il solo modo di amare Dio. Si chiama "agape"". Ecco, "l'agape" è uno dei modi per sconfiggere la povertà e render pacifiche le migrazioni di massa. Concludo con i versi di Neruda dalla poesia che abbiamo già citato: "Ahi, non vuoi, / ti spaventa / la povertà, / non vuoi / andare con scarpe rotte al mercato / e tornare col vecchio vestito (...) se la povertà scaccia / le tue scarpe dorate, / che non scacci il tuo sorriso che è il pane della mia vita". È questo che tutti vogliamo.

© Riproduzione riservata 23 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/23/news/le_nuove_povert_che_bussano_alla_nostra_porta-101203722/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il macigno del debito italiano e il buco nero della Grecia
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2014, 04:55:21 pm
Il macigno del debito italiano e il buco nero della Grecia

di EUGENIO SCALFARI
30 novembre 2014
   
Al parlamento europeo questa settimana hanno parlato personalità molto autorevoli: il Papa, Draghi, Juncker.

Francesco ha detto testualmente: "Promuovere la dignità d'una persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non potrà essere privata ad arbitrio di alcuni. Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci e in un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere. Così si finisce per affermare i diritti del singolo senza tener conto che ogni essere umano è legato ad un contesto sociale in cui i diritti e i doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa".

Così il Papa. È evidente che postula un futuro dell'Europa unita, con i singoli Stati strettamente associati tra loro.

***

Draghi ha esordito con un'affermazione che, pur avendola già pronunciata in vari luoghi, non aveva mai sostenuto in modo così esplicito: è necessario che l'Europa garantisca i debiti sovrani di tutti gli Stati membri. Il motivo proviene dal rischio delle elezioni politiche in Grecia. I sondaggi danno in testa Tsipras che guida il suo partito Syriza, ma una sua vittoria porterebbe con sé una situazione di estremo pericolo per l'Europa e per la moneta comune perché Tsipras è deciso a ripudiare sia l'euro sia l'Europa.

Potrebbe tuttavia restarci solo ad una condizione: che l'Europa si assuma per la durata di cinquant'anni il debito greco pagando alla Grecia anche gli interessi. Questa richiesta, ha detto Draghi, potrebbe anche essere accolta per la modesta entità di quel debito, se non che essa crea un precedente che può interessare soprattutto l'Italia. Ma adottare per l'Italia la stessa procedura chiesta da Tsipras è assolutamente impossibile: le dimensioni del nostro debito sovrano sono preclusive e per di più si scatenerebbe un'ondata speculativa di lunga durata che porterebbe al default l'Italia e con essa il sistema bancario mondiale.

Ecco perché le elezioni greche sono la dinamite che può mandare in crisi non solo il sistema europeo ma quello bancario del mondo con una crisi anche politica di dimensioni planetarie.

C'è un solo modo di reagire, secondo Draghi: imboccare con celerità la strada dell'Europa unita e sovrana. Ci vorranno anni, ma i primi passi irreversibili vanno fatti subito, le cessioni di sovranità economiche e politiche debbono essere discusse dal Parlamento di Strasburgo, dalla Commissione di Bruxelles e dai singoli Stati membri dell'Unione.

Chi parla ancora, in Italia, di un'ipotesi di Draghi al Quirinale ignora o non valuta l'importanza del compito che il presidente della Bce si è assunto. Altri pensano che sia un personaggio debole, contestato dalla Germania e dai potentati di Wall Street e della City. Direi che chi fa queste valutazioni non ha capito qual è l'importanza e il peso di Draghi presso tutte le altre banche centrali a cominciare dalla Federal Reserve, dalla Banca d'Inghilterra, dalla Banca Centrale del Giappone e da quella della Cina. Questo è Mario Draghi il quale si sta apprestando a dare esecuzione (si pensa che lo farà entro il prossimo febbraio ma forse anche prima) alle misure non convenzionali più volte da lui indicate.

Quando si parla di queste misure gran parte dell'opinione pubblica e degli operatori europei pensa all'acquisto dei titoli del debito sovrano dei vari Paesi membri dell'Unione. È possibile che si tratterà di questo intervento, ma non è detto. Può trattarsi di massicci acquisti di obbligazioni di debiti di aziende private che la Bce è pronta ad acquistare anche se prive di garanzia bancaria. In realtà questi acquisti sono già in corso ma in misura limitata; nelle prossime settimane si tratterebbe invece di acquisti molto rilevanti in tutti i Paesi membri dell'Ue.

Per questo Mario Draghi, a mio personale avviso, è la personalità più importante e non soltanto in Europa.

***

Infine Juncker. Ha proposto alla Commissione da lui presieduta e al Parlamento di Strasburgo un prestito dell'Unione ai vari Stati confederati di 315 miliardi da erogare in tre anni a partire dall'autunno del 2015.

Tuttavia di quella cifra, intestata ad un Fondo europeo, sono attualmente disponibili soltanto 21 miliardi. La differenza è enorme e tutto si riduce dunque ad uno dei tanti annunci cui siamo purtroppo abituati. Però qui la questione è molto diversa dal solito per le modalità con le quali Juncker intende procedere a partire dal prossimo gennaio: per finanziare il Fondo è indispensabile l'apporto dei singoli Stati membri; è aperto anche a Stati stranieri e ad altri Fondi internazionali, ma i "datori" principali sono gli Stati dell'Unione. Naturalmente Juncker chiede di più ai più forti economicamente e quindi alla Germania, ma tutti dovranno contribuire. Di fatto si tratta di quella europeizzazione del bilancio e di quella garanzia dei debiti sovrani della quale ha parlato Draghi che con Juncker ha contatti molto frequenti.

Gli Stati membri contribuiranno ricevendo in cambio, quando il Fondo europeo avrà raggiunto almeno 200 miliardi, facoltà di investimenti che potranno esser fatti utilizzando una politica di deficit spending di tipo keynesiano con una differenza però: dovrà trattarsi di investimenti capaci di creare nuovi posti di lavoro, salari e stipendi in grado di stimolare sia le esportazioni sia i consumi interni. Insomma un cospicuo aumento della domanda, capace di mettere in moto un processo di crescita duraturo. Esso consentirà un aumento delle entrate fiscali e quindi ulteriore disponibilità di risorse finanziarie. Ma il debito sovrano, fin quando non fosse garantito dall'Ue, rimane pur sempre il macigno che non c'è Sisifo capace di spostare rendendo il nostro Paese estremamente vulnerabile. A me non sembra che il nostro governo ne sia realmente consapevole. Lo utilizza come spauracchio per Bruxelles, ma forse non si rende conto che è un macigno che grava sulle spalle di tutti gli italiani (che non se ne rendono conto neanche loro).

***

Il nostro presidente del Consiglio, che non è affatto uno stupido, tutte queste cose le sa, ma le usa soltanto per realizzare l'obiettivo di rafforzare il suo potere e quello della sua squadra. Ed è allora che la questione diventa preoccupante per la democrazia italiana. Di queste preoccupazioni ho dato più volte notizia e non ho alcuna voglia di ripetermi. Lo farò, guarda caso, utilizzando alcune osservazioni recentissime di Silvio Berlusconi, con le quali in questo caso mi trovo d'accordo.

È molto singolare, dice Berlusconi, che Renzi insista tanto sul tema della legge elettorale da far approvare entro gennaio. A che cosa serve questa fretta che rischia di creare un ingorgo parlamentare inutile, anzi dannoso poiché impedisce l'esame e l'approvazione di riforme ben più importanti, tanto più se vuole che la legislatura duri fino alla sua scadenza naturale del 2018?

È altrettanto singolare -  dice ancora Berlusconi -  che non si preoccupi del fenomeno delle massicce astensioni in Calabria e soprattutto in Emilia. Dice che le astensioni non hanno nessuna importanza. Sbaglia di grosso. Io Silvio finché ho potuto e ancora oggi mi sono sempre preoccupato di mantenere e fare aumentare la fiducia degli italiani in me e nella politica popolare da me portata avanti e quando vedevo che quella fiducia si incrinava la mia preoccupazione mi portava a parlare e ad agire per riguadagnarla. L'importante è governare, dice Matteo. Certo, ma si governa se la fiducia non si incrina, altrimenti sei perduto.

Oggi comunque (sempre Silvio) quello che più conta è un Capo dello Stato capace e non uno o una che siano pupazzi con Renzi burattinaio. L'inquilino del Quirinale non può essere nelle mani di un burattinaio. Non è questo che io (Silvio) voglio e farò il possibile perché avvenga.

Naturalmente Berlusconi ha le sue ragioni per fare al suo alleato critiche così penetranti. Lui vuole che la legislatura duri fino al 2018. Con Renzi naturalmente, ma anche con lui. Possibilmente cambiando la legge elettorale e passando dal voto di lista al voto di coalizione. Allora lui sarà di nuovo alla testa di una forza politica importante. Forse non vincerà, ma supererà Grillo e potrà dettare o almeno suggerire riforme che lo interessano, soprattutto economiche e giudiziarie.

***

Si discute molto sulla legge delega che riguarda il Jobs Act. Alla Camera è passata con quaranta assenze nei banchi del Pd, ma lì la maggioranza assoluta era comunque nelle mani del governo e quindi non c'era bisogno del voto di fiducia. Al Senato è diverso. Per arrivare alla maggioranza assoluta a Renzi mancano 13 voti e se la sinistra dispone, come sembra, di 25 senatori pronti a votare contro, la fiducia diventa indispensabile e infatti Renzi ha deciso di chiederla. Il voto ci sarà in questa settimana. Ma, ecco il punto, è un voto non in regola con la Costituzione.

Le leggi delega, delle quali si fa ormai grande uso, contengono direttive di principio piuttosto generiche. Ad esse seguono i decreti attuativi che vengono decisi dal governo e esaminati da una Commissione la quale tuttavia emette pareri puramente consultivi. Se quei pareri non piacciono al governo, i decreti attuativi vengono applicati.

A mio avviso le leggi delega debbono essere discusse dal plenum delle Camere senza che si possa mettere la fiducia. Altrimenti si ottiene una maggioranza forzosa con la conseguenza che il Parlamento (in questo caso il Senato) approva lo strapotere del governo senza un voto libero.

Credo quindi che la questione debba essere sollevata e la fiducia preclusa, senza di che la Consulta potrebbe rapidamente intervenire se sarà opportunamente richiesta a farlo.

© Riproduzione riservata 30 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/30/news/il_macigno_del_debito_italiano_e_il_buco_nero_della_grecia-101750186/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Banca centrale e l'acquisto di Bond: i veri obiettivi di...
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2014, 05:45:51 pm
La Banca centrale e l'acquisto di Bond: i veri obiettivi di Draghi e quelli di Renzi

di EUGENIO SCALFARI
07 dicembre 2014
   
PER mettere davanti agli occhi della gente una situazione, un fatto, una persona, esistono almeno tre strumenti visivi e quindi mentali: la fotografia, il video, il film. Danno risultati molto diversi l'uno dall'altro: la fotografia ritrae in modo istantaneo, il video in modo animato, il film in modo narrativo e interpretativo. Infatti nel film ci sono gli attori ma c'è anche un regista che guida gli attori, le luci, il montaggio. Qualche volta per diventare il vero padrone del film l'attore fa anche il regista.

Quanto a noi giornalisti che abbiamo il compito di informare con spirito critico, noi guardiamo dall'esterno queste rappresentazioni, le interpretiamo e talvolta le giudichiamo; se il giornale dove scriviamo è autorevole possiamo anche condizionarli.

Il mio proposito è quello di raccontare oggi il film d'un personaggio molto spiccato e influente come Mario Draghi e comprendere la sua tattica economica e politica alla luce della sua strategia e poi applicare a Matteo Renzi questo stesso metodo. Credo sia il miglior modo per capire quanto sta accadendo in Italia e in Europa.
* * *
Il tema che più appassiona e coinvolge Draghi non è soltanto la politica monetaria che a stretto rigore è il suo compito istituzionale, ma è la politica economica e l'assetto istituzionale dell'Europa.

Draghi è da tempo convinto che nella società globale i continenti diventati Stati hanno la forza sufficiente per confrontarsi; la loro potenza deriva dall'ammontare della ricchezza, dalle risorse naturali e dalla demografia. Se il continente non diventa uno Stato ma continua ad essere un bazar di tante entità nazionali, queste non sono in grado di aver voce nella società globale, diventano staterelli con un ruolo secondario e quindi subalterno. È il caso dell'Europa che non ha una sua politica estera, una difesa comune e neppure una politica economica e fiscale.

Draghi questo problema lo sente come prioritario su tutti gli altri ed è questa priorità che spinge la sua strategia di fondo; se non si tiene presente e ci si limita a fotografare le sue mosse senza inquadrarle, si capisce ben poco. Lui d'altro canto deve tener conto dei binari dove corre il suo treno, delle stazioni dove transita e dei capi che manovrano gli scambi e i semafori col disco verde che consente il passaggio e quello rosso che lo impedisce.

Il suo obiettivo è di alzare il volume di liquidità della Banca centrale da lui guidata dai duemila miliardi attuali ad almeno tremila e anche di più. Solo con questa massa di risorse monetarie può sbloccare il "credit crunch" che ancora affligge molti Paesi dell'Eurozona.

Ma quell'obiettivo è realizzabile soltanto se, oltre all'acquisto di debiti dalle aziende che sarebbe l'ideale per promuovere investimenti e consumi, potrà adottare la "quantitative easing" cioè l'acquisto massiccio di titoli del debito sovrano dei membri dell'Eurozona.

In realtà chi avrebbe maggior bisogno di trasferire parte del proprio debito da creditori privati alle casse della Bce sono i Paesi economicamente in recessione, ma questo riempirebbe di titoli assai poco appetibili la Banca centrale. Se non sono spazzatura poco ci manca: Grecia, Portogallo, Italia (specie dopo il declassamento dell'agenzia di rating Standard & Poor's dichiarato tre giorni fa). Di qui la decisione  -  se la "quantitative easing" sarà adottata  -  di applicarla a tutti i paesi dell'Eurozona in proporzione al loro reddito. In quel caso nei forzieri della Bce entrerebbero anche bond di elevata solidità. Per quanto riguarda l'Italia, noi riceveremmo una quota non superiore ai 90 miliardi, pari al 17 per cento del totale previsto per la "quantitative easing", ma tutta l'Europa tirerebbe un respiro di sollievo per l'irrorazione monetaria ricevuta dall'intera Eurozona. Si farà o non si farà? La decisione dovrebbe essere presa il 22 gennaio ma l'esecuzione non sarà comunque immediata.

Questa è la fotografia della situazione. Il quadro generale, economico e politico, perseguito da Draghi è però un altro: la vigilanza bancaria affidata alla Bce, già in corso di esecuzione, l'unità del sistema bancario, anch'essa già parzialmente avviata, la garanzia europea su tutti i depositi bancari che dovrebbe preludere ad un bilancio unico dell'Unione e infine il trasferimento dei debiti sovrani ad un solo debito europeo con relativa cessione di sovranità fiscale. I singoli Stati insomma avrebbero analogo rilievo nei confronti dell'Ue di quanto l'abbiano il Texas, la Virginia, il Massachusetts, il Mississippi e tutti gli altri verso la Presidenza e il Congresso degli Usa.

Questo è il traguardo a raggiungere il quale Draghi lavora e questo è il vero binario dove il suo treno procede. Non corre purtroppo, ma comunque avanza.

La Germania è naturalmente il Paese leader, senza l'appoggio del quale non è pensabile di realizzare l'obiettivo. Continuerebbe a mantenere la leadership anche in un'Europa non più soltanto confederata ma federata e un continente finalmente diventato uno Stato più ricco di risorse degli stessi Usa?

Personalmente penso di sì e credo che anche Draghi sappia che senza questa certezza sarebbe molto difficile che il treno proceda: disco rosso e non verde. Ma la Germania non è il solo ostacolo. C'è anche la "grandeur" della Francia e c'è anche l'ostacolo non trascurabile dell'Italia.

Noi siamo un Paese in pessime acque economiche e abbiamo sulle spalle il maggior debito pubblico d'Europa e uno dei più elevati del mondo intero. Questa è senza dubbio la nostra debolezza ma paradossalmente anche la nostra forza: un default del debito italiano farebbe saltare in aria tutto il sistema bancario del mondo occidentale, non esclusi molti paesi asiatici; insomma un dissesto di gigantesche proporzioni.

Sicuramente Matteo Renzi utilizzerà questa nostra debolezza-forza nelle trattative che sta per intraprendere con le autorità europee, la Commissione e i governi dell'Eurozona.

Ma Renzi da che parte sta e che cosa veramente vuole? Anche qui bisogna distinguere tra tattica e strategia, tra singole mosse che colgono il presente e finalità proiettate sul prossimo futuro.

Le sue mosse Renzi le ha da tempo dichiarate e le ripete quasi quotidianamente: vuole prestiti europei previsti da Juncker e li vuole al più presto senza dover versare il contributo che Juncker chiede agli Stati membri. Vuole l'autorizzazione ad una politica di "deficit spending" destinata a investimenti da effettuare al di fuori del bilancio ufficiale. Il debito aumenterà, ma quello sul quale mette gli occhi la Commissione europea no e quindi neppure il deficit del 3 per cento stabilito dall'accordo di Maastricht, anche se Renzi chiede l'autorizzazione a superarlo fino al 2017 come la Francia.

Questi sono gli obiettivi immediati. Ma poi c'è l'obiettivo di fondo: rafforzare la struttura confederata dell'Unione e non muovere nessun passo verso quella federale. Esattamente il contrario della strategia di Draghi e la ragione è evidente: in una struttura federale il potere di Renzi, come di tutti i capi di governo dei Paesi membri dell'Ue, diventerebbe simile al potere d'un governatore regionale o del sindaco di un'area metropolitana. Renzi non vuole un declassamento di questo genere perciò si opporrà fino in fondo e farà quanto gli è possibile perché tutti gli altri Paesi  -  a cominciare dalla Germania  -  facciano altrettanto. Ma ha la forza sufficiente per farlo?

In parte la sta perdendo e i sondaggi ne mandano un segnale. È questa una delle ragioni per cui vuole procedere a tempo di record all'approvazione delle riforme, a partire da quella del lavoro, dalla legge elettorale e dall'abolizione di fatto del Senato, dall'elezione del nuovo capo dello Stato (quando tra poche settimane Napolitano darà le dimissioni) che sia di fatto uno strumento nelle sue mani.
Queste sono le sue finalità. È coraggioso, non si vedono nel Pd alternative, anche se il suo "Jobs act" non crea nessun posto di lavoro ed è di assai dubbia costituzionalità. L'insoddisfazione degli italiani nei suoi confronti è in costante aumento, la diminuzione delle tasse e la sconfitta dell'evasione fiscale sono favole che hanno molto poco da spartire con la realtà.

Questo è il quadro con cui gli italiani debbono confrontarsi, al quale c'è da aggiungere la forte sofferenza della democrazia parlamentare di fronte ad una legge che abolisce il Senato e trasforma il sistema consentendo al potere esecutivo di spolpare il potere legislativo e dove la corruzione continua a dilagare come prima e più di prima.

Aggiungo due parole (perché l'ho già detto domenica scorsa) sulla fiducia chiesta per la legge delega relativa al "Jobs act". Salta agli occhi di tutte le persone consapevoli che è del tutto irragionevole porre la fiducia sulle leggi delega. Così facendo si trasforma il libero voto in una situazione di libertà forzosa, si chiude il deputato o il senatore aderenti al partito di maggioranza dentro una gabbia, si reprime la libertà di dissenso sugli obiettivi che la delega si propone e che saranno resi esecutivi e precisati nei loro fondamentali aspetti dai decreti costitutivi che non sono neppure discussi dalle Camere. Sono analizzati da una commissione che emette un parere soltanto consultivo. La delega in sostanza è ottenuta con la gabbia della fiducia e non torna più in Parlamento. L'incostituzionalità è evidente e penso che la Corte la dichiarerebbe se ne fosse investita nei modi appropriati.

Ma c'è anche un'altra osservazione sulla costituzionalità del "Jobs act": esso contiene una notevole diseguaglianza tra i lavoratori già occupati nelle aziende e quelli che vi accedono con un periodo di prova e stipendi a tutele crescenti.

Questi lavoratori hanno un privilegio rispetto ai già occupati: le aziende che li assumono ed essi stessi sono sgravati dal pagamento dei contributi mentre quelli già occupati non godono di queste facilitazioni. Per converso questi ultimi sono ancora coperti dall'articolo 18 per quanto riguarda i licenziamenti, mentre i nuovi assunti ancora precari non hanno questa protezione.

Al tirar delle somme i lavoratori che fanno il medesimo lavoro si trovano in condizioni molto diverse, il che è palesemente incostituzionale.
Tendere alla produttività, alla competitività e all'aumento dei posti di lavoro fa parte purtroppo del mondo delle favole, mentre il tempo passa, i sacrifici aumentano, l'economia è inceppata, la corruzione aumenta.

Scrive nella poesia "Le Campane" Edgar Allan Poe: "Batte il tempo, il tempo, il tempo, mentre suona a morto, a morto, in un rùnico concerto, al rimbombo di campane, di campane, di campane... ". Campane a festa o campane a morto?
© Riproduzione riservata 07 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/07/news/la_banca_centrale_e_l_acquisto_di_bond_i_veri_obiettivi_di_draghi_e_quelli_di_renzi-102309017/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La partita dell'Italia si gioca interamente in Europa
Inserito da: Admin - Dicembre 14, 2014, 06:07:02 pm
La partita dell'Italia si gioca interamente in Europa

di EUGENIO SCALFARI
14 dicembre 2014
   
Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha rilasciato una lunga intervista al nostro giornale nella quale espone la sua politica confrontandola con quella di Mario Draghi e con la politica dell'Unione europea.

Sui suoi rapporti con la Bce, di cui la Bundesbank fa parte, non dice nulla di nuovo: con Draghi spesso si telefonano quasi quotidianamente, su molte cose concordano e spesso lavorano in piena intesa su altre c'è un duraturo dissenso che non impedisce una reciproca e amichevole lealtà di comportamento.

La visione che Weidmann ha dell'Europa mette invece in luce alcuni aspetti che non conoscevamo, il più importante dei quali è la propensione di Weidmann verso un'Europa politicamente ed economicamente unita, con una politica economica e fiscale gestita da Bruxelles, un debito sovrano unico e numerose cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Se questo fosse avvenuto non ci sarebbero le attuali diseguaglianze tra i Paesi membri dell'Eurozona e le tensioni che ne sono la conseguenza. A proposito della Germania Weidmann è consapevole della sua attuale debolezza economica e demografica ma ritiene che la situazione migliorerà entro un paio di anni e ne fa uno dei suoi obiettivi principali.

Infine le regole che governano l'Unione europea. Il loro obiettivo è quello di ottenere un risanamento dei bilanci nazionali e la loro stabilità. Non sarebbero necessarie quelle regole se l'Europa fosse uno Stato federale, ma poiché non lo è e non lo sarà, le regole e la restrizione che esse comportano non possono essere violate.

la flessibilità tanto richiesta dall'Italia e dai Paesi economicamente più deboli è inaccettabile e va respinta. Questo è il pensiero della Bundesbank e del suo presidente che emerge dall'intervista che stiamo esaminando. Che cosa ne pensa Draghi? Non ritiene scorretto che il governatore d'una Banca centrale nazionale esprima pubblicamente il proprio pensiero e i suoi dissensi dalla Bce di cui fa parte? No, non lo ritiene scorretto e non ci vede nulla di nuovo. Che la Bundesbank sia contraria su alcuni punti decisivi della sua politica e in particolare alla possibilità del "quantitative easing" non è una sorpresa. D'altra parte il "qe" non è ancora stato deciso e neppure le forme della sua eventuale applicazione. Si deciderà entro il prossimo gennaio se sarà adottato e con quali regole; tra di esse una delle più importanti riguarda le modalità esecutive: se la scelta dei Paesi ai quali sarà applicato il "qe" spetterà alla Bce oppure se sarà esteso a tutta l'Eurozona in proporzione al Pil di ciascuno dei diciotto Paesi che la compongono.

***

Abbiamo cominciato da questa intervista perché, insieme a quanto detto da Draghi, traccia un panorama della massima importanza per il nostro governo. È infatti pacifico che per Renzi la vera partita ormai non si gioca in Italia ma in Europa e lì si deciderà entro poche settimane. L'azione politica del governo Renzi in Italia ne sarà fortemente condizionata. Se a Bruxelles dovesse fallire, la crisi italiana gli sfuggirebbe di mano e non gli resterebbe altra via che quella elettorale, sempre che il futuro inquilino del Quirinale glielo consenta. Renzi insomma rischia d'essere rottamato a Bruxelles e quindi anche a Roma. Ebbene, le prospettive della partita europea non sono affatto favorevoli per il nostro governo e lo si vede dal mutamento di Juncker, di Moscovici e del vice di Juncker preposto ai rapporti con i paesi in maggiore sofferenza economica Jyrki Katainen. La flessibilità chiesta dall'Italia sarà ridotta al minimo, l'autorizzazione alla politica keneysiana del "deficit spending" sarà negata al rischio di immediati processi di infrazione. L'aumento del debito pubblico non sarà sopportato e l'arrivo della Troika da possibile sta diventando probabile.

***

Questo per quanto riguarda l'economia. Nel frattempo sono però avvenuti negli ultimi giorni alcuni fatti che mettono a repentaglio il governo. Due in particolare: lo sciopero generale della Cgil-Uil, l'emergere sempre più evidente delle minoranze di sinistra interne al Pd. Lo sciopero è pienamente riuscito con oltre il 60 per cento di lavoratori che hanno rinunciato ad un giorno di paga (importante coi tempi che corrono) pur di manifestare per la loro esistenza e dignità. Susanna Camusso, che ha parlato a Torino di fronte ad una piazza gremita, ha messo in chiaro che lo sciopero, come tutti gli scioperi generali, ha come obiettivo il governo, per opporsi a Renzi e alla sua politica economica e sociale. Il "Jobs Act" non conta nulla (Camusso e Barbagallo), non crea alcun posto di lavoro, cancella l'articolo 18, dà mano libera ai "padroni" di licenziare. Ma al di là del solo Renzi l'intera politica sociale del governo si fonda su una generale "deregulation" contrattuale che priva d'ogni forza le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. Queste politiche piacciono molto alla Confindustria ed anche a Bruxelles, favoriscono la privatizzazione delle aziende pubbliche e la loro vendita a investitori stranieri che adottano immediatamente politiche aziendali basate sull'esubero di lavoratori. Del resto la politica degli esuberi è una costante essenziale della politica del governo. I tagli effettuati e quelli che verranno per ricavare risorse produrranno inevitabilmente altri esuberi. Il risultato finale sarà esattamente l'opposto di quanto tutti vorrebbero e che lo stesso governo proclama come obiettivo numero uno: non già aumento ma diminuzione dei posti di lavoro. Per ottenere le risorse necessarie bisognerebbe cambiare la distribuzione delle imposte sulle varie categorie sociali e far diminuire le diseguaglianze: questa dovrebbe essere la politica fiscale del governo. Gli obiettivi della Camusso sono quelli qui esposti, condivisi interamente dalla minoranza di sinistra del Pd. Lo scontro decisivo interno al partito avverrà nell'Assemblea di oggi e sarà molto duro, con probabili ripercussioni addirittura nella scelta del futuro presidente della Repubblica.

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Ma c'è un tema che ha poco da vedere con quelli fin qui trattati anche se le sue ripercussioni economiche sono tutt'altro che irrilevanti: la corruzione, le mafie, l'immoralità così universalmente diffusa, che inquina gran parte della classe dirigente ma è purtroppo presente anche capillarmente nei ceti sociali medio-bassi. C'è in tutti i Paesi la corruzione e il suo rapporto con la politica e con le istituzioni, ma in Italia è più diffusa e meno punita. Il tema chiama in causa la morale, le leggi che dovrebbero presidiarla, il costume che dovrebbe respingerla. Ho detto prima che la corruzione è diffusa ovunque e non solo in Italia, ma in alcuni Paesi che si distinguono dagli altri proprio per questo aspetto, il costume è diverso, la capillarità è minore, l'auto-punizione è più frequente attraverso auto-denunce, dimissioni dalle cariche ricoperte, auto-rottamazione, se vogliamo usare una parola di moda.

Lo scandalo di Roma, che coinvolge oltre al Comune anche Provincia e Regione, ha posto il governo di fronte all'urgente necessità di emanare leggi appropriate e lo sta facendo, con ritardo, perché il fenomeno esiste da sempre e nessun governo l'ha mai seriamente affrontato. I governi di destra (Berlusconi) l'hanno addirittura incoraggiato con leggi fatte su misura; quelli di sinistra l'hanno tollerato (mancate leggi sul conflitto di interessi, sulla prescrizione, sul riciclaggio di capitali). Oggi finalmente il governo sta preparando e varando leggi sulla prescrizione e sulla corruzione. Quest'ultima, da quanto se ne sa, sembra insufficiente. Attendiamo di poter leggere il testo definitivo. Il segnale comunque c'è anche se tardivo e va appoggiato dandone lode al governo che se ne è dato finalmente carico. È inutile dire che la parola giusta per definire il fenomeno è "vergogna". Non ci sono altre parole che questa.

Del resto che la corruttela ampiamente diffusa sia un fenomeno antico lo sappiamo dalla storia del nostro Paese e dagli scandali che vennero alla luce dopo il governo della Destra storica. Il trasformismo celò spesso fenomeni di corruzioni che travolsero governi, cooperative e perfino movimenti che si proclamavano di sinistra e denunciavano i padroni pur essendo anch'essi inquinati di corruzione. Ricordo qui una canzone che mio nonno paterno conosceva ed era una versione anarchica dell'inno dell'Internazionale. Diceva così: "Quando che sarò morto  -  non voglio le campane  -  ma voglio le puttane  -  e il Sol dell'Avvenir". La parola "puttane" è qui usata per significare che sono meglio loro che la gente cosiddetta perbene ma quasi sempre inquinata dalla corruzione. E il Sol dell'Avvenir è il segno d'un futuro anarchico e socialista che metta fine alla vergogna. Ma brillerà finalmente quel Sole?

© Riproduzione riservata 14 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/14/news/la_partita_dell_italia_si_gioca_interamente_in_europa-102843084/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tutto comincia da tre parole di Conrad sulla vita
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2014, 05:52:23 pm
Tutto comincia da tre parole di Conrad sulla vita

Di EUGENIO SCALFARI
21 dicembre 2014
   
Nel 1913 Joseph Conrad scrisse forse il più bello dei tanti suoi romanzi e io comincerò con questa frase: "La storia degli uomini sulla terra fin dall'alba dei tempi si può riassumere in parole infinitamente evocative: "Nacquero, soffrirono, morirono". E tuttavia, che grande racconto!"

Dei tanti fatti accaduti in questi giorni, che vanno dalla pace finalmente scoppiata tra gli Stati Uniti d'America e Cuba, auspice papa Francesco, ancora una volta fattore di amicizia e solidarietà tra gli uomini, al progetto d'una intesa di Europa e Usa con Putin, fino all'ultima riunione del Consiglio dei capi di governo dell'Ue sotto la presidenza semestrale italiana che tra pochi giorni sarà scaduta; la frase di Conrad fornisce meglio di qualunque altro discorso l'essenza e mi fa pensare alla spiegazione dei dieci comandamenti mosaici fatta il 15 e il 16 scorsi da Roberto Benigni su RaiUno. Che racconto! Come dice Conrad dopo aver riassunto in tre parole la miserabilità della nostra vita.

Sbaglia chi pensa che Benigni sia un comico: è un grande attore che come tutti i grandi attori è anche il regista e lo sceneggiatore di se stesso e sceglie qualunque occasione per raccontare la vita, il suo aspetto drammatico e quello comico, i suoi significati spesso reconditi. Ridendo, lacrimando, gridando e mormorando, facendo vivere quello che finora forse avevano ignorato. C'è un passaggio di quella sua recita che mi ha colpito, quello in cui Benigni (e Franco Marcoaldi, che con lui ha preparato il testo) pongono al centro della tradizione mosaica questo concetto.

È quello secondo il quale spesso il corpo delle persone corre molto più velocemente lasciando l'anima indietro. Bisogna impedire che questo avvenga per evitare che l'anima, lontana dal suo corpo, si smarrisca e si perda. Il rapporto tra corpo e anima è la condizione che rende possibile la persona umana, la sua storia, il suo viaggio dentro di sé e la sua ricerca di amicizia e di solidarietà con gli altri, con il mondo che ci circonda.

Papa Francesco ha telefonato a Benigni e si è congratulato con lui. È vero: Roberto ha parlato per quattro ore di Dio. Quattro ore, che racconto! Dio  -  ha detto illustrando i comandamenti  -  è serenità ma è anche tragedia, è anche gelosia, è anche misericordia. Forse c'è. Ma il dubbio aleggia di continuo intorno alla sua figura, alle stragi terribili e orribili che l'uomo ha compiuto e ancora compie, quando l'anima si distacca dal corpo e lascia solo l'animale che siamo, la belva che possiamo diventare, mentre il Dio onnipotente lascia correre e sembra aver abbandonato la sua creatura.

Il Papa si è congratulato. Lui è sicuro che Dio pensa a noi senza interruzione, ma sa che esiste il dubbio e la miscredenza. Francesco si dà carico cercando nei limiti di una persona come tutte le altre di affrettare il cammino dell'anima affinché la bestia che è in noi si volga verso il Bene. Poi sarà il nostro libero arbitrio a scegliere quale sia il Bene e spesso se ne servirà a proprio uso e consumo.

***

Il muro tra l'America e Cuba è caduto e questo è un fatto di capitale importanza perché Cuba non è soltanto la grande isola che fronteggia la Florida e il Messico. Cuba rappresenta l'America centrale e meridionale che si affaccia sul grande golfo dei Caraibi, il Venezuela, la Colombia, il Guatemala, il Costa Rica, Panama, El Salvador, Porto Rico, Honduras. Li rappresenta non nel senso formale ma sostanziale del termine. Ed è proprio quell'aspetto che spiega l'interesse di Jorge Bergoglio nel far cadere quel muro. Papa Francesco patrocina una grande unione di tutta l'America Latina. Non è un interesse politico che non ha e non vuole che l'abbia la Chiesa. È un interesse spirituale, il medesimo che è contenuto nel suo recente discorso al Parlamento europeo.

Sono regioni dove il cattolicesimo è molto presente, insieme ad alcune Chiese protestanti. Una confederazione che andasse dall'Equatore fino all'Antartide e dal Pacifico all'Atlantico sarebbe una terra di missione formidabile e l'intero mondo cristiano ne riceverebbe un impulso missionario con effetti su tutto il Pianeta. Questa è l'importanza della nuova stagione che si apre tra Washington e L'Avana. Obama ci vede un successo che dà prestigio al suo gran finale, Raul Castro si attende un miglioramento sostanziale del tenore di vita del suo popolo. Papa Francesco spera in un'immensa prateria per le missioni della Chiesa. E tutti e tre colgono la verità di ciò che è accaduto e accadrà nel futuro.

***

Renzi intanto ha avuto a Bruxelles l'ultimo incontro con i colleghi dei Paesi membri dell'Ue e con la Commissione presieduta da Juncker. Chi ha vinto, chi ha perso: fioccano sui giornali le interpretazioni della tradizionale politica del rigore economico e quella, evocata ma non ancora entrata in funzione, della crescita.

Il punteggio di questa partita che ormai si protrae da almeno un anno è zero a zero. Non è stato deciso niente anche se è stato detto tutto a sostegno dell'una e dell'altra tesi. Il Paese che ai tempi delle vacche grasse, cioè nel periodo tra il 1995 e il 2005, utilizzò le abbondanti risorse disponibili per modernizzare lo Stato, le imprese, lo status dei lavoratori, fu la Germania ed anche la Gran Bretagna di Tony Blair fece lo stesso.

Altri Paesi furono a mezza strada in quella direzione (la Polonia fu uno di quelli). Altri ancora (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro) dissiparono allegramente (da noi ci fu la "Milano da bere", anzi l'Italia da bere, di craxiana e poi berlusconiana memoria) aumentando fino a livelli stellari il debito pubblico e insieme con esso l'evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, i proventi della criminalità organizzata e la sua diffusione in tutto il Paese e il collegamento con le mafie internazionali (giapponese, marsigliese, colombiana, russa, albanese, turca, americana, tedesca, romena, slovacca) insomma una cintura planetaria, ovunque contigua alla classe politica e perfino a quella giudiziaria.

Questa purtroppo è l'Europa. Sarebbe andata avanti così ancora per qualche anno, poi sarebbe precipitata a fondo dal Mar Mediterraneo a quello Baltico. Ma nel 2007 è scoppiata in America la più grande crisi economica che si ricordi, più profonda, più vasta, più duratura perfino di quella del 1929.

Questa, che dura tuttora, è avvenuta quando già da sette anni era nata la moneta comune: i sei fondatori, tra i quali c'eravamo anche noi, sono ormai 18 e stanno per diventare 19. Molti incolpano l'euro per quello che sta accadendo nei Paesi della corruzione in grande stile, ma quei molti sono profondamente stupidi, scambiano gli effetti per le cause e non si rendono conto che solo l'esistenza dell'euro ha consentito di interrompere il sonno in cui i Paesi dissipatori continuavano a cullarsi: i Paesi cosiddetti virtuosi hanno suonato il campanello d'allarme ed hanno preteso che i dissipatori si mettessero in regola, sopportando i relativi sacrifici e alcune roventi umiliazioni per poi intraprendere di nuovo tutti insieme la crescita e lo sviluppo e magari passare da un'Unione di Stati confederati agli Stati Uniti d'Europa.

Su questo ultimo punto  -  che per quanto mi riguarda non faccio che invocare ed evocare  -  tornerò. Tornerò tra poco; ma prima voglio dire che Matteo Renzi sta sbagliando con l'Europa; evidentemente non ha buoni consiglieri e quanto a lui di questi problemi ne sa poco. E pensa che il metodo migliore sia quello di fare la faccia feroce. Le elezioni europee gli hanno dato un notevole successo (smaltito pochi mesi dopo dalle elezioni amministrative con un'astensione abnorme) e gli hanno evidentemente fatto adottare una tattica e una strategia che non porteranno a nulla.

Non era facendo il bullo nei confronti della Merkel che si risolveva il problema. Anzi: si alimentarono gli euroscettici e i loro partiti e movimenti che hanno soprattutto la Germania come nemico. Per cui attaccare quei movimenti ed insieme attaccare anche i fautori dell'euro è una strategia evidentemente priva di senso.

Tra l'altro chi adotta questa strategia finisce con l'indebolire la posizione di Draghi e della Bce che è allo stato dei fatti il solo vero protagonista della politica di crescita attualmente positiva con strumenti monetari da abbinare a riforme che creino posti di lavoro. Il "Jobs Act" non ha queste caratteristiche, non crea nessun posto di lavoro nuovo e semmai ne distrugge alcuni esistenti perché la libertà di licenziamento e l'abolizione dell'articolo 18 stimola ad ingaggiare lavoratori "apprendisti" e nel frattempo consente di disfarsi di una parte di quelli che fino a quel momento erano occupati nell'azienda in questione.

La vera strategia d'un Paese in difficoltà per i propri errori commessi in passato, avrebbe un solo modo per conseguire un successo: ancorarsi alla politica della Commissione Juncker con le poche aperture che ci saranno concesse per non crepare, ma pretendere, questo sì, che la Germania si metta alla testa del cambiamento dell'Europa con il finale obiettivo d'una Federazione con massicce cessioni di sovranità a cominciare dal fisco e dal debito sovrano europeo.

Questa sarebbe una politica seria e consentirebbe anche toni assai energici: se la Germania indugia o rifiuta di guidare il continente verso la costruzione d'uno Stato sovrano, assume responsabilità e impedisce il solo modo di uscire da una situazione insostenibile in un mondo dove la civiltà globale ha imposto ai continenti di diventare Stati anche laddove non lo erano e comunque di comportarsi e confrontarsi come tali. Se l'Europa non segue questa strada e se la Germania non si mette alla testa per guidarla esplicitamente noi saremo ridotti a quel che già siamo (e se ne vedono già gli effetti) cioè staterelli che non hanno alcuna voce politica né economica da far valere nel mondo.

Ma Renzi questa strada non la percorrerà mai. Intanto non ha nessuno che gliela consigli: il ministro Padoan è un bravissimo tecnico ma non è un politico e a questa strategia non ci arriva. Quanto a Napolitano quell'obiettivo dell'Europa federale l'ha sempre avuto in mente e l'ha esplicitato nell'ultimo suo discorso al Parlamento di Strasburgo. Perfino papa Francesco l'ha indicato anche lui al medesimo Parlamento. Ma in realtà da Napolitano tra i numerosi consigli che ha dato a Renzi non risulta che ci sia stato anche questo.

C'è da aggiungere che quanto al nostro presidente del Consiglio se c'è un'ipotesi sgradita è quella dello Stato federale d'Europa. Gli staterelli scomparirebbero o meglio sarebbero declassati e così pure i loro capi diventerebbero l'equivalente dei presidenti di Regione o poco più. Che il Senato diventi un'istituzione regionale gli va benissimo, ma se lui e tutti i suoi pari venissero declassati (rottamati?) no, non gli piace affatto.

Pazienza, ma peggio per noi perché così stiamo male e finiremo peggio.

***

Mi è venuto tra le mani, ma lo conoscevo da molto tempo e ne parlai ampiamente sul nostro giornale parecchi anni fa, il libro, l'unico da lui scritto, di Étienne de La Boétie. Visse a cavallo tra il 1500 e il 1600, era amico intimissimo di Montaigne che infatti ne vigilò l'agonia mentre la madre e la sorella ne aspettavano la morte nella camera accanto. Étienne aveva solo ventisette anni ma per le pagine di quel suo scritto è ancora vivente nella memoria di chi si occupa di capire la dinamica della vita pubblica e la sua storia.

Il libro di chiama "Discorso sulla servitù volontaria" e la tesi è questa: "È ben difficile credere che vi sia qualche cosa di pubblico in quel governo in cui tutto è nelle mani di uno solo o di una qualche aristocrazia, perché avere un padrone o parecchi significa essere colpiti varie volte da una tale disgrazia".

E più oltre discutendo il rapporto tra il leader e i suoi sudditi che in teoria rappresentano il popolo sovrano: "Da dove prenderebbe i tanti occhi con i quali vi spia se non glieli forniste voi? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Che male potrebbe farvi se voi non faceste da palo al ladrone che vi saccheggia? Voi siete in realtà i traditori di voi stessi. Ma sapete perché? Perché lui e i suoi compagni di scelleratezze vi danno il potere di esercitare gli stessi arbitri e sopraffazioni su quelli che sono più deboli di voi. Così voi vi compiacete della vostra servitù perché tanti altri sono in servitù vostra. Il livello del vostro potere è diverso ma pur sempre di potere si tratta, sicché quella in cui vivete è una servitù che volontariamente accettate e vi assumete".

Ebbene, in tutti i Paesi questa servitù volontaria è stata ed è tuttora presente ma in Italia è stata e continua ad essere molto più presente che altrove.

Mi direte che oggi sono particolarmente pessimista. Rispondo che ne ho qualche buon motivo. Quei malanni della vita pubblica sono presenti ovunque ma da noi più che altrove. Del resto ogni Paese ha la classe dirigente che si merita: gli italiani non hanno mai amato le istituzioni e lo Stato che hanno sempre considerato ostile, inefficiente e corrotto. A torto o a ragione oggi lo considerano più che mai così.

Concluderò con alcuni versi di uno dei più grandi poeti del Novecento: W. H. Auden. Mi consolano perché dimostrano che noi italiani non siamo molto diversi dagli altri: "La politica dovrebbe adeguarsi a Libertà, Legge e Compassione/ Ma di regola essa obbedisce a Vanità, Egoismo e Tremarella./ La maggior parte degli uomini da soli a soli,/ sembrano gentili e amichevoli,/ ma l'Uomo collettivamente in genere/ si comporta da canaglia". Auguri di Buon Natale e Capodanno.

© Riproduzione riservata 21 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/21/news/tutto_comincia_da_tre_parole_di_conrad_sulla_vita-103414119/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia
Inserito da: Admin - Gennaio 01, 2015, 05:10:03 pm
La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia

Di EUGENIO SCALFARI
28 dicembre 2014
   
QUALCHE tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni.

Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo.

Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano.

Prima di affrontare il tema mi corre tuttavia l'obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.

***

Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno  -  come invece ancora accade per i vecchi assunti  -  dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.

Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso  -  come era un tempo  -  dal giudice del lavoro.

Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.

Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.

***

La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.

La chiamano l'Italicum e  -  lo ripeto  -  mi sembra efficace ma è aggrappata all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l'ideale.

***

Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).

Era molto semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: "Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata corrispondente ". Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968'72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.

Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.

Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni". Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende affaccendato. *** Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò.

Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano.

Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.

Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.

Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico.

Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.

Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto.

Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.
© Riproduzione riservata 28 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/28/news/la_coerenza_merce_rara_ma_in_italia_la_conosce_solo_la_mafia-103840787/?ref=HRER2-1



Titolo: EUGENIO SCALFARI Napolitano ci ha salutati ma chi andrà al Quirinale dopo di lui
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2015, 05:22:14 pm
Napolitano ci ha salutati ma chi andrà al Quirinale dopo di lui?

di EUGENIO SCALFARI
04 gennaio 2015
   
I GIORNALISTI della carta stampata e delle televisioni continuano ad esaminare, interpretare e discutere del messaggio con il quale Giorgio Napolitano ha dato il suo addio alla carica che ricopre, agli italiani da lui rappresentati nella loro totalità e nella loro auspicabile responsabilità e alla classe politica che bene o male (più male che bene) li rappresenta. Il totale degli ascolti registrati da tutte le televisioni a reti unificate per l'occasione è stata di tredici milioni, il settanta per cento di share, una cifra alla quale, se si aggiungono coloro che non l'hanno seguito in diretta televisiva e l'hanno però recuperato sui giornali o attraverso la rete Internet si arriva a quote del cento per cento degli italiani dai 14 anni in su. Sabino Cassese nel suo fondo di venerdì sul Corriere della Sera ha fatto il conteggio delle parole più usate nel saluto del Presidente della Repubblica, notando che sono state: unità, fiducia, nazione, doveri, Europa, responsabilità, lavoro, Mezzogiorno, rispetto verso gli altri e verso le istituzioni, corruzione, riforme. Le più ricorrenti di questo lungo campionario sono state fiducia, doveri, nazione. Quella non usata è stata diritti, ma, stando all'opinione di Cassese, era implicito nel testo del messaggio. Personalmente non credo che sia questa l'interpretazione esatta. La parola diritti solleva inevitabilmente contrasti, sia per mantenere quelli esistenti che spesso sono stati insidiati e in alcuni casi addirittura aboliti, sia per ottenerne altri che il mutamento d'epoca pone come indispensabili: in ogni caso sono fattori di nuove lotte che avrebbero comunque indebolito la reciproca fiducia e quindi l'unità nazionale che Napolitano ritiene a questo punto indispensabile.

Personalmente ho deciso di scrivere un ritratto politico e morale di Giorgio Napolitano due o tre giorni prima delle sue dimissioni che  -  ormai è certo  -  avverranno il 14 gennaio ma penso fin d'ora che, unitamente a Carlo Azeglio Ciampi, sia stato il solo a difendere le prerogative presidenziali che fanno del Capo dello Stato una figura costituzionale diversa da tutti gli altri Capi di Stato europei. Questa figura Napolitano vuole mantenerla. Vale la pena di capirne il perché.

***

In tutta Europa (salvo che in Russia e nei suoi dintorni che Europa non sono) il Capo dello Stato non ha alcuna funzione e quindi nessuno dei suoi rappresentati ne conosce o ne ricorda il nome. Le sue prerogative sono puramente cerimoniali, come accade d'altronde dove esiste la monarchia.

Il monarca, anzi, conta sempre meno del presidente d'una Repubblica. Così il re di Spagna, quello del Belgio, la regina di Gran Bretagna. In Italia è diverso: le prerogative del Presidente non sono affatto limitate al cerimoniale; riguardano diritti sostanziali: a lui è riservato il diritto di grazia, la nomina dei senatori a vita, la nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei membri del governo e dei sottosegretari, la firma dei decreti-legge prima che siano presentati in Parlamento, l'inviolabilità per ogni eventuale reato che non sia stato colto in flagranza dalle forze della sicurezza pubblica. Infine spetta a lui lo scioglimento delle Camere o di una sola di esse quando prima della loro regolare scadenza si trovino in condizioni di non funzionare quale che ne sia la ragione.

La spiegazione di queste prerogative sostanziali non ha bisogno di alcun chiarimento, la nostra è infatti una Repubblica nella quale il Capo dello Stato tutela la Costituzione e coordina una leale discussione tra gli altri poteri costituzionali. Se alcuni di quei poteri vogliono rafforzare la loro autorità diminuendo i poteri di controllo che la contrastano, il Capo dello Stato ha la funzione di impedire questo mutamento e le sue prerogative sostanziali servono appunto a svolgere questo compito. Questo non significa affatto che vi sia o vi debba essere una dialettica polemica tra il potere esecutivo rappresentato dal presidente del Consiglio e quello del Capo dello Stato. Al contrario, ci deve essere e di fatto nel caso specifico c'è una collaborazione e una stima reciproca tra la presidenza del Consiglio e quella della Repubblica, la quale tuttavia può incorrere nel freno che il Capo dello Stato può e deve svolgere quando un potere tende a soverchiare l'altro.

Questa differenza tra la nostra idea di Presidente e quello che è avvenuto nel corso degli anni della Prima Repubblica è notevole. Il mutamento avvenne in concomitanza ed a causa del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione da parte delle Brigate Rosse. Siamo nel 1978 e si forma da allora un passaggio fondamentale di cui sono protagonisti personaggi come Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano che assumono al vertice dello Stato una funzione durata fino ad oggi, cioè più di trent'anni, completamente diversa da quella che c'era stata nei trent'anni dall'approvazione della Carta costituzionale fino, appunto, l'uccisione di Moro. Dal 1947 (firma della Costituzione) fino al 1978 il Capo dello Stato non aveva alcun potere e alcuna prerogativa se non di tipo cerimoniale. Naturalmente la lettera della Costituzione era più o meno simile a quella attuale ma esisteva la cosiddetta Costituzione materiale che era la prassi invalsa e che dava al Capo dello Stato poteri minimi rispetto a quelli che il partito di maggioranza e cioè la Dc con i suoi alleati imponeva. Questa è la differenza tra ieri e oggi: i primi trent'anni il Capo dello Stato non conta quasi nulla, come in tutta Europa, nei secondi trenta i quattro nomi che abbiamo indicato tornano alla letteralità della Costituzione e di quella si fanno scudo e rappresentanti.

In Europa le cose stanno molto diversamente. L'abbiamo già accennato e debbo dire che il potere esecutivo ed il suo principale rappresentante che siede a Palazzo Chigi vorrebbe un cambiamento dello stesso tipo di quello vigente in Spagna, Germania, Belgio, Gran Bretagna ed altri. Tutto questo sarà messo alla prova durante le prossime e imminenti elezioni del nuovo inquilino del Quirinale.

***

Renzi non ha la maggioranza assoluta del plenum parlamentare che voterà il nuovo Capo dello Stato. Alcuni membri dei partiti che non appartengono alla maggioranza voteranno per il nome scelto da Renzi, ma molti altri che appartengono invece alla maggioranza o allo stesso Pd voteranno probabilmente contro quel nome. Renzi queste cose le sa bene e quindi ne terrà conto nella tattica per arrivare ad una strategia che è quella da lui preferita. Ci sono varie possibilità nelle modalità con cui si sceglie il futuro successore di Napolitano: alcuni puntano su tecnici di vario tipo e di varie discipline alle quali il presidente del Consiglio è disposto a lasciare piena padronanza di quelle materie riservando al potere esecutivo la politica. È difficile pensare che un nome si imponga fin dalle primissime votazioni. Probabilmente ci sarà un periodo di assaggio ma non credo che sia lunghissimo a meno che non vi siano cessioni inevitabili dall'una parte e dall'altra. La soluzione mediana riguarda il livello dei tecnici che deve essere e sarà, se questa fosse la soluzione, molto elevato, riconosciuto non solo in patria ma anche a livello europeo e internazionale. Naturalmente i tecnici possono anche essere, e spesso lo sono, opportunisti nel senso che mettono la propria tecnica a disposizione di chi è più potente di loro e può dunque dare a quella loro capacità una sistemazione estremamente ambita. C'è poi un altro compromesso che è appunto quello di trovare tecnici non opportunisti. Non è facilissimo ma ce ne sono e su quelli bisognerebbe orientarsi. Poiché fare un elenco con alcuni nomi di opportunisti provocherebbe a chi lo fa una serie di sciagure giudiziarie del tipo querele per diffamazione o per calunnia bisogna seguir la via opposta: fare il nome dei più adatti e dei meno opportunisti. Ecco qualche nome in proposito: Pier Carlo Padoan, Renzo Piano, Riccardo Muti, Elena Cattaneo, Sabino Cassese, Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco.

Sono pochi e ce sono molti di più ma questi servono a dare un'indicazione di capacità e di livello che possa essere utile anche applicata a nomi equivalenti. Rappresentano varie branche della cultura, della scienza, della tecnica, dell'insegnamento, dello spettacolo e del diritto.

Più difficile è fornire il nome dei politici cioè di coloro che lasciano la tecnica a chi di dovere e si occupano del bene comune e della sua realizzazione. Questi nomi sono di molto minor numero perché la buona politica che si propone non già il potere per il potere, ma il potere per il bene comune, è assai limitata. Aristotele la mise in cima alle categorie dello spirito ma parlava in un'epoca che è molto diversa della nostra. Comunque ecco qualche nome che possa servire a utilizzare le persone qui indicate o altre di analogo livello e importanza: Romano Prodi, Walter Veltroni, Enrico Letta, Luigi Zanda, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani. Anche qui ce ne sono altri ma non molti, ho già detto che la merce buona in politica è molto più rara e le scelte di qualità sono terribilmente difficili.
 
© Riproduzione riservata 04 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/04/news/napolitano_ci_ha_salutati_ma_chi_andr_al_quirinale_dopo_di_lui_-104249159/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I terroristi confiscano il loro dio per ammazzare la gente
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:37:36 pm
I terroristi confiscano il loro dio per ammazzare la gente

Di EUGENIO SCALFARI
11 gennaio 2015
   
Il nuovo direttore di Charlie Hebdo, interrogato da un giornalista sulla linea che il suo settimanale satirico prenderà dopo la strage subita dai due "jihadisti" mercoledì scorso, ha detto che l'impostazione del giornale non cambierà: "Noi siamo dei laici mentre i terroristi sono integralisti. Non religiosi ma integralisti. Gridano "Allah Akbar" dopo ogni delitto che compiono, ma di Allah non gliene importa assolutamente niente. E dunque: laici contro integralisti. Dio, qualunque Dio, non c'entra. Lo scontro è soltanto politico, la nostra è una satira politica e il terrorismo è politico".

Ho ascoltato con molto interesse quell'intervista e pur essendo anch'io laico ed anche non credente, non sono del tutto d'accordo sulla tesi che lo scontro è solo politico. Fu così quando quaranta anni fa il terrorismo insanguinò l'Europa e in particolare l'Italia e la Germania.

Fu combattuto con argomenti politici, la sinistra comunista tagliò tutti i ponti con la sinistra terrorista e questa fu l'arma con la quale le Brigate Rosse furono scompaginate e poi, a breve distanza di tempo dall'uccisione di Aldo Moro, definitivamente sconfitte. Ma la situazione oggi non è simile a quella di allora.

Oggi il terrorismo nasce e si alimenta su radici non soltanto politiche ma anche religiose. Il capo dei talebani in Afghanistan era il mullah Omar, Bin Laden organizzava attentati in tutto l'Occidente ma al tempo stesso pregava. Il Califfato è un fenomeno politico ma religioso insieme; Al Qaeda alimenta la fede in Allah con le armi in pugno. Lo scontro tra Israele e i palestinesi è anch'esso politico e al tempo stesso religioso.

Tant'è che il governo di Netanyahu vuole ribattezzare Israele come Stato ebraico ancorché una parte dei cittadini siano arabi e musulmani ed altri di etnia ebraica ma non credenti.

Del resto Maometto, quando lanciò gli arabi che seguivano le massime del Corano e le disposizioni del Profeta, li esortò a non uccidere i bambini, i vecchi e le donne, ma di combattere nel nome di Allah loro Dio. Cristo era, secondo Maometto, un profeta ma la religione costruita non da lui ma dai suoi seguaci è nemica di Allah.

La letteratura e la poesia raccolsero e amplificarono lo scontro religioso e le guerre che ne sono derivate, a cominciare dalla battaglia di Roncisvalle, dai califfati di Cordova e dell'Andalusia, sgominati dopo qualche secolo dalla "reconquista" di Ferdinando e di Isabella.

I cattolici non furono da meno, le Crociate per la conquista della Terra Santa erano bandite dal Papa, i re cristiani fornivano le truppe e le flotte ma era il Papa di Roma a dare l'"imprimatur". Quando la Chiesa, dopo i primi tre secoli, scoprì il potere temporale, fu quello il suo centro e su di esso fondò la sua esistenza. Non a caso il re di Spagna era definito cattolico e quello di Francia cristianissimo. L'Inquisizione fu per secoli il cuore della Chiesa avendo di mira i miscredenti, gli ebrei, i catari, i valdesi. Fede contro fede: per un millennio fu quella l'essenza della Chiesa di Roma.

Papa Francesco è stato il primo a denunciare il temporalismo, a ricordare che c'è un unico Dio, che non è cattolico ma ecumenico. Chi venera il Dio Padre o quello di Mosè o Allah, venera lo stesso Dio e il delitto maggiore è quello di distinguerli e inalberarne i simboli l'uno contro l'altro. Non a caso Bergoglio è stata la voce più alta contro i terroristi che uccidono nel nome di Allah: "Oltre ad affidare a Dio le vittime di questa crudeltà -  ha detto celebrando la messa a Santa Marta giovedì scorso -  invito tutti di tutte le religioni ad intercedere anche per i crudeli affinché il Signore cambi il loro cuore".

Accanto al Papa c'erano i quattro imam francesi che hanno diffuso con lui una dichiarazione comune che sottolinea la necessità di promuovere con ogni mezzo una cultura di pace e di speranza capace di vincere la paura e di costruire ponti tra gli uomini. Infine hanno ribadito che "il dialogo interreligioso è la sola via da percorrere insieme. Il bene fondamentale è la convivenza pacifica tra le persone e i popoli superando le differenze di civiltà, di cultura e di religione".

Questa è la via. Per i laici questa via si identifica con la democrazia, per le religioni con il Dio unico che nessuno può ipotizzare come proprio: due parallele che convergono verso lo stesso obiettivo.

La guerra al terrorismo, insieme ai lutti, alle tensioni, alle paure, ha però un aspetto positivo che non va sottovalutato: fa emergere anche a chi finora era indifferente o addirittura ostile, la necessità di costruire l'Europa unita da raggiungere in parte con specifici accordi su temi di sicurezza e di investigazione e in parte con deliberazioni dei 28 Paesi dell'Unione che equivalgono a vere e proprie cessioni di sovranità.

Il terrorismo sembra avere scelto l'Europa come terreno di scontro; l'Europa non può che rispondere muovendo un passo verso l'unità non più soltanto economica ma politica e non soltanto per i diciannove Paesi dell'eurozona ma per l'Unione intera perché l'immigrazione e la presenza di sempre più numerose minoranze stanziate in molti Paesi del nostro continente già da due o tre generazioni rendono indispensabile tener conto delle loro diversità nel quadro d'uno spazio comune dove tutti debbono convivere.

Queste minoranze rischiano di diventare terreno di proselitismo per i terroristi ma possono essere anche educate alla democrazia, al lavoro, ai diritti e ai doveri che una civile convivenza comporta. Cittadini europei molto più che cittadini delle singole nazionalità.

Quest'obiettivo sta diventando fondamentale man mano che il fenomeno migratorio si infittisce soprattutto tra le due sponde del Mediterraneo, ma per dare un esito positivo esso richiede maggiore occupazione, maggiore equità sociale, più investimenti, più consumi, più commercio intraeuropeo e internazionale.

Le ricadute economiche e sociali necessarie per realizzare questi obiettivi sono evidenti: bisogna combattere la deflazione, bisogna migliorare i tassi d'interesse spingendo quelli ancora troppo elevati verso un sostanziale equilibrio e bisogna recuperare con le parti sociali e in particolare con quelle che rappresentano i lavoratori una concertazione che produsse negli anni Novanta risultati eccellenti e può produrne di nuovo in una fase in cui i contrasti aziendali e locali fanno premio su quelli nazionali e richiedono la presenza costante dei sindacati d'azienda. Non si tratta, come troppo spesso si dice, di ascoltare tutti e decidere da soli. Al contrario: facendo prevalere con l'intervento politico, il contrasto aziendale o locale. La concertazione avviene a quel punto, dove le parti sono oggettivamente più orientate all'interesse comune.

Può sembrare strano e teorico questo rilancio dell'Europa politica che comporta un rilancio analogo dell'Europa economica e d'un decentramento partecipato verso la microeconomia e la microsocialità ed invece è una dinamica assolutamente logica che consente di attribuire a Mario Draghi il merito d'esser stato tra i primi ad indicarla e, per quanto riguarda le sue competenze, ad attuarla utilizzando lo strumento monetario.

Il prossimo 22 gennaio la Bce deciderà l'attuazione del "quantitative easing", cioè l'acquisto di titoli del debito pubblico nei Paesi con maggiore necessità ma anche in quelli più solidi e quindi chiamati a contribuire alla crescita generale.

Draghi affiderà alle Banche centrali nazionali alcune mansioni importanti ma il timone non può che restare nelle mani del direttorio della Bce al quale partecipano a turno le Banche nazionali. Si parla di un "qe" di 500 miliardi. Credo che la cifra sarà maggiore, probabilmente il doppio, anche se distribuita in uno o due anni. Saranno comunque acquisti di titoli destinati a restare a lungo nelle casse della Bce la quale nel frattempo effettuerà anche operazioni consuete di prestiti lunghi alle banche ordinarie e di interventi sul mercato interbancario a bassissimi tassi d'interesse.

Draghi, oltre allo strumento monetario, ha in mente un'Europa politicamente federata. Anche qui si tratta di parallele convergenti che alimentano speranze d'un futuro migliore.

* * *

Due parole sulla politica italiana che si avvia verso un decisivo appuntamento: le dimissioni di Giorgio Napolitano che avverranno -  come ormai è di fatto stabilito -  il 14 gennaio.

È inutile ripetere che la sua sostituzione non sarà affatto facile e non tanto perché manchino candidati più che accettabili quanto perché l'uscita di Napolitano dal Quirinale lascia un vuoto assai difficile da colmare dopo oltre 15 anni che hanno visto due personalità di eccezione come Ciampi e il Presidente che sta esercitando il suo mandato ancora per pochissimi giorni.

Interrogato venerdì scorso nella trasmissione televisiva della Gruber sul successore di Napolitano, Matteo Renzi ha risposto che non dirà nulla e si vieta perfino di pensarci fino a quando le dimissioni di Napolitano non saranno state effettuate. Ha perfettamente ragione, non spetta al presidente del Consiglio immaginare candidature fin quando quella carica è ancora ricoperta. Lo farà a partire dal 15. Ed ha aggiunto che il candidato non sarà né eletto e neppure indicato esplicitamente fino alla quarta votazione del "plenum" parlamentare, quando cioè termina la maggioranza qualificata e comincia quella del 50,1 per cento degli aventi diritto. Tutto giusto e avveduto.

Renzi ha anche parlato in termini a mio avviso ben pensati della tensione vissuta in questi giorni in Europa, della necessità di unire di più il nostro continente, dell'importanza dell'Egitto per sconfiggere il Califfato e Al Qaeda e infine dell'importanza che per noi italiani ha la crisi libica, dove l'Italia dovrà intervenire al più presto diplomaticamente e se necessario e con l'appoggio dell'Onu anche militarmente. Tutto giusto e avveduto anche su questi argomenti.

Dove non è stato e non è né giusto né avveduto riguarda il "salva Berlusconi" e la politica economica e di riforme costituzionali. Di questi argomenti ho scritto ripetutamente e quindi non mi ripeterò se non per rilevare che aver posticipato la decisione sul "salva Berlusconi" al 20 febbraio è un segnale inaccettabile. Il salva Berlusconi sarà riconfermato sempre che lui e il suo partito accettino per il Quirinale la persona indicata da Renzi. Inutile dire che questo è un marchingegno di cattiva qualità. Per quanto riguarda la riforma fiscale essa fu preparata da Monti, ricevuta in eredità da Letta e infine da Renzi. Una legge delega che non è mai stata discussa in Parlamento e che Renzi fece approvare quando il suo governo era stato appena nominato e insediato da Napolitano.

Quanto alla politica economica il governo continua ad immaginare non so bene che cosa ma nel frattempo si registra un deficit nei primi nove mesi dell'anno che ha sfondato il 3 per cento e si colloca ora al 3,7. Non è affatto un bel vedere, con una disoccupazione in aumento a cifre record.

Sulla riforma del Senato non ho nulla da aggiungere e ne ho parlato già molte volte: così come concepita la reputo pessima. Concludo ricordando che domenica scorsa indicai come eventuali candidati accettabili per il Quirinale alcune personalità che rappresentano ciascuna a suo modo un alto livello di qualità. M'accorsi il giorno dopo che ne avevo dimenticato una: quella di Giuliano Amato. Lo faccio ora anche perché non ho avuto da lui alcuna rimostranza. Vorrei aggiungere a quella breve lista anche il nome di Roberto Benigni che non è affatto un comico come molti credono, ma un grande e coltissimo attore che rappresenta molto bene i pregi e denuncia altrettanto bene i difetti del nostro Paese. Ma non lo faccio perché si arrabbierebbe moltissimo.

P. S. È morto ieri Franco Rosi. Un grande uomo di cinema ed anche di impegno civile, sociale, politico. Per me è un grande dolore. Lo porterò nella mia memoria finché vivrò.
 
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Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/11/news/i_terroristi_confiscano_il_loro_dio_per_ammazzare_la_gente-104695627/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I sogni e le fatiche di un Sisifo al Quirinale
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 07:23:03 am
I sogni e le fatiche di un Sisifo al Quirinale
Dal Pci fino al Colle, per una nuova classe dirigente e per gli Stati uniti d'Europa.
Le ragioni del secondo mandato di Giorgio Napolitano: varare riforma costituzionale e quella elettorale, evitando elezioni anticipate.
Nell'interesse generale del Paese

EUGENIO SCALFARI

14 gennaio 2015
   
OGGI Giorgio Napolitano darà le dimissioni e se ne andrà dal Quirinale. Tornerà nella sua casa di via dei Serpenti e il suo ufficio sarà a Palazzo Giustiniani come spetta a tutti quelli che hanno ricoperto la carica di presidenti della Repubblica.

L'aveva già fatto più d'un anno fa, alla scadenza del suo settennale mandato aveva preparato gli scatoloni con dentro le carte di pertinenza propria degli anni trascorsi, le sue private memorie e tutte le altre che non interessano gli archivi di Stato ma soltanto la persona che ha ricoperto quella che è la più alta istituzione chiamata a tutelare la Costituzione e le prerogative del Presidente coordinando la leale collaborazione tra poteri costituzionalmente distinti e talvolta anche contrapposti.

Va aggiunto però che, oltre a queste essenziali funzioni, è auspicabile anche che la figura del Presidente abbia un tratto paternale verso gli italiani e che i cittadini possano avvertire questo tratto che è al tempo stesso protettivo dei loro diritti e dei loro bisogni ma anche severamente educativo verso i loro difetti pubblici. Il privato è libero, il pubblico invece esclude la corruzione, la malafede, l'evasione fiscale, l'arbitrio dei forti contro i deboli e dei ricchi contro i poveri e gli esclusi.

Una volta chiesi a Giorgio  -  al quale mi lega una conoscenza molto antica e una profonda stima da quando quasi nove anni fa fu eletto al Quirinale  -  qual è il suo giudizio su Papa Francesco. Mi rispose che questo Papa interpreta il suo ruolo in un modo che andrebbe imitato da tutti coloro che rappresentano e debbono tutelare i diritti ma anche i doveri di tutti e in particolare dei deboli, degli esclusi, dei poveri e delle minoranze che hanno una visione comune diversa da quella della maggioranza. Ebbene questo dovrebbe essere il ruolo anche del Capo dello Stato. E' auspicabile che lo tengano presente i parlamentari che parteciperanno al "plenum" del 29 gennaio per eleggere insieme ai rappresentanti delle Regioni il nuovo presidente della Repubblica.

* * *

La vita politica di Napolitano ebbe inizio, come quella di molti giovani della sua e della mia generazione, con l'iscrizione all'università di Napoli nell'autunno del 1942. Ho letto nella sua autobiografia e lui stesso me l'ha raccontato nei nostri numerosi e amichevoli conversari, che i suoi amici erano di sentimenti antifascisti e utilizzavano cautamente le opportunità offerte dalle diverse articolazioni del Guf di Napoli, compreso il giornale "IX maggio".

I Guf (Gruppi universitari fascisti) erano in molte città sedi di università, organizzazioni dove i giovani manifestavano sentimenti di "fronda" e il partito concedeva questa larvata opposizione consapevole che i giovani non accettano quasi mai passivamente le visioni politiche della precedente generazione. A me capitò a Roma qualche cosa di analogo ma a differenza di Napolitano i miei amici ed anche io eravamo fascisti o perlomeno tali ci credevamo. A me capitò però di essere espulso dal Guf nell'inverno del 1943 per un articolo scritto su "Roma Fascista": evidentemente la fronda aveva sorpassato i limiti che il partito poteva sopportare.

Napolitano, dopo questo periodo di antifascismo senza partito di riferimento, si orientò verso i comunisti e si iscrisse a quel partito nel 1945, quando il Sud era già stato liberato dalle armate angloamericane e i partiti antifascisti non erano più clandestini. Va aggiunto però che il Pci aveva da tempo abbandonato il massimalismo di Bordiga e con il Congresso di Lione era stato praticamente rifondato seguendo le indicazioni politiche e culturali di Gramsci e di un gruppo dirigente i cui maggiori esponenti erano Togliatti, Longo, Terracini, Negarville, Scoccimarro, Tasca. I giovani che negli anni successivi dettero la loro adesione avevano accettato l'ideologia leninista-marxista. Ma dal Congresso di Lione in poi quell'ideologia era stata "contaminata" con una lettura gramsciana che teneva anche presente la rivoluzione liberale di Gobetti, gli scritti marxisti di Antonio Labriola e addirittura lo storicismo di Benedetto Croce. Fu quella più o meno l'epoca nella quale aderirono al Pci persone come Amendola e Ingrao e Alicata che facevano parte di questa nuova "leva" e così anche Napolitano, più giovane di loro ma con la stessa duplice cultura politica: il marxismo, la rivoluzione liberal-gobettiana e il liberalsocialismo dei fratelli Rosselli e di "Giustizia e Libertà". Questa fu anche la cosiddetta "doppiezza" di Palmiro Togliatti il quale però fu anche, in quegli anni di clandestinità, uno dei leader del Comintern l'organizzazione che rappresentava tutti i partititi comunisti, sia quelli che si erano formati nell'Europa orientale e addirittura in altri continenti come la Cina, il sud-est asiatico e alcuni territori africani, sia in paesi occidentali.

Ricordo queste vicende perché altrimenti non si capirebbe la storia politica di Giorgio Napolitano e di altri militanti del Pci. Non si capirebbe cosa è stato quel partito che, dopo Togliatti e Longo, fu guidato da Enrico Berlinguer. Il percorso che seguì il Pci con il nuovo segretario mise in secondo piano l'ideologia, da un certo momento in poi si staccò da ogni sudditanza nei confronti di Mosca e si identificò soprattutto con la classe operaia rappresentata da Trentin e da Lama, con i braccianti guidati da Di Vittorio e con i ceti più deboli della società italiana.

***

La "doppiezza" di Togliatti e del gruppo dirigente del Pci, al di là dell'ideologia marxistaleninista che durò fino allo "strappo" di Berlinguer, si verificò soprattutto in un pragmatismo che Togliatti applicò con tratti molto evidenti. Anzitutto con il riconoscimento del governo Badoglio nel 1944 che durò fino alla liberazione di Roma quando fu sostituito da Bonomi. Ma soprattutto dalla decisione di sostenere la nascita dell'assemblea costituente che fece del Pci un partito italiano e costituzionale e non una semplice sezione italiana del Cominform come era per esempio il Partito comunista francese.

Togliatti, quando fu oggetto di un attentato molto grave che rischiò di costargli la vita, ordinò che il partito non facesse dimostrazioni di alcuna violenza. Durante i dibattiti alla Costituente cercò accordi con la Dc tutte le volte che era possibile e votò addirittura per il riconoscimento costituzionale del trattato lateranense e del Concordato (articolo 7) che videro invece il voto contrario del Partito socialista e del Partito d'azione.
Napolitano a quell'epoca era ancora un dirigente locale ed era particolarmente vicino a Giorgio Amendola che condivideva pienamente la "doppiezza" togliattiana accentuandone però il costituzionalismo. Sarebbe stato molto favorevole ad una unificazione col Partito socialista di Pietro Nenni nel periodo in cui quel partito era ancora alleato del Pci. Quando però l'alleanza si ruppe l'ipotesi di una riunificazione diventò impensabile.
Nel frattempo ci fu la repressione in Ungheria del tentativo di quel paese d'uscire dalla "tutela" sovietica. Intervennero le truppe sovietiche e i loro carri armati impedirono che quel tentativo avesse successo. Il Pci non era ancora nelle condizioni di rompere i suoi legami ideologici e politici con Mosca e fu dunque solidale con la repressione, ma molti intellettuali e dirigenti, tra i quali ricordo Antonio Giolitti, uscirono dal partito.

Napolitano, per quanto so, rimase profondamente turbato da quella repressione ma restò fedele alla linea di Togliatti. Un mutamento comunque avvenne perché poco tempo dopo nacque una vera e propria corrente guidata da lui e da Macaluso, che fu chiamata "migliorista" o "riformista" e che si schierò pubblicamente contro Mosca quando ci fu una seconda repressione a Praga contro il socialismo di Dubcek. Napolitano in quegli anni era deputato e al tempo stesso dirigente nazionale del partito; sempre più lontano dall'ideologia comunista, la corrente da lui guidata puntava verso una nuova alleanza con la socialdemocrazia europea. In questo senso accolse positivamente la segreteria di Berlinguer, della quale tuttavia fu anche critico perché, distaccatosi da Mosca, restò tuttavia comunista mentre Napolitano sempre più puntava verso un accordo con l'Internazionale socialista europea.

***

Ma parliamo ora del Presidente della Repubblica che proprio oggi lascerà il suo secondo mandato. E' il solo caso d'un incarico al Quirinale della stessa persona che aveva dato le dimissioni alla scadenza del suo settennato. La Costituzione non dice nulla a questo proposito il che significa che esso è possibile come sono altrettanto possibili le dimissioni anticipate. Del resto il Presidente, accettando il secondo mandato, aveva già preannunciato che non l'avrebbe certo compiuto. Era stato pregato di accettarlo da tutte le forze politiche, con la sola eccezione per altro scontata di Grillo e del suo Movimento. Altre soluzioni non c'erano dopo il voto negativo contro Prodi avvenuto per il voto contrario di 101 franchi tiratori del Pd. Spiegarne il motivo è semplice: alcune riforme assai urgenti non erano state ancora votate a cominciare da quella sul lavoro, dalla riforma costituzionale del Senato e dalla legge elettorale. Il governo Renzi e l'interesse generale del paese avevano bisogno che quel percorso procedesse, mentre l'impossibilità di trovare un successore al Quirinale avrebbe inevitabilmente obbligato a nuove elezioni. La fine della legislatura avrebbe dovuto utilizzare la legge esistente per volontà della Corte costituzionale dopo l'annullamento del "Porcellum", con un sistema proporzionale che avrebbe quasi certamente creato due diverse maggioranze tra la Camera e il Senato e quindi una totale ingovernabilità.

Questa è stata la ragione del secondo incarico a Napolitano che già si era dimesso. "Non supererò comunque la scadenza dei miei novant'anni " aveva preannunciato. Poi la fatica d'un incarico pieno di impegni nazionali e internazionali ha accentuato il peso che gravava sulle sue spalle e questo lo ha indotto a far coincidere le sue dimissioni con la fine della presidenza semestrale europea gestita dal primo luglio scorso da Matteo Renzi. Appunto oggi il presidente si dimetterà con una lettera ai presidenti del Senato e della Camera, il primo dei quali eserciterà la supplenza al Quirinale fino al momento in cui il successore sarà stato eletto.

Si apre dunque da oggi una fase della massima importanza e delicatezza per le istituzioni e per il paese.

***
Bisogna dire che le prerogative del Capo dello Stato in Italia sono notevolmente diverse da quelle degli altri paesi europei. Nella loro quasi totalità in quei paesi il Capo dello Stato non ha alcun potere effettivo; si limita a firmare le leggi votate dal Parlamento e proposte dal premier. Fa eccezione la Francia dove c'è un semipresidenzialismo con un governo nominato dal presidente e un'assemblea parlamentare che ha limitate capacità di controllo sulla pubblica amministrazione e sulla legislazione.

In Italia quelle prerogative sono numerose e fanno del nostro Presidente il garante della Costituzione e della leale collaborazione tra le istituzioni e i poteri che ciascuna di esse rappresenta. Tocca a lui di promulgare le leggi e se non le ritiene conformi a rinviarle alle Camere per una loro seconda deliberazione; nomina il presidente del Consiglio e i ministri da lui proposti; scioglie le Camere anticipatamente se per una qualunque ragione la loro funzionalità fosse bloccata; nomina una parte dei componenti della Corte costituzionale; presiede il Consiglio superiore della magistratura, cioè l'organo di controllo del potere giudiziario; è il titolare esclusivo del diritto di grazia; nomina i senatori a vita entro il limite complessivo di cinque ai quali si aggiungono i capi dello Stato che abbiano terminato quella loro funzione. Aggiungiamo anche che è irresponsabile giudiziariamente fin quando ricoprirà il suo mandato, salvo reati penali colti in flagranza.

Naturalmente queste prerogative sono molto elastiche. L'elastico può essere allentato o teso evitando però la sua rottura. Durante il periodo della partitocrazia, che durò per tutta la cosiddetta prima Repubblica guidata dalla Dc e dai suoi alleati, le prerogative del Capo dello Stato furono di fatto confiscate dai partiti di maggioranza. L'opposizione comunista accettò quella confisca: erano i tempi della guerra fredda, il mondo intero era diviso in due, il deterrente della bomba atomica di fatto produceva una stabilità internazionale e nelle varie nazioni aderenti all'uno o all'altro schieramento, un immobilismo politico da tutti accettato.

Quella stagione cessò con la caduta del muro di Berlino e soprattutto con la riunificazione delle due Germanie. Da allora le prerogative del Capo dello Stato italiano hanno recuperato il peso che dovevano avere e tutti i partiti, nessuno escluso, hanno recuperato la possibilità di costruire una maggioranza di governo o di esercitare un ruolo d'opposizione che prepari una prossima alternanza sempre nel quadro tracciato dalla Costituzione esistente.

In che modo Napolitano ha gestito, in questo quadro, i poteri che la Costituzione gli ha conferito? E fino a che punto ha teso l'elastico?

***
Il nostro è un paese politicamente fragile e la fragilità è pressoché inevitabile perché ha come riscontro la fragilità politica dell'Europa. E' un tema che emerge soprattutto in tempi di crisi, quando tutti siamo chiamati a sopportare sacrifici e a veder frustrate le speranze del futuro. Ma non dipende solo da questo. Napolitano ha studiato a fondo la nostra vita pubblica e non soltanto sui libri: l'ha vissuto come dirigente di partito prima e come presidente della Repubblica poi; quello è un osservatorio che spazia sull'intera classe dirigente, non soltanto politica ma economica, professionale, militare, sui docenti, sui tecnici, sugli scienziati, sui giovani che cercano il futuro, sui vecchi che hanno un'esperienza da mettere in comune.

Ebbene, per qualche ragione motivata dalla storia del nostro paese, noi non abbiamo un "establishment". Abbiamo individui spesso intelligenti, ancor più spesso furbi e amanti del far da sé, ma se per establishment si intende una classe dirigente che anteponga realmente gli interessi collettivi ai propri e della propria più ristretta cerchia, allora l'establishment in Italia non c'è e non c'è mai stato.

Napolitano nei quasi nove anni di Quirinale ha fatto il possibile e addirittura l'impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti in quella direzione. Ha trovato persone che erano pronte a mettersi insieme a lui e da lui guidate in questa difficilissima strada. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Sisifo sollevava i massi e li faceva avanzare verso la vetta della montagna, ma è un personaggio mitologico e quindi divino. Non c'è nessuno che abbia quei poteri. Lo si vorrebbe e infatti la nostra immaginazione ne ha creato il mito proprio perché nella realtà non può esistere.

Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé, o almeno così io credo per quanto possa aver capito dei suoi pensieri e della sua diagnosi della realtà. In altri paesi le classi dirigenti, portatrici di una solida visione del bene comune, ci sono e la loro esistenza distingue quei paesi dagli altri. Forse ci sarebbe se l'Europa diventasse un continente federato e non confederato, come ancora è. Napolitano questo lo sa, infatti non ha cessato di ricordare ripetutamente agli italiani ed anche agli europei che il nostro obiettivo è di avanzare sulla strada dell'unità politica dell'Europa. Lui la pensa come Altiero Spinelli e il suo manifesto di Ventotene, la pensa come la volevano De Gasperi, Adenauer e quegli statisti che prevedevano fin da allora l'evoluzione della società moderna e l'avvento di una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali per poter confrontare e risolvere tutte le contraddizioni, le diseguaglianze, la povertà, i mutamenti del clima, le ondate migratorie, i conflitti locali.

Ho chiesto a Napolitano molte volte nelle nostre conversazioni qual era il suo sogno europeo e lui mi ha sempre risposto auspicando che l'Europa diventi veramente uno Stato con ampi poteri sovrani. Ma ci vorranno anni per realizzare questo obiettivo. Ho chiesto anche se ci sono personalità di peso internazionale che cerchino di far avanzare l'Europa su questo percorso e lui mi ha risposto che certamente ci sono queste personalità anche da noi e naturalmente anche in Europa ma non hanno ancora avviato il percorso verso un vero Stato europeo. Forse l'insorgere di un terrorismo come quello che ha insanguinato in questi giorni Parigi e che minaccia di trasformarsi in una vera e propria guerra, ha l'aspetto positivo di stimolare la nascita degli Stati Uniti d'Europa.

Sisifo è un mito, ma noi dobbiamo sperare e operare affinché diventi una realtà.

© Riproduzione riservata 14 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/14/news/i_sogni_e_le_fatiche_di_un_sisifo_al_quirinale-104893817/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il pugno di Francesco e la lezione di Voltaire
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2015, 07:07:40 am
Il pugno di Francesco e la lezione di Voltaire

Di EUGENIO SCALFARI
18 gennaio 2015

IL TERRORISMO del Califfato e di al Qaeda combatte al tempo stesso contro i musulmani che seguono le massime del Corano e non insultano le altre religioni e contro l'Occidente e i suoi valori di libertà. Si tratta dunque d'una duplice guerra, condotta da cellule del terrorismo che si organizzano liberamente, a volte sono in contatto tra loro, altre volte quei contatti si limitano a una ventina di persone o poco più. È un pulviscolo e questo ne aumenta il pericolo. Il pulviscolo del terrore richiede infatti una strategia, una "intelligence" centralizzata, un comando non soltanto militare ma giudiziario, sociale, economico.

Il valore primario dell'Occidente è la libertà: libertà di espressione, di religione, di movimento migratorio e di comportamenti. Ecco perché per affrontare questa guerra, per rendere quel pulviscolo inoffensivo, il comando centrale si deve necessariamente estendere a questi settori, tra i quali è compreso anche il fondamentale principio di un limite alle provocazioni che possono suscitare reazioni violente e trasformare il pulviscolo terrorista in un vero esercito che combina insieme la tattica del pulviscolo e la strategia centralizzata del reclutamento, della preparazione militare, del finanziamento e della scelta degli obiettivi.

L'Europa è uno dei teatri di questa guerra. La risposta militare, diplomatica, antispionistica, richiede quindi un comando unico. Questo, paradossalmente, è l'aspetto positivo di quanto sta accadendo: l'unità politica dell'Europa non è più un'utopia ma sta diventando e deve diventare una realtà. Bisogna che la pubblica opinione ne prenda coscienza.

Bisogna che le istituzioni europee si trasformino per corrispondere ad una necessità e bisogna soprattutto che i governi nazionali siano pronti alle cessioni di sovranità che il comando unico comporta.
***
Questa guerra ha un connotato religioso: l'Islam è spaccato in due, il cristianesimo è il primo bersaglio dei fondamentalisti, gli ebrei sono l'altro bersaglio, ma ce n'è un terzo che non va trascurato ed è lo Stato laico. Anzi, se guardiamo con attenzione quanto sta accadendo, il fondamentalismo religioso ha come primo obiettivo quello di abbattere lo Stato laico, cioè il presidio della libertà.

Qualcuno ha ricordato che la Francia è il paese di Voltaire. Io direi che l'Europa è il paese di Voltaire. I suoi saggi, i suoi racconti, il suo teatro, i suoi articoli sull'Encyclopédie, erano rivolti contro l'Infame. Non specificò mai chi fosse l'Infame, in gran parte dei casi erano i gesuiti dell'epoca che guidavano il pensiero reazionario.

Questo fu Voltaire. Insieme a Diderot furono i due campioni di libertà che contribuirono alla nascita delle Costituzioni e delle Repubbliche del futuro.

***
Papa Francesco è un liberale? Me lo sono chiesto più volte e tanto più me lo chiedo oggi dopo la storia del pugno da lui minacciato contro chi insulta sua madre, cioè la Chiesa, le religioni. Francesco è sorretto dalla fede. Può un uomo di fede essere liberale?

Certamente sì, la storia dell'Europa e dell'Italia è piena di persone di fede e liberali, ma un Pontefice liberale non c'è mai stato nella Chiesa di Roma prima di Francesco. Da molte parti è stato accusato d'esser comunista, ma l'accusa non stava in piedi dopo la risposta da lui data: io predico il Vangelo. E che cosa dice il Vangelo sul tema della libertà? Che cosa dice la dottrina della Chiesa cattolica?

C'è un punto di fondo nella dottrina e nelle pagine della Bibbia che raccontano la creazione: il Creatore ci ha riconosciuto il libero arbitrio, la libertà di coscienza per scegliere consapevolmente il bene ed il male.

Il bene comune è per un liberale il Bene poiché noi, persone umane, siamo una specie socievole e il bene comune, la "Caritas", l'"agape" sono, dovrebbero essere, i nostri caratteri distintivi.

Papa Francesco predica queste che per un liberale sono altrettante verità. E le pratica ritenendo che uno dei maggiori peccati sia l'appropriarsi di Dio contro quello degli altri. "Dio non è cattolico", mi disse Francesco in uno dei nostri incontri. "È ecumenico, è un unico Dio che ogni religione legge attraverso le proprie Sacre Scritture ", sapendo però che il Dio è unico, non ha nome, non ha figura.

Ma il Papa non dimentica che per molti secoli della loro storia anche i cattolici quel peccato l'hanno commesso. Con le Crociate, con l'Inquisizione, con la notte di San Bartolomeo, con la guerra dei contadini, con la vendita delle indulgenze. Non basta chiedere scusa per questi peccati. Un Pontefice romano deve spogliare la Chiesa di ogni potere temporale e costruire una Chiesa missionaria che non si prefigga il proselitismo ma la predicazione del bene comune. Ed è questo che papa Francesco sta costruendo da quando fu eletto dal Conclave.

Nel viaggio in aereo tra lo Sri Lanka e le Filippine Bergoglio ha però detto una frase che ha suscitato un acceso dibattito: "Chi insulta mia madre si aspetti un pugno". A chi alludeva era evidente; non ai terroristi o non soltanto ad essi che compirono cose ben più gravi, ma probabilmente al giornale "Charlie Hebdo" che insulta Maometto e quindi la religione da lui rappresentata. Cristo ha detto, secondo i Vangeli, di porgere l'altra guancia a chi ti insulta. Francesco invece lo minaccia con un pugno. È un errore? Una contraddizione?

Probabilmente è un errore. A me personalmente "Charlie Hebdo" è un giornale che non piace affatto e non indosserei alcuna insegna dove sopra sta scritto "Io sono Charlie". Purtroppo alcuni di loro hanno pagato con la morte quella satira volutamente provocatoria e me ne rincresce moltissimo, ma non sono "Charlie".

E il Papa? Anche lui ha pianto per i caduti e pregato per loro, ma se insultano la madre, cioè le religioni, gli minaccia un pugno. Si è scordato di porgere l'altra guancia?

Cristo ha dato questo insegnamento, ma quando l'ha ritenuto opportuno Cristo ha preso il bastone e ha picchiato senza risparmio quelli che nel Tempio vendevano mercanzie rubate, corrompevano i rabbini del Sinedrio e ne facevano di tutti i colori. Ricordo che nel nostro ultimo colloquio del 10 luglio scorso il Papa mi disse "come Gesù io userò il bastone contro i preti pedofili". Gesù era dolce e mite, ma quando lo riteneva necessario usava il bastone. Forse Francesco ha sbagliato a minacciare il pugno contro chi insulta le religioni, ma il precedente c'è e il pugno dovrebbe essere  -  credo io  -  una norma che vieti e punisca chi si prende gioco delle religioni. Puoi criticarle, certamente, ma non insultarle. Questo è il pugno. Voltaire non sarebbe d'accordo ma non possiamo chiedere a Francesco di esser volterriano.

***
L'Europa è in guerra e Renzi pure. Ma in questi giorni non si occupa molto della guerra europea bensì della propria che consiste nel far approvare dal Parlamento la riforma elettorale e la seconda lettura della riforme costituzionale del Senato e subito dopo di indicare il candidato del suo partito che sia al Quirinale il successore di Giorgio Napolitano.

Fino a quattro giorni fa aveva detto che avrebbe indicato quel nome prima della quarta votazione, ora invece lo indicherà il 28 gennaio, vigilia del "plenum". Aveva sbagliato tattica lasciando ai suoi avversari tre votazioni a disposizione di altri nomi che potevano precostituirsi un utile numero di suffragi. Per bloccare questa eventualità il Pd, cioè lui che ne è il segretario, indicherà invece subito il nome del candidato e forse comincerà a votarlo oppure aspetterà ma già vincolato al nome prescelto.

Quale sia questo nome io credo non lo sappia neppure Renzi. Ne ha in tasca un pacchetto ma non sono più di sei o sette. Ma ogni giorno variano ed è un esercizio al quale si dedicano tutti i giornali e le televisioni. Per questo sono convinto che Renzi non ha ancora scelto. Allo stato delle cose sembra un rebus poco risolvibile che Pietrangelo Buttafuoco sul "Foglio" di ieri ha risolto brillantemente proponendo di mandare al Quirinale nientemeno che Matteo Renzi, come trovata mi sembra assai divertente e faccio i miei complimenti a Pietrangelo.

Ciò detto  -  e senza entrare nei nomi  -  mi sembra utile segnalare che martedì prossimo ci sarà un tentativo di bloccare e rendere impossibile l'approvazione della legge elettorale prima del plenum per il Quirinale. Il tentativo vedrà uniti nel voto tutti gli "antirenziani". Se il tentativo riesce otterrà dal punto di vista di chi sta lavorando su questa ipotesi, due risultati: impedisce l'approvazione di una legge che contiene molti errori; il secondo risultato è di dimostrare che se tutte le opposizione a Renzi si uniscono, raggiungono una maggioranza alternativa che potrebbe mettersi d'accordo sul Quirinale.

Le elezioni del capo dello Stato sono sempre state un'imprevedibile lotteria ma quella di unire tutte le minoranze e trasformarle solo per quell'obiettivo in una maggioranza fu già realizzato nell'elezione di Gronchi.

Era la seconda volta che si votava il plenum per il Quirinale; nella prima era stato eletto Luigi Einaudi. Dopo la fine del suo settennato si votò la seconda volta e il candidato ufficiale della Dc (che nel '48 aveva ottenuto la maggioranza assoluta) era Cesare Merzagora.

L'accordo tra tutte le minoranze che per qualche ragione non volevano Merzagora fu realizzato da Giulio Andreotti. Fino a pochi mesi prima era stato il più fedele esecutore di Alcide De Gasperi che però, nel 1953, si era ritirato dalla politica. Andreotti era dunque senza più alcun protettore e doveva agire in proprio. Il modo migliore per mettere in bella vista le sue capacità era quello di essere il kingmaker del nuovo inquilino del Quirinale e lo fece mirabilmente, scegliendo tra l'altro l'esponente della sinistra democristiana, mentre lui, Andreotti, era un esponente del centrodestra.
Merzagora fu battuto, Gronchi fece un magnifico discorso di insediamento e così cominciò un'altra storia.

Andrà così anche questa volta? A questo interrogativo si comincerà a rispondere dopodomani e poi, definitivamente, il 29 prossimo. Nel frattempo il 22 la Bce, riunita in gran consiglio, dovrà decidere in che modo e in che misura Draghi darà inizio all'acquisto di titoli pubblici. Le voci in circolazione in questi giorni parlano di responsabilità delle Banche centrali nazionali nell'acquisto di una parte di quei titoli, ma sono voci che non hanno alcun riscontro a Francoforte. Si vedrà martedì prossimo lo sviluppo della manovra monetaria il cui obiettivo è il miglioramento della liquidità e dei benefici che possono derivarne.

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18 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/18/news/il_pugno_di_francesco_e_la_lezione_di_voltaire-105184848/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Si apre il ballo e Berlusconi monta a cavallo
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:36:57 am
Si apre il ballo e Berlusconi monta a cavallo
Il leader di Fi vuole che la legislatura duri fino al 2018, che l'alleanza con Renzi ne sia il perno e che lui riottenga l'agibilità politica

Di EUGENIO SCALFARI
   
A CHI qualche mese fa domandava se dopo la condanna per frode fiscale emessa dalla Cassazione con sentenza definitiva Silvio Berlusconi era da considerarsi ormai fuori dal gioco politico, le risposte di quanti si occupano di queste cose come osservatori imparziali erano quasi tutte affermative: sì, ormai è fuori, è politicamente finito e non solo per la condanna ma perché delle promesse fatte e degli impegni presi con gli elettori fin dal 2001, non c'è alcuna traccia. Ha puntato sulle debolezze e la faciloneria degli italiani e non sulle loro virtù; li ha diseducati col suo esempio. Personalmente davo anche io questa risposta. Sono passati quattordici anni da allora. La parte della risposta che riguarda la diseducazione politica e morale data da Berlusconi resta ferma, ma lui non è affatto finito. Anzi. L'accordo con Renzi da lui gestito con grande abilità, l'ha rimesso in piedi, gli ha ridato un compito importante, è allo stesso tempo all'opposizione e nella maggioranza. Ancora non è al governo, ma tra poco ci sarà. Il partito della nazione è ormai sbocciato e lui ne fa parte integrante. Renzi -  Berlusconi l'ha detto e lo ripete -  è il suo figlio buono, ben riuscito. Lui è il papà, scavezzacollo come tanti padri ma pur sempre il padre che vede il figlio diventato il primo della classe, che da lui ha preso il talento di incantare la gente. E dici poco. È pur vero che nel frattempo Forza Italia è diventata una sigla e il partito non c'è più, ma a guardar bene quel partito non c'è mai stato, nacque come la proiezione politica della sua società pubblicitaria.

Ha tenuto un solo congresso, tutto è stato sempre deciso dal "boss" e dal suo "cerchio magico", variabile secondo gli umori del Capo. Adesso è fatto da un paio di signore bellocce, molto legate a sua figlia Marina, ma è sempre lui che decide applicando la sua tecnica: prometti mille e  -  ben che vada  -  realizzi dieci e ogni giorno cambi posizione, poiché sei un bersaglio ti sposti per non esser colpito. Adesso lui vuole tre cose: che questa legislatura duri fino al 2018 perché le elezioni oggi lo farebbero sbattere contro un muro; che la sua alleanza con Renzi sia il perno intorno al quale gira tutto il resto; che lui sia riconosciuto come il Padre della Patria e possa quindi ricevere quella clemenza che gli ridia piena agibilità politica e partecipazione personale, elezioni comprese se a lui piacerà di farle. E Renzi che ne dice?

                                                                                             ***

Renzi è l'autore della riabilitazione berlusconiana. Naturalmente rifiuta d'essere il figlio buono di tanto padre. Forse dentro di sé il sospetto di esserlo ogni tanto emerge, ma non accetterà neanche sotto tortura che i berlusconiani entrino nel governo da lui presieduto. Qui però ci può essere una trappola: il Pd è alleato di Alfano, il quale però si è riavvicinato a Berlusconi. Qualche sottosegretario alfaniano potrebbe dimettersi e Alfano, che da Forza Italia proviene, potrebbe indicare dei nomi di persone di quel partito che stanno meditando di passare con lui e se ricevessero in premio un sottosegretariato lo farebbero. Come si fa a dirgli di no? Naturalmente anche il Pd, che però è un vero partito, ora è spaccato in due e forse in tre parti. L'elezione del presidente della Repubblica sarà da questo punto di vista decisiva. Mancano cinque giorni a quell'appuntamento. Renzi deciderà con il partito o con Berlusconi? Ancora non si sa; secondo lui è la direzione che deve decidere o addirittura l'assemblea (una sorta di comitato centrale molto numeroso). Ma sono organi dominati dal leader. I gruppi parlamentari? Anche lì la maggioranza è renziana. Quindi Renzi è in quelle sedi che proporrà il nome da votare. E ancora una volta vincerà. Tuttavia c'è un ostacolo: la minoranza si considera come un coniuge che convive con l'altro da "separato in casa". Quello che si decide nelle sedi istituzionali del partito non può sostituirsi alla convivenza dei due separati. Debbono decidere in due, non in trecento. E poi, nel "plenum" parlamentare vige il voto segreto e ancora poi i renziani furono tra i centouno che silurarono Prodi. Perciò la partita del nome è tutta da giocare e se per caso, fin dalla prima votazione, ci fosse un pacchetto di cento voti per Prodi, sarebbe difficile che il partito rifiutasse quel nome e comunque molti che oggi sono con Renzi potrebbero cambiar posizione. Non avverrà, dipende anche da Grillo, ma insomma non si può escludere.

                                                                                                       ***

Nell'incontro a Firenze con la Merkel, oltre a farle vedere uno splendido Botticelli e la cupola del Brunelleschi da lui illustrati con facondia, Renzi l'ha rassicurata: metterà il turbo alle riforme. Ma quali riforme? Questo non l'hanno detto ne l'uno né l'altra. Della riforma elettorale alla Merkel non gliene importa niente. Di quella costituzionale che regola soprattutto il Senato, gliene importa ancor meno, ma quella comunque Renzi l'ha rinviata. E dunque di quali riforme si parla? Solo Draghi ha precisato: riforme economiche che riguardano soprattutto la produttività. La sola che può far ripartire la crescita, gli investimenti, i consumi e l'occupazione. La manovra monetaria è un grande aiuto per Renzi e Draghi, con prudenza, scommette sul coraggio del presidente del Consiglio. Ma non è una riforma semplice da attuare perché deve stare attento a non gravare sui salari dei lavoratori perché in quel caso si troverebbe a fare i conti con i sindacati. Tutti i sindacati, Cisl compresa. Personalmente credo che si cimenterà mettendo insieme rapidità (il turbo) e coraggio. Non gli mancano né l'uno né l'altro. C'è comunque uno stretto intreccio tra il nome scelto per il capo dello Stato e la riforma del lavoro (che non è il "Jobs Act"). Deve aver l'accordo dei sindacati e dei "separati in casa". Ma molto dipende dalla scelta del primo inquilino del Quirinale. Non può essere un tecnico né un pupazzetto (o una pupazzetta) di Renzi. Deve essere un uomo politico di provata esperienza e autorevolezza, che interpreti con necessario vigore i poteri-doveri che le sue prerogative gli garantiscono e che abbia un prestigio all'estero e anche nel partito socialista europeo. Non sono molti i nomi che corrispondono a questo identikit. I nomi è sempre rischioso farli ma forse un osservatore che si sforzi di essere oggettivo può indicarne qualcuno. Io ne vedo tre: Prodi, Veltroni, Amato. Altri nomi egregi tra i tanti dei quali in questi giorni si è parlato, certamente ci sono, ma sono poco conosciuti sia nel partito sia all'estero e quindi sembrano meno adatti e scatenerebbero i fuochi dei franchi tiratori. Nessuno ama vederli all'opera ma tutto dipende dalle scelte di Renzi. Se sceglie bene, i franchi tiratori non ci saranno e sarà merito suo. Se sceglie male sarà sua la colpa.

                                                                                                     ***

Concludo con qualche cenno sull'Europa. La manovra monetaria di Draghi, con il 20 per cento di condivisione dell'intervento sui mercati della Bce, pone il tema dei bond europei e del bilancio comune dell'Unione. Faccio osservare un aspetto che non viene mai ricordato e che invece dovrebbe avere un notevole peso: un articolo del trattato di Lisbona stabilisce esplicitamente che l'Unione europea deve avere una sua realizzazione politica, ottenuta con le necessarie cessioni di sovranità dei governi nazionali. Perché quell'articolo non viene mai tenuto presente? Esso implicherebbe un bilancio comune, un fisco comune, una politica estera comune, una presenza permanente nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu e un debito sovrano comune, un Parlamento votato in comune dagli elettori europei. Spetta soprattutto alla Germania assumere l'iniziativa di questo sogno e il rispetto del trattato di Lisbona ma spetta ai governi di tutti i membri dell'Ue di obbligare la Germania a prendere l'iniziata o a prenderla senza di lei. Il vero guaio è che i capi dei governi non amano affatto cedere una parte rilevante della loro sovranità. Questo fa paventare il peggio per un futuro molto e molto prossimo: in una società globale sono i continenti a confrontarsi e non gli staterelli, ciascuno padrone in casa propria ma irrilevante fuori essa. I coraggiosi, caro Renzi, debbono mostrare su questo tema il loro coraggio ma finora nulla si è visto e semmai si è visto il contrario. Alla fine voi personalmente conterete di più ma i Paesi che governate non conteranno niente, Germania compresa. È questo che volete? La via europea è estremamente importante e bisogna percorrerla. Noi non siamo gufi, ma contro i mercanti che rivendicano i loro interessi perfino Gesù prese il bastone.

© Riproduzione riservata 25 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2015/2015/01/25/news/si_apre_il_ballo_e_berlusconi_monta_a_cavallo-105734174/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il bazooka di Draghi
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 07:44:04 am
Il bazooka di Draghi
Di EUGENIO SCALFARI
24 gennaio 2015

MARIO Draghi c'è riuscito. Voleva e doveva intervenire massicciamente sul mercato monetario europeo, vincendo le resistenze della Germania, con l'obiettivo di sgominare la caduta dei prezzi e sconfiggere la deflazione e lo farà nei prossimi giorni acquistando titoli privati e di pubbliche istituzioni e anche titoli dei debiti sovrani sui mercati secondari. Lo farà nei Paesi che si trovano in condizioni di sofferenza per un importo complessivo di 1.140 miliardi di euro con il ritmo di 60 miliardi al mese; se sarà necessario anche oltre.

Questo intervento ha trovato un consenso pressoché unanime dopo una lunga battaglia con la Banca centrale tedesca e i suoi alleati. Alla fine, dopo una settimana molto agitata di cui si vedevano i segni sul suo viso nella conferenza stampa di giovedì scorso, il consenso è stato ottenuto ma ad una condizione: il rischio per quanto riguarda l'acquisto dei titoli pubblici in tutti i paesi che saranno oggetto dell'intervento della Bce sarà ripartito per l'80 per cento del suo ammontare con le Banche centrali nazionali dei paesi suddetti. Draghi ha accettato questa condizione e l'operazione è partita. La chiamano il bazooka della Bce. Sarà sparato da subito. Le Borse europee e quella americana sono euforiche, i governi interessati sono contenti, la Germania ha ottenuto quel che voleva e ha concesso quanto le era stato richiesto; infine la Merkel si è convinta che l'intervento della Bce era indispensabile.

Ora però alcune cose vanno chiarite e alcune parole vanno definite a cominciare dal rischio che sarà scaricato sulle Banche centrali nazionali, come s'è detto, per l'80 per cento dell'ammontare. Ma che cosa vuol dire rischio? Nel caso in questione rischio è l'equivalente di fideiussione: le Banche nazionali firmano una fideiussione in garanzia degli euro sborsati dalla Bce. Ma qual è la condizione prevista per escutere la fideiussione? Il default di un Paese. Se il default dovesse profilarsi, la Bce chiamerà a rispondere e a rimborsarla del denaro investito la Banca nazionale di quel Paese. L'Italia non è certo la sola che sarà oggetto dell'intervento della Bce ma è certamente quella col maggior debito di tutti gli altri e quindi presumibilmente quella dove l'intervento sarà più massiccio che altrove. Quali sono le probabilità di un default italiano? Molto scarse, direi improbabili, anche se personalmente penso addirittura impossibili. Ma se per dannata ipotesi quel rischio si verificasse, l'escussione della fideiussione diventerebbe inutile. Accadrebbe infatti che l'intero sistema bancario europeo salterebbe per aria, Germania compresa, e l'euro cesserebbe di esistere con tutte le conseguenze del caso. Perciò il default italiano è estremamente improbabile e la fideiussione della Banca d'Italia non sarà mai richiesta. È una misura più estetica che economica, una parola-giocattolo per dare alla Germania la soddisfazione di sostenere che la sua condizione è stata accettata. La Merkel e Schäuble queste cose le sanno e sono stati al gioco. Draghi quel paravento l'ha escogitato, sa che non significa nulla ma fa un bell'effetto e Ignazio Visco, governatore di Bankitalia, l'ha accettato dopo qualche resistenza perché il gioco lo conosceva anche lui. Tutti contenti e ora forza col bazooka.

* * *

Ci sono altre prevedibili conseguenze come le seguenti: 1. Draghi punta sulla riforma che il governo italiano dovrebbe fare affinché finalmente la crescita riprenda, riprendano gli investimenti e anche i consumi. Se e quando questo avverrà ci sarà anche una ripresa dell'occupazione e perfino il "Jobs Act" renziano produrrà i suoi effetti positivi. Il "Jobs Act" infatti, se la domanda non riprende, non può avere alcun effetto perché le imprese non hanno alcun motivo per assumere. Oppure assumono per incassare i benefici che quella legge prevede ma dopo un anno licenziano i neo assunti o addirittura li conservano ma trovano un qualsiasi pretesto per licenziare i lavoratori che da tempo sono in quell'impresa. Insomma il "Jobs Act" funzionerà soltanto se la crescita riprenderà e questo accadrà soltanto se le riforme avverranno nel modo indicato da Draghi.

2. Ma se questa è la situazione, la riforma voluta dal presidente della Bce e capace di rimettere in moto i meccanismi del sistema deve puntare sulla produttività e sulla competitività. In teoria l'aumento della produttività (che è preliminare alla competitività) dovrebbe esser opera degli imprenditori: nuovi modi di produrre, nuovi modi di distribuire, nuovi prodotti da lanciare sui mercati. La diminuzione del tasso di cambio dell'euro rispetto al dollaro facilita le esportazioni sempre che le imprese offrano beni e servizi che abbiano un volto nuovo. Quante sono le possibilità che questo avvenga? Spero di sbagliarmi, ma la mia risposta è zero. Le probabilità che l'offerta abbia un volto nuovo per poter rilanciare la domanda sono zero.

3. Un altro modo di far aumentare la produttività e la competitività è la diminuzione del costo del lavoro tutelando però il salario netto dei lavoratori. Cioè il taglio totale del cuneo fiscale. Quello che il nostro governo avrebbe dovuto fare nel 2014 invece di spendere 10 miliardi l'anno per erogare ad un gruppo di lavoratori 80 euro al mese in busta paga. Soldi buttati dalla finestra e ormai non più revocabili. Ma il taglio totale del cuneo fiscale ha un costo non indifferente che grava soprattutto sui contributi. E poiché questo taglio va a carico degli enti di previdenza e soprattutto dell'Inps, il bilancio di questo istituto andrebbe probabilmente in grave perdita. Chi paga le perdite dell'Inps? Ovviamente il Tesoro. E come le paga il Tesoro? O aumentando il debito o ritoccando al rialzo la pressione fiscale o con altri tagli. Gli altri tagli però producono quasi sempre nuova disoccupazione. Mi viene in mente una poesia di Bertolt Brecht: "I lavoratori gridano per avere il pane. / I commercianti gridano per avere i mercati. / Il disoccupato ha fatto la fame. Ora / fa la fame chi lavora. / Le mani che erano ferme tornano a muoversi: / torniscono granate". Dunque attenti a scherzare col fuoco.

4. Un'altra riforma che Draghi esorta a fare riguarda investimenti da incentivare, pubblici o privati che siano, ma di pronta attuazione che non possono che essere le costruzioni. Giusto. Ma ci vogliono le risorse. Gli investimenti li decidono le imprese e lo Stato. Le prime sono pronte, lo Stato pure; ma dove sono le risorse? Le imprese le avrebbero ma difficilmente le tirano fuori. Lo Stato non le ha perciò dovrebbero fornirle le banche che tra poco saranno imbottite di liquidità. Ecco dove il bazooka ha una funzione che non è più soltanto monetaria ma di politica economica. Perciò questa riforma è possibile. Sarebbe la vera legge sul lavoro. Questo è il bilancio complessivo, al quale si aggiunge però, con segno diverso, il cosiddetto "rispetto flessibile" degli impegni europei. Ma qui entriamo nella politica estera italiana ed europea. Ne parleremo domani.

© Riproduzione riservata 24 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/24/news/il_bazooka_di_draghi-105642604/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Bene Renzi e bene il pd, il presidente è quello giusto
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 07:47:40 am
Bene Renzi e bene il pd, il presidente è quello giusto

Di EUGENIO SCALFARI
01 febbraio 2015
   
Quella di ieri è stata una grande giornata politica: un nuovo presidente della Repubblica che ha tutte le qualità necessarie per essere l'arbitro della partita quotidiana tra i tre poteri costituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario) e tra le parti politiche, ciascuna con una propria visione del bene comune.

Oltre questo ruolo arbitrale il Capo dello Stato ne ha anche un altro di uguale importanza: garante della Costituzione, che può certamente essere emendata dal Parlamento ma non stravolta; emendata nelle leggi di attuazione, ma non nei principi, per cambiare i quali sarebbe necessaria una nuova Costituente o un organo straordinario del tipo della Bicamerale, capace di considerare nel loro complesso i mutamenti proposti.

Infine rispetta anche una funzione paternale di tutela dei deboli, dei poveri, degli esclusi e delle minoranze culturali e politiche affinché la battaglia anch'essa quotidiana che si svolge sia adeguata ad una democrazia e non si trasformi in regime autocratico in cui chi conquista il potere lo esercita di solito con l'unico intento di mantenerlo e di rafforzarlo. Questi sono gli elementi principali che configurano nel nostro Paese il ruolo del presidente della Repubblica.

Il passato e il carattere di Sergio Mattarella confermano che il nuovo Presidente corrisponde perfettamente al ruolo che la Costituzione gli assegna, come testimonia la visita alle Fosse Ardeatine come primo atto del nuovo settennato. Esser stato eletto con il voto di due terzi dei "grandi elettori" conferma che la figura di Mattarella è stata apprezzata da un'ampia maggioranza dei rappresentanti del popolo sovrano e fa emergere in modo inconfutabile le qualità del Partito democratico e del suo leader.

Matteo Renzi che ne ha deciso la candidatura e ne ha guidato il percorso fino alla vittoria finale. Renzi era consapevole che il suo candidato non sarebbe stato un suo burattino insediato al Quirinale solo per assecondare le sue finalità politiche, ma una persona dotata dell'autonomia necessaria a far rispettare le prerogative che la carica gli attribuisce. Un Capo dello Stato insomma che proseguirà al vertice delle istituzioni l'esempio dato da Einaudi, Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano e in particolare degli ultimi due che si sono trovati al vertice della struttura istituzionale in una fase particolarmente agitata della vita pubblica ed economica italiana, europea e internazionale. Quella fase purtroppo è ancora in corso e quindi questa scelta era ancor più necessaria.

Un Presidente sopra le parti e mai sopra le righe: così l'ha definito Mario Monti e così sarà. Domenica scorsa, anticipando le previsioni sul voto di ieri, scrissi che se la scelta del candidato al Quirinale (che Renzi non aveva in quel giorno ancora compiuta) fosse stata sbagliata, la colpa sarebbe ricaduta sulle sue spalle, se fosse stata giusta suo sarebbe stato il merito. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed anche il merito di Matteo Renzi e del Partito democratico che ha compattamente seguito.

* * *

Gli effetti positivi dell'iniziativa di Renzi non riguardano soltanto la scelta di Mattarella, una candidatura che non sarebbe stata cambiata in nessun caso, ma anche la compattezza del Pd, obiettivo non facile da realizzare. In numerose precedenti occasioni Renzi aveva trascurato di perseguire quella compattezza, anzi aveva pubblicamente screditato i dissidenti alimentandone l'animosità nei suoi confronti. Questa volta invece ha scelto contemporaneamente due obiettivi: la vittoria di Mattarella e la compattezza del Pd. È anche vero che se quella compattezza non ci fosse stata la vittoria di Mattarella sarebbe diventata molto aleatoria, il che significa che i due obiettivi erano interconnessi.

L'intelligenza politica di Renzi è stata quella di capire quella interconnessione e di agire in conseguenza. I dissidenti si sentivano non già una corrente di minoranza del partito, quale numericamente erano; bensì come "separati in casa", quindi con uno statuto del tutto diverso. I separati in casa sono due coniugi con vite e finalità diverse ma che non hanno però cessato di convivere in parità di diritti tra loro. E Renzi in questa vicenda così li ha trattati; sapeva che la convivenza sarebbe durata solo scegliendo un candidato di loro gradimento. L'elenco dei graditi (anche a Vendola e agli altri gruppi di sinistra) erano Prodi e Mattarella. Altri candidati non li avrebbero accettati ed avrebbero fatto il possibile per farli fallire. Non si trattava di negoziare, queste posizioni dell'una e dell'altra parte erano state pubblicamente dichiarate e hanno portato alla vittoria di Mattarella, di Renzi e della sua sinistra.

La domanda che ora si pone è: restano "separati in casa" o la compattezza si estenderà ad altri campi, a cominciare dalle riforme? E da quali riforme? La risposta a tale quesito a mio parere è questa: l'elezione del Capo dello Stato è un evento particolare, le riforme debbono essere messe su un altro piano. È dunque probabile che sulle riforme il dissenso tornerà, ma il comportamento delle parti in causa sarà diverso, si parleranno, cercheranno di gettar ponti tra loro e arrivare a compromessi condivisi. Se non ci riusciranno, terranno comunque comportamenti prudenti che non mettano in discussione la rottura del partito. In pratica non si può ignorare che c'è stato in questa occasione uno spostamento politico del Pd verso sinistra; ora si tratta di consolidarlo. In che modo? Personalmente penso che il terreno di verifica dovrà essere non soltanto ma soprattutto l'Europa.

* * *

Man mano che il tempo passa si rende sempre più evidente la necessità d'arrivare ad un'Europa federata, con un bilancio unico, un debito sovrano unico, una politica estera e della difesa uniche, una politica dell'immigrazione unica. Questa deve essere l'Europa del domani, che del resto il trattato di Lisbona esplicitamente indica come indispensabile meta in una società globale dove le parti a confronto non sono più gli Stati nazionali ma interi continenti. Questo obiettivo si scontra con molti ostacoli, il primo dei quali è un ritorno di fiamma dei nazionalismi e il secondo è il malanimo dei governanti che non vogliono spogliarsi di poteri essenziali come quelli sopra elencati e preferiscono esser protagonisti d'una confederazione piuttosto che scendere di rango in una federazione.

Renzi finora non ha fatto alcun passo verso la federazione, ha la scusante d'essere sulla stessa linea degli altri governanti a cominciare dalla Germania e dalla Francia, e non parliamo della Gran Bretagna. Ma questa dovrebbe essere appunto l'azione della sinistra italiana a cominciare da quella del Pd: cambiare la sinistra europea per cambiare l'Europa. Da questo punto di vista paradossalmente Tsipras può essere un elemento d'una partita estremamente complessa, della quale la colonna portante è Mario Draghi.

C'è però un altro obiettivo della sinistra che sta dentro e anche fuori del Pd: impedire l'abolizione del Senato sia nel ruolo sia nel reclutamento. Anche questa è una battaglia di fondo che deve impedire che il potere esecutivo, cioè il governo, indebolisca a proprio favore le capacità di controllo del potere legislativo. Che l'esecutivo debba essere rafforzato e che la Camera abbia da sola il potere di esprimere la fiducia al governo, questo va benissimo; ma fare del Senato una sorta di supporto non del federalismo ma dei consigli regionali, è uno scherzo di natura della divisione dei poteri, cioè dello Stato di diritto.

* * *

Il patto del Nazareno esiste ancora, Renzi ne ha bisogno, ma fino a un certo punto. Per fare le riforme? Dovrebbe e potrebbe farle con una sinistra di nuovo e più moderno conio. Ma c'è anche Alfano da considerare, che aveva riscoperto i suoi legami con Forza Italia. È strano: Alfano ha fondato un partito per dare rappresentanza a una destra nuova, liberale ma non demagogica e populista. Purtroppo non è un trascinatore, forse dovrebbe allearsi con Passera e cercar di attrarre quella parte di elettori berlusconiani che vorrebbero appunto una destra "repubblicana". L'alleanza con Renzi finora Alfano l'ha vista attribuendosi un ruolo conservatore, non liberale. Questo è stato il suo errore. In realtà è ormai in un vicolo cieco come anche Berlusconi. Vicoli ciechi, strade senza sbocco e senza elettori.

Il Pd ha dinanzi a sé una prateria: creare una nuova sinistra riformatrice in Italia e in Europa, un socialismo liberale. La vera cultura -  l'ho scritto molte volte ma ancora lo ripeto perché oggi è il giorno adatto -  è quella del socialismo liberale che è stato il lascito culturale e politico del partito d'Azione. Se avessi la bacchetta magica farei sì che il Pd fosse un partito d'Azione di massa. Vi sembrerà strano, a voi che mi leggete, ma questo negli ultimi anni della sua vita breve fu anche l'idea di Enrico Berlinguer. È stato eletto al Colle un antico democristiano di sinistra. Ebbene, è con Aldo Moro che si accordò Berlinguer. Pensateci bene e pensateci tutti.

© Riproduzione riservata 01 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2015/2015/02/01/news/bene_renzi_e_bene_il_pd_il_presidente_quello_giusto-106262336/?ref=HREA-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Eugenio Scalfari a In mezz'ora. "Sergio Mattarella farà ...
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2015, 07:53:25 am
Eugenio Scalfari a In mezz'ora. "Sergio Mattarella farà per l'Italia quello che Papa Francesco sta facendo per la Chiesa"

L'Huffington Post
Pubblicato: 01/02/2015 15:21 CET Aggiornato: 1 ora fa

“Sergio Mattarella farà le stesse cose che il Papa sta facendo nella chiesa. È una frase impegnativa, anche paradossale, ma contiene una verità. Non butterà all’aria le regole, le farà rispettare. Non è banale, non tutti i presidenti della Repubblica sono riusciti a far rispettare le regole, qualche volta sono stati al servizio di chi governava”. Lo ha detto Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, in un’intervista a In Mezz’ora, su Raitre, parlando del nuovo presidente della Repubblica.

“Per questa elezione del presidente - un capolavoro dal punto di vista di Renzi, anzi di tutti - Renzi ha dato un’intonazione al partito che è quella che il Pd dovrebbe avere, ma che Renzi non ha mai dato. È un partito della sinistra riformista”. È stato un “aggancio a sinistra” che “non può essere mandato a casa: si deve formare una sinistra moderna e nuova che combatta per l’Europa nuova. Una politica nuova, l’appoggio a Draghi, una politica di crescita, un recupero con i sindacati e gli Stati Uniti d’Europa”.

Quanto a Sergio Mattarella, "io non lo conosco personalmente, dal punto di vista dell’età potrebbe essere mio figlio” premette Scalfari, spiegando di averlo “seguito con molta attenzione, ma non ci siamo mai incontrati”. Il nuovo capo dello Stato “ebbe una giovinezza terribilmente funestata dall’uccisione del fratello Piersanti - che era presidente della Regione e quindi una figura fondamentale in una Sicilia tendenzialmente sempre separatista o comunque Regione a statuto speciale”, una figura importante “soprattutto perché non faceva parte nemmeno in modo indiretto con quella zona grigia della Dc a contatto con la mafia”. Piersanti “fu ucciso e credo che Sergio Mattarella sia stato spinto alla politica non dico per vendicare il fratello, perché non era questa l’intenzione, ma per proseguire l’opera del fratello, non necessariamente in Sicilia, ma nella politica italiana. È così che nasce”. Scalfari aggiunge che Mattarella “è poi cresciuto strada facendo dentro la Dc, ha fatto passi veloci, ma è emerso gradualmente. Prima ha avuto incarichi di partito, poi di governo. Lui è tendenzialmente più un uomo di governo, un uomo delle Istituzioni, che un uomo di partito. È stato un uomo che vede il bene di tutti, non la visione partitica di cosa è il bene comune”.

Scalfari rifugge l’espressione per cui moriremo tutti democristiani. “La balena bianca è morta e i morti non si resuscitano. È finita. Mattarella ha la storia di un democristiano, ma che vuol dire questo? – prosegue - È un uomo di 70 anni che ha fatto i suo passi nella politica nella Prima Repubblica e si è innestato poi velocemente nella Seconda Repubblica. La Dc, insieme al Psi, al Pli, al Psdi, al Pri, è scomparsa con Tangentopoli. Non risorgono”.

Per quanto riguarda gli sviluppi futuri, per Scalfari è corretto vedere la nascita di un Partito della Nazione, ma lo considera “uno sviluppo assolutamente sbagliato. In una democrazia, la struttura più adatta della democrazia è una situazione bipartitica o bipolare, un partito che rappresenta la visione del bene comune vista con gli interessi delle classi lavoratrici e una visione del bene comune conservatrice, che prima di concedere altri diritti vuole che i diritti esistenti siano custoditi”. Serve quindi un’opposizione, ma “purtroppo Berlusconi è quello che è, è disfatto. Alfano non è un trascinatore di folle e ha visto di non poter rappresentare una destra conservatrice, retrograda, così come è non ha sbocchi”.

Secondo Scalfari, Mattarella potrebbe avere un approccio diverso da Napolitano soprattutto per quanto riguarda la riforma del Senato. Questo perché “Napolitano, del quale sono vecchio amico e grande estimatore, secondo me sbagliando era a favore della riforma del Senato così come è fatta, perché già al momento della Costituente lui apparteneva a quel gruppo del Pci che voleva che il Senato si occupasse solo degli enti locali”. Ma, prosegue Scalfari, “il Senato così è nonsense. È la seconda Camera, che si occupa solo delle Regioni e degli enti locali. Le Regioni eleggono i senatori, secondo questo schema, che però devono controllare se i consigli regionali fanno bene o male e, laddove facciano male, devono intervenire e sanzionarli. Possiamo immaginare che il senatore che è scelto dà le sculacciate se sbagliano? Dovrebbero essere scelti dal popolo”.

DA - http://www.huffingtonpost.it/2015/02/01/eugenio-scalfari-mattarella-come-papa_n_6588886.html?1422800486&utm_hp_ref=italy


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Tsipras sogna un'altra Europa e l'Italia cosa fa?
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2015, 02:46:43 pm
Tsipras sogna un'altra Europa e l'Italia cosa fa?

di EUGENIO SCALFARI
08 febbraio 2015
   
L'ITALIA e la Grecia nel loro rapporto con l'Europa e con i propri elettori si trovano in due situazioni molto diverse tra loro ma anche accomunate da alcune importanti analogie. Entrambi i loro leader hanno promesso molto, i due Paesi sono funestati da pesanti debiti e vorrebbero cambiare la politica economica europea. Entrambi infine sono ammirati e politicamente amati dalla maggioranza degli elettori nei loro rispettivi Paesi.

Comincerò dunque ad occuparmi di Alexis Tsipras e concluderò con Renzi: ci riguarda molto più da vicino e si merita dunque il finale.

Il governo greco guidato da Tsipras e dal suo ministro delle Finanze si poneva all'inizio quattro obiettivi: trasferire il suo debito all'Europa per cinquanta anni e senza interessi; ottenere nuovi prestiti senza rimborsare quelli già scaduti ed effettuati da vari Paesi, tra i quali anche l'Italia, e dalla Bce; rifiutare la "Troika" e gli impegni da lei imposti; negoziare una nuova politica economica europea ed anche istituzioni più democratiche e meno burocratiche alla guida dell'Europa.

Il primo obiettivo è stato ovviamente rifiutato e fu Draghi qualche giorno fa a dirglielo con la dovuta fermezza. Del resto, avrebbe suscitato proteste più che giustificate da parte del Portogallo e di altri Paesi membri dell'Eurozona che la "Troika" ha assistito imponendogli i massimi sacrifici da essa presunti come inevitabili medicine.

Il secondo (nuovi prestiti e prolungamento di quelli in scadenza) è stato anch'esso rifiutato: un Paese fortemente debitore non può contrarne altri a cuor leggero senza neppure accettare il controllo della "Troika".

Su questo punto Draghi ha chiesto il rimborso immediato del prestito concesso direttamente dalla Bce, in mancanza del quale la Banca centrale non rinnoverà il suo sostegno alle banche greche in stato di pre-fallimento.

Il terzo obiettivo, la politica di crescita, sarà il vero oggetto delle consultazioni che si apriranno nei prossimi giorni e che probabilmente avranno soluzione positiva; se vogliamo evitare il default della Grecia e lo scossone che ne deriverebbe all'intera economia europea è su questo tema che bisogna lavorare. Questo, del resto, è un obiettivo condiviso da gran parte dei Paesi dell'Eurozona e dalla stessa Banca centrale.

Infine la revisione delle istituzioni di Bruxelles. Il significato di questa richiesta è verosimilmente un passo verso l'Unione federata anziché confederata, con le relative cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Questa a me sembra la posizione più positiva tra quelle che Tsipras spera di ottenere; non riguarda solo la Grecia e dovrebbe essere quella di tutta l'Unione. Purtroppo non lo è, neppure dell'Italia, ma lo è però della Bce. Può sembrare paradossale che la spinta verso gli Stati Uniti d'Europa venga da un Paese che si trova sull'orlo d'un precipizio e grida anche nelle piazze la propria disperazione. Potrebbe esser messo in condizione di uscire dall'euro e chiede non solo flessibilità e soccorso monetario ma addirittura la nascita di uno Stato che si chiami Europa ed abbia i poteri finora dispersi su 28 Paesi. Se si verificasse su questo punto una coincidenza politica tra Tsipras e Draghi, anche l'adempimento degli impegni economici della Grecia diventerebbe più facile. Ma gli avversari sono molti, anzi tutti, Renzi compreso: i governi nazionali non vogliono perdere la loro sovranità.

Ecco un tema sul quale Renzi dovrebbe dare le dovute ma mai fornite spiegazioni. La sua passione per il cambiamento riguarda solo l'Italia e non l'Unione europea della quale siamo perfino i fondatori?

***

Siamo così al tema Renzi che direttamente riguarda noi, europei ed italiani.

Il nostro presidente del Consiglio ha fatto, con l'elezione di Sergio Mattarella al Quirinale, un vero capolavoro politico, l'abbiamo scritto domenica scorsa e lo ripetiamo. Personalmente ho parecchie riserve su Renzi ma la verità va riconosciuta e sottolineata proprio da chi su altri temi ha manifestato e dovrà ancora manifestare ampi motivi di dissenso.

Si parla, a proposito del Pd renziano, di partito della Nazione. Esiste già oppure è un obiettivo per il quale Renzi lavora alacremente? E qual è il significato di un'immagine che prende quel nome come vessillo?

Ci sono due modi di intendere quel nome. Uno, indicato nei suoi scritti, è sostenuto da Alfredo Reichlin e significa un partito che ha capito quali sono i concreti interessi del nostro Paese e cerca di attuarli utilizzando gli insegnamenti della Storia e dell'esperienza. Pienamente accettabile.
L'altro modo di intendere quel nome è un partito che riscuote un tale consenso elettorale da essere di fatto un partito unico avendo ridotto gli altri a piccole formazioni di pura testimonianza.

Questo è il senso che Renzi ha dato a quel nome, naturalmente non escludendo affatto il primo significato ma subordinandolo al potere concreto e quasi esclusivo del partito della Nazione.

Per ora tuttavia quel partito non c'è: nell'attuale Parlamento, diretta espressione del popolo sovrano, siamo in presenza di una situazione tripolare. Fu eletto col "Porcellum" e il Pd lucrò il premio di maggioranza alla Camera, ma restarono tre grandi schieramenti: Pd, Pdl (i berlusconiani allora avevano il nome di Popolo della Libertà) e il Movimento 5 Stelle.

Tripolare. E tale durerà fino al 2018, stando all'impegno assunto e sempre ripetuto da Renzi nelle sue pubbliche esternazioni.

Un Parlamento tripolare non consente l'inverarsi del partito della Nazione, ma ne permette l'avvio, anche con le riforme della Costituzione e in particolare con quella che riguarda il Senato, sempre che arrivi in porto, visto l'ultimo voltafaccia di Berlusconi. L'ex Cavaliere, bruciato dall'elezione di Mattarella, ha improvvisamente scoperto che c'è una deriva autoritaria nelle riforme che aveva sostenuto fino a ieri. E che quindi il patto del Nazareno non c'è più: vedremo quanto a lungo manterrà questa posizione. L'uomo, si sa, non è famoso per la sua coerenza.
Ma vale comunque la pena di riprendere il tema del Senato, specie ora che spetterà al nuovo Capo dello Stato promulgare le leggi una volta che arrivino sul suo tavolo.

***

Quella legge di riforma prevede che il Senato (continuare a chiamarlo così mi sembra ridicolo) diventi Camera delle Regioni, ne sostenga gli interessi in Parlamento, sia il custode dei loro poteri amministrativi e legislativi, ne sorvegli la legalità dei comportamenti ed eventualmente ne punisca quelli ritenuti politicamente illegittimi.

Quanto al resto, il Senato previsto perderà quasi tutti i suoi poteri attuali salvo quelli che riguardano leggi costituzionali e trattati europei.

Sono favorevole a riservare il potere di fiducia soltanto alla Camera, in nessun Paese europeo di solida democrazia la cosiddetta Camera Alta detiene quel potere e ben venga dunque su questo punto il regime monocamerale. Ma proprio perché dare o togliere la fiducia non spetterà più ai senatori, possiamo e anzi dobbiamo lasciare intatti i loro poteri di controllo sull'Esecutivo e sulla pubblica amministrazione.

Il potere Legislativo ha un duplice ruolo: quello di approvare le leggi e quello di controllare il governo nei suoi atti esecutivi. Ridurre al monocamerale anche questi atti dell'Esecutivo ha il solo significato di accrescere la sua libertà di azione; la rapidità è un bene che l'esistenza di due Camere non ha mai danneggiato, come molti sostengono ma come i dati smentiscono. Quindi la legge di riforma può e deve su questo punto essere emendata.

Ancor più necessario -  perché può rischiare anche l’incostituzionalità -  è modificare il testo di legge per quanto riguarda l'elezione dei senatori. La riforma attualmente prevede che siano designati dai Consigli regionali. Qui c'è un'incoerenza di estrema gravità: un organo preposto alla vigilanza sulle Regioni, i cui membri sono eletti da chi dovrebbe essere da quell'organo controllato ed eventualmente sanzionato, anziché dal popolo sovrano. Per di più in un Paese dove una delle maggiori fonti di malgoverno e corruzione è presente proprio nei Consigli regionali. Mi sembra assolutamente necessario che sia il popolo ad eleggere direttamente i senatori.

Mi permetto di segnalare quest'aspetto della legge di riforma costituzionale affinché sia adeguatamente modificato. La forma attuale è un fallo e l'arbitro ha diritto e dovere di fischiare indicandone la punizione (in questo caso la modifica).

***

Post scriptum. In una recente intervista televisiva a Maria Latella, il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha preannunciato un suo disegno di legge che presenterà nei prossimi giorni. Riguarda l'obbligo del vincolo di mandato che attualmente è escluso da un articolo della Costituzione. Ora anche i Cinquestelle dicono la stessa cosa. Dunque Grillo e Salvini vogliono che un membro del Parlamento eletto su candidatura del partito cui aderisce non possa in alcun caso votare contro il suo partito del quale ha l'obbligo di eseguire pedissequamente gli ordini. Se la sua coscienza glielo impedisce, la sola via di fuga che può adottare sono le dimissioni dal Parlamento.

Se questa proposta venisse accolta, sarebbe sufficiente un numero di parlamentari estremamente limitato. Magari una cinquantina, che rappresentino proporzionalmente i consensi ottenuti dal partito cui appartengono. Per di più non ci sarebbe nemmeno bisogno di discussioni e basterebbe spingere dei bottoni per registrare il voto di quel gruppetto di persone.

Una proposta così può essere fatta soltanto da chi vuole instaurare per legge una dittatura. Oppure da un pazzo. Scelgano Salvini e Grillo in quale di questi due ruoli si ravvisino.

© Riproduzione riservata 08 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/08/news/tsipras_sogna_un_altra_europa_e_l_italia_cosa_fa_di_eugenio_scalfari-106786913/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Né Renzi né l'Europa né la Germania conoscono se stessi
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2015, 07:55:51 am
Né Renzi né l'Europa né la Germania conoscono se stessi

Di EUGENIO SCALFARI
15 febbraio 2015
   
MATTEO Renzi è contento: malgrado l'assenza aventiniana d'una opposizione molto variegata, gli articoli della riforma costituzionale del Senato sono stati approvati a notte fonda tra venerdì e sabato, e soprattutto il Pd è rimasto compatto anche se il dissenso della sua ala sinistra è tuttora esistente. Lo sarà ancora di più quando tra alcune settimane sarà discussa in aula la quarta lettura della legge elettorale.

Ma dovrà fare i conti con un dissenso che, soprattutto sulla riscrittura della Carta, è diffuso tra i partiti e molto motivato: l'abolizione del Senato comporta un indebolimento del potere Legislativo e un rafforzamento dell'Esecutivo che può indurre a imboccare la strada d'un governo autoritario. Personalmente lo dico e lo scrivo da molto tempo; adesso lo dice anche Berlusconi che fino a ieri quella legge l'aveva approvata ma lui, lo sappiamo, cambia parere secondo le sue convenienze.
Ho ascoltato venerdì scorso, nella trasmissione televisiva guidata dalla Gruber, due colleghi politicamente esperti, Paolo Mieli e Giampaolo Pansa, che sostenevano entrambi questa tesi: Bettino Craxi e il suo partito socialista sostennero 35 anni fa quella che chiamavano "Grande Riforma" che assegnava appunto al Capo del governo tutti i poteri, come esistono da tempo in Germania con il Cancellierato e in Gran Bretagna con la supremazia del Premier. Ma la "Grande Riforma" craxiana non fece un solo passo avanti e non fu mai ripresa dai governi che gli succedettero, condizionati e taluni addirittura sconvolti da Tangentopoli. Adesso è finalmente arrivato Renzi che lotta efficacemente per il cambiamento, anche e soprattutto per quanto riguarda il potere Esecutivo.

Il cambiamento può essere positivo o negativo e a questo aspetto della questione bisogna dare molta attenzione. Questo rimpianto craxiano mi sembra significativo ed è un (pessimo) precedente per Renzi. Stupisce che il suo partito lo segua compattamente. La dissidenza di partito è motivata dal fatto che i parlamentari eletti dal popolo hanno ottenuto il consenso sulla base del programma del partito cui appartengono e quindi è loro compito di essere fedeli ad esso.

L'argomento è sostenibile ma il paragone è improprio, visto che i parlamentari del Pd che siedono in Parlamento hanno sostenuto nelle ultime elezioni il programma di Bersani e non quello di Renzi che ancora era nell'ombra. E poi: la Costituzione prescrive con apposito articolo che "ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione senza vincolo di mandato ". La Lega e il Movimento di Grillo vorrebbero abolirlo e sancire che il parlamentare in dissenso col proprio partito deve comunque votare come prescritto dagli organi deliberanti oppure dimettersi dal Parlamento.

Tutte le persone ragionevoli hanno giudicato la posizione dei leghisti e dei grillini come un incitamento alla dittatura nei partiti e quindi nel Paese, ma la riforma del Senato è un passo su quella strada. E chi ne dissente nel Pd dovrebbe votarla per disciplina?

Sul Corriere della Sera di ieri Antonio Polito nel fondo di prima pagina ha scritto commentando il voto notturno sulla legge elettorale in una seduta che Repubblica ha definito un "rodeo": "Questo Parlamento è il più disossato nella storia della Repubblica, in cui alcuni partiti hanno come obiettivo quello di spaccare gli altri mentre i partiti che vorrebbero unire sono spaccati " è un'immagine efficace ma non completa. Nella realtà tutti i partiti non sanno chi sono e procedono perché c'è un boss che li comanda. Da solo. Sicché la definizione più aderente la riservo ad una poesia di François Villon di cui riporto i pochi versi che ci riguardano: "So riconoscere il monaco dall'abito / So distinguere il servo dal padrone / So riconoscere il vino dalla botte / So distinguere un cavallo dal mulo / So vedere chi sta bene e chi sta male / So tutto ma non so chi sono io". Chi è a questo punto il Partito democratico? Sa tutto ma non sa chi è lui e non lo sappiamo neppure noi che lo osserviamo, così come non sappiamo chi sono i grillini e chi i berlusconiani.

* * *

Ma Renzi lui sa chi è lui? Bisognerebbe interrogarlo e magari vivergli accanto per sapere chi è veramente ed anche chi crede di essere. A vedere le cose da lontano è difficile farne un coerente ritratto. Berlusconi ha detto più volte che Renzi era il suo "figlio buono", di fatto il suo clone in bella copia, senza il difetto del bunga bunga (ma questo Berlusconi non l'ha ricordato).

C'è una parte di vero in questa adozione berlusconiana ma non coglie completamente il suo modo d'essere e il suo carattere. È certamente un carattere forte, dove narciso gioca la sua partita. Un narciso un po' provinciale che rasenta il bullo di quartiere. Però coraggioso, però intelligente, però volitivo. L'elezione di Mattarella fu un capolavoro e gli va riconosciuto. Ma proprio nella seduta di ieri notte Renzi ha detto ricattando i destinatari delle sue parole, sia esterni sia interni al Pd: "Se questa legge non sarà approvata andremo a nuove elezioni" dimenticando che lo scioglimento delle Camere non spetta a lui ma al Capo dello Stato. E qui si vede il narciso di provincia e il bullo di quartiere.

Ora Mattarella, su loro richiesta, riceverà i gruppi parlamentari dei partiti. Cercherà di pacificarli e far sì che le leggi di riforma elettorale e costituzionale siano approvate col più largo consenso o almeno senza le risse da rodeo. Poi darà il suo parere sul merito solo quando le leggi approvate andranno alla sua firma per la loro promulgazione.

Il Presidente ha appena lasciato dopo cinque anni la sua carica di giudice costituzionale ed ha quindi tutte le conoscenze per sapere se le leggi sono conformi oppure no. È un arbitro che sa vedere i falli e fischiarne la punizione. Speriamo vivamente che così si comporti, anzi ne siamo certi.

* * *

Il terribile guaio di questi tempi oscuri è che neppure l'Europa sa chi è lei e neppure la Germania lo sa. Sa vedere la mosca nel latte, come diceva Villon, ma non sa chi è. L'Europa dovrebbe mirare dritta ad essere uno Stato federale e la Germania dovrebbe spingerla in quella direzione sapendo che sarebbe lei ad esserne la guida più autorevole. Ma i governanti europei non cederanno la loro sovranità e la Germania preferisce arbitrare che scendere in campo da giocatrice. Ci fu un tempo in cui sperava e voleva arbitrare tra Ovest ed Est, ma ora che Putin rimpiange l'Unione Sovietica e il suo impero, la "Ostpolitik" tedesca è diventata impossibile tanto più con la moneta unica.

Europa e Germania non sanno chi sono perciò brancolano mentre l'emergenza incalza. Vi ricordate i tempi di Eltsin che imperava a Mosca in perenne stato di ubriachezza molesta?
Putin beve poco, nuota come Mao, è sobrio e atletico. Lui sa chi è. Anche al-Sisi, il presidente egiziano, sa chi è. Anche Erdogan. Anche il Califfo. Anche l'Arabia Saudita, la Cina, il Brasile, sanno chi sono. In India c'è molta incertezza. Ma chi non l'ha mai saputo è purtroppo la Libia, che Gheddafi teneva sotto il tallone. Adesso la Libia non esiste più. C'è una fazione che occupa la provincia di Tobruch, gli islamisti dominano a Bengasi e a Tripoli, il Califfato a Derna e a Sirte. Questa è la situazione sulla costa africana che ci fronteggia.
Il nostro ministro degli Esteri ha visto giusto: a questo punto ci vuole un intervento militare autorizzato dall'Onu che intervenga a Tripoli e in tutto il territorio per ragioni addirittura di ordine pubblico. Ma sarà data quell'autorizzazione? Da un Consiglio di sicurezza in cui siedono tra gli altri la Russia e la Cina? E l'Europa non potrebbe gestire la sua politica estera in quella direzione? Nella guerra contro Gheddafi la Germania si rifiutò di intervenire neanche attraverso la Nato.

Immagino che Renzi la pensi come il suo ministro degli Esteri e intervenga anche lui sulla stessa linea. Queste sono le belle battaglie che narciso dovrebbe combattere perché gli darebbero molta più soddisfazione delle miserie d'un Parlamento a se stesso sconosciuto.
© Riproduzione riservata 15 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/15/news/n_renzi_n_l_europa_n_la_germania_conoscono_se_stessi-107358474/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Libia, la Grecia e la rapsodia in blu di Matteo Renzi
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2015, 04:43:41 pm
La Libia, la Grecia e la rapsodia in blu di Matteo Renzi

di EUGENIO SCALFARI
22 febbraio 2015

Tripoli bel suol d'amore / sarai italiana al rombo del cannon": era il 1911 e l'Italia (governo Giolitti) conquistava lo "scatolone di sabbia" della Tripolitania, avendo mancato, preceduta dai francesi, di occupare la Tunisia allora molto più ambita. Mussolini e Pietro Nenni, da buoni socialisti quali erano, avevano cercato con tutti i mezzi di fermare la guerra, perfino facendo stendere i loro compagni sui binari dello snodo di Bologna per ostacolare i treni che portavano i soldati a Napoli e a Palermo per partire verso la Quarta Sponda, mentre Gabriele D'Annunzio celebrava l'impresa con le sue Canzoni d'Oltremare.

Tempi antichi, anzi antichissimi. La Libia  -  dove nel frattempo è stato scoperto il petrolio  -  non esiste più. Esistono governi che si odiano tra loro o fingono di ignorarsi: Tripoli, Tobruk con le bande di Bengasi e Misurata e circa duecento tribù della più varia estrazione e tre regioni geopolitiche: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. E poi il deserto e le sue oasi.

In aggiunta c'è anche una propaggine del Califfato, che non si sa bene a chi si riferisca perché i capi sono locali; hanno occupato Derna e Sirte. In questo "puzzle" si muovono liberamente spacciatori di uomini e di droghe, gli scafisti e gli schiavisti che conducono centinaia di migliaia di famiglie dall'Africa sub-equatoriale fino al mare e si dirigono verso l'Italia per poi, in grande maggioranza proseguire verso la Francia, la Germania, in Belgio insomma nell'Europa che offre più occasioni di lavoro. Ne muoiono a migliaia nel viaggio in mare ma il flusso non si arresta anzi crescerà sicuramente col passare del tempo.

Questa è la situazione dove l'Italia è tra i Paesi più minacciati, ma lo è anche l'Europa nel suo complesso. Perciò bisogna farvi fronte, bisogna indurre (costringere?) i governi libici ad una sorta di "union sacreé", bisogna prendere contatto con le principali tribù e arrivare ad un accordo.

Forse ci vorrà anche un'adeguata e non simbolica presenza di militari in funzione di "peacekeeping" o addirittura di "peace-enforcing" ma affinché siano adeguate al compito in un Paese che è sei volte l'Italia, gli esperti ne valutano la consistenza a novantamila uomini, più i necessari appoggi navali e soprattutto aerei. Pensare all'Egitto è inutile, non dispone di forze adeguate e comunque ha ben altri problemi da risolvere.

Chi deve fornire l'ombrello internazionale, sia per la mediazione politica sia per l'"enforcing" militare, sono (in teoria) l'Onu, l'Europa, la Nato.

Matteo Renzi, con la rapidità che gli è propria negli annunci, ha già rivendicato la guida italiana sia per l'aspetto politico sia per quello eventualmente militare. Del resto ricorre proprio oggi l'anniversario del suo insediamento a Palazzo Chigi un anno fa. La leadership anche sul caso libico sarebbe per lui (anche per noi italiani?) un vero e proprio festeggiamento.

****

Non so se Renzi conosca le canzoni di D'Annunzio, ma questa semmai sarebbe una lacuna trascurabile. Il vero guaio è che a questo fine le sedi decisionali sono fuori dalla sua portata. L'Onu non deciderà un bel niente, impedita come è dalla presenza della Russia e della Cina nel Consiglio di Sicurezza. È vero che il 2 marzo il nostro presidente del Consiglio andrà a Mosca per incontrare Putin. Sarà certamente accolto benissimo, una montagna di caviale e litri di vodka specialissima. Putin non si muove ma parla con tutti, dal presidente egiziano alla Angela Merkel e Hollande (lì però si parlava di Ucraina e il discorso è alquanto diverso).

A Renzi darà tutte le rassicurazioni: la Russia è contro il terrorismo e quindi non lo favorirà in nessun caso. Ma i terroristi libici hanno a che fare con il Califfato? Quello che è certo è che fornire truppe non è mai avvenuto in Africa e quindi è certo che truppe russe non ci saranno. Quanto al voto nel Consiglio dell'Onu, le varie nazioni che vi partecipano possono tutt'al più avallare un intervento solo se sarà stato deciso da altri enti internazionali ma non sotto la sua bandiera. Potrà nominare un moderatore, ma non sarà certo Putin a determinarne la scelta. Tantomeno Renzi. Saranno, ovviamente, gli Usa.

Il viaggio di Renzi a Mosca serve a metterlo in bella vista a Roma. Tornerà soddisfatto e ci racconterà di un pieno successo e questo è tutto. E l'Europa? Come sempre è divisa: la Francia vorrebbe una presenza militare, la Germania no. L'Italia, tutto sommato, neppure, sempre che non si riveli indispensabile. Insomma pensare ad un piano europeo per la Libia è escluso. Salvo la Mogherini, titolare della politica estera e della difesa dell'Ue. Via, come direbbe Enrico Mentana, questa è una mia battutaccia. Resta la Nato e questa sarebbe lo scudo più appropriato, ma anche qui sono gli Usa a decidere. Perciò, caro Renzi, rassegnati: sulla costa libica noi possiamo anzi dobbiamo occuparci solo degli sbarchi di immigranti sulla nostra costa ed anche questa non è una bazzecola. Il resto sarà deciso altrove. O forse  -  speriamo di no  -  da nessuno.

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La querelle tra Grecia ed Europa invece è andata a buon fine o almeno la soluzione provvisoria c'è stata: Tsipras ha ottenuto che i governi europei gli prestino altri 7 miliardi. Ma ha accettato le riforme contenute nel memorandum europeo che richiamava gli impegni già presi dalla Troika col precedente governo. Ora dovrà convincere la piazza e non sarà un'impresa facile. I greci però che l'hanno appoggiato con stragrande maggioranza nel voto e in piazza, avevano anche manifestato la loro contrarietà ad uscire dall'euro. Su questi tue tasti contraddittori Tsipras giocherà la sua partita e probabilmente  -  si spera  -  la vincerà.

Non dimentichiamo che il suo vero interlocutore non è stato Schäuble che addirittura si è permesso di insultare il governo di Atene violando con ciò il prestigio dovuto alla sovranità dei governi nazionali, ma è stato Mario Draghi che aveva già deciso di proseguire per un mese il finanziamento delle banche greche aumentandone addirittura l'ammontare.

In realtà se c'è una persona e un'istituzione che sta mettendo al sicuro l'euro e si occupa anche di favorire la crescita e l'avvio dell'Europa verso un vero Stato continentale, questo è lui e la Bce. Anche l'Italia ha in Draghi il suo efficiente "testimonial". Se le nostre esportazioni hanno ripreso a correre non è un merito delle imprese italiane ma del cambio euro-dollaro che ormai è ad un passo dalla parità. Ne deriva la ripresa della domanda di beni e servizi italiani, mentre si riduce il prezzo del petrolio (ma lì Draghi non c'entra) che ci frutta un risparmio notevolissimo da impiegare nel modo migliore. Per esempio nell'abbattere interamente il cuneo fiscale. Tutti questi miglioramenti si sono prodotti al di fuori dal raggio d'azione del governo, come la ripresa dell'esportazione e la plusvalenza nell'importazione di materia prima energetica. Questi elementi rappresentano un preliminare che darà rilancio agli investimenti e quindi, quando gli impianti saranno tornati al loro tetto naturale, anche ad un aumento dell'occupazione. In tutto questo la definitiva attuazione del Jobs Act è un elemento molto positivo della politica economica renziana, anche se la fisionomia "classista" non sfugge a nessuno. Queste sono scelte politiche sulle quali i sindacati si sono già manifestati contro, ma dove la parola definitiva spetta al governo. Un punto tuttavia deve esser chiaro: il Jobs Act è teoricamente una buona legge ma produrrà i suoi effetti nella misura in cui riprenderanno gli investimenti e la madre di questa ripresa è stata appunto la Bce e lo sarà ancora di più quando avrà inizio ormai tra pochissimo tempo la "quantitative easing". Questo e solo questo renderà funzionante il Jobs Act, senza di che tutto rimane fermo e le imprese non assumono.

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Sui dettagli, tutt'altro che trascurabili, del Jobs Act non mi diffondo. Ci sono altri servizi sul nostro giornale che fin da ieri aveva già compiuto un'attenta e oggettiva analisi della legge, i suoi pro e i suoi contro nonché i consensi e le critiche delle parti interessate. A me premeva sottolineare che quella legge produrrà effetti positivi solo quando le misure monetarie e creditizie delle Bce avranno dispiegato tutti i loro effetti; in parte sono già in atto e col passare del tempo lo saranno ancora di più.

Mi resta ancora un punto da esaminare che non ha nulla a che fare con quanto fin qui è stata materia di riflessione: l'andamento nel mondo del concetto e della prassi della democrazia. C'è un sondaggio internazionale che ne parla ed è assai istruttivo e al tempo stesso molto preoccupante.

La democrazia partecipata, cioè col consenso del popolo e l'esercizio dei suoi diritti, è in forte declino. Questo fenomeno varia da paese a paese sia nelle forme sia nelle date in cui quel fenomeno ebbe inizio, ma il processo di decadimento è generale in tutti i continenti che compongono il nostro pianeta. Per noi il decadimento cominciò una trentina d'anni fa ed è andato aumentando nel ventennio berlusconiano ma, continua ad aumentare sempre di più. Il fenomeno si manifesta soprattutto in Occidente dove le democrazie partecipate sono nate e si sono sviluppate. Il sondaggio accenna anche alle cause che fanno da sottofondo al fenomeno ma in questo caso non si tratta più di sondaggio bensì di interpretazione dei sondaggisti. La causa si chiama indifferenza, soprattutto da parte dei giovani. O addirittura lo si può chiamare nichilismo. I giovani non si interessano alla politica né alla storia e al lascito di esperienze che il passato consegna al presente e si disinteressano anche del futuro.

Ovviamente non tutti i giovani sono indifferenti e nichilisti e non tutti gli indifferenti e nichilisti sono giovani, ma le dimensioni del fenomeno sono quelle già dette. Attenzione: non sono dei bamboccioni che vivono nelle braccia protettive di mamma e papà; sono giovani fattivi, arditi, creativi. Ma la democrazia partecipata non rientra nei loro interessi. A questo si deve aggiungere che alcuni (molti) governi approfittano di quest'indifferenza e addirittura la anticipano sottraendo diritti politici al tessuto costituzionale sicché, quand'anche la maggioranza dei giovani cambiasse atteggiamento, i diritti concernenti la democrazia partecipata non ci sarebbero più o sarebbero stati fortemente ridotti Consegno ai nostri lettori queste considerazioni. Se mi leggono questo è un segno che vedranno questo fenomeno con analoghe preoccupazioni. Quei diritti mi riguardano anche personalmente perché, pur essendo vecchio, ne usufruisco e vedendoli ridotti o aboliti anche io protesto e me ne dolgo.

© Riproduzione riservata 22 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/22/news/la_libia_la_grecia_e_la_rapsodia_in_blu_di_matteo_renzi-107894789/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché è Draghi il motore della crescita europea
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2015, 04:20:06 pm
Perché è Draghi il motore della crescita europea

Di EUGENIO SCALFARI
01 marzo 2015
   
È DIFFICILE stabilire qual è il fatto più importante della settimana che termina oggi. Ce ne sono stati molti, interni e internazionali, di analogo peso, interconnessi tra loro; alcuni erano da tempo in gestazione e tutti continueranno a svolgersi in futuro. Presentano aspetti positivi e negativi secondo il punto di vista di chi è chiamato a raccontarli, approfondirne il significato, dare il proprio giudizio. Eccone l'elenco:

1. I dati macroeconomici e l'inizio dell'intervento monetario della Bce, già previsto da tempo ma operante fin da domani per l'ammontare di 600 milioni al mese per un tempo di almeno un anno e mezzo se non di più.

2. La legge di riforma della giustizia civile e le polemiche che ne sono derivate.

3. La manifestazione della Lega a Roma e il tentativo di Salvini di proporsi come il vero oppositore del governo e di Renzi, diffondendo il suo movimento anche al Centro e al Sud.

4. La riforma in preparazione sulla scuola.

5. La riforma in preparazione sulla Rai

6. La nascita ormai avvenuta del partito della Nazione renziano; un grande centro come mai è esistito in nessun Paese di solida democrazia dove si confrontano una destra conservatrice e una sinistra riformatrice, con al centro un eventuale partito di modeste proporzioni che vota ora per l'uno ora per l'altro dei partiti maggiori secondo il risultato che porteranno davanti agli elettori.

7. La emergente indifferenza dei giovani rispetto alla politica.

8. Il disagio crescente all'interno del Pd. La sinistra dei dissidenti accresce le sue critiche nei confronti dell'impianto generale del renzismo senza però puntare su un leader nuovo che li possa rappresentare anche in Europa.

9. La crisi libica e le sue ripercussioni sull'Europa e l'Italia.

10. La crisi ucraina che continua sotto una provvisoria cenere di tregua.

Come si vede l'elenco è assai lungo e scegliere il tema dominante e pressoché impossibile. Comunque, dovendo fare quella scelta dopo averli tutti qui indicati, credo che possiamo iniziare dall'economia che comprende la situazione italiana ma anche quella dell'Europa nel suo complesso con ripercussioni politiche della massima importanza.

***

Su Mario Draghi esistono giudizi complessivamente positivi che però differiscono sui tratti caratteriali che lo distinguono. Alcuni lo vedono come un "homo oeconomicus", altri come economista, certo, ma anche politico, anzi soprattutto politico perché mette l'economia al servizio del bene comune. Credo che questo secondo giudizio sia quello giusto. Del resto lo storicismo, cioè il frutto maturo dell'Illuminismo, identifica economia e politica; l'economia ha infatti l'etica come cintura di sicurezza o, se volete, l'amore per se stesso (economia) e quello per gli altri (etica). La politica li condiziona tutti e due e la dinamica fa sì che a volte predomini l'uno e a volte l'altro senza però che l'aspetto più debole scompaia del tutto.

Draghi è, secondo me, il tipico esempio di chi mette gli strumenti dell'economia che la Bce possiede, al servizio della politica e usa il mercato non solo come stimolo alla crescita ma come sviluppo delle istituzioni europee verso l'obiettivo d'uno Stato federale.

Da domani avrà inizio l'intervento della Bce e delle Banche centrali nazionali sul mercato dei titoli pubblici. L'operazione è attesa già da due mesi. È stata deliberata definitivamente un mese fa e domani comincia. Gli effetti sul mercato sono stati registrati da tempo ma giovedì e venerdì scorsi hanno compiuto ancora un balzo: il prezzo dei titoli è aumentato al massimo facendo diminuire lo spread rispetto ai Bund tedeschi a 100 punti-base e praticamente allineando il tasso di cambio tra l'euro e il dollaro alla parità con vantaggi evidenti sulle esportazioni.

Bisogna sottolineare ancora un aspetto di questa operazione: il grosso degli acquisti sarà compiuto dalle Banche centrali nazionali (l'80 per cento del totale) e il 20 direttamente dalla Bce. Le conseguenze politiche che quel 20 eserciterà sono la proprietà europea di quei titoli perché stanno nel portafoglio della Bce, istituzione europea per eccellenza del cui capitale sono azionisti tutti gli Stati membri dell'Unione.
Il significato è evidente: un quinto dei debiti nazionali diventa debito europeo.

Il giornale "Il Foglio" di giovedì scorso, in un articolo di Aresu e Garnero, ha paragonato Draghi ad Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori dell'indipendenza dell'America e ministro del Tesoro nel governo di George Washington. Una delle operazioni di Hamilton fu di considerare i debiti degli Stati dell'Unione come debiti federali. Ed è in questa stessa direzione che sta operando Draghi. Quel 20 per cento porta inevitabilmente, specie attraverso l'unione bancaria europea, alla nascita per ora parziale ma certamente evolutiva, dell'assunzione dei debiti nazionali in debito sovrano europeo con annessa garanzia europea dei depositi bancari, della vigilanza europea sulle banche e, di fatto e di diritto, alla cessione di sovranità fiscale e del bilancio unico dell'Unione monetaria e politica. Alcune di queste misure sono già in atto altre saranno l'evoluzione necessaria della costituzione dello Stato federale.

Il vantaggio per il governo italiano ammonterà a due/tre miliardi di minori uscite per gli oneri che il nostro Tesoro sopporta per pagare gli interessi sul debito pubblico. Più o meno altrettanto ci verranno dal minor prezzo del petrolio. Renzi ha piena ragione di rallegrarsi per quanto sta avvenendo, di una ancor leggerissima crescita del Pil e dello spazio che questi risultati, destinati ad aumentare col tempo, possono esercitare sull'occupazione e sullo stesso Pil. Qui però la responsabilità è sua e del suo governo. Si trova nelle mani un beneficio che gli è stato procurato da Draghi. Ora sta a lui trasferirlo sull'occupazione. Riuscirà a farlo? E lo può fare senza un accordo con le organizzazioni sindacali che rappresentano i diritti dei lavoratori? Di tutti i lavoratori, quelli a tempo indeterminato e quelli precari?

***

Certamente Renzi vuole raggiungere l'obiettivo della crescita sociale oltre quella economica che Draghi sta realizzando. Ma con le rappresentanze sindacali deve parlare. Finora ha detto che le ascolterà ma comunque andrà avanti di testa propria e questo è un errore.
Non dico che sia un errore tecnico ma politico. Avere i sindacati sul piede di guerra significa alienarsi almeno dodici milioni di cittadini elettori, se non di più, specie in una fase di forti sacrifici. Si sente parlare come notevoli risultati dell'assunzione di mille operai in un'azienda che sembrava decotta e infine si è ripresa per un accordo incentivato dal ministro del Lavoro e di altri cinquemila nell'industria siderurgica. Quando la disoccupazione è alle cifre in cui è, questi sono risultati equivalenti ad una cucchiaiata presa dall'acqua di mare con l'obiettivo di fare diminuire l'altezza degli oceani. Ci vuole ben altro, ci vogliono leggi sul lavoro che creino nuova occupazione e che evitino di stimolare le assunzioni concedendo la libertà di licenziamento. Bisogna abolire totalmente il cuneo fiscale e predisporre un salario minimo garantito per tutte le persone in età di lavoro ma disoccupate.

Questi sono i principi di un accordo con le organizzazioni sindacali. E nel frattempo bisogna operare in Europa con due obiettivi: generalizzare la politica di crescita economica, battersi in sede politica per gli stessi obiettivi che Draghi persegue con gli strumenti economici dei quali dispone.
George Washington appoggiò Hamilton fino al momento in cui il ministro del Tesoro cadde morto per un duello alla pistola con un avversario politico. Allora le cose andavano così. Oggi per fortuna non è più così, ma bisogna evitare quel bullismo di quartiere che è molto diffuso. Speriamo su questo punto di essere ascoltati.

***

Dovrei dire ora che il Salvini leghista si pone come oppositore numero uno di Renzi. Se lo scordi e si guardi semmai dal Tosi sindaco di Verona, il solo avversario al suo livello ma assai più valido di lui nell'impostare una buona politica della Lega Nord. A Roma al comizio di ieri il pubblico che ascoltava Salvini in piazza del Popolo è stato valutato a quindicimila persone. Composte in gran parte da quelle arrivate coi pullman e i treni speciali dal Nord. Infatti metà di piazza del Popolo era vuota.

Dovrei anche dire che la legge di riforma della giustizia, preparata dal ministro Andrea Orlando, è decisamente buona. Consente ai condannati da una sentenza giudicata, cioè dopo i tre ordini di giurisdizione, di ricorrere contro lo Stato attraverso un processo ordinario. Lo Stato avrà un potere di rivalsa contro quel giudice che ha commesso l'errore ma soltanto se ci sarà stata "negligenza inescusabile" e comunque nei limiti di metà dello stipendio di quel magistrato colpevole. Altrimenti la multa inflitta resterà sulle spalle del Tesoro.

Francamente non si comprende il perché delle critiche da parte della magistratura che invece l'aveva appoggiata per timore che in caso di errore la rivalsa avvenisse direttamente a carico del giudice colpevole. Questo rischio è stato scongiurato, la libertà di interpretazione delle leggi è stata ribadita. Allora perché protestano? Dovrebbero semmai chiedere maggiori risorse economiche per rendere più efficaci i servizi, questo sì. Ma la legge soddisfa tutti e conquista maggiori diritti contro sentenze comprovate come basate su un errore di fondo.

Dovrei anche affrontare il tema del crescente disagio della minoranza del Pd nei confronti del loro segretario e capo del governo. Questo mi sembra un tema che va esaminato sia pure con tacitiana brevità perché lo spazio è tiranno.

***

Si stanno formando alcune correnti renziane dentro il Pd. È strano: renziani che militano nel partito di cui Renzi è il segretario si associano in correnti.

I dissidenti, cioè non renziani, hanno invece diversa natura. Sono, come già scrissi ai tempi dell'elezione di Mattarella al Quirinale, "separati in casa". Bersani dopo molte esitazioni ha scelto questo "status". Non prelude affatto ad una scissione perché la casa di quel partito liquido l'hanno costruita loro. Ma non se ne sentono più partecipi. Le ragioni sono molte, alcune forse faziose ma altre pienamente condivisibili.

I "separati in casa" però non hanno una leadership che, quando la fine della legislatura lo renderà possibile, si confronti con Renzi alle primarie e sia in grado di batterlo. Nel frattempo dovrebbero costruire una piattaforma programmatica presentando disegni di legge e sostenendo leggi di iniziativa popolare, usando quella libertà dai vincoli di mandato che è garantita dalla Costituzione ma restando però in quei limiti che non consentano provvedimenti di espulsione disciplinare.

Manca insomma un leader che abbia doti da leader. Alcuni ce ne sono tra i dissidenti, altri potranno emergere. Per guidare un Pd di sinistra democratica e sperando anche che nasca una destra democratica. Soprattutto puntando su una nuova Europa anche attraverso il Partito socialista europeo.

Questo è lo stato dei fatti. Quanto alla crisi libica, a quella greca e a quella ucraina, c'è la Mogherini che se ne può occupare e Dio l'accompagni.

© Riproduzione riservata 01 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/01/news/perch_draghi_il_motore_della_crescita_europea-108440662/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I benefici che Draghi procurerà all'Italia e a Renzi
Inserito da: Admin - Marzo 08, 2015, 10:50:18 pm
I benefici che Draghi procurerà all'Italia e a Renzi

Domani la Bce comincerà a comprare titoli e obbligazioni pubbliche nell'Eurozona. Al governo spetterà di trasformare questo beneficio in una forte ripresa di investimenti
Di EUGENIO SCALFARI
08 marzo 2015
   
IL NOSTRO Lucio Caracciolo, direttore del prestigioso Limes e nostro collaboratore, cita una parola molto efficace: democratura, che nasce dalla fusione tra democrazia e dittatura e con essa definisce la Russia di Putin: c'è il demos, cioè il popolo e c'è Putin che comanda da solo. Il Parlamento, cioè la Duma, non conta niente, si limita a ratificare. Neppure il governo conta, serve solo a trasmettere alle province dell'Impero gli ordini del dittatore e a farli eseguire dalla burocrazia. Alcuni ministri invece, insieme a Putin, al capo dei Servizi di sicurezza e qualche grande manager economico, costituiscono l'oligarchia, il gruppo che, guidato da Putin, amministra l'Impero.

Questa democratura esiste ed è sempre esistita in tutti gli Imperi, nei quali bisogna amministrare una grande quantità di diverse etnie, diversi linguaggi, diverse culture ed economie. Nel presente di oggi lo troviamo in Cina, in Giappone, in Usa. In Europa no perché l'Europa non è uno Stato. I vari statarelli conservano ancora una democrazia più o meno solida. Ma la tentazione verso la democratura in alcuni di essi è abbastanza forte. Diciamo che la democrazia è difficile da conservare negli Imperi e negli statarelli la tentazione esiste ma di solito non si realizza. Per fortuna, perché ove mai si verificasse diventerebbe una tirannide vera e propria.

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Matteo Renzi, con quella mobilità e quell'intelligenza tattica che lo distinguono è andato nei giorni scorsi prima a Kiev e il giorno dopo a Mosca. Ovviamente ha recitato due diverse parti in commedia: con Poroshenko ha promesso che avrebbe sostenuto l'autonomia sovrana dell'Ucraina nel suo incontro del giorno successivo. A Putin ha detto che le sanzioni dovrebbero essere abolite da entrambe le parti in causa (Russia e alleanza euroamericana) e che bisognava pacificare gli animi e i cannoni. Ha accennato ad una soluzione del tipo Alto Adige per le province russofone dell'Ucraina e poi ha cambiato argomento chiedendo a Putin di sostenere nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu una missione navale che controllasse l'emigrazione verso la costa europea del Mediterraneo mentre la stessa Onu avrebbe dovuto nominare un negoziatore molto autorevole e possibilmente italiano che realizzasse la pacificazione tra le tribù della Libia.

Putin ovviamente ha dato le più ampie rassicurazioni per quanto riguardava la Russia nel Consiglio di Sicurezza. Poi il discorso si è spostato sui rapporti economici italo-russi e lì c'era una nostra delegazione di imprese e i suoi interlocutori russi che hanno per una giornata intera studiato gli incentivi affinché la collaborazione economica fosse ampliata e rafforzata. Insomma un incontro positivo, almeno a parole. I fatti dovrebbero vedersi presto perché il tempo non è affatto disponibile.

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Poi il nostro presidente del Consiglio è tornato a Roma e la sua prima uscita è stata quella di avvertire i dissidenti del Pd che la legge elettorale non sarebbe stata modificata neppure di una virgola e così pure la riforma del Senato. E guai se qualche parlamentare del Pd non osserverà la disciplina di partito. Non si può dire che affiori in queste parole la tentazione verso la democratura, ma insomma qualche passo in quella direzione si sta compiendo. Probabilmente avviene in modo inconscio ed è quindi l'inconscio che gioca la sua partita, ma in politica esso può fare a volte danni irreparabili.

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Domani la Bce comincerà a comprare titoli e obbligazioni pubbliche nei vari Paesi dell'Eurozona e soprattutto in Italia ed in Spagna. Qualche critico nei confronti di Mario Draghi ha osservato che il suo è un intervento tardivo, ma forse dimentica che analogo intervento in tema di liquidità fu compiuto nel 2012 per un importo totale di mille miliardi di finanziamento in gran parte destinato alle banche ordinarie dell'Eurozona. Questa volta l'intervento avviene sul mercato secondario e riguarda soprattutto titoli dei debiti sovrani dei vari Paesi. Alla domanda rivolta a Draghi da un giornalista tedesco che gli ha chiesto se il 20 per cento di questi titoli che saranno acquistati direttamente dalla Bce sarebbe stato trasformato in bond dell'Unione europea, Draghi ha risposto che riteneva questa operazione altamente improbabile. Certamente sarà così, il che non toglie che quei titoli si troveranno nel portafoglio della Bce. Ce ne sono sicuramente già molti in quel portafoglio e il nuovo lotto si aggirerà sui 240 miliardi di euro, cifra non certo trascurabile. Non si trasformeranno in bond europei ma stanno nella cassa-titoli di un'istituzione europea della quale sono azionisti i Paesi dell'Eurozona. Se non è zuppa è pan bagnato.

La nostra economia ed il nostro governo trarranno molti benefici effetti dal quantitative easing della Bce: un forte incentivo alle esportazioni, una liquidità del sistema bancario destinata a finanziare le imprese, una discesa dei tassi di interesse delle banche ai privati e infine la diminuzione degli oneri che il Tesoro deve pagare per l'emissione di nuovi titoli del debito pubblico. Si aggiunga a tutto ciò anche l'acquisto diretto della Bce di obbligazioni emesse da imprese pubbliche e private con tassi di interesse in discesa per finanziare una ripresa di investimenti.

Questo vasto programma di interventi avrà soprattutto il risultato di modificare verso l'ottimismo le aspettative e quindi di fare aumentare investimenti e consumi. Questo è il regalo che Draghi farà all'Europa e in particolare all'Italia, alle imprese e ai lavoratori. È auspicabile che Renzi dica un grazie collettivo alla Bce e alla Banca d'Italia che comprerà l'80 per cento della liquidità messa in campo dal sistema Bce. Al nostro governo spetterà di trasformare questo beneficio in una forte ripresa di interventi pubblici che provochino l'aumento delle scorte, degli investimenti e quindi dell'occupazione, giovanile e nel Sud in particolare.

***

Ma Renzi non riceverà soltanto i benefici che gli provengono dalla Bce. Ce n'è un altro che riguarda la persona stessa del nostro presidente del Consiglio: l'Europa non vuole a nessun patto una crisi politica in Italia che produca la caduta del governo attuale. Una crisi del genere in un Paese dove il debito pubblico è uno dei più grandi del mondo, riporterebbe le aspettative dall'ottimismo al pessimismo e sconvolgerebbe i mercati vanificando in gran parte gli interventi della Bce.
Quindi Renzi e il suo governo sono inamovibili. Per lui è una polizza d'assicurazione fantastica; almeno fino al 2016 è assicurata la sua inamovibilità. Del resto non ci sono alternative nella politica italiana in generale ed anche dentro il Pd. Forse nel Pd del 2016 sarà emersa la figura di un altro leader che possa costruire un partito di sinistra in luogo del partitone che Renzi ha messo al centro della politica italiana. E forse si starà profilando una nuova destra che non sia quel nanerottolo guidato da Alfano.

Ma da qui ad allora la tentazione della democratura si farà sempre più forte ed è questo che si deve evitare. Alla Germania, alla Francia, alla Spagna ben poco importa, ma a noi italiani, o almeno a quelli consapevoli e motivati alla difesa dei diritti che abbiamo e del dovere di difendere la democrazia, importa moltissimo. La scelta spetta a Renzi e all'oligarchia che gli sta accanto. Non può continuare a spogliare il potere Legislativo e avviarsi verso un Esecutivo accentratore, dove non contano neppure i ministri ma piuttosto lo staff di Palazzo Chigi. I ministri ormai contano molto poco, le leggi si preparano tutte alla presidenza del Consiglio e poi vanno in commissione e in aula e lì si debbono votare per disciplina. È giusto se non sono passi ulteriori verso la democratura. Altrimenti vanno fermati nell'interesse generale del Paese.

Nel frattempo la Ue ha deciso di inviare in Iran un rappresentante al massimo livello per discutere con le Autorità iraniane i gravi problemi esistenti in Iraq e in Siria a causa delle stragi operate dal Califfato. Spettava dunque alla Mogherini andare a Teheran con quella missione ma l'alto rappresentante della politica estera europea ha ceduto il suo posto alla signora Catherine Ashton che l'aveva preceduta in quella carica da lei ora occupata ma è rimasta per decisione della Mogherini sua consulente particolare. A Teheran dunque sarà la signora Ashton ad andare perché la Mogherini così ha deciso. Che saggezza, che spirito di squadra. Dove la si trova un'altra così?

© Riproduzione riservata 08 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/08/news/i_benefici_che_draghi_procurera_all_italia_e_a_renzi-109028243/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel che Francesco può dire all'Europa dei non credenti
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2015, 11:58:07 pm
Quel che Francesco può dire all'Europa dei non credenti

Di EUGENIO SCALFARI
15 marzo 2015
   
"Dobbiamo evitare che i buoni si perdano e dobbiamo fare tutto ciò che è possibile per salvare i perduti".

La misericordia cui papa Francesco dedica il prossimo Giubileo ha questo obiettivo, il figliol prodigo della parabola che il padre accoglie come la festa della vita, il perdono tra uomini e la perdonanza infinita di Dio verso le sue creature. E il pentimento che è la condizione affinché la misericordia discenda su quell'anima e la illumini con la sua luce.

Papa Bergoglio non a caso ha preso il nome di Francesco, del tutto inconsueto nella Chiesa di Roma: il santo di Assisi vedeva e amava le creature di Dio, tutte le creature di Dio perché tutte portano dentro di loro una scintilla di divinità; il buon pastore è quella scintilla che deve scoprire cancellando con il suo amore le scorie che la vita ha accumulato su di essa relegandola nel profondo e soffocandone la luce.

Resta tuttavia il tema del peccato e del pentimento. E se il pentimento non viene? Se la scintilla si è spenta o non è mai esistita? Papa Francesco non ha mai pensato che quella scintilla possa spegnersi o addirittura che alcune nature possano esserne state private fin dalla nascita, perciò la cura delle anime non deve mai arrestarsi né essere interrotta e questo è il compito della Chiesa missionaria. Un giorno, in uno dei nostri incontri, mi parlò di quella missione che riguardava anche i non credenti. "La Chiesa missionaria  -  mi disse  -  non fa proselitismo, cerca nelle persone di suscitare la ricerca del bene nella loro anima".

Santità  -  gli risposi  -  io non credo che esista l'anima". "Lei all'anima non ci crede, ma ce l'ha".

Questa è la fede che lo sostiene e che ne illumina il cammino, l'amore del prossimo è la passione che lo sospinge.

Ricordo anche d'avergli detto che secondo me non ci sarebbe stato nessun pontefice come lui e la risposta fu che è il Signore a conoscere il futuro e la sua infinita misericordia.

Ripensando la storia della Chiesa cattolica ci sono soprattutto due tra i suoi predecessori che della misericordia hanno fatto il principale tema del loro pontificato: Lambertini nel Settecento e Roncalli mezzo secolo fa. Quasi tutti gli altri, dal Concilio di Nicea in poi, hanno tenuto insieme la predicazione evangelica e la gestione del potere temporale, dando la prevalenza all'una o all'altra secondo l'epoca in cui vissero e il carattere della loro personalità.

Francesco ha anche detto, nell'intervista ad un giornale messicano diffusa proprio ieri, d'avere la sensazione che il suo pontificato sarà breve, quattro o cinque anni e su questa frase si è concentrata l'attenzione dei giornali: forse sta male? Forse pensa di dimettersi da un compito così gravoso?

Lui ha smentito sia l'una che l'altra ipotesi. Del resto un anno fa, tornando da un viaggio in Corea, aveva già detto la stessa frase. È possibile che faccia presente a chi lo ascolta e anche a se stesso che la sua età anagrafica si chiama vecchiaia e i vecchi sono alla vigilia della scomparsa. Lui non teme la morte che è soltanto un passaggio verso la vera vita dell'aldilà. Teme la sofferenza, questo sì, e l'ha detto più volte, ma la morte no. La morte è una festa e come tale va affrontata da chi ha fede nel Padre che ti aspetta nell'alto dei cieli.

E per chi la fede non ce l'ha? La risposta è che se ha amato gli altri almeno come se stesso (possibilmente un po' più di se stesso) il Padre lo accoglierà. La fede aiuta ma non è quello l'elemento di chi giudica, è la vita. Il peccato fa parte della vita, il pentimento ne fa anch'esso parte. Il rimorso, il senso della colpa e il desiderio del riscatto, l'abbandono dell'egoismo.

Chi ha avuto il dono di conoscere papa Francesco sa che l'egoismo è il nemico più pericoloso per la nostra specie. L'animale è egoista perché è preda soltanto dei propri istinti, il principale dei quali è quello della sopravvivenza, la propria. Ma l'uomo è animato anche dalla socievolezza e quindi sente l'amore verso gli altri, verso la sopravvivenza della specie cui appartiene. Se l'egoismo soverchia e soffoca l'amore per gli altri, offusca la scintilla divina che è dentro di lui e si autocondanna.

Che cosa accade a quell'anima spenta? Sarà punita? E come?

La riposta di Francesco è netta e chiara: non c'è punizione ma l'annullamento di quell'anima. Tutte le altre partecipano alla beatitudine di vivere in presenza del Padre. Le anime annullate non fanno parte di quel convito, con la morte del corpo il loro percorso è finito e questa è la motivazione della Chiesa missionaria: salvare i perduti. Ed è anche la ragione per cui Francesco è gesuita fino in fondo.

La Compagnia fondata da Loyola insegnò ed insegna ai suoi adepti che la missione ha come premessa quella di entrare in sintonia con gli altri, capirne la lunghezza d'onda senza di che il dialogo sarebbe impossibile. Perciò la Chiesa missionaria deve aggiornarsi secondo il passare del tempo e la diversità del luogo.

Quando finalmente il dialogo diventa possibile tra persone diverse, di diverse culture, diverse civiltà ed anche diverse religioni, ecco che allora la Chiesa missionaria può stimolare la vocazione al bene e limitare l'amore per sé.

Questo insegnamento di Francesco ha molto senso anche per chi non crede perché tocca un aspetto profondamente umano indipendentemente dalla fede in Dio e in Cristo suo Figlio. È un insegnamento che sottolinea la differenza tra l'uomo e l'animale da cui proviene ed a una mente in grado di pensare se stessa ed autogiudicarsi tenendo per la briglia il proprio narciso e sollevando la testa a rimirar le stelle.

* * *

Ora Francesco deve ancora affrontare problemi molto ardui, finora appena accennati.

Il primo di essi che ancora nessuno si è posto e che però è di palese evidenza riguarda i presbiteri cioè i sacerdoti che amministrano i sacramenti ed hanno il potere di assolvere o punire quelli che giudicano peccatori.

I presbiteri, cioè i preti e la gerarchia che tutti li comprende, esistono soltanto nella Chiesa cattolica e hanno divieto di sposarsi.

In nessun'altra religione esistono preti e celibato e in nessun'altra religione la dottrina è trasformata in codice. Gli ebrei hanno le loro Scritture e i loro precetti, ma i rabbini sono soltanto maestri, non hanno alcun sacramento né obblighi di celibato. Spiegano e interpretano le Scritture, quello è il loro compito non più di quello.

I musulmani hanno anch'essi le loro Scritture e la loro dottrina ma di sacerdoti non c'è traccia. Attenzione però: le varie sette musulmane hanno maestri che interpretano il Corano, ma anche tribunali che indicano il nemico da abbattere perché infedele. Potenzialmente sono teocrazie, a volte in modo diretto come in Iran e a volte indirettamente, sicché la tentazione al fondamentalismo è forte e spesso nefasta.

E così, sia pure essendo cristiani, avviene in tutte le varie confessioni protestanti dove non esistono preti, ma pastori.

I pastori somigliano in qualche modo ai rabbini, sono maestri, hanno famiglia, amministrano quei sacramenti che le varie confessioni hanno conservato, ma il contatto tra l'uomo e Dio non è obbligatoriamente mediato dai vescovi con cura di anime e comunque dai preti. È un contatto diretto. Questa fu la grande rivoluzione di Lutero: il credente legge le Scritture, la Bibbia, i Vangeli e la fede gli consente il contatto diretto con Dio.

Allora la domanda è questa: riuscirà la Chiesa di Roma a conservare l'Ordine ecclesiastico con i suoi doveri i suoi diritti quasi castali? Il problema è tanto più attuale in quanto alcune confessioni non cattoliche si stanno avvicinando alla Chiesa di Roma e possono anche decidere di unificarsi con essa. È già accaduto per alcuni anglicani può accadere per gli ortodossi. Ma i pastori se decidono di farsi cattolici portano con loro la famiglia che hanno legittimamente costituito, come del resto avviene già da secoli con la Chiesa orientale che è sempre stata cattolica ma senza l'obbligo del celibato.

E poi c'è l'altro grande tema della famiglia cui papa Francesco ha dedicato gran parte del Sinodo che avrà nei prossimi mesi la sua conclusione.

Infine c'è il tema del Concilio Vaticano II: il contatto con la cultura moderna che ha le sue radici nell'Illuminismo.

Quel movimento intellettuale che ebbe il suo maggiore sviluppo nell'Inghilterra e nella Francia del Settecento ed ebbe in Diderot, in Voltaire, in Hume, in Kant i suoi massimi rappresentanti, non credeva nella verità assoluta ma in quella relativa, la quale esclude l'esistenza di Dio oppure l'ammette come motore della creazione della vita che poi si svolge attraverso un'evoluzione autonoma e dettata da autonome leggi.

Il Dio dei "teisti" non aveva alcun attributo che somigliasse al Dio cristiano: non era misericordioso né vendicativo, né generoso, non interveniva nella storia e nel destino, non si poneva il problema del male e del bene. Era un motore, una forza cosmogonica che aveva acceso la luce della vita in alcuni luoghi dell'universo e poi si era ritirato, addormentato o in altre creazioni vitali indaffarato.

L'Europa ha avuto l'Illuminismo come base della modernità. Il tema del Vaticano II che sta molto a cuore di papa Francesco è di capire la lunghezza d'onda con cui parlare con questa Europa (e America del Nord) fortemente decristianizzata e diventata quindi terra di missione. È molto probabile che il Giubileo voluto da Francesco sia proprio l'inizio dell'azione missionaria, con tutte le sue conseguenze non solo oltremondane ma anche terribilmente attuali nella marea di terrorismo, guerre e tensioni locali, crescente violenza, famiglie sconquassate e figli disperati e insomma del più grave dei peccati che è quello della diseguaglianza, della povertà ignorata, della supremazia del potere e della guerra sull'amore e sulla pace; il tema della misericordia insomma sia quello più adatto non solo religiosamente ma anche socialmente ed economicamente a recuperare l'amore, la pace e la speranza rispetto al potere, alla guerra e alla disperazione.

Viva molti anni papa Francesco.

© Riproduzione riservata 15 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/15/news/quel_che_francesco_puo_dire_all_europa_dei_non_credenti-109542750/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Papa: "Come Gesù userò il bastone contro i preti pedofili"
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2015, 12:12:35 am
Il Papa: "Come Gesù userò il bastone contro i preti pedofili"
Colloquio con il Pontefice: "La pedofilia è una lebbra che c'è nella Chiesa e colpisce anche i vescovi e i cardinali". "Alcuni sacerdoti sorvolano sul fenomeno mafioso: la denuncia pubblica è rara"

Di EUGENIO SCALFARI
13 luglio 2014
   
Sono le 5 del pomeriggio di giovedì 10 luglio ed è la terza volta che incontro Papa Francesco per conversare con lui. Di che cosa? Del suo pontificato, iniziato da poco più di un anno e che in così breve tempo ha già cominciato a rivoluzionare la Chiesa; dei rapporti tra i fedeli e il Papa che viene dall'altra parte del mondo; del Concilio Vaticano II concluso 50 anni fa solo parzialmente attuato nelle sue conclusioni; del mondo moderno e la tradizione cristiana e soprattutto della figura di Gesù di Nazareth. Infine della nostra vita, dei suoi affanni e delle sue gioie, delle sue sfide e del suo destino, di ciò che ci aspetta in uno sperato aldilà o del nulla che la morte porta con sé.

Questi nostri incontri li ha voluti Papa Francesco perché, tra le tante persone di ogni condizione sociale, di ogni fede, d'ogni età che incontra nel suo quotidiano apostolato, desiderava anche scambiare idee e sentimenti con un non credente. Ed io tale sono; un non credente che ama la figura umana di Gesù, la sua predicazione, la sua leggenda, il mito che egli rappresenta agli occhi di chi gli riconosce un'umanità di eccezionale spessore, ma nessuna divinità.

Il Papa ritiene che un colloquio con un non credente siffatto sia reciprocamente stimolante e perciò vuole continuarlo; lo dico perché è lui che me l'ha detto. Il fatto che io sia anche giornalista non lo interessa affatto, potrei essere ingegnere, maestro elementare, operaio. Gli interessa parlare con chi non crede ma vorrebbe che l'amore del prossimo professato duemila anni fa dal figlio di Maria e di Giuseppe fosse il principale contenuto della nostra specie, mentre purtroppo ciò accade molto di rado, soverchiato dagli egoismi, da quelle che Francesco chiama "cupidigia di potere e desiderio di possesso". L'ha definito in una nostra precedente conversazione "il vero peccato del mondo del quale tutti siamo affetti" e rappresenta l'altra forma della nostra umanità ed è la dinamica tra questi due sentimenti a costruire nel bene e nel male la storia del mondo. È presente in tutti e del resto, nella tradizione cristiana, Lucifero era l'angelo prediletto da Dio, portatore di luce fino a quando non si ribellò al suo Signore tentato di prenderne il posto e il suo Dio lo precipitò nelle tenebre e nel fuoco dei dannati.

Di queste cose parliamo, ma anche degli interventi del Papa nelle strutture della Chiesa, delle avversità che incontra. Debbo dire che oltre all'estremo interesse di queste conversazioni, in me è nato un sentimento di affettuosa amicizia che non modifica in nulla il mio modo di pensare ma di sentire, quello sì. Non so se sia ricambiato, ma la spontaneità di questo assai strano successore di Pietro mi fa pensare di sì.

Ora lo sto aspettando da qualche minuto nella piccola stanza al pianoterra di Santa Marta dove il Papa riceve gli amici e i collaboratori. Lui arriva puntualissimo senza nessuno che l'accompagni. Sa che ho avuto nei giorni scorsi qualche problema di salute e infatti mi chiede subito notizie in proposito. Mi mette la mano sulla testa, una sorta di benedizione, e poi mi abbraccia. Chiude la porta sistema la sua sedia di fronte alla mia e cominciamo.
                           
                                                           ***
Pedofilia e mafia sono i due temi sui quali Francesco è intervenuto nei giorni scorsi e che hanno sollevato un'ondata di sentimenti e anche di polemiche fuori e dentro la Chiesa. Il Papa è sensibilissimo sia all'uno che all'altro argomento e ne aveva già parlato in varie occasioni, ma non li aveva ancora presi così di petto soprattutto sui punti riguardanti il comportamento d'una parte del clero.

"La corruzione di un fanciullo" dice "è quanto di più terribile e immondo si possa immaginare specialmente se, come risulta dai dati che ho potuto direttamente esaminare, gran parte di questi fatti abominevoli avvengono all'interno delle famiglie o comunque d'una comunità di antiche amicizie. La famiglia dovrebbe essere il sacrario dove il bambino e poi il ragazzo e l'adolescente vengono amorevolmente educati al bene, incoraggiati nella crescita stimolata a costruire la propria personalità e a incontrarsi con quella degli altri suoi coetanei. Giocare insieme, studiare insieme, conoscere il mondo e la vita insieme. Questo con i coetanei, ma con i parenti che li hanno messi al mondo o visti entrare nel mondo il rapporto è come quello di coltivare un fiore, un'aiuola di fiori, custodendola dal maltempo, disinfestandola dai parassiti, raccontandogli le favole della vita e, mentre il tempo passa, la sua realtà. Questa è o dovrebbe essere l'educazione che la scuola completa e la religione colloca sul piano più alto del pensare e del credere al sentimento divino che si affaccia alle nostre anime. Spesso si trasforma in fede, ma comunque lascia un seme che in qualche modo feconda quell'anima e la rivolge verso il bene".

Mentre parla e dice queste verità il Papa mi si avvicina ancora di più. Parla con me, ma è come riflettesse con se stesso disegnando il quadro della sua speranza che coincide con quella di tutte le persone di buona volontà. Probabilmente  -  dico io  -  quella è gran parte di quanto avviene. Lui mi guarda con occhi diversi, improvvisamente diventati duri e tristi. "No, purtroppo non è così. L'educazione come noi l'intendiamo sembra quasi aver disertato le famiglie. Ciascuno è preso dalle proprie personali incombenze, spesso per assicurare alla famiglia un tenore di vita sopportabile, talvolta per perseguire un proprio personale successo, altre volte per amicizie e amori alternativi. L'educazione come compito principale verso i figli sembra fuggito via dalle case. Questo fenomeno è una gravissima omissione ma non siamo ancora nel male assoluto. Non soltanto la mancata educazione ma la corruzione, il vizio, le pratiche turpi imposte al bambino e poi praticate e aggiornate sempre più gravemente man mano che egli cresce e diventa ragazzo e poi adolescente. Questa situazione è frequente nelle famiglie, praticata da parenti, nonni, zii, amici di famiglia. Spesso gli altri membri della famiglia ne sono consapevoli ma non intervengono, irretiti da interessi o da altre forme di corruzione".

A Lei, Santità, risulta che il fenomeno sia frequente e diffuso?
"Purtroppo lo è e si accompagna ad altri vizi come la diffusione delle droghe".

E la Chiesa? Che cosa fa in tutto questo la Chiesa?
"La Chiesa lotta perché il vizio sia debellato e l'educazione recuperata. Ma anche noi abbiamo questa lebbra in casa".

Un fenomeno molto diffuso?
"Molti miei collaboratori che lottano con me mi rassicurano con dati attendibili che valutano la pedofilia dentro la Chiesa al livello del due per cento. Questo dato dovrebbe tranquillizzarmi ma debbo dirle che non mi tranquillizza affatto. Lo reputo anzi gravissimo. Il due per cento di pedofili sono sacerdoti e perfino vescovi e cardinali. E altri, ancor più numerosi, sanno ma tacciono, puniscono ma senza dirne il motivo. Io trovo questo stato di cose insostenibile ed è mia intenzione affrontarlo con la severità che richiede.

Ricordo al Papa che nel nostro precedente colloquio lui mi disse che Gesù era l'esempio della dolcezza e della mitezza ma a volte prendeva il bastone per calarlo sulle spalle dei manigoldi che insozzavano moralmente il Tempio. "Vedo che ricorda molto bene le mie parole. Citavo dei passi dei Vangeli di Marco e di Matteo. Gesù amava tutti, perfino i peccatori che voleva redimere dispensando il perdono e la misericordia, ma quando usava il bastone lo impugnava per scacciare il demonio che si era impadronito di quell'anima".

Le anime  -  anche questo lei me l'ha detto nel nostro precedente incontro  -  possono pentirsi dopo una vita di peccati anche nell'ultimo momento della loro esistenza e la misericordia sarà con loro.
"È vero, questa è la nostra dottrina e questa è la via che "Cristo ci ha indicato".

Ma può darsi il caso che qualche pentimento dell'ultimo minuto di vita sia interessato. Magari inconsapevolmente, ma interessato a garantirsi un possibile aldilà. In quel caso la misericordia rischia di finire in una trappola.
"Noi non giudichiamo ma il Signore sa e giudica. La sua misericordia è infinita ma non cadrà mai in trappola. Se il pentimento non è autentico la misericordia non può esercitare il suo ruolo di redenzione".

Lei, Santo Padre, ha tuttavia ricordato più volte che Dio ci ha dotato di libero arbitrio. Sa bene che se scegliamo il male la nostra religione non esercita misericordia nei nostri confronti. Ma c'è un punto che mi preme di sottolineare: la nostra coscienza è libera e autonoma. Può in perfetta buonafede fare del male convinta però che da quel male nascerà un bene. Qual è, di fronte a casi del genere, che sono molto frequenti, l'atteggiamento dei cristiani?
"La coscienza è libera. Se sceglie il male perché è sicura che da esso deriverà un bene dall'alto dei cieli queste intenzioni e le loro conseguenze saranno valutate. Noi non possiamo dire di più perché non sappiamo di più. La legge del Signore è il Signore a stabilirla e non le creature. Noi sappiamo soltanto perché è Cristo ad avercelo detto che il Padre conosce le creature che ha creato e nulla per lui è misterioso. Del resto il libro di Giobbe esamina a fondo questo tema. Si ricorda che ne parlammo? Bisognerebbe esaminare a fondo i libri sapienzali della Bibbia e il Vangelo quando parla di Giuda Iscariota. Sono temi di fondo della nostra teologia". E anche della cultura moderna che voi volete comprendere a fondo e con la quale volete confrontarvi. "È vero è un punto capitale del Vaticano II e dovremo al più presto affrontarlo".

Santità, c'è ancora da parlare del tema della mafia. Lei ha tempo?
"Siamo qui per questo".

                                                           ***

"Non conosco a fondo il problema delle mafie, so purtroppo quello che fanno, i delitti che vengono commessi, gli interessi enormi che le mafie amministrano. Ma mi sfugge il modo di pensare dei mafiosi, i capi, i gregari. In Argentina ci sono come dovunque i delinquenti, i ladri, gli assassini, ma non le mafie. È questo aspetto che vorrei esaminare e lo farò leggendo i tanti libri che sono stati scritti in proposito e le tante testimonianze. Lei è di origine calabrese, forse può aiutarmi a capire".

Il poco che posso dirle è questo: la mafia  -  sia calabrese sia siciliana sia la camorra napoletana  -  non sono accolite sbandate di delinquenti ma sono organizzazioni che hanno leggi proprie, propri codici di comportamento, propri canoni. Stati nello Stato. Non le sembri paradossale se le dico che hanno una propria etica. E non le sembri abnorme se aggiungo che hanno un proprio Dio. Esiste un Dio mafioso.
"Capisco quello che sta dicendo: è un fatto che la maggior parte delle donne legate alla mafia da vincoli di parentela, le moglie, le figlie, le sorelle, frequentano assiduamente le chiese dei loro paesi dove il sindaco e altre autorità locale sono spesso mafiose. Quelle donne pensano che Dio perdoni le orribili malefatte dei loro congiunti?".

Santità, gli stessi congiunti spesso frequentano le chiese, le messe, le nozze, i funerali. Non credo si confessino ma spesso si comunicano e battezzano i nuovi nati. Questo è il fenomeno.
"Quello che lei dice è chiaro e del resto non mancano libri, inchieste, documentazioni. Debbo aggiungere che alcuni sacerdoti tendono a sorvolare sul fenomeno mafioso. Naturalmente condannano i singoli delitti, onorano le vittime, aiutano come possono le loro famiglie, ma la denuncia pubblica e costante delle mafie è rara. Il primo grande Papa che la fece proprio parlando in quelle terre fu Wojtyla. Debbo dire che il suo discorso fu applaudito da una folla immensa".

Lei pensa che in quella folla che applaudiva non ci fossero mafiosi? Per quanto ne so ce n'erano molti. Il mafioso, lo ripeto, applica un suo codice e una sua etica: i traditori vanno uccisi, i disobbedienti vanno puniti, a volte l'esempio viene dato con l'omicidio di bambini o di donne. Ma questi per il mafioso non sono peccati, sono le loro leggi. Dio non c'entra, i santi protettori tantomeno. Ha visto la processione di Oppido Mamertina?
"Erano migliaia gli intervenuti. Poi la statua della Madonna delle Grazie si è fermata davanti alla finestra del boss che è in custodia per ergastolo. Appunto, tutto questo sta cambiando e cambierà. La nostra denuncia delle mafia non sarà fatta una volta tanto ma sarà costante. Pedofilia, mafia: la Chiesa, il popolo di Dio, i sacerdoti, le Comunità, avranno tra gli altri compiti queste due principalissime questioni".

È passata un'ora e mi alzo. Il Papa mi abbraccia e mi augura di risanare al più presto. Ma io gli faccio ancora una domanda: Lei, Santità, sta lavorando assiduamente per integrare la cattolicità con gli ortodossi, con gli anglicani... Mi interrompe continuando: "Con i valdesi che trovo religiosi di prim'ordine, con i Pentecostali e naturalmente con i nostri fratelli ebrei".

Ebbene, molti di questi sacerdoti o pastori sono regolarmente sposati. Quanto crescerà col tempo quel problema nella Chiesa di Roma?
"Forse lei non sa che il celibato fu stabilito nel X secolo, cioè 900 anni dopo la morte di nostro Signore. La Chiesa cattolica orientale ha facoltà fin d'ora che i suoi presbiteri si sposino. Il problema certamente esiste ma non è di grande entità. Ci vuole tempo ma le soluzioni ci sono e le troverò.

Ormai siamo fuori dal portone di Santa Marta. Ci abbracciamo di nuovo. Confesso che mi sono commosso. Francesco mi ha accarezzato la guancia e l'auto è partita.

© Riproduzione riservata 13 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/07/13/news/il_papa_come_ges_user_il_bastone_contro_i_preti_pedofili-91416624/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come battere la corruzione e come costruire la nuova Europa
Inserito da: Admin - Marzo 23, 2015, 11:18:04 am
Come battere la corruzione e come costruire la nuova Europa

Di EUGENIO SCALFARI
22 marzo 2015
   
LA CORRUZIONE. Sì, la corruzione. Esiste dovunque in tutti i Paesi del mondo ma nel nostro più che altrove perché il nostro è un Paese strano e si fa governare da una altrettanto strana classe dirigente che, per pigra indifferenza, rinuncia a controllare.

Questa rinuncia di controllo ha come risultato una dilagante corruzione in alto e in basso della società; la si può contare a centinaia di milioni ed anche a qualche decina di migliaia, vi fanno comparsa i capi ma anche i loro luogotenenti, i loro aiutanti, i loro lacché. Le cifre lo dimostrano e resta un terribile amaro in bocca a leggerle: nell'elenco dei Paesi "virtuosi" noi siamo al numero 69 della graduatoria mondiale e all'ultimo posto in quella europea perché in quest'ultimo anno siamo stati superati perfino dalla Bulgaria e dalla Grecia. Quanto alle condanne per corruzione, secondo i dati dell'Alto Commissariato contro questo malanno nazionale (sciolto nel 2008 ma poi ripristinato da Renzi), dal 1996 al 2006 le condanne sono passate da 1159 l'anno a 186 e quelle per concussione da 555 a 53. Queste cifre spaventano e tanto per ricordarlo, nel '96 governava Prodi e nel 2006 Berlusconi. Le leggi ad personam avevano fatto il loro effetto.

L'attenzione del popolo sovrano (anche se tanto sovrano non sembra essere) si risveglia transitoriamente quando è insidiato da sacrifici necessari ma dolorosi. Questo è un fenomeno naturale che sempre accade. "Non c'è attenzione che quando si ha fame/ non c'è guardiano attento se non dorme/ non c'è tranquillità senza paura /non c'è una fede senza infedeltà". Così scriveva seicento anni fa il poeta maledetto François Villon.

Purtroppo il popolo (sovrano) presto si riaddormenta e il Cavaliere nero di quel momento gli rimonta in groppa e lo conduce a colpi di sproni e di briglia dove a lui conviene portarlo. Non tutti i popoli si svegliano così poco ma il nostro purtroppo è dormiglione.

***
Il fattaccio Lupi rende attuale queste riflessioni, ma non è di quello che voglio parlare. Cerco di capire dove si annida il serpente della corruzione, sempre cercato e mai trovato.

Il governo attualmente in carica e la ministra della Pubblica Amministrazione e della Semplificazione Marianna Madia ritengono che quel serpente abbia fatto il nido nella burocrazia d'alto bordo e probabilmente è così, anche se poi esso penetra anche nella classe politica e lì le sue vittime non mancano.

Per scovarlo e combatterlo il governo intende far ruotare i burocrati affinché non abbiano il tempo di costruirsi il nido (o il feudo che dir si voglia). Possono restare ai loro posti non più di sei anni ed anche meno se sopraggiunge prima il limite d'età.

In apparenza qualche cosa di buono c'è, ma in realtà è una proposta molto discutibile. Chi assicura la continuità e la tutela degli interessi dello Stato? La classe politica? In una democrazia parlamentare le maggioranze politiche si alternano con frequenza. La continuità si realizza di più in quella che può definirsi democratura o governo autoritario; ma in quel caso il popolo sovrano perde anche l'apparenza della sua sovranità e diventa plebe.

Il rimedio contro il serpente della corruzione- concussione è probabilmente un altro; ne parlò Weber in un suo libro intitolato Economia e società e mezzo secolo prima di lui ne avevano scritto Marco Minghetti, Silvio Spaventa e Vilfredo Pareto.

Minghetti ne scrisse più volte e soprattutto nel suo libro su "La politica e la pubblica amministrazione". La tesi è la seguente: lo Stato che tutti ci rappresenta deve soddisfare interessi generali di lungo termine, la sua struttura va spesso aggiornata, ma nel quadro di strategie che richiedono il tempo di una generazione e talvolta anche di più. L'applicazione e la salvaguardia di quegli interessi e la strategia che deve garantirli non può che essere affidata ai "grand commis" cioè ai servitori dello Stato il cui complesso è chiamato Pubblica amministrazione. La classe politica fornisce una tonalità più aggiornata e motivata da interessi attuali, con una disponibilità di tempo più ristretta. La Pubblica amministrazione deve naturalmente tenerne conto, ma sempre nel quadro generale che spetta a lei di presidiare.

Questa fu la tesi di Minghetti, fatta propria da Pareto e da Weber. Spaventa naturalmente questa posizione la condivideva ma si preoccupava di creare un tribunale fatto su misura per evitare che il serpente della corruzione ed anche quello di violare l'interesse legittimo dei cittadini inquinasse l'amministrazione. A questo fine creò quel tribunale affidandolo al Consiglio di Stato che fino a quel momento era chiamato soltanto a dare pareri sulle leggi in gestazione. La scelta giurisdizionale fu un fatto nuovo e quasi rivoluzionario ed infatti svolse un lavoro egregio per difendere gli interessi legittimi dei cittadini e per impedire che lo Stato e la Pubblica amministrazione deviassero dalla giusta via per colpa di qualche suo membro infedele.

Ma col passare del tempo purtroppo quello che si inquinò fu proprio il Consiglio di Stato. Si creò un legame incestuoso con la politica: quasi tutti i capi di gabinetto e degli uffici legislativi dei vari ministeri ed enti pubblici furono reclutati tra i consiglieri di Stato mentre da parte sua il governo spesso nominava consiglieri di Stato persone che non ne avevano i titoli necessari. L'effetto fu che gran parte delle leggi venissero scritte dai capi di gabinetto o degli uffici legislativi e fatti approvare dai colleghi per fornire al governo le leggi da attuare.

Il Consiglio di Stato si mescolò con il potere esecutivo anziché controllarlo, con la conseguenza di inquinare la burocrazia ed esserne a sua volta inquinato. La conclusione fu che tutti facevano tutto. Questo sistema, come suggerisco già da molti anni, va profondamente riformato, bisognerebbe ritornare allo schema di Silvio Spaventa e di Minghetti. Ma questo suggerimento non è stato accolto, il disegno di legge di Marianna Madia ne è un esempio eloquente.

***

C'è un altro tema, forse ancor più importante di quello che fin qui è stato messo sotto osservazione. Anch'esso è avvenuto nella settimana appena trascorsa e riguarda l'Europa (e quindi anche l'Italia).

Tre giorni fa è stata convocata una riunione dei ventotto Paesi membri dell’Unione. I temi all’ordine del giorno erano molti, ma quasi tutti di scarso rilievo. Furono affrontati, discussi e abbastanza approfonditi. A quel punto i membri che non appartenevano all’Eurozona se ne andarono e i diciannove Paesi che condividono la stessa moneta affrontarono il caso greco. Prima però il presidente del Consiglio europeo propose e tutti accettarono la nomina di un comitato ristretto che si incontrasse con il premier greco che già attendeva in un’altra sala. Il comitato ristretto fu nominato e di esso fanno parte il presidente del Consiglio europeo, la cancelliera Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il presidente della Bce Mario Draghi, il presidente dell’Eurogruppo e il presidente della Commissione Juncker.L'Europa con un improvviso salto nella procedura ha dunque eletto un direttorio che resterà in carica in permanenza fino a quando il caso greco non sarà interamente risolto e anche dopo, provocando però un palese malcontento in alcuni stati che pensavano di farne parte e ne sono invece esclusi. Il più irritato è il nostro Renzi, che mira ad avere un forte peso sulla politica economica europea. Quel peso non c'è, anche perché è Mario Draghi a tenere i cordoni della borsa ed è Draghi che, attraverso lo strumento monetario, è in grado di indicare le riforme da portare avanti, la politica del debito pubblico di vari Paesi e la flessibilità che l'Europa concede a certe condizioni agli stati che la richiedono.

Il caso greco si avvia verso una soluzione di compromesso ma comunque tale da salvare quel paese sia dal default sia dall'uscita dall'euro.

Il direttorio dei sette è un passo avanti di grandissima importanza, è un salto verso gli Stati Uniti d'Europa. La Merkel evidentemente ha reso esecutiva una intenzione che già era nel suo pensiero ma finora rinviata. Ora deve aver capito che quella è una via obbligata in una società globale dove solo gli stati continentali hanno un peso; gli altri sono del tutto marginali.

Qualche settimana fa suggerii al nostro presidente del Consiglio di spingere la Merkel verso questa soluzione, ma quel suggerimento non venne ascoltato: i capinazione non gradiscono che si formi un potere europeo che declassi la loro autorità nel Paese che rappresentano. Purtroppo è un grave errore ma volendo si potrebbe porvi rimedio e quella sì, sarebbe un'apertura al futuro. Dubito molto che avvenga.

© Riproduzione riservata 22 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/22/news/come_battere_la_corruzione_e_come_costruire_la_nuova_europa-110173099/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Bisogna aiutare Matteo a difendersi da se stesso
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2015, 11:30:24 am
Bisogna aiutare Matteo a difendersi da se stesso

Di EUGENIO SCALFARI
29 marzo 2015
   
DI FATTI politici ed economici ne sono in questi giorni avvenuti quantità innumerevoli ed anche di fatti di cronaca, uno dei quali, quello dell'aereo caduto sulle Alpi francesi, ha trascinato l'opinione pubblica di tutta l'Europa nel mondo dell'orrore e della disperazione.

Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.

Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c'è una frase che trovo molto significativa: "Napoleone governò per vent'anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l'eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù". Ecco, già queste righe mi confermano nell'idea che è un buon Virgilio.

Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista. Quindi ha se non altro i pregi dell'innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d'essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d'essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell'obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente. Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.

Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un'astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.

Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L'amore per se stessi c'è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati. Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest'amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.

Il mio Virgilio a questo proposito dice che "l'uomo mira all'utile proprio e non all'altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L'uomo singolo, come l'unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ". Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall'intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista.
* * *
Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell'azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.

Così si spiega anche l'abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L'effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d'un sistema monocamerale con una Camera in gran parte "nominata" dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.

Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l'effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell'autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.

In questo quadro si iscrive anche l'eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell'amministratore delegato dell'azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d'amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato -  come del resto è giusto che sia -  dal governo e in teoria dal ministro dell'Economia che ha la completa proprietà dell'azienda. L'ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d'amministrazione e dell'amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l'appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d'azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto.
* * *
Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali "disorganici", operatori, esperti e politici di buon conio (rari).

La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall'incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del "peccato" (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).
* * *
Un altro rimedio per diminuire il rischio d'un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: "Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell'amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l'eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L'associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d'Europa ".

Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all'epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell'associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.

D'altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall'inizio dell'Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d'Italia legge nell'assemblea generale dell'istituto. Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.

C'erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell'andamento dell'economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l'attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando
 
l'Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell'occupazione. L'ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c'è.
© Riproduzione riservata 29 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/03/29/news/bisogna_aiutare_matteo_a_difendersi_da_se_stesso-110735933/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un mondo sconvolto e la Chiesa missionaria di Francesco
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2015, 11:00:29 pm
Un mondo sconvolto e la Chiesa missionaria di Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
05 aprile 2015
   
 NELLA religione cattolica quella che si chiama settimana santa rappresenta il culmine della teologia: l'ultima cena di Gesù con gli apostoli dove nasce il sacramento dell'eucarestia, il tradimento di Giuda Iscariota, il ritiro nel giardino di Getsemani, l'arresto del Signore, il processo e la fustigazione ordinata da Pilato, la crocifissione, la morte e la resurrezione.

Non c'è in nessun'altra religione un processo simile a questo e la ragione è evidente: soltanto nel cristianesimo Dio si incarna attraverso il Figlio, che a quel punto non è soltanto Figlio di Dio ma anche dell'uomo, con le gioie, i dolori, le tentazioni dell'uomo e la morte che ne è l'inevitabile conclusione. E perfino la disperazione di dover morire che si manifesta sia nella notte di preghiera al Getsemani sia sulla croce nel momento dell'ultimo respiro. La capacità di penetrazione del cristianesimo nelle anime degli individui, delle comunità, nei popoli del mondo a cominciare dall'Europa, risiede principalmente nella morte dell'uomo Gesù che lo rende simile a tutti noi; ci sono però altri due elementi che rafforzano grandemente quella religione: la predicazione dell'amore verso gli altri che è il modo per amare Dio attraverso il suo Figlio e la misericordia inesauribile che Dio concede alle sue creature.

La misericordia, il perdono sono concessi se c'è, sia pure un minuto prima che la morte sopraggiunga, il sincero pentimento. In quel caso la morte diventa un passaggio verso la vita eterna, una promessa che campeggia nella vita dei mortali, sia pure circondata dal dubbio ricorrente.

Ma riconquistata giorno per giorno poiché non esiste effetto consolatorio maggiore di questo: il passaggio sulla terra come transito per poi ascendere al cielo delle beatitudini al cospetto del Dio creatore alla cui destra siede il Figlio che fino a lì ha guidato le anime dei credenti.

Eppure questa religione così affascinante che sembra ed è tagliata su misura per le deboli creature che tutti siamo ha attraversato una fase di secolarizzazione, di distacco, di rifiuto che è diventato un fenomeno di massa da almeno un secolo. I non credenti ci sono sempre stati, ma nel Novecento sono diventati una maggioranza in Europa ma anche nell'America del Nord. Le radici di questa non credenza di massa stanno nell'illuminismo, ma il fenomeno è esploso nella seconda metà del XIX secolo e dura tuttora. Si pensava anzi da parte dei filosofi, dei sociologi e di gran parte delle persone che studiano se stesse e la società in cui vivono, che fosse ormai un fenomeno irreversibile.

Invece alcuni più attenti osservatori ritengono che la teologia e la fede stiano riacquistando forza. Le cause di questa inversione nel nostro modo di pensare sono molte e stanno suscitando analisi, libri, approfondimento che le Chiese seguono con molta attenzione.

Ho letto qualche giorno fa su queste pagine un articolo molto informato e come sempre lucido di Roberto Esposito, che segnala quanto sta avvenendo: la secolarizzazione nei Paesi dell'Occidente sta perdendo terreno mentre la Chiesa accresce la sua vocazione missionaria e si espande sempre di più nell'America Latina, in Africa e in vaste zone del Pacifico.
Non sempre questo fenomeno è positivo: suscita profondi conflitti all'interno delle Chiese cristiane ed anche in quella cattolica, divide drammaticamente l'Islam sconvolto da guerre, scontri armati e terrorismo. E tuttavia la secolarizzazione appare in declino, complice anche la tecnologia che ha di fatto indebolita o annullata del tutto la separazione tra il pubblico e il privato mettendo in questo modo in difficoltà il laicismo che proprio su quella separazione ha il suo fondamento.

* * *

Questa diagnosi contiene a mio avviso una parte di verità, ma non tutta. Le contraddizioni che mette in rilievo nei confronti del laicismo sono esatte ma altrettanto significative sono quelle esistenti all'interno delle religioni.

L'Islam è diviso di dritto e di rovescio; i terroristi del Califfato e di ciò che resta di Al Qaeda si battono armi in pugno contro l'Islam non violento; ma al tempo stesso anche la divisione tra sciiti e sunniti alimenta una guerra religiosa sempre più aspra. Infine la Siria, la Turchia, l'Iraq sono in crisi e Israele, dopo la vittoria elettorale della destra, rappresenta un deposito di dinamite che può scoppiare ogni giorno e comunque alimenta una "intifada" che semina morte, rappresaglia e odio dentro e fuori dallo Stato ebraico.

Questa fragilità delle religioni alimenta inevitabilmente il fondamentalismo, nel senso che ciascuna di esse tende a "nazionalizzare" il proprio dio contrapponendolo agli altri o meglio rivendicando soltanto al proprio l'ecumenicità e tacciando come infedeli tutti i popoli che credono in un dio diverso, con una diversa dottrina, diverse scritture, diversi profeti, diversi catechismi e liturgie.
La situazione che fin qui abbiamo descritto non sembra tale da dare alle religioni la capacità di insidiare il laicismo e riassorbire la secolarizzazione. Tutt'al più i non credenti possono non dichiararsi più tali e indulgere verso forme di "teismo" o di agnosticismo. Alla domanda "Tu credi in qualche cosa che ci trascende?", possono rispondere "Sì". E alla domanda "In che cosa?", rispondono "Non lo so, in qualche cosa". Del resto, mentre Diderot era materialista, Voltaire era teista. Credeva in un dio creativo che aveva creato il mondo e poi si era ritirato nel profondo dei cieli lasciando che la creazione si evolvesse secondo le sue leggi senza mai più intervenire. Questo pensava Voltaire, che fu anche un cultore di Newton, non a caso per molti anni fu il compagno- amante di madame du Châtelet, prima traduttrice in francese dell'opera di quel grande scienziato.

Diciamo dunque che la secolarizzazione può traballare ma non pare che arretri di molto. Il mondo delle idee è sempre più libero, quello della fede sempre più diviso e fondamentalista; la conclusione non può che constatare che viviamo in un mondo assai confuso, dal quale può emergere una nuova civiltà. Libera o dominata da chi detiene il potere? Anarchica o disciplinata? Credente in un'Autorità trascendente o nell'immanenza d'una scintilla di divinità presente in ogni fibra del creato? E infine, consapevole dell'autonomia della coscienza che è propria dell'animale pensante che noi siamo; consapevole altresì che all'origine dell'universo le particelle elementari vagavano in un caotico vuoto, prive di leggi proprie e d'una forza che le dominasse che poi apparve e le tenne insieme dando al caos una capacità creativa; tutto ciò detto perché non arguire che in ogni essere vivente c'è una scintilla di caos che alimenta tutte le forme, ne accoglie l'energia quando quelle forme si estinguono e continua incessantemente a far emergere dal caos nuove forme con proprie leggi e una propria durata? Non è anche giusto  -  a suo modo  -  un resurrexit incessante?

* * *

Tornando alle religioni, che sono una delle più durature categorie del pensiero umano, anzi la prima che la fantasia dell'animale pensante concepì per spiegare quanto accadeva attorno a lui e dentro di lui, vorrei segnalare nel giorno della Pasqua cristiana, la presenza al vertice della Chiesa cattolica e apostolica d'un uomo eccezionale, che sta trasformando non la fede in Dio e nel suo Figlio che interamente lo possiede, ma l'Istituzione che ha ereditato dai suoi predecessori.

Secondo me papa Francesco ha pochissimi predecessori che tentarono di modificare profondamente l'Istituzione, indebolendo il potere temporale che essa ha sempre esercitato, a partire dall'editto di Costantino. In epoca moderna i predecessori furono Giovanni XXIII e Paolo VI. Non a caso il suo vero predecessore è stato il Concilio Vaticano II del quale Francesco vuole perseguire l'opera di confronto con il mondo moderno.

Ho già scritto altre volte che questo Papa è gesuita fino in fondo perché il compito primario della Compagnia fondata da Ignazio di Loyola è sempre stato un compito missionario d'una Chiesa missionaria che doveva anzitutto capire il linguaggio spirituale degli altri ed entrare in sintonia con loro.

Il secondo compito era non il proselitismo ma l'amore per i diversi, per i deboli, per gli esclusi stimolando in loro, ma anche nei ricchi e nei potenti, la vocazione verso il bene.
Il terzo compito era la misericordia, la pace, il perdono.

Questo sta tentando di realizzare papa Francesco. L'abolizione del potere temporale dell'Istituzione è lo strumento che apre la strada agli altri obiettivi suddetti. Il Sinodo è l'altro strumento che affida ai Vescovi la soluzione dei tanti problemi che la trasformazione della Chiesa pone ai successori degli apostoli. Ma al di là di questo profondo rinnovamento della cattolicità c'è un altro immenso tema che Francesco si pone: l'affratellamento tra le varie Chiese cristiane e non solo ma anche l'avvicinamento con le altre religioni. Dio è ecumenico e quindi unico. Ogni religione ci arriva percorrendo strade diverse con Scritture diverse e diversi profeti, ma Dio è unico. Guai a coloro che lo agitano come proprio stendardo e non ne riconoscono l'unicità. Guai ai fondamentalisti che allignano in tutte le religioni e, credendo di portarle alla vittoria, le inquinano e le distruggono.

Francesco vuole che tutte le religioni si affratellino nella fede per l'unico Dio. Va nelle moschee, va nelle sinagoghe, va nelle chiese dei protestanti cristiani. Tra qualche settimana andrà a Torino per la benedizione della sacra Sindone e con l'occasione visiterà anche la chiesa Valdese. Pietro Valdo fu uno dei cristiani più devoti a Cristo e a Dio. La sua chiesa non è un'istituzione, non ha alcun potere temporale, ma i suoi sacerdoti hanno piena libertà di sposarsi e di avere figli. Francesco andrà a trovarli. È probabile che sarebbe felice se i valdesi si riconoscessero cattolici ma ecco perché il Sinodo ha dinanzi a sé anche il problema del celibato, già posto da alcune conversioni di pastori anglicani al cattolicesimo. E gli ortodossi, e i copti.

In questo giorno della Pasqua cristiana non saprei chiudere questo tentativo di capire quanto avviene nello spirito della nostra civiltà senza formulare, da non credente, gli auguri più affettuosi verso papa Francesco e l'opera di estrema importanza da lui intrapresa.
© Riproduzione riservata
05 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/04/05/news/un_mondo_sconvolto_e_la_chiesa_missionaria_di_francesco-111232264/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Senza appoggio popolare la sinistra diventa un inutile club
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2015, 04:27:05 pm
Senza appoggio popolare la sinistra diventa un inutile club

Di EUGENIO SCALFARI
12 aprile 2015
   
 COMINCIO con una citazione dello storico francese Jacques Julliard ne "Le Monde" di venerdì scorso: "Que serait une gauche sans le peuple? Le socialisme, certes, c'est une moral mais doublée d'une empathie populaire. Or une partie du peuple des gauche fait sécession et exprime un vote de désaffiliation. Il y a surtout 50 pour cent d'abstensions, c'est-à-dire une gigantesque crise du politique, un incontestable malaise dans la représentation. Les professionnels de la politique ont rongé la vie democratique".

Non si poteva descrivere meglio quello che sta accadendo in Francia: "Un paysage bouleversé" che anche in Italia presenta esattamente la stessa crisi: i professionisti della politica stanno distruggendo la democrazia, la sinistra sta perdendo l'appoggio popolare e la sinistra senza il suo popolo non esiste più.

Ed ora citerò un grande discorso che De Gasperi tenne in Parlamento il 17 gennaio del 1953, alla vigilia del voto sulla legge elettorale che pochi mesi dopo fu battuta dalle opposizioni di destra e di sinistra. Fu chiamata legge truffa, ma non lo era affatto; dava un premio al partito o alla coalizione che aveva ottenuto il 50,1 per cento dei voti. "Questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia. Si limita a rafforzare la maggioranza affinché sia più solida e possa governare come è suo diritto. Ma se perdesse il 50 meno un voto sarebbe sconfitta da chi invece prendesse due voti di più. Vi sembra che questa sia un'intollerabile sopraffazione?".

Così diceva De Gasperi. Mettete insieme questi concetti espressi cinquantuno anni fa e quelli de "Le Monde" di tre giorni fa e vedrete una perfetta identità di ragionamento che descrive in tutta la sua evidenza lo stato della democrazia nel nostro Paese, aggravato in più da altri due fatti salienti: l'abolizione del Senato e una legge elettorale che non solo trasforma in maggioranza una minoranza cui mancano dieci punti percentuali per arrivare al 50 più uno, ma che è anche una legge di "nominati".

Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l'abolizione della democrazia parlamentare.
Un Parlamento di "nominati" in un sistema monocamerale è una "dependance" del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale.

Resta naturalmente la Corte costituzionale ma anch'essa può finire con l'essere una Corte nominata dall'esecutivo se desse troppa noia all'autoritarismo d'un governo a sua volta sottomesso alla decisione d'un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l'essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato?
Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare.
***
Detto questo ci sono questioni economiche e sociali altrettanto urgenti e importanti da affrontare. Comincerò spiegando che cosa è e da dove proviene quel cosiddetto tesoretto di un miliardo e 600 milioni che improvvisamente il presidente del Consiglio ha estratto venerdì scorso dal cilindro tra la sorpresa del Consiglio dei ministri che stava esaminando la legge di stabilità presentata dal ministro dell'Economia.

A leggere la maggior parte dei giornali le madri del tesoretto sarebbero il miglioramento del Pil, la ripresa dell'occupazione, il mutamento delle aspettative e gli effetti che questo determina sui consumi e sulla domanda.

Ebbene, non è così. Il tesoretto viene dagli effetti della manovra monetaria di Mario Draghi che come primo risultato ha prodotto un ribasso consistente del rendimento dei titoli pubblici e quindi una diminuzione di circa due miliardi di euro negli oneri che il Tesoro sopporta per pagare gli interessi sui titoli in circolazione.

Due settimane fa avevo chiuso il mio articolo scrivendo "meno male che Draghi c'è". Non voglio ripetermi, del resto i fatti stanno a provarlo e non solo per quanto riguarda l'Italia ma l'Eurozona nel suo complesso.
***
Un altro problemino da chiarire riguarda il Jobs act e il ministro Poletti, che chiacchiera molto e spesso a sproposito. Quale giorno fa, citando fonte Istat e interpretandola a suo modo, informò la pubblica opinione che il primo bimestre di quest'anno, paragonato al corrispondente bimestre dell'anno scorso, registrava una crescita dell'occupazione di oltre 79 mila unità. Poco ma buono, un inizio d'anno comunque confortante.

Gli fu obiettato che doveva tener conto dei contratti stipulati sulla base del Jobs act ma non aveva tenuto conto dei licenziamenti che erano stati nel frattempo effettuati.

E così si scoprì che, fatte le debite sottrazioni, il saldo tra nuove assunzioni di precari e licenziamenti era di 44 mila occupati in più.

Molto poco ma pur sempre una cifretta positiva e comunque un indizio confortante che sarebbe certamente aumentato con rapidità. Ma poi, impietosamente, ieri sono usciti i dati dell'Inps sull'occupazione nel suo complesso. Va infatti chiarito che i contratti sulla base del Jobs act non sono vere e proprie assunzioni ma semplicemente un consolidamento di alcune forme di precariato con contratti a tempo indeterminato per tre anni, salvo la facoltà di licenziamento alla scadenza del triennio.

L'Inps invece parla di occupazione e disoccupazione vera e propria, chi lavora sotto qualunque forma contrattuale e chi non lavora affatto.

Anche qui il saldo è positivo e sapete qual è la cifra: 13 persone in più.

La scrivo in lettere per esser sicuro che la lettura sia corretta: tredici persone in più. Una cifra che percentualmente è espressa con il numero zero perché non è matematicamente percepibile come percentuale.

Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane.

Salvo un punto: ha abolito l'articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc'anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui.

Io speriamo che me la cavo, è un vecchio detto sempre attuale di fronte a rischi di tal genere.
***
In questi ultimi venti giorni sono accaduti fatti orrendi nel mondo: la strage di massa del cosiddetto Califfato che avviene in tutto l'agitatissimo Medio Oriente ma anche in Europa; il fondamentalismo nelle religioni, la strage-suicidio nell'aereo della Lufthansa voluta da un pazzo; il massacro di un altro pazzoide al tribunale di Milano, il tema della tortura e quello della corruzione.

Secondo me c'è stata una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella è papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro.

Chi vive il presente e non vede il tempo lungo, chi ama il potere per il potere e non guarda al bene dei figli e dei nipoti, rischia di annaspare in una palude di acque morte.

È quello il rischio, è quello il pericolo che ci sovrasta e neppure Francesco riuscirà ad evitarlo.

Noi abitiamo un Paese di grandi individui e di grande civiltà ma pochi ne hanno goduto. Una aristocrazia di geni che ha educato attraverso i secoli un popolo di persone consapevoli e responsabili, un popolo sovrano ma minoritario in patria. Il resto era plebe fatta di poveri, di deboli, di esclusi, ma anche di corrotti, di tiranni, d'avventurieri, di buffoni e di voltagabbana.

Questo avviene in tutto il mondo, la violenza, la cupidigia, l'avidità, l'avarizia di sé sono dovunque è l'animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l'istinto animalesco e la coscienza, il bene suo e il bene degli altri.

Stiamo attraversando un fine d'epoca dominata dall'egoismo.

Non potrebbe essere altrimenti, quando un'epoca tramonta e la nuova non ha ancora preso forma e creato nuovi valori.
Ho scritto molte volte queste riflessioni e mi scuserete se le ripeto. Non sono certo un oracolo e spero sempre di sbagliarmi, ma i fatti purtroppo mi danno ragione o almeno così mi sembra.

Può darsi che la comunicazione di massa che mai prima d'ora aveva raggiunto questa intensità, sottolinei le cattive notizie e trascuri le buone. Comunque suscita nuovi istinti e nuovi pensieri.

L'elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente ma richiede tempo lungo per essere costruito a misura dell'uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.

© Riproduzione riservata
12 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/12/news/senza_appoggio_popolare_la_sinistra_diventa_un_inutile_club-111735021/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Col suo viaggio il nostro premier porta a casa due corone
Inserito da: Admin - Aprile 20, 2015, 05:58:51 pm
Col suo viaggio il nostro premier porta a casa due corone

Di EUGENIO SCALFARI
19 aprile 2015
   
DEBBO dire che in certe cose, in certe situazioni e in certi incontri Matteo Renzi è di fantastica bravura. Anche i suoi avversari politici dovrebbero riconoscerlo e credo che lo sappiano ed auguro loro che ne tengano conto. L'ha dimostrato quando incontrò per la prima volta Angela Merkel e poi Putin; infine l'altro ieri quando ha passato l'intera mattinata e poi il pranzo e ancora il primo pomeriggio con Barack Obama alla Casa Bianca. Gli ha perfino portato in regalo una cassa di vino d'annata. Toscano naturalmente. Immagino fosse un Brunello di Montalcino.

Angela Merkel, Putin, Obama. Su di loro ha fatto colpo e l'hanno trattato come un grande statista e l'Italia da lui guidata come un grande Paese. Che cosa ha ottenuto in cambio? Quasi nulla o nulla del tutto, ma ha avuto in cambio qualche cosa che a lui più di tutto importava: un riconoscimento da rivendicare in patria. E vi pare poco?

Del resto Silvio Berlusconi ai suoi tempi fece altrettanto. Anche lui all'inizio sedusse la Merkel e fece con lei perfino un passo di danza. Di Putin diventò addirittura socio oltreché amico intimissimo. Fecero affari insieme sul gas russo, fecero insieme il bunga bunga in una dacia assai accogliente, passarono insieme i rispettivi compleanni e quando, dopo la sentenza della Cassazione, volle essere autorevolmente confortato, Silvio volò a Mosca dove il confortatore lo accolse al Cremlino. Ma parliamo anche della sua amicizia per George W. Bush: fece entrare l'Italia in guerra contro l'Iraq insieme a lui, andò più volte a trovarlo a Washington e nel luglio del 2003 a Crawford in Texas nella residenza di campagna del presidente.

Che cosa ottenne l'Italia da questo vasto ventaglio di amicizie di Silvio? Assolutamente nulla, ma lui se ne infiocchettò l'abito da premier sontuosamente. Purtroppo (per lui) dopo le sue sfortunate vicende giudiziarie la Merkel lo scaricò del tutto e gli altri governanti europei fecero altrettanto, al punto che evitarono di farsi fotografare in sua compagnia nelle riunioni internazionali. Avevano capito prima di noi italiani che la sua strada era finita.

Da questo punto di vista Matteo è molto più bravo di lui e col bunga bunga non ha nulla da spartire. Non possiede aziende private, non ha conflitti di interesse. Silvio sperava che fosse il suo erede al potere ma ha fatto un errore: non ha accettato la candidatura di Mattarella. Comunque Renzi non lo abbandonerà, farà in modo che abbia onorata sepoltura (politica ovviamente) e prenderà da lui parecchi voti di ex forzisti in cerca d'autore. E questo è quanto. Ma ora vediamo che cosa veramente è accaduto a Washington a parte i complimenti reciproci, le pacche sulle spalle e il Brunello di Montalcino.

***

Obama l'ha complimentato per le riforme che Renzi ha compiuto. Non ha detto quali. Si è complimentato anche per la sua battaglia per la crescita economica in Europa, che però non è affatto venuta. In aggiunta a questi complimenti Obama si è però lamentato perché l'euro è troppo debole e rende difficili le esportazioni americane su tutta l'area europea. Renzi ha incassato il rimprovero rispondendo che vedrà quel che potrà fare. In che senso? Veramente il nostro premier non vorrebbe consolidare la rivalutazione del dollaro di fronte alla moneta europea? L'autore di quel mutamento del cambio è Mario Draghi che sta lavorando per il bene dell'Europa e quindi dell'Italia. Poi il discorso è passato alla Russia. Poche settimane fa Renzi aveva promesso a Putin un intervento per far togliere le sanzioni economiche contro la Russia. Obama ha invece detto a Renzi che sarebbe un errore gravissimo togliere quelle sanzioni che semmai dovrebbero essere aumentate. Piglia e porta a casa.

A pranzo il discorso si è spostato sulla Libia. Obama tra un bicchiere di Brunello e l'altro ha detto che in Libia gli Usa non intendono intervenire e tantomeno fornire armi ed aerei al governo libico (che di fatto non esiste). Ha detto che bisogna pacificare le tribù e che questo compito spetta senz'altro all'Italia. Quindi l'ha incoronato negoziatore principale della pace in Libia. Naturalmente incoronare qualcuno senza avere la corona da calcargli sulla testa non costa nulla ed è quello che ha fatto Obama. La corona in questo caso ce l'ha l'Onu e sembra difficile che l'Onu la metta in testa ad un italiano che per di più rappresenta un Paese che ebbe la Libia come colonia dal 1911 al 1942, dopo la sconfitta di El Alamein. Obama lo ha simbolicamente incoronato come leader dell'Europa (altra corona che Obama non possiede), ma a scanso di equivoci ha ricordato che gli Usa hanno un rapporto con la Germania che non può e non deve essere indebolito. Infine Obama ha preso atto con piacere che le truppe italiane dislocate in Afghanistan resteranno in quel Paese ancora un paio di anni mentre quelle americane stanno già rientrando in patria.

Insomma: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Renzi ha dato truppe in Afghanistan e possibilmente un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro. Ha dato anche il suo appoggio al trattato commerciale Usa-Ue attualmente in discussione. In contropartita ha avuto due corone di cartone. Su quelle due Renzi torna a Roma felice e contento. Giornali e televisioni hanno già cominciato a suonare a festa e continueranno. Mi viene in mente la canzone "Madonne fiorentine" quando dice che "Madonna Bice non nega baci/ baciar le piace, che male fa?". Infatti, che male fa mettersi in testa due corone di cartone e far credere che sono d'oro massiccio e ingioiellato.

***

Tornato in Italia Matteo (che Giuliano Ferrara non a caso chiama "Royal baby") comincerà col respingere e far respingere all'unanimità dalla direzione del Pd le dimissioni di Speranza da capogruppo dei deputati del partito. Speranza accetterà quel voto o insisterà nelle dimissioni? Per ora l'interessato ha detto che insisterà ma ha anche spiegato il perché: vuole trattare un compromesso accettabile per tutte e due le parti in causa. E qual è il compromesso? Un cambiamento della riforma del Senato in seconda lettura in Parlamento: elezione diretta dei senatori e voto compatto dei dissidenti sulla legge elettorale. È possibile questo do ut des? Sembrerebbe di no. Secondo la legge vigente le materie già approvate dalle Camere nella prima lettura della legge costituzionale non possono essere più emendate in seconda lettura. Le cose stanno esattamente così, salvo che c'è un impensabile calembour cui appigliarsi: nella prima lettura una Camera ha votato che "i senatori saranno votati nei Consigli regionali" e l'altra Camera ha votato che "i senatori saranno votati dai Consigli regionali". Il significato è identico ma la forma è diversa.

È un appiglio valido che consente un mutamento sostanziale? La risposta sulla base dei regolamenti parlamentari spetta al presidente del Senato. Grasso non è persona che gioca alle quattro carte; in materia di legge e di procedure ha speso tutta la sua vita e perciò la sua risposta, ove fosse necessaria, sarà motivata in modo sicuramente accettabile, quale che sia.

Ma se fosse negativa? Allora mancherebbe la contropartita al voto unanime sulla legge elettorale. E allora Renzi che farà? Metterà la fiducia su quella legge? È avvenuto una sola volta, la mise De Gasperi sulla cosiddetta legge truffa del 1953. Ma in quel caso la sostanza era completamente diversa: il premio scattava soltanto nel caso che ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta del 50 per cento più uno. Solo allora scattava il premio per accrescere la governabilità. Comunque quella legge fu battuta nonostante la fiducia. Figurarsi qui e ora. Perciò il problema resta apertissimo su come si comporteranno i dissidenti del Pd. Per loro il tema è se osservare la disciplina di partito o non accettarla se sono convinti che quella legge è un passo assai pericoloso verso un governo autoritario. Sta a loro rispondere e decidere come comportarsi.

***

Una parola sulle decisioni di Marchionne di associare i lavoratori della Fiat agli utili dell'azienda; qualora quegli utili ci siano spetterà a lui di stabilire l'entità del premio e la sua ripartizione tra i dipendenti. Tutti i sindacati hanno plaudito salvo la Fiom-Cgil che parla di esproprio dei poteri sindacali. Sembra un'opposizione più corporativa che sindacale. In parte lo è, ma in parte no. Infatti in quasi tutte le aziende esiste un "premio di rendimento" che le imprese discutono con le rappresentanze sindacali, le quali trattano sull'entità del premio (sempre che un profitto ci sia stato), sulla sua ripartizione ed anche su problemi connessi alle condizioni di lavoro nel comune interesse dell'impresa e dei lavoratori. Dunque non è l'imprenditore che decide da solo, ma l'interlocutore sindacale è allo stesso tavolo e si arriva ad una decisione comune.

A me sembra che questo metodo sia buono e che comunque il profitto sia di comune utilità; senza di esso la discussione si dovrebbe spostare sui sacrifici da compiere, sia dall'una che dall'altra parte e questo è il massimo di un capitalismo democratico e di un sindacalismo riformista. Post scriptum. La settimana che si apre domani si concluderà sabato prossimo con la ricorrenza del 25 aprile, festa della Resistenza contro il nazifascismo. Questa festa fa parte della storia d'Italia, dal Risorgimento in poi. Quel movimento ebbe molte ombre e contemporaneamente molte luci. Le figure più rappresentative, molto diverse tra loro ma tutte votate alla fondazione dello Stato unitario e democratico, furono soprattutto tre: Mazzini, Cavour, Garibaldi.

La Resistenza fu una pagina di grande riscatto e anch'essa ebbe molte figure e apporti ideali e politici assai diversi: liberali, comunisti, monarchici, liberal-socialisti, socialisti. Ma il fine era comune e fu sancito dalla Costituzione che tuttora ci detta le regole di comuni principi di democrazia, libertà ed eguaglianza politica e sociale. Per ciò concluderò con le parole con le quali il presidente Mattarella ha concluso due mesi fa il suo discorso di insediamento al Quirinale: "Viva la Repubblica, viva l'Italia".

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19 aprile 2015
Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/19/news/col_suo_viaggio_il_nostro_premier_porta_a_casa_due_corone-112307980/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Paese smantellò la patria, la Resistenza la ricostruì
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2015, 12:00:28 pm
Il Paese smantellò la patria, la Resistenza la ricostruì

Di EUGENIO SCALFARI
26 aprile 2015
   
L'ARTICOLO che ora comincerete a leggere l'ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L'anniversario ricorda ciò che avvenne settant'anni fa: la liberazione dell'Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell'esercito regolare italiano inquadrati nell'VIII Armata a comando inglese.

Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l'antifascismo. Nelle varie brigate c'era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c'erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d'Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali. Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c'erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all'arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.

Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell'Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.

Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un'ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell'Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l'inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d'ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.

***

Sulla Resistenza bisognerebbe ora raccontare i numerosi episodi già oggetto di libri, articoli, narrazioni di diverso orientamento perché diversi erano i sentimenti degli autori, ma questo lavoro è già stato fatto da altri colleghi sulle nostre pagine. Giorgio Bocca, tra i tanti, dette testimonianze di cose viste e fatte e il suo è un racconto irripetibile. Piuttosto c'è da spiegare perché la Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del movimento risorgimentale. Questa tesi è stata compiuta dalla Costituzione e approfondita e diffusa da Carlo Azeglio Ciampi e da Giorgio Napolitano.

Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.

Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un'organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all'Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.

La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d'Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall'inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un'entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.

La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.

Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia -  col favore di popolo -  un dittatore.

Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt'altro che cessata.

***

I malanni di un Paese fortemente in ritardo rispetto all'orologio della storia dovrebbero tuttavia produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro autodistruzione.

Se guardiamo alla storia dell'Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c'è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.

***

Prima di esaminare l'altro tema di grande attualità che è quello degli migranti, mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945.

Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel '41 andai all'Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall'adolescenza alla giovinezza.

Quella storia e quella giornata l'ho raccontata nel mio libro "L'uomo che non credeva in Dio" edito da Einaudi nel 2008.

Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l'atmosfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l'ha riscattato. L'8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.

Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.
"Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d'improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.

Dall'inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull'Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.

Finché arrivò l'8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall'inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell'armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.

All'annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l'intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l'esercito prima di tutto, l'autorità del governo, le leggi, la monarchia.

Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.
Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C'erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.

Domandammo se c'erano esplosivi. Risposero: "Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri". "Ci sono anche i cannoni?". Risposero di no. "I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva". Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l'inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po' e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.

Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d'essere venuto. "Ci vedremo presto", gli dissi. "Non credo" rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse "ciau" con la u".

***

Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell'Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell'emergenza dell'emigrazione dalla Libia.

Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d'Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell'Africa subequatoriale; sgominare l'organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell'emergenza nelle terre del CentroAfrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.

Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l'uno con l'altro, l'incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l'assegno mensile europeo alla politica dell'immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d'Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.

Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il "Sole 24 Ore" di ieri l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che "la montagna ha partorito il topolino" e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l'articolo di Prodi sul "Messaggero" dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l'Egitto, l'Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un'autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.

Concludo tornando al tema della Resistenza.
Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone "Bella Ciao" che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l'avesse intonata anche lui alla manifestazione dell'Anpi. Non vorrei che invece di "Bella Ciao" dicesse "Ciao Bella". È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.

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26 aprile 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/04/26/news/il_paese_smantello_la_patria_la_resistenza_la_ricostrui_-112863318/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Inghilterra, l'Europa, Ciampi, Napolitano e Narciso
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:33:20 pm
L'Inghilterra, l'Europa, Ciampi, Napolitano e Narciso

Di EUGENIO SCALFARI
10 maggio 2015
   
DUNQUE il voto a sorpresa del Regno Unito. Anzi della Gran Bretagna. Anzi del Regno federale d'Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord. Questo è l'esito reale del voto di giovedì scorso mentre l'apparenza è la vittoria piena dei conservatori sui laburisti, i liberaldemocratici e gli antieuropeisti dell'Ukip che hanno un seggio avendo però con loro il 12,6 per cento dell'elettorato (effetto negativo dell'uninominale che mortifica i partiti che hanno una presenza decente ma territorialmente dispersa). Il vincitore Cameron deve ora fronteggiare, con calma ma avendo ben chiare le finalità che persegue, due problemi: il primo è il modello federale e in particolare il rapporto con la Scozia e l'Irlanda; il secondo è il confronto con l'Europa. Quest'ultimo evidentemente richiede che anche l'Europa chiarisca a se stessa e al mondo quali sono le sue finalità, senza di che negozierebbe alla cieca con l'ex Regno Unito. Sulla Repubblica di ieri c'è un articolo illuminante di Timothy Garton Ash che segnala tra tante altre cose una riforma costituzionale che molti politologi ed anche molti uomini politici di varia collocazione stanno considerando: trasformare la Camera dei Lord in un Senato eletto col sistema proporzionale in tutto l'ex Regno Unito che sarebbe il Parlamento di tutto il Regno federale, mentre la Camera dei Comuni sarebbe soltanto il Parlamento inglese, così come esiste già un Parlamento scozzese e un relativo governo. Avrete già notato che la parola regno compare in tutte le varie ipotesi di trasformazione e di denominazione dell'attuale Regno Unito.

Ciò vuol dire che la Monarchia e la sua Regina (o Re) rappresentano il simbolo unico dello Stato federale così come l'eventuale Senato sarebbe l'organo che dà la fiducia al premier dello Stato federale; un premier che può essere nato in uno qualunque dei Paesi federati e che avrebbe come poteri la responsabilità politica della Federazione, e quindi la politica estera, la difesa militare, la giustizia, la politica economica e sociale, lasciando ai primi ministri degli Stati membri della Federazione tutti i problemi locali che li riguardano. Insomma dei governatori come esistono e operano negli Usa. Tutti questi sviluppi sono ancora ipotetici, anche perché Cameron farà di tutto per limitare gli effetti di quanto è accaduto col voto di giovedì che ha visto la sua piena vittoria di conservatore e contemporaneamente la piena vittoria del partito nazionale scozzese, con simpatie laburiste. Cameron dovrà certamente accrescere l'autonomia amministrativa dei Paesi che compongono l'attuale Regno Unito ma tenterà di evitare l'autonomia politica. Ci riuscirà? Molto dipende anche dai nuovi rapporti che avrà con l'Europa nonché l'evoluzione della stessa Europa, altro tema ancora in gran parte da affrontare.

* * *
Segnalo a questo proposito un documento firmato dai presidenti della Repubblica emeriti Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano in occasione della nascita della Comunità europea del carbone e dell'acciaio voluta da Schuman 65 anni fa: il seme dell'Europa che è ormai un'Unione politica ed economica con 28 Paesi membri, 19 dei quali dotati di una moneta comune. Il documento, che si rivolge alle istituzioni e ai popoli dell'Europa, contiene un passo di particolare importanza che qui desidero citare: "Tutto conduce alla conclusione che l'Europa  -  per crescere economicamente e progredire socialmente rendendo operanti i suoi valori per riaffermare la sua identità e il suo ruolo nel mondo  -  non ha dinanzi a sé altra strada che quella di una sempre più stretta integrazione, di una sempre più stretta unione in senso politico tra i suoi Stati e i suoi popoli". Chi ha diffuso questa sorta di manifesto politico di stampo europeista sono due nomi che, sommando insieme i loro periodi di permanenza al vertice del Paese (come presidente del Consiglio e poi della Repubblica Ciampi e come capo dello Stato eletto per due volte di seguito Napolitano) totalizzano continuativamente diciassette anni, terminati con l'elezione di tre mesi fa di Sergio Mattarella. Due uomini che avevano già dato il meglio di sé per il bene comune fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, conosciuti per l'opera loro in Italia, in Europa, in America, le cui parole oggi sul destino dell'Europa sono quindi della massima importanza e del massimo peso. In una società globale come quella in cui viviamo l'Europa non può che trasformarsi da Unione confederale quale tuttora è, in Unione federata con le relative cessioni di sovranità dei singoli Stati membri nella politica fiscale, nel bilancio e nel debito, nella politica estera, nella difesa, nella giustizia, nell'immigrazione e nella politica sociale. L'attuale Regno Unito, quale che sarà il suo futuro assetto, non vorrà annettersi agli Stati Uniti d'Europa, ma dovrebbe altrimenti andrà incontro al destino di piccola potenza, priva di qualsiasi influenza sulla società globale dei Continenti diventati Stati. Dovrebbe, se non vuole chiudersi in una casetta divisa per di più in un condominio di piccoli appartamenti di fronte a sei o sette immensi grattacieli. Winston Churchill lo disse nel 1948 preannunciando che la sorte dell'Union Jack era quella di entrare in un'Europa unita oppure come cinquantesima stella della bandiera americana. Altra via non c'è, il condominio darà solo strettezze economiche e declino politico.

* * *

Ed ora veniamo alle nostre piccole cose (ma per noi assai importanti) anche se (o proprio perché) di livello condominiale. A quel livello la domanda che molti si fanno e ti fanno è se Matteo Renzi ti sia simpatico ed abbia la tua stima oppure no e perché. Per quanto mi riguarda l'ho già detto più volte, in privato e in pubblico rispondendo a bravissimi conduttori televisivi come Giannini, Floris, Gruber, Annunziata: come persona mi è simpatico e gli riconosco un'eccezionale bravura nella capacità di propagandare il suo prodotto e la sua figura. Più bravo addirittura di Berlusconi che fino al suo arrivo sembrava imbattibile. Diciamo che ha carisma, cioè capacità di convincere e di manovrare. Il carisma si muove a vari livelli e con varia intensità. Robespierre aveva carisma, Napoleone aveva carisma, Lenin aveva carisma e, venendo a casa nostra, l'avevano Cavour, Mazzini, Garibaldi, Mussolini, De Gasperi, Togliatti, Fanfani, Moro, Berlinguer. E anche Renzi. Vedete a quanti livelli e con quali diversi personaggi il carisma si manifesta. Invece per Renzi uomo di governo o statista che dir si voglia non ho grande stima anzi ho dentro di me un sottile ma persistente e crescente sentimento di antipatia. Cerco di vincerlo ma finora non ci sono riuscito anche perché le motivazioni non mancano e mi sforzo di verificare che siano obiettive. Oggi però la motivazione obiettiva mi induce a riconoscergli che sul tema degli immigrati, del tentativo di pacificare la Libia e d'intervenire nei Paesi subequatoriali dell'Africa, Renzi è riuscito a smuovere Juncker a condividere quest'obiettivo. Nei prossimi giorni Juncker dovrà ottenere l'appoggio della Commissione di Bruxelles da lui presieduta, del Parlamento di Strasburgo (Schulz che lo presiede è già d'accordo) e poi del Consiglio europeo. Qui, dove i 28 Stati membri sono rappresentati dai capi dei rispettivi governi, l'appoggio è molto dubbio anche se la Germania e la Francia concordano con Juncker e con Renzi. Lui comunque quello che poteva l'ha fatto e anche la Mogherini sta lavorando bene.

Quanto a tutto il resto però il mio dissenso permane e anzi direi che è in fase di ulteriore aumento: sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato, sui pericoli d'una tentazione autoritaria che da quelle leggi promana, sulla mancanza di leggi concernenti la creazione di nuovi posti di lavoro e quindi di nuova occupazione, sulla mancanza di contatti con i sindacati dei lavoratori, sulla legge per la riforma della scuola. Infine, essendo lui anche segretario del suo partito, sulla spaccatura del Pd a causa della cancellazione dei valori della sinistra per la tutela dei quali il Pd è nato. Il partito di Renzi è ormai di centro e si propone come tale; aspira a monopolizzare il potere. Marc Lazar, politologo francese e nostro collaboratore, in un articolo di giovedì ha definito queste riforme dello Stato di stampo renziano ma in corso anche in altri Paesi europei, come democrazia esecutiva anziché parlamentare. Perfettamente esatto secondo me. Non c'è un pericolo per la democrazia ma una sua trasformazione da parlamentare ad esecutiva. Il potere esecutivo stabilisce i fini e appronta i mezzi. E in quella parlamentare i fini li stabilivano il Parlamento e il governo possedeva gli strumenti per realizzarli. Ebbene, questa trasformazione a me non piace affatto e debbo dire che non è neppure più una democrazia, a rifletterci bene. Una democrazia esecutiva è un gioco di parole perché demos significa popolo sovrano e come si esprime il popolo sovrano se non con una rappresentanza proporzionale in un Parlamento che non sia una dépendance del potere esecutivo? Molte persone e anche rappresentative di forze politiche e sindacali, stanno pensando di astenersi dal voto o di votare scheda bianca sperando che nel frattempo rinasca una sinistra moderna, cambiata, ma ancora legata ai valori di libertà ed eguaglianza. Spero anch'io che questo avvenga o che Renzi torni sui suoi passi sconsiderati. Altrimenti non saranno i democratici ad abbandonarlo, ma lui ad averli abbandonati. A volte Narciso può giocare pessimi scherzi.

P. S. In una lettera al Corriere della Sera di ieri Silvio Berlusconi ha criticato severamente i capi di governo occidentali che non sono andati alla sfilata di Mosca voluta da Putin per festeggiare la vittoria della seconda guerra mondiale contro il nazismo. "Non bisogna isolare la Russia spingendola verso l'Asia, bisogna invece avvicinarla all'Europa se non vogliamo che sia l'Europa ad essere isolata". Così ha scritto Berlusconi. Si può anche ricordare che lui con Putin ha un'amicizia personale di dubbia qualità che potrebbe averlo indotto a questa pubblica esternazione. Ma quali che siano le possibili ragioni che l'hanno spinto a questa pubblica uscita, Berlusconi ha ragione? Non vi sembri strano, ma anch'io la penso così.

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10 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/10/news/l_inghilterra_l_europa_ciampi_napolitano_e_narciso-113994014/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI: "Nel Pd serve un'alternativa a Renzi: potrebbe essere Pisapia
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:36:55 am
5 maggio 2015
Scalfari: "Nel Pd serve un'alternativa a Renzi: potrebbe essere Pisapia"

Ospite di Massimo Giannini a Ballarò, su Rai3, Eugenio Scalfari parla del Pd: "Non è più un partito di sinistra".

E invoca la costruzione di un candidato alternativo a Matteo Renzi.

Il nome indicato è quello del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: "Può interpretare l'anima civica del Paese"

Da - http://video.repubblica.it/politica/scalfari-nel-pd-serve-un-alternativa-a-renzi-potrebbe-essere-pisapia/199974/199014?ref=HRER1-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. E la risorsa del suo mestiere con la donnetta, col cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2015, 10:40:29 am
E la risorsa del suo mestiere con la donnetta, col cavaliere

Di EUGENIO SCALFARI
   
 MOLTE cose sono accadute nella settimana che oggi si chiude. In Italia, in Europa e nel mondo intero. Non starò ad elencarle, giornali e televisioni ne sono pieni. Mi occuperò soltanto dei fatti italiani, che possono essere guardati da quattro diversi punti di vista: le manifestazioni  -  belle ma anche molto brutte  -  connesse con l'apertura dell'Expo e con il Primo maggio, festa del lavoro; l'economia italiana; il tema del Mare nostrum e gli immigrati; la legge elettorale approvata con quattro voti di fiducia ai quali seguirà il voto definitivo sull'intera legge domani e quanto sta accadendo all'interno del Pd.

Come esergo che tocca un punto assai delicato per la democrazia italiana e per il principale partito che la guida, citerò la vignetta di Altan che apre l'Espresso di questa settimana.

Si vede una giovane donna come quelle tipiche di questo grande artista, che legge il seguente comunicato: "Il popolo potrà visitare la sua sinistra ogni secondo week-end del mese". Con queste dieci parole Altan descrive perfettamente lo stato della politica italiana.
***
Comincio dal tema del lavoro. Le cifre diramate dall'Istat tre giorni fa danno un aumento della disoccupazione e in particolare di quella giovanile; una diminuzione dei consumi, una modifica in peggio delle aspettative che erano invece segnalate in aumento il mese scorso. Le cifre sono anche negative per quanto riguarda il fabbisogno del bilancio, a causa della recente sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni al di sopra dei 1400 euro mensili, che dovranno essere rimborsate con il calcolo degli interessi.

Si tratta di cinque miliardi di euro per l'esercizio in corso, che saliranno a undici nell'anno prossimo. In queste condizioni, l'erogazione di 1,7 miliardi destinati ai ceti più poveri non è più fattibile ed è rinviata "sine die". La donna di Altan ha perfettamente ragione. Ma chi ha commesso l'errore? Non la Fornero, che con quel taglio definito oggi incostituzionale salvò nel 2011 l'Italia dal default, Ma il governo attuale che ha dissipato 10 miliardi l'anno e per i prossimi due anni con la regalia elettoralistica degli 80 euro mensili ai redditi superiori agli ottomila euro annui. Avrebbe dovuto destinare quella cifra al taglio del cuneo fiscale (Irap) e oggi  -  pur dopo la sentenza della Consulta  -  avrebbe ancora le risorse finanziarie per aiutare i non capienti e continuare ancora ad intervenire sull'Irap.

Queste vicende mettono anche in evidenza che il Jobs Act, come ho già scritto più volte, è un prezioso oggetto esposto in vetrina ma con nessuna incidenza sull'occupazione. Non crea nuovi posti di lavoro. Li creerà quando finalmente una vera legge sul lavoro sarà presentata dal governo e votata dal Parlamento come chiede Draghi da mesi. Ma il governo è in tutt'altre faccende affaccendato: legge elettorale, riforma del Senato, Mare nostrum, regolamento di conti con i gufi della minoranza del Pd. "Figaro qua, Figaro là, sono barbiere di qualità". Altan dovrebbe fare su quel barbiere la sua prossima vignetta.
***
Speravamo tutti che il nostro Renzi ottenesse dall'Europa un aiuto sostanziale sulla questione della Libia e degli immigranti, fermo restando che quelle centinaia di migliaia di poveretti che affrontano la morte in mare dovrebbero esser portati in Europa tramite l'Italia. Lo speravamo molto perché Renzi si era pubblicamente impegnato a "metterci la faccia" e a battere decisamente il pugno sul tavolo di Bruxelles.

Non ha battuto nessun pugno ed ha ottenuto soltanto l'aumento dell'aiuto finanziario europeo da tre a nove milioni al mese come rimborso spese del "Triton". Cioè niente e abbiamo anche dovuto ringraziarli.

Le conseguenze sono di chi dovrà salvarli se prendono il mare, ma se cercheremo di non farli partire e resteranno in Libia da chi saranno soccorsi e da chi saranno protetti? Da noi naturalmente perché in quel Paese non esiste un governo ma tribù che si combattono a vicenda e terroristi del Califfato.

La conclusione è che manterremo i nostri soldati in Afghanistan per ingraziarci gli Usa e dovremo anche mandarne altri, con le relative intendenze e medici, sulla costa libica. Se sbaglio, qualcuno mi corregga e ne sarei felice, però temo di no perché non si tratta di congetture ma di fatti preannunciati. A meno che si respingano gli immigrati in Libia e lì si lascino nelle mani degli scafisti-schiavisti. Spero che non si arrivi a tanto perché se ci si arriva la Lega di Salvini avrà vinto la sua battaglia e il popolo di Altan non andrà a trovare la sua sinistra neppure una volta al mese.
***
Ed ora parliamo delle leggi in corso di approvazione in Parlamento: quella elettorale e quella del Senato. Qui lascerei la parola ad alcuni autorevoli interventi di personalità della cultura politica e giuridica, quattro per l'occasione: Michele Salvati sul Corriere della Sera del 29 aprile, Valerio Onida sul Sole 2-4 Ore del 1 maggio, Michele Ainis sul "Corsera" del 30 aprile e infine, "last but not least", Alcide De Gasperi nel suo discorso alla Camera del 17 gennaio 1953. Comincerò appunto da quest'ultimo, unico esempio di un voto di fiducia su una legge elettorale che nonostante quella protezione fu battuta in Parlamento e chiamata "legge truffa", mentre non lo era affatto. A quell'epoca facevo parte del gruppo dei collaboratori del Mondo di Mario Pannunzio. Noi, laici e nient'affatto conservatori, fummo favorevoli a quella legge che avrebbe consentito ai partitini laici alleati con la Dc di prendere più voti di quanto avveniva con il sistema elettorale vigente. E infatti così sarebbe avvenuto.

Ma passiamo al discorso di De Gasperi, che ho già ricordato in un altro mio articolo.

Il presidente del Consiglio sottolineò che non avrebbe proposto mai una riforma elettorale che trasformasse una minoranza in maggioranza. "Il premio viene concesso soltanto nel caso che un partito o un gruppo di partiti conquisti la maggioranza assoluta dei voti, 50 per cento più uno. Nel caso invece che questa ipotesi non si verifichi ci si servirà della legge elettorale vigente, basata sul sistema proporzionale puro. Considererei un tradimento della democrazia trasformare in maggioranza una minoranza, fosse pure del 49 per cento. La legge attuale rafforza solo una maggioranza esistente nel Paese ed espressa con libero voto. Per questa ragione il governo chiede la fiducia al Parlamento".

Dico subito che se l'attuale governo avesse adottato la legge del '53, immagino che il Parlamento l'avrebbe votata all'unanimità. Invece non è stato così. Il premio scatta col 40 per cento dei voti. Se sono di meno i primi due partiti (non coalizioni, che sono vietate) vanno al ballottaggio dove molto probabilmente i voti saranno in cifra assoluta molto minori del primo turno. Sarà quindi una piccola minoranza del popolo sovrano a consegnare il potere al partito vincente tenendo conto che probabilmente gli astenuti saranno il 40 per cento e anche di più.
***
Michele Salvati però non la pensa così. Salvati non è persona culturalmente da poco. Avrà dunque le sue ben motivate ragioni alle quali mi sembra doveroso dare voce.

"Il dissenso della minoranza del Pd arriva a riassumere il vecchio slogan di minaccia alla democrazia già usato al tempo di Berlusconi. Ma quali tabù ha toccato Renzi per suscitare questa reazione? Si tratta del passaggio da un partito di notabili in servizio permanente effettivo ad un partito del leader il quale giudica quando il tempo delle mediazioni è finito. Il governo del leader non è una minaccia della democrazia ma il tentativo di conciliare la democrazia con la decisione nella consapevolezza che la vera minaccia per la democrazia è la sua incapacità di decidere ".

Caro Salvati, è un po' forte affermare che la democrazia è incapace di decisioni. La conseguenza logica è dunque di abolirla. È questo che tu vuoi? Allora è vero che la minaccia c'è e del resto lo si vedrà.
La risposta viene da Ainis: "La riforma del Senato toglie un contrappeso e rafforza il sovrappeso dell'Esecutivo, mentre fa dimagrire l'opposizione con la soglia del 3 per cento. Così in Parlamento si fronteggeranno un polo e una poltiglia. Non basta trasformare i deputati in soldatini; la governabilità ottenuta con i numeri è una formula rozza e fallace".

Ancora più netto è Valerio Onida, presidente emerito della Consulta, che la vede in questo modo: "La mia valutazione su quella legge è decisamente negativa. C'è un allontanamento da un genuino sistema parlamentare in favore del potere personale di colui che conquista la carica di primo ministro. Pretende che un solo partito occupi la maggioranza assoluta dei seggi anche se non rappresenta la maggioranza degli elettori e dei votanti. Un vero premio di maggioranza dovrebbe spettare ad una vera maggioranza che abbia ottenuto più del 50 per cento dei voti (De Gasperi). Questa invece è una legge che trasforma in maggioranza dei seggi la minoranza più forte. Il ballottaggio a sua volta dà la vittoria ad uno dei due competitori qualunque sia il livello del suo consenso e che sia minore degli elettori al secondo turno. Il problema è dunque la creazione di una maggioranza che può non essere tale e che per di più dà luogo ad un governo monocolore".

A me pare che non ci sia altro da aggiungere. Ricorderò soltanto, per fare sfoggio d'una modesta cultura in questi argomenti, che ai primi dell'Ottocento uno dei maggiori filosofi e pensatori di quella epoca, Wilhelm von Humboldt, sostenne la diminuzione dei poteri del Cancelliere in Prussia e riaffermò che la libertà era il solo vero valore da perseguire. Lo Stato doveva aver un compito puramente negativo: impedire tutto ciò che può indebolire la libertà del singolo. Questa è la base d'ogni liberalismo che sia veramente tale. Un'ultima osservazione credo si debba fare sulla funzione politica dei sindacati dei lavoratori. Molti sostengono che la politica del sindacato si esercita solo attraverso i contratti, ma non è così. I grandi sindacalisti di questo Paese stipulavano i contratti con la controparte ma avevano anche un'attività politica di estrema importanza. Faccio i nomi di Di Vittorio, Lama, Trentin, ma altri ancora potrei farne. Il sindacato visita la sinistra tutti i giorni del calendario. Bisognerebbe ricordarselo.

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03 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/03/news/e_la_risorsa_del_suo_mestiere_con_la_donnetta_col_cavaliere-113407301/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Chi comanda da solo piace a molti, ma ferisce la democrazia.
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2015, 09:35:06 am
Chi comanda da solo piace a molti, ma ferisce la democrazia

Di EUGENIO SCALFARI
17 maggio 2015
   
Accade in tutte le trasmissione televisive che, oltre a diffondere informazioni sui fatti avvenuti in quel giorno, cercano anche di capire e di far capire al pubblico che le ascolta qual è il giudizio che gli italiani danno sui vari protagonisti della vita pubblica del nostro paese. E poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: "Che cosa pensa di Renzi?". Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata. Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: "Che cosa è il popolo italiano? Che cos'è la destra e cos'è la sinistra?".

Questo tema me lo sono posto da tempo e da tempo lo studio; sono infatti domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c'è) non si formano da un giorno all'altro e neppure da un anno all'altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d'esser chiamato sovrano; c'è una storia che l'ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso. L'Inghilterra moderna inizia a formarsi con la guida della grande Elisabetta, all'inizio del Seicento; la Francia più o meno nello stesso periodo con Enrico di Borbone e poi con il Re Sole, Luigi XIV; idem la Spagna con Filippo II e la Germania con Carlo d'Asburgo; la Russia con Pietro il Grande e poi con Caterina. Insomma l'Europa moderna nacque sotto il potere assoluto dei monarchi, ma insieme a loro nacque una nobiltà di spada, una magistratura, una borghesia mercantile e culturalizzata.

Tre secoli dopo quella borghesia rovesciò i poteri assoluti e diventò la classe dominante. Ma un secolo dopo anche i lavoratori presero coscienza e nacque il socialismo. Questa, ridotta in pillole, è stata la storia d'Europa con i suoi pregi e i suoi difetti come avviene sempre e dovunque nella vita di cui la storia è il racconto. E in Italia? Anche da noi il tema si pose in quello stesso periodo e furono molti a studiarlo e a tentare di risolverlo. In alcune regioni, specialmente in quelle centrali del Paese, tentarono di risolverlo la casata dei Medici, alcuni capitani di ventura che fondarono tiranniche Signorie, la casata dei Borgia, quella dei Farnese, quella dei Della Rovere e insomma un Papato intriso di temporalismo. Al Sud dominavano gli spagnoli d'Aragona, a Nord i francesi e poi ancora gli spagnoli e infine gli austriaci. Il Piemonte fu per secoli un principato-cuscinetto e in questo modo, con un lavoro assai lungo e tormentato, alla fine diventò indipendente. Non è caso che proprio di lì nacque quel motore che, dopo le cosiddette guerre d'indipendenza, costruì lo Stato d'Italia, proclamato da Cavour nel 1861 pochi mesi prima della sua morte.

Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. Ritardo che ebbe un'influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all'andamento della vita pubblica. Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba. Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell'Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto. Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c'è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati. Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c'è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un'epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più. Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell'efficienza e della produttività.

* * *

Queste cose del resto le avevano già viste e studiate Machiavelli e Guicciardini cinquecento anni fa. Se vi andate a rileggere Il Principe di ser Niccolò e le Storie del Guicciardini, la descrizione del popolo italiano sembra scritta oggi nella sua essenza etico-politica. Machiavelli sperava che, mettendocela tutta, quel popolo sarebbe cresciuto. Guicciardini invece pensava di no. Purtroppo aveva ragione. Anche Mazzini sperava. Cavour no. Ma lo Stato unitario lo fece Cavour. Mazzini avrebbe voluto uno Stato repubblicano creato dal basso, dalle rivoluzioni popolari. Cavour quello Stato lo conquistò; si avvalse anche di Garibaldi che la pensava come Mazzini ma non fu il popolo contadino a farlo trionfare nel Sud, furono i suoi volontari, quasi tutti del Nord, a farlo vincere a Calatafimi, a Marsala e sul Volturno. Con Mazzini nella rivoluzione di Roma del 1849 aveva perso contro i francesi a porta San Pancrazio sul Gianicolo. A Calatafimi vinse con l'appoggio indiretto di Cavour, ma quando tentò da solo di conquistare Roma partendo dalla Calabria, il governo italiano lo fermò (e lo ferì) sull'Aspromonte. Andate a rileggervi il Gattopardo o a rivederne il film di Visconti. Il nucleo essenziale della storia d'Italia (democratica?) è tutto lì.

* * *

Due articoli pubblicati sull'ultimo numero de l'Espresso mi hanno molto colpito. Uno è la Bustina di Minerva di Umberto Eco e racconta l'aneddoto di una signora che, parlando della sinistra italiana, si rallegra per una vittoria elettorale del Pd e dice al suo interlocutore: "Che bellezza, abbiamo vinto ed ora possiamo fare un'opposizione coi fiocchi!". Dal che Eco deduce che la sinistra ha nel sangue il suo compito di opposizione per non mescolarsi con il potere corruttore. La sinistra ha una sua vocazione morale prima ancora che politica e se il suo partito vince e cede alla tentazione del potere, allora molti dei suoi militanti l'abbandonano e ne fanno un altro più radicale (come sta accadendo oggi nel Pd).

L'altro articolo è del direttore de l'Espresso, Luigi Vicinanza, che considera le vicende della destra di Berlusconi che per vent'anni l'ha guidata ed oggi che è allo sfascio pretende ancora di guidarla. Secondo Vicinanza quella destra italiana, quand'anche si presenti come moderata e liberale, ha sempre voluto governare a qualunque costo e con qualunque tipo di alleanza con lobby di varia natura, allo scopo di tutelare e rafforzare gli interessi aziendali del Capo nonché delle lobby e delle varie clientele alleate. Questa essendo la natura della destra berlusconiana, la visione del bene comune è sempre finita sotto i piedi e gli interessi particolari hanno avuto la netta prevalenza. Riassumendo: una sinistra che dà la prevalenza alla questione morale ed ha la vocazione dell'opposizione; una destra che si mette il bene comune sotto i piedi e tutela gli interessi privati. Con la conseguenza che un sistema bipolare diventa inesistente e il partito che spregiudicamente ottiene la maggioranza si colloca al centro e riduce le ali a una poltiglia. È appunto quanto sta accadendo.

Queste cose noi le scriviamo da un pezzo e direi che siamo il solo giornale a dirle in modo compiuto e argomentato. Anche sul Corriere della Sera talvolta affiorano diagnosi analoghe. Ricordo un de Bortoli, già dimissionario, che ha chiarito la natura del partito renziano con parole poco riguardose e cito un articolo di venerdì scorso di Gian Antonio Stella che scrive così: "Come è possibile che dopo tante denunce, inchieste e condanne, tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati, tutti i partiti sono alle prese con cacicchi locali, arroccati nei loro feudi e ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? Accade dappertutto, dalla Campania alla Liguria, alle Marche e soprattutto nel Pd dove la Bindi ha aperto un'inchiesta dell'antimafia sui candidati "discutibili" delle liste sulle quali si voterà il prossimo 31 giugno".

Dopo questo ampio quadro di storia passata e contemporanea, posso rispondere alla domanda su Renzi: è uno dei pochi che sa convincere e sa tradurre in fatto politico il consenso ottenuto. Guida un partito di centrosinistra che cerca di prendere voti al centro, al punto tale che ormai è diventato un partito di centro dove lui decide e lui comanda. E fin qui nulla da dire, salvo due osservazioni. La prima: la sua legge elettorale ha organizzato benissimo il potere decisionale della maggioranza, cioè di lui che è il capo del partito ed anche del governo, ma ha completamente dimenticato l'elemento della rappresentanza che non è presente in un partito di "nominati", i quali non sono soltanto i 100 capolista, ma 200 perché si presentano in tre circoscrizioni e se risultano eletti in più di una optano lasciando il posto a chi viene dopo nella lista, che è stato anche lui scelto centralmente. La seconda: l'abolizione del Senato, come già scritto infine volte, indebolisce ulteriormente il potere legislativo a vantaggio di un esecutivo che si concentra nelle mani di un capo che comanda da solo. In questo modo si passa da una democrazia parlamentare ad una democrazia esecutiva, che è cosa del tutto diversa e sommamente pericolosa in un paese come il nostro. Mazzini avrebbe deprecato. Garibaldi si sarebbe ribellato. Machiavelli ne avrebbe avuto il cuore infranto. Guicciardini avrebbe avuto ragione. Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace. Renzi dovrà dunque combattere contro questo paese che lo vuole al potere da solo purché si ricordi di chi gliel'ha regalato. Ce la farà a tenersi alla larga da questa po' pò di tentazione? Dovrebbe avere come esempio papa Francesco, ma personalmente ne dubito molto. È uno scout e Crozza lo descrive meglio di tutti.

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17 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/17/news/chi_comanda_da_solo_piace_a_molti_ma_ferisce_la_democrazia-114537233/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Il conflitto sul potere temporale tra la Curia e Francesco
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:07:18 am
Il conflitto sul potere temporale tra la Curia e Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
24 maggio 2015

È UN po' di tempo che non scrivo sul Papa e del Papa. Spesso ne cito qualche iniziativa, qualcuna delle frasi che quotidianamente dedica ai fedeli che lo ascoltano; mi è anche capitato di esortare alcuni dei nostri uomini politici a seguirne l'esempio perché Francesco non è soltanto il vescovo di Roma che siede sul soglio di Pietro ma, a mio parere, è il più importante personaggio del secolo che stiamo vivendo.

Oggi però dedicherò a lui quest'articolo. Soprattutto per le parole che ha indirizzato all'assemblea generale della Conferenza episcopale italiana e il giorno dopo, durante la messa da lui celebrata a Santa Marta. Sembra a me che in entrambe queste occasioni papa Francesco abbia fatto un passo ulteriore nella strada intrapresa due anni fa dopo il Conclave che lo elesse.

Un ulteriore passo avanti mentre, dietro l'apparenza di una Curia che lo segue quasi unanime nel suo rivoluzionario rinnovamento della Chiesa, l'opposizione curiale si sta organizzando estendendosi anche ad altre Conferenze episcopali, ad altri cardinali e arcivescovi, specialmente in Europa e nel Nord America.

L'Occidente è molto secolarizzato, aumenta la crisi delle vocazioni, si diffonde sempre più il pensiero laico, il numero dei non credenti, degli indifferenti, della religiosità spersonalizzata.
La reazione della Chiesa a questo fenomeno di distacco è quello di arroccarsi nella tradizione, non soltanto teologica ma anche "politica": in Europa e in Usa sta emergendo una sorta di "moralismo " con aspetti di fondamentalismo che hanno come bersaglio Francesco e la sua rivoluzione.

So bene che lui non ama e non si riconosce in questa parola anche perché la sua rivoluzione non è altro che ritrovare le antichissime radici della Chiesa dei primi secoli dell'era cristiana. Da quelle radici l'allontanamento avvenne molto presto e coincise con l'inizio del potere temporale. Francesco sta combattendo da due anni contro quel potere temporale e lo aggancia al Concilio Vaticano II.

Questo è lo scontro in corso e di questo parlerò oggi per chiarirlo anzitutto a me stesso (mettere per scritto i propri pensieri significa soprattutto precisare ed esplicitare ciò che era ancora informe e perfino inconsapevole) e poi a quanti mi faranno l'onore di leggermi.
***
Ho visto pochi giorni fa un vecchio e bellissimo film che ha come protagonisti Robert De Niro e Jeremy Irons ed è intitolato "Mission". Non starò a raccontarlo, ma in qualche modo ha a che vedere con le dinamiche che papa Francesco ha messo in moto nella Chiesa di oggi.

La sostanza del film è il drammatico scontro tra due missionari gesuiti e le potenze coloniali Spagna e Portogallo nell'America del Sud settecentesca. I due missionari guidano una tribù di nativi in una terra vergine sulle sponde di un fiume e di un'immensa cascata. I nativi indios sono di giovane e giovanissima età e i missionari li hanno convertiti a Dio e civilizzati. Ma questo loro ingresso nella vita civile non piace affatto ai mercanti di schiavi che commerciano in quelle terre traendo dallo schiavismo notevoli ricchezze e non piace neppure alle potenze coloniali europee che sono presenti in Brasile, in Uruguay e in Argentina dei quali il fiume è una via d'acqua comune.

Alla fine un arcivescovo gesuita arriva alla Missione che ormai è diventata un villaggio perfettamente organizzato. L'arcivescovo si compiace con i suoi confratelli per aver civilizzato quegli indios, ma gli impone di distruggere il villaggio e rimandare gli indios nella foresta dalla quale provengono. I due missionari non capiscono quello strano modo di ragionare ma l'arcivescovo gli spiega che se la Missione non sarà rinnegata, il villaggio distrutto e gli indios di nuovo inselvatichiti nella foresta, i soldati delle potenze coloniali stermineranno tutti, missionari compresi. Per di più l'arcivescovo ha timore che i governi di Madrid e di Lisbona facciano pressioni sul Papa affinché sciolga l'Ordine dei gesuiti che sta prendendo nelle colonie dell'America del Sud molte iniziative analoghe a quella Mission. Tutto questo deve essere dunque impedito, evitato, represso.

Questa è la storia che il film racconta terminando con i soldati spagnoli che distruggono il villaggio e uccidono i suoi abitanti compresi i due missionari che hanno rifiutato di obbedire al loro arcivescovo.

Questo episodio non è inventato ma realmente accaduto e il film lo racconta con grande efficacia umana. Lo cito perché, senza ovviamente raggiungere quella sanguinosa drammaticità, un conflitto interno alla Chiesa di oggi si sta verificando ed è ancora una volta motivato da uno scontro tra chi vuole abbattere il temporalismo che domina la vita ecclesiastica da sedici secoli e chi vuole a tutti i costi mantenerlo in nome della tradizione.

Il protagonista di questo scontro è un gesuita eletto Pontefice il quale tra le altre sue iniziative proprio in questi giorni ha beatificato  -  la cerimonia ieri a San Salvador  -  l'arcivescovo Oscar Arnulfo Romero che fu ucciso sull'altare mentre celebrava la messa nella cattedrale della sua diocesi di San Salvador trentacinque anni fa dagli squadroni della morte di quel Paese che erano banditi e assassini assoldati dal governo salvadoregno.

La beatificazione di Romero era stata sempre rinviata nonostante le vive pressioni di don Vincenzo Paglia che da molto tempo insiste affinché quel riconoscimento fosse compiuto. Le resistenze erano motivate dal fatto che Romero aveva riconosciuto, aiutato e solidarizzato con gli esponenti della teologia della liberazione, condannati invece e scomunicati da papa Wojtyla per la loro dichiarata simpatia col marxismo e con il ribellismo di Che Guevara.

Papa Francesco queste cose le sa ma ciò nonostante dopo appena due anni di pontificato ha deciso la beatificazione di Romero, il che conferma che i gesuiti "buoni" coltivano dentro di loro lo stesso spirito del fondatore della Compagnia. È vero che ci sono stati anche gesuiti "non buoni" il cui temporalismo raggiunse il culmine proprio nel XVIII secolo in Spagna, in Francia, in Italia. Voltaire e gli Illuministi ne furono gli avversari più fieri bollandoli come reazionari e fautori dell'alleanza del trono con l'altare. Voltaire li definiva infami e quell'infamità raggiunse un tale livello da obbligare la Chiesa a sciogliere l'Ordine che fu poi ripristinato dopo qualche decina d'anni.

I conflitti che agitano la Chiesa si sono verificati anche all'interno della Compagnia. Ma nell'ultimo mezzo secolo la guida di essa è sempre stata riformatrice e moderna, spesso contestata dalla Curia vaticana. Del resto papa Francesco ne è l'esempio più eloquente.
***
La sua allocuzione alla Conferenza episcopale italiana non nasconde alcune differenze tra Francesco e i vescovi riuniti nella sala del Sinodo. Il Papa parla ai suoi confratelli con dolce fermezza e li invita a raggiungere obiettivi nuovi abbandonando quelli ormai non più adeguati al tempo che stiamo tutti vivendo. Ecco alcuni passi che mi sembrano molto significativi.

"Gesù disse: "Voi siete il sale della terra, ma se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato?"... È assai brutto incontrare un consacrato abbattuto, demotivato o spento: egli è come un pozzo secco dove la gente non trova acqua per dissetarsi... La sensibilità ecclesiale comporta di non essere timidi o irrilevanti nello sconfessare e sconfiggere una diffusa mentalità di corruzione pubblica e privata che è riuscita a impoverire senza alcuna vergogna famiglie, pensionati, lavoratori, scordando i giovani, sistematicamente privati di ogni speranza nel loro futuro e emarginando i deboli e i bisognosi. La sensibilità ecclesiale si manifesta anche nelle scelte pastorali dove non deve prevalere l'aspetto teoretico- dottrinale astratto; dobbiamo invece tradurlo in proposte concrete e comprensibili... I laici che hanno una formazione cristiana non hanno bisogno del vescovopilota né di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, economico, legislativo. Hanno invece tutti bisogno di un vescovo-pastore. Ho fatto alcuni esempi di sensibilità sociale indebolita. Mi fermo qui. Possa il Signore mandarci la gioia di riuscire a render feconda la misericordia di Dio con la quale siamo richiesti di dare conforto ad ogni donna ed a ogni uomo del nostro tempo".

Un vescovo-pastore: è questo che chiede Francesco e non è la prima volta che insiste sulla pastoralità come il requisito principale della Chiesa. Riflettiamo con attenzione su questo suo linguaggio: nel lessico tradizionale della Chiesa e nella sua struttura organizzativa e sacramentale, il vescovo è il successore degli apostoli, possiede la potestà di "sciogliere o legare" i fedeli, di amministrare i sacramenti, di interpretare e spiegare i misteri della morte e la nuova vita che ci attende nell'aldilà. I preti sono delegati dal vescovo e svolgono per delega le sue stesse funzioni. Ma in tutte le altre sette cristiane protestanti, il vescovo e i sacerdoti sono soltanto "pastori". E del resto, stando ai vangeli, gli apostoli chiamavano il Signore con la parola ebraica "Rabbi", cioè maestro, cioè pastore.
Il temporalismo protestante  -  con l'esclusione degli ortodossi in Russia  -  è molto debole e quasi inesistente, se non altro perché le sette sono numerose e autonome l'una dall'altra, con scarsissimi poteri di influire sulla politica del Paese in cui operano. Aggiungiamo che tutti i pastori possono sposarsi ed aver figli.

Che Francesco stia operando per avvicinare le sette protestanti alla Chiesa cattolica non è un'interpretazione di chi segue la sua politica religiosa ma è una verità da lui dichiarata e ripetuta continuamente e avvalorata dai contatti continui con le comunità protestanti. Per non parlare della sua politica verso l'Islam: convivenza e amicizia e comuni iniziative perché Dio è unico e quindi non appartiene ad una religione ma a tutte. Questo è il punto di fondo di Francesco e della sua predicazione: Dio non è cattolico, né musulmano, né ebraico. Dio è di tutti. È una rivoluzione rispetto al passato? Mi sembra difficile negarlo e, come tutte le rivoluzioni, pone problemi nuovi ed estremamente ardui da risolvere. *** Il discorso tenuto a Santa Marta potrebbe intitolarsi quello degli addii. Francesco racconta ai vescovi che l'ascoltano l'addio di Gesù e quello di Paolo sulla spiaggia di Mileto. Qui il tono non è quello tenuto alla Conferenza episcopale, perché il vero tema è quello della morte e della resurrezione. Quest'ultima reca gioia, ma l'addio alla vita è soffuso di dolce tristezza ed anche d'un timore  -  forse inconsapevole  -  del dubbio.

"Nell'ultima cena  -  dice Francesco  -  Gesù si congedò dai suoi discepoli. Era triste perché sapeva di andare alla Passione piangendo nel suo cuore e affidandosi a Dio perché Lui era il figlio, figlio di Dio e dell'uomo, e si affidava a Dio. Ecco qual è il significato dell'addio: a Dio. Anche Paolo si congeda e piange pregando in ginocchio sulla spiaggia di Mileto insieme ai suoi compagni di quella comunità. "Ecco, dice Paolo, io non vedrò più il vostro volto e voi non vedrete più il mio. Per questo piango con voi. Ora lo Spirito mi costringe ad andare a Gerusalemme e non so che cosa mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo mi attesta che non mancheranno catene e tribolazioni".

Poi Francesco parla del suo addio. "Bisogna fare un esame di coscienza pensando al proprio congedo dalla vita. Anche io dovrò dire quella parola addio. A Dio affido la mia anima, la mia storia, i miei cari; a Dio affido tutto. Gesù morto e risorto, ci invii lo Spirito Santo perché noi impariamo a dire esistenzialmente e con tutta la forza quella parola: addio".

Questa, diciamolo, non è una rivoluzione ma una profonda umanità. Verso tutti ed anche verso se stesso. Se c'è una persona in questo secolo che stiamo vivendo degna d'essere presa a modello, questa è Francesco Bergoglio. Lui ha già dato ad una umanità frastornata, avvilita, cinica, corrotta, frustrata, un esempio di dignità che tutti dovrebbero tentare di imitare con sincera riconoscenza.

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24 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/05/24/news/il_conflitto_sul_potere_temporale_tra_la_curia_e_francesco-115121599/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Guardando la Giovinezza dalla montagna incantata
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2015, 11:13:43 am
Guardando la Giovinezza dalla montagna incantata

Di EUGENIO SCALFARI
   
AL FESTIVAL cinematografico di Cannes concorrono quest'anno tre film italiani, uno di Garrone intitolato Il racconto dei racconti, un altro di Moretti con Margherita Buy che si chiama Mia madre e l'altro di Sorrentino che viene proiettato proprio oggi (gli altri due sono già stati visti dalla giuria e dal pubblico) e si intitola La giovinezza.

Sono interessanti, anzi belli tutti e tre in modi assai diversi tra loro e tutti e tre degni d'esser premiati, ma naturalmente debbono competere non soltanto tra loro ma con un notevole numero di film stranieri dei quali nulla so ma che i nostri inviati a Cannes hanno già raccontato e recensito insieme agli italiani. I lettori si chiederanno perché mai io intervenga oggi su un tema che può riguardarmi come spettatore ma non certo come critico cinematografico, che non sono mai stato e mai sarò. La ragione è la seguente: il film di Sorrentino si intitola La giovinezza ma in realtà il suo tema è la vecchiaia.

La giovinezza secondo Paolo Sorrentino
Il protagonista è infatti un vecchio impersonato da un bravissimo e assai conosciuto attore inglese che si chiama Michael Caine (nel film Fred) e dal suo amico, l'americano Harvey Keitel (nel film Mick). Le donne coprotagoniste sono tre: Jane Fonda, l'attrice-feticcio di Mick-Keitel; la figlia di Fred, Rachel Weisz e una Miss Universo, interpretata da Madalina Ghenea, bella e sexy che più non si può, che è poco più che una comparsa da guardare e ammirare per come la natura l'ha scolpita. Ovviamente il cast è numerosissimo ed anima il film in cento diversi modi. Il luogo dove si svolge è una spa ai piedi delle montagne svizzere, con una splendida natura di campagna alpina. Non è stato scelto per caso, era l'albergo, che esiste veramente, dove è ambientato uno dei più affascinanti romanzi di Thomas Mann: La montagna incantata.

Questo è il quadro. Dovevo darlo per inquadrare il tema che mi sta a cuore: la vecchiaia e la giovinezza, come la prima guarda e giudica la seconda e viceversa, come il passato si confronta con il presente ed entrambi con il futuro, come infine da questi confronti emergano gioia e sofferenza, bugie e verità, desideri e rimpianti. Insomma la vita. E la morte e la sua immagine.

Sto scrivendo un libro su questo tema che sarà pubblicato tra qualche mese ed ecco perché il film di Sorrentino mi riguarda sia come autore sia come persona gravata da un'anagrafe piuttosto pesante che può essere cambiata ma certo non sconfitta. Ed ecco il primo confronto affrontato nel film: la natura del tempo.


Il tempo scorre dentro di noi con una velocità assai variabile. Per i giovani scorre oggettivamente in fretta: il neonato cresce con grande velocità, prende conoscenza inconsapevole di quanto lo circonda e quella velocità aumenta e raggiunge il suo massimo quando diventa bambino e la conoscenza emerge ed aumenta insieme alla sua struttura fisica. La velocità oggettiva diventa anche soggettiva, nel senso che il bambino e poi il ragazzo e poi l'adolescente, non solo crescono ma si vedono crescere, vogliono crescere, non sono affatto interessati al loro passato ma soltanto al loro presente. Ancora non immaginano il futuro fin quando non spunta quella che a me sembra la stagione fatata dell'adolescenza.

Comincia insieme alla comparsa dei desideri erotici e un iniziale interesse a ricordare un passato ancora molto vicino al presente. Ma con un'apparizione quasi esplosiva, l'anima è invasa dall'immaginazione del futuro. Non c'è differenza tra uomo e donna per quanto riguarda lo scorrere del tempo dentro di te o fuori di te, nel corpo e nella psiche. Naturalmente le immagini che ciascuno ha del proprio recente passato, del futuro che lo attende e del presente che sta vivendo sono diverse da persona a persona; diverse in qualità e in quantità e quella diversità dipende da chi sei nato, dove sei nato, e dalla tua condizione familiare e sociale.

Nel film di Sorrentino il vecchio Fred, che è vecchio ma non vecchissimo e in buona salute con qualche acciacco che l'anagrafe comporta, ha dentro di sé un vivo ricordo del passato. Anzi è proprio il passato che domina i suoi pensieri. È stato un compositore di musica e un direttore d'orchestra. La creatività del compositore c'è ancora, quella di direttore è andata un po' fuori uso, la sua è l'età della pensione e non si sente più la bacchetta tra le mani.

Sua figlia, una gran bella ragazza che gli è molto accanto con affetto, attraversa una fase ancora giovanile nel corpo ma già matura nella mente e il suo legame con il padre influisce su entrambi, mantiene vivi i desideri di futuro del padre e arricchisce la maturità psicologica nella figlia. Con una differenza fra queste due situazioni: la maturazione psicologica della figlia si accresce molto, sia per ragioni di crescita propria e sia per l'influenza paterna; il desiderio di futuro del padre è invece assai debole e non c'è figlia che possa modificarlo. Aggiungo che Fred ha perso la moglie, un colloquio alla pari per età ce l'ha soltanto con l'amico Mick, si amano teneramente ma anche polemicamente tra loro ed appartengono al medesimo genere e questo rende il rapporto molto diverso.

Qui si pone un altro tema che domina il film ma domina anche la vita: l'amicizia. Che cos'è veramente l'amicizia?
Anche io mi sono posto più volte questo tema e l'ho sperimentato ma anche studiato. Cicerone, tanto per dire, lo considerava come uno dei principali sentimenti che riscaldano l'animo nostro e la vita. Montaigne promuoveva l'amicizia al primo posto dei sentimenti umani, molto più dell'amore che secondo lui era una malattia, un disturbo psicologico. Lui del resto era legato profondamente a Etienne de La Boétie , suo allievo e maestro, che morì da lui assistito prima ancora che scrivesse i suoi "Essais".

Io ho sentito e sento molto l'amicizia ma non la metterei sopra l'amore. L'ideale sarebbe quello di ambedue insieme, amore e amicizia; qualche volta viene ma molto di rado e quando accade è una rara fortuna che a me è capitato di avere.

Non mi pare che sia questo il caso di Fred. È un temperamento molto chiuso in se stesso. La figlia gli è di aiuto e anche Mick. Ma lui, nel fondo dell'animo, è dominato da un suo Narciso. Lo sa e lo tiene a catena, non gli permette di mostrarsi, ma c'è. Incatenato ma presente e lo si vede quando, verso il finale, dirige un concerto in onore della regina Elisabetta a Londra. È un gran successo. Forse sarà l'ultimo, ma il suo Narciso per una volta tanto senza catena, ne è visibilmente felice.

È un bel film, La giovinezza, vivace e profondo.

Da - http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2015/05/20/news/guardando_la_giovinezza_dalla_montagna_incantata-114789588/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_20-05-2015


Titolo: EUGENIO SCALFARI, ancora anti-Renzi ma perchè? "Vuole solo" che significa...
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2015, 11:25:07 am
Senza l'Europa federata saremo una pedina sulla scacchiera

Se l'Unione si trasformasse in Stati Uniti Europei, avrebbe qualche possibilità di essere addirittura la Regina del gioco; ma se rimane una Confederazione, ogni Paese sarà una pedina, Germania compresa.
E l'Italia sarà tra quelle più deboli. Il piano di Renzi non punta sulla federazione di Stati. Vuole solo l'accordo sulla crescita e sull'immigrazione


Di EUGENIO SCALFARI
07 giugno 2015

LE ELEZIONI regionali, la scarsissima affluenza degli elettori alle urne, in particolare il Pd in quanto partito e senza le liste d'appoggio ai singoli candidati sceso dal 41 per cento delle europee al 24,9 per cento, mentre il solo partito che ha guadagnato, oltre 250 mila voti, è la Lega di Salvini; la vittoria 5 a 2 del Partito democratico: sono tutti fatti molti rilevanti ai quali vanno aggiunti i disegni di legge sulla scuola e sulla Rai che dovranno affrontare altre contestazioni e - per converso - le discrete notizie che provengono dalle cifre sull'occupazione, peraltro molto fragili e ancora passibili di variazione, sia al miglioramento sia al peggioramento. Ma il primo vero tema da esaminare è quel che avviene nella politica dell'Unione europea della quale l'Italia non è soltanto un Paese membro ma molto di più. L'Italia è anzitutto un Paese fondatore della Comunità europea. Poi, dal 1999, cioè dalla sua nascita, fa parte della moneta comune e quindi dei 19 Paesi dell'Eurozona, azionisti anche della Banca centrale. Infine -  debolezza e forza allo stesso tempo - abbiamo il terzo debito pubblico del mondo dopo il Giappone e gli Usa. Debolezza economica, è evidente, ma con la forza di ricatto politico eventualmente da giocare. Perciò l'Europa è il tema numero uno tra i tanti che affliggono la società globale nella quale ormai tutto il mondo vive. La società globale pone delle regole, che non sono scritte in nessun trattato ma scolpite nei fatti che sono molto più importanti: i trattati si possono cambiare, i fatti no.

E sono questi: la tecnologia ha creato la globalizzazione, l'emergere di grandi potenze di struttura continentale ha dato alla globalizzazione una nuova forma politica. Questo è quanto accaduto negli ultimi trent'anni e quanto ancora avviene con crescente velocità. Tra poco, quei Paesi che non avranno assunto una forma politica di dimensioni continentali diventeranno politicamente irrilevanti. Camperanno lo stesso ma con la forma delle pedine nel gioco degli scacchi: le pedine si muovono soltanto d'un passo alla volta, sempre in una direzione e mai all'indietro, mentre tra loro e spesso contro di loro volteggiano cavalli, alfieri, torri e la Regina che si muove quando e come vuole in tutte le direzioni.

L'Europa, se si trasformasse in Stati Uniti Europei, diventerebbe a dir poco una torre con qualche possibilità d'essere addirittura la Regina del gioco; ma se rimane come adesso una confederazione
di Stati sovrani e soltanto nazionali, ciascuno di loro sarà una pedina, Germania compresa. È inutile dire che tra quelle pedine noi siamo la più debole esclusi Cipro, Malta e la Grecia. Visto che abbiamo un governo che punta sul cambiamento, non spetterebbe ad esso d'esser quello che batte il pugno sul tavolo per ottenerlo? A me sembrava d'aver creduto che il documento presentato e notificato da Renzi a tutte le Autorità europee la scorsa settimana contenesse e indicasse questa politica e ne avevo fatto le lodi al suo estensore. A me Renzi non è molto simpatico, vedo in lui una vena autoritaria che mi desta molte preoccupazioni, ma quando fa un passo positivo credo di essere abbastanza onesto da segnalarlo politicamente e a volte mi inorgoglisce pensare che abbia accettato i miei consigli. Presuntuoso? Forse un po'? Me ne scuso.

Comunque, le mie lodi a Renzi domenica scorsa erano sbagliate, il suo documento all'Europa non puntava affatto sulla federazione degli Stati; voleva l'accordo europeo sulla crescita e sull'immigrazione. La crescita l'aveva già ottenuta sotto forma di flessibilità ma limitata in modo da non incrementare il debito e sempre condizionata agli impegni dovuti al "fiscal compact" cioè alla stabilizzazione del deficit e al pareggio strutturale del bilancio. Quanto all'immigrazione la risposta sostanzialmente è stata negativa. Di Stati Uniti d'Europa Renzi non aveva affatto parlato, anzi....

***
Nel frattempo c'è stato un incontro e un documento comune della Merkel con Hollande su vari e importanti temi: la crescita economica, l'Ucraina, la Gran Bretagna, il rapporto con gli Usa, gli interventi monetari della Bce. E soprattutto il rapporto Francia-Germania di fronte ai movimenti anti-europei e anti-euro, attivi in quasi tutti i Paesi europei e soprattutto in Francia e in Italia. È troppo pensare che, almeno per quanto riguarda Hollande, il vero motivo di questo incontro a due fosse quello di riproporre l'esistenza operativa del direttorio europeo Francia-Germania che negli ultimi cinque o sei anni si era alquanto attenuato se non addirittura spento sotto i colpi della più grave e lunga crisi economica dal 1929 ad oggi? Dell'incontro Merkel-Hollande e dei suoi contenuti il nostro giornale aveva dato per primo la notizia con un'intera pagina di Andrea Bonanni; successivamente ci furono notizie ulteriori sui contenuti e i relativi commenti. Il caso greco e la politica verso l'Europa dell'euro da parte del conservatore inglese Cameron ebbero il loro rilievo da prima scena, insieme agli accordi americani con l'Iran e al prezzo del petrolio. Il direttorio franco-tedesco chiamò a consulto la Commissione di Bruxelles, Draghi e il presidente dell'Eurozona. La Lagarde fu presente come consulente "esterno". Renzi non fu chiamato, evidentemente l'Italia è oggetto e non soggetto di questi vertici. Il motivo c'è: l'Italia vorrebbe cose che le autorità europee non sono disposte a concedere. In Libia ci hanno conferito il comando militare delle operazioni, per ora tuttavia quel comando serve ad evitare coinvolgimenti militari sulla terraferma e ad impedire che i barconi carichi di immigrati escano dalle acque territoriali libiche. Non è granché. Quanto alle quote di immigrati da distribuire in Europa, appare molto difficile progredire: gran parte degli Stati europei (Francia, Spagna, Olanda, Germania, Gran Bretagna) hanno già molti più immigrati dei nostri e noi del resto non riusciamo neppure a ridistribuire tra il nostro Sud e il nostro Nord gli immigrati che affollano la Sicilia e la Calabria. E questo è quanto.

Ma voglio qui ricordare l'ultimo appello che Giorgio Napolitano lanciò al Parlamento e agli italiani alla vigilia delle sue dimissioni. Tra le varie esortazioni che inviava al governo e al Paese c'era quella dell'Unione europea da trasformare in una federazione politica, come del resto prevede il trattato di Lisbona che da alcuni anni giace tuttavia ineseguito. Napolitano insisteva a metterlo in opera, ma finora quell'esortazione non ha avuto nessun seguito. C'è soltanto Draghi che opera in quella direzione ma i suoi strumenti sono soltanto monetari. Spingere il pesante treno europeo in quella direzione trasformando lo strumento monetario in impulso politico non è un compito facile. È la Merkel che bisognerebbe coinvolgere, riconoscendone l'egemonia. La cancelliera ondeggia: una parte di lei vorrebbe gli Stati Uniti Europei sotto la guida tedesca, un'altra parte si ritrae; l'egemonia di fatto è più facile da sopportare (l'egemonia pesa, è una responsabilità angosciante) perché può più facilmente cambiare direzione.

Questa è la situazione e qui l'Italia, se volesse battere il pugno veramente su quel tavolo, avrebbe la forza di farlo e troverebbe forse anche degli alleati. Ma Renzi evidentemente non se la sente perché forse non comprende il problema. O meglio, lo comprende perfettamente ma non si sposa col suo punto di vista. Gli Stati Uniti Europei declassano gli Stati nazionali, che quindi non cessano di esistere ma dentro un livello d'autonomia limitato, come avviene tra un Texas, un Ohio o una California e il potere federale di Washington e della Casa Bianca. Renzi non vuole questo. È uno che conta molto in casa propria fino a quando l'Europa sarà un condominio dove ciascuno dei condomini dice la sua. Pensare che sia lui a battere quel pugno su quel tavolo affinché il trattato di Lisbona sia portato avanti con decisa volontà politica è pura illusione. La settimana scorsa mi ero illuso ma, l'ho già detto, avevo commesso un grave errore.

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Il nostro presidente del Consiglio, che ieri mattina è venuto a Genova al Festival delle Idee di Repubblica per un dibattito con il nostro direttore, ha dinanzi a sé un percorso abbastanza accidentato: la riforma costituzionale del Senato, la legge elettorale, la riforma della scuola, quella della Rai e "last but not least" quella sui partiti. Sono tutte di grande importanza, specie quest'ultima, ma non è singolare che non vi sia in agenda nessuna legge che riguardi l'economia, come invece Draghi va da tempo predicando?

Sul Senato ho infinite volte espresso il mio parere: è opportuno togliere al Senato la facoltà di esprimere la fiducia al governo riservandola alla sola Camera dei deputati. Il Senato però dovrebbe avere, insieme ma separatamente dalla Camera, il compito di controllare l'attività della pubblica amministrazione, governo compreso, oltreché rappresentare e vigilare sul comportamento delle Regioni. Ma Renzi questa riforma non la farà. La minoranza di sinistra del Pd dovrebbe battersi su questo punto, perché esso è essenziale per la democrazia italiana.

Sulla scuola, Renzi cercherà un accordo e probabilmente ne rinvierà la discussione. Si concentrerà piuttosto sulla riforma della Rai per abolire la pessima legge Gasparri ed anche per esercitare il controllo effettivo della più grande azienda della cultura e dell'informazione italiana. Ma il disegno di legge che desta la maggiore preoccupazione è quello che deve organizzare, come la Costituzione prevede, la vita interna dei partiti. Il principio, per quanto è filtrato dalle segrete stanze di Palazzo Chigi, riguarda i criteri che dovrebbero presiedere tutti gli organi che fanno capo allo Stato di diritto. I partiti sono nati per raccogliere il consenso degli elettori, hanno quindi un compito di estrema importanza nella vita politica e i criteri sono tre: quello della maggioranza, quello della rappresentatività e quello della integrità morale dei singoli candidati alle elezioni di qualunque grado e specie. Dalle "segrete stanze" emergono voci che privilegiano il criterio maggioritario, obbligando la minoranza ad obbedire dopo essersi espressa ed ascoltata. Quanto all'integrità individuale prevarrebbe il principio garantista come infatti sta avvenendo per quanto riguarda un sottosegretario alfaniano sotto inchiesta della Procura di Roma e come sta altresì avvenendo con il caso De Luca. Sul finanziamento dei partiti sembra invece che i pareri siano controversi anche all'interno del governo. Il disegno di legge sui partiti è molto preoccupante anche per il fatto che la legge si applica, una volta che sia stata approvata dal Parlamento, a tutti i partiti escludendo quelli organizzati come movimenti. La sua importanza deriva però soprattutto dal fatto che è studiato su misura per il Partito democratico che, sulla base della sua attuale consistenza, è il maggior partito centrista che esista in Europa. In tutti gli altri Paesi europei esiste lo schieramento bipartitico e la maggioranza può spostarsi dalla sinistra alla destra o viceversa. Al centro c'è solo talvolta un piccolo partito o comunque un piccolo gruppo di elettori, ma non esiste esempio di un grande partito collocato al centro, con alle ali una poltiglia o poco più.

Se quindi il Pd sarà congegnato per dare la prevalenza all'attuale gruppo dirigente renziano, quel gruppo avrebbe l'inamovibilità per molto tempo. Non a caso Renzi affermò qualche giorno fa che avrebbe governato fino al 2023. Nove anni di governo. Poi tornerà a vita privata. Che faticaccia!

***
Due parole sul caso De Luca, sul quale è intervenuto recentemente l'avvocato Gianluigi Pellegrino che ha ottenuto la recente ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite. De Luca tra pochi giorni sarà proclamato governatore della Campania e con lui saranno proclamati i consiglieri regionali eletti dall'ufficio elettorale della Corte d'Appello di Napoli. A quel punto deve scattare la sospensione di De Luca in base alla legge Severino, tanto più che il codice penale prevede che "qualora l'atto di sospensione dovesse tardare provocando un favore ad altri, il reato di abuso di ufficio graverà sull'autorità che ha ritardato di compierlo". Nel nostro caso l'abuso d'ufficio graverebbe sul presidente del Consiglio, con le conseguenze che possono risultarne. Questo è il caso De Luca. La procedura è chiarissima. Ne vedremo i seguiti.

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07 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/07/news/senza_l_europa_federata_saremo_una_pedina_sulla_scacchiera-116270459/?ref=HRER2-1


Titolo: SCALFARI non ti viene il dubbio che sia lo Stato a farsi odiare?
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 03:36:31 pm
Il popolo italiano odia lo Stato ma non può farne a meno

Di EUGENIO SCALFARI
14 giugno 2015

 PIÙ passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella.

Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare.

Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti.

Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano.

La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori.

Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia.

È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo.
***
Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti.

La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesie comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle.

Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici.

La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa.

Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese.
Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale.

La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore.

Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione.

Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna.

Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano.

La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia.

Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese.
Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano.

Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini.
Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile.
***
Chiuderò col caso De Luca che in qualche modo è attinente a quanto finora scritto. De Luca è stato un buon sindaco di Salerno. Un po' autoritario, è il suo carattere, ma a suo modo efficiente: un sindaco-sceriffo e forse ci voleva quel requisito. È sotto processo ed è stato condannato in primo grado. I suoi avvocati sostengono che in appello avrà l'assoluzione. È possibile, glielo auguriamo. Ma sulla base della legge Severino un condannato in primo grado per reati di delinquenza corruttiva deve essere immediatamente sospeso per diciotto mesi dalla carica politica che riveste. Nel caso di specie, come ci ricorda l'avvocato Pellegrino, la sospensione deve essere effettuata non appena egli sia stato eletto a una carica politica. Nel suo caso la carica è quella di governatore della Campania. È già stato eletto a quella carica da pochi giorni insieme alla lista dei consiglieri che hanno ottenuto i voti necessari.

Si aspetta di giorno in giorno la proclamazione degli eletti da parte dell'Ufficio elettorale presso la Corte d'appello di Napoli. Sta controllando le schede con l'attenzione dovuta e quando il controllo sarà terminato la proclamazione avverrà.

A quel punto  -  la Severino è chiarissima  -  De Luca deve essere sospeso per diciotto mesi. Lasciarlo in carica fino a quando avrà nominato la giunta di governo e il suo vice che per diciotto mesi governerà la Campania, significa non rispettare la legge e come prevede il codice penale, l'autorità che deve sospenderlo (nel nostro caso il presidente del Consiglio) ritarda un atto dovuto per favorire una persona. Scatta in questo caso il reato di abuso d'ufficio per l'autorità che ha ritardato il provvedimento.

Questa procedura è estremamente chiara e non lascia nessun margine di autonomia come la stessa ordinanza della Corte di Cassazione a sezioni unite ha esplicitamente detto. Non si tratta in questo caso di corruzione ma in qualche modo un'analogia esiste: si compie un favore per averne il ritorno. Non si chiama corruzione ma gli somiglia terribilmente.

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14 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/14/news/il_popolo_italiano_odia_lo_stato_ma_non_puo_farne_a_meno-116812124/?ref=HRER2-1


Titolo: Il Fondatore del nostro giornale racconta i suoi novant'anni di passione...
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2015, 04:06:54 pm
RepIdee 2015: Scalfari: io, un Papa per amico e i miei giornali
Un anno fa l'abbraccio con Benigni a Napoli, oggi quello con Ezio Mauro sul palco del Carlo Felice a Genova.
Il Fondatore del nostro giornale racconta i suoi novant'anni di passione

Di MICHELA SCACCHIOLI
07 giugno 2015
   
GENOVA - Un anno fa l'abbraccio con Roberto Benigni a Napoli. Oggi, a Genova, la stretta carica di affetto con Ezio Mauro, "l'amato successore", sul palco del teatro Carlo Felice. Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica, ha raccontato i suoi 90 anni di vita e di passione, incrociati con quasi un secolo di storia. "A dire il vero - ha subito precisato - ne ho già compiuti 91 e sto marciando verso i 92".

Un percorso unico e complesso che dentro racchiude tante vite diverse: il giornalista, l'imprenditore, il politico, lo scrittore e il romanziere. "Mi stai descrivendo come Leonardo da Vinci", ironizza Scalfari nel commentare la descrizione che fa di lui Simonetta Fiori, sul palco nella giornata che chiude RepIdee 2015. "Attenzione - precisa il fondatore -, non è che nella vita io non mi sia accontentato. Semplicemente, io sono molto curioso".

"La Liguria mi è particolarmente cara - esordisce Scalfari - perché qui si è svolta la parte fondativa della mia vita. Qui ho incontrato Minerva, il pensiero". Il link con Papa Francesco è immediato: "Noi, oltre a inventarci ipotesi scientifiche, ci siamo inventati Dio che nasce con noi e muore con noi. Da non credente ne ho parlato con Bergoglio il quale mi ha risposto così lei mi stimola. Altri mi hanno detto stai attento che ti farai convertire. L'ho raccontato al pontefice e lui mi ha detto non ci provo nemmeno, sennò poi dopo devo trovarne un altro come lei. Ecco, su questo argomento abbiamo cominciato un lungo discorso. Siamo diventati quasi amici".
RepIdee, Scalfari: "Papa Francesco non ha provato a convertirmi"

E' ricca di citazioni la testimonianza di Scalfari: da Mario Pannunzio, direttore de 'Il Mondo' dove un giovane Eugenio cominciò a scrivere nel 1949, all'amicizia con Federico Fellini al rapporto con Carlo Caracciolo. Fratellanze, rapporti ed esperienze che lo porteranno, nel 1976 a fondare Repubblica: "Io non mi proponevo tanto di cambiare il Paese, ma di cambiare il giornalismo". Prima di Repubblica, nasce L'Espresso: "Noi lo chiamavamo 'il lenzuolo', io avevo fatto il funzionario di banca per 5 anni e dunque mi occupavo dell'impianto industriale del giornale".

Già, perché Scalfari ha sempre scritto in giornali di cui è stato anche proprietario: "All'Espresso abolimmo il cosiddetto pastone, decidemmo che si sceglieva una notizia, ci si andava addosso e la si raccontava". Poi si arriva alla nascita del quotidiano - nel 1976 - che l'anno prossimo festeggerà i suoi primi 40 anni di vita, ai rapporti con Piero Ottone, allora direttore del Corriere della Sera che gli disse: "Divertiti" con questa nuova creatura editoriale, "poi quando lo chiudi puoi venire a scrivere da noi". Repubblica invece riuscì a raggiungere il punto di pareggio in meno di tre anni. A seguire, la crescita. "Quando presentai il giornale, dissi che volevamo superare il Corriere della Sera. Immaginate i commenti..."

Un'esperienza che coincide col settennato di Sandro Pertini al Quirinale. E qui riaffiora un altro ricordo intimo e personale: "Nel Psi - ricorda Scalfari - Sandro era considerato un gran rompicoglioni. A me lui piaceva molto. Fraternizzammo quando divenne presidente della Camera. Poi arrivò a chiamarmi la mattina alle 11 quando noi eravamo in riunione di redazione. Diceva io sono un giornalista, voleva interloquire. Era uno spasso".

Tra le particolarità di Repubblica, i 20 anni di direzione di Scalfari ai quali hanno fatto seguito altri 20 anni di direzione affidata a Ezio Mauro: "Una cosa così non esiste in nessun giornale - dice il fondatore -. Tra di noi esiste un rapporto quotidiano, ci sentiamo e ci confrontiamo sui fatti più importanti. Oggi rispetto al passato vado al giornale di meno per via delle gambe che mi si stancano, ma ci continuiamo a raccontare le cose fino in fondo. Per una direzione è un imbarazzo avere sempre un ex direttore tra le scatole, ma lui ha voluto che io avessi un mio ufficio. Certo, a volte non ci troviamo d'accordo, ma non è necessario essere d'accordo. Quel che è utile è il confronto".

Dall'esperienza nei giornali si passa al racconto più intimo. Si scopre un uomo che non nasconde di "essere diventato vecchio a 7 anni", quando non desiderava altro che i suoi genitori si amassero e rimanessero insieme. "Mio padre era un avvocato calabrese che amava mia madre, ma era uno sciupafemmine. Mia madre invece gli era fedelissima. Tra i due c'era un continuo attrito. Quando ho capito che io ero il loro punto d'incontro, sono diventato il padre dei miei genitori. Ero il più bravo a scuola affinché fossero contenti di me, ma detestavo la matematica e allora copiavo i compiti dai miei compagni di classe". Di contro, Scalfari amava molto la fisica teorica, più simile alla filosofia.

Un passaggio rilevante - quasi un debito di riconoscenza - è dedicato alla sua seconda moglie: grazie a lei "ho iniziato un viaggio dentro di me. Rilessi l'Odissea". Un viaggio che oggi continua per un giornalista - un uomo - che ha ancora tanto da raccontare e che ammette: "La storia è caso". Sul palco assieme a lui sale Mauro: un abbraccio li tiene uniti. "Questo abbraccio - confida il direttore alla platea - ce lo diamo ogni giorno, quando ci incontriamo".

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07 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/genova2015/assolo/2015/06/07/news/repidee_2015_genova_scalfari_90_anni_di_passione-116300453/?ref=HRER3-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Sognando gli Stati Uniti d'Europa nel paese dei ciechi
Inserito da: Admin - Giugno 21, 2015, 05:25:32 pm
Sognando gli Stati Uniti d'Europa nel paese dei ciechi

Di EUGENIO SCALFARI
21 giugno 2015
   
HO LETTO CON vivo interesse sulle pagine culturali del nostro giornale di venerdì scorso alcuni appunti inediti dello scrittore portoghese José Saramago che ho sempre considerato uno dei più importanti e geniali del secolo scorso. In qualche modo somiglia ad un altro suo conterraneo, Fernando Pessoa; sono due visionari che colgono il nucleo fondamentale del Novecento, un secolo dove le contraddizioni tipiche della nostra specie raggiunsero un'intensità difficile da riscontrare in altre epoche.

Negli appunti inediti Saramago spiega come è nato il "Saggio sulla lucidità" e perché ha voluto che i protagonisti fossero gli stessi personaggi di "Cecità", romanzo scritto nove anni prima. Un Paese immaginario è chiamato al voto ma nel giorno di quelle elezioni infuria senza tregua un terribile maltempo, fulmini e saette in un cielo nero, inondazioni, vento tempestoso. Tutti chiusi in casa  -  pensa la voce parlante dell'autore  -  mentre la radio che è nella mani dei potenti, dominatori del Paese in questione, esorta gli elettori a recarsi comunque nelle cabine elettorali per compiere il loro dovere civico, che è poi quello di dare una apparenza democratica al partito che ha in mano tutto il potere. E gli elettori obbediscono, escono dalle case e faticosamente vanno alle urne a votare. Il risultato è del tutto inatteso: salvo qualche centinaio tra potenti e loro collaboratori, tutti gli altri hanno votato scheda bianca, ciascuno credendo d'essere il solo a farlo e abbattendo in questo modo il potere dei dominatori.

Mi ha molto colpito perché somiglia terribilmente a quanto accaduto nelle "regionali" di pochi giorni fa e rischia di diventare una crescente tendenza degli elettori italiani. Sono ciechi? Sono lucidi? I potenti di oggi si rendono conto di quanto è accaduto e può ripetersi aumentando sempre di più e sempre peggio? Ne stanno ricercando le cause?

***

Cerchiamo anche noi le cause. Il primo tema da affrontare è l'Europa. Noi siamo in Europa, i nostri principali problemi riguardano l'Europa e la nostra presenza, il nostro ruolo, le nostre capacità di proposta, il nostro sguardo lungo sul futuro di questo continente nella società globale che ci circonda. Alcuni giorni fa il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, scrisse un articolo su Repubblica con un titolo molto significativo: "Così cambiamo il governo dell'Ue". Sullo stesso tema Padoan dette poi alcune interviste ad altri giornali e talk show televisivi. La tesi era chiara: "È necessario un livello crescente di integrazione fiscale basata su un bilancio comune, componente essenziale di qualunque unione monetaria. In una unione monetaria è necessario consolidare la condivisione dei rischi. È vero che nel lungo termine la costruzione di istituzioni più ambiziose potrebbe richiedere una modifica dei Trattati, tuttavia le regole vigenti consentono già oggi di istituire un fondo contro la disoccupazione e un budget dell'Eurozona con finalità diverse dal budget della Ue già esistente". Queste proposte mi hanno molto incuriosito: senza dirlo esplicitamente, secondo me indicano come obiettivo ultimo gli Stati Uniti d'Europa, probabilmente limitato ai Paesi membri dell'Eurozona e ad altri che volessero comunque entrarvi pur mantenendo, almeno in una prima fase, una moneta propria.

Per meglio chiarire gli obiettivi di Padoan ho avuto con lui una lunga conversazione dalla quale sono emersi esplicitamente i seguenti punti: Padoan ritiene che uno Stato europeo federato sia indispensabile in una società globale; ritiene che quest'obiettivo abbia bisogno, per esser costruito, di un periodo di alcuni anni che deve però essere avviato subito; gli Stati membri della Ue hanno già effettuato alcune cessioni di sovranità (per esempio il Fiscal Compact) ma ancora insufficienti: bisogna farne altre e non solo economiche ma anche politiche; per esempio è impensabile che la Bce non abbia un unico interlocutore politico, come è sempre avvenuto in tutti gli Stati. Questa lacuna va colmata. La Bce non può rispondere ai ministri dell'Economia di 19 Paesi, è necessario un ministro del Tesoro unico che rappresenti politicamente l'intera Eurozona.

Ho chiesto a Padoan se aveva concordato con il presidente del Consiglio questi suoi pensieri. Mi ha risposto che quando ritiene opportuno rendere pubbliche le sue idee non consulta nessuno, dice e scrive quello che pensa. Infine gli ho chiesto chi è secondo lui la personalità più impegnata nel suo stesso senso, ammesso che vi sia. La risposta è stata: Mario Draghi. Il presidente della Bce sta ponendo le basi di un'Unione monetaria ben più consistente di quella che esiste attualmente e i risultati li vedremo già nel 2016 e sempre più, fin quando le economie dei Paesi europei saranno arrivate a un tale punto di integrazione che il salto politico diventerà inevitabile e quasi automatico. Non c'è il pericolo  -  ho obiettato  -  che i capi di governo dei Paesi dell'Ue, consapevoli dell'inevitabilità della Federazione europea, ne intralcino il percorso? Il rischio c'è, mi ha risposto, ma contro la realtà è molto difficile opporsi. Solo movimenti antieuropei e che si dichiarano apertamente tali possono bloccare la dinamica europeista, soprattutto disaffezionando i popoli nei confronti dell'Europa. Questo rischio deve essere sgominato.

Personalmente mi auguro che Padoan abbia ragione ed è inutile dire che su Draghi la penso esattamente come lui, ma vedo però il pericolo che una ripresa di nazionalismo non antieuropeo ma fermo alla Confederazione, non sia da sottovalutare. Ne avevo parlato di recente in un'intervista sull'Espresso con Romano Prodi. Aveva idee esattamente identiche a quelle di Padoan ma era più preoccupato di lui sui "confederali" e sul loro "nazionalismo".

La risposta determinante ha un solo nome: la Germania di Angela Merkel. Vuole gli Stati Uniti d'Europa? Io credo di sì, anche perché il Paese con maggiore peso politico in una Federazione sarebbe il suo. Ma i tedeschi, la maggioranza del popolo tedesco, vuole l'Europa federata? Per quanto consta a me, direi di no. Il popolo tedesco è in gran parte autoreferenziale. È convinto  -  sbagliando  -  che la Germania non sarebbe irrilevante in una società globale e navigherebbe nelle acque della globalità anche da sola. Sbagliano, ma ne sono convinti. L'Europa confederale gli va benissimo, ma non più di questo.

Riuscirà la Merkel a convincerli? Questo è l'interrogativo del prossimo futuro. La vera e fondata speranza è che Draghi incastri le tessere di questo complicatissimo mosaico fino a costruire il disegno che noi ci auguriamo. Bisognerebbe che gli europei e gli italiani consapevoli rileggessero la storia di Abramo Lincoln e della guerra americana di secessione. Sarebbe una lettura molto istruttiva e dovrebbero rileggere anche il discorso di Winston Churchill a Zurigo del 1946, appena vinta l'ultima guerra mondiale. L'ho ricordato più volte quel discorso e lo ricordo di nuovo: sosteneva che l'Inghilterra aveva solo due strade dinanzi a sé: entrare a far parte degli Stati Uniti d'America o promuovere gli Stati Uniti d'Europa. E in qualche caso la moneta comune sarebbe stata la sterlina, la lingua ufficiale l'inglese, l'istituzione finanziaria principale la City. Chissà se Cameron se l'è riletto quel discorso e chissà se Tony Blair non faccia il "mea culpa". Sbagliarono tutti in Inghilterra, conservatori e laburisti.

Concludo questo paragrafo citando alcuni passi molto significativi del discorso tenuto all'Accademia americana di Berlino il 17 di questo mese per il conferimento del Premio Kissinger. Eccoli: "Ho dedicato sempre più le mie energie e così continuerò a fare fino a quando la piena unificazione dell'Europa sarà compiuta sulla base di libertà, democrazia e pacifica cooperazione. Il mondo di questi ultimi anni è cambiato radicalmente; esso appare molto diverso dalle aspettative ottimistiche seguite alla fine della Guerra fredda. Questa situazione può essere affrontata solo con l'integrazione europea e la coesione transatlantica, a condizione che l'Europa diventi un attivo partecipante alla costruzione di un nuovo ordine mondiale piuttosto che consumare se stessa nelle proprie problematiche interne. È questo il messaggio che dobbiamo trasmettere ai cittadini e ai leader di oggi". Non si poteva dir meglio, carissimo Giorgio Napolitano.

***

Ci sono molte altre questioni da esaminare ma dedicherò ad esse poche righe perché nei prossimi giorni saranno chiuse in un modo o nell'altro e noi la sfera di cristallo per leggere il futuro non l'abbiamo. La Grecia: entro fine mese la va o la spacca. Personalmente scommetto che si risolverà. Ma è appunto una scommessa.

La riforma del Senato. Anche qui: si farà subito o sarà rinviata? Scommetto che si farà subito questa pessima riforma e questa purtroppo è una scommessa persa in partenza perché la cosiddetta dissidenza interna del Pd non è un diamante che non si spezza.

La "buona scuola" si farà con alcune concessioni di basso profilo, ma il folto popolo dei docenti resterà con l'amaro in bocca e se ne vedranno i riflessi elettorali.
La riforma della Rai. Su questo punto Renzi ha detto cose giuste sulle funzioni di servizio pubblico della principale azienda culturale del nostro Paese. Cose giuste che dipendono però da chi sarà la persona prescelta per guidare culturalmente quell'azienda.

La Cassa depositi e prestiti. Renzi ne ha cambiato la gestione e il profilo. Gli è costato molta fatica perché le resistenze erano plurime, ma alla fine l'ha avuta vinta, compensando in vario modo le vecchie cariche e mettendo al loro posto persone competenti e di riguardo. Ma c'è un punto che è stato alquanto trascurato: la Eurostat che è l'istituzione europea cui è affidata la vigilanza su alcuni mutamenti che avvengono nelle istituzioni economiche dei Paesi membri, sta seguendo con severa attenzione quanto accade e soprattutto accadrà nella nuova Cassa depositi e prestiti. Se si rivelerà una agenzia che interviene di dritto e di rovescio al salvataggio di aziende decotte, l'Eurostat agirà per far rientrare la Cassa nel pubblico bilancio dal quale da tempo è stata tirata fuori. I debiti della Cassa diventeranno in tal modo debito pubblico. Le dimensioni minime di questo ipotetico evento sono di 100 miliardi di euro ma possono essere anche assai maggiori. Qualora si verificasse sarebbe una vera catastrofe finanziaria con ripercussioni assai serie sulla nostra economia.

Infine: i sondaggi del nostro Ilvo Diamanti e del suo istituto, pubblicati venerdì sul nostro giornale, sono assai preoccupanti per il Pd: è passato dal 41 per cento delle europee dell'anno scorso al 32, mentre Salvini è al 14, Forza Italia è anch'essa al 14 e i Cinquestelle al 26. Nel frattempo aumenta l'astensione. Perché? Perché la sinistra di governo non c'è più e i lavoratori che inclusi gli autonomi, le famiglie e l'indotto, sono milioni e milioni, non sono per niente contenti. Fanno lucidamente quello che Saramago aveva previsto nel suo romanzo.

Post scriptum. A proposito di Rai, sere fa ho visto, anzi rivisto dopo anni ed anni, nell'ultima puntata di Fabio Fazio "Che tempo che fa" Renzo Arbore in "Quelli della notte". Un godimento e sapete perché? Perché Arbore è stato il vero grande innovatore della televisione. "Quelli della notte" e prima alla radio "Alto Gradimento" e poi in tv le sue altre trasmissioni, sono state un'innovazione continua, uno scenario volutamente senza copione e  -  come Renzo diceva  -  con un finale sconclusionato. L'uomo è sconclusionato nel senso che è pieno di contraddizioni. Non si riesce a cancellarle quelle contraddizioni perché è impossibile, ma bisogna esserne consapevoli perché solo così vengono tenute a freno e possono diventare un fatto esteticamente apprezzabile. Dall'etica all'estetica, diceva Arbore. Ma se non c'è né etica e neppure estetica, allora sì, è un guaio molto serio.


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21 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/21/news/sognando_gli_stati_uniti_d_europa_nel_paese_dei_ciechi-117334554/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il dubbio di Amleto che dilania noi e l'Europa
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2015, 05:52:32 pm
Il dubbio di Amleto che dilania noi e l'Europa
L'Unione non c'è e la disaffezione dei cittadini nei Paesi membri aumenta. Il che rende ancora più spinoso il problema.
Per Renzi la sinistra coincide col cambiamento che si materializza con le sue riforme. Ma le cose non stanno così.

di EUGENIO SCALFARI
28 giugno 2015
   
IL MASSACRO in Tunisia, gli attentati in Francia, le stragi negli Emirati, l'atteggiamento sempre più ambiguo della Turchia, la lotta tra sunniti e sciiti, il Califfato che prospera sul terrorismo dilagante, locale o etero-diretto, rendono più che mai attuale il dubbio di Amleto: essere o non essere. Ma chi deve porsi questa domanda?

Certamente — e per prima — deve porsela l'Europa. Mai come ora è il continente più ambito, meta d'una umanità povera e disperata, i "senzaterra" come l'ha definita Papa Francesco, ma diviso e disunito in una società globale dove tutti gli Stati che contano hanno dimensioni continentali: gli Stati Uniti d'America, la Cina, l'India, l'Indonesia, il Brasile, la Russia.

Di fronte a queste potenze gli Stati membri dell'Unione europea navigano ciascuno per conto proprio in un mare sempre più tempestoso. Ricordano, quegli staterelli, le barche cariche di migranti che quasi sempre affondano con il loro carico umano. È questa l'Europa? Purtroppo sì, è questa e l'abbiamo più volte ripetuto, ma il terrorismo crescente ha reso il tema dell'unità europea ancor più attuale.

Il nostro è il continente più ricco di antica ricchezza, tecnologicamente il più avanzato, più popoloso degli Usa, della Russia, del Brasile, ma privo di forza politica e paradossalmente deciso a non volerla acquisire, incapace di risolvere i problemi dell'immigrazione, incapace di riportare alla legalità e alla pacificazione un Paese come la Libia che è la nostra frontiera mediterranea, incapace di darsi una "governance" federale, in grado di affrontare i problemi che la società globale ci porrà in misura sempre più crescente.

Essere o non essere? Amleto scelse di non essere e fece la fine che Shakespeare ci racconta, noi europei stiamo facendo altrettanto e se non vi poniamo al più presto riparo faremo la stessa fine. E se ci domandiamo il perché di questo volontario nichilismo, la risposta è molto semplice: i nostri Stati confederati non vogliono federarsi perché le loro classi dirigenti politiche non sono disposte a cedere la loro sovranità. Aggiungo: neppure la "governance" europea è disposta a costruire un quadro istituzionale diverso da quello esistente. Basta osservare ciò che è accaduto nelle ultime settimane e negli ultimi giorni in occasione delle trattative sull'immigrazione, sul caso greco, sul caso ucraino. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione di Bruxelles, ha rimproverato il presidente del Consiglio dei capi di governo europei, il polacco Donald Tusk, che secondo lui era andato oltre le sue competenze. Il suddetto Tusk dal canto suo aveva appoggiato la tesi dei Paesi dell'Est europeo (tra i quali il suo paese, la Polonia) contro le quote sulla base delle quali ridistribuire l'immigrazione. Tusk sapeva che il tema delle quote stabilirebbe una equa ripartizione degli immigrati, ma il patriottismo di bandiera l'ha avuta vinta.

Questo episodio tuttavia dimostra che Tusk ha una carica priva di veri poteri presidenziali: è un polacco che si limita a presiedere il Consiglio dei capi dei governi e nulla più.

Quanto al caso greco, solo in queste ore le Autorità europee dimostrano fermezza che avrà come probabile soluzione il "default" di quel Paese. Se avessero potuto e voluto dimostrarlo tempestivamente, se la Grecia fosse stata come uno Stato americano nei confronti delle decisioni prese dalla Casa Bianca e dal Congresso, quello che sta accadendo non sarebbe accaduto. Anche la California è andata in fallimento ma è stato suo il problema di risanare le sue finanze che non incidono sul bilancio federale e sul debito sovrano degli Stati Uniti.

Insomma l'Europa non c'è e la disaffezione dei cittadini dei Paesi membri, i 28 dell'Ue e i 19 dell'eurozona, nei suoi confronti tende ad aumentare, il che rende ancora più spinoso il problema.

Se la Germania prendesse l'iniziativa, se le varie autorità europee si ponessero sulla stessa linea, se i governi nazionali accettassero il loro declassamento e la federazione con un suo regime necessariamente presidenziale, allora il finale shakespeariano sarebbe diverso. Ma temo che tutto ciò non accada. A meno che Draghi, usando i suoi strumenti economici, non ce la faccia.

***

Il dubbio amletico riguarda anche l'Italia? Anche noi, la nostra classe politica, ci dobbiamo porre la domanda del " To be, or not to be " in casa nostra?

Purtroppo sì. In Europa dovevamo essere i primi a volere e a proporre gli Stati Uniti federati, ma in Italia ci dovevamo porre un problema più che mai sovrastante su tutti gli altri: noi siamo un Paese particolarmente anomalo, siamo il solo in tutta Europa dove il maggior partito  -  pur se in forte declino nei sondaggi attuali  -  è il centro dello schieramento politico. Una destra decente non c'è, la sinistra non c'è più. Ci sono gruppuscoli animati da buone intenzioni ma velleitari.

Renzi sostiene che la sinistra coincide con il cambiamento, il quale si materializza con le riforme. Lui le riforme le sta facendo mentre tutti gli altri governi precedenti (dice lui) non le fecero, quindi il cambiamento è in moto e questa è la sinistra. Forse ne è convinto e anche il suo "cerchio magico" è dello stesso avviso, ma le cose non stanno così. Riforme e cambiamento possono essere di sinistra, ma possono anche essere di destra o senza alcun segno che dia loro un colore politico.

Il "Jobs Act" per esempio non è di destra ma tantomeno di sinistra. Dà una prospettiva al precariato, ma concede alle imprese il licenziamento collettivo senza reintegro. La riforma del Senato nel testo finora approvata dalla Camera, diminuisce le prerogative del potere legislativo e aumenta enormemente quelle dell'esecutivo. È una riforma di sinistra? Affatto.

La riforma elettorale con un premio di maggioranza per chi ottiene il 40 per cento dei voti espressi è una riforma di sinistra? Proprio no. Nessuno ha mai dato un premio a chi non abbia raggiunto la maggioranza assoluta e anche di quest'ultima c'è il solo caso della cosiddetta legge truffa varata da De Gasperi nel 1953.

L'abuso delle leggi delega che vengono ormai proposte su tutti i temi e abbassano drasticamente i poteri del Parlamento, sono una prassi di sinistra? L'uso e l'abuso dei maxi-emendamenti è di sinistra? Venerdì scorso Michele Ainis sul "Corriere della Sera" ha citato un maxi-emendamento di 25mila parole e un articolo che aveva centinaia di commi con rinvii ad altri commi di altre leggi vigenti. Trasparenza? Zero.

Qualche giorno fa l'attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, lamentava l'assenza di un concetto serio di sinistra. La stessa affermazione ha fatto più volte Laura Boldrini, presidente della Camera.

Nel frattempo le astensioni ammontano al 52 per cento e il Partito democratico renziano è sceso dal 41 al 32 per cento. Sono sondaggi, fotografie dell'oggi. Possono cambiare se cambierà la congiuntura economica. Ma la sinistra non c'entra con la congiuntura se essa avesse come esito sociale un aumento delle disuguaglianze. La vera sinistra o se volete la sinistra moderna è liberal-democratica, vuole maggior benessere per tutti ma eguaglianza nelle posizioni di partenza, come tante volte sostenne ai suoi tempi Luigi Einaudi. Se il cambiamento non è questo, la sinistra continuerà a non esserci e noi resteremo l'unico Paese governato dal centro. Una assai sgradevole prospettiva. Ricordate le parole di papa Francesco: "Ama il prossimo tuo un po' più di te stesso" e fatene tesoro.

***

Sul caso De Luca, Renzi alla fine si è comportato come bisognava fare: ha sospeso De Luca prima ancora che si insediasse, nominasse la giunta e il suo vicepresidente. Insomma ha applicato il dettato della legge Severino. Molto bene. Vedremo adesso che cosa accadrà. Ci saranno ricorsi in quantità e alla fine spetterà al Tribunale di Napoli decidere. È probabile che si finisca con un commissario e nuove elezioni.

Il caso Marino è diverso ma in qualche modo analogo: Roma è diventata una città inguardabile e non può restare così. Il Pd renziano è largamente partecipe allo scandalo Mafia-Capitale. Il commissario del partito, Orfini, ha subìto minacce gravi da personaggi para-mafiosi ed è sotto scorta per tutelarlo. Fabrizio Barca e i suoi collaboratori volontari che hanno esaminato, su mandato della direzione del partito, l'attività dei circoli romani giudicandone alcuni buoni, altri mediocri ed altri pessimi, ricevono continuamente crescenti minacce dagli esponenti dei circoli che hanno ricevuto qualifica negativa e anziché correggersi manifestano desideri di vendetta.

Insomma resta la domanda: essere o non essere? Renzi fa quel che può ed è certamente bravo. Vende bene il suo prodotto. Ma se il prodotto non c'è o non è buono? In Italia e in Europa? Allora che faremo noi elettori quando le urne si apriranno e il popolo sovrano (?) dovrà scegliere?

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28 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/28/news/il_dubbio_di_amleto_che_dilania_noi_e_l_europa-117853094/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Francesco, Papa profeta che incontra la modernità
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2015, 05:37:26 pm
Francesco, Papa profeta che incontra la modernità
Dall'Enciclica ai Valdesi, ecco chi è veramente Jorge Mario Bergoglio

Di EUGENIO SCALFARI
01 luglio 2015

Bisogna rileggere il "Cantico" di Francesco d'Assisi, che proprio per questa rilettura è stampato in questa pagina e che papa Bergoglio ha posto come titolo della sua prima Enciclica. Esso illumina tutto il documento del Papa, spiega perché Bergoglio ha preso il nome di Francesco che non era mai stato usato nei duemila anni di storia della Chiesa e soprattutto dà significato e risposta ad una domanda che molti, fedeli e non fedeli, si sono posti: perché mai papa Francesco dedica la sua prima Enciclica all'ecologia? Non ci sono altri problemi assai più pressanti e drammatici in questi tempi oscuri che stiamo attraversando? Certo che ci sono e papa Francesco li affronta uno dopo l'altro in tutta la loro plenitudine, cominciando da quello della povertà, dall'emigrazione di interi popoli ormai senza terra, dalle guerre che dilaniano il mondo, dall'imperante egoismo, dall'intollerabile diseguaglianza economica e sociale. Lui non si rivolge soltanto ai cristiani ma a tutti gli uomini che Dio ha creato con la terra affidando essi alla terra e la cura della terra a loro, cioè a noi.

Tutti i commentatori dell'Enciclica che in questi giorni ne hanno letto il testo, hanno concordemente sottolineato questi "passaggi" dandone ovviamente diverse interpretazioni. Perciò a me, che volontariamente non sono finora intervenuto su temi che mi hanno sempre interessato e che nei mesi scorsi ho più volte avuto l'occasione di discuterne direttamente con papa Francesco, non resterebbe che prendere atto sia dell'Enciclica sia della preparazione del Sinodo che avrà luogo nel prossimo ottobre sia degli interventi di Francesco avvenuti subito dopo la pubblicazione dell'Enciclica sia del suo incontro con i Valdesi a Torino e sia infine dei commenti che quest'immensa mole di lavoro religioso e pastorale ha provocato, per uscirne più ricco di conoscenza.

Certamente è così, ne esco arricchito e più informato della politica religiosa che Francesco porta avanti con ritmo sempre più serrato. Ma mi pongo due domande che meritano approfondimento e risposta: chi è veramente papa Francesco? E chi è veramente Jorge Mario Bergoglio?

Ogni Papa ha tratti salienti che configurano il ruolo che ha avuto nella storia del cristianesimo. Ma quel ruolo e gli effetti che ha provocato sulle società dell'epoca in cui quel Papa visse e operò derivano dalla personalità dell'uomo che a un certo punto della sua vita fu chiamato a sedersi sul trono di Pietro. Il carattere della persona determina la carica che ricopre, ma accade nello stesso tempo che la carica crea lineamenti nuovi in quella persona. Rispondere a quelle due domande che mi sono poste è ormai non solo possibile dopo due anni di pontificato, ma necessario per capire quanto sta accadendo nella Chiesa e quanto probabilmente accadrà fin quando sarà Francesco ad esercitare il suo magistero sulla cattedra di Pietro.
***
Francesco non è più soltanto un Papa, ma un Profeta, anzi soprattutto un Profeta e un Pastore. Ch'io sappia non era mai avvenuto prima di Lui, Papi pastori forse sì, qualcuno, pochi comunque. Abbondano nella storia della Chiesa Papi diplomatici o guerrieri o mistici o liturgici o legislatori o organizzatori. Profeti no, non ce n'è stato nessuno. Paolo di Tarso fu anche profetico oltre che legislatore e fondatore della religione cristiana; Agostino altrettanto e Girolamo e Bonaventura e Anselmo e Francesco d'Assisi e molti altri, ma non erano Papi, non erano vescovi di Roma. Francesco invece lo è. Dobbiamo dire che l'eccezione conferma la regola e che dopo di Lui non ci sarà alcun altro come Lui? Temo di sì, temo che resti un'eccezione, ma la spinta che sta dando all'"Ecclesia" avrà profondamente cambiato il concetto di religione e di divinità e questo resterà un cambiamento culturale difficilmente modificabile.

Ma perché dico Profeta? In che cosa consiste la sua profezia e il suo concetto di divinità? Dio è Uno in tutto il mondo e per tutte le genti. Naturalmente l'affermazione vale soltanto per chi ha fede in un aldilà e in un Creatore.

L'unicità del Dio creatore esclude ogni fondamentalismo, ogni guerra di religione, ogni divinità plurima. La stessa Trinità, mistero della fede cattolica, cambia natura e Francesco l'ha detto più volte e proprio nei giorni scorsi ancor più chiaramente a Torino quando ha risposto alle domande di tre giovani di fronte a migliaia di persone radunate per ascoltarlo.

Ha detto che lo Spirito Santo è lo Spirito di Dio che suscita nel cuore degli uomini la vocazione al bene e il Figlio è Dio che ama le sue creature e suscita l'amore umano in tutte le sue caste forme. Questa è la Trinità: non più il mistero della fede ma l'articolazione dell'unico Dio, misericordioso, amoroso, creatore e quindi Padre. La misericordia è infinita, il peccato fa parte delle contraddizioni insite nel Creato, necessaria ricchezza di ogni singola creatura che non è il clone delle altre. Le contraddizioni contengono amore, perdono, ma anche rabbia per i torti subiti e vergogna per quelli compiuti contro gli altri. Nelle contraddizioni c'è ricchezza e peccato insieme. La misericordia del Padre viene trasmessa anche alle sue creature e sono i Pastori a insegnarla e a praticarla, essi per primi.
Forse papa Francesco non ha ancora tratto una conseguenza teologica da questa sua visione profetica che sta portando avanti ogni giorno: Lui non è più il Vicario di Gesù Cristo in terra, ma è il Vicario di Dio perché Cristo non è che l'amore di Dio, non un Dio diverso che s'incarnò, visse 33 anni, cominciò la predicazione a 30 anni e fu crocifisso quando l'imperatore Tiberio era stato appena insediato dal Senato dopo la morte di Ottaviano Augusto.

I vangeli raccontano quella storia, ma gli evangelisti  -  tranne forse Giovanni  -  scrissero racconti di seconda mano e non conobbero mai il Gesù di cui descrivono la vita e la predicazione. Quanto a Paolo di Tarso, fondatore della religione che da Cristo prese il nome, egli non conobbe e non incontrò mai Gesù di Nazareth. Eppure fu proprio Paolo il fondatore. Fosse stato per Pietro, il cristianesimo sarebbe rimasto una setta ebraica, definita dai suoi seguaci "ebraico-cristiana" come all'epoca ce n'erano molte: i Farisei, gli Esseni, gli Zeloti ed altri ancora, con al vertice il Sinedrio che amministrava la Legge e il Tempio che ne era la sede.

Così era concepita la comunità ebraico-cristiana guidata da Pietro e da Giacomo, che Paolo costrinse ad uscire da Gerusalemme e ad aprire la nuova religione da lui fondata al mondo circostante, nel Medio Oriente, in Grecia, in Egitto, a Roma e di lì in tutti i territori dell'Impero cioè tutta l'Europa.

Il Gesù raccontato dai vangeli probabilmente è esistito, probabilmente ha predicato. La sua persona è stata teologizzata, le comunità cristiane hanno creato una dottrina, una liturgia, un diritto canonico. Nei testi derivanti da quella dottrina Dio viene anche definito come il Dio degli eserciti. Il senso di questa definizione è duplice: eserciti di fedeli o eserciti di guerrieri, combattenti nelle Crociate, nell'Inquisizione, nelle guerre delle potenze europee nelle quali la Chiesa in vario modo è intervenuta. Il potere temporale del Papa l'ha indotto a partecipare ad alleanze o a guerre con la Spagna, con la Francia, con l'Austria, con l'Impero, con Venezia.

Questo è stato il Papato fino al 1861 quando fu proclamato il Regno d'Italia. Non per questo il potere temporale dei Papi finì. Continuò e in parte continua tuttora e Francesco ha impegnato contro di esso la sua lotta. La sua visione è una Chiesa missionaria in cui la Chiesa istituzionale rappresenta soltanto l'intendenza, destinata a predisporre i servizi dei quali la Chiesa missionaria ha bisogno.

La vera politica di Francesco è quella di riunificare il cristianesimo, foglia dopo foglia, ramo dopo ramo. Nei giorni scorsi ha incontrato il rappresentante della Chiesa valdese. Non era mai avvenuto un incontro simile. I Valdesi erano catari, un movimento scismatico che arrivò in Italia dall'Europa centrale, attraversò tutta la pianura Padana, giunse a Marsiglia ostacolato e combattuto in tutti i modi e a Marsiglia fu massacrato dalle truppe francesi, incoraggiate e benedette dalla Chiesa di Roma che si assunse la responsabilità di quel massacro.

Pietro Valdo faceva parte di quella comunità ma, arrivato nelle valli piemontesi, decise di fermarsi. Subì anche lui assalti e vessazioni di ogni sorta. Non sono molti i valdesi ma religiosamente sono una comunità importante e rispettata.

Ebbene, papa Francesco li ha incontrati a Torino pochi giorni fa e a nome della Chiesa cattolica ha invocato il loro perdono; i Valdesi lo hanno ringraziato "dal profondo del cuore". Si rivedranno presto e apriranno un discorso più impegnativo. L'obiettivo di Francesco è di aprire la Chiesa a tutte le comunità protestanti e riunirle. Dio è unico e i cristiani debbono tornare ad essere un'unica religione, ma non basta. Non a caso Francesco è aperto anche con i musulmani perché il loro Dio è il medesimo dei cristiani.

Non è profetico questo pensiero? E non è profetico il titolo dell'Enciclica? Il Santo di Assisi ringrazia Dio per la morte corporale che è prevista dalla creazione. È un dono la morte. Ecco perché dico che Francesco è il Vicario di Dio, che lo Spirito Santo ha deciso di porre sul soglio di Pietro.
***
Ma Jorge Mario Bergoglio era così anche prima di diventare Papa? La carica che riveste ormai da due anni l'ha cambiato o è lui che ne ha cambiato il ruolo?

Ho incontrato papa Bergoglio quattro volte e ho scritto spesso su di lui. Mi permetto di dire che siamo diventati amici. Se Dio è unico in tutto il mondo anche la Chiesa non può che essere una e proprio perché è una dovunque non può e non deve occuparsi della politica. Libera Chiesa in libero Stato era il motto di Cavour ma direi che ora è anche il motto di Bergoglio. L'altro motto di cui è stato proprio Bergoglio a indicarmi in uno dei nostri incontri è: "Ama il prossimo tuo più di te stesso". Con quella frase si rivolge all'intera società del mondo e ai ricchi soprattutto perché sono loro che debbono donare e la ricompensa è soltanto nel donare senza nulla pretendere in cambio se non l'amore di Dio.

Bergoglio sa perfettamente che il mondo sta vivendo in una società globalizzata, sa che c'è un popolo di "senzaterra" di oltre sessanta milioni di persone che vagano per il mondo in cerca di dignità e di vita.

Infine Bergoglio si è anche proposto di cambiare la struttura della Chiesa che finora è stata verticale. Vuole affiancare a quella verticale anche una struttura orizzontale: i Sinodi dove convengono i Vescovi di tutto il mondo. Da questo punto di vista ha adottato l'idea centrale del cardinal Martini del quale era buon amico e che votò per lui nel Conclave dal quale uscì Papa il cardinale Ratzinger.

Una Chiesa verticale ed orizzontale: questa è la struttura che Francesco sta attuando e con essa un rilancio religioso delle Conferenze episcopali che debbono operare tutte in terra di missione poiché la Chiesa dev'essere ovunque missionaria.

Ho chiesto in uno dei nostri incontri a papa Francesco se non sia il caso di convocare un nuovo Concilio che prenda atto e dia il suo sigillo a tutte queste novità, ma Lui mi ha risposto: "Il Vaticano II pose come suo principale obiettivo quello di incontrarsi con il mondo moderno. Questa dichiarazione conciliare è importantissima ma da allora non ha mosso un solo passo avanti. Perciò non ho alcun bisogno di convocare un altro Concilio, debbo invece applicare concretamente il Vaticano II ed è questo che sto tentando di fare: l'incontro con la modernità".

Quest'incontro solleverà problemi enormi: la modernità occidentale è nata dall'illuminismo ed è approdata al relativismo, non c'è nulla di assoluto a cominciare dalla verità. Francesco naturalmente risponde a questi problemi sottolineando l'importanza della fede, ma non toglie che l'incontro con la modernità susciterà problematiche del tutto nuove che soltanto un Papa-profeta può intravedere e gestire. Gli auguro lunga vita, convinto come sono che è Lui la figura più rilevante del secolo in cui viviamo.
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01 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/07/01/news/francesco_papa_profeta_che_incontra_la_modernita_-118048516/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Non navi d'alto mare ma scialuppe senza un futuro
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2015, 10:16:04 am
Non navi d'alto mare ma scialuppe senza un futuro

Di EUGENIO SCALFARI
05 luglio 2015
   
SAPREMO questa sera il risultato del referendum greco, ma fin d'ora possiamo prefigurare quello che avverrà dopo e perché. Se ne è scritto molto nei giorni scorsi e tutti i protagonisti in Grecia e in Europa e i commentatori hanno manifestato diagnosi e suggerito terapie.

La grande maggioranza, direi anzi la totalità, concorda sull'esito finale: la Grecia non deve uscire dall'euro e dall'Unione europea. Non solo sarebbe uno smacco ma metterebbe in moto uno sfascio generale dell'Unione che nessuno vuole, neppure i greci e neppure il loro attuale governo. Con una sola eccezione tuttavia: la Lega di Salvini e il partito della Le Pen. Sono nazionalisti anti-europei, sono protezionisti in economia e si oppongono ad ogni forma di immigrazione.

I 5Stelle non arrivano fino a questo punto ma in parte lo condividono, almeno per quanto riguarda Grillo e Casaleggio; tra i parlamentari cinquestelle no, non sono né l'euro né l'Ue i loro bersagli.
Per capire l'essenza di quanto sta accadendo (e non da qualche mese ma da alcuni anni) bisogna distinguere tra Autorità europee, singoli Paesi membri dell'Unione, opinione pubblica.

Le Autorità europee, intese come Commissione, Eurogruppo, Bce, vogliono che l'attuale sistema dell'Unione resti in piedi e nella misura del possibile faccia passi avanti verso una crescente integrazione economica. I governi confederati si rassegnano ad una normale integrazione purché non metta in discussione la sovranità politica. Non vogliono essere federati, non vogliono gli Stati Uniti d'Europa che li declasserebbero.

Vogliono una politica di crescita economica ed una flessibilità da attuare attraverso una politica di "deficit spending" di carattere keynesiano, che ogni governo attuerebbe secondo le proprie necessità e capacità. Naturalmente questo keynesismo tardivo deve essere concordato tra tutti i 28 Paesi dell'Unione e soprattutto con i 19 che hanno la moneta comune.

Come possiamo definire questa politica? Direi: nazionalismo concordatario, la Confederazione non è assolutamente in discussione, è necessaria affinché la porta verso la Federazione sia sbarrata.
Quanto alla pubblica opinione, essa è disaffezionata all'Europa; il suo europeismo era di facciata ma non sentiva l'Europa come una patria. La vera patria è la propria nazione e soprattutto la città dove vive e lavora. Una definizione appropriata? Nazionalismo comunale europeo.

Questa è la diagnosi che credo esatta mentre il popolo greco sta votando. Ma a mio modesto parere la terapia non è affatto quella. La sola efficace è proprio la terapia che tutti escludono e cioè andare veloci verso la costruzione degli Stati Uniti d'Europa.

L'ho scritto e detto più volte. In una società sempre più globale, dove milioni e milioni di persone, i popoli senza terra, sono in incontrastabile movimento e dove gli Stati che contano hanno dimensioni continentali, un'Europa federata sarebbe ai primi posti nel mondo. Ma se questo non avverrà noi usciremo dalla storia; vivacchieremo ai margini, ci impoveriremo gradualmente ma rapidamente, saremo a rimorchio di Stati potenti, decadremo demograficamente. Non saremo navi d'alto mare, ma scialuppe di salvataggio che non salveranno il nostro futuro. Non avremo alcun futuro, i nostri giovani emigreranno.

Il caso greco rende questi ragionamenti assai attuali. Ho fatto più volte il caso della California ma lo ricordo ancora una volta: la California è fallita due volte. Ha dovuto rimettersi in piedi con le proprie forze e guidata dai suoi governatori ce l'ha fatta, ma lo Stato federale non è intervenuto perché il bilancio e il debito della California (grande come l'Italia) non incidono minimamente sul bilancio e sul debito sovrano degli Usa.

Questa è la differenza. Se l'amministrazione federale Usa vuole dare un aiuto alle sue Californie in difficoltà, lo può fare ma il bilancio federale è tutt'altra cosa.

Vedete? Se ci fossero già gli Stati Uniti d'Europa il caso greco non sarebbe esistito nelle modalità che ha ora e che ci lascia tutti  -  greci compresi  -  col fiato in gola. *** In Italia intanto  -  problema greco a parte  -  ci sono altri temi particolarmente incombenti, il principale dei quali è la riforma (o abolizione che dir si voglia) del Senato, strettamente connesso alla legge elettorale. La riforma costituzionale dovrebbe andare all'esame del Senato nell'autunno prossimo oppure l'8 agosto. Nei prossimi giorni comincerà il dibattito nella Commissione Affari costituzionali presieduta dalla Finocchiaro e sarà lei a indicare la trasmissione all'Assemblea. La ministra delle Riforme, Elena Boschi preme per l'8 agosto perché questo è anche il desiderio di Renzi e i due sono una vera e propria coppia (politica ovviamente) che agisce sempre in perfetta sintonia.

Nel frattempo 25 senatori del Pd, il nocciolo duro dell'opposizione interna, hanno firmato un documento che rappresenta una vera e propria piattaforma programmatica che parte dalla riforma del Senato ma, attraverso di essa, raffigura i lineamenti di una sorta di rifondazione del Pd come partito di sinistra. Una sinistra dai lineamenti nuovi e quindi un cambiamento che tuttavia non coincide affatto con il cambiamento sempre evocato dal Renzi rottamatore.

Il documento dei 25 reagisce al cambiamento renziano che viene considerato un cambiamento centrista che vorrebbe, certo, mantenere una presenza a sinistra, ma di fatto, per farla convergere verso il centro. Sembra una differenza più linguistica e bizantineggiante che discute sulle parole ma non sul concreto dei fatti; invece non è così e il cambiamento dei 25 (che probabilmente saranno 28 o 29 al momento del voto) lo dimostra assai chiaramente.

L'opposizione democratica non vuole soltanto un Senato direttamente eletto, accetta ovviamente che la fiducia al governo venga attribuita esclusivamente alla Camera, accetta anche la riduzione del Senato a cento senatori eletti, ma attribuisce ad essi un potere di controllo, di garanzia, e di efficienza del potere dell'esecutivo e ne specifica i temi ovviamente condivisi con la Camera. Riguardano appunto i poteri di controllo sull'esecutivo, un nuovo modo di eleggere il presidente della Repubblica prevedendo un ballottaggio tra i primi due votati dopo cinque votazioni andate a vuoto; la libertà religiosa, i diritti civili, le leggi sul lavoro, tutta la materia delle salvaguardie sociali, l'ascolto frequente delle organizzazioni sindacali e insomma una sinistra che risorga e ridiventi il nucleo essenziale del Pd, con particolare attenzione alla scuola e alla Rai che non può e non deve diventare una agenzia propagandista del potere esecutivo.

Alcune di queste proposte sono, a mio modo di vedere, sbagliate. Per esempio la riduzione del Senato a cento membri, più i senatori a vita. Questa riduzione ha un senso se accompagnata da analoga riduzione dei membri della Camera, altrimenti il peso dei senatori ogni volta che si riunisce il plenum del Parlamento diventerebbe minimo. Ma la sostanza di quel documento è largamente accettabile proprio per ridare al Pd quel carattere di partito progressista che ha largamente perduto.

Se Renzi si rendesse conto della sostanza del problema, avrebbe a mio avviso, una soluzione elegantemente efficace e praticabile. Dovrebbe stralciare dalla legge di riforma il tema della fiducia al governo da riservare unicamente alla Camera e abbandonare tutto il resto. Il bicameralismo non sarebbe più perfetto, ma tranne questa sostanziale innovazione, per il resto tutto resterebbe esattamente così com'è.

Ma se Renzi non vorrà correggere se stesso e proseguirà sulla strada tracciata dalla Boschi, allora questa volta rischia grosso. I 25 o 29 voti dei dissidenti, più quelli eventuali di Fitto e più le opposizioni, rischiano infatti di mettere Renzi in minoranza su un tema capitale. Si salverebbe soltanto riproponendo il patto con Berlusconi, ma se anche questo tentativo non riuscisse, dovrebbe almeno ottenere i voti di Verdini e quelli di Razzi (personaggio immortalato da Crozza). In questo caso si resterebbe sull'orlo di una vittoria o sconfitta dell'ordine di 5-6 voti e con essa una perdita di prestigio incommensurabile.
***
Sono rimasto alquanto stupito da un editoriale di ieri sul Corriere della Sera di Sabino Cassese. È un vecchio amico verso il quale ho sempre avuto grande stima ed è proprio quella nostra amicizia intellettuale che mi ha suscitato stupore per l'articolo in questione, il cui nucleo è il seguente: "La riforma costituzionale prevede una forte riduzione del bicameralismo e un modesto rafforzamento del governo. Il primo obiettivo è raggiunto svuotando di funzioni il Senato, riducendo il numero dei senatori e rendendone l'elezione indiretta. Il secondo obiettivo si ottiene affidando solo alla Camera il compito di dare la fiducia al governo e dando anche una corsia preferenziale alle sue proposte di legge. Non bisogna fare nessun passo indietro su questa riforma".

Questo, caro Sabino, è un regime potenzialmente autoritario. Oggi è impersonato da Renzi, ma in un domani potrebbe essere impersonato da Salvini o da Grillo e allora sarebbero guai molto seri per la democrazia italiana. Oppure pensi che Renzi governerà per i prossimi vent'anni? E che la visione autoritaria non si manifesterà anche in lui? Demos e kratos  -  lo sai bene anche tu  -  hanno significati assai contrastanti e quando prevale kratos , demos fa quasi sempre le valigie.

Post scriptum. Si capisce bene perché Grillo si trova ad Atene e fa il tifo per Tsipras e si capisce anche perché Salvini, pur non muovendosi da Milano, fa il tifo affinché nel referendum vinca il "no". Ma io non capisco affatto perché siano ad Atene anche Fassina e i suoi compagni della sinistra. Vogliono che l'Europa si arrenda al ricatto greco o che vada per aria?

Che l'ipotesi di un'Europa federale si allontani verso un tempo infinito? È questo ciò che vuole il pulviscolo di sinistra? Mi sembra un grave errore e un'assenza di "pensiero lungo" assai preoccupante per chi vorrebbe una sinistra seria e capace di governare.

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05 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/05/news/non_navi_d_altomare_ma_scialuppe_senza_un_futuro-118370424/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se l'accordo non si fa l'Unione si spaccherà in 28 pezzi
Inserito da: Admin - Luglio 12, 2015, 06:06:44 pm
Se l'accordo non si fa l'Unione si spaccherà in 28 pezzi

Di EUGENIO SCALFARI
12 luglio 2015
   
TUTTA l'Europa, ma anche l'America, il Nord Africa, il vicino Oriente, la Russia e perfino la Cina si sono occupati del problema greco. Il referendum deciso da Tsipras, la scontata vittoria del "no" hanno riaperto le trattative il giorno dopo tra Tsipras e Bruxelles e l'accordo sembrerebbe finalmente raggiunto anche se nelle ultime ore la Germania è di nuovo incerta e il suo ministro delle Finanze vorrebbe ancora tenere la Grecia in punizione. Sarebbe un errore gravissimo che spaccherebbe l'Europa in due o tre tronconi. Speriamo che gli europei glielo facciano capire alla Merkel con le buone o se necessario con le cattive.

Un Paese di poco più di 11 milioni di abitanti e con un peso economicamente assai modesto è stato nell'ultimo mese al centro dell'attenzione globale. Come si spiega questo vero e proprio fenomeno? Tanto più in quanto l'altro protagonista, cioè l'Europa, non gode di alcuna attenzione da parte dei popoli che la compongono, disaffezionati verso le istituzioni del nostro continente e semmai ostili ad esse e agli uomini che le dirigono?

La ragione è facile da capire: il referendum greco e quello che ne è seguito subito dopo hanno riportato al centro dell'attenzione mondiale e soprattutto europea un tema che da molti anni era finito nelle cantine e nelle soffitte della politica; quello cioè della governance europea. Non solo economica, non solo sociale, non solo politica, ma direi all'attenzione della storia. Il tema è la creazione degli Stati Uniti d'Europa oppure, se non si arriverà a questo risultato, la fine dell'Unione e quella della sua moneta comune.

Personalmente predico questa soluzione da mesi, preceduto da una prestigiosa schiera di personalità italiane e straniere e da altre che si sono unite a noi dopo il referendum greco: Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Laura Boldrini, Emma Bonino, Massimo Cacciari, Paolo Gentiloni, Sergio Cofferati, Gaetano Quagliariello. Ma fuori d'Italia Obama, Hollande, Habermas. Venerdì scorso, in un articolo da noi pubblicato, ho letto l'analisi secondo me più esauriente e più lucidamente esposta di Timothy Garton Ash, dal quale traggo qualche citazione decisamente esaustiva.

"La Grecia era uno Stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione; perciò non sarebbe dovuta entrare a far parte di un gruppo di economie più avanzate. Il vecchio re Kohl sperava che, com'era più volte accaduto nell'Europa post 1945, l'integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. La realtà della democrazia europea resta nazionale, la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a 40 anni fa. La verità è molto amara e riguarda soprattutto i leader europei i quali rappresentano ciascuno una loro democrazia nazionale e spesso si scontrano tra loro. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato "la vittoria della democrazia", le Termopili rivisitate e corrette in modello agit-prop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras ed egualmente soggetto ai limiti imposti dagli interessi e dalle emozioni nazionali".

E Garton Ash conclude così il suo articolo: "I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles insieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori, andando oltre l'ortodossia dei tecnocrati e negoziare un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia ma l'intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancora più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos cioè l'opportunità di un'azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito".

***

Ne dubito anch'io. Sono abbastanza speranzoso che l'accordo con la Grecia sarà approvato, ma ci si muoverà poco o niente del tutto per decidere la costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Quantomeno limitatamente all'Eurozona, instaurando in questo modo due diversi livelli di integrazione con la possibilità per i Paesi che sono fuori dalla moneta comune di potervi entrare se e quando lo vorranno e ne avranno i requisiti richiesti.

Ci vorranno naturalmente numerose e importanti cessioni di sovranità economica e politica. Saranno disponibili i leader nazionali? E quali sono gli strumenti per indurli a questa diminuzione di sovranità e le procedure più opportune per arrivarvi? E quali gli avversari dell'intero progetto europeista?

A quest'ultima domanda è facile rispondere: gli avversari sono quei partiti o movimenti che esplicitamente spingono verso l'abbandono della moneta europea, la lotta contro le immigrazioni, il nazionalismo come fondamento della società. In Italia Salvini e la sua Lega, in Francia la Le Pen, in Spagna Podemos, eccetera. Grillo fa parte di questo gruppone ma solo per quanto riguarda l'uscita dalla moneta comune. Ma poi, sembra impossibile, ci sono anche alcuni personaggi di sinistra che, affascinati da Tsipras, vorrebbero quanto meno ricostruire una sorta di comunismo d'antan che abbia l'Europa come terreno seminativo e si proponga di combattere il capitalismo. Insomma risvegliare Marx mettendo le lancette della storia 170 anni indietro.

In realtà il vero ed anzi il solo strumento utilizzabile è quello economico da usare in modo duplice: per rilanciare una politica di crescita e per integrare sempre più strettamente le istituzioni economiche nazionali con quelle europee. Il protagonista di questa strategia è la Bce guidata da Mario Draghi.

La crescita si facilita superando del tutto il credit crunch, aumentando i prestiti delle banche alle imprese, favorendo con appositi incentivi la creazione di nuovi posti di lavoro (che è cosa diversa dai contratti a tempo indeterminato stipulato con lavoratori precari) aumentando in quantità sufficiente il tasso di inflazione e mantenendo al livello già raggiunto il tasso di cambio euro-dollaro.

Queste operazioni già in corso avanzato hanno tuttavia un carattere congiunturale. Importante, anzi importantissimo a livello sociale, se accompagnato da indispensabili misure di equità. Ma non hanno nulla a che vedere con la strategia necessaria per costruire l'Europa federata. Anche qui lo strumento monetario è fondamentale.

Gli obiettivi sono, tanto per cominciare, un bilancio unico dell'Unione europea, creato con la revisioni di alcuni trattati a cominciare da quello di Lisbona e con apposite entrate e relativi investimenti federali, cioè decisi dal Parlamento europeo di propria iniziativa o su proposta della Commissione. Al bilancio unico si deve affiancare la nomina del ministro del Tesoro europeo, che sia anche l'interlocutore politico della Bce, ferma restando l'autonomia di quella Banca presidiata dal suo statuto fondativo. Ovviamente all'unicità del bilancio corrisponde anche un debito sovrano, cioè l'emissione di titoli europei per finanziare le misure economiche e gli investimenti federali che Parlamento e Commissione attueranno attraverso apposite agenzie esecutive.

A tutto ciò si affianca l'Unione bancaria europea, la garanzia sui depositi, la vigilanza centralizzata già in corso d'opera. E sarà a quel punto che ci vorrà il salto politico e cioè la nuova Costituzione dell'Europa federale, elaborata da un'Assemblea costituente eletta dai cittadini dell'Unione sulla base di liste presentate dai partiti e movimenti europei, con un sistema di voto proporzionale come sempre avviene per tutte le Costituenti. In questo modo l'egemonia pro tempore sarà dei partiti vincenti e non degli Stati membri della Federazione.

***

Una parola sul viaggio del Papa nella sua America latina. Leggendo i quotidiani discorsi in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay, non si può che confermare l'eccezionalità di Francesco e della Chiesa missionaria che ha in mente e che è già in corso con il suo incitamento e il rinnovamento del collegio vescovile, di quello cardinalizio e delle Conferenze episcopali. In Bolivia Francesco ha ricordato il martire ucciso 35 anni fa, Luis Espinal, un gesuita trucidato dalle squadre governative perché cercava di acculturare religiosamente e socialmente gli indios di quel Paese. Francesco ha ricordato quel personaggio che come il vescovo Romero sarà anche lui beatificato.

Voglio concludere con il discorso con cui Francesco ha chiuso il viaggio in Bolivia: "Diciamolo senza timore: noi vogliamo il cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità e i villaggi. Un cambiamento che tocchi tutto il mondo e metta l'economia al servizio dei popoli. L'equa distribuzione è un dovere morale, si tratta di restituire ai poveri e al popolo ciò che a loro appartiene". Naturalmente Francesco parla in nome della fede, come il Santo di Assisi di cui porta il nome; ma l'aspetto rivoluzionario è che parla in nome del Dio unico che non è cattolico né musulmano né ebreo né induista. È unico ed è Francesco che per primo lo configura, lo rappresenta e ne esprime il comandamento che si riassume così: "Ama il prossimo un po' più di te stesso".

A pensarci bene i destinatari sociali di questo discorso sono i ricchi e i potenti ma anche e soprattutto la borghesia e i ceti medi. Se lo si guarda con occhi politici e non necessariamente religiosi, sono questi i valori della sinistra che occorre costruire o ricostruire nell'Europa federata, sempre che si riesca a farla.

Post scriptum. Non ho motivo d'occuparmi delle intercettazioni che venerdì scorso sono state riferite da tutti i giornali e riguardano alcune conversazioni di Renzi con un alto ufficiale (molto impiccione) della Guardia di Finanza ed altri personaggi alquanto discutibili. Le suddette intercettazioni non hanno alcun rilievo penale, sono però molto sgradevoli, specie per Enrico Letta definito da Renzi come "totalmente incapace di governare". Letta ha risposto lapidariamente: "Sembra di assistere al serial televisivo House of Cards ". È esattamente così.

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12 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/12/news/se_l_accordo_non_si_fa_l_europa_si_spacchera_in_28_pezzi-118896953/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Germania preferisce essere sola che male accompagnata
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2015, 05:43:38 pm
La Germania preferisce essere sola che male accompagnata
Da qualche tempo aleggia sull'Europa uno spirito anti-tedesco e c'è contemporaneamente uno spirito anti-europeo crescente nell'opinione pubblica in Germania. Ma il caso greco ha prodotto nella coscienza dei vari paesi una deflagrazione traumatica ed eserciterà inevitabili conseguenze nel futuro che si profila

Di EUGENIO SCALFARI
19 luglio 2015
   
Uno spirito decisamente anti-tedesco sta aleggiando da qualche tempo sull'Europa ed è aumentato dopo il caso della Grecia. Ci sono due componenti che alimentano l'antipatia e addirittura l'avversione contro la Germania della Merkel e di Schäuble: l'europeismo che si sente tradito e l'anti-europeismo che vede nella Germania il vero pilastro d'una Europa dittatoriale.

Ma c'è contemporaneamente uno spirito anti-europeo che domina da tempo e sempre di più l'opinione pubblica tedesca che auspica una Germania sola, autosufficiente e autoreferente, Uber Alles come diceva l'inno nazionale hitleriano.

L'anti-europeismo tedesco si spiega molto facilmente: deriva da un innato e storico disprezzo che i tedeschi nutrono da sempre presso le altre nazioni che convivono con loro nel medesimo continente. Con una sola eccezione: quella che un tempo si chiamava Inghilterra, potenza navale ed extra-continentale con la quale ci si poteva anche alleare ed alla quale alcune famiglie nobiliari tedesche offrirono anche dinastie sovrane. E la Francia, avversario storico per quasi un millennio.

Le altre nazioni erano ignote o oggetto di vassallaggio. Ma questa è storia. Al tempo di oggi la solitudine teutonica è ideologica: la Germania è efficiente, è moralmente integra, è laboriosa, è tecnologicamente all'avanguardia, culturalmente ha raggiunto le vette più alte nella scienza, nella filosofia, nella letteratura, nella musica. Geopoliticamente è al centro dell'Europa, ad eguale distanza dagli Urali e dalla Manica, dalla Scandinavia e dal Mediterraneo. Insomma: non è contro l'Europa ma è l'Europa.

E chi pensasse di insidiare questo ruolo combatterebbe contro la realtà fracassandosi la testa. Questa situazione — come abbiamo già detto — è antica quanto la storia, ma il caso greco ha prodotto nella coscienza dei vari paesi, Germania compresa, una deflagrazione traumatica che ha reso consapevoli tutti gli attori, gli spettatori, le vittime sacrificali e i carnefici potenziali, ed eserciterà inevitabili conseguenze nel futuro che si profila.

* * *

Angela Merkel, per quanto si può capire dal suo già lungo cancellierato, è europeista e perfino Schäuble lo è, ma lo sono a modo loro. Veri e propri Stati Uniti con un governo federale, questo no. Un nucleo di sette o otto nazioni che aderiscono alla moneta comune, accettano una governance economico-politica fortemente integrata, con numerose e importanti cessioni di sovranità ma con il potere ancora nelle mani dei capi di governo, questo sì. È una federazione? No, non c'è una Casa Bianca come in Usa, ma un'oligarchia. Moneta comune, fisco comune, investimenti e bond per finanziarli. L'Italia farebbe parte di questa oligarchia? Certamente sì, insieme alla Spagna, all'Olanda, all'Austria, al Portogallo, alla Slovenia.

Più o meno questo. Gli altri resterebbero nell'Unione con un euro di serie B, cioè non con un cambio fisso ma oscillabile all'interno di una forcella. Diciamo la Sme di sedici anni fa. Ma man mano che la loro economia pro+gresso in serie A e, dopo appositi controlli, essere accettati.

Quanto alla Bce, sarebbe una Banca centrale in piena regola, con competenza sia sulla serie A sia sulla B perché l'euro è pur sempre l'euro.

I paesi fuori dell'euro (Gran Bretagna, Polonia e insomma i 28 senza i 19) resterebbero nell'Unione così come ci stanno oggi, sempre che non cambino idea e dopo che i doverosi esami siano accettati.

Questo piano non è privo di aspetti positivi e perfino affascinanti. Richiama perfino la storia degli Usa, dove la Confederazione a maglie larghissime dopo la guerra d'indipendenza, restò anche dopo Lincoln perché la guerra di secessione integrò gli Stati ma solo su alcune questioni. Se pensate che le discriminazioni razziali erano ancora vigenti in molti stati dell'Unione ai tempi di Luther King (anche lui assassinato come Lincoln e come poi i due Kennedy) vi fate un'idea delle difficoltà di passare dalla libertà ai diritti d'eguaglianza. Tanto più in Europa dove sono nate le nazioni, gli imperi, sono diverse le lingue e le culture connesse.

Detto tutto ciò, personalmente credo che un percorso così lungo e accidentato non possa reggere il confronto con la società globale. L'Unione a tre stadi è troppo fragile. Una governance fondata su alcune nazioni egemonizzate ovviamente dalla Germania, e con fragili organi e poteri autonomi, non regge. Abbiamo a disposizione non più di dieci o al massimo quindici anni di tempo, altrimenti l'Europa sarà percorsa da forze centrifughe invece che centripete e non sarà più quello Stato federato auspicato dal manifesto di Ventotene, ma un insieme di scialuppe che non reggono l'alto mare ma bordeggiano vicino alla costa.

Bisogna battersi per quest'obiettivo se si vuole stare al passo con la storia del futuro. Noi che questo vorremmo, saremo sconfitti? È possibile e forse probabile, ma il futuro è aperto, bisogna sperare e battersi. Anche Mattarella ha questa speranza ed anche Napolitano e Ciampi.

Renzi no, non credo proprio. Far parte d'una oligarchia, nella serie A: immagino che questa ipotesi lo affascini e somigli molto alla sua visione politica che non è certo quella di Spinelli, di Adenauer e del Churchill del 1946; che nel suo discorso a Zurigo mise l'Inghilterra di fronte ad una scelta inevitabile: diventare un'altra stella nella bandiera a stelle e strisce degli Usa oppure costruire gli Stati Uniti d'Europa insieme agli altri paesi del continente.

Gli inglesi questa scelta non l'hanno ancora fatta e adesso contano assai meno di allora.
Quanto al nostro Renzi, ieri ha parlato per un'ora e mezza all'Assemblea del Pd. Ha esposto il suo programma di politica e di riforme istituzionali ed economiche. Ha detto che chi decide di uscire dal Pd avrà il suo rispetto ma tenterà di rappresentare una sinistra che non prende e non ha mai preso voti. Gli italiani quel tipo di sinistra non la vogliono. Ci vuole una sinistra diversa, quella da lui diretta, sui temi del fisco, dell'occupazione, dei contrasti con le imprese, la buona scuola, la televisione e la radio. Questa politica i voti li prende.

A guardar bene Renzi ha disegnato un centro, non una sinistra, e infatti è di centro la politica del Pd renziano, dove lui che ha carisma in abbondanza comanda da solo. Personalmente — e l'ho già detto e scritto più volte — io approvo le capacità e il carisma di Renzi, ma non apprezzo affatto la sua voluta solitudine nel comando. Non è né di sinistra né di destra né di centro chi comanda da solo. È lui e solo lui e le riforme che gli piacciono di più sono appunto quelle che gli consentono di comandare da solo, a cominciare dalla legge elettorale e dalla riforma (abolizione) del Senato.

Berlusconi quelle riforme non riuscì a farle. Se le avesse fatte oggi sarebbe ancora al governo del paese. Renzi è proprio su quelle che punta e travolgerà tutti quelli che, fuori o dentro il suo partito, si opporranno alla versione autocratica del potere esecutivo.

Il fatto strano e preoccupante è che una parte cospicua degli italiani di questi problemi non si interessa affatto, pensa soltanto a veder migliorare la propria vita, le proprie condizioni economiche e quelle dei propri figli. Se si deve pagare delegando il potere ad un ristretto gruppo e ad un Capo che lo guida, va bene così.

Questo non è un piccolo problema ed ha costellato la storia dell'Italia moderna. Ma il fatto strano è che anche Giorgio Napolitano si occupa di questa questione e condivide la visione di Renzi. Su un tema di questa importanza desidero dire ora qualche parola.

* * *

Il 15 luglio scorso Napolitano ha fatto un lungo intervento alla Commissione Affari costituzionali del Senato, presieduta da Anna Finocchiaro. Se c'è un punto che pienamente condivido è quello che riguarda l'uso e l'abuso dei decreti legge, leggi delega e maxiemendamenti che Napolitano ha denunciato più volte e che in questo intervento denuncia di nuovo come un'indebita spoliazione del potere legislativo del Parlamento oltreché della difficilissima leggibilità dei testi (la legge finanziaria del 2007 fu trasformata in un maxiemendamento di un solo articolo che conteneva tuttavia 1.300 commi).

Per superare questa prassi (adesso abbiamo avuto un maxiemendamento che ha superato i 2.000 commi, ciascuno dei quali rinvia ad altre leggi di cui si cita la data e il numero di protocollo ma non il contenuto) Napolitano propone una corsia preferenziale per i disegni di legge del governo, una data breve di pochi giorni entro la quale il provvedimento viene approvato o decade.

Tutto bene. Bene la denuncia e bene la soluzione proposta. Tuttavia questo sistema sarebbe perfetto se la Camera non fosse di fatto un'assemblea di "nominati" con un premio di maggioranza a chi raggiunge il 40 per cento dei voti espressi. Ma siccome le cose stanno proprio così, il nuovo sistema proposto della corsia preferenziale dovrebbe essere effettuato da una Camera non "nominata", senza di che è sempre e soltanto il potere esecutivo a comandare.

Ma questo non sembra suscitare le preoccupazioni di Napolitano. Il suo pensiero dominante è la stabilità del governo e la sua capacità d'immaginare le leggi, farle approvare e gestirne l'attuazione. Che siano giuste o sbagliate lo possono dire gli osservatori esterni o l'opposizione minoritaria. Di fatto, cioè, nessuno.

Napolitano chiede un esecutivo con poteri soverchianti: maggioranza assoluta, monocameralismo perfetto, capolista plurinominati (possono presentarsi in tre diversi collegi). Senato in pratica inesistente. Può partecipare ai plenum del Parlamento però non più con 300 senatori ma soltanto 100, mentre la Camera rimane ai suoi 630.

Purtroppo il nostro presidente emerito dimentica di ricordare come avvenne la caduta di Berlusconi, l'ultima, quella definitiva. Avvenne perché il Senato, dove non c'era la maggioranza assoluta della Camera, bocciò il consuntivo del bilancio. Su quella buccia di banana Berlusconi scivolò e alla fine si dimise temendo che al Senato non avrebbe più avuto la maggioranza. Da quelle dimissioni nacque il governo Monti.

Oggi, se non ci fosse stato il Senato, avremmo ancora Berlusconi al governo e sarebbero trent'anni. Questo ricordo dovrebbe insegnare a tutti qualche cosa.

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19 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/19/news/la_germania_preferisce_essere_sola-119378017/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'autunno del premier tra sogni fiscali e papà Blair
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2015, 04:17:50 pm
L'autunno del premier tra sogni fiscali e papà Blair

Di EUGENIO SCALFARI
26 luglio 2015

Il tema di questa settimana ha il nome di Matteo Renzi. Di solito faccio il possibile per evitarlo o ridurlo a poche righe quando sono inevitabili, ma questa volta, per noi italiani, non è così perché il nostro capo del governo ha messo voce dappertutto, come italiano e come europeo, per esporre e se necessario combattere affinché il suo punto di vista sia non solo conosciuto ma eserciti la dovuta influenza sullo scacchiere interno e internazionale.

Comincerò con il Renzi statista, nel senso del suo ruolo nella politica estera. La qualifica di statista la si ottiene così, non trafficando nel politichese del giorno per giorno. Qualche mese fa il Nostro aveva già fatto visita al rais dell'Egitto esortandolo ad una politica conciliante verso Israele. È un problema costante di quel Paese dopo la sconfitta nella guerra dei "sei giorni" e al Sisi ha dato in proposito le prevedibili assicurazioni a Renzi il quale però, con un tempismo di cui gli va dato atto, ha ritenuto opportuno andare stavolta in Israele dove ha avuto un'ora di colloquio con Netanyahu e un'altra ora di visita al Knesset, il Parlamento israeliano, dove ha pronunciato un ampio e molto applaudito discorso. "Chi abbandona oggi la causa di Israele tradisce soprattutto se stesso", ha detto come prima frase ottenendo un'ovazione da stadio e così ha continuato fino alla fine, raccomandando tuttavia di instaurare buoni rapporti con i palestinesi e dissociare il bene dal male per quanto riguarda l'accordo Usa-Iran.

Su quest'ultimo punto la "standing ovation" non c'è stata, anzi i mormorii non erano incoraggianti.

Ma sulla Palestina no, anzi ci sono stati segni palesi di consenso purché, naturalmente, non si discutesse sulle "colonie" costruite in Cisgiordania e tanto meno degli Hezbollah libanesi.

Naturalmente poche ore dopo il Nostro ha incontrato Abu Mazen, al quale non ha detto che abbandonare la causa palestinese fosse un tradimento di se stesso, ma qualcosa di simile. Abu Mazen ha apprezzato ribadendo però la sua ferma opposizione a nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Insomma bene, il Nostro è andato a vendere il suo prodotto e gli interlocutori lo hanno apprezzato. Che l'Italia nel Medio Oriente si senta amica di Israele e della Palestina, questo è un fatto che rende felici gli interlocutori, ai quali non si chiede nulla in cambio, altro che applausi e strette di mano e perfino qualche bacio (tre volte sulle guance). Che vogliamo di più?

* * *

In Italia la partita è un po' più difficile e in Europa difficilissima. Ma prima di affrontarla nei suoi giusti termini debbo dar conto d'un recentissimo discorso di Tony Blair, personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni: ventuno anni fa diventò leader del Labour party inglese, ne cambiò i connotati e poco dopo fu primo ministro per due legislature di seguito. Da allora gira il mondo e fa ampi discorsi assai ben pagati da chi lo ospita, ottiene di tanto in tanto incarichi dall'Onu e insomma si guadagna assai bene la vita facendo anche in modo che non ci si dimentichi di lui.

Auspico per Renzi uno stesso ed egualmente felice futuro (ne ha tutti i numeri) dopo che avrà governato il nostro Paese fino al 2027 a meno che a quel punto non decida di concludere con un settennato al Quirinale. Peccato per me che allora non lo vedrò.

Dunque Tony Blair. Cito da un suo intervento pubblicato giovedì da Repubblica e pronunciato al "Think Tank Progress". L'occasione è stata determinata dal fatto che il Labour party è in questo momento affascinato da Jeremy Corbyn, un esponente della sinistra del partito, cosa che non piace affatto a Blair il quale così commenta: "Potrei parlarvi di come ottenere la vittoria: si vince al centro, si vince quando ci si rivolge ad una fascia d'opinione trasversale, si vince quando si sostengono le imprese quanto i sindacati. Non si vince da una tradizionale posizione di sinistra. La scelta riguarda i principi, riguarda che cosa significa sostenere i nostri valori nel mondo moderno... Oggi viviamo in una società che nel complesso crede al successo determinato dal merito e dal cambiamento. Abbiamo vinto le elezioni quando avevamo riformato i servizi pubblici e non ci siamo limitati a investire in essi, quando abbiamo capito che sono le imprese a creare posti di lavoro e non il governo. Abbiamo vinto quando siamo stati noi gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra".

Così Tony Blair. Non si può dire che abbia torto, ma soltanto che vede le cose dal suo punto di vista. E come potrebbe ragionare diversamente? Ciascuno di noi lo fa. Solo che un conto è parlare ad un "Think Tank Show" e un altro conto è agire da un vertice molto elevato. Mi viene in mente papa Francesco che guida la Chiesa affrontando anche lui il mondo moderno. Francesco ha come parola-chiave quella di "amare il prossimo più di se stessi". Tony Blair non la pensava così neppure quando era al vertice della Gran Bretagna. Vinse, certo. E la Gran Bretagna? Ad appena vent'anni di distanza non pare che sia un Paese cui guardare con invidia, ma Blair sì, ha avuto una vita felice anche se non ha amato il prossimo più di se stesso.

Quello di Tony è il programma, il comportamento, il carattere di Matteo? Penso proprio di sì. Va bene per gli italiani? Per alcuni sì, per altri no. E per l'Italia come nazione e Paese europeo? La risposta la daranno i fatti. Per quanto mi riguarda penso di no, ma questa è un'opinione strettamente personale.

* * *

Il tema dominante di questi giorni è quello delle tasse. Poi c'è Verdini, c'è la dissidenza crescente della sinistra del Pd (quella vecchia ma anche quella giovane), ci sono Regioni, Comuni in vario modo disastrati e prossimi comunque al voto. E ci sono ancora le riforme in discussione: legge elettorale, Senato, Rai, unioni civili, giustizia. E la legge economica di stabilità.

Insomma un gran minestrone da trangugiare entro i prossimi tre mesi. Stefano Folli nel suo articolo di ieri ha parlato di Stalingrado, la battaglia che decise l'esito dell'ultima guerra: chi la vincerà avrà vinto la guerra e infatti andò così. La nostra Stalingrado si combatterà entro l'autunno prossimo, ma le tasse sono il rombo del cannone.

Tre anni. Nel 2016 l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, nel '17 diminuzione dell'Irap, nel '18 quella dell'Irpef. E attenti a non scaricare tutto sui Comuni e sulle Regioni.

Queste imposte, da abolire o tagliare, dovrebbero portare ad un sollievo fiscale di circa 25 miliardi senza calcolare altre possibili evenienze che potrebbero aumentare fino a 40 miliardi complessivi. Ma diciamo 25 per ragionare sul concreto delle coperture e dei riflessi sociali che ne deriveranno.

L'abolizione dell'Ici per tutti, ricchi e poveri che siano, dovrebbe essere coperta dalla "spending review" che prevede un taglio di spese di 10 miliardi. Quando? Ovviamente a babbo morto, come si dice, perché la "spending" non è come premere un bottone e vedere i soldi che escono come nelle macchinette del gioco-scommessa. La "spending" deve riorganizzare in modo giusto alcuni servizi, diminuire il numero degli ospedali, dei tribunali, delle prefetture, dei servizi pubblici. Lunga lena, un paio d'anni prima di incassare. Nel frattempo il ministro dell'Economia anticiperà i soldi con una mano mentre con l'altra taglierà le spese dei ministeri dopo lunghe battaglie all'interno del governo.

Andrà come andrà, ma certo il debito pubblico aumenterà. Per fortuna c'è Draghi e insieme a lui Ignazio Visco, con vaste operazioni sul mercato secondario dei titoli pubblici e con una svalutazione (già avvenuta da tempo) del cambio euro-dollaro.

Va notato a questo proposito che la Federal Reserve per la prima volta dopo dieci anni ha aumentato il tasso d'interesse rafforzando il dollaro rispetto all'euro, il che significa che la strada di Draghi non è priva di ostacoli, ma lui è abbastanza abile da ridurli al minimo.

Prima conclusione: aumenta il debito pubblico. È vero che ci sono beni pubblici in vendita, ma anche lì ci vuole tempo e pazienza. Perciò keynesismo di sostegno finché l'Europa lo consentirà.

L'anno dopo diminuzione dell'Irap. Di quanto? Questo non è chiaro, si vedrà col passar dei mesi, ma diciamo che non dovrebbe essere meno di 10 miliardi. Qui la pressione fiscale diminuisce di colpo e ovviamente le imprese ne sono felici e i salariati anche. Il salario netto resta invariato, il Tfr viene restituito e non gravato d'imposta. Tutto bene, con qualche cosa che somiglia vagamente al famoso bonus (elettoralistico) degli 80 euro mensili, con la differenza che quelli non servirono ad aumentare i consumi e questo invece (l'Irap) stimola le imprese a investire nei limiti dello sgravio ricevuto. Ripercussioni sui nuovi posti di lavoro: future ma non immediate perché gli impianti sono largamente sottoutilizzati, perciò ci vorrà tempo.

Ultimo anno: Irpef. Questa sì è una mezza rivoluzione: viene ridotta l'imposta sul reddito. Quanto non si sa, ma parecchio. Forse addirittura abolita. Sostituita da che cosa? Imposta generale sui consumi. La propose per primo Luigi Einaudi, una settantina di anni fa. Ma qui hai voglia a studiare, ad Elena Boschi verranno i capelli bianchi.

Vincenzo Visco ha proposto come copertura il recupero dell'evasione fiscale, valutata in tutto a 110 miliardi, basterebbe recuperarne un terzo, ma non so perché gli hanno riso in faccia.

Posso fare anch'io una proposta? Condivido quella di Visco, naturalmente, ma al posto delle (vaghe) proposte renziane direi di abolire totalmente il cuneo fiscale. Quindi tutti i contributi a carico della fiscalità generale, naturalmente progressiva. Questa sì, sarebbe un turbo-motore. Non lontano da 40 miliardi. Il recupero dell'evasione ne potrebbe essere l'intera copertura, ma con almeno tre anni di tempo. Il vantaggio sociale sarebbe duplice: l'evasione colpisce in gran parte i ceti possidenti; il turbo-motore spingerebbe le imprese a creare subito nuovi posti di lavoro con quel che ne segue economicamente e socialmente.

E l'Europa? Qui si gioca la Stalingrado. Ne abbiamo parlato domenica scorsa e ne parleremo ancora. Cessioni di sovranità urgono, economiche e politiche. Qui si vince o si perde, qui la sinistra italiana ed europea deve condurre la sua battaglia sapendo che gioca tutto. Tony Blair lasciamolo ai suoi discorsi, fanno sicuramente divertire.

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26 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/26/news/l_autunno_del_premier_tra_sogni_fiscali_e_papa_blair-119829437/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei birilli in movimento sul tavolo della nostra democrazia
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 10:33:15 am
Quei birilli in movimento sul tavolo della nostra democrazia
Al centro del biliardo c'è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi, alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita.
Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano

Di EUGENIO SCALFARI
09 agosto 2015

LA LETTURA dei giornali in questo inizio d'agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. "Hanno distrutto la Rai", ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. "Mi viene da ridere pensando alla Rai", ha detto Renzo Arbore che cinquant'anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.

Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l'occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l'unità d'Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.

Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L'ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l'ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l'hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera": siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.

Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.
***
Il birillo rosso al centro del biliardo è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi del biliardo ci sino alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita. Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano. Mi sono spesso domandato - fuor di metafora -  perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al "Corriere della sera". Il tema  -  di capitale importanza - è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.

La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com'è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un'improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.

Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L'ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l'argomento e riapre il dibattito.

È senz'altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta  -  come dice il nome  -  il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall'età dei componenti e da altre accettabili difformità.

Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d'Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall'"Italicum" di Renzi è in larga misura un monocamerale di "nominati" dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all'esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che "comanda da solo" esattamente il contrario della democrazia parlamentare.

Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte "nominato" dall'esecutivo ci avvia inevitabilmente all'autocrazia. E questo che si vuole? Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un'illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile?
***
Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione?

Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l'amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.

Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra. Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell'Europa e ormai diviso in una federazione dove l'Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell'Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell'Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: "Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere  dell'esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri".

Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell'Europa solo per ottenere libertà di "deficit spending"? Il "deficit spending" è importante, ma gli Stati Uniti d'Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l'altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?

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09 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/09/news/quei_birilli_in_movimento_sul_tavolo_della_nostra_democrazia-120673089/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Europa di Mattarella e di Berlino e l'Italia di Matteo
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2015, 11:18:54 am
L'Europa di Mattarella e di Berlino e l'Italia di Matteo

Di EUGENIO SCALFARI
02 agosto 2015
   
ARGOMENTI da trattare ce ne sono molti questa settimana, europei e italiani. Viene da pensare che siamo ad un punto di svolta, ad un mutamento strutturale economico, sociale, politico in tutto il mondo che ci circonda. Difficile disporli in ordine di importanza, ma per me ce n'è uno che merita l'apertura di quest'articolo ed è la pagina di Roberto Saviano sul nostro giornale di ieri che sotto forma di lettera aperta al presidente del Consiglio parla della terribile crisi che da anni con un inarrestabile crescendo sta devastando il Mezzogiorno del nostro paese.

La Svimez ha fornito le cifre di questa devastazione, la più significativa delle quali riguarda la crescita del reddito. Quella del Sud italiano è la metà della crescita greca e basterebbe questo dato per misurarne la gravità, ma Saviano ne fornisce altri che segnalano perfino la drastica diminuzione delle nascite e paradossalmente un fenomeno del tutto inatteso: le varie mafie del Sud spediscono al Nord e addirittura all'estero i soldi estorti con i sequestri di persona, il racket d'ogni genere, il contrabbando di droga. È al Nord d'Italia e d'Europa che le mafie del Sud inviano i loro denari sporchi, li fanno diventare puliti e li reinvestono in nuovi racket e in nuove corruzioni.

Saviano, come è nel suo stile, ha fatto dei dati Svimez un martello contundente contro il disinteresse del governo, un racconto, un dramma, un fenomeno non solo etico ma estetico, insomma una sorta di tragedia della Grecia classica, che nelle nostre terre del Sud esportò la sua civiltà, la sua arte e la sua politica. Ed anche il suo dramma. Il nostro Mezzogiorno rappresenta la scatola nera dell'Italia e dell'Europa e la scarsa attenzione che il governo Renzi gli ha fin qui riservato è un fatto inspiegabile che Saviano denuncia con estrema e ben meritata durezza. Speriamo che una risposta ci sia, e non sia un'irricevibile smentita ma l'impegno che finora è mancato nella generale indifferenza, salvo analoghe denunce, anch'esse cadute nel vuoto, di Giorgio Napolitano.

* * *

Ed ora l'Europa, la crisi greca e, ovviamente, la Germania poiché "tout se tient". Tsipras ha condotto con estrema abilità il suo rapporto con l'Europa; ha bluffato fino all'ultimo giorno valendosi della maggioranza politica che aveva alle spalle dopo il referendum; poi ha accettato le condizioni dell'Europa, dettate di fatto dalla Germania; ha silurato Varoufakis, ha ottenuto una nuova maggioranza parlamentare, ha negoziato qualche miglioramento in sede europea. Aggiungo che — a sua insaputa — ha reso all'Europa un grandissimo servigio: quello di risvegliare il nostro vecchio continente a imboccare la via che porterà da una Confederazione di 28 Stati sovrani ad una Federazione che faccia nascere gli Stati Uniti d'Europa.

Non so se Tsipras si proponesse questo scopo, ma so che questo è accaduto. Un evento che ha preso in contropiede gli antieuropeisti alla Salvini, alla Grillo, alla Le Pen, a Podemos. E in casa nostra perfino ad una certa sinistra che era andata addirittura ad Atene per festeggiare il referendum voluto da Syriza (l'ultimo e ben calibrato bluff di Tsipras). Il tema vero non è — come pensa perfino Zagrebelsky — quello di dare diritto di dissenso alla Grecia, ma piuttosto quello di cessioni di sovranità di tutti i paesi membri dell'Unione al Parlamento dell'Ue e trasformarla in uno Stato continentale che sia in grado di competere e di collaborare con pari forza con gli Stati già operanti nella società globale in cui viviamo e sempre più vivremo se ne saremo all'altezza.

Da questo punto di vista va segnalata la mossa di Schaeuble d'accordo con la Merkel e con Hollande: un bilancio europeo molto più consistente di quello attuale e un ministro del Tesoro europeo che lo gestisca e sia l'interlocutore unico nei confronti della Banca centrale europea. La proposta sarà attentamente studiata e discussa poi dal Parlamento, dalla Commissione e dai governi dei 28 paesi, ma appare difficile che sia rifiutata posto che sono d'accordo su di essa la Germania e la Francia. Segnalo a questo proposito un articolo da noi pubblicato di uno dei maggiori dirigenti della politica finanziaria francese, Harlem Désir, che sostiene appunto questa svolta strutturale del nostro continente e segnalo altresì che sia Draghi sia il nostro ministro dell'Economia sono da tempo su questa stessa lunghezza d'onda.

Ma un punto va aggiunto e chiarito: il nuovo bilancio europeo e il ministro del Tesoro che lo gestirà non debbono soltanto avere lo scopo di aiutare i paesi membri in difficoltà, ma debbono anche, anzi soprattutto, effettuare investimenti propri e quindi avere un debito sovrano oltre che un bilancio sovrano ed emettere buoni del Tesoro europeo. Questa è la strada che porta all'Unione politica oltre che economica e fa della moneta comune non già uno strumento di scambi ma anche il nucleo dell'unità politica del continente.

La vera e duplice battaglia sulla quale il governo italiano è impegnato è dunque questa: l'Europa sovrana, il Sud d'Italia riscattato. Matteo Renzi imboccherà questa duplice strada o continuerà a comandar da solo, che è il traguardo che finora lo ha interamente assorbito? E la sinistra del Pd sceglierà di dar voce a una nuova sinistra europea che finora è di fatto scomparsa?

* * *

Il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il tema dell'unità europea l'ha affrontato con forza e chiarezza nel discorso fatto agli ambasciatori italiani. Quell'unità, quello Stato federale con dimensioni continentali, lui lo auspica ed esorta i governi nazionali, a cominciare dal nostro, ad impegnarsi per realizzarlo. Ma non ha detto soltanto questo. Due giorni fa, durante la cerimonia del ventaglio, il Presidente ha affrontato un altro delicatissimo tema: quello di comandare da soli. In una democrazia parlamentare di cui la nostra Costituzione descrive i vari snodi entro i quali si articola, comandare da soli è peggio di un errore, contrasta con l'essenza stessa della democrazia fondata sul "demos", cioè sul popolo sovrano che non cessa d'esser tale ad elezioni avvenute, ma tale rimane attraverso i suoi diretti rappresentanti che non sono i partiti ma il Parlamento degli elettori.

Per completare il ragionamento del nostro Presidente ogni potere dello Stato nazionale ha il proprio campo di competenza e le prerogative che quella competenza gli consente di esercitare. Le sue sono quelle di assicurarsi che ogni potere costituzionale eserciti il suo mandato correttamente e senza sconfinamenti in territori altrui e così anche le leggi che il Parlamento approva. I poteri solitari ed assoluti sono fuori dalla Costituzione e obbligherebbero il Capo dello Stato a rinviare alle Camere le leggi che andassero contro questa concezione della democrazia.

Questa corretta visione ha come propria fonte storica lo Stato di diritto elaborato da Montesquieu. Si tratta della premessa di ogni democrazia. La legge elettorale e la riforma del Senato sono direttamente coinvolte da questa visione dello Stato di diritto. Se ne parlerà in autunno ma non c'è dubbio che anche la legge sulla riforma della Rai comporta possibili, anzi probabili sconfinamenti che possono indebolire il nostro "demos" portando verso una pericolosa estromissione democratica. Questo non va affatto bene ed occorre impedirlo.

* * *

All'ultimo posto di questo mio sermone domenicale, come alcuni miei amici lo chiamano, restano un paio di quisquilie (ma sono veramente tali?). Una riguarda il voto sull'arresto del senatore Azzollini, richiesto dalla Procura di Trani e respinto da una maggioranza di senatori di cui gran parte del Pd. L'arresto o i "domiciliari" deve essere convalidato o respinto dalla Camera di appartenenza e la motivazione verte sull'esistenza o meno di un "fumus boni iuris". Cioè se il magistrato che lo chiede ne abbia diritto sulla base di indizi probatori in suo possesso oppure tali indizi non vi siano o non siano probanti.

Nel caso di specie molti senatori hanno ritenuto, dopo aver controllato le carte trasmesse dal Gip di Trani, che il "fumus" non ci fosse e quindi l'hanno respinto. La maggioranza li ha seguiti e l'arresto di Azzollini è stato respinto salvo il processo che avrà luogo e deciderà. Tutto regolare salvo un punto che qui merita di essere ricordato: i senatori che hanno votato sì all'arresto anziché no hanno esercitato una delle loro prerogative sancite da un articolo della Costituzione che stabilisce: "Il membro del Parlamento rappresenta la nazione senza vincolo di mandato". Se appartiene ad un partito, quel partito può punirlo e perfino espellerlo (dal partito) ma restano ferme le sue prerogative parlamentari che può liberalmente esercitare "senza vincolo di mandato".

Un'altra quisquilia è la riforma della Rai, la quale è di proprietà del Tesoro che nomina un suo rappresentante come futuro direttore generale con vasti poteri esecutivi autonomi rispetto al consiglio di amministrazione entro limiti finanziari prestabiliti. Quanto ai membri del consiglio, sono nominati con metodo proporzionale dai vari gruppi parlamentari. La riforma Renzi accresce i poteri del direttore generale (o amministratore delegato) e avvia un cambiamento del metodo di elezione del consiglio diminuendone il numero da 9 a 7 membri. Su un emendamento il governo è andato in minoranza al Senato e quindi ha adottato la vecchia legge Gasparri per evitare che il consiglio attuale sia ulteriormente prorogato.

Di fatto il metodo Gasparri consente al governo di avere la maggioranza in consiglio salvo i poteri di controllo del consiglio di sorveglianza che Renzi vorrebbe addirittura abolire o limitarne ulteriormente i poteri. La battaglia è in corso ma, salvo la nomina dell'amministratore e del consiglio che avverranno nei prossimi giorni, il resto verrà dopo. Il rischio vero è che la Rai non dipenda più dai partiti (che è comunque un male) ma dal governo (che è un male ancora più grosso).

Ultimo tema da segnalare: tra maggio e giugno l'occupazione è diminuita di 22mila unità e la disoccupazione giovanile è aumentata del 2 per cento. Mi sembra che anche nelle quisquilie il "demos" stia scomparendo del tutto e questo — l'ho già scritto ma lo ripeto — non va assolutamente bene.

Da - © Riproduzione riservata
02 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/02/news/l_europa_di_mattarella_e_di_berlino_e_l_italia_di_matteo-120268734/?ref=HRER2-1



Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Resistenza è nata l'8 settembre e tutti la ricordino
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2015, 04:38:07 pm
La Resistenza è nata l'8 settembre e tutti la ricordino

Di EUGENIO SCALFARI
15 agosto 2015
   
SPESSO mi vengono in mente strane associazioni di idee. Immagino che capiti a molti ed io di solito me le tengo per me, ma quelle di oggi desidero invece dirle: ho letto sui giornali che i lavori del Senato riprenderanno dopo la pausa estiva, l'8 settembre, sul tema — assai contrastato — della riforma costituzionale. Altro nessuno dice. Ebbene, sarà un caso, ma quella dell'8 settembre è una data fatidica nella storia moderna del nostro paese. Era il 1943 e il governo presieduto da Pietro Badoglio dette l'annuncio d'aver firmato l'armistizio con l'America e l'Inghilterra, aggiungendo che l'Italia si sarebbe opposta a chiunque si fosse schierato contro quella decisione. Di fatto (e di diritto) cambiavamo fronte, con un governo legittimo che controllava in quel momento soltanto i territori del Mezzogiorno dagli Abruzzi in giù; tutto il resto era nelle mani del governo di Salò presieduto da Mussolini e presidiato dall'Armata tedesca, dalle Ss naziste e dai fascisti.

In questa situazione accaddero due fatti rilevanti: l'esercito italiano si dissolse come neve al sole, lo Stato si sfasciò, la Patria con la P maiuscola si frantumò (per una trentina d'anni nessuno scrisse più la parola patria). In quegli stessi giorni cominciò la Resistenza nei territori occupati dai nazi-fascisti. Uno sfascio e una nascita. Questo doppio evento ha avuto un grande significato nella storia del nostro paese e venne annualmente celebrato al Quirinale, in Parlamento, all'Altare della Patria e alle Fosse Ardeatine. Ma anche quest'anno sarà così? Me lo auguro e per quanto riguarda il Quirinale ne sono più che sicuro.

Penso anche che ne parlerà la presidentessa della Camera (ancora chiusa) Laura Boldrini. Ma al Senato l'ordine del giorno prevede l'inizio della discussione d'un tema assai controverso che vede un solco profondo tra le varie forze politiche e all'interno del Pd. È probabile che il presidente Grasso ricordi l'8 settembre del '43 ma l'assemblea sarà comunque in tutt'altre faccende affaccendata. Non so se il regolamento parlamentare glielo consenta, ma auspico che Grasso dia la parola ai senatori che vorranno ricordare quell'avvenimento storico che è sempre estremamente attuale e poi tolga la seduta. Sarebbe un gesto estremamente apprezzabile anche se in palese contrasto con chi ha stabilito di cominciare proprio in quel giorno una querelle che dividerà profondamente gli animi anziché unificarli come il significato storico della Resistenza vorrebbe.
***
Gli altri temi di grande rilievo, alcuni di carattere internazionale, altri di carattere interno, sono: la Cina e la svalutazione della sua moneta, la Grecia e le decisioni finali dell'Eurogruppo convocato ieri a Bruxelles, la prospettiva sempre più urgente della nascita di un'autorità europea con una nuova governance, ampie cessioni di sovranità nazionali in economia e in politica. Per quanto riguarda i problemi interni campeggia quello del Mezzogiorno, del fisco e dell'occupazione ai quali altri se ne sono aggiunti: quello della Rai, quello della scuola, quelli della giustizia civile. Li ricordo perché è bene che siano tenuti presente, ma ovviamente cercherò di coglierne il significato con la massima brevità.

Il caso cinese non meritava l'allarme che per dieci giorni ha sconvolto i mercati di tutto il mondo. Più volte governi e Banche centrali dell'Asia, del Giappone, dell'Occidente avevano auspicato una svalutazione dello yuan che, per decisione del governo di Pechino, era stato fissato allo stesso tasso di cambio del dollaro. Un tasso artificiale e politico. Perché? Per incoraggiare gli investitori esteri a scegliere la Cina come loro mercato di espansione. A loro volta le esportazioni cinesi continuavano ad essere incoraggiate dai bassissimi costi di produzione e la moneta cinese comprava titoli pubblici americani in una misura addirittura preoccupante: con quelle riserve, quando l'avesse voluto, la Cina poteva comprare mezza America e mezza metà del mondo (come in parte ha fatto).

Ma ora svaluta la sua moneta. Perché? Perché le esportazioni sono fortemente diminuite, molte imprese private cinesi hanno ridotto il loro lavoro e l'occupazione. Di conseguenza i consumi ristagnano. Questa è la ragione della svalutazione dello yuan, oltre al desiderio di internazionalizzare la sua moneta negli organismi mondiali. Non ci sono dunque motivi di allarme. Tutto può accadere ma non è nelle previsioni.

Della Grecia c'è poco da dire. La trattativa si è alla fine chiusa positivamente anche se la Merkel ha alzato la voce: la Germania va al voto tra due anni e Angela deve fare la faccia feroce per mantenere il consenso della sua pubblica opinione. Gli altri lo sanno, a cominciare da Draghi, e questa è la partita la cui fine positiva è evidente.

Quanto all'Europa, il caso greco è stato provvidenziale per dimostrare la necessità di fare passi avanti verso lo Stato federale. Tra i più autorevoli sostenitori di questa tesi in Italia ci sono Romano Prodi e Guido Rossi. La Boldrini lo scrive esplicitamente sui giornali e ha l'intenzione di convocare i presidenti delle Camere di tutta Europa per una posizione comune. Sarebbe importante se ci riuscisse.
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Dei tre temi che dominano la situazione italiana c'è da dire che non si stanno facendo grandi progressi. Sono entrati nell'agenda del governo è questo è già un apprezzabile risultato, ma non si è andati molto più in là. Le procedure sono lunghe, la semplificazione della pubblica amministrazione comporta anch'essa una procedura assai complessa; Aldo Moro ai tempi suoi sosteneva che fosse necessaria almeno una generazione per rifondare lo Stato, perché di questo in realtà si tratta. In tempi di avanzata tecnologia diciamo pure che ci vorranno tre anni. Il resto, le novità che annuncia il ministro Madia, sono giocattolini da mettere sotto l'albero di Natale.

Questo per quanto riguarda il Mezzogiorno. Il punto che realmente bisognerebbe portare avanti è quello di far nascere ed educare una nuova classe dirigente e politica. I partiti nel Sud sono riserve di caccia, emirati, lobby, "ascari" come Salvemini chiamava i sostenitori di Giolitti. Dopo più d'un secolo i tempi non sono affatto cambiati. La gente onesta e consapevole del Sud è sempre più tentata dall'astensione. Oppure dal votare per gli "sceriffi" e gli "sceicchi"; ma non sarà un bel risultato. Il resto, l'occupazione, il sostegno dei poveri, gli investimenti, l'andamento del reddito, sono, questi sì, obiettivi dove il governo è concretamente impegnato e gode anche del sostegno di Mario Draghi.

Qualche miglioramento c'è ma ancora impercettibile. Le cifre del Pil aumentano in maniera marginale, quelle dell'occupazione non sono ancora positive e i consumi non riescono a ripartire.
Questa è la situazione. In parte dipende dal governo ma anche dall'Europa. Speriamo che consenta quella famosa flessibilità che finora però è parola ma non fatto.

Della riforma costituzionale del Senato non ho alcuna intenzione di parlare. Quello che penso l'ho già detto nelle lettere che ci siamo scambiati recentemente con Giorgio Napolitano e, per quanto mi riguarda, non ho altro da aggiungere. La partita è in mano a Renzi e ai dissenzienti del Pd. Ma una cosa è certa: il premierato, come il nostro presidente del Consiglio lo intende, non è compatibile con la democrazia parlamentare. Che ognuno si regoli come meglio crede.

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15 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/15/news/la_resistenza_e_nata_l_8_settembre_e_tutti_la_ricordino-120997453/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2015, 05:30:02 pm
Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale

Di EUGENIO SCALFARI
23 agosto 2015
   
AL DI LÀ delle numerose occasioni che papa Francesco offre a tutto il mondo dei cattolici, dei cristiani, dei fedeli di altre religioni ed anche ai non credenti, l'ultima va colta per alcune importanti novità della sua predicazione: è il messaggio da lui inviato al meeting di Comunione e Liberazione il giorno dell'apertura a Rimini, per il tramite del vescovo di quella diocesi.

Francesco siede sul soglio di Pietro ormai da due anni e la sua attività è enormemente aumentata. Vorrei dire il suo lavoro, le sue iniziative, la sua fatica. Eppure non sembra. Viaggia, scrive, parla, prega, incontra e soprattutto pensa e combatte. È un uomo come noi, la sua vecchiaia avanza e sta sfiorando gli ottant'anni, ma sembra miracolato. Forse è la fede ad imprimergli un'energia incommensurabile. Ho scritto più volte che un uomo così la Chiesa non lo vedeva al suo vertice da millesettecento anni. Ma non per sapienza teologica né per scaltrezza politica e neppure per inclinazioni mistiche. Francesco ha dentro di sé un'energia rivoluzionaria e un dono profetico, queste sono le sue eccezionalità.

Qualche settimana fa, nel corso di un lungo colloquio telefonico dopo vari incontri, gli domandai se avesse preso in considerazione l'ipotesi d'un nuovo Concilio, un Vaticano terzo che discutesse e sancisse le novità rivoluzionarie che sta introducendo nella struttura della Chiesa. Mi ha risposto di no aggiungendo che il compito che sta cercando di condurre a termine è il mandato ricevuto dal Vaticano II laddove indica come finalità l'incontro della Chiesa con il mondo moderno. Sono passati cinquant'anni da allora e tre Pontefici si sono susseguiti: Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI senza contare papa Luciani che durò poco più di un mese e papa Giovanni XXIII che di quel Concilio fu il promotore. Alcuni obiettivi previsti dal Vaticano II furono realizzati, ma l'incontro con la modernità no, non è stato affrontato e questo è il compito che Francesco si prefigge. Solleverà, non c'è dubbio, una selva di problemi ma lui ha tutte le qualità e tutta l'energia per portarli a termine. O almeno così sperano quelli che gli sono amici per la tempra, l'umanità e la bontà che gli sono innate.

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"È una ricerca, quella che dobbiamo intraprendere, che si esprime in domande sul significato della vita e della morte, sull'amore, sul lavoro, sulla giustizia e sulla felicità. Le esperienze più frequenti che si accumulano nell'animo umano provengono dalla gioia d'un nuovo incontro, dalle delusioni, dalla solitudine, dalla compassione per il dolore altrui, dall'insicurezza del futuro, dalla preoccupazione per una persona cara". E più oltre: "Perché dobbiamo soffrire e alla fine morire? Ha ancora un senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi? Che cosa stiamo a fare nel mondo?" E infine: "Il mito di Ulisse ci parla del "nostos algos", la nostalgia, che può provare soddisfazione solo in una realtà infinita".

Il testo del messaggio inviato al meeting di Rimini è molto più lungo e si conclude con il sostegno che proviene dal Dio creatore e misericordioso e dall'amore di Cristo verso gli uomini suoi fratelli, ma il tema che sta al centro di questo documento papale è racchiuso secondo me nelle frasi che ho qui citato. Esse colgono i problemi, le domande, la sofferenza e le speranze che gli uomini si sono posti in tutte le epoche e che oggi più che mai la modernità scatena nei cuori dei giovani e degli anziani, degli uomini e delle donne, dei credenti e dei non credenti. Rispondere a quelle domande realizza l'incontro della Chiesa con la modernità, ci fa sentire tutti simili e, anche se le singole risposte sono differenti, risulterà sempre più chiaro che la radice della nostra specie è comunque la stessa: libertà, dignità, fratellanza. Francesco lo dice esplicitamente nel messaggio ma consentirà ad un amico quale io mi sento di ricordare che quei tre valori, con l'aggiunta dell'eguaglianza che anche Francesco più volte evoca, sono quelli che dominarono il pensiero liberale e illuminista inaugurando l'Europa moderna.

Non a caso nel messaggio si parla perfino di Ulisse, della sua nostalgia del ritorno ai valori tradizionali della famiglia e della patria, ma insieme al suo inestinguibile desiderio di "realtà infinita".
Che io sappia nessun Papa aveva evocato il mito odisseico, l'eroe moderno per eccellenza che Dante, pur collocandolo all'Inferno, eleva alle vette più alte del pensiero: "Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". "Una scintilla di divinità c'è in tutti noi" mi disse il Papa in uno dei nostri incontri. Lui a questo crede: in tutti, di qualunque nazione, etnia, condizione sociale, male e bene, fede o miscredenza, peccato e perdono. La scintilla di divinità c'è in tutti e il Dio in cui Lui crede è unico in tutto il mondo. Un solo Dio che nessuno può sostituire con un Dio proprio da opporre agli altri. Il fondamentalismo è l'errore più terribile e porta con sé guerre, stragi, terrore.

La Chiesa predica da duemila anni la fede e l'amore del prossimo e una larga parte di essa mise in pratica quei valori. Ma contemporaneamente quella stessa Chiesa patrocinò guerre, stragi, inquisizioni, crociate, in nome del proprio Dio contro quello degli altri. E quando cessò di far questo, continuò a praticare in varie forme e misura il potere temporale. Contro il potere temporale, questa è la battaglia che Francesco sta conducendo e che incontra opposizioni numerose e potenti dentro la Chiesa. E questo è anche il significato del pensiero moderno che divide la politica dalla religione. Rappresentano entrambe il bene comune, la politica quello del benessere, la religione quello dell'anima. Ho detto più volte a papa Francesco nei nostri incontri che Lui concepisce una libera Chiesa in un libero Stato, esattamente come diceva il conte Camillo Benso di Cavour. Benso e Bergoglio uniti insieme: per un liberale come me non ci potrebbe essere un sodalizio ideale migliore di questo. E chi l'avrebbe mai detto: un miscredente e un gesuita che prende il nome di Francesco d'Assisi? La vita è faticosa, ma a volte ti dà anche soddisfazioni e felicità e per me questo è un caso felice.

***

C'è stata finora una sola voce della sinistra che ha chiarito e difeso il segretario della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Nunzio Galantino, indicato come traditore del nostro Paese e perfino della Chiesa da gran parte della forze politiche ed è lui che voglio citare per introdurre un tema che coinvolge ancora una volta, sia pure indirettamente, papa Francesco e la politica. Si tratta di Enrico Rossi, governatore della Toscana e comunista come lui ama definirsi nell'intervista rilasciata ieri a Repubblica . "Basta leggere la "lectio" di Monsignor Galantino su De Gasperi per capire che non ce l'ha affatto con la politica ma con il politichese ridotto alla ricerca del consenso e del marketing. Proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, Galantino l'ha invitata a ritrovare una forte dimensione ideale ed etica. È una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo e ad una parte politica. La destra ha risposto in modo sguaiato ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione, la politica non ha più una propensione ideale e pensa solo a difendere se stessa. Se la sinistra italiana non si misurerà con questo tema proprio nel senso indicato dalla Chiesa di papa Francesco e di Galantino, è destinata a somigliare sempre più alla destra e quindi a scomparire".

Ho letto anch'io nella sua integralità la lectio di Galantino su De Gasperi e vi ho trovato una visione sociale e politica che va molto al di là del personaggio, certamente rilevante, che guidò la Dc e la politica italiana dal 1945 al '54, nel periodo che vide la ricostruzione del Paese dalle macerie lasciate dalla guerra. Quella visione degasperiana è una democrazia governante sulla base di un'alleanza tra la classe operaia e il ceto medio; un obiettivo la cui realizzazione costò a De Gasperi "come una traversata del deserto", dice Galantino; alla fine De Gasperi riuscì a trasformare l'Italia da un Paese sconfitto in una repubblica democratica che puntò su un'Europa unita, insieme alla Germania di Adenauer e alla Francia della sinistra e degli intellettuali. Naturalmente Galantino ricorda il De Gasperi della legge "maggioritaria" del 1952 ma soprattutto il suo scontro con papa Pio XII, che per le elezioni del 1953 puntava su un'alleanza della Dc con i fascisti del Msi e con i monarchici. De Gasperi rifiutò e il Papa affidò alla rivista Civiltà cattolica il compito di stroncarlo partendo dalla notizia che il Papa non condivideva la linea politica degasperiana e ritirava il suo appoggio alla Dc.

È contro quel tipo di Chiesa pacelliana e temporalistica che ancora esiste e combatte duramente contro Francesco per la propria sopravvivenza, che Galantino ricorda i passaggi fondamentali della politica di De Gasperi e chiama in campo personaggi più recenti, cattolici che sia pur nelle mutate condizioni politiche hanno proseguito quella visione del bene comune cattolico-liberale e cattolico-democratica. Cita Pietro Scoppola, un anti-pacelliano molto acuto; cita Romano Prodi che un anno fa a Trento disse che "la risposta ai problemi del Paese non va cercata in un solo individuo ma nella forza delle idee". Cita addirittura Rosmini che un secolo prima e in tutt'altra situazione storica delineò una Chiesa che fu respinta e scomunicata dal Vaticano di allora. E ancora il De Gasperi del congresso Dc del 1954, quando disse che "il credente opera come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione, e impegna se stesso, la sua classe, il suo partito ma non la Chiesa". Naturalmente Pio XII non fu d'accordo e lo disse pubblicamente. Ad un certo punto improvvisamente nel documento che stiamo esaminando l'autore cita un pensiero di Pascal che è sorprendente; due righe che dicono cosi: "Gesù Cristo senza ricchezze e nessuna ostentazione esterna di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato, ma è stato umile, paziente, santo di Dio, terribile per i demoni, senza alcun peccato ".

Dico sorprendente perché Pascal, citato senza commenti da Galantino, descrive Gesù non come un Dio ma come un uomo, "santo di Dio, ma terribile con i demoni e senza peccato ". Un uomo con qualità ammirevoli proprio perché uomo. Così lo concepiscono i non credenti che proprio perché uomo lo ammirano. Così lo considera ormai gran parte dell'Occidente moderno e secolarizzato. Fa parte di quell'incontro con la modernità che Francesco si propone di realizzare. Ed ora il finale di Galantino: "De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella società contemporanea la politica deve ispirarsi a valori universali, a cominciare dalla carità. La politica non è quella che vediamo oggi, forze che disputano all'interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. Noi vescovi italiani dobbiamo pensare al destino del nostro Paese a cui siamo non solo fedeli ma servitori". L'altroieri, parlando brevemente al meeting di Rimini, Galantino ha concluso dicendo: "Non va bene la politica guidata da interessi e fini immediati, etichettati spesso dalla ricerca dell'utile e meno da un progetto consapevole. Ma anche la Chiesa è destinata a rinnovarsi ".

Caro papa Francesco, ti faccio gli auguri più affettuosi e mi permetto di abbracciarti. Hai ancora lunga strada da percorrere ma credo e spero che arriverai fino in fondo.

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23 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/23/news/quando_un_papa_cita_ulisse_e_si_oppone_al_potere_temporale-121448559/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Papa, i migranti, e l'aiuto degli angeli custodi
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:55:52 pm
Il Papa, i migranti, e l'aiuto degli angeli custodi
Francesco negli Usa invocherà la libertà per i profughi nei loro Paesi d'origine.
"Ama il prossimo tuo" è il motto del Pontefice, ma anche della sinistra

Di EUGENIO SCALFARI
30 agosto 2015

NELLE prossime settimane papa Francesco andrà a Cuba, poi a Filadelfia e infine a Washington dove incontrerà Obama e parlerà al Congresso degli Stati Uniti e a New York dove parlerà all'Assemblea dell'Onu e alle grandi potenze del Consiglio di sicurezza. Sappiamo già quale sarà - al Congresso Usa e all'Assemblea Onu - il tema fondamentale di Francesco: quello dei migranti. Lui li chiama così ed è perfettamente corretto dal suo punto di vista; per alcuni Paesi sono persone che vogliono emigrare e lo fanno a prezzo della vita; per altri Paesi sono immigranti che vengono in certi casi accolti, in altri respinti per mancanza dei requisiti richiesti. Ma per Francesco la parola giusta è quella che Lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di ragioni si trasferiscono da un continente all'altro, quasi sempre in condizioni di schiavitù imposte da trafficanti di persone. Popoli che, solo pensando all'Africa sub-sahariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan, ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi trent'anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran parte dell'Indonesia e delle Filippine. Insomma mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai accaduto prima.

Venerdì scorso ho avuto un lungo colloquio telefonico con papa Francesco, che ha toccato vari temi, ma soprattutto quello delle migrazioni. Non starò a raccontare ciò che ci siamo detti su altri argomenti ma su questo sì, penso e desidero farlo perché è dominante nella coscienza del Papa e perché comunque sarà tra pochi giorni direttamente affrontato in due sedi della massima importanza. Francesco sa benissimo che le immigrazioni dirette verso continenti di antica opulenza e di antico colonialismo, anche se riconoscono alcuni diritti di asilo con più ampia tolleranza di quanto finora non sia avvenuto, saranno comunque limitate. Ma il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell'Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni: una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi stessi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. È lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con l'aiuto di centinaia o migliaia di volontari che le assisteranno con una serie di servizi e con un'educazione allo stesso tempo civica e professionale. Questo è il progetto che papa Francesco sta coltivando e che ovviamente ha bisogno del sostegno delle grandi potenze indipendentemente dalla loro civiltà, storia, religione.

La Chiesa missionaria di Francesco sarà naturalmente presente in tutti i luoghi dove le sarà possibile, ma i volontari da mobilitare non saranno ovviamente tutti cristiani. Saranno però soprattutto i giovani ai quali fare appello. I giovani d'oggi hanno una gran voglia di fare che a volte si identifica addirittura alla violenza e al terrorismo. Ma non è il male la radice più naturale. Francesco crede e spera che la radice più diffusa sia quella del fare e dell'aiutare il bene degli altri. Per questo prega e questo pensa e di questo parlerà nel prossimo viaggio. Riuscirà ad ottenere la sponsorizzazione dei Grandi del mondo? Riuscirà a mobilitare al massimo le Chiese missionarie cattoliche e cristiane in un'impresa di questa levatura? Collaboreranno nei loro modi anche le altre grandi religioni del mondo, non inquinate da germi fondamentalisti che portano al terrorismo e alla strage? Una cosa è certa, almeno per me ma credo per immense moltitudini di persone: non c'è che papa Francesco che sia in grado di tentare una simile iniziativa. Ascoltando il suo linguaggio direi che chieda il soccorso di migliaia e migliaia di angeli custodi, in tutte le parti del mondo, ispirati dal Dio che è uno soltanto, quali che siano le forme, le liturgie e le scritture con le quali è venerato.

***

Il tema che ora desidero trattare è del tutto diverso: è politico, è italiano ed europeo. Ma qualche attinenza con quanto fin qui ho scritto c'è. Il tema è quello della sinistra e la domanda è questa: la sinistra può vincere oppure è destinata a perdere perché, almeno in Occidente ma non soltanto, il tempo della sinistra è tramontato per sua stessa insipienza ed è solo al centro che, almeno in Italia e in Europa, si riesce a raccogliere il massimo dei consensi? Per dare una risposta a chi pone questa domanda vorrei come premessa ricordare una massima creata da papa Francesco a proposito dell'etico-politico che è una fondamentale categoria dello spirito pensante: "Ama il prossimo un po' più di te stesso". Si rivolge soprattutto ai ricchi, ai benestanti, ai potenti, e li esorta in favore dei poveri, dei poco abbienti, degli esclusi. Questo è il motto di Francesco ma questa è anche da secoli la bandiera della sinistra, quella cattolico-democratica ma soprattutto quella che fu comunista, azionista, liberaldemocratica. La sinistra moderna insomma, che ha alle spalle la storia di quasi due secoli. Questa è la premessa del tema. "Ora ascoltate com'egli è svolto" (I Pagliacci).

Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" di giovedì 27 agosto ha scritto che in Italia (ma fa anche alcuni esempi europei) la sinistra novecentesca fino all'oggi contemporaneo, non è mai riuscita a vincere per propria incapacità congenita e quindi per propria colpa. Le pochissime volte che ci riuscì pose essa stessa le premesse per perdere al più presto i consensi che aveva per eccezionali circostanze guadagnato. Per cui  -  Tony Blair insegni  -  per vincere la sinistra deve spostarsi al centro e produrre cambiamenti che sono di sinistra non per il contenuto ma per il fatto stesso che innovano e l'innovazione è comunque (per Mieli) un elemento di sinistra. Il giorno dopo, sempre sul "Corsera", Angelo Panebianco ha citato Mieli concordando sulla sua tesi ma dando al tema un'ulteriore e più tecnica dimostrazione. La riassumo in breve: la sinistra non è in grado di realizzare una politica fiscale innovativa e capace  -  sia nel prelievo sia nella spesa e nella ricerca delle risorse  -  di incentivare gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati, di creare nuovi posti di lavoro e insomma sviluppo, crescita e maggior benessere.

La sola cosa che la sinistra (immobilista per antonomasia) è in grado di fare è di trasferire il peso delle tasse dalle spalle di alcune categorie sulle spalle di altre. Insomma, una redistribuzione del carico fiscale che lascia totalmente invariata e immobile l'economica nazionale.

***

Risposta a Mieli. Anzitutto: lo Stato italiano non fu fatto soltanto da Cavour e dai patrioti del suo conio liberale e laico. Fu fatto dalla predicazione di Mazzini, dalla sua "Giovane Italia" e soprattutto dal mazziniano ma assai più carismatico Giuseppe Garibaldi. Se non ci fosse stata l'impresa dei Mille e le due grandi battaglie vinte, quella di Calatafimi all'inizio ("Qui si fa l'Italia o si muore") e quella del Volturno, la guerra franco-piemontese contro l'Austria del 1859 si sarebbe conclusa con l'annessione al Piemonte della Lombardia. Cavour del resto  -  anche per riuscire ad allearsi con Napoleone III  -  aveva dovuto fare il "connubio" con la sinistra di Rattazzi. Tirando le somme: senza la sinistra il Risorgimento non ci sarebbe stato e il Regno d'Italia già molto tardivo a nascere nel 1861, avrebbe probabilmente tardato un altro mezzo secolo.

Ma Mieli lamenta altre cose. Per esempio la fralezza dei socialisti, anarchici all'inizio, massimalisti poi e infine l'impotenza dei comunisti stalinisti. Soltanto Berlinguer ruppe quel vincolo, ma la sua collaborazione con la Dc durò lo spazio di un mattino. Dopo ricominciò una sistematica opposizione che adesso è scaduta a bersaniani, a Gotor, a gruppettari come Fassina e insomma solo adottando la politica di Blair e prendendo molti voti al centro si vince. Ebbene, in alcune cose Mieli ha ragione, ma altre le sbaglia.

All'inizio del secolo XX furono i socialisti di Treves e di Turati a spingere Giolitti su posizioni riformiste. E fu il Partito socialista a battersi contro la guerra del 1915. Infine il grande partito della ricostruzione del Paese e della massiccia emigrazione dei giovani dal Sud al Nord, vide la presenza determinante del Pci, di Togliatti, Ingrao, Amendola, Scoccimarro, Alicata, Longo, Reichlin, Napolitano, Chiaromonte e di molti altri ancora che si dedicarono all'educazione delle "plebi" insieme a sindacalisti della personalità di Di Vittorio, di Trentin e di Lama. Senza una classe dirigente di questo livello la classe operaia non ci sarebbe stata e l'Italia sarebbe affondata nel medio ceto burocratico e nella vecchia cultura contadina. È vero, quella sinistra non governò, ma contribuì all'evoluzione politica e culturale del Paese come e di più di chi governava. Ciriaco De Mita fu tra i pochi a capirlo nella Dc. Ma, tranne rare eccezioni tra le quali De Gasperi, la massa dorotea della Dc fu immersa nel politichese anzi ne fu quella che lo inventò.

A Panebianco ho poco da dire se non questo: tra cambiamento e innovazione c'è una profonda differenza. Innovazione rinnova, lo dice la parola stessa; il cambiamento può essere innovativo oppure regressivo e reazionario. Tanto per fare un esempio (non fiscale ma storico): il principe di Metternich promosse dopo la battaglia di Lipsia il Congresso di Vienna che ebbe termine dopo Waterloo. Cambiò L'Europa? Certamente. Come? Riportando sui troni d'Europa i monarchi assoluti che la Rivoluzione e Napoleone avevano abolito.

Il fisco attraverso il quale si crea il reddito a favore delle classi meno abbienti non è affatto immobilista. Panebianco dovrebbe dirci se sia stato meglio dare 80 euro mensili al medio ceto come mancia elettorale permanente, oppure se non sarebbe stato molto meglio ridurre il cuneo fiscale con quei 10 miliardi.

E se sarebbe privo di effetti innovativi l'abolizione del cuneo fiscale che tutti gli altri provvedimenti, a cominciare dal Jobs Act, che non hanno ancora prodotto neppure l'ombra di un nuovo posto di lavoro.

Mi contenterei di questa risposta. Grazie.

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30 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/30/news/il_papa_i_migranti_e_l_aiuto_degli_angeli_custodi-121867346/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un fiume vivo può liberare i migranti dai ghetti
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2015, 05:38:56 pm
Un fiume vivo può liberare i migranti dai ghetti

Di EUGENIO SCALFARI
06 settembre 2015
   
IL TEMA dei migranti ha di fatto spostato profondamente tutte le priorità finora dominanti. Restano certamente del massimo rilievo i problemi della crescita economica, la crisi di tutti i Paesi emergenti a cominciare dalla Cina e dal Brasile, gli interventi delle Banche centrali per sostenere l'assetto sistemico delle forze produttive, dei debiti sovrani, del credito bancario. Queste realtà richiedono, anzi impongono attenzione e concreti interventi ma, nonostante la loro rilevanza, passano in seconda linea di fronte al tema dei migranti.

Le realtà sistemiche riguardano interessi generali ma non valori etico-politici; il tema delle migrazioni di massa investe invece direttamente e drammaticamente i valori, che non sono ideali astratti, ma incidono anche sugli interessi collettivi e individuali; chiamano in causa il destino e la vita delle persone, delle famiglie, delle comunità, dei popoli.

Interi popoli sono in movimento in tutto il pianeta e in modo particolare in Africa, nel vicino Oriente, nell'Asia centrale e nell'Asia del Pacifico. Fuggono da guerre, stragi, povertà; hanno come destinazione i Paesi e i continenti di antica opulenza, suscitando rari sentimenti di accoglienza e molto più frequentemente reazioni di chiusura e respingimento.

Questo tema ha ripercussioni sociali, economiche, demografiche, politiche; durerà non meno di mezzo secolo, cambierà il pianeta, sconvolgerà le etnie vigenti, accrescerà ovunque le contraddizioni che sono il tratto distintivo della nostra specie; tenderà ad avvicinare le diverse religioni ma contemporaneamente ecciterà i fondamentalismi e i terrorismi che ne derivano.

Esalterà le libertà individuali e le mortificherà con nuove e diffuse forme di schiavismo e traffico di persone; configurerà nuovi diritti e cancellerà i vecchi che ne costituiscono la base.

Ieri sul nostro giornale il direttore Ezio Mauro ha descritto con eccezionale efficacia la storia di quegli individui che vengono ridotti a nudi corpi, marcati sulla pelle da numeri per distinguerli e perseguitarli con maggiore determinazione. Quelle operazioni di massa avvengono al centro dell'Europa, in nazioni che sessant'anni fa giacevano ancora in una servitù etnica e politica e si ribellarono proprio per recuperare quella libertà che oggi conculcano per difendersi dai migranti.


Così facendo - scrive Mauro - quei popoli non si rendono conto di ridurre essi stessi a nudi corpi privi di valori; creano ghetti dove rinchiudere i nuovi arrivati, ma quel che resta a loro è un altro ghetto dove si auto-rinchiudono di propria iniziativa. Dove andranno i polacchi, gli ungheresi, gli slovacchi, se l'Occidente li isola per loro stessa scelta? Andranno verso la Russia? Escluso, è la storia che glielo impedisce. Ecco perché anche i loro Paesi rischiano di diventare nient'altro che ghetti. Ma spesso le contraddizioni sono anche positive. Questa, descritta da Mauro, porta con sé la riscoperta dei valori europei ed è stata la Germania della Merkel a farsene promotrice avendo con sé il grosso dell'opinione pubblica del suo Paese e del resto d'Europa: società civili, istituzioni, forze produttive, club sportivi, studenti, intellettuali.

Nella conferenza di due giorni fa a Francoforte sulla situazione monetaria europea, un giornalista ha chiesto a Mario Draghi una parola che definisse che cosa pensava degli avvenimenti nell'Est europeo contro gli immigrati. La risposta è stata la parola " orripilato" scandita e ripetuta due volte.

Così lo siamo tutti, con tre eccezioni, due delle quali sono purtroppo italiane: Salvini, Grillo, Le Pen. Ma è lecito prevedere che una parte dei loro attuali consensi populisti li abbandoneranno al momento del voto.

***

L'aspetto positivo dello sconquasso in corso è il risveglio dell'Europa e dell'Occidente, non soltanto dei valori dei quali abbiamo già detto ma del suo massimo rafforzamento in termini di governo. L'Unione politica ed economica fin qui ha fatto passi avanti, limitatamente, per quanto riguarda l'economia, ma assai pochi nelle cessioni di sovranità politiche.

Già il terrorismo dell'Is aveva sottolineato questa necessità, ma dopo un'esaltazione transitoria quel risveglio si è nuovamente appisolato. Ora però si tratta di migranti, di centinaia di migliaia di persone che dal Sud e dall'Est bussano alla porta d'Europa e i membri dell'Ue - in certi casi perfino dell'eurogruppo - che si chiudono nel loro ghetto senza vie di uscita.

Si aggiunga a questa insensata diffidenza l'atteggiamento quasi analogo della Danimarca e quello decisamente inaccettabile della Gran Bretagna. Il premier inglese Cameron aveva promesso un conservatorismo moderato; invece sul tema delle immigrazioni è andato molto al di là. Di fatto ha chiuso la porta in faccia alla Germania, ha ribadito l'intangibilità del trattato di Dublino, ha ricordato che la Gran Bretagna accoglie più immigrati di qualunque altro Paese europeo e forse mondiale.

Quella affermazione è vera e non è vera. Gran parte di quelli che oggi Cameron definisce immigrati sono cittadini britannici da quando sono nati nei loro Paesi di origine che non erano più colonie ma membri dei Commonwealth con tutti i diritti che quello " status" gli aveva concesso, tra i quali la cittadinanza. Alla fine del colonialismo molti di quelli (indiani soprattutto) si trasferirono in Gran Bretagna. Sono immigrati? No, non lo sono.

Cameron in realtà si sta staccando dall'Unione mentre era sembrato che volesse semmai stringere di più i vincoli d'appartenenza europea. Sarebbe interessante sentire in proposito che cosa ne pensa Tony Blair. I voti, dice lui, si prendono al centro e anche a destra. Con questi bei risultati?

Resta comunque il tema dei popoli migranti, che va molto al di là perfino della buona volontà della Merkel. Non si tratta purtroppo del milione di migranti in fuga dalla Siria, dalle coste greche e libiche, dalla Turchia, dalla Somalia, dal Sudan. E neppure si tratta di quei cinque milioni che già preparano la fuga dall'Africa subsahariana.

In realtà, soltanto in quell'Africa, i potenziali migranti sono un popolo di cinquanta milioni e si va ben oltre se si aggiungono le popolazioni addensate in Pakistan, in Indonesia, nell'India meridionale, nelle Filippine.

Le regole che l'Europa dovrà approvare nello stato attuale delle nostre istituzioni riguardano sostanzialmente l'emergenza. Ma quest'emergenza, anche se continuiamo a chiamarla così, durerà a dir poco mezzo secolo e se l'Europa non accelera il mutamento della sua governance, affonderà in un pantano.

Prendo un esempio italiano. Il nostro presidente del Consiglio è pienamente d'accordo con la Merkel e con Hollande per quanto riguarda gli immigrati in fuga da paesi di guerra e di strage e sta facendo allestire in Italia presto e bene capacità di accoglienza anche maggiori di quelle attuali. Contemporaneamente però manda più o meno a quel paese la Commissione europea per quanto riguarda la politica fiscale italiana che la Commissione gli rimprovera (con molta moderazione). La cosa preoccupante è che anche il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, è in questo caso d'accordo con lui. In più si attende maggiore flessibilità dalla Commissione per attuare una politica di " deficit spending".

Può darsi che quella politica sia ciò che è ora necessario. Personalmente ne dubito. La sola vera politica per rilanciare gli investimenti sarebbe nel concentrare tutte le risorse sul cuneo fiscale: una decontribuzione di massa, questa è la soluzione, non di abolire l'imposta sulla prima casa.

Ma il punto vero è questo: dove si discute questo problema ed altri analoghi? In uno Stato federale? Allora non sarebbero né Renzi né Hollande né la Merkel a discutere, ma un Parlamento europeo, una Presidenza europea e un governo europeo, cioè la Commissione eletta dal Parlamento.

Per l'intanto ci vogliono leggi che diano slancio agli investimenti pubblici e interventi di incentivo a quelli privati. Draghi il suo " bazooka" sulla liquidità, l'acquisto di titoli di Stato, le facilitazioni ai privati, li sta spingendo al massimo. Una parte cospicua del famoso tesoretto che fa diminuire il nostro deficit tra Pil e debito viene dagli interventi di Draghi ed anche il ministro dell'Economia lo ammette. Ma solo l'abbassamento del cuneo fiscale procurerebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. Il resto sono chiacchiere.

***

Quanto ai migranti, le voci che sono in grado di parlare al mondo sono due soltanto: quella del presidente Usa, che a questo punto è il capo della sola, unica potenza mondiale. Dunque Barack Obama. L'altro, perfino più di lui, è papa Francesco.

Il solo modo non di abolire ma di moderare le migrazioni di interi popoli è di educarli civilmente e professionalmente sulle terre dalle quali vogliono andarsene. Bonificare eticamente quelle terre. Trasformare le loro plebi in popoli.

Domenica scorsa scrissi che il mondo aveva bisogno di migliaia e migliaia di angeli custodi, cioè d'un volontariato capace di svolgere quella funzione educativa, protetto dalla sponsorizzazione delle grandi potenze. Il plurale è d'obbligo ma è metaforico: la grande potenza è una sola. Unita a quella d'un Papa come l'attuale, quegli angeli custodi sarebbero l'aiuto del quale il mondo ha bisogno in questo fine d'epoca che stiamo vivendo.

In un messaggio inviato ieri alla Chiesa argentina, Francesco ha parlato d'un fiume di acqua viva che nel suo scorrere irrora uomini, terre, natura e vita. Eraclito aveva scritto " Tutto scorre". E questa è l'immagine con la quale chiudiamo queste considerazioni.

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06 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/06/news/un_fiume_vivo_puo_liberare_i_migranti_dai_ghetti-122303887/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Sui migranti il premier c'è, ma non sogna un'Europa federale
Inserito da: Arlecchino - Settembre 15, 2015, 05:03:38 pm
Sui migranti il premier c'è, ma non sogna un'Europa federale

Di EUGENIO SCALFARI
13 settembre 2015

RENZI ieri mattina ha disdetto tutti gli impegni che aveva preso nel fine settimana ed è partito per New York per assistere alla finale degli Us Open di tennis tra le due italiane Flavia Pennetta e Roberta Vinci che il giorno prima avevano sgominato le due giocatrici più forti del mondo. Non era mai accaduto che due italiane si contendessero la finale e il presidente del Consiglio ha voluto esser presente a questo confronto eccezionale che corona a suo modo la ripresa economica e politica del nostro Paese dopo anni di triboli e di recessione.

Un fatto analogo era accaduto molti anni fa quando, in occasione della finalissima dei mondiali di calcio in Spagna, Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, era andato a Madrid accolto dal re Juan Carlos ed era poi tornato ospitando nel suo aereo la squadra vittoriosa e giocando a carte con i giocatori. Del resto, in questi stessi giorni, Berlusconi è andato in Crimea ospite di Putin, ha deposto un mazzo di fiori davanti alla stele che ricorda i caduti italiani nella guerra di Crimea del 1853 in cui entrò Cavour per dare al regno di Piemonte un livello europeo e facilitare l'alleanza con Napoleone III nella guerra del 1859. Berlusconi, dopo questo improvviso sfoggio culturale, ha consigliato a Putin di battersi per sconfiggere in Siria i terroristi del Califfato. Dunque quando l'ex Cavaliere di Arcore dice che Renzi è il suo "figlio buono" non sbaglia: Renzi conosce benissimo il modo per sottolineare un evento che nulla ha a che vedere con la politica e con l'economia ma soltanto con il consenso popolare.

Un figlio buono, anzi buonissimo e non lo dico con ironia ma faccio una semplice constatazione. Una constatazione analoga ed anche più notevole debbo farla per la lunga lettera aperta da lui inviata al direttore del nostro giornale e da noi pubblicata venerdì scorso. È un documento che rivendica il ruolo dell'Italia sul tema degli immigranti dal Sud e dall'Est del mondo, la nostra presenza nel salvataggio di centinaia di migliaia di vite, nella pressione esercitata a Bruxelles affinché quel tema, quel riconoscimento dei valori e dei diritti dei quali gli immigranti sono portatori, diventassero l'impegno principale che l'Europa doveva assumere.

In un certo senso il nostro presidente del Consiglio ha preceduto la Merkel ed ora l'Italia è il Paese più vicino alla Germania e ovviamente il più lontano dai populismi antieuropei alla Salvini nonché alla "politica dei muri" dei quattro Paesi dell'Est europeo, della Danimarca e dei conservatori inglesi. Sono segnali  -  quelli di Renzi nella lettera a noi diretta  -  che finalmente, almeno sul tema dell'immigrazione, mettono in atto concretamente una politica nuova, moderna, positiva, che accomuna i partiti moderati e quelli di una sinistra riformatrice, dando voce all'Europa come noi la vorremmo e la vogliamo. Perciò: bene Renzi se continua così.

***

In quello stesso numero di venerdì scorso del nostro giornale c'è anche un'intervista del collega Andrea Tarquini con Lech Walesa, storico fondatore del sindacato Solidarnosc che fu un sindacato cattolico e rivoluzionario della Polonia dominata dall'Urss, della quale era allora arcivescovo Wojtyla, che poi fu eletto papa col nome di Giovanni Paolo II. Walesa accetta in pieno la politica aperta ai migranti seguendo in questo la predicazione e l'insegnamento di papa Francesco, ma pone anche un altro problema: quello dell'Europa unita e federale senza la quale gli Stati nazionali del nostro continente affonderanno. Conviene citarlo per capire fino in fondo il suo pensiero: "L'Europa sta perdendo i suoi valori solidali. Abbiamo coltivato i nostri valori solo nel giardinetto dei piccoli Stati nazionali. L'Europa deve saper dire addio agli Stati nazionali e farsi struttura globale, aperta, democratica, moderna. Lo Stato nazionale di oggi ben presto apparirà anacronistico folclore. Oggi servono su tutti i temi e problemi soluzioni europee e valori globali. Il passo finale di questa politica deve essere la Costituzione, la carta fondamentale che ancora manca all'Europa. L'America fece questo, oltre ad aprirsi ai migranti di tutte le provenienze ed oggi, non a caso, è il Paese numero uno del mondo intero".

Così dice Walesa, fondatore di quella Solidarnosc che rivoluzionò la Polonia e inferse la prima ferita alla dominazione dei sovietici in quegli anni ormai lontani. E così dice anche la nostra presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha mobilitato su questo stesso tema i presidenti delle Camere di Francia, Germania e Lussemburgo che comunicheranno lunedì prossimo al presidente Mattarella questa loro risoluzione.

Renzi concorda con l'obiettivo qui delineato? Temo proprio di no. Gli piace l'Europa degli Stati nazionali confederati; ambisce di essere uno dei leader di quella Confederazione della quale l'Italia fu uno dei fondatori nel lontano 1957; ma non accetterà un declassamento degli Stati nazionali a membri d'uno Stato federale. Questo è un handicap molto grave. Purtroppo condiviso da gran parte dei capi di governo dell'Ue. Se la Germania si muovesse in questa direzione, se la sinistra europea facesse altrettanto, allora forse la Federazione europea diventerebbe possibile. Su questo punto Renzi non risponde e non ne parla. Ha fatto benissimo a volare a New York, meriterebbe d'essere accolto al ritorno da quella canzone cantata splendidamente da Frank Sinatra, ma il problema dell'Europa federale è alquanto più importante e da lui la risposta finora non è venuta.

***

È questa dell'Europa federata la sola carenza di Matteo Renzi di fronte alle esigenze d'una moderna democrazia e d'una moderna sinistra? Risponde con una frase molto chiara Piero Ignazi in un articolo di ieri sul nostro giornale: "La spada di Brenno appartiene ai barbari, l'"agorà" all'alba della civiltà. Se c'è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Renzi perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. Questo è il tema e il problema e anche per questo un Senato potrebbe servire". Così conclude Ignazi e questa, a mio avviso, è la realtà dello scontro. L'arbitro della verifica è il presidente del Senato il quale deve giudicare ammissibile il voto del Senato sul contestato articolo 2 della legge di riforma costituzionale. Questo dispone la Costituzione, come Gianluigi Pellegrino ha dimostrato venerdì su "Repubblica". Grasso non ha in materia alcun margine di discrezionalità: quell'articolo dev'essere ridiscusso, quale che ne sarà il risultato. Qualora accadesse, quando si arriverà al voto, che il governo fosse battuto dalle opposizioni e dalla minoranza interna al Pd, dovrebbe dimettersi? L'obbligo in Costituzione non è previsto a meno che il governo non ponga la fiducia, il che su una legge di riforma costituzionale è del tutto improprio anche se esistono alcuni precedenti in proposito.

Comunque, ove mai il governo si dimettesse (cosa che mi sembra improbabile ed anche non auspicabile) il presidente della Repubblica ha fatto sapere, sia pure in forma non ufficiale, che non ha alcun motivo per sciogliere le Camere, il che del resto è evidente. Il problema riguarda soprattutto l'opposizione interna al Pd la quale, su una legge costituzionale, non ha alcun vincolo di mandato politico. Un Renzi battuto ma non dimissionario avrebbe probabilmente pieno appoggio dalla sua minoranza nelle leggi sul lavoro, sulla crescita e sull'equità sociale. Sarebbe, da tutti i punti di vista, un auspicabile risultato.

P. S. Alcuni giorni fa, in uno suo articolo editoriale in prima pagina del Corriere della Sera, Paolo Mieli ha segnalato un mio supposto errore con le seguenti parole: "Giova ricordare ad Eugenio Scalfari che l'estate scorsa ha sollevato dubbi circa l'opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell'iter di riforma costituzionale, che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi se ne dicesse turbato. Mieli è lui che sbaglia. Scalfaro si era messo a capo di una campagna referendaria e Ciampi non obiettò perché era un fatto del tutto lecito. I miei rilievi riguardano invece l'iter parlamentare di una legge di riforma che ancora non è stata approvata e neppure discussa fino in fondo. Questo mi sembra irregolare. Non guidare una campagna referendaria a legge già approvata dal Parlamento.

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13 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/13/news/sui_migranti_il_premier_c_e_ma_non_sogna_un_europa_federale-122767231/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il labirinto dell'Europa sui migranti e dell'Italia sul Senato
Inserito da: Arlecchino - Settembre 22, 2015, 06:41:44 pm
Il labirinto dell'Europa sui migranti e dell'Italia sul Senato
Per uscire dal dedalo della riforma ci vuole il filo di Arianna ma alla fine i suoi due capi resteranno in mano a Renzi. Sui flussi migratori, si pensi a che cosa sarebbe accaduto se fossero esistiti gli Stati Uniti europei con norme federali

20 settembre 2015
Eugenio Scalfari

I migranti e l'Europa. Lo spettacolo di alcuni Paesi membri dell'Unione europea di fronte alle ondate di decine di migliaia di persone provenienti dall'Africa subequatoriale, dalla Siria, dalla Libia, dal Kurdistan. I valori sui quali è nata l'Unione europea messi sotto i piedi dall'Ungheria, dalla Polonia, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Croazia. Questo è accaduto e continua non solo ad accadere ma a coinvolgere la simpatia anche di altri membri dell'Unione come i Baltici. È una situazione intollerabile e come tale giudicata da tutti gli altri componenti dell'Unione a cominciare dalla Germania, dall'Italia, dalla Francia. Ma, nonostante questa inaccettabilità più volte affermata vigorosamente, non si è andati oltre, alle parole non sono seguiti i fatti, sia perché si cerca piuttosto un compromesso che uno scontro aspro e duro in una fase di difficoltà economiche notevoli e non ancora superate e sia perché l'Ue è una confederazione di Stati nazionali ognuno dei quali è padrone in casa propria salvo alcune modeste cessioni di sovranità che riguardano più l'economia che la politica.

Questa constatazione mi ha fatto pensare che cosa sarebbe accaduto se esistessero gli Stati Uniti d'Europa e come sono in grado di comportarsi gli Stati Uniti d'America quando hanno dovuto affrontare problemi consimili ai nostri di discriminazioni, xenofobie, immigrazioni. L'immigrazione è regolata da norme federali: se uno straniero è in regola con quelle norme e può varcare i cancelli di ingresso, circola liberamente in tutto il Paese.

La discriminazione fu abolita da Lincoln con la guerra di secessione: la vittoria contro i sudisti ebbe come risultato costituzionale l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alla xenofobia, tutte le associazioni razziste, a cominciare dal Ku Klux Klan, furono soppresse e la loro ricostituzione vietata. Provvedimenti come quelli di erigere muri e sbarrare i confini da parte di singoli Stati dell'Unione sarebbero immediatamente e concretamente vietati, la polizia locale sostituita da quella federale alla quale ove si dimostrasse necessario si affiancherebbero anche reparti dell'esercito degli Stati Uniti.

Quanto sta accadendo è la vergogna d'Europa, non solo per gli Stati xenofobi e dittatoriali, ma per tutti, che dopo settant'anni dal manifesto di Ventotene non sono ancora riusciti a dar vita ad una Federazione europea. Vergogna.

***

La riforma costituzionale del Senato della Repubblica italiana è un tipico labirinto per uscire dal quale ci vuole il filo di Arianna. Il mito racconta che due personaggi tengono quel filo: Arianna e Teseo. Tutti e due si salvano e si mettono provvisoriamente al sicuro ma, arrivati all'isola di Nasso, Teseo abbandona Arianna; lei viene violentata dal dio Dioniso che poi la trasforma in una costellazione. Il filo resta per terra in quell'isola sperduta senza più nessuno che lo tenga in mano.

I lettori forse si domanderanno che cosa c'entra il mito del labirinto con la riforma del Senato. C'entra, eccome. Nel labirinto dell'articolo 2 della legge di riforma Teseo è Renzi e Arianna è Bersani. Se l'accordo che si profila tra la maggioranza renziana e la minoranza andrà a buon fine, il Pd uscirà dal labirinto ma alla fine Renzi (Teseo) abbandonerà Bersani (Arianna) che finirà in cielo, cioè fuori dalla vera partita politica. Il filo però non sarà abbandonato per terra ma i suoi due capi resteranno in mano a Renzi.

Personalmente la vedo così. Può darsi che sia un bene per il Paese, Renzi resta il capo indiscusso e unico, la minoranza è fuori gioco ma onorata e luccicante come le stelle. Il guaio è che il labirinto resta in piedi. Chi ci sta dentro? Non certo la minoranza che riposa nell'alto dei cieli. Dentro ci sta di nuovo Renzi alle prese con l'Europa e soprattutto con quelli che l'Europa la vorrebbero federata. Il nostro presidente del Consiglio no, vuole mantenere i poteri deliberanti in mano agli Stati nazionali.

Del resto non è il solo: quasi tutti i capi di governi nazionali non vogliono essere declassati. A volere l'Europa federata sono rimasti in pochi: uomini di pensiero, vecchi ma anche molti giovani che detestano frontiere e localizzazioni; Draghi con la sua Banca centrale; molti presidenti delle Camere europee, a cominciare dalla nostra Laura Boldrini; forse Angela Merkel, consapevole che anche la Germania in una società sempre più globale finirebbe col trasformarsi da nave d'alto mare in un barcone sballottato dai flutti.

Tutto è dunque appeso al filo di Arianna perché se è vero che l'Italia è un labirinto, molto più labirintica è l'Europa. Un capo del filo per uscire dal labirinto europeo è in mano alla Germania, l'altro capo dovrebbe essere il popolo europeo a tenerlo, il quale però non dimostra alcun interesse a questa vicenda. Ci vorrebbero all'opera partiti europeisti e questo avrebbe dovuto essere il compito anche del Partito democratico italiano.

Questo scenario è affascinante ma anche assai fantomatico. Storicamente somiglia al Risorgimento italiano: chi avrebbe mai pensato nel 1848, che il Piemonte di Cavour da un lato e Giuseppe Garibaldi dall'altro avrebbero fondato lo Stato unitario italiano? Nessuno l'avrebbe pensato in un Paese diviso in sette o otto staterelli, con un popolo fatto di plebi contadine e d'una borghesia appena nascente e interessata più a progetti economici che sociali e politici? Invece accadde, in tredici anni. Chissà che il miracolo non avvenga anche nell'Europa di domani. Tredici anni sono un lampo anche se sarebbe meglio farlo prima.

***

Ancora qualche parola sulla diatriba riguardante la riforma del Senato. L'archivio storico della Camera dei deputati è molto solerte nello studio dei documenti in sue mani e non rifiuta, se richiesta, di darne notizia al richiedente. Personalmente avevo un vago ricordo di un documento che rimonta ai tempi del governo Dini. Il nostro giornale ne aveva dato notizia a quell'epoca. Comunque adesso ho potuto rileggerlo e merita che i nostri lettori ne conoscano la parte essenziale. Si tratta di una proposta di legge il cui contenuto è rappresentato da queste parole: "La democrazia maggioritaria deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte di governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e delle libertà dei cittadini: principi, regole, diritti che non sono e non possono essere rimessi alle discrezionali decisioni della maggioranza 'pro tempore'". La proposta fu firmata da una settantina di parlamentari, tra i quali Napolitano, Mattarella, Leopoldo Elia, Piero Fassino, Walter Veltroni e Rosy Bindi. La data è del 28 febbraio 1995.

Questa proposta non fu trasformata in legge e dopo alcuni mesi Dini si dimise, ma il suo valore resta. E se fosse ripresentata oggi? Chi la firmerebbe? E la riforma del Senato che non si limita a puntare sull'elezione indiretta dei componenti ma ne riduce il numero rendendolo insignificante nei "plenum" dove la Camera conta su 630 rappresentanti e ne riduce soprattutto le attribuzioni legislative ben oltre la questione della fiducia al governo riservata alla sola Camera? Reggerebbe questa riforma di fronte ad una legge come quella proposta nel 1995?

Quanto alla legge elettorale che prevede il premio alla lista che avrà il quaranta per cento dei voti espressi, è la prima volta che questo accade; fu solo la legge (fascista) di Acerbo del 1923 ad accordare il premio di maggioranza ad un partito ben lontano dall'avere ottenuto la maggioranza assoluta. Non è anche questa  - anzi soprattutto questa  -  una stortura istituzionale su un sistema monocamerale con gran parte dei suoi componenti nominati dal governo?

Siamo in presenza d'una politica che sta smantellando il potere legislativo a favore d'un esecutivo dove il gruppo di comando si compone di non più d'una decina di persone. Non è una oligarchia ma un cerchio magico di infausta berlusconiana e bossiana memoria.

Arianna sta tra le stelle e le nuvole del cielo, forse era meglio che non si fosse messa in viaggio e tenesse ancora un capo di quel filo.

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20 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/20/news/il_labirinto_dell_europa_sui_migranti_e_dell_italia_sul_senato-123262129/?ref=fbpr


Titolo: Eugenio Scalfari, lo zibaldone per un altro futuro
Inserito da: Arlecchino - Settembre 23, 2015, 10:28:30 am
Eugenio Scalfari, lo zibaldone per un altro futuro
 
Esce oggi il nuovo libro del fondatore di "Repubblica". "L'allegria, il pianto, la vita" è una raccolta di riflessioni, ricordi, citazioni e poesie.
Dopo i saggi e i romanzi per la prima volta la scrittura è in forma di diario per registrare non gli eventi, "ma i mutamenti interiori generati dalla realtà"

Di SIMONETTA FIORI
22 settembre 2015

Il futuro compare fin dal principio, in un verso della poesia dedicata al fiume della vita. E la parola ricorre nelle pagine, declinata con l'attesa e l'inquietudine, curiosità del futuro o paura per il futuro, comunque passione per il mondo, anche per quello ignoto che verrà. In un diario scritto da chi si sente "vicino alla fine del viaggio" ci si aspetterebbe ripiegamento, nostalgia, malinconica resa all'ultimo traguardo. Il tempo trascorso, non quello che sarà. E invece Eugenio Scalfari continua a sorprenderci con un nuovo importante libro - per la prima volta in forma di diario - che è sì un confronto aperto con la " Signora nerovestita" ma con il cuore e la testa rivolti alle generazioni prossime.

Memorie personali e riflessioni filosofiche per chi continua il viaggio. L'allegria, il pianto, la vita (Einaudi) può essere letto anche come una sorta di lascito intellettuale e politico d'un testimone di un'epoca già conclusa che però non rinunzia a intercettarne una nuova. Senza accenti apocalittici, anzi con la speranza che la trasmissione della memoria possa un giorno essere riattivata dai quei giovani "audaci, volitivi, creativi" che oggi "immaginano il futuro senza avere il supporto del passato" e un domani forse potranno farvi ricorso. Come in fondo è già successo nella storia.

Ma per immaginare il futuro bisogna avere il coraggio di penetrare la realtà, esercizio coltivato da Scalfari nelle sue molteplici vesti di fondatore di giornali, scrittore, pensatore, saggista di storia, ora anche poeta. E ne è una prova anche questo inedito zibaldone che attinge a depositi di memoria privata e intellettuale in continuo movimento ("il passato non è un cimitero") per rispondere alle grandi domande sul senso della vita e della Storia. Amore e potere. Guerra e pace. Quale dei due sentimenti - amore e potere - è quello che fa più girare la ruota dell'esistenza? La natura dell'uomo tende alla guerra o alla pace? Domande di carattere universale che sembrerebbero scaturire - specie la prima - anche da un vissuto esistenziale che però resta fuori dalla pagina.

Amore e potere sono stati i sentimenti prevalenti nella sua vita pubblica e privata, talvolta illuminandosi vicendevolmente nelle distinte sfere, soprattutto nel mestiere di direttore di

giornale (che in altre pagine del diario associa al ruolo dei registi e dei direttori d'orchestra, "fanno lo stesso mestiere che per tanti anni ho fatto anch'io, quello di dirigere il lavoro degli altri e realizzare se stessi attraverso gli altri. Sono soprattutto curatori quando non addirittura possessori di anime"). Ma in questa sua nuova passeggiata filosofica Scalfari sembra dimenticare l'autobiografia, concentrandosi su un potere totalmente sprovvisto di amore se non per se stesso. Ed è in questo potere che individua il regolatore supremo della vita associata. Nel potere e nella guerra per ottenerlo. Ma se il potere e la guerra sono le passioni predominanti, la Storia non è più progresso e libertà, non è più razionalità, ma solo caso a vantaggio dei più forti (lo storicismo crociano definitivamente sepolto). E perfino Eros, il Signore dei desideri nume tutelare del suo personalissimo Olimpo, incrudelisce con le parole di Saffo in "dolce amaro indomabile serpente". Metafora della nostra "contrastata vita".

Non c'è una trama lineare e prevedibile, né nella vita né nella storia. Alla verità ci si avvicina per frammenti, perché di " scintille" e " schegge" sono fatti gli uomini, "scintille di divino, di desiderio del potere, di poesia, di amorosità, di concupiscenza, anche di anarchia". Sì, anche di libertà anarchica, ripete l'autore che recupera le sue letture giovanili di Bakunin, elevando la disobbedienza a capacità di sognare, di aspirare al bene comune. Scalfari sembra voler disobbedire soprattutto al presente, all'attuale assetto politico - italiano ed europeo - , alla inadeguatezza delle classi dirigenti e del popolo che le ha scelte. In un confronto con i classici del pensiero politico, da Machiavelli a Mazzini, s'interroga sulla natura del popolo italiano e sui fallimenti delle é lite nazionali: le plebi sottomesse si sono mai elevate alla condizione del popolo sovrano? La moltitudine di contadini, " anime morte", masse inconsapevoli che costituivano la massima parte della società italiana all'epoca dell'unificazione è mai diventata una comunità civile, partecipe della vita pubblica, capace di influenzarne il corso? Solo in parte, risponde Scalfari. Ed è questa incompiutezza che vede deflagrare nella società globale di oggi, nella "plebe incantata dal carisma dei Dulcamara", "pronta a innamorarsi del Narciso altrui e ad avvalersi di quella libera servitù per far trionfare a livelli più bassi il Narciso proprio". Uno spettacolo disperante per chi si è dedicato con intensità politica e culturale alla costruzione dell'assetto democratico e all'educazione civile di quelle masse.

Un'analisi senza possibilità di redenzione? Non proprio. Scalfari resta un protagonista del Novecento che ha eletto la politica - e l'etica - a bussola per l'avvenire. Per quanto sconsolato appaia lo sguardo sulla natura umana, non cede al pozzo profondo della malinconia. Anche questo suo zibaldone è una testimonianza di fiducia nella scrittura e nella sua funzione civile, dunque ancora una volta gesto politico. Allegria e pianto, evoca il titolo. Ma su tutto sembra prevalere il terzo elemento della titolazione, un istinto vitale capace di trasformare la fine in un nuovo inizio, lo sconforto in progetto, la nostalgia in speranza di futuro. È nelle pagine sui dolori privati - tra le più belle e coinvolgenti - che si trova la chiave di questa sua vocazione. Nei lutti famigliari - il padre, la madre, la moglie Simonetta - morte e rinascita come parte di sé. Negli strappi sentimentali poi felicemente ricomposti: Serena, sua compagna da quarant'anni. E soprattutto nei lutti che riguardano la sua vita pubblica. Rivelatore il pianto per la morte di Pannunzio, il padre politico e culturale da cui aveva preso le distanze sempre per ragioni di natura ideale. Una rottura "senza sofferenza né risentimenti", almeno fino alla malattia del fondatore del Mondo : lì accade qualcosa che lo tocca nelle corde più intime, "volevo vederlo e riabbracciarlo prima che il peggio avvenisse". Per la prima volta Scalfari che ha fatto del paterno il suo destino ci mostra il dramma umano di lui figlio che viene tenuto lontano dal capezzale, costretto a osservare il corpo malato del padre attraverso uno spiraglio della porta, le sue spalle scosse da un respiro affannato, "un rantolo che mi penetrò a tal punto da scatenare un rantolo mentale". Escluso dalla sua morte, escluso anche dai funerali: "ero stato disconosciuto senza che lui sapesse che esisteva un orfano". Il pianto è per l'uomo ma soprattutto per il capostipite d'una famiglia, quella dei liberali di sinistra, a cui Scalfari continua a restare fedele. E il coccodrillo del padre diventa storia politica, proposito, legame tra passato e futuro. "Lo scrissi senza sentire che lo stavo scrivendo. L'autore di quel ricordo da me firmato non ero io, avevo scritto meccanicamente. L'autore era la storia della cultura politica, era lei ad averlo scritto".

Guardare in avanti, sempre. Anche la fotografia in copertina lo ritrae mentre passeggia con il suo labrador in campagna: in movimento, sicuro di aver fatto la sua parte, di continuare a farla. Mai lasciarsi scoraggiare dalla fine, perché "è legge che tutto ciò che nasce debba morire". Nessuna illusione su Dio, "meravigliosa invenzione degli uomini" per consolarsi della loro finitezza. Entrare nel futuro insieme, possibilmente sulle note di I'm in the Mood for Love suonata da Louis Armstrong. Solo così il viaggio non finisce.

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22 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/22/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_1316697-123397932/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Papa e Obama parlano al mondo, ascoltiamoli
Inserito da: Arlecchino - Settembre 28, 2015, 07:44:46 pm
Il Papa e Obama parlano al mondo, ascoltiamoli

Di EUGENIO SCALFARI
27 settembre 2015

LA POVERTA', la discriminazione, la corruzione: questi sono i mali del mondo e tutto il male restante è da questi che deriva. Così pensa e dice papa Francesco e questa è la sua predicazione che cominciò in Argentina quarant'anni fa ed è continuata con ben altra ampiezza di ascolto da quando siede sulla sedia di Pietro.

Non era però accaduto che questo tema, che con una sola parola onnicomprensiva si può definire disuguaglianza, fosse affrontato dinanzi al Congresso degli Stati Uniti d'America e poi all'Assemblea delle Nazioni Unite. La disuguaglianza è la causa e il suo più vistoso effetto è quello della migrazione, che riguarda centinaia di milioni di persone e interi popoli che si spostano da un Paese all'altro, da un continente all'altro, rivendicando i loro diritti di persone umane e la loro libertà.

Eguaglianza, libertà, fraternità: sono questi i tre valori che tre secoli fa l'Europa rivendicò ed è su di essi che si sta realizzando l'incontro tra la Chiesa di Francesco e la modernità laica. Un Papa dal linguaggio profetico e rivoluzionario come Lui non s'era mai visto prima: gesuita fino in fondo, francescano fino in fondo, che ha saputo unificare la parte migliore di questi due Ordini della Chiesa, in apparenza molto lontani tra loro. La loro storia è diversa, ma la loro ispirazione ha le medesime finalità della Chiesa missionaria di Francesco: ama il prossimo tuo come e più di te stesso.

Più volte mi sono posto la domanda del rapporto tra questo Papa e la politica. Lui esclude che questo rapporto vi sia ed infatti combatte il potere temporale della Chiesa cattolica.

 Proprio perché una Chiesa missionaria come Lui la concepisce non ha e non deve esser deturpata dal temporalismo, cioè dall'amore verso il potere. Gli effetti di questa lotta tuttavia si riverberano con inevitabile intensità sulla politica. Corruzione, discriminazione, povertà, sono alcuni dei connotati che caratterizzano il potere e deturpano la politica. Non a caso Francesco è stato accusato di simpatie "comuniste". È una accusa volutamente e ingiustamente aggressiva, alla quale Francesco ha risposto cristallinamente: "Io predico il Vangelo; se i comunisti dicono le stesse cose, sono loro che adottano il Vangelo".

Qualche amico mi ha chiesto chi sono a mio parere gli uomini più importanti e che maggiormente influenzano la situazione del mondo d'oggi. La mia risposta è: Francesco e Barack Obama. Operano in settori diversi ma le finalità sono affini. Purtroppo non avranno molto tempo a loro disposizione ed è assai improbabile che i loro successori siano alla stessa loro altezza. È addirittura possibile che abbiano finalità diverse dalle loro. La storia del resto non è coerente nel suo procedere, affidata più al caso che al destino; variano le passioni, le emozioni, gli interessi e quindi i valori e gli ideali. Ma i momenti culminanti e chi li rappresenta sia nel bene sia nel male rimangono nella memoria storica e aiutano le anime vigili e responsabili a tener conto del prossimo e della "polis", due parole che indicano la stessa realtà vista da due diverse angolazioni: il prossimo si configura in una convivenza tra liberi ed eguali. Così vorremmo che fosse.

***
Sarebbe altrettanto interessante capire chi sono le personalità più rimarchevoli in Europa e in Italia, luoghi geopolitici, sociali, economici e culturali che ci riguardano molto da vicino. Nel nostro continente Angela Merkel, Mario Draghi e anche Putin: la Russia è bi-continentale ma la sua parte politicamente essenziale è quella ad Ovest degli Urali o addirittura ad Ovest del Volga. Quindi Europa.

La Merkel nelle ultime settimane ha perso improvvisamente peso, anzitutto con quanto è accaduto e sta tuttora accadendo con le ondate di migranti e la reazione che hanno provocato nei Paesi dell'Est europeo e nella stessa Germania. Poi, ancor più recentemente, con lo scandalo Volkswagen che ha messo in crisi non soltanto una delle principali case automobilistiche del mondo intero, ma l'industria tedesca nel suo complesso, con possibili chiamate di correo perfino politiche.

La Germania è sulla difensiva su tutti i fronti: quello delle immigrazioni, quello dell'economia industriale, quello della dominanza europea. Questa crisi indebolisce l'Europa perché con una Germania incerta anche l'Europa diventa più incerta. Il futuro del nostro continente è strettamente legato alla costituzione degli Stati Uniti d'Europa. L'ultimo e più autorevole appello perché quest'evento si compia è stato di Giorgio Napolitano che al convegno sulla giustizia promosso a Piacenza ha avuto in proposito parole nettissime. Se quest'evento sfumasse verso un tempo indeterminato -  ha detto Napolitano -  l'Europa e tutti gli Stati nazionali che la compongono diventerebbero insignificanti nel panorama mondiale con effetti negativi di carattere economico sociale e di conseguenza politico. Una chiarezza di giudizio encomiabile, ma purtroppo Napolitano non dispone più di strumenti concreti per dare seguito a ciò che pensa e dice su questo tema. Per fortuna Mattarella la pensa allo stesso modo e lui qualche strumento di concreta pressione lo ha.

In questo panorama di incertezza e indebolimento dell'Unione europea, chi dispone di strumenti importanti e concreti è Mario Draghi e li sta usando sempre più drasticamente: ha aumentato nel tempo e nella misura il "quantitative easing"; ha penalizzato la liquidità delle banche quando se ne servono per interessi propri anziché della clientela; sta estendendo le garanzie ai depositanti e alle banche e l'acquisto di titoli pubblici. Nella sua ultima dichiarazione pubblica ha chiesto alla Commissione di Bruxelles e al Parlamento di istituire un ministro del Tesoro europeo che sia il solo interlocutore politico della Banca centrale, responsabile d'un bilancio europeo molto più ampio di quello attuale, un debito pubblico sovrano con relativa emissione di titoli e una propria politica di investimenti. Il tutto con le necessarie cessioni di sovranità. Ha sollecitato infine l'Italia a varare leggi del lavoro e sgravi fiscali che abbiamo come obiettivo quello di incentivare gli investimenti e creare nuovi posti di lavoro. Quanto all'aumento dei tassi di interesse Usa, ormai deciso dalla Fed americana, produrrà un rafforzamento del tasso di cambio del dollaro con ulteriore deprezzamento dell'euro che favorirà ancor più le esportazioni di merci europee (e italiane) verso l'area del dollaro.

***
In Italia la personalità politica più importante è Matteo Renzi, per suo merito e per la debolezza degli altri. Personalità politicamente e moralmente più rilevanti della sua ce n'è più d'una ma sono persone, non forze politiche. Per di più una parte rilevante del popolo italiano lo segue con rassegnato entusiasmo, come fece in altri tempi con Berlusconi.

Quanto agli oppositori, il consenso che raccolgono è nettamente minore del suo: Il Movimento 5Stelle è l'inseguitore più prossimo ma il distacco è ampio e non pare destinato a diminuire. Quanto all'opposizione interna, alla resa dei conti ha mostrato la sua fragilità, maggiore di quanto si pensasse, negoziando e accordandosi con lui su dettagli e abbandonando l'obiettivo numero uno che loro stessi definivano il recupero di quei valori, ideali e concreti, d'una moderna sinistra. La realtà ha dimostrato che quei valori si sono persi per strada e assai difficilmente saranno recuperati.

Il problema dell'elezione diretta dei senatori -  che comunque è stato anch'esso di fatto abbandonato -  era uno strumento per recuperare quei valori. La battaglia sul Senato rappresenta un grimaldello per ottenere che il regime monocamerale non fosse subordinato al governo come di fatto sarà in una Camera di "nominati". Questo era l'obiettivo, smarrito per strada da senatori democratici che l'avevano indicato molte volte e poi l'hanno mandato in soffitta.

Può darsi che un Renzi che governa da solo in un Paese come il nostro sia una soluzione ottimale.
Va notato tuttavia che le leggi fin qui prodotte sono di modestissima qualità, le abbiamo su questo giornale esaminate con attenzione e ne abbiamo individuato pregi e difetti. Debbo dire che i difetti sono molto più numerosi dei pregi e lo dimostra un esperto come Gianluigi Pellegrino e perfino un "renziano" come D'Alimonte, sul Sole 24 Ore di venerdì. Civati sta raccogliendo firme per un referendum abrogativo. Vedremo domani se avrà ottenuto il numero previsto dalla legge ma se quel referendum si facesse la decisione passerebbe al popolo e forse sarebbe un fatto positivo.

Ma il modo più idoneo a recuperare valori costituzionali in gioco potrebbe essere la ripresentazione di quella proposta di legge che non ebbe la possibilità di essere votata, presentata nel 1995 con una settantina di firme tra le quali quelle di Mattarella, Napolitano, Walter Veltroni, Piero Fassino, Leopoldo Elia, Rosy Bindi. Il nucleo essenziale suonava così: "La democrazia parlamentare deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte del governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e della libertà dei cittadini; principi, regole, diritti che non possono essere rimessi alle decisioni della maggioranza pro-tempore".

Ho ricordato questa proposta nel mio articolo di domenica scorsa. Oggi ne propongo la ripresentazione perché è il solo modo di rafforzare la fragile democrazia esistente senza con ciò impedire a Renzi di dare il meglio di sé evitandone il peggio.

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27 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/27/news/il_papa_e_obama_parlano_al_mondo_ascoltiamoli-123762207/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. In Italia abbiamo un piacione e ci vuole innamorare
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 08, 2015, 12:12:41 pm

In Italia abbiamo un piacione e ci vuole innamorare

di EUGENIO SCALFARI
ore 4.20 del 4 ottobre 2015


PER me è molto noioso dovermi occupare ancora di Renzi ma chi esercita la professione di giornalista ha l'obbligo di capire e raccontare quel che fanno i protagonisti delle vicende politiche. Renzi è tra questi e se c'è un uomo politico che desidera comparire ogni giorno sui media d'ogni colore, questo è lui e non certo Romano Prodi da lui accusato di commettere abitualmente questo peccato. Nel merito Renzi attribuisce a Prodi una posizione che giudica totalmente sbagliata a proposito della guerra in Siria. Il tema è tra i principali e più drammatici di questo agitato periodo: guerre tribali, delitti orribili del Califfato, stragi effettuate da Assad e prima di lui da suo padre, incertezze dell'America e dell'Europa, spregiudicatezza estrema della Russia di Putin e dell'Iran e un intrico in tutto il Medio Oriente, descritto da Bernardo Valli ieri su questo giornale.

Sul tema Siria, nell'intervista rilasciata al nostro Claudio Tito, Renzi ha detto: "Dubito delle ricette scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che debelleremo l'Is. Occorre un progetto pluriennale, una coalizione che non si limiti ad annunciare qualche raid aereo". Le ricette semplicistiche sarebbero quelle di Prodi, ma le sue, di Renzi, quali sarebbero? Non esclude affatto l'intervento delle truppe di Assad, ammette che i raid aerei non basteranno a debellare l'Is e auspica una coalizione delle grandi potenze. Un progetto pluriennale. Ma nel frattempo che cosa si fa?

Prodi a sua volta ha detto che "quella in Siria è un fatto determinante e il suo andamento dipende soprattutto dal rapporto tra Usa e Russia. Ma nessuna delle due potenze invierà truppe sul terreno. Aerei sì, truppe no. Quindi il malandato esercito di Assad va rafforzato perché quelle soltanto sono le truppe disponibili sul terreno. Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli bombardamenti aerei l'Is non sarà battuto" . Dunque, su questo problema Renzi e Prodi dicono cose molto analoghe. La sola differenza è che Renzi auspica una coalizione internazionale che di fatto già esiste, sia pure con tutte le contraddizioni che caratterizzano la storia dell'intero Medio Oriente. La differenza è che Prodi è soltanto un osservatore informato di prima mano, Renzi dovrebbe essere un attore ma non lo è perché su questo terreno il premier italiano non viene consultato né dall'America né dalla Russia né dall'Europa. A lui piacerebbe e anche a noi, ma le cose stanno esattamente così.

***

Il tema che desidero trattare oggi è quello dei rapporti tra la politica e l'informazione. La questione tra Renzi e Prodi ne è stata una necessaria premessa, ma il tema è molto più complesso e non si pone soltanto nel nostro paese ma dovunque. La politica cerca il consenso, l'informazione racconta i modi con i quali il consenso è ricercato e molte altre cose che con la politica hanno poco o nulla a che fare. Ma c'è di più: per ottenere il consenso la politica cerca di conquistare l'informazione e cioè i giornalisti e i loro editori. L'informazione a sua volta ambisce di influenzare la politica indicandole interessi da tutelare e valori ai quali ispirarsi. Entrambe si sentono depositarie di interessi generali dietro i quali tuttavia si celano spesso interessi particolari dei singoli politici e dei singoli addetti all'informazione.

Aggiungo un altro aspetto tutt'altro che secondario del problema che stiamo esaminando: spesso, in Italia soprattutto, gli editori proprietari di giornali e televisioni ricavano i loro profitti da altre attività economiche prevalenti rispetto a quelle dell'editoria. Il cosiddetto editore puro è una figura prevalente nei paesi occidentali, ma piuttosto rara in Italia, non oggi ma da sempre. Questa situazione caratterizza il rapporto tra politica e informazione, aggravandolo ancora di più se la politica possiede direttamente strumenti informativi di massa.

Per esser chiari ricorderò quanto accadde durante i vent'anni di regime fascista. Il "Popolo d'Italia" fondato da Mussolini, fin dai tempi dell'intervento nella guerra del 1915, era un giornale di partito; ma quando il Duce conquistò il governo instaurò il regime le sue mire furono d'impadronirsi dei grandi giornali d'opinione e della radio. Fondò l'Eiar, servizio pubblico monopolista, e affidò i grandi giornali a gruppi economici e famiglie che barattarono quel beneficio con una completa subordinazione politica al regime. Alla "Stampa" di Torino fu estromesso Frassati al quale subentrò la famiglia Agnelli; al "Corriere della Sera" fu estromesso Albertini e prese il suo posto la famiglia Crespi; al "Messaggero" di Roma la famiglia Perrone, proprietaria dell'Ansaldo e azionista della "Banca di sconto", si asservì a Mussolini e così accadde anche al "Mattino" di Napoli, alla "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari e al "Giornale di Palermo", al "Popolo di Roma", al "Resto del Carlino" di Bologna, alla "Nazione" di Firenze. Insomma l'intera stampa italiana, nazionale e regionale, fu in mano a famiglie succubi del regime e spesso titolari anche di altre attività economiche più redditizie dei giornali. Quindi editori "impuri" e politicizzati. Situazioni analoghe si verificarono nella Germania nazista, nella Spagna franchista, nel Portogallo salazariano. Dove esiste la dittatura o una democrazia fragile e anomala, il rapporto tra politica e informazione è assai poco confortante per la libertà.

***
L'Italia per fortuna non è un regime, non lo fu ai tempi della Democrazia cristiana né a quelli di Berlusconi e neppure dopo Berlusconi. Renzi è al potere da appena due anni e non mi pare che abbia in mente una dittatura. Vuole comandare da solo, questo sì; vuole un Parlamento "dominato", questo anche, ma non più di tanto. Del resto siamo anche membri dell'Unione europea, che è ancora una confederazione e quindi sono gli Stati nazionali a decidere le mosse dell'Unione. Nessuno di loro ama l'eventuale prospettiva degli Stati Uniti d'Europa. Ma comunque l'Unione c'è e chi ha la leadership in Italia deve tenerne conto.

Ciò non toglie che Renzi vuole comandare da solo e non lo nasconde. Non con editti ma con la capacità di farsi amare. A Roma uno come lui lo chiamano "piacione". È un piacione, è questo che vuole e ci riesce abbastanza. Quando non ci riesce si arrabbia e molti, che non lo amano affatto, fanno finta di esserne innamorati; altri che sono invece incantati dalla sua piacioneria, fanno finta di non esserlo, di sentirsi neutrali, liberi di decidere pro o contro. Così facendo dicono no nelle questioni marginali ma lo appoggiano in quelle fondamentali. Insomma c'è grande confusione in questo paese, col risultato che molti e specialmente i giovani si allontano dalla politica, sono indifferenti, leggono poco i giornali, guardano sempre meno la televisione e i "talk show" in particolare, dove il tema pressoché unico è ormai diventato Renzi magari anche per criticarlo ma l'argomento che predomina è sempre lui. E la gente  -  i giovani soprattutto  -  cambia canale o spegne e passa a Internet dove la scelta degli argomenti e degli interlocutori è infinita.

Renzi  -  l'ho già detto  -  non vuole un regime. Vuole piacere. Vuole comandare da solo. Vuole ridurre il Senato ad un'agenzia territoriale con 74 eletti secondo le leggi regionali, 21 sindaci di grandi città e 5 nominati dal presidente della Repubblica. Vuole una Camera di "nominati" che si presentano in più circoscrizioni contemporaneamente. Vuole insomma che l'Esecutivo sia nettamente più forte del Legislativo, mentre in una democrazia forte dovrebbe avvenire il contrario. Vuole il cambiamento ma non dice quale. Vuole la sinistra purché sia moderna, alla moda di Tony Blair che ereditò e mantenne viva nella sua essenza la politica della Thatcher, non più di destra ma di centro.

Questo è Renzi. Quanto all'informazione, in Italia è ancora libera ma difficilmente riesce a vincere l'indifferenza, forse perché anche noi stiamo diventando indifferenti e un'informazione indifferente non esiste più.
Il rischio è di diventare una democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese. Un'ampia maggioranza non se ne interessa più, vive per proprio conto e bada alla sua situazione economica. Il resto è chiacchiera, divertimento, tristezza e musica rock. Un tempo era l'età del jazz. Adesso anche il jazz è andato in soffitta.

Da - repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I protagonisti sono tre: Obama, Putin e Francesco
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:12:29 pm
I protagonisti sono tre: Obama, Putin e Francesco
Renzi pensa che, con un impegno militare in Siria e un'iniziativa in Libia per distruggere i barconi degli scafisti, il ruolo dell'Italia cambierebbe di colpo.
Ma l'Europa è ai margini di questi eventi, non ha una politica estera comune.
L'Italia è soggetto passivo e potrebbe diventarlo ancora di più stimolando l'attuazione di attentati in un Paese che è sede del Pontefice

Di EUGENIO SCALFARI
11 ottobre 2015

L'ITALIA entrerà in guerra contro il Califfato musulmano utilizzando i suoi quattro aerei Tornado di stanza ad Abu Dhabi per bombardare le posizioni dell'Is in Iraq? O si tratta soltanto d'un cambiamento delle regole di ingaggio dei nostri avieri? Quale che sia il modo di gestire la questione, il nostro premier vuole che sia il Parlamento a decidere, quindi lui la vede come un atto di guerra vero e proprio perché questo gli torna utile. Se infatti l'Italia entra in guerra acquista con ciò il diritto di partecipare a pieno titolo alle riunioni dei Paesi che in quella guerra ci sono già, sia pure con ruoli diversi e talvolta conflittuali: Usa, Russia, Turchia, Francia, Siria, Iraq e dunque anche Italia. Renzi vuole un ruolo internazionale e in questo caso lo avrebbe.

Gli basta? No, non gli basta. Lo vuole anche in Libia. Non più come negoziatore dell'accordo tra Tobruk e Tripoli, ormai realizzato dall'incaricato dell'Onu che ha lavorato per cinque mesi al fine di ottenerlo; ma come protettore, una sorta di Lord Protector in posizione dominante per la distruzione dei pescherecci e dei barconi utilizzati dagli scafisti e dai mercanti di uomini, l'allestimento di centri di raccolta in territorio libero e l'eventuale intervento nei Paesi di partenza dei migranti nell'Africa sub-sahariana.

Se questi sono gli obiettivi, il ruolo dell'Italia cambierebbe di colpo, sia all'Onu, sia in Europa, sia nella Nato; i rapporti con Obama si farebbero più stretti, altrettanto quelli con Juncker, presidente della Commissione europea, e con Putin. Insomma: uno statista di livello mondiale che del resto -  pensa lui - l'Italia merita essendo stata una dei cinque fondatori della Comunità europea che nacque col Trattato di Roma del 1957 dal quale l'Unione prese l'avvio. Naturalmente queste varie iniziative con le quali Matteo Renzi sta costruendo il suo podio costano soldi. Non pochi. Ma di quest'aspetto finora non si è parlato.

Avranno un peso reale sulla situazione migratoria e sul Califfato? Nessuno. Le dimensioni di quella guerra aumentano di giorno in giorno e si diffondono in tutto il mondo. Giorni fa ci furono attentati in Bangladesh, a migliaia di chilometri dal Califfato, Stato islamico. Ma ieri due kamikaze si sono fatti esplodere nella stazione centrale di Ankara provocando una strage di almeno cento morti e centinaia di feriti, il massacro più grande che sia avvenuto in questi anni e in un Paese appartenente al tempo stesso al mondo islamico, all'Europa, governato da un presidente autoritario, impegnato in una guerra civile che data da decenni con i curdi. Per ora la strage non è stata ancora rivendicata, ma Erdogan e i curdi si rimpallano le accuse.

Questa è la vera guerra che si intreccia con quella siriana mentre nel frattempo si è riaperto il conflitto tra Israele e Hamas, sempre più cruento da Gaza alle rive del Giordano.

L'Europa è al margine di questi eventi, non ha forze armate proprie, non ha una politica estera comune, quindi non è un soggetto attivo, ma dal punto di vista di soggetto passivo è fortemente sotto schiaffo. E l'Italia è anch'essa soggetto passivo. Potrebbe diventarlo ancora di più perché Roma è Roma. Le iniziative puramente figurative del nostro presidente del Consiglio valgono ben poco sul terreno ma possono - se passeranno in Parlamento - stimolare l'attuazione di attentati in un Paese che è la sede del Pontefice.

Naturalmente sono stati già presi in proposito opportuni provvedimenti di sicurezza ma il progetto di Renzi va avanti perché egli coltiva il disegno di essere un nuovo Cavour, quello che mandò i soldati piemontesi a combattere in Crimea per guadagnarsi la stima dell'Europa e della Francia di Napoleone III, con il fine di portare avanti l'obiettivo dello Stato italiano.

Renzi è dunque il successore di Cavour? Forse lo è di Berlusconi e nel frattempo ha adottato Verdini. Siamo alquanto lontani da Camillo Benso, da Garibaldi e da Mazzini.

***

Nelle pagine del nostro giornale ci sono oggi servizi approfonditi sui vari aspetti della situazione in Medio Oriente, di Bernardo Valli, Adriano Sofri, Marco Ansaldo ed altri colleghi in varie zone collocati. Non ho quindi nulla da aggiungere salvo una considerazione sui protagonisti di questa vicenda che impegna il mondo intero per le sue ripercussioni non soltanto politiche ma anche sociali ed economiche, sulle materie prime, sui flussi migratori, sulle religioni.

Ebbene, esaminando tutti questi intrecci di interessi, valori, fedi religiose, fondamentalismi, cupidigie di potere ma anche desideri di libertà, di eguaglianza, di diritti, di solidarietà, a me sembra che i protagonisti siano tre: Obama, Putin, papa Francesco.

Il Presidente Usa ha in animo un obiettivo: in un mondo multipolare vuole che l'America indichi qual è la musica da suonare e il suo ritmo, ed è l'America il direttore d'orchestra che coordina i vari strumenti. È chiaro che gli strumenti sono diversi tra loro, alcuni più importanti di altri e c'è lo spazio anche per i solisti di importanza tale da essere equiparati al direttore dell'orchestra, ma è sempre lui a dare l'avvio perfino al solista e a guidare con la sua bacchetta il gran finale. Questa è la funzione che Obama assegna agli Stati Uniti e la missione affidatale è quella della pacificazione, del progresso civile e ovviamente del ruolo americano.

Putin è consapevole che dirigere l'intera orchestra e scegliere il testo da suonare non è compito suo. Perfino ai tempi dell'Urss e del mondo diviso in due da contrapposte ideologie, l'impero americano era molto più vasto di quello sovietico che non poteva far blocco neppure con lo Stato comunista cinese.

Putin non ha più una ideologia da usare come strumento politico, né un'economia potente che lo sostenga, anzi versa in condizioni economiche estremamente agitate. Non ha neppure una forza militare importante come quella che gli Usa sarebbero in grado di allestire in caso di necessità. E tuttavia gioca con coraggio e grande abilità la sua partita in Europa e in Medio Oriente.

In Europa vuole circondare le sue frontiere con una cintura di Stati neutrali che corrisponde più o meno a quelli dominati (con fatica) dall'Urss. Il caso ucraino è il più significativo, ma non è il solo.

In Medio Oriente lo "zar" vuole potersi affacciare sulla sponda mediterranea ed aver voce economica e politica anche su quello scacchiere. La Crimea era fondamentale per la presenza russa nel Mar Nero, ma il Mediterraneo è ancora più importante per ovvie ragioni e la presenza dei russi in Siria è motivata soprattutto da questo scopo: attrezzare nel Mediterraneo una base che non sia soltanto – come già è – un porto d'attracco, ma una presenza economica del genere di quelle che ebbero nel Rinascimento le basi commerciali delle Repubbliche marinare italiane e di Venezia in particolare.

Questo vuole Putin, che sa tuttavia di dover stipulare un accordo con gli Usa e con Obama in particolare perché chi tra un anno gli succederà non è detto che conceda alla Russia il ruolo di comprimario che Obama, pur cercando di limitarlo, è comunque disposto a riconoscergli. L'accordo tra i due sarà raggiunto nei prossimi giorni e non sarà certo un intralcio la posizione di Assad che di fatto rappresenta un punto di passaggio d'una mediazione quanto mai necessaria.

Il terzo protagonista, papa Francesco, si muove su tutt'altre dimensioni, non politiche ma religiose. La sua visione religiosa tuttavia è talmente rivoluzionaria da esercitare effetti politici rilevanti dei quali Francesco è perfettamente consapevole.

La dichiarazione - il nocciolo della predicazione papale - che Dio è unico in tutto il mondo anche se viene descritto e declinato dalle varie confessioni attraverso le sacre scritture diverse tra loro, è un punto di fondo con conseguenze politiche estremamente importanti. Il Dio unico esclude ogni fondamentalismo e punta invece su un proprio Dio e lo contrappone a quello degli altri. Il terrorismo del Califfato musulmano con i suoi kamikaze che sacrificano le loro giovani vite pur di ammazzarne altre, è una mostruosa derivazione del fondamentalismo del quale il Dio unico di Francesco è la più assoluta negazione.

Il Papa nella sua visione moderna della Chiesa esercita anche molti altri effetti positivi sull'orientamento politico dei popoli e delle loro classi dirigenti, ma quello principale a tutti gli effetti è appunto la religione dell'unico Dio. La platea di Francesco è il mondo intero ma soprattutto l‘America del Sud, l'Africa, il Medio Oriente, le isole indonesiane, la Polinesia, le Filippine. India e Cina sono continenti più remoti rispetto ad un Papa cristiano che infatti punta a mano tesa anche su quegli Stati continentali. Nell'India meridionale ha già messo piede entrando in contatto con milioni di persone.

Senza Francesco, comunque, il nostro mondo e la nostra modernità sarebbero estremamente più poveri. Per tutti, non credenti compresi. Lui, pur essendo portatore della fede che interamente lo possiede, è il Papa più laico della storia cristiana. Lo sa e non se ne duole. Una massa di credenti è anche laica poiché è consapevole del libero arbitrio e lo usa con responsabilità così come allo stesso modo lo usa il laico non credente.

Purtroppo accade anche che credenti e non credenti usino il libero arbitrio nel modo peggiore. Ne abbiamo sotto gli occhi gli esempi più efferati o più stupidi e francamente non saprei dire quale dei due esempi è più faticoso da combattere e da sopportare.

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11 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/11/news/i_protagonisti_sono_tre_obama_putin_e_francesco-124804296/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Scalfari, colloquio con Prodi: "L'Is non si batte solo con...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 03:23:36 pm
Scalfari, colloquio con Prodi: "L'Is non si batte solo con i bombardamenti.
Obama rafforzi l'esercito di Assad"
Dallo strapotere americano sul web, al ruolo dell’Europa e della Bce nei nuovi equilibri geopolitici
E sulla guerra al Califfato l’ex premier dà ragione a Putin

Di EUGENIO SCALFARI
02 ottobre 2015

PARLARE, anche per chi gli è amico da oltre trent'anni, con Romano Prodi equivale a consultare un atlante storico e geografico del mondo intero, un mappamondo che gira mari, monti e paludi. A me capita spesso questo privilegio e due giorni fa si è ripetuto. Ne riferisco a sua insaputa perché so che aiuterà i nostri lettori ad orientarsi sull'agitata realtà che ci circonda con maggiori informazioni, tutte di prima mano.

Prodi ha ricoperto vari ruoli nella sua vita, che è ancora lontana dalla vecchiaia. È stato ministro, presidente dell'Iri, presidente del Consiglio, presidente della Commissione europea ed ora ha incarichi dall'Onu. Conosce la Cina, la Russia di Putin, il Medio Oriente, l'Africa maghrebina e quella subequatoriale. E soprattutto conosce l'Europa. Nel nostro incontro ci siamo ripassati tutte queste realtà: cambiano ogni giorno nella crisi di epoca che stiamo attraversando e quindi è utile aggiornarsi con frequenza per non perdere il contatto con la realtà.

"Una crisi d'epoca - mi ha detto - hai ragione. Una crisi d'epoca globale ed è la prima volta che accade perché è la prima volta che investe una società globale. In essa il potere dominante è nelle mani delle grandi reti d'informazione, quelle che di fatto monopolizzano Internet. Sono queste le vere multinazionali: arrivano dappertutto e influenzano largamente l'utenza mondiale, i giovani soprattutto. Ma l'elemento da non perdere di vista è che sono tutte americane, senza eccezione alcuna. Questo non significa che siano influenzate dal governo americano, ma riflettono inevitabilmente la società di quel paese-continente, il suo modo di vivere e le sue contraddizioni, i suoi pregi e i suoi difetti".

È possibile che le multinazionali dell'informazione nascano anche in altri Paesi? L'Europa è un continente che ha una ricchezza notevole, una cultura non certo inferiore a quella americana. Sarebbe dunque perfettamente in grado di creare multinazionali informative. Perché non lo fa?
"Perché i Paesi che la compongono sono disuniti e gli Stati che ne fanno parte se agiscono da soli non sono in grado".

Tu pensi e ti auguri che nascano gli Stati Uniti d'Europa?
"Lo penso e me lo auguro, sì, ma penso anche che difficilmente avverrà".

Hai ragione, finora è stato così, ma potrebbe cambiare.
"Ci vorrebbe un Paese forte o un gruppo di Paesi forti che fossero decisi ad agire in quella direzione e una pubblica opinione che li aiutasse a imboccare quella strada. Ma non si vede traccia di tutto ciò".

Germania. È il Paese più forte e più popoloso del nostro continente ed ha anche fedeli alleati che la seguono sempre.
"Ma ha anche molti avversari".

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E REPUBBLICA+

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02 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/10/02/news/_l_is_non_si_batte_solo_con_i_bombardamenti_anche_obama_rafforzi_l_esercito_di_assad_-124123428/?ref=HREC1-4


Titolo: SCALFARI. Conservatori e temporalisti lo frenano ma Francesco non si fermerà.
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 25, 2015, 12:03:31 pm
Conservatori e temporalisti lo frenano ma Francesco non si fermerà

Di EUGENIO SCALFARI
25 ottobre 2015
   
IL PAPA non ha un tumore, sia pur benigno, al cervello né altre malattie. Se ne avesse lo direbbe. Jorge Bergoglio è un uomo le cui passioni sono state e sono la verità e la fede. La verità per lui è un valore assoluto; accetta il relativismo di tutti gli altri valori ma lo respinge fermamente per quanto riguarda la verità. Dico queste cose perché di esse abbiamo più volte discusso nei nostri incontri. E poiché io non credo nella verità assoluta, lui ha colto quale fosse la differenza che ci divideva: per lui la verità assoluta coincide con Dio, per un credente la verità propria è assoluta, ma soltanto la propria, ben sapendo che può non coincidere con quella degli altri.

Ricordo queste conversazioni perché mi danno la certezza che se fosse ammalato il Papa lo direbbe. Del resto alcuni mesi fa fu proprio lui a dire pubblicamente: "Non avrò molto tempo per portare a termine il lavoro cui debbo attendere, che è la realizzazione degli obiettivi prescritti dal Vaticano II e in particolare quello dell'incontro della Chiesa con la modernità". Questa dichiarazione per la parte che riguarda il "poco tempo disponibile" destò una grande sorpresa ed anche una forte preoccupazione tra quelli che ritengono essenziale il suo pontificato per un rinnovato messaggio della Chiesa. La sua pubblica risposta fu questa: "Non ho per mia fortuna alcun male, ma sono entrato in un'età nella quale le possibilità di vita diventano sempre minori man mano che il tempo corre. Spero soltanto che il trapasso non sia fisicamente doloroso. Ma detto questo è tutto nelle mani di Dio".

Quindi papa Francesco oggi non è malato. Resta da capire perché "gli avvoltoi volano su di lui" come ha scritto efficacemente Vito Mancuso giovedì scorso sul nostro giornale. Avvoltoi, che lanciano falsità contro Francesco sperando che diventi pontificalmente cadavere, che il Sinodo sulla famiglia e il Giubileo sulla misericordia siano due fallimenti così pure la sua politica religiosa nei confronti dell'incontro con la modernità e della decostruzione -  secondo loro -  della Chiesa.

Gli avvoltoi sono costruiti a tutto questo e carichi di conseguenze. Nei nostri articoli dei giorni scorsi i loro interventi sono stati esaminati e collegati ad una logica perversa l'uno all'altro. Ragioni di potere religioso e temporalistico li animano e una visione completamente diversa della Chiesa. Loro non vogliono una Chiesa aperta come vuole Francesco; non vogliono la sua Chiesa missionaria, non vogliono la fine del temporalismo. Considerano Francesco un intruso, una specie di alieno, di rivoluzionario incompatibile con la tradizione. Perciò combattono, gettano fango, diffondono notizie false, rivelano pretesi documenti, svelano posizioni interne nel vescovato cattolico. Una guerra vera e propria. Francesco la vincerà o la perderà? E quali sono i pilastri della sua predicazione e quali le sue armi (se di armi si può parlare) in questo scontro tra chiesa temporalistica e chiesa missionaria?

***

Il vero pilastro che tutto regge della politica religiosa di papa Francesco è il Dio unico, un'unica Divinità, sorretta dalla ragione e dalla fede. Dio che tutto regge e tutto ha creato a continua a creare incessantemente. Non esiste e non può esistere un Dio proprio di ciascuna religione: se Dio è tutto e tutto ha creato, Egli è di tutti e di ciascuno e continua a creare perché se si fermasse sarebbe una Divinità che si è fermata e rimane spettatrice d'una realtà in continuo movimento, un Dio che si è ritirato nell'alto dei cieli non più creatore ma testimone del continuo evolversi della società. Dunque un Dio creatore che le sue creature sentono dentro di loro perché una scintilla divina c'è in tutti e non importa se ne sono consapevoli o no. Quella scintilla divina opera nelle creature attraverso gli istinti e quegli istinti sono la vita, lo spazio che occupano, il tempo creativo delle particelle elementari che vorticosamente si aggirano nell'universo e le leggi alle quali obbediscono. L'Universo e gli Universi si modificano in continuazione e quelle modifiche è il Dio che le guida.

Tutto ciò è infatti eterno e la scintilla di Divinità dà a ciascuna creatura le sue leggi: gli atomi hanno le loro leggi, gli astri, le galassie, i campi magnetici, le stelle. Tutte queste forme nascono e muoiono ed è il tempo che le logora.

Questa è la visione della realtà che noi, animali pensanti, siamo in grado di percepire. Noi abbiamo un pianeta che ruota intorno ad una stella. La nostra scintilla divina ci ha dato una mente che sta dentro un corpo; abbiamo pensieri che scaturiscono dalla mente, a sua volta creata dal corpo e questo corpo ha una sua vita e una sua morte. Queste realtà visibili descrivono le leggi evolutive che noi, animali che vedono se stessi, abbiamo immaginato e scoperto. Dio è ben oltre da come noi lo pensiamo, ma per quelli di noi che sono credenti questa è la visione che hanno. Per quelli non credenti la visione è diversa solo su un punto: non credono a un Dio personalizzato. Pensano ad un Essere che genera Enti, cioè forme, ciascuna con proprie leggi. Tra le leggi che guidano le creature non c'è quella di interpretarsi e l'interrogazione primaria è di sapere chi siamo e da dove veniamo. Una delle risposte è la religione, cioè la credenza in un Dio e in un eventuale aldilà oltre la morte.

Il Dio unico di papa Francesco è la versione più alta e anche più consona per chi aderisce alle conclusioni che la sua fede gli ispira. Ma operare in modo che tutte le religioni arrivino a queste conclusioni non è né facile né rapido. Cozza contro credenze diverse, valori diversi, interessi contrapposti. Non a caso Francesco è anticlericale e lo dice. È un percorso, quello di convincere tutte le religioni, quella cattolica compresa, alla fede nel Dio unico, estremamente accidentato. Non c'è bacchetta magica che possa risolverlo. Francesco lo sa e procede passo dopo passo. Il primo punta ad una sorta di confederazione delle varie Confessioni cristiane che in un secondo tempo dovrebbe portare alla riacquistata unità religiosa. Nel frattempo amicizia con le altre religioni monoteiste e avvicinamento a quelle non monoteiste. Questo è lo scenario. È escluso che papa Francesco possa portarlo a termine anche perché dovrebbe avere alle spalle una Chiesa cattolica che fosse strettamente unita verso questo scenario, ma neppure questa unità è completa. Lo scontro interno è su varie questioni, ma la vera causa è quella: Dio unico, religioni affratellate, sia pure ciascuna con la propria storia, proprie tradizioni, propri canoni e proprie Scritture. Per quanto riguarda le gerarchie cattoliche, cioè i Vescovi discendenti dagli Apostoli, la situazione attuale la stanno vivendo sul tema della famiglia e la sede è il Sinodo che è entrato ormai nella sua fase finale e si è concluso con la "relatio finalis" presentata ieri sera a papa Francesco che del Sinodo è parte integrante e primaria.

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La "relatio finalis" è stata tuttavia preceduta da vari interventi di Francesco, uno dei quali da lui pronunciato nell'ultima udienza generale dedicata alla passione d'amore tra gli sposi, dice parole estremamente significative che l'Osservatore Romano intitola -  non a caso -  "Perché la fedeltà non toglie la libertà". Eccone i passi principali. "In realtà nessuno vuole essere amato solo per i propri beni o per obbligo. L'amore, come anche l'amicizia, debbono la loro forza e la loro bellezza proprio a questo fatto: che generano un legame senza togliere la libertà. Di conseguenza l'amore è libero, la promessa della famiglia è libera, e questa è la bellezza. Senza libertà non c'è amicizia, senza la libertà non c'è amore, senza libertà non c'è matrimonio. La fedeltà alle promesse è un vero capolavoro di umanità, un autentico miracolo perché la forza e la persuasione della fedeltà, a dispetto di tutto, non finiscono di incantarci. L'onore alla parola data, la fedeltà alla promessa, non si possono comprare e vendere. Non si possono costringere con la forza, ma neppure costudire senza sacrificio".

Finora non era mai accaduto un pontificato che basasse amore, amicizia, fedeltà e matrimonio sulla libertà. Di fatto questo concetto applicato soprattutto al matrimonio non è cosa nuova per la Chiesa. Uno dei canoni su cui si basa il giudizio della Sacra Rota per ciò che riguarda le sentenze di annullamento è appunto l'ipotesi che il matrimonio sia stato celebrato con la forza esercitata su almeno uno degli sposi (quasi sempre la donna) dai genitori o da altre considerazioni dettate dagli interessi e non dall'amore. Ma nessun Papa aveva trasferito il canone giudiziario in un principio valoriale che personalmente ritengo laico dando a questa laicità un alto valore etico. E tuttavia l'analisi valoriale fatta da papa Francesco sarebbe incompleta se non fosse approfondita dall'esame delle famiglie attuali in tutto il mondo ma soprattutto in quello occidentale dove il cristianesimo è stato all'origine medievale dell'Europa così come lo è stato il laicismo e la scoperta della libertà.

È pur vero che le conclusioni del Sinodo rappresentano una netta frenata nell'azione innovatrice del Papa poiché, per quanto riguarda i divorziati conviventi con il nuovo coniuge, affidano la decisione di ammetterli ai sacramenti al "discernimento" del confessore. Ci saranno quindi casi in cui il confessore li ammetterà ai sacramenti ed altri di segno contrario. L'incoerenza di questo provvedimento è evidente ed è altrettanto evidente che il Papa deve averlo accettato. La scelta tra due diverse concezioni della Chiesa non data da oggi, ma oggi è ancor più inaccettabile di un tempo, per due ragioni: la prima è il Vaticano II che prevede l'incontro della Chiesa con la modernità e la modernità non si configura in una così ingegnosa decisione. Una seconda ragione è ancora più clamorosa: la famiglia d'oggi non è più chiusa ma aperta e sempre più lo sarà. È appunto una famiglia che vive nella coesistenza tra fedeltà alla promessa e libertà. È il Papa che l'ha detto, ma è il Papa che su questo punto soggiace al "discernimento" dei vari confessori. Come si sa, non ci sono confessori di professione, ogni presbitero è confessore. Perciò da questo punto di vista il Sinodo finisce con una vittoria ai punti del partito tradizionalista. Il quale troverà tuttavia la sua sconfitta dalla situazione attuale delle famiglie. Vediamola questa situazione che configura la realtà di gran parte del mondo cristiano.

***

Vediamo innanzitutto la situazione tra moglie e marito. Non è più quella vigente ancora nella prima metà del Novecento, quando era la donna a curare l'educazione dei figli, almeno fino alla loro adolescenza. Oggi anche la donna lavora come e quanto il marito. Nel frattempo ha cura anche dei suoi figli, bambini e ragazzi, ma se ne ha più di due è costretta a farsi aiutare da una badante e/o un asilo o comunque da una scuola materna.
Il marito di solito è impegnato da un impiego professionale che gli lascia poco spazio e tuttavia (nei casi positivi) quando il figlio è adolescente uno spazio per lui lo trova, ma attenzione: non come educatore ma come amico. È una buona cosa essere amici di un figlio, ma del tutto diversa dall'educazione. L'amico cerca le confidenze del figlio, le interpreta, si fa l'idea di quel carattere e lo ripaga con confidenze proprie. Insomma si scambiano suggerimenti, ma la richiesta di obbedienza scompare. Forse è un bene ma la loro amicizia non è esclusiva. Il figlio di solito forma il suo carattere e la sua visione della vita con la frequentazione di altri amici coetanei, con essi studia, con essi si diverte, con essi pensa, con essi vive. L'amicizia del padre è preziosa quando c'è, ma non fondativa. Formativo è il complesso degli amici, che spesso il padre neppure conosce, mentre alla madre resta a quel punto solo l'amore per il figlio, spesso ricambiato. Da questo punto di vista il complesso edipico tende ad aumentare, non privo di conseguenze nella formazione del giovane.

Ma ce ne sono anche altre dove la situazione non è questa, che comunque è la migliore, della famiglia moderna e ovviamente la più rara. Nella maggior parte dei casi il padre non diventa amico del figlio e tantomeno lo diventa quest'ultimo. Quando rincasa per mangiare e per dormire (e non sempre questo avviene) il figlio o la figlia parlano assai poco con i genitori, col padre soprattutto. I contatti veri sono ridotti al minimo, con tutto ciò che ne segue, droga o alcolismo o bullismo compresi.

Infine la famosa "promessa di fedeltà" viene spesso violata. Da parte del marito è sempre avvenuto ma ora avviene spesso anche da parte della moglie. Talvolta è la situazione dei separati in casa, con una famiglia molto "sui generis" ma anche abbastanza difficile da gestire. Altre volte, più frequenti, c'è la separazione e il divorzio. Spesso i rapporti restano civili e talvolta si estendono dalla moglie alla nuova compagna del marito e perfino -  se ce ne sono -  ai figli con differenti ascendenze genitoriali. Ma spesso non è così, oppure è così solo nella forma ma non nella sostanza.

Insomma una famiglia molto aperta nei genitori e nei figli. Si può nonostante tutto puntare ancora sulla famiglia tradizionale e cioè chiusa e non aperta. Ma questo può avvenire in una Chiesa altrettanto chiusa e non aperta. Il Papa, nel caso specifico, ha subito. Subirà ancora? Anche su altre questioni?

Giorni fa aveva detto parlando del Sinodo che non è un parlamento. Non c'è una maggioranza e un'opposizione. C'è un ascolto di posizioni diverse. Ma questa volta si è prodotta invece in modo assai ingegnoso una maggioranza frenante. Il Papa, dopo aver ascoltato la "relatio finalis" del Sinodo, potrebbe esporre in sede magisteriale un pensiero diverso. Ma non credo che lo farà. Francesco qualche tempo fa scrisse la prefazione di un libro che pubblicava tutti i vari interventi del cardinale Martini. Ho conosciuto molto bene Martini, sia quand'era arcivescovo di Milano, sia a Gallarate in un ritiro per anziani sacerdoti e ammalati, i nostri incontri avvennero cinque volte, l'ultimo della quale qualche settimana prima che la morte lo portasse via. Martini era molto avanti verso una Chiesa aperta e moderna ed era intimo di Bergoglio. Sul tema dei divorziati e della famiglia era ancora più avanti di papa Francesco, per non parlare dei suoi attuali contraddittori. Anche Martini era animato dalla fede. Profondissima. Anche Martini amava confrontarsi con i miscredenti, non per convertirli ma per progredire con loro. Anche Martini credeva nell'unico Dio che abolisce i fondamentalismi e il terrorismo e combatte il potere temporale delle Chiese.

Infine Martini affermava che nel mondo esiste un solo peccato: quello della diseguaglianza sociale ed è contro di esso e contro le sue conseguenze che la Chiesa deve combattere innalzando la bandiera dell'amore del prossimo. Questo era Martini, amico intimo di Bergoglio il quale a sua volta voleva che lui diventasse Papa mentre nell'ultimo Conclave cui non intervenne, fu Martini che voleva Bergoglio come Papa e così avvenne.

Se esiste un Paradiso le loro anime si incontreranno. Se non esiste la storia parlerà di tutti e due. Francesco non ha dimenticato e continuerà a combattere ricordando che il Sinodo non è il parlamento, ma come il parlamento è impostato sulla libertà degli altri al servizio dei quali gli uomini di buona volontà debbono operare. Servano il prossimo, anche quello che non ha fede. Dio è unico, le creature sono libere anche perché è Lui che così le ha create.

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25 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/25/news/conservatori_e_temporalisti_lo_frenano_ma_francesco_non_si_fermera_-125834299/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "C'è chi fa dritto lo storto e storto il dritto"...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 06:18:20 pm
"C'è chi fa dritto lo storto e storto il dritto"
Così diceva il Marchese del Grillo


Di EUGENIO SCALFARI
18 ottobre 2015

Il PRESIDENTE del Consiglio italiano sta litigando con il governo dell'Europa sulla nostra legge finanziaria che, dopo essere votata dal Parlamento di Roma, dovrà essere approvata dalla Commissione di Bruxelles? E il presidente del Consiglio italiano ha cambiato la sua politica estera e militare sul fronte di guerra del Medio Oriente? E ancora: sta cambiando anche la politica sociale e quella economica? Infine: è cambiato anche il rapporto politico e la raccolta del consenso tra il premier e il suo partito del quale è segretario?

Sono quattro domande non da poco. Interessano la classe politica, il business, i lavoratori, i contribuenti, gli elettori; insomma i cittadini del nostro Paese ed anche dell'Europa della quale siamo parte integrante.

Una serie di cambiamenti di questa natura non avvenivano in Italia da molti anni e Matteo Renzi che del cambiamento ha fatto l'elemento essenziale del suo programma può andarne orgoglioso: il cambiamento è cominciato da quando si è insediato a Palazzo Chigi estromettendo Enrico Letta con una vera e propria pugnalata; sono passati quasi due anni e il cambiamento continua e continuerà.

Gli italiani sono più felici? No, sicuramente no. A causa dei sacrifici imposti dalla recessione economica che ha colpito il nostro Paese ma anche l'Europa, l'Occidente e il mondo intero? Sì, è questa la causa principale (ma non la sola) del nostro malcontento.

Ne danno a Renzi la colpa? Al contrario: la maggior parte dei cittadini non sa chi incolpare, oppure ne dà la responsabilità alla casta politica; una minoranza crescente ne dà colpa alla Germania e/o ai migranti. Anche a Renzi? No, a Renzi no.

Questo è lo sfondo della scena che ci interessa oggi affrontare. Lo scontro tra Renzi e Bruxelles è il fiammifero che ha acceso il fuoco e la legna è molta. Speriamo che il fuoco non diventi incendio perché i pompieri capaci e disponibili sono molto pochi.

***

Il nostro giornale ha pubblicato ieri un sondaggio mensile compiuto dall'istituto Demos sull'orientamento politico dei cittadini. Le domande e le risposte sono molte ma Ilvo Diamanti che ne è l'autore coglie l'essenza del sondaggio con queste parole: "Il consenso a Renzi si rafforza da un mese all'altro, ma quello verso il suo partito diminuisce".

Sembrerebbe un'incomprensibile contraddizione, invece spiega con esattezza quello che sta avvenendo: tra i vari cambiamenti di Renzi c'è l'aumento del consenso al centro e a destra. La lite con l'Europa lo porta addirittura a ridosso dei movimenti antieuropei. Queste simpatie politiche vanno alla persona ma non certo al Pd che resta un avversario da battere.

Siamo dunque in presenza di un fenomeno di trasformismo che è tipico della politica in genere e di quella italiana in particolare.

Il trasformismo è storicamente il nucleo della nostra politica, lo fu fin dalla caduta della Destra storica nel 1876 e da allora ha sempre contraddistinto la nostra storia: Francesco Crispi, Giovanni Giolitti, perfino Mussolini e poi la Dc e poi Berlusconi.

Ora Renzi e con lui gran parte della classe politica che si sta orientando in suo favore abbandonando i partiti di provenienza. Il serpente della politica cambia pelle, i consensi verso Renzi provengono da destra; lo scopo è di cambiare pelle al Pd o meglio alla sigla del Pd che dovrebbe diventare la nuova etichetta del centrodestra italiano. Molti del Pd restano renziani anche se non capiscono ciò che sta avvenendo; altri lo capiscono e sono d'accordo. Per sentirsi in pace con la coscienza dicono che quella di Renzi è la sinistra moderna.

Ma la sinistra, la vera essenza della sinistra, qual è? Non voglio ripetermi, ma i valori principali della sinistra autentica e di tutti i tempi sono quelli dell'eguaglianza, della libertà e della dignità. Il resto è trasformismo, privilegi, clientele, malaffare. Oppure autoritarismo se non addirittura dittatura: uno comanda, gli altri obbediscono.

In un vecchio film interpretato da Alberto Sordi e intitolato Il marchese del Grillo Sordi recita un sonetto orecchiando il poeta romanesco che nei suoi versi principali suona così: "Io so io e voi nun sete un c... / sori vassalli buggeroni/ e zitto. / Io fo dritto lo storto e storto er dritto/ e la terra e la vita io ve l'affitto".

Mi pare che si attaglia perfettamente al trasformismo italiano quando diventa autoritario.

***

La riforma del Senato è finalmente passata in terza lettura. I senatori del Pd l'hanno votata in massa con il consenso anche della minoranza inizialmente dissenziente ma poi convinta dopo aver ottenuto un emendamento privo in effetti di qualunque significato. I voti contrari sono stati pochissimi, le opposizioni hanno disertato l'Aula.

È una buona riforma? Instaura il sistema monocamerale lasciando al nuovo Senato compiti territoriali. Naturalmente i poteri legislativi sono interamente della Camera, così come accade in quasi tutti i Paesi d'Europa. Ma - vedi caso - la nostra è di fatto una Camera di " nominati" dal governo, quindi i poteri legislativi sono di fatto nelle mani dell'esecutivo.

Questa situazione, alquanto paradossale, è stata anche rivendicata dal presidente emerito Giorgio Napolitano, il quale, pur rivendicando la paternità di quella riforma, ne ha però rimarcato il suo rapporto con la legge elettorale e i difetti di quest'ultima che andrebbero secondo lui emendati. Non dice come, ma l'avvertimento è stato da lui lanciato. Il tema è assai delicato ed è quindi opportuno citare due passi del discorso di Napolitano.

"Ci si avvia ormai a superare i vizi del bicameralismo paritario: le ripetitività e le non virtuose competizioni tra i due rami del Parlamento, la sempre più grave assenza di linearità e di certezze del procedimento legislativo anche in materie importanti ed urgenti. Ci si avvia a poter garantire - almeno nei suoi aspetti essenziali - quella stabilità e continuità nell'azione di governo che non può più mancare con grave danno per il Paese in un futuro come quello che è già cominciato. Non stiamo semplicemente chiudendo i conti con i tentativi frustrati e con le inconcludenze di trent'anni: dobbiamo dare risposte a situazioni nuove e ad esigenze stringenti, riformare arricchendola la nostra democrazia parlamentare. E bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali. L'intento complessivo dev'essere quello di promuovere un risanamento e rilancio del sistema delle autonomie, seriamente vulnerate da crisi e cadute di prestigio di istituzioni regionali e locali".

Napolitano non dice quali sono le parti da emendare della legge elettorale ma pone in rapporto, come è giusto, fare la riforma del Senato con l'Italicum elettorale. Molti forse reclamano di annettere al premio di maggioranza non una sola lista ma anche eventuali coalizioni. Probabilmente sarebbe un emendamento opportuno ma il cuore di una indispensabile riforma dell'Italicum è di impedire che sia una legge di " nominati". Questo è il punto di fondo.

Il senatore a vita Napolitano non è stato tuttavia il solo ad intervenire; nel dibattito in questione è intervenuta anche la senatrice a vita Elena Cattaneo, da lui stesso nominata un paio di anni fa. Citiamo anche questa poiché, a differenza dal suo " nominatore", lei ha votato contro.

"In questa riforma, cari colleghi, i vostri commenti, le vostre dichiarazioni private e pubbliche, sono state la mia bussola. Alla domanda sul perché avremmo dovuto votarla, la maggior parte di voi ha addotto ragioni per gran parte estranee all'assetto costituzionale da realizzare e basate piuttosto sull'opportunità e la contingenza politica che stiamo vivendo. Forse perché poco avvezza agli equilibrismi politici, nell'ascoltarvi e vedere alcuni comportamenti posso affermare con sicurezza che questo testo mi è estraneo. Oggi la mia decisione è di astenermi, un'astensione che so essere voto contrario in questa Aula, dettata da un senso profondo di smarrimento e dal rammarico per l'occasione perduta di acquisire elementi migliorativi, più volte ribaditi in quest'Aula per dotare il Paese di un assetto istituzionale in grado di fronteggiare le sfide del presente e del futuro".

Meglio di così non si poteva dire e fare, la senatrice a vita dimostra che non poteva scegliere meglio anche se ha votato in modo opposto e con motivazioni opposte a quelle del suo " nominatore".

***

Che cosa avverrà ora dell'attuale sede del Senato? Per adempiere ai suoi compiti legislativi connessi al territorio al nuovo Senato composto da cento membri (eletti dalle istituzioni più infiltrate dal malaffare e perfino in alcuni casi dalle mafie vere e proprie) basterebbe mezzo piano di Palazzo Madama o meglio ancora un piano del prospiciente Palazzo Giustiniani.

Di Palazzo Madama, come suggerisce il nostro fantasioso Filippo Ceccarelli, si potrebbe fare un Museo delle arti. Alcune preziosità ci sono già, insieme ai busti dei più rilevanti uomini politici della vita italiana e del Senato in particolare. Ma questa collezione si potrebbe ulteriormente arricchire, come pure la biblioteca, le pareti con arazzi di importanza artistica e storica.

A meno che il Senato non sia interamente nominato con una decisione congiunta tra il presidente della Repubblica, il presidente della Corte Costituzionale e il presidente della Corte di Cassazione, e sia - il Senato - privato del potere di dare la fiducia al governo ma conservando tutti gli altri poteri legislativi e soprattutto di controllo. Così era il Senato del Regno che vide nei suoi ranghi i nomi più illustri della cultura, della scienza e della politica quando i suoi esponenti erano entrati nella loro tarda età.

Ma non credo si arriverà mai a questo. Si tratterebbe di fare dello storto il dritto mentre stiamo vivendo un tempo in cui si preferisce fare dritto lo storto.

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18 ottobre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/10/18/news/_c_e_chi_fa_dritto_lo_storto_e_storto_il_dritto_-125327001/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lei è già stato corrotto? Non ancora, ma se c'è vita, c'è ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 09, 2015, 05:05:07 pm
Lei è già stato corrotto? Non ancora, ma se c'è vita, c'è speranza

Di EUGENIO SCALFARI
08 novembre 2015
   
SUL NOSTRO giornale di ieri Marc Lazar ha scritto un articolo di grande interesse intitolato "Il virus dell'antipolitica e il rischio autoritario". Il 3 novembre Ilvo Diamanti ne aveva scritto un altro dal titolo "La controdemocrazia". Tuttavia entrambi affrontano lo stesso tema, desumendolo dall'orientamento della pubblica opinione che si manifesta da qualche anno in tutti i paesi europei senza alcuna eccezione: la gente è stufa dei partiti politici.

In Italia, in particolare, nei sondaggi, già da tre anni e forse anche più, viene negata quella fiducia nei partiti dal 97 per cento degli interpellati, e solo il 3 per cento dunque concede il proprio consenso. Di fatto significa fiducia nei partiti zero.

Ho affrontato anche io questo tema molte volte, insieme ad altri osservatori, tra i quali appunto Diamanti e Lazar, ma ora quel tema ha assunto caratteristiche che stanno generando comportamenti abbastanza diversi l'uno dall'altro. La negazione della fiducia ai partiti può infatti avere come effetto le seguenti decisioni da parte dei cittadini che messi insieme costituiscono il cosiddetto popolo sovrano: 1: astensione dal voto. 2: voto in favore di movimenti o partiti che si oppongono senza eccezione alla situazione politica esistente ma non propongono alternative concrete. 3: odio verso la democrazia e consenso ad un leader che ha o mira di avere pieni poteri. 4: odio verso ogni fase di immigrazione e misure per impedire l'accesso. 5: desiderio d'una rivoluzione che mandi a gambe all'aria tutte le istituzioni.

Ma non con il voto, bensì con la violenza rivoluzionaria, per instaurare al loro posto una dittatura di sinistra radicale oppure di destra reazionaria, soluzioni che del resto si sono verificate in Europa nella prima metà del Novecento in Russia, in Italia, in Germania, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Ungheria, in Serbia, in Grecia, cioè di fatto in tutta Europa con le sole eccezioni di Francia e Inghilterra.

Questa fu la parte più tragica della nostra recente storia, ma ora si stanno creando condizioni che in qualche modo ci riportano ad una fase che rimette in discussione la democrazia, sia pure (e per fortuna) senza quei pericoli di estrema tragedia che caratterizzarono l'epoca del fascismo, del bolscevismo, del nazismo, del franchismo, del salazarismo e delle dittature militari.

Questa nuova fase coinvolge, anche questa volta, molti paesi europei, ciascuno con proprie caratteristiche ma tutti in presenza di una situazione mondiale totalmente diversa da quella novecentesca: la società globale, le grandi potenze continentali, la tecnologia estremamente avanzata, un capitalismo strutturalmente diverso da quello di mezzo secolo fa.

Ma poiché ogni paese ha le sue proprie caratteristiche e i suoi propri problemi, esaminiamo ora la situazione italiana che direttamente ci interessa, senza mai dimenticare però che facciamo parte dell'Europa e dei suoi specifici problemi.

***

Ho più volte scritto che il nostro paese politicamente è caratterizzato da un forte partito di centro, con alle ali formazioni sbriciolate che hanno quote di potere molto modeste. Questa situazione non esiste in nessun altro paese europeo dove governano partiti di destra oppure di sinistra mentre il centro praticamente non esiste.
Il Partito democratico renziano sostiene, nel cerchio magico del suo segretario Matteo Renzi, che il Pd è un partito di centrosinistra e anche la minoranza di Bersani e di Cuperlo lo sostiene, ma non è così. Il famigerato partito della Nazione è ormai il partito renziano e il governo che ne risulta  -  guidato appunto dal partito renziano  -  gestisce quella situazione centrista che esiste soltanto in Italia.

Renzi, segretario e premier, riscuote un notevole consenso nella pubblica opinione, è bravo, sa parlare, persegue e in parte attua riforme. La sua parola d'ordine è: "cambiamento". Governa da solo.

Quest'ultimo particolare gli procura quella notevole fiducia di cui gode proprio perché molti italiani detestano i partiti e molti se ne infischiano perfino della democrazia. Dunque: scarsa fiducia al Pd, molta fiducia al premier. È un fatto strano? Certamente lo è, ma questa è la situazione. Del resto non è una novità, in Italia è avvenuto spesso e l'esempio più recente è stato Berlusconi: per vent'anni  -  sia pure con alcune interruzioni  -  ha avuto un consenso personale di massa. Nel suo caso il partito Forza Italia di fatto non esisteva sul territorio, non faceva quasi mai congressi, gli organi collegiali non avevano alcun peso, Berlusconi decideva tutto, consultando non più d'una dozzina di persone.

In questo il caso di Renzi presenta una notevole differenza: il Partito democratico esiste e lui in qualche modo deve tenerne conto. La cosa strana è proprio in questa contraddizione: lui comanda da solo come premier e in quanto tale gode di ampio consenso dei cittadini, ma ha dietro di sé un partito che riscuote assai minore fiducia ma è quello che gli assicura il potere parlamentare. Alla Camera con una maggioranza assoluta, ottenuta con una legge elettorale fornita di un premio; al Senato invece ha bisogno di altri voti perché non c'è premio e la sua minoranza spesso gli vota contro; Renzi la contrasta ottenendo i voti d'una parte della destra che sale sul carro vincente.

Comunque, dover gestire un partito o pezzi di partiti non è il forte di Renzi e mette comunque in discussione quel comandare da solo che sta bene a molti italiani ma non ai partiti che gli si oppongono in Parlamento né alla sua minoranza. Per questo ha abolito il Senato, dove elettoralmente non esiste il premio di maggioranza. Ha vinto per il rotto della cuffia riuscendo ad ottenere anche il voto della sua minoranza teoricamente dissidente ma di fatto consenziente avendo ottenuto molto poco in contropartita.

Tuttavia le elezioni ancora esistono, la democrazia c'è ancora, sia pure in forma alquanto attenuata. Ci sono elezioni amministrative imminenti ed ecco che si sta facendo largo una tentazione del tutto nuova nella fervida mente di Renzi: ricorrere a figure indipendenti dai partiti, funzionari dello Stato (prefetti), tecnici di provata competenza, manager di importanti imprese. Per ora è una tentazione, peraltro abbastanza comprensibile e forse perfino buona. In un capitalismo nuovo e in un mercato che esercita un peso notevole, l'esperto proveniente da una classe dirigente basata sulla competenza non è una soluzione da scartare.

Ma ci sono anche altri fattori da considerare, anche questi dovuti al peso del capitale, della società globale, da un'Europa confederata, guidata dai ventotto paesi che la compongono. Questi fatti richiedono governi che decidano rapidamente, dotati pertanto di poteri forti. Richiedono un esecutivo assai più potente del legislativo e un comandare da soli abbastanza diffuso. Una situazione del genere dà a Renzi una valida motivazione (o se volete una valida giustificazione) al suo potere tendenzialmente autoritario. Questo significa condannare a morte la democrazia, al di là delle apparenze? Significa allinearsi all'astensione di molti italiani o alla simpatia di molti altri verso un potere personale e autoritario?

No, così non si può e non si deve fare per chi sente la necessità che l'interesse generale sia tutelato e quello personale giustificato ma controllato.
La strada da seguire è abbastanza chiara, se non facile, in un paese come il nostro. Occorre rafforzare i contropoteri che già esistono e crearne anche altri la cui funzione non dipenda da chi esercita a piena forza il potere esecutivo personalizzato.

La Corte costituzionale dovrebbe essere eletta in un modo diverso, individuando i suoi grandi elettori non tanto nel Parlamento quanto nel presidente della Repubblica, nei magistrati della Cassazione e in quelli della magistratura amministrativa e del Consiglio superiore della magistratura.

Un nuovo organo di controllo dovrebbe essere istituito, che esercitasse tale controllo sulla coerenza, l'efficacia e la legalità dell'azione di governo, affidando i risultati del proprio lavoro al presidente della Repubblica, al presidente della Camera e ai senatori o deputati nominati dal capo dello Stato. Pareri non vincolanti ma resi pubblici e nelle mani di presidenti di istituzioni dotate di prerogative costituzionali.

Insomma un esecutivo personale e dotato di poteri forti per essere controllato da un organismo neutrale e terzista, che assicuri una funzione moderna della democrazia.

Naturalmente bisognerebbe anche puntare sulla trasformazione dell'Europa da Confederazione in federazione. Tutte le forze vive e consapevoli dovrebbero battersi per questo obiettivo e così dovrebbero operare le istituzioni che hanno il diritto di farlo. Includo tra queste ovviamente il presidente della Repubblica, il presidente della Camera e quello del Senato (fin quando esisterà), il presidente del Consiglio (che però non lo farà perché non vuole essere declassato). Ma anche gli organi di stampa e i "media" in generale, che condividano questo obiettivo e lo accreditino nella pubblica opinione. Ci vorrebbe un'intesa tra i "media" di tutta Europa che condividano l'evoluzione europea; un'intesa che di fatto realizzi un fronte di stampa e televisione europeista che stimoli efficacemente istituzioni, opinione pubblica, forze sociali ed economiche su quell'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa che non è soltanto opportuno ma indispensabile.

***

Nel frattempo un'istituzione e in particolare una persona ci sono e già stanno operando su questa linea. La Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi.

Il presidente della Bce ha pronunciato due discorsi nei giorni scorsi, uno a Francoforte, giovedì e l'altro il giorno seguente all'Università Cattolica di Milano, dinanzi ad un folto pubblico di economisti, operatori finanziari, rappresentanti e manager di imprese e anche di una nutrita rappresentanza studentesca. Ha affrontato il tema della debolezza dei prezzi dovuta ad un'inflazione troppo bassa ma le sue affermazioni più importanti sono state tre.

La prima riguarda la sua decisione di proporre a tutti i paesi europei, anche a quelli che sono fuori dall'Eurozona, di garantire i depositi bancari di tutti i 28 paesi. Una garanzia che la Germania ha già (ma non ufficialmente) respinto, ma che gli altri e la Commissione europea hanno (non ufficialmente) visto con favore. Uno dei membri della Commissione, per convincere la Germania, ha anche proposto una riassicurazione da parte della Bce, garantita dal suo portafoglio titoli. Insomma la discussione è aperta è sarà affrontata tra pochi giorni.

La seconda: Draghi ha affermato che sono soprattutto i giovani a soffrire di più della mancata occupazione stabile e quindi privi di speranze del futuro. "A questa situazione bisogna che con urgenza i governi interessati mettano riparo".

La terza infine è del tutto eccezionale: "La Bce ha preservato l'integrità della moneta, ha raggiunto la quasi parità del tasso di cambio euro-dollaro con notevole incoraggiamento delle esportazioni europee verso l'area del dollaro. Ma questi risultati non sono sufficienti a raggiungere prosperità e piena occupazione. L'Europa ha bisogno di un nuovo patto per impedire che la crisi si ripresenti e deve rafforzare l'architrave istituzionale dell'euro senza ritardi ingiustificati e dandosi un'agenda celermente definita".

Da queste parole e dagli interventi effettuati si vede che Draghi vola alto ed ha in mente un obiettivo politico molto preciso, usando gli strumenti in suo possesso monetari e finanziari. Ha in mente un obiettivo politico ma vede anche la necessità che quest'operazione compia un salto vero e proprio in avanti. Un nuovo patto politico, questa è la sua definizione. Forse un'Europa a due velocità? Sarebbe un modo per smuovere la Germania e agganciare sempre di più all'Ue i paesi fuori dall'euro.

Vedremo in futuro. Intanto è cominciato il processo a "Mafia Capitale" e sono stati repressi o indagati molti altri casi di corruzione che riguardano perfino ufficiali della Guardia di Finanza, questori, funzionari pubblici e, in Vaticano, vescovi ed altre cariche religiose. "Dalle stelle alle stalle". Oppure, come dice Altan nel suo disegno pubblicato nell'ultimo numero dell'Espresso facendo parlare due suoi personaggi: "Lei è già stato corrotto?", dice uno, e l'altro risponde: "Non ancora, ma finché c'è vita c'è speranza".

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08 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/08/news/lei_e_gia_ancora_corrotto_non_ancora_ma_se_c_e_vita_c_e_speranza-126872169/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo disumano
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 08:39:28 pm
Come possiamo vincere la barbarie del terrorismo disumano

Di EUGENIO SCALFARI
15 novembre 2015
   
SIAMO di fronte, e non solo nella strage parigina di due giorni fa, ad una guerra globale che, almeno in apparenza, sembra una guerra di religione. Infatti, prima di uccidere le loro vittime, i terroristi dell'Is invocano il loro Dio: Allah è grande, gridano, e poi sparano a raffica o si fanno saltare in aria in mezzo alla gente che hanno scelto come agnelli da sacrificare. Muoiono essi stessi pur di uccidere. Sembra appunto una guerra di religione.

ECOME tale i carnefici usano la strategia di colpire gli altri; non importa chi sono, giovani, vecchi, bambini; non importa in quale Paese: hanno colpito a New York, a Parigi, in Turchia, in Egitto, nel Bangladesh, in Pakistan, nelle Filippine, in Afghanistan, in Tunisia, in Iraq ed ora minacciano Roma e Londra. Tra le persone occasionalmente uccise ci potrebbero essere perfino musulmani. Quindi, sotto le apparenze della guerra di religione, la realtà è un'altra: c'è voglia di distruggere, in modo cieco, una barbarie che sogna la fine di un'epoca senza però un solo barlume d'una civiltà futura. Qualcuno ha paragonato questo terrorismo a quello che insanguinò l'Italia e la Germania negli anni Settanta del secolo scorso; da noi furono chiamati gli anni di piombo, ma è un paragone totalmente sbagliato. Quei terroristi conoscevano il nome e perfino l'indirizzo della vittima che avevano scelto; avevano ripudiato un passato che avevano vissuto e si proponevano un futuro, un'ideologia, un assetto diverso della società.

I terroristi di oggi non si propongono alcun futuro e non hanno alcun passato sociale e politico da ricordare. Vivono soltanto un presente e alcuni di loro, ma certamente non tutti, vagheggiano forse un aldilà dove un Allah che soddisfi i loro desideri; non è quello dei veri musulmani che le loro sacre scritture hanno descritto. Non sono persone libere. Certamente hanno fatto liberamente una scelta che è quella che Etienne de La Boétie chiamò il servo arbitrio: loro hanno scelto di essere schiavi di chi li dirige, le cellule d'uno Stato che non ha confini stabili, non ha una sua Costituzione, ma ha un gruppo di comando, scuole di preparazione alla disumanità, campi dove si insegna il maneggio delle armi, le tecnologie necessarie, i modi di camuffarsi, le comunicazioni sofisticate tra loro e con il comando del gruppo e gli obiettivi da colpire. Questo è il gruppo di comando e i suoi soldati-schiavi hanno scelto di soggiacere ai loro padroni. Qui si pone la domanda del perché questa scelta l'abbiano fatta.

***

La questione è assai complessa, riguarda la libertà, che cosa significa, da dove ci viene. Non mi pare oggi il giorno adatto ad esaminare uno dei concetti più complessi e più importanti della ricerca filosofica e perfino religiosa, ma qualche parola va detta per tentare di capire l'essenza di quanto sta accadendo e il modo con il quale reagire perché se d'una guerra si tratta, caratterizzata da modalità del tutto nuove, la questione della libertà e dell'arbitrio, libero o servo che sia, deve esser capita per poterla affrontare in modo appropriato e vincente. Ebbene, noi non siamo liberi se non per un istinto e per la natura che contraddistingue la nostra specie da quella degli altri animali. La nostra natura possiede la capacità di guardare noi stessi mentre viviamo. È questa capacità che ci fa diversi da tutti gli altri animali. Noi ci guardiamo agire, vivere, invecchiare e sappiamo anche di dover morire.

L'istinto principale che abbiamo e che condividiamo con tutte le altre specie vitali, è quello della sopravvivenza. In più abbiamo la memoria, altro segno che ci distingue dalle altre specie viventi.
Tutte queste caratteristiche fanno sì che il nostro istinto di sopravvivenza è duplice: vogliamo sopravvivere come individui e vogliamo anche sopravvivere come specie. All'individuo che ciascuno di noi ha scelto di essere abbiamo dato un nome che è il nome dell'Io che siamo. L'Io è una costruzione, è il nostro sentirci individui e c'è sempre, in qualunque momento, dalla nascita fino alla morte. Quindi la sopravvivenza e l'amore per noi stessi è automatico, fa parte della nostra natura.

L'amore per la specie, o se volete chiamatela il prossimo, deriva anch'esso dall'istinto della sopravvivenza perché nessuno di noi può concepire d'essere il solo abitante umano del globo terrestre. Tuttavia il livello dell'amore per la specie oscilla fortemente da persona a persona. Ce n'è sempre una scintilla in ciascuno, ma può essere scintilla o fiamma o brace coperta di cenere.
Le nostre scelte dipendono dal rapporto tra la fiamma che abbiamo per noi stessi e quella che abbiamo per gli altri e l'estensione di quell'amore. Una scintilla, l'ho già detto, c'è sempre, se resta soltanto tale vuol dire che quell'amore si restringe a pochi, a volte pochissimi, a volte una sola persona. Se tiriamo le somme di questo ragionamento la conclusione è che la barbarie dei terroristi attuali deriva dal fatto che non hanno alcun amore, anzi odiano, la specie cui appartengono, odiano tutti gli altri, mentre amano solo quei pochi che condividono con loro l'odio per gli altri e vogliono distruggerli. E qui appare il servo arbitrio: l'amore tra pochi si differenzia tra chi ha il talento per comandare e quelli che sentono verso di lui un sentimento di devozione quasi religioso e si mettono al servizio del suo talento e del suo carisma. Come si vede, la nostra libertà è pressoché inesistente ed è la natura che comanda.

***

Si direbbe che la grande maggioranza delle persone è animata da caratteristiche diverse pur avendo in partenza i medesimi istinti. È certamente vero. I barbari sono pochi numericamente parlando, ma molti per le modalità del loro operare e stanno crescendo di numero. In Francia per esempio i musulmani sono 7 milioni. In gran parte moderati, ma pur sempre musulmani. I capi delle comunità sono, salvo pochi, desiderosi di inserirsi nella società dove hanno scelto di vivere; ma nelle loro file specie tra i giovani, il gusto dell'avventura, di imporsi, di valorizzare il loro esser "diversi", è diffuso. Questo modo di sentire si trova soprattutto nelle "banlieue" di Parigi e nelle grandi città non soltanto in Francia.

Ci troviamo dunque di fronte ad un piccolo esercito, anzi piccolissimo, ma estremamente mobile e difficilmente individuabile prima che agisca. Aggiungo anche che questa guerra "sui generis" è la causa di due effetti assai pericolosi. Il primo è che la guerra contro i barbari impone vincoli molto stretti alla nostra vita privata. Il secondo è che dal punto di vista politico questa situazione rende molto più forti i movimenti e partiti di una destra xenofoba: guadagna terreno ed è un pericolo evidente per la democrazia. Concludo ponendomi una domanda: poiché bisogna sgominare l'Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere? Le nazioni aggredite ed i loro alleati debbono scendere sul terreno che sta tra Siria, Iraq e Libia, ma non solo con bombardamenti aerei ma con truppe adeguate. Ci vuole un'alleanza politica e militare che metta insieme tutti i membri della Nato a cominciare dagli Usa e in più i Paesi arabi, la Turchia (che nella Nato c'è già), la Russia e l'Iran. Credo che sia questo il modo di agire nell'immediato futuro. Se non si fa, la nostra guerra con la
barbarie terrorista non vincerà. Molto tempo per decidere non c'è. Nel frattempo l'Europa federale dev'essere rapidamente costruita a cominciare dalla difesa comune e dalla politica estera. Sono questi i soli modi per difenderci dal terrore e dalla sua disumanità.

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15 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/15/news/come_possiamo_vincere_la_barbarie_del_terrorismo_disumano-127389822/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La Francia, l'Italia, l'Europa e la grazia di Francesco
Inserito da: Arlecchino - Novembre 24, 2015, 06:57:15 pm
La Francia, l'Italia, l'Europa e la grazia di Francesco

E' l'Europa l'obiettivo prescelto dal Califfato. E con essa la civiltà occidentale, le sue religioni, la sua economia, i comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti. La Francia ha assunto il ruolo di guida del continente. E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà?
 
di EUGENIO SCALFARI
22 novembre 2015

IN questi giorni terremotati tutti ci poniamo molte domande: perché accadono fatti così orribili, eccidi di innocenti, decapitazioni trasmesse in televisione, paura della gente, servizi segreti mobilitati, bombardamenti a tappeto, sorveglianze inutilmente rafforzate, in Europa, in Belgio, in Iraq, in Siria, in Turchia, in Egitto, in Libano, nel Mali, in Bangladesh, in mezzo mondo, con previsioni di altrettanti orrori nell'Italia del Giubileo?

Anche io sono profondamente colpito e preoccupato, ma non sorpreso e la ragione è questa: so da tempo che la storia dell'umanità da quando esiste è dominata dal potere e dalla guerra. L'amore e la pace sono due sentimenti alternativi che di tanto in tanto interrompono i primi due, ma sono interruzioni brevi, pause di riposo presto travolte. Dentro molti di noi l'amore e la pace sono sentimenti permanenti, ma il potere e la guerra hanno sempre la meglio dovunque, in qualsiasi epoca, in qualunque paese e in qualsiasi tempo. E il motivo è semplice: noi, a differenza di altri essere viventi, abbiamo un Io.

E quell'Io non appena ci nasce dentro ha bisogno assoluto di avere un suo territorio, conquistarselo, difenderlo, ampliarlo. Ha bisogno di emergere a tutti i livelli sociali e cerca di farlo come può, che sia povero o ricco, di pelle nera o bianca o mulatta, uomo o donna.

Anche gli animali per soddisfare i loro bisogni primari devono combattere per conquistare la preda, preda anch'essi di altri animali. Potere e guerra sono anche per loro istinti dominanti, ma non ne sono consapevoli. Noi sì, noi siamo Io in ogni istante della nostra esistenza ed è quello il motore che ci anima e determina il nostro destino. Il Fato. Ricordate? Gli dei olimpici della cultura greca avevano la meglio non soltanto sugli uomini ma perfino su altri dei. Zeus sapeva di dover rispettare il Fato che era molto più di un dio: era la legge che domina il Cosmo e quindi potere e guerra, la legge di natura è quella. L'antidoto non è l'amore e la pace che come ho già detto sono intervalli brevi, pause di riposo; ma è la libertà, la libertà consapevole. E la bellezza, non come ideale romantico ma lirico e profondamente evocativo: la musica, la danza, la conoscenza.

Libertà e bellezza, questi sono i valori, dove l'Io non viene affatto spento ma anzi potenziato e allontanato dalla ricerca del potere, riscattato dalla turpitudine della guerra e guidato verso quell'oltreuomo che nello Zarathustra di Nietzsche è l'ultimo e più eccelso livello che la nostra specie può raggiungere e che dovrebbe mettere insieme tutti gli uomini di buona volontà.

***

L'Europa è oggi l'obiettivo del terrorismo guidato dall'Is che d'ora in poi chiameremo Califfato. Noi siamo soltanto il suo bersaglio, attaccano dovunque possono, ma è l'Europa il terreno prescelto e con essa gli Stati Uniti d'America. Insomma l'Occidente, la civiltà occidentale in tutte le modalità che quella civiltà esprime, nelle sue religioni, nella sua economia, nei comportamenti delle persone comuni e delle loro classi dirigenti.

Il Califfato è a sua volta una classe dirigente composta da poche persone, non più di un centinaio, in gran parte provenienti dall'esercito iracheno di Saddam Hussein, dai muezzin afghani, dai talebani indottrinati da Bin Laden e da Al Qaeda; arabi soprattutto ma anche pachistani e sauditi.

Bin Laden, a quanto si sa, era profondamente religioso ma i dirigenti che compongono il Califfato non lo sono affatto anche se fanno finta di esserlo. Le cellule che il Califfato dirige hanno forse una vernice di religiosità fondamentalista. Il loro grido di guerra è " Allah Akbar" e molti di loro arrivano fino al punto di farsi esplodere sognando un Aldilà dove le vergini li aspettano come premio. Ma la gran parte di quei terroristi disseminati in Europa non hanno alcuna vocazione religiosa. Sono i giovani delle periferie, la seconda o terza generazione delle banlieue che non hanno potuto o non hanno voluto integrarsi con la società con cui vivono. Alcuni hanno studiato, altri no, ma tutti si sentono defraudati, molti ricorrono alla droga e/o all'avventura, alla rabbia, alle armi e più sono questi i loro modi di sopravvivenza, più l'esclusione aumenta, più la polizia diventa il loro nemico, più è facile reclutarli per i messaggeri del Califfato.

Le banlieue sono il terreno di coltura dei terroristi e l'Io gioca qui la sua più segreta e perversa partita. L'Io degli esclusi reclama una sua soddisfazione, un suo territorio psicologico, la speranza di non aver paura ma di incuterla negli altri. Che gli altri siano cristiani o atei o islamici, ma integrati e non esclusi: questi sono i loro bersagli. Bersagli anonimi, non li conoscono ma sono comunque altri e diversi da loro e quindi da uccidere. Per diffondere la paura e soddisfare così il loro orribile Io.

Questa è la guerra in corso: terrore e paura sono gli obiettivi delle cellule che obbediscono al Califfato la cui classe dirigente è posizionata nel triangolo che include le zone confinarie tra Siria, Turchia e Iraq, con un distaccamento libico-tunisino che fronteggia direttamente l'Europa mediterranea.

Il Califfato ha i suoi soldati, sono qualche migliaio e bene armati. Il Califfato è ricco, ha petrolio, ha l'appoggio di uomini di affari degli Emirati e finanziamenti mascherati ma evidenti che garantiscono la tranquillità saudita e degli Emirati.

A guardar bene anche l'Io del Califfo e dei suoi compagni è assai sviluppato, vuole potere, ricchezza, piaceri. Deriva da Al Qaeda ma è tutt'altra cosa rispetto a Bin Laden. Crudele quanto lui e più di lui, ma estremamente più sofisticato. Non è escluso che divenga un vero e proprio Stato arabo sunnita. In fondo Ibn Saud cominciò così la sua carriera e trasformò una tribù in un Regno tra i più potenti del Medio Oriente. La sua famiglia conta ormai circa trecento persone, possiede molte banche, imprese, alleanze d'affari in tutto l'Occidente, in Francia, in Inghilterra, in Italia, in America, in Germania, ovunque. Detesta gli sciiti ma si distingue anche dai sunniti. Tra i capi del Califfato è un esempio da imitare e magari da conquistare. Senza sangue, possibilmente. Il sangue scorre altrove.

***

Poiché la Francia è il principale terreno di battaglia del Califfato e delle sue migliaia di cellule europee, quella Nazione, oltre a contare il maggior numero di vittime innocenti, ha assunto la guida dell'Europa. Il presidente Hollande ha capito subito che, purtroppo per i francesi, il ruolo di leader dell'Europa era l'aspetto politicamente ed anche economicamente positivo e lui ha dimostrato di saperlo perfettamente assolvere, a partire dai simboli fino alla concreta azione politica.

Tra i simboli ce n'è uno che personalmente mi commuove non da ora ma da sempre, ogni volta che mi accade di ascoltarla: la Marsigliese, inno nazionale finora, ma europeo ai tempi delle guerre contro le monarchie assolute d'Europa, quando la grande Rivoluzione guidata dai girondini e da D'Anton arrestò l'invasione dei monarchi europei e l'esercito repubblicano guidato da Kellerman vinse la battaglia di Valmy.

Ogni volta che in Francia c'è un attentato il popolo si raduna nelle piazze e intona la Marsigliese mentre contemporaneamente la canta l'Assemblea nazionale. Così avvenne dopo l'attentato a Charlie Hebdo ma ora è cantata dai giocatori di calcio prima dell'inizio delle partite in molti paesi europei, è stata intonata a Londra alla Camera dei Comuni nel salone di Westminster, in Italia in una sorta di plenum delle Camere, insomma si è trasformato in un inno europeo in luogo dell'Inno alla Gioia della sinfonia beethoveniana.

Ma accanto al simbolo - del quale tuttavia sarebbe sbagliato trascurare l'importanza - c'è la politica vera e propria. Hollande aveva già deciso di affiancarsi agli Usa bombardando per un paio di volte Raqqa, scelta dal Califfato come propria capitale. Ma dopo gli attentati recenti a Parigi dei terroristi provenienti dal Belgio, i bombardamenti con Raqqa si sono moltiplicati e ancor più lo saranno quando la portaerei francese che è già partita da Tolone incrocerà nel Mediterraneo orientale i bombardamenti diverranno perciò continui.

Questo per quanto riguarda la guerra guerreggiata, ma poi c'è la politica vera e propria. Il primo intervento di Hollande è stato di appellarsi al Trattato di Lisbona che prevede la collaborazione di tutti gli Stati membri dell'Unione europea. I ventotto paesi hanno approvato all'unanimità ciò che il Trattato dispone: una collaborazione tra tutti i firmatari di quel trattato senza però indicarne né la procedura esecutiva né i vari ruoli di ogni Paese. Hollande avrebbe potuto appellarsi all'articolo 5 della Nato che prevede la collaborazione immediata con quel Paese che abbia subito una grave aggressione, ma non l'ha fatto perché la Nato ha un suo proprio comitato di cui la Francia ovviamente fa parte ma non ne è il capo.

Hollande ha anche previsto che, sulla base del Trattato di Lisbona, consulterà gli Stati membri dell'Ue bilateralmente, per stabilire con ciascuno di essi il tipo di collaborazione che la Francia gli chiede. Tale consultazione avrà inizio ai primi del prossimo dicembre.

Nel frattempo la Francia avrà incontri con Obama e soprattutto con Putin per considerare i comuni interventi contro il Califfato.

Nel frattempo c'è stato l'attentato compiuto in un grande albergo nella capitale del Mali, un paese ex colonia dell'impero francese dove Parigi ha dislocato da tempo 37 mila soldati che sono intervenuti con alcuni corpi specializzati insieme ad analoghe forze del Mali e a un reparto di militari americani. Il blitz è stato condotto a termine dopo ventiquattr'ore di aspra battaglia, gli attentatori hanno ucciso e sono stati a loro volta uccisi.

E il governo italiano in tutto questo? Che cosa gli sarà proposto da Hollande? E Renzi a sua volta che cosa gli proporrà? Che cosa ha in mente il nostro presidente del Consiglio, leader del più importante partito italiano e capo della maggioranza parlamentare, che ormai governa e comanda da solo, come del resto avviene da tempo in tutti i Paesi d'Europa e di Occidente?

La risposta a questa domanda è abbastanza facile perché è già stata anticipata dal nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, dal ministro della Difesa e dallo stesso Renzi: appoggeranno la Francia in tutto ciò che è possibile, ma non hanno alcuna intenzione di compiere interventi militari né con aerei né con truppe di terra.

È giusta questa posizione? Personalmente credo di sì, ma quello che non si vede è in che cosa può consistere la collaborazione con la Francia. Forse con risorse economiche? Non ci verranno chieste e comunque non ne abbiamo. Di fatto avremo una posizione neutrale. Con quali contraccolpi? Un Paese neutrale non avrà alcun peso sulla politica e sull'economia europea.

Se è lecito dare un suggerimento, Renzi dovrebbe riservarsi un ruolo in Libia. Non per partecipare alla guerra contro il distaccamento dei seguaci del Califfato né alla guerra tra il governo e le tribù di Bengasi e Tobruk contro il governo di Tripoli, ma per allestire campi di accoglienza dei migranti che provengono dai Paesi subsahariani, in fuga verso le coste mediterranee e in particolare verso l'Italia.

Campi d'accoglienza che li trattengano in Libia in modo decente e confortevole, ne controllino l'identità e la provenienza, esaminino le loro eventuali richieste di asilo politico e li aiutino a partire verso l'Europa su navi italiane e di altri Paesi europei o ne favoriscano il rientro opportunamente negoziato con i loro Paesi di origine.

È un ruolo molto importante che richiede non solo risorse economiche e competenze diplomatiche ma anche di truppe, navi da guerra e aerei di ispezione affinché quei campi d'accoglienza siano opportunamente difesi da tribù e/o da terroristi presenti in quelle zone. L'Egitto dovrebbe appoggiare questo " sistema" e sarebbe anche suo interesse farlo. Ancor più evidente sarebbe l'interesse francese. Hollande guida ormai l'Ue nel tandem con la Germania, regredita ormai in un ruolo minore rispetto al tradizionale tandem franco-tedesco. Col tempo forse la situazione cambierà, ma oggi è questa ed è la Marsigliese che predomina in Europa.

Ho già scritto più volte che l'esplosione di terrorismo dovrebbe affrettare l'avvio verso gli Stati Uniti d'Europa, ma si tratta comunque di un percorso che richiede a dir poco un decennio purché cominci subito. E il modo per farlo cominciare subito è la cessione immediata di sovranità dei Paesi europei, almeno quelli dell'Eurozona, della politica estera e di quella militare alle Istituzioni europee. Hollande sarebbe contrario, ma la Merkel? Non sarebbe proprio questo il modo per riconquistare la posizione prioritaria nell'Ue o almeno nell'Eurozona?

Ma Renzi, il nostro Renzi, sarebbe d'accordo e si batterebbe affinché questa cessione di sovranità avvenisse? Acquisterebbe un ruolo essenziale in Europa, ma lo capirà? Temo proprio di no, ma spero d'essere smentito. Se è politicamente intelligente dovrebbe accollarsi questi due ruoli, in Libia e in Europa. Spero di non essere il solo a suggerire questa posizione.

***

C'è infine un altro personaggio che è fondamentale per superare questa tragica situazione: papa Francesco. Non c'è mai stato un Papa come lui. Dico di più: un Pastore, un Profeta, un rivoluzionario: in nome della sua fede e in circa due miliardi di cristiani che abitano il pianeta, dislocati in quasi tutti i continenti.

Francesco si appella al Dio unico. Tutte le religioni monoteistiche si debbono affratellare in nome dell'unico Dio che non è e non può essere un Dio vendicativo ma è un Dio misericordioso e come tale va adorato dai credenti di quelle religioni a cominciare ovviamente dai cristiani, dai musulmani, dagli ebrei.

Il Corano parla di " morte degli infedeli" e offre ai fondamentalisti un pretesto per coprire le loro azioni delittuose con alcuni passi coranici. Ma dimenticano che il loro profeta Maometto, costruttore della religione islamica, mise come primo punto di riferimento Abramo. Al vertice dell'islam c'è dunque Abramo che ascoltò dalla voce del Signore l'ordine di sacrificare suo figlio Isacco. Quell'ordine sconvolse il cuore di Abramo nel profondo, ma la sua fede lo costrinse all'obbedienza: portò il figlio con sé su una collina e lì, guardando il cielo sopra di lui, estrasse dalle sue vesti un coltello per uccidere il figlio come gli era stato ordinato da Dio. Ma a quel punto la voce di Dio lo fermò: "Volevo vedere la forza della tua fede, ma io voglio che Isacco viva felice, come me e con te. Accarezzalo, educalo, e tutti e due sarete da me amati e illuminati".

Questo è il Dio di Abramo e di Isacco ed è un Dio misericordioso. Perciò sono blasfemi e condannevoli i terroristi del Califfato che invocano Allah e nel suo nome uccidono centinaia di Isacco, figlio di Abramo e amato da Allah Akbar. L'unico Dio, che gli ebrei chiamano Jahvé o Elohim e i cristiani chiamano Padre. Questo predica Francesco e questo è il tema del Giubileo della misericordia. La sua parola, in un momento come questo, è diretta soprattutto agli islamici affinché riconoscano il loro Dio misericordioso che è il medesimo che tutte le religioni monoteistiche dovrebbero venerare.

Spero che Francesco riesca ad affratellarle in un unico slancio di misericordia alla quale anche i non credenti si associano.

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22 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/22/news/la_francia_l_italia_l_europa_e_la_grazia_di_francesco-127895860/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Europa è in guerra ma l'Italia è neutrale: chi ha torto?
Inserito da: Arlecchino - Novembre 30, 2015, 02:54:28 pm
L'Europa è in guerra ma l'Italia è neutrale: chi ha torto?

Di EUGENIO SCALFARI
29 novembre 2015
   
 NELL'AMBITO d'una società globale dal punto di vista economico e tecnologico permangono tuttavia notevoli differenze per quanto riguarda la politica, la cultura e la distribuzione delle risorse tra i vari livelli delle categorie sociali, quelle che un tempo si chiamavano classi. Nasce da queste profonde diversità del benessere la mobilità dei popoli ed anche l'andamento del tasso demografico delle varie popolazioni.

Politica, cultura, mobilità dei popoli, religioni: sono questi i fattori dinamici che animano il pianeta, ai quali è doveroso aggiungere la necessità di tutelare il clima, visto che dobbiamo fronteggiare un sempre più elevato inquinamento dell'aria che respiriamo, dei venti, delle tempeste e dello scioglimento dei ghiacciai.
In questo quadro deflagrano anche le guerre, una delle quali sta insanguinando l'Occidente e il Medio Oriente con punte anche nel Maghreb, in Arabia, nell'Africa centrale, nelle Filippine, in Bangladesh.

Noi europei siamo al centro di questa guerra che, nonostante le apparenze, non è tra civiltà e neppure tra religioni. È una guerra tra fondamentalisti e liberali, tra classi evolute e periferie, tra benestanti e poveri, tra corrotti e onesti e perfino tra giovani scapestrati e giovani consapevoli. Insomma è la crisi di un'epoca ed è anch'essa una crisi globale perché i suoi fuochi sono sparsi in tutti i continenti e si intrecciano e si alimentano tra loro.
L'Europa è ampiamente sconvolta da questa crisi e dalla guerra che ne deriva, il fondamentalismo e il terrorismo; per combatterlo in nome della libertà anche la libertà è costretta a limiti più restrittivi.

Avveniva anche nell'antica Roma: quando la guerra era più intensa e l'esito incerto, i consoli venivano sostituiti da un dittatore con pieni poteri per combatterla. Non siamo a questo, ma i poteri politici tendono a concentrarsi in poche mani e le alleanze ad essere guidate da chi agisce sul terreno e dove la guerra è più intensa.

In Europa, almeno finora, il teatro tragico si svolge in Francia, nel Medio Oriente in Siria e in Iraq, in Turchia e nel Kurdistan. La coalizione contro il Califfato comprende non soltanto l'Occidente, ma anche la Russia ed è questa la grande novità: Putin ha come principale interlocutore Hollande, almeno in apparenza, ma in realtà è Obama il vero interlocutore e il ruolo del presidente francese è quello di mediare tra i due, in Europa comunque il leader di questa fase è Hollande e l'inno di guerra la Marsigliese.

Questa è la situazione e i fatti le danno forma.

***

L'Italia è il solo Paese che, pur sostenendo la necessità d'una grande coalizione che comprenda anche la Russia rifiuta di scendere sul terreno militare al di là degli impegni già da tempo assunti, che consistono in tre Tornado in missione quasi quotidiana di avvistamento e indicazione di obiettivi da colpire. Tre giorni fa Hollande ha incontrato all'Eliseo Renzi e si sono parlati per venti minuti. La richiesta francese consiste nella sostituzione di cento militari con altrettanti soldati italiani nel contingente di "caschi blu" dell'Onu in Libano. Renzi ha accettato previa l'eventuale approvazione del Parlamento e questo è tutto.

Il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in una conferenza stampa di venerdì scorso ha ricordato la tradizionale politica italiana degli ultimi quarant'anni: abbiamo sempre sostenuto una politica di amicizia nei confronti del mondo arabo e iraniano a partire dai tempi di Fanfani e di Andreotti e non è nostra intenzione allontanarci da questa tradizione.

Gentiloni ha dimenticato o forse ha preferito non ricordarlo un altro personaggio che in realtà decideva la nostra politica verso quei Paesi: Enrico Mattei, presidente dell'Eni. Era lui che decideva la nostra politica in quei Paesi per assicurarsi l'utilizzazione del petrolio che veniva estratto dai pozzi e faceva a quei Paesi condizioni di facilitazione economica e politica tali da estromettere la potenza fino allora esercitata da quelle che venivano chiamate le "Sette sorelle", multinazionali americane, inglesi, olandesi. Mattei aveva poteri assoluti per quanto riguarda l'Eni. In Italia finanziava la Democrazia cristiana ma non trascurava i socialisti e neppure i comunisti e i fascisti del Msi. Decideva lui chi doveva essere nominato ministro delle Partecipazioni statali e era lui che diceva al ministro che cosa dovesse fare anziché l'inverso. Finanziò perfino il movimento algerino di liberazione nazionale puntando sul fatto che nel momento in cui i francesi se ne fossero andati dall'Algeria, quel nuovo Stato avrebbe concesso all'Eni l'uso del petrolio e del gas e fabbricato i necessari oleodotti per portare la materia prima alle raffinerie italiane dell'Eni. Poi Mattei per un incidente aereo dovuto al maltempo o forse ad altre cause, morì. Nemici ne aveva soltanto due, le "Sette sorelle" e la mafia.

Queste cose Gentiloni non le sa o più probabilmente le sa ma non le dice, ma la nostra politica in Medio Oriente si spiega soltanto così.

Comunque dal punto di vista attuale siamo sostanzialmente irrilevanti in Medio Oriente e non abbiamo un gran peso in Europa. Renzi rivendica un ruolo di mediatore in Libia per mettere d'accordo le varie fazioni che si combattono. Non c'è riuscito Leon dopo molti mesi di lavoro sotto l'egida dell'Onu. Sembra difficile che possa riuscirci Renzi.

Mi permetto ora di aggiungere un mio suggerimento contenuto nell'articolo di domenica scorsa nei confronti del nostro presidente del Consiglio. Credo che dovrebbe aprire, dopo aver ottenuto le necessarie autorizzazioni, campi di accoglienza sulla costiera libica, dove i migranti dovrebbero essere trattati con decenza e dignità, mobilitando medici e anche psicologi e avviando rapidi riconoscimenti di identità e di accertamento dello status di ciascuna delle persone ospitate dai campi di accoglienza: quelli che invocano il diritto d'asilo ed hanno solide motivazioni per richiederlo potrebbero essere trasferiti sulle coste meridionali europee su navi italiane o straniere; gli altri dovrebbero essere rimpatriati nei Paesi d'origine dove la nostra diplomazia ne tratterebbe il rientro con tutte le garanzie del caso.

Naturalmente i campi d'accoglienza dovrebbero essere militarmente difesi contro eventuali incursioni di ladri o facinorosi da un contingente militare di due o tremila uomini, ampiamente sufficienti a tutelare la sicurezza.

Ho anche suggerito in quel mio articolo a Renzi di farsi promotore della cessione di sovranità alle autorità europee dei poteri relativi alla difesa comune e alla politica estera, analoghe alle cessioni di sovranità già effettuate in materia economica delle quali opportunamente si avvale la Banca centrale e Mario Draghi che la presiede.

È del tutto improbabile che i membri dell'Unione accettino in questo momento cessioni di sovranità dei singoli Stati ad un'Europa che diventerebbe in tal modo sempre più federata di quanto non sia ora ma è soprattutto improbabile che Renzi condivida questa ipotesi perché - pensa lui - questo declasserebbe gli Stati nazionali, privandoli di una parte molto importante dei loro attuali poteri. Se la pensa così, ed io credo che lo pensi, non vede molto lontano; che l'Europa diventi federale in una società globale dove gli Stati hanno dimensioni continentali, significherebbe che preferisce staterelli privi di peso internazionale dove però ciascuno è padrone in casa propria. Un'Europa così fatta non resisterebbe molto e l'Italia meno ancora degli altri ma chi è "padroncino" in casa propria obbedisce al detto "chi si contenta gode" (ma il Paese no).

***

Concludo con tutt'altro argomento. Ho visto pochi giorni fa in visione privata un film molto bello ed anche commovente, intitolato "Chiamatemi Francesco" diretto da Daniele Luchetti, prodotto da Valsecchi e come primi attori Rodrigo de la Serna e Sergio Hernandez.

Il film, che sarà nelle sale il 3 dicembre, racconta la vita di Jorge Mario Bergoglio nella sua giovinezza e poi nella maturità, da quando era un semplice prete poi promosso capo provinciale della Compagnia di Gesù, successivamente coadiutore del vescovo di Buenos Aires e infine arcivescovo e cardinale di Argentina. Come si scontrò con il regime dittatoriale di Videla, autore di orribili e continui delitti; il suo amore verso i poveri, il suo riserbo verso preti e teologi della teologia della liberazione, ritenuti para-comunisti e poi scomunicati da papa Giovanni Paolo II.

Bergoglio nel film è fondamentalmente schierato con i poveri e sulle vicende drammatiche di questa sua posizione il demonio è Videla dal quale in tutti i modi, anche i più drammatici, Bergoglio cerca di mettere in salvo quelli che Videla minaccia. Non so fino a che punto corrisponda a verità il suo distacco dai preti di sinistra; sta di fatto che poche settimane dopo che Bergoglio divenne Papa beatificò il vescovo Romero che era stato ucciso mentre celebrava la messa nella chiesa cattedrale di San Salvador. Papa Wojtyla aveva espresso questa intenzione ma non l'aveva mai attuata; papa Francesco la fece subito e Romero era certamente un vescovo politicamente di sinistra.

Papa Francesco tornerà domani dal suo viaggio africano, dal Kenya all'Uganda dove è stato accolto da milioni di fedeli. Ha riaffermato ancora una volta la diffusione addirittura capillare della corruzione e la necessità di combatterla anche in Vaticano.

Questo Papa è quello che sostiene e l'ha fatto anche nel corso di questo viaggio l'esistenza di un unico Dio e questo lo porta ad affratellarsi non solo con tutte le varie comunità cristiane ma anche con gli ebrei e soprattutto con i musulmani e a combattere contro i fondamentalismi dovunque affiorino, Chiesa cattolica compresa.

Credo sia inutile sottolineare l'importanza di questo Pontificato e la fratellanza delle religioni per combattere il fondamentalismo e il terrorismo che ne deriva. La Chiesa di Francesco è quella della pace, dell'amore per i poveri, per gli esclusi e per tutte le persone consapevoli e orientate vero il bene del prossimo. È mondiale nel senso profondo del termine e mai come in questi tristissimi tempi d'un uomo di questa tempra e di questa autorevolezza il mondo ha avuto bisogno.

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29 novembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/11/29/news/l_europa_e_in_guerra_ma_l_italia_e_neutrale_chi_ha_torto_-128393177/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "Continuerò a scrivere per Repubblica. Anche io avrei ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:45:44 pm
Scalfari: "Continuerò a scrivere per Repubblica. Anche io avrei scelto Calabresi"
Il fondatore del giornale a "Otto e mezzo" su La7


02 dicembre 2015

ROMA - "Non lascerò Repubblica". Così il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, dopo l'annuncio del cambio di direzione del quotidiano, che il 14 gennaio passerà da Ezio Mauro e Mario Calabresi. "Ho avuto un minimo di delusione, di fastidio, per il fatto che l'ingegner De Benedetti non mi abbia consultato prima di decidere il nuovo direttore della testata ma me lo abbia comunicato quando il consiglio di amministrazione aveva già deciso. Visto il grande affetto reciproco, pensavo mi consultasse, anche se probabilmente gli avrei dato il nome di colui che poi sarà il direttore, Mario Calabresi. Dopodiché, De Benedetti mi è venuto a trovare e mi ha chiesto scusa".

In merito all'ipotesi che Scalfari non scriva più ogni domenica sul quotidiano, il fondatore di Repubblica chiarisce: "Ho chiesto di scrivere senza una data fissa ma quando ho voglia di scrivere, perchè una rubrica fissa richiede un grande lavoro di preparazione, la lettura di un gran numero di giornali ed è faticoso. Poi è venuto Mario Calabresi a trovarmi a casa e mi ha chiesto di continuare con la rubrica domenicale per una serie di ragioni, tra cui: "Quello che tu scrivi serve anche a me per entrare definitivamente dentro l'atmosfera di Repubblica", mi ha detto. E poi mi ha detto che priverei il paese di una voce importante. Allora ho accettato tutto e continuerò a scrivere di domenica"

© Riproduzione riservata
02 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/02/news/scalfari_continuero_a_scrivere_per_repubblica_anche_io_avrei_scelto_calabresi_-128662669/?ref=HRER2-2


Titolo: E. SCALFARI. Libertà senza eguaglianza diventa privilegio dei forti sui deboli.
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2015, 07:26:31 pm
I valori che Repubblica ha sempre sostenuto e sosterrà
Libertà senza eguaglianza diventa privilegio dei forti sui deboli


Di EUGENIO SCALFARI
06 dicembre 2015
   
UNA volta tanto parlerò della nascita di Repubblica e quindi anche di me. L'anniversario ricorre il 14 gennaio, l'anno era il 1976. Tra le fotografie appese al muro della mia stanza al giornale ce n'è una con l'immagine dei "fondatori" che sfogliano il primo numero mentre le copie escono dalle rotative. Ne avevamo due, una a Roma l'altra a Milano, erano piccole e stampavano soltanto 15mila copie all'ora. Quella notte lavorarono dieci ore ciascuna e complessivamente stamparono 300mila copie che andarono esaurite. C'era molta attesa nel pubblico ma nei giorni successivi gradualmente ma inevitabilmente diminuirono; dopo un paio di settimane scendemmo a 70 mila copie vendute e lì per fortuna ci fermammo, non erano poche ma assai lontane dal punto di pareggio tra entrate e uscite della nostra società proprietaria del giornale (metà dell'Espresso e metà della Mondadori, allora guidata dalla famiglia del fondatore Arnoldo).

Il punto di pareggio l'avremmo raggiunto con la vendita di 130 mila copie e la relativa pubblicità; il capitale della società era di cinque miliardi di lire che sarebbero durati tre anni; se entro quel termine il pareggio non fosse stato raggiunto la decisione che era già stata presa era la chiusura di Repubblica perché non volevamo fare un giornale in perdita permanente. Queste notizie le comunicai alla assemblea dei redattori riunita alla vigilia dell'inizio della produzione. Nella fotografia sopra ricordata si vedono una decina di persone.

Ci sono Carlo Caracciolo, Mario Formenton amministratore delegato della Mondadori, Gianni Rocca redattore capo, Mario Pirani, Sandro Viola, Gianluigi Melega, Fausto De Luca e naturalmente anch'io e qualche altro collega. Aggiungo che i cosiddetti numero zero, che sono la prova del giornale prima ancora che sia messo in vendita, cominciarono il 15 dicembre, furono in tutto sedici e l'ultimo è datato 11 gennaio ed ha sette prime pagine diverse l'una dall'altra.

Questi sono i dati tecnici essenziali. La storia dei mesi successivi è nota: restammo inchiodati alle 70 mila copie di vendita per circa due anni; poi cominciammo a crescere con l'inizio del terrorismo delle Brigate Rosse e accelerammo dopo il rapimento e poi la morte di Aldo Moro. Nell'autunno del '78 avevamo raggiunto il pareggio di bilancio e la crescita delle vendite non si fermò fino a quando nel '86 raggiungemmo e superammo il Corriere della Sera ad un livello medio di 700 mila copie. Ovviamente il giornale era profondamente mutato: dalle 32 pagine iniziali ne contava 56 nell'edizione nazionale e 68 in quelle locali; avevamo introdotto lo sport che all'inizio non c'era, ampliata la cultura e gli spettacoli, le quotazioni di Borsa e la meteorologia. Insomma era ormai completo in tutti i settori.

A differenza degli altri la nostra diffusione era nazionale, nel Nord, nel Centro, nel Sud e nelle Isole ed anche all'estero e così è durato anche nel secondo ventennio con la direzione di Ezio Mauro fino a quando i mutamenti della tecnologia hanno prodotto in tutto il mondo la crisi della parola scritta e la nascita della rete Internet che ha dimezzato la diffusione dei giornali e dei libri. Ma l'importanza di Repubblica e il numero dei lettori è rimasto molto elevato se si sommano il giornale cartaceo e quello letto attraverso il sito Internet. Dobbiamo dunque approfondire le ragioni che a quarant'anni di distanza dalla sua fondazione rendono ancora essenziale la lettura di Repubblica nonostante i profondi mutamenti della società nei suoi aspetti sociali, economici, culturali e politici.

Non dimentichiamo che Repubblica nacque dal settimanale L'Espresso del quale abbiamo celebrato la nascita avvenuta sessant'anni fa, il 2 ottobre del 1955. Pochi sanno che quando Arrigo Benedetti ed io proponemmo ad Adriano Olivetti e al presidente dell'Eni, Enrico Mattei, di finanziare la nostra iniziativa, il progetto che avevamo formulato era un giornale quotidiano, in gran parte simile a Repubblica. Simile nel formato e nella linea culturale e politica. Mattei era disposto a farlo, Olivetti ci propose invece di ripiegare su un settimanale poiché le sue disponibilità finanziarie non erano in grado di editare un quotidiano. Noi preferimmo avere come editore Olivetti che il presidente di un ente pubblico come l'Eni, ma il nostro progetto di quotidiano era talmente piaciuto a Mattei che sette mesi dopo l'uscita dell'Espresso l'Eni pubblicò il Giorno. Ebbe un buon successo corrispondente ad una vendita di 200 mila copie, soprattutto nel Nord. Il formato era quello attuale di Repubblica e - come il nostro progetto nato vent'anni dopo -  aveva abolito la terza pagina dedicata alla cultura, spostandola verso il centro del giornale; le pagine due e tre contenevano il fatto quotidiano più importante mentre i commenti politici ed economici erano collocati nelle pagine sei e sette.

Ricordo queste cose perché Repubblica nasce da un'idea che non ha 40 ma 60 anni di vita e non è un caso che nel 1976 tra i più importanti giornalisti assunti da me nelle settimane precedenti all'uscita di questo giornale molti provenivano dal Giorno come Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Fausto De Luca, Giovanni Valentini; altri per restare con noi lasciarono la Stampa (Sandro Viola) e il Corsera (Edgardo Bartoli); altri ancora provenivano da Paese Sera, dall'Unità e dall'Ora di Palermo (Miriam Mafai, Giorgio Signorini, Franco Magagnini, poi Sebastiano Messina, Giuseppe D'Avanzo, Antonio Polito).

I giornalisti cofondatori di Repubblica sono stati professionalmente molto dotati e quelli più giovani hanno imparato benissimo il mestiere dopo un'esperienza sul campo di pochi mesi. Il loro orientamento politico era di provenienze molto diverse, alcuni comunisti, altri liberalsocialisti o socialisti, altri ancora moderati ma appena entrati a far parte parteciparono rapidamente alla linea del giornale che ebbe fin dall'inizio una sorta di Dna che rimonta a Piero Gobetti, ai fratelli Rosselli, a "Giustizia e Libertà" e al Partito d'Azione. Questa linea era la stessa di personalità del tipo di Valiani, Calogero, Omodeo, Salvatorelli, Jemolo, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Paolo Sylos Labini, Spriano, Ugo La Malfa e, sia pure con veste marxista, Antonio Gramsci, Antonio Giolitti, Bruno Trentin, Luciano Lama, Sandro Pertini, Enrico Berlinguer, Pietro Ingrao, Giorgio Napolitano, Alfredo Reichlin, Giovanni Amendola, Negarville e Terracini. Dall'altro lato dello schieramento politico posso fare i nomi di De Gasperi, Dossetti, Ciriaco De Mita, Sergio Mattarella. Erano cattolici ma profondamente democratici e come tali una vicinanza se non addirittura una partecipazione ai valori che l'Espresso prima e Repubblica poi hanno sempre sostenuto e cercato di diffondere nel Paese.

Per concludere parlerò ora dei valori che formano la sostanza del nostro lavoro giornalistico. Si riassumono in nove parole: libertà, eguaglianza, fraternità, giustizia, democrazia, divisione dei poteri costituzionali, diritti, doveri, innovazione. I primi tre, libertà eguaglianza fraternità, derivano dall'Illuminismo inglese e soprattutto francese e dalla grande rivoluzione del 1789 quando il Terzo Stato diventò costituente e il potere assoluto cadde per far luogo al potere costituzionale. Le ripercussioni  -  sia pure con drammatiche fratture e mutamenti regressivi  -  si diffusero in tutta l'Europa ed anche negli Stati uniti americani. Le bandiere a tre colori e l'inno della Marsigliese divennero i simboli di quella nuova e rivoluzionaria cultura. Soprattutto i primi due, libertà e eguaglianza. L'una non può vivere senza l'altra perché libertà senza eguaglianza diventa privilegio dei forti sui deboli e eguaglianza senza libertà diventa una caserma dove comandano demagoghi e/o tiranni.

La giustizia è il canone giuridico dell'eguaglianza, i diritti e i doveri sono reciprocamente dovuti dallo Stato ai cittadini (i diritti) e dai cittadini allo Stato (i doveri). Infine l'innovazione rappresenta la spinta, il motore, i desideri che alimentano la vita evitando un letargo che comprime la vita in un percorso ripetitivo senza alcuna creatività. Questi sono i nostri valori e questa è la pubblica opinione della quale siamo la voce. Un'opinione sostanzialmente laica che però ha recentemente incontrato Papi innovatori e perfino rivoluzionari come nell'ultimo cinquantennio sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e soprattutto Francesco, il più rivoluzionario di tutti i suoi predecessori. Se guardate papa Francesco da laici e anche da non credenti vi accorgerete che quella voce esprime i nostri valori, li condivide tutti e in particolare quelli sulla fraternità, sull'eguaglianza, sulla giustizia e sull'innovazione. I tempi in cui viviamo sono drammatici e in certi casi tragici, ma la luce dell'autocoscienza e del bene verso il prossimo ci inducono a non disperare.
 
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06 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/06/news/i_valori_che_repubblica_ha_sempre_sostenuto_e_sosterra_-128887770/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Piccole grandi cose, dalla Francia nazionalista alla Leopolda
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 13, 2015, 06:36:28 pm
Piccole grandi cose, dalla Francia nazionalista alla Leopolda
Parigi, vittima del terrorismo, diventa il centro della politica estera europea. Con l'Ue l'Italia di Renzi è ormai in aperto contrasto.
Il nostro è il Paese in maggiore dissenso con le Autorità di Bruxelles e con la Germania. Siamo l'unico Stato occidentale che non si considera in guerra con il Califfato.
Ma i guai con l'Europa riguardano anche la politica economica, la flessibilità, la gestione del debito pubblico

Di EUGENIO SCALFARI
13 dicembre 2015

ACCADONO parecchie cose importanti mentre mi accingo a scrivere quest'articolo. In Francia si sta per votare il ballottaggio per i governatori delle regioni che videro domenica scorsa il trionfo del Fronte Nazionale. La sfida è tra i lepenisti e i repubblicani di Sarkozy appoggiati dai socialisti di Hollande. Una specie di "union sacrée" che contiene però un'anomalia: sono due nazionalismi dei quali uno è fortemente xenofobo e l'altro non lo è. Il risultato avrà effetti dovunque in Europa, ma una vittoria del lepenismo darebbe maggior forza alle destre razziste mentre una sua sconfitta produrrebbe l'effetto contrario.

Se parliamo di quanto avviene in Italia ricorderò che siamo nel secondo giorno del raduno alla Leopolda e alla seconda settimana dello scandalo delle quattro piccole banche che hanno messo in gioco molti milioni di euro e mostrato gravi difetti di sistema. Nel frattempo continua la guerra al Califfato e si è aperto un terzo fronte dopo quelli siriano e iracheno: si combatte ora su un fronte libico-tunisino, che interessa direttamente l'Italia per ragioni geopolitiche. Infine papa Francesco dopo aver aperto la porta del Giubileo a San Pietro aprirà quelle di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria Maggiore. Di quest'ultimo argomento parleremo soltanto dopo il discorso che papa Francesco farà il 21 prossimo davanti alla Curia. Siamo alla vigilia del Natale ma il Papa non farà un intervento latte e miele. Credo che sarà piuttosto più rivoluzionario del solito. Comunque lo esamineremo subito dopo averlo letto nel suo testo integrale. Ora andiamo ad approfondire gli altri temi elencati all'inizio.

Il Fronte Nazionale guidato da Marine Le Pen e da sua nipote Marion non è più da tempo un movimento territoriale di natura simile alla Lega italiana. Del resto anche la Lega di Matteo Salvini ha cambiato pelle rispetto a quella di Bossi, l'esempio di Marine Le Pen ha fatto scuola sebbene la Lega non sia di fatto uscita dalla Pianura padana che è il suo insediamento storico. Il Fronte Nazionale comunque è ormai un partito di destra che si completa con un nazionalismo antieuropeo e con la netta chiusura alle immigrazioni. Ovviamente è anche contro la moneta europea e in favore del ritorno alle monete nazionali. Intona la Marsigliese insieme a Hollande ma utilizza il terrorismo islamico in tutt'altro modo dei socialisti francesi. Per di più riesce a coinvolgere e ricevere voti provenienti anche dall'estrema sinistra, percorsa da una sorta di rabbia sociale e politica contro le élites e l'attuale classe dirigente. La vittoria al primo turno elettorale proviene infatti soprattutto dalle regioni del Nordovest francese dove abbondano operai senza più lavoro e speranza. Non è un caso se la presenza del Fronte Nazionale a Parigi e nell'Île-de-France è pressoché nulla.

Va detto tuttavia che il nazionalismo non è monopolio del Fronte Nazionale ma alligna (eccome) perfino nel partito socialista. Ha le sue radici nella "Grandeur de la France" che esiste a dir poco dai tempi del cardinale di Richelieu ed ebbe come simboli di continuità il Re Sole nel Seicento e Napoleone nell'Ottocento, ma è tuttora pienamente esistente. Hollande è europeista se e soltanto se è la Francia a guidare l'Europa, o magari il tandem Francia-Germania purché quest'ultima si limiti alla politica economica e lascia a Parigi la politica estera. La Gran Bretagna è periferica e isolazionista. Il resto d'Europa deve seguire e seguirà oppure ne sopporterà le conseguenze.

Gli attentati terroristici del Califfato hanno scatenato la guerra, questo è fuori dubbio. Una guerra strana e asimmetrica. Una guerra, e questo è l'aspetto positivo per la Francia anche se il prezzo pagato è tutt'altro che lieve. La Francia vittima del terrorismo diventa il centro della politica estera europea e Hollande detta infatti direttive e s'incontra bilateralmente con gli altri membri dell'Ue trattando anche con Obama e con Putin. Il suo partito conta assai poco, ma lui ottiene molto perché lui è la Francia ancora per due anni e forse anche dopo. Il voto di oggi sarà molto importante da questo punto di vista. La "souveraineté" è comune a tutti i partiti francesi ma tocca al popolo stabilirne la titolarità e sono in tre ad aspirarvi da posizioni molto diverse l'uno dall'altro.

***

Con l'Europa l'Italia di Matteo Renzi è ormai in aperto contrasto. La verità è che il nostro è il Paese dell'Europa in maggiore dissenso con le Autorità di Bruxelles e con la Germania. La Francia ci tratta come il padre tratterebbe un figlio con desiderio di autonomia e un orgoglio che non corrisponde alla realtà: difetti che il padre comprende e spesso perdona ma talvolta bacchetta.

Siamo - tanto per fare un esempio - il solo Paese dell'Eurozona e dell'intero Occidente che non si considera in guerra con il Califfato. Abbiamo quattro aerei Tornado e droni che sorvolano alcune zone dell'Iraq per fotografare possibili obiettivi da bombardare e basta. Guerra? Niente guerra se prima non ci sia una coalizione mondiale che indichi l'obiettivo politico finale quando il Califfato e le sue propaggini terroristiche saranno state distrutte e i confini della regione mediorientale opportunamente modificati. Vien da dire a "babbo morto".

Questo significa che qualcuno la guerra dovrà pur farla, ma noi no. Mettiamo insieme le "intelligence" questo sì; mandiamo cento militari in più al posto di altrettanti francesi richiesti per altri più importanti impegni, nel contingente Onu in Libano. Basta così. Hollande del resto non ha chiesto nulla più di questo dopo un incontro con Renzi durato venti minuti a Parigi. Il figlio è simpatico ma un po' discolo. Pretendere di più sarebbe tempo perso.

Ma, guerra a parte, i guai con l'Europa riguardano la politica economica, la flessibilità, la gestione del debito pubblico. La Germania lesina, la Commissione europea lesina, il presidente dell'Eurozona lesina, la Francia si occupa d'altro. Dal punto di vista della flessibilità e della gestione del debito anche la Francia è in difetto con Bruxelles ma il debito francese è assai minore del nostro e poi la Francia è in guerra e noi no, differenza non da poco.

Noi vogliamo fare una politica neo-keynesiana, governare col deficit. Il ministro tedesco dell'Economia, Schaeuble non vuole, Merkel non vuole, Juncker non vuole. Neppure Draghi vuole, anche se sta comprando titoli e obbligazioni private in Europa e quindi in Italia a tutto spiano. Il prezzo del petrolio scende e per noi è un buon risparmio. Il tasso di cambio incoraggia le nostre esportazioni verso l'area del dollaro e questa è crescita. Il tasso di interesse scende e questa è una buona carta che crea un avanzo nei prezzi di collocamento dei vari buoni del Tesoro. Questo lo fa Draghi, non Renzi, ma il nostro presidente del Consiglio nel frattempo non è stato con le mani in mano, anzi ha mosso la nostra società con cambiamenti che aspettavano da trent'anni di essere attuati ma nessuno c'era riuscito. Lui sì e l'elenco è lungo: "In un anno e mezzo di governo - ha scritto Marcello Sorgi sulla Stampa di venerdì - è riuscito a fare approvare da un Parlamento ingovernabile la riforma elettorale, quella del lavoro, la legge sulla responsabilità dei giudici, la riforma della scuola e sta per ottenere la riforma costituzionale (cancellazione del bicameralismo) e quella della Rai. E poi la rottamazione ai vertici delle aziende pubbliche".

Tutto vero caro Sorgi, ma sono riforme buone per il popolo oppure indifferenti o dannose? Non mi pronuncio in materia perché l'ho fatto più volte proprio in quell'anno e mezzo in cui venivano proposte e approvate. Risultati? Ancora non sappiamo perché non li hanno prodotti. In compenso è scoppiato lo scandalo bancario e di questo occorre approfondire qualche aspetto.

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Ho la sensazione che molti non abbiamo ben chiaro il rapporto tra la banca e la moneta. Storicamente si tratta di questo: l'intermediazione tra chi ha bisogno di prestiti e chi ha la capacità di trovare il denaro necessario. Si chiama banca, il banchiere riesce a trovare chi presta soldi e lui a sua volta li presta a chi glielo chiede. Il banchiere cioè riceve prestiti e li presta a sua volta; naturalmente preleva una commissione a suo favore e così ne nasce un profitto e nuove iniziative. Il prestito ricevuto dal banchiere si chiama deposito, cioè moneta risparmiata e depositata che produce reddito.

L'intera operazione crea moneta e dà frutto a tutti. Ma non mancano incidenti di percorso: debitori del banchiere che non riescono a utilizzare con profitto il prestito ricevuto e non sono in grado di restituirlo; i banchieri che perdono i loro crediti e rischiano di fallire, i depositanti il cui deposito non solo non rende più ma rischia di scomparire del tutto.

E poi ci sono operazioni truffaldine, del banchiere e/o del suo debitore a danno dei depositanti che possono anche avere investito i loro depositi in titoli il cui acquisto è stato suggerito o addirittura imposto dal banchiere in questione.

Nel caso specifico delle quattro banche di cui si tratta la gestione è stata molto spensierata da parecchi anni a questa parte, i prestiti sono spesso andati in sofferenza, i depositi sono stati indirizzati con mano dura verso acquisto di titoli che non potevano né dovevano essere offerti ad una clientela di modeste dimensioni ed infine ulteriori appropriazioni indebite sono state effettuate dai dirigenti delle banche medesime.

Sulla cattiva gestione che la vigilanza della Banca d'Italia dotata di ampi poteri ha attentamente indagato, la stessa Banca d'Italia ha decretato, forse con qualche ritardo, il commissariamento. Ma gran parte delle operazioni sopraindicate sono dei reati veri e propri e su quelli interverrà sicuramente la magistratura ordinaria. Quanto alla Banca centrale la quale detta i criteri con i quali le Banche centrali nazionali debbono esercitare la vigilanza, Draghi da tempo chiede all'Europa la garanzia sui depositi di tutti i Paesi dell'Eurozona e questo è il nucleo di quella che l'Europa ha già accettato in linea di principio e cioè l'Unione Bancaria.

Il governo italiano potrà ricorrere a questa garanzia europea quando essa sarà stata attuata, cosa che ancora non è avvenuta anche perché la Germania è piuttosto contraria. Ricordo che quando ci fu il fallimento del Banco Ambrosiano, dopo la gestione disastrosa del banchiere Calvi che fu poi ucciso dalla mafia, l'allora governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi e l'allora ministro del Tesoro Nino Andreatta separarono la banca fallita dalla banca rifatta e presieduta da Bazoli. In quell'occasione Ciampi inventò il metodo di consentire ai depositanti della banca fallita di chiedere che il loro deposito si trasformasse in un deposito presso la banca rifondata la quale a sua volta avrebbe dovuto assumere una parte delle responsabilità di fronte al liquidatore giudiziario e ricevere contemporaneamente un supporto dalla Banca centrale. Bisognerebbe rivedere quel passato e trarne qualche spunto operativo.

***

Ed infine: esiste ancora la sinistra in Italia? Merita d'esser rifondata e opportunamente rappresentata? La sinistra esiste certamente come valore. In Italia c'è un partito di centrosinistra che sta cambiando pelle nel bene e anche nel male, in proposito i punti di vista sono diversi ed è normale che così avvenga. Ma c'è una questione sulla quale la sinistra dovrebbe battersi unita, un punto fondamentale fatto di valori e non di parole: l'unità dell'Europa. Invece la sinistra italiana ed europea, in tutte le sue correnti, movimenti, partiti e partitini, non fa assolutamente nulla in quella direzione come se il problema o non esistesse o non la riguardasse.

Cito in proposito quanto ha scritto pochi giorni fa la presidente della Camera, Laura Boldrini sul Corriere della Sera: "C'è una grave difficoltà che sta attraversando l'Europa sotto la pressione della spinta nazionalistica e populista. A questo si aggiunge che troppo spesso è vincente l'interesse nazionale ad ispirare l'azione dei governi e del Consiglio europeo che tutti li comprende. È ora di agire. Chi vuol far credere che gli Stati nazionali possano competere su scala globale con i giganti dell'economia e della politica è un illusionista che non ha come obiettivo risolvere i problemi ma vuole soltanto capitalizzarne il beneficio elettorale. Servono invece proposte percorribili che vadano incontro ai bisogni delle persone a cominciare dalla crescita e dalla creazione di nuovi posti di lavoro".

Questo sarebbe il compito della sinistra italiana e di quella europea ma per ora nulla si vede. Sarebbe venuto il momento che si svegliassero.

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13 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/13/news/piccole_grandi_cose_dalla_francia_nazionalista_alla_leopolda-129357596/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Renzi è il primo attore contro la Germania
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:22:10 pm
Perché Renzi è il primo attore contro la Germania

Di EUGENIO SCALFARI
20 dicembre 2015

ELENA Boschi ha parlato con apprezzabile dignità alla Camera del rapporto affettivo tra lei e suo padre, coinvolto come vicepresidente della Banca Etruria nello scandalo delle banche popolari. Ha detto: "Mio padre è una persona perbene ed io ho per lui un profondo affetto, ma se ha sbagliato pagherà".

Ha ricevuto un meritato applauso ma nonostante questo il Pd e il suo leader sono in calo in tutti i sondaggi a causa dello scandalo bancario. Non contano granché i sondaggi, sono foto istantanee che colgono l'attimo fuggente ma a distanza di pochi giorni sono già cambiati. Lui però ha un carattere molto sensibile, non gli piace affatto perdere popolarità, requisito necessario a far contento il suo narciso particolarmente presente in tutta la sua vita. Da questo punto di vista gioca la sua partita con grande abilità. La contromossa è stata di mettere sotto accusa la Germania di Angela Merkel nell'ultima riunione di giovedì scorso a Bruxelles del Consiglio dei ministri dell'Unione. Ed è di questo che dobbiamo occuparci: Renzi versus Merkel, l'Italia contro la Germania. L'attacco di Renzi è stato assai duro, a detta di molti che vi hanno assistito addirittura feroce, anche se alla fine ha ricordato la sua amicizia con la Merkel la quale a sua volta l'ha invitato ad un faccia a faccia da effettuarsi nei prossimi giorni per chiarire e cercare di far convergere le loro attuali differenze. Ma questa è la necessaria diplomazia politica. La sostanza dell'attacco è concentrata sul tema dei gasdotti tra la Russia e l'Europa, le sanzioni dell'Occidente a Putin per quanto riguarda l'Ucraina, il dissenso italo-tedesco sul problema dei migranti e infine l'unione bancaria europea.

Quattro punti che definiscono l'intera politica dell'Ue, salvo il tema della guerra all'Is, che Renzi tende ad accantonare per la ragione che lui, cioè l'Italia, a quella guerra militare ha deciso di non partecipare. Tutti sanno (e lo sa anche lui) che in questa fase il tema della guerra all'Is domina su tutti gli altri, ma proprio per questo è nella mani delle due sole grandi potenze: gli Usa e la Russia. Tutti gli altri sono soltanto figuranti, comparse o tutt'al più attori secondari. Perciò Renzi non ha voglia di far parte di quel carrozzone, ma di quelli strettamente europei, sì.

***

Il gasdotto è importante ma non più di tanto. Farne due, uno al nord e l'altro al sud riattivando quello già esistente? O aggiungerne addirittura un altro? La Germania ha confermato di essere interessata a costruire quello a nord; lo farà con soldi suoi o trovando altri finanziatori che le si affianchino. L'Italia faccia quel che vuole e con chi vuole. La baruffa qui non c'è, ma solo libertà di scelta, sempre d'accordo con la Russia perché la materia prima viene da lì.

Anche il tema dell'Ucraina è fuori dal quadro renziano; lui ne ha fatto cenno "per completezza di informazione" ma chi decide sono gli Usa e, in minor misura, la Germania.

L'Italia può invece alzare il dito e chieder la parola -  come lo stesso Renzi ha efficacemente definito i suoi interventi in materia -  sul tema dei migranti e su quello dell'unione bancaria europea e della garanzia di quella unione verso i depositi dei risparmiatori nelle banche europee.

Sui migranti la polemica è marginale: la Germania ci rimprovera (attraverso la Commissione di Bruxelles) di non prendere le impronte digitali agli immigrati sulle nostre coste ed anche di non aver preparato i centri di accoglienza sufficienti e debitamente attrezzati. Noi, quanto alle impronte digitali, rimproveriamo alla Germania di aver fatto lo stesso. In più rivendichiamo d'essere la sola nazione mediterranea a sostenere il grosso degli arrivi di fronte alla sostanziale indifferenza degli altri Paesi e alle nefaste oscillazioni della politica di Angela Merkel in proposito. Ad un certo punto infatti la cancelliera tedesca spalancò le porte all'immigrazione siriana creando un flusso improvviso ed enorme che mise in gravi difficoltà i Paesi dell'Est e del centro europeo; ma poi, di fronte alla marea che si stava verificando, si irrigidì con tutte le conseguenze che ne derivarono e la fine -  anche se non ufficiale -  del patto di Schengen.

La Germania ha farfugliato sull'argomento e Renzi ne è uscito benissimo. Resta il fatto che la politica dell'immigrazione continua a mancare mentre i barconi continuano a partire e la gente continua a morire in mare.

Infine -  il tema dell'unione bancaria e delle regole che ne derivano e qui entra in causa addirittura il tormentone dell'Europa federata: si farà o non si farà? E quali saranno gli effetti dell'una o dell'altra soluzione?

***

L'Italia, a suo tempo, firmò il documento della Commissione che istituiva l'unione bancaria, il cui primo passo fu la vigilanza della Banca centrale su tutto il sistema bancario europeo.

Anche la Germania firmò. La Bce dal canto suo aprì un'inchiesta su tutte le banche per accertare il loro grado di solidità, l'andamento della gestione, gli effetti sulla clientela, la congruità del capitale azionario. Dettò alcune prescrizioni per quegli istituti che non avevano un capitale sufficiente; controllò che le sue direttive fossero state adempiute e poi, come previsto, delegò le Banche centrali nazionali a proseguire la vigilanza intervenendo all'attuazione della seconda fase: predisporre la garanzia europea sui depositi. Tutti firmarono, anche la Germania sia pure con qualche riserva.

Ne fa testo una intervista dello stesso Draghi del 31 ottobre di quest'anno al giornale italiano Sole 24 Ore, che nei passi principali suona così: "L'unione bancaria va completata. C'è stato un accordo sia sulla costituzione di un sistema assicurativo sui depositi, sia su un "Single Resolution Fund" per finanziare gli interventi sulle banche in crisi. Queste cose vanno fatte perché in questo modo uno dei problemi che ha caratterizzato la crisi che stiamo ancora vivendo, il nesso bidirezionale tra banche e Stati sovrani, viene attenuato".

Nel pensiero di Draghi infatti un'unione bancaria con queste caratteristiche rappresenta un passo fondamentale verso quell'Europa federata senza la quale tra pochi anni il nostro continente diventerà una nave fragilissima in tutte le tempeste e i suoi Stati nazionali non saranno altro che barconi stipati di gente in preda ai marosi e senza alcun peso politico nel mondo della società globale.

Draghi lavora per quell'obiettivo, anzi è il solo che ne veda distintamente il processo, le modalità di passare ad un certo punto dalla manovra monetaria a quella politica, facilitata da tutte le cessioni di sovranità che si saranno effettuate nel frattempo, a cominciare da quella già da lui richiesta ma non recepita finora da nessuno degli Stati membri, d'un ministro del Tesoro europeo con tutte le conseguenze che un istituto del genere comporta.

In questa visione di cui Draghi è stato finora il solo protagonista, Renzi ha messo ora lo zampino, anzi ha dato una vera e propria zampata nei confronti della Germania. Ha ricordato le vicende del dissesto della Deutsche Bank, il primo istituto tedesco che fu messo sotto sequestro in tutti i Paesi europei dove c'era una sua filiale; fu salvato con l'intervento del governo tedesco ma poco dopo entrò in crisi la Dresdner Bank e infine la Commerzbank. Altrettanti dissesti hanno colpito quasi tutte le Landesbank. Insomma un Paese, la Germania, che non può certo dare lezioni in materia bancaria e dovrebbe incoraggiare la completa realizzazione dell'Unione bancaria europea ed anche della cessione di sovranità degli Stati nazionali per quanto riguarda la creazione del Tesoro europeo con un suo bilancio, un suo debito sovrano e l'emissione dei bond come tutti gli Stati hanno finora fatto.

Va rilevato tuttavia che su questo punto Renzi non è affatto d'accordo. Sulla garanzia dei depositi da parte dell'unione bancaria europea sì, la rivendica e mette in mora chi avendola già firmata ora si ritira e nega la sua adesione (Germania giovedì scorso a Bruxelles) ma oltre, verso un passo che sarebbe determinante per l'Europa federata, Renzi non va; un Tesoro unico europeo declassa i governi nazionali e il nostro premier questo non lo vuole affatto. Così come non vuole proporre una cessione di sovranità della Difesa e della politica estera europea, che farebbero dell'Ue una protagonista di quanto è ora monopolio esclusivo degli Usa e della Russia.

Mi sono permesso di incoraggiarlo più volte da queste colonne a farsi paladino dell'Europa federata attraverso questi passi fondamentali: Difesa, Politica estera, Tesoro, ministri europei con le relative cessioni di sovranità; ma Renzi ha nel cuore la sua "premiership" fortemente sovrana e non vuole in alcun modo che avvenga un declassamento degli Stati nazionali.

Comunque il passettino in favore del fondo di garanzia europeo per i depositi è stato utile. Qualcosa di positivo ogni tanto si vede.

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20 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/20/news/perche_renzi_e_il_primo_attore_contro_la_germania-129839461/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo invece non c'è
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 29, 2015, 12:27:45 pm
Il Mezzogiorno è povero ma c'è. Il governo invece non c'è

Di EUGENIO SCALFARI
27 dicembre 2015

CI SONO molti problemi in ballo in Italia, in Europa e nel mondo intero. In particolare nel Mezzogiorno, nelle sue costiere e nelle sue isole. Ne abbiamo già parlato molte volte, ma da tempo è caduta su quel tema una coltre di silenzio, forse perché era stato in prima fila da quando il Regno d'Italia nacque nel 1861 e portò insieme ai fausti eventi che sempre accompagnano l'unità di una Nazione, anche un evento funesto che prese il nome di questione meridionale e causò addirittura una guerra che insanguinò tutte le regioni meridionali. Fu detta guerra del brigantaggio e coinvolse l'Abruzzo, le Puglie, la Campania, la Basilicata, la Sicilia, la Sardegna: mezza Italia, dove le truppe italiane furono dislocate e dovettero fronteggiare non solo bande di briganti dedite al saccheggio, alla rapina, al sequestro di persona, agli omicidi contro i traditori ed anche contro i pochi che predicavano pace e misericordia. Ma anche i politici locali che stavano con un piede nella politica locale e nazionale e con l'altro negli interessi dei rivoltosi che non erano soltanto briganti ma anche borbonici, clericali e assai più spesso capi-bastone che guidavano clientele di latifondisti ed avevano il potere del potere locale.

Gaetano Salvemini, anni dopo quando la guerra vera e propria era terminata ma gli eminenti locali e le organizzazioni mafiose erano in pieno rigoglio, li chiamò "ascari di Giolitti" che era allora il capo della politica italiana. In parte sbagliò ed in parte aveva ragione, Salvemini. Erano più di ascari, in gran parte delle campagne erano i capi delle clientele pronti a votare per il leader nazionale. Purché gli avesse lasciato campo libero per il loro potere locale. Questo ricatto ebbe luogo fino al 1910 quando questi capi appoggiarono le pretese dell'Italia verso la sua prima colonia mediterranea in Libia. Poi il ricatto diminuì o addirittura scomparve perché Giolitti aveva trovato l'appoggio dei cattolici di Gentiloni e la simpatia dei socialisti riformisti di Turati, di Anna Kulišëva, di Treves e di Bissolati. Ma il dibattito sulla questione meridionale continuò, anzi prese un tono molto più ampio di studi, di cultura, di misure economiche e sociali portate avanti da Giustino Fortunato, Sacchetti, Spaventa, Croce e molti altri a cominciare da Giovanni Amendola, Matilde Serao, Adolfo Omodeo, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Di Vittorio, Pasquale Saraceno, Francesco Compagna e Danilo Dolci. Ma negli ultimi trent'anni - con rare eccezioni - è calato il silenzio. Al suo posto è nata la questione settentrionale la quale al suo primo sorgere fu giudicata dal ceto colto italiano come un'uscita politica demagogica, priva di qualunque significato. Invece non era così, anche se fu presto determinata dall'uso politico che ne fu fatto dalla Lega di Bossi ma divenne anche uno strumento nelle mani di Berlusconi che era nato alla politica con idee molto prossime a quelle leghiste.

La questione settentrionale, quella seria, ha colto la povertà strutturale di alcune regioni padane tra le quali predominava allora il Veneto. Ma colse anche quel fenomeno - molto positivo da un lato e molto negativo dall'altro - che fu la piccola e piccolissima industria che ebbe grande espansione dagli anni Settanta e si impiantò in un gruppo di regioni estremamente importanti nella geopolitica italiana (il Veneto, la Lombardia centrosettentrionale fino alla foce del Po) e compose quella specie di triangolo industriale che fu il nord da Treviso al sud di Ferrara sconfinando poi con Ancona e Pescara. Una cometa la cui stella era allora il triangolo industriale Torino Genova Milano e la coda si allargava da Treviso fino ad Urbino e Pesaro, saldati poi nel bene e nel male con la Puglia di Foggia ed infine, attraverso il Salento, col profondo Sud.

La questione settentrionale è costituita dal fiorire della piccola e piccolissima impresa, quella che nasce dall'espansione delle grandi imprese del nord, la Fiat, la Montecatini, l'Ansaldo, i Falck, l'elettricità della Edison, i cantieri e la chimica di Marghera.

La grande impresa generò, insieme ad un grande sistema bancario, un importante "indotto" che creò le piccole e le piccolissime imprese dai 15 ai 5 operai, esentato proprio per le sue dimensioni dall'articolo 18 dello statuto sindacale, e incoraggiato continuamente ad accrescere fino a 30 o 40 dipendenti, che quasi mai però avviò questo percorso.

In tempi duri di congiuntura negativa e di crisi, è stata la piccola impresa al centro di una crisi congiunturale e strutturale fatta propria, come non è accaduto in altre parti del Paese, dalla politica che l'ha trasformata in una vera questione nazionale. Le due questioni contrapposte denunciano l'esistenza da secoli di un Paese duale. Duale in tutto, nella sua storia, la sua economia, la sua cultura, la sua politica e perfino la sua etnia. Non è il solo in Europa e nel mondo, ma è stato quello che più ne ha risentito.

***
Ho letto sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso un articolo di Ernesto Galli della Loggia intitolato "Il Mezzogiorno datato". Cito una frase di quell'articolo che traccia un crudele ma importante racconto: "Mi chiedo se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell'Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese, se ha mai visto il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo, se ha mai dato un'occhiata all'ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O magari per avere un esempio, ha provato a farsi fare una tac in un ospedale calabrese. L'addio al Mezzogiorno, prima che culturale è stato ideologico e politico". La citazione è lunga ma assai pertinente. Della Loggia lavorò un tempo anche su questo giornale ma i problemi del Paese per fortuna continua a vederli nella giusta luce e ad affrontarli con la "verve" che è propria del suo giornalismo.

Forse ricorderà che nel 1963 l'Espresso effettuò un'inchiesta in varie puntate, affidata ai nostri più egregi redattori e collaboratori, con un titolo portante che diceva: "L'Africa in casa". Fu molto seguita a quell'epoca (oltre mezzo secolo fa). Descriveva la miseria del cibo, la presenza in tutte le case di topi, pidocchi e scarafaggi, le morti molto numerose di neonati e di bambini e infine la fame, diffusa fino agli ultimi giorni dell'esistenza.
Fece molto chiasso quell'inchiesta e determinò anche qualche svolta politica, i cui prodotti furono non a caso chiamate cattedrali nel deserto e recarono semmai qualche beneficio all'economia del Nord: profitti alle banche e alle imprese, depositi bancari che affluivano agli istituti settentrionali, anche se il benessere del Sud non si spostò e le sue classi non si integrarono. Le cattedrali le costruiva lo Stato e quindi i fedeli (lavoratori) non avevano alcun dono ma i benefici del buon Dio andavano semmai riservati al Nord e/o alle già robuste organizzazioni mafiose. Se paragoniamo il reddito del Sud di oggi a quello di allora esso è certamente molto aumentato; ma se lo confrontiamo con quello del Nord il dislivello è enormemente aumentato. La questione meridionale non ha dunque fatto un solo passo avanti in tema di dualismo, cioè di diseguaglianza non solo tra i ceti ma tra le regioni.

Gli ascari e gli emiri ci sono sempre, anzi sono cresciuti di numero; le organizzazioni mafiose hanno ancora al Sud il comando strategico, ma il grosso degli affiliati e dei loro comandanti in loco ormai si sono spostati a Torino, a Milano, in Emilia, in Veneto, ad Amburgo e a Marsiglia, e nel frattempo hanno intrecciato contatti di solidarietà con le mafie della Bolivia, degli Usa, del Kosovo, del Montenegro e infine della Turchia, della Russia e del Giappone. Questa esportazione è dunque ormai mondiale, il Mezzogiorno italiano ne è una delle centrali principali. L'Italia in cento anni ha guadagnato in termini di profitto e di benessere ma il Mezzogiorno ha perduto in denaro e in prestigio. È una terra nella quale vegetano milioni di persone perbene ma sono come anime morte: il potere ce l'hanno i truffatori e i capi delle clientele.

***
La deputata del Pd, Stefania Covello, incaricata di occuparsi del settore Sud per conto del partito, sull'Unità del 22 scorso ha risposto all'articolo del della Loggia, mettendo un titolo alquanto strano: "Il governo e il sud che c'è". Singolare. Sarebbe stato molto più pertinente titolarlo così: "Il governo che c'è e il Sud che non c'è". Per il Mezzogiorno qualcosa sarà fatto, ma il renzismo governa da tre anni e finora non si era neppure accorto di quell'Italia che comincia a Frosinone e continua a Pescara, a Taranto, a Cassino, a Gaeta, a Lampedusa, ad Agrigento, a Trapani, a Reggio Calabria, a Cagliari, a Sassari, all'Asinara e a Porto Empedocle.
Adesso finalmente hanno capito che c'è, anzi finora l'Italia è stata soltanto quella che precede Bologna. Governeranno fino al 2028, dunque un piano lo faranno e gli daranno anche inizio. Direi quindi che gli anni disponibili alla realizzazione degli obiettivi saranno quindici. Di solito però i loro annunci tardano tre anni prima di attuarsi, anche perché adesso sono in tutt'altre faccende affaccendati. È lecito dunque aspettarsi che l'annuncio inizierà la sua esecuzione nell'anno 2017. Undici anni per attuarlo, sperando che non sia ripetuto quanto avvenne tra Salerno e Reggio Calabria, progettata trent'anni fa e ancora in corso d'esser completata. Per risolvere la questione meridionale non ce la fece la destra di Ricasoli
né la sinistra di Depretis, né Giolitti, né Mussolini, né Craxi. Di Berlusconi non ne parliamo. Ce la faranno Covello e Delrio? Speriamo. Renzi comunque ha ben altro di cui occuparsi. Lasciamolo tranquillo e forse avremo meno guai.
 
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27 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/12/27/news/il_mezzogiorno_e_povero_ma_c_e_il_governo_invece_non_c_e_-130210947/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Misericordia: l'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 30, 2015, 06:13:28 pm
Misericordia: l'arma di Papa Francesco per la pace nel mondo
Le conclusioni del Sinodo e il Giubileo indicano che cosa il pontefice mette al centro della cristianità. È una vera rivoluzione per realizzare l'incontro con la modernità

Di EUGENIO SCALFARI
24 dicembre 2015
   
IL SINODO si è chiuso in questi giorni e contemporaneamente si sono aperte le porte delle cattedrali e delle chiese di tutto il mondo cattolico per il Giubileo della Misericordia. Questa parola, misericordia, è stata messa da papa Francesco al centro della vita cristiana. Lo è sempre stata, ma non con questa centralità. Cito le frasi usate in proposito da Francesco perché sono molto significative e, leggendole con la dovuta attenzione, ci fanno comprendere con esattezza il senso del suo pontificato.

"Gesù è la Misericordia fatta carne, cioè rende visibile ai nostri occhi il grande mistero dell'Amore trinitario di Dio. Gesù Cristo è il Dio misericordioso. Anche la necessaria opera di rinnovamento delle istituzioni e delle strutture della Chiesa è un mezzo che deve condurci a fare l'esperienza viva e vivificante della misericordia di Dio. Se dovessimo anche per un solo istante dimenticare la misericordia ogni nostro sforzo sarebbe vano perché diventeremmo schiavi delle nostre istituzioni e delle nostre strutture, per quanto rinnovate possano essere. Saremo sempre schiavi".

Il 10 dicembre scorso ebbi dal Papa un'inattesa telefonata. Era tornato il giorno prima dal suo viaggio in Africa dove aveva aperto la prima porta del Giubileo. La telefonata cominciò con queste sue parole: "Pronto, sono un rivoluzionario". Poi mi raccontò la sua esperienza nelle regioni africane che aveva appena visto e dei milioni di fedeli che l'avevano accolto, ma quella parola l'aveva presa da un mio articolo in cui lo designavo così e lui ci si era riconosciuto.

Rivoluzionario va ben oltre la parola riformista e lui lo è e lo spiega quando, nella frase sopra citata, disse che Cristo è il Dio dell'amore e della misericordia e più oltre che se ci scordiamo per un solo istante della misericordia diventeremo schiavi delle istituzioni quand'anche fossero state riformate e rinnovate. Questo insegnamento non è soltanto religioso, è anche culturale e perfino politico. Non a caso sono molte le persone, non solo nella nostra Italia ma in Europa e in tutto l'Occidente, che giudicano Francesco anche come uno spirito profetico che incide sulla politica, quella alta che si fonda sullo spirito civico e il bene di una Comunità. I tempi sono tempestosi, chiedono anzi reclamano l'amore verso il prossimo più che verso se stessi, respingono l'indifferenza, sanzionano l'egoismo che ci rende schiavi di noi stessi, del potere, del fondamentalismo e del terrorismo che può derivarne.

La misericordia, da questo punto di vista, è rivoluzionaria, è il perdono, è la carità, è l'amore. Si dovrebbe vivere dell'esperienza del passato, della speranza del futuro e si dovrebbe utilizzare il presente ed ogni suo attimo come momento per mettere in opera la misericordia. È un discorso che vale per tutti, credenti e non credenti. Viviamo una realtà d'un epoca assai critica. Se dovessi dire in che cosa si distingue dalle altre direi che abbiamo abolito i tempi verbali che descrivevano la nostra vita: ignoriamo e vogliamo ignorare il passato e non siamo in grado di progettare il futuro; il presente lo usiamo per distruggere l'esistente, rottamarlo senza attingere al deposito d'esperienza né alla progettazione del futuro.

Sono sentimenti che stanno prevalendo in Occidente che fu invece, fino ad una trentina d'anni fa, la culla dello storicismo e della progettazione del futuro, fosse liberale o marxista. Si dirà che si tratta di ideologie dando a questa parola un senso negativo che invece non ha: l'ideologia è una semplificazione culturale d'un valore o ideale che si voglia diffondere. Tutto è ideologia, perfino una religione, con la differenza che l'ideologia religiosa pone al vertice una Divinità trascendente mentre un'ideologia laica non pensa ad una trascendenza ma semmai all'immanenza che si esprime col motto di Spinoza "Deus, sive Natura".

Papa Francesco ha la fede e predica la trascendenza, ma la sua rivoluzione misericordiosa vale - ed anche lui lo pensa e lo dice - anche per i non credenti se fanno propria la misericordia. L'amore per se stessi è legittimo purché consideri ed applichi l'amore per gli altri e tanto più intenso è questo tanto più farà bene anche a quello. Un vescovo di Roma che arriva a questa forma di predicazione rivoluzionaria e incide sulle strutture della Chiesa, sulla cultura, sulle coscienze che cercano e vogliono il bene comune e incide, per conseguenza, anche sulla politica, è un evento rarissimo. La Chiesa ha avuto la fortuna di quattro Pontefici che si sono incamminati - pur con le differenze che hanno distinto l'uno dall'altro - sulla medesima strada: Giovanni XXIII che diede inizio al Concilio Vaticano II, Paolo VI che lo portò a termine e poi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che cercarono di attuarne le prescrizioni.

Purtroppo questa loro azione non dette molti frutti e il motivo è chiaro: gran parte della Curia fece barriera contro le conclusioni del Concilio, in particolare contro la più importante che incoraggiava la Chiesa a confrontarsi con la modernità, a comprenderla e ad ammodernare la Chiesa stessa. La lotta fu assai aspra e fu quella che costrinse Ratzinger a dimettersi: aveva ingaggiato quella battaglia ma era troppo debole fisicamente e psicologicamente per affrontarla. Francesco è proprio questo che vuole: applicare le prescrizioni del Vaticano II e realizzare l'incontro con la modernità. Questa è la sua rivoluzione: fare dell'Occidente secolarizzato il punto di confronto con la Chiesa della Misericordia. Il che comporta una rivoluzione dentro la Chiesa e proprio adesso, con la fine del Sinodo e l'inizio del Giubileo, ha raggiunto il punto massimo di tensione. Qui ci si gioca tutto e Francesco lo sa. Anche noi lo sappiamo. Vogliamo la stessa cosa, combattiamo per la stessa rivoluzione, anche se camminiamo su due strade parallele. Aldo Moro che la sapeva lunga in politica e anche in religione, aveva coniato il motto delle "convergenze parallele". Parlava di politica ma in certi casi riguarda tutto ciò che ha attinenza con la vita e quindi con l'azione, con il pensiero e con l'autocoscienza libera e consapevole.

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Una delle differenze tra le persone, le culture, le civiltà, è il modo diverso di pensare. I cloni possono essere studiati nei laboratori ma per fortuna non esistono in natura. Noi siamo tutti diversi gli uni dagli altri e siamo altresì pieni di contraddizioni nell'interno di noi stessi. Se differenze e contraddizioni oltrepassano un certo limite, si scivola nella guerra con tutto ciò che ne segue. Ma poiché la diversità è insopprimibile bisogna "inculturare" le differenze.

Questa parola, "inculturare", l'ha usata papa Francesco quando ha rilevato le notevoli differenze tra i vescovi del Sinodo, dovute non soltanto ai diversi modi di pensare ma anche alle profonde diversità dei luoghi dove sono nati e dove svolgono la loro azione pastorale. Nel messaggio letto alla chiusura del Sinodo ai vescovi di tutto il mondo lì convenuti, Francesco ha detto: "Al di là delle questioni dogmatiche, abbiamo visto che quanto sembra normale ad un vescovo d'un continente può risultare strano e quasi scandaloso per il vescovo d'un altro continente. In realtà le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale definito dalla Chiesa ha bisogno di essere inculturato se vuole essere osservato e applicato. Si tratta insomma del radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane. L'inculturazione non indebolisce i valori perché essi si adattano senza scomparire, anzi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture". Qui è Francesco il gesuita che utilizza il metodo insegnato dal fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola: conoscere gli altri e costruire con loro un sistema per poter predicare e rafforzare la loro vocazione verso il Bene.

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Ma c'è un altro aspetto specificatamente politico oltre che profondamente religioso, che Francesco porta avanti in nome del Dio unico che ispira profondamente il suo pensiero ed è l'affratellamento di tutte le religioni a cominciare dalle tre monoteistiche (ma non soltanto). Francesco affrontò questo tema nella riunione con gli esponenti delle tre religioni, l'ebraica, la musulmana e la cristiana, il 29 ottobre scorso ed elencò vari punti già indicati dal Vaticano II a proposito di quel tema: "La crescente interdipendenza tra i popoli. La ricerca continua di un senso della vita, della sofferenza umana, della morte. La comune origine e il comune destino dell'umanità. L'unicità della famiglia umana. Le religioni come ricerca di Dio all'interno delle vari etnie e culture. La Chiesa è aperta al dialogo con tutti e giudica con stima i credenti di tutte le religioni apprezzando il loro impegno culturale e morale. Possiamo camminare insieme prendendoci cura gli uni degli altri e del creato; insieme possiamo lodare il Creatore per averci dato il giardino del mondo da coltivare e custodire come un bene comune. Dio desidera e vuole che tutti gli uomini si riconoscano fratelli e vivano come tali formando la grande famiglia umana nell'armonia delle diversità".

Sono dichiarazioni e indicazioni che vedono il male nel fondamentalismo ed il bene nel procedere come fratelli, non credenti compresi, come Francesco ci tiene spesso a ricordarci. La lotta contro il terrorismo si può fare in tanti modi, con le armi, con il coraggio, con la preghiera. Ma l'approccio del Papa a camminare insieme come fratelli è quello che può avere più ampia rispondenza e più duraturi effetti politici.

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Desidero concludere queste osservazioni sull'obiettivo di Francesco da applicare in nome della misericordia le conclusioni del Vaticano II che vuole e deve incontrarsi con la modernità, segnalando un'opera affascinante, condotta da una grande esperta di storia dell'arte, Chiara Frugoni, con un libro intitolato Quale Francesco? edito dalla Einaudi. La ricerca è effettuata sugli affreschi di Giotto nella chiesa di Assisi, dove si racconta quale sia la figura del santo. Una è quella del fraticello povero e umile tra confratelli altrettanto poveri ed umili; l'altra è d'un Francesco curiale, tra Pontefici, Cardinali e Cavalieri.

Due personaggi, un solo nome. Così è anche oggi: quale Francesco? Le figure giottesche sono magnifiche in entrambe le versioni, con profonde diversità tra loro. La storia del santo di Assisi però ci tramanda un personaggio unico che, dopo essersi pentito d'una giovinezza alquanto agitata e peccatrice, non cambia più: i poveri, la povertà, la debolezza, l'esclusione, sono i requisiti per passare da primi la porta del paradiso, ma anche la fratellanza. Non a caso Francesco aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra non cristiani, senza liti e senza dispute, ritenendosi fratelli d'ogni creatura di Dio, quale che fosse il suo credo religioso a cominciare dai musulmani. La fratellanza, la misericordia. Del resto basta leggere il Cantico delle creature . Non è col suo primo verso che papa Francesco ha intitolato la sua prima enciclica?

Buon Natale e buon anno. E che la fratellanza e l'amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto.

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24 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2015/12/24/news/l_arma_di_francesco_per_la_pace_nel_mondo-130083879/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI Il plebiscito senza quorum nel paese dove regna Don Chisciotte
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2016, 06:10:26 pm
Il plebiscito senza quorum nel paese dove regna Don Chisciotte
La mossa di Renzi di chiedere un referendum sulla sua riforma costituzionale potrebbe peggiorare la situazione. Una consultazione di tale importanza, che può essere valida senza un'affluenza minima di votanti, è molto pericolosa per la democrazia

Di EUGENIO SCALFARI
03 gennaio 2016

Il nuovo anno è cominciato politicamente con il messaggio agli italiani del presidente Mattarella trasmesso su tutte le reti televisive alle 20.30 del 31 dicembre scorso. Era il primo messaggio del nuovo Presidente ed è stato eccellente nella sostanza e nella forma. Non si è occupato di politica (così ha detto lui) che spetta al Parlamento e ai partiti rappresentanti del popolo sovrano; si è occupato delle regole costituzionali e soprattutto dei problemi che condizionano la vita degli italiani e qui è apparsa la sostanza di quel messaggio che sinteticamente riassumiamo. Ha detto: "Senza un Mezzogiorno risanato economicamente e socialmente l'Italia non esiste; senza un tasso d'occupazione nettamente maggiore di quello attuale l'Italia non esiste; senza il rispetto della condizione femminile l'Italia non esiste; senza un recupero sostanziale dell'evasione fiscale e la corruzione che l'accompagna e la determina l'Italia non esiste; e infine l'Italia non esiste senza che i giovani abbiano speranza nel futuro e adeguata educazione nel presente".

Non si potevano indicare con maggiore efficacia i problemi del Paese ai quali ha aggiunto quello dell'immigrazione, l'importanza di rafforzare l'Europa e la presenza italiana nelle istituzioni internazionali. Ha ricordato l'importanza della predicazione di papa Francesco che - ha detto - rappresenta il pilastro fondamentale della morale e della fraternità degli individui, delle comunità e dei popoli. Ha anche fornito cifre significative, la principale delle quali è stata quella dell'evasione fiscale che ammonta a 122 miliardi di euro. Basterebbe secondo lui recuperarne in breve tempo almeno la metà per ripianare la finanza dello Stato con essenziali ripercussioni sulle intollerabili diseguaglianze, sugli investimenti, sui consumi e sulla creazione di nuovi posti di lavoro.

Anche altri suoi predecessori inviarono analoghi messaggi a cominciare da quelli di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano e prima ancora di Sandro Pertini, ma questo di Mattarella è particolarmente utile perché fa chiarezza in una fase di tempi estremamente cupi, di guerra e d'un terrorismo che non si era mai visto di tale ampiezza da sconvolgere il mondo intero. Un messaggio tanto più necessario per accendere una luce di speranza e di fiducia.
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Ma gli italiani come la pensano? Quali sono i loro timori e le loro speranze? Qual è il loro giudizio sulle istituzioni e sulle persone che le rappresentano? Un sondaggio di Ilvo Diamanti fornisce cifre estremamente significative. Ne ricordo qui alcune che bene inquadrano i sentimenti popolari che sono un elemento essenziale di una democrazia. Anzitutto i partiti e la democrazia: il 45 per cento degli interpellati pensa che senza i partiti la democrazia muore, ma il 48 per cento pensa esattamente il contrario. Ecco un giudizio che spiega l'ampia astensione e la crescente indifferenza dei cittadini verso la politica. Quanto alle istituzioni e alle persone che le rappresentano la classifica del 2015 è la seguente: al primo posto c'è papa Francesco con l'85 per cento dei voti; seguono le Forze dell'Ordine con il 68, la Scuola con il 56, il presidente della Repubblica col 49, la Magistratura con il 31, l'Unione europea col 30, lo Stato col 22, il Parlamento col 10, i partiti con il 5. Infine, richiesti se il 2016 sarà migliore o peggiore dell'anno appena concluso, il 41 per cento pensa che sarà migliore, il 42 che sarà eguale e il 15 per cento che sarà peggiore. C'è quindi un certo aumento della fiducia nel futuro, è ancora fragile questa fiducia ma c'è e questo è indubbiamente un dato positivo.
RAPPORTO DEMOS - LE TABELLE
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Ci sarebbero ora molti altri argomenti da trattare: le banche, i risparmiatori, la riforma della Rai che contro il parere di ben tre sentenze della Corte costituzionale che affidano al Parlamento la responsabilità di guidare la politica radiotelevisiva, di fatto la mette invece nelle mani del governo; il contrasto tra Italia e Germania, le multinazionali che imboscano i loro profitti nei paradisi fiscali, le immigrazioni. Ed il referendum confermativo.
Su quest'ultimo tema i pareri degli esperti politologi sono alquanto diversi. Angelo Panebianco sostiene che in democrazia prevale la ricerca del meno peggio, cioè il compromesso che però è particolarmente difficile in una situazione politica tripolare se non addirittura quadripolare come è attualmente quella italiana. È proprio questo che spinge Renzi a trasformare il referendum confermativo in una sorta di plebiscito: se la maggioranza dei votanti voterà per lui tutto procederà verso il meglio, ma se sarà sconfitto non resterà al governo neppure un minuto di più. Secondo lui, in mancanza di valide alternative di Palazzo Chigi, sarà lui a vincere e allora potrà tranquillamente governare come ha già dato prova di poter fare con qualche successo all'insegna del cambiamento, parola fatata, unita all'altra altrettanto fascinosa della rottamazione.

Diverso il parere e le previsioni di Piero Ignazi. Secondo lui nei referendum confermativi chi detiene il potere ha sempre perduto, hanno vinto i no perché la gente comune che va a votare per il sì o per il no senza alcun vincolo di partito esprime sempre un voto negativo esprimendo in questo modo la sua antipatia per le caste, quali che siano gli interessi generali del Paese. Quindi, stando alle previsioni di Ignazi suffragate da tutte le precedenti esperienze a cominciare da quella sul divorzio e l'altra sul finanziamento pubblico dei partiti, potrebbe vincere il no. Sarebbe un no che esprime antipatia viscerale contro lo Stato, contro le istituzioni politiche, insomma contro il potere anche se talvolta (ma molto di rado) il potere non mira a rafforzare se stesso ma interpreta (una tantum) l'interesse dei cittadini. Perciò Renzi  -  secondo Ignazi  -  è molto a rischio e la trasformazione da lui tentata dal referendum in un plebiscito sulla sua persona non basta, anzi può perfino peggiorare la sua situazione.

Sia Angelo Panebianco sia Piero Ignazi (l'uno sul Corriere della Sera, l'altro su Repubblica di ieri) non considerano tuttavia un dato di fatto estremamente importante: i referendum confermativi non prevedono alcun "quorum" di votanti. Al limite, se andassero a votare soltanto tre elettori e il risultato fosse determinato da due di loro che votano allo stesso modo, il risultato sarebbe tecnicamente valido. Ovviamente non è mai così, ma non c'è dubbio che da tempo l'affluenza alle urne è drasticamente diminuita, sia nelle elezioni politiche e sia in quelle amministrative. È già da qualche anno che non sono stati indetti i referendum ma l'indifferenza degli elettori è enormemente aumentata, i partiti hanno negli ultimi sondaggi un tasso di adesione che arriva con difficoltà al 5 per cento degli interpellati. La gente comune insomma non esprime più né amore né odio ma semplicemente un totale distacco, salvo alcune frange innamorate del leader di turno o rabbiose contro lui, ma si tratta di una piccola parte del Paese. Il resto rimane a casa o va al mare o in montagna, ma alle urne no. Salvo se sono in gioco amicizie e interessi para-mafiosi.

Supponiamo che su centomila elettori, sessantamila non vadano a votare, il che è assai probabile, e supponiamo che su quarantamila che voteranno, trentamila voteranno in un modo e diecimila in un altro. Questo significa che meno di un terzo del corpo elettorale determina l'andamento politico del Paese, confermando il leader in carica o buttandolo giù dall'arcione. Sembra piuttosto una scena del Don Chisciotte che l'esercizio della democrazia. La conclusione è quella di stabilire un "quorum" per i referendum confermativi che dovrebbe aggirarsi attorno ai due terzi del corpo elettorale. D'altronde, per i referendum abrogativi esiste il quorum del 50 per cento, tanto che molti sono caduti nel vuoto per mancanza di elettori. Il referendum confermativo non dovrebbe fare eccezione. Senza una variazione costituzionale di questo tipo la democrazia è morta; non è importante chi vince o chi perde; senza un "quorum" quale che sia il risultato, la democrazia non c'è più. Che cosa allora bisogna fare?

Secondo me occorre che la Corte costituzionale sia interpellata. Non credo che possa cambiare la Costituzione ma può esprimere il parere che su questo punto sia opportunamente meditato. In quel caso 150 membri del Parlamento o 5 Regioni o cinquecentomila firme di cittadini elettori potrebbero proporre un referendum che chieda un quorum di due terzi degli elettori affinché il referendum confermativo sia valido. Credo che questo sarebbe il solo rimedio disponibile. È comunque incredibile che un referendum o plebiscito che sia possa essere validamente deciso se anche soltanto tre, dico tre, cittadini vadano a votare e tutti gli altri se ne freghino. Un Paese così, carissimo presidente Mattarella e carissimi emeriti Ciampi e Napolitano, cessa di essere democratico e può oscillare soltanto tra la tirannide e l'anarchia. Allora è meglio emigrare o tapparsi in casa e lasciare il Paese in mano ai migranti, alla faccia di Salvini. Sarebbe comunque una soluzione.
 
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03 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/03/news/il_plebiscito_senza_quorum_nel_paese_dove_regna_don_chisciotte-130539249/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Europa è a pezzi e l'Italia è tagliata a fettuccine
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 10, 2016, 04:21:11 pm
L'Europa è a pezzi e l'Italia è tagliata a fettuccine

Di EUGENIO SCALFARI
10 gennaio 2016
   
L'Europa è a pezzi e l'Italia è tagliata a fettuccine
Cominciamo dall'Europa: è completamente a pezzi.

In Germania la Cancelliera Angela Merkel ha compiuto un errore dietro l'altro. Il primo sembrò - e probabilmente lo era - un atto che restituiva all'Europa la sua dignità di presidio della civiltà occidentale: aprì la porta ai rifugiati che fuggivano dalla guerra in Siria, dalla morte, dalla fame, dalla schiavitù. Un milione di immigrati arrivò in terra tedesca trovandovi sostegno e - almeno in parte - anche lavoro. Ma quella pacifica invasione non piacque affatto agli alleati bavaresi della Cdu, il partito della Cancelliera. La destra tedesca si manifestò contro la Merkel anche in Parlamento. Gran parte del ceto medio si schierò contro di lei ad un anno e mezzo dalle prossime elezioni politiche.

Per evitare il peggio la Merkel bloccò - temporaneamente - ogni ulteriore ingresso di immigrati e proclamò che avrebbe espulso tutti quelli che non avessero rispettato le leggi vigenti. Ma, come se tutto ciò non bastasse, ci furono le turpi notti di Colonia e di Amburgo, l'assalto di centinaia di facinorosi alle donne che passeggiavano nel pieno centro della città, a Colonia specialmente tra il duomo e la stazione ferroviaria centrale. Palpeggiamenti lubrichi, borseggio, stupri, con la polizia incapace di fronteggiare un episodio che dir turpe è dir poco. La Merkel in questo momento si trova nel punto più basso della sua popolarità, con ripercussioni inevitabili nei confronti delle Autorità di Bruxelles. Tutto ciò non fa che stimolare l'autonomia dei singoli Paesi membri dell'Ue con le conseguenze che questa situazione comporta.

Nel frattempo altri Paesi, per bilanciare il flusso inevitabile di immigranti, hanno eretto muraglie di cemento e di filo spinato nonché le polizie di frontiera e addirittura l'esercito: la Polonia, l'Ungheria, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Romania, la Slovenia, la Danimarca, la Svezia e perfino la Francia. Il trattato di Schengen che aveva abolito i confini interni tra le Nazioni europee, di fatto non esiste più anche se Bruxelles proclama che è tuttora pienamente valido ma soltanto temporaneamente sospeso. Parole. Allo stato dei fatti non lo è, ma se l'ipotesi della sua piena ripresa non avrà luogo entro i prossimi tre o quattro mesi, l'Europa come Unione non esisterà più proprio nel momento in cui la buona stagione farà riprendere massicciamente i viaggi per mare. L'emigrazione, come più volte ha detto papa Francesco, non si fermerà, perché nella società globale tutto si muove a cominciare da interi popoli. Dalla fame e dalla schiavitù, gli individui, le famiglie e popoli interi vanno verso il benessere. Durerà almeno cinquant'anni questo fenomeno e nessuno potrà fermarlo. Ma il primo effetto non è quello dell'accoglienza, ma del respingimento, sicché la politica si sta spostando: emerge l'indifferenza e nel contempo reggono partiti e movimenti di destra con tutto quel che ne segue.

Immigrazione a parte, la Spagna non è riuscita a formare un governo dopo le elezioni e voterà di nuovo nei prossimi mesi. Portogallo e Irlanda si trovano in pessime acque. La Grecia è in grave difficoltà.

Questo è il panorama. Dire che è pessimo è ancora dir poco. E l'Italia?

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Di fronte al peggio degli altri Paesi sembra a molti che l'Italia sia il meglio. Per certi aspetti è vero, per altri no.

È certamente meglio per quanto riguarda la flessibilità economica perché con un'Europa che è ormai incapace di esistere politicamente e soltanto con una burocrazia abbandonata da ogni lato a se stessa, l'Italia da sola decide ciò che le sembra più opportuno: politica economica keynesiana, mance e mancette a fini elettorali, aumento di potere del premier che marcia ormai con passo veloce e sicuro verso l'istituzione costituzionale di una premiership che è da sempre il suo obiettivo.

L'Italia è uscita da tempo dalla recessione, ma negli ultimi mesi sembra aver imboccato la crescita economica, sia pure a lenti passi e ancora con grande fragilità. Questa crescita tuttavia è in parte figurativa. La diminuzione della disoccupazione e l'aumento dell'occupazione riguardano la prima lavoro precario, la seconda lavoro a tempo indeterminato con un costo di decontribuzione notevole e comunque determinata dall'aumento di consumi e degli investimenti. I consumi qualche ampliamento l'hanno avuto, gli investimenti ancora no.

Tutto ciò avviene comunque in presenza di un debito pubblico che è tra i più alti del mondo e non accenna a diminuire se non nelle previsioni che da due anni ci assicurano del loro avverarsi entro tre mesi. Prevedere è facile ma due anni sono comunque passati e quei tre mesi non li abbiamo visti. I guai per l'Italia non sono solo questi; ci sono le banche, c'è una premiership faccendiera, c'è un Parlamento svuotato d'ogni potere, c'è alle viste un referendum costituzionale che quanto di peggio si possa concepire, c'è l'evasione e la corruzione che il presidente Mattarella ha stigmatizzato nel messaggio di fine anno come un elemento peggiore e largamente diffuso. E poi c'è la Libia, dove abbiamo rivendicato il nostro ruolo di protagonista che ci è stato riconosciuto dall'Europa e dalle Nazioni Unite, ma che almeno finora non siamo stati assolutamente in grado di attuare mentre il Califfato e i suoi uomini, valutati in circa diecimila, assaltano particolarmente la Tunisia, il governo di Tobruk, quello di Tripoli, l'oleodotto di petrolio e di gas e alimentano il traffico degli scafisti. Insomma, si sono ormai militarmente insediati di fronte all'Italia mentre noi continuiamo ad offrire alla diplomazia il nostro ormai risibile protagonismo in politica estera.

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Le banche, specialmente quelle popolari e locali, non sono certo una cosetta da poco. I crediti in sofferenza hanno ormai toccato per l'intero sistema italiano oltre i 300 miliardi e poiché una cifra simile assai difficilmente può essere ceduta ad un'impresa di recuperi, deve essere ripianata con aumenti di capitali, diminuzione di personale, concentrazioni di agenzie e soprattutto acquisto di titoli pubblici. Con quale danaro? Con il Qe della Banca centrale, restringendo l'erogazione di crediti alla clientela. È vero che Draghi vincola almeno una parte della liquidità che fornisce alle banche a prestiti alla clientela, ma quest'ultima è ancora intorpidita e quando non lo è le banche violano l'impegno assunto con la Bce, specie quelle locali e popolari di piccole dimensioni.

Le quattro banche popolari in stato di completo dissesto sono state ispezionate dalla Banca d'Italia, con speciale attenzione alla Banca Etruria che è la principale tra loro. Le ispezioni sono iniziate nel 2013 e sono continuate fino alla fine del 2014. A quel punto la Banca d'Italia ha formulato vere e proprie "incolpazioni" ai dirigenti, la Procura di Arezzo ha aperto un'inchiesta ed ha mobilitato la Guardia di Finanza. L'insieme di questi documenti è stato reso pubblico. Il governo dal canto suo, col provvedimento sulla "Buona Banca", ha costituito quattro nuove banche riunendo il dissesto in una "bad bank" o banca cattiva che dir si voglia, addossandone il peso a coloro che sono incappati in obbligazioni e investimenti quanto mai insicuri.

Dai documenti resi pubblici dalla Banca d'Italia e dalla Guardia di Finanza per quanto riguarda Banca Etruria, le incolpazioni riguardano l'ex presidente Lorenzo Rosi, i due vicepresidenti Alfredo Berni e Pierluigi Boschi, più molti componenti del consiglio d'amministrazione tra i quali il più incolpato dalla Procura è Luciano Nataloni. Tra le società citate in affari scorretti o addirittura colpevoli c'è soprattutto la Castelnuovese guidata da Rosi e altre con intrecci e partecipazioni variamente incrociati tra le quali la Nikita Invest che pare detenga il 41 per cento della Party srl, la cui maggioranza appartiene a Tiziano Renzi, padre del nostro presidente del Consiglio.

Questo è il panorama, in attesa del giudizio della Procura aretina. Speriamo sulla Buona Banca e negli arbitrati di necessario approfondimento affidati a Raffaele Cantone. Per noi, testimoni di quanto accade, non c'è che turarsi il naso.

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Debbo ora parlare di nuovo, come già feci domenica scorsa, del referendum costituzionale, detto correntemente confermativo, che Renzi ha deciso si svolga nel prossimo autunno. L'intera materia è disegnata dalla Costituzione negli articoli 75 e 138. Poiché su questo argomento si sono aperte vivaci polemiche, approfondiamo il tema che sembra a me di massima importanza.

L'articolo 75 dice: "È indetto referendum popolare per decidere l'abrogazione totale o parziale d'una legge, quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta di referendum è approvata se ha partecipato alla sua votazione la maggioranza degli aventi diritto e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi" dunque per il referendum abrogativo ci vuole il quorum del 50,1 per cento degli aventi diritto.

I passi essenziali dell'articolo 138 sono i seguenti: "Le leggi sulla revisione della Costituzione sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi e sono approvati a maggioranza assoluta di ciascuna Camera nella seconda votazione. Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne faranno domanda un quinto dei membri d'una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi. Non si fa luogo a referendum se la legge stessa è stata approvata da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti". Quest'ultima parte del 138 spiega chiaramente il motivo per il quale Renzi ha chiesto il referendum: non avrebbe mai raggiunto al Senato e forse neppure alla Camera la maggioranza dei due terzi, e quindi non c'era che fare ricorso ad un referendum confermativo che a differenza dell'abrogativo non ha alcun quorum da rispettare. Basta che partecipino qualche centinaia di migliaia su un elettorato di circa 40 milioni di cittadini, affinché sia valido. La mia ipotesi di solo tre persone votanti, da me formulata domenica scorsa, è ovviamente un'iperbole, ma se si verificasse, il referendum confermativo avrebbe il suo effetto.

La domanda sulla quale fervono le polemiche è dunque questa: perché la Costituzione non ha previsto un quorum? Per l'abrogazione sì, l'ha previsto, ma per una legge costituzionale che non abbia ottenuto i due terzi da entrambe le Camere no, non c'è quorum.

Dicono i sostenitori di questa procedura costituzionale che, non prevedendo alcun quorum, si dà voce e potere ad una minoranza e questo è un bene per la democrazia.

Detto così il concetto è giusto: si dà un potere ad una minoranza, quindi la democrazia è tutelata. Ma non è affatto così. Senza il quorum il potere si dà, in assenza d'una maggioranza assoluta, ad una maggioranza relativa. Cioè si dà un premio alla maggioranza delle minoranze così come avviene nella legge elettorale con il premio non a chi ha il 50 più 1 dei voti ma a chi ha il 40. Si premia una minoranza? No, si premia la maggioranza relativa e la si rende schiacciante visto che non poteva avere i due terzi del Parlamento.

Quindi il referendum confermativo dev'essere osteggiato da un contro referendum propositivo che chieda un quorum. Oppure la maggioranza senza quorum può dire no bocciando il confermativo.

Personalmente non credo che avverrà. Crescerà l'astensione, questo è probabile, ed avremo un Paese guidato da una premiership di minoranza. Coi tempi bui nei quali viviamo può essere una soluzione, ma non certo democratica e tanto meno di sinistra. Andranno a votare gli elettori abbienti e le clientele dei vari emirati. Anche su questi ci vorrebbe una vigilanza.
Se vorrà assumerla la spettanza è di Sergio Mattarella che dovrà fischiare un fallo quando lo vede. Forse sarebbe bene che usasse una moviola, cioè la libera stampa quando documenta un qualcosa che metta in gioco i principi della Costituzione democratica e repubblicana.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/10/news/l_europa_e_a_pezzi_e_l_italia_e_tagliata_a_fettuccine-130935379/?ref=HRER2-1
   


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una ventata nazionalista nel conflitto tra l'Italia e l'Europa
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2016, 05:20:11 pm
Una ventata nazionalista nel conflitto tra l'Italia e l'Europa

Di EUGENIO SCALFARI
17 gennaio 2016
   
Il tema dominante della settimana appena trascorsa è il contrasto tra il governo italiano e la Commissione europea che governa il nostro continente sotto lo sguardo vigile dei 28 Paesi che compongono l'Europa confederata. Il contrasto di cui parliamo avviene spesso tra un singolo Paese e l'Ue quando qualcuno di essi vìola le regole, ma qui il caso è diverso perché sono due politiche che si contrappongono sull'economia, sull'equità sociale, sull'immigrazione, sulla flessibilità, insomma su tutto. Renzi e Juncker hanno addirittura valicato il linguaggio diplomatico e allusivo che si usa in questi casi adottando frasi dirette e crude. "Siamo stati insultati da un governo che abbiamo sempre favorito. Dunque è l'ora di fare i conti": questo ha detto infuriato Juncker, che verrà a Roma a fine febbraio. "Non siamo di quelli che vanno a Bruxelles con il cappello in mano a impetrare favori e non ci faremo dettare ciò che dobbiamo fare per il bene del nostro Paese": ha detto Renzi.

Le ragioni del contrasto, che ormai è un vero e proprio conflitto, sono come abbiamo già detto numerose ma non è chiara la ragione della sua vera e propria esplosione. Qualcosa di altrettanto esplosivo era avvenuto tra Bruxelles e la Polonia, affiancata dall'Ungheria e da altri Paesi del nordest europeo, ma in quel caso il tema era uno soltanto: l'immigrazione. Tema enorme, che durerà a dir poco per cinquant'anni e forse più e richiede inevitabilmente una gestione europea poiché riguarda il continente intero.

Se l'Europa non riuscirà a gestirlo unitariamente, il patto di Schengen che ha abolito i confini intraeuropei salterà e l'Ue cesserà di esistere. Il conflitto Italia-Bruxelles non è tale da mettere in discussione l'Europa confederata. Impedisce però che progredisca dalla Confederazione alla Federazione. Renzi non vuole la Federazione, non vuole che i governi nazionali siano declassati, non vuole gli Stati Uniti d'Europa. E questa è la natura profonda del conflitto in corso a Bruxelles. Il governatore d'uno qualunque degli Stati americani non potrebbe dire la frase: "Non andrò a Washington con il cappello in mano", per la semplice ragione che quel cappello, che sia in mano o in testa, non esiste. Il governo degli Stati Uniti d'America sta a Washington e non altrove e il suo interlocutore politico è il Congresso, composto da una Camera di rappresentanti e da un Senato. I governi dei cinquanta Stati americani governano i loro territori come in Italia i presidenti regionali governano le Regioni e i sindaci i Comuni. La bandiera americana è unica, unico è l'Esercito, unica l'Aviazione e unica la Marina. Qui in Europa ogni Stato ha la sua bandiera, le sue Forze armate, le sue capitali, la sua lingua. Di comune c'è soltanto la moneta, l'euro, che però non è condivisa da tutti i 28 Stati dell'Ue ma solo da 19 e non c'è un ministro del Tesoro europeo che sia l'interlocutore della Banca centrale.

Perciò lo ripeto: se a causa dell'immigrazione saranno ripristinati i confini tra gli Stati membri dell'Ue, l'Ue cesserà di esistere; se i singoli Stati rivendicheranno la loro autonomia e la rafforzeranno mettendosi in contrasto con Bruxelles su questioni molto importanti, non si farà alcun passo verso gli Stati Uniti d'Europa ed anzi questa prospettiva salterà per sempre.  Sembrerebbe che Renzi sia il più verace cultore di questa politica. Ma perché?

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Ci sono ragioni specifiche ma il problema non è quello. Il nostro presidente del Consiglio, il cui interesse sarebbe quello di rivendicare l'autonomia del nostro governo ma di farlo sottovoce e nei modi appropriati, ha adottato il tono quasi del comizio elettorale. E infatti è questa la vera ragione: colpire con una ventata di nazionalismo l'opinione pubblica italiana.

Le ragioni di questa ventata sono evidenti: l'Italia, come praticamente tutta l'Europa, registra una crescente indifferenza o addirittura disprezzo della politica; il partito degli astenuti, che rappresenta il 40 per cento, continua a crescere e tra i partiti che andranno a votare alcuni sono programmaticamente contrari all'Europa e all'euro: i 5Stelle, la Lega, i Fratelli d'Italia. Stando ai sondaggi la somma di questi tre partiti arriva al 45 per cento dei votanti (27 per cento del corpo elettorale). La somma tra chi non vota e chi, votando, denuncia l'Europa e la moneta unica, arriva quindi al 67 per cento del corpo elettorale. Chi vota entro il quadro dell'Ue e dell'euro non rappresenta più del 33 per cento del corpo elettorale. Questa è la situazione italiana ma lo stesso fenomeno di astensione e di voti contro l'Ue è presente in molti altri Paesi europei anche se le percentuali sono diverse, alcune addirittura maggiori delle nostre, altre minori. Esistono e tendono a crescere in Polonia, Ungheria, Romania, Slovacchia, Bulgaria, Macedonia, Grecia, Spagna, Francia, Olanda, Gran Bretagna, Germania, Lituania, Estonia, Lettonia. Insomma ovunque.

Questa essendo la situazione europea e italiana, che cosa ha pensato Renzi? Il suo partito, il Pd e il governo da lui presieduto sono in linea di principio europeisti, come europeisti sono i partiti di centrodestra e tali intendono rimanere, ma la ventata di nazionalismo è comunque una novità, un cambiamento per usare una parola che a Renzi piace molto. Sembra una parola vecchia il nazionalismo, non si usa più dai tempi di Mussolini e dell'Msi del dopoguerra. Renzi l'ha rispolverata con l'obiettivo di scuotere gli indifferenti e di togliere voti ai partiti e movimenti che voteranno contro l'Ue e contro l'euro. Ci riuscirà? Lui pensa di sì, anch'io penso di sì o almeno riuscirà a non perder voti su quel terreno. Altri pensano invece il contrario: perderà i voti di quanti sono decisamente contrari al nazionalismo. Nel Pd ce ne sono molti, direi la maggioranza. Ma non credo che avvertirebbero quella ventata. Guarderanno semmai al merito economico del conflitto Italia-Europa e quel merito lo condivideranno perché è uno strumento in favore d'una politica economica di crescita, di post-keynesismo, di flessibilità tale da favorire sia gli imprenditori sia i lavoratori.

La ventata di nazionalismo va bene per i comizi, ma non toglie voti al Pd e forse gliene procura qualcun altro dal populismo anti-europeo. Esiste il rischio che il populismo inquini anche il Pd? Questo sì, quel rischio esiste, anzi se vogliamo dire tutta la verità quel rischio si è già in parte verificato, la Leopolda renziana è pieno populismo. Quando si dice che il Pd renziano è più un partito di centro che di sinistra, non si dice tutto, il partito democratico renziano è certamente di centro ma è anche populista perché Renzi ha l'intonazione populista. Non è un insulto ma una constatazione.

***

Questo fenomeno renziano-leopoldista lo vedremo dalla fine di gennaio all'opera fino ad ottobre, la data in cui dovrebbe svolgersi il referendum costituzionale-confermativo sulla legge che modifica la Costituzione a cominciare dall'abolizione del Senato, trasformato in organo di competenza territoriale.

Sono mesi che segnaliamo le storture del referendum confermativo che, a norma della Costituzione, è privo di un quorum. Chi va a votare e ne ha i requisiti, determina l'esito: che vinca il sì legalizzando in tal modo la legge di riforma, o che vinca il no con la conseguente cancellazione della suddetta legge, l'esito non dipende dal numero dei votanti; fosse pure un solo votante, è lui che sceglie per tutti gli italiani. Naturalmente non sarà uno solo, anche se il numero degli astenuti sarà molto alto. Renzi ha trasformato il referendum in un plebiscito perché ha detto e più volte ripetuto che se i no sopravanzano i sì lui abbandonerà la politica. Quindi, in realtà, non si vota soltanto per la legge di modifica della Costituzione ma si vota soprattutto pro o contro Renzi.

Questa posizione poteva anche esser passata sotto silenzio e poi decisa da Renzi ad esito avvenuto; invece è il tasto più battuto ed è questo che fa diventare il referendum un plebiscito. Aumenterà il numero dei votanti? Io credo di sì, lo aumenterà. Questo rende inutile o comunque accantona il problema del quorum? Sì, lo accantona ma non lo elimina. Se ne potrà, anzi se ne dovrà discutere a tempo debito. Per quanto mi riguarda continuo a dire che il quorum è necessario ma, ripeto, per questa volta trascuriamolo.

Il risultato per Renzi è scontato: vincerà, i no saranno assai meno dei sì. I primi sondaggi danno infatti i sì a oltre il doppio dei no. Se, come è probabile, andranno a votare una quarantina di milioni degli aventi diritto, i sondaggi ne danno trenta ai sì e dieci ai no con tendenza a lieve crescita dei no.

È tuttavia possibile che i no aumentino in modo più sostanziale, fino a diventare competitivi per la ragione che se un Renzi sconfitto abbandona non soltanto il governo ma la politica, allora il tema non è soltanto la legge in questione ma si estende anche al partito Pd e alla sua guida che in quel caso sarebbe probabilmente non renziana.

Comunque l'uscita di scena di Renzi non interessa solo il Pd e la sinistra ma anche il centro e anche la destra. Interessa tutte le forze politiche. Da questo punto di vista il comitato di sinistra che sta raccogliendo firme non ha molto peso. Non si tratta di raccogliere firme per chi propugna il no, ma per contrapporre ai sì che saranno certamente molti, un sostanziale numero di voti contrari. Personalmente voterò no perché sono contrario alla riforma del Senato, ma se si trattasse solo di Renzi, dovrei pensarci prima di decidere. Quel che è importante è che il referendum senza quorum dimostri l'esistenza di una vera democrazia e quindi di una contrapposizione tra chi approva e chi è contrario con dimensioni in qualche modo equivalenti. Una vera democrazia esiste perché ci sono idee contrapposte che si misurano e poi vinca il migliore.

***

Poche parole su un tema importante e scottante: la legge sulle unioni civili. Qui si tratta di diritti e i diritti che si riescono ad ottenere valgono in eguale misura per tutti i cittadini indipendentemente dall'età e dal sesso. Le unioni civili che danno diritto alla convivenza, all'assistenza reciproca, ai lasciti testamentari, alle pensioni reversibili, valgono per tutti. Qualche dubbio può sorgere per il cosiddetto utero in affitto, ma se l'embrione conservato in deposito e usabile su richiesta è accettato, allora anche l'utero in affitto è accettabile, sono due forme equivalenti di procreazione assistita.

Il tema controverso è quello dell'adozione di figli da parte di coppie del medesimo sesso. Per quel che vale dico il mio parere: per un bambino è meglio due madri o due padri piuttosto che un orfanotrofio. Meglio soli che male accompagnati vale per gli adulti ma non per i bambini.

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17 gennaio 2016

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Titolo: Scalfari: Io, Scola e lo scontro tra l'amore e il potere
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 22, 2016, 08:49:36 pm
Io, Scola e lo scontro tra l'amore e il potere
I film, i libri e la vita.
Storia del sodalizio con il grande regista: il poeta che amava la democrazia

21 gennaio 2016
   
Il ricordo che ho di Ettore Scola è di quelli che restano nella memoria e non sono fuggitivi, ti toccano nel profondo e fanno parte della tua vita. Da quando l'altra sera ebbi da Walter Veltroni notizia della sua morte quel ricordo mi è costantemente presente. Avevamo cenato insieme pochi giorni prima e poi ci eravamo ancora incontrati alla festa che ha celebrato i quarant'anni di Repubblica nella sala di Santa Cecilia all'Auditorium della musica. Ha avuto un improvviso malore domenica, tre giorni dopo quell'ultimo nostro incontro. Questa mattina andrò a salutare la sua salma alla Casa del Cinema di Roma. Scrivo queste personali notizie come testimonianza - condivisa da moltissimi amici - dell'importanza che ha avuto nel cinema italiano, che per suo merito, insieme e poi in anni successivi alla loro scomparsa, ha condiviso con Rossellini e con Fellini. Ha girato una quarantina di film, uno più bello dell'altro, da C'eravamo tanto amati a Una giornata particolare, La famiglia, La terrazza e infine quello che lui chiamava un documentario ma che in realtà - almeno per me - è stato uno dei suoi più grandi film se non addirittura il migliore: lo intitolò Che strano chiamarsi Federico ed è un racconto magico della vita di Fellini. Merita d'esser rivisto, quel film su Federico, perché trascende il protagonista del racconto, ne coglie l'anima, la fantasia, le emozioni e la fuga di Fellini da una realtà mediocre alla ricerca d'un mondo fantasticato dell'arte, della bellezza, della libertà, dell'invenzione. L'invenzione: è la facoltà che distingue la nostra specie da quella degli animali dai quali proveniamo. Quando il quadrupede scimmiesco delle origini si alzò da terra e rimirò il cielo stellato e riuscì a guardare se stesso con la mente, in quello stesso momento nacque in lui l'invenzione e insieme con essa nuovi desideri e nuovi bisogni da soddisfare. L'invenzione è il dono che la natura ci ha dato ed è questo che Ettore ha celebrato in tutti i suoi film, ma non soltanto; direi con la sua vita e i valori che l'hanno ispirata, le amicizie che ha avuto, la politica cui ha aderito.

Fu animato dall'amore verso la democrazia e verso la sinistra. Votava per il partito comunista soprattutto quando quel partito fece propri, non a parole ma con i fatti, i valori democratici. Berlinguer e Pietro Ingrao furono i suoi punti di riferimento; il fascismo il suo nemico costante, non più come antico ricordo ma come tentazione sempre presente della tirannide e della dittatura, che è una delle caratteristiche del potere e della presa che il potere ha sulla mente degli uomini. Bisogna vincerla, quella tentazione. Scola lo lascia intendere in tutti i suoi film con le forme cinematografiche le più diverse, da quella esplicita di Una giornata particolare a quelle implicite del gradasso, spesso impersonato da Vittorio Gassman. Nel film La famiglia lo scontro tra l'amore e il potere appare in una serie di scene dove quei due sentimenti contrapposti si intrecciano l'uno con l'altro e alimentano l'intensa contraddizione all'interno di tutti i personaggi del film, come nella realtà avviene in ciascuno di noi. Sono due caratteri essenziali nella vita e ciascuno di noi ne è pervaso. Anche Scola, perché non si può inventare senza contraddirsi e viceversa. Di queste cose parlavamo spesso, lui le raccontava nei suoi film, io nei miei libri e tutti e due, senza dircelo, ne eravamo pervasi. Per questo non scorderò Ettore finché vivrò: eravamo molto simili e quell'intreccio di sentimenti fece la nostra forza e la nostra debolezza insieme alla gioia di vivere e alla malinconia che sempre l'accompagna.

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21 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/01/21/news/io_scola_e_lo_scontro_tra_l_amore_e_il_potere-131704429/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Papa Francesco sulla famiglia non ha fatto nessun ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:32:43 am
Papa Francesco sulla famiglia non ha fatto nessun passo indietro
Bergoglio ha chiesto di non confondere unioni civili e matrimonio, ma nello stesso giorno ha parlato di amore misericordioso per quanti vivono situazioni diverse dalle nozze, per scelta o per circostanze della vita.
Sullo scontro di piazza, tra organizzatori del Family Day e associazioni laiche, non interviene.
E all'episcopato italiano già da tempo ha ricordato che non deve occuparsi di politica

Di EUGENIO SCALFARI
24 gennaio 2016
   
"La Chiesa ha indicato al mondo che non ci può essere confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione". Questo ha detto papa Francesco nel suo discorso di venerdì all'apertura dell'anno giudiziario del tribunale della Sacra Rota e questo avrebbe significato un passo indietro rispetto all'apertura verso la modernità contenuta nelle prescrizioni del Concilio Vaticano II la cui citazione finora Francesco ha sempre assunto come il maggior compito del suo pontificato. Ma non ha detto soltanto questo. Nel finale del suo intervento ha anche affrontato il tema dei mutamenti che possono verificarsi dentro e fuori della famiglia consacrata dal matrimonio religioso: "La famiglia fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo appartiene al sogno di Dio ma i responsabili dei processi matrimoniali non dovranno mai dimenticare il necessario amore misericordioso verso quanti, per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato obiettivo di errore".

Infatti, nello stesso giorno del suo intervento al tribunale rotale, il Papa ha inviato anche un messaggio ai partecipanti alla cinquantesima giornata mondiale della comunicazione in cui ha invitato a "esprimersi con gentilezza e comprensione anche nei confronti di quanti, in merito al matrimonio pensano e agiscono diversamente". Che questo sia il suo atteggiamento nei confronti delle cosiddette unioni civili tra persone sessualmente eterogenee o anche dello stesso sesso, è noto da tempo. Il Papa insomma distingue tra famiglie matrimoniali e unioni civili di qualunque tipo e non nega affatto che la stessa posizione sia riconosciuta legalmente.

Nel contrasto di piazza che si sta verificando tra associazioni cattoliche nel "Family Day" che avrà luogo il 30 prossimo e le molteplici associazioni laiche che andranno avanti fino a quando la legge presentata dal governo sarà discussa e, in forma emendata, approvata (dal 28 prossimo) Francesco non interviene; il compito spetta semmai all'episcopato italiano al quale tuttavia viene ricordato che non deve più occuparsi di politica ma chiarire la posizione pastorale sui problemi in discussione.

Il cosiddetto passo indietro di Francesco sul tema della famiglia non c'è dunque stato. Naturalmente Francesco, come già avvenuto nella discussione sinodale sul tema dell'accesso dei divorziati risposati che chiedono di esser riammessi ai sacramenti, deve cercare soluzioni di compromesso (temporaneo) per mantenere l'unità della Chiesa sinodale. Sul tema dei sacramenti ai divorziati risposati il compromesso è stato di affidare ai vescovi e ai confessori da essi delegati, di decidere se il richiedente può essere riaccolto oppure no. In questo modo l'uscio della riammissione è stato aperto per metà, caso per caso; ma è sempre possibile ai richiedenti della riammissione che abbiano ricevuto parere negativo dal confessore di ripresentarsi dopo qualche tempo penitenziale e formulare di nuovo la richiesta ed è altrettanto possibile, anzi è praticamente certo, che quella seconda richiesta sia accolta.

In questa fase - come sappiamo - la tensione tra il Papa e la Curia ha raggiunto il suo massimo, sicché Francesco deve tenere unita la più larga maggioranza possibile dell'episcopato che privilegia l'azione pastorale e rappresenta in questo modo la Chiesa missionaria voluta da Francesco. Questo spiega ampiamente il compromesso in materia di matrimonio e di unioni civili.

Del resto la parola famiglia è una parola pluri-significativa: designa una comunità di persone unite tra loro da vincoli di affetto o di amicizia o di semplice appartenenza ad una comunità. Nell'antica Grecia e nell'antica Roma la famiglia comprendeva uomo e donna, nonché figli e nipoti, ma anche parenti lontani nel grado di parentela e schiavi, giocolieri, buffoni. Quella insomma che nella Roma classica era chiamata "gens" e aveva anche un nome: la gens Giulia o Claudia o Scipia o Flavia. Ma in tempi attuali esistono anche in tutto il mondo le famiglie mafiose, che prendono il nome del loro capo. Sicché la famiglia matrimoniale non ha natura diversa da quella legalizzata delle unioni civili; sempre di famiglie si tratta, di unioni con analoghi contenuti ma diversi termini lessicali che li distinguono. Il Papa tutte queste varianti le conosce benissimo.

Del resto c'è un altro elemento che Francesco conosce altrettanto bene: la concezione musulmana della famiglia è completamente diversa da quella cattolica, a cominciare dalla supremazia del maschio e dalla poligamia. Ma anche la concezione ebraica è diversa perché la Bibbia dell'Antico Testamento prevede famiglie con due o anche tre mogli per un solo marito. Francesco predica il Dio unico, specialmente tra i tre monoteismi ma per tutte le forme di divinità trascendente. Un Dio unico con scritture e tradizioni diverse, ma unico comunque, sicché le diversità tra le scritture e le tradizioni hanno un impatto assai modesto e sono comunque soggetti a cambiamenti continui che incidono sulla lettera ma non sull'essenza spirituale delle religioni. E questo è tutto per quanto riguarda papa Francesco.

Ma ora c'è il côté laico da descrivere. Chi sono e che cosa pensano su questi problemi?

***

I laici si dicono tali indipendentemente dall'essere o non essere religiosi d'una qualunque religione. Di solito sono contrari alla trascendenza; una delle "bibbie" del pensiero laico è infatti Baruch Spinoza, che aveva teorizzato l'immanenza della divinità con il motto ormai famoso "Deus sive Natura". Comunque non si è laici e non ci si autodefinisce come tali se non per il fatto che ci s'identifica con i valori di libertà, eguaglianza, fraternità. Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica di ieri, sostiene che il laico s'identifica con la democrazia, cioè con l'attribuzione del potere al cosiddetto popolo sovrano. Vero, ma fino ad un certo punto. Non sempre infatti il popolo sovrano sostiene con fatti e non solo con parole tutti e tre quei valori. L'Atene di Pericle era piena di schiavi e così pure la Roma repubblicana e poi imperiale. Ed anche la Galilea dove Gesù di Nazaret predicò duemila anni fa. Infine la democrazia borghese ha sempre puntato sulla libertà a spese dell'eguaglianza e la democrazia operaia pur d'ottenere l'uguaglianza ha messo molto spesso in soffitta la libertà.

Concludo su questo punto che i laici sono certamente democratici sempreché quei valori siano tutti e tre considerati con pari forza, il che vuol dire la difesa dei diritti e insieme ad essi dei doveri che ciascun diritto comporta come corrispettivo in favore di quella stessa comunità che riconosce i diritti.

Personalmente critico Renzi tutte le volte (e purtroppo sono parecchie) che deturpa sia i diritti che i doveri, sia sullo scacchiere nazionale che su quello internazionale; ma nel caso in questione che riguarda le unioni civili, l'appoggio che sta dando alla legge proposta dalla senatrice Cirinnà rappresenta un impegno del nostro presidente del Consiglio che merita piena lode. Lode che si accresce quando vediamo che gli si oppongono la Lega, Forza Italia e Grillo con motivazioni prive di senso, per nascondere quella vera di attacco antirenziano. Ci sono mille possibili motivazioni di antirenzismo, a cominciare dalla legge costituzionale e dal referendum che dovrebbe confermarla, ma questa contro la legge Cirinnà no, non regge per nessuna ragione da chi professa una libertà anarchica (Grillo) o un clericalismo da strage di San Bartolomeo.

Naturalmente anche Renzi, come papa Francesco, ha studiato qualche compromesso per superare l'ostilità dei cattolici del suo partito. Ma la Cirinnà, sia pure emendata ma sostanzialmente integra, è un passo avanti notevole, del quale si parla da trent'anni senza che nulla sia stato fatto finora. Nel frattempo la questione è stata legalizzata in tutti gli altri Paesi dell'Occidente, in modo ancor più integrale; si tratta in grande maggioranza di Paesi dove le religioni dominanti sono di carattere protestante e quindi con meno remore al contrario di quanto avviene da noi. L'Italia o è laica nel senso sopraddetto o è cattolica ma oggi con un Papa aperto all'incontro con la modernità. Perciò la legge Cirinnà si discuterà il 28 prossimo e si voterà. Il risultato favorevole non è sicuro, ma probabile. L'ho già detto: spero questa volta che Renzi vinca.

Ci sarebbe ora da parlare dell'Europa. Lo faremo domenica prossima. Oggi posso solo dire che ci sono, in un'Europa divisa in mille pezzi, due sole posizioni positive: quella di Draghi che sta lottando con tutti i mezzi per uscire dal pericolo di un'altra recessione e quella di Schäuble che propone un piano Marshall europeo che aiuti i Paesi africani dove nasce l'emigrazione che ha l'Europa come obiettivo.

Mi sia consentito chiudere con un brano tratto da una poesia di Thomas S. Eliot che - mi sembra - coglie pienamente la transitorietà del tempo che ci attraversa: "Una dopo l'altra / case sorgono cadono crollano vengono ampliate vengono demolite distrutte restaurate... /C'è un tempo per costruire / e un tempo per vivere e generare / e un tempo perché il vento infranga il vetro sconnesso... / Dobbiamo muovere ancora e ancora / verso un'altra intensità/ per un'unione più compiuta, più profonda / attraverso il buio freddo e la vuota desolazione, / il grido dell'onda, il grido del vento, la vastità delle acque /della procellaria e del delfino. Nella mia fine è il mio principio".

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24 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/24/news/papa_francesco_sulla_famiglia_non_ha_fatto_nessun_passo_indietro-131923450/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI Con sorriso e con rabbia Angela e Matteo fan buchi nella sabbia
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 31, 2016, 04:44:55 pm
Con sorriso e con rabbia Angela e Matteo fan buchi nella sabbia

Di EUGENIO SCALFARI
31 gennaio 2016
   
VOLEVO scrivere oggi sull'Europa e della crisi che la sta devastando nonostante l'indifferenza che ha pervaso le sue istituzioni e la cosiddetta classe dirigente che le amministra; una crisi che è apparsa ancor più chiaramente nell'incontro di venerdì scorso tra Angela Merkel e Matteo Renzi a Berlino.

Lo farò tra poco, ma prima debbo premettere alcune considerazioni sull'incontro in Vaticano tra papa Francesco e Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, ed anche sulla preannunciata riunione che avverrà il prossimo 31 ottobre in Svezia tra Francesco e i rappresentanti delle Chiese protestanti di tutto il mondo per celebrare la riforma luterana di mezzo millennio fa in quello stesso giorno, quando Martin Lutero attaccò sulla porta della cattedrale di Wittenberg le sue tesi che spaccarono in due la religione cristiana.

Cinquecento anni, durante i quali si scatenarono guerre religiose, stragi, roghi, torture inflitte da ambo le parti e con l'appoggio dei diversi sovrani che utilizzavano a proprio vantaggio politico quelle tragiche guerre religiose. Uno soltanto tentò la via della riconciliazione nel 1541 e fu Carlo V d'Asburgo, imperatore di Germania e di Spagna, ma il tentativo fallì e le guerre religiose continuarono a insanguinare l'Europa.

Il culmine fu raggiunto nella notte di San Bartolomeo nel 1572 quando gli ugonotti (i protestanti francesi) guidati dal re di Navarra, dal principe di Condé e dall'ammiraglio de Coligny, furono massacrati dai soldati di Caterina de' Medici e da suo figlio Carlo IX di Valois. Furono ventitremila le vittime di quella mattanza a Parigi e poi continuarono per secoli.

Il 31 ottobre prossimo quella spaccatura in due della cattolicità sarà celebrata e superata. Francesco ha già chiesto perdono ai valdesi, che precedettero di molto la scissione luterana e chiederà perdono anche a Lutero e ai suoi discendenti e il perdono sarà reciproco perché i protestanti hanno anche loro responsabilità di tanto sangue sparso. L'obiettivo di entrambe le parti è di superare quelle divisioni affratellandosi di nuovo nel nome di Cristo. I riti e la liturgia resteranno distinti, ma l'affratellamento sarà aperto nell'ambito di una Chiesa pastorale e missionaria che con una svolta di queste proporzioni, alla quale sono da aggiungere gran parte degli anglicani e in un futuro prossimo anche gli ortodossi delle Chiese d'Oriente, sarà la religione numericamente più diffusa nelle due Americhe, in Europa, in Russia, in Africa, in Asia e in Australia.

Non dimentichiamo però la visita alla sinagoga di Roma di papa Francesco e l'incontro con Rouhani al Palazzo Apostolico il 26 scorso. Il comunicato emesso con l'accordo delle due parti dice così: «Durante il colloquio si sono evidenziati i valori spirituali comuni e si è poi fatto riferimento ai buoni rapporti tra la Santa Sede e la Repubblica Islamica dell'Iran. Si è altresì rivelato l'importante ruolo che l'Iran svolge, insieme ad altri Paesi della Regione per promuovere adeguate soluzioni politiche ai problemi che affliggono il Medio Oriente contrastando la diffusione del terrorismo. Al riguardo è stata ricordata l'importanza del dialogo interreligioso e la responsabilità delle comunità religiose nel promuovere la tolleranza e la pace».

Due iniziative, con i protestanti luterani e con l'Iran islamico, dalle quali esce rafforzata la libertà religiosa, la convergenza umanitaria nonché le ripercussioni politiche di queste iniziative prese in gran parte da papa Francesco. Altre volte l'ho definito profetico e rivoluzionario. Alla base del suo pensiero e della sua azione c'è sempre la fede in un unico Dio che nessuno aveva proclamato con il vigore di Francesco e che rappresenta la scomunica dei fondamentalismi di ogni genere e dei terrorismi e delle guerre che quei fondamentalismi alimentano.

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Ed ora l'Europa e l'incontro a Berlino tra Angela Merkel e Matteo Renzi che è in ordine temporale l'episodio più recente della politica europea. Ma c'è un altro episodio con il quale desidero aprire questo capitolo domenicale: il viaggio di Renzi all'isola di Ventotene, nei pressi di Ischia, per commemorare il "Manifesto per l'Europa" redatto in quell'isola dove erano confinati gli antifascisti ai tempi del regime mussoliniano, da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

Sono stato amico di entrambi: Spinelli lo conobbi a casa della figlia Barbara che lavorò per molti anni con Repubblica; Ernesto lo conobbi al Mondo di Mario Pannunzio nel 1949 e lavorammo insieme giornalisticamente e politicamente da quell'anno fino al 1963. Lo dico perché conosco, al di là del Manifesto che peraltro è chiarissimo, il loro pensiero e l'azione che sostennero per l'unità democratica dell'Europa. Spinelli e Rossi puntavano agli Stati Uniti d'Europa sul modello istituzionale degli Stati Uniti d'America. Questo volevano e per questo lavorarono finché vissero, Altiero soprattutto.

Mi rallegro molto con Renzi per questa visita a Ventotene in ricordo ed omaggio all'europeismo di Spinelli (di Rossi non ha mai parlato come se quella firma fosse inesistente) ma forse Renzi non si è mai battuto per gli Stati Uniti d'Europa, cioè per un'Europa federata e non soltanto confederata. In questi ultimi tempi Renzi si è anzi distinto per il suo contrasto con la Commissione europea, battendo i pugni sul tavolo, tenendo in testa il cappello e riaffermando l'autonomia dei governi nazionali i quali, sia pure nel quadro delle regole europee, debbono avere piena libertà di applicarle nei tempi e nei modi decisi autonomamente dai rispettivi governi.

È vero che esistono temi che l'Europa ha finora lasciato nelle mani dei governi nazionali, ma è vero anche che le regole sono emesse dalla Commissione dopo l'approvazione del Consiglio dei ministri dei 28 Stati membri e dal Parlamento di Bruxelles. Rafforzare l'autonomia degli Stati nazionali, i quali detengono la sovranità collegiale della confederazione col voto spesso unanime e talvolta a maggioranza qualificata significa non già rafforzare l'Unione europea ma indebolirla ulteriormente.

Renzi si sta dunque muovendo su una strada di totale ma consapevole incoerenza, che è già stata negativamente giudicata anche da Giorgio Napolitano oltreché dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, ma che non pare sia stata adeguatamente sostenuta dall'opposizione interna del Pd che si definisce più a sinistra di Renzi.

Questa scarsa sensibilità della dissidenza ha purtroppo un solo significato: la sinistra non c'è più o almeno non si sa che cosa significhi oggi essere di sinistra. L'ha detto più volte Alfredo Reichlin, uno dei dirigenti dell'antico Partito comunista, tuttora presente nella battaglia politica. A Renzi oggi conviene dirsi alla guida d'un partito di sinistra. Questo lo distingue dalla Merkel che capeggia una democrazia moderata, ancorché alleata con il partito socialista tedesco che peraltro conta poco o niente nel determinare la politica della Cancelliera.

Dunque un Renzi di sinistra che si distingue così dalla Merkel moderata e tende a fare tandem con lei proponendosi come il capo di governo che fronteggia o si accorda volta per volta e problema per problema con la Germania. Insomma al posto del tandem Germania-Francia, un nuovo tandem Germania-Italia. Mica male come prospettiva renziana, politicamente parlando. Resta il contrasto economico tra crescita (Renzi) e austerità (Merkel). Ma questo è un contrasto fittizio perché non dipende da nessuno dei due. Dipende invece da quanto sta avvenendo nel mondo intero: in Usa, in Cina, in Giappone, in Russia, in Brasile, nel Medio Oriente. Dipende dall'andamento di alcune materie prime e da alcune attività economiche, a cominciare dall'industria manifatturiera e dalle fonti di energia, petrolio e gas. Dipende dall'andamento climatico e dal fattore demografico. Dipende dalle diseguaglianze sociali e territoriali.

Questo è lo scacchiere. Ma non pare che Renzi ne sia consapevole. O meglio: lo sa ma è più sensibile alla raccolta del consenso, tema a breve raggio temporale. Il consenso serve subito e bisogna farlo durare almeno un anno per poi recuperarlo con nuove ricette elettoralistiche. Il futuro è breve per mantenere il potere. Ce lo ha insegnato Giulio Andreotti, che fu il meglio del peggio nella storia del nostro Paese.

****

Dell'incontro Merkel-Renzi abbiamo già detto. Riassumendolo in queste ultime righe dirò che si sono scambiati alcuni biscottini ma nulla di più, né un bel piatto di fettuccine al ragù né una bistecca di manzo. L'appetito è rimasto intatto, non tanto per la Cancelliera che mangia poco, quanto per il nostro presidente del Consiglio che è molto più giovane ed ha una fame arretrata. Quella c'è ancora e non si sa se potrà saziarla, almeno in Europa.

In Italia sì e a volte con soddisfazione generale. Anche nostra, l'ho già scritto domenica scorsa e lo ripeto oggi per quanto riguarda la legge sulle unioni civili. La legge Cirinnà avrà qualche emendamento sull'utero in affitto e sulle adozioni volute da coppie omosessuali con figli non propri. Se altri emendamenti ci fossero ci sarebbe da preoccuparsi e quindi speriamo di no.

Chiuderò con alcuni versi, tratti da una vecchia poesia di Ernesto Ragazzoni scritta nel giugno 1914. Si intitola Ballata e descrive molto bene quello che spesso accade a chi non ama il potere e si contenta di quel poco che può fare per ingannare il tempo che passa e vola via. A volte poche rime chiariscono molte cose.

«Sento intorno sussurrarmi

che ci sono altri mestieri…

bravi, a voi! Scolpite marmi,

combattete il beri-beri,

allevate ostriche a Chioggia,

filugelli in Cadenabbia,

fabbricate parapioggia.

Io fo buchi nella sabbia.

O cogliete la cicoria

od allori, o voi, Dio v'abbia

tutti quanti in pace e gloria!

Io fo buchi nella sabbia».

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31 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/31/news/con_sorriso_e_con_rabbia_angela_e_matteo_fan_buchi_nella_sabbia-132390192/?ref=HRER2-1


Titolo: E. SCALFARI. Boldrini: "L'Europa è a pezzi, rilanciamo l'utopia dei fondatori"
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 05, 2016, 11:07:22 pm
Boldrini: "L'Europa è a pezzi, rilanciamo l'utopia dei fondatori"
Il colloquio. "Le masse di migranti, la disoccupazione e le disuguaglianze crescenti rendono sempre più necessaria la nascita della Federazione europea"

Di EUGENIO SCALFARI
   
HO INCONTRATO il 2 febbraio scorso Laura Boldrini nella sua residenza alla Camera dei deputati da lei presieduta. Il tema che volevo discutere con lei era quello dell'Europa che da tempo è diventato dominante nella sua mente ed anche nella sua missione politica.

L'Europa è a pezzi mentre la situazione intorno a noi diventa sempre più drammatica: la transumanza di popoli interi, la civiltà globale che in questa forma così avanzata non era mai esistita e che le nuove tecnologie hanno reso ancor più operante nella circolazione delle merci, dei capitali, delle culture, dei linguaggi; le guerre locali sempre più diffuse e cruente; il fondamentalismo ideologico e religioso che ha dato luogo a forme di terrorismo efferate e mondializzate; infine la necessità di Stati di dimensioni continentali che abbiano la possibilità di confrontarsi tra loro pacificamente ma liberamente, dando vita ad una multipolarità indispensabile per agire in una società planetaria: Stati Uniti d'America, Cina, India, Brasile, Sudafrica.

Bisognerebbe aggiungere Europa poiché il nostro è uno dei continenti dotato d'una storia plurimillenaria, d'una cultura, d'una civiltà e di una ricchezza antica che ne farebbe uno dei continenti più potenti del pianeta. Bisognerebbe, ma purtroppo non si può perché l'Europa come Stato non esiste e dopo la caduta dell'Impero romano, non è mai esistito. E' un coacervo di Paesi, 28 per l'esattezza, 19 dei quali hanno creato una moneta comune, legati tra loro da vincoli confederali e guidati da istituzioni confederate, delle quali ci sono i capi dei 28 governi che deliberano sulle materie comuni se e quando decidono con voto unanime o con maggioranze qualificate.

Si può andare avanti così?, domando a Laura Boldrini.
"No, non si può andare avanti così, tanto più in una fase di crisi economica che dura ormai da un decennio e da un terrorismo atroce che si diffonde di giorno in giorno. Le masse di emigranti, la disoccupazione e la povertà, le diseguaglianze crescenti, rendono sempre più necessaria la nascita della Federazione europea, ma pochi passi sono stati compiuti in quella direzione. Uno di essi, tra i più appropriati, fu l'accordo di Schengen, una cittadina sulle rive della Mosella, quando furono aboliti i confini interni tra i principali Paesi europei. Ma ora, a causa dell'immigrazione di massa degli ultimi mesi, quei confini sono stati quasi ovunque ripristinati; in alcuni Paesi addirittura con la costruzione di muraglie e di reticolati non violabili".

Quegli Stati però, specialmente la Germania, dicono che tra qualche mese saranno di nuovo aboliti. Lei pensa che questo avverrà?
"Purtroppo mi sembra molto difficile, l'emigrazione continuerà e anziché accoglierla i Paesi europei cercano di arginarla; nel frattempo cresce il peso politico dei movimenti populisti e xenofobi, nazionalisti e contrari all'Europa e alla moneta comune".

Questo è il futuro che lei prevede?
"Purtroppo sì e prevedo anche che se questo futuro non sarà sostituito da un'opinione pubblica di tutt'altra intonazione, il sogno europeo si dissolverà. Temo che ciò avvenga e per quanto posso sto facendo tutto ciò che credo utile a invertire questa tendenza".

Finora lei ha tentato ed è parzialmente riuscita a mettere insieme quattro presidenti delle Camere con il dichiarato obiettivo degli Stati Uniti d'Europa. Questo avvenimento fu reso pubblico alcuni mesi fa, ma era appena un inizio. E' andata avanti su questa strada? Non le sembra un'utopia? L'Europa unita non pare che mobiliti l'opinione degli europei. Sono largamente indifferenti, semmai più sensibili alla propaganda xenofoba. Lei è ottimista? Spera che questa situazione si possa modificare in un lasso di tempo ragionevole?
"Lei ha parlato di utopia. E' vero. Io l'ho battezzata col nome di Eurotopia, cioè utopia dell'Unione europea. E mi riferisco al primo gruppo di persone che la pensò e poi lottò per realizzarla in una data molto lontana: 1941. In Italia c'era ancora Mussolini, la guerra infuriava in tutta Europa e nel mondo intero: Germania, Italia, Giappone, contro Francia, Inghilterra, Stati Uniti d'America e campi di sterminio, culminati con la Shoah. E voglio ricordare che l'utopia d'una Europa unita, federata, pacifica, fu lanciata da un gruppo di antifascisti confinato nell'isola di Ventotene: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann. Il loro motto era "La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve esser percorsa e lo sarà". Più tardi, quando la guerra era finalmente terminata e Spinelli già lavorava affinché il sogno europeo prendesse forma, disse un'altra frase che è diventata la mia guida: "Il valore di un'idea, più ancora del suo successo finale, è fatto dalla capacità di risorgere dalle proprie sconfitte"".

Lei sa che anche Matteo Renzi nei giorni scorsi è stato a Ventotene per rendere omaggio a Spinelli e al suo Manifesto?
"Lo so e ne sono stata molto contenta. Spero tuttavia che Renzi abbia ben chiaro che Spinelli voleva un'Europa federata e non confederata. Finora la politica italiana non ha manifestato e fatto proprio quest'obiettivo".

La differenza è forte?
"Molto forte".

Quali sono secondo lei le persone che hanno ereditato gli ideali di Ventotene?
"La storia lo dice: De Gasperi, Adenauer, Schuman. Furono loro a fondare la Comunità del carbone e dell'acciaio, il primo nocciolo di un'Europa unita e furono loro ad ispirare i trattati di Roma che dettero le prime indicazioni dell'Europa politica oltreché economica".

Ma oggi? Chi sono secondo lei le persone di alta levatura politica, economica, sociale che hanno ancora in mente l'obiettivo che lei persegue?
"Non sono molti, ma la loro importanza non è da poco: certamente il presidente Mattarella e i presidenti emeriti Ciampi e Napolitano. Aggiungo anche Mario Draghi che guida la Banca centrale europea".

Angela Merkel? Hollande?
"Lo spero, ma prove effettive da parte loro non sono ancora venute. Forse perché non esiste ancora una diffusa opinione pubblica europea che voglia gli Stati Uniti d'Europa. Questo è un punto essenziale: far sorgere un'opinione pubblica europea specie tra i giovani. Se i giovani guardano al futuro, al proprio futuro, il suo nome è Europa. Questo bisogna che la scuola gli insegni. Ma poi ci sono proposte concrete ed anche simboli. Non dimentichiamolo: i simboli sono molto importanti. Pensi alla bandiera tricolore che nacque nella Francia della rivoluzione e fu adottata in Italia da Mazzini e da Garibaldi".

Ha ragione quei tre colori rappresentavano tre valori: libertà, eguaglianza, fraternità. Sono stati i grandi valori della Rivoluzione e del Risorgimento italiano e sono al centro della nostra Costituzione repubblicana. Ma, a parte i simboli, lei ha in mente anche modifiche istituzionali per arrivare all'obiettivo dell'Europa federata?
"Alcune iniziative e proposte, sì, sto cercando di effettuarle. Per esempio un contributo a garanzia europea per tutti gli europei che debbano essere economicamente sostenuti. Non dovrebbe esser finanziato dai singoli Stati, ma dall'Europa con il proprio bilancio, alimentato da una tassa specifica. Insomma una forma di assistenza e di giustizia sociale che creerebbe di colpo un sentimento europeistico, soprattutto tra i giovani che oggi sono privi di speranze di futuro e afflitti da gravi disagi nel presente. Penso anche a creare una cittadinanza europea. Per ora c'è nelle parole ma non nei fatti. La cittadinanza vera è solo nazionale. E' questione procedurale ma è appunto sulle procedure che dobbiamo agire. Il cittadino europeo deve essere tale a tutti gli effetti del diritto e così anche per quanto riguarda il diritto di voto. Le procedure di voto oggi sono dissimili da Paese a Paese. Bisogna renderle eguali di modo che i candidati siano transnazionali ed anche il Parlamento di Bruxelles lo sia, nei fatti e non solo nelle parole. Prima parlavamo di simboli e di bandiere. La bandiera europea deve venire per prima; quella nazionale è importante ma viene dopo. E gli inni. Mameli va benissimo, nella nostra storia come la Marsigliese è la storia della Francia, ma l'Inno alla Gioia è l'Europa e deve essere suonato per primo in tutte le pubbliche circostanze".

***
Di queste cose abbiamo lungamente parlato. Laura Boldrini partirà nei prossimi giorni per l'isola di Lesbo dove migliaia di rifugiati arrivano e poi ripartono affrontando la morte del mare, come avviene anche dalla Libia. I rifugiati non possono essere respinti o immobilizzati da fili spinati. Poi da Lesbo andrà a Schengen nel battello ancorato sulle rive della Mosella. Anche questo sarà un viaggio simbolico.

Ma nel concreto - le ho chiesto - come vedrebbe un ministro del Tesoro europeo, unico interlocutore della Bce? E come vedrebbe la futura Europa federale: con un presidente del genere di quello che siede alla Casa Bianca?
"Il ministro del Tesoro unico lo vedo come un obiettivo fondamentale. Ricordo che è una proposta di Draghi. Nell'ambito delle mie competenze non spetta a me impegnarmi su questa materia, ma come cittadino speranzoso d'una futura Europa, trovo questa proposta della massima importanza. Dovrebbe disporre di un debito pubblico sovrano e quindi emettere titoli del Tesoro europei e promuovere adeguati investimenti e garanzie bancarie. Bisogna farlo. Dal canto mio proporrò che siano rese più numerose e vengano prese nella dovuta considerazione dal Parlamento di Bruxelles, le proposte di legge di iniziativa popolare. Sarebbe un passo avanti notevole".

E l'architettura presidenziale di tipo americano? Io credo che sia la migliore soluzione.
"Su questo punto la pensiamo diversamente: io credo in un regime democratico di quelli che i Paesi europei hanno sempre applicato salvo drammatiche eccezioni".

Lei dice sempre ma qui mi permetta di correggere: io dico quasi mai. La vera democrazia ha spesso ceduto il campo a formule di potere concentrato su un piccolo gruppo di consulenti di una sola persona. Penso alla Gran Bretagna, culla del liberalismo, il premier decide tutto e da solo. In America il presidente ha grandissimo potere e governa direttamente, ma il Congresso ha un potere di controllo e di freno molto democratico.

"Questo tema è di grande interesse, ma mi consenta di dire che è prematuro. Verrà il tempo. Intanto lavoriamo per l'Europa federata".

Le ho fatto i miei auguri. Anzi: li faccio a ciascuno di noi affinché questa utopia cominci a camminare per le strade di tutta Europa.

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05 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/05/news/boldrini_l_europa_e_a_pezzi_rilanciamo_l_utopia_dei_fondatori_-132751465/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma Renzi vuole un ministro del tesoro europeo?
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2016, 04:49:40 pm
Ma Renzi vuole un ministro del tesoro europeo?
La proposta avanzata da Draghi sarebbe la novità-principe anche perché apre la strada a un’Europa federata e non più soltanto confederata

Di EUGENIO SCALFARI
07 febbraio 2016
   
ALCUNI amici che hanno letto la mia intervista di venerdì con la presidente della Camera, Laura Boldrini, si sono stupiti (positivamente) della fiducia da lei riposta nella politica monetaria di Mario Draghi e di molte previste ripercussioni che potrà avere sull'auspicabile rafforzamento dell'unità dell'Europa. Ho avuto modo di parlare telefonicamente l'altro ieri con Draghi, siamo vecchi amici e di tanto in tanto ci sentiamo. Anche lui aveva apprezzato le riflessioni della Boldrini sul significato della politica monetaria della Bce. Del resto, a questo punto della situazione in Europa e nel resto del mondo, anche Draghi non ne fa più mistero. E la situazione è questa: non c'è più tempo, se si vuole impedire che la crisi economica in corso ormai da otto anni, cui si è aggiunta da oltre un anno una drammatica caduta della domanda nei paesi emergenti, bisogna agire con immediatezza.

Ci sono almeno cinque aspetti da considerare. Il tasso demografico europeo è in netta diminuzione, particolarmente in Italia dove a metà del secolo in corso la "gens italica" sarà molto meno numerosa degli attuali 60 milioni di persone e più vecchia. La mobilità dei popoli da un continente all'altro: sembra un'emergenza dovuta alle guerre in corso e alla povertà insopportabile di alcune zone del mondo. Così sembra, ma non lo è, non passerà tra due o tre anni come molti sperano: è un movimento di interi popoli, che durerà a dir poco mezzo secolo e produrrà inevitabilmente un'integrazione di culture, di religioni e di sangue; un meticciato graduale ma inevitabile.

Un'economia mondiale che vedrà ridursi la domanda di beni manifatturieri ottenuta con l'uso di materie prime e di energie tradizionali. Al loro posto ci saranno beni e servizi prodotti con tecnologie specializzate e una diminuzione del lavoro materiale e dell'occupazione. Infine un aumento del tempo libero che sposterà le persone verso viaggi, turismo, cultura, processi di integrazione, ricerche scientifiche e applicazioni pratiche dei loro risultati.

Il quinto ed ultimo elemento riguarda il sistema finanziario che dovrà essere profondamente rivisto per adeguarsi ai predetti mutamenti e che già fin d'ora richiede un cambiamento di fondo dovuto alla mobilità dei capitali, alla dimensione delle imprese, all'andamento die mercati, alle garanzie dei depositi, alla creazione di monete internazionali che non si identifichino con quelle emesse e circolanti nei singoli Stati ma il cui valore abbia come base quello delle monete circolanti adeguatamente valutate. Questa riforma fu studiata dalla Commissione di Bretton Woods e sostenuta da Keynes, ma fu impedita dall'America che ravvisò nel dollaro la doppia funzione di moneta circolante e di punto di riferimento nei tassi di cambio di tutte le altre monete. Ma la società globale ormai in atto esige una appropriata riconsiderazione del "bancor" proposta più di settant'anni fa da Keynes. Questa, in sintesi, è la situazione in cui ci troviamo, le prospettive possibili e gli strumenti necessari a realizzarne gli obiettivi. Cioè la politica e i valori che debbono ispirarla. Difficilmente quei valori saranno dovunque gli stessi, la società globale proviene dalla comunicazione tra storie diverse, culture diverse e diverse condizioni di vita, di povertà, di benessere. Ma è globale nel senso delle comunicazioni e la libera e intensa comunicazione tende all'integrazione, anche dei valori. Un percorso che durerà secoli e configurerà il futuro.

Per quanto ci riguarda, i nostri valori sono, come ben sappiamo, tre: libertà, eguaglianza, fraternità. Non sono affatto realizzati, non dico nel mondo, ma neppure nell'Occidente che tuttavia ne ha fatto da oltre due secoli la sua bandiera. Saranno - dovrebbero essere - il nostro contributo alla società globale della quale facciamo parte.

***

Guardiamo ora più da vicino i fatti che sono in questi giorni accaduti. Non i fatti episodici, ma quelli che fanno parte del quadro evolutivo sopra accennato o lo contrastano. Avevamo cominciato con Draghi. A Francoforte, pochi giorni fa, ha parlato della politica della Bce da lui sostenuta e applicata ormai da un anno; ha enumerato i risultati raggiunti ma anche quelli finora mancati e delle nuove modalità che ne consentiranno la necessaria realizzazione. Le decisioni saranno prese dalla Bce in una riunione già prevista per il 10 marzo prossimo. Delle cause che hanno impedito il completo risultato desiderato, soprattutto per quanto riguarda il tasso di inflazione, abbiamo già riferito il pensiero di Draghi; ma la proposta essenziale e vorrei dire rivoluzionaria Draghi l'ha detta a Francoforte: ritiene indispensabile e quindi vuole la creazione d'un ministro del Tesoro unico, che sia l'interlocutore politico della Bce da lui guidata.

Non è la prima volta che Draghi ne segnala la necessità, ma per qualche tempo l'aveva accantonata. Ora l'ha ripresa con ancor più energia e urgenza di prima; per darle maggior forza ha specificato che dovrà essere ministro del Tesoro non di tutta la Ue ma soltanto dell'Eurozona; non rappresenterà dunque i 28 paesi membri ma soltanto i 19 che adottano la moneta comune. Il ministro del Tesoro può anche essere membro della Commissione di Bruxelles con questa specifica e territorialmente delineata funzione. È evidente che una novità del genere ha bisogno, per nascere, d'una cessione di sovranità di ciascuno dei 19 paesi in questione. A suo tempo il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, si disse favorevole alla proposta di Draghi. Renzi non ne parlò. Che cosa dicono ora? Padoan è sempre d'accordo? E Renzi? Per rinnovare e rafforzare l'Europa come Renzi dice motivando in questo modo i suoi dissensi con Bruxelles, questa del Tesoro unico sarebbe la novità- principe anche perché apre la strada ad un'Europa federata e non più soltanto confederata. Ecco il passo avanti che i sostenitori degli ideali del Manifesto di Ventotene chiedono a Renzi. Vorrà rispondere positivamente? Questo sì, gli darebbe un ruolo di altissimo livello. Isolato dagli altri 18 paesi dell'Eurozona? Forse sì, ma non necessariamente da tutti. Del resto, isolato lo è già.

Ma c'è un'ipotesi che mi permetto di formulare, può sembrare paradossale ma secondo me non lo è: forse non sarebbe ostacolato dalla Merkel. Tutti sappiamo che un'Europa federata si farà soltanto se la Germania si dichiarerà favorevole. È altrettanto chiaro che in un'Europa federata la Germania sarà la nazione di maggior rilievo, non per sempre ma certamente per un lungo periodo iniziale. È altrettanto chiaro - la storia d'Europa dell'ultimo secolo ce lo insegna - che la Francia ancora stregata dalla sua "grandeur", sarà contraria. Ma tutti gli altri paesi non possono che aderirvi, magari non entusiasti ma rassegnati, perché, come da tempo sappiamo, in una società globale contano gli Stati con dimensioni continentali; gli altri non contano niente. Questa è la realtà e forse Angela Merkel è in grado di percepirla e di compiere il primo passo accettando la richiesta di Draghi del ministro del Tesoro unico dell'Eurozona; richiesta motivata essenzialmente da ragioni economiche.

Lo status di Renzi, se si muovesse per primo su questo terreno, gli aprirebbe una vera e propria autostrada per quanto riguarda il suo ruolo futuro in Europa. Futuro ma anche attuale perché il suo principale interlocutore sulla politica economica sarebbe quel ministro del Tesoro, prima della Commissione. I democratici renziani ma anche ed anzi soprattutto i dem dissidenti, dovrebbero premere compattamente su questa strada come dovrebbe anche avvenire sulla legge per le unioni civili. Un Renzi laico ed europeista vincerà a mani basse il referendum. Ma se così non sarà, se continuerà ad essere contro l'Europa e con sulle spalle una riforma costituzionale che a molti non piace affatto, allora non è sicuro che il referendum confermativo passerà a larga maggioranza; potrebbe arrivare un testa a testa con esiti imprevedibili. Noi speriamo che se la cavi, alle condizioni sopra indicate perché quello è l'interesse del paese. Diversamente non speriamo niente.

Anzi: da laici non credenti (personalmente parlando) indichiamo in papa Francesco un simbolo che rappresenta più e meglio di ogni altro l'epoca globale in cui viviamo. Incontrerà tra pochi giorni a Cuba il Patriarca degli ortodossi di Russia per un futuro avvicinamento che probabilmente finirà con un sostanziale affratellamento tra quelle due Chiese cristiane. Poi visiterà il Messico, i poveri, i carcerati. Poi ci sarà un'altra riunione cui parteciperà anche il Patriarca ortodosso Bartolomeo che rappresenta gli ortodossi del Medio Oriente dalla sua sede di Costantinopoli. Infine, a fine ottobre, Francesco incontrerà in Svezia i rappresentanti di tutte le Chiese luterane sparse nel mondo a cinquecento anni di distanza dalla riforma di Martin Lutero, puntando da entrambe le parti a superare le differenze riconoscendosi fedeli
in Cristo. E noi balbettiamo sull'unità dell'Europa? E non smettiamo di riaffermare la nostra isolata autonomia? Ognuno per sé e Dio per tutti? Il vero slogan dovrebbe essere: poiché Dio è spiritualmente per tutti anche noi politicamente lo siamo.
 
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07 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/07/news/ma_renzi_vuole_un_ministro_del_tesoro_europeo_-132883337/?ref=HRER2-1



Titolo: EUGENIO SCALFARI. A chi dà fastidio il superministro Ue
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 10, 2016, 12:07:47 pm
A chi dà fastidio il superministro Ue

Di EUGENIO SCALFARI
10 febbraio 2016

Domenica scorsa avevo anticipato la notizia che i due governatori delle Banche centrali di Germania e Francia avevano proposto la creazione d'un ministro del Tesoro unico per i paesi dell'Eurozona, ipotesi già formulata da Mario Draghi e motivata dalla situazione di crisi economica e sociale non soltanto europea ma di tutto il mondo. Per l'Europa tuttavia quella proposta aveva ed ha una motivazione aggiuntiva e ancora più determinata: un ministro del Tesoro unico non è limitato a render più forte la politica di crescita ma rappresenta anche un passo avanti verso gli Stati Uniti d'Europa, obiettivo fondamentale per affrontare i problemi d'una società globale come quella nella quale ormai da tempo viviamo.

Quando ho anticipato la notizia del documento stilato e firmato da quei due governatori disponevo soltanto d'una sintesi dell'articolo da loro pubblicato sulla Süddeutsche Zeitung e su Le Monde, ma ora ne ho sottomano il testo integrale, ufficialmente tradotto anche in italiano ed anche nelle altre lingue dei principali paesi dell'Ue. Vale la pena dunque di ritornarvi poiché approfondisce, dal punto di vista dei due banchieri in questione, la nostra crisi in corso e le varie possibilità di porvi riparo.

È opportuna tuttavia un'osservazione preliminare: il governatore della Banca centrale tedesca (Bundesbank) non è affatto un fautore della politica monetariamente espansiva adottata da Draghi; nel Consiglio della Bce rappresenta la minoranza dissenziente. Quanto al banchiere francese, il suo Paese continua ad essere dominato da quel mito della "grandeur" ormai terribilmente invecchiato ma al quale la Francia non sa e non vuole rinunciare; nonostante quel mito, la Banque de France sponsorizza la creazione del ministro del Tesoro europeo che comporterebbe per il suo governo una rinuncia di sovranità mai pensata.

La cosa che mi ha stupito in questi ultimi tre giorni è il silenzio totale delle varie stazioni televisive su questo tema e così pure quella di quasi tutti i giornali. Siamo stati i primi e i soli a dare la notizia e ad esaminarla. Ci fa piacere ma è comunque stupefacente.

***

Il testo integrale dell'articolo firmato dai due governatori, pubblicato integralmente nel nostro giornale di ieri, esamina meticolosamente la natura e le cause della crisi che sta ormai dilagando non solo in Europa ma anche in Russia, in Cina, in Brasile, in India, in Giappone, in Indonesia. E poi lancia la proposta del Tesoro dell'eurozona.

La materia è molto complessa e la riassumo così: questo rafforzamento dell'eurozona consentirebbe una politica di crescita diffusa in tutti i paesi che ne fanno parte. Quella politica cioè che la Bundesbank e il governo della Merkel hanno fin qui avversato. Questo passo dell'articolo merita una citazione.

"Si tratta d'un programma ambizioso di unione dei finanziamenti e degli investimenti. Infatti una delle sfide principali riguarda il prodursi d'un risparmio abbondante che non viene sufficientemente mobilitato per investimenti produttivi. L'Europa può fare di più per colmare questo divario. L'emissione di azioni come strumento di finanziamento delle imprese sembra l'evoluzione più promettente. Oggi è la metà degli Stati Uniti mentre il debito è il doppio... L'asimmetria tra sovranità nazionale e solidarietà comune costituisce una minaccia per la stabilità della nostra Unione monetaria. Una maggiore integrazione e una condivisione di sovranità e dei poteri a livello europeo dell'eurozona comporta una più grande responsabilità democratica".

I due firmatari della proposta in questione non si nascondono tuttavia che potrebbe non essere accettata dai diciannove governi dell'eurozona e ancor di più se fossero chiamati a valutarla anche i ventotto membri dell'Unione europea.

Qual è in tal caso l'alternativa? Eccola: "Un apparato decentralizzato, fondato sulla responsabilità individuale dei singoli Stati nazionali comporterebbe regole più stringenti, a cominciare dal fiscal compact e così pure il rischio delle esposizioni debitorie degli Stati... Andare in questa direzione consente di conservare la sovranità nazionale, con un livello di solidarietà inevitabilmente più basso e un riequilibrio tra responsabilità e controllo".

È un po' oscura la descrizione di questa alternativa al ministro del Tesoro unico, ma la sostanza comunque è chiarissima: se non si vuole rinunciare alla sovranità nazionale, allora le regole europee sui debiti sovrani e sulla flessibilità dovranno inevitabilmente diventare più rigide. Addio crescita diffusa, rigore e austerità torneranno ad imporsi.

Quale sarà la scelta tra queste due opzioni?

***

Se facciamo funzionare la logica e una certa conoscenza della crisi che ci circonda e ci incalza, credo che il governo tedesco sia favorevole al Tesoro unico dell'eurozona. Gli consentirebbe di uscire dalla politica del rigore che attualmente la Germania non adotta per la propria economia ma di fatto impone alle altre nazioni.

Il governatore della Bundesbank lo fa capire nel finale del documento. Finora la Merkel gli ha lasciato carta bianca ma di fatto è stata d'accordo con Draghi. Adesso sta con tutti e due perché su questo punto hanno lo stesso obiettivo. Attenzione però: se l'obiettivo non sarà raggiunto, allora la diatriba tra Bundesbank e Draghi tornerà e in questo caso la Bundesbank sarà più forte e la cancelliera l'appoggerà.

E Renzi? Che cosa farà il nostro presidente del Consiglio finora è un mistero. È impegnato sulla legge per le unioni civili, materia anch'essa molto importante che lo mette alla testa del fronte laico. L'esito è incerto ma il Pd è compatto con lui. Il fatto è positivo e per quel che vale gli auguriamo piena vittoria. Verrà però il momento - subito dopo - d'affrontare il tema del Tesoro unico per i paesi membri dell'eurozona. Ci auguriamo che Renzi faccia proprie le proposte di Draghi e dei due capi della Bundesbank e della Banque de France, ma temiamo di no. Il presidente del gruppo socialista al Parlamento europeo, che è l'italiano Pittella, ci ha mandato una lunga lettera nella quale, apparentemente, plaude alla creazione del ministro del Tesoro unico. Ma la sostanza di quella lettera (probabilmente concordata con Palazzo Chigi) è del tutto diversa. Il ministro del Tesoro unico non riguarda l'eurozona ma tutta l'Unione e altro non è che uno dei commissari della Commissione che dovrebbe avere le mansioni di Moscovici lievemente rafforzate. I suoi poteri sarebbero comunque di competenza della Commissione, del Parlamento di Bruxelles e, ovviamente, dei 28 paesi che siedono nell'Ecofin. Il fatto che gli diano quel nome non conta niente. Sarebbe più o meno, in fatto di economia, quello che la Mogherini è in fatto di Difesa e politica estera: consulente, presente ad alcune riunioni dei ministri nazionali. Ma Gentiloni gestisce la politica estera italiana e non certo la Mogherini.

Insomma non volete perdere un grammo di sovranità. Piuttosto sia lui, quel finto ministro del Tesoro, ad aiutarvi per ottenere maggiore flessibilità.

Attento però, egregio premier: il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, è stato molto chiaro su questo punto: il rigore imposto dalla Germania aumenterà, il debito sovrano sarà più sorvegliato e le procedure contro le infrazioni aumenteranno. Pagheremo un prezzo alquanto salato per consentire che la sovranità italiana non venga minimamente toccata.

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10 febbraio 2016

da - repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le onde di gravità cambiano da Einstein fino a Renzi
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 14, 2016, 11:07:36 am
Le onde di gravità cambiano da Einstein fino a Renzi

Di EUGENIO SCALFARI
14 febbraio 2016
   
Quella appena conclusa e quella che seguirà sono settimane mai vissute prima d'ora, almeno negli ultimi trent'anni. Credo sia dunque necessario un elenco per ordine di importanza e al primo posto credo si debba mettere la conferma ottenuta nei giorni scorsi da due équipe di ricercatori scienziati americani ed europei per quanto riguarda le onde gravitazionali, immaginate e predette cent'anni fa da Albert Einstein ma fino ad ora mai dimostrate.

I giornali hanno dato ampia notizia dell'avvenuta conferma ed anche hanno tentato di mettere in chiaro il suo significato; secondo me però in questo non sono riusciti. Personalmente ho avuto la fortuna di innamorarmi a diciott'anni dei libri di Einstein. Li ho letti quasi tutti e hanno contribuito alla mia formazione mentale. Perciò tenterò adesso di spiegare con brevità e chiarezza il significato di questa scoperta finalmente dimostrata.

La struttura gravitazionale è un equilibrio che cambia di continuo di attimo in attimo, quando i corpi celesti, ciascuno dei quali ha una sua propria densità, entrano in contatto e il corpo più denso attira quello più leggero fino a modificare le orbite della gravitazione e talvolta addirittura a inghiottirlo.

Questi fenomeni avvengono continuamente in ogni punto dell'universo e modificano la struttura gravitazionale ripercuotendone gli effetti sullo spazio che li circonda sia dal punto di vista della macrocosmica che da quello della microcosmica, dagli astri alle particelle elementari che viaggiano in tutto l'universo cambiando di continuo i loro rapporti specifici e quelli con la curvatura spazio-temporale.

Questo è quanto avviene e la conclusione è che l'universo è cangiante. Se vogliamo applicare queste verità scientifiche ai valori che interessano più da vicino la nostra specie, ne deduciamo che il potere domina l'universo intero, le sue densità, le sue gravitazioni, le sue velocità fino a quando quel potere passerà di mano ad altri corpi celesti, ad altri buchi neri, ad altre stelle e galassie. Ma la natura cangiante non avrà nessuna modifica: il cambiamento resta agganciato alle onde gravitazionali. A queste conclusioni Einstein era già arrivato nel 1915. Prima di lui Copernico e Galileo avevano dato inizio alla storia della scienza nuova che sta attualmente continuando.

Il secondo evento di questi giorni è stato l'abbraccio di papa Francesco con Kyril, il patriarca ortodosso di tutte le Russie. Sarà un percorso lungo ma finalmente è cominciato. E porterà prima o poi all'affratellamento di tutte le religioni cristiane all'insegna del Dio unico e del Cristo, sua incarnazione.

Ho già più volte ricordato che il prossimo 31 ottobre Francesco incontrerà i rappresentanti di tutta la Chiesa luterana per siglare la pace dopo mezzo millennio di guerre religiose. Ciò che penso di questo Papa è noto: un profeta, un rivoluzionario, un diplomatico, un politico, un gesuita e un devoto di Francesco d'Assisi. Il suo vero Vangelo è quello che dettò al Santo il "Cantico delle creature". La fede del santo era quella ed è quella che gli accomuna il Papa che ha preso il suo nome. Ama tutti, a cominciare dai poveri, dai deboli e dagli esclusi. Se c'è una persona che oggi rappresenta il cambiamento è lui. Tuttavia l'obiettivo di comprendere la modernità e avviare la Chiesa missionaria a predicare e incoraggiare la vocazione del bene rispetto a quella del male, accade talvolta che ci sia una retroguardia desiderosa di rallentare se non addirittura di fermare questa visione della Chiesa missionaria. Un segnale di questi problemi è avvenuto pochi giorni fa: la dichiarazione del cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, sulle modalità che il Senato deve adottare a suo avviso per impedire le adozioni alle coppie omosessuali.

Bagnasco ha provocato una reazione molto ferma e veramente giustificata dai rappresentati dello Stato laico italiano, Renzi e i presidenti del Senato e della Camera. Quanto a Francesco, per lui ha parlato l'arcivescovo Galantino, segretario della Cei, il quale ha preso con la necessaria diplomazia le distanze da Bagnasco. Era la voce di Francesco per interposta persona.

Così l'incidente è chiuso. È augurabile che Bagnasco privilegi la preghiera e tenga conto che se la retroguardia non solo cerca di rallentare i processi di cambiamento in corso nella Chiesa ma addirittura si inoltra su un percorso completamente diverso, allora volutamente esce da questa Chiesa missionaria e sinodale.

Il mio ultimo tema riguarda la politica e l'economia in Italia e in Europa. Riguarda soprattutto la lettera che Renzi ci ha inviato e che è uscita su questo giornale giovedì scorso. Nelle prime righe il presidente del Consiglio si rivolge a me e lo fa con gentilezza cortese. Lo ringrazio, ne sono onorato e - fatta questa premessa - vengo ai fatti e alle considerazioni che meritano di essere esposte.

***

Primo: la legge sulle Unioni civili, i diritti che vengono riconosciuti, le coppie omossessuali, le adozioni dei figli naturali del partner o di figli contrattati con donne che affittano l'utero in cambio di adeguate ricompense. Questa è la materia sulla quale si discute ma sull'ultimo punto il governo è decisamente contrario e anzi si propone di estendere la nostra posizione proponendone l'approvazione da parte dell'Onu.

A parte il tema dell'utero in affitto, su tutto il resto il governo è fermissimo e vuole ottenere al più presto l'approvazione di entrambe le Camere.

Ho detto il governo, ma debbo modificare: è Renzi che vuole e una parte rilevante del suo partito, con qualche voto in più proveniente da senatori e deputati di altri gruppi. Contro la legge Cirinnà, che è il testo base su cui si discute e su cui si voterà, ci sono invece riserve e contrasti con la componente cattolica del Pd, con la Nuova destra di Alfano e con le opposizioni di destra. Grillo è d'accordo su molte norme ma contrario su altre. E poi ci saranno alcune votazioni segrete che potrebbero capovolgere gli schieramenti emersi dai voti palesi.

Renzi per ora è fermo su tutto (salvo l'utero in affitto) ma ha preso qualche giorno in più di tempo per riflettere. È possibile che la settimana prossima conceda qualcosa che plachi sia Alfano sia i cattolici del Pd.

Personalmente ritengo che stia operando molto bene su questo tema e anche se farà qualche piccola concessione, sarà comprensibile. L'importanza viene dal fatto che con un ritardo di trent'anni da quando il tema delle Unioni civili si pose, ci sarà finalmente un governo che sarà stato capace di realizzare l'obiettivo. È una battaglia di civiltà e di modernità e questo merito a Renzi ed ai suoi collaboratori va riconosciuto.

***

Ed ora il secondo tema, che a differenza del primo riguarda l'assetto economico e politico dell'Europa e dell'Italia nell'ambito europeo. Il tema ha preso il via da una proposta di qualche tempo fa, formulata da Mario Draghi nella sua qualità di presidente della Bce e dalla pubblicazione avvenuta pochi giorni fa di un documento firmato dai governatori della Banca centrale tedesca e di quella francese, di cui il nostro giornale ha pubblicato il testo integrale, uscito sulla Süddeutsche Zeitung e su Le Monde.

La proposta di Draghi prevede la creazione di un ministro del Tesoro europeo, incardinato nell'Eurozona. I poteri sarebbero esattamente quelli di un ministro del Tesoro: un bilancio da amministrare, un debito sovrano da gestire, la facoltà di emettere titoli del Tesoro, facilitare l'emissione di azioni da parte delle imprese, il finanziamento di investimenti pubblici, una politica di crescita e di stretto coordinamento tra le economie dei 19 paesi dell'Eurozona. Ed anche d'essere l'interlocutore diretto della Bce che finalmente, come le Banche centrali di tutti gli Stati, avrebbe un solo riferimento e non 19 come finora avviene o addirittura 28 come alcune volte è già avvenuto.

Inutile dire che una riforma del genere è subordinata ad una cessione di sovranità dei 19 paesi dell'Eurozona e forse addirittura dei 28 dell'Ue ed è altrettanto inutile sottolineare che una novità del genere rappresenterebbe un passo della massima importanza per realizzare l'obiettivo degli Stati Uniti d'Europa che fu alla base dell'europeismo di Spinelli, Rossi, Colorni, con un principio d'attuazione che portò alla Comunità del carbone e dell'acciaio e poi ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità europea, poi Unione e infine, nel 2000, alla moneta comune.

Ebbene, a questa proposta, della quale mi ero permesso di incoraggiare Renzi di farla propria e a sostenerla, la risposta del presidente del Consiglio è stata negativa. Non ha escluso che in un lontano futuro possa diventare realizzabile, ma non ora. I problemi di oggi riguardano molti temi, primo tra tutti quelli degli immigrati e del Califfato terrorista. Ma riguardano anche soprattutto la politica di crescita e di flessibilità che ogni paese deve perseguire con i propri criteri, rispettando ma forzando in qualche modo le regole europee e sottolineando l'autonomia di ciascuno Stato nazionale. Di qui il dissenso con Juncker, con la Commissione di Bruxelles, con la Germania e il suo rigore che secondo Renzi può forse giovare alla Germania ma non certo agli altri paesi dell'Unione.

Bene. Anzi male. Personalmente sono rimasto deluso dall'atteggiamento di Renzi. Pensavo che capisse l'importanza politica della proposta Draghi, tanto più che nel frattempo era avvenuto un altro fatto, prevedibile e infatti previsto: i due firmatari del documento in favore della tesi Draghi avevano formulato nel documento suddetto una alternativa: qualora la creazione d'un ministro del Tesoro non fosse stata accettata, si sarebbe dovuti tornare ad una politica più meticolosa delle regole emanate dalla Commissione e approvate dal Parlamento, con un controllo più rigoroso delle politiche nazionali, nella gestione dei rispettivi debiti, nel deficit rispetto al Pil, nella produttività industriale e insomma ad una crescita abbinata al rigore.

Molti ritengono (ed io tra questi) che questa fosse la vera motivazione di quel documento. In realtà il governatore della Bundesbank, con l'aiuto del fraterno suo amico della Banque de France, aveva usato la mossa pro-Draghi perché sapeva che non sarebbe stata approvata proprio per l'opposizione degli Stati nazionali a cedere sovranità su un tema di quell'importanza. Questa mossa rafforzava la loro posizione diventando protagonisti di una politica del rigore.

Questo è il quadro. Che cosa dovrebbe fare Renzi? Forse non mi ero spiegato bene o forse lui non ha capito, perciò brevemente mi ripeterò.

***

Renzi sa che la proposta Draghi per ora non passerà perché i diciannove Stati dell'Eurozona diranno di no. Non solo: con loro ci sarà anche il governo di Gran Bretagna come ha già preannunciato Cameron il quale come condizione per aderire alle proposte di rafforzare i vincoli con l'Europa, chiede che il suo governo possa intervenire anche quando si discute dell'euro. Questa sua richiesta è ritenuta inconcepibile da un gruppo di grande autorevolezza in una denuncia pubblicata ieri da Repubblica e firmata da personaggi come Bini Smaghi, Saccomanni, Toniolo, Tosato, e parecchi altri. È concepibile che il governo inglese amministri la sterlina e la più grande Borsa del mondo insieme a Wall Street, ed abbia anche il potere di dettar legge sulla sorte dell'euro? Il vantaggio di Renzi a sostenere la proposta Draghi è evidente: il Tesoro dell'Eurozona per ora non si farà ma sostenere decisamente quell'ipotesi darebbe all'Italia un ruolo di ben altro livello che quello di rivendicare autonomia: ce la concederanno tutt'al più col contagocce. L'Italia diventerebbe l'alternativa europea e potrebbe rivendicare il ruolo di interlocutore col fascio di luce che le viene dal Manifesto di Ventotene, da un passato di avanzamento sia pur lento verso l'Europa federale, che prima o poi dovrà comunque essere realizzata in una società globale dominata da Stati di dimensioni continentali.

Ricordi, Matteo Renzi, la legge gravitazionale di Einstein e si comporti in conformità. Questo mi auguro e soprattutto gli auguro.


"Sull'orlo del precipizio / giochiamo danzando
sull'orlo del precipizio / giochiamo sorridendo 
e sull'orlo del precipizio / continua l'orizzonte / di chi continua a restare".

Fernando Pessoa, 1927.

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14 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/14/news/eugenio_scalfari_einstein_renzi-133389860/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Se Renzi impugna la bandiera europea di Spinelli
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 28, 2016, 11:53:36 pm
Se Renzi impugna la bandiera europea di Spinelli
Il premier prenda ora l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo e consolidi l'identità di vedute con Mario Draghi

Di EUGENIO SCALFARI
28 febbraio 2016
   
IL DIBATTITO tuttora vivacemente in corso dopo l'approvazione in Senato della legge Cirinnà sulle unioni civili, era prevedibile: in Parlamento sono presenti numerose posizioni politiche e non più, come accadeva nel Novecento repubblicano, un centro democristiano con una spolverata di piccoli partitini laici, una destra fascistoide molto minoritaria e una sinistra comunista. Ora le posizioni sono molte, la politica è estremamente frazionata non solo in Italia ma in tutta Europa, come ha analizzato con meticolosa completezza Ezio Mauro su queste pagine venerdì scorso.

Non so fino a che punto questo dibattito interessi l'opinione pubblica italiana. Direi che interessa poco, eravamo in vergognoso ritardo rispetto a tutti gli altri Paesi d'Europa e d'America e il risultato ottenuto dal Pd di Renzi rimette finalmente a posto una situazione ormai insostenibile riconoscendole diritti finora ingiustamente ignorati. Renzi ha scelto, dopo qualche tentennamento, la via giusta per vincere con una larga maggioranza di voti: lo stralcio delle adozioni per far passare finalmente la legalizzazione delle coppie di fatto e unioni civili etero e omosessuali. Non poteva far meglio.

La discussione sulla fedeltà è ridicola. È evidente che non toglie assolutamente nulla alle coppie di fatto: la fedeltà c'è o non c'è e non esiste norma di legge che tenga se viene interrotta. Spesso l'interruzione è ignorata dall'altro coniuge o convivente che la subisce e il rapporto di coppia continua inalterato. Oppure è nota e il rapporto s'interrompe. Le coppie di fatto non possono ricorrere al divorzio ma questo è un regalo, si limitano ad informare l'autorità amministrativa che il loro rapporto ha cessato di esistere con le conseguenze amministrative che la cessazione comporta.

L'altro tema di discussione - che impegna soprattutto la sinistra del Pd - è il contributo di Verdini e del suo gruppo alla vittoria renziana. Ma anche questa critica mi sembra priva di fondamento. Se la sinistra ha accettato che Alfano facesse parte della maggioranza di governo, non si vede perché non possa accettare Verdini che è perfino più ragionevole di Alfano. Una nuova destra non populista e non berlusconiana è un tentativo ancora in una fase iniziale che sarebbe da incoraggiare, così come la Dc di Aldo Moro si alleò con i socialisti di Pietro Nenni e poi alcuni anni dopo addirittura con il Pci di Berlinguer, non solo per affrontare in forze tempi assai oscuri (quelli attuali non sono oscuri ma neri come l'inchiostro) ma anche per aiutare la nascita d'una destra moderna alla quale in un futuro auspicabilmente prossimo si fosse contrapposta una sinistra riformatrice. La separazione di Alfano da Forza Italia fu incoraggiata da Monti e da Enrico Letta, la cui tempra democratica di sinistra non è mai stata in discussione.

Dunque il preteso scandalo Verdini, a mio avviso, è inesistente e la discussione è oziosa. Il problema semmai è un altro: è di sinistra il Pd guidato da Renzi? E che cos'è la sinistra del ventunesimo secolo? Nell'Europa e nell'Italia di oggi? Questo dunque dovrebbe essere il tema da discutere. In questo chiassoso e confuso dibattito il termine più ricorrente è stato "famiglia", soprattutto da chi, dichiarandosi cattolico, avversava ogni riforma che in qualche modo intaccasse la solidità e l'unicità di quella tradizionale istituzione. È certamente vero che tutti noi usiamo il termine famiglia per designare la coppia di uomo e donna che ha celebrato il matrimonio e i figli che ne sono nati, ma quella parola non è appropriata né storicamente né religiosamente.

Storicamente il termine famiglia ha sempre designato non una ma molte più numerose comunità. Nella Roma classica la famiglia si identificava col nome del capo e comprendeva non soltanto i parenti anche lontani ma i "clientes", le persone che stabilmente lavoravano, i beni materiali che ne componevano il patrimonio, i servitori e gli schiavi. Quella famiglia aveva anche il nome, la gens Claudia o Giulia o Flavia o Marcia; insomma un'infinità di famiglie che costituivano la casta senatrice degli Ottimati. Ma ci sono anche le famiglie mafiose, anche quelle sono una casta che prende il nome del boss. Religione: Gesù odiava la famiglia e lo diceva pubblicamente fin dall'inizio della sua predicazione come raccontano almeno due dei vangeli sinottici. Infine anche un'unione di fatto, etero o omosessuale, può usare il termine di famiglia, lessicalmente è corretto, è una comunità di due persone ed i loro eventuali figli, naturali o adottivi.

Oltre ad avere ben meritato con la legislazione delle coppie di fatto e delle unioni civili, Renzi ha modificato in modo sorprendente la sua visione del futuro dell'Europa. Non posso nascondere che questo cambiamento mi fa molto piacere ed è venuto in modo assai repentino. Ancora l'11 febbraio scorso, in una lettera a me diretta e pubblicata su Repubblica, rispondendo alla proposta da me più volte sostenuta sulla necessità di istituire un ministro del Tesoro unico che gestisse le finanze dell'Eurozona, con un bilancio autonomo, un debito sovrano, il potere di emettere eurobond per finanziare investimenti pubblici e incentivare quelli privati, la lettera di Renzi dice: "La risposta ad una politica di rigore che fa soltanto danni, non è un superministro delle Finanze, ma la direzione della politica economica". Sono passati pochi giorni e Renzi ha presentato alle autorità europee un documento di nove pagine diviso in tre punti e una conclusione.

Il primo punto è intitolato: "A Fragile Recovery: Challenges and Opportunities " (è redatto in inglese). Il secondo punto è intitolato: "A Comprehensive Policy Mix". Dove si descrive un complesso di misure che realizzino una politica espansiva al posto di quella di austerità e rigore fin qui imposta dalla Commissione (e dalla Germania). Bisogna aumentare le capacità di crescita, sostenere la politica monetaria della Bce, varare una politica fiscale europea che tenda a riequilibrare le politiche nazionali aiutando la loro flessibilità in modo da ristabilire tra loro un equilibrio attualmente molto alterato. Completare l'Unione Bancaria ed estendere le garanzie in favore dei depositi bancari dei singoli Paesi. Fare intervenire l'Europa anche nelle politiche sociali e sindacali dei singoli Paesi, sempre al fine di rafforzare l'integrazione europea ed una politica di crescita e di equità. Rafforzare i confini europei verso il resto del mondo e smantellare al più presto possibile i confini interni ripristinati in molti Paesi violando il patto di Schengen. Dunque una politica comune dell'immigrazione più volte chiesta dall'Italia ma finora inesistente.

Infine il punto tre del documento che rappresenta, con un titolo altamente significativo, lo sbocco istituzionale della politica europeista delineata nelle pagine precedenti: "From the Short-term to the Long-term View" e così prosegue: "Una più forte comune politica monetaria ha bisogno di istituzioni comuni. Abbiamo bisogno d'una comune casa europea adottando un sistema comune. Queste funzioni debbono essere gestite da un ministro delle Finanze dell'Eurozona che persegua una comune politica fiscale. A questo scopo abbiamo bisogno d'un bilancio dell'Eurozona dotato delle risorse necessarie. Naturalmente questo ministro deve essere politicamente dotato di poteri per svolgere questo ruolo. Un ministro del genere deve far parte della Commissione europea e deve avere forti legami con il Parlamento di Bruxelles". Debbo dire: mi sono stropicciato gli occhi a leggere queste nove pagine del documento, la loro conclusione e il titolo che è tutto un programma. Bisogna passare da una politica a breve termine ad una visione a lungo termine: una frase nella quale c'è qualcosa che somiglia molto agli Stati Uniti d'Europa.

Sembrava che Renzi fosse andato inutilmente a Ventotene e invece il messaggio contenuto nel Manifesto firmato da Spinelli, Rossi e Colorni è stato, almeno così sembra, fatto proprio da Renzi che non si limita a invocare una politica di crescita e flessibilità economica, ma sceglie anche una bandiera che guidi l'opinione pubblica europeista e i governi che decidano di rappresentarla verso un radicale mutamento delle istituzioni: la visione di lungo termine, che però non può essere attesa senza darle subito un avvio. Bisognerà accendere una serie di motori e quello iniziale che dia inizio al percorso. Così accadde negli anni del dopoguerra con Adenauer, De Gasperi, Monnet, Schuman. Allora nacque la Comunità del carbone e dell'acciaio e furono firmati nel 1957 i Trattati di Roma. Assumere come guida politica quella bandiera dà all'Italia uno status politico completamente diverso da quello avuto finora. Non più un monello che chiede concessioni alla spicciolata, un miliardo per un progetto, un altro miliardo per un'iniziativa, alternando sorrisi e insulti alla maniera d'un questuante, ma rivendicando il progetto che fu fatto proprio dai fondatori dell'Europa ma che aspetta ancora d'essere attuato.

Se Renzi ha scelto sul serio questa strada, che non sarà certo di rapida attuazione, il suo compito è di prendere l'iniziativa di un'intesa dei Paesi che condividono l'obiettivo, consolidare l'identità di vedute con Mario Draghi affinché il motore politico si sposi a quello economico e monetario e ponga alla Germania il dilemma che quel Paese leader non può eludere. Aggiungo ancora che questo è anche il vero modo di rappresentare la sinistra. La domanda che prima ci siamo posti sulla vera natura della sinistra del ventunesimo secolo ha qui la sua risposta: la sinistra ha il compito di porsi l'obiettivo di costruire l'Europa federata che riformisti e moderati debbono far nascere insieme, come richiede una società globale governata da Stati di dimensioni continentali.

La sinistra italiana ed europea deve porsi alla testa di questo ideale e farne una concreta realtà dove le diseguaglianze siano rimosse e la produttività economica sia tutt'una con l'equità sociale, la comunione dei valori, il riconoscimento dei diritti e dei connessi doveri, la separazione dei poteri che garantiscano la nobiltà della politica e la democrazia. L'Inno alla gioia e la bandiera stellata europea, come ha proposto Laura Boldrini, divengano i simboli della Nazione Europa. Da questo punto di vista ben venga il Partito democratico se lotterà affinché la Nazione Europa diventi una realtà.

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28 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/28/news/se_renzi_impugna_la_bandiera_europea_di_spinelli-134401629/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 29, 2016, 06:23:31 pm
Quel padre fascista che non smise mai di credere nel mito del duce
Nel libro di Pierluigi Battista una vicenda familiare e politica


Di EUGENIO SCALFARI
29 febbraio 2016
   
Quando due mesi fa ricevetti dall'autore Pierluigi Battista il suo libro intitolato "Mio padre era fascista" con una dedica molto affettuosa (siamo amici da molti anni e seguo con interesse il suo lavoro di editorialista del "Corriere della sera") decisi di leggerlo e di recensirlo. Di solito non faccio questo mestiere, ma in questo caso il titolo mi intriga molto e poi dirò perché.

Sono passati due mesi, le celebrazioni prima dei sessant'anni dell'"Espresso" e poi dei quaranta di "Repubblica" mi hanno molto impegnato. Eventi dolorosi come la morte di Umberto Eco sono purtroppo sopravvenuti. Ma ora finalmente sono più sereno e posso adempiere al compito che mi ero proposto.

Il libro di Battista è edito da Mondadori, sviluppa 161 pagine e comincia con due esergo, uno dei quali di Ennio Flaiano merita di essere qui citato: "Famiglia romana con padre liberale e figlio maggiore comunista, minore fascista, zio prete, madre monarchica, figlia mantenuta: si sfidano tutti gli eventi (Frasario essenziale per passare inosservati in società)".

Ebbene, la vita di Pierluigi col padre fu esattamente l'opposto: un dramma psicologico profondo che dal padre fu trasmesso al figlio quando era ancora adolescente e che il padre aveva scelto come il solo cui confidare il proprio rovello, la propria rabbia, la propria disperazione contro l'Italia e gli italiani che erano stati (quasi) tutti fascisti durante il ventennio e poi si erano convertiti in massa all'antifascismo mettendo all'indice quei pochi, anzi pochissimi, che avevano mantenuto i loro ideali d'un tempo e per essi avevano pagato un altissimo costo sia negli anni in cui c'era il Duce a guidare il paese sia quando l'antifascismo era diventato una norma non solo delle leggi ma anche dei sentimenti popolari.

Scrive Pierluigi: "Mio padre erano due. C'era mio padre integrato. E c'era quello apocalittico. C'era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro e c'era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta risentimento e rabbia. C'era il conservatore e c'era il ribelle. C'era il professionista di successo, l'avvocato stimato nel mondo forense... e c'era l'uomo intimamente devastato da una storia che l'aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile... mangiato dentro da un'ossessione che non l'abbandonava mai... Io li ho conosciuti entrambi".


Queste parole scritte dall'autore nelle prime pagine del libro ne contengono la chiave. Pierluigi ha sofferto per anni di questa confidenza segreta col padre, che in famiglia gli altri figli probabilmente non conoscevano e che sua moglie (la madre di Pierluigi) credeva e sperava che il marito avesse abbandonato considerandola un errore di gioventù.

Pierluigi invece lo sapeva e il padre, per l'amore che aveva verso di lui, glielo aveva confidato e glielo ricordava quasi tutti i giorni. In più, Pierluigi scoprì, quando il padre era morto, un suo diario segreto dove erano raccolte frasi, slogan, brani di canzoni, aforismi, che emergevano casualmente dalla sua memoria e che annotava temendo di scordarsene.

Il padre continuò a confidarsi col figlio. Non cambiò neppure quando si accorse che Pierluigi, invece di condividere quella sua rabbia e condividerla con un'adesione intima, aveva invece tratto conseguenze del tutto opposte. Era diventato comunista e addirittura "gruppettaro". E poi, passata questa ventata di radicalismo di sinistra, era tuttavia un riformista democratico come del resto tutt'ora è e come anch'io l'ho conosciuto.

Suo padre - che conoscesse con esattezza queste sue posizioni politiche o le ignorasse perché Pierluigi non gliene aveva mai parlato - adottò comunque un altro modo di comunicare quella parte di sé che il figlio ha definito "apocalittica". Invece di proseguire con la rabbia e il desiderio di vendetta, cominciò ad additare al figlio le opere positive del regime: l'arte fascista e i grandi artisti che del fascismo si erano nutriti, a cominciare da Mario Sironi e dal futurismo in genere (lo stesso Giuseppe Bottai veniva dai futuristi e pubblicava la bellissima rivista Primato). E poi l'urbanistica e l'architettura, a cominciare dal caposcuola Marcello Piacentini e dalle sue opere. Lo portava a passeggio a via dell'Impero (lui la chiamava ancora col suo vecchio nome), in via della Conciliazione dove le casupole e i vicoli del Borgo erano state distrutte da un sontuoso accesso alla basilica di San Pietro; e poi la costruzione dell'Università dell'Urbe, del Foro Mussolini con il suo obelisco, di alcune grandi ville patrizie dentro e fuori Roma, a cominciare dall'unificazione tra il Pincio e Villa Borghese. E Littoria e le paludi pontine sostituite da terre fertili e da Sabaudia, fino ad Anzio e al Circeo.

Insomma l'aspetto positivo del fascismo. E le sue canzoni che di tanto in tanto canticchiava in casa: Roma rivendica l'impero, Le donne non ci vogliono più bene, Si và sul vasto mar e tante altre. La famiglia lo udiva cantare quelle canzoni ma non ne faceva un problema, erano ricordi piacevoli d'una piacevole gioventù.

In parte era così, ma soltanto in parte. Pierluigi sapeva che cosa c'era dentro quei ricordi: a 22 anni il padre era partito volontario per combattere una guerra nazionale; era stato fatto prigioniero in Grecia ed aveva scontato oltre un anno di prigionia.

Tornato in Italia s'era trovato dinanzi ad una guerra civile ed aveva scelto di parteciparvi; dopo due anni di battaglie contro i "resistenti" in difesa della patria fascista (la sola che per lui esisteva) era stato preso prigioniero a guerra finita e relegato nel campo di concentramento di Coltano, dopo aver rischiato la fucilazione. A Coltano due anni di inferno e infine la liberazione, disposta dal governo antifascista e appoggiata da Togliatti per pacificare gli animi in nome della nuova Italia democratica. Ma questa motivazione aveva gettato altro fiele nell'anima del ribelle che vi aveva visto un'ipocrisia tesa ad acquistar consenso.

Battista ha vissuto questo dramma fino in fondo e soltanto negli ultimi anni della vita del padre una maggiore tranquillità era entrata nell'anima sua. Aveva ormai una solida posizione professionale, una famiglia, una sua vita ed anche il padre nei suoi ultimi anni sembrava aver placato il suo dramma interno godendo il benessere conquistato col suo lavoro.

Anche questa storia, come molte altre, è sembrata esser finita bene, ma la scoperta del diario intimo del padre, con annotazioni scritte poco prima di morire, ha dato a Pierluigi il dolore che era scomparso o almeno attenuato. E così ha deciso di scrivere questo bellissimo libro che ho qui cercato di raccontare. Ma l'ho fatto anche per un'altra ragione: anch'io sono stato fascista, come del resto ho più volte raccontato. Sicché la lettura del libro di Pierluigi mi ha indotto a considerare quello stesso mondo cui ho partecipato per dodici anni di seguito, da quando sono andato alla scuola elementare e sono automaticamente entrato a far parte come balilla delle organizzazioni giovanili fasciste, fino a quando fui espulso dal Guf per un articolo scritto su Roma fascista, settimanale del Guf dell'Urbe al quale collaborai per due anni.

Il libro di Pierluigi mi ha fatto di nuovo tornare in mente quei miei anni di fascismo che vennero poco dopo quelli del Battista padre. Lui partì per la guerra, nel 1940; io fui espulso dal partito fascista nel '43 e vi ero entrato nel 1931.

Non starò qui a raccontare come vissi quel periodo, negli anni in cui frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi di nuovo a Roma quando entrai all'Università nel '41. Dirò soltanto che la mia appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce era il Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva cantato a squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò, anch'io le ho cantate e di tanto in tanto capita anche a me di ricanticchiarle adesso. Ma c'è una differenza di fondo tra la mia storia e quella del Battista padre.

Ai tempi miei c'erano già, ma forse c'erano sempre state, due o tre diverse "correnti" nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.

C'era una corrente di "fascismo muscolare" rappresentata da Roberto Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine un'altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi, dopo la caduta di Salò e l'arrivo della democrazia in Italia, diresse Il Borghese.

Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di me questa considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale del partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell'articolo.

Così diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici un'apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf. Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel colloquio terminato con la mia espulsione mi aveva strappato le spalline della divisa che indossavo e se l'era messe sotto i piedi calpestandole, la mia uscita e la mia "conversione" durarono quattro giorni e non l'intera vita.

© Riproduzione riservata
29 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/02/29/news/nel_libro_di_pierluigi_battista_una_vicenda_familiare_e_politica-134454294/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corr
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2016, 07:17:27 pm
Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere

Di EUGENIO SCALFARI
06 marzo 2016

Ricordo ancora quando nell'autunno del 1975 feci una sorta di tour nelle sale teatrali delle principali città italiane per presentare pubblicamente il futuro giornale quotidiano "la Repubblica" che sarebbe uscito nelle edicole il 14 gennaio del 1976. "Dall'alpi alle Piramidi", scrisse il poeta. Più modestamente io andai da Torino a Palermo, da Milano a Bari, da Reggio Calabria a Bologna, a Firenze, a Verona, a Padova, a Catania, a Genova, insomma dappertutto, concludendo al teatro Eliseo di Roma.

Dopo aver esposto le caratteristiche più interessanti del futuro giornale, a cominciare dal formato che era per l'Italia un'assoluta novità e il cosiddetto palinsesto, cioè la collocazione dei diversi argomenti, l'abolizione della classica terza pagina, il trasferimento delle pagine culturali al centro e una sezione economica che chiudeva il giornale, la parola passava al pubblico e le domande fioccavano. Quante pagine? Trentadue. Quali sono i temi esclusi? Le cronache locali, la meteorologia, lo sport. Anche lo sport? Sì, anche lo sport. Ed infine: qual è l'obiettivo editoriale? Superare tutti gli altri giornali. Anche il "Corriere della Sera"? Sì, anche il Corriere, anzi l'obiettivo è proprio quello.

Il pubblico accoglieva quest'ultima risposta da un lato ridendo e dall'altro applaudendo. E poi, giù il sipario.

L'inseguimento durò esattamente dieci anni: nel 1986 raggiungemmo e superammo il Corriere nonostante che, sotto la direzione di Piero Ottone, avesse raggiunto il massimo delle sue vendite.

E nonostante avesse adottato una politica di neutralità nei confronti del partito comunista che fin lì era stato la bestia nera del giornale di via Solferino, da custodire ideologicamente in una gabbia del giardino zoologico o in un ghetto dal quale non si può né entrare né soprattutto uscire.

Dieci anni sono appena un baleno per superare un giornale che esisteva esattamente da cent'anni quando Repubblica vide la luce.

L'altro ieri il Corriere della Sera ha giustamente celebrato i suoi 140 anni pubblicando un supplemento molto interessante che contiene l'elenco di tutti i direttori. Innumerevoli, a cominciare dal fondatore che si chiamava Eugenio Torelli Viollier e soffermandosi soprattutto su Luigi Albertini che di fatto lo rifondò nel 1900 e lo diresse fino al 1921 quando, nominato senatore del Regno, ne lasciò la guida al fratello continuando però a scriverci articoli di un coraggioso antifascismo, ancorché lui, Luigi Albertini, fosse un liberal-conservatore di un antisocialismo a prova di bomba e quindi, dal '19 al '22, sostanzialmente non ostile alle squadre che incutevano timore alle "Case del popolo", così come era stato un fiero interventista nella guerra del '15, appoggiando D'Annunzio che ne era la bandiera.

Centoquarant'anni da un lato e quaranta dall'altro; una miriade di direttori da un lato e tre (il terzo dei quali è però arrivato da poche settimane) dall'altro. Che cosa è accaduto nel periodo di convivenza e di concorrenza tra le due testate? Come è cambiato il paese, l'opinione pubblica, il costume e quale è stata la funzione dei due giornali nell'influenzare quell'opinione ed esserne al tempo stesso influenzati?

***

Il Corriere della Sera è sempre stato il giornale del capitalismo lombardo: produttività, profitto da reinvestire, "fordismo" come allora si diceva, salari soddisfacenti e aggrappati alla produttività della manodopera che alimentava la domanda, dialettica severa con i sindacati, antisocialismo e soprattutto anticomunismo, atteggiamento filogovernativo sempreché i governi in carica aiutassero gli investimenti privati con appositi e tangibili incentivi che facessero funzionare a dovere i servizi pubblici; fiscalità proporzionale e non progressiva, commercio con l'estero libero nei settori nei quali la nostra economia era in grado di competere ma protezionismo e dazi dove eravamo ancora in fase immatura. Laicismo ma con misura perché la religione e la famiglia rappresentavano i pilastri della società. In politica estera Francia, Inghilterra e America erano i punti di riferimento. Governi, sia in Italia sia all'estero, preferibilmente liberal-conservatori.

Questo il quadro generale, che aveva il vantaggio d'esser condiviso dalle classi dirigenti non solo lombarde ma italiane. Infatti il Corriere vendeva metà della tiratura in Lombardia e soprattutto a Milano e provincia dove la sua cronaca locale ne aumentava la diffusione; l'altra metà nel resto d'Italia e soprattutto nelle città dove una parte della classe dirigente si sentiva adeguatamente rappresentata da quel giornale.

Questa struttura al tempo stesso economica, politica e culturale era stata creata da Luigi Albertini che non era soltanto un giornalista ma anche organizzatore, uomo di vasta cultura e di vaste conoscenze sociali, comproprietario di maggioranza nella società che editava il Corriere, avendo con sé come soci di minoranza alcuni famiglie industriali, proprietarie di imprese soprattutto tessili.

Proprio per queste caratteristiche Albertini era molto più che un direttore nominato da una proprietà, era direttore e proprietario, quindi assolutamente indipendente. Condivideva pienamente gli ideali e gli interessi del capitalismo lombardo, ma gli dava una vivacità ed una modernità sua propria con il risultato di influenzare la pubblica opinione di stampo liberal-conservatore senza peraltro che lui e il Corriere che era casa sua ne fossero condizionati. Era molto patriottico Luigi Albertini. Non amava la guerra ma le imprese coloniali sì, anche per mettere l'Italia a livello delle altre potenze europee.

Giudicava il governo italiano dal colore politico che aveva, ma anche dall'efficienza. E metteva gli interessi del Corriere ed i valori del giornale al centro della sua attenzione. Di fatto il Corriere era un partito di cui il suo direttore era il capo. Infatti parlava con i presidenti del Consiglio direttamente. Al prefetto di Milano parlava quasi come un suo superiore e lo stesso faceva con il direttore della Banca d'Italia, specie quello che dirigeva la sede milanese dell'Istituto.

Queste notizie sono in gran parte rese esplicite dalle sue memorie, fonti di grande ricchezza per ricostruire il passato.

Questa situazione proseguì quando Albertini dovette cedere la proprietà del giornale perché Mussolini non sopportava che i grandi quotidiani italiani fossero posseduti da giornalisti-direttori. Così accadde al proprietario-direttore de La Stampa, Alfredo Frassati, così accadde anche alla Serao che dirigeva e possedeva Il Mattino di Napoli ed ad altri quotidiani importanti e così accadde anche a lui, che dovette cedere la proprietà alla famiglia Crespi, fortemente impegnata nell'industria tessile e già azionista di minoranza nella società del Corsera.

I direttori nominati dai Crespi dovevano naturalmente essere graditi a Mussolini, che come primo mestiere era stato direttore prima dell'Avanti e poi del Popolo d'Italia da lui fondato. Al Corriere, come negli altri giornali che erano ormai ossequienti al regime fascista, voleva giornalisti bravi che però adottassero la linea del governo, sia pure adattandola al tipo di lettori ai quali quel giornali si dirigeva. Dunque propaganda capillare attraverso testate di prestigio che quel prestigio dovevano conservarlo e addirittura accrescerlo. Il Corriere della Sera si conformò a quelle direttive come tutti gli altri. Con un minimo di fronda? Direi di no. Del resto la fronda non era possibile.

Le cose naturalmente cambiarono quando il fascismo cadde e il Corriere diventò come tutti gli altri un giornale antifascista, famiglia Crespi consenziente.

Il primo direttore della nuova situazione fu Mario Borsa che non era soltanto antifascista ma anche repubblicano. Su questo punto i Crespi non erano d'accordo, tant'è che Borsa, a Repubblica già proclamata, si ritirò. Ma poi la qualità professionale dei direttori che si avvicendarono a via Solferino fu sempre notevole e culminò con Missiroli, con Spadolini e infine con Piero Ottone del quale ho già fatto cenno.

Quando nacque Repubblica c'era appunto lui alla direzione del Corriere; ma vent'anni prima era già nato l'Espresso, il settimanale "genitore" del quotidiano. E l'Espresso aveva già messo sotto tiro la stampa quotidiana, la sua formula, i suoi valori, tutti sotto l'influenza del Corsera. Sicché la polemica tra il nostro gruppo e il Corriere e il resto dei quotidiani fatti a sua somiglianza, non è cominciata quarant'anni fa ma sessanta. Solo La Stampa di Torino era del tutto diversa dal Corriere, e Il Giorno di Milano, che però aveva già perso una parte della sua iniziale brillantezza.

Questo fu il teatro nel quale i due gruppi si scontrarono.

***

Come avvenne e di quali valori diversi il gruppo Espresso-Repubblica fosse portatore l'ho già accennato all'inizio di quest'articolo, ma ora mi soffermerò su qualche punto che merita d'essere approfondito.

La parola liberale anzitutto. Nella lingua inglese si chiama "liberal" che serve a designare chiunque non sia asservito ad una ideologia. Non riflettono abbastanza, secondo me, sull'uso ed il senso della parola "ideologia" che lessicalmente significa adesione ad un'idea e perciò anche sostenere che "liberal" è colui che non si sente asservito ad una qualsiasi ideologia configura in questo modo proprio un'ideologia.

Comunque il significato reale della parola "liberal" consiste nel rifiuto del totalitarismo. I liberal cioè possono cambiare idea secondo l'andamento dei fatti che modificano il luogo in cui essi vivono. Basta lessicalmente aggiungere una aggettivo a quella parola: c'è il liberal conservatore, il liberal moderato, il liberal progressista. Al di là non si va, il liberal radicale non è concepibile. Il liberal vive in uno spazio che politicamente è definibile di destra o di centro, ma non di sinistra. Aggiungo che dal punto di vista economico è liberista.

Da noi, nel linguaggio politico italiano, questi aggettivi sono applicabili ma esistono anche altre e più approfondite spiegazioni.

Anzitutto quegli aggettivi possono diventare sostantivi: reazionari, conservatori, moderati, progressisti. Inoltre c'è la parola liberale ma c'è anche liberista, libertario, libertino.

A mio parere il Corriere della Sera, sia pure con i mutamenti portati dai vari direttori nelle varie stagioni della loro direzione, ha sempre avuto un sottofondo liberale-liberista e conservatore o moderato.

Noi, di Espresso-Repubblica, siamo sempre stati liberal-democratici. E se volete altre ma equivalenti definizioni, siamo stati innovatori con l'ancoraggio del bene comune, della giustizia sociale, dell'eguaglianza dei punti di partenza, cioè dare a tutti i cittadini e soprattutto ai giovani le stesse possibilità di misurarsi con la vita.

Questo significa liberal-democratico che è la definizione politica dei due grandi valori di libertà ed eguaglianza, mettendone secondo le circostanze l'accento a volte più sulla libertà e a volte sull'eguaglianza, purché l'altro valore sia sempre presente e mai dimenticato.

Questo diversifica i due gruppi editoriali e le due opinioni pubbliche che sentono l'appartenenza all'uno o all'altro.

Noi non siamo mai stati un partito, ma sempre abbiamo avuto noi stessi, cioè i valori che noi sosteniamo, come punto esclusivo di riferimento.

Sono stati di volta in volta alcuni partiti o alcune correnti di quei partiti, ad avvicinarsi a noi, ma non è mai avvenuto il contrario. Spesso è capitato che fossero con noi Guido Carli quando era governatore della Banca d'Italia e Antonio Giolitti, comunista prima e socialista dopo la crisi di Ungheria repressa nel sangue dalle truppe sovietiche. Oppure Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, oppure Beniamino Andreatta, oppure Ciriaco De Mita.

Noi siamo sempre stati laici, fautori della libera Chiesa in libero Stato, ma molti democristiani sono stati vicini a noi e si sono battuti di conseguenza ed alcuni comunisti hanno modificato la loro ideologia non certo per merito nostro, ma con noi si sono trovati a loro agio.

Questo è stato ed è il nostro patrimonio ideale e civile. E questo ho ragione di credere che resterà in un futuro che non deve dimenticare il passato e che deve operare attivamente nel presente garantendo libertà e giustizia sociale.

© Riproduzione riservata 06 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/03/06/news/repubblica_corriere_della_sera-134860729/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un ministro dell'Interno europeo per battere il terrorismo
Inserito da: Arlecchino - Marzo 28, 2016, 07:25:20 pm
Un ministro dell'Interno europeo per battere il terrorismo
"Per rispondere politicamente ai boia del Califfato e all'Europa come nemico, l'unificazione politica del nostro continente è il solo modo di reagire, avendo una piena coscienza che l'architettura dell'Europa confederata, così com'è, non è in grado di sostenere lo scontro"

Di EUGENIO SCALFARI
27 marzo 2016
   
IL DIBATTITO in corso sul terrorismo orribile dell'Is tocca un'infinità di argomenti: il nostro modo di comportarci per vincere la paura, il tema dei rifugiati e dei migranti, le moschee da chiudere o da aprire, l'integrazione dei musulmani o la loro cacciata, la guerra guerreggiata in Siria, in Iraq e in Libia. Insomma una selva di problemi che si intrecciano l'uno con l'altro creando una sorta di labirinto pieno di contraddizioni difficilissime da risolvere senza però affrontare il punto-chiave perché non viene formulata la vera domanda che dovremmo porci.

La domanda è questa: perché i terroristi manovrati ed istruiti dal Califfato si uccidono per uccidere gli altri, innocenti e incolpevoli?

Nella storia del mondo moderno non esistono altri esempi del genere, salvo i kamikaze giapponesi che, alla guida di aerei carichi di bombe, si lanciavano contro le navi da battaglia americane nell'ultima guerra mondiale.

Anche loro si uccidevano per uccidere il nemico, ma una differenza c'è rispetto ai kamikaze dei terroristi dell'Is: i piloti giapponesi combattevano una guerra e si uccidevano per uccidere il nemico, quel nemico. I terroristi dell'Is uccidono un nemico creato da loro, persone di qualunque razza, qualunque religione (o nessuna), qualunque nazionalità, qualunque età, bambini compresi, qualunque luogo purché affollato: uno stadio sportivo, un teatro, un bar, un aeroporto, una stazione, una metropolitana. Sono quindi molto diversi dai kamikaze giapponesi.

Qualcuno li ha paragonati ai nazisti, ma è un esempio sbagliato: i nazisti uccidevano gli ebrei, gli zingari, i diversi dalla loro razza ariana e comunque non uccidevano se stessi.

Altri portano come analogo esempio quei soldati che in una guerra vengono incaricati di missioni che li porteranno alla morte, ma anche questo è sbagliato: quei soldati hanno un x per cento molto elevato di lasciarci la pelle ma una possibilità di salvarsi comunque esiste, anche se si trattasse dell'1 per cento. Il rischio è altissimo ma non sono loro ad uccidersi.

Per concludere su questo punto: i kamikaze dell'Is sono un caso unico al mondo e agiscono dovunque, dal Medio all'Estremo Oriente, in Africa, in America e soprattutto in Europa. Però l'Europa e il Medio Oriente sono i loro principali teatri d'operazione.

Questo è il quadro da decifrare e in questo quadro stanno i nostri comportamenti per annientare l'Is e le sue cellule impazzite.

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Quanti sono i kamikaze e le loro cellule universalmente diffuse? E qual è la centrale di comando che le guida?

La centrale di comando era fino a un paio di mesi fa unica: il territorio dominato dall'Is, assurto ormai a livello di uno Stato, con le sue gerarchie: un Capo, la sua squadra di collaboratori, le sue milizie combattenti come un vero e proprio esercito, i suoi organi di informazione e di efficace propaganda, i suoi reparti che istruiscono i kamikaze e li convincono a diventare tali.

Il territorio è triconfinario: confina con la Siria, con l'Iraq, con la Turchia ed anche con il Kurdistan. Ma negli ultimi tempi ha creato comandi dislocati e in parte autonomi. Uno di essi opera nel Sinai, un altro in Cirenaica.

Su questo terreno è in corso una guerra vera e propria con alterne vicende, salvo in Libia, dove questa guerra non c'è.

Le cellule sono sparse ovunque; la loro consistenza numerica può sembrare assai scarsa rispetto all'estensione del territorio sul quale operano, ma è molto elevata se paragonata ai compiti ad essa affidati: il personale delle cellule è valutato intorno a 20-30 mila persone, ma i possibili kamikaze sono più o meno la metà: 10-15 mila. Sono pochi? No, per quel che debbono fare è un numero molto elevato. In Francia e in Belgio sono stati impiegati una sessantina di terroristi; i kamikaze erano una ventina, ma quelli che hanno operato anche meno, creando tuttavia danni materiali molto elevati e danni psicologici e politici elevatissimi.

Somigliano al terrorismo delle Brigate rosse o di altre analoghe organizzazioni che operarono negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Assolutamente no. Nessuno di quei terroristi fece mai il kamikaze e comunque operavano avendo in mente un programma politico, l'aspirazione religiosa non c'entrava in nessun modo.

E noi, noi europei e noi italiani, che cosa possiamo e dobbiamo fare?

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Convincerli a desistere dal fare i boia a prezzo della loro vita? Tentar non nuoce, dice il proverbio, ma in gran parte sarà tempo sprecato.

Dedicarci a mantener neutrali o meglio ancora a schierare contro l'Is e le sue cellule operative i musulmani residenti in Europa? Questo sì, è un compito incombente e non può significare altro che un processo di integrazione con tutto ciò che comporta in termini di occupazione professionale. Non vale soltanto per i musulmani ma anche per le periferie cittadine, le banlieue trasformate in ghetti, dove con la rabbia, la protesta, la violenza predispongono alcuni alla seduzione del Califfato.

Infine c'è l'obiettivo principale da realizzare: costruire l'unità, la vera e propria unificazione dell'Europa. Economica e insieme politica. Creare una nuova architettura e al tempo stesso risvegliare un sentimento europeista che negli ultimi anni si è molto indebolito o addirittura del tutto scomparso, sostituito da un sentimento opposto, antieuropeista, antidemocratico, antimigranti, nazionalista vecchia maniera.

Ho scritto più e più volte su questo obiettivo da perseguire risollevando la vecchia bandiera di Altiero Spinelli, di De Gasperi, di Adenauer e di Schuman; ma oggi essa è diventata una necessità. Per rispondere politicamente ai boia del Califfato e all'Europa come nemico, l'unificazione politica del nostro continente è il solo modo di reagire, avendo una piena coscienza che l'architettura dell'Europa confederata, così com'è, non è in grado di sostenere lo scontro.

Fino a qualche settimana fa personalmente ritenevo che un ministro delle Finanze unico, installato nell'eurozona, fosse il primo passo da compiere per avviare una politica di crescita sociale ed economica con le conseguenze politiche che quest'innovazione avrebbe comportato.

Gli ultimi avvenimenti non indeboliscono affatto quell'obiettivo che Mario Draghi da tempo chiede e che ha per ora parzialmente sostituito con la politica economico-monetaria adottata dalla Bce. Ma ora occorre affiancare all'obiettivo economico-monetario un altro che mi permetto di indicare alla politica europeista: la creazione di un ministro dell'Interno unico per tutta l'Unione europea ed anche un ministro della Difesa e degli Esteri.

Quello dell'Interno è il primo e il più necessario: significa una sorta di polizia federale (l'Fbi) con competenze sull'unificazione dei Servizi segreti, l'abolizione dell'autonomia nazionale per quanto riguarda i confini interni, il ripristino immediato del patto di Schengen.

So che su questa strada ci sono già da tempo il presidente Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano e Laura Boldrini. Sono certo che sarebbe favorevole anche Mario Draghi sebbene si tratti di un'innovazione che non riguarda direttamente le sue competenze. E penso che lo sia anche Matteo Renzi, sulla cui politica europea desidero spendere qualche parola.

***

Matteo Renzi ha scritto qualche settimana fa un documento del quale in queste pagine si è ampiamente parlato, nel quale si descrive dettagliatamente il rafforzamento necessario dell'Unione europea, con un'ipotesi di federazione e, tanto per cominciare, con la creazione di un ministro delle Finanze unico nell'eurozona. Il documento è di nove cartelle, divise in vari settori che concludono appunto col ministro delle Finanze europeo. È stato inviato a tutte le Autorità europee, nessuna esclusa e, per illustrarlo anche alla parte politica che Renzi guida nella sua funzione di segretario del Pd, ha convocato a Parigi il Partito socialista europeo cui ha illustrato il documento in questione.

Non è stato, quest'impegnativo documento, un segno di continuità; Renzi era stato per quasi due anni il fautore di una autonomia nazionale piuttosto spinta e la sua dialettica sia verso la Commissione europea, sia verso la potenza egemone della Germania, era stata l'accentuazione dell'autonomia dei governi nazionali.

Ad un certo punto, probabilmente dopo una più attenta considerazione dei fatti, la sua politica europea ha cambiato profondamente direzione ed è quella che abbiamo descritto. Non credo che dipenda da quanto sostiene il nostro giornale, ma ho preso atto con legittima soddisfazione che ora le nostre posizioni coincidono e voglio sperare che coincideranno anche ora sulla proposta di un ministro dell'Interno unico e di un'unica polizia federale.

Apro metaforicamente una parentesi per dire che questa concordanza non piace affatto al mio comico d'elezione, Maurizio Crozza. Mi dispiace molto, ma pazienza, non manco mai alle sue trasmissioni e così continuerò a fare ogni venerdì sera anche se ora ripete troppo spesso vecchi sketch già visti. Chiusa parentesi.

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Concludo. Accettare (sotto ricatto) che la Turchia di Erdogan entri nell'Unione europea sarebbe un fatto di inaudita gravità. Una dittatura sanguinaria, con una storia di secoli alle spalle, che hanno visto quella nazione in guerra contro l'Europa, è un fatto inaccettabile.

Le armate turche nel Cinquecento si lanciarono alla conquista dell'Europa incominciando dalla Grecia e poi dai Balcani, dall'Ungheria e dall'Austria ed arrivarono addirittura a Vienna. Lì ci fu una battaglia campale, dove l'Europa era difesa da una coalizione piuttosto male armata, con un solo esercito valido, composto da truppe polacche e guidato dal re di Polonia.

Per fortuna i turchi furono sconfitti e arretrarono ma la loro presenza nell'Europa balcanica e in tutto il Maghreb africano durò ancora per secoli, sempre e comunque contro l'Europa.

Capisco che col tempo i Paesi cambiano, ma la Turchia di Erdogan è purtroppo la peggior Turchia e con l'Europa ha poco anzi nulla da spartire.

***

Ricordando venerdì santo l'insegnamento di Gesù, papa Francesco ha ancora una volta ripetuto che c'è, per i credenti di tutto il mondo e di tutte le religioni, un unico Dio che ha creato tutto e crea in permanenza. Tutte le persone umane sono state da lui create e tutti dunque debbono essere tra di loro fratelli.

Ha anche nominato le varie religioni: i cristiani, gli ebrei, i musulmani, Buddha, le divinità induiste, quelle cinesi e giapponesi. Il Dio è sempre unico anche se i suoi nomi sono diversi, diverse le Scritture, le dottrine e la catechesi. Diversi, ma affratellati.

Questa è la grande lezione di Francesco, interprete di un Dio che dispensa la misericordia come il suo dono principale, anzi unico, a tutta l'umanità senza distinzione alcuna.

Questa voce insegna il bene e come tale tutti sono chiamati ad ascoltarla.

Grazie Francesco, le tue parole sono essenziali per uscire dal labirinto in cui versa il mondo.

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27 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/27/news/terrorismo_ministro_interno_ue-136372524/?ref=HRER2-1


Titolo: In libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari
Inserito da: Arlecchino - Aprile 01, 2016, 05:06:40 pm
L'uomo perso nel suo eterno labirinto
Torna in libreria con una nuova introduzione il romanzo filosofico di Eugenio Scalfari


Di PAOLO MAURI
01 aprile 2016

Un verso, un verso dantesco, mi è tornato alle labbra mentre leggevo "Il Labirinto “di Eugenio Scalfari: un romanzo uscito quasi vent'anni fa e ora riproposto con una nuova introduzione. Il verso sta nel Paradiso e dice: "prende l'image e fassene suggello". L'immagine è quella del labirinto e diviene dunque il suggello o sigillo di una narrazione che vuole essere specchio del vivere, ovvero indagine sul significato della vita e della morte, integrandosi perfettamente nella riflessione che l'autore va facendo da molti anni e pubblicamente fin dal '94, anno di uscita di "Incontro con io". Ma perché scegliere la via del romanzo dopo aver sperimentato la via del saggio? In realtà Scalfari, in qualunque veste scriva, è sempre un eccellente narratore e persino quando discute un concetto sfumato come la fine della modernità non esita, per esempio, a mettere in scena un suo dialogo con Diderot. Comunque la narrazione permette, se mi si passa l'immagine, di vestire di carne i pensieri e di porli nella mente di un preciso personaggio, lasciandogli poi un po' di briglia sciolta, perché i personaggi son fatti così e spesso sono sorprendenti anche per chi li crea.

Dunque il labirinto. Ce lo portiamo dietro da millenni, ma, avverte Scalfari nel prologo, non è necessario pensare a Minosse, Teseo e Arianna. Il labirinto è sopravvissuto a loro, è diventato un emblema a sé stante e lo possiamo persino trovare, l'esempio lo fa Scalfari stesso, in un baraccone di un luna park dove il visitatore si perde tra gli specchi deformanti.

Scalfari tenta dunque una lettura dell'enigma uomo e apparecchia una immensa casa abitata da una famiglia molto ampia, di oltre settanta persone, i Gualdo, con un patriarca che si chiama Cortese, un figlio di lui, Stefano, e un nipote, Andrea. Ci sono molti altri Gualdo nella casa che affaccia da un lato verso la marina e dall'altro sulla campagna e alcuni il lettore li incontrerà nelle pagine del romanzo. Che è, possiamo dirlo subito, un romanzo fortemente simbolico nel senso che i protagonisti non hanno bisogno di vivere una storia: essi sono per quello che sono, si autorappresentano. Certamente, nel progettare la casa-labirinto dei Gualdo, Scalfari ha avuto in mente la casa della sua famiglia in Calabria, tra l'altro, come narra nel Racconto autobiografico scritto per il Meridiano che raccoglie parte delle sue opere, un suo quadrisavolo si chiamava proprio Cortese. E non trascurerei neppure l'influsso letterario di un'altra illustre dimora: quella del Gattopardo. Cortese Gualdo è, a suo modo, un Gattopardo, capo di una famiglia benestante e autosufficiente, perché il labirinto nel quale questa famiglia vive è un regno tranquillo, immobile nel tempo, legato com'è ad una solida economia rurale. Siamo ai primi del Novecento, ma il tempo storico conta poco: il mondo è fuori e quasi non se ne hanno notizie. Il vero labirinto, lo si intuisce subito, non è solo quello costituito dalla casa e con le sue mille articolazioni, scale, anfratti, il vero labirinto è dentro i personaggi: sta, ancora una volta, nella decifrazione o scomposizione dell'Io.

Del resto, scrive Scalfari nell'introduzione a questa nuova edizione del suo romanzo, "Il labirinto non è altro che il groviglio di contraddizioni che vivono dentro di noi, alimentano la nostra vita, la rendono felice e infelice". E molti dei Gualdo erano portati all'introspezione, altri ad osservare la vita fuori di sé. Dunque Il Labirinto è un romanzo filosofico e i personaggi sono funzionali alle domande di fondo alle quali l'autore cerca una risposta. L'ottantenne Cortese Gualdo è un uomo appagato che vuol delibare fino in fondo i piaceri della vita. Per questo si veste, per cenare con il figlio Stefano, come un Grande di Spagna; per questo accetta volentieri che una compagnia di guitti si fermi sulle sue terre e si esibisca nella casa. Nella cena consumata con il figlio Stefano, che è invece introverso e solitario, per quanto il padre ama la compagnia e il gioco, il tema è di nuovo filosofico: la felicità. Se il romanzo contemporaneo nel suo lungo percorso forse declinante predilige ormai i piccoli sistemi, il quasi nulla della quotidianità, possiamo dire che Scalfari va volutamente controcorrente e punta invece ai massimi sistemi, mettendo in scena la Ragione che discetta e fa ricorso volentieri a pagine antiche: Alceo, Platone e poi ancora Agostino, Nietzsche, Shakespeare e Villon. La compagnia di attori detta dei lunatici che chiede asilo ricorda l'Amleto e credo sia una citazione voluta. Mascherare, smascherare, essere, non essere... Che cosa accadrà in una mente colpita dalla follia?

È una delle indagini che il romanzo si propone: Daniele, figlio di Stefano, è il matto e vive in solitudine, in una stanza che fa sempre parte del Labirinto. Dunque i vari personaggi si incontrano, chiacchierano, fanno musica insieme. La Ragione indaga e il Corpo pretende. Non si sa bene chi comandi su chi e d'altra parte è antica questione. Una parte notevole è governata da Eros, ed è un tema ricorrente, per non dire centrale, nei libri di Scalfari. E la riflessione si fa dunque felicemente, intensamente narrazione. Ora si può essere attratti da questo mondo arcaico o esserne sazi e cercare una via di fuga. Dopo aver esplorato il Labirinto, Scalfari assegna al personaggio di Andrea, giovane nipote di Cortese, il compito di andarsene lontano, dall'altra parte del mondo. Andrea ci va nel momento in cui è preso dall'amore per Cristina con cui ha avuto un incontro memorabile. Bene: per viaggiare Andrea si serve del pensiero. Non c'è mezzo più veloce che in pochi secondi lo possa trasportare in un nuovo mondo, tecnologicamente evoluto e assoggettato a criteri di vita straordinariamente nuovi, ma anche sterili. Sarebbe piaciuto a Swift questo paese dove la gente ha sempre fretta e si fa governare da una Rete presieduta da cinque magistrati che risolvono ogni problema. In pratica l'umanità ha reso se stessa schiava, negandosi il piacere di vivere.

Ma il romanzo di Scalfari, pur prevedendo il dolore e la Morte, è anche un inno al piacere di vivere e alla libertà di inventarsi la propria vita. Un piacere che non potrebbe esistere senza il pensiero che lo amministra e lo filtra, lo centellina e lo proietta nel gran mare del Tempo.

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01 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/01/news/torna_in_libreria_con_una_nuova_introduzione_il_romanzo_filosofico_di_eugenio_scalfari-136660190/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il fiammifero della Guidi e l'incendio che ora divampa
Inserito da: Arlecchino - Aprile 03, 2016, 04:27:13 pm
Il fiammifero della Guidi e l'incendio che ora divampa
Da quando la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate (si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi dieci anni

Di EUGENIO SCALFARI
03 aprile 2016

DA QUANDO la ministra Federica Guidi ha dato le dimissioni, incoraggiate (si fa per dire) dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il dibattito politico ha assunto dimensioni mai raggiunte negli ultimi dieci anni. Argomenti prima distinti si sono intrecciati: democrazia, partiti, rottamazione, riforme economiche, riforme costituzionali, elezioni amministrative, referendum abrogativi, referendum confermativi, clientele, questione meridionale, Europa confederata o federale, terrorismo, immigrazione, Libia, Turchia, un magma di problemi e un filo d'Arianna che nessuno riesce più ad impugnare per uscire da un labirinto che non è soltanto italiano.

Perché questa estrema confusione ha raggiunto il culmine in Italia da un episodio così microscopico? La ragione è evidente: quelle dimissioni hanno sottolineato un fenomeno la cui diffusione è ormai dominante in tutto il mondo ma soprattutto in Italia e non da ora ma da anni, anzi da decenni, anzi da secoli. Corruzione e mafie. Corruzione e trasformismo. Corruzione e rabbia sociale. Corruzione e potere.

Le dimissioni della Guidi sono stati il fiammifero che ha fatto divampare l'incendio. Non sarà facile spegnerlo e quando lo sarà, soltanto allora vedremo le rovine che ha lasciato. In una fase in cui stiamo vivendo la crisi di un'epoca, i problemi sono già numerosi ed estremamente complessi. Questo incendio è un sovrappiù che aggiunge un peggio al peggio, una ferita ad una ferita, una tempesta ad una tempesta, incertezza ad incertezza. Sicché il primo tentativo è quello di capire il senso di quanto sta avvenendo e districare i nodi di quel filo d'Arianna che ci porti a riveder le stelle.

***
Il tema di quelle dimissioni riguarda il giacimento petrolifero trovato a ridosso d'un piccolo paese della Basilicata e investe il dibattito sulle trivellazioni che si effettuano in alcune zone dell'Adriatico. L'Italia ha bisogno di petrolio e di gas e quando riesce a trovare nuovi giacimenti in casa propria ne ricava un indubbio arricchimento, maggiori investimenti e maggiore occupazione.

Tuttavia, nonostante questi aspetti positivi, ce ne sono altri negativi di carattere ambientale: possibile inquinamento con tutte le conseguenze che esso può arrecare. Abbiamo già visto gli effetti di queste due facce della medaglia a proposito dell'Ilva di Taranto. La zona è più o meno la stessa e lo scontro politico e sociale è analogo, con valutazioni spesso divergenti tra governo, Regione, magistratura, imprese pubbliche e private.

Era opportuno indire un referendum? Ed era opportuno che, una volta indetto, il governo e il partito che lo sostiene raccomandassero di votare scheda bianca o astenersi dal voto? Personalmente ritengo di no. Si tratta d'una materia molto complessa, risolvibile soltanto con un compromesso che consenta l'estrazione della materia prima e tutte le prevenzioni necessarie a tutela delle persone. Il referendum non risolve il problema, l'astensione rischia di dare la vittoria all'una o all'altra tesi per qualche voto di differenza purché sia raggiunto il quorum del 50 più uno per cento degli aventi diritto.

Il ricorso al referendum abrogativo ha aggiunto dunque un rebus al rebus. Speriamo in un'astensione di massa che annulli l'esito referendario e lasci lo spazio per il compromesso.

Il caso Guidi sembra aver aperto un caso Boschi, ma non è così: l'emendamento in discussione era pienamente accettabile e la Boschi non aveva ragione alcuna per respingerlo. Altra cosa sarà l'atteggiamento della ministra delle Riforme qualora suo padre sia rinviato a giudizio per il caso della Banca Etruria. Attendiamo che la Procura di Arezzo e il gip diano una risposta, dopodiché, allora sì, la posizione della Boschi diventerebbe insostenibile.

Il tema della democrazia è stato più volte riproposto da quando Renzi ha preso il potere nel 2013 come segretario del Pd prima e di presidente del Consiglio poi. Da allora Renzi comanda da solo con il suo cerchio magico composto da suoi più fedeli collaboratori. Ho più volte criticato questa tendenza autoritaria, connessa anche ad una riforma elettorale maggioritaria e ad una riforma costituzionale di trasformazione- abolizione del Senato. Fermo restando - per quanto mi riguarda - la più netta contrarietà a quelle due riforme (elettorale e costituzionale) ho invece rivisto la mia contrarietà al comando solitario. L'ho rivista per due ragioni: la prima riguarda l'estrema complessità dei problemi che oggi ogni governo deve fronteggiare nel proprio Paese, in Europa e nel mondo. La seconda sta nella constatazione che una società globale complica ancor più la complessità dei problemi e la maggiore rapidità necessaria per risolverli.

Ma c'è una terza ragione: in tutto l'Occidente democratico esiste un Capo che comanda da solo: il cancelliere in Germania, il premier in Gran Bretagna, il presidente della Repubblica in Francia, il presidente degli Stati Uniti d'America. Solo per ricordare gli esempi di maggiore importanza. Questi esempi non configurano dittature: esistono contropoteri adeguati: i Parlamenti, le Corti costituzionali, la Magistratura. Questi poteri ci sono e vanno comunque rafforzati. Entro questi limiti l'esistenza di un capo dell'Esecutivo che sia al timone non desta preoccupazioni.

Ho anche avuto modo di constatare che Renzi, dopo molte incertezze in proposito, ha scelto la via di sostenere in Europa la necessità di un unico ministro delle Finanze dell'Eurozona, con i poteri di pertinenza di quella nuova istituzione più volte richiesta anche da Mario Draghi. Più di recente, dopo i gravissimi episodi di terrorismo soprattutto in Francia ed in Belgio ma non soltanto, abbiamo sostenuto su queste pagine la proposta di un ministro dell'Interno europeo e di una polizia federale europea sul modello dell'Fbi americano. A questa proposta Renzi non ha ancora risposto. Gli rinnovo quindi la domanda perché il tema purtroppo è di stringente attualità e l'Italia, Paese fondatore dell'Unione europea, ha tutti i titoli per sostenerlo e dare battaglia a chi sarà contrario. Coloro che vedono la difficoltà del consenso per realizzare i vari passi del percorso che dovrebbe portarci agli Stati Uniti d'Europa, non dimentichino la definizione tra tempo breve e sguardo lungo che fu di Altiero Spinelli. Tanto prima Renzi si schiererà tanto meglio sarà.

C'è un altro tema che mi sono posto: a chi somiglia veramente Renzi? Non sono certo il primo a porre questa domanda. Molti hanno scritto che somiglia a Berlusconi, altri addirittura a Craxi. Anch'io ho colto alcuni tratti di somiglianza a Berlusconi e qualcuno anche con Craxi. Ma il vero personaggio cui somiglia molto credo che Renzi non lo sappia: si chiama Giovanni Giolitti. Mi direte che è un paragone di troppo alto livello e certamente è così, ma per alcuni aspetti fondamentali queste due figure che distano di quasi due secoli tra loro si comportano in modi analoghi.

Giolitti nacque nel 1842 e morì a ottantasei anni nel 1928. Dopo un lungo tirocinio nel ministero delle Finanze entrò decisamente nell'agone politico nel 1892. Da allora fu uno dei maggiori esponenti della politica italiana pur senza mai far parte di un partito. La sua posizione era ispirata genericamente ad un liberalismo progressista e la maggioranza di cui dispose alla Camera fu quasi sempre molto elevata. Per mantenerla tale cambiò spesso le sue alleanze. Guardò contemporaneamente al capitalismo industriale e alle classi lavoratrici, favorendo incentivi alle imprese e decenti livelli ai salari. Cercò di ottenere l'appoggio dei socialisti riformisti in genere, di Turati in particolare. Nel Mezzogiorno appoggiò clientele e proprietari terrieri guadagnandosi l'insulto politico di Salvemini che chiamò il suo governo "ministero della malavita" ed "ascari" i suoi sostenitori meridionali.

Quando il Partito socialista e le organizzazioni sindacali operaie sentirono sempre più un orientamento di sinistra, soreliano, massimalista e rivoluzionario, Giolitti si alleò con il primo gruppo di cattolici democratici gestito da Gentiloni (avo dell'attuale nostro ministro degli Esteri).

Quando gli operai della Fiat occuparono la fabbrica a Torino, tentò e riuscì a trovare un compromesso tra le due parti. Fu contrario all'entrata in guerra dell'Italia e neutralista, lasciò ovviamente il governo alla destra italiana ma lo riprese nel 1920. Fece sgombrare D'Annunzio da Fiume ma tollerò le violenze degli squadristi fascisti sperando di poterli assorbire gradualmente nella sua maggioranza politica. A questo fine favorì l'ingresso alla Camera nella sua maggioranza dei trenta deputati fascisti nel 1921. Ma si ritirò definitivamente dalla politica dopo la marcia su Roma e la nascita del Regime.

In conclusione un partito giolittiano fu un vero e proprio partito della Nazione, che oscillava tra una destra e una sinistra moderate, con ancoraggio sostanzialmente centrista e un Capo unico che era lui. Il giolittismo e il renzismo. Il primo al livello dieci, il secondo al livello cinque. Ma la vera analogia è quella del Paese. Il nostro è un Paese percorso da un fiume sotterraneo, sempre latente e spesso emergente dove domina una corrente su tutte le altre: purché ci sia libertà privata si accetta la dipendenza pubblica. E quindi corruzione diffusa, clientele diffuse, interessi particolari diffusi. Scarsi ideali, scarsi valori, fortemente sentiti ma da piccole minoranze.

Il Manzoni questa situazione la descrisse così: "Con quel volto sfidato e dimesso / Con quel guardo atterrato ed incerto / Con che stassi un mendico sofferto / Per mercede sul suolo stranier / Star doveva in sua terra il Lombardo / L'altrui voglia era legge per lui / Il suo fato un segreto d'altrui / La sua parte servire e tacer".

Lui sperava di farne un popolo sovrano e in parte quel popolo sovrano è nato. Non è più servo, è libero, tutela e lotta per i propri interessi, ma l'interesse generale lo vede assai poco e da lontano. Lo lascia ad altri, a chi comanda per tutti. Il problema è sapere se chi comanda tutelerà l'interesse generale o il proprio potere. Questo, alla fine, sarà solo la storia a dirlo.

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03 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/03/news/il_fiammifero_della_guidi_e_l_incendio_che_ora_divampa-136788761/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa
Inserito da: Arlecchino - Aprile 11, 2016, 06:03:14 pm
Repubblica.it
Politica

Le vette di Francesco e la palude dove Renzi annaspa
"L'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione.
Non credo che riguardi Renzi personalmente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato"


Di EUGENIO SCALFARI
10 aprile 2016
   
DELL'ESORTAZIONE apostolica post sinodale di papa Francesco diffusa venerdì in tutto il mondo cristiano con il titolo "Amoris Laetitia" sull'amore nella famiglia, il nostro giornale ha ampiamente parlato. Ne hanno scritto Alberto Melloni, Marco Ansaldo, Paolo Rodari, cogliendone gli aspetti essenziali che distinguono quelle pagine ancor più di altre che le hanno precedute nei tre anni di pontificato di Jorge Mario Bergoglio.

A me resterebbe ben poco da aggiungere perché condivido i resoconti di quel documento e l'analisi e l'interpretazione che quei colleghi ci hanno dato. Ma il significato, a mio avviso, è assai più ampio del tema ed è questo che desidero esaminare. Di papa Francesco sono amico e ancora quattro giorni fa ha avuto la bontà di telefonarmi poiché compivo i miei 92 anni e lui lo sapeva e ne ha detto delle parole molto affettuose; ma non è per questo nostro legame sentimentale che oggi scelgo la sua Esortazione come primo tema di cui occuparmi. Questo documento è un ulteriore passo avanti della Chiesa, che Francesco rappresenta e guida, verso l'ammodernamento, quello che lui chiama l'inculturazione. La citazione è questa: "Non tutte le discussioni dottrinali, morali e pastorali devono esser risolte con interventi del Magistero. In ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate perché le culture sono molto diverse tra loro, sicché perfino il modo di impostare e comprendere i problemi, al di là delle questioni dottrinali definite dal Magistero della Chiesa, non può essere globalizzato...".

"Le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere, ma non possono assolutamente abbracciare tutte le soluzioni particolari che non si risolvono a livello d'una norma ". La prima e preliminare constatazione è che l'Esortazione parla il linguaggio dell'esperienza e della realtà così come Francesco la vede. Quasi tutti i suoi predecessori hanno usato lo stesso metodo ma, come la storia del Papato ci insegna, la loro realtà mirava soprattutto a rafforzare il potere di Pietro e l'episodio storicamente più rilevante lo dette Alessandro III quando ricevette Federico Barbarossa, da lui scomunicato nel corso della lotta per le investiture. Federico Barbarossa fu costretto a baciargli il piede in ginocchio davanti a lui e obbligato a quel bacio mormorò: " Non tibi, sed Petro " e Alessandro rispose: " Et mihi et Petro ". Ebbene, al contrario papa Francesco usa la sua esperienza a favore della Chiesa missionaria, dei poveri, degli esclusi, della struttura orizzontale e sinodale da lui ascoltata e guidata. Questa è la conclusione preliminare che emerge dalla sua Esortazione: ascolta, non comanda ma guida verso il futuro.

***

Il documento che stiamo esaminando parla molto della famiglia e di quest'aspetto che ha dato il tema ai due Sinodi del 2014 e 2015, i miei colleghi hanno già scritto ieri. Noterò soltanto, a questo proposito, che la famiglia ha una lunga storia, in parte biblica ed in parte scientifica e storica. Dalla Bibbia apprendiamo che Giuseppe e i suoi fratelli avevano due ed anche tre mogli. Quanto alle altre religioni, i musulmani prevedono due o tre mogli, i cinesi della classe dei mandarini prevedevano a quel tempo fino a cinque mogli.

Quanto alla scienza e alla storia, ricordo che il matriarcato, del quale si occupò anche Lévi-Strauss, prevedeva un "marito visitante" che metteva incinta la donna sposata, la quale viveva a casa della propria madre. Il figlio restava con lei e, avendo bisogno anche di un uomo che esercitasse la patria potestà, lo trovava nel fratello della madre. Il vero padre genetico poteva certamente vedere il proprio figlio ed amarlo, ma esercitava a sua volta la funzione di padre in favore dei figli della sorella, con il titolo di "avuncolo locato". Era insomma lo zio a fare da padre al nipote. Questo fu (e ancora in varie tribù aborigene in America del Sud e nell'Asia delle grandi isole) il matriarcato.

Quanto alla civiltà classica greco-latina, tra i coniugi esisteva la cerimonia del "ripudio", parzialmente analoga al divorzio con la differenza che soltanto l'uomo poteva ripudiare la donna, motivando con le più varie ragioni. La donna poteva coniugarsi ancora, ma non contestare il ripudio che aveva subito. La storia della famiglia, come si vede, è molto complessa. Quella sacramentale della Chiesa cattolica non somiglia a quella protestante così come i sacerdoti celibi non somigliano ai pastori che possono coniugarsi ed avere figli. Ma anche la famiglia cattolica, legata dal sacramento del matrimonio, non è quella dei primi secoli, dove infatti il celibato dei presbiteri non era ancora una condizione obbligata.

Infine voglio ricordare che Gesù di Nazareth aveva una singolare visione della famiglia. Ne parlava positivamente nella sua predicazione, ma per quanto riguardava gli altri e non se stesso. I Vangeli raccontano addirittura che un giorno, nei pressi di Tiberiade, mentre era riunito con i suoi seguaci in una casa ospitale fu avvertito che fuori di quella casa erano arrivati sua madre e i suoi fratelli perché da alcuni mesi lui aveva abbandonato la casa materna senza più dare notizie di sé. Gesù - dicono quei Vangeli - rispose che lui non aveva né madre né fratelli e che semmai i suoi parenti erano tutti quei seguaci lì riuniti e disse a chi l'aveva informato di rimandare a casa loro quelli che avrebbero voluto vederlo. In un'altra occasione - anch'essa riferita da alcuni evangelisti - ad uno dei suoi seguaci che gli aveva chiesto licenza di tornare a casa propria per un paio di giorni perché doveva partecipare al funerale di suo padre, negò solidarietà e volle che restasse con lui con la frase: "I morti debbono seppellire i morti".

Detto tutto ciò bisogna aggiungere che amò con grandissimo sentimento la madre quando anch'essa abbandonò la propria casa e lo seguì fino alla morte sulla croce. Fu infatti Maria, stando alla tradizione e ai Vangeli, che lo seppellì insieme con le altre donne che facevano parte dei suoi fedeli. Inutile dire che nessuna donna aveva partecipato all'Ultima Cena con gli apostoli. Tutto ciò è perfettamente comprensibile: Gesù fondava una religione e questo era il compito che aveva assunto, essendo Figlio di Dio per la tradizione ma anche Figlio dell'uomo o Messia per gli apostoli o semplicemente uomo per i non credenti. Comunque fondatore d'una religione, cioè d'un Regno in un altro mondo, come si racconta abbia detto nel suo dialogo con Pilato.

L'Esortazione di Francesco parla molto anche di Cristo in vari capitoli di quel documento, a cominciare dall'inizio, e vorrei dire perfino dal titolo che comincia appunto con la parola Amoris. E che cos'è per la Chiesa e per Francesco l'Amore se non Gesù Cristo? Ecco. Qui siamo ad un punto fondamentale. Cristo è Amore, Cristo è l'articolazione cattolica dell'Unico Dio. Un'articolazione trinitaria condivisa anche da gran parte delle chiese protestanti, ma non da tutte. E non condivisa da nessun'altra religione monoteistica, ebrei e musulmani. In che cosa consiste quest'affermazione, anzi questa fede, per la Seconda Persona della Trinità? Se è il Figlio che partecipa in modo distinto al Dio Unico denominato Padre, significherebbe che il Padre, oltre all'Amore rappresentato dal Figlio, ha anche altre funzioni, altri attributi. Quali? Giudice del bene e del male? No, perché secondo la tradizione al Giudizio universale i tre elementi della divinità partecipano al completo e semmai è proprio Cristo che giudica, in presenza del Padre e dello Spirito Santo. Allora il Padre è vendicativo? No, la religione esclude questo attributo. È dunque il Creatore? Sì, il Creatore è il Padre e non il Figlio. Ma se il Figlio è soltanto un'articolazione della Divinità trinitaria, non può non essere anche lui partecipe della creazione. Né si può separare il perdono dalla Misericordia. Tutti questi attributi stanno insieme. La Misericordia soprattutto e l'Amore che ad essa è strettamente collegato.

A questo punto - ma qui esprimo un mio pensiero che non so se posso attribuire anche a papa Francesco - Cristo è semplicemente un modo di chiamare l'Amore. Amore degli uomini verso Dio e Amore di Dio verso gli uomini e Amore degli uomini verso il prossimo. Lo chiamano Cristo, ma è soltanto un nome che significa Amore. Papa Francesco la pensa così? Non gliel'ho mai chiesto e mai glielo chiederò ma secondo me sì, pensa questo poiché la sua ovvia verità e fede è nel Dio Unico. Non solo per i monoteisti ma per tutte le religioni esistenti. Per tutto l'universo del quale facciamo parte. La sua fede è il Creatore e le cose create, dalle stelle alle particelle elementari, allo spazio e al tempo, all'eternità e al costante mutamento, alla nascita e alla morte. Il Creatore è tutto e la fede, per chi ce l'ha, è nel Creatore. Mi azzardo a dire che se leggete con attenzione alcuni passi dell'Esortazione, questo è il pensiero e la fede di papa Francesco. Ed è questo tipo di fede che a tutti lo rende caro.

Affronterò ora, più brevemente, il secondo tema di questo mio esercizio domenicale, interamente diverso dal primo ma forse più vicino a ciò che accade intorno a noi: Matteo Renzi dopo le dimissioni della Guidi e quel che le ha precedute e seguite. Renzi è sempre forte? Sempre insostituibile? Sempre imbattibile? Oppure sta attraversando una fase di turbamento e indebolimento? Una fase che potrebbe determinare gravi sconfitte alle prossime elezioni amministrative, con conseguenze importanti anche sui referendum, sulle riforme, sulla popolarità del Pd e del suo Capo?

Ricordo che domenica scorsa parlai a lungo di questi problemi e anche di altri: l'Europa, il terrorismo, la Libia ma anche la corruzione, l'affarismo, le clientele. E paragonai per certe assonanze manipolatorie Renzi a Giovanni Giolitti. Quest'ultima parte del mio sermone domenicale è stata molto criticata soprattutto per la statura di padre della Patria che alcuni (studiosi?) attribuiscono a Giolitti. Ho già risposto ad alcuni di loro, ma poiché non si sono fatti vivi pubblicamente, eviterò di rispondergli oggi e qui. Riservo le risposte se formuleranno in pubblico le loro obiezioni.

Dunque il Renzi di questi giorni. È più debole? Sì, lo è. Per quale motivo? Direi con una parola l'affarismo che viene attribuito al suo modo di governare. Ne ha parlato Stefano Folli sulle nostre pagine e Antonio Polito sul Corriere della Sera di ieri. Sì, l'affarismo c'è nel governo Renzi ed è un affarismo connesso con la corruzione. Non credo che riguardi Renzi personalmente, ma certo permea molto da vicino il governo da lui guidato e per di più con uno stile di comando molto diffuso nell'Occidente democratico ma con scarsi e deboli contropoteri.

Al Renzi dopo oltre due anni di governo che ha attraversato varie fasi nel bene e nel male, meritando giudizi positivi e negativi (più i secondi che i primi) faccio oggi le seguenti osservazioni e pongo le seguenti domande: 1. È al corrente del malaffare che pervade alcuni settori del suo governo e delle sue immediate vicinanze. E perché se è al corrente, non ha preso i necessari provvedimenti? Il caso Guidi è parlante da questo punto di vista e non basta relegarlo in un episodio ben risolto dalla stessa protagonista. Sarà forse senza reato, ma non è certo senza peccato e la politica i reati li lascia ai magistrati ma i peccati spetta a lei impedirli e sanzionarli.
2. La politica della flessibilità ha raggiunto punte molto alte ma ormai non oltrepassabili. Era sembrato di capire che Renzi avesse accettato la creazione del ministro del Tesoro dell'Eurozona, con poteri propri ed una politica orientata verso la crescita. Renzi aveva accolto quella proposta e l'aveva anche "consacrata" in un apposito documento, inviato a tutte le Autorità europee e illustrato al Partito socialista europeo. Ma poi non ne ha più fatto cenno proprio nei giorni in cui Draghi ne ha riproposto la necessità e insieme a lui il governatore della Banca centrale francese in un'intervista di ieri sul nostro giornale. Come si spiega questo silenzio renziano?
3. Il dilagante terrorismo del Califfato richiede con la massima urgenza una polizia federale europea sul solco del Fbi americano e con un ministro dell'Interno europeo con tutte le attribuzioni che quella carica comporta. Renzi, da me interrogato domenica scorsa, non ha risposto, sembra che il tema non lo interessi. Come mai? Continuiamo ad andare avanti alla cieca sul terrorismo?
4. Renzi ha insultato più volte in questi giorni la procura di Potenza che sta indagando su eventuali reati inerenti alle trivellazioni e agli scavi per il petrolio in Basilicata e nelle costiere della Puglia. È un buon comportamento insultare la magistratura?
5. Infine: le notizie più recenti sull'andamento del deficit di bilancio, sull'occupazione, sul debito pubblico, non sono delle migliori. Molte previsioni ottimistiche sono state smentite dai fatti. Per quali ragioni? Con quali provvedimenti che consentano una via d'uscita?
Personalmente avevo registrato alcuni miglioramenti della politica interna ed estera di questo governo e ne avevo dato atto. Oggi vedo un logoramento che non dipende dagli avversari che sono sempre gli stessi, ma da un auto-affievolirsi della forza di spinta. Auguro necessari interventi che ridiano forza al Paese e all'Europa di cui facciamo e dobbiamo far parte perseguendone l'unità e la federazione, almeno nell'Eurozona. Dobbiamo ampliare il respiro della nostra politica nazionale per poter dire che siamo europei e sempre lo saremo e che su questo terreno chi non è con noi peste lo colga.

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10 aprile 2016
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La politica renziana quando sbaglia e quando (ci) azzecca
Inserito da: Arlecchino - Aprile 17, 2016, 10:54:08 am
La politica renziana quando sbaglia e quando (ci) azzecca
L'Immigration compact merita consenso ma dovrebbe prevedere anche una polizia e un ministro dell'Interno europeo


Di EUGENIO SCALFARI
17 aprile 2016
   
IN QUESTI giorni il tema numero uno del nostro Paese è il referendum sulle trivelle e quello numero uno in Europa è la sua ri-nazionalizzazione.

Cominciamo dunque dal referendum in generale e in particolare delle trivelle: votare o astenersi? Qualcuno fa presente che la Costituzione vieta di fare propaganda per l'astensione (non vieta l'astensione) e non vieta di dichiarare alle singole persone di essersi astenuto così come non vieta di rivelare il proprio voto alle elezioni amministrative e politiche. Quel precetto costituzionale (cui non è seguita alcuna legge applicativa) è dunque praticamente inesistente.

È vero invece che l'affluenza ai referendum abrogativi, che prevedono un quorum del 50 più uno per cento dei cittadini con diritto di voto, è crollata a partire dalla fine del secolo scorso. E ancora più in questi ultimi anni. Questa minore affluenza del resto si verifica anche nelle elezioni dove ormai l'affluenza in tutti i Paesi democratici dell'Occidente oscilla intorno al 60 per cento degli aventi diritto; solo in casi rari arriva fino al 70 per cento ma non oltre.

Aggiungo a questa generale tendenza che ci sono referendum abrogativi su fatti specifici che riguardano soltanto abitanti di alcune zone del Paese mentre non interessano affatto a chi vive su territori diversi. Quello delle trivelle per esempio non riguarda chi vive in terre lontane dal mare e quindi del tutto disinteressate all'esito referendario. Non riguarda per esempio Piemonte e Lombardia.

E neppure gli abitanti dell'intera costa tirrenica visto che i giacimenti petroliferi sono stati individuati soltanto nella costa adriatica e ionica.

In queste condizioni sarebbe molto opportuno non estendere all'intero Paese questo tipo di referendum che ne riguardano soltanto una parte. Ci vorrebbe naturalmente una modifica o meglio una precisazione costituzionale che potrebbe perfino essere anticipata da un'opinione della nostra Consulta. Se invece i referendum del tipo di quello delle trivelle devono valere per tutti, è evidente che chi partecipa a quel voto lo fa per ragioni di politica generale che esulano del tutto dalla domanda referendaria. Si vuole incoraggiare oppure indebolire il leader di turno, Renzi in questo caso. E quindi si dà al referendum un significato ed una funzione del tutto diversa da quella che teoricamente gli è stata assegnata. È corretto tutto questo o è del tutto scorretto?

***

A causa di quanto precede è evidente che esistono delle connessioni, senz'altro improprie, tra il referendum sulle trivelle e quello del prossimo ottobre sulla Costituzione. Segnalo a questo proposito, come ho già fatto più volte nelle scorse settimane, che il referendum costituzionale non prevede alcun quorum. Un'ipotesi provocatoria ma teoricamente legittima è che ad un referendum senza quorum potrebbero partecipare soltanto una ventina di persone e in questo caso accadrebbe che undici di loro rappresentano la maggioranza e impongono il risultato referendario a tutti gli altri. Di questo l'amico Crozza ha fatto una delle sue divertenti barzellette, ma barzelletta è fino a un certo punto. Potrebbero andare a votare venti milioni di persone e undici milioni imporrebbero la loro linea ai quarantasette e passa milioni di aventi diritto al voto.

Perché Renzi ha voluto questo referendum? Evidentemente perché, non essendo ancora legittimato nella sua funzione di leader dal corpo elettorale, il referendum del prossimo ottobre dovrebbe avere proprio questo compito ma è difficile pensare che effettivamente ce l'abbia visto che non è previsto alcun quorum. Naturalmente si può rispondere che è un referendum bandito dopo che le Camere hanno già votato la legge in questione. Ma il referendum confermativo dovrebbe avere un quorum, altrimenti che cosa legalizza? Assolutamente niente, sia che approvi la legge in questione e sia anche se la disapprovi.

Bisognerebbe dunque stabilire con la maggiore rapidità possibile che il referendum confermativo deve avere un quorum. Temo che non ve ne sia il tempo e mi chiedo se avrebbe quantomeno un effetto di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica, una dichiarazione in proposito da parte della Corte Costituzionale o del suo presidente anche come opinione personale ma importante. Se vogliamo entrare nel contesto della legge in questione per il poco che conta dichiaro che io voterò "no" per vari motivi. Anzitutto il Senato viene privato di tutti i suoi poteri legislativi, salvo quelli che riguardano le leggi di natura costituzionale, i trattati o le direttive delle autorità europee e le leggi di pertinenze delle Regioni. Quanto al resto, il Senato di fatto è inesistente.

Questo risultato della legge in questione è comprensibile: in molti Stati europei una seconda Camera non c'è o non ha alcun potere se non consultivo o specifico su un numero limitato di materie. Quindi il sistema monocamerale è pienamente accettabile sempre che abbia un effettivo potere legislativo il che ci rinvia alla nuova legge elettorale. Così come è stata concepita e approvata quella legge non soddisfa affatto i requisiti oggettivi; il risultato politico sancisce dunque di fatto una schiacciante presenza del potere Esecutivo rispetto a quello Legislativo, sicché il capo del governo comanda da solo.
Ho più volte criticato questa situazione, ma poi mi sono arreso all'evidenza di una necessità che esiste da tempo nei principali Paesi europei: il Cancelliere tedesco, il Premier inglese, il Presidente della Repubblica francese comandano da soli e non da oggi. Del resto anche in Italia c'è stata molte volte questa situazione e non parlo affatto delle dittature che pure abbiamo conosciuto ma di un potere forte che abbia tuttavia contropoteri istituzionali e al suo fianco un'oligarchia. Attenzione: non un cerchio magico di collaboratori subalterni, ma una vera e propria oligarchia di personalità qualificate per preparazione politica e culturale che condividono insieme al leader la linea storico-politica lungo la quale il partito deve muoversi ma ne discutano le modalità di applicazione che sono di grande importanza e possono essere interpretate a suo modo da ciascuno di quelli che della classe dirigente del partito fanno parte.

Questo avvenne da De Gasperi in poi nella Democrazia cristiana e anche nel Partito comunista e in quello socialista. Cessò con l'arrivo in politica di Silvio Berlusconi e con il populismo che ne derivò fin da allora. Il vero compito di oggi dovrebbe essere quello di costruirla questa oligarchia, ma non mi pare di veder segnali che possano soddisfare a questo bisogno.

***

In Europa è in corso la ri-nazionalizzazione. Sempre più evidente. Il segnale è il ritorno dei confini europei aboliti dal patto di Schengen. L'Austria ha compiuto l'ultima violazione di quel patto tanto più incomprensibile per un Paese lontano dal mare e assai poco ambito come destinazione dalla massiccia immigrazione in corsa verso l'Europa.

L'Austria è guidata da un partito progressista ed ha tra pochi giorni l'elezione del Presidente, un sondaggio molto significativo per constatare come si sta muovendo l'opinione pubblica di quel Paese. Per competere con un populismo xenofobo che si va affermando con molta forza, il governo progressista austriaco ha deciso di adottare la medesima politica del suo concorrente avversario, sicché accade che una politica di xenofobia reazionaria venga gestita adesso da un governo progressista. Del resto analoghe situazioni si sono già viste in Danimarca e in molti paesi dell'Est a cominciare dalla Polonia, dall'Ungheria e a quasi tutti i Paesi balcanici.

Anche l'Italia ha cavalcato per molti mesi il tema della nazionalizzazione che, oltre ad essere motivato dagli interessi nazionali, mantiene il potere sovrano dei ventotto Paesi membri dell'Unione ed è questo in realtà il vero motivo della ri-nazionalizzazione europea.

Da un paio di mesi tuttavia Matteo Renzi ha cambiato posizione, si è spostato su una linea europeista non a chiacchiere ma con concrete posizioni su temi molto qualificanti: primo tra tutti l'appoggio da lui dato alla creazione d'un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona, secondo la richiesta più volte formulata da Mario Draghi e da Renzi recepita con un documento comunicato ufficialmente a tutte le Autorità europee e discusso anche col Partito socialista europeo del quale il Pd è la componente più forte.

In questi ultimi giorni c'è stato un altro passo importante del governo italiano verso l'Europa. È stato chiamato "Immigration compact" e chiede che l'Europa assuma una vera e propria sovranità sulle questioni delle immigrazioni, quale che ne sia la provenienza e la destinazione. Un accordo che coinvolga tutti i Paesi dell'Unione europea sugli obiettivi e sulle risorse organizzative e finanziarie, non solo come è avvenuto (più in teoria che in pratica) con la Turchia per quanto riguarda gli immigrati provenienti dalla Siria, ma anche per quelli che arrivano dalle altre aree di crisi. In particolare dalla Libia dove ormai si concentra una crescente moltitudine di migranti provenienti dai Paesi sub-sahariani, in una fuga che comincia dall'Africa occidentale e si svolge nel deserto libico-algerino fino al Sudan, per risalire da questo viaggio già schiavizzata, in Egitto e soprattutto in Libia, per poi affrontare la traversata di mare e approdare sulle coste italiane.

L'"Immigration compact" prevede interventi ed anche forze specializzate per operare sui Paesi di origine e su quelli di transito, con aiuti per creare posti di lavoro e sostegno socioeconomico, con campi di accoglienza sulla costiera mediterranea per tutti quei migranti che non si è riusciti a fermare prima, evitando al massimo i "viaggi del mare".

Una politica del genere merita consenso, ma per essere applicata dovrebbe anche prevedere la creazione di una polizia federale europea e di un ministro dell'Interno europeo che gestisca appunto la politica interna dell'Ue mettendo insieme i Servizi segreti, le informazioni, la lotta contro il terrorismo dell'Is. Si tratta di un tema non urgente ma urgentissimo. Renzi non ha ancora risposto a questa proposta che gli abbiamo fatto in queste pagine ma l'"Immigration compact" mi fa pensare che la risposta sarà positiva; varrebbe la pena che fosse data.

È vero che non sono obiettivi di rapida soluzione ma servono comunque a dare al nostro Paese una posizione della massima importanza e ne legittimano anche decisioni che in questo quadro non hanno affatto un aspetto di nazionalizzazione ma adottano con legittima autonomia alcune soluzioni che anticipano l'unità europea per la quale dobbiamo sempre più schierarci.

***

C'è un terzo tema, forse il più importante di tutti ed è quello delle periferie nelle città del mondo intero. Le città, le capitali politiche e storiche, si sono già estese e sempre più si estenderanno fin quasi a contenere gran parte della popolazione di quel paese. È così a New York, a Los Angeles, a Shanghai, a Pechino, a Nuova Delhi, a San Paolo del Brasile, a Londra, a Parigi e anche sull'asse Milano-Torino.

Ma l'urbanizzazione reca con sé la nascita delle periferie e il rapporto che hanno fra di loro e con il centro di quella città. Tra loro geograficamente comunicano poco, i loro insediamenti le pongono lontane l'una dall'altra e spesso molto diverse sono anche le provenienze di chi le abita e quindi i luoghi d'origine, le lingue e i dialetti che parlano.

Con il centro i rapporti possono essere per ragioni di lavoro, ancorché sia quasi sempre lavoro subalterno salvo poche eccezioni; ma di solito quei rapporti non esistono. Se guardate alle banlieue parigine e a quelle londinesi, vi accorgete che quegli insediamenti somigliano terribilmente ai ghetti, per responsabilità sia delle classi dirigenti che abitano il centro e sia degli stessi abitanti delle periferie che dei loro ghetti sono i padroni.

Questa situazione produce estraneità ma spesso anche rabbia sociale all'interno delle periferie e soprattutto nei confronti del centro. Quando questo avviene le varie periferie si uniscono e l'assalto al centro diventa generale.

Esiste però un problema di periferie che riguarda la gerarchia socio-politica di interi popoli. È sempre avvenuto nella storia del mondo da quando la nostra specie è nata. È sempre stata una specie migrante che naturalmente e proprio attraverso queste migrazioni ha cambiato modo d'essere, nascita di linguaggi, perfino connotati somatici e psichici che si sono via via evidenziati, ma la rapidità e l'intreccio attuale non è stato mai raggiunto prima ed è causato dalla globalizzazione ed anche dalla tecnologia. La mobilità coinvolge ormai tutto: merci, capitali finanziari, bisogni da soddisfare, diseguaglianze da colmare, mobilità e trasmigrazione continua dei popoli in tutte le direzioni.

Si direbbe, osservandone i movimenti e la predicazione che compie ogni giorno, che papa Francesco sia tra i più attenti testimoni di quanto avviene nel mondo e delle cause che hanno accentuato la mobilità dei popoli, le periferie del mondo, i fondamentalismi e la rabbia sociale che può essere diventata il terreno di coltura di potenziali terroristi, cellule ancora addormentate ma potenzialmente pronte ad attivarsi.

Uno degli antidoti è la religione unica che ha l'obiettivo di affratellare le diverse confessioni intorno all'unico Dio. L'esempio più recente è di ieri: il viaggio di Francesco a Lesbo e l'affratellamento non solo con la massa dei rifugiati in quell'isola ma l'incontro con il Primate ortodosso che insieme al Papa ha comunicato i rifugiati. La spinta verso l'affratellamento religioso è di grande importanza e se pensiamo alla carica esplosiva del fondamentalismo religioso ci rendiamo conto dell'importanza politica del suo contrario.
Fratellanza e libertà, è questo il vero obiettivo che dobbiamo far nostro.

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17 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/17/news/politica_renziana_scalfari-137795857/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quei tre personaggi che contano nell'Europa a pezzi
Inserito da: Arlecchino - Aprile 24, 2016, 03:57:44 pm
Quei tre personaggi che contano nell'Europa a pezzi
"È molto importante esaminare le posizioni di Merkel, Draghi, Obama e soprattutto gli interessi che muovono ciascuno di essi, non parlo di interessi personali ma di quelli che ciascuno di loro oggettivamente rappresenta"


Di EUGENIO SCALFARI
24 aprile 2016

In questa fase drammaticamente agitata in Europa i personaggi che contano sulla sorte del nostro continente sono tre: Angela Merkel, Mario Draghi, Barack Obama, da posizioni diverse e talvolta contrapposte. Ma conta anche, sia pure a un livello minore, Matteo Renzi.

È molto importante esaminare le loro rispettive posizioni e soprattutto gli interessi che muovono ciascuno di essi, non parlo di interessi personali ma di quelli che ciascuno di loro oggettivamente rappresenta.

La Merkel, ovviamente, rappresenta l’interesse della Germania ma con un “però” grande come un grattacielo: l’egemonia tedesca sull’Europa che, se fosse unificata su un modello federale, non potrebbe esser guidata che dalla Germania.

Questo è il dilemma della Cancelliera: la Germania di oggi e quella d’un possibile domani, il pensiero breve e lo sguardo lungo. Una contraddizione non da poco che fino a qualche tempo fa Angela ha saputo gestire con sapiente abilità, ma che negli ultimi due mesi sembra esserle sfuggita di mano sotto la pressione di interessi di lobby estremamente potenti e con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale.

In questa situazione alquanto paradossale il partito socialista alleato con la Cdu comincia a muoversi con crescente autonomia critica contro la politica di rigore economico che la Cancelliera sostiene più che mai. È difficile capire dove potrà arrivare questa nuova posizione dei socialisti, anch’essa è probabilmente ispirata dall’imminenza elettorale.

Mario Draghi, presidente dalla Banca centrale europea, non ha le contraddizioni della Cancelliera sul ruolo "a breve e a lungo" della Germania. Ha una posizione chiarissima sui compiti della Bce: derivano dallo statuto della Banca ed anche dai modi di applicarlo e dalle conseguenze che ne possono derivare. Deve realizzare la stabilità dei prezzi ad un livello appena sotto il 2 per cento d'inflazione. Questo e non altro.

Sembra facile ma non lo è affatto in un'Europa ancora così nazionalistica e quindi divisa su quasi tutti i temi di fondo: i tassi d'interesse, i tassi di cambio, la gestione dei debiti sovrani, il rapporto tra il debito pubblico e il Pil, la politica bancaria, la flessibilità economica, il neo-keynesismo e il suo contrario, la politica fiscale, le immigrazioni, la lotta al terrorismo e le risorse economiche necessarie per portarla avanti con efficacia.

Draghi è ben consapevole dell'entità di questi problemi e della loro interconnessione. È consapevole anche che la nazionalizzazione della politica è un handicap che favorisce soltanto le multinazionali. Infine è consapevole che la sua politica monetaria va ben al di là dello statuto che è in sua potestà. Nel suo caso il pensiero breve e lo sguardo lungo non creano contraddizioni, anzi aumentano la sua consapevolezza negli obiettivi finali. Del resto lo dice in modo felpato nella forma ma duro nella sostanza.

Si è creata così una dialettica poco amichevole, mentre fino a due mesi fa tra lui e la Merkel il rapporto era sostanzialmente concorde. Oggi non è più così. Passerà presto? Entrambi se lo augurano ma anche su questo tutto dipenderà dalle elezioni tedesche, vicine e al tempo stesso lontane secondo i punti di vista e gli interessi connessi al loro risultato.

Il vero solidale con Draghi è in questo momento il presidente Obama, che nel rafforzamento dell'Europa vede una delle questioni strategicamente essenziali della politica americana, di cui lascerà la guida nel prossimo novembre, ma nella quale per l'ultima volta è ancora in grado di esercitare tutta l'influenza della superpotenza Usa.

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La tastiera sulla quale il presidente degli Stati Uniti suona la sua musica riguarda varie melodie: la geopolitica contro l'inquinamento dell'atmosfera e delle energie rinnovabili; il rafforzamento dell'Eurozona in senso federale; la lotta contro il terrorismo del Califfato; l'immigrazione; la situazione in Africa e le sue conseguenze su tutto il Medio Oriente mediterraneo a cominciare dalla Libia e dalla Tunisia; il Brexit inglese; i rapporti con la Russia.

Come si vede, la tematica di Obama coinvolge una serie sterminata di problemi e determina una grande varietà di alleanze. È alleato di Draghi, di Cameron, di Renzi, di Hollande, del presidente tunisino Essebsi, del presidente libico a Tripoli. Ma è in contrasto con Putin per quanto riguarda la politica neo-imperialistica e mediterranea.

Con la Merkel c'è e permane un'antica solidarietà anche se in questa fase non mancano le nuvole. Obama cerca di convincere la Cancelliera che sarà la Germania il principale punto di riferimento europeo degli Stati Uniti e che questo rapporto dovrebbe dunque far prevalere a Berlino una politica federale europea e una crescita economica sul modello della politica monetaria e occupazionale della Fed, la Banca centrale americana.

In questo quadro estremamente complesso esiste anche una posizione italiana e un rapporto tra Obama e Renzi certamente amichevole per la consonanza degli obiettivi.

***

Renzi ha avuto fino a pochi mesi fa una politica europea a sfondo nazionalista, non diversa su questo punto dalla grande maggioranza degli altri Paesi dell'Unione, dentro e fuori dall'Eurozona. Solo su un punto — tutt'altro che secondario — la politica renziana auspicava una posizione europea federalista: la gestione dell'immigrazione, la revisione del trattato di Dublino, la ripartizione degli immigrati per quote, il mantenimento del patto di Schengen sull'abolizione dei confini intra-europei.

Si tratta d'un tema di grande importanza, specialmente per i Paesi mediterranei e per l'Italia e la Grecia in modo particolare, dove la politica nazionalista dei governi europei coincide, per l'Italia soprattutto, con una posizione europeista. Così pure per quanto riguarda la politica economica fondata sulla crescita e non sul rigore.

Da un paio di mesi però Renzi ha cambiato cavallo. Improvvisamente ha imboccato una politica europeista che prevede un rafforzamento effettivo, con fatti e non con parole, dell'Unione europea, con alcuni tratti federali e una nuova architettura istituzionale europea.

Il primo di questi passi è stato il dichiarato appoggio da lui dato alla creazione d'un ministro del Tesoro unico, installato nell'Eurozona con i poteri inerenti ad ogni ministro del Tesoro: un bilancio sovrano, un debito sovrano, l'emissione di bond, una politica d'incentivazione degli investimenti pubblici e privati dell'Eurozona, con le responsabilità inerenti a poteri del genere.

Quest'apertura di carattere nettamente federalistico ha coinciso con l'analoga richiesta di Draghi, creando in tal modo una convergenza politica tra Bce e governo italiano.

Un'ulteriore conseguenza si è verificata sull'Unione bancaria. Anche in questo caso l'obiettivo è complesso e va dalla garanzia sui depositi bancari alla costante vigilanza sul sistema bancario europeo e infine sulla nascita di quel sistema amministrato in quanto tale dal ministro del Tesoro dell'Eurozona.

Infine c'è stato un passo ancora più recente e altrettanto significativo: si tratta d'un documento programmatico che porta il nome di Migration compact che propone non solo il pieno ripristino del patto di Schengen sull'abolizione dei confini intraeuropei, ma anche una politica comune europea sulla gestione delle immigrazioni provenienti dall'Africa sub-equatoriale, con l'obiettivo di trattenere gli emigranti nei Paesi d'origine, con contatti diplomatici con quei Paesi e allestimenti di campi di sostegno alla povertà ed educazione socio-professionale ai giovani.

Analoghi campi dovrebbero essere allestiti lungo il percorso di quelle masse di emigranti, nel costante tentativo di fermarli sia nei Paesi d'origine sia nel percorso intrapreso.

Infine, una serie finale di campi sulla costiera mediterranea con l'obiettivo di impedire ogni imbarco verso le coste europee, ma al tempo stesso di sottrarre quei migranti alla schiavitù cui sono attualmente sottoposti, ospitandoli degnamente. Insomma, bonificare socialmente ed economicamente i Paesi africani con investimenti adeguati europei. Questo ambizioso progetto presuppone un'Europa unita che dovrebbe assumere in futuro un ruolo euro-africano che ci compete per geografia e per storia, non più coloniale ma di civiltà, cultura, economia.

Questo è il senso del Migration compact che il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha fortemente appoggiato, altrettanto il presidente del Parlamento Martin Schulz e anche Obama.

La Germania l'ha contrastato opponendosi all'emissione di bond europei, sul resto ha ufficialmente taciuto, ma sembra difficile che possa contestarlo.

Renzi non ha ancora preso posizione (lo ripeto per l'ennesima volta) ad una nostra proposta di creare una polizia federale europea e un servizio di informazione comune per la lotta al terrorismo, con un ministro dell'Interno europeo che guidi la lotta contro il Califfato. Personalmente penso che Obama sarebbe molto favorevole a questo ulteriore passo federale. Lui in fondo vive con passione la nascita degli Stati uniti europei, limitata almeno per ora all'Eurozona come primo passo verso un futuro continentale.

Desidero richiamare l'attenzione dei lettori verso ciò che sta accadendo nella piccola ma importante Tunisia, il cui presidente, successore di Bourghiba, ha liberato le donne dalla sudditanza sociale che ancora le opprimeva, ha ottenuto una vera e propria libertà religiosa con la convergenza politica di musulmani e cristiani in favore di uno Stato laico e spinge verso l'educazione socio-professionale dei giovani, donne comprese.

Nel frattempo deve difendersi militarmente dagli attacchi dell'Is. Un esempio che dovrebbe mobilitare l'Europa intera in favore della Tunisia democratica.
   
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24 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/24/news/quei_tre_personaggi_che_contano_nell_europa_a_pezzi-138320758/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La corruzione in Italia e l'Europa spaccata e moritura
Inserito da: Arlecchino - Maggio 02, 2016, 04:40:12 pm
La corruzione in Italia e l'Europa spaccata e moritura
Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana

Di EUGENIO SCALFARI
01 maggio 2016
   
CI SONO molte magagne in Italia e in Europa ed una delle principali, specialmente nel nostro Paese, è l'affievolirsi della democrazia e l'accrescersi della corruzione. Sono due fenomeni diversi ma interconnessi. Per chiarire la natura del primo cito qui un passo del mio libro intitolato "L'allegria, il pianto, la vita", uscito un paio di anni fa. "La democrazia declina e declina anche la separazione dei poteri costituzionali che Montesquieu mise alla sua base.

Da noi quella preoccupante esperienza ebbe inizio nei primi anni Novanta e non si è più fermata. Quel declino ha colpito il potere giudiziario e quello legislativo, rafforzando il potere esecutivo che ormai accentra su di sé la forza del governare con il minor numero di controlli. Il processo è ancora in corso ma un primo obiettivo è già stato realizzato e consiste nel completo stravolgimento della democrazia parlamentare e dei partiti. I partiti sono ormai tutti "liquidi"; riflettono società ed economie altrettanto liquide: un Capo, un gruppo dirigente a lui devoto, un'attenzione particolare ai potenziali elettori, la scomparsa della democrazia politica all'interno dei partiti".

La corruzione diffusa purtroppo in tutte le classi sociali, dai più abbienti al ceto medio fino a quelli sulla soglia della povertà, ha come condizione preliminare il declino della democrazia partecipata. Di fatto è la scomparsa dello Stato come soggetto riconosciuto dai cittadini e quindi la scomparsa, nella coscienza delle persone, del concetto di interesse generale. L'effetto è il sovrastare degli interessi particolari, delle lobby economiche, delle clientele regionali, dei singoli e del loro circondario locale.

La corruzione dilaga, le mafie si affermano con le loro regole interne, i loro ricatti, il denaro illegale e gli illegali profitti che se ne ricavano, il mercato nero e il lavoro nero. Il popolo sovrano che dovrebbe essere la fonte dei diritti e dei doveri di tutti, ripone la sua affievolita sovranità nella corruzione. Corrisponde alla conquista d'un appalto, un posto di lavoro, un incarico importante nel mondo impiegatizio o imprenditoriale, si conquista insomma un potere.

Quel potere conquistato con la capacità di corrompere dà a sua volta la possibilità d'esser corrotti. I corruttori diventano corrompibili e viceversa: questa è la società nella quale viviamo. Non solo in Italia e non solo in Europa, ma in tutti i Paesi dell'Occidente. Negli Stati Uniti d'America si toccarono le punte massime nella Chicago del proibizionismo e del gangsterismo, ma c'era già prima ed è continuata dopo. È il vero e più profondo malanno della democrazia, fin dai tempi dell'antica Grecia che è all'origine della nostra civiltà.

L'impero ateniese fu la città della democrazia e contemporaneamente la culla della corruzione, molto più diffusa di quanto non lo fosse a Sparta e a Tebe. E così nella Roma antica, corrotta nelle midolla dai tempi della tarda Repubblica e a quelli dell'Impero. Accade talvolta che le dittature blocchino la corruzione. Quando il potere politico è interamente nelle mani di pochissimi o addirittura di uno soltanto, la corruzione scompare: il potere assoluto sopprime al tempo stesso la corruzione e la libertà.

Egualmente accade che la corruzione non c'è o è ridotta ai minimi termini quando il popolo è veramente sovrano. In quel caso - purtroppo poco frequente - il massimo della libertà, della separazione dei poteri, delle istituzioni che amministrano l'esercizio dei diritti e dei doveri, dello Stato di cui il popolo sovrano costituisce la base e che persegue l'interesse generale del presente in vista del futuro, della generazione dei padri che godono il presente e operano per le generazioni dei figli e dei nipoti; in quel caso l'onestà la vince. Onestà e libertà rappresentano un binomio che ha illuminato alcuni fasi della storia occidentale ed anche di quella italiana.

Fasi tuttavia assai transitorie, specialmente in Italia e la ragione non è certo di natura antropologica. Gli italiani non sono per natura un popolo di corrotti e di ladri, ma è la nostra storia che ha ridotto a plebe il popolo sovrano. Machiavelli lo teorizzò nei suoi scritti e nel suo "Principe" in modo particolare. Le Signorie erano un covo di intrighi e quindi di corruzione. Per di più lo Stato non esisteva, fummo per secoli servi di potenze straniere che facevano i propri interessi e non certo quelli d'un popolo schiavo.

Ma ci furono anche dei periodi di luce, di lotta per la libertà e per la costruzione dello Stato d'Italia, di assoluta onestà privata e pubblica. Pensate al trio di Mazzini, Cavour, Garibaldi, in dissenso tra loro ma uniti da diverse angolazioni per la libertà e l'indipendenza del nostro Paese. Ed anche alla guerra partigiana e alla Resistenza che coinvolse l'intera Italia centro-settentrionale, dai nuclei combattenti a gran parte del Paese che ad essi faceva da scudo. E così pure, ai tempi della ricostruzione materiale, morale e politica sulle rovine che la sciagurata guerra ci aveva lasciato in eredità.

Conclusione: la corruzione è figlia della scomparsa d'un popolo sovrano e d'una democrazia non partecipata di partiti "liquidi", dell'affievolimento dell'interesse generale e dello Stato che dovrebbe rappresentarlo e perseguirlo. Questa è la situazione in cui già da molti anni ci troviamo e che con lo scorrere del tempo peggiora. E questa è anche la situazione europea dove i fenomeni deleteri sono per certi aspetti ancor più gravi.

***

Domenica scorsa scrissi a lungo sull'Europa "a pezzi", sul patto di Schengen violato da un numero sempre più esteso di Paesi membri dell'Unione, sulla situazione greca, sulla anomalia sempre più evidente della Turchia di Erdogan con l'Europa democratica e infine sulla Libia, la Tunisia e l'Is che imperversa sempre di più sulla costiera mediterranea e in particolare sulla Cirenaica che ci fronteggia. Ma dopo appena sette giorni da allora la situazione è ancor più grave e più chiara nella sua gravità: esistono ormai tre diverse Europa che si fronteggiano, alle quali va aggiunto il terrorismo del Califfato, potenziale soprattutto, che aggrava sempre di più i malanni e il solco che divide le tre parti del nostro Continente.

Esistente anzitutto l'anti-Europa: movimento di estrema destra, xenofobo e antidemocratico, con tinte razziste e nazionaliste, sia politicamente sia economicamente. Molti di questi anti-europei vigoreggiano in Paesi dell'Unione che non fanno parte dell'Eurozona, ma alcuni sono nati e stanno costantemente rafforzandosi in Paesi che hanno la moneta comune. Così avviene in Austria, in Danimarca, nei Paesi baltici, nei Balcani. Alcuni di questi movimenti sono ancora di modeste dimensioni, ma altri, per esempio in Austria, hanno raggiunto dimensioni preoccupanti e alcuni sono addirittura arrivati a raggiungere il primo posto scavalcando i partiti che avevano finora governato. L'esempio più lampante è quello austriaco, ma anche in Francia il lepenismo è il movimento che i sondaggi collocano in prima posizione.

La seconda spaccatura dell'Europa è tra il Nord e il Sud e il suo aspetto più preoccupante è rappresentato dalla Germania. È il Paese egemone dell'Unione e soprattutto dell'Eurozona e finora si era mostrato in equilibrio su alcuni temi fondamentali, a cominciare da quelli dell'immigrazione, della flessibilità adottata dalla Commissione di Bruxelles, sia pure con modalità moderate, e nel rapporto tra la Cancelliera Angela Merkel - ufficialmente sostenitrice del rigore economico - e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea e fautore d'una politica monetaria espansiva e anti-deflazionistica.

In questi ultimi giorni tuttavia la Merkel sembra aver abbandonato il suo equilibrio tra il rigore anche monetario della Bundesbank e la politica espansiva della Bce. Nei giorni scorsi Weidmann, governatore della Bundesbank, è venuto a Roma con un pretesto privato ma in realtà allo scopo di attaccare scopertamente la politica di Draghi, rendendo pubblico quell'attacco con un'intervista data proprio al nostro giornale.

Weidmann non è nuovo a quest'opposizione alla politica di Draghi, gli vota regolarmente contro in tutte le riunioni del Consiglio della Bce di cui la Bundesbank fa naturalmente parte; ma la novità di questa volta è che c'è stata l'approvazione piena delle dichiarazioni di Weidmann da parte del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble, e nessuna parola di riequilibrio da parte della Merkel. Sarà la necessità di posizionarsi adeguatamente in vista delle prossime elezioni politiche tedesche, con una Cdu minacciata dagli xenofobi antieuropei e anche dall'alleato attuale, la Csu bavarese; ma comunque è un fatto nuovo e fortemente preoccupante questo atteggiamento "separatista" della Germania. Infine la terza spaccatura europea riguarda la politica estera, la guerra contro l'Is in Siria, l'amicizia senza remore di sorta con la Turchia, l'assoluta "neutralità" nei confronti dell'eventuale intervento europeo sulla situazione libica.

Queste tre spaccature sono micidiali per l'Europa: allontanano il suo rafforzamento istituzionale e quindi rinforzano il nazionalismo dei singoli Paesi membri, anche di quelli che non condividono le posizioni tedesche in tema di rigore economico e proprio per questo svalutano le regole comunitarie contribuendo così da opposte sponde alla disgregazione politica ed anche ideale dell'Europa unita.

Sono gli effetti delle democrazie non partecipate, liquide e senza alcun controllo dai diversi poteri costituzionali; è sempre meno esistente la parvenza d'un rafforzamento europeo e le prospettive pessime di questa situazione in una società globale. Barack Obama ha cercato nel suo viaggio europeo dei giorni scorsi, di patrocinare un radicale mutamento di rotta, ma non sembra sia stato molto ascoltato. L'Europa è a pezzi ma non cerca affatto di ricostruirli. Se continuerà così andrà dritta al cimitero e noi tutti con lei, Germania in testa. "Ave, Caesar, morituri te salutant".

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01 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/01/news/la_corruzione_in_italia_e_l_europa_spaccata_e_moritura-138823449/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un male antico e letterario che chiamiamo corruzione
Inserito da: Arlecchino - Maggio 07, 2016, 11:40:59 am
Un male antico e letterario che chiamiamo corruzione
Dai tragici greci a Manzoni, da Dante a Shakespeare.
Fino a "Le confessioni" di Roberto Andò con Toni Servillo. Ecco perché siamo destinati alla "caduta"

Di EUGENIO SCALFARI
   
DOMENICA scorsa tra i vari temi che ho esaminato e che gravi, anzi gravissimi, affliggono il nostro Paese ma anche l'Europa, ho indicato la corruzione. Oggi ritorno su questo argomento da un altro punto di vista, quello dell'arte e della cultura: non da millenni i romanzi, il teatro, la filosofia, il cinema da quando esiste, hanno creato personaggi dominati dalla corruzione e questo dimostra che non si tratta di cose occasionali, dovute soltanto a istituzioni difettose, mancanza di controlli, strutture politiche e giuridiche mal fatte che la rendono più diffusa o addirittura ne stimolano l'esistenza. La carenza di controlli certamente rende più facile quel malanno sociale, ma esso è intrinseco all'anima degli individui di tutte le epoche e di tutti i luoghi. Se così non fosse gli autori delle più varie opere non ci racconterebbero le gesta di corrotti e di corruttori che hanno storicamente pervaso la società in tutto il mondo.

La tragedia greca ritrae la corruzione come uno degli elementi portanti dei protagonisti - Euripide, Sofocle e Aristofane in particolare. E altrettanto è accaduto nell'antica Roma e basta leggere Cicerone e Ovidio e Virgilio per cogliere questo fenomeno in tutta la sua dimensione. E se vogliamo osservare altre epoche ed altri autori vediamo la corruzione perfino alla corte di re Artù e poi nell'Eneide di Virgilio, nelle opere di Agostino, nella patristica cristiana.

Montaigne dedica ad essa molte pagine degli Essais, La Fontaine ne parla in parecchie delle sue poesie, La Rochefoucauld nelle sue Massime. Nell'Inferno dantesco i corrotti affollano le Bolge. Ma l'autore centrale che descrive e stigmatizza corrotti e corruttori è Shakespeare. In Italia dopo Dante, Boccaccio, Savonarola, Ariosto, ecco Manzoni quanto e forse più di Shakespeare. Leopardi nelle Operette morali e nello Zibaldone. Quindi Voltaire, Rousseau, Diderot, Victor Hugo, Stendhal, Pareto, Mazzini. Carlo Marx ne ha fatto addirittura elemento principale del capitalismo. L'elenco insomma è interminabile, i nomi che ho qui disordinatamente menzionato sono soltanto alcuni.

Ma se veniamo ai tempi nostri direi che la corruzione è sempre di più l'elemento centrale di moltissimi autori nel romanzo, nella saggistica, nello spettacolo teatrale e cinematografico. I nomi si rincorrono e si moltiplicano. Verga, I Viceré, Pirandello, Sciascia, Carducci, D'Annunzio, Pasolini, Ettore Scola, Umberto Eco, Saviano e la sua Gomorra.

Quanto al cinema americano, basterebbe il nome di alcuni attori che hanno impersonato di volta in volta i corrotti, i corruttori e quelli che rappresentano la lotta contro la corruzione - compito essenziale della loro vita: da Charlie Chaplin a Clark Gable a Michael Douglas a Robert Redford e soprattutto Burt Lancaster e Humphrey Bogart, protagonisti di film nei quali la corruzione e se necessario la violenza sono dominanti. Perfino Il Gattopardo ne è un esempio.

Il più recente dei film italiani che ne è una sorta di breviario dove la corruzione diventa addirittura omicidio è Le confessioni di Roberto Andò, con protagonista Toni Servillo travestito da monaco certosino. Si svolge in un elegante albergo in Svizzera dove si radunano i capi delle multinazionali che dominano il capitalismo, riuniti a congresso dal loro presidente. Alla riunione partecipa anche il monaco certosino che ha studiato a fondo il tema della corruzione, alla quale gli uomini d'affari lì riuniti si dichiarano non solo estranei ma addirittura mobilitati in nome d'un capitalismo robusto e sano, dedito a produrre profitti attraverso il lavoro socialmente utile e opere socialmente benefiche.

Il presidente di quel congresso tuttavia sente dentro di sé una sorta di rimorso che lo induce a confessarsi, spinto anche dalle esortazioni del monaco. Alla fine viene ucciso. L'ultimo che l'ha incontrato è il monaco ed è quindi su di lui che cadono i sospetti e un processo promosso da giudici anch'essi corrotti. Nel frattempo altri omicidi vengono commessi dai convenuti che si eliminano tra loro, i più forti contro i deboli per accentrare le risorse in poche mani. In conclusione sono tutti arrestati ed anche il monaco che però riesce a fuggire.

Il significato del film, reso benissimo da Toni Servillo, dimostra che la corruzione è un elemento che caratterizza la natura della nostra specie in ogni tempo, connesso con la ricerca altrettanto indefessa del potere e della guerra per ottenerlo. Merita d'esser visto quel film, con la speranza che riesca a curarci e guarirci (?) da una natura così perversa e ampiamente diffusa.

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/05/07/news/corruzione-139258216/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Matteo Renzi, la sinistra e l'Europa immaginata da Francesco
Inserito da: Arlecchino - Maggio 13, 2016, 06:04:45 pm
Matteo Renzi, la sinistra e l'Europa immaginata da Francesco
"Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta; quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno perché è proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque"

Di EUGENIO SCALFARI
11 maggio 2016
   
MATTEO Renzi è molto attivo in questi giorni come capopartito più che come capo di governo e la ragione è chiara: sta per affrontare due prove elettorali. Tra pochi giorni una amministrativa in molti Comuni italiani, alcuni dei quali di notevole importanza. L'altra, tra cinque mesi, è il referendum che dovrebbe approvare le riforme costituzionali già votate dal Parlamento. Alle spalle del referendum c'è la legge elettorale già esistente, che con la riforma costituzionale ha strettissimi legami.

Questa situazione Renzi la conosce bene e quindi la sta affrontando con l'abilità che deve essergli ampiamente riconosciuta. Domenica sera l'ha esibita in una trasmissione su Rai-Tre, "Che tempo che fa" di Fabio Fazio. È stato bravissimo e credo abbia convinto molte persone incerte su come votare.

Il giorno dopo ha riunito la direzione del partito e anche lì ha posto il problema referendario. Sapeva che gran parte della sua dissidenza era tentata di votare "no", ma ha convinto molti, anzi quasi tutti, che un referendum promesso da un partito e dal governo di cui quel partito è il nerbo non può vederli divisi. Ha illustrato i grandi vantaggi d'una riforma che elimina il bicameralismo perfetto, ha ricordato che la tesi del monocameralismo era sempre stata sostenuta dalla sinistra comunista e soprattutto da Napolitano e da Macaluso; infine ha offerto come contropartita alla sua dissidenza la convocazione immediata del congresso del Pd a referendum avvenuto e approvato.
 
A quanto pare questa offerta ha funzionato e la direzione sembra aver sancito l'accordo sulle basi da lui proposte.

Non c'è che dire, è bravo, ha un carisma che eguaglia e forse supera quello che ebbe Craxi ai suoi tempi. Gli italiani sono sempre stati affascinati dal carisma, che può produrre ottimi o pessimi frutti. Il più dotato nel carisma demagogico fu Benito Mussolini, con i risultati che conosciamo. Penso e spero che non sia il nostro caso attuale.

***
Personalmente non mi oppongo affatto al monocameralismo, esiste in quasi tutti i Paesi d'Europa. Non mi oppongo neppure a chi comanda da solo, con un ristretto cerchio magico di devoti: anche questa, in una società complessa come quella in cui viviamo, è diventata di fatto una necessità. Salvo un punto che tuttavia è fondamentale: ci dovrebbe essere una oligarchia invece del cerchio magico dei devoti.

Nella Prima Repubblica l'oligarchia democristiana comprendeva De Gasperi, Scelba, Fanfani, Moro, Andreotti, Colombo, De Mita, Piccoli, Rumor, Bisaglia, Segni, Gronchi, Dossetti, La Pira e molti altri.

Nel Partito socialista c'erano Nenni, Mancini, Giolitti, Pertini, De Martino, Lombardi, Brodolini, Craxi, Miriam Mafai, Signorile, De Michelis, Martelli.

Nel Pci Togliatti, Amendola, Longo, Ingrao, Barca, Terracini, Scoccimarro, Negarville, Napolitano, Reichlin, Pajetta, Nilde Iotti, Tortorella, Rodano, Occhetto, e infine Berlinguer e poi D'Alema e poi Fassino, e poi Veltroni. Il Pci non fu mai un partito dittatoriale e tantomeno guidato dai devoti del capo; fu oligarchico e costituzionale, con il solo ma drammatico errore d'essere per lunghi anni legato alla dittatura leninista- stalinista.

I piccoli partiti contavano molto poco ma alcuni dei loro esponenti ebbero un'importanza di grande peso nella storia del Paese: Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini, Malagodi, Calvi, Storoni, Mario Pannunzio, Cattani, Corbino, Valiani.

Ho fatto questo lungo elenco per dimostrare che la democrazia italiana negli anni tra il 1946 e il 1975-'80 aveva un personale politico molto qualificato e una struttura operativa che furono gli elementi essenziali della libertà democratica. E se volete dare a quel tipo di architettura gli artefici che la descrissero filosoficamente e politicamente dovrete ricordare i nomi di Platone, di Aristotele e in campo propriamente politico di Pericle.

Il cerchio magico dei devoti non è la via giusta; quello dei Masaniello e dei Cola di Rienzo ancor meno. Lo tengano a mente i giovani se riusciranno ad emergere dall'indifferenza verso il bene pubblico che, non solo in Italia ma in tutto il mondo, sembra averli colpiti. Se aspirano alla politica alta, ebbene è quella qui descritta. Altra fine fa prevedere l'interesse particolare e non quello generale ed è proprio l'interesse particolare che crea la corruzione e la diffonde ovunque. *** Comunque Renzi è bravo e allo stato dei fatti non sembra avere alternative. Vuole il comando; ebbene così sia. Vuole comandare da solo, e così sia. Se il referendum avrà una maggioranza di "sì" il successivo congresso del Pd lo confermerà nella carica di segretario del partito. Non si è mai visto un capo di governo boicottato da un partito del quale è segretario. Sarebbe battuto al congresso. S'è visto appunto con la coltellata inflitta da Renzi ad Enrico Letta, l'uno segretario e l'altro premier.
Quella coltellata getta ancora sangue e non vi è stato posto alcun riparo. Quando si dimenticano i torti inflitti è un pessimo segno verso l'onestà politica.
Renzi - lo ripeto con verità e senza ironia - ha carisma e l'intelligenza di saperlo usare. Quindi così sia. Ma, secondo il mio personale punto di vista, così sia soltanto ad alcune condizioni.

1. Modificare la pessima legge elettorale già esistente e adottare invece quella di De Gasperi del 1953, fondata sul sistema proporzionale.
2. Ammettere l'apparentamento tra varie liste, cioè un'alleanza pre-elettorale.
3. Introdurre un premio previsto ad una maggioranza che ottenga un voto del 50 per cento più uno. Una maggioranza talmente esigua da rischiare l'ingovernabilità. Il premio dovrebbe arrivare al massimo ai 55 seggi ottenuti dai partiti che hanno vinto.

Questa legge, ingiustamente definita "legge truffa", conserva la stabilità ad un governo sostenuto dai partiti che hanno ottenuto una maggioranza troppo esigua per assicurare una linea che duri almeno per l'intera legislatura.

La legge non dette la vittoria alla Dc e ai suoi alleati, ma sia pure cambiando spesso il titolare del governo, assicurò una linea di fondo che la Dc mantenne per molto tempo fino a quando dovette estendere le alleanze al Partito socialista intorno agli anni Sessanta e una quindicina di anni dopo addirittura al Pci di
Berlinguer proprio nel giorno in cui le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro e dopo cinquantacinque giorni lo uccisero. Il seguito lo conoscete.

Questi contenuti della legge elettorale vanno emendati prima del voto referendario. Quando non ci fosse il tempo procedurale (ma c'è) si dovrebbe varare un documento ufficiale che s'impegna a modificarla nei modi suddetti e venga recapitato ufficialmente a tutte le Alte Autorità dello Stato in modo da evitare che l'impegno assunto sia tradito.

***

Questi temi e i segnali che ne derivano riguardano soltanto l'Italia. Problemi per noi assai importanti, ma per il resto dell'Europa abbastanza trascurabili. D'altra parte il problema europeo ci riguarda direttamente e vorrei dire drammaticamente e Renzi se ne rende conto forse anche più degli altri. Infatti si è messo abilmente in posizione.

Il suo vero ed essenziale compito da assumere è proprio quello di battersi per rafforzare l'unità europea nella direzione imboccata cinquant'anni fa da Adenauer, Schuman e De Gasperi e anticipata da Altiero Spinelli e dai suoi due compagni confinati a Ventotene ai tempi del fascismo: Europa unita, Europa federata. Lo chiede perfino papa Francesco che l'ha invocata venerdì scorso in occasione del Premio Carlo Magno che gli è stato conferito dalla fondazione che porta quel nome ed ha sede ad Aquisgrana.

Francesco lo ha accettato proprio per cogliere quell'occasione e quella dell'Europa. Non solo dell'affratellamento di tutte le religioni sotto il simbolo dell'unico Dio. Quell'affratellamento è inevitabile a cominciare dalle tre religioni monoteistiche in particolare dai cristiani e dai musulmani che sono i più numerosi residenti in Europa. Il fondamentalismo non può e non deve esistere né tantomeno il terrorismo orribile che ne deriva. Ma ben oltre questo piano religioso, Francesco ha affrontato la necessità di unificare, le istituzioni, la poetica e la cultura di uno dei continenti più importanti del nostro pianeta. Vale la pena di leggere quelle parole nella loro precisa letteralità: "Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell'uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?".

***

Se esaminate a fondo queste parole vedete che esse contengono i tre valori che a tutti noi, europeisti moderni ispirano l'opera nostra: libertà, eguaglianza, fraternità. Implicano scelte politiche, sociali, economiche e perfino (fraternità) religiose di quel tipo di religione che anche i non credenti propugnano e che riguarda soprattutto l'accoglienza dei poveri, degli immigrati e degli esclusi. Ama il prossimo tuo più di te stesso, questa è l'esortazione di Francesco e questo a me sembra che anche Renzi abbia ascoltato, o almeno che alcune sue mosse sul rafforzamento di un'Europa più forte e più unita possano avergli suggerito di assumere nuove posizioni in proposito.

Vada avanti coraggiosamente su questa strada e su di essa i suoi dissenzienti spostino la loro battaglia perché un'Europa federata con quei valori ideali e politici è la vera sinistra moderna. Un'Europa federata avrebbe come primo compito quello di praticare una politica sociale che elimini le più intollerabili diseguaglianze, crei nuovi investimenti e nuovi posti di lavoro, nuove tecnologie, nuovi diritti insieme a nuovi doveri.

Francesco a chi gli obiettava d'essere un Papa comunista ha risposto: "Io predico il Vangelo. Se ai comunisti piace il Vangelo ben vengano e siano loro a venire da noi".

Caro Matteo, tu non sei un Papa e soprattutto non sei questo Papa. Ma devi essere il leader di un partito di sinistra. Ebbene sposta la sinistra e te stesso su questa battaglia che ti eleva ad un livello diverso e nuovo: adeguato almeno in parte a quello della Germania di Angela Merkel.

Se farai questo, gli europeisti d'ogni Paese del nostro continente saranno al tuo fianco. Altrimenti crollerai sotto il peso di errori economici, demagogici e politici che diffonderanno gli illeciti profitti d'una corruzione che ormai già minaccia profondamente l'interesse dello Stato, cioè di noi tutti.

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11 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/11/news/matteo_renzi_la_sinistra_e_l_europa_immaginata_da_francesco-139542308/?ref=HRER2-3



Titolo: EUGENIO SCALFARI. A Renzi ricordiamo: l'Italia ha costruito l'Europa
Inserito da: Arlecchino - Maggio 16, 2016, 11:58:39 am
A Renzi ricordiamo: l'Italia ha costruito l'Europa

Di EUGENIO SCALFARI
15 maggio 2016
   
Q UALCHE amico laico e miscredente mi ha avvertito alcuni giorni fa che io parlo e scrivo con troppa frequenza di papa Francesco e ad un pubblico come il nostro di Repubblica e dell'Espresso non piace.

Al mio pubblico io tengo molto, ma non si tratta né di una civetteria né d'un improvviso mutamento di opinione. E tantomeno d'una nuova linea del nostro giornale e del nostro editore. Si tratta invece di Francesco Vescovo di Roma e Capo di santa romana Chiesa. Dopo averlo conosciuto la prima volta sette od otto mesi dall'inizio del suo pontificato, a chiusura del nostro primo colloquio gli chiesi: "Santità, qual è la funzione delle donne nella vostra Casa? Non parlo soltanto delle suore che vivono in conventi, operano negli ospedali, coltivano la terra e soprattutto pregano; parlo delle donne in generale, dei loro sentimenti, dei loro pensieri e del loro istinto femminile ed anche, se mi permette, dei loro diritti. Per voi, presbiteri, vescovi, sono nulla? Sono una specie subordinata in compiti di moglie, madre, figlia obbediente alle decisioni dei genitori ".

"Le rispondo in un solo modo che rispecchia però la pura verità: la Chiesa è femminile".

Risposi che non capivo e Lui a sua volta, scandendo le sillabe, ripeté: "La Chiesa è femminile. Maria è la nostra madre che intercede per noi; ma non è solo questo. La Chiesa detesta la guerra, ama i propri figli, li educa al bene, aiuta i poveri, i malati, i derelitti, ama il prossimo e detesta chi violenta. Non sono valori femminili?".
 
Lei lo dice ed è certamente vero, ma nella Chiesa dove pure questi valori ci sono, anche se non sempre, ma in tutte le epoche: e non da parte di tutti i suoi membri, le donne non hanno alcuna importante funzione. Neppure le suore dei vari ordini. Sono centinaia di migliaia in tutto il mondo ma contano niente. Dipendono da un presbitero o da un suo delegato. Non capisco il senso di tutto ciò se la Chiesa è femminile come Lei dice e pensa".

Stavamo salendo la breve scala che dalla sala di Santa Marta arriva al portale d'uscita ed eravamo fermi a metà. Fuori - ricordo - c'erano nuvole e lembi d'azzurro. Francesco disse: "Lei ha ragione. La tradizione dei secoli si è fatta lì, non è opera delle donne, e non riconosce i loro diritti nella Chiesa e nella vita".

"Non sarà una battaglia facile, Santità".
"Temo di no e non credo per cattiveria ma perché le tradizioni fanno parte della storia di ogni comunità e spesso diventano dottrina. Per aprire le porte ci vuole del tempo, questo del resto è uno degli obiettivi del Vaticano II. Quando venni insediato il compito che mi è stato assegnato fu proprio quello di portare a termine le indicazioni di quel Concilio, la principale delle quali è l'incontro con la modernità. Questo è ciò che mi sento di dirle. Lei però non parli di questo fino a quando l'opera che intendo svolgere non sarà cominciata". Fu in quel momento e su quel tema che diventammo amici. Francesco arrivò alla porta d'entrata e la mia automobile mi attendeva. Lui mi abbracciò ed io feci altrettanto, profondamente commosso, e fu in quel momento che capii che Francesco era un Papa rivoluzionario come pochi c'erano stati prima di lui. Ora è cominciato nella Chiesa il movimento affinché le donne partecipino alla liturgia nei limiti che sarà opportuno prevedere. Di queste cose non debbo parlare? Io non credo e penso che anche i miei lettori, tanto più se laici, vogliano i diritti per tutti e questa deve essere una battaglia laica per eccellenza, ne sono sicuro e perciò vado avanti.
***
Scritto questo prologo (che è per quanto mi riguarda il tema ben più d'un prologo) vengo ad un problema che ho già più volte trattato e recentemente nell'articolo pubblicato giovedì scorso: l'Europa, i suoi guai, la sua drammatica disarticolazione, la mancanza di uno spirito unitario che la rinsaldi e la faccia uscire dall'abisso in cui sta cadendo.

Mi rivolsi a Renzi e alla sinistra italiana (ed europea) affinché si dessero carico di questo difficilissimo compito. Dalla sinistra non ho avuto alcun riscontro salvo quello di Alfredo Reichlin che mi conosce e mi stima. Quanto a Renzi, mi ha telefonato (del tutto inconsueto) dicendo che il tema Europa è appunto centrale come lui ha già compreso e ad esso si dedicherà con il massimo impegno per risvegliare lo spirito dei fondatori (Adenauer, De Gasperi, Schuman) e l'ideale di Altiero Spinelli. Se i suoi dissidenti faranno altrettanto, come si augura, il partito marcia compatto verso un traguardo che, se raggiunto, risulterà una vittoria storica dell'Italia moderna. Poi si è parlato d'altro e spesso da posizioni contrastanti, ma su questo non ho da riferire, le comunicazioni sono private ed io questa la considero tale. Renzi del resto fa altrettanto.

A proposito del nostro ruolo in Europa ci sono però alcune cose della massima importanza storica che debbono essere ricordate. Gli italiani (e gli europei con un minimo di cultura) li conoscono ma spesso non ci pensano e di fatto se scordano. Dunque parliamone noi.

Anzitutto siamo tra i Paesi fondatori dell'unione della Comunità del carbone e dell'acciaio e tra i cinque Paesi che firmarono i trattati di Roma nel 1957. Ma c'è un precedente molto più antico che cominciò duemila anni fa ai tempi di Giulio Cesare, Augusto, Germanico, la conquista della Gallia e della Spagna, della costiera mediterranea africana, della Germania, fino a Traiano e poi Adriano che segnò i confini dell'Impero ivi compresa una parte meridionale dell'attuale Gran Bretagna, l'Egitto, il Medio Oriente, e ovviamente la Grecia, l'Illiria e i Balcani.

Prima di allora l'Europa era un continente percorso da popolazioni vaganti e selvatiche, prive di residenza e dedite al saccheggio di regni e città che venivano rase al suolo.

Da questo punto di vista è Roma ad aver costruito l'Europa. Sono passati i millenni, ma purtroppo in vario modo anche per la più becera demagogia destinata ad influire sulla conquista del potere. Questo accade sempre e dovunque, ma resta il fatto storicamente avvenuto che l'Europa è nata dall'esistenza di quell'Impero e delle sue propaggini civilizzate. Perfino il Cristianesimo diventò l'unica religione europea proprio nei medesimi territori imperiali. Tant'è che nell'800 d. C. Carlo Magno resuscitò il Sacro Romano Impero, votato dai principi tedeschi e della Renania ma legittimato dall'imposizione della corona sulla fronte dell'imperatore da parte del Papa dell'epoca in San Giovanni in Laterano.

Tempi remoti, ma è bene non dimenticarseli perché resta il fatto che l'Europa è nata dall'Impero dei Cesari.
C'è dell'altro però, più moderno e di non minore importanza. Si chiama Rinascimento e si svolge tra l'inizio del Quattrocento terminando all'inizio del Seicento diffondendosi dall'Italia in tutta Europa: cultura, reperimento di testi antichi (cardinal Bellarmino), diffusione della stessa lingua nelle sue trasformazioni locali in tutti i paesi latini (Italia, Francia, Spagna, Portogallo), scienza politica, scienza storica, scienza astronomica, pittura, musica. I nomi nei vari settori sono noti: al vertice trecentesco troneggia Dante. Esiste una triade che non si può eguagliare e in ordine di tempo si tratta di Omero (o chi per lui), Dante, Shakespeare.
Ma poi in Italia Petrarca, Machiavelli, i Medici, le corti d'Este e di Urbino, i comuni di Lucca e soprattutto di Firenze, Milano. E non dimentichiamo i nomi di Piero della Francesco, Raffaello Sanzio, Ariosto, Vico. Montaigne conservava molti dei loro volumi nella sua libreria e del resto dopo di lui la cultura moderna che sfocerà nell'Il-luminismo franco-inglese comincia con Vico. A quell'Illuminismo noi abbiamo partecipato con i fratelli Verri, con Cesare Beccaria e con l'abate Galiani.

In sostanza Italia ed Europa sono nate insieme e il nostro Paese ha dato uno dei contributi maggiori e forse il primario rispetto ad altri insieme alla Francia, alla Spagna e all'Inghilterra, senza ricordare le Repubbliche marinare di Venezia e di Genova, Cristoforo Colombo compreso.

Per questa ragione noi dobbiamo batterci e ne abbiamo pieno diritto e titolo per l'Europa unita; il risultato caro Renzi non sarà certo immediato ma dà al nostro Paese un ruolo che altrimenti non avrebbe e che può rendere l'intera politica italiana diversa da quella che finora è stata. Spero che tu te ne ricordi e ne tragga i frutti facendo risorgere il nostro continente dalle rovine nelle quali attualmente si trova.

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15 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/15/news/a_renzi_ricordiamo_l_italia_ha_costruito_l_europa-139823579/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Addio caro Marco.
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2016, 04:34:47 pm
Addio caro Marco.
Noi, i primi radicali sempre insieme per le battaglie civili

Di EUGENIO SCALFARI
20 maggio 2016
   
CI SIAMO conosciuti per un'intera vita ma siamo andati d'accordo poche volte, quando si lottava per la conquista di nuovi diritti: soprattutto il divorzio e l'aborto. Io accanto ai diritti vedevo anche i doveri; Marco i doveri li vedeva poco o niente, anzi per essere esatti vedeva i doveri dello Stato (anch'io ovviamente) ma assai meno o per niente quelli inerenti ai cittadini. Ora che la sua morte mi dia dolore è dir poco: come capita spesso è un pezzo della vita che se ne va. Ne resta la memoria, ma ciascuno ha la propria, che cambia di giorno in giorno e non coincide mai con quella degli altri.

Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola "radical" equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.

Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d'azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l'avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.

I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della "legione lombarda": i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com'era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.

Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.

Accadde poi che nel 1956 noi, "Amici del Mondo" fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell'associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel '58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall'inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un'ora l'inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un'assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo - come ho già detto prima - quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie.

Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte. Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell'apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.

Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell'aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall'altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.

Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c'è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell'aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l'amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.

Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l'ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all'interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L'obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.

Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c'era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c'era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.

Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente. Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c'erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.

A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.

Andai. La scusa era una mia opinione sull'andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. "Il rischio c'è, l'ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell'esistenza". "Lei sa qual è l'ostacolo, l'ho detto pubblicamente" "sì lo so, ma una via d'uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale".

Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava. Che sia stato un grande attore l'ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.

Non ci sono morti, l'ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.

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20 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/20/news/io_e_marco_i_primi_radicali-140186152/?ref=HRER3-1


Titolo: Caro SCALFARI. I "Non Ancora Renziani" non hanno complessi, non temono Renzi!...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 22, 2016, 12:06:30 pm
Se Renzi diventerà padrone sarà per tutti un disastro
"L’appuntamento con il referendum è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni"


Di EUGENIO SCALFARI
22 maggio 2016

CE' MOLTA confusione in Europa e in Italia. Politica ed economica. Ma poiché da almeno dieci anni il mondo intero e non soltanto l’Occidente, che è casa nostra, sta attraversando una depressione che ricorda periodi altrettanto calamitosi, credo sia necessario cominciare dal secondo aspetto della crisi, cioè dall’economia.

Questa settimana le Borse, dopo una prolungata depressione, hanno registrato un miglioramento tuttavia lieve, ma non è questo un fenomeno di rilievo. La novità che riguarda in special modo l’Italia consiste in un improvviso mutamento della Germania, da una politica fin qui di costante rigore economico e finanziario ad una improvvisa e rilevante flessibilità. Questa parola ha ormai assunto vari significati, ma nella sua essenza consente un trasferimento di risorse in favore d’un Paese che ne ha urgente bisogno. Nel caso in questione in favore dell’Italia, che da mesi ne fa urgente richiesta con motivazioni che variano seguendo sempre nuove circostanze ma il cui obiettivo è comunque il medesimo: disporre di maggior denaro affinché la nostra economia riprenda fiato con conseguenze finanziarie, sociali e quindi anche politiche. Il presidente della Commissione di Bruxelles, Jean-Claude Juncker e il suo vice-presidente erano da tempo orientati in questo senso, ma la Germania si opponeva ed aveva perfino preso le distanze — sia pure in modo felpato — dalla politica espansiva della Bce.

Draghi da quell’orecchio non ci sentiva, ma se il freno nei suoi confronti fosse stato tenuto troppo a lungo avremmo probabilmente assistito ad uno scontro a dir poco drammatico. Per fortuna anche questo aspetto della questione è stato attenuato, anzi è scomparso del tutto, almeno per ora. La flessibilità, per tornare al nocciolo della questione, ammonta a circa 26 miliardi di euro, motivati dal nostro governo da tre capitoli di spesa: la necessità di spostare di un anno (dal 2016 al 2017) la riduzione del deficit rispetto agli impegni assunti con la Commissione; le crescenti spese per salvare gli immigrati che arrivano dal mare; le operazioni di accoglienza, accertamento di identità e motivazioni della loro fuga dai Paesi di origine, con annesse le spese derivanti dagli eventuali accordi con quei Paesi per riaccoglierli. Insomma una sorta di bonifica sociale da effettuare su una vasta zona sub-sahariana.

A fronte di questi problemi e della flessibilità che ne è derivata, ci sono però alcune condizioni poste dalla Commissione e dalla Germania ed anche per sua propria iniziativa da Mario Draghi: leggi sul lavoro che incentivino più efficacemente della tanto nominata panacea del Jobs Act; trasferimento di entità consistenti dalle imposte sul reddito a quelle sul patrimonio; riversare tutte le risorse disponibili ad una diminuzione (sempre promessa ma mai realizzata) del debito pubblico e infine una consistente diminuzione del cuneo fiscale per quanto riguarda la parte contributiva delle imprese private. Quest’ultima ricetta l’avevamo più volte sostenuta da almeno un paio di mesi su queste pagine, ma il governo ha fatto orecchio da mercante rinviando al 2017 e non certo per importi significativi. Eppure sarebbe questa la vera panacea per nuovi investimenti e nuovi e veri posti di lavoro, con relativo aumento della domanda.

Questa è dunque la situazione attuale che Padoan dovrà trasformare nella legge di stabilità del 2017 in cui dovrà fornire le prime anticipazioni a Bruxelles entro il prossimo giugno. Il tempo è breve, il lavoro è molto. Ma nel frattempo che cosa sta accadendo nella nostra economia?

***

I problemi sono tre: il trasferimento del grosso delle imposte dal reddito al patrimonio. C’è di mezzo la riforma del catasto e non è uno scherzo da poco; l’andamento del Pil e la diminuzione del deficit entro il 2017 dal 2,4 all’1,8 per cento, l’emersione del mercato nero di imprese e lavoratori. Su quest’ultimo punto s’innesta ovviamente la lotta alle mafie e la corruzione che ne deriva. Qui cioè non si tratta più solo di economia ma entra in ballo anche la politica.

Ma entra in ballo anche il nostro rapporto con l’Europa perché qui la nostra capacità di negoziato si affievolirà di molto. La Commissione in questa occasione ha decisamente favorito l’Italia, mentre ha penalizzato economicamente sia la Spagna sia il Portogallo ed ha aiutato la Francia col contagocce, in una fase per lei socialmente molto difficile. Teniamo presente queste differenze di trattamento. La Merkel l’ha addirittura esplicitamente motivata: l’Italia — ha pubblicamente dichiarato — è uno dei Paesi fondatori dell’Europa e dobbiamo tenerlo presente. Non è un riconoscimento da poco, ma su quella strada dobbiamo proseguire, che la Merkel sia d’accordo o anche non lo sia. Noi siamo stati in tre diverse epoche fondatori dell’Europa: ai tempi di Cesare e poi da Augusto ad Adriano; nel Rinascimento tra il Quattrocento e i primi del Seicento, infine nell’Ottocento non però da soli ma in buona e solida compagnia. Ho già ricordato queste verità storiche qualche domenica fa, ma le ricordo ancora perché credo sia fondamentale. Spetta a Renzi muoversi su questo terreno. Capisco le imminenti elezioni amministrative; capisco molto meno il referendum di ottobre, ma questi appuntamenti elettorali non possono relegare in secondo o terzo piano quello di diventare uno dei protagonisti della politica europea.

La Germania ha detto che se le regole imposte dalla Commissione non sono rispettate dai vari Paesi membri, per i loro interessi nazionali, questi saranno giudicati in modo definitivo dal Consiglio dei ministri europeo, cioè dai 28 Paesi che lo compongono. Più nazionalismo di così. E chi dovrebbe combattere il nazionalismo dei disobbedienti? Ma dov’è la logica di tutto questo? Solo un’Europa federata può stroncare il nazionalismo dei singoli governi. Ed è questa la bandiera che Renzi deve impugnare. Se punta tutto sulle elezioni e sul referendum potrà avere cattive soprese e quand’anche fossero buone rafforzerebbero il suo potere personale. Per farne che cosa? Questa è la domanda cui deve rispondere. A se stesso, alla propria coscienza politica prima che agli altri.

***

I candidati delle principali città che voteranno il 5 giugno sono di modesta levatura. Difficilmente trascineranno le folle al voto. Renzi ha detto che si farà in quattro e ne ha certamente la capacità, ma Grillo anche lui ce l’ha, anche la Meloni e Salvini. Berlusconi l’aveva un tempo, anzi era imbattibile, e tuttavia Prodi lo sconfisse ben due volte su quattro. Oggi comunque Berlusconi è muto. Tutt’al più si occupa del Milan e di Mediaset, di politica no, a meno che…

Molti, che hanno buona memoria, pensano che negli ultimi giorni farà un colpo di scena. Conoscendolo abbastanza lo penso anch’io, ma il colpo di scena per esser tale deve sorprendere, e deve anche avere qualche chance di successo. Quella che avrebbe l’improvvisa alleanza con la Meloni e quindi anche con Salvini. La destra riunita potrebbe anche andare al ballottaggio con la Raggi o con Giachetti, e può persino vincere. Io penso questo. Certo non la voterò, ma molti invece sì. Giachetti è un radicale passato da tempo a Renzi ma ebbe gli insegnamenti da Pannella. Immagino che abbia seguito con commozione più che comprensibile le varie camere ardenti, piazza Navona, funerali laici, sfilate e celebrazioni. Pannella però di politica vera e propria non sapeva niente, non era quella la sua missione. Quindi Giachetti ha solo Renzi come maestro. Tuttavia il suo nome è pressoché sconosciuto ai romani. Spero bene per lui ma non sono ottimista. In realtà, tra le varie città in lista ce n’è una soltanto dove il candidato, che ha già governato la città con buonissimi risultati ed ora si è riproposto, è Fassino a Torino. Forse, così spera lui e spero anch’io, ce la farà al primo turno. Se dovesse affrontare il ballottaggio con i Cinque Stelle la battaglia non sarà facile, ma forse la vincerà. Le altre piazze, salvo Merola a Bologna, hanno tutte candidature modeste poiché modesta è la classe politica attuale. La speranza è nei giovani, sempre che abbiano voglia di politica.

E poi c’è il referendum. L’appuntamento è decisivo. Se Renzi vince sarà padrone, se perde si apre uno scenario nuovo sul quale è molto difficile fare previsioni. Personalmente — l’ho già detto e scritto — voterò no, ma non tanto per le domande del referendum quanto per la legge elettorale che gli è strettissimamente connessa. Se Renzi cambia quella legge (personalmente ho suggerito quella di De Gasperi del 1953) voterò sì, altrimenti no. E immagino che siano molti a votare in questo stesso modo. Pensaci bene, caro Matteo; se anche vincessi per il rotto della cuffia sarai, come ho già detto, un padrone. Ma i padroni corrono rischi politici tremendi e farai una vita d’inferno, tu e il nostro Paese.

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22 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/22/news/se_renzi_diventera_padrone_sara_per_tutti_un_disastro-140326686/?ref=HRER2-1


Titolo: Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re". Di SIMONETTA FIORI
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2016, 06:03:45 pm
Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Il ricordo del fondatore di Repubblica, che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano"

Di SIMONETTA FIORI
29 maggio 2016

"Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano". Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore di "Repubblica" scelse la monacchia.
"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?
"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?
"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare"".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del dopoguerra?
"Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant'anni?
"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?
"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di "Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?
"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

© Riproduzione riservata
29 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/29/news/referendum_1946_scalfari-140836071/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Inserito da: Arlecchino - Giugno 17, 2016, 07:51:55 am
Referendum del 1946, Scalfari: "Perché votai per il re"
Il ricordo del fondatore di Repubblica, che all'epoca aveva 22 anni. "Ero liberale e crociano.
E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano"

Di SIMONETTA FIORI
29 maggio 2016

"Perché ho votato per la monarchia? Ero liberale e crociano. E Croce riteneva che soltanto la monarchia avrebbe potuto arginare la pressione del Vaticano".
Era già maggiorenne Eugenio Scalfari il 2 giugno del 1946. Ventidue anni, neolaureato in Giurisprudenza, appassionato lettore del filosofo napoletano. Quel referendum segnò la storia d'Italia ma anche la sua storia personale, l'ingresso nell'età adulta che l'avrebbe condotto nel cuore della vicenda repubblicana. Seduto sotto un prezioso dipinto veneziano, nella luce della sua casa affacciata sui tetti di Roma, s'abbandona a un racconto dove la vita privata scivola fatalmente in quella pubblica, e viceversa.

Così il futuro fondatore di "Repubblica" scelse la monacchia.
"Croce era convinto che l'istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. Per molti cattolici l'Italia era 'il giardino del Vaticano'".

Temevate l'egemonia scudocrociata?
"Sì, ne discussi anche con Italo Calvino, che votò per la repubblica. Lo ricordo bene perché fu l'ultima lettera, quella che chiuse il nostro scambio epistolare".

Fu questo voto divergente a intiepidire i rapporti?
"No, più semplicemente si era esaurita l'intimità adolescenziale. Eravamo ormai due persone adulte con una diversa esperienza alle spalle: Italo aveva fatto la guerra partigiana in Liguria; io ero rimasto a Roma dove la resistenza era quella dei Gap, agguerrite formazioni comuniste a cui ero estraneo. Così per ripararmi dai tedeschi avevo trovato rifugio dai gesuiti, alla Casa del Sacro Cuore in via dei Penitenzieri. Rimasi lì dal marzo alla fine di aprile del 1944: un mese e mezzo di esercizi spirituali durissimi, fatti in ginocchio con le mani davanti agli occhi".

È per questo che poi avresti trovato un'intesa con papa Francesco?
"Ma no, io mi ero fermato dai gesuiti per ragioni di necessità. Quando l'ho raccontato al papa, è rimasto sorpreso dalla durata degli esercizi. "Ma le saranno venuti i ginocchi della lavandaia", mi ha detto sorridente. "Santità, peggio: in quelle condizioni, a terra e con gli occhi mortificati, a molti di noi venivano i cattivi pensieri". "Beh, il minimo che potesse capitare"".

Insomma, il tuo vissuto era diverso da quello di Calvino.
"Sì, ma non eravamo distanti. Anche Italo temeva una preponderanza democristiana, ma era convinto che il quadro politico si sarebbe evoluto in meglio. Però non riuscì a convincermi".

Anche Luigi Einaudi votò a favore della monarchia per poi diventare due anni dopo presidente della Repubblica.
"Era un liberale, come lo ero io. In realtà eravamo repubblicani. E infatti subito dopo il voto mi sentii lealmente schierato con la repubblica".

Ma non fu subito chiaro a chi appartenesse la vittoria.
"In un primo momento circolò la voce che avessero vinto i monarchici: al Sud il loro voto era stato di gran lunga prevalente. C'era una grande confusione, anche il timore che la votazione non si fosse svolta in modo regolare".

Hai mai creduto all'ipotesi dei brogli orditi per favorire la repubblica?
"Mah, il sospetto fu smentito con prove".

Un "miracolo della ragione", così Piero Calamandrei accolse la vittoria repubblicana. Fece notare la novità storica: non era mai avvenuto che una repubblica fosse proclamata per libera scelta di un popolo mentre era sul trono un re.
"Sì, aveva ragione. Devo dire che io mi trovavo in una condizione molto strana. In fondo mi consideravo anche io un miracolato. E a salvarmi, tre anni prima, era stato il vicesegretario del partito nazionale fascista. Nell'inverno del 1943 ero ancora fascista, come la massima parte dei miei coetanei. Ed ero contento di esserlo, tra mitografie imperiali, la divisa littoria che piaceva alle ragazze, il lavoro giornalistico su Roma fascista. Finché fui cacciato dal Guf per un articolo in cui denunciavo una speculazione dei gerarchi. Se Carlo Scorza non mi avesse espulso, avrei vissuto il postfascismo da fascista".

Avresti potuto scoprire il tuo antifascismo in altro modo.
"Fu dopo la cacciata dal Guf che cominciai a gravitare negli ambienti più illuminati di Giuseppe Bottai, fucina del dissenso per molti antifascisti".

Ti ho chiesto del voto referendario. Ma com'era l'Italia del dopoguerra?
"Un paese massacrato che però voleva dimenticare le ferite della guerra. Per rilanciare il turismo il governo consentì l'apertura di case da gioco. L'organizzazione di molte sedi dipendeva da mio padre, così gli proposi di occuparmene. "Sei matto?". Alla fine riuscii a convincerlo. E nel giugno del 1946 ottenni il mio primo lavoro: direttore amministrativo del casinò di Chianciano. Grande divertimento, due smoking con giacca nera e bianca. E anche il dinner jacket che mi faceva sentire una specie di Cary Grant".

Durò solo quattro mesi e poi la tua vita sarebbe stata molto diversa. Se dovessi scegliere un volto per illustrare una tua storia della repubblica di questi settant'anni?
"Domanda imbarazzante. Però non mi sottraggo: i busti di Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti".

Il simbolo più alto del riformismo italiano. Ma è vero che il primo governo di centrosinistra ebbe vita nel salotto di casa tua?
"Non esageriamo. Però è vero che nel 1963, agli albori di quella nuova stagione, ospitai una sera a cena Riccardo Lombardi, mio carissimo amico, e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia. Lombardi era stato incaricato da Nenni, vicepresidente del consiglio, di preparare le grandi riforme. Così venne a casa per sottoporre a Carli alcune di quelle proposte - la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma dei suoli urbani e la nominatività dei titoli - ma ricevette un sacco di critiche, specie sulle due ultime questioni. Lombardi era arrivato da noi molto prima di Carli: non riusciva a camminare perché gli si era rotta una stringa delle scarpe. Quindi la nostra prima preoccupazione fu risolvere il problema dei lacci".

Poi quella stagione riformista tramontò. Qual è stata l'altra grande occasione mancata della storia repubblicana?
"La grande riforma che aveva in mente Moro: rifondare lo Stato con l'indispensabile appoggio del partito comunista. I colpi di mitra dei brigatisti glielo impedirono. Pochi giorni prima del sequestro mi aveva mandato a chiamare. Non ci sentivamo da dieci anni perché lui mi aveva fatto condannare ingiustamente al processo per la campagna dell'Espresso contro il golpe del generale De Lorenzo. Ma fu un colloquio molto denso. E io ne avrei pubblicato il resoconto dopo la sua morte".

Con gli inquilini del Quirinale hai avuto rapporti alterni, molto polemici - Segni e Leone - o molto amichevoli, ad esempio con Scalfaro, Ciampi e l'attuale presidente Mattarella. Con chi hai avuto maggiore intimità?
"A Pertini mi legava un'amicizia perfino imbarazzante, che il presidente ostentava senza reticenza. Interveniva per telefono anche alle riunioni mattutine di Repubblica, e la sua voce energica portava allegria. Con Francesco Cossiga invece era finita malissimo. Quando era presidente del Consiglio, ogni mercoledì mattina, avevamo l'abitudine di fare la prima colazione insieme. E l'amicizia durò anche al Quirinale, finché cominciò a togliersi i famosi "sassolini dalla scarpa". Dopo le due prime esternazioni, gli chiesi di essere ricevuto con la massima urgenza. "Non puoi smantellare i principi del patto costituzionale, tu sei il garante della carta". E lui non volle più vedermi. Soffriva di ciclotimia, psichicamente fragile".

E il rapporto con Giorgio Napolitano?
"Nel corso della sua presidenza l'ho sempre sostenuto, ma non quando ha tollerato in silenzio la pugnalata di Renzi contro Letta. Tra noi c'è un rapporto di amicizia, che non comporta essere d'accordo su tutto: sull'attuale riforma costituzionale abbiamo pareri molto diversi".

Direttore, un'ultima domanda azzardata. Ma non è che nella scelta del nome di "Repubblica" per il tuo giornale abbia inciso anche il desiderio inconsapevole di espiare il voto monarchico di trent'anni prima?
"Ma no, me l'ero scordato del tutto. Scelsi il nome di Repubblica perché volevo dare al giornale un carattere politico e nazionale. Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo".

© Riproduzione riservata
29 maggio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/05/29/news/referendum_1946_scalfari-140836071/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I leader di domani
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 11:55:42 am
I leader di domani
Si discute molto in queste ore su che cosa accadrà all'Inghilterra e che cosa accadrà all'Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit


Di EUGENIO SCALFARI
25 giugno 2016

Si discute molto in queste ore su che cosa accadrà all'Inghilterra e che cosa accadrà all'Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit. E mettiamo da parte il crollo dei mercati di tutto il mondo, la sterlina al punto più basso degli ultimi trent'anni. Non è questo il problema.

Il problema lo segnalò Winston Churchill in due discorsi rispettivamente del 1952 e del 1955. Disse: "L'Inghilterra ha due sole strade: o diventa la cinquantesima stella della bandiera americana oppure sceglie l'Europa e provvede a costruirne la nascita insieme a tutti gli altri Stati del continente".

Con il voto di ieri il risultato non è stato né l'uno né l'altro. Sfortunatamente l'Inghilterra è diventata (come avevamo già previsto domenica scorsa) una isoletta che la globalizzazione sconvolgerà, che l'America tratterà con gentile indifferenza e l'Europa tenderà a dimenticare salvo che come piccolo mercato di libero scambio. Ha vinto Farage e il suo movimento populista e xenofobo e questo è il risultato.

Naturalmente Farage trasmette l'effetto del voto inglese su tutti i populisti europei: Le Pen in Francia, Salvini in Italia, i paesi baschi in Spagna e poi gli interi Stati la cui fede europea c'è stata soltanto per liberarsi dalla minaccia post-sovietica di Putin: Polonia, Ungheria, Bulgaria, Balcani.

Il Brexit è una bomba a orologeria: distrugge l'Inghilterra, mobilita i Paesi fuori della moneta unica a rivendicare la propria indipendenza, mobilita i populismi dovunque, eccetto lo scontro americano tra i repubblicani di Trump e i democratici della Clinton. Peggio di così era difficile immaginare.

Ho già scritto più volte che, operando su livelli totalmente diversi, c'erano soltanto due persone che avevano le stesse finalità: Papa Francesco e Mario Draghi. Altri francamente non ne vedo. Ci sono, anzi dicendolo al condizionale, ci sarebbero, ma ancora non hanno deciso. C'è da augurarsi che lo facciano al più presto perché il tempo a disposizione è pochissimo. I nomi sono tre: Merkel, Hollande, Renzi. Il terreno sul quale costruire è l'Eurozona. Non più i 28 Paesi della Ue che dopo il Brexit inglese sono diventati 27, ma soltanto i 19 dell'Eurozona.

***

Finora l'attenzione dell'Impero americano aveva una duplice angolazione: l'Inghilterra e la Germania. Ora c'è soltanto la Germania e, secondo le mosse che farà, l'Italia. Non sembri una supervalutazione patriottica da parte mia: da tempo la mia Patria è l'Europa. Ma l'Italia può diventare un interlocutore importante per l'Impero americano. La Germania, altrettanto consultata prima continuerà ad esserlo sempre che la Merkel esca dall'immobilismo pre-elettorale che sembra averla paralizzata. Renzi ha deciso di incontrarla oggi. Mi auguro che sia convincente e possa parlare anche a nome dell'America.

La Cancelliera non può aspettare le elezioni, deve muoversi subito adottando una politica di crescita e di flessibilità economica. I destinatari principali sono la Francia, l'Italia, la Spagna, la Grecia e l'immigrazione. E poi, come tutti, la guerra contro il terrorismo dell'Isis.

L'incontro con la Merkel è il compito principale di Renzi nelle prossime ore. Mi permetto di suggerire che non passi ad altre cose, che pure ci sono e lo riguardano direttamente; pensi a convincere la Cancelliera di Berlino. Tutto il resto viene dopo.

Dopo, ma a poche ore di distanza; in situazioni così eccezionali il tempo corre alla velocità della luce e il dopo riguarda appunto la flessibilità e la crescita economica che direttamente ci riguardano. Dovrebbe rinascere un Keynes, ma si può imitarlo non scavando buchi nella terra ma creando nuovi posti di lavoro. Ci vuole un taglio nel cuneo fiscale di almeno 30 punti. Non è granché, ma aiuta. Ci vuole un taglio della pressione fiscale che sta crescendo di continuo. Inutile pensare al debito pubblico, quello verrà dopo, ma la pressione fiscale no, quella viene subito e si attua combattendo troppo stridenti diseguaglianze. Lo dice Papa Francesco, lo vuole la gente, quella che vota i Cinque Stelle oppure non vota.

E poi c'è il referendum, quello che può rischiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo simile? Io personalmente, e l'ho confermato persino nel colloquio che ho avuto con lui all'Auditorium di Roma lo scorso 11 giugno, voterò "No". Lo faccio perché trovo inaccettabile per la democrazia italiana l'attuale legge elettorale. Se Renzi modificasse in modo adeguato quella legge, io voterei il "Sì". Perché dunque non la cambia, e come dovrebbe cambiarla?

***

Basterebbe che invece di una lista unica come adesso è previsto, con un premio del 55 per cento per chi arriva al 40 per cento dei voti degli aventi diritto, Renzi prevedesse una coalizione di liste distinta ma precostituita: un partito di sinistra che si allea con formazioni di centro moderato. Partiti che portavano voti come erano quelli che seguirono De Gasperi alle elezioni del 1948: erano liberali, repubblicani, socialdemocratici. La Democrazia Cristiana ebbe circa il 40 per cento dei voti, i tre partiti minori un otto-nove. Il sistema era proporzionale, non c'erano premi ma liste pubblicamente apparentate. La Dc governò per 12 anni con questo sistema. Poi compì un salto in avanti e si alleò con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963. Quando De Gasperi si era ritirato e alla presidenza del consiglio furono messi un primo ministro all'anno o poco più. Ma la linea di fondo fu immutata: un partito di centro che guarda a sinistra.

Questa è la mossa che Renzi dovrebbe fare. Prima del Referendum del prossimo ottobre. Ormai non deve più rottamare, deve allearsi a sinistra e tra i moderati, trasformando il sistema tripolare in un sistema bipolare, che ottenga voti dal centro moderato, dalla sinistra più radicale e tra gli indifferenti ex Pd fondato da Veltroni del Lingotto. E apra la sua squadra, italiana ed europea, a persone come Prodi, Veltroni, Enrico Letta, Fassino. Non è più tempo di rottamare ma di ricostruire. Impari dal passato per costruire il futuro in Italia e soprattutto in Europa.

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25 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/06/25/news/i_leader_di_domani-142765997/?ref=HRER2-3


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'Inghilterra e l'Europa, il destino segnato da Brexit
Inserito da: Arlecchino - Giugno 26, 2016, 12:21:31 pm
L'Inghilterra e l'Europa, il destino segnato da Brexit
L'editoriale. L'uscita sarebbe una sconfitta per tutta l'Unione e una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare l'esistente

Di EUGENIO SCALFARI
19 giugno 2016

Noi oggi dobbiamo votare per le elezioni amministrative e questo è il tema dominante della giornata, ma è chiara la sua marginalità rispetto a quanto accadrà tra pochi giorni con il referendum britannico. Sarà quello un segno del nostro destino.

Ci sono molti motivi per i quali gli inglesi (ma non gli scozzesi) non si sentono europei. Uno in particolare lo spiega Bernardo Valli nel suo articolo di ieri su queste pagine, citando lo storico anglo-francese Robert Tombs: "Quando gli europei raccontano la storia d'Europa parlano dell'Impero romano, del Rinascimento e dell'Illuminismo. Raccontano una storia continentale che trascura la Gran Bretagna ed è questa la ragione per cui molti inglesi considerano l'Europa come un'entità con la quale bisogna mantenere le distanze".

In realtà le cose non stanno proprio così: l'Inghilterra anzi, per molti europei, fa parte integrante del continente e la sua storia è la nostra, strettamente connessa con quella italiana, francese, spagnola, tedesca. Del resto l'Inghilterra (quando ancora la si chiamava soltanto così) è stata il penultimo dei grandi imperi occidentali: quello romano, quello spagnolo, quello inglese e quello americano. Il colonialismo francese fu un'altra cosa e non può dirsi propriamente un Impero, anche se l'influenza politico-culturale della Francia è stata dominante per tutto il nostro continente.

La verità è che sono soprattutto gli inglesi a sentirsi storicamente, politicamente, culturalmente una Nazione, anzi una civiltà che ha determinato la storia europea. Il progetto attuale di un'Unione europea che, almeno in prospettiva, dovrebbe arrivare ad una vera e propria Federazione sul modello degli Stati Uniti d'America, non piace affatto agli inglesi. Questa è la vera radice dello scontro, anche se il Brexit ridurrebbe il Regno Unito a non esser più unito e a diventare un'isoletta come cantavano i fascisti degli anni Quaranta del secolo scorso: "Malvagia Inghilterra / tu perdi la guerra / lasciare Malta e abbandonare Gibilterra".

Non solo non perse la guerra ma riuscì da sola a fronteggiare Hitler prima che l'America intervenisse al suo fianco per difendere Londra e liberare tutta l'Europa dal dominio della Germania nazista.

Dunque l'Inghilterra o comunque vogliamo chiamarla appartiene alla nostra storia europea, geograficamente, politicamente, culturalmente. Il Brexit - se dovesse vincere - sarebbe una sconfitta per tutta l'Europa e per tutta la civiltà occidentale ed una vittoria dei movimenti populisti che vogliono sfasciare tutto l'esistente cancellando il passato e lasciando il futuro sulle ginocchia del Fato, cioè di nessuno.

***

Ci saranno anzitutto ripercussioni economiche, e infatti le istituzioni di tutto il mondo sono mobilitate: il Fondo monetario internazionale, la City e Wall Street, la Borsa di Shanghai, le Banche centrali di Washington, di Londra, di Zurigo, di Francoforte, di Tokyo, di Pechino, di Mosca, di San Paolo del Brasile, di New Delhi e di Cape Town; i Fondi d'investimento, i Fondi-pensione, il sistema bancario mondiale che è ormai strettamente interconnesso.

Venerdì scorso le Borse di tutto il mondo hanno avuto una svolta improvvisa: dopo una settimana dominata dal ribasso, c'è stato un consistente rialzo generale connesso ai sondaggi sul Brexit e sulle quotazioni degli allibratori di Londra: l'omicidio di Jo Cox è diventato paradossalmente un elemento positivo per le reazioni d'una parte consistente del Partito laburista e della pubblica opinione liberale. Parrebbe da questi sintomi che l'esito del referendum si stia per la prima volta orientando verso la permanenza della Gran Bretagna nell'Unione europea, sia pure alle condizioni abbastanza pesanti che Londra ha imposto e le Autorità dell'Unione europea hanno accettato.

Se questo sarà l'esito referendario quale sarà alla lunga la politica dei 28 Paesi membri dell'Ue?

Personalmente credo sia chiaro: una politica monetaria di maggiore flessibilità, una politica dell'immigrazione più contenuta con l'obiettivo di trattenere il più possibile in Africa i flussi che provengono da quel continente, una maggiore apertura verso la Russia e soprattutto un aumento dell'egemonia politica della Germania, concentrata soprattutto sull'Eurozona.

Il nuovo equilibrio non può sfuggire a chi osserva il sistema che si verrebbe a delineare: la Gran Bretagna resta in Europa dando maggior peso ai Paesi che non appartengono alla moneta comune; in compenso la Germania tende ad accettare una politica di crescita concentrandola appunto sui 19 Paesi dell'Eurozona. Draghi rientrerebbe nel quadro della Merkel che probabilmente accetterebbe la sua pressione verso una politica espansiva e bancariamente attiva. Ad una condizione però: che la garanzia alle banche non sia estesa anche ai depositanti poiché i tedeschi non vogliono pagare per gli altri.

Insomma, se la Gran Bretagna resta il suo peso politico-economico aumenterà, la Germania diventa più aperta ad una crescita moderata da aumenti di progressività; Francia e Spagna sono alle prese con difficoltà notevoli ma saranno comunque aiutate da Bruxelles. E l'Italia?

***

Noi abbiamo molto da guadagnare dal "Remain" inglese: diventiamo il principale interlocutore della Merkel e al tempo stesso dei Paesi dell'Europa meridionale, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia. Ed anche di Draghi e di Juncker. Ma al tempo stesso del governo di Tripoli e perfino di Putin come si è visto nei giorni scorsi. L'Italia ha un vasto e variegato orizzonte dinanzi a sé. Sarà in grado di gestirlo convenientemente?

Qui giocheranno in modo purtroppo difficile le qualità e i difetti di Matteo Renzi. Come tutti, il nostro presidente del Consiglio è dotato delle une e degli altri e più il quadro è complesso più le contraddizioni aumentano. Tende a centralizzare la politica: è normale, tutti gli uomini politici tendono a questo.

È normale la sua politica se rispetta le origini e il ruolo di un partito di sinistra democratica, che deve porsi come obiettivo di spostare l'Europa verso una linea di sinistra riformatrice. Non è più il momento di rottamare bensì quello di costruire e la sinistra riformatrice deve puntare in Europa e in Italia sulla creazione di nuovi posti di lavoro, sull'aumento degli investimenti, sull'aumento della produttività, sull'aumento della domanda, sulla crescita delle zone depresse in tutta Europa a cominciare dal Mezzogiorno italiano. Un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona, una Fbi europea e un ministro dell'Interno europeo.

Questo è il programma da perseguire e questo ho avuto la possibilità di discutere con Renzi sabato scorso all'Auditorium di Roma. Mi è parso abbastanza interessato a questa diagnosi; in gran parte da lui stesso anticipata. Con una differenza di fondo: la legge elettorale attualmente vigente, che personalmente mi sembra del tutto inadeguata. Ma oggi non è questo il tema: è il "Brexit", puntando sull'ipotesi che vincerà il "Remain".

Se dovesse invece perdere, allora tutti gli scenari cambiano. In peggio. Speriamo che la vecchia Inghilterra si ricordi del liberale Churchill e dei laburisti dell'epoca. Gli uni e gli altri volevano l'Europa. Erano più moderni dei "brexisti" di oggi che la storia d'Inghilterra sembrano averla dimenticata.

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19 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/19/news/brexit_gb_europa-142330651/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La guerra al Califfato e la crisi dell'Europa
Inserito da: Arlecchino - Luglio 05, 2016, 12:14:28 pm
La guerra al Califfato e la crisi dell'Europa

Di EUGENIO SCALFARI
03 luglio 2016

MENTRE scrivo queste righe la nostra Nazionale di calcio sta giocando a Bordeaux contro la Germania con il lutto al braccio per i nove italiani torturati e poi uccisi dai terroristi dell’Is in un ristorante di Dacca, capitale del Bangladesh. Una guerra dall’altra parte del mondo. Non è rabbia e terrore provati dalle periferie del mondo. All’Is, al Califfato, interessa anche il terrore delle periferie, ma Dacca non è una periferia e il Bangladesh non è una periferia: è uno degli Stati dell’Asia con maggioranza religiosa di musulmani moderati. Quindi l’Is è a suo modo uno Stato, con una capitale, un esercito “regolare”, un Capo e il suo stato maggiore, più le periferie sparse dovunque.

Naturalmente ha molti nemici; alcuni sono alleati tra loro, altri combattono il Califfato da soli. Insomma c’è una guerra che ha generato parecchie guerre: la guerra in Siria, la guerra in Turchia, la guerra in Iraq, la guerra in Kurdistan, la guerra in Libia e in Tunisia. E la “mezza guerra” con l’Egitto, con l’Iran e con l’Arabia Saudita. La guerra, come spesso avviene, diventa in certe fasi della storia una sorta di normalità: il potere lotta per consolidarsi ed estendersi. Poi arriva la pace, ma dura poco. Spiace dirlo ma guerra e pace (come magistralmente raccontò Tolstoj) si succedono l'una all'altra ma purtroppo lo stato normale è la guerra e il potere; la pace è un intervallo, un necessario riposo che presto scompare.

***

Accanto alle guerre contro l'Is ce ne sono altre che per fortuna non contengono efferatezze e spargimenti di sangue (qualche volta accade ma più per caso che per libera volontà). Una, la più recente e tuttora in corso, è il cosiddetto Brexit, cioè l'uscita (non ancora ratificata ma comunque già irrevocabilmente avvenuta) dell'Inghilterra dall'Unione europea. Si discute in tutta Europa se sia un grave danno per il nostro continente oppure un problema facilmente risolvibile e un vantaggio o un gravissimo errore per quella che ancora si chiama Gran Bretagna (Regno Unito non più per via della Scozia europeista e dell'Irlanda del Nord).

La risposta che un'attenta analisi suggerisce è la seguente: per l'Unione europea è una prova capitale: può rafforzarsi e fare passi avanti significativi verso uno Stato federale oppure sfasciarsi in molte parti sotto la spinta dei movimenti populisti antieuropei e antieuro. Per la Gran Bretagna è la fine. Una fine lunga almeno una decina d'anni, ma non revocabile in una società globale. Un'Inghilterra isolata. La cui influenza sul resto del suo impero d'un tempo e degli Stati Uniti d'America, è ormai prossima allo zero. A meno che una nuova maggioranza di inglesi non trovi il modo di sostituire la maggioranza che ha votato per il Brexit. È possibile che risanino l'errore ma non hanno molto tempo: un anno o al massimo due ma non di più.

***

Brexit a parte, resta da risolvere la questione europea che si compone di tre elementi: le elezioni tedesche che avverranno tra un anno e mezzo e che vedono la Merkel e i suoi alleati socialisti in difficoltà; il "sovranismo" francese che non è soltanto rappresentato dalla Le Pen, ma dal gollismo dove gran parte della classe dirigente di quel Paese ha ancora le sue radici; gli Stati dell'Europa dell'Est e del Nordest, come la Polonia, l'Ungheria, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, ma anche la Danimarca e la Svezia. Questi Paesi, ai quali va aggiunta l'Ucraina a mezza strada tra la Ue e la Russia, che hanno conservato le proprie monete, vogliono uscire dall'Ue e vivere in proprio.

Come si muoveranno i Paesi che ancora credono nell'Unione e sanno che per sopravvivere e progredire l'Ue deve rafforzare le proprie istituzioni e puntare sull'obiettivo d'una federazione che lasci però ai singoli Stati un'ampia autonomia sia pure nel quadro generale? E qual è la parte dell'Italia in questo momento storico di particolare importanza? L'Italia di fatto fa ormai parte di un triumvirato insieme alla Germania e alla Francia. Quel triumvirato non sempre trova l'accordo sui problemi in questione, ma rappresenta comunque la punta di vertice, le tre gambe che reggono il tavolo attorno al quale sono seduti i rappresentanti delle istituzioni europee: la Commissione, il Parlamento, le Corti di giustizia. E i capi dei 27 Stati ancora teoricamente membri dell'Unione. Ma se alcuni di essi dovessero uscirne, come abbiamo già ipotizzato, i 27 si restringerebbero ai 19 dell'Eurozona e forse nemmeno a tutti di essi.

I problemi che hanno sul tavolo sono i seguenti: 1. La guerra all'Is. 2. Il rapporto con gli Stati Uniti d'America soprattutto dal prossimo novembre quando Obama sarà sostituito. 3. Il rapporto con Putin. E poi i temi socio-economici: il rafforzamento dell'occupazione, il miglioramento delle condizioni sociali, del sistema bancario, del debito pubblico, del bilancio dell'Unione europea e del suo debito pubblico, gli investimenti e la scelta politica che deve guidarli. Infine e soprattutto il tema dell'immigrazione, che comporta anche quello delle periferie e quello della libertà religiosa.

Abbiamo altre volte detto che uno degli attori principali dell'intera vicenda europea è Mario Draghi. Lo è sempre di più, man mano che la vicenda generale si aggrava. Tutte le questioni economiche, che sono una moltitudine, lo impegnano direttamente, a cominciare dal rafforzamento del sistema bancario, del debito europeo che deve assumere le caratteristiche di un debito sovrano rispetto a quello dei singoli Paesi e infine la lotta con la deflazione che sta particolarmente penalizzando l'Italia. Draghi preme per l'istituzione di un ministro delle Finanze unico dell'Eurozona e anche Renzi preme in quel senso. Ed ecco l'altro attore della vicenda europea e italiana: Matteo Renzi. Sui problemi europei l'abbiamo già visto come "triumviro", ma sullo scacchiere italiano?
***

Era molto popolare nel 2013 e lo è stato fino al 2015. Adesso ha perso peso, in parte per l'andamento delle amministrative in alcune città fondamentali come Roma, Torino, Napoli. In parte perché la gente non sente benefici, anzi avverte un aggravarsi dei sacrifici da sopportare. In parte è la realtà, in parte è un modo di sentire. Il risultato è che Renzi e il suo partito hanno perso l'appoggio di una quota rilevante della pubblica opinione. Due anni fa erano al 40 per cento, oggi (per quel che valgono) i sondaggi lo danno tra il 32 e il 34 per cento. La destra è del tutto sfasciata tra Salvini-Meloni e Forza Italia; ma se la destra fosse unita supererebbe anch'essa il 30 per cento. Quanto ai 5Stelle anch'essi sono su quella quota.

In sostanza è una struttura tripolare, pessima situazione per la governabilità democratica d'un Paese, specie in vista d'un referendum confermativo che avrà luogo ai primi del prossimo ottobre e al cui risultato Renzi, credendo con ciò di rafforzarsi, ha legato la propria sorte politica. Non starò qui a ripetere ciò che penso di quel referendum. Non mi piace l'abolizione del Senato, ma per il resto il contenuto di quel referendum è accettabile. Non è accettabile però la legge elettorale che aggancia il sistema monocamerale ad una legge maggioritaria che può avere due risultati: una vittoria del Pd renziano che dà all'Esecutivo (cioè a lui) pieni poteri di governo; oppure dà la vittoria ai 5Stelle mettendo il Paese nelle mani di un movimento praticamente populista (non a caso nel Parlamento europeo i suoi membri hanno votato con Farage, l'inglese che rivendica il merito del Brexit).

Queste due prospettive - o Renzi o i 5Stelle - fanno rabbrividire un buon democratico europeista. Perciò Renzi deve cambiare sostanzialmente la legge elettorale, avendo ben presente la fase degasperiana e post-degasperiana della Dc, che governò con i suoi alleati per dodici anni avendo il 40 per cento di voti propri e un 9 per cento dei suoi alleati (liberali, repubblicani, socialdemocratici). Questo deve fare Renzi per l'Italia, altrimenti il rischio è che al referendum vincano i "no", con quel che ne seguirebbe, anche con contraccolpi negativi della presenza italiana in Europa.

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03 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/03/news/la_guerra_al_califfato_e_la_crisi_dell_europa-143319169/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Libertà e dittatura si combattono oggi nel mondo
Inserito da: Arlecchino - Luglio 12, 2016, 12:04:34 pm
Libertà e dittatura si combattono oggi nel mondo
Credo che il fattore determinante sia il predominio dell'interesse particolare di ogni individuo, di ogni lobby, di ogni civiltà

Di EUGENIO SCALFARI
10 luglio 2016

È accaduto di tutto in questi giorni, ma è ormai sempre più frequente che il mio articolo domenicale cominci in questo modo: sono mesi e forse anni che il mondo ci appare in continua evoluzione. Migliore o peggiore? La risposta dipende dagli interessi particolari di chi risponde. Quindi diciamo che il mondo cambia. In meglio per alcuni, in peggio per altri.

L'elenco di oggi comincia con l'eccidio di Dallas e la ripresa della guerra civile americana tra bianchi e neri. Dallas è una città simbolo di quella guerra, con essa infuria in un'infinità di altri luoghi: spesso è una competizione, altre volte è uno scontro sociale e politico e altre volte ancora la parola passa ai fucili mitragliatori e alle pistole.

Poi c'è il terrorismo del Califfato: sono appena arrivate in Italia le bare delle vittime uccise in Bangladesh, ma non sono le sole perché il terrore del fondamentalismo islamico infuria in tutti i continenti.

Quindi c'è Brexit, l'uscita dell'Inghilterra dall'Unione europea e le conseguenze che quell'uscita comporta. Ne abbiamo ampiamente parlato la scorsa settimana, ma le conseguenze continuano a manifestarsi soprattutto in Inghilterra e nella casa europea: una casa assasi variegata, che reagisce in modi molto diversi, da nazione a nazione.

Infine c'è l'Italia, dove le conseguenze del quadro generale sono state avvertite e determinano un mutamento della pubblica opinione che fino a qualche mese fa nessuno immaginava.

L'insieme di questi fatti avviene in una società globale, anch'essa fonte di mutamenti e contrasti (che il mio amico Carlo De Benedetti ha magistralmente descritto in un'intervista di ieri al Corriere della Sera).

Come si può sintetizzare uno scenario così molteplice che incide inevitabilmente sulla vita di ciascuno di noi? Credo che il fattore determinante sia il predominio dell'interesse particolare di ogni individuo, di ogni famiglia, di ogni categoria sociale e professionale, di ogni lobby, di ogni civiltà. L'interesse particolare mette in contrasto la libertà e il potere. Credo che la migliore definizione di questo quadro globale l'abbia data Paul Valéry in un saggio sulla dittatura e qui voglio citarne poche ma fondamentali righe che a mio avviso spiegano quanto è avvenuto nei secoli e avviene tuttora con la massima intensità.

"Deve essere un godimento straordinario unire la potenza con il pensiero, far eseguire da un popolo ciò che si è concepito in solitudine; e a volte modificare da soli e per un lungo periodo il carattere di una nazione.

Il dittatore è l'unico titolare della pienezza dell'azione. Egli assorbe nel proprio tutti i valori, riduce tutte le visioni alle sue. Rende gli altri individui strumenti del suo pensiero, che vuole sia ritenuto il più giusto e il più perspicace, dal momento che si è dimostrato il più audace e il più fortunato nell'ora del turbamento e dello smarrimento pubblico. Egli ha travolto il regime impotente o corrotto, ha cacciato gli uomini indegni o incapaci e con loro le leggi o i costumi che producevano l'incoerenza. Fra le cose dissolte, la libertà. Molti si rassegnano facilmente a questa perdita. Bisogna ammettere che la libertà, tra le prove che si possono proporre ad un popolo, è la più difficile. Saper esser liberi non è dato in egual modo a tutti gli uomini e a tutte le nazioni. Nel nostro tempo la libertà non è e non può essere, per la maggior parte degli individui, altro che apparenza. La dittatura non fa che portare a compimento il sistema di pressioni e di legami di cui i moderni, nei Paesi politicamente più liberi, sono le vittime più o meno consapevoli".

La citazione è lunga e me ne scuso, ma non poteva descrivere meglio e in modo estremamente aggiornato quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi in Europa, in America, nel mondo intero e, soprattutto per noi in Italia. Valéry scrisse queste pagine qualche tempo prima della morte, avvenuta nel 1945. Ebbene, sembrano scritte ieri, su di noi e per noi.

***

Matteo Renzi (è di lui che ora dobbiamo parlare) è raffigurato alla perfezione da Paul Valéry e naturalmente non è il solo nell'Europa e negli Usa di oggi. Mi viene in mente Angela Merkel, il suo ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, Iglesias in Spagna, ma anche Cameron in Gran Bretagna e via numerando. Ma Renzi, così mi pare, ha più tocco degli altri, si adatta meglio alla parte che tutti i giorni deve recitare, nel Consiglio dell'Unione, nei tête-à-tête con le autorità di Bruxelles e con i primi ministri dell'Ue e dell'Eurozona, con Mattarella, con Napolitano. Col suo partito meno, soprattutto con i suoi dissidenti: sono loro costretti a misurarsi con lui e non lui con loro.

Renzi comunque ha dunque spartiti da recitare: in Europa e in Italia. Quello europeo, a mio parere, lo recita abbastanza bene. Vuole rafforzare l'Europa dei 27 e soprattutto l'Eurozona dei 19. Vuole diventare, anzi è già diventato, il terzo componente del direttorio che di fatto determina la linea dell'Ue. Un tempo erano due: La Germania e la Francia. Adesso sono tre e il terzo è lui; a guardar bene, in ordine di importanza, è addirittura il secondo.

So bene che la bandiera di Altiero Spinelli nel suo obiettivo finale degli Stati Uniti d'Europa lui non lo vedrà e forse non lo vedrà nessuno, ma qualcosa di mezzo tra federazione e confederazione questo sì, è un obiettivo raggiungibile e sta diventando il suo obiettivo: una politica economica comune, di tipo keynesiano; un'intesa con Draghi sul ministro delle Finanze unico dell'Eurozona e su una politica di investimenti italiani ed europei; una politica bancaria che garantisca i risparmiatori, italiani ed europei; un rafforzamento europeo della Nato e un eventuale contingente militare europeo; una polizia federale europea; un'eventuale Europa a due velocità economiche.

Non è una politica facile. Comporta anche una crescente partecipazione alla guerra contro l'Is e il Migration Compact con tutto ciò che ne deriva sia sul piano militare sia su quello economico.

Bisogna aggiungere a questo quadro un elemento in più: oltre che triumviro europeo, Renzi ha anche in mente un altro obiettivo: promuovere un fronte europeo del Sud, che faccia da contrappeso alle alleanze della Germania con i Paesi del Nord e del centro. Il Sud va dalla Grecia alla Francia, Spagna, Portogallo, Malta, che hanno interessi e obiettivi per molti aspetti comuni.

E questo è il Renzi positivo, almeno potenzialmente. Il problema è diverso per lo scenario italiano, che non è secondario perché le radici di Renzi sono il suo potere in Italia ed è quella la base sulla quale poggia il suo ruolo in Europa.

***

Nel 2013 e l'anno successivo fu accolto come il grande rottamatore. Come tale piacque molto agli italiani e qui il ritratto di Valéry calza a pennello. Le prime leggi piacquero anch'esse, promettevano molto, in certi casi distribuirono sollievo sociale, sia pure limitato. Affrontò anche la questione dei diritti, culminata con la legge recentissima sulle unioni civili. Il guaio di questi interventi fu però che alle leggi seguirono stentatamente o non seguirono affatto i regolamenti procedurali e qui la delusione cominciò a farsi strada. Soprattutto sul piano della disoccupazione giovanile, dell'andamento del reddito nell'ambito degli investimenti e dei consumi.

In particolare i giovani hanno sofferto, i padri hanno sofferto, i pensionati, il Mezzogiorno, gli Enti locali. Rispetto all'andamento di altri Paesi dell'Unione e in particolare dell'Eurozona, i tassi del reddito sono rimasti dietro a tutti, la pressione fiscale è aumentata, il debito pubblico anche, nonostante una flessibilità concessa dall'Europa in misura abbastanza ragguardevole.
Questi vari elementi di sofferenza hanno gradualmente modificato l'opinione pubblica. L'astensione dal voto è aumentata; il Movimento 5Stelle ha messo radici locali oltreché nazionali e s'è visto nelle recenti elezioni amministrative.

Questi mutamenti dell'opinione pubblica rendono molto più pericoloso di prima sia il referendum costituzionale sia, anzi soprattutto, la legge elettorale ormai valida e pronta ad entrare in funzione se necessario.

La legge costituzionale sottoposta a referendum contiene molti punti discutibili, ma complessivamente sarebbe accettabile, sia pure con qualche ritocco che può essere effettuato subito dopo l'approvazione referendaria. Di fatto abolisce il Senato e instaura un sistema monocamerale come da tempo esiste nei principali Paesi europei. Quindi non è qui lo scandalo, ma lo è il suo collegamento con la legge elettorale, effettuata in modo tale da essere di fatto una legge di "nominati" o in parte eletti con le preferenze, anch'esse in gran parte nelle mani del potere esecutivo. Il quale, per conseguenza, se vincerà le elezioni raggiungendo il 40 per cento dei voti espressi, avrà di fatto un potere assoluto, salvo l'autonomia della magistratura, i poteri della Corte Costituzionale e le prerogative del capo dello Stato.

Aggiungiamo a questa situazione il fatto che, ove mai il Pd non raggiungesse il 40 per cento, un altro partito potrebbe vincere al suo posto e sarebbe con tutta probabilità il Movimento 5Stelle. E se nessuno arrivasse a quella soglia che attribuisce il premio, il confronto avverrebbe al ballottaggio tra i primi due; ma poiché siamo in un regime politico non bipolare (una destra e una sinistra) ma tripolare, il ballottaggio sarebbe vinto da chi riesce a convogliare su di sé i voti del terzo. È facile immaginare che quel terzo non favorirebbe il Pd ma assai più probabilmente i 5Stelle.

***

Questa è la situazione, la quale sta delineando una prevalenza dei "no" sui "sì" nel voto referendario.

Per evitare questa situazione Renzi dovrebbe prolungare la data del referendum e mettere subito mano alla legge elettorale. Abbiamo già scritto più volte su queste pagine come dovrebbe essere cambiata; su questo punto ne ha scritto ieri anche Michele Ainis.

Vedremo nei prossimi giorni che cosa accadrà. Se tutto resterà com'è oggi, la sconfitta dei "sì" referendari è molto probabile.

Chi la fa l'aspetti, dice il proverbio. In questo caso sarebbe chi non la fa si aspetti il peggio.

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10 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/10/news/liberta_dittatura-143772835/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Califfo e il fulmine di Zeus sul popolo sovrano
Inserito da: Arlecchino - Luglio 25, 2016, 12:14:09 am
Il Califfo e il fulmine di Zeus sul popolo sovrano
"Stiamo attraversando un periodo amarissimo; il Califfato l'avevamo ormai imparato a conoscere, ma è l'ultimo dei disastri che l'area balcanica e mediterranea sta attraversando. Ci vorrà molta forza d'animo e molta speranza di futuro per attraversare l'Inferno che c'è caduto addosso"

Di EUGENIO SCALFARI
24 luglio 2016

SOLTANTO l'Is, il Daesh, il Califfato o comunque vogliate chiamarlo non difendono la democrazia ma un Dio proprio, un proprio Allah che fa giustizia di tutti gli altri Dei, ovunque siano e comunque si chiamino. In realtà il vero Dio per il Califfato è il Califfato medesimo, depositario di tutto il bene e nemico senza quartiere di tutto il male. Il terrorismo è l'arma del Califfato per sterminare il male. Ricordate gli dei olimpici? Zeus aveva il fulmine, Nettuno le tempeste del mare, Vulcano il fuoco e Ade i tartassati degli Inferi. Il Califfato prosegue questa tradizione e il terrorismo ricorda il fulmine di Zeus e gli Inferi di Ade.

In tutti gli altri Paesi, specie quelli del Medio Oriente e della civiltà occidentale, la democrazia è la parola ricorrente sia pure in diversi significati che variano col variare della storia e delle diverse religioni. Noi in America, in Europa e in Italia ci siamo spesso dichiarati tali salvo nei frequenti casi di potere assoluto. In quella situazione però il potere assoluto e accentrato nella mani di una sola persona e del ristrettissimo gruppo dei suoi consiglieri, si diceva venisse usato per il bene del popolo. Ma quale popolo? Quello governato e sottomesso alla sovranità del Capo, che fosse Re o Papa o duca o marchese o cardinale o vescovo. La democrazia era assente nella pratica, ma presente nel ricordo è la speranza di un futuro migliore costantemente perseguito e auspicato. Ma anche la democrazia presupponeva un potere affidato al popolo.

A quel popolo che governava quel territorio, lo difendeva e spesso pensava di estenderne i confini aggredendo altri popoli. In che modo? Non certo con pacifica predicazione ma con la guerra, difensiva o offensiva. La storia di tutto il mondo è caratterizzata da questi valori, anche se chiamarli tali è alquanto abusivo. Valori? Ideali? Oppure, più realisticamente, finalità. Obiettivi, speranze futuribili?

Ho scritto di queste cose in alcuni miei libri ma in particolare in quello intitolato "L'uomo che non credeva in Dio" e un altro dal titolo "L'amore, la sfida, il destino", ma non è stata materia dei miei servizi giornalistici. Credo che ora sia il momento di farlo per rendere più comprensibile ciò che accade tutti i giorni e in tutti i Paesi del mondo, "croce e delizia al cor", ma molto più croce che delizia e non soltanto al cor ma anche al corpo e dunque alla vita.

***

La democrazia è il potere affidato al popolo. Ma qual è il popolo sovrano? Come si configura socialmente? Un tempo, poco più di cent'anni fa, in quasi tutti i paesi era limitato ai maschi ed anche al censo. I maschi poveri erano esenti dalle imposte e quindi dal voto. Sudditi, non sovrani. Ma la rivoluzione inglese guidata da Cromwell e quella francese del 1789 modificarono la visione del popolo sovrano. In Inghilterra e in Francia più rapidamente che altrove. L'Italia fu l'ultima ad allinearsi alla modernità nel voto tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. Quando, almeno in teoria, i popoli erano ovunque sovrani. Questa sovranità si manifesta con tre valori (questa volta bisogna chiamarli tali): la libertà, l'eguaglianza, la fratellanza. La loro bandiera fu il tricolore francese, acquisito in Italia circa un secolo dopo e cioè nel 1861 quando Cavour proclamò il Regno d'Italia.

Dunque popolo sovrano, tutti coloro che la legge autorizzava a votare e questo avviene sia pure con diverse modalità in tutti i Paesi della civiltà occidentale e in quelli che il colonialismo rese o tentò di rendere simili ai nostri. Accade però che molti cittadini elettori non abbiano voglia di esercitare quel loro diritto e se ne astengono. Fisiologicamente il 20 per cento degli elettori non esercita il suo diritto, ma in molti Paesi la quota degli astenuti è cresciuta, ormai si aggira intorno al 30 e in certo casi al 40 per cento con punte estreme che arrivano addirittura al 50 per cento. In questi casi la sovranità è in mano ad un popolo ampiamente falcidiato, composto a sua volta da due categorie assai diverse tra loro: una consapevole dei suoi diritti e degli interessi generali che lo Stato democratico deve rappresentare; l'altra di persone che perseguono l'interesse proprio e dei loro capi locali e qui emergono anche fenomeni di corruzione che inquinano i risultati elettorali.

Infine c'è un fenomeno che spesso accade e cioè il fascino di un Capo, il suo carisma che si impone a masse di elettori. Di questo fenomeno ho parlato qualche settimana fa citando un brano estremamente significativo di Paul Valéry sulla dittatura. Lo ricordo perché è un fenomeno ormai abbastanza diffuso, che mina dall'interno la democrazia, il popolo sovrano e i valori generali dei quali uno Stato democratico dovrebbe essere depositario. Personalmente non credo molto al popolo sovrano. Credo piuttosto ad una classe dirigente che guida l'economia, le banche, la cultura, la scienza e naturalmente la politica.

Questa classe dirigente ha come base di sostegno il popolo sovrano; base di sostegno, non più di questo, ma una base di sostegno è comunque fondamentale; se la base cede, l'intera classe dirigente precipita nella crisi e nella sconfitta. Quanto alla politica, da che mondo è mondo essa si compone di un'oligarchia con al vertice un Capo il quale è l'espressione dell'oligarchia. Aristotele, che metteva la politica in cima a tutto, l'affidava ad un'oligarchia e così è sempre stato. Se manca l'oligarchia c'è un sovrano assoluto, con la soppressione della libertà.

Infine la libertà ha bisogno dell'eguaglianza la quale a sua volta ha bisogno della libertà e tutte e due si uniscono in nome della fratellanza che personalmente vedo così come papa Francesco vede lo Spirito Santo nel suo rapporto con Dio padre e il figlio Cristo. Perdonerete questa citazione un po' ardita, ma è per dire che la fratellanza trasforma in umanesimo la libertà e l'eguaglianza. Bisogna amare il popolo e operare per il suo bene, scegliere la pace e non la guerra, l'amore e non il potere.

Stiamo attraversando un periodo amarissimo; il Califfato l'avevamo ormai imparato a conoscere, ma il sultanato turco è l'ultimo dei disastri che l'area balcanica e mediterranea sta attraversando. Ci vorrà molta forza d'animo e molta speranza di futuro per attraversare l'Inferno che c'è caduto addosso. Ed ora un poscritto dedicato a Matteo Renzi. Ho saputo da una fonte molto attendibile che non posso citare per ragioni di deontologia professionale, che Renzi ha deciso di metter mano alla riforma elettorale in modo drastico e prima del referendum costituzionale. Quindi entro qualche settimana. Sarebbe un passo decisivo e positivo per la democrazia italiana. Mi auguro che la mia fonte colga il vero e lo auguro al nostro Paese.

© Riproduzione riservata 24 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/24/news/il_califfo_e_il_fulmine_di_zeus_sul_popolo_sovrano-144718642/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "I partiti? Solo potere e clientela". Così Berlinguer lanciò..
Inserito da: Arlecchino - Luglio 28, 2016, 06:46:15 pm
"I partiti? Solo potere e clientela". Così Berlinguer lanciò l'allarme
Trentacinque anni fa il confronto di Scalfari con il segretario del Pci sulla questione morale.
Ecco un estratto di quell'intervista


Di EUGENIO SCALFARI
28 luglio 2016

"I partiti non fanno più politica", mi dice Enrico Berlinguer, ed ha una piega amara sulla bocca e nella voce come un velo di rimpianto. Mi fa una curiosa sensazione sentirgli dire questa frase. Siamo immersi nella politica fino al collo: le pagine dei giornali e della tv grondano di titoli politici, di personaggi politici, di battaglie politiche, di slogan politici, di formule politiche, al punto che gli italiani sono stufi, hanno ormai il rigetto della politica e un vento di qualunquismo soffia robustamente dall'Alpi al Lilibeo...

"No, non è così", dice lui scuotendo la testa sconsolato. "Politica si faceva nel 1945, nel 1948 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine dei Sessanta. Grandi dibattiti, grandi scontri di idee e, certo, anche di interessi corposi, ma illuminati da prospettive chiare, anche se diverse, e dal proposito di assicurare il bene comune. Che passione c'era allora, quanto entusiasmo, quante rabbie sacrosante! Soprattutto c'era lo sforzo di capire la realtà del Paese e di interpretarla. E tra avversari ci si stimava. De Gasperi stimava Togliatti e Nenni e, al di là delle asprezze polemiche, n'era ricambiato".

Oggi non è più così?
"Direi proprio di no: i partiti hanno degenerato e questa è l'origine dei malanni d'Italia".

La passione è finita? La stima reciproca è caduta?
"Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela; scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss"".

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.
"È quello che io penso".

Per quale motivo?
"I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente: ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura dei vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti".

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.
"E secondo lei non corrisponde alla situazione?".

Debbo riconoscere, signor segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del Paese da un pezzo.
"La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri lei pensa che gli italiani abbiamo timore di questa diversità".

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?
"Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione: e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?".

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?
"La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché gli altri partiti possono provare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. Ma poi, quel che deve interessare veramente è la sorte del Paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi: rischia di soffocare in una palude. Ma non è venuto il momento di cambiare e di costruire una società che non sia un immondezzaio?".

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28 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/28/news/questione_morale_berlinguer-144942852/?ref=nrct-12


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Dio amoroso di Francesco e gli dei cruenti di guerra e di..
Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2016, 05:12:05 pm
Il Dio amoroso di Francesco e gli dei cruenti di guerra e di potere
Il temporalismo che il Papa combatte senza tregua è in aumento e Bergoglio ne è pienamente consapevole

Di EUGENIO SCALFARI
31 luglio 2016

LE NOTIZIE che si accavallano una con l'altra sono innumerevoli, tutte drammatiche, tutte dolorose e frustranti; ma quella che tocca più profondamente delle altre il cuore e la mente delle persone consapevoli viene da Cracovia e da Birkenau e riguarda l'incontro di papa Francesco con i giovani di tutto il mondo e con i campi di sterminio di 75 anni fa. Riguarda le memorie, il sangue versato, la barbara ricomparsa del terrore che ripropone il tema delle religioni e del loro uso sanguinolento in nome di un Dio cruento d'odio anziché di amore.

Francesco ha passato tre giorni tra Cracovia e Birkenau, tre giorni decisivi per il suo pontificato e - oso dirlo da non credente - per l'anima del mondo. La Shoah voluta dalla Germania nazista non sarà mai scordata ma, sia pure con caratteristiche molto diverse è nuovamente attuale, soprattutto nella discussione su Dio. Questa volta i suoi accoliti lo evocano come Allah Akbar, Allah è grande; ma l'eccidio in corso guidato dal Califfo trova un corrispettivo nella storia del mondo e delle religioni: l'Islam, i Cattolici, i Protestanti, i Tartari. Ovunque gli Dei sono stati simboli branditi per guerre e per stragi effettuate in loro nome. E poiché guerre e stragi hanno come reale motivazione il potere, gli Dei in lotta tra loro sono stati sempre e dovunque identificati con il potere.

Allah Akbar è oggi il più orribilmente disumano, ma eccita tutti gli altri a rispondere analogamente. Dunque guerre di religione e opinioni pubbliche che le condividono e le sostengono. Salvo un solo uomo e chi è con lui: Jorge Mario Bergoglio che non a caso viene "dalla fine del mondo" come egli stesso disse quando tre anni fa fu eletto Papa.

Nonostante il titolo che il Conclave gli conferì, Bergoglio non è il padrone della Chiesa. Vedendolo operare, i contrasti interni sono aumentati e compaiono ormai allo scoperto. La Chiesa è divisa e non lo nasconde. Tornano in mente le Crociate e non soltanto quelle. Il temporalismo che Bergoglio combatte senza tregua è in aumento e papa Francesco ne è pienamente consapevole. Le giornate di Cracovia e di Birkenau sono avvenute a pochi giorni di distanza dagli eccidi di Nizza e di Ansbach, hanno acuito il conflitto interno della Chiesa. Bergoglio esclude con crescente consapevolezza che sia in corso una guerra di religione. Il Califfato e il Califfo in prima persona lottano per il potere, personale e di gruppo. Il Califfo si sente Dio, è lui che detta la legge e getta i suoi soldati contro l'Islam del Corano, colpiti numericamente molto di più dei cristiani.

Francesco lo dice ormai chiaramente: il terrorismo del Califfo è un'arma di potere e non ha nulla a che fare con la religione. Questa affermazione del Papa cattolico è motivata da una verità talmente ovvia da essere sconvolgente: per chi crede in Dio ce n'è uno solo e unico. Le religioni del mondo sono molte, ma la loro differenza è soltanto nelle dottrine, nelle Sacre Scritture e nella liturgia, ma il Dio è unico, unico è il Creatore dell'universo che non può che amare le sue creature.

Questa è la verità di papa Francesco, che lo spinge a riunire tutti i cristiani come primo passo avanti e nel contempo a predicare l'affratellamento con le altre religioni, cominciando da quelle monoteistiche ma non soltanto.

Ecco perché Dio non può essere vendicativo, Dio perdona ed è soprattutto misericordioso. Perdona i peccati ma dona la misericordia. Non a caso il Giubileo indetto da papa Francesco è incentrato alla misericordia.
"Dove è Dio se ci sono uomini affamati, assetati, senzatetto, profughi, rifugiati? Dove è Dio quando persone innocenti muoiono a causa delle violenze, del terrorismo, delle guerre? Questa è la domanda che per un cristiano trova risposta solo nella Croce: il dono di sé, anche della vita, a imitazione di Cristo".

Per un cristiano Cristo è Amore ma questo è vero per l'unico Dio, del quale Cristo è un'articolazione che c'è anche nel Dio di Mosè e in quello di Allah, nel Brahma, nel Buddha, nel Tao, in tutte le divinità che sono una soltanto, plasmata dalla storia degli uomini che la pensano.

Questo predica Francesco. Dopo Paolo, i padri dei primi trecento anni di storia cristiana e dopo Agostino di Ippona, non c'era stato altro Papa cattolico che innalzasse il pensiero religioso fino a queste altezze. Tutto il resto è guerra e potere, la Chiesa come lui predica è pace e amore. Questo dice quanto sia difficile la sua dottrina, la sua fede, la sua predicazione e quanto sia necessario per la vita degli uomini e perfino per la politica che dovrebbe combattere le diseguaglianze e perseguire la misericordia sociale e la pace.

© Riproduzione riservata 31 luglio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/07/31/news/dio_amoroso_dei_cruenti-145115542/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Nei giorni del prossimo novembre vorrei cantare La Marsigliese
Inserito da: Arlecchino - Agosto 09, 2016, 06:13:16 pm
Nei giorni del prossimo novembre vorrei cantare La Marsigliese
"Con l'Italicum democrazia non più parlamentare. Il controllo sarà esercitato soltanto dalla Magistratura, dalla Corte Costituzionale e dal capo dello Stato. Non sarebbero soddisfatti i patrioti che nel 1789 votarono la nuova Costituzione e inventarono la Marsigliese"

Di EUGENIO SCALFARI
07 agosto 2016

LA COSIDDETTA narrazione che Renzi ha di sé è molto particolare, totalmente positiva, ma lo è per tutti, l'Io ama se stesso, da Adamo ed Eva in poi, salvo gli esiti del Giudizio universale che probabilmente non ci sarà mai.

Ovviamente la narrazione anti- renziana è totalmente negativa e anche questo è ovvio: gli Io si contrappongono e ognuno giudica positivamente se stesso.

Poi ci sono quelli che svolgono, per voglia e per mestiere, un'attività critica, cioè giudicante. Anche questo è il frutto di un Io che si attribuisce l'obiettività. A volte finge, a volte è realmente oggettivo, ma questo non sta a lui deciderlo. Il modo migliore per realizzare l'oggettività è di identificarsi con la persona da giudicare, fare propria la sua narrazione e sottoporla all'opinione pubblica. Fu il metodo di Sainte-Beuve. A me è sempre piaciuto e cerco di imitarlo come posso.

Questa premessa era necessaria poiché la situazione generale nella quale l'intero mondo si trova è particolarmente complicata e per un italiano la figura di Renzi ha una particolare importanza, ma per il resto conta assai poco, in questa fase rappresenta l'Italia che ha un suo peso su alcuni temi e nessun peso per altri.

"Il concetto vi dissi, or ascoltate / com'egli è svolto. Andiam, incominciate!".

*** La novità, rispetto ad una decina di giorni fa, viene dalla Libia e dall'iniziativa militare e politica adottata improvvisamente dagli Stati Uniti ancora guidati da Obama.

Il bombardamento di Sirte che è una delle centrali strategiche del Califfato.

C'è un migliaio di combattenti dell'Is a Sirte che da lì alimenta il terrorismo libico, le tribù cirenaiche e antitripolitane, i singoli "soldati" che risiedono a Tunisi, pronti a uccidere morendo non appena ricevono un cenno da parte di chi comanda a Sirte.
Usa hanno scatenato bombardamenti a tappeto con aerei, droni armati ed elicotteri corazzati. Alcuni reparti di forze speciali appoggiano da terra; contingenti militari che provengono da Tripoli combattono anch'essi per la liberazione di Sirte. Ed anche l'Italia è chiamata in campo.

Non sappiamo quanto Renzi prevedesse l'intervento del premier libico Al Serraj, prima o poi sarebbe avvenuto, ma Renzi non aveva a disposizione il calendario. Ora ce l'ha, sa che gli Usa porteranno avanti la battaglia per tutto il mese di agosto, salvo proseguirla se fosse necessario. L'Italia è stata per ora soltanto informata. Se necessario le si chiederà l'uso della base di Sigonella, per una limitata presenza militare, con droni da avvistamento. Resta comunque il fatto che il tema libico ci riguarda. Renzi lo sa, se ne preoccupa perché non vuole la guerra per non stimolare l'arrivo del terrorismo nel nostro Paese; ma d'altra parte avverte la nostra importanza nella questione libica, della quale ha rivendicato da tempo la nostra leadership politica. Il tema libico ha dunque due aspetti contraddittori e Renzi come spesso gli avviene, sente che il solo modo di superare la contraddizione è di rilanciare: il problema libico ci riguarda geograficamente e storicamente, ma anche perché da quella lunga costiera parte il grosso dell'immigrazione verso le sponde italiane. Bisogna che non accada più, bisogna che quel flusso di barconi cessi di ingombrare le rotte verso i nostri approdi. Dunque è necessario aprire un dialogo con i paesi africani di provenienza dove attendono di partire entro i prossimi vent'anni 50 milioni di persone che hanno come meta l'Europa.

Il rilancio di Renzi è la trattativa con quegli Stati del centro Africa, il finanziamento di comunità, la creazione con capitali europei e americani di posti di lavoro locali, atteggiamenti amichevoli dei governi interessati alla questione. Insomma una sorta di ri-colonizzazione pacifica e concordata, che alimenti la modernizzazione africana e possa perfino esser favorita dal diffondersi della Chiesa missionaria in quei Paesi africani dall'Ovest del Ciad fino al Mali, al Kenya e alla Repubblica Centrafricana, dove il Papa aprì le prime porte del Giubileo della Misericordia.

Queste cose Renzi le sa; sono molto difficili da realizzare ma possono - se ben condotte - attribuirgli un ruolo di notevole importanza, almeno simile a quello francese nelle sue ex colonie.

***
Nella narrazione del nostro presidente del Consiglio il tema libico-africano ha fatto nascere un secondo e un terzo tema strettamente connessi con il primo e tra di loro. Uno di essi è la partecipazione finanziaria dell'Europa allo sviluppo africano. Nel frattempo tuttavia l'Europa deve concorrere all'accoglienza, sia pure temporanea, dell'immigrazione proveniente dalle coste del Sud Mediterraneo. Su questo tasto tuttavia l'Europa è assai poco disponibile. Le ragioni sono molte, in parte connesse con elezioni in Spagna, in Francia, in Germania. Renzi ha parlato più volte con la Commissione di Bruxelles ed ha presentato anche un Migration compact, ma l'esito è stato nullo.

Va detto che il tema dell'immigrazione africana in Europa, connesso all'immigrazione proveniente dall'Est e dal Sudest prima o poi si fermerà o dovrà essere affrontato, ma ci vuole ancora parecchio tempo. Su questo Renzi otterrà poco o nulla. Altrettanto può aspettarsi da un altro tema che ha carezzato la sua mente: l'alleanza dei Paesi europei del Sud che forma un contrappeso ai Paesi del Nord e quelli del Nordest.

I Paesi del Sud sarebbero Grecia, Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Malta. Uno schieramento non contrapposto ma dialettico e interamente partecipe dell'Eurozona. Alcuni dei suddetti Paesi concordano col progetto renziano, altri hanno qualche dubbio. Nel frattempo Renzi è entrato a far parte di una sorta di triumvirato dove tre Paesi si scambiano opinioni e affrontano problemi di linea generale: Germania, Francia, Italia. Prima di questa sorta di direttorio facevano parte soltanto Francia e Germania; adesso anche l'Italia e così è nato il triumvirato che ci ha dato un peso europeo maggiore.

Infine c'è la bandiera di Ventotene e degli Stati Uniti d'Europa voluta da Altiero Spinelli, che Renzi ha fatto propria e che in piccola parte ha cominciato ad attuare. Il ministro delle Finanze unico dell'Eurozona, auspicato anche da Mario Draghi; la struttura di garanzia dei depositi bancari, l'Unione bancaria, le emissioni di Bund europei, l'ipotesi ancora lontana ma degna di essere formulata di una sorta di Fbi europeo con poteri di intervento per impedire a vari Paesi comportamenti che violano le regole dell'Unione a cominciare dal ripristino di confini interni contravvenendo a Schengen. Questa è la versione futura di un'Europa che divenga uno Stato federale, ferme restando le nazionalità, i loro poteri locali e la loro capacità negoziale.

Ma oltre al ruolo europeo c'è poi la casa propria, le sue stanze, i suoi cortili e la famiglia con la quale si vive e si convive.

Se questa casa va in frantumi, e la famiglia si sfascia e Matteo viene sfrattato è evidente che il ruolo internazionale scomparirebbe e Matteo, che non è neppure membro del Parlamento, se ne tornerebbe a Firenze a casa di papà. Ecco dunque un'altra narrazione che dobbiamo capire, raccontare, giudicare. Sainte Beuve ce la spiega nelle sue Conversazioni del Lunedì.

A casa propria, cioè a Palazzo Chigi e dintorni, ha fatto cose buone, cose inutili, cose cattive. Ne abbiamo parlato per molte volte. Ora è passato vario tempo e alcune condizioni sono cambiate sicché è venuto il momento di fare il punto. Le questioni sono tre, una di relativa importanza, il colpo di spugna sulla Rai; un altro è il referendum costituzionale che si concentra sull'abolizione del bicameralismo perfetto e il monocameralismo; la terza è fondamentale: l'Italicum, la legge elettorale già approvata e pronta ad entrare in uso quando ci saranno le elezioni politiche generali.

La narrazione di Renzi non coincide questa volta con le altre. Secondo lui la democrazia parlamentare non è affatto incrinata dall'Italicum, dal premio al 40 per cento del vincitore e al ballottaggio tra i primi due che si avvicinano a quel 40 per cento senza raggiungerlo. Ma le cose non stanno affatto così.

L'ipotesi del ballottaggio è molto realistica ed estremamente pericolosa perché il sistema politico vivente non è affatto bipolare ma tripolare il che significa che in caso di ballottaggio vince il terzo e non uno dei primi due.

Si è visto in gran parte delle elezioni amministrative recenti e soprattutto a Torino dove Fassino con dieci punti di vantaggio dopo il primo turno ha perso la carica di sindaco a Torino superato largamente dalla Appendino del Movimento 5Stelle, che al ballottaggio ha ricevuto voti dal centro, dalla destra e perfino da frange estreme di sinistra raggiungendo una ampia maggioranza.

Renzi questa situazione certamente la conosce. Allora perché non intende modificare la situazione? Evidentemente sta cercando di negoziare tacitamente con le forze che saranno fuori dal ballottaggio. Queste forze non stanno alla sua sinistra perché, poche che siano, non accettano l'Italicum. Il negoziato assai probabilmente si svolge con la destra, con tutta probabilità al primo turno i moderati non si muoveranno ma al secondo Stefano Parisi potrà dare il suo apporto affinché il ballottaggio sia vinto dal Pd. Questo porrebbe i moderati in una posizione di presenza importante nel governo che uscirà dal referendum e dall'Italicum. E la democrazia? Non più parlamentare. Il controllo sarà esercitato soltanto dalla Magistratura, dalla Corte Costituzionale e, nell'ambito delle sue prerogative, dal capo dello Stato.

Il barone di Montesquieu che scrisse L'esprit des lois sarebbe soddisfatto della divisione dei poteri assicurata da questo tipo di situazione. Ovviamente non lo sarebbero affatto quei patrioti che votarono nel 1789 la nuova Carta costituzionale e inventarono la Marsigliese.

A me quell'inno piace moltissimo e lo canto ogni volta che mi si dà l'occasione. Speriamo di poterla cantare anche nei mesi e negli anni che ci attendono.
 
© Riproduzione riservata 07 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/07/news/nei_giorni_del_prossimo_novembre_vorrei_cantare_la_marsigliese-145519036/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il terremoto di Amatrice e tutti gli altri mali del mondo
Inserito da: Arlecchino - Agosto 28, 2016, 11:05:25 am
Il terremoto di Amatrice e tutti gli altri mali del mondo
La civiltà occidentale ha globalmente contrapposto il relativismo, lo scetticismo, la forza del dubbio alle certezze dell’assoluto

Di EUGENIO SCALFARI
28 agosto 2016

QUANDO arrivò pochi giorni fa la notizia del terremoto ad Amatrice e in altre terre d’Abruzzo, di Umbria, delle Marche e del Lazio rietino, stavo rileggendo i Canti e le Operette morali di Giacomo Leopardi.
Ebbi grande commozione per quanto era accaduto. All’inizio i morti ritrovati sotto le macerie erano 38, ma si capiva che era soltanto un inizio: crebbero man mano che i ricercatori esploravano le case crollate, le chiese, gli alberghi e i tuguri dei poveri. Siamo quasi a trecento e non è ancora detto che sia la cifra definitiva.

Gran parte sono persone ed intere famiglie abitanti in quei luoghi, ma ci sono anche turisti capitati lì per svago e per la festa dell’Amatriciana. Potevano essere altrove ma il caso non l’ha voluto.
Questi fatti hanno scosso tutto il paese mettendo in sordina gran parte degli accadimenti altrettanto sanguinosi e terribili: la guerra in Siria, gli attentati in Turchia e le repressioni che ne derivano, il mare che inghiotte centinaia di emigranti e guerre, minacce, economie dissestate, crescente povertà e diseguaglianze, diffusa corruzione.

In Europa risorgono i confini, la democrazia traballa dove c’è ed è sempre più bandita dove non c’è mai stata.

Siamo dunque in una fase della vita nostra e di quella del mondo intero che sconvolge gran parte del pianeta. La ragione della caduta in pezzi di questo mondo?

C'è un Dio vendicatore che lancia fulmini sulle sue creature e sul male che possono aver fatto? Oppure siamo noi tutti, ciascuno per la sua parte, a determinare il caos? Questa è la parola giusta: il caos, il marasma, il disordine. Finirà? Che cosa dobbiamo fare per attenuare questo generale sconvolgimento? Oppure il mondo è sempre stato così e la vita esiste e perdura sostenuta dalla speranza che tuttavia è vana perché non raggiunge mai un risultato definitivo, ma parziale e precario?

***

Ho scritto all’inizio che quando arrivò la notizia del terremoto stavo rileggendo i Canti e le Operette morali di Leopardi. Lui, saggista, filosofo e poeta di grandissimo fascino artistico, fu uno dei più coerenti nichilisti della civiltà moderna. Un nichilismo totale, senza fessure o tentennamenti. Ce ne sono stati assai pochi del suo livello.

La civiltà moderna e specialmente quella dell’Europa e dell’Occidente, ha globalmente contrapposto il relativismo, lo scetticismo, la forza del dubbio alle certezze dell’“assoluto”. Sarà un vantaggio o un disastro rispetto ad epoche passate, ma questo è avvenuto. E tuttavia il relativismo ha ben poco a che fare con il nichilismo. Ci sono stati, dal Settecento in poi, periodi dominati dal pensiero nichilista, di fronte ad emergenze spaventose, ma sono stati periodi transitori e quando il peggio aveva ceduto al meno peggio, al tollerabile, al discreto o addirittura in certi momenti al meglio.

Pochi, lo ripeto, sono i nichilisti totali e definitivi. La sostanza del pensatore nichilista è il desiderio costante degli uomini d’essere felici e l’inesistenza della felicità. Può durare un attimo la felicità, ma non più che tanto. La felicità come “status” della vita e di una lunga fase di essa è inesistente. La speranza, certo; quella ti aiuta a campar la vita, ma le poche volte che si realizza dura poco più d’un respiro, che si tramuta presto in un sospiro.

Questa infelicità non affretta l’arrivo della morte; la maggior parte delle persone continua a vivere, si contenta, ride, motteggia, mangia l’amatriciana o altre gustose vivande, ma la società in cui vive ospita brandelli di felicità avvolti da una nube di infelicità dalla quale ogni giorno, ogni ora, ogni attimo si scatena il fulmine che colpisce questo o quello o molti o tutti: siano guerre, epidemie, povertà, delinquenza, incompetenza, malanni molto diffusi e presenti ovunque.

Il nichilismo constata questo caos di sofferenze e ne deduce che vivere è del tutto inutile. Non spinge al suicidio ma confida che la vita sia breve e vede la morte come l’unico vero bene.

Naturalmente il nichilista è ateo, quindi esclude che la morte sia apportatrice di felicità ultraterrene. Il solo vantaggio della morte è di eliminare la tua infelicità.

Ricorderete che ai tempi della Shoah, la terribile strage organizzata dai nazisti per motivazioni razziali, molti chiesero ai loro sacerdoti come mai Dio aveva accettato una situazione così assurda senza intervenire e molti degli interrogati risposero che Dio di fronte ad un massacro di quel genere, perpetrato dai portatori del male, si era ritirato dietro le nuvole. Un modo assai improprio per persone di fede religiosa.

Il nichilista ovviamente ateo pensa invece che il male, anche il più orribile, il più inatteso, prodotto dagli uomini o dalla natura o da quei due elementi uniti insieme, sia lo stato usuale della vita e quanto benvenuta sarebbe la morte. Lo scrisse anche Francesco d’Assisi nella canzone delle Laudi parlando della morte come “sorella corporale” laudata anch’essa perché non fa alcun male. Francesco non era certo un nichilista, era un mistico. Ebbene, certe persone pensano che il nichilista sia anche lui un mistico. Leopardi non lo sapeva ma certamente lo era e basta leggere i suoi Canti per capirlo.

Chi vuole esaminare un personaggio di quel livello si domanda se il poeta sia nel suo caso più importante del filosofo o viceversa. A me è accaduto di pensare e di scrivere che la figura del filosofo è dominante e il poeta sia l’aspetto sentimentale della sua filosofia. Ma il tempo passa e la mente d’ogni persona cambia con lo scorrere del tempo, sicché il mio pensiero considera ora il poeta l’elemento dominante di quel personaggio che è uno dei più illustri della letteratura italiana. “Il primo amore”, “L’ultimo canto di Saffo”, “L’Infinito”, “Alla luna”, “Il passero solitario”, “A Silvia”, “Le ricordanze”, “Amore e morte”, “A se stesso”, “Il tramonto della luna”, “La ginestra” sono i gioielli d’una anima dominata da “Sora nostra morte corporale / de la quale nullu homo vivente pò scappare”.

Questo non è nichilismo, è l’espressione mistica di un poeta. Nell’arco di un secolo simili a lui furono Rilke, Poe, Baudelaire e da noi il D’Annunzio dell’“Alcyone”, Montale, Ungaretti, Quasimodo. Ma lui, debbo dirlo, li sovrasta quasi tutti.

Concluderò pubblicando alcuni brani di uno dei suo canti più belli: “Le ricordanze”. La sofferenza dell’anima s’è insinuata tra quelle righe e ha lasciato la sua impronta fino a diventare essa stessa la sostanza di quel canto disperato.

O speranze, speranze; ameni inganni della mia prima età! Sempre, parlando, ritorno a voi che per andar di tempo, per variar d’affetti e di pensieri, obliarvi non so...
Ahi, ma qual volta a voi ripenso, o mie speranze antiche ed a quel caro immaginar mio primo, indi riguardo al viver mio sì vile.
E sì dolente, e che la morte è quello che di cotanta speme oggi m’avanza; sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto consolarmi non so del mio destino...
e spesso all’ore tarde, assiso sul conscio letto, dolorosamente alla fioca lucerna poetando, lamentai co’ silenzi e con la notte il fuggitivo spirto ed a me stesso in sul languir cantai funereo canto.

© Riproduzione riservata 28 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/28/news/il_terremoto_di_amatrice_e_tutti_gli_altri_mali_del_mondo-146745389/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Francesco ci ricorda che la terra nasce dal mare e dal fuoco
Inserito da: Arlecchino - Settembre 06, 2016, 04:34:05 pm
Francesco ci ricorda che la terra nasce dal mare e dal fuoco
Terremoto: è l'ora della ricostruzione. Ma contro il malaffare occorrono talenti e menti oneste

Di EUGENIO SCALFARI
04 settembre 2016

I MORTI, le rovine, i funerali, le polemiche, i progetti di ricostruzione, l'assistenza: tutto è stato ormai vissuto dalle vittime del terremoto avvenuto in Abruzzo, in Umbria, nel Lazio di Rieti, in quella fascia dell'Appennino già messa più volte alla prova. Ora tocca all'azione ricostruttiva. I talenti ci sono, ma insieme ad essi si ripresentano anche varie e assai diffuse forme di malaffare, contro le quali ci vorrebbe una mente, un'esperienza ed una onestà a tutta prova.

Ho letto la settimana scorsa un ampio articolo pubblicato dall'Osservatore Romano e scritto da Francesco Scoppola, per anni sovrintendente al ministero dei Beni culturali e in particolare proprio di quelle zone dove il recente terremoto si è scatenato. A persone come lui bisognerebbe affidare la progettazione della attuale fase: programma, persone capaci di attuarlo, fondi necessari. Mi auguro che anche il ministro competente lo abbia letto e ne tragga conclusioni adeguate.

Questo è il fare, ma c'è anche il pensare alla natura della quale facciamo tutti noi parte, subendone o provocandone gli effetti. È nostro nemico il terremoto, nostri nemici i vulcani, nostri nemici gli abissi che d'improvviso si spalancano sotto i nostri piedi? La gente normalmente la pensa così ed è naturale che sia questa la reazione di fronte al frequente ripetersi di questi spaventosi fenomeni in un paese come il nostro dove le catastrofi geologiche sono frequenti e diffuse.

Ma questo fenomeno naturale, oltre alle camarille che ci mangiano sopra, mette in causa per i presenti anche Dio. Perché Dio non interviene, non impedisce eventi che causano sofferenze e morte a persone, vecchi, bambini, ricchi e poveri? Dio non c'è, ma solo una natura affidata al caso o al destino? Monsignor Pompili, vescovo di Rieti, ha capovolto il problema, ha affermato pubblicamente nei giorni del dolore che terremoti e vulcani hanno costruito il mondo e non hanno prodotto il male; sono gli uomini che uccidono gli uomini con le loro opere imperfette e il loro malaffare.

La gente nella sua grande maggioranza è rimasta a dir poco stupita. Ma poi tre giorni fa ha parlato papa Francesco, la gente nei paesi distrutti aspetta che vada di persona a visitarli e confortarli. Francesco ha parlato ancor più chiaramente del vescovo. Ha detto: "Terremoti e vulcani hanno costruito il mondo e in particolare i luoghi emersi dalle acque. Invitiamo tutti ad un esame di coscienza al fine di confessare i nostri peccati contro il Creatore, contro il Creato, contro i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché quando maltrattiamo la natura maltrattiamo anche gli esseri umani e in particolare i più indifesi che sono i poveri".

Questo è il pensiero di Francesco, così come fu il pensiero del Santo di cui ha preso il nome. Il Creato è santo perché santo è il suo Creatore. Anche gli uomini, cioè la nostra specie, fanno parte del Creato, ma ad essi Dio ha donato la libertà di scegliere tra il bene e il male. Qui sta il punto che ci differenzia dal resto del Creato. Ma come e perché? E questo vale soltanto per il Dio dei cristiani o anche per le altre religioni? Il Dio è unico, pensa e dice Francesco. Ma le altre religioni sono d'accordo? E lo dimostrano e lo predicano come Francesco?

***

In teoria tutte le religioni, soprattutto quelle monoteiste, non negano il Dio unico, anche se ne parlano il meno possibile. Ci sono tuttavia due differenze fondamentali rispetto alla Chiesa cattolica ed anche alle altre Chiese cristiane: né gli ebrei né i musulmani hanno alla loro testa un Papa, un Patriarca o comunque si chiami un religioso che tutti li rappresenta. Ci sono dei rabbini più autorevoli di altri e così pure degli imam che si distinguono per il loro sapere e per il numero dei loro seguaci, ma un Papa non c'è. E questa è la prima differenza.

La seconda però è ancora più importante e riguarda soltanto i musulmani. Molti Stati in cui sono divisi sono tutti teocratici, cioè il potere politico e quindi anche quello religioso sono nelle mani di un religioso e questo crea grandi differenze rispetto al resto del mondo. Bernardo Valli, nella sua rubrica di oggi sull'Espresso, dedica proprio a questo tema le sue riflessioni. L'articolo è intitolato "Come si dice laicità in arabo", e scrive così: "La Medina di Maometto non è stata cancellata dalle coscienze. Ha contribuito ad alimentare le fantasie e le passioni e rimane ancora un estremo rifugio nelle disgrazie. Il ritorno alla Medina di Maometto è il rimedio a tutti i mali del secolo, a tutte le umiliazioni subite. E può anche essere una fonte di fanatismo come dimostra lo Stato islamico".

La teocrazia ha immobilizzato l'Islam. E diviso in molte diverse sette, gli sciiti, i sunniti, i wahabiti e molte altre, ma il laicismo non c'è e se qualche famiglia islamica che vive all'estero lo pratica viene espulsa dalla comunità e a volte addirittura uccisa, oppure è mobilitato il padre che fa giustizia dei figli che hanno tradito il potere religioso e le sue leggi.

Riusciranno mai i musulmani ad acquisire il laicismo senza con questo rinunciare alla loro religione? Di fatto ciò significherebbe rinunciare alla teocrazia. Valli spera di sì e forse ha ragione ma ci vorranno secoli. Del resto la Chiesa cattolica ha impiegato secoli a rigettare il potere temporale, che è una forma sia pure moderata di teocrazia. Papa Francesco combatte ancora questa battaglia ed è ancora lontano dall'averla vinta.

L'ostacolo maggiore che Francesco incontra è il contrasto che ancora lo divide tra la verità assoluta e il relativismo laico. Questi due modi di considerare la verità sono inconciliabili e questo è un ostacolo apparentemente insuperabile per quell'incontro con la modernità che è uno dei precetti più importanti del Vaticano II. Francesco vuole attuarlo ed è per questo che cerca di trovare una soluzione. In alcune nostre conversazioni ho avuto la sensazione che abbia trovato il bandolo per sciogliere la matassa. Mi ha avvertito qualche tempo fa, ma adesso mi sembra che su quel bandolo sia all'opera e me ne rallegro.

La nostra verità - dice Francesco - è assoluta perché Dio è assoluto. Questo principio non è superabile e marca la nostra differenza con i non credenti. Ma il nostro assoluto è percepito da ogni persona religiosa a suo modo. Le persone non sono cloni. Ciascuno crede alla verità assoluta ma a suo modo. Quindi la verità assoluta è la mia, è la tua, è quella che molti vescovi hanno, per esempio sulla famiglia, una verità che non è la stessa di altri vescovi e così

su molte altre cose. Sono differenze che arricchiscono e mi permetto di aggiungere che arricchiscono il mondo cattolico ma anche il mondo laico e non credente. Su tutto questo domina il dubbio. Il quale non preclude l'azione, ma mantiene la vigilanza critica. Questo è l'umanesimo.

© Riproduzione riservata 04 settembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/04/news/francesco_ci_ricorda_che_la_terra_nasce_dal_mare_e_dal_fuoco-147139484/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Vorremmo l'Italia e l'Europa con l'elmo di Scipio
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2016, 11:41:50 pm
Vorremmo l'Italia e l'Europa con l'elmo di Scipio
Tutti noi auspichiamo l'avverarsi del sogno di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di Ventotene

di EUGENIO SCALFARI
11 settembre 2016

A Bratislava si sono incontrati i ministri delle Finanze dell'Ue per fare il punto sulla situazione economica dell'Unione di 27 Paesi. Ma ai margini di quella riunione il ministro tedesco Wolfgang Schäuble ha lanciato un violento attacco contro la Grecia e contro la riunione che il premier greco Tsipras ha avuto con Renzi e Hollande. La rabbia di Schäuble era di tale intensità da mettere in ombra il dibattito sull'economia europea perché rappresentava una politica di rigore e di austerità della Germania in una fase in cui l'Unione europea dovrebbe adottare una politica di crescita la più accentuata possibile.

La Germania ha dunque cambiato la linea accettata dalla cancelliera Merkel appena tre settimane fa nell'incontro con Renzi e Hollande a Ventotene e poi a Maranello? Lì sembrò che la Merkel accettasse non solo un rilancio degli investimenti ma anche della domanda dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese ed accettasse anche un patto delle potenze mediterranee per governare al meglio le politiche delle immigrazioni: una sorta di cintura mediterranea che avrebbe fatto anche gli interessi della Germania contenendo le correnti migratorie provenienti dal mare e in particolare dalla Libia.

Insomma a Bratislava Schäuble ha ignorato e anzi addirittura capovolto le posizioni della Merkel e la cancelliera da Berlino ha taciuto. Forse è la sconfitta inattesa alle elezioni amministrative di Meclemburgo-Pomerania che suggerisce alla Merkel un radicale cambiamento di linea?

A Bratislava era presente anche Draghi perché l'Ecofin riguarda direttamente anche la Banca centrale europea. Il suo intervento è stato molto sintetico ma ha toccato un tasto di grande importanza: la Germania attraversa un periodo in cui le sue esportazioni hanno raggiunto un livello mai toccato prima. "Sarebbe ora - ha detto Draghi - che accrescessero molto nella propria economia gli investimenti e il livello dei salari, come del resto le regole dell'Ue prescrivono". Non è certo una battuta spiritosa il rimprovero del presidente della Bce al governo tedesco.

***

Visto che Draghi è entrato nel nostro racconto di quanto sta accadendo in Europa, penso sia opportuno esaminare la politica della Banca centrale in questi mesi estivi, dove tutti vanno in vacanza almeno per qualche giorno salvo lui che lavora senza soste e dorme non più di due notti di seguito nello stesso letto. È in moto continuo, soprattutto in Europa ma anche in Usa, in Asia, in Australia, in Canada, in Egitto, insomma dovunque. Le monete si muovono e lui come le monete di cui ne governa una che ha rapporti di cambio e di scambio con tutte le altre.

Personalmente sono buon amico di Mario; conobbi anche suo padre Carlo quando lavorai nella Banca nazionale del lavoro della quale suo padre fu anche presidente.

Tra noi però, per tacita convenzione, non parliamo mai del suo lavoro che io seguo da giornalista con le usuali fonti di informazione.

So, come tutti sanno, che Draghi ha sostenuto e sostiene in tutti i modi che lo statuto della banca gli consente la moneta comune dei 19 Paesi europei che compongono quella che si chiama Eurozona. L'euro. È lo strumento che usa con un intento che non è soltanto economico ma anche di politica economica.

In Italia i nostri governatori furono tutti di questa taglia: Luigi Einaudi, Donato Menichella, Paolo Baffi, Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi. Draghi è della stessa specie, mentre in altri Paesi europei quasi sempre i governatori della banca centrale sono soltanto efficienti esecutori della politica economica stabilita dal governo. Quando ci saranno (se mai ci saranno) gli Stati Uniti d'Europa, anche la posizione del capo della Banca centrale cambierà; ma Draghi auspica gli Stati Uniti d'Europa. Anzi - posso dirlo perché lo conosco molto bene - è interessato al bene pubblico dell'Europa e non al proprio.

Tutto ciò premesso, il nostro banchiere centrale è per la crescita delle economie dell'Europa. Sta immettendo da mesi liquidità nel sistema, acquista obbligazioni emesse da aziende private con una mole di acquisti che ormai hanno una mole di miliardi di euro. Finanzia le banche europee che ne hanno bisogno ma mette tassi negativi sui loro depositi presso la Bce per incoraggiare i flussi di credito dei nostri banchieri verso i loro clienti privati che meritano credito per investire.

L'economia italiana sta attraversando da tempo una fase di immobilismo. Il Pil degli altri Paesi è in aumento, ma quello italiano no, è fermo da almeno un anno ed oggi questa mancata crescita è uno dei motivi di rabbia psicologica d'una massa di italiani che trasformano le loro difficoltà economiche in rabbia politica.

Draghi non privilegia l'Italia, tratta tutti i Paesi di Eurolandia così come le loro economie richiedono. Ma non credo sia molto soddisfatto della politica economica del nostro governo. Ha apprezzato la convergenza di Renzi sulla proposta che fece lui alcuni mesi prima di un ministro delle Finanze unico dell'Eurozona. Ha apprezzato alcuni interventi di Padoan, ma constata l'immobilità del Pil e quel che ne consegue economicamente e socialmente.

Io non so cosa pensi in concreto che l'Italia debba fare. Ma poiché a questi problemi penso anch'io, la mia proposta a Renzi ed a Padoan è questa: un taglio se non totale almeno della metà del cosiddetto cuneo fiscale.

Il cuneo fiscale è il nome che si dà all'ammontare dei contributi che imprenditori e dipendenti versano all'Inps. Pesa molto su tutte e due queste categorie e produce una notevole differenza tra salari e profitti lordi e salari e profitti netti. Il taglio di almeno la metà di tale contribuzione produrrebbe un aumento dei salari e dei profitti. Un aumento tale da stimolare la domanda dei lavoratori e di profitti degli imprenditori. Nel complesso, secondo me, è questo il vero strumento per rimettere in moto il sistema. Romano Prodi fece qualche cosa di simile con il suo primo governo, ma il taglio fu del 3 per cento, eppure qualche beneficio lo produsse. Qui parliamo non del 3 ma del 50 del cuneo fiscale: secondo me una rivoluzione.

Naturalmente a carico dell'Inps che ha alcune risorse proprie ma certamente insufficienti a sostenere un taglio dei contributi di queste dimensioni, fermi restando i servizi di vario tipo che l'Inps deve continuare a fornire anche di fronte al taglio dei contributi.

A questo punto l'Inps chiederà l'appoggio del governo il quale a sua volta dovrà aiutare l'Inps finanziandosi su tutti i contribuenti, fiscalizzando cioè il taglio dei contributi e addebitandolo a tutti i contribuenti in ragione del loro reddito. Una vera e propria fiscalizzazione degli oneri sociali.

Questa è la proposta. Ignoro che cosa ne pensi Draghi ma per quel che lo conosco forse approverebbe. Se mi sbaglio mi dispiace ma la proposta che faccio a Renzi e a Padoan per quel che vale (e credo che valga molto) è questa.

***

Torniamo a Renzi e al suo accordo con Francia e Grecia che sarà esteso a Malta, Spagna, Portogallo.

È un accordo che punta su una politica europea di crescita, sul rafforzamento delle strutture europee, su una politica di contenimento dell'immigrazione, un contenimento attivo che trattenga i migranti nei Paesi d'origine negoziando con quei governi e puntando su una riaccoglienza dignitosa e alla creazione di nuovi posti di lavoro da parte di investitori esteri privati e pubblici.

Questa è la politica estera ed economica come la vedono i Paesi dell'alleanza mediterranea. E la Germania si opporrebbe? È impensabile che questo accada, anche perché una politica del genere comporta costi non indifferenti che spetta all'Ue di finanziare.

Tutti noi che auspichiamo l'avverarsi del sogno di Altiero Spinelli e dei suoi compagni di Ventotene, e Renzi, ma anche la Merkel, dovrebbero essere d'accordo su questa politica. Renzi lo è, anzi la promuove, ma l'Eurolandia al completo dovrebbe appoggiarla. Così come dovrebbe appoggiare una politica di sostegno del governo libico nella lotta contro il Califfato in Libia, in Iraq, in Siria, col pieno accordo degli Usa. Speriamo che Hillary Clinton, se vincerà, sia sulla stessa linea del suo predecessore.

La politica militare, comunque, è ormai diventata un'incombenza che l'Ue non può più ignorare. Renzi e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni con la sua collega della Difesa, l'hanno già proposto: difesa e politica estera sono ormai un compito dell'Ue che va al più presto realizzato. Sarebbe un passo decisivo verso il traguardo di Spinelli.

La Germania non è soltanto il Paese economicamente più forte d'Europa, ma dovrebbe porsi il problema ormai centrale: guidare l'Europa verso l'unità federale oppure restare in questo stato d'incertezza neutralista?

Capisco che la Merkel abbia il peso delle elezioni tra pochi mesi, ma non sarebbe una carta per lei vincente presentarsi con la bandiera di Ventotene in mano?

***

Il ruolo europeo che Renzi ha conquistato è, come abbiamo visto, di grande peso e importanza. Ma poi c'è l'Italia e i problemi politici che comporta e qui la faccenda è particolarmente ingarbugliata. Ne abbiamo scritto più volte ma merita un aggiornamento.

Grillo: una catastrofe. Non per il Paese ma per il suo movimento. Che non ha mai attirato chi ha consapevolezza del bene comune. Promette un futuro luminoso ma non ha mai detto che luce avrà e quale panorama illuminerà. Ha detto però che per volere quella luce e il panorama illuminato bisogna prima distruggere tutto. E purtroppo per molti italiani questo programma distruttivo corrisponde alla loro rabbia.

È un fenomeno cominciato dalle elezioni europee che furono il trionfo di Renzi ma l'inizio di un astensionismo di massa mai visto prima. Nel seme di quell'astensionismo nacque il grillismo: un modo di astenersi votando. Poi: un modo di distruggere tutto, tutto vuotando.

Questo è il grillismo, riflette la rabbia di molti italiani. Giovani senza futuro, lavoratori precari, insegnanti frustrati, immigrati detestati, Europa obliata, moneta comune che non ci regala niente e che quindi non vale la pena di difendere. Questo è il grillismo.

Ora s'è visto che quanto meno è come gli altri se non peggio. La crisi c'è ed è tutt'altro che terminata, i sondaggi la riflettono con la diminuzione dei voti, ma non di molto. La situazione politicamente tripolare c'è ancora con tutti i guai e con tutti i pericoli che comporta.

Renzi comunque sembra aver capito che un "no" vittorioso al referendum lo renderebbe debolissimo in Parlamento. Ha capito che deve cambiare profondamente la legge elettorale. Ha capito che il ballottaggio è un pericolo tuttora grave, anche con un Grillo più debole.

Il "sì" referendario lo rinforzerebbe ma non è un obiettivo facile. Deve trasformare la legge elettorale. Deve accettare le sue caratteristiche di sinistra democratica e allearsi con formazioni di centro liberale. Deve combattere per uno sblocco economico e fiscale.

Se gioca bene queste carte la rabbia sociale diminuirà. Deve togliersi gli abiti da rottamatore e indossare quelli del nuovo costruttore. Deve studiare la storia politica di Alcide De Gasperi, di Aldo Moro, di Enrico Berlinguer.

Se capirà bene quello che legge e che alcuni di noi hanno vissuto potrà raggiungere una popolarità responsabile del popolo che è sovrano quando pensa e quando sa.

Abbiamo ieri pubblicato un'intervista a Giorgio Napolitano del direttore del nostro giornale. Napolitano ha fatto un'ampia indagine dell'Italia moderna, dei suoi guai e anche delle sue virtù. È per il "sì" referendario
ma è anche per un necessario mutamento della legge elettorale. Lui fa parte dei personaggi che ho prima ricordato. Ci conosciamo bene Giorgio ed io. Lui era liberal-comunista ed io liberal-socialista. Adesso siamo tutt'e due liberal-democratici e vorremmo un governo che lo fosse.

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11 settembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/11/news/italia_europa_elmo_di_scipio-147540354/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Rifugiati, il governo fermi l'inferno del Cara di Foggia
Inserito da: Arlecchino - Settembre 16, 2016, 11:45:19 pm
Rifugiati, il governo fermi l'inferno del Cara di Foggia
L’inchiesta de l’Espresso denuncia la vergogna del centro di accoglienza

Di EUGENIO SCALFARI
13 settembre 2016

SUL NOSTRO Espresso uscito domenica scorsa, insieme a molti articoli, reportage e inchieste ce n'è una che fa rabbrividire. L'autore è il nostro collega Fabrizio Gatti, il titolo dice "Sette giorni all'Inferno" e l'inchiesta si svolge in un centro di accoglienza per immigrati. Le poche parole di presentazione dicono tutto: sono entrato clandestino nel Cara di Foggia, dove mille esseri umani sono trattati come bestie e per ciascuno di loro le coop percepiscono 22 euro al giorno.

Nelle undici pagine che seguono, Gatti visita ogni stanza fingendo di essere un rifugiato di lingua inglese entrato in quel luogo d'angoscia per puro caso. Qualche volta alcuni abitanti di quell'inferno sospettano che sia un investigatore.

L'inchiesta de l'Espresso
Quelli che vivono in quel luogo sono persone di varia provenienza, per lo più africani che si dividono in diverse camarille e si disputano i cibi e i luoghi e le pochissime provvidenze che la gestione delle coop gli fornisce. Tra di loro ci sono anche donne, fanciulle, ragazzetti tra i 10 e i 12 anni che spesso vengono stuprati da gruppi di nigeriani che poi li fanno prostituire fuori dal campo.

La notte molti riescono ad uscire da quell'inferno circondato da fil di ferro e da ringhiere, con buchi che i più esperti varcano per poi ritornare dopo aver fatto sporchi giochi con controparti locali. Ai cancelli del campo la sorveglianza è compiuta da numerosi militari e agenti di polizia che però non entrano mai dentro i locali. Chi vi entra sono le persone che prestano servizio nelle coop e forniscono ai rifugiati pasti che, a quanto il nostro autore ha verificato, piacciono più ai cani randagi che entrano in massa in quel caseggiato e ai topi che ne traggono graditissimi alimenti.

Questa è la situazione. I contatti col mondo esterno sono limitati agli incaricati delle coop, i quali forniscono anche qualche medicina se vedono malati e bisognosi di soccorso. I medici naturalmente non sono mai arrivati anche quando ci sarebbe stato urgente bisogno di loro. In un brano dedicato alle porte, Gatti così scrive: "Non ci sono uscite di sicurezza. Nemmeno maniglioni antipanico. Molte porte si incastrano prima di aprirsi, il loro movimento comunque va verso l'interno. Dovevano servire a non far scappare i reclusi e a non agevolarne la fuga. Infatti se scoppia un incendio questa è una trappola".

Ma c'è dell'altro, c'è il caporalato nigeriano. "I ragazzi sono tornati ieri sera alle dieci. Hanno mangiato la pasta della mensa tenuta da parte da qualche compagno di stanza e a mezzanotte sono andati a dormire. Dopo tre ore di sonno hanno preso la bicicletta fornita dai nigeriani sfilando uno dietro l'altro per recarsi sui luoghi di lavoro. I braccianti che vivono in questo ghetto di Stato lavorano fino a 14 ore al giorno e guadagnano 16 euro, poco più di un euro all'ora e una mensa che piace soprattutto ai cani".

So bene che il nostro presidente del Consiglio ha molte cose da fare in Italia e in Europa, ma a nome dei nostri giornali, e credo di tutti i nostri lettori che tra carta e web sono oltre cinque milioni, gli chiedo di far ispezionare immediatamente quel Centro che accoglie all'Inferno un migliaio di persone e chiedo anche alla Procura di Foggia di disporre indagini sulle coop che dovrebbero gestire con competenza e amicizia quei rifugiati ed invece ignorano, direi volutamente, l'inferno che sta sotto i loro occhi.

I rifugiati devono essere assistiti con competenza e sensibilità non così. Il presidente del Consiglio disponga subito un'ispezione in quei luoghi.
© Riproduzione riservata 13 settembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/13/news/rifugiati_il_governo_fermi_l_inferno_del_cara_di_foggia-147661762/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un padre degli italiani attento ai più deboli.
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2016, 08:53:12 pm
Un padre degli italiani attento ai più deboli.
La sua vita all’insegna di legalità e cultura
Il racconto di un’amicizia intima e fraterna durata 54 anni e nata in Banca d’Italia.
Fu lui a portarci nell’euro

Di EUGENIO SCALFARI
17 settembre 2016

NON posso nascondere che nel momento in cui prendo in mano la penna per ricordare Carlo Azeglio Ciampi sono molto commosso: siamo stati amici per cinquantaquattro anni, amici intimi e fraterni quale che fosse il suo ruolo: capo dell’Ufficio studi della Banca d’Italia e poi, dopo una rapida carriera, governatore. E poi primo ministro di un governo tecnico che durò un anno, poi ministro del Tesoro con Prodi e con D’Alema, poi presidente della Repubblica e poi senatore a vita, oltre ad essere il padre degli italiani.

In tutta questa lunga vita, terminata poche ore fa, ha perseguito tutti i suoi affetti privati con sua moglie Franca, i suoi figli e una schiera di nipoti e pronipoti. Aveva una componente paternale molto intensa nel suo carattere, che lo ha distinto da tutti gli altri.

Padre degli italiani non per ragioni politiche ma caratteriali e sentimentali. Se debbo esaminare tra i presidenti della Repubblica che l’hanno preceduto e seguito non trovo alcuno con questa caratteristica. Forse Sandro Pertini, ma la sua paternità era molto diversa da quella di Ciampi: Pertini era un padre di combattimento, Ciampi un padre di pace, profondamente laico nei suoi ruoli pubblici ma profondamente cattolico nella sfera privata.

In politica non fece mai il tifo per questa o quella parte poiché la dominante sempre presente in tutti i suoi ruoli pubblici fu sempre l’interesse generale e quello per i poveri, i deboli, gli esclusi. Non a caso da giovane si iscrisse alla Cgil. Nacque a Livorno, dove sarà sepolto lunedì prossimo. Lì visse e studiò fino a circa trent’anni. Prese due lauree, una in Lettere l’altra in Giurisprudenza ed anche quella doppia scelta non fu casuale: amava la cultura e la legalità ed entrambe hanno alimentato la sua vita.

Il nostro rapporto di amicizia nacque dall’incontro che avvenne nel 1962 nello studio di Guido Carli. Conoscevo Guido da molti anni ma quella conoscenza diventò amicizia fraterna un paio di anni dopo la sua nomina a Governatore della Banca d’Italia nel 1960.

Qualcuno dirà che non gli è mai capitato di incontrare due uomini così diversi tra loro: tanto Ciampi era dolce nei sentimenti, tanto Carli era imperativo; tanto l’uno era paterno nella sua dolcezza, tanto l’altro era maschile e affascinante nella sua imperatività. Ma ciò che li legava entrambi da una profonda stima reciproca era il senso dell’interesse generale e della legalità e lo si vide paragonando le loro relazioni annuali da governatori: Carli denunciava quelle che lui chiamava “le arciconfraternite del potere”, Ciampi non amava denunciare ma esponeva quello che a suo giudizio era non solo il bene comune ma la necessità di tener sempre presente i bisogni dei ceti più poveri e più deboli. Carli promosse con la sua politica il cosiddetto “miracolo italiano” che portò al massimo gli investimenti, la produttività e l’occupazione; Ciampi fu l’autore dell’ingresso dell’Italia nella moneta comune.

Dopo il suo anno da presidente del Consiglio accettò la carica di ministro del Tesoro nel governo Prodi. La moneta comune europea, dopo ampi studi dei governi interessati, aveva come fautore principale la Germania. Prodi era anche lui favorevole ma preferiva aspettare e verificare che quel nuovo strumento funzionasse. Nell’autunno del 1996 partirono per un incontro a Madrid con il governo spagnolo e il principale argomento che esaminarono fu appunto la moneta comune europea. La Spagna si dichiarò favorevole rinviando però la sua adesione di qualche anno.

Nel viaggio di ritorno a Roma Ciampi mise tutta la sua logica economica e politica sostenendo che un Paese fondatore della Comunità europea doveva essere tra i fondatori della moneta comune. Prodi si convinse e incaricò lui di incontrare il Cancelliere tedesco e comunicargli la nostra adesione immediata e così avvenne. L’incontro con Helmut Kohl non fu soltanto una comunicazione di adesione dell’Italia a quello che sarebbe stato chiamato l’euro, ma anche un confronto sulla politica monetaria ed economica della quale l’euro sarebbe stato lo strumento per promuovere la crescita, l’occupazione ed anche il rafforzamento dell’Europa verso una struttura di graduale unità politica oltreché economica. Questo fu uno dei tanti risultati di Ciampi che va ascritto a principale merito dell’opera sua.

***

Consentitemi ora di raccontare come nacque la nostra amicizia. Era, come ho già detto, il 1962 ed io stavo discutendo con Carli sulla situazione economica del nostro Paese, sui malanni della nostra economia e del nostro capitalismo “arciconfraternita del potere”. L’economia italiana era allora dominata da alcune grandi aziende pubbliche, tra le quali l’Eni e l’Italsider, ed altre private: la Fiat, la Edison di Valerio, la Montecatini di Faina, la Pirelli, l’Olivetti, la Sade. Più o meno i poteri erano questi, molti dei quali aderivano ad una sorta di salotto buono che era la Società Bastogi.

Carli aveva invitato a partecipare a questa nostra conversazione (che avveniva almeno una volta al mese) il capo dell’Ufficio studi che era appunto Ciampi che io incontrai in quell’occasione.
Lo studio di Carli era una piccola stanza con appeso alla parete dietro la scrivania del Governatore un quadro che rappresentava il corpo nudo di San Sebastiano trafitto dalle frecce d’un gruppo di torturatori. Lo ricordo perché era diventato simbolico e quindi celebre.

La discussione tra noi tre fu lunga e Ciampi fu molto concreto nel suggerire i modi d’una politica espansiva e antimonopolistica. Alla fine Guido mi disse: «Forse è bene che tu venga più spesso qui da noi e se io fossi occupato potresti andare nell’ufficio di Ciampi ed esaminare con lui le questioni che ti stanno a cuore». Ciampi si dimostrò contento e mi propose d’andare subito nel suo ufficio così avrei visto qual era la strada per arrivarci. Io ero ormai di casa alla Banca d’Italia e i commessi mi lasciavano piena libertà di movimento.

Così cominciò il nostro rapporto con incontri quasi settimanali che poi trasformavo in articoli sull’Espresso che dirigevo. Ma il rapporto con Carlo diventò presto fraterno, ogni tanto cenavamo nelle nostre case, le mogli si conobbero, insomma diventò una specie di famiglia.

Debbo dire che questo rapporto continuò e si accrebbe quando Carlo ascese al Quirinale. Ci vedevamo alla Vetrata e perfino l’estate in Sardegna. Io avevo allora una seconda moglie essendo rimasto vedovo e con lei avevamo una piccola casa a Porto Rafael, di fronte all’isola della Maddalena dove Carlo e la sua famiglia passavano una ventina di giorni in agosto nella casa che era sede del comando della Marina. I Ciampi ci invitavano spesso a cena con la partecipazione dell’ammiraglio Biraghi che era capo di Stato maggiore. Mandavano al molo di Porto Rafael una scialuppa con due marinai che ci portava alla Maddalena dove facevamo arrivare mezzanotte. Lì nacque con Franca Ciampi una profonda amicizia che dura tuttora. Lei è di poche settimane più giovane di Carlo e gli è stata accanto sempre, per sessantasette anni. Oggi l’ha visto morire, ma era consapevole che stava per accadere.

Avrei ancora tanto da raccontare su Ciampi governatore, ministro, presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, ma soprattutto su Ciampi amico fraterno. Ricordo ancora le visite che gli feci quando lui era già molto malato ma, avendo una residenza a Palazzo Giustiniani come tutti gli altri ex presidenti della Repubblica, spesso ci si faceva portare. Lì aveva una specie di piccolo letto nel quale si sistemava con le gambe distese e il torso e il volto sollevati. Così parlava e ascoltava. Spesso gli altri “emeriti” (termine che lui non amava affatto) venivano a trovarlo o lui andava da loro. Anche lì facemmo tante e lunghe chiacchierate. Lui aveva un libro di appunti, una sorta di diario quotidiano, che in parte è stato pubblicato e che credo meriterebbe d’essere ora ristampato.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/17/news/un_padre_degli_italiani_attento_ai_piu_deboli_la_sua_vita_all_insegna_di_legalita_e_cultura-147934376/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l'ha perduto...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 05, 2016, 12:42:46 pm
Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l'ha perduto
Il primo errore è stato la contrapposizione tra oligarchia e democrazia


Di EUGENIO SCALFARI
02 ottobre 2016

FORSE i miei venticinque lettori, come diceva l'autore dei Promessi sposi, si stupiranno se, avendo visto alla televisione de La7 il dibattito tra Renzi e Zagrebelsky, comincio dalle nostre rispettive età: Renzi ha 41 anni, Zagrebelsky 73 e io 93. Sono il più vecchio, il che non sempre è un vantaggio salvo su un punto: molte delle questioni e dei personaggi dei quali hanno parlato io li ho conosciuti personalmente e ho anche letto e meditato e scritto sulle visioni politiche dei grandi classici.

Nel dibattito l'accusa principale più volte ripetuta da Zagrebelsky a Renzi è l'oligarchia verso la quale tende la politica renziana. L'oligarchia sarebbe l'anticipazione dell'autoritarismo e l'opposto della democrazia rappresentata dal Parlamento che a sua volta rappresenta tutti i cittadini elettori.

Conosco bene Gustavo e c'è tra noi un sentimento di amicizia che non ho con Renzi e, mi dispiace doverlo dire, a mio avviso il dibattito si è concluso con un 2-0 in favore di Renzi ed eccone le ragioni.

Il primo errore riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l'oligarchia è la sola forma di democrazia, altre non ce ne sono salvo la cosiddetta democrazia diretta, quella che si esprime attraverso il referendum. Pessimo sistema è la democrazia diretta. La voleva un tempo Marco Pannella, oggi la vorrebbero i 5 Stelle di Beppe Grillo. Non penso affatto che la voglia Zagrebelsky il quale però detesta l'oligarchia. Forse non sa bene che cosa significa e come si è manifestata nel passato prossimo e anche in quello remoto.

L'oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche. E se vogliamo cominciare dall'epoca più lontana il primo incontro lo facciamo con Platone che voleva al vertice della vita politica i filosofi. I filosofi vivevano addirittura separati dal resto della cittadinanza; discutevano tra loro con diversi pareri di quale fosse il modo per assicurare il benessere alla popolazione; i loro pareri erano naturalmente diversi e le discussioni duravano a lungo e ricominciavano quando nuovi eventi accadevano, ma ogni volta, trovato l'accordo, facevano applicare alla Repubblica i loro comandamenti.

Ma questa era una sorta di ideologia filosofica. Nell'impero ateniese il maggior livello di oligarchia fu quello di Pericle, il quale comandava ma aveva al suo fianco una folta schiera di consiglieri. Lui era l'esponente di quella oligarchia che fu ad Atene il punto più elevato di buon governo e purtroppo naufragò con la guerra del Peloponneso e contro Sparta (a Sparta non ci fu mai un'oligarchia ma una dittatura militare).

Nelle Repubbliche marinare italiane l'oligarchia, cioè la classe dirigente, erano i conduttori delle flottiglie e delle flotte, il ceto commerciale e gli amministratori della giustizia. Amalfi, Pisa, Genova e soprattutto Venezia ne dettero gli esempi più significativi.

Veniamo ai Comuni. Avevano scacciato i nobili dalle loro case cittadine. L'oligarchia era formata dalle Arti maggiori e poi si allargò alle Arti minori. Spesso i pareri delle varie Arti differivano tra loro e il popolo della piazza diceva l'ultima parola, ma il governo restava in mano al ceto produttivo delle Arti e quella era la democratica oligarchia.

Nel nostro passato prossimo l'esempio ce lo diedero la Democrazia cristiana e il Partito comunista. La Dc non fu mai un partito cattolico. Fu un partito di centrodestra che "guardava a sinistra" come lo definì De Gasperi; l'oligarchia era la classe dirigente di quel partito, i cosiddetti cavalli di razza: Fanfani, La Pira, Dossetti, Segni, Colombo, Moro, Andreotti, Scelba, Forlani e poi De Mita che fu tra i più importanti nell'ultima generazione. Quasi tutti erano cattolici ma quasi nessuno prendeva ordini dal Vaticano. De Gasperi, il più cattolico di tutti, non fu mai ricevuto da Pio XII con il quale anzi ebbe duri scontri. Tra le persone che davano il voto alla Dc c'erano il ceto medio ed anche i coltivatori diretti che frequentavano quasi tutti le chiese, gli oratori, le parrocchie.

I braccianti invece votavano in massa per il Partito comunista, ma non facevano certo parte della classe dirigente. Gli operai erano il terreno di reclutamento dell'oligarchia comunista, scelta tra i dirigenti delle Regioni e dei Comuni soprattutto nelle province rosse, dove c'erano molti intellettuali, nell'arte, nella letteratura, nel cinema e nella dolce vita felliniana. Al vertice di quella classe dirigente c'erano Amendola, Ingrao, Pajetta, Scoccimarro, Reichlin, Napolitano, Tortorella, Iotti, Natta, Berlinguer e Togliatti. Al vertice di tutto c'era la memoria di Gramsci ormai da tempo scomparso.

Togliatti operava con l'oligarchia del partito e poi decideva dopo aver consultato tutti e a volte cambiava parere. Ascoltava anche i capi dei sindacati. Gli iscritti erano moltissimi, quasi un milione; i votanti erano sopra al 30 per cento degli elettori con punte fino al 34. Ma seguivano le decisioni dell'oligarchia con il famoso slogan "ha da venì Baffone".

Caro Zagrebelsky, oligarchia e democrazia sono la stessa cosa e ti sbagli quando dici che non ti piace Renzi perché è oligarchico. Magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discuta e a volte contrasti le sue decisioni per poi cercare la necessaria unità d'azione. Ci vuole appunto un'oligarchia. Spero che l'abbia capito, soprattutto con la sinistra del suo partito che dovrebbe capirlo anche lei.

***

A me il Renzi europeista piace. Facendolo sul serio si è anche conquistato un ruolo che prima di lui e molto più di lui si erano conquistati De Gasperi, Ciampi, Prodi e Draghi che però il ruolo, che sorpassa tutti gli altri, non l'ha ottenuto in quanto italiano e in rappresentanza dell'Italia, ma come banchiere centrale eletto da tutta l'Europa perché primo tra i primi, nonostante il parere della Bundesbank.

Per criticare il Renzi europeista molti sostengono che quel ruolo lui l'ha usato per fare colpo sugli italiani per ottenere più facilmente il loro consenso elettorale. Sbagliato: il popolo che vota se ne infischia del ruolo del suo partito in Europa. Semmai può interessarlo il nazionalismo. E visto che siamo in argomento aggiungo che non mi stupisce affatto la richiesta di Renzi di esser votato anche dal centrodestra, essendo lui il capo d'un partito di centrosinistra. Ma chi chiede voti a destra deve essere realmente di sinistra. Se invece si è collocato al centro, come di fatto è da tempo avvenuto, sarà la destra a chiedere i suoi voti e non viceversa.

La conclusione su questo punto è che lui voleva ritornare a quello che fu il programma di Veltroni quando, eletto segretario del Pd, descrisse le idee del partito al Lingotto di Torino e alle elezioni di pochi mesi dopo ottenne il 34 per cento dei voti, più i 4 di Di Pietro suo alleato.

Veltroni presentò il Pd come il partito che doveva ricostruire l'Italia su basi socialmente, economicamente e politicamente riformatrici per un paese da modernizzare. Renzi si presentò come rottamatore e non fu una presentazione felice. La rottamazione avviene in modo naturale se si modernizza un paese, ma non per ragioni anagrafiche. Infatti quella parola ormai Renzi non la usa più. Se ha fatto un dibattito con un anziano costituzionalista che ha trattato con grande rispetto, questa è stata una buona svolta. Comunque, chieda pure i voti al centrodestra, ma accentui le caratteristiche di sinistra democratica del suo partito. Una sinistra moderna, questo sì. Che si imponga non solo in Italia ma in tutta l'Europa. La modernità, l'ha detto più volte Mario Draghi, consiste nell'aumentare la produttività, puntare verso l'Europa unita, risanare un sistema bancario alquanto indebolito, creare un bilancio sovrano europeo e un Tesoro unico in grado di emettere buoni del Tesoro europei sul mercato. Su alcuni di questi elementi Renzi è d'accordo ma non lo è sulla politica economica che pure rappresenta il punto centrale. La sua politica economica si basa soprattutto sulle mance, a volte benfatte, più spesso malfatte ed elettoralistiche. E per finanziarle non fa che chiedere flessibilità all'Europa.

Ebbene, non si fa così la politica fiscale, specie quando si ha una tecnologia che rende assai più facile individuare il lavoro nero e l'evasione. Il reddito nero e l'evasione ammontano a centinaia di miliardi di euro. Ma quello che stiamo ottenendo da queste operazioni ammonta a stento a 50-60 milioni all'anno. Cioè niente.

Non parliamo del problema spese e tasse. In teoria dovremmo aumentare le prime e diminuire le seconde. Nei fatti avviene l'inverso: si aumentano le tasse e si diminuiscono le spese, oppure restano ferme tutte e due ed è ferma anche l'economia del paese, salvo la flessibilità e il costante aumento del debito pubblico.

La vera ed unica soluzione è un taglio massiccio del cuneo fiscale. Ne ho già parlato su queste pagine ma nessuna risposta c'è stata, sicché ne riparlo ancora.

L'ammontare dei contributi che imprese e lavoratori versano all'Inps ammonta a 300 miliardi dei quali i datori di lavoro versano all'incirca il 21 per cento e i lavoratori il 9. L'ipotesi da me suggerita è un taglio di 30 punti, pari a 90 miliardi. L'Inps naturalmente dovrebbe continuare a fornire i servizi previsti, ma le sue entrate avendo subìto questo taglio massiccio dovrebbero essere finanziate dallo Stato il quale a sua volta dovrà fiscalizzare l'importo con una tassazione moderata dei redditi a cominciare da quelli che superano i 120mila euro e aumentando a misura dei redditi più elevati. Per un certo aspetto si tratta d'una imposta sul patrimonio, ma l'aspetto più rilevante riguarda l'aumento della domanda e quindi dei consumi da parte dei lavoratori e dell'offerta da parte delle imprese, indotte a questo comportamento che non avviene una tantum e quindi mette in moto i motori di una politica progressista.

Misure del genere in realtà andrebbero prese anche dai paesi europei alcuni dei quali non hanno mai adottato queste soluzioni. Va detto però che in molti paesi i servizi pubblici vengono forniti direttamente dallo Stato e quindi la fiscalizzazione è già in corso.

Gentile presidente del Consiglio, vorrei conoscere che cosa lei pensa di questa proposta. L'ideale sarebbe che lei la mettesse in moto subito ottenendone al più presto le conseguenze positive.

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02 ottobre 2016

Da - http://www.corriere.it/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 10, 2016, 12:15:51 pm
In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri

Di EUGENIO SCALFARI
09 ottobre 2016

SONO stato molto contento come vecchio fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4 dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi) considerano malfatta o addirittura pessima.

Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del partito democratico).

Sono infine molto grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con Matteo Renzi.

Desidero subito chiarire un punto: io non sono contrario al referendum per ciò che contiene e che in sostanza consiste nell’abolizione del bicameralismo perfetto. Esso esiste già in quasi tutti i Paesi democratici dell’Occidente, rappresenta un elemento a favore della stabilità governativa che non significa necessariamente autoritarismo: può significarlo però se la legge elettorale è fatta in modo da conferirgli questa fisionomia. Ragion per cui mi sembra onesto dichiarare fin d’ora quale sarà il mio voto al referendum.

Se il governo cambierà prima del 4 dicembre alcuni punti sostanziali della legge elettorale o quanto meno presenterà alla Camera e al Senato una legge elettorale adeguata che sarà poi approvata dopo il referendum, voterò Sì; se invece questo non avverrà o se eventuali modifiche a quella legge saranno di pura facciata, allora voterò No.

Coloro che non vedono (o fanno finta di non vedere) la connessione che esiste tra un Parlamento monocamerale e l’attuale legge elettorale sono in malafede o capiscono ben poco di politica ed oppongono il renzismo all’antirenzismo, cioè la simpatia o l’antipatia verso l’attuale presidente del Consiglio in quanto uomo. Evidentemente questo è un modo sbagliato di pensare. Ricordo a chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato che Napoleone Bonaparte difese da capitano d’artiglieria dell’esercito francese (lui era stato fino ad allora di nazionalità corsa) il Direttorio termidoriano eletto dalla Convenzione dopo la caduta di Robespierre che aveva provocato la reazione di piazza dei giacobini. Questo avvenne nel 1795. Pochi anni dopo il 18 brumaio Napoleone decise di sciogliere il Direttorio, lo sostituì con il Consolato composto da tre Consoli due dei quali non contavano nulla e il terzo che era lui aveva tutti i poteri. Di fatto era l’inizio dell’impero che fu dopo un paio d’anni definito come tale.

Come vedete e già sapete gli umori cambiano secondo le circostanze sicché votare pro o contro deve riguardare soltanto il merito e non il nome di chi lo propone.

***

Fatte queste premesse debbo ora affrontare le questioni dell’oligarchia e della democrazia, che hanno diviso Zagrebelsky e me. Crazia è un termine greco che significa potere. Oli significa pochi, demos significa molti, cioè in politica popolo sovrano. Il potere a pochi o il potere a molti. Così dicono i vocabolari, così pensa la maggior parte della gente e così ha sostenuto Zagrebelsky nel suo dibattito con Renzi prima e con me due giorni dopo.

Al contrario io penso che la democrazia, di fatto, sia guidata da pochi e quindi, di fatto, altro non sia che un’oligarchia.

Una sola alternativa esiste ed è la cosiddetta democrazia diretta che funziona attraverso il referendum. In quella sede infatti il popolo si esprime direttamente, ognuno approva o boccia con un voto di due monosillabi, il Sì e il No, il suo parere su un quesito. I singoli cittadini quando raggiungono il numero previsto dalla legge, possono presentare quesiti sotto forma di domanda e sottoporli al voto.

Naturalmente quel Paese è uno Stato che ha una sua Costituzione la quale, preparata dai partiti o da un gruppo dei saggi, viene sempre approvata per via referendaria.

Tutto ciò premesso riguardo alla democrazia diretta, va detto che dirigere un Paese soltanto con i referendum è tecnicamente impossibile in Stati la cui popolazione ammonti a milioni di abitanti e convive con miriadi di Stati diversi con i quali esistono complessi rapporti di amicizia o di conflitto, scambi economici o sociali, pace o guerra. Pensare e supporre che tutta questa vita pubblica possa essere governata attraverso i referendum è pura follia e non si può parlare neppure in astratto di questa ipotesi.

Il dibattito dunque è un altro e le posizioni sono già state presentate: io sostengo che la vera democrazia non può che essere oligarchica, molti invece e Zagrebelsky per primo sostengono che quei due temi sono opposti e che non possiamo da veri uomini liberi che preferire i molti ai pochi. Quindi: partiti dove tutti i militanti determinano la linea, il Parlamento (bicamerale o monocamerale che sia) è la fonte delle leggi. Chi rafforza il Parlamento, eletto dalla totalità dei cittadini aventi diritto o comunque dagli elettori che usano il loro diritto di voto, rafforza la democrazia, cioè il governo dei molti.

Questo è dunque il dissenso che personalmente giudico soltanto formale e non sostanziale poiché non tiene conto della realtà. Naturalmente questa mia affermazione va dimostrata.

Gli elettori il giorno del voto hanno davanti a loro la lista dei candidati dei vari partiti. Qualche nome lo conoscono perché sono rappresentanti di quei partiti, ma la maggior parte di quei nomi è sconosciuta. Se comunque hanno scelto il partito per cui votano condividendone il programma o addirittura l’ideologia, votano quel partito e anche il nome di uno dei candidati. Ma chi ha scelto quei candidati?

Dipende dalla dimensione dei singoli partiti. Se sono di molto piccole dimensioni la scelta viene fatta dai leader e dai suoi consiglieri. Così avvenne quando Fini e poco dopo Casini decisero di abbandonare Berlusconi e così avvenne allo stesso Berlusconi che non ha mai avuto un partito. Forza Italia non fu mai un partito ma un gruppo di funzionari della società di pubblicità dello stesso Berlusconi. Così avvenne anche per Vendola e per i radicali di Pannella. Ma se il partito è di ampie dimensioni, come la Dc, il Partito socialista e quello comunista, la scelta avveniva nel Comitato centrale. Il Congresso, una volta terminato, si scioglieva dopo avere appunto eletto il Comitato centrale. Era questo il solo organo governante di quel partito, che eleggeva la direzione che a sua volta eleggeva il segretario.

Ho già fatto un elenco di nomi che guidarono quei partiti e quindi non mi ripeterò. Ricordo soltanto che mettendo insieme il Comitato centrale, i sindaci delle maggiori città ed i loro più stretti collaboratori, si trattava al massimo di un migliaio di persone. Il ponte di comando era quello, che decideva la linea del partito, i candidati e i capilista nelle elezioni amministrative e in quelle politiche.

Un migliaio di persone cioè indicavano i loro rappresentanti in Parlamento il quale rappresentava e tuttora rappresenta i milioni di cittadini che li hanno votati. Non è un’oligarchia di pochissimi che determinano la partecipazione di moltissimi i quali nel loro insieme rappresentano la sovranità del popolo e quindi il Demos che chiamano democrazia?

È sempre stato così, nella civiltà antica, medievale, moderna. L’alternativa è la dittatura.

Oligarchia democratica o dittatura: questa è stata, è e sarà il sistema politico dell’Occidente. Nelle altre parti del mondo la dittatura è la normalità con rare eccezioni di Paesi a struttura federale come l’India e l’Indonesia.

Per quanto mi riguarda non ho altro da aggiungere a quanto qui ho scritto. Se Zagrebelsky vorrà prendere atto o contestare queste mie conclusioni siamo ben lieti di leggerlo.

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09 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/09/news/in_democrazia_sono_pochi_al_volante_e_molti_i_passeggeri-149380234/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché difendo l'oligarchia
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 15, 2016, 07:26:14 pm
Perché difendo l'oligarchia

Di EUGENIO SCALFARI
13 ottobre 2016

SONO alquanto deluso dalle risposte che Gustavo Zagrebelsky ha dato ai miei duplici interventi sul rapporto tra oligarchia, democrazia e dittatura o tirannide che dir si voglia. Si tratta al tempo stesso di sostanza e di parole che la esprimono. Nel dibattito che c'è tra noi le parole talvolta coincidono, la sostanza no. Che l'oligarchia sia il governo dei pochi lo diciamo tutti e due. Che faccia un governo per i ricchi lo dice solo Gustavo e che i ricchi facciano i loro propri interessi a danno dei molti, anche questo lo dice soltanto lui, non io.

Che l'oligarchia abbia in mente una sua visione del bene comune è inevitabile. Lo diceva persino Giuseppe Mazzini che infatti quando fondò la Giovane Italia aveva in mente l'educazione dei giovani e li preparava ad essere gruppi d'assalto per sollevare le plebi contadine. In quegli assalti morivano quasi tutti; quello che si immolò con altri trecento fu Pisacane: "Eran trecento, eran giovani e forti e sono morti". Quella era l'oligarchia mazziniana: aveva in mente la nazione italiana e la Repubblica invece della monarchia.

Del resto tre secoli prima lo stesso Machiavelli dedicò il Principe a Lorenzo de' Medici affinché prendesse la guida per risollevare le plebi e farne un popolo. Un altro esempio porta il nome di Mirabeau che agli Stati generali di Francia riuscì a trasformare il Terzo Stato in un'assemblea costituente che rendesse il potere assoluto del re soggetto alla Costituzione.

Zagrebelsky è più giovane di me e forse non sa che l'oligarchia del partito comunista abitava in case molto povere; addirittura le lampadine appese al soffitto non avevano neppure una traccia di paralume, erano appese ad un filo e pendevano in quel modo. Io entrai in molte di quelle case e le ricordo bene: quella di Pajetta, quella di Longo, ed anche quella di Pietro Nenni che era il segretario del partito socialista, ed anche quella di Sandro Pertini. Potere ma con una visione del bene comune molto precisa, in parte ideologica ma soprattutto politica.

Identificare i pochi con i ricchi che ottengono il comando per favorire i propri interessi è un evidente errore. Talvolta può accadere, ai tempi d'oggi sono molti i potenti ricchi arruolati dai partiti e spesso anche membri del Parlamento e del governo. È il cosiddetto malaffare. La loro presenza in Parlamento - che Gustavo vede come il vero organo di rappresentanza della democrazia e il suo pilastro - è una prova che è un pilastro assai traballante, tanto più quando qualcuno di questi potenti e ricchi che fa la politica nel proprio interesse viene indagato dalla magistratura. La commissione delle immunità in questi casi concede l'immunità a tutti ed in più votando all'unanimità. Naturalmente negli ultimi anni il livello del malaffare è aumentato dovunque: è aumentato il livello del benessere ma con esso purtroppo anche quello del malaffare ma il fatto che il Parlamento sia secondo Gustavo il luogo principale dove deve risiedere la democrazia dimostra semmai che sono aumentati insieme al livello delle comodità della vita anche i ricchi e il declino etico. Io infatti non sostengo che l'oligarchia è per definizione il governo dei migliori; sostengo che è il governo dei pochi ma è la sola forma d'un governo democratico.

Zagrebelsky pensa che i pochi sono i ricchi e i potenti. Ricchi non necessariamente, potenti certamente e su questo è tutto. Le alternative sono la democrazia referendaria della quale ho già scritto l'impossibilità di governare; oppure la dittatura. Gustavo è d'accordo sul primo tema ma non sul secondo: la dittatura secondo lui è la forma estrema dell'oligarchia, con il passare degli eventi sia del passato remoto sia di quello prossimo. Ma questa asserzione sulla base della storia non è affatto vera.

L'Impero romano cominciò con Cesare Ottaviano, poi seguito dal termine Augusto, ma era ancora una struttura, quella da lui costruita, che lasciava un certo spazio al Senato. Il vero imperatore fu Tiberio. Lui comandava e il suo comando veniva eseguito. I tribuni diventarono cariche militari, i prefetti governavano le regioni che componevano l'Impero ma non erano altro che amministratori e Pilato ne è un esempio. Adriano, della famiglia Antoniniana, fu un altro imperatore che comandava da solo e senza alcun consigliere. Traiano è ancora di più un capo assoluto. L'Impero durò quasi cinquecento anni e consiglieri non ne ebbe mai. Si potrebbe dire che il giovane Nerone ebbe Seneca (solo Seneca) come educatore e la madre, assai autoritaria anche lei; talmente autoritaria che alla fine Nerone se ne stancò e la fece uccidere. Per cinquecento anni la struttura imperiale non fece nessun cambiamento salvo uno: la divisione tra Oriente e Occidente.

In tempi più ravvicinati le monarchie erano chiamate assolute. Il cosiddetto Re Sole, non a caso, sosteneva che lo Stato era lui. Al massimo fu in qualche modo orientato dalle sue amanti. E poi gli Asburgo d'Austria e di Spagna, i duchi di Borgogna, i Re di Spagna, di Francia, di Inghilterra, di Scozia, di Svezia. Gli zar di Russia. Napoleone. Dove sta in questi esempi l'oligarchia? Quelle dittature erano oligarchiche? Assolutamente no. Napoleone ascoltava solo Talleyrand in politica estera e basta.

Ma voglio aggiungere un caso che può sembrare particolare e infatti lo è ma è estremamente significativo: quello del Papa cattolico e dei vescovi. Non so quale sia il numero dei vescovi, certamente molte migliaia, compreso il Papa che è vescovo di Roma. Ma se paragoniamo le migliaia di vescovi alle centinaia di milioni di fedeli siamo di fronte in questo caso ad una oligarchia religiosa. Tanto più se aggiungiamo ai vescovi i cardinali che ammontano a un centinaio o poco più. Il Papa con cardinali e vescovi, nunzi apostolici e sacerdoti addetti a specifici compiti e dicasteri rappresentano un caso tipico di oligarchia. Un'oligarchia che si riunisce molto spesso nei Sinodi dove i pareri, sia pure nel quadro d'una religione che crede nel Dio assoluto trascendente, sono molto diversi e suscitano spesso controversie molto aspre. Il compito del Papa è proprio quello di cercare e trovare una mediazione che almeno per un periodo sia condivisa da tutti. In sostanza la Chiesa cattolica è sinodale. Potremmo anche chiamare i comitati centrali dei partiti con la parola Sinodo: significano in due diversi casi lo stesso fenomeno oligarchico.

Ora mi fermo e non parlerò più di questo tema. Viviamo tempi dove la politica è molto agitata e merita molta più attenzione che definire con le parole e con il pensiero se si chiami oligarchia la sola forma di democrazia che conosciamo.

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13 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/13/news/perche_difendo_l_oligarchia-149655377/?ref=HRER2-1



Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ma Renzi è un vantaggio o un danno per l'Europa e per l'Italia
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 17, 2016, 11:12:39 am
Ma Renzi è un vantaggio o un danno per l'Europa e per l'Italia?
Un nuovo segretario non porterebbe danni al partito. Un nuovo capo di governo forse sì, soprattutto a livello europeo

Di EUGENIO SCALFARI
16 ottobre 2016

HO AVUTO un colloquio telefonico con Matteo Renzi un'ora prima della riunione della direzione del Pd e nel pomeriggio dello stesso giorno, a riunione già avvenuta, un colloquio con Gianni Cuperlo, uno dei dem dissidenti più rappresentativo di quel gruppo finora orientato a votar No. Sono gli strumenti del mio mestiere e posso dunque raccontarne il contenuto.

I dissidenti tentano di ottenere una modifica sostanziale del referendum e soprattutto della legge elettorale. Renzi si è reso conto che questo è anche il suo interesse anzi è soprattutto il suo, perché nel caso di un accordo il Sì probabilmente avrebbe la prevalenza sul No e questo è fondamentale per lui. Se vincesse il No la sua carriera politica sarebbe finita, questo è certo, sia come presidente del Consiglio sia come segretario del partito.

Sarebbe un danno o un vantaggio per l'Italia? La risposta a questa domanda non rientra nei ferri del mio mestiere, è un giudizio personale d'un cittadino che con la politica ha una certa familiarità, perciò dico questo: un nuovo segretario non porterebbe alcun danno al partito; un nuovo capo di governo probabilmente sì, soprattutto a livello europeo. Che io sappia c'è in Italia un solo personaggio che può degnamente rappresentarci in Europa: Enrico Letta. Il guaio è che è alquanto difficile che Letta ottenga una maggioranza dei voti in Parlamento: la vittoria del No metterebbe profondamente in movimento l'intero schieramento politico: la Destra, il Centrodestra, la Sinistra, i Cinquestelle, i populisti antieuropei.

Ma se Letta non vince non vedo francamente un terzo nome. Non a caso i poteri forti in Europa stanno solidarizzando con Renzi, sia pure dopo i profondi contrasti degli ultimi mesi. Il Partito socialista europeo (Pse) si è schierato l'altro ieri all'unanimità per il Sì al referendum italiano e non a caso Obama dedicherà il suo ultimo pranzo ufficiale alla Casa Bianca a Renzi che porterà con sé un gruppo di italiani rappresentativi in vari campi della nostra società civile e Obama farà altrettanto. Non politici, ma esponenti dell'economia, dello sport, dello spettacolo. È certamente un appoggio politico ad un Renzi pericolante e quindi bisognoso di appoggi internazionali. Dell'Occidente e non di Putin, come accade a molti movimenti populisti, xenofobi, antieuropei e in Europa contrari anche alla moneta comune. Donald Trump è l'esempio più clamoroso, ma perfino Grillo guarda a Mosca con molta più simpatia di quanto non guardi ad Obama e non parliamo del capo della Lega e perfino di Berlusconi che di Putin è amico personale e per personalissime ragioni. Ora riprendo i miei strumenti giornalistici per raccontare i colloqui telefonici dei quali ho già fatto cenno all'inizio.
***

Renzi desiderava un parere sui modi per riportare compattezza nella classe dirigente del Pd e quindi sull'intero partito. Se questo avverrà - ha detto - sarà più probabile la vittoria del Sì e anche, se comunque vincesse il No, un Pd compatto resterebbe la più forte minoranza del Parlamento con tutto ciò che ne consegue.

La mia risposta, credo oggettiva, è stata di mettere l'accento sulla legge elettorale che a mio avviso va profondamente cambiata per evitare un ballottaggio che oggi in un sistema non più bipolare ma tripolare, darebbe probabilmente forti chance di vittoria ai Cinquestelle e comunque, così come è fatta, darebbe allo stesso Renzi poteri maggiori di quelli che già possiede. Insomma l'autoritarismo diventerebbe non più un pericolo ma una realtà fortemente sgradita alla maggioranza degli italiani, comunque la pensino politicamente.

Naturalmente (dicesse verità o bugie) Renzi ha negato di avere un potere forte oggi entro i limiti della Costituzione e di proponimenti di ottenere la nostra fiducia. Lui ha capito - mi ha detto - che deve modificare la legge elettorale vigente e quindi è disposto a spostare il suo impegno politico fin da subito, tant'è che per questo motivo un'ora dopo sarebbe stato esaminato l'Italicum con la dissidenza del partito per studiare un cambiamento sostanziale e soddisfacente per tutti, con tre limiti però: 1. Pubblicamente, e cioè in Parlamento. Verrà deliberato che l'Italicum sarà modificato ma il contenuto specifico sarà reso noto e discusso dopo il voto referendario del 4 dicembre e dopo la sentenza della Corte costituzionale che entro dicembre sarà resa nota. 2. Il premio di maggioranza non si tocca, salvo quello che dirà in proposito la sentenza della Corte. 3. Il ballottaggio non si tocca neppure quello. Su tutto il resto lui terrà nel massimo conto le proposte dei dissidenti. E ne ha anticipata una (che è stata già resa pubblica): i senatori del nuovo Senato previsto dal referendum saranno eletti direttamente dal popolo e non dai consigli regionali.

A questo punto ha rinnovato la domanda che già mi aveva posto ed io ho risposto: doveva abolire le preferenze che l'Italicum prevede per l'elezione dei capilista e che sono la fonte di potere del lobbismo, perfino mafioso. La risposta è stata subito positiva e l'annuncerò (ha detto) quanto prima. Poi dovrà far svolgere le elezioni soltanto in collegi uninominali a largo e non a piccolo spazio territoriale. Il premio di maggioranza deve essere abolito. Quanto al ballottaggio, andrebbe abolito anch'esso ma se proprio insiste su questo punto allora può svolgersi tra i primi due partiti risultati dall'esito del voto nei collegi, contrattando alleanze con altri partiti e presentandosi al ballottaggio con liste apparentate. Questa è un'antica proposta dei socialisti guidati all'epoca da Pietro Nenni, De Martino e Riccardo Lombardi. A me sembra valida anche oggi se proprio il ballottaggio non deve essere abbandonato.

Naturalmente la coalizione può essere fatta con la sinistra che è fuori dal Pd e/o con un centrodestra di moderati del tipo rappresentato da Alfano e da Parisi. La risposta di Renzi è stata che avrebbe molto riflettuto su questi suggerimenti alcuni dei quali (il voto soltanto nei collegi) avrebbe comunque accettato. Nel pomeriggio ho parlato con Cuperlo e gli ho raccontato il colloquio con Renzi. Cuperlo mi ha detto che su quelle ipotesi avevano ampiamente discusso con Renzi e Cuperlo aveva pensato ed esposto proposte molto simili alle mie. La conclusione, certamente positiva, era stata di nominare un comitato del Pd composto da cinque membri, due dei quali dei dissidenti, che avrebbe proposto e poi sottoposto a voto della direzione le conclusioni. Quel documento sarà presentato in Parlamento e le modifiche all'Italicum portate al voto della Camera nel prossimo gennaio. A me sembra un esito positivo per il Paese, sempre che le cose vadano così.

Una sola parola sulla presenza della Nato a Riga e nei Paesi baltici, alla quale parteciperà anche un contingente italiano. Lo scopo della Nato è di rassicurare quelle nazioni dell'Est spaventate dalle eventuali mire espansionistiche russe, ma anche convincere il Cremlino ad una maggiore prudenza e moderazione alla Siria di Assad e ad Aleppo in particolare. Questa presenza militare italiana è stata criticata da tutte le forze politiche di opposizione e invece appoggiata da tutto il Pd. Personalmente penso che si tratti d'una presenza italiana pienamente legittima e prevista dallo statuto della Nato che a suo tempo il nostro Parlamento ha accettato.

***

Farò una brevissima aggiunta su un tema molto importante di carattere fiscale, sul quale già due volte mi sono intrattenuto su queste pagine. Si tratta di un taglio ragguardevole del cuneo fiscale sui contributi dei lavoratori e degli imprenditori all'Inps, al quale potrebbero aggregarsi anche molte categorie con propri enti assistenziali come per esempio l'Inpgi dei giornalisti. La mia proposta iniziale era un taglio di cinquanta punti ma poi ho ridotto la proposta da cinquanta a trenta che, debbo dire, è comunque importante come effetto sull'economia nazionale (l'avrebbe perfino ridotta al 25). Da molti lettori mi è stato chiesto a quanto ammontano questi tagli in cifre assolute e dopo alcune ricerche eccole.

Il taglio dei contributi di trenta punti ammonta in cifre assolute a 80-90 miliardi annui. Poiché l'Inps dovrebbe fornire alle imprese e ai loro dipendenti gli stessi servizi, l'ammontare del taglio contributivo sarebbe addossato allo Stato e cioè a carico dei contribuenti fiscalizzando l'importo e partendo da una cifra minima di 120 mila dichiarati. I contribuenti al di sopra dei 120 mila euro dichiarano in tutto un reddito di 58 miliardi. In questi termini la fiscalizzazione diventa impossibile.

Lo Stato dovrebbe trovare un'altra fonte di entrate che coprano la cifra di 80 miliardi. Sarebbe ampiamente sufficiente una cifra di 60 miliardi che riduce la fiscalizzazione a 20 miliardi e quindi ampiamente accettabile, ma potrebbe ancora essere ridotta se la cifra trovata dallo Stato fosse di 70 miliardi anziché di 60.
La fonte è chiara: il reddito nero che è stato valutato
a 200 miliardi e anche di più. Poi ci sono anche spese improduttive che possono essere tagliate e in qualche modo trasferite verso questa operazione. È una operazione altamente salutare per il rilancio dell'economia italiana attraverso un aumento dei consumi e degli investimenti.

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16 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/10/16/news/ma_renzi_e_un_vantaggio_o_un_danno_per_l_europa_e_per_l_italia_-149881593/?ref=HRER2-1


Titolo: GIUSEPPE TURANI - SCALFARI: GRILLO È IL NEMICO
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2016, 04:52:18 pm
SCALFARI: GRILLO È IL NEMICO

Renzi deve e può fermare i grillini, il vero pericolo

Di GIUSEPPE TURANI | 06/11/2016

 “Il vero e terribile avversario di Renzi e della sua politica in Italia e in Europa è il Movimento 5 Stelle. Con la legge elettorale attuale i grillini (che non amano sentirsi chiamati così) avrebbero la quasi certezza di vincere al ballottaggio ed anche di essere decisivi per la vittoria del No referendario. Il Movimento 5 Stelle non ha certo la forza esplosiva di un Donald Trump, soprattutto perché l'Italia non è l'America. Ma un grillino alla guida dell'Italia possiamo immaginare come si comporterebbe nel nostro Paese, in Europa e in tutti i Paesi extraeuropei, cioè nel mondo intero?

A due mesi dalle elezioni a sindaca di Roma abbiamo visto che cosa ha fatto la Raggi: nulla, non ha fatto nulla salvo aver disdetto le olimpiadi ed avere anche sospeso la costruzione di un settore essenziale della metropolitana. Forse quelle sospensioni avevano qualche giustificazione ma la vera ragione è che se avesse accettato le olimpiadi la Raggi non era in grado di iniziare da subito le opere preliminari e di programmare poi gli impianti necessari ai vari sport olimpici.

Questo è accaduto alla sindaca di Roma con il sostegno di tutti i cinquestellati. Rispetto a questo esempio su scala nazionale e internazionale è immaginabile quale sarebbe la fine dell'Italia."

Dopo il suo confronto televisivo con Di Battista dei Cinque stelle sui social network molti lo avevano trattato da vecchio rimbambito, senza apprezzare che invece era stato uno dei primi personaggi importanti a spiegare chiaramente che roba era, e è, il movimento di Grillo: un partito comico posseduto da un comico che fa una politica comica.

Nell’editoriale di oggi su “Repubblica” fa un ulteriore passo in avanti. Soddisfatto perché il Pd si appresta a cambiare la legge elettorale (suo vecchio pallino), non esita a indicare Renzi come il possibile, e auspicabile, salvatore dell’Italia da una possibile sciagura a Cinque stelle.

E spiega chiaramente come oggi il pericolo in Italia sia non la fantomatica “deriva autoritaria” renziana quanto l’esistenza di un movimento come quello di Grillo, una raccolta di insoddisfatti con il solo progetto di distruggere tutto. Ma anche incapaci di tutto.

Tutto ciò è molto interessante. Si pensi, ad esempio, che Bersani, non pago della figuraccia fatta a suo tempo con i Cinque stelle in diretta streaming, è ancora lì che sogna e indica un possibile futuro di governo con i grillini.

Fra i grandi vecchi della vita pubblica italiana, questa è la verità, Scalfari si rivela ancora come il più sveglio e il più attento.

Grande. Alla faccia di quelli che lo volevano a casa con il plaid sulle ginocchia.

Da - http://www.uominiebusiness.it/default.aspx?c=635&a=24710&tag=06-11-2016-ScalfariGrillo%C3%A8ilnemico#.WB7506JwjFQ.facebook




Titolo: EUGENIO SCALFARI. - Renzi scongiuri il rischio di un Trump italiano
Inserito da: Arlecchino - Novembre 08, 2016, 11:12:32 pm
Renzi scongiuri il rischio di un Trump italiano

Di EUGENIO SCALFARI
06 novembre 2016

OGNI Paese ha i suoi guai, ma quello di Donald Trump è un guaio mortale, soprattutto per l’Occidente. Mentre scrivo i sondaggi sono oscillanti, siamo appena a due giorni dalle elezioni americane e i due candidati sono testa a testa, alcuni sondaggisti danno come vincente Hillary ma con un distacco di pochissimi punti da Trump. Tutto può quindi accadere perché gli indecisi sono molti e possono cambiare opinione fino alle ultime ore che li dividono dalle urne. Una delle carte vincenti per Hillary è l’impegno che Barack Obama ha messo da tempo e in particolare per la Clinton. Se Hillary ce la farà, la sua politica sociale, economica, internazionale sarà una sorta di prosecuzione di quella del suo predecessore. Certo non ha lo smalto di Obama ma sarà pur sempre la prima donna alla Casa Bianca e questa è una non trascurabile novità.

L’America di Trump sarà non tanto conservatrice; di Amministrazioni conservatrici ce ne sono state alcune di grande rispetto, ma quella di Mister Donald è quasi una rivoluzione: è xenofoba, antidemocratica, militarista, alleata di tutte le autocrazie esistenti nel mondo, alleata di Putin, vista con simpatia dalla Cina, dalla Turchia e da tutti quei movimenti populistici che da questa alleanza escono rafforzati e più che mai contro l’Europa e contro la moneta unica. Insomma una situazione catastrofica nelle mani di un personaggio politicamente impreparato e razzista.

In Italia, secondo le rilevazioni d'una agenzia specializzata in questo tipo di ricerche, il 21 per cento, cioè un quinto dei nostri elettori, si è dichiarato in favore di Trump e non è certo una cifra da poco. Berlusconi è contro, ma Salvini no e questo dovrebbe costituire un'incompatibilità all'alleanza elettorale tra quei due partiti. Altri simpatizzanti per Trump ci sono in Egitto, negli Emirati del Golfo e in Turchia. Trump è insomma una mina vagante che l'America rischia di regalare al mondo intero oltre che a se stessa.

***

Il secondo tema è invece positivo: la Corte di giustizia di Londra ha dichiarato illegittimo il referendum che ha approvato l'uscita della Gran Bretagna dall'Europa, il cosiddetto Brexit, senza il voto del Parlamento, Camera dei lord compresa. Tutt'al più si tratterebbe di un referendum consultivo secondo la Corte, ma privo di poteri decisionali. Perciò, dice con apposita sentenza la Corte, occorre che il Parlamento sia immediatamente convocato per un voto decisionale a meno che sia proposto un appello alla Corte di Giustizia Suprema, il cui giudizio sarebbe risolutivo. Nel frattempo la sterlina è balzata in alto dell'1,7 per cento nei confronti del dollaro e un vento di ottimismo si è immediatamente diffuso nel Parlamento europeo e in tutte le istituzioni dell'Ue. Ma sarà favorevole se appellata, la Corte Suprema inglese?

In attesa fioriscono altre possibili soluzioni a favore di chi è contro il Brexit. Per esempio c'è chi teorizza che una discussione del referendum sia soggetta al beneplacito della regina Elisabetta, senza il quale il referendum sarebbe invalido. La Corona, in una materia che incide sulla politica estera e su quella della Difesa, ha l'appannaggio che in un caso del genere potrebbe perfino sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. La Corona cioè avrebbe un proprio potere autonomo rispetto ad un referendum che incide sulla sovranità della Monarchia.

Nel mondo finanziario europeo questa decisione sta producendo effetti positivi tra gli investitori; l'eventuale rientro del Regno Unito nell'Ue, sarebbe un evento con un'influenza positiva politica ed economica. Si spera comunque che la decisione finale avvenga con la massima possibile velocità. E se lo augurano soprattutto la Germania e l'Italia per ragioni diverse ma convergenti.

***

Ed ora siamo all'Italia e a Matteo Renzi. Anche lui e quindi noi tutti, contrari o favorevoli o oggettivamente neutrali, deve affrontare una serie di difficoltà la prima delle quali è il terremoto. Non è soltanto un'emergenza e non riguarda soltanto una parte dell'Italia centrale che ne è stata colpita in questi ultimi due mesi. Il terremoto riguarda l'Italia intera, dalla Sicilia fino all'Emilia e al Friuli ed ha un nome: ricostruzione antisismica ovunque.

Affrontare l'emergenza è una necessità immediata sapendo però che serve la ricostruzione antisismica che deve accompagnarla e proseguire ad emergenza temporaneamente passata. Si tratta di stanziare decine e decine di miliardi e di promuovere una politica economica keynesiana alla quale anche l'Europa deve contribuire sia con proprie risorse destinate alle aree depresse e colpite da un sisma che si ripeterà di continuo e sia consentendo all'Italia quella politica keynesiana che è inevitabilmente fondata sul debito.

C'è un aspetto positivo in quella politica: la creazione di posti di lavoro direttamente da parte dello Stato e di enti pubblici ma anche da parte di imprese private con appalti sorvegliati che impediscano eventuali reati di corruzione come spesso è avvenuto.

Ed ora una seconda difficoltà che è invece tutta politica e riguarda il No e il Sì al referendum del 4 dicembre prossimo. Non ha certo il peso delle elezioni americane né del Brexit, ma in qualche modo riguarda la sopravvivenza politica di Renzi se il No avrà la maggioranza oppure il suo rafforzamento e quello del suo governo se vincerà il Sì con ripercussioni non trascurabili sulla stessa Europa.

Il comitato dei Cinque che lo stesso Renzi ha nominato affinché studi un progetto di cambiamento della legge elettorale vigente ha terminato i suoi lavori e stilato una proposta che Renzi ha fatto propria. Il progetto del comitato, a quanto sappiamo, propone l'abolizione del ballottaggio, l'abolizione delle preferenze, il voto popolare in collegi sufficientemente ampi con alleanze e quindi apparentamenti omologhi in tutto il Paese.

Si tratta d'una proposta perfetta, elaborata dai Cinque rappresentativi del vertice del Pd e in particolare da Gianni Cuperlo, rappresentativo dei dissidenti che vogliono tuttavia lavorare lealmente al rafforzamento d'un partito di centrosinistra moderno e democratico, senza alcun rischio di autoritarismo.

Ci auguriamo che Renzi annunci questo progetto pubblicamente anche in Parlamento avvertendo che dovrà essere a suo tempo approvato formalmente dalla direzione del Pd. Insomma un annuncio decisamente personale, ma in realtà essenziale per chi dirige partito e governo e punta a un Pd compatto salvo qualche eventuale e personale eccezione.

***

Il vero e terribile avversario di Renzi e della sua politica in Italia e in Europa è il Movimento 5 Stelle. Con la legge elettorale attuale i grillini (che non amano sentirsi chiamati così) avrebbero la quasi certezza di vincere al ballottaggio ed anche di essere decisivi per la vittoria del No referendario. Il Movimento 5 Stelle non ha certo la forza esplosiva di un Donald Trump, soprattutto perché l'Italia non è l'America. Ma un grillino alla guida dell'Italia possiamo immaginare come si comporterebbe nel nostro Paese, in Europa e in tutti i Paesi extraeuropei, cioè nel mondo intero?

A due mesi dalle elezioni a sindaca di Roma abbiamo visto che cosa ha fatto la Raggi: nulla, non ha fatto nulla salvo aver disdetto le olimpiadi ed avere anche sospeso la costruzione di un settore essenziale della metropolitana. Forse quelle sospensioni avevano qualche giustificazione ma la vera ragione è che se avesse accettato le olimpiadi la Raggi non era in grado di iniziare da subito le opere preliminari e di programmare poi gli impianti necessari ai vari sport olimpici.

Questo è accaduto alla sindaca di Roma con il sostegno di tutti i cinquestellati. Rispetto a questo esempio su scala nazionale e internazionale è immaginabile quale sarebbe la fine dell'Italia.

In queste condizioni e in queste prospettive Renzi ha non solo la facoltà ma l'obbligo
di fare proprie le conclusioni del comitato da lui nominato. Non ci sono alternative. Non si può correre il rischio di causare la trasformazione d'un teatro dell'Opera in un teatro di burattini con un burattinaio ventriloquo che li muove con i fili e gli presta la voce.
 
© Riproduzione riservata 06 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/06/news/renzi_scongiuri_il_rischio_di_un_trump_italiano-151422020/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Papa a Repubblica: "Trump? Non giudico. Mi interessa ...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 11, 2016, 06:05:40 pm
Il Papa a Repubblica: "Trump? Non giudico. Mi interessa soltanto se fa soffrire i poveri"
Nell'incontro con Eugenio Scalfari il pontefice esorta i cattolici a un nuovo impegno in politica: "Non per il potere ma per abbattere muri e diseguaglianze"

Di EUGENIO SCALFARI
11 novembre 2016

SCRIVO questo articolo il giorno successivo all'imprevista vittoria elettorale di Donald Trump su Hillary Clinton. E' un grande evento avvenuto in un grande Paese democratico con procedure democratiche, il che significa che la maggioranza degli elettori ha scelto un nuovo Presidente come successore di Barack Obama. Non si poteva fare una scelta politica così diversa. Tanto più che Obama per un mese si è prodigato in tutte le principali zone degli Stati Uniti in favore del Partito democratico da lui rilanciato fin dalla sua prima campagna elettorale che lo condusse alla Casa Bianca. Trump non ha alcun carisma e alcuna competenza politica. La leadership gliel'hanno data gli elettori, mentre Obama fu lui a convincere gli americani e l'intero mondo occidentale. La differenza è dunque totale.

Quanto a noi europei e italiani la vittoria di Trump è catastrofica. Trump è l'angelo bianco, discute contro gli establishment di tutti gli Stati americani, contro tutti gli immigrati e le loro famiglie e rafforza tutti i movimenti in Europa che si oppongono ai Vip e alle classi dirigenti dei loro paesi, rafforza Grillo, rafforza la Le Pen, la Lega di Salvini e i partiti che hanno determinato il Brexit e i movimenti che da destra e da sinistra insidiano la Cancelliera Angela Merkel. In Italia dovrebbe favorire il No al referendum voluto da Renzi poiché una crisi italiana giova alla posizione internazionale che Trump sostiene. Più confusione c'è altrove e meglio è per lui che deve imporre al mondo intero una nuova strategia di conflitti e di alleanze.

In Italia questo rischio potrebbe perfino aumentare i Sì ma al tempo stesso rafforza i No che metterebbero il nostro governo in crisi con ulteriori difficoltà a risolverla. Una crisi italiana metterebbe in difficoltà anche la moneta comune poiché il nostro movimentismo a cominciare da Grillo è decisamente favorevole a tornare a una moneta locale mettendo l'Eurozona sotto attacco anche da parte dei Paesi che non vi sono mai entrati come Polonia e gli altri dell'Est della Ue.

Questa mia breve premessa era necessaria. Il nostro giornale ha già raccontato e analizzato tutti i nuovi aspetti della situazione che si è creata con la vittoria di Trump e mi pareva opportuno farne anch'io un esame ma molto breve. Il vero tema di questo articolo infatti non riguarda la vicenda americana ma un invito da me da tempo desiderato per un incontro con papa Francesco. Avevo avuto con Lui la settimana scorsa una lunga telefonata perché Sua Santità voleva discutere con me la visita che avrebbe fatto tre giorni dopo in Svezia con i rappresentanti mondiali della religione luterana e della riforma dalla quale è nata mezzo millennio fa.
Ho già riferito di questa conversazione solo per dire che ho l'onore di ricevere frequenti telefonate da papa Francesco ma non ci vediamo di persona da oltre un anno e quindi il suo invito mi ha fatto felice. Ci siamo incontrati lunedì 7 e siamo stati insieme oltre un'ora. Due giorni prima e cioè sabato 5 il Papa aveva incontrato i rappresentanti del Movimento popolare. Si tratta di un movimento che conta centinaia di migliaia di aderenti nei principali Paesi dove la presenza cristiana è molto diffusa. Il discorso di papa Francesco a questi volontari della fede occupa sei pagine dell'Osservatore Romano. Naturalmente quando due giorni dopo ha incontrato me avevo già letto il testo integrale di quel discorso. Più volte ho scritto che Francesco è un rivoluzionario ma questa volta altroché rivoluzione...

Ed ora vediamo come e perché.

***

Ci siamo abbracciati dopo tanto tempo. "La vedo bene" mi ha detto.

Anche Lei sta benissimo nonostante i continui strapazzi della sua vita.
"E' il Signore che decide".

E "sora nostra morte corporale".
"Sì, corporale".

Era la conversazione che cominciava per entrare subito nel profondo.

Santità - gli ho chiesto - cosa pensa di Donald Trump?
"Io non do giudizi sulle persone e sugli uomini politici, voglio solo capire quali sono le sofferenze che il loro modo di procedere causa ai poveri e agli esclusi".

Qual è allora in questo momento tanto agitato la sua preoccupazione principale?
"Quella dei profughi e degli immigrati. In piccola parte cristiani ma questo non cambia la situazione per quanto ci riguarda, la loro sofferenza e il loro disagio; le cause sono molte e noi facciamo il possibile per farle rimuovere. Purtroppo molte volte sono soltanto provvedimenti avversati dalle popolazioni che temono di vedersi sottrarre il lavoro e ridurre i salari. Il denaro è contro i poveri oltreché contro gli immigrati e i rifugiati, ma ci sono anche i poveri dei Paesi ricchi i quali temono l'accoglienza dei loro simili provenienti da Paesi poveri.
E' un circolo perverso e deve essere interrotto. Dobbiamo abbattere i muri che dividono: tentare di accrescere il benessere e renderlo più diffuso, ma per raggiungere questo risultato dobbiamo abbattere quei muri e costruire ponti che consentono di far diminuire le diseguaglianze e accrescono la libertà e i diritti. Maggiori diritti e maggiore libertà".

Ho chiesto a papa Francesco se le ragioni che costringono la gente ad emigrare si esauriranno prima o poi. E' difficile capire perché l'uomo, una famiglia, e intere comunità e popoli vogliono abbandonare la propria terra, i luoghi dove sono nati, il loro linguaggio.

Lei, Santità, attraverso quei ponti da costruire favorirà il riaggregarsi di quei disperati ma le diseguaglianze sono nate in Paesi ricchi. Ci sono leggi che tendono a diminuirne la portata ma non hanno molto effetto. Non avrà mai fine questo fenomeno?
"Lei ha parlato e scritto più volte su questo problema. Uno dei fenomeni che le diseguaglianze incoraggiano è il movimento di molti popoli da un paese ad un altro, da un continente ad un altro. Dopo due, tre, quattro generazioni, quei popoli si integrano e la loro diversità tende a scomparire del tutto".

Io lo chiamo un meticciato universale nel senso positivo del termine.
"Bravo, è la parola giusta. Non so se sarà universale ma sarà comunque più diffuso di oggi. Quello che noi vogliamo è la lotta contro le diseguaglianze, questo è il male maggiore che esiste nel mondo. E' il danaro che le crea ed è contro quei provvedimenti che tendono a livellare il benessere e favorire quindi l'eguaglianza".

Lei mi disse qualche tempo fa che il precetto "Ama il prossimo tuo come te stesso" doveva cambiare, dati i tempi bui che stiamo attraversando, e diventare "più di te stesso". Lei dunque vagheggia una società dominata dall'eguaglianza. Questo, come Lei sa, è il programma del socialismo marxiano e poi del comunismo. Lei pensa dunque una società del tipo marxiano?
"Più volte è stato detto e la mia risposta è sempre stata che, semmai, sono i comunisti che la pensano come i cristiani. Cristo ha parlato di una società dove i poveri, i deboli, gli esclusi, siano loro a decidere. Non i demagoghi, non i barabba, ma il popolo, i poveri, che abbiano fede nel Dio trascendente oppure no, sono loro che dobbiamo aiutare per ottenere l'eguaglianza e la libertà".

Santità. io ho sempre pensato e scritto che Lei è un rivoluzionario ed anche un profeta. Ma mi sembra di capire oggi che Lei auspica che il Movimento dei popolari e soprattutto il popolo dei poveri entrino direttamente nella politica vera e propria.
"Sì, è così. Non nel cosiddetto politichese, le beghe per il potere, l'egoismo, la demagogia, il danaro, ma la politica alta, creativa, le grandi visioni. Quello che nell'opera sua scrisse Aristotele".
Ho visto che nel suo discorso ai "movimenti popolari" di sabato scorso Lei ha citato il Ku Klux Klan come un movimento vergognoso e così pure quello di segno opposto ma analogo delle Pantere nere. Ma ha citato come ammirevole Martin Luther King. E' un profeta anche lui, che fa senso per quel che diceva nella libera America?
"Sì, l'ho citato perché lo ammiro".

Ho letto quella citazione; penso che sia opportuno ricordarlo anche a chi legge questo nostro incontro.
"Quando ti elevi a livello dell'amore, della sua grande bellezza e potere, l'unica cosa che cerchi di sconfiggere sono i sistemi maligni. Le persone che sono intrappolate in quel sistema le ami, però cerchi di sconfiggere quel sistema: odio per odio intensifica solo l'esistenza dell'odio e del male nell'universo. Se io ti colpisco e tu mi colpisci e io restituisco il colpo e tu mi restituisci il colpo, e così di seguito, è evidente che si continua all'infinito. Da qualche parte qualcuno deve avere un po' di buonsenso e quella è la persona forte, capace di spezzare la catena dell'odio, la catena del male".

Ed ora torniamo alla politica e al suo desiderio che siano i poveri e gli esclusi a trasformare quella politica in una democratica volontà di realizzare gli ideali e la volontà dei movimenti popolari. Lei ha caldeggiato quell'interesse per la politica perché è Cristo che la vuole. "I ricchi dovranno passare per la cruna dell'ago". Cristo la vuole non perché è anche figlio di Dio ma soprattutto perché è figlio dell'uomo. Ma uno scontro comunque ci sarà, è in gioco il potere e il potere, Lei stesso lo ha detto, comporta guerra. Dunque i movimenti popolari dovranno sostenere una guerra, sia pure politica, senza armi e senza spargimento di sangue?
"Non ho mai pensato a guerra ed armi. Il sangue sì, può essere sparso, ma saranno eventualmente i cristiani ad essere martirizzati come sta avvenendo in quasi tutto il mondo ad opera dei fondamentalisti e terroristi dell'Isis i carnefici. Quelli sono orribili e i cristiani ne sono le vittime".

Ma lei, Santo Padre, sa bene che molti Paesi reagiscono anche con le armi per sconfiggere l'Isis. Del resto le armi le usarono anche gli ebrei contro gli arabi ma perfino tra di loro.
"Ebbene, non è questo tipo di conflitti che i movimenti popolari cristiani portano avanti. Noi cristiani siamo sempre stati martiri, eppure la nostra fede nel corso dei secoli ha conquistato gran parte del mondo. Certo ci sono state guerre sostenute dalla Chiesa contro altre religioni e ci sono state perfino guerre dentro la nostra religione. La più crudele fu la strage di San Bartolomeo e purtroppo molte altre analoghe. Ma avvenivano quando le varie religioni e la nostra, come e a volte più delle altre, anteponevano il potere temporale alla fede e alla misericordia".

Lei però, Santità, incita adesso i movimenti popolari ad entrare in politica. Chi entra in politica si scontra inevitabilmente con gli avversari. Guerra pacifica, ma comunque di conflitto si tratta e la storia ci dice che nei conflitti è in gioco la conquista del potere. Senza il potere non si vince.
"Ora lei dimentica che esiste anche l'amore. Spesso l'amore convince e quindi vince anche quanti siamo ora. I cattolici sono un miliardo e mezzo, i protestanti delle varie confessioni ottocento milioni; gli ortodossi sono trecentomila, poi ci sono le altre confessioni come anglicani, valdesi, coopti. Tutti loro compresi, i cristiani raggiungono i due miliardi e mezzo di credenti e forse più. Ci sono volute armi e guerre? No. Martiri? Sì, e molti".

E così avete conquistato il potere.
"Abbiamo diffuso la fede prendendo esempio da Gesù Cristo. Lui fu il martire dei martiri e gettò all'umanità il seme della fede. Ma io mi guardo bene dal chiedere il martirio a chi si cimenterà ad una politica orientata verso i poveri, per l'eguaglianza e la libertà. Questa politica è cosa diversa dalla fede e sono molti i poveri che non hanno fede. Hanno però bisogni urgenti e vitali e noi dobbiamo sostenerli come sosterremo tutti gli altri. Come potremo e come sapremo".

Mentre l'ascolto, sempre più mi confermo di ciò che provo per Lei: di un pontificato come il suo ce ne sono stati pochi. Del resto Lei ha parecchi avversari dentro la sua Chiesa.
"Avversari non direi. La fede ci unifica tutti. Naturalmente ciascuno di noi individui vede le stesse cose in modo diverso; il quadro oggettivamente è il medesimo ma soggettivamente è diverso. Ce lo siamo detto più volte, lei ed io".

Santità l'ho trattenuta forse troppo tempo ed ora la lascio. A quel punto ci siamo salutati con un abbraccio pieno d'affetto. Io gli ho detto di riposarsi ogni tanto e lui mi ha risposto: anche lei deve riposarsi perché un non credente come lei deve essere più lontano possibile da "morte corporale". Era il 7 novembre.

© Riproduzione riservata
11 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2016/11/11/news/intervista_del_papa_a_repubblica_abbattere_i_muri_che_dividono_bisogna_costruire_ponti_-151774646/?ref=HREA-1


Titolo: E. SCALFARI. Nei tempi bui del populismo Renzi deve accelerare sulla riforma
Inserito da: Arlecchino - Novembre 14, 2016, 05:54:31 pm
Nei tempi bui del populismo Renzi deve accelerare sulla riforma
"Non sono né di sentimenti renziani né antirenziani, ma se il premier fosse costretto alle dimissioni a causa di un No vincente, si aprirebbe un periodo di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione della governabilità e una instabilità in Europa"


Di EUGENIO SCALFARI
13 novembre 2016

LA CAMPAGNA referendaria che avrà il suo gran finale il 4 dicembre è stata resa ancor più agitata dalla vittoria di Donald Trump e dalle sue ripercussioni in Europa e in Italia. Trump nel suo primo discorso dopo la vittoria ha rivendicato alcuni problemi dominati dal capovolgimento di politiche fin qui elaborate e attuate da otto anni, e cioè due mandati di Barack Obama: quello della sanità, quello del petrolio e dell'acciaio, quello dell'immigrazione e soprattutto il fatto che lui, Donald Trump, non ha un partito, ha un suo programma ed è a quel programma che hanno aderito i repubblicani. Quel programma capovolge quello precedente di Obama, e riguarda le scelte della politica interna e di quella internazionale.
 
Sappiamo bene qual è il senso di quel discorso: la politica internazionale riguarda i suoi rapporti con Putin, con gli autori del Brexit e con i movimenti populisti presenti in quasi tutti i Paesi europei sotto varie forme. Nella politica economica indica come obiettivi totalmente diversi da quelli precedenti la piena occupazione degli operai e dei contadini, il rilancio della politica petrolifera e di quella siderurgica, la creazione di nuovi posti di lavoro naturalmente riservati ai cittadini americani. Nel suo discorso ha rivendicato che queste sono politiche da lui decise perché è lui che ha assunto la responsabilità del comando. Naturalmente con procedure democratiche previste ed attuate anche dai suoi avversari.
 
Questo significa che la sua presenza al vertice come anche la sconfitta della Clinton sono state raggiunte con le procedure liberali dell'elezione presidenziale. Ha aggiunto che la sua politica riguarda tutti e non soltanto le categorie e gli Stati che si sono dichiarati a lui favorevoli.
 
Per quanto riguarda infine i movimenti populisti europei, Trump sarà in buoni rapporti personali con alcuni di loro ma non sarà certo lui che li piloterà; sono conseguenze del suo ingresso alla Casa Bianca; vede quelle conseguenze con simpatia ma rispetta la loro autonomia. Per quanto riguarda la sua America, sarà vicino a tutti, l'ha ripetuto più volte e così sarà vicino ai movimenti europei che dalla nuova America saranno incoraggiati nelle nazioni dell'Europa.
 
L'Italia è uno dei Paesi in cui la vittoria di Trump ha avuto conseguenze positive: sulla Lega di Salvini, su Meloni, e soprattutto su Grillo. In diverso modo anche su Berlusconi. Anche lui, ai suoi tempi, ha governato senza un partito: Forza Italia fu formata dai funzionari di Publitalia ai suoi ordini. Gli unici e ascoltati consiglieri sono Gianni Letta e Fedele Confalonieri. In molte cose Berlusconi somiglia a Trump, fatte le debite proporzioni tra chi è al vertice dell'America e chi per circa vent'anni è stato non il solo ma tra i più importanti leader italiani.

I grillini, come si è già detto, sono molto vicini alle posizioni di Trump ma tra loro c'è una profonda differenza: Trump oltre ad essere molto ricco in proprio ha anche contatti stretti con i maggiori banchieri e imprese finanziarie di Wall Street; i grillini invece non hanno nessun contatto col mondo degli affari e le sole risorse provengono dagli stipendi parlamentari. Questo merito va loro riconosciuto.

***

Uno dei motivi per i quali Trump ha ottenuto la sua vittoria è stato l'attacco all'establishment americano da parte dei disoccupati, dei sottopagati, delle periferie sociali che ci sono in tutti i Paesi. La sconfitta elettorale di quella classe dirigente dà luogo ad un intervallo (molto breve) dopo il quale una nuova classe dirigente prende il potere. Naturalmente il fatto che le masse rabbiose abbiano manifestato anche i motivi della loro sofferenza provoca nella nuova classe dirigente politiche che tengano conto dei disagi esistenti e quindi siano orientate soprattutto a attenuarli o addirittura ad abolirli. La classe dirigente c'è sempre dopo brevissimi periodi di intervallo, ma cambia la linea politica del Paese, una volta vanno al potere i conservatori, un'altra volta i progressisti e riformisti. Poco tempo fa c'è stato su questo giornale un dibattito sull'argomento. Alcuni, tra i quali io stesso, sostenevano che l'oligarchia fosse la forma inevitabile della democrazia: comandano in pochi e adottano una politica che soddisfa i molti che li hanno votati. Questa è la democrazia oligarchica, altre forme democratiche non esistono, esistono però altri regimi e cioè la dittatura e l'anarchia.
 
Nella storia del Novecento i dittatori sono stati la conseguenza inevitabile di fasi di grande confusione politica. Così avvenne in Italia con Mussolini, in Germania con Hitler, in Spagna con Francisco Franco e in Russia con Lenin e poi Stalin. Inutile dire che le dittature sono state un periodo terribile nella storia delle nazioni, hanno alimentato guerre interne ed esterne per il mantenimento del potere. Richiamo qui questo dibattito perché un Paese democratico e che tale voglia restare è guidato inevitabilmente da una classe dirigente la quale accetta di essere criticata ma assume la responsabilità di governare in un sistema democratico.

***
 
Conviene a questo punto tornare alla situazione italiana. C'è un establishment intorno a lui? Questo establishment è molto ristretto e il potere renziano, sia come presidenza del Consiglio e sia come segreteria del partito di maggioranza, è alla vigilia di una crisi che porterà un nuovo gruppo dirigente, oppure Renzi è un innovatore che ha certamente commesso errori ma governa soltanto da tre anni? Tra gli italiani c'è una massa crescente che manifesta la sua rabbia sociale e c'è anche una dissidenza, sia pure molto limitata numericamente, all'interno del suo partito. Si sta dunque prefigurando un'ipotesi di crisi ed una vittoria del No referendario?
 
In questo momento i sondaggisti danno i No in maggioranza; il Sì starebbe diminuendo il distacco ma il nuovo vertice americano può avere l'effetto in Italia di un aumento dei No e non più per dissenso politico soltanto, ma anche per quella rabbia sociale che non accetta d'esser governata contro i suoi bisogni.
 
Renzi finora ha volutamente ignorato il legame tra il referendum costituzionale e la legge elettorale. Ad un certo punto si è reso conto che quello era il punto delicato del problema e ha nominato un comitato di cinque membri rappresentativi di varie posizioni ma comunque interessati ad elaborare una riforma elettorale adeguata.
 
I cinque membri hanno funzioni di notevole importanza: due sono i presidenti dei gruppi parlamentari di Camera e Senato, uno è il vicesegretario del premier, un altro è il presidente del partito del Pd e un altro ancora proviene dalle fila dei dissidenti. Si chiama Gianni Cuperlo che non è propriamente un antirenziano.
 
Hanno lavorato per quasi un mese e dopo lunghe discussioni hanno raggiunto un progetto comune. Il progetto, avendo ormai raggiunto l'approvazione di tutti i membri del comitato, è stato sottoposto a Renzi e da lui approvato. Ne dette notizia qualche giorno fa nel corso di un discorso comiziale in favore dei Sì referendari, leggendo anche il comunicato che i cinque avevano stilato. Dopo quella sua pubblica adesione alla riforma elettorale proposta dai Cinque non ne ha più parlato. Sembrerebbe a questo punto che la sua adesione ci sia stata ma poi l'ha mandata in soffitta. È un grave errore al quale ci auguriamo ponga riparo al più presto. Il rafforzamento dei populismi e del grillismo in particolare richiede che la riforma elettorale venga molto spesso illustrata rinnovando il più frequentemente possibile la volontà del governo di effettuarla.
 
Personalmente non sono né di sentimenti renziani né antirenziani, ma mi rendo conto che se il premier fosse costretto alle dimissioni a causa di un No vincente, si aprirebbe un periodo di estrema difficoltà per il nostro Paese con una netta diminuzione della governabilità e una instabilità in Europa. Il rischio del ballottaggio nelle elezioni italiane darebbe una molto probabile vittoria al Movimento Cinquestelle. Potete immaginare l'ipotesi di un grillino che debba governare l'Italia intera e rappresentarci in Europa e nel resto del mondo. È un'ipotesi da incubo, ecco perché la legge elettorale va cambiata, il ballottaggio abolito oppure attuato non tra liste uniche bensì tra liste apparentate.
 Renzi conosce certamente la legge De Gasperi del 1953 e gli apparentamenti della Dc con altre liste e un sistema elettorale proporzionale. La Dc non si presentò mai sola alle elezioni con alleati che di tanto in tanto cambiavano. Fu alleata con tutti, prima con i cosiddetti partiti minori e laici, poi con i socialisti guidati da Nenni e De Martino ed infine con i comunisti di Berlinguer, pochi giorni prima del rapimento e poi dell'uccisione di Aldo Moro, il principale regista di questi mutamenti. Renzi conosce bene questa storia ed io forse un po' meglio di lui perché l'ho direttamente vissuta. Perciò si sbrighi sul ballottaggio, sul sistema proporzionale e sugli apparentamenti con altre forze politiche affini alle posizioni del Pd. Con i tempi bui di un demagogo alla Casa Bianca gli errori non corretti immediatamente possono diventare incubi. Nella vita ed anche nella politica l'incubo è quanto di peggio possa accadere.
 
© Riproduzione riservata 13 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/13/news/populismo_renzi_riforma-151897771/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Quirinale tra Waterloo e Ventotene
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2016, 08:46:25 pm
Il Quirinale tra Waterloo e Ventotene

"Renzi ha legato al risultato referendario il suo destino politico. Questo è un errore e l'ha detto anche il Presidente Sergio Mattarella. Sostenere una riforma desiderata è legittimo, trasformarla in un'ordalia non va affatto bene. Ma ormai è tardi per correggere l'errore"

Di EUGENIO SCALFARI
01 dicembre 2016

SIAMO ormai al gran finale, fra tre giorni chi vuole andrà a votare il referendum costituzionale e tra quattro giorni ne conosceremo l'esito.

Intanto gli appelli per il Sì e per il No si succedono senza sosta, a cominciare da Renzi, dall'intera classe dirigente del Pd e, sulla sponda opposta, uomini di sicuro prestigio costituzionale e politico, tra i quali mi permetto di nominare l'amico Gustavo Zagrebelsky, per non parlare della dissidenza interna dei democratici, con i nomi di Bersani e di D'Alema, alcuni dei quali in posizione pre-scissionistica.

Tra gli appelli di vari gruppi di opinione ne voglio segnalare uno che mi ha profondamente commosso per la mia storia personale ed è quello dell'ex partito repubblicano di Ugo La Malfa, dove trovo le firme di Gustavo Visentini, figlio di Bruno, Adolfo Battaglia, Giuseppe Galasso, Piero Craveri ed altri, che chiedono di votare Sì.

Segnalo anche "L'Amaca" di Michele Serra sul numero di martedì scorso del nostro giornale, che è un vero capolavoro di ironia politica. Ricorda ai democratici di avanguardia che voteranno No di essere talmente d'avanguardia da aver perso di vista il grosso dell'esercito del No composto da quanto avanza del berlusconismo, dalla Lega ormai sulle posizioni nazionaliste e xenofobe dei populismi europei e infine il grosso di quell'esercito formato dai grillini 5 stellati. Questo è l'esercito del No. Caro Zagrebelsky, sei con una pessima compagnia e dovresti forse riflettere un momento, anche se so che non lo farai.

Segnalo infine, sempre su Repubblica di martedì, l'intervista a Arturo Parisi, che inventò l'Ulivo insieme a Romano Prodi e vinse le elezioni che dettero vita a quel governo (con Ciampi ministro del Tesoro), forse il migliore degli ultimi venticinque anni, che fece dell'Italia uno degli Stati europei fondatori dell'Euro. Del resto mentre sto scrivendo giunge la notizia che Romano Prodi ha deciso di votare Sì. È una decisione estremamente importante venendo da una delle personalità più autorevoli della nostra Repubblica e della nostra democrazia. Anche Parisi spiega per quale motivo, sia pure con rabbia, voterà Sì. Merita d'esser ricordato. Illustra le ragioni pro e contro che dentro di lui si equivalgono ma c'è poi una ragione politica che determina il suo Sì, in mancanza del quale rischia di affondare l'Italia e viene inferta una grave ferita anche all'Europa.
Amici che votate No, c'è tra le tante una ragione profondamente ideale, un valore concreto che vi ricordo: il Manifesto scritto a Ventotene, dove erano al confino fascista, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni: gli Stati uniti di Europa. La bandiera di Ventotene la porterete tra la gente di Brunetta, di Salvini e di Grillo? Ci avete pensato e avete deciso di chiudere gli occhi e di marciare al buio verso il nulla con l'unica intenzione di mandare Renzi in soffitta?

Ormai non è più questo il problema. Personalmente sono stato e tuttora sono molto critico su alcuni aspetti di Renzi e l'ho scritto infinite volte ma, lo ripeto, il problema non è più questo. Vediamo dunque qual è.

***

Che Renzi sostenga il referendum costituzionale, da lui iscritto nella sua tabella di marcia tra i primi obiettivi da realizzare, dipende anche dall'indicazione che ebbe in questo senso dal Presidente Napolitano quando fu rieletto Capo dello Stato e poco dopo affidò a Renzi il compito di formare un nuovo governo dopo le dimissioni di Enrico Letta. Qui c'è una ferita ancora aperta ma non è questo il momento di ricordarlo.

Qualcuno sostiene che un governo non ha il potere costituzionale di promuovere un referendum, ma se vengono raccolte firme in numero sufficiente e la Corte di Cassazione le ritiene valide il referendum si fa. Renzi ha legato al risultato referendario il suo destino politico. Questo è un errore, non va affatto bene e l'ha detto anche, con altre parole ma con questo stesso significato il Presidente Sergio Mattarella. Sostenere una riforma desiderata è legittimo, trasformarla in un'ordalia non va affatto bene. Ma ormai è tardi per correggere l'errore.

La politica è sempre molto complessa, sicché potrebbe anche darsi che Renzi sapesse di commettere un errore ma volesse farlo. Perché? Perché se vincessero i Sì lui ne uscirebbe rafforzato, ma se perdessero lui potrebbe usare la sconfitta per anticipare le elezioni all'inizio dell'anno prossimo, convinto che comunque le vincerà. È un calcolo politico come un altro. Attenzione però: a Waterloo Napoleone era sicuro di vincere perché a metà della battaglia sarebbe arrivato sul fianco destro del fronte il generale Grouchy con le truppe di rinforzo. Invece arrivò il feldmaresciallo tedesco Blücher che prese Napoleone alle spalle e la battaglia finì con la ben nota storica sconfitta.

Comunque questa volta non spetta a Renzi decidere ma al Presidente Mattarella per il quale, come del resto è ampiamente previsto dalla prassi costituzionale, se perdono o se vincono i Sì o i No, l'esito del referendum non ha alcuna conseguenza politica sul governo in carica. Mattarella in questi giorni l'ha detto più volte: dal 5 dicembre Renzi sarà a rapporto dal Capo dello Stato per elencare i problemi che si pongono con la massima urgenza nel campo economico e finanziario, sul terreno europeo ed anche sulla legge elettorale che dovrà essere comunque riscritta. Da lavorare ce n'è un bel po', bisogna farlo rapidamente e bene in Italia e in Europa.

***

La legge elettorale ha già un progetto da attuare, redatto dal piccolo comitato dei Cinque da Renzi a suo tempo nominato e del quale in linea di massima ha accettato le proposte: niente più preferenze, niente più ballottaggio tra i primi due partiti, voto nei collegi, ballottaggio non più tra liste uniche ma tra coalizioni effettuate dopo il primo voto, sistema di voto proporzionale. Questi sono i capisaldi. La natura della coalizione è un tema politicamente essenziale. Un partito nato come centro-sinistra deve mantenere e addirittura rinforzare questa sua natura; soltanto se questa operazione viene effettuata in modo significativo, allora si possono cercare anche appoggi e fiancheggiamenti nell'ambito di forze moderate.

Poi c'è il problema della politica economica e i punti di riferimento sono Draghi, la politica degli investimenti, la gestione del debito pubblico e la crescita sorretta da una visione keynesiana entro i limiti delle regole europee.

Infine - e appunto - c'è la politica europea: la bandiera di Ventotene va alzata e perseguita al massimo perché è indispensabile in una società globale che sta unificando il mondo con rapporti tra i vari Stati continentali. Questa politica comporta una lotta contro i nazionalismi, i populismi xenofobi, il capitalismo quando è un elemento dell'egoismo economico. Il capitale è una forza fondamentale della storia moderna e può essere una forza positiva o sfruttatrice. Lo dimostrò Marx alla metà dell'Ottocento: riconosceva la forza positiva del capitalismo che era in quel momento il motore della rivoluzione industriale e al tempo stesso delle libertà borghesi, premessa della rivoluzione proletaria. Ecco perché l'Europa federalista è indispensabile e deve essere il principale obiettivo della sinistra moderna.

Buona domenica cari lettori e carissima Italia.

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01 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/referendum-costituzionale2016/2016/12/01/news/quirinale_waterloo_ventotene-153192555/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Referendum, votiamo per l'Italia e per l'Europa.
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 08, 2016, 06:53:05 pm
Referendum, votiamo per l'Italia e per l'Europa. E Prodi spiega il suo Sì
La crisi italiana aggiunge una sorta di disfacimento all'analoga crisi europea. Il peggio si aggiunge al peggio

Di EUGENIO SCALFARI
04 dicembre 2016

L'articolo di Mario Calabresi e quello di Stefano Folli usciti su questo giornale inquadrano perfettamente la crisi che l'Italia sta attraversando, una crisi epocale che ha colpito perfino l'America con la vittoria di Donald Trump e che colpisce in modo particolare l'Europa (e l'Italia), un continente che stenta terribilmente a unificarsi, anzi sta disgregando il poco che aveva creato, ogni giorno di più.

La crisi italiana aggiunge una sorta di disfacimento all'analoga crisi europea, il peggio si aggiunge al peggio. Il tutto è esploso con questo referendum che abbiamo tra i piedi.

Mi permetto di ricordare il calendario: è sabato il giorno in cui sto scrivendo e i miei 25 lettori mi leggeranno domani mentre stanno votando o hanno già votato. Ovviamente né io né i miei lettori conosciamo i due elementi che connotano il referendum: l'affollamento ai seggi e l'esito dello scontro tra il Sì e il No. L'affluenza è importante quasi quanto l'esito, quindi se andranno alle urne in pochi, per esempio un 30 per cento degli aventi diritto al voto, l'esito sarà scarsamente influente. Personalmente non ritengo che andranno in pochi, ma non credo neppure che saranno moltissimi. Vedremo nella notte di domenica (oggi per voi che leggete) e all'alba di lunedì. Nel frattempo possiamo analizzare alcuni aspetti che caratterizzano i votanti delle due parti. Attenzione: quando si vota per il Parlamento il popolo dei votanti dà la delega a rappresentarlo ai deputati e senatori (fin quando il Senato esisterà). Quindi si votano i partiti e i movimenti, i programmi da essi presentati e anche le ideologie che ne costituiscono la base culturale, gli ideali, i valori.

Il voto referendario ha una natura del tutto diversa: i cittadini sono chiamati a rispondere a un quesito che è stato posto da un numero consistente di altri cittadini. La risposta a un quesito, il Sì o il No, decide. Cioè nel caso referendario il popolo è direttamente sovrano, senza delegare ad altri la propria sovranità.

Il quesito che oggi stiamo votando si riassume nell'abolizione del bicameralismo perfetto e quindi nell'instaurazione di un regime monocamerale. Una sola Camera decide, l'altra, cioè il Senato, esiste ancora ma con compiti del tutto diversi e comunque secondari.

Se vogliamo prenderci la briga di vedere com'è la situazione nel Paese dove è nata storicamente la democrazia e cioè l'Inghilterra, vediamo che la camera dei Comuni detiene interamente il potere legislativo mentre la camera dei Lord non ha potere alcuno, emette soltanto pareri; è nominata dalla Corona (in teoria) e cioè dal Premier che propone i nomi e il Re o la Regina appongono la loro firma.

Questo è il sistema del Paese che è stato la culla della democrazia, ma è anche lo stato dei fatti in tutti i Paesi importanti d'Europa: in Francia, in Germania, in Spagna, ovunque. In Italia non è stato mai così, sebbene all'Assemblea costituente che chiuse i suoi lavori nel 1947 molti fossero favorevoli a una sola Camera, a cominciare dal Partito comunista. Oggi il tema è stato riproposto da Renzi ed è su questo che i cittadini sono chiamati a rispondere direttamente.

Si può dissentire se il quesito referendario sia stato scritto bene o male (secondo me è scritto male e i nuovi compiti attribuiti al Senato non credo siano quelli giusti) ma comunque il nocciolo è la scelta del monocamerale.

Sono tanti anni che il tema è all'ordine dell'attenzione politica, sono state installate varie commissioni bicamerali, alcune delle quali arrivarono anche a concludere ma all'ultimo momento una delle parti buttò tutto in aria (lo fece Berlusconi quando tutto sembrava concluso). Renzi c'è infine riuscito a farlo, questo merito gli va riconosciuto. Il demerito che l'accompagna e che non riguarda lui soltanto, ma anche le altre parti politiche a cominciare soprattutto dai 5 Stelle, è stato quello di aver trasformato il referendum in un'ordalia pro Renzi o contro di lui. Avete deformato il tema ed avete sbagliato a farlo.

***

I No hanno due motivazioni diverse che in certi casi si sommano tra loro, in altri restano distinte. C'è chi vota No perché ritiene che in tal modo il Paese cambierà e c'è chi vota esclusivamente per rabbia sociale, è disoccupato o rischia di diventarlo o si sente escluso dal successo e ne soffre psicologicamente. Tutti quelli che votano No se ne infischiano che la compagnia in cui si trovano sia ampiamente differenziata: c'è Forza Italia di Berlusconi, c'è la Lega di Salvini, ci sono i 5 Stelle di Grillo e ci sono anche le schegge della sinistra-sinistrese, insieme ad un pizzico di anarchici. Ma i No lucidamente consapevoli hanno motivazioni che non sono ispirate da rabbia sociale. Non gli piace la scrittura della riforma costituzionale ma soprattutto non gli piace l'abolizione del bicameralismo che secondo loro diminuisce pericolosamente il potere legislativo. In aggiunta si ritiene che Renzi abbia una vocazione autoritaria che sarebbe accentuata dal monocameralismo. L'esponente principale di chi vota No in piena coscienza è Gustavo Zagrebelsky e, se gli obiettate che votando No si muove in pessima compagnia, ti risponde che in un referendum la compagnia conta pochissimo e a referendum avvenuto la compagnia, buona o cattiva che fosse, non esiste più. Rimane il risultato ed è quello sul quale si deve lavorare. Lui ci lavora. Con chi? Non lo sa, non ha un partito ma ha un'autorevolezza.

È vero, lo conosco bene e siamo stati buoni amici. Spero che continueremo ad esserlo, ma la speranza (o presunzione) che lavorerà con successo per trarre dall'esito referendario tutte le conseguenze politicamente positive dimostra in lui l'esistenza di un Io alquanto esuberante.

Conosco molto bene che cos'è un Io esuberante perché ce l'ho anch'io, ma ne sono consapevole e tengo il mio Io al guinzaglio; molti non ne sono consapevoli e questo è pericoloso se hanno un ruolo importante da sostenere. Ci sono molti altri casi d'un Io esuberante ma non sto qui per fare ritratti e a parlare dell'Io troppo marcato. Da tre anni in qua dovrei mettere Matteo Renzi in testa a tutti. Del resto i protagonisti della politica hanno tutti, salvo eccezioni, un Io marcato: è un fatto naturale. Il problema è di sapere se lo mettono al servizio del bene comune. Loro sono convinti di impersonare il bene comune. Ecco perché non dovrebbero mai essere soli al comando. Debbono essere leader d'un duetto dirigente, all'interno del quale c'è sempre una libera discussione.

In tutti i regimi politici i pochi guidano i molti e se volete l'esempio più classico pensate al Senato romano, almeno fino a Giulio Cesare, che non a caso fu ucciso in Senato e dal gruppo più repubblicano. Alcuni di loro di Cesare erano amici stretti, Bruto lui lo considerava un figlio. Con Cesare era difficile discutere insieme del bene comune. Questo è il punto. Volete comandare? Dovete avere intorno a voi una classe dirigente (io la chiamo oligarchia) altrimenti precipiterete nella dittatura. L'oligarchia è il contrario della dittatura, l'ho scritto varie volte e ne ho fornito vari esempi storici. Perciò non mi ripeterò.

***

Una personalità politica di rilievo nazionale e internazionale, Romano Prodi, ha annunciato mercoledì scorso che voterà Sì e ce ne ha anche spiegato il perché. Questa discesa in campo di un personaggio che può essere definito una "riserva della Repubblica" ha sicuramente mosso le acque ed ha convinto un numero rilevante di cittadini a votare Sì superando non lievi perplessità. La sua spiegazione è questa: ci sono motivazioni a favore ed altre contro la legge contenuta nel referendum, ma Prodi voterà Sì perché - motivazioni sulla legge a parte - votare Sì significa impedire che il Paese si disgreghi. Si aprirebbe una lunga crisi e affiancherebbe quella europea. Ecco perché il Sì invece del No.

Alcuni, che per mestiere cercano la pagliuzza nel fienile, si sono domandati a che cosa mira Prodi se il Sì avrà la meglio. Pensa forse a candidarsi come successore di Renzi a Palazzo Chigi?

Prodi non pensa affatto a questo. Se vincerà il No tornerà a fare il semplice cittadino perché non ha l'abitudine di discutere con chi ha cavalcato un cavallo diverso. Se vincerà il Sì cercherà con i suoi suggerimenti critici di migliorare gli interventi, le leggi, i programmi in corso e quelli che il prossimo futuro comporterà. In Italia e in Europa. Per quanto riguarda Renzi, Prodi sostiene che non deve in nessun caso dimettersi. Lo so perché siamo molto amici Romano ed io ed abbiamo sempre avuto comuni opinioni, sia quando era presidente dell'Iri sia quando fondò l'Ulivo insieme ad Arturo Parisi e a Walter Veltroni, che combatté quella battaglia creativa e nel governo che ne risultò fu il vicepresidente del Consiglio.

È qui doveroso ricordare che Veltroni, chiusa la stagione prodiana, fu uno dei fondatori del Pd che era nato dall'Ulivo e a lui fu dato il compito di organizzarlo e guidarlo alle imminenti elezioni. Fu lui a chiamarlo partito riformatore e il programma fu da lui delineato al Lingotto di Torino e confermato all'unanimità dalla direzione del partito. Alle elezioni aveva ottenuto il 34 per cento, cifra eguale a quella del Partito comunista quando raggiunse il suo massimo all'epoca di Berlinguer.

A quel partito bisognerebbe tornare con i debiti aggiornamenti soprattutto in chiave europea e Renzi, a mio avviso, può e deve farlo in ogni caso, sia se vincerà sia se perderà il referendum. Così la pensa anche il presidente Mattarella e così dovrebbe pensare anche la dissidenza interna del Pd a cominciare da Bersani. Cuperlo insegna.

Ora aspettiamo i risultati. Una nuova fase si apre. Speriamo che sia appunto una fase di riforme positive e speriamo che l'Italia si dia carico di se stessa e anche dell'Europa, senza la quale non si sopravvive in una società globale dove contano soltanto gli Stati continentali. Gli altri - l'ho scritto più volte - usano scialuppe di salvataggio che spesso affondano nei mari tempestosi.

© Riproduzione riservata
04 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/referendum-costituzionale2016/2016/12/04/news/referendum_italia_europa-153389360/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Per essere uno statista Renzi studi Garibaldi e Cavour
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 12, 2016, 03:15:33 pm
Per essere uno statista Renzi studi Garibaldi e Cavour Per essere uno statista Renzi studi Garibaldi e Cavour
"Caro Matteo non devi occuparti del tuo partito e delle elezioni che vorresti al più presto. Devi occuparti del bene del nostro Paese"

Di EUGENIO SCALFARI
11 dicembre 2016

CI SONO molte cose da decidere in Italia, come pure in Europa e nel mondo intero. Oggi però a noi interessa soprattutto il nostro Paese. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiuso ieri sera le sue consultazioni incontrando la delegazione del Pd e deciderà oggi. Designerà la persona scelta a guidare il governo. Fino a quando? Non si sa. Mattarella, se potesse, vorrebbe che la legislatura durasse fino al suo termine che scade nel 2018, ma questo non dipende da lui. Si aggiunga che quasi tutte le forze politiche vogliono dar seguito anticipato al rinnovo del Parlamento, alcune con la riforma della legge elettorale, ed altre con l'attuale estesa al Senato di nuovo pienamente in vita.

Questa è la situazione che il presidente Mattarella dovrà tener presente nella scelta del nome, in particolare quello desiderato e a lui indicato dal Pd che, con la sua coalizione, ancora detiene la maggioranza assoluta alla Camera e una quasi maggioranza assoluta anche al risorto Senato, requisito che sembra esistere sempreché il partito di Renzi sia compatto e raggruppato come di fatto non è. Attualmente è diviso in sette o otto correnti, diverse tra loro e da Renzi che in teoria dovrebbe capeggiare il Pd del quale è tuttora il leader.

Per compiere un'analisi obiettiva della situazione racconterò brevemente come mi sono comportato io, non da giornalista ma come semplice cittadino ed elettore; può servire a comprendere i voti incassati dal Pd.

In tutto tredici milioni (il famoso 40 per cento che ha votato Sì) e di riflesso i diciannove, cioè il 60 per cento che ha votato No.

Francamente non credo affatto che quel 40 per cento sia interamente renziano. Io per esempio ho deciso di votare Sì seguendo la decisione di Romano Prodi e le sue motivazioni: "Ho molte obiezioni nei confronti della legge sulla riforma costituzionale e altrettante in suo favore; alla fine un esame della situazione politica mi porta a votare Sì. Il nostro Paese deve rafforzare la propria stabilità per contribuire alla stabilità europea. Stabilità e governabilità in Italia e in Europa. Se vincesse il No nel nostro referendum non avremo né l'una né l'altra".

Così disse Prodi una settimana prima del voto e così decisi anch'io. Quello che è oggi sotto i nostri occhi ce lo conferma ed è proprio per questo che il presidente Mattarella dovrebbe cercare di convincere Renzi ad un reincarico per un governo nella pienezza delle sue funzioni.

***

Renzi pensa al suo interesse, è normale, pensiamo tutti al nostro. Ma un uomo politico e di governo dovrebbe pensare anche, ed anzi "in primis", al bene comune che non sempre coincide con il bene proprio, anzi quasi mai.

Renzi infatti desidera che Mattarella nomini l'attuale ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e/o il nostro ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, per un governo cosiddetto di scopo. Lo scopo sarebbe quello desiderato da Renzi, cioè dal "suo" partito, pronto ad affrontare la campagna elettorale con modalità scelte dal "suo" governo dopo le decisioni che saranno comunicate dalla Corte costituzionale.

(Mi permetto di aprire una parentesi a questo proposito. La Corte ha già preso le sue decisioni, tuttavia resteranno segrete al pubblico fino al 24 gennaio prossimo. La Corte è ben consapevole che operando in questo modo paralizza ancora per un mese e mezzo la vita politica del Paese e dei cittadini. Perché lo fa? Perché è la Corte il numero uno dell'Italia? A me non pare un comportamento corretto ma sbagliato. Il numero uno è il presidente della Repubblica, anche in materia costituzionale. La Corte è un contropotere, come lo è in tutte le occasioni il potere giudiziario. Se e quando il potere giudiziario si surroga alla presidenza compie un errore marchiano e già chiarito da Charles-Louis de Secondat, Baron de La Brède et de Montesquieu nel libro fondamentale intitolato l'Esprit des Lois, ai tempi dell'Illuminismo).

È probabile che Mattarella dopo aver tentato di convincere lo stesso Renzi a proseguire lui la legislatura, designi Gentiloni e/o Padoan per un governo renziano; probabile ma non sicuro. La visione del bene comune di Mattarella non sembra coincidere con quella di Renzi, ma in questo caso non tocca al premier decidere ma al Presidente. Renzi, se chiamato, accetterà il reincarico o lo rifiuterà?

Mi permetterò ora di dargli la mia opinione.

***

Papa Francesco, nella ricorrenza dell'Assunzione al cielo di Maria madre di Gesù, ha messo in rilievo che l'anno 2016 è stato "disastroso" per i diritti umani. "Non solo ne sono stati ricusati molti ma quelli esistenti sono stati in gran parte annullati. Nuovi genocidi si sono verificati e le diseguaglianze si sono terribilmente accresciute. Bisogna fare l'opposto ed è questo il bene del prossimo che deve impegnare ciascuno di noi".

Su un piano del tutto diverso è intervenuto Le Monde nel suo editoriale con la prima pagina intitolata così: Brexit, Trump, Renzi...pourquoi les Bourses continuent de grimper. Ed ecco il seguito: "Da alcune settimane gli investitori sono euforici. Dimenticano le loro paure del Brexit, di Trump e di un No al referendum di Renzi. Eppure ci sono numerosi rischi politici ed economici in Europa come negli Stati Uniti".

Non ci potevano essere due angolazioni più diverse di guardare la situazione attuale, ma entrambe coincidono nel misurare l'intensità dei mali che affliggono il mondo intero e in particolare l'Occidente e il Medio Oriente che ne è la proiezione.

Caro Matteo Renzi se vuoi dare una buona prova della tua personalità non devi occuparti del tuo partito e delle elezioni che vorresti avvenissero al più presto. Devi occuparti del bene del nostro Paese. Devi accentuare se non addirittura sostenere il tuo governo e condurlo fino alla fine della legislatura avendo come solidale punto di riferimento il presidente della Repubblica. Devi sviluppare la crescita economica e sociale, devi riconoscere nuovi diritti, l'hai già fatto meritatamente con le Unioni civili ma molti altri ce ne sono. Devi combattere le diseguaglianze, devi farti carico della ricostruzione antisismica delle zone più strutturalmente fragili della catena appenninica. Devi operare in Europa come e più di quanto hai già fatto per gli emigranti, per una sorta di Fbi europea. Devi mantenere ed accentuare il tuo ruolo europeo, con la Merkel e con Draghi come punti di riferimento.

Sono i requisiti non solo di un leader politico ma di uno statista. Se lo capirai e tenterai di promuoverti a quel ruolo, ce la farai. Così io credo.

Questa è la scelta che ti aspetta nelle prossime ore se non vuoi che questo Paese, questa cultura, questo ruolo di primazia sia conquistato da Grillo e da Salvini ormai appaiati.

Nel 2018 la legislatura sarà terminata ma i compiti di uno statista no. Fammi sognare che tra alcuni giorni somiglierai in vesti moderne a quello che furono un secolo e mezzo fa Cavour e Garibaldi: la guida politica e lo spirito rivoluzionario.

Sono sogni, non è vero? Sogni miei e mi piace sperare che possano avverarsi. In fondo anche i No referendari volevano un cambiamento. Con Grillo e Salvini? Per l'Italia purtroppo è avvenuto, spesso ci scordiamo delle pessime esperienze vissute. La storia dovrebbe insegnarlo, soprattutto ai giovani: essi hanno votato il No in massa. Ora dovrebbero rileggersi alcuni classici della nostra storia politica e sociale fino in fondo. Il No vuole un vero cambiamento in avanti o all'indietro? Ricordatevi l'antica Internazionale: "Sulla libera bandiera /batte il Sol dell'Avvenir".

È assai singolare che sia un vegliardo come io sono a concepire l'Avvenire. Spetta a voi giovani costruire l'Avvenire. Il tempo corre, datevi da fare per l'Italia e per l'Europa, di entrambe siete cittadini e volete forse affidarvi a quelli che dall'Europa vogliono uscire? È questo l'Avvenire?

Cari giovani e caro Renzi, l'Avvenire è nelle vostre coscienze, non certo in quelle di Grillo e di Salvini. Siamo a un giro di boa. Spero che la Crociera la vinca il migliore.

© Riproduzione riservata 11 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/11/news/per_essere_uno_statista_renzi_studi_garibaldi_e_cavour-153864060/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gentiloni non seguirà il percorso segnato da Renzi
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 20, 2016, 06:25:49 pm
Gentiloni non seguirà il percorso segnato da Renzi
L'attuale presidente del Consiglio ha dichiarato che il suo governo cesserà di esistere quando gli sarà stata tolta la fiducia. E chi può toglierla se non Matteo, e con quali esiti sulla campagna elettorale?

Di EUGENIO SCALFARI
18 dicembre 2016

PRIMA che l’incarico di formare un nuovo governo fosse conferito dal presidente della Repubblica a Paolo Gentiloni, io scrissi che Matteo Renzi avrebbe dovuto esser lui a proseguire. Il referendum sulla riforma costituzionale vinto dai No con una affluenza record non imponeva le dimissioni al governo in carica, potendo senz’altro continuare. Il presidente Sergio Mattarella fece infatti pressioni in questo senso proprio per consentire stabilità e governabilità fino alla fine della legislatura nel 2018. Scrissi anche che Renzi avrebbe dovuto trasformarsi da leader politico a statista, due dizioni profondamente diverse tra loro e scrissi anche che avrebbe dovuto tener presenti gli esempi di Camillo Benso conte di Cavour e di Garibaldi, di spirito rivoluzionario dotati.

Questi due esempi mi furono contestati da molti critici: come si poteva avvicinare a Renzi nomi come quei due, protagonisti del Risorgimento? Con critiche a mio avviso profondamente sbagliate: gli esempi del passato fanno parte del presente e di un passato culturale indispensabile alla politica. Non a caso Mazzini aveva studiato Marx e Cavour aveva letto con attenzione Machiavelli e Guicciardini. A me non dispiace affatto esser criticato e spesso lo merito, ma mi piace anche rispondere quando penso d’aver ragione.

Renzi comunque non accettò l’offerta del presidente della Repubblica. E propose a sua volta un governo presieduto da Gentiloni che avrebbe del resto seguito i suoi suggerimenti nella formazione del Ministero, il che in gran parte avvenne. Quanto a Renzi, si sarebbe dedicato al partito del quale è tuttora segretario. Un partito che nel voto referendario ha ricevuto il 40 per cento, una cifra importante e compatta, mentre i No non hanno un Capo che li guidi, in gran parte sono voti di grillini e di intellettuali e di giovani e di lavoratori disoccupati e animati da rabbia sociale. L’obiettivo di Renzi è di arrivare allo scioglimento delle Camere entro giugno senza più ballottaggio ma con un sistema proporzionale e premio di maggioranza. Naturalmente Gentiloni lo seguirà e ne avrà meritata ricompensa, così come l’avranno Boschi e Lotti. Gentiloni lo seguirà nell’attuazione di questo disegno? E Grillo sarà messo fuori causa dalle grane di questi giorni?

***

Gentiloni probabilmente non lo seguirà e tanto meno il presidente Mattarella che detesta di dover sciogliere le Camere molto prima della scadenza della legislatura. Del resto, su questo punto sono d’accordo il presidente del Senato, Pietro Grasso, la presidentessa della Camera Laura Boldrini, il presidente emerito Giorgio Napolitano e forse a titolo personale il presidente della Corte Costituzionale. Per quanto riguarda l’Europa, Renzi non gode più di buona stampa a Bruxelles. Questo non se lo merita. Per rafforzare l’Europa ha fatto molto, è stato l’aspetto più meritorio della sua politica, ma probabilmente è proprio questa la ragione della sua impopolarità a Bruxelles. Il rafforzamento dell’Europa disturba i nazionalismi degli stati confederati che non vogliono affatto la perdita del potere: il nazionalismo francese, quello spagnolo, quello olandese, quello belga, per non parlare della Germania ancora impigliata nelle elezioni politiche.

Purtroppo, a questa meritevole politica europea, Renzi non ha aggiunto purtroppo un’altrettanto meritevole politica economica e sociale in Italia. Del resto è proprio questa difettosa politica economica ad avere scatenato la rabbia sociale manifestata con i No referendari. Il 60 per cento degli italiani aveva questo in corpo contro il 40 per cento dei Sì, ma quel 40 non è affatto di Renzi. A guardar bene i voti renzisti si aggirano sul 25, massimo 30 per cento. E il Pd non è affatto compatto, la dissidenza interna è molto critica e non lo seguirà, D’Alema non lo seguirà, Franceschini non lo seguirà. Ed infine Gentiloni non lo seguirà. Non a caso, l’attuale presidente del Consiglio ha in varie sedi dichiarato che il suo governo cesserà di esistere quando gli sarà stata tolta la fiducia. E chi può toglierla se non Renzi? Con il suo 30 per cento? Si può tollerare questo sforzo? Con quali effetti sulla sua campagna elettorale?

L’esame di questa situazione ci fa pensare che Gentiloni porterà il suo governo fino al 2018 in pieno accordo con Mattarella. Poi si vedrà. Ci sono personalità di buon conio da sperimentare a sinistra, cominciando dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia e non è il solo. Caro Matteo, se avessi tenuto a mente Cavour e Garibaldi forse non saresti a questo punto. Mi rammarico per te e per l’Italia.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/18/news/gentiloni_non_seguira_il_percorso_segnato_da_renzi-154348075/?ref=HRER2-2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dalla guerra all'Isis al senso del Natale cristiano
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 24, 2016, 08:44:39 pm
Dalla guerra all'Isis al senso del Natale cristiano

Di EUGENIO SCALFARI
24 dicembre 2016

SI sperava almeno in questa settimana di riposo se non di festa che allentasse la tensione in Italia e in Europa e invece è di nuovo salita alle stelle con l'attentato di Berlino e le fosche prospettive che si sono profilate.
 
La guerra contro il Califfato sembra essersi aggravata anziché sopita. Quella guerra che si può definire ufficiale e quella terroristica, l'una rinvia all'altra. A Sirte, a Misurata, a Mosul, a Raqqa, si contrastano truppe vere e proprie e l'Occidente per di più effettua anche una guerra aerea molto intensa. Le truppe che affrontano le milizie del Califfato sono irachene, curde, siriane, turche. Sono tutt'altro che affiatate, danno un pugno alle milizie Isis e contemporaneamente ai loro alleati diminuendo in tal modo la loro efficienza.
 
L'altro fronte di questo scontro ormai globale è ancora più insidioso: aggressioni e terrorismo che appare di sorpresa e dovunque: in Francia, Belgio, Germania, Usa, India, Indonesia, Filippine. La risposta è diversa da Paese a Paese. Le ragioni derivano dalla quantità delle comunità islamiche, dal loro livello d'integrazione e dalla capacità dei servizi di sicurezza, delle varie intelligence e soprattutto dai capi di polizia. Ma esiste anche un altro livello, forse il più pericoloso: le periferie, le banlieue.
 
Le periferie sono in parte costituite dalla seconda e terza generazione di immigrati, molto più reattiva dei padri e dei nonni che erano arrivati in Europa con la gioia d'esser riusciti a fuggire dai loro Paesi d'origine, devastati dalla miseria e dalla brutalità dei loro califfi, dittatori feroci e sanguinari.

Ma oltre a questa massa d'immigrati infastiditi anziché integrati, nelle periferie esistono anche comunità di poveri, di disoccupati, di esclusi che insorgono contro una classe dirigente, contro la borghesia, contro i ceti medi; insomma una lotta di classe molto più incattivita d'un tempo, con l'esempio del terrorismo che è invogliante per la massa di incattiviti. Il Califfato non ha alcun rapporto organizzativo con le periferie, salvo alcuni giovani che da lì provengono ed hanno preso l'iniziativa di andare per qualche tempo nei territori controllati dall'Isis, frequentare i campi d'addestramento lì predisposti per poi rimpatriare e costruire un rapporto dirigenziale nei confronti dei loro compagni rimasti nelle banlieue. Questa è la drammatica situazione in cui gran parte del mondo si trova e in particolare l'Europa che peraltro è preda di tensioni di tutt'altro tipo, politiche, economiche, sociali, all'interno dei vari Stati membri della Ue e/o di quegli Stati tra loro.

Una situazione di questa crescente gravità non si era mai vista. Probabilmente deriva dalla società globale che ha una decina d'anni e aumenta a vista d'occhio. Non è affatto facile porre termine alla guerra col Califfato. A mio avviso ci sono soltanto due modi: si può arrivare perfino ad un negoziato con i Capi dell'Isis ed offrire di riconoscerlo come uno Stato vero e proprio, con i suoi confini territoriali, il suo governo, la sua neutralità, una sua economia, avendo come corrispettivo la fine del terrorismo.

In teoria una scelta di questo genere sarebbe una soluzione di grande interesse, ma dovrebbe esser offerta da tutte le potenze mondiali, cosa assolutamente impossibile.

L'altra soluzione è di cambiare strategia, anzi di adottare una strategia che finora non esiste affatto. Potrebbe essere questa: combattere il Califfato con una vera e propria guerra territoriale di tutte le Potenze con una forma militare costituita, con un proprio Comando, proprie truppe, propri mezzi di guerra, sul genere della Nato ma più allargata agli Stati interessati. Anche questa però è una soluzione più teorica che realistica. È immaginabile una Nato formata da tutte le Nazioni europee, dagli Usa, dalla Russia, da tutti gli Stati del Medio Oriente musulmano? No, non lo è. Purtroppo però non ci sono altre alternative e la realtà è dunque che la situazione resti quella attuale, magari rafforzando quel nucleo che l'Occidente ha messo in gioco ma che, così com'è, risulta molto inefficace.

***

A prescindere da questo che resta però il problema numero uno, per quanto ci riguarda i temi sono la nostra politica interna, la politica economica, la nostra politica europea; i seguiti dello scontro referendario tra i Sì e i No, l'attuale governo Gentiloni, l'alternativa elettorale a breve termine, voluta dalla maggioranza delle forze politiche ma con finalità diverse e contrastanti tra loro. La vuole Renzi ed una parte (ma solo una parte) del suo partito, la vuole la Lega, il Movimento 5 Stelle. Più incerte sono le forze della destra berlusconiana. Le Autorità dello Stato sono sostanzialmente contrarie, a cominciare dal presidente della Repubblica. Mattarella ha manifestato più volte la sua contrarietà allo scioglimento delle Camere che comunque non può esser fatto senza una nuova legge elettorale che dovrebbe essere approvata dal Parlamento. Altrettanto contraria sembrerebbe la Corte costituzionale. Quanto al governo Gentiloni deve anch'esso essere consultato perché ha qualcosa da dire in proposito.

Si tratta dunque d'un percorso non facile. Personalmente ritengo che il presidente Mattarella abbia tante ragioni: si vada avanti fino al termine della legislatura nel 2018.

***
Avremmo terminato la rassegna di quanto ci sta accadendo intorno e potremmo dunque augurare un futuro moderatamente migliore, ma quest'articolo esce alla vigilia del Natale cristiano e questa ricorrenza non può essere sottovalutata. Non è soltanto la nascita d'una religione, che tuttavia conta oltre due miliardi di fedeli o sedicenti tali. È la nascita d'un pensiero che ha avuto riflessi di grande importanza sulla politica, sui rapporti con altre religioni, a cominciare dai monoteismi come i musulmani e gli ebrei e il cui temporalismo ha avuto importanti connessioni con la politica, specialmente in Europa ma non soltanto. Ma qui non è questo aspetto che vogliamo esaminare, bensì brevemente affrontare il senso, il significato della trascendenza, una concezione al di sopra dell'individuo e addirittura della società moderna. Contiene - la trascendenza - un potere per conquistare il quale si combatte con tutti i mezzi a disposizione diventando una figura vittoriosa oppure sconfitta e vittima delle altre forze che vi si oppongono e che, a loro volta, occuperanno il suo posto e dovranno difenderlo da chi ambisce a sostituirlo. La trascendenza insomma è la forma che domina il mondo e infatti gli sta al di sopra. È Dio, comunque lo si concepisca.

Sono andato a rileggermi i quattro Vangeli sinottici del Nuovo Testamento, che costituiscono la sostanza della vita di Gesù Cristo. Di lui non abbiamo alcun segnale, alcun segno tangibile che lo metta storicamente a contatto con il suo presente e il suo futuro, ma non è stato inventato. È esistito. Avrà pensato come i Vangeli gli attribuiscono? Questo non possiamo saperlo. Tuttavia i Vangeli sono credibili, gli apostoli che li hanno ispirati sono credibilissimi, storicamente operanti nella società dell'epoca, in Galilea e in Giudea e anche in Asia Minore, in Egitto, ad Atene e in tutta la Grecia ed infine a Roma, allora centro del mondo.

I Vangeli sinottici, cioè quelli riconosciuti dalle Autorità successive alla prima generazione cristiana, sono quattro. In ordine di tempo furono scritti quello di Matteo, poi di Marco, poi di Luca e infine Giovanni. I primi tre raccontano la vita di Gesù di Nazareth, che poi fu chiamato Cristo. La raccontano non con la formula della biografia, ma scegliendo i momenti a loro parere significativi. A volte quelle citazioni sono le stesse in tutte le tre memorie, altre volte no. Matteo racconta soprattutto i miracoli, Marco i tratti più salienti della predicazione, Luca si occupa anche degli apostoli, chi erano, che cosa facevano prima di incontrare il Signore e che cosa fecero dopo. Insomma mettendo insieme i tre Vangeli si conosce, ma molto parzialmente, la vita di Gesù che diventano una biografia di fatti rilevanti dai discorsi di Cafarnao al tempio di Gerusalemme e a quello della Montagna ed infine l'Ultima Cena, il tradimento di Giuda, il Getsemani, Ponzio Pilato, il martirio di Cristo, la crocifissione, la morte e la resurrezione.

Alcuni di questi evangelisti furono ispirati da Pietro. Poi venne Paolo che fu il vero costruttore di quella religione senza aver mai conosciuto Gesù. Ma...

Ma c'è il Vangelo di Giovanni da esaminare. Differisce dagli altri in modo molto significativo, anche perché Giovanni, allora giovanissimo, era stato un devoto di Giovanni Battista che l'aveva nominato suo segretario. Poi Giovanni incontrò Gesù e se ne innamorò spiritualmente, incoraggiato anche dal Battista che credeva in Gesù come il vero Messia, del quale il Battista si riteneva l'anticipazione.

Giovanni l'apostolo diventò anche il preferito da Gesù. Evidentemente aveva, malgrado la giovanissima età, profondità propria tant'è che fu il solo degli apostoli che scrisse un Vangelo e poi, più tardi, anche l'Apocalisse che anzi fu la sua opera principale. Ma lo fu anche il Vangelo, del quale voglio qui citare il Prologo.

Dice così:
"In principio era il Verbo
E il Verbo era presso Dio,
E il Verbo era Dio,
Questo era in principio presso Dio.
E senza il verbo non fu nulla.
Quanto fu era la vita
E la vita era la luce degli uomini
E la luce splende nelle tenebre
E le tenebre non hanno potuto sopraffarla.
E il verbo s'è fatto carne
E dimorò tra noi
E contemplammo la sua gloria
Gloria che ha da suo Padre
Come Figlio unico
Pieno di grazia e di verità
Nessuno ha mai visto Dio:
Il Dio unigenito
Che è nel seno del Padre
Lui lo ha fatto conoscere".

La trascendenza insomma significa che nessun individuo può vivere senza sognarla e nel proprio ambito di vita averne una scintilla dentro di lui.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/24/news/isis_natale-154778093/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il mito dell'Europa nel labirinto e il futuro del governo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 03, 2017, 09:05:48 pm
Il mito dell'Europa nel labirinto e il futuro del governo

Di EUGENIO SCALFARI
31 dicembre 2016

SPESSO mi chiedo dove e come è nato l’Occidente, la sua cultura, la sua potenza ed anche le sue debolezze; ma non so rispondere. Senza dubbio è nato in Europa ma quando e come? La storia e perfino la preistoria non lo dicono; le religioni neppure. Il mito forse. Sì, il mito lo dice.

Queste cose pensavo mentre stavo leggendo un libro sulla mitologia; ce ne sono molti e mi hanno sempre attirato. Colgono il profondo dell’animo nostro e lo mettono in luce, come le sue contraddizioni che cambiano sempre ma sempre ci sono, si scontrano ma non si spengono, fanno parte della nostra specie di uomini che guardano se stessi mentre operano, giudicano se stessi e così nasce l’Io e con esso il desiderio del potere, la sua trascendenza.

Il libro di mitologia che meglio affronta questo tema l’ha scritto pochi mesi fa Paola Mastrocola. Si intitola L’amore prima di noi. Prima di affrontare i problemi reali che dobbiamo risolvere, voglio soffermarmi sul loro aspetto mitico. Poi scenderemo a quelli reali. Dalle stelle alla terra. C’è sempre il filo di Arianna che può farci uscire dal labirinto nel quale oggi il mondo si trova.

«Un giorno Zeus guardava il mondo sotto di sé. Il suo sguardo si era posato per caso su una fanciulla che si chiamava Europa perché aveva gli occhi grandi. Rimase incantato a guardarla. Poco dopo sulla spiaggia della costa fenicia comparve un toro straordinariamente bianco».

«Le ragazze che danzavano sulla spiaggia furono curiose di quel toro straordinariamente bianco. Erano estremamente incuriosite. Il toro si fermò a grande a distanza e continuò a guardare soprattutto Europa dagli occhi grandi. Fu lei ad avvicinarsi. Il toro aspettava e lei arrivò vicina e lo carezzò. Per gioco gli montò sul dorso e lui partì. Entrò in mare al galoppo, superò le onde in un attimo, prese il largo mentre Europa, avvinghiata alle sue corna chiedeva aiuto. Le compagne guardavano mute ma non potevano far nulla. Il toro era ormai in mare aperto, s’involava spariva e riemergeva.

Zeus ebbe da Europa tre figli e le lasciò una lancia che non sbagliava il bersaglio. Uno di loro si chiamò Minosse, che fece costruire nel suo regno il labirinto. L’Europa di allora si chiamò Europa, colei che ha gli occhi grandi. Così da una fanciulla d’Oriente nacque l’Occidente».
Questo è tutto. Ce n’è abbastanza per riflettere.
***
A me piacerebbe che sul significato di questa scena mitologica riflettessero le persone d’autorità investite, a cominciare dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il presidente della Corte costituzionale Paolo Grossi, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, il capo del partito di maggioranza Matteo Renzi ed anche, a suo modo, Silvio Berlusconi. Di altri non parlo, pensano ad esistere e seguono soltanto questa necessità.

L’Italia e chi la rappresenta in Europa e nel mondo provengono in qualche modo dal figlio che lo Zeus mitologico lasciò ad Europa e da questo non possiamo prescindere. Come pure dobbiamo capire qual è il filo di Arianna per uscire dal labirinto in cui l’Italia e l’Europa si trovano. Temo per esempio che Renzi abbia sbagliato a respingere la proposta di Mattarella a tenere in vita il suo governo e far nascere in sua vece un governo burattino del quale vuole essere il burattinaio. Così pure credo che sarebbe molto opportuno se Gentiloni tagliasse i fili del burattinaio e avesse il governo che pensa e durasse fino alla fine della legislatura. Temo anche che la diffidenza interna del Pd continui a fare il gioco dei tanti galli che si disputano la sola gallina del pollaio invece di volare alto insieme al segretario. Temo infine che, tranne Mattarella, nessuno abbia capito quali sono i reali interessi del Paese e dell’Europa della quale facciamo parte integrante.

La sinistra, non soltanto quella italiana, dovrebbe porsi due fondamentali obiettivi: modernizzare il proprio modo d’essere aggiornandolo secondo i nuovi bisogni della società e conquistare un ruolo di governo sia in Italia sia in Europa. La guerra nel pollaio è miserevole, dividersi in correnti è altrettanto miserevole, ma purtroppo continuano tutti, dal segretario Renzi fino all’ultimo militante del partito. Questi fin qui esposti sono temi essenziali, ma non sono i soli. Ci sono le riforme e la politica sociale, c’è la legge elettorale e i problemi nati dal bicameralismo ridiventato perfetto con le esigenze che porta con sé. Ne abbiamo più volte parlato da queste pagine ma vale la pena di riparlarne ancora in un mondo che ormai cambia con molta velocità, in una società globale che cambia anch’essa a dir poco ogni mese se non addirittura ogni giorno. Dunque esaminiamoli questi aspetti della situazione e ciò che compete a chi è chiamato a risolverli.

La politica sociale d’una sinistra moderna ha due compiti principali: aumentare la produttività ed abolire o almeno diminuire le diseguaglianze. La discussione non è quella attualmente in corso di accrescere le imposte oppure le spese o viceversa; imposte e spese sono certamente strumenti necessari ma l’obiettivo principale è la diseguaglianza che significa sostanzialmente una costante e crescente differenza tra ricchi e poveri.

Questa differenza fa sì che il numero dei ricchi diminuisca ma la ricchezza di ciascuno di loro aumenti mentre specularmente il numero dei poveri e dei meno abbienti aumenta insieme alla loro povertà soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto ceto medio. Non esiste quasi più il ceto medio e chi ancora ne fa parte ha il timore di diventare proletariato, questa è la situazione, uno dei fattori d’una dilagante rabbia sociale che alligna in tutti i Paesi del mondo a cominciare dagli Stati Uniti d’America, dove il fenomeno ha determinato la vittoria di Donald Trump, e così pure in Inghilterra e minaccia in Germania la cancelliera Angela Merkel e spiega anche la vera causa della nascita del Movimento 5 Stelle in Italia. La diseguaglianza, è questo che dobbiamo combattere. Per quanto riguarda la produttività anche i lavoratori debbono contribuire ma marginalmente. Sono soprattutto gli imprenditori che debbono perfezionare i loro investimenti ma debbono anche inventare nuovi prodotti da offrire ai consumatori. La domanda di consumi dipende da molti fattori ma principalmente da nuovi prodotti offerti. Si veda il fenomeno che la storia dell’industria ci offrì nei primi anni del Novecento: il motore a scoppio e l’automobile. Le prime automobili furono un prodotto di lusso riservato ai ricchi. Comunque un nuovo prodotto che gradualmente sostituì le carrozze trainate da cavalli o da muli. Ma poi accanto alle auto di lusso di grande cilindrata usate anche per le gare sportive, nacque ad un certo punto l’automobile piccola, alla portata dei ceti medi e questa fu l’auto di massa che ebbe una grande diffusione. Nelle città diventò anche la seconda automobile dei ricchi per circolare e posteggiare con maggiore facilità. Adesso sta addirittura nascendo un’auto senza pilota, che marcia da sola e da sola posteggia. L’autista guida accendendo il computer, che poi pensa a tutto il resto.

Questo è il vero aumento della produttività di cui viene anche a godere il salario dei lavoratori dipendenti e di conseguenza anche i consumatori.

Noi qui in Italia facciamo assai poco in questa direzione perché la maggior parte degli imprenditori, se il loro profitto aumenta, invece di riconvertirlo in buona parte, lo tengono per sé e lo investono nella finanza invece che nell’industria. Qui dovrebbero intervenire le imposte o le tasse per punire questo comportamento dei capi delle imprese, ma abbiamo visto ben poco di questa politica fiscale.

Dovremo ora parlare della legge elettorale dopo il No referendario che ripristinando il Senato deve necessariamente esser rifatta dal Parlamento su proposta del governo e/o dai partiti. Ci sono due alternative: una legge sostanzialmente maggioritaria come era l’Italicum, con premio alto, il 40 per cento, oppure una legge proporzionale senza ballottaggio ma eventualmente con un premio di maggioranza per il partito con maggiori voti degli altri. Oppure una via di mezzo tra queste due ipotesi.

Personalmente ritengo che una legge proporzionale con o senza premio sia migliore della maggioritaria. Si obietta (Renzi soprattutto) che la proporzionale frantuma il Parlamento e in tal modo indebolisce la governabilità. Questa obiezione è fondata ma il modo di superarla è la coalizione tra due o più partiti. Molte volte ho richiamato a questo proposito la storia della Democrazia cristiana da Alcide De Gasperi fino alla morte di Aldo Moro. Vigeva la proporzionale e non c’era alcun premio, e le coalizioni si formavano dopo le elezioni. Si rilegga quella legge. Tra l’altro essa può essere entro certi limiti modificata adottando un voto di collegio o uninominale, ma la base di fondo è in ogni caso proporzionale.

È vero che questo tipo di legge alimenterebbe le correnti dentro i partiti, soprattutto in quelli maggiori, ma questo avviene anche adesso, perfino nel movimento grillino. Ormai le correnti ci sono anche lì sebbene sia un movimento di proprietà di Grillo e di Casaleggio.

Questo è comunque il mio parere che ovviamente non conta niente in materie di questo genere. E poiché siamo alla conclusione mi permetterò di fare a Renzi una proposta personale alla quale so già che dirà di no (forse sarebbe stato meglio per lui se mi avesse ascoltato a suo tempo): non chiedere le elezioni entro giugno, anzi non le chiedere affatto e lascia che Gentiloni arrivi al termine della legislatura. Tu nel frattempo ti dedichi al tuo partito, alla sinistra in Italia e in Europa e nei momenti liberi che certo avrai porta i figli a scuola e occupati della famiglia. Leggi libri utili e belli e attendi fino al 2018. A quel punto ti presenti alle elezioni e cerchi di vincerle, tu e il tuo partito. Avrai un lungo avvenire politico davanti. Sei un uomo di talento e di capacità decisionali ed anche di carisma politico. L’Italia e l’Europa ne sarebbero avvantaggiate sia adesso senza di te sia dopo insieme a te. Grazie.
 
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31 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/31/news/il_mito_dell_europa_nel_labirinto_e_il_futuro_del_governo-155152924/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Lo scudo di Draghi è il ministro del Tesoro europeo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 17, 2017, 05:41:44 pm
Lo scudo di Draghi è il ministro del Tesoro europeo
Il presidente Bce vede lucidamente i pericoli di un'Europa di governicchi in una società globale. Un solo ministro del Tesoro dell'Eurozona sarebbe un passo importante verso la federazione

Di EUGENIO SCALFARI
15 gennaio 2017

L'euro è sotto attacco. Non soltanto del populismo che alligna in Europa sempre di più, ma anche di alcune banche d'affari ed enti speculativi ed anche di economisti, studiosi attenti alle tendenze finanziarie e monetarie nonché, beninteso, agli interessi privati ed anche pubblici che non pensano all'interesse comune europeo ma ad una forza nazionalistica sempre più rigorosa in una confederazione che rifiuta di costruire un continente federale.

Se prendiamo come esempio il più grande e importante degli Stati federali, gli Stati Uniti d'America, il dollaro non è mai stato in discussione. Dopo la fine dell'ultima guerra mondiale un dibattito ci fu su due tematiche in qualche modo connesse tra loro: quale doveva essere il rapporto tra il dollaro e l'oro, che naturalmente avrebbe influito su tutte le altre monete, e l'opportunità o meno di mantenere il dollaro come principale strumento internazionale, agganciandone il tasso di cambio ad un "pool" di monete di altri Stati di grande importanza politica, economica, territoriale, in possesso di materie prime; insomma un'anticipazione di una società globale che vide la luce quarant'anni dopo sotto la spinta delle nuove tecnologie ed anche dell'immenso esercito dei popoli poveri che fuggono la miseria e le sanguinarie dittature che li opprimono rendendo necessaria la fuga verso altri continenti più ricchi e meno sanguinari. Insomma più civili, ancorché non sempre (anzi quasi mai) favorevoli all'invasione degli emigrati.

La conferenza si svolse a Bretton Woods su un sistema monetario da costruire e ferma restando l'importanza del dollaro come strumento operativo; l'ipotesi sostenuta principalmente da John Maynard Keynes era una moneta contabile unica il cui tasso di cambio veniva fissato dalla media tra i tassi delle monete dei principali Paesi del mondo. Quella moneta il cui nome sarebbe stato Bancor avrebbe rappresentato una sorta di ancoraggio di tutti i Paesi aderenti a questa sorta di club, le cui rispettive monete non potevano, anzi non dovevano allontanarsi dai tassi stabiliti una volta per tutte tra ciascuna di loro e il Bancor, potendo tuttavia oscillare entro una fascia del 4 o del 6 per cento senza subire alcuna penalità sulle rispettive economie.

Qualche cosa di simile era avvenuta tra le varie monete europee e fu definita una sorta di clearing multilaterale, con oscillazioni consentite entro il 6 per cento e con l'obbligo di saldare ogni mese i debiti eventuali al suddetto club chiamato Ecu. Il pagamento avveniva in dollari. Questo clearing multilaterale durò fino al 1997 quando i Paesi europei (non tutti ma i principali) decisero di adottare la moneta unica, cioè l'euro. I Paesi membri dell'Unione europea, politica ed economica, erano 28 fino a quando il Regno Unito di Gran Bretagna ne è uscito e dunque gli Stati sono diventati 27, dei quali 19, i principali, hanno aderito all'euro. Tra di essi il principale è la Germania non soltanto per la sua struttura economica e per la consistenza della sua popolazione, ma anche perché l'euro, di fatto, non è che il cambiamento di nome del marco tedesco che era la moneta di riferimento sulla quale furono fissati i vari cambi con le altre monete. Queste sono le premesse storiche della crisi monetaria attuale. Una crisi, o meglio una crescente sfiducia nella moneta comune, nasce naturalmente da ragioni politiche ed anche da malanni economici e sociali che ciascuno dei 19 Paesi europei sta attraversando. Ritirarsi dall'euro, magari soltanto per qualche anno, consentirebbe soprattutto di essere sottratti a quella sorta di protettorato tedesco che stabilisce la politica economica e le regole che gli Stati debbono rispettare, i sistemi di controllo e le relative penalizzazioni nei casi di inadempienza. Ma sarebbe anche la fine di un sogno che non è un'utopia ma deve, dovrebbe, diventare una realtà e cioè gli Stati Uniti d'Europa, senza la quale (l'ho scritto infinite volte ma l'ascolto dei vari governi è nullo su questo tema) le nazioni europee in una società sempre più globale diventeranno scialuppe di salvataggio o gommoni o gondole per turisti che vengono a godersi le tante bellezze d'arte e di panorama dei vari Paesi europei che in una storia di almeno tremila anni sono stati la culla della civiltà del mondo ad occidente della Cina, dell'India e dell'Africa centrale.

***

C'è una sola eccezione al nazionalismo e al populismo che hanno impedito al sogno di Ventotene di diventare realtà, ed è la Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi. È italiano e prima di essere prescelto per dirigere l'Istituto che ha sede a Francoforte è stato governatore della Banca d'Italia, ma la sua nazionalità originaria non ha minimamente influenzato il suo lavoro; l'Italia è una componente importante dell'Unione europea e come tale interessa la Bce non meno ma nemmeno più degli altri Paesi europei.

La Bce fu concepita nel 1997. Era evidente che una confederazione che aveva deciso di chiamarsi Unione senza ancora esserlo, aveva bisogno di trasformare l'Ecu, cioè il clearing multilaterale, in una Banca centrale; ma in realtà quella decisione fu presa da Mitterrand e da Kohl come contrappeso politico all'unificazione della Germania Est (filosovietica) con la Germania Ovest, ovviamente europeista. La Francia e tutti i Paesi dell'Unione temevano molto un'eventuale tendenza filosovietica della Germania, della quale c'erano già stati alcuni preoccupanti segnali. La creazione d'una Banca centrale e d'una reale unione europea furono il prezzo che la Germania dovette accettare per poter portare fin quasi all'Elba i propri confini e per annettersi milioni di persone di lingua tedesca ampiamente addestrate alla vita e al lavoro industriale: una ricchezza e un aumento di popolazione che fece della Germania il primo paese d'Europa.

La Francia mitterrandiana non era certo (e tuttora non è) protesa verso un'Europa federale; la "grandeur" francese è sempre stata un ostacolo alla federazione; ma un'Europa nell'orbita sovietica sarebbe stata un pericolo e una diminuzione del potere politico della Francia e Mitterrand agì di conseguenza.

Va anche aggiunto che timori analoghi aveva anche il cancelliere tedesco: Kohl era europeista, il suo partito democristiano, la Cdu, non era affatto propenso ad eventuali politiche di apertura verso l'Est, alla quale guardavano invece con simpatia il partito socialdemocratico e soprattutto le sue frange di sinistra comunista. Kohl perciò si schierò con Mitterrand e fu anche confermato in questo atteggiamento dall'immediata adesione dell'Italia di Prodi e soprattutto di Ciampi che era allora il ministro del Tesoro e fu quello che trattò con Kohl sulle modalità e il tasso di cambio tra la lira e il nascente euro. Questa è la storia dell'euro, che soppiantò le altre monete dei diciannove Paesi europei ed ebbe ovviamente una Banca centrale della quale le Banche centrali nazionali costituiscono il suo consiglio.

La Bce è la sola istituzione europea sostanzialmente indipendente rispetto alle altre. È vero che i suoi azionisti sono i 19 Paesi che aderiscono alla moneta euro, ma è anche vero che non si tratta di un vero e proprio consiglio di amministrazione. Draghi non ha sopra o accanto a sé un solo ministro del Tesoro, ma ne ha 19, il che in una materia squisitamente tecnica significa nessuno.

Eppure è proprio Draghi ad avere chiesto con insistenza che sia creato un ministro del Tesoro unico dell'Eurozona. È vero che spetterebbe al Consiglio dei capi di governo dell'Eurozona sceglierlo e nominarlo, ma qui la loro area di guida e di controllo cessa, la Banca centrale può rispondere ad uno ma non a diciannove. Eppure quell'uno, che ridurrebbe in qualche modo il potere di Draghi sulla politica monetaria dell'Eurozona e non soltanto, è proprio lui che lo vuole, appoggiato in questo anche da Renzi quando era capo del governo. Come mai?

La riposta è semplice: Draghi è un favorevole assertore dell'Europa federale e non soltanto confederata, e sa che un solo ministro del Tesoro dell'Eurozona sarebbe un passo importante verso la federazione europea. Draghi vede lucidamente i pericoli di un'Europa di governicchi in una società globale, non sente ovviamente sentimenti nazionalistici ed è perciò il più franco e sincero sostenitore degli Stati Uniti d'Europa. Purtroppo con pochi alleati. L'Italia di Renzi lo è stata e anche quella di Gentiloni lo è e lo è stata quella di Napolitano, di Ciampi, di Prodi. Fine: non lo è Grillo, non lo è Salvini. Berlusconi lo è a mezza bocca, in realtà del tema Europa non gliene importa niente. Se la sinistra italiana prendesse sul serio questo tema come dovrebbe, sarebbe una forza politica non trascurabile, ma è occupata soltanto dalle sue beghe interne di partito; è europeista ma non ha mai mosso un dito per dimostrarlo. Non così il suo leader: Renzi in Europa ha dato il meglio di sé e se avesse agito con altrettanta lucidità sul piano italiano non si sarebbe cacciato nel mare di guai che sta e stiamo attraversando.

È incredibile come in tre anni sia venuto meno un leader che sembrava poter governare con carisma e con efficacia (che è più importante del carisma). Ce la farà a riprender quota? Avrebbe fatto meglio a proseguire il suo governo e, visto che rifiutò l'offerta in quel senso del presidente Mattarella, farebbe bene ad occuparsi del partito, dell'Europa ed attendere che Gentiloni conduca il governo fino alla fine naturale della legislatura; a quel punto potrebbe ripresentarsi al Paese con una legge elettorale appropriata.

Pubblichiamo qui a fianco una sua ampia intervista con Ezio Mauro. È interessante, le domande di Ezio sono tutte appropriate come sempre. Le risposte di Renzi altrettanto precise; a sentirlo parla del futuro suo e di quello del Paese. Si tira un respiro di sollievo, ma sul tema delle elezioni subito, e con quale legge elettorale, c'è il silenzio pressoché assoluto. E quindi altrettanto assoluto è il mio giudizio sulla sua figura di statista. A me sembra piuttosto essere un perfetto giocatore di roulette. Spero ovviamente di sbagliare: non tanto nell'interesse di Renzi ma in quello del Paese.
 
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15 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/15/news/ue_draghi_ministro_tesoro-156044213/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La forza dell'Io sul percorso di Donald Trump e Matteo Renzi
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 23, 2017, 11:27:50 am
La forza dell'Io sul percorso di Donald Trump e Matteo Renzi
Le due figure più interessanti e più attuali per noi cittadini italiani ed europei sono il neopresidente Usa e l'ex premier italiano

Di EUGENIO SCALFARI
22 gennaio 2017

DA MOLTI anni della mia lunga vita ho trovato il tempo, nonostante le tante attività pratiche del giornalismo e dell'editoria, di studiare due elementi essenziali che distinguono la nostra specie da quella animale da cui proveniamo: l'Io che la fa da padrone con Narciso, l'amore di sé, che accompagna l'Io e lo rafforza aumentandone la superbia e il desiderio del potere. L'altro elemento sono le contraddizioni altrettanto essenziali che in qualche modo accrescono la ricchezza dell'Io ma contemporaneamente lo indeboliscono rendendolo più fragile anche perché ne individuano la propensione verso il potere e il comando.

Le contraddizioni sono nascoste nel profondo del Sé, dove nascono gli istinti, cioè nel profondo di noi stessi e sono cosa diversa dall'Io. Freud, Jung ed anche Spinoza prima e Nietzsche dopo studiarono contemporaneamente gli istinti, il Sé, l'Io. Sdoppiarono quest'ultimo affiancandogli il Super-Io, una sorta di guardiano per conto della società nella quale ogni individuo, cioè ciascuno di noi, vive, a cominciare dalla famiglia e allargandosi all'amicizia verso gli altri, verso la propria comunità, verso la propria Nazione, verso i poveri e anche verso i ricchi e i potenti, verso il prossimo anche se lontano. Non a caso una delle regole principali del cristianesimo è "ama il prossimo tuo come te stesso", riconoscendo la legittimità dell'amore verso di sé ma nella stessa misura verso gli altri.

Questi elementi hanno fatto e fanno la storia della nostra vita la quale, dominata da questi istinti, si estende ad altri due che possono sembrare contraddittori e invece non lo sono affatto: il destino e il caso. Il primo altro non è che il carattere di ciascuno di noi che si forma dal lascito dei genitori, dall'amore in cui quel lascito è nato, dall'educazione impartita anche con l'esempio, dal genere di cultura del luogo e della società in cui viviamo. Il destino riflette insieme il carattere delle persone.

Il caso invece è una sorta di legge di probabilità: gli incontri che fai, le guerre che ti coinvolgono, l'amicizia e l'inimicizia, la gelosia, l'invidia. Il caso non è contraddittorio rispetto al destino, lo completa e lo mette alla prova. Non si dovrebbe modificare il carattere per gli eventi suscitati dal caso. Ne volete un esempio letterario che ci fu offerto dal Manzoni dei Promessi Sposi? È la conversione dell'Innominato che era stato per molti anni la fonte del male e improvvisamente diventò fonte del bene dopo aver rapito Lucia per favorire un altro nobilastro come don Rodrigo, ma si commosse e si pentì trasformando il suo carattere e quindi il suo destino.

Credo d'aver enumerato le passioni e le caratteristiche che determinano la vita di ciascuno. Salvo un punto che condividiamo con gran parte degli animali dai quali la nostra specie discende e cioè l'istinto fondamentale che domina tutti gli altri ed è presente in quasi tutti gli individui: l'istinto di sopravvivenza, che si divide in due sentimenti, la sopravvivenza di se stessi e quella della specie animale da cui proveniamo. Noi siamo una specie socievole, se fossimo soli a vivere su questo pianeta non reggeremmo alla solitudine. Perciò siamo socievoli e la nostra sopravvivenza si estende agli altri esseri e perfino agli animali domestici. L'intensità di questa sopravvivenza è tuttavia non determinabile: a volte è molto avvertita, altre volte poco o niente. E questa è la vera distanza tra il bene e il male, tra la guerra e la pace. La vita è un'avventura, determinata da tutti gli elementi più emeriti. Cerchiamo ora di vedere quale tipo di vita stiamo vivendo.

***

Le due figure più interessanti e più attuali per noi cittadini italiani ed europei sono Donald Trump e Matteo Renzi. Non si somigliano affatto, almeno in apparenza, ma a guardar bene qualche tratto analogo in entrambi c'è. Del resto è vero che ciascuno di noi differisce dagli altri ma è altrettanto vero che apparteniamo alla medesima specie. La vera differenza tra i due sta nel diverso raggio d'azione: Trump si rivolge agli americani nella sua qualità di presidente degli Stati Uniti d'America, la più grande potenza del mondo. Renzi è invece il leader del Partito democratico italiano, un partito che ha il proprio influsso sul governo Gentiloni e come tale ha anche una funzione indiretta sull'Europa. Molto indiretta ed anche di rilievo assai limitato. È vero che l'Italia è uno dei Paesi fondatori dell'Unione europea, con origini lontane che risalgono alla Comunità del carbone e dell'acciaio e ai trattati firmati a Roma dai fondatori d'un primo nucleo verso un'Europa federale, con organi sovrani e regole e strumenti comuni. È ovvio che il potere di Trump e quello di Renzi, che peraltro è stato presidente del Consiglio per quasi tre anni e come tale esercitò poteri sovrani condivisi con i 27 Paesi che fanno parte dell'Ue e con gli altri 18 che fanno parte dell'eurozona, non sono equiparabili, ma in ogni caso a noi cittadini italo-europei interessano entrambi e quindi cerchiamo di capire le loro funzioni, le loro facoltà, la nostra considerazione per l'uno e per l'altro cominciando dal presidente degli Usa che ha appena giurato con un discorso davanti al Congresso americano durato appena venti minuti ma non per questo meno significativo.

Trump si è di fatto definito un populista. Non ha un partito, i repubblicani lo hanno appoggiato elettoralmente ma lui non è repubblicano. Lui è lui, si sente il capo degli americani, cioè crede di rappresentare la grande maggioranza del suo popolo, al quale propone una politica di protezionismo economico, di chiusura alla immigrazione, di politica imperialista che si sceglie secondo i suoi interessi gli interlocutori e gli avversari. Per ora l'interlocutore principale è Putin. Attenzione: interlocutore, non alleato. L'avversario è invece la Cina, un Paese territorialmente enorme, ostile, che finora ha investito cifre imponenti in titoli del debito pubblico americano, il che la rende al tempo stesso importante e fragile nei confronti dell'America, sul cui territorio ha numerose comunità molto attive che Trump considera sgradite perché tolgono lavoro agli americani.

A guardar bene Trump coltiva una tendenza di tipo dittatoriale: un capo e l'America, nessun partito, uno staff personale composto da uomini di finanza e da alcuni militari che hanno il solo pregio di un'amicizia personale con lui. Lui è contro l'establishment americano e questo evidentemente piace agli americani. Il populismo di Trump va incontro al populismo di un ceto medio in tragica decadenza ed anche ai giovani. Non sopportano una classe dirigente. Questo corrisponde a ciò che sta accadendo in gran parte del mondo, alle prese con la società globale, con l'emigrazione di interi popoli, dalla quale i cittadini dell'impero vogliono proteggersi delegando questa funzione a chi si propone come loro portavoce. La dittatura populista non pesa. Noi ne abbiamo un esempio relativamente recente con Mussolini. Neanche lui aveva un partito. Aveva origini socialiste ma rivoluzionarie. Poi, nello spazio di pochi anni diventò dittatoriale e della dittatura fece un regime. Con una cultura però che andò addirittura a ripescare l'Impero di Roma di duemila anni fa. Questa fu la genialità di Mussolini che arrivò ad assumere come simbolo storico i fasci romani, il Colosseo e le mura dell'antica Roma. Lui e il popolo, le adunate oceaniche.

Trump vede questa strada ma senza cultura il suo è un comando solitario, la cultura non ce l'ha e non la può avere perché l'America è nata dall'immigrazione: inglesi, francesi, irlandesi, italiani, messicani, caraibici, ebrei. Questi popoli hanno fondato l'America distruggendo gli aborigeni e chiudendone i residui nei territori designati dallo Stato.

Questo è Trump e una parte minoritaria dell'America di oggi. Le dittature sono sempre minoritarie. Se sanno interpretare i malanni e le debolezze del Paese diventano forti e durevoli almeno per un paio di generazioni. Altrimenti durano pochi anni perdendo progressivamente forza fino a scomparire. Da come ha esordito, Trump non sembra un leader duraturo. Il mondo è diventato un grosso punto dubitativo.

***

Ed ora il Renzi di oggi. Continua ad essere il leader del Pd con la carica, mai lasciata anche quand'era capo del governo, di segretario del partito. Forse farà le primarie, ma gli iscritti sono ridotti a meno di 400 mila, una misura minima. In compenso quelli che al referendum hanno votato Sì sono stati il 40 per cento dei votanti, l'affluenza fu altissima, i No hanno incassato il 60 per cento. Il 40 per cento dei Sì non sono tutti renziani, comunque è un voto molto rilevante. L'intenzione di Renzi è di votare a giugno oppure, mal che vada, ad ottobre. Dopo quella data si entra nel 2018 anno in cui termina la legislatura ed allora tanto vale attendere la fine col governo Gentiloni. È ciò che Mattarella vorrebbe ed anche il presidente del Senato. Tra pochi giorni si conoscerà la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale. L'ipotesi più diffusa è l'abbandono del ballottaggio, un impianto proporzionale per entrambe le Camere ed un premio di seggi al primo arrivato con lista singola o anche con una coalizione.

Se questa ipotesi sarà effettivamente quella adottata è molto probabile che il Pd ottenga il premio maggiore e sia al Senato la più forte minoranza. Quindi la lista unica o una coalizione consente al Pd di estendersi a sinistra con Pisapia, il sindaco di Cagliari, i transfughi dai 5 Stelle, Pizzarotti in testa e forse anche Laura Boldrini. Questo è l'indispensabile impianto elettorale. I moderati di Parisi non voterebbero per quella lista ma sarebbero pronti a convergere su un'alleanza post-elettorale che al Senato sarebbe molto opportuna.

Uno schieramento di questo genere taglierebbe fuori Grillo eliminando finalmente il sistema tripolare che è quanto di peggio per una democrazia e questo sarebbe il risultato più importante dal punto di vista elettorale. Ma al servizio di quale politica? Renzi finora è stato molto avaro di dichiarazioni pragmatiche che riguardano le emergenze nazionali, la politica economica e fiscale, l'atteggiamento verso l'Europa. E riguardano anche, ovviamente, un atteggiamento definitivo verso la dissidenza interna del Pd.

Partiamo da quest'ultima questione che coinvolge il senso di responsabilità di entrambe le parti. A nostro avviso l'iniziativa deve partire da Renzi perché tocca a lui distribuire le carte del gioco. Dovrebbe coinvolgere i dissidenti, a cominciare da Bersani, affidando a lui e a quelli che lo fiancheggiano crescenti incarichi di lavoro. Due soprattutto: lavorare nei circoli per reclutare ed educare politicamente una nuova e giovane classe dirigente del partito, soprattutto territoriale e rappresentativa di quella cultura liberal-socialista che il Pd veltroniano ereditò dal Partito d'azione con lo slogan Giustizia e Libertà. E poi lavorare insieme a lui in Europa e nel Partito socialista europeo avendo già a disposizione, dal punto di vista istituzionale, Tajani da pochi giorni eletto alla presidenza del Parlamento avendo già Mogherini come autorità europea di politica estera ed anche il capogruppo del Partito socialista europeo.

Qual è l'obiettivo da raggiungere nell'Europa di oggi? Dovrebbe essere quello d'una stretta alleanza con Angela Merkel dandole il contributo elettorale da parte dei deputati socialisti italiani che metterebbero in tal modo in causa la scelta degli eurodeputati socialisti tedeschi nonché quelli spagnoli e quelli greci. Nel Partito socialista europeo gli italiani sono i più numerosi. L'attuale dissidenza interna al Pd dovrebbe essere incaricata di affiancare Renzi nella sua azione europea ed europeista nell'appoggiare Merkel a condizione che, una volta vinte le elezioni, si dichiari favorevole agli Stati Uniti d'Europa, senza di che le singole nazioni, ancorché confederate, sarebbero prive di peso in una società sempre più globale, con problemi estremamente impegnativi per piccole nazioni, Germania compresa, che non diano vita ad un'Unione federata. I compiti principali di detta Unione e dell'Italia dentro di essa sono essenzialmente tre:

1. La lotta decisiva contro l'Isis in Libia, in Iraq, in Siria e in particolare a Mosul e a Raqqa.

2. La politica economica di crescita, il ministro del Tesoro unico dell'eurozona, eletto dai 19 Paesi interessati e non nella Commissione di Bruxelles. L'alleanza con Draghi, politica oltreché economica perché Draghi pensa soprattutto all'Europa federata, ad un'Unione bancaria europea, ad una politica di bilancio sovrana europea con relativa emissione di eurobond, ed ad un aumento della produttività sia da parte dei lavoratori sia da parte degli imprenditori.

3. Una politica fiscale che combatta soprattutto le disuguaglianze e il mercato nero, puntando sull'abolizione di un'ampia quota dal cuneo fiscale, non inferiore al 25 per cento del totale, che aumenterebbe considerevolmente la domanda dei consumatori, gli investimenti delle imprese e le esportazioni. Cioè un mercato finanziario ed economico sia pubblico sia privato, una crescita dell'interscambio europeo con la Germania al centro e il socialismo liberale italiano strettamente al suo fianco.

A questo punto nella nuova legislatura toccherà a Renzi tornare al vertice del governo italiano condividendo da quella posizione sia la battaglia di crescita economica e culturale italiana, sia quella europea. Uno Stato europeo di dimensioni continentali ma aperto, al contrario della demagogia del mercato americano chiuso.

Ricordo, con Renzi, che siamo noi europei ad aver costruito l'America. La nostra è e deve essere una democrazia

Liberalsocialista ed abbiamo secoli di storia in proposito. Abbiamo creato noi le banche, le lettere di credito, l'impero marittimo di Venezia e di Genova e prima ancora di Amalfi e di Pisa, di Taranto, di Siracusa, di Zara, di Bisanzio. Questo, mi auguro, dovrebbe essere il nostro futuro.

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Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/22/news/la_forza_dell_io_sul_percorso_di_donald_e_di_matteo-156594941/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La sentenza della Corte, Gentiloni e i criteri di Mattarella
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:58:00 pm
La sentenza della Corte, Gentiloni e i criteri di Mattarella
La Corte Costituzionale (ansa)

Di EUGENIO SCALFARI
29 gennaio 2017

LA sentenza della Corte costituzionale ha suscitato una notevole sorpresa. È rimasto un punto soprattutto: è vietato che si facciano coalizioni tra diverse liste. Si potranno certamente fare dopo il voto ma prima no. Francamente non so se la Corte abbia rispettato il suo ruolo o sia andata oltre. Ai tempi di De Gasperi le coalizioni erano costituzionalmente praticate ed anzi erano rappresentative della vera democrazia: l’elettorato sapeva prima del voto quale fosse l’orientamento della coalizione. Anche a quei tempi e cioè nei primi anni Cinquanta, le alleanze tra partiti erano liberamente stipulate. Nel 1953 De Gasperi realizzò una coalizione che, oltre alla Dc comprendeva anche i cosiddetti partiti minori, partiti laici dai liberali ai socialdemocratici ai repubblicani. Dai sondaggi la Dc avrebbe annoverato circa il 40 per cento, i minori erano stimati al 10 per cento complessivamente. Se l’insieme della coalizione avesse ottenuto il 50 per cento più un voto avrebbe incassato un premio del 65 per cento per assicurare la governabilità. Se avesse avuto soltanto il 49,99 il premio non sarebbe stato concesso. Questo era il meccanismo elettorale. Naturalmente le alleanze tra partiti o movimenti potevano avvenire una sola volta ma con una doppia funzione: la vittoria oltre il 50 assicurava il premio di governabilità, la vittoria sotto il 50 attribuiva i seggi secondo le reali forze ottenute dagli elettori.

Il vantaggio era soprattutto per fare chiarezza nel corpo elettorale. Il voto effettivo dette all’intera coalizione oltre il 49 per cento, di cui il 40 ai Dc e il resto ripartito tra i laici. Ma nonostante questo parziale insuccesso, il successo di fatto ci fu perché con il 49 per cento complessivo la coalizione tenne banco fino al 1962 poiché le altre forze erano molto diverse tra loro e non alleate: da un lato c’era la sinistra riformista e socialista che aveva rotto il patto d’unità d’azione con il Pci (il quale ovviamente aveva votato contro la Dc); a destra c’era invece l’onorevole Covelli che capitanava conservatori e monarchici. L’obiettiva coincidenza tra il voto contrario dell’estrema destra e quello altrettanto contrario tra le varie forme di sinistra sconfisse la coalizione guidata dalla Democrazia cristiana ma non riuscì ad impedirle di governare insieme ai suoi alleati fino al 1962 quando l’onorevole Fanfani presiedette un governo che fu il primo del centrosinistra: il Partito socialista appoggiava il governo ma non ne faceva parte.

Le convergenze parallele durarono poco più di un anno, poi cedettero il posto ad un nuovo governo formato da Aldo Moro e dai socialisti del quale Pietro Nenni fu vicepresidente, Emilio Colombo ministro del Tesoro, Antonio Giolitti del Bilancio. Per bilanciare questo ingresso Moro aveva a suo tempo favorito la nomina di Antonio Segni alla presidenza della Repubblica dove durò non molto poiché un suo malore non gli consentì di proseguire ed a lui subentrò il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Nel decennio precedente il governo presieduto da De Gasperi aveva governato con la proporzionale dominata dalla Dc. Il modello proporzionale caratterizzò dunque tutta la Prima Repubblica senza premi di sorta ma semplicemente per il fatto che i comunisti erano nel ghetto politico del loro accordo con Mosca e il resto dell’opposizione era frammentata fra piccole formazioni di estrema destra. La Dc guidò dal ’48 in poi con diverse alleanze: prima i minori laici, poi i socialisti del Psi, infine perfino con il Pci di Enrico Berlinguer il quale non entrò nel governo ma lo appoggiò soprattutto quando le Brigate rosse cominciarono il loro percorso e continuò anche dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e si estinse poco dopo.
***
La sentenza della Corte costituzionale ha cancellato il ballottaggio ma questa è in realtà la sola anche se molto importante decisione.

Ci sono alcune forze politiche che vogliono votare immediatamente. Sono soprattutto i grillini che non amano esser chiamati così per non sembrare un partito succube di un personaggio il quale tuttavia, insieme al Casaleggio jr, è il proprietario del partito. Dico proprietario in senso tecnico e come tale riconosciuto dal suo stato maggiore che del resto si compone di pochi, anzi pochissimi, dirigenti, quattro o cinque che conoscono benissimo la realtà e ci si adattano. Vanno a caccia di voti e quindi di potere, sia pure subordinati alla coppia proprietaria. Di qui alcune diffidenze ed anche alcuni successi che recentemente sono avvenuti a Torino e a Roma. I grillini o cinquestellati che dir si voglia vogliono elezioni immediate. Non importa con quale legge elettorale e non importa se, dopo la sentenza della Corte, essa sia in armonia o meno con il Senato. L’esistenza dei cinquestellati configura un sistema tripolare dove è il terzo che detta la legge a meno che il primo non abbia raggiunto il 40 per cento con relativo premio lasciato in piedi dalla sentenza della Corte. La stessa situazione è condivisa dalla Lega di Salvini la quale è antieuropea, antiimmigrati e dominante nei Comuni di gran parte dell’Italia settentrionale e governa due Regioni tra le più importanti del Paese: Lombardia e Veneto. Un’alleanza eventuale e naturalmente post-elettorale tra Salvini e Meloni con i cinquestellati è molto probabile ma neanche quella raggiungerebbe la maggioranza assoluta qualora si andasse immediatamente al voto. Quanto a Renzi e al suo partito la situazione è alquanto più complessa. Renzi vorrebbe votare a giugno o al più tardi ad ottobre e naturalmente auspica di farlo con il pieno accordo di Gentiloni. Al momento del voto il premier dovrebbe dare spontaneamente le dimissioni e tornare al servizio del suo partito e quindi di Renzi che potrebbe compensarlo in modo adeguato probabilmente affidandogli una carica importante in Europa o nel partito stesso in nome e con l’appoggio del quale ha governato.

Che tutto ciò accada è possibile ma non sicurissimo. Gentiloni sta esercitando il suo ruolo in modo molto scrupoloso. Va dovunque, nei paesi colpiti e devastati dal terremoto e dalle valanghe, in Europa dalle autorità che la guidano con la Commissione di Bruxelles, si incontra con il premier greco, con quello spagnolo, con quello francese. In questi giorni ha visto a lungo Merkel e si trovano assai d’accordo. Più volte lo stesso Gentiloni ha detto che lui sta pensando alle cose da fare e lascia agli altri le manovre e le strategie che le ispirano. Lui non pensa alle strategie ma fa il presidente del Consiglio e naturalmente adotta le direttive del presidente della Repubblica il quale, pur limitandosi alle prerogative che la sua carica gli riconosce, ha di mira la fine della legislatura nel 2018, essendo pienamente consapevole che elezioni fatte prima lascerebbero il Paese in uno stato di molto discutibile governabilità. Che gli piaccia o no, Gentiloni sta in qualche modo adottando i criteri di Sergio Mattarella. Non è ancora chiaro se se ne andrà quando Renzi glielo chiederà, è probabile ma incerto; molti sostengono che l’incertezza è assoluta. Si vedrà entro le prossime settimane.

A parte la riforma elettorale esistono molte altre questioni politiche, economiche, sociali, sindacali. Esiste il tema dei terremotati. Esistono poi questioni fiscali di non lieve entità per quanto riguarda la crescita del debito e dello spread.

Esiste anche un recente intervento di papa Francesco sul tema della unità cristiana e del Dio unico che dovrebbe affratellare la Chiesa cattolica con i cristiani non cattolici cercandone l’unità e l’affratellamento con ebrei e musulmani nel nome del Dio unico.

Mi permetto di fare un’aggiunta personale che citai in un mio libro una decina di anni fa e che è sempre più attuale.

Si narrava, anzi lo narra lui stesso, che Denis Diderot il pomeriggio verso le cinque andava a sedersi su una panchina nei giardini del Palace Royal e pensava alle cento cose che gli venivano in mente. I pensieri si alternavano l’uno all’altro e lui non riusciva a capirne il perché. Nel frattempo vedeva in fondo ai cancelli d’ingresso nel giardino molte ragazze di vita (così si diceva allora) che agganciavano i clienti casuali e stavano con loro per una mezz’ora, poi tornavano e ne agganciavano altri e questo spettacolo durava più o meno tutto il pomeriggio. Diderot guardava questo traffico e raccontandolo agli amici collaboratori con l’Encyclopédie disse con aria al tempo stesso ironica e sconsolata: «Mes pensée sont mes putains ». Capita anche a me di avere pensieri che vanno e vengono come le puttane ed anche a me capita d’essere allegro o sconsolato. Anzi di spirito malinconico. Mi vengono in mente le canzoni del Cavalcanti alla sua bella e le Lezioni americane del carissimo Italo Calvino. E La casa dei doganieri di Eugenio Montale ed infine l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio. Malinconico, ma in buona compagnia.

Ora, tornando all’attualità, dirò soltanto quel che penso delle future elezioni e di ciò che ruota intorno a questo tema.

Grillo vuole subito le elezioni e Matteo Salvini (con la Meloni) altrettanto. E la legge elettorale? Per Grillo l’obiettivo sono elezioni immediate. E va bene anche la legge prodotta dalla Consulta. Il Senato ha un suo assetto in piena disarmonia con la Camera dei deputati? E chissenefrega. Grillo e la Lega se ne infischiano. Semmai si alleeranno dopo affinché rimanga un sistema triplice che favorisce chi è l’ultimo arrivato che poi può diventare il primo. Nel tripolare è il terzo che ha sempre la meglio. Torino insegna. Grillo poi è un caso eccezionale, in parte analogo a quello di Donald Trump. Sono non solo i capipopolo ma (nel caso di Trump) anche i capi del governo, all’interno del quale fanno quel che vogliono. Capipopolo e capi di governo. Possono cambiare la politica del governo purché restino capipopolo. Questo è il punto. Ma a Grillo non serve neppure questo, perché lui è pure sì capopolo, ma soprattutto è proprietario del movimento. È lui che decide come si è visto in Europa con Farage. Non si era mai visto un caso simile né in Italia né nel mondo occidentale. Esiste nell’Africa centrale, in tutta la fascia che va dall’Atlantico all’oceano Indiano. Lì il potere è in mano ai capitribù che comandano, fanno soldi e ammazzano gli oppositori. Il caso di Grillo per fortuna non è affatto sanguinario anzi è gentile, gli altri dirigenti sono pochi e sono lieti di partecipare al potere.

Draghi è stato insignito del premo Cavour. Il discorso del presidente della Bce è diventato estremamente importante perché non parlava come presidente della Bce ma come italiano e cavouriano. Quindi liberale in patria.

Draghi ha messo l’accento sulla produttività e in piccola parte la si deve anche ai lavoratori dipendenti ma soprattutto agli imprenditori i quali debbono aggiornare i metodi di produzione sia tecnicamente e sia come politica economica, bancaria, sociale. Debbono offrire nuovi prodotti o migliorare profondamente quelli già esistenti e debbono soprattutto puntare sulla maggiore domanda dei consumatori e sulla migliore offerta degli imprenditori con particolare attenzione alle diseguaglianze che dominano in tutto l’Occidente ma in particolare nel nostro Paese. In passato, personalmente, ho anch’io affrontato questo problema raccomandando un forte taglio del cuneo fiscale, di almeno il 25 per cento ma anche più basso intorno al 15 con l’impegno del governo di applicarne un ulteriore aumento anno per anno. Draghi non ha usato la parola cuneo fiscale ma qualche cosa di simile, soprattutto con la sua insistenza sulla lotta contro le diseguaglianze e contro il lavoro nero. Per quanto riguarda l’Europa ricordiamo che Draghi ha sempre voluto un ministro del Tesoro unico e raccomanda ora all’Italia una presenza europea sulla disciplina delle quote di immigrazione. Che sia soprattutto attuata congiuntamente da Italia, Grecia, Spagna, Francia e Germania. In particolare la Germania la quale, qualora Merkel riuscisse a vincere le elezioni, dovrebbe farsi carico di un’Europa che punti finalmente e veramente su una federazione. Draghi ovviamente non è stato così esplicito ma il succo del suo discorso è quello poiché anche lui ha sempre puntato su un continente sovrano, indispensabile in una società globale.

Vengo ora a papa Francesco che ha parlato lungamente di San Paolo e della seconda Lettera ai Corinzi. Citando le seguenti frasi scritte in quella lettera: “L’amore di Cristo ci spinge verso la riconciliazione. Non si tratta del nostro amore per Cristo ma dell’amore che Cristo ha per noi. La parola di Dio ci incoraggia a trarre forza dalla memoria, a ricordare il bene ricevuto dal Signore; ma ci chiede ancora di lasciarci alle spalle il passato per seguire Gesù nell’oggi e vivere una vita nuova in lui”. San Paolo sottolinea in quella lettera che i cristiani non debbono mai basarsi sulle mode del momento ma cercare la via pensando sempre alla riconciliazione di tutte le religioni a cominciare da quelle cristiane ma anche a quella ebraica e a quella musulmana. Integrazione e mai divisione: questo è quanto Francesco esorta, e in tutti i modi pratica nella sua vita.

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29 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/01/29/news/la_sentenza_della_corte_gentiloni_e_i_criteri_di_mattarella-157112161/?ref=HRER2-1


Titolo: SCALFARI. L'Europa sta sotto i piedi di Angela Merkel ma nel cuore di Draghi
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:01:17 pm
L'Europa sta sotto i piedi di Angela Merkel ma nel cuore di Draghi
La cancelliera tedesca ha sdoganato l'Ue a due velocità. Sulla scena c'è un secondo attore, il presidente della Bce. A fine febbraio i due si vedranno a Berlino

Di EUGENIO SCALFARI
05 febbraio 2017

C'È una miriade di fatti che ingombrano gli schermi televisivi, le pagine dei giornali e perfino i siti web. Ne volete un sommario esempio per quanto riguarda l'informazione del nostro Paese? Raggi, sindaca di Roma di marca grillina, i sondaggi sull'andamento delle maggiori forze politiche italiane, l'accordo fra l'Italia e il governo libico di Tripoli sul tema degli immigrati, la probabilità che sia molto diminuita l'ipotesi di elezioni entro giugno e che Renzi abbia in proposito cambiato idea. E poi Trump. Il nuovo presidente degli Stati Uniti è l'uomo-chiave del momento per due ragioni: la prima è che siede sul palco più alto dell'impero più forte del mondo; la seconda è che Trump cambia idea almeno una volta al giorno e a volte ancor più frequentemente: su Putin, sulla Cina, sull'Europa, sulla Corea del Nord (quella che fa esperimenti sulla bomba a idrogeno e dovrebbe essere fermata), su Israele, sull'Australia, sulla Nato e via discorrendo. Se continua così nessuno darà più peso alle sue decisioni e la sola cosa che continuerà a contare saranno le chiusure di Borsa a Wall Street. Del resto anche in Inghilterra, anzi nel Regno Unito che non è mai stato così disunito, quella che conta è la City e, per tutt'altra ragione, la National Gallery. Della Brexit tra poco nessuno parlerà più.

L'elenco, come vedete, è piuttosto lungo e sicuramente incompleto, ma ometto volutamente i fatti veramente importanti che riguardano l'intero mondo occidentale, Italia ovviamente compresa.

Ho scelto i fatti al plurale ma in realtà è un fatto unico, che ha due attori principali e una folla di spettatori coinvolti da quanto vedono recitare sulla scena e che li riguarda direttamente.

Il fatto dominante è quanto è stato annunciato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel al vertice che si è concluso venerdì scorso a Malta: alla prossima riunione di vertice europeo che avrà luogo a Roma nelle prossime settimane per celebrare i Trattati che istituirono la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e che successivamente diventò Unione politica ed economica, Merkel proporrà un'Europa a due velocità.

La prima velocità riguarda tutti gli Stati dell'eurozona (diciannove) che sono in grado di marciare verso un'economia dinamica, in costante aumento di produttività, di scambi, di piena occupazione, di propensione verso un potere federale con organi politici appropriati. Il centro di questo sistema ad alta velocità sarà ristretto; di fatto (Merkel non l'ha detto ma è evidente nelle sue parole) avrà il suo perno nella Germania e nei suoi più stretti alleati: l'Olanda, i Paesi del Nord Europa e - per ragioni strettamente politiche - la Francia. Gli altri procederanno come potranno. Se si metteranno al passo potranno sempre entrare nel club dell'alta velocità. Se in teoria al passo giusto ci si metteranno tutti i 19 della moneta unica, sarebbe un club in grado di dar vita agli Stati Uniti d'Europa o a qualcosa di molto simile. Altrimenti sarà un piccolo ma potente cuore e cervello d'Europa che parla e pensa in tedesco, ma niente di più.

Ma c'è un secondo attore in questa che mi viene voglia di definire la commedia degli inganni e si chiama Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea il cui incarico scadrà nel 2019 ed ha dunque tutto il tempo necessario per operare, anche se sta coprendo il dissenso che c'è sempre stato tra lui e il governatore della Bundesbank, che è la Banca centrale tedesca e fa parte ovviamente del Consiglio della Banca centrale europea ma è costantemente all'opposizione. Su che cosa? Sul fatto che Draghi - confortato dall'appoggio del direttorio della Bce e dall'ampia maggioranza delle Banche centrali nazionali che fanno parte del consiglio - dispone d'una salda maggioranza sulla sua politica monetaria ed economica espansiva.

Come si comporterà adesso Draghi di fronte alla proposta di Merkel sulla doppia velocità? Si adeguerà? La contrasterà? Con quale tipo di operazioni?

***

Personalmente sono molto amico di Draghi, fin da quando era uno dei prediletti collaboratori del più importante personaggio della politica italiana, dopo tredici anni di governo della Banca d'Italia: Ciampi, dopo aver guidato la nostra Banca centrale in tempi assai calamitosi, fu in qualche modo obbligato a governare il Paese, politicamente ed economicamente, da primo ministro d'un governo provvisorio, poi da ministro del Tesoro del governo Prodi, e infine da presidente della Repubblica. In tutti questi ruoli, ma soprattutto nell'ultimo, dette il meglio di sé e Draghi collaborò strettamente con lui, specie nei contatti preliminari che poi condussero il ministro del Tesoro Ciampi a negoziare l'ingresso dell'Italia nella moneta unica, sulla quale erano già d'accordo la Germania di Khol e la Francia di Mitterrand.

Da quei tempi Draghi ed io siamo buoni amici e parliamo spesso delle sue posizioni in quanto capo della Bce ma soltanto quando lui ne ha parlato pubblicamente. È per dire che non ho mai avuto notizie da parte sua, che sarebbe una scorrettezza in una delle persone più attente a non commetterne mai. Però pubblicamente si espone senza alcun timore. Dispone dello statuto della Bce, redatto da tutti i Paesi dell'eurozona che ne sono azionisti in proporzione alla consistenza delle proprie economie. Quello statuto e la maggioranza del Consiglio sono gli organi che sostengono Draghi e la sua indipendenza. I suoi rapporti con Merkel sono stati sempre buoni, se non addirittura ottimi sebbene in molte occasioni siano stati anche contrastati dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble (un "rigorista" per cultura propria ma anche molto legato ai circoli del capitalismo tedesco) e dalle misure che la Cancelliera dovrebbe prendere convincendo altre Autorità europee a farle proprie.

Merkel, specie in vista delle prossime elezioni, deve usare ancora di più le opinioni di Schäuble e finché si può deve tentare di convincere anche Draghi, ma lui si troverà di fronte a una situazione molto difficile. Sarà un incontro-scontro avvincente ed è già cominciato. Con due pubblici interventi di Draghi: uno rivolto alla politica economica italiana in occasione del premio che gli è stato conferito in una celebrazione del conte Camillo Benso di Cavour, che nel 1861 proclamò lo Stato d'Italia, reso possibile dall'alleanza di Cavour con Napoleone III che sfociò nella guerra d'indipendenza del 1859, vinta dai francesi e dagli italiani e nell'assegnazione della Lombardia e poi del Veneto al regno piemontese.

Dall'altra parte ci fu l'impresa di Garibaldi e dei Mille che conquistarono il Mezzogiorno e la cui iniziativa fu nascostamente appoggiata da Cavour.

Il Regno d'Italia ebbe vita da questi due eventi e il perno che lo rese possibile fu appunto manovrato da Cavour. Per celebrare quegli avvenimenti non ci poteva essere scelta migliore che quella di Draghi il quale, nel corso di quella celebrazione, è stato per la prima volta non solo in veste di capo della Bce. Ha dedicato il suo discorso storicamente a Cavour e subito dopo alla politica economica del nostro Paese. Gli ho già dedicato una parte del mio articolo di domenica scorsa. Draghi ha parlato della produttività come elemento indispensabile dell'imprenditoria italiana, sia pubblica e sia privata, e della lotta contro le diseguaglianze sociali ed economiche che debbono essere fortemente diminuite con una politica fiscale adeguata che comprenda anche la battaglia contro l'evasione fiscale e il lavoro nero su cui contano le lobby clientelari e perfino mafiose.

Pochi giorni dopo - e siamo al presente - Draghi ha dedicato un suo intervento a tutti i Paesi dell'eurozona. Praticamente è stata una risposta preventiva alla politica della doppia velocità che Merkel ha preannunciato a Malta e che avverrà tra poco a Roma.

Che cosa ha detto Draghi? Poche cose, ma fondamentali. Ha detto che la Germania non è lontana dall'aver raggiunto il tasso del 2 per cento d'inflazione che è quello base previsto dallo statuto della Bce. Il raggiungimento di quel tasso è la positiva conseguenza della politica economica del governo tedesco ed anche della politica di "quantitative easing" della Banca centrale, praticata verso tutti i Paesi dell'eurozona, Germania naturalmente compresa.

Nel secondo intervento di pochissimi giorni fa Draghi si è rivolto a tutti i Paesi dell'eurozona. Ha spiegato con piena soddisfazione i risultati raggiunti dalla Germania e invece ancora lontani per gran parte dei Paesi dell'eurozona, soprattutto quelli meridionali come la Grecia, l'Italia, la Spagna, la Francia, il Portogallo. Cioè la costiera mediterranea che, oltretutto, è al centro delle migrazioni sia dai Balcani sia dal Nord Africa.

Ai Paesi dell'eurozona che si trovano davanti al fenomeno delle migrazioni di massa e a devastanti fenomeni naturali (i terremoti in Italia) e sono di fronte a politiche economiche insufficienti, Draghi ha raccomandato di rilanciare quelle politiche ed ha anche assicurato che il "quantitative easing" della Bce continuerà verso ciascuno dei Paesi suddetti in ragione di quanto sta facendo. La politica di Draghi non ha nulla a che fare con quella di Schäuble e di Merkel che si identifica con il suo ministro delle Finanze. Draghi si incontrerà alla fine di febbraio a Berlino con Merkel e lì ci sarà il bilancio. Immagino i fiori e le rose profumate di quell'incontro sotto le quali la gentilezza cederà di fronte alla roccia con la quale Draghi espone le sue idee, i suoi impegni e i suoi doveri.

***

Dovrei ora parlare dei risultati statistici rilevati nei giorni scorsi dal nostro Ilvo Diamanti. Ne risulta una notevole confusione in tutti i partiti, a cominciare dai grillini, ma anche nel Pd. Il raffreddamento di Renzi verso le elezioni subito, i buoni risultati del governo Gentiloni. Mi sembrano dati positivi che possono essere ulteriormente accresciuti. Mi auguro tuttavia che Renzi condurrà nel suo partito una riforma efficace, soprattutto nei confronti dell'opposizione interna nella sua parte più saggia che secondo me è quella interpretata da Cuperlo ed anche, in modi diversi, da Bersani.

Renzi però farebbe un errore a concentrare il suo interesse soltanto su una riforma peraltro necessaria dei rapporti interni al suo partito. Questo lavoro deve essere, a mio avviso, la premessa necessaria per presentarsi lui dopo che la legislatura sarà terminata. Renzi ha carisma come pochi altri oggi; quel carisma però necessita della collaborazione più ampia nel partito per poter tornare al governo nel 2018 ed è sufficiente un solo punto di riforma della legge elettorale: affiancare alle eventuali liste uniche anche liste di coalizione. È con questa possibilità che si accoppiano democrazia, rappresentanza parlamentare, governabilità. Intanto formuliamo tutti, a cominciare come spero da Renzi, un ringraziamento al lavoro di Mattarella e di Gentiloni che stanno facendo il possibile per terminare un ciclo nel 2018 e riaprirne un altro ancor più efficace.

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05 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/05/news/europa_merkel_draghi-157598263/?ref=HRER2-1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. C'è bisogno di valori, non potete distruggere un partito
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 21, 2017, 12:25:33 am
C'è bisogno di valori, non potete distruggere un partito

Di EUGENIO SCALFARI
19 febbraio 2017

C'è bisogno di valori, non potete distruggere un partito C’È' UN PROBLEMA logico e filosofico che ha il suo punto centrale nella speranza. L'ha trattato la nostra collaboratrice Benedetta Tobagi citando un ebreo tedesco, George L. Mosse, che nacque nel 1918 e morì nel 1999. Lui credeva nella speranza come elemento fondamentale della vita e come conforto di fronte alla morte, la fede dell'Aldilà garantita da un Dio trascendente. Ma credeva anche nella politica, suscitata dall'Io, dalla ricerca del potere a tutti i livelli. Il potere coincide con la volontà di potenza studiata da Nietzsche, che può diventare un ideale condiviso dalla masse se i detentori del potere riescono a diffondere l'amor di Patria. Mosse chiamava l'amor di Patria la nazionalizzazione delle masse e tutti i fenomeni che a quell'amor di Patria somigliano, perfino il tifo sportivo per una squadra o per un campione.

C'è una quantità di fenomeni che possono mobilitare le masse, dai più impegnativi ai più banali, ma non c'è dubbio che la nazionalizzazione delle masse intesa nel senso più vasto sia il concetto essenziale per chi, come Mosse, vede positivamente la vita e perfino la morte. Ma c'è anche un concetto opposto: quello che concepisce la disperazione come il sentimento dominante. Si spera ma alla fine ci si dispera. Machiavelli si domandava: "Come può l'uomo virtuoso sopravvivere in un mondo malvagio?".

Ma il medesimo Machiavelli indicava nel "Principe" il grande rimedio e dedicò infatti quel suo libro non già al Borgia di cui aveva raccontato tutte le malefatte, ma a Lorenzo il Magnifico che agì in tutta la sua breve vita per il bene del popolo, con gli interventi di governo, la bontà, la democrazia visti insieme pur avvertendo: "Chi vuol esser lieto sia/ del doman non v'è certezza".

L'incertezza, ecco la vera chiave della nostra esistenza. Il caso o il destino. Due concetti sulla cui antitesi o identità ha scritto più volte e di cui parla spesso in modi diversi Giacomo Leopardi nelle sue "Operette Morali". Leopardi era un nichilista, ma si elevò con i suoi Canti ad un livello tale da convivere con felicità-infelicità, "Alla fioca lucerna poetando".

Perché parlo di questi valori e disvalori, speranze e disperazione? Ne parlo perché la società globale, rinforzando sempre di più la forza della sua globalità, ha creato e sempre più diffonde un mondo nuovo che contiene un dato positivo ed uno negativo, la pace e la guerra, l'amore e l'odio, su scala universale. E la minuscola dimensione (ma per noi estremamente importante perché direttamente ci riguardano) di queste contraddizioni hanno ridotto la nostra politica ad un campo di battaglia che rischia di deformare la nostra già debole democrazia dove si confrontano progetti che ogni giorno cambiano, peggiorano i rapporti delle forze in campo, gli interessi, le alleanze. L'Europa soffre di analoghi malanni. La lucerna leopardiana è fioca, non è spenta: si alimenta dalla bellezza della speranza e dalla drammaticità della disperazione. Quanto alla vicenda politica la sua debolezza è terribilmente moderna. Che c'è di peggio della modernità? Di un Paese e di un continente che è stato per secoli il fulcro della civiltà nel mondo intero?
***
In Italia le forze in gioco sono numerose. La prima è Grillo e i cinquestellati: vorrebbero il voto immediato, non importa con quale legge elettorale. Se si vota al più tardi a giugno resta un sistema tripolare che rappresenta la forza grillina indipendentemente dalle vicende della Raggi.

La seconda forza in gioco è il duo Mattarella-Gentiloni. Entrambi vorrebbero arrivare alla fine della legislatura e nell'anno che ancora resta vogliono portare a termine quelle riforme più che mai necessarie: l'Appenino terremotato, il rilancio del Pil, la lotta contro le diseguaglianze reddituali e patrimoniali, la questione libica e africana, i rapporti con la Germania e con la Commissione europea, l'appoggio a Draghi e da Draghi.

La terza di queste forze in gioco è Renzi, il Pd e la sinistra italiana. Come si vede ce n'è abbastanza.

Grillo: per rafforzare la nostra fragile democrazia occorre abolire il sistema tripolare. Si ottiene rinviando le elezioni al 2018 creando a quel punto un meccanismo che non solo non ceda altri voti a Grillo ma anzi li prenda da lui. Non è impossibile: bisogna togliergli voti sia a sinistra (pochi) sia al centro (molti) sia a destra (moltissimi). Non è impossibile anche se Grillo e i suoi possono allearsi con la Lega di Salvini. I due non sono in concorrenza, un'alleanza è possibile con le due liste distinte ma unite dalla stessa politica: togliere voti soprattutto a destra e comunque non cederli, utilizzare l'eventuale appoggio del populismo di Donald Trump. Salvini ci sta provando e con successo.

Ed ora veniamo a Renzi e alla sinistra italiana. Le voci che riguardano l'attuale segretario del Pd oscillano in continuazione. Un giorno si parla di un congresso rapido del Pd con il suo attuale segretario che si dimette ma trasformando la sua attuale segreteria in una "reggenza" fino all'esito congressuale. Un'eventuale reggenza renziana sembra tuttavia impossibile, un segretario dimissionario non può trasformarsi in reggente, non è mai accaduto in nessun Paese dell'Occidente.

Un altro giorno il congresso può essere lungo e il voto potrebbe avvenire ad ottobre o addirittura a dicembre. Ma in quel caso il presidente della Repubblica potrebbe affidare all'attuale presidente del Consiglio l'incarico dell'ordinaria amministrazione che potrebbe protrarsi per pochi mesi fino alla scadenza della legislatura.

Infine un altro giorno ancora, si attribuisce a Renzi il proposito di riformare il partito, con o senza congresso, preparandosi alle elezioni come leader del Pd, con la dissidenza interna riassorbita e quella esterna alleata, cambiando la legge elettorale con la possibilità di coalizioni con la sinistra esterna e con il centro moderato. In questo caso il sistema diventerebbe bipolare con un centrosinistra molto forte e i cinquestelle più Salvini. Bipolare, con maggior peso al centrosinistra rispetto al populismo antieuropeo del duo Grillo-Salvini. È auspicabile questo scenario? Ed è probabile la sua realizzazione oppure no?
***
Questo tema riguarda soprattutto Renzi. Ha carisma? Sì, ce l'ha. Ha voglia di usarlo? Sì, ce l'ha ed è anche molto evidente. Ha la capacità di usarlo a favore del popolo italiano e dell'Europa? Sì e no. Non più di Gentiloni, ma neanche meno. I caratteri di questi due protagonisti sono molto diversi, ma le capacità si equivalgono.

La settimana scorsa su queste pagine ho dato un'immagine storica per rispondere a questa domanda: Renzi deve creare nel Pd una vecchia guardia e una giovane guardia. La prima si compone di quelli che nel Pd, con lui o contro di lui, hanno usato e possono ancor più usarla per dare al partito la loro esperienza già collaudata e ancor più negli anni nel frattempo trascorsi. La giovane guardia è fatta da trentenni o poco più, che devono rappresentare la generazione che tra dieci anni guiderà il partito.

Renzi e Gentiloni sono per età anagrafica a metà del percorso. Ma c'è un altro personaggio che sembra essere di nuovo in corsa ed è Walter Veltroni. Se bisognasse scommettere su uomini migliori per l'Italia e per l'Europa bisognerebbe puntare su Veltroni, su Draghi, su Renzi e su Gentiloni. Draghi ha una forza propria ed essenziale, europea e quindi anche italiana; Veltroni discende dalla Bolognina di Occhetto, dall'Ulivo di Prodi, e poi da se stesso quando fondò il Partito democratico dove utilizzò con successo la vecchia e la giovane guardia.

Insomma è un partito ricco di esperienze, capacità, carisma. Si mettano tutti d'accordo, facciano un'équipe che operi per l'Italia e per l'Europa: due patrie che s'identificano; senza l'una, l'altra crolla. Questo sì, va ad ogni costo evitato.

© Riproduzione riservata 19 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/19/news/c_e_bisogno_di_valori_non_potete_distruggere_un_partito-158655791/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Aristotele e Cavour, cosa serve a costruire uno Stato
Inserito da: Arlecchino - Marzo 05, 2017, 10:53:59 pm
Aristotele e Cavour, cosa serve a costruire uno Stato
"Per fare un passo avanti seguiamo il Manifesto di Spinelli, la politica economica di Mario Draghi e quella valoriale di Veltroni"

Di EUGENIO SCALFARI
05 marzo 2017

PARLERÒ in questa mia nota domenicale del tema della corruzione, connesso alla questione che sta investendo Matteo Renzi, la sua famiglia, i suoi amici e una parte del suo partito e per conseguenza anche la pubblica opinione. Non stupitevi se comincio con Aristotele, allievo polemico di Platone e a sua volta educatore di Alessandro il Grande alla corte di Filippo il macedone.

Aristotele scrisse molto e molti di quegli scritti andarono perduti, ma altri ne sono rimasti. In uno di essi parla dell'uomo di natura sociale che in quanto tale si distingue dagli animali e così dice: "L'uomo è politico ed è quella la sua caratteristica dominante. Il suo intelletto è di costruire lo Stato che è l'ente più perfetto. Una volta che lo Stato sia stato costruito, entra in gioco la potenza degli individui e delle loro famiglie ".

Questa è la dottrina aristotelica: la politica e lo Stato sono i requisiti positivi dell'uomo che Aristotele distingue dall'individuo e dalla sua famiglia. La distinzione probabilmente allude ad una classe politica che opera per la collettività ma che poi, quando ragiona da individuo si mette all'opera per impadronirsi di alcuni settori dello Stato e utilizzarli a vantaggio proprio e della sua famiglia. I partiti nascono così e comincia la corruzione. Così pensava Aristotele, che nacque e morì nel III secolo a.C.; probabilmente già a quell'epoca erano nati i partiti ed anche la corruzione che consiste soprattutto nell'uso del potere a proprio personale vantaggio.

Lo statista invece, usa la sua potenza a vantaggio del popolo, cioè di tutti e dello Stato che tutti ci rappresenta. Nella storia dell'Italia moderna l'esempio più positivo fu quello di Cavour ed è proprio quell'esempio che ho più volte suggerito a Renzi di studiare a fondo per farne il fondamento della sua vita politica. Naturalmente ce ne sono stati molti altri oltre Cavour ma sono comunque personaggi eccezionali. Senza di loro la corruzione non avrebbe alcun limite.

In realtà la corruzione c'è dovunque, in tutto il mondo. E dovunque ci sono associazioni che campano sulla corruzione propria e altrui, le mafie e le clientele paramafiose. Non credo che l'Italia sia il Paese più corrotto. Ci sono le Americhe, c'è la Russia pre e post comunista, c'è il Medio Oriente, la Cina, l'India, i Balcani, la Turchia, l'Africa e l'Australia.

Ma l'Italia non è seconda a nessuno anche perché lo Stato nel nostro Paese è nato molto tardi e dunque il potere si è sempre identificato con quello degli individui e delle loro anime italiane o straniere. Siamo arrivati al punto che settori dello Stato sono corrotti e questo è il punto massimo della corruzione. C'è un poeta italiano di metà Ottocento, Giuseppe Giusti, che è diventato tra i più validi sul tema della corruzione, come lo fu pochi anni prima Gioachino Belli. Questi scriveva in romanesco, ma si equivalgono. Leggeremo qualche verso del Giusti, ci servirà a capire meglio ciò che oggi sta sempre più avvenendo.

Dal Brindisi di Girella: " Viva Arlecchini E burattini, E birichini; Briganti e maschere D'ogni paese, Chi processò, chi prese e chi non rese. Viva Arlecchini E burattini, E teste fini; Viva le maschere D'ogni paese, Viva chi sa tener l'orecchie tese. Quante cadute Si son vedute! Chi perse il credito, Chi perse il fiato, Chi la collottola E chi lo Stato. Ma capofitti Cascaron gli asini; Noi valentuomini Siam sempre ritti, Mangiando i frutti Del mal di tutti “.
***
Oggi ci si domanda se è attendibile chi espone i fatti. Il padre di Matteo Renzi? Il suo amico e segretario Lotti, ministro dello Sport nel governo Gentiloni, che avrebbe avvertito l'amministratore delegato della Consip delle "cimici" elettroniche? Il padre dell'attuale sottosegretaria Boschi ex vicepresidente di Banca Etruria?

Non sto a fare l'elenco, l'ha già scritto ieri compiutamente con le drammatiche conseguenze Ezio Mauro e oggi non c'è niente di nuovo salvo una comparsata di Renzi nella trasmissione della Gruber. Rispondendo alle domande di Tommaso Cerno, direttore dell'Espresso, Matteo Renzi ha detto che non ne sa nulla degli affari di suo padre, che lo ritiene innocente di ogni reato di corruttela attiva o passiva, ma se la magistratura lo ritenesse colpevole lui chiederebbe una doppia punizione, una come risarcimento dello Stato e l'altra come suo risarcimento personale. La medesima doppia punizione a carico eventuale del suo amico Lotti, che a lui è sempre stato fedele e di sicura onestà.

Per queste risposte i grillini stanno studiando l'ipotesi di un voto di sfiducia nei confronti di Lotti, che tuttavia, qualora la sfiducia passasse, forse metterebbe in crisi anche il governo favorendo in tal modo il desiderio di elezioni immediate che i 5 Stelle chiedono ogni giorno. Su questa questione vale la pena di spendere qualche parola. Il presidente della Repubblica, qualora i 5 Stelle decidessero di votare la sfiducia a Lotti e con loro anche la Lega di Salvini, i "Fratelli d'Italia" della Meloni e probabilmente anche una parte dei senatori berlusconiani, dovrebbe accettare non soltanto le dimissioni di Lotti ma anche quelle dello stesso Gentiloni. È possibile una soluzione del genere? Credo di no. Anzitutto in Senato il voto di sfiducia dei 5 Stelle e alleati non raggiunge la maggioranza. Ma qualora la raggiungesse sarebbe Lotti a doversi dimettere ma non il governo Gentiloni. Se lo facesse appagherebbe il desiderio di elezioni immediate dei grillini e questo è un ottimo motivo per non farlo.

Per quanto riguarda il governo Gentiloni comunque, vale la pena di esaminare più da vicino il modo come fu composto. Il presidente Mattarella aveva invitato Renzi a proseguire nell'incarico governativo, ma Renzi rifiutò: preferiva occuparsi soltanto del partito e semmai chiedere dopo qualche mese un voto anticipato. Quanto a Gentiloni, fu Renzi a suggerire al Capo dello Stato di dare al suo ministro degli Esteri l'incarico di governare e Mattarella accettò. I ministri furono designati da Gentiloni d'accordo con Mattarella e furono naturalmente quasi tutti provenienti dal Pd del quale Gentiloni è attualmente l'esponente principale. Alcuni di essi gli furono suggeriti da Renzi: sicuramente Lotti e probabilmente anche Elena Boschi. Naturalmente Gentiloni accettò ma conferì a Lotti il ministero dello Sport; quanto alla Boschi in un certo senso la declassò da ministro delle Riforme quale era ai tempi di Renzi a sottosegretario della Presidenza, senza portafoglio.

Ricordo questi particolari perché è interesse dello Stato e di tutti i cittadini consapevoli che il governo Gentiloni arrivi fino al 2018, quando la legislatura scade e le Camere si sciolgono automaticamente. In questo periodo l'attuale governo può far molto, direi che deve far molto con più energia ed efficacia di quanto di buono ha già fatto. Gli resta uno spazio di oltre un anno che richiede una politica sociale ed economica del genere di quella che Mario Draghi incoraggia; un rafforzamento dell'Europa come continente federato e non confederato e una politica dell'accoglienza che nei modi più adatti limiti l'immigrazione accogliendo però in modi idonei l'arrivo di rifugiati e di stranieri che chiedono diritto d'asilo.

Voglio dire a questo punto che quando Renzi si presenterà come un capopartito alle elezioni del 2018 (sempre che sia lui a vincere le primarie e il congresso) io seguirò con molto interesse la sua politica. Gentiloni speriamo che abbia già fatto tutto quel che poteva per migliorare la situazione interna e la posizione internazionale del suo governo, ma a Renzi resteranno comunque compiti estremamente importanti. Per quanto riguarda la politica interna economica e sociale dovrà modificare gli errori a suo tempo commessi, sempre che non li abbia corretti Gentiloni. Per quanto riguarda la politica europea il contributo italiano sarà estremamente necessario poiché non basta certo un anno a risolvere una situazione confusa e tutt'altro che rafforzata. Su quella materia il governo Renzi si è già comportato - a mio giudizio - con molta decisione e con alcuni risultati positivi, ma c'è ancora moltissimo da fare. Per quanto riguarda i temi in gioco posso indicarli con una sola parola: Ventotene.

Naturalmente il problema di Renzi e di tutti gli italiani è se vincerà alle elezioni sempre che sia lui a guidare il partito. Sul nostro giornale di ieri ci sono i risultati di un sondaggio molto accurato di Ilvo Diamanti. Da esso risulta che i 5 Stelle sono due punti sopra al Pd. È tuttavia molto probabile, anzi quasi certo, che gli ex dissidenti interni del Pd che sono ormai usciti dal partito e ne hanno fatto un altro, riscuotono in questi primi giorni della loro esistenza il 4 per cento. Se come è molto probabile si alleeranno al Pd l'alleanza si troverebbe due punti sopra ai 5 Stelle, ma la cosa potrebbe crescere molto di più se la nuova legge elettorale prevedesse coalizioni e nel caso specifico la coalizione comprendesse non soltanto i Dp ma anche tutti gli altri gruppi della sinistra che arrivano a circa il 10 per cento. Sarebbe quello che Walter Veltroni si è augurato nell'intervista pubblicata qualche giorno fa dal nostro giornale e ha già manifestato nel suo intervento all'Assemblea del Pd: l'alleanza dell'intera sinistra democratica. Questo porterebbe la sinistra molto vicina al 40 per cento. Sarebbe una vittoria clamorosa che assicura la governabilità soprattutto se nella riforma delle legge elettorale il premio previsto attualmente del 40 per cento fosse ridotto intorno al 35. Governabilità e al tempo stesso rafforzamento della democrazia parlamentare visto che la legge elettorale ha come fondamento il principio proporzionale che accresce la rappresentatività del Parlamento.

Guardo con molto interesse a questa possibile soluzione e riassumo i risultati che, se raggiunti, rappresentano un notevole passo avanti della nostra Patria italiana ed europea. Europa unita, sinistra unita e forte in un Continente diventato

Stato. Seguiamo dunque il Manifesto di Spinelli, la politica economica di Mario Draghi e quella valoriale di Veltroni. E l'insegnamento di Aristotele: lo Stato europeo da costruire, il potere delle clientele paramafiose da distruggere. Questo è il risultato che mi piace sognare.

© Riproduzione riservata 05 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/05/news/aristotele_e_cavour_cosa_serve_a_costruire_uno_stato-159787585/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P4-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Demagogia e carisma, così Renzi andrà al voto nel 2018
Inserito da: Arlecchino - Marzo 13, 2017, 12:34:40 pm
Demagogia e carisma, così Renzi andrà al voto nel 2018
Nel suo discorso l'ex premier si è soffermato sul partito. E sull'esigenza di passare dall'io al noi

Di EUGENIO SCALFARI
12 marzo 2017

BISOGNA chiedersi soprattutto due cose dopo aver letto ciò che Matteo Renzi ha detto venerdì al Lingotto di Torino: la validità della linea politica da lui esposta e la sua capacità, e la sua volontà di attuarla. La mia terza domanda è la seguente: se sarà Renzi a vincere le primarie o uno dei suoi avversari: Emiliano e Orlando. La risposta a questa terza domanda dà la vittoria di Renzi a dir poco al 60 per cento. Quanto alle altre precedenti sono da affrontare con molta attenzione avendo ben chiara la personalità del protagonista, i suoi precedenti, la compattezza del gruppo dirigente del Pd. Accingiamoci dunque a questo lavoro.

***

L'esordio riguarda il luogo storico dove il Partito democratico è nato: dieci anni fa con la guida di Walter Veltroni che a distanza di pochi mesi affrontò le elezioni e ottenne quasi il 35 per cento dei voti, una cifra leggermente maggiore di quella avuta a suo tempo da Enrico Berlinguer dopo il suo distacco definitivo dal potere sovietico. Veltroni aveva fondato un partito che con il comunismo non aveva più niente a che vedere e lo definì un partito riformatore che è diverso dal termine riformista perché non riforma l'esistente ma fonda una realtà politica diversa e nuova, aggiungendo a quella definizione l'aggettivo di maggioritario come vocazione. Renzi ha ben presente la globalizzazione che ormai è in pieno sviluppo e condiziona quindi il mondo intero.

Non solo quello occidentale che ci riguarda più da vicino. Il vero problema di questo mondo è il recente arrivo al potere negli Stati Uniti d'America di Donald Trump, un personaggio tutto anomalo nella politica Usa, conseguenza del crescente mutamento della società del maggior impero attualmente esistente che con Trump democraticamente eletto ha messo in luce l'odio di massa contro l'establishment, contro le crescenti diseguaglianze sociali ed economiche e perfino contro l'immigrazione che è stata da cinque secoli il fenomeno che ha creato le Americhe, sia quella del Nord sia quella del Sud. Un fenomeno del tutto diverso ma di analoga importanza è avvenuto in Europa, che è stata la culla della civiltà: l'Europa - che ha creato ed esportato la civiltà occidentale - ha vissuto in continue lotte e guerre da millecinquecento anni: interessi diversi e contrapposti tra le nazioni, diversi linguaggi, diverse etnie, diverse culture; un continente diviso al suo interno e tuttavia madre degli imperi occidentali: quello inglese, quello francese, quello germanico, quello spagnolo. Imperi militari, economici, culturali. Per quanto riguarda l'Italia, non è più stata, dopo la caduta di quello romano, un impero militare e coloniale, ma culturale sì, lo è stato sempre, e perfino nel costume. Questa è la nostra storia e quella del continente di cui facciamo parte ma che è l'unico che non abbia ancora realizzato la sua unità. La sua attuale imperfezione consente ad una sorta di contropotere di guadagnare terreno a vantaggio del populismo che anche da noi odia l'establishment (che peraltro se lo merita) ma che è un populismo retrogrado, antiliberale e antidemocratico, derivante tuttavia dal malanno reale dell'aumento delle diseguaglianze sociali ed economiche.

***

Ovviamente Renzi su questo antefatto storico non poteva diffondersi, sicché non è certo che ne sia consapevole, ma della realtà che esso ci ha lasciato sì, è consapevole ed è la materia prima che ha delineato. Sull'Europa si è intrattenuto fin dall'inizio, sostenendo che occorre assolutamente rafforzarla soprattutto nella politica economica che deve molto più puntare sulla crescita ed anche sulla struttura economica affinché sia contemporaneamente unitaria e flessibile, contando soprattutto sull'eurozona con l'introduzione di un ministro delle Finanze unico (auspicato ancor prima di lui da Mario Draghi) che peraltro non ha mai nominato nel suo discorso. Poi si è soffermato sull'immigrazione, chiedendo anche qui una politica europea unitaria sia per le quote di accoglienza sia per il contenimento dei flussi migratori nelle terre d'origine dove occorre riportarli o evitare che fuggano, trattando con i governi africani le condizioni sociali ed economiche dei fuggitivi che affrontano la morte pur di sottrarsi ad una vita impossibile da sostenere. Ha esposto il ruolo italiano di Paese fondatore che come tale va considerato principalmente nella sua situazione di Paese mediterraneo che fronteggia la costa africana e mediorientale, sconvolta dalle guerre in Siria e da una Turchia sempre meno europea e sempre più dittatoriale. Infine ha rimpianto Obama con grande affetto per la sua politica. Della politica di Trump non ha parlato ma il rimpianto per Obama è significativo in proposito. Fin qui la politica internazionale ma il nucleo del discorso è stato la situazione interna del nostro Paese. "Bisogna dare una linea al nostro partito" ha detto, "una linea e una strategia".

La linea è quella di passare dall'io al noi. La strategia è quella di far crescere l'occupazione. "Non assistenza ma lavoro". Naturalmente l'assistenza dei poveri va ampiamente praticata, per i meno abbienti anche, ma per loro si entra nella politica fiscale contro le diseguaglianze. Sono necessari investimenti pubblici e privati, italiani ma anche europei, di adeguata intensità. Infine il partito. Aveva già detto di voler passare dal tu al noi. Li ha chiamati compagni, ma queste sono novità formali anche se non prive di un voluto significato. La struttura deve basarsi sull'aspetto territoriale, sui circoli, sulla base del partito e tenerne conto. Insomma un partito profondamente democratico come lo è nel nome, ma ancora poco nella realtà. Credo che su questo punto avrebbe dovuto ammettere che la responsabilità è pienamente sua, ma di questo suo errore non ha fatto alcuna ammissione.

Il nucleo del discorso è però un altro: il partito deve avere la natura di una forza politica di centrosinistra dove la parola sinistra abbia di gran lunga prevalenza. La sinistra nel suo complesso è variamente rappresentata anche da piccole formazioni, ma quella vera che ne è il cuore deve essere ed è il Partito democratico che deve rappresentare i bisogni, i diritti, le speranze del popolo. È il popolo che costruisce il partito e il Pd lo rappresenta, ma non è un partito di pochi che rappresentano i molti, al contrario è o deve essere un partito di molti che lo sostengono e lo votano perché ne sono la struttura portante. La formula dal tu al noi vale all'interno del partito ma anche, anzi soprattutto, all'esterno tra partito e popolo sovrano. Ci sono molte altre cose nel discorso di Renzi ma questi mi sembrano i punti fondamentali.

***

Ad alcuni osservatori e colleghi il discorso non è piaciuto o hanno avanzato molte riserve pensando soprattutto al passato di Renzi, a cominciare dallo "Stai sereno" il giorno stesso in cui pugnalò Enrico Letta suo predecessore. E poi ai tre anni durante i quali fece molti interventi politici ed economici alcuni dei quali profondamente sbagliati. Molte di queste critiche le ho condivise e in alcuni casi sono stato il primo a formularle. La principale si è poi vista allo scorso referendum, non tanto perché puntava sul sistema monocamerale che anzi era da condividere ma per la legge elettorale che configurava una Camera "nominata" più che eletta e quindi un trasferimento del potere effettivo nelle mani dell'Esecutivo cioè nelle mani di Renzi e del suo "Giglio" di berlusconiana memoria.

Questo è il passato e la natura di solito non cambia. Del resto in molti Paesi europei (quasi tutti) il monocamerale è in atto ed anche chi comanda è il Capo dell'esecutivo. In una società ormai pienamente globale i problemi sono estremamente complessi e debbono essere rapidamente risolti. La democrazia è dunque ormai relegata ma tutelata dalla separazione dei poteri. Queste riflessioni assolverebbero Renzi, pur restando ferme le riserve su alcuni aspetti della sua politica. Ma ci sono altre riserve da formulare. Le mie riguardano soprattutto la demagogia. La natura di Renzi contiene una dose notevole di demagogia, che si accompagna spesso al carisma. Quest'ultimo d'altra parte è pressoché indispensabile per far emergere una leadership, perfino nelle attività ed opere culturali di vario genere, ma in politica è pressoché indispensabile.

Questa comunque è la mia riserva, ma complessivamente il discorso lo considero positivo. Vedremo ora come si svilupperà, fermo restando una buona notizia: il governo Gentiloni resterà in carica fino alla scadenza della legislatura l'anno prossimo. Di voto a breve termine non si parla più e questo è un risultato molto positivo per il Paese.

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12 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/12/news/demagogia_e_carisma_cosi_renzi_andra_al_voto_nel_2018-160341018/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il mio grande amico Reichlin e le nostre cene dei cretini
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2017, 10:55:31 am

Il mio grande amico Reichlin e le nostre cene dei cretini
Il fondatore di "Repubblica" racconta il politico scomparso. "Addio, eri il più comunista e il più democratico"

Di EUGENIO SCALFARI

L'avevamo battezzata, Alfredo ed io, la cena dei cretini, che da almeno tre anni aveva luogo in un ristorante romano di buon livello, non sempre lo stesso. I membri titolari di quella cena erano oltre noi due anche Fabiano Fabiani e Luigi Zanda ciascuno con le proprie mogli. Ognuno di noi naturalmente poteva invitare altri comuni amici o figli e questo secondo ciclo, figli a parte, erano cretini di complemento, la serie B: Andrea Manzella, Lorenzo Pallesi, Gianluigi Pellegrino e suo padre quando era a Roma.

Cretini. Ma perché c'era venuta in mente quella parola attribuita a noi stessi e perché mi viene in mente per prima, insieme a una montagna di ricordi questo che è il più cretino del mondo? Era la consapevole descrizione di persone fortemente interessate alla politica e alla propria professione: uomo politico, avvocato, magistrato, docente. Ma nessuno di loro (di noi) aveva mai pensato al proprio interesse. L'interesse generale, quello sì; lo Stato in quanto suo tutore. La distinzione era netta tra l'interesse generale e quello particolare, che doveva essere tutelato anch'esso, ma solo con le forze proprie e comunque doveva cedere di fronte agli ideali, ai valori ed anche alla eventuale conflittualità con quello dello Stato.

Si può conciliare il generale e il particolare, ma c'è chi lo fa con sagacia, nel senso cioè che quella conciliazione è furbesca e procura comunque qualche vantaggio, qualche influente amicizia che al bisogno una mano te la dà. Il cretino della nostra definizione invece è in questo caso ingenuo, sincero, leale con gli altri ed anche con se stesso. Insomma non si è posto un problema contraddittorio che per la sua natura non c'è. Ma per ironizzarlo e divertirmici sopra usiamo la parola cretini, anziché onestamente ingenui. Era anche onestà, non soltanto nella vita pratica ma anche in quella intellettuale. È probabile che questo mio racconto venga preso in giro e sia origine di sfottimenti di vario genere, più o meno diffamatori. Comunque a noi cretini la diffamazione ci sfiora ma non ci tocca. E tantomeno ci ferisce.
***
Quello che fin qui ho raccontato riguarda questi ultimi anni della mia amicizia con Alfredo, ma essa è molto più antica. Cominciò nei primi anni Cinquanta attraverso Luigi Pintor il quale era molto attivo, comunista politicamente e dotato di grande estro musicale e pianistico. Suonava con la stessa passione e grande tecnica strumentale il pianoforte. L'avevo conosciuto casualmente ed ero stato affascinato dal suo ruolo di pianista. Alfredo lo conosceva e frequentava in quanto compagno comunista ed anche lui gradiva le sue suonate e fu lì il nostro primo incontro.

Capii subito che Alfredo era un comunista "sui generis", più di sinistra degli altri ma al tempo stesso democratico e costituzionale. Popolare. Amico del proletariato, ma contrario ad ogni rivoluzione che in nome dell'eguaglianza abbandoni la libertà dei singoli, del loro modo di pensare e di agire. Per lui il comunismo e l'eventuale sua rivoluzione potevano essere necessarie per completare le libertà borghesi con la libertà sostanziale del proletariato. Le libertà borghesi, cioè, erano indispensabili perché fanno competere e vanno scambiate per privilegi, ma dovevano essere comunque appaiate alla libertà proletaria e alla sua forza di accedere al potere. Un potere pieno ma democratico. Una democrazia che inventava la sua struttura iniziale: non erano i pochi che comandavano i molti, ma i molti che attraverso il potere ottenevano le finalità volute a favore del proletario, ma al tempo stesso tutelavano la libertà e la difesa dei propri legittimi interessi particolari, non di classe ma di persona e di famiglia.

Questa nel Pci era la tesi sostenuta da Pietro Ingrao e questa fu con chiarezza, ma anche con senso di appartenenza alla rivoluzione sovietica e alla sua potenza internazionale e quasi imperiale, la "doppiezza" di Togliatti, segretario (cioè capo) del Pci, ma anche membro del Comintern e poi del Cominform, organi internazionali del movimento comunista.

Togliatti era le due cose insieme. La sua doppiezza in quegli anni fu preziosa al Pci perché non lo chiuse nel ghetto di un partito che pensava e proponeva soltanto la rivoluzione. Del resto ripeteva quanto era stato stabilito al Congresso di Lione molti anni prima, dall'influenza del pensiero di Gramsci, e soprattutto quanto avevano detto e scritto Marx ed Engels nel 1948, quando le rivoluzioni borghesi scoppiarono nell'Europa intera contro le monarchie e i loro poteri assoluti. Insomma, un ritorno alla Rivoluzione francese dell'Ottantanove, poi sostituita dal "terrore" di Robespierre, dal potere assoluto del Direttorio e poi di Napoleone. Questa storia finisce con la restaurazione del potere monarchico assoluto che ritornò in pieno dopo il Congresso di Vienna gestito da Metternich.

"Marx - mi diceva Alfredo - non avrebbe mai voluto una rivoluzione comunista in Russia per il semplice fatto che la Russia non era una potenza industriale che produce oltre al profitto anche una massa di operai. Era invece un paese latifondista abitato soprattutto da contadini che non a caso alcuni grandi scrittori come Gogol chiamavano "anime morte". In Russia le liberà borghesi non esistevano, quindi non esisteva la democrazia e non poteva evolversi con il comunismo marxista".

Così la pensava Reichlin e così la pensava Togliatti, ancor più in questa direzione si svolgeva il pensiero e la posizione politica di Terracini. Diversa era quella di Amendola, il più democratico di tutti in Italia, ma il più leninista e poi staliniano in Urss. Amendola cioè estremizzava la sua democrazia italiana compensandola con il suo stalinismo russofobo.

Alfredo era seguace della doppiezza di Togliatti e del popolarismo di Ingrao. Conoscendo i miei sentimenti verso il movimento di "Giustizia e Libertà" derivanti dal Partito d'Azione, mi esortava a votare comunista ora che il Partito d'Azione di fatto non esisteva più, anche se la sua cultura politica era molto diffusa. Di fatto io votavo per il Partito repubblicano finché Ugo La Malfa ne fu il capo, ma quando morì cominciai a votare comunista. Questo coincise con l'emergere di Berlinguer e dei suoi primi strappi contro il potere sovietico.

Ricordo ancora una cena a casa di Alfredo, una casa della cooperativa dei giornalisti, in una serata quasi estiva. Alfredo, che era un bel giovane alto, snello e forte, aveva da poco sposato Luciana Castellina, fisicamente bellissima e politicamente molto impegnata nelle associazioni universitarie di sinistra e poi nel Pci come partito rivoluzionario. Lei altre domande non se le poneva, rivoluzionaria, punto e basta. Infatti col passar degli anni ci fu una rottura e i rivoluzionari a cominciare da Luciana uscirono clamorosamente dal partito e ruppero anche con Ingrao che entro certi limiti era con loro, e fondarono Il manifesto.

Tutto questo accadde dopo. La cena di cui parlo avvenne molto prima, esattamente nel giugno del 1957. Aggiungo che l'Espresso era già nato nell'ottobre del 1955 e nel gennaio del '56 fece la sua comparsa il Partito radicale, fondato dal gruppo dirigente dell'Espresso e del Mondo di Mario Pannunzio. Di quel partito io ero stato nominato vicesegretario.

Queste le premesse che determinarono la nostra cena cui ho accennato. Era molto ristretta e, come mi aveva avvertito Alfredo, riservata. C'erano i padroni di casa (soprannominati da tempo "i due belli") c'era Togliatti con la sua compagna Nilde Iotti e io con mia moglie Simonetta.

A tavola su domanda di Luciana che voleva sentire da Togliatti come e dove aveva trascorso gli anni di guerra, Togliatti rispose: a Mosca in un albergo. E da quel momento parlò e raccontò quei tre terribili anni, tra il 1939 e il '42 con le truppe tedesche a quaranta chilometri da Mosca, circondata con soltanto pochissimi varchi lungo il fiume. Ogni tanto gli facevamo qualche domanda e lui rispondeva, chiariva, completava. Insomma un racconto affascinante, personalizzato da un protagonista politico che lo stesso Stalin trattava per quello che era. Poi su sollecitazione di Alfredo, raccontò anche quando era uno dei comandanti degli armati comunisti a Barcellona durante la guerra di Spagna e ricordò, con un certo imbarazzo, la strage degli anarchici i cui volontari erano anch'essi a Barcellona per arginare le truppe di Franco che assediavano la città. I comunisti e gli anarchici convissero per qualche tempo ma poi scoppiò una vera guerra interna e gli uomini guidati da Togliatti, quando lui era tornato a Mosca, fecero strage degli avversari.

Alla fine, dopo aver brindato e mangiato il tradizionale dolce "montebianco" (lo ricordo ancora) ci trasferimmo nel piccolo salotto con le signore in un lato e i tre uomini dall'altro.

Io su indicazione di Alfredo sedetti in poltrona, lui su una sedia e Togliatti per parlarmi vicinissimo sedette su un pouf, posizionandolo quasi attaccato alla poltrona. Lì compresi finalmente la ragione di quella cena, quando Togliatti mi domandò che cosa fosse e che cosa si proponesse di fare il nostro Partito radicale. Debbo dire che mi sentii assai lusingato da questo suo interesse e risposi: eravamo dei liberali di sinistra, alcuni di noi volevano aprire verso i socialisti, altri, la maggioranza, si consideravano alleati di Ugo La Malfa e dei suoi repubblicani.

"Ho capito - commentò Togliatti - siete una specie di succursale intellettuale dei contadini romagnoli gestiti da La Malfa. L'alleanza con i socialisti è un po' più anomala". Ma lei, gli dissi io, non è favorevole a questa spinta più a sinistra? "Certo certo", rispose lui. "Forse non hai capito bene", interloquì Alfredo. "A noi interessa che i radicali operino in quanto tali e La Malfa va benissimo come punto di congiunzione. I socialisti di Nenni hanno molto più seguito popolare e con essi non potete fare un'alleanza ma di fatto finirete dentro quel partito senza alcuna funzione autonoma da manifestare. Che vantaggio c'è non solo per voi ma per il Paese?". Intervenne Togliatti: "I socialisti sono nostri alleati, certamente rappresentano, sia pure in modo alquanto diverso, una sinistra marxista e nei momenti fondamentali siamo uniti a tutti gli effetti. Ma un partito liberale di sinistra in Italia non c'è e soltanto il vostro per piccolo che sia marca e sottolinea una posizione che interpreta la parte migliore della classe borghese, quelle famose libertà borghesi che in Italia già ci sono ma sono ancora deboli e fragili.

Chi è in grado di rafforzarle non tanto con i numeri degli elettori ma con il sostegno intellettuale e politico dei valori delle libertà borghesi è il benvenuto anche per noi. Spero di essermi spiegato ". Chiarissimo, risposi io. E la conversazione finì lì.

Di racconti analoghi ne potrei fare molti. Dirò soltanto che quando Berlinguer scomparve, gli subentrò Natta (e Tortorella) ma Natta durò poco e il Pci dovette porsi il problema del nuovo segretario. Era già nata Repubblica e io sostenni che a quel posto andasse Reichlin. Il quale mi telefonò per dirmi che stavo sbagliando. Lui sapeva già che il congresso votava Occhetto e che probabilmente lui avrebbe cambiato il nome del partito. Farà senz'altro bene, mi disse Alfredo, ma lui, Alfredo, non l'avrebbe mai fatto ancorché fosse persuaso che quella era la soluzione necessaria. Quindi la facesse qualcun altro ma lui quell'iniziativa non l'avrebbe mai presa pure approvandola.

Questo è stato Alfredo. Un politico bravo ed efficiente ma soprattutto un custode di valori e ideali a favore dei poveri, dei deboli, degli esclusi. La politica è stata la sua passione ma con difficoltà ad effettuare interventi a favore dei suoi ideali. A me talvolta ricorda in questi ultimi tempi papa Francesco e gliel'ho detto. "Ma che sei matto? " mi ha risposto Alfredo. Questo avvenne un paio di volte durante la cena dei cretini. Lì ci incontrammo l'ultima volta un mese e mezzo fa. Poi si ammalò e adesso ci ha lasciato soli, almeno me.

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23 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2017/03/23/news/il_mio_grande_amico_reichlin_e_le_nostre_cene_dei_cretini-161179504/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. La missione di Gentiloni e la divina modernità di Francesco
Inserito da: Arlecchino - Aprile 03, 2017, 08:52:23 pm

La missione di Gentiloni e la divina modernità di Francesco

Il pontefice non cessa di stupirci. Con le sue parole che confermano, insieme all'immutabile ed anzi crescente fede in Dio, il suo approccio ad un Dio unico che è il tutto

Di EUGENIO SCALFARI
02 aprile 2017


NON CI SONO molte novità nella politica italiana ed europea rispetto alla scorsa settimana. Resta una gran confusione e una rabbia sociale profonda, largamente vistosa e diversamente motivata in tutto l'Occidente, cioè in America oltreché in Europa. In Usa la popolarità di Donald Trump è scesa dal 70 al 40 per cento. Il Venezuela è addirittura sull'orlo della guerra civile. In Messico la resistenza contro il muro di Trump cresce giorno dopo giorno.

Noi italiani non stiamo meglio degli altri. La rabbia c'è anche da noi, ma il sentimento dominante è l'indifferenza. Il 40 per cento del corpo elettorale non voterà, il che significa un 20 per cento in più dell'astensione normale. Ma a questa cifra aggiungete un altro 20 per cento di chi vota per i Cinque Stelle, che seguono quel movimento solo perché non sanno per chi altri votare, ma l'astensione mi sembra una scorrettezza istituzionale.

Questa situazione è ormai vecchia di almeno quattro anni, ma se ad essa aggiungiamo i vent'anni dominati dal berlusconismo, arriviamo a un quarto di secolo d'un Paese dove la democrazia è diventata una farsa. Anche la Prima Repubblica aveva i suoi malanni, ma non erano così acuti ed erano beneficiati da elementi di progresso. Soprattutto il sistema era sostanzialmente bipolare e le elezioni avvenivano sempre con il sistema proporzionale.

Si parla oggi contro quel sistema come se fosse il culmine di una sciagura, ma non è affatto così. La proporzionalità è il sistema più consono alla democrazia. Certo obbliga ad alleanze tra un partito principale ed altri minori per contrastare un altro partito maggiore ed altri minori: blocchi contrapposti, questo non è tripolarismo.

È possibile che il Movimento Cinque Stelle rappresenti anch'esso una visione politica e consenta quindi alleanze con altri gruppi? Allo stato dei fatti no, non è possibile perché i grillini non vogliono e non sono in grado di proporre alleanze. Ne deduco che la nostra democrazia è profondamente ammalata di tripolarità per la semplice ragione che la tripolarità è incompatibile con il cosiddetto popolo sovrano, che esiste soltanto se è uniforme nei suoi obiettivi. Se è segmentato in cento o mille posizioni non è sovrano, è una poltiglia politica che anticipa lo sbocco alla dittatura.

In Italia, allo stato delle cose, esiste come elemento positivo soltanto il governo Gentiloni. Formalmente è un governo del Pd, ma sostanzialmente gode di un'autonomia che sarebbe tanto più proficua se il partito che lo sostiene non fosse capitanato da un leader che vuole tornare a guidare il Paese appena possibile. Questo crea una duplicità impropria tra il governo del Pd e il leader di quel partito. Direi che si tratta di un'assoluta rivalità che infatti trucidò (questo è il verbo più appropriato) il governo di Enrico Letta, che era uno dei capitani del Pd. Renzi però aveva conquistato la leadership del partito. Pazientò tre mesi e poi fece fuori Letta. Vedete come tutto torna.

Oggi la situazione è pressoché analoga: Renzi ha favorito la nascita del governo Gentiloni per riprender fiato dopo la sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Adesso che il fiato l'ha ripreso e il partito è di nuovo nelle sue mani Gentiloni dovrebbe esser pronto a cedere il posto quando Renzi deciderà, ma sarebbe un tragico errore perché se Gentiloni accetta di esser un burattino nelle mani di un burattinaio, il suo sarebbe un governo fittizio. Ma non mi pare che Gentiloni abbia accettato questo ruolo. E noi, popolo sovrano, che cosa dobbiamo volere? Se vogliamo essere popolo sovrano dobbiamo volere che chi ha il compito costituzionale governi. Possono ed anzi debbono esserci partiti all'opposizione del governo, questo è logico. Ma non il burattinaio che tiene i fili.

Gentiloni non accetta e questo è positivo purché governi con efficienza e purché abbia la maggioranza dei voti. Quando verrà a mancare, chieda la fiducia del Parlamento sapendo che tutti i partiti d'opposizione voteranno contro o si asterranno. Che faranno i renzisti in quel caso? Si asterranno anche loro o addirittura voteranno contro?

Ovviamente Gentiloni in quel caso cadrà ma il renzismo altrettanto perché il popolo sovrano non consentirebbe una barbarie di quella fatta.

Perciò Gentiloni governi con la massima efficienza e la massima indipendenza fino al termine della legislatura. A quel punto i giochi si riapriranno in un modo istituzionalmente corretto e ciascuno è libero di giocare la sua partita con una legge elettorale che non può che essere sostanzialmente proporzionale.

***

Questa premessa politica era dovuta, ma il tema che in questo momento voglio trattare è di tutt'altra natura. Riguarda papa Francesco che non cessa di stupirci. In questi giorni ha affrontato argomenti e ha pronunciato parole che confermano, insieme all'immutabile ed anzi crescente fede in Dio, il suo approccio ad un Dio unico che è il tutto. Un Dio che ha una sua natura della quale noi, sue creature, scopriamo sempre nuovi aspetti contrastanti con quelli finora noti. Li scopriamo, anzi è Francesco che li scopre o li modernizza perché è il Dio in cui crede che lo ispira a scoprirli, oppure è la sua autonomia individuale che lo mette in grado di aggiornare la Chiesa che gli è stata affidata o infine li scopre perché il Creatore è multiforme e siamo noi che ne inventiamo alcuni aspetti di quella multiformità? Da non credente quale sono, ma proprio per ciò affascinato da questo Papa rivoluzionario, propendo per una continua attività pastorale di Francesco che ci descrive un Creatore del quale le sue creature ne intravvedono le sembianze man mano che il tempo passa e cambia gli uomini, li riporta all'antico visto con occhi moderni o al moderno con occhi antichi o nella visione di un mondo nuovo. Ricordo che una volta, un paio d'anni fa quando cominciai a frequentarlo, gli dissi: "Ma il Tempo non è Dio?". E lui mi rispose: "Non ha un nome. Lei lo può chiamare Tempo, ma che cosa cambia?". "Cambia - risposi - perché il Tempo è dentro di noi e quindi è immanente e non trascendente". "Anche Dio è dentro di noi. Una scintilla divina è in ciascuno di noi. Da questo punto di vista dovremmo dire che Dio è immanente? Dio, dice la Bibbia e la catechesi, ci creò a sua immagine e somiglianza. Noi siamo le sue creature e come tali dotate anche di libero arbitrio. Sta dunque a noi di scegliere tra quello che consideriamo il Bene e quello che sappiamo essere il Male. Le creature sono libere. Se seguono il Male la loro anima si autoannulla. Il demonio fa parte del libero arbitrio. Tra i tanti poteri e i tanti limiti, le creature sono libere di autoannullarsi. Questa è la profonda differenza tra la creatura umana e le altre. La creatura umana vede se stessa mentre pensa, opera, fa il bene altrui e quindi il proprio, oppure il male altrui e quindi sempre anche il proprio. Questo è il libero arbitrio".

Mentre papa Francesco parlava e le sue parole le ricordo adesso che le ricostruisco, mi viene in mente un libro scritto alla fine del Cinquecento da Étienne de la Boétie, che morì tra le braccia di Montaigne e scrisse un libro fondamentale intitolato Discorso sulla servitù volontaria e là constatò con queste parole: "Come è possibile che tanti uomini non sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno? Siate risoluti a non servire più e sarete liberi". E allora - dice Francesco: "Scegliete il bene del prossimo che è anche il vostro ed allora la vostra anima sarà benvoluta da Dio che vi ha creato a sua immagine e somiglianza". Étienne non era un credente anche se politicamente stava con i cattolici e non con gli ugonotti, ma questa è la politica e non religione. Esortava alla libertà. È divina la libertà? Io credo di sì, la libertà è un salto dell'uomo che esce dall'animalesco e vede se stesso. Credente o non credente, questo tipo di libertà è divino. Facciamone buon uso.

***

Sua Santità sta preparando il nono incontro mondiale delle famiglie cattoliche che avrà luogo a Dublino nell'agosto dell'anno prossimo. Nella lettera che ha scritto al cardinale Farrell che è il prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, dice le seguenti parole: "L'amore di Dio è il suo "Sì" a tutta la creazione e al cuore di essa che è l'uomo. E l'impegno di Dio è per un'umanità tanto spesso ferita, maltrattata e dominata dalla mancanza d'amore. La famiglia pertanto è il "Sì' del Dio Amore. Senza l'amore non si può vivere come figli di Dio, come coniugi, genitori e fratelli. Ogni giorno facciamo esperienza di fragilità e debolezza e per questo tutti abbiamo bisogno d'una rinnovata natura che plasmi il desiderio di formarci, di educarci ed essere educati, di aiutare ed essere aiutati e di integrare tutti gli uomini di buona volontà. Sogno dunque una Chiesa che annunci Dio Amore che è la Misericordia".

Ma poi, nella Messa a Santa Marta di giovedì scorso, Francesco parla di Dio da un'altra angolazione: parla di un Dio deluso. Ma può essere deluso Dio? Il Papa cita un passo dal libro dell'Esodo e ricorda la captività di quel popolo in Egitto e poi il suo ritorno nella terra promessa varcando a piedi il Mar Rosso e la legge di Dio dettata a Mosè ma il popolo che lo segue a fatica si stanca e fabbrica un vitello d'oro che è il suo nuovo dio. La conclusione di Francesco è questa: "Dimenticare Dio che ci ha creato, ci ha fatto crescere, ci ha accompagnato nella vita, questa è la delusione di Dio di fronte a quanto è accaduto. Ma la sorpresa sarà che Lui sempre ci aspetta come il padre del figliol prodigo che lo vide venire da lontano perché lo aspettava".

In questi stessi giorni il cardinale Scola, che ha accompagnato il Papa nel giorno passato a Milano tra un milione e mezzo di persone, ha scritto che viviamo in una società post-moderna e post-cristiana e che questo è il lavoro del Papa: di adeguare la Chiesa alla modernità rinnovando la fede in un Dio creatore operante nella modernità per saldarla con una fede che adotta un linguaggio moderno entrando in tal modo nei cuori e stringendoli al Bene.

L'ho detto e scritto già molte volte: dopo Agostino d'Ippona, un Papa così non s'era mai visto.

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02 aprile 2017

http://www.repubblica.it/politica/2017/04/02/news/la_missione_di_gentiloni_e_la_divina_modernita_di_francesco-161977382/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-L


Titolo: EUGENIO SCALFARI - Questa Pasqua anche per gli atei si chiama Francesco
Inserito da: Arlecchino - Aprile 16, 2017, 06:06:40 pm
Questa Pasqua anche per gli atei si chiama Francesco
Il Papa ha creato una nuova definizione del Dio unico: il Dio Amore

Di EUGENIO SCALFARI
16 aprile 2017

LA PASQUA cristiana, anzi soprattutto cattolica, dovrebbe essere ricordata dai mezzi di informazione di tutti i Paesi nei quali quella religione è storicamente la principale. Se si considerano anche le varie sette più o meno scismatiche ma sempre nate tutte da un tronco comune, il solo tema che si impone su tutti gli altri è questo della Pasqua. Sempre che sia affrontato criticamente.

L’aspetto critico si esercita anzitutto sulla geografia religiosa poiché la religione cattolico- cristiana è nata in Palestina. Da lì si è variamente diffusa sulle coste mediterranee ma poi è Carlo Magno — e con lui tutte le grandi famiglie regnanti dell’epoca — che ha fatto di quella religione l’elemento unificante dell’Europa e dell’Occidente. In molte terre d’Oriente il cristianesimo non esisteva se non come un’eco remota; le religioni erano diverse, spesso erano dei “totem”, talvolta delle filosofie in vario modo mitizzate. Le linee d’incontro-scontro seguivano più o meno l’area dell’impero creato da Alessandro Magno alcuni secoli prima. Lì il cristianesimo era noto, lì il vecchio Padre di Mosè e del Sinai si scontrava con le mitiche divinità tribali, sulla linea di confine del Caspio e dell’Eufrate. L’uomo moderno prende corpo nella mitologia di Esiodo e poi nella grande famiglia degli Olimpici. Quella è la prima religione che la civiltà ellenica consegnò nei secoli a quella romana.

A partire da Costantino e poi sempre di più nacque la religione di Gesù Cristo e dei suoi apostoli. Secoli dopo sulle stesse terre sacre di Gerusalemme emerse Maometto il profeta che predicò Allah come Dio e Abramo come capostipite di una gente. Quella figura è il punto di storica congiunzione tra il popolo ebraico e quello cristiano.

Tre religioni sono a questo punto esplose e hanno non più famiglie di dèi ma ciascuna un proprio Dio che in realtà è l’unico delle tre religioni monoteistiche che papa Francesco vuole riunificare nella fratellanza. E unificare protestanti, anglicani, ortodossi, luterani, valdesi.

In questa geografia quanto mai dinamica si innesta un tema molto moderno; geograficamente riguarda soltanto l’Occidente, ma vedremo che in altre forme anche l’Oriente ne è percorso e turbato. Si chiama ateismo religioso e indifferenza e/o anticlericalismo.

È un fenomeno che coincide con l’epoca della modernità. Lo si può chiamare, come abbiamo già detto, in vari modi, ma la sua vera diversità sta nelle sue mitologie originarie. Questo è veramente il nodo del problema, mai così attuale come in questa domenica di Pasqua del 2017. Con papa Francesco all’opera, il Califfato islamico in guerra con l’Islam e con l’Occidente, cristiano o non cristiano che sia; la Turchia che conduce un triplo gioco; Donald Trump che ha (lucidamente o casualmente?) compiuto un giro di boa ed ora ha imboccato una strada in cui né noi né lui conosciamo i possibili sviluppi. E infine la Francia, la Germania e l’Italia che vivono nell’attesa di pochi giorni (Francia) e di pochi mesi (Germania, Italia) di campagne elettorali decisive.

Di questi aspetti della questione dobbiamo discutere, storicamente, filosoficamente, socialmente, politicamente. Dovrei aggiungere religiosamente, ma mi sembra inutile visto che uno degli attori di queste vicende è Francesco, Papa e Vescovo di Roma.

Ha dato al nostro giornale pochi giorni fa una lunga intervista al collega Rodari sul suo incontro con i carcerati. Ha ricevuto mercoledì il nostro editore Carlo De Benedetti con il nostro direttore Mario Calabresi che gli hanno offerto un’opera d’arte di raro pregio in segno di attenzione. Da parte mia mi onora da tre anni in qua della sua amicizia pur sapendo (ed anzi proprio per questo) che io non credo in Dio. Dunque è Francesco il protagonista di questa Pasqua che riguarda e coinvolge anche Lui.

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L’Occidente, specialmente in Europa ma non soltanto, è fortemente lacerato. Non da pochi anni ma da un secolo, il ventesimo che non è stato affatto un secolo breve come molti pensatori hanno sentenziato, ma al contrario particolarmente lungo. Anzi: Ottocento e Novecento, dal punto di vista del pensiero e delle azioni che ne conseguono fanno tutt’uno. Il 1848 fu una seconda grande Rivoluzione, dopo la prima Rivoluzione moderna del 1789. La terza avvenne a Pietroburgo e in tutta l’immensa Russia nel 1917 e ripresentò il Manifesto di Marx e di Engels di settant’anni prima. Lenin, dopo il viaggio in treno dalla Francia alla Finlandia e di lì nella capitale dove il partito bolscevico prese la guida politica invadendo il “Palazzo d’Inverno”, imprigionò lo Zar e la sua famiglia, si ritirò dalla guerra fin lì combattuta contro la Germania.

Tre grandi Rivoluzioni politiche, ma anche ideologiche: visioni del mondo che col tempo vengono attuate. Queste tre Rivoluzioni hanno attuato la modernità, ma il seme che ha fruttificato diventando col tempo un albero e poi una foresta, fu gettato nella terra d’Europa molto prima. La storia che ha inizio nel mondo di allora è datata 1492 con la scoperta dell’America ma in realtà il seme fu gettato a terra affinché fruttificasse agli inizi del Rinascimento italiano con una rivoluzione che in quel caso non cominciò con un movimento politico e popolare ma con una profonda e graduale trasformazione artistica e religiosa.

La modernità nacque in Italia e in campo artistico Giotto fu il primo nella pittura mentre il grande maestro culturale, religioso e perfino politico fu Dante. Dopo di lui come poeta e politico venne Petrarca e poi Boccaccio. Pittura ed arti figurative culminarono con Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Mantegna. Ma il vero inizio della modernità in tutta Europa è segnato da Michel de Montaigne e nel campo religioso da Lutero e la sua Riforma con le 95 tesi affisse sulle porte delle chiese luterane. In quell’epoca stessa nacque l’Ordine dei Gesuiti, voluto da Ignazio di Loyola.

Questo nel pensiero, nella scienza, nel costume, nelle arti è il seme della modernità. Non avviene certo solo in Italia e anzi, politicamente parlando, perde ogni suo potere. Tuttavia il Rinascimento è totalmente italiano e segna la graduale uscita dal Medioevo. Questa è la modernità. Sarà forse un caso (la storia ne abbonda) ma il 23 aprile dello stesso anno morirono insieme, senza essersi mai conosciuti) Miguel de Cervantes e William Shakespeare. Anche qui due nomi sovrastano tutti gli altri: Don Chisciotte della Mancia e Amleto. Pochi nomi ai quali vanno aggiunti quello di Machiavelli, di Galileo e di Giambattista Vico. La modernità raggiunge il culmine ma non accade che il culmine sia presto abbandonato e ne cominci la decadenza. Al contrario il culmine dura a lungo: cominciò col Rinascimento del Quattrocento e durò fino all’Illuminismo del Settecento: tre secoli nei quali la trasformazione resta al suo massimo livello, soggetta tuttavia a lotte continue e guerre armate per la conquista del potere e del suo rafforzamento. Guerre continue, eserciti e bande mercenarie sulle terre e sui mari il cui centro non è più soltanto il Mediterraneo ma l’Atlantico, i galeoni spagnoli, le flotte inglesi e francesi, i corsari, i pirati, la conquista europea del continente americano, del Sud e del Nord.

Nel campo del pensiero comincia quel movimento che fu chiamato Illuminismo, con Diderot, Voltaire, Rousseau, d’Holbach e l’Encyclopédie in Francia, e Adam Smith, Hume, Ricardo in Inghilterra. Goethe fu al centro, portò avanti l’Illuminismo con Cartesio da un lato e Kant dall’altro. Poi a metà strada il Romanticismo che saldò il secolo illuminista con l’Ottocento.
Papa Francesco tutte queste storie le conosce, che io sappia fanno parte della sua cultura giovanile, del suo noviziato e poi della sua missione nell’ambito della Compagnia gesuita e infine come Vescovo in permanente missione. Un giorno ricordo d’avergli chiesto se aveva visto il film Mission. Mi sembra di ricordare che l’avesse visto e ne avesse tratto una serie di riflessioni che comunque collimano con la funzione del suo successivo pontificato.

L’idea e il programma che quell’idea comporta è quella da lui predicata ogni giorno e più volte al giorno e si concreta nei seguenti temi: Gesù e i suoi apostoli dopo la crocifissione e il Resurrexit si sono identificati con il sostegno dei poveri, degli esclusi, dei deboli. Interi popoli sono condizionati da queste situazioni. A Lui non importa chi abbia una fede religiosa oppure nessuna. Meritano comunque il sostegno fisico e spirituale della Chiesa Missionaria, la sola in cui ha riposto tutta la sua energia, il suo appoggio e la sua identificazione.

Recentemente ha addirittura creato una nuova definizione del Dio unico che è la “novella” di sua Santità: lo chiama Dio Amore. Non s’era mai sentita questa definizione; gli attributi consueti li conosciamo da tempo e descrivono soprattutto la potenza del Creatore: Onnisciente, Onnipotente, Onnipresente, Eterno. Ama tutto il creato e l’uomo in particolare, che fu creato a sua immagine e somiglianza. L’Amore è uno degli infiniti modi con i quali Dio si manifesta, ma non è il solo. L’amore è un flusso reciproco tra Dio e l’umanità.

Francesco introduce un mutamento apparentemente marginale ma in realtà estremamente profondo: il Dio Amore è un flusso di sentimenti tra il Creatore e le creature. È quella scintilla di Divino che c’è in tutte le anime; l’immanenza di una divinità trascendente che dovrebbe indurre Francesco a beatificare Spinoza e la sua descrizione che parlò dell’immanenza del trascendente. O beatificare Pascal che seguì lo Spinoza e anche Giansenio. Atti di questa importanza sarebbero un passo decisivo verso i laici, gli atei, gli indifferenti che abbondano ormai nella società e la alimentano verso il progresso del mondo moderno. Se Francesco vuole rafforzare la Chiesa Missionaria, credo sia questa la strada da perseguire. Il Dio Amore che altro può fare se non equiparare se stesso alle anime da lui create? Non è su questa strada che le religioni possano affratellarsi con conseguenze anche politiche, facendo vincere il binomio “Amore e Pace” su quello opposto e finora sempre vincente di “Potere e Guerra”?

La modernità è l’estremo confronto tra queste due soluzioni. In una società moderna e globale questi due binomi sono decisivi su come si atteggerà il mondo intero, quello dei ricchi e quello dei poveri, quello dei forti e quello dei deboli, che deve trasformarsi (questo è il nostro auspicio e quello di Francesco) in un potere benevolo e in un odio per il sopruso, la menzogna, la scelta consapevole del male.
Il male fa parte del libero arbitrio, della libertà insidiata e asservita al Demonio del quale spesso accarezziamo la coda.

Dunque, carissimo Francesco, il Creatore ha creato anche il Demonio, come è scritto nel libro sapienziale di Giobbe e in quello dell’Ecclesiaste. Gli atei hanno nella mente che il vero Creatore sia il Caos, nel quale l’energia liberata dalla morte affluisce e dal quale nascono incessantemente nuove forme che hanno in sé una scintilla di caos, cioè le contraddizioni che ogni creatura contiene e l’Io che porta dentro di sé. Se si spengono le contraddizioni c’è il regno dell’Amore, se non si vincono resta l’odio caotico che spegne la Vita.
© Riproduzione riservata 16 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/16/news/questa_pasqua_anche_per_gli_atei_si_chiama_francesco-163117335/?ref=RHPPLF-BL-I0-C8-P1-S2.2-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. "Piero Ottone, la nostra vecchia amicizia divenuta sempre...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 18, 2017, 08:40:56 am
Scalfari, "Piero Ottone, la nostra vecchia amicizia divenuta sempre più forte nonostante il Corriere

Di EUGENIO SCALFARI
18 aprile 2017

PIERO Ottone negli ultimi mesi e soprattutto negli ultimi giorni aveva voglia di andarsene dalla vita e alla fine se ne è andato. In certi casi la morte è una liberazione e questo è stata per lui. Non credo avesse un male preciso, un dolore che lo tormentasse, ma una crescente stanchezza di vivere e un'attesa crescente di "Sora nostra morte corporale". E così è avvenuto. Siamo stati grandi amici e di questa amicizia ho ancora freschi ricordi. Uno soprattutto che produsse una svolta nella sua vita. Lo ricordo benissimo perché riguarda personalmente anche me. Quando decidemmo, Carlo Caracciolo ed io, di fondare Repubblica Piero era già da anni direttore del Corriere della Sera. L'aveva voluto Giulia Maria Crespi che possedeva in quell'epoca un terzo delle azioni del Corriere. Un altro terzo l'aveva un suo parente affine (cioè non consanguineo) e un altro ancora Gianni Agnelli.

La Crespi non era certo di sinistra, anzi era una conservatrice, ma molto liberale e aveva capito che Ottone era appunto un liberale di prima scelta, perciò chiamò Piero: perché giudicava che il movimento sessantottino aveva cambiato profondamente i giovani e quindi doveva essere trattato con il dovuto riguardo. Piero corrispose pienamente a questa strategia editoriale della Crespi e accettò l'incarico. Il primo e più rilevante cambiamento riguardò l'atteggiamento del Corriere verso i comunisti. Fino a quel momento il giornale milanese parlava di loro non come avversari politici ma come gente che non ha diritto di occuparsi di politica. Come se fossero come belve di un giardino zoologico da chiudere in gabbia.

La grande riforma di Ottone fu proprio questa. "I comunisti non sono animali, non hanno la coda. Noi li avversiamo politicamente ma nulla di più. Hanno doveri e diritti come tutti gli altri". Quest'atteggiamento scontentò parecchi lettori tradizionali del Corriere ma procurò molti lettori nuovi e la vendita complessiva aumentò. Anche noi, che pubblicavamo da molti anni il settimanale l'Espresso manifestammo pubblicamente la nostra approvazione e la nostra amicizia aumentò.

La fondazione di Repubblica però creò una inevitabile concorrenza, anche perché io avevo pubblicamente manifestato l'obiettivo estremamente ambizioso di raggiungere e possibilmente superare entro quattro o cinque anni il Corriere. In un'epoca in cui le vendite del Corriere erano mediamente di 700mila copie e in certe occasioni arrivavano addirittura ad un milione. Si trattava dunque d'un programma difficilmente realizzabile. Piero comunque mi telefonò facendomi molti auguri ed entrambi ci confermammo che la nostra amicizia non sarebbe minimamente cambiata. Le vendite di Repubblica arrivarono a 70mila copie ma lì si fermarono per due anni; i nostri sforzi di superare quella quota non ebbero alcun effetto.

Ogni tanto con Piero ci incontravamo quando andavo a Milano e i rapporti tra noi non cambiavano. In un incontro Piero mi disse: "Mi permetto di dirti che l'obiettivo che ti eri proposto di arrivare al nostro livello di vendite non lo raggiungerai. Il suggerimento che ti do è quello di chiudere Repubblica. Puoi dire che hai fatto un esperimento e che adesso ci vuoi pensar sopra per fare delle modifiche di carattere strategico-editoriale e poi si vedrà. Questo mi pare un modo elegante di uscire da un esperimento che eventualmente potrai in futuro ritentare". Forse hai ragione, gli risposi, ma voglio aspettare ancora qualche mese. A fine anno se sarò ancora a questo livello di vendite seguirò il tuo consiglio. Ebbene, le cose andarono diversamente. Cominciò la mattanza delle Brigate rosse, di fronte alle quali Repubblica prese un atteggiamento durissimo. Il partito comunista di Berlinguer, che nel frattempo aveva decisamente rotto con la Mosca stalinista, si alleò con la Dc contro le Br e noi diventammo il giornale di quell'alleanza. Il Corriere fu molto più cauto e nel frattempo avvenne addirittura un cambio della proprietà: di fatto il proprietario divenne, tramite un prestanome, il Banco Ambrosiano il cui direttore era un affiliato della P2, una loggia massonica di corrotti e di mascalzoni. Il Corriere cominciò a perder quote di vendita e noi a guadagnarne. Ma indipendentemente da questo fenomeno, quando Ottone si accorse della P2 decise immediatamente di dimettersi dal Corriere. La Mondadori, che aveva il 50 per cento delle azioni di Repubblica ed era quindi un nostro socio con una forte amicizia personale che ci legava da entrambe le parti, offrì a Ottone una posizione molto importante nel suo consiglio d'amministrazione e Piero venne quindi anche con noi e ci dette non solo il suo lavoro di amministratore d'un azionariato comune ma anche quello di giornalista sul nostro giornale. Tutto proseguì fino a qualche tempo fa, quando il desiderio di morire e la fatica insopportabile di vivere presero il sopravvento.

Provo profondo dolore per la sua dipartita.
© Riproduzione riservata 18 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2017/04/18/news/la_nostra_vecchia_amicizia_divenuta_sempre_piu_forte_nonostante_il_corriere_-163242451/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Quanto vale Parigi per l'Europa e i compiti di Renzi
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2017, 12:37:18 pm
Quanto vale Parigi per l'Europa e i compiti di Renzi
"Il mondo è in guerra e che si tratta di un conflitto estremamente contagioso perché si estende all'intero pianeta, cambiando spesso natura e protagonisti"

Di EUGENIO SCALFARI
23 aprile 2017

IL TERRORISMO in Francia ha cambiato natura in vista delle elezioni presidenziali. Non si dirige più contro i cittadini senza nome e neppure contro i più importanti candidati che sono scortati a vista dalla polizia, ma direttamente contro i poliziotti e non con la tecnica dei kamikaze che fanno esplodere se stessi in un negozio, un bar, un teatro, un luogo affollato qualsiasi, ma direttamente contro le forze di sicurezza con kalashnikov nella speranza, dopo avere ammazzato qualcuno, di fuggire e dileguarsi. Insomma una vera e propria guerriglia che rischia di ripetersi almeno fino al ballottaggio e al definitivo insediamento presidenziale.

La ragione di questa guerriglia è evidente: influire sull’elezione del nuovo capo dello Stato. Ma chi è dei quattro maggiori candidati in lizza al primo turno e dei due che col ballottaggio chiudono la partita, quello favorito? I pareri dei commentatori esperti in materia sono diversi. Il nome che ottiene maggiore attenzione è quello di Marine Le Pen che riscuote tuttavia pareri discordi. Alcuni sostengono che è lei la più favorita da quanto è avvenuto e probabilmente ancora avverrà. Altri affermano esattamente il contrario ed entrambi questi pareri sono ben motivati. Ma chi ha ragione? Le Pen è, come ho già segnalato, l’oggetto numero uno dell’attenzione di questi giorni e lo sarà anche se supererà il primo turno e parteciperà al ballottaggio. Ma se invece non riuscirà, come si comporteranno i guerriglieri? Chi favoriranno? E soprattutto: prendono ordini dall'Isis oppure agiscono per conto proprio?

Conosco abbastanza la Francia e Parigi in particolare. Ci fu un periodo della mia vita professionale durante il quale avevo deciso di fare un giornale che rappresentasse l'Europa che volevamo unita e federata. Bisognava che l'opinione pubblica europeista avesse un suo giornale e questo era il progetto al quale lavorai, d'accordo con El País, spagnolo, il Nouvel Observateur francese, l’Independent inglese e la Süddeutsche Zeitung, tedesca. Ci lavorammo per tre anni dal 1985 in poi. Eravamo ormai pronti alla pubblicazione quando scoppiò la cosiddetta guerra di Segrate tra il nostro gruppo e quello di Berlusconi e questo impedì di attuare la nostra iniziativa franco-europeista. Qualche anno prima era scoppiata in Italia la guerra con le Brigate Rosse che culminò col rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro. Bisogna aver conosciuto bene quella guerra per capire quanto sta accadendo in Europa e in Francia in particolare dopo l'ultimo attentato di qualche giorno fa.

Le Br erano nate per screditare l'establishment politico, giudiziario, bancario italiano, soprattutto della Dc e di un Partito comunista che si stava imborghesendo dopo la rottura con Mosca da parte di Berlinguer. I brigatisti erano dei giovani rivoluzionari che miravano a terrorizzare e anche uccidere uomini politici, giudici, professionisti, militari di alto grado, nei più vari modi: sulla porta di casa, invadendone gli uffici e in tanti altri modi. E combattevano anche nelle strade, nel triangolo tra Milano, Torino, Genova ed anche nel Veneto, in Emilia, in Romagna. Naturalmente erano sostenuti e in parte anche finanziati dai servizi di sicurezza sovietici e in contatto con gruppi simili a loro esistenti in alcuni altri Paesi europei in particolare nella Germania ovest. Ma il vero nucleo di comando era italiano con poche influenze esterne. Agiva seguendo una propria idea: riportare il comunismo ad essere se stesso e la classe operaia a insorgere contro i padroni. Quello era il progetto, che anticipò di molto il rapimento di Moro e proseguì anche dopo ma alla fine si spense.

Ricordando quei fatti e quegli anni ho la sensazione di quanto sta accadendo: i giovani agiscono con una propria visione. L'Isis si attribuisce quegli attentati ma in realtà le cellule periferiche agiscono per proprio conto, si alleano tra loro, vogliono cambiare il mondo ma non so fino a che punto siano mosse dalle religioni. È un fenomeno che l'Isis si attribuisce ma non è in grado di organizzare. Lo incoraggia ma non lo guida. Al Qaeda era diversa, c'era un capo vero, Bin Laden, i suoi luogotenenti e esecutori. Il nemico principale erano gli Stati Uniti. A quell'epoca del resto la società globale non esisteva. Al Qaeda e il suo capo volevano riformare la religione islamica. Bin Laden a volte appariva in televisione dopo avere prodotto nella villa-rifugio in cui viveva sui monti afgani una sorta di dvd che veniva inviato ad una televisione araba che poi lo diffondeva anche in America e in Europa. Lui vi appariva vestito in abito religioso, una sorta di profeta che interpretava il Maometto della guerra, profeta di un Allah che non era certo il Cristo dell'Amore pensato da Paolo e da Giovanni Evangelista secoli prima. Del resto anche il Dio di Mosè era un Dio guerresco e così pure Giuseppe e i suoi fratelli dovevano invocare un Dio della guerra che li liberasse dai loro nemici e dalla loro schiavitù. Anche Saul e Davide combattevano. Il Dio ebraico era tutt'altro che amoroso: era duro a volte con i nemici del suo popolo e altre volte con gli stessi suoi seguaci per mettere alla prova la loro fedeltà. Adamo fu questo più di tutti e con lui tutti i suoi discendenti tra i quali anche noi. Ho meditato di dover vivere su una terra che nulla ha a che fare col giardino terrestre dove Adamo ed Eva erano stati creati e da cui furono scacciati per avere ceduto al demonio.

Dicevamo dunque, per chiudere questa lunga analisi della guerra con le feroci periferie del mondo e con la rabbia che le anima, che il mondo è in guerra e che si tratta di un conflitto estremamente contagioso perché si estende all'intero pianeta, cambiando spesso natura e protagonisti. Che cosa ha a che fare la guerra di Siria con le religioni? E la diffusione dittatoriale nella Turchia di Erdogan? E il sentimento di voler vincere nelle imminenti elezioni francesi? Questi esempi potrebbero applicarsi al mondo intero dove prevalgono odio e rabbia anziché amore e misericordia. Per nostra fortuna c'è papa Francesco che non a caso ha scelto quel nome.

***

Abbiamo anche un'altra preoccupazione del tutto diversa e con un altro nome: si chiama Matteo Renzi. Forse vi stupirà che io lo consideri positivamente non tanto per l'Italia quanto per l'Europa se capirà che è la sorte del nostro continente il suo compito principale. A me sembra che ne sia consapevole e lo esorto ad esserlo fino in fondo, come credo sia già avvenuto, sempre che vinca le primarie del prossimo 30 aprile e sempre che le elezioni francesi vedano la sconfitta di Marine Le Pen e la vittoria di Emmanuel Macron. Solo in quel caso Matteo Renzi avrà modo di lavorare positivamente in Europa. L'obiettivo è una trasformazione da Confederazione di 27 Stati in una Federazione di tipo americano, con un presidente che abbia poteri di governo, controllati da un Parlamento bicamerale, con reciproco potere di veto per imporre la necessità di una soluzione concordata.

Il compito di Renzi è stato da lui stesso accennato ma, non appena il congresso del Pd si concluderà con la sua probabile riconferma a segretario del partito, lo dovrebbe portare ad assumere le seguenti posizioni:

1. Far terminare il governo Gentiloni soltanto alla fine della legislatura che avrà luogo nel 2018.

2. Partecipare ovviamente alle elezioni politiche alla testa del Pd ma lasciare ad un'altra personalità proveniente dal suo partito sempre che esso abbia la maggioranza necessaria per dar vita ad un suo governo da solo o con eventuali alleanze compatibili.

3. Proporre ai 27 Stati di promuovere l'elezione di un presidente dell'Europa con gli stessi poteri del presidente degli Stati Uniti d'America, sia per i 27 Paesi che fanno parte dell'Unione politica ed economica, sia per quelli tra i 27 che non hanno voluto avere la moneta comune che però, in uno Stato federale, sarebbero indotti ad accettarla come propria.

4. Dotare il nuovo Stato federale di una Costituzione che era già stata studiata e approvata parecchi anni fa da un'apposita Commissione presieduta da Giscard d'Estaing e da Giuliano Amato, ma poi battuta da un referendum indetto dalla Francia e dall'Olanda ed infine trasformata nel Trattato di Lisbona che non prevede tuttavia la Federazione ma soltanto alcuni diritti e doveri dei singoli cittadini europei, sempre che i suggerimenti siano approvati dai 27 Paesi dell'Unione e dal Parlamento europeo. Insomma un Trattato puramente consultivo e non deliberante. Tutto ciò va evidentemente superato da una vera e propria Costituente la cui esistenza dovrà ovviamente essere votata insieme alla elezione del presidente, dopodiché un'apposita Commissione dovrà lavorare alla Costituzione da preparare in tempi brevi. Così avvenne in Italia nelle elezioni del 1946 che proclamarono la Repubblica e composero la Costituente che si mise immediatamente al lavoro per produrre la Carta poi firmata e attuata nel 1947 dopo un anno e mezzo di lavoro. Non dimentichiamoci tuttavia che la Repubblica italiana era stata proclamata da pochissimo tempo ma lo Stato italiano, sia pure monarchico, esisteva da ottant'anni mentre l'Unione europea trasformata in una federazione esisterebbe solo in quel momento. Il lavoro di una nuova Costituzione richiederà dunque alcuni anni. Diciamone due che mi sembrano più che sufficienti e quindi dovrebbe entrare in funzione intorno al 2021 o al 2022 al massimo.

Tutto ciò avviene in un'epoca dove la società globale esiste pienamente e dove quelli che contano sono Stati tutti di dimensione continentale a cominciare dagli Stati Uniti d'America e poi Cina, India, Brasile, Sudafrica, Australia, Canada. Se l'Europa non arriverà in tempo utile a questo livello sarà una catastrofe per le nazioni che appartengono all'Unione conservando ed anzi probabilmente accentuando ciascuna il proprio sovranismo. Ecco dove le personalità dotate di intuito, fede nell'Europa unita e possibilmente un certo carisma sull'opinione pubblica dovrebbero unirsi e lavorare insieme ripartendosi le opportune competenze. In Italia queste persone sono almeno quattro: Renzi, Prodi, Veltroni, Draghi. Ma occorre che ve ne siano almeno altrettante in ciascuno dei 27 Paesi e soprattutto nei 19 che hanno già moneta comune. Purtroppo manca un personaggio come fu Carlo Azeglio Ciampi il quale, sia da governatore della Banca d'Italia per tredici anni, sia per le cariche politiche che poi ricoprì da quella di presidente del Consiglio a quella finale di presidente della Repubblica, ebbe sempre l'idea di un'Europa unita con un unico governo ed un unico presidente, conservando gli altri Paesi la propria autonomia amministrativa soggetta comunque al governo federale e al suo Parlamento.

Personalmente credo che il contributo maggiore a questa scelta debba venire dalla Germania. Con le prossime elezioni speriamo vinca Merkel e speriamo soprattutto che, una volta vittoriosa, si aggreghi all'idea di un'elezione del presidente europeo non con i compiti di quello attuale che è soltanto il portaparola dei 27 Stati nazionali, ma che sia il presidente di un unico Stato che comprende l'Europa intera. Se questo avverrà avremo salvato quella che è stata per cinque secoli a partire dal Rinascimento la casa madre dell'impero d'Occidente perché oggi in qualche modo tornerebbe ad esserlo. Ma se ciò non avvenisse almeno entro due o tre anni, le singole nazioni (l'ho già scritto infinite volte ma lo ripeto) saranno scialuppe affondabili in mari tempestosi. Dunque al lavoro cari amici e mettetecela tutta.

© Riproduzione riservata 23 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/23/news/quanto_vale_parigi_per_l_europa_e_i_compiti_di_renzi-163677593/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dalle elezioni all'Europa: cinque scelte che Renzi deve fare
Inserito da: Arlecchino - Aprile 30, 2017, 12:38:49 pm
Dalle elezioni all'Europa: cinque scelte che Renzi deve fare
Dovrà rinnovare la struttura del partito e occuparsi a fondo dell'Europa, ma non sono impegni che una sola persona può affrontare.
E realizzare tutto con il solito giglio magico è da escludere

Di EUGENIO SCALFARI
30 aprile 2017

"AL CENTRO delle dieci parole c'è quella di non uccidere. Questo è il comando del Dio unico che tutti noi dobbiamo venerare": così ha detto papa Francesco nella riunione religiosa che si è svolta venerdì al Cairo. Le religioni d'Oriente c'erano tutte, quella islamica, quella dell'ortodossia greca, quella cristiana-copta: i tre monoteismi rappresentati dai loro più alti dirigenti. Tutti hanno parlato, ma il Dio unico solo Francesco l'ha nuovamente ricordato. È molto singolare che il Creatore non solo del nostro pianeta ma dell'intero Universo sia unico, ma la molteplicità delle religioni fatica a concepire un'unica e comune divinità: è questa la forza rivoluzionaria di Francesco. Il Dio unico affratella le religioni, è l'elemento che trascende e al tempo stesso una sua scintilla, è dentro l'anima di tutti i viventi e di quelli umani in particolare. Una trascendenza immanente, che Francesco predica in tutte le circostanze. Sulla base di quella sua sconvolgente predicazione, rinnovata al Cairo, ho scritto qualche giorno fa che dovrebbe beatificare Pascal e Spinoza che tre secoli fa sostennero l'immanenza del Trascendente e per questo furono e tuttora sono scomunicati e ignorati. Queste due beatificazioni sarebbero il vero incontro con la modernità laica che Francesco persegue in nome di quanto fu precettato dal Vaticano II. Il cardinale Martini nell'ultimo colloquio che ebbi con lui pochi mesi prima della sua morte fu molto favorevole a quelle beatificazioni.

Papa Bergoglio ha sempre avuto molta amicizia e stima con Martini. Spero che quanto ho riferito su quelle beatificazioni da Martini ampiamente condivise persuada anche lui ad agire al più presto. Infine, nel suo discorso al Cairo, Francesco ha detto: "No all'odio ma pace con Dio". Questa è la più alta sconfessione del Califfato terrorista che stimola le più turpi violenze in nome di Allah. Lo trasforma e lo deturpa come un Dio proprio che ispira delitti, violenze e suicidi volontari. Di fronte a questo orrore l'Islam coranico dovrebbe reagire promuovendo una assemblea di tutte le rappresentanze mondiali di quella religione. Al Cairo questa netta condanna del Califfato c'è stata, ma non basta, ci vuole una riunione mondiale di una religione che conta più di un miliardo di fedeli. La condanna del Califfato terrorista dovrebbe provenire da quella riunione. È vero che le vere religioni non predicano l'odio ma il pentimento e il perdono, sempre che sia il Califfato a manifestare l'orrore verso se stesso e verso il male che ha diffuso in tutto il mondo.

Questo deve accadere e speriamo che accada se il Dio unico non si ritira dietro le nuvole come si disse abbia fatto ai tempi della shoah, come lo giustificarono i pontefici. È possibile pensare una cosa simile? Che il Creatore sia impotente nei casi estremi quando un gruppo di uomini sceglie consapevolmente la via del male? In realtà l'odio, la guerra, l'orrore, fanno parte della vita tutte le volte che l'uomo regredisce verso l'animalesco dal quale proviene. Temo che questo accada molto spesso. Non odio, ma lotta per far trionfare la pace, la fratellanza e l'amore verso il prossimo e verso la parte migliore di te stesso. Dobbiamo essere assai vigili affinché non si regredisca verso l'animalesco ma anzi che si avanzi verso il bene e l'amore. Verso il Dio Amore che Francesco sta predicando.

***

Oggi, domenica 30 aprile, chi vuole può votare alle "primarie" del Partito democratico per scegliere chi dev'essere il segretario del Pd. I candidati sono tre: Renzi, Orlando, Emiliano. Si prevede un milione di voti; e i tre candidati sperano in due o trecentomila in più. La cifra ottimale dovrebbe essere di due milioni, una sorta di entusiasmo che francamente non c'è.

Chi vincerà? Non c'è dubbio, vincerà Renzi che pensa d'incassare il 60 per cento dei voti. È probabile che sia così, anche se sarebbe meglio una sua vittoria un po' più modesta affinché non si monti la testa. Comunque il segretario sarà lui questo è certo.

A quel punto dovrà prendere alcune decisioni urgenti. Direi cinque: se vuole andare al voto al più presto oppure attendere che scada la legislatura, cioè nella primavera del 2018; se vuole riavere la carica di presidente del Consiglio oppure no; se accetterà una alleanza con tutta la sinistra dissidente, come propone Pisapia, l'ex sindaco di Milano; se vuole dedicare la massima attenzione al rafforzamento dell'Europa; infine come e quando pensare ad una nuova legge elettorale.

Ho avuto mercoledì una lunga conversazione telefonica con lui ed ho appreso che ha deciso di non andare al voto anticipato ma soltanto quando la legislatura sarà regolarmente terminata. Gentiloni ha dunque davanti a sé un intero anno di lavoro, ed è molto opportuno soprattutto per quanto riguarda l'economia, l'occupazione, l'assistenza sociale.

Quanto all'Europa, il rapporto di Renzi con quel tema sembra molto intenso ed anzi probabilmente il principale, ma proprio per questo deve tornare alla presidenza del Consiglio perché solo con quella carica può affrontare la sfida europea. Purtroppo ha ragione. Dico purtroppo perché governare l'Italia, rinnovare la struttura del partito e occuparsi a fondo dell'Europa non sono impegni che una sola persona può affrontare. Bisognerà dunque che abbia uno staff numeroso e competente. Fare tutto da solo o con il solito giglio magico è da escludere.

Per quanto riguarda le elezioni del 2018 (sperando che nel frattempo non cambi idea e non ritorni alle elezioni anticipate) si pone il problema delle alleanze e quindi anche quello della nuova legge elettorale sia alla Camera sia al Senato.

Pisapia ha lanciato il tema di ricostituire un'alleanza con tutta la sinistra dissidente. Una lista di coalizione con tutti i vari gruppi che sono in varie occasioni usciti dal Pd. Ognuno ha costituito una formazione propria spappolando in questo modo l'intera sinistra. Pisapia vuole anzitutto che i gruppi dissidenti costruiscano una formazione unica che proponga un'alleanza elettorale con il Pd renziano, concordando con Renzi i temi essenziali sui quali restare uniti in Parlamento ma conservando la propria autonomia e la propria libertà. Insomma mantenendo al tempo stesso alleanza e indipendenza. Questo è il progetto di Pisapia ma non sappiamo ancora se sarà approvato da tutta la dissidenza. Ma quanto a Renzi ha già risposto: Pisapia entri addirittura nel Pd e porti anche qualche suo amico fedele e adatto alla bisogna. Altre alleanze Renzi non intende fare. Il Pd secondo lui è un partito di sinistra moderna e non ha bisogno di alleanze che possono soltanto recare disturbo. Dunque una sinistra moderna ed europeista. Questo vuole Renzi. Ma che cos'è una sinistra moderna?

***

Una sinistra moderna in una Nazione, l'Italia, che fa parte di un'Europa confederata di 27 Paesi, 19 dei quali hanno scelto la moneta comune, deve avere una politica economica post-keynesiana. Cioè: deve accrescere la produttività delle imprese pubbliche e private, stimolando nuovi investimenti e nuova domanda. Gli investimenti debbono costruire nuovi processi produttivi, nuovi prodotti, nuovi traffici commerciali con l'estero, maggiore crescita del prodotto interno lordo (Pil).

Questa è la produttività. Gli attori finanziari e fiscali sono lo Stato e il Fisco da un lato, le banche dall'altro, tenendo naturalmente ben presenti le regole dell'Europa e della sua Commissione.

La crescita del Pil si fonda in parte sull'aumento della produttività, ma soprattutto sulla politica fiscale: sostenere il ceto medio-basso, stimolare l'aumento dei consumi, opere pubbliche numerose e diffuse specie nelle zone più povere del Paese.

La politica post-keynesiana significa indebitarsi per finanziare domanda e lavoro. A questo punto dobbiamo ricordare la politica espansiva della Bce e del suo presidente Mario Draghi. La sua politica monetaria sta dando un forte sostegno ai Paesi più deboli dell'Eurozona e l'Italia è uno di questi, forse il principale. Draghi ha acquistato e continua ad acquistare titoli di Stato sul mercato secondario, obbligazioni pubbliche o di aziende private, preferibilmente di medie dimensioni. La sua politica continuerà fino al 2018, contribuendo così ad un'uscita dalla depressione economica. In parte questa politica sta ottenendo risultati importanti: nelle ultime settimane l'Italia ha raggiunto un tasso d'inflazione di circa un punto e mezzo per cento; potrebbe ed anzi dovrebbe arrivare al 2 per cento e questo renderebbe più forte l'intervento delle banche sul finanziamento delle imprese. C'è anche una politica di tassi bancari stimolanti verso impieghi produttivi e c'è una Unione bancaria europea per smaltire le "sofferenze" bancarie.

La sinistra deve sostenere queste politiche ma occuparsi anche di altri temi sociali. Deve consentire sgravi fiscali alle fasce meno abbienti del reddito e caricare sui ceti più abbienti il peso fiscale derivante da questa politica sociale. Insomma diminuire le disuguaglianze. Il sistema più adatto da questo punto di vista è il cuneo fiscale. L'ho già suggerito molte volte e mi pare che da qualche settimana questa ipotesi sia stata presa in considerazione dal ministro delle Finanze Padoan. Bisognerebbe che il taglio del cuneo fiscale fosse di almeno 10 o meglio 15 punti. Andrebbe a carico dell'Inps che in casi estremi è finanziato dallo Stato, ma in buona parte dallo stesso Inps che ha una gestione complessivamente attiva del suo bilancio. Un taglio rilevante del cuneo è un tipico intervento di marca keynesiana: aiuta i lavoratori e soprattutto le imprese e questo è una finalità tipica di sinistra.

Ma il tema principale, proprio per la sinistra moderna, è l'Europa. È incredibile però quanto poco si interessino dell'Europa i dissidenti dal Pd. La loro attuale attenzione è interamente quella dei loro rapporti con Renzi. Nei loro dibattiti e proposte non c'è una sola parola che riguardi l'Europa: non c'è alcuna attenzione al ministro unico delle Finanze, alla politica delle immigrazioni, alla formazione di una Fbi europea e tanto meno sull'idea renziana di promuovere l'elezione di un Presidente europeo votato da tutti i cittadini del continente insieme ad una Costituente che prepari la struttura federale già indicata nel suddetto referendum. Se questa è la nostra sinistra dissidente si capisce il motivo per cui Renzi, che per fortuna questi temi li conosce e li sostiene, abbia rifiutato quell'alleanza. Una sinistra di quel genere si occupa soltanto di se stessa e quindi purtroppo risulta del tutto inutile.

© Riproduzione riservata 30 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/30/news/dalle_elezioni_all_europa_cinque_scelte_che_renzi_deve_fare-164243739/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2


Titolo: SCALFARI. Dalle elezioni all'Europa: cinque scelte che Renzi deve fare
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2017, 05:02:42 pm
Dalle elezioni all'Europa: cinque scelte che Renzi deve fare

Dovrà rinnovare la struttura del partito e occuparsi a fondo dell'Europa, ma non sono impegni che una sola persona può affrontare.
E realizzare tutto con il solito giglio magico è da escludere

Di EUGENIO SCALFARI
30 aprile 2017

"AL CENTRO delle dieci parole c'è quella di non uccidere. Questo è il comando del Dio unico che tutti noi dobbiamo venerare": così ha detto papa Francesco nella riunione religiosa che si è svolta venerdì al Cairo. Le religioni d'Oriente c'erano tutte, quella islamica, quella dell'ortodossia greca, quella cristiana-copta: i tre monoteismi rappresentati dai loro più alti dirigenti. Tutti hanno parlato, ma il Dio unico solo Francesco l'ha nuovamente ricordato. È molto singolare che il Creatore non solo del nostro pianeta ma dell'intero Universo sia unico, ma la molteplicità delle religioni fatica a concepire un'unica e comune divinità: è questa la forza rivoluzionaria di Francesco. Il Dio unico affratella le religioni, è l'elemento che trascende e al tempo stesso una sua scintilla, è dentro l'anima di tutti i viventi e di quelli umani in particolare. Una trascendenza immanente, che Francesco predica in tutte le circostanze. Sulla base di quella sua sconvolgente predicazione, rinnovata al Cairo, ho scritto qualche giorno fa che dovrebbe beatificare Pascal e Spinoza che tre secoli fa sostennero l'immanenza del Trascendente e per questo furono e tuttora sono scomunicati e ignorati. Queste due beatificazioni sarebbero il vero incontro con la modernità laica che Francesco persegue in nome di quanto fu precettato dal Vaticano II. Il cardinale Martini nell'ultimo colloquio che ebbi con lui pochi mesi prima della sua morte fu molto favorevole a quelle beatificazioni.

Papa Bergoglio ha sempre avuto molta amicizia e stima con Martini. Spero che quanto ho riferito su quelle beatificazioni da Martini ampiamente condivise persuada anche lui ad agire al più presto. Infine, nel suo discorso al Cairo, Francesco ha detto: "No all'odio ma pace con Dio". Questa è la più alta sconfessione del Califfato terrorista che stimola le più turpi violenze in nome di Allah. Lo trasforma e lo deturpa come un Dio proprio che ispira delitti, violenze e suicidi volontari. Di fronte a questo orrore l'Islam coranico dovrebbe reagire promuovendo una assemblea di tutte le rappresentanze mondiali di quella religione. Al Cairo questa netta condanna del Califfato c'è stata, ma non basta, ci vuole una riunione mondiale di una religione che conta più di un miliardo di fedeli. La condanna del Califfato terrorista dovrebbe provenire da quella riunione. È vero che le vere religioni non predicano l'odio ma il pentimento e il perdono, sempre che sia il Califfato a manifestare l'orrore verso se stesso e verso il male che ha diffuso in tutto il mondo.

Questo deve accadere e speriamo che accada se il Dio unico non si ritira dietro le nuvole come si disse abbia fatto ai tempi della shoah, come lo giustificarono i pontefici. È possibile pensare una cosa simile? Che il Creatore sia impotente nei casi estremi quando un gruppo di uomini sceglie consapevolmente la via del male? In realtà l'odio, la guerra, l'orrore, fanno parte della vita tutte le volte che l'uomo regredisce verso l'animalesco dal quale proviene. Temo che questo accada molto spesso. Non odio, ma lotta per far trionfare la pace, la fratellanza e l'amore verso il prossimo e verso la parte migliore di te stesso. Dobbiamo essere assai vigili affinché non si regredisca verso l'animalesco ma anzi che si avanzi verso il bene e l'amore. Verso il Dio Amore che Francesco sta predicando.

***

Oggi, domenica 30 aprile, chi vuole può votare alle "primarie" del Partito democratico per scegliere chi dev'essere il segretario del Pd. I candidati sono tre: Renzi, Orlando, Emiliano. Si prevede un milione di voti; e i tre candidati sperano in due o trecentomila in più. La cifra ottimale dovrebbe essere di due milioni, una sorta di entusiasmo che francamente non c'è.

Chi vincerà? Non c'è dubbio, vincerà Renzi che pensa d'incassare il 60 per cento dei voti. È probabile che sia così, anche se sarebbe meglio una sua vittoria un po' più modesta affinché non si monti la testa. Comunque il segretario sarà lui questo è certo.

A quel punto dovrà prendere alcune decisioni urgenti. Direi cinque: se vuole andare al voto al più presto oppure attendere che scada la legislatura, cioè nella primavera del 2018; se vuole riavere la carica di presidente del Consiglio oppure no; se accetterà una alleanza con tutta la sinistra dissidente, come propone Pisapia, l'ex sindaco di Milano; se vuole dedicare la massima attenzione al rafforzamento dell'Europa; infine come e quando pensare ad una nuova legge elettorale.

Ho avuto mercoledì una lunga conversazione telefonica con lui ed ho appreso che ha deciso di non andare al voto anticipato ma soltanto quando la legislatura sarà regolarmente terminata. Gentiloni ha dunque davanti a sé un intero anno di lavoro, ed è molto opportuno soprattutto per quanto riguarda l'economia, l'occupazione, l'assistenza sociale.

Quanto all'Europa, il rapporto di Renzi con quel tema sembra molto intenso ed anzi probabilmente il principale, ma proprio per questo deve tornare alla presidenza del Consiglio perché solo con quella carica può affrontare la sfida europea. Purtroppo ha ragione. Dico purtroppo perché governare l'Italia, rinnovare la struttura del partito e occuparsi a fondo dell'Europa non sono impegni che una sola persona può affrontare. Bisognerà dunque che abbia uno staff numeroso e competente. Fare tutto da solo o con il solito giglio magico è da escludere.

Per quanto riguarda le elezioni del 2018 (sperando che nel frattempo non cambi idea e non ritorni alle elezioni anticipate) si pone il problema delle alleanze e quindi anche quello della nuova legge elettorale sia alla Camera sia al Senato.

Pisapia ha lanciato il tema di ricostituire un'alleanza con tutta la sinistra dissidente. Una lista di coalizione con tutti i vari gruppi che sono in varie occasioni usciti dal Pd. Ognuno ha costituito una formazione propria spappolando in questo modo l'intera sinistra. Pisapia vuole anzitutto che i gruppi dissidenti costruiscano una formazione unica che proponga un'alleanza elettorale con il Pd renziano, concordando con Renzi i temi essenziali sui quali restare uniti in Parlamento ma conservando la propria autonomia e la propria libertà. Insomma mantenendo al tempo stesso alleanza e indipendenza. Questo è il progetto di Pisapia ma non sappiamo ancora se sarà approvato da tutta la dissidenza. Ma quanto a Renzi ha già risposto: Pisapia entri addirittura nel Pd e porti anche qualche suo amico fedele e adatto alla bisogna. Altre alleanze Renzi non intende fare. Il Pd secondo lui è un partito di sinistra moderna e non ha bisogno di alleanze che possono soltanto recare disturbo. Dunque una sinistra moderna ed europeista. Questo vuole Renzi. Ma che cos'è una sinistra moderna?

***

Una sinistra moderna in una Nazione, l'Italia, che fa parte di un'Europa confederata di 27 Paesi, 19 dei quali hanno scelto la moneta comune, deve avere una politica economica post-keynesiana. Cioè: deve accrescere la produttività delle imprese pubbliche e private, stimolando nuovi investimenti e nuova domanda. Gli investimenti debbono costruire nuovi processi produttivi, nuovi prodotti, nuovi traffici commerciali con l'estero, maggiore crescita del prodotto interno lordo (Pil).

Questa è la produttività. Gli attori finanziari e fiscali sono lo Stato e il Fisco da un lato, le banche dall'altro, tenendo naturalmente ben presenti le regole dell'Europa e della sua Commissione.

La crescita del Pil si fonda in parte sull'aumento della produttività, ma soprattutto sulla politica fiscale: sostenere il ceto medio-basso, stimolare l'aumento dei consumi, opere pubbliche numerose e diffuse specie nelle zone più povere del Paese.

La politica post-keynesiana significa indebitarsi per finanziare domanda e lavoro. A questo punto dobbiamo ricordare la politica espansiva della Bce e del suo presidente Mario Draghi. La sua politica monetaria sta dando un forte sostegno ai Paesi più deboli dell'Eurozona e l'Italia è uno di questi, forse il principale. Draghi ha acquistato e continua ad acquistare titoli di Stato sul mercato secondario, obbligazioni pubbliche o di aziende private, preferibilmente di medie dimensioni. La sua politica continuerà fino al 2018, contribuendo così ad un'uscita dalla depressione economica. In parte questa politica sta ottenendo risultati importanti: nelle ultime settimane l'Italia ha raggiunto un tasso d'inflazione di circa un punto e mezzo per cento; potrebbe ed anzi dovrebbe arrivare al 2 per cento e questo renderebbe più forte l'intervento delle banche sul finanziamento delle imprese. C'è anche una politica di tassi bancari stimolanti verso impieghi produttivi e c'è una Unione bancaria europea per smaltire le "sofferenze" bancarie.

La sinistra deve sostenere queste politiche ma occuparsi anche di altri temi sociali. Deve consentire sgravi fiscali alle fasce meno abbienti del reddito e caricare sui ceti più abbienti il peso fiscale derivante da questa politica sociale. Insomma diminuire le disuguaglianze. Il sistema più adatto da questo punto di vista è il cuneo fiscale. L'ho già suggerito molte volte e mi pare che da qualche settimana questa ipotesi sia stata presa in considerazione dal ministro delle Finanze Padoan. Bisognerebbe che il taglio del cuneo fiscale fosse di almeno 10 o meglio 15 punti. Andrebbe a carico dell'Inps che in casi estremi è finanziato dallo Stato, ma in buona parte dallo stesso Inps che ha una gestione complessivamente attiva del suo bilancio. Un taglio rilevante del cuneo è un tipico intervento di marca keynesiana: aiuta i lavoratori e soprattutto le imprese e questo è una finalità tipica di sinistra.

Ma il tema principale, proprio per la sinistra moderna, è l'Europa. È incredibile però quanto poco si interessino dell'Europa i dissidenti dal Pd. La loro attuale attenzione è interamente quella dei loro rapporti con Renzi. Nei loro dibattiti e proposte non c'è una sola parola che riguardi l'Europa: non c'è alcuna attenzione al ministro unico delle Finanze, alla politica delle immigrazioni, alla formazione di una Fbi europea e tanto meno sull'idea renziana di promuovere l'elezione di un Presidente europeo votato da tutti i cittadini del continente insieme ad una Costituente che prepari la struttura federale già indicata nel suddetto referendum. Se questa è la nostra sinistra dissidente si capisce il motivo per cui Renzi, che per fortuna questi temi li conosce e li sostiene, abbia rifiutato quell'alleanza. Una sinistra di quel genere si occupa soltanto di se stessa e quindi purtroppo risulta del tutto inutile.

© Riproduzione riservata 30 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/04/30/news/dalle_elezioni_all_europa_cinque_scelte_che_renzi_deve_fare-164243739/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il futuro della sinistra e perché Renzi non vuole le elezioni
Inserito da: Arlecchino - Maggio 08, 2017, 08:50:05 pm
Il futuro della sinistra e perché Renzi non vuole le elezioni
Il segretario del Pd potrebbe rilanciare la proposta di un presidente europeo eletto dai cittadini, un’idea condivisa anche da Tusk

Di EUGENIO SCALFARI
07 maggio 2017

HO PENSATO e scritto più volte che è necessario sapere in che cosa consiste una sinistra moderna e perfino una sinistra rivoluzionaria. Credo di averlo finalmente capito e comincio questo articolo chiarendo questo punto fondamentale.

«Dobbiamo anzitutto ricordare che nessuno di noi è un’isola, un Io autonomo e indipendente dagli altri e che possiamo costruire il futuro solo insieme senza escludere nessuno. Anche le scienze ci indicano oggi una comprensione della realtà dove ogni cosa esiste in collegamento, in interazione continua con le altre. Basta un solo uomo perché ci sia speranza e quell’uomo puoi essere tu. Poi c’è un altro “tu” e ancora un altro “tu” ed allora diventiamo “noi”. Quando c’è il “noi” allora comincia la rivoluzione.

Che cos’è la rivoluzione? È un movimento che parte dal cuore per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro, il grido silenzioso della nostra casa comune, della Terra contaminata e malata. È in chi ha bisogno dell’altro. Quanto più sei potente, quanto più le tue azioni hanno un impatto sulla gente, tanto più sei chiamato ad essere umile perché altrimenti il potere ti rovina. Il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei politici, dei grandi leader e delle grandi aziende. La loro responsabilità è enorme ma il futuro è soprattutto nelle mani delle persone che riconoscono l’altro come un “tu” e se stesso come parte di un “noi”. Anche i bisogni ma degli altri ed è questa la rivoluzione».

Secondo me così si configura la sinistra moderna ed è opportuno chiarire che le parole sopra trascritte le ha dette papa Francesco il 26 aprile scorso parlando alle tre del mattino in un videomessaggio all’incontro internazionale intitolato Il futuro sei tu, a Vancouver. Non si poteva dir meglio sia ai poveri derelitti sia ai potenti, ai ricchi e ai leader politici.
***
Di leader politici ce ne sono pochi, anzi ce n’è uno soltanto ed è Matteo Renzi. Può piacere o non piacere, ma questo aspetto sentimentale dice poco. Per giudicarlo occorre valutare che cosa sta facendo e che cosa si propone per il futuro, per se stesso e per il Partito di cui è tornato ad essere il segretario dopo le “primarie” del 30 aprile. Anzitutto per quanto riguarda le prossime elezioni politiche, la natura del partito che di nuovo dirige, il governo sostenuto dal suo partito, il rapporto con l’Europa.

Una cosa sembra certa: non ha alcuna intenzione di andare al voto anticipato. Molti osservatori si dicono certi che voglia andare al voto ad ottobre se non addirittura prima. Sbagliano. Sarebbe un macroscopico errore se lo facesse: dovrebbe mettere in crisi il governo Gentiloni che è fin dall’inizio sostenuto e addirittura formato dal Pd e si scontrerebbe anche con il presidente Mattarella. Perché? Le elezioni saranno in ogni caso difficili, ma se venissero anticipate il Pd andrebbe sicuramente incontro ad una sconfitta.

Renzi ha molti difetti, ma non è uno sciocco e quindi il voto anticipato non ci sarà fino a quando la legislatura non sarà legalmente terminata e le Camere legalmente sciolte da Mattarella, come la Costituzione prevede. Quindi si voterà tra aprile e maggio del 2018. A quel punto Renzi con il partito da lui guidato affronteranno le urne.

In questo momento i sondaggi registrano un fatto nuovo: i democratici hanno superato i Cinquestelle. Le cifre oscillano tra un minimo dello 0,2 punti al 2 per cento, un minimo e un massimo ma comunque un sorpasso del Pd verso Grillo. Scegliamo una cifra media: un sorpasso dell’1 per cento. Così si registra oggi. Nei prossimi mesi tutto può cambiare ma non dipende soltanto da noi ma anche da ciò che accadrà in Europa e specialmente in Francia e in Germania. Questa sera sapremo se in Francia avrà vinto Macron. È molto probabile che sarà così. In questo caso Macron avrà tutto l’interesse di far blocco con l’Italia e quindi con Renzi. Ripercussioni negative ci saranno su Salvini se Le Pen sarà sconfitta e se si dimetterà come è molto probabile. In tal caso la Lega perderà molti voti e soprattutto terminerà definitivamente la sua eventuale alleanza con Berlusconi. Il Cavaliere ha già altri progetti in testa, ma l’esito delle elezioni francesi li confermeranno.

Quanto all’Europa, sia la Francia sia l’Italia punteranno al cambiamento della politica economica europea dal rigore tedesco alla crescita. Questo è anche il parere di Draghi che punta sull’aumento della produttività ed anche sul rilancio degli investimenti e della domanda.

È difficile prevedere la politica di Merkel, ma si profila un cambiamento nella politica tedesca: i socialisti guidati da Schulz si sono abbastanza rafforzati ma non al punto di prendere il posto di Merkel. Con tutta probabilità si formerà di nuovo la grande coalizione tra Cdu e socialisti, i quali tuttavia faranno sostituire alla politica economica del rigore quella della crescita. Questo punto è fondamentale; tra l’altro muteranno anche i sondaggi elettorali sia di Macron sia di Renzi e altrettanto ma nel senso contrario quelli che riguardano la Lega. Insomma c’è in prospettiva un forte cambiamento politico per il quale pagheranno il costo i Cinquestelle e la Lega.

Infine una legge elettorale che preveda un ballottaggio di collegi uninominali non farebbe che aumentare la tendenza verso un’affluenza maggiore e un ulteriore decadimento del grillismo. Per tutte queste ragioni Renzi non ha alcun interesse ad un voto anticipato perché, da quel che si vede, il tempo lavora per lui.

C’è infine un’ultima ragione. Il presidente europeo Tusk, per ora nominato dal Parlamento su proposta dei ventisette Paesi membri dell’Unione, ha improvvisamente lanciato l’idea di un Presidente eletto dal popolo europeo con funzioni di carattere federale. Lui scade tra un anno, la sua proposta quindi non è di carattere personale ma strettamente europeista. Una proposta analoga l’ha anche suggerita Renzi qualche settimana fa, ma dopo l’iniziativa di Tusk è probabile che Renzi la rilanci ancora. Sarebbe il segno tangibile di una politica che riprende il Manifesto di Ventotene e darebbe immediatamente il senso europeista dell’Italia renziana.

Spero presto in questa probabile novità. Se si verificherà avremo conseguenze positive per il nostro Paese.

Gentiloni sta lavorando molto bene sui temi del lavoro, della cosiddetta manovrina per prepararsi alla legge di stabilità dell’anno in corso e sulla politica estera, a cominciare dall’incontro internazionale che avverrà a Taormina con la partecipazione di Donald Trump. Avrà ancora un anno di lavoro il governo Gentiloni e quindi tutto il tempo per migliorare la situazione interna del Paese.

Ma intanto sta cambiando anche il Pd nella sua interna struttura. Stanno aprendo a nuove collaborazioni e a nuovi apparati, a cominciare da una presenza attiva come vicesegretario del partito di Martina e al coinvolgimento operativo dei due candidati alle primarie.

Qualcuno ha proposto un colpo di scena: alla presidenza del Pd Walter Veltroni. Non so se accetterebbe ma comunque sarebbe un’ottima mossa se Renzi gliela offrisse. Un Pisapia nel governo, per esempio al posto di Martina o in un’altra posizione proposta da Gentiloni. Andrebbe benissimo un Pisapia ministro, la proposta dell’ex sindaco di Milano di un’alleanza tra la sinistra dei dissidenti e il Pd sembra del tutto naufragata e Pisapia dovrebbe trarne le debite conseguenze.

Qualcuno dei miei lettori ha la sensazione
che io sia diventato renziano. È possibile, il tempo corre e cambia i pensieri e soprattutto la natura dei fatti.

Posso rispondere con una battuta: se fosse Renzi a pensare come me? Una battuta o un’ipotesi? Si vedrà dai fatti, che sono la vera realtà.

© Riproduzione riservata 07 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/07/news/il_futuro_della_sinistra_e_perche_renzi_non_vuole_le_elezioni-164813180/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Qualche idea per Renzi da mettere nell'Europa di Macron
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2017, 06:12:28 pm
Qualche idea per Renzi da mettere nell'Europa di Macron

Di EUGENIO SCALFARI
21 maggio 2017

NEL nostro mondo attuale ci sono due centri operativi che poco hanno a che fare col passato prossimo. Forse qualche rapporto con quello remoto, ma questo tuttalpiù è storia, non analisi politica.

Di questi due centri uno è negativo e fa capo a Donald Trump; riguarda il mondo intero perché Trump è il presidente degli Stati Uniti d’America che sono ancora il più grande impero politico e militare dell’intero pianeta, anche dal punto di vista dell’economia con il dollaro che consente e facilita gli scambi mondiali.

L’altro centro, questo positivo, ci conduce ad Emmanuel Macron, presidente della Francia da pochi giorni ma già operativo con stupefacente velocità e con conseguenze largamente positive per la Francia ma anche in generale per l’Europa.

Noi italiani registriamo gli effetti negativi del primo e quelli positivi del secondo e cerchiamo (dovremmo cercare) di limitare le conseguenze negative di Trump e di utilizzare quelle positive di Macron.

Paolo Gentiloni, capo del governo in carica, oltre ad essere preso dai problemi interni riguardanti il lavoro, i ceti più poveri e derelitti, le zone economiche devastate dai terremoti, il Mezzogiorno, i populismi di vario genere, si occupa anche di conoscere e farsi conoscere dai vari capi di governo in Europa e nel mondo, ha già incontrato Merkel, Macron, Trump, Putin, i capi delle istituzioni europee, il rais egiziano, la leader dell’Inghilterra, i leader cinesi e insomma mezzo mondo.

Occorre ricordare che Gentiloni ha dimostrato di essere un lavoratore indefesso. Il suo governo da questo punto di vista è uno dei migliori che l’Italia abbia avuto dopo quello di Prodi del 1996. Purtroppo l’Italia che Gentiloni sta governando da pochi mesi è ancora pervasa dalle conseguenze della lunga crisi economica iniziata nel 2006 e tuttora in corso visto che si è trattato d’un disastro economico altrettanto grave come quello americano e poi europeo entrato ormai nella storia e iniziato nel 1929. Non bastano certo pochi mesi per uscire da quella situazione anche se alcuni rimedi e riforme furono effettuati dai governi di Monti, di Enrico Letta e poi da Renzi prima della sconfitta referendaria del 4 dicembre dell’anno scorso. Gentiloni potrà fare molto di più se gli verrà assicurata, come si spera, la continuità del suo operato fino alla fine della legislatura nel 2018.

Non dimentichiamo che uno dei punti della massima importanza che il governo italiano dovrà risolvere al più presto riguarda il contenimento dell’immigrazione. A questo proposito ci risulta che ci siano stati effetti positivi nell’incontro tra Gentiloni e Trump per quanto riguarda l’eventuale dislocazione di un contingente militare italiano nei Paesi del Centro Africa da dove proviene gran parte dell’immigrazione. Naturalmente Trump si guarda bene da assumere impegni di tipo militare che non sarebbero comunque consoni alla posizione americana verso l’Africa, ma sembra abbia prospettato la possibilità di aiutare lo sforzo italo-europeo con investimenti che finanzino almeno in parte quell’operazione.

E veniamo all’Europa dopo la vittoria di Macron.
***
Il primo effetto, che oltre alla Francia riguarda anche noi, è stata la secca sconfitta di Le Pen; una sconfitta bruciante che equivale ad un 3 a 0 di un confronto calcistico. Lei aveva detto che in questo caso avrebbe abbandonato la politica lasciando il suo partito nelle mani di sua nipote. Come si vede si tratta di un partito di tipo monarchico dove le successioni vengono stabilite attraverso le parentele, ma la nipote non ha accettato ed è lei che se n’è andata a fare la bella vita al di fuori della politica. Le Pen non pare che ne sia stata particolarmente addolorata, anzi vuole riprendere il suo lavoro politico e cambiare profondamente il partito che è stato sconfitto. Quale tipo di cambiamento voglia fare è assolutamente ignoto e praticamente difficile da prevedere. Ce lo diranno i fatti.

Nel frattempo Macron ha nominato il primo ministro del suo governo nella persona di Philippe che proviene dalla destra francese. La scelta degli altri ministri, avvenuta d’accordo con Philippe, ha seguito alcune linee molto chiare. I problemi dell’economia sono stati affidati a ministri esperti di quelle materie o addirittura operativi in privato e quindi provenienti da fondi di investimento, banche, imprese industriali e capacità finanziarie.
Affidata l’economia francese alla destra liberal- liberista, Macron ha affrontato il problema dei poveri e degli esclusi ed anche lì ha fatto delle ragionevoli scelte utilizzando la cultura social-riformista di persone esperte di questa materia e della cultura sociale che l’accompagna, e quindi educatori, insegnanti delle Scuole dello Stato e insegnanti di varie e prestigiose università. Poi c’erano da designare i candidati del movimento di Macron per le future elezioni parlamentari ed anche lì si è fatta varia cernita delle provenienze politiche, ideologiche, culturali dei vari prescelti. Macron si augura di ottenere un’ampia maggioranza e probabilmente sarà così.

Nel frattempo però, oltre che a mettere in moto problemi che riguardano la governance macroniana, il nuovo personaggio europeo doveva occuparsi immediatamente di ricostruire quello che è stato per molti anni il motore dell’Unione: il tacito ma ben noto accordo franco-tedesco che di fatto guida la politica europea per quel tanto che essa è concentrata nelle istituzioni dell’Unione ed anche ben presente nelle aule parlamentari. Merkel ha accolto la visita di Macron e la ricostruzione del tandem tra le due nazioni più importanti del nostro continente, per la storia e per l’attuale potere di ciascuna delle due. Naturalmente quello della Germania è, almeno dal punto di vista economico, ben più elevato di quello della Francia, ma in ogni caso una Germania isolata non può far molto e quindi il tandem è stato ricostituito immediatamente e ne sentiremo le ripercussioni al più presto. Non possono che essere positive per Paesi come l’Italia perché, a parte l’europeismo sperabilmente sincero ed intenso di Macron, la Francia chiede ed anzi finirà con l’imporre la politica di crescita economica. Del resto Merkel è disposta a consentire la crescita, ne ha parlato varie volte anche col suo ministro delle Finanze il quale mette qualche limite ma non si oppone purché sia una crescita ben diretta e in proporzioni accettabili, ferme restando comunque le regole della Commissione di Bruxelles.

Naturalmente il motore franco-tedesco serve ma ha poco a che vedere con un europeismo che voglia arrivare in un tempo relativamente breve al rafforzamento dell’Unione europea, ad una diminuzione graduale del sovranismo dei 27 Paesi ed alla formazione di istituzioni che puntano agli Stati uniti d’Europa. La prima riguarda la politica dell’immigrazione, la seconda l’istituzione di un unico ministro delle Finanze dell’eurozona di cui si parla da tempo e sembra essere stato finalmente accettato ma le cui pratiche fondative non sono ancora pronte; la terza è la fondazione di una Fbi e di un ministro dell’Interno europeo che coordini tutto ciò che riguarda problemi dell’ordine pubblico connessi ancora una volta con le periferie dei singoli Stati e il trattamento delle accoglienze ai rifugiati.

Infine c’è un tema che Renzi a suo tempo sollevò e che dovrebbe riprendere proprio adesso dopo la vittoria di Macron. È l’idea di un referendum popolare di tutti i cittadini europei indipendentemente dalle nazioni cui appartengono per la scelta di un Presidente che non sia un semplice portavoce dei 27 Stati confederati. La sua elezione dovrebbe essere accompagnata da quella di un gruppo di una settantina di membri di una costituente che abbia il compito di presentare entro un paio d’anni una nuova Costituzione che diventi la fondazione ufficiale dello Stato Europa.

Personalmente non so se questa idea piacerà a Macron ma Renzi l’ha lanciata, se ne faccia dunque non voglio dire un’arma ma uno strumento che lo distingua e dia all’Italia una funzione conducente che può provocare dissensi ma certamente va nella strada dell’europeismo di cui Macron ha fatto la sua bandiera e che non può certo rifiutarsi di esaminare positivamente.

Di questioni in ballo, come si vede, ce ne sono già molte e per quanto ci riguarda le abbiamo più volte indicate. Ora, dopo la vittoria di Macron, tutte hanno acquistato una attualità che in qualche modo si era perduta. Per quanto riguarda l’Italia ed anche l’Europa abbiamo due nomi che possono contare molto in questa dinamica europeista. Non parliamo di Gentiloni perché di lui abbiamo già detto e riconfermiamo che il suo buon governo deve poter durare per tutta la legislatura affinché abbia il tempo di fare quel che può e deve fare. Gli altri nomi sono Renzi e Draghi. Secondo me il secondo è ancora più importante del primo, sebbene lavori in un ambito molto specifico anche se fondamentale per quanto riguarda l’economia, anzi la politica economica e monetaria di tutta l’Europa che ha adottato la moneta unica. La prima questione che dobbiamo tener ben presente è che un’Europa federale, quando si realizzerà e nella speranza che prima o poi questo avvenga, non può che avere un’unica moneta. Attualmente 19 sono i Paesi dell’euro e 8 sono i Paesi che hanno la propria moneta. È evidente che in uno Stato federale non esiste altro che una moneta e perciò gli 8 se vogliono restare nell’Unione debbono accettare l’euro altrimenti resteranno fuori anche se legati all’Unione da patti di libero scambio e di unità bancaria e potranno, se vorranno, optare anche in un secondo tempo per la moneta dell’euro. Questo tema dobbiamo però averlo ben presente perché sarebbe assurdo pensare che la Virginia ha una moneta, la California un’altra e la Florida un’altra ancora e così via, tante monete diverse in uno Stato come quello americano? È evidente. Su questo bisogna lavorare e Draghi lo sa molto bene. Infatti ormai parla quasi sempre in chiave europeista. C’è solo un punto che ci permettiamo di raccomandargli: la sua politica monetaria espansiva terminerà con tutta probabilità l’anno venturo ma per quanto riguarda l’Italia gli suggeriamo molta attenzione: la diminuzione del sostegno monetario la faccia anche per noi naturalmente ma con la necessaria gradualità perché l’Italia è ancora economicamente molto fragile e sarà bene tenerne conto gradualizzando quel minore sostegno monetario che è nell’ordine dei fatti.

Infine ancora una parola per quanto riguarda Renzi e la legge elettorale. Tutti i progetti fin qui apparsi dalle varie forze politiche, Partito democratico compreso, mi sembrano incongruenti e comunque su quella base non si arriverà a nessun accordo. Ho più volte ricordato quale fu la storia elettorale della Democrazia cristiana. Durò quarant’anni e fu basata esclusivamente sulla proporzionale ma anche sulle alleanze, queste alleanze spesso venivano effettuate con la presentazione di liste di coalizione specie quando i partiti con i quali si alleava erano abbastanza forti da non aver bisogno di liste comuni.

La situazione attuale italiana è tripolare: una destra, un centrosinistra e il Movimento 5 Stelle che non può allearsi con nessuno, in parte perché non lo vuole ma soprattutto perché se si alleasse il primo risultato sarebbe quello di sfasciarsi. Per gli altri due però non vale questo problema e quindi Berlusconi ha come alleati naturali Salvini e Meloni e Renzi ha come alleati naturali la sinistra democratica che è uscita dal partito e si raccoglie, almeno in parte, attorno a Pisapia. Un’alleanza con Pisapia sarebbe estremamente opportuna ma non l’inclusione in un’unica lista bensì la coalizione tra le due liste che incoraggerebbe di molto una sinistra popolare che ancora vive nell’astensione e nell’incertezza. Avrebbe probabilmente un risultato molto importante. Così pure lo avrebbe (e sarebbe perfettamente compatibile con l’alleanza a sinistra) un’alleanza al centro con un movimento come quello di Parisi, un partito come quello di Alfano, e molti altri centristi che stanno sia alla Camera che in Senato. Dopo di che un impianto del genere consente un proporzionale senza sbavature e una probabilità notevole di vittoria per quanto riguarda il Pd visto che Grillo non può allearsi con nessuno e Berlusconi dovrebbe digerire un osso duro come quello di Salvini che, specie dopo la disfatta di Le Pen, finisce a ridosso di Putin. Vi sembra possibile un Berlusconi alleato con l’alleato di Putin? Sarebbe lo sfascio di Forza Italia.

Renzi si dia dunque da fare, di lavoro ne ha un bel po’ e speriamo che ci metta la forza e l’entusiasmo necessari. Nel mio precedente intervento la settimana scorsa gli avevo anche indicato alcuni “cavalli di razza” che avrebbero dato al partito una visibilità culturale di primissimo ordine. Avevo fatto anche alcuni nomi e non desidero ripeterli
ma Renzi sa benissimo quali sono. Se riesce a non cedere al suo caratteraccio di capobastone, tenga conto che quei nomi avrebbero un effetto estremamente interessante sulla pubblica opinione ancora in gran parte indecisa tra il voto e l’astensione. E buona fatica per chi se la merita.

© Riproduzione riservata 21 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/21/news/qualche_idea_per_renzi_da_mettere_nell_europa_di_macron-165975770/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il commissario Calabresi e quella firma del 1971
Inserito da: Arlecchino - Maggio 21, 2017, 06:14:14 pm
Il commissario Calabresi e quella firma del 1971
Era un periodo molto agitato della vita italiana, politica, economica e sociale: l’inizio di queste tristi e lunghe vicende cominciò con la strage di piazza Fontana a Milano

Di EUGENIO SCALFARI
20 maggio 2017

AGLI attacchi che da qualche tempo si moltiplicano nei miei confronti da parte di Vittorio Feltri sul suo giornale che si chiama " Libero" non ho mai risposto. Si tratta di puro teppismo giornalistico che non merita né querele per diffamazione né calunnie; forse ci sarebbero gli estremi ma è tempo perso per la magistratura e per l'offeso di rivalersi contro questo ciarpame. Nessuna somiglianza con il "Foglio" di Claudio Cerasa: sarebbe come mettere sullo stesso piano un buon giornalismo polemico con il teppismo e quindi due cose del tutto differenti.

Ieri però mi ha chiamato in causa, a due giorni dal 45esimo anniversario della morte del commissario Calabresi, ricordando il manifesto pubblicato dall'Espresso nel 1971. Nel caso in questione sento il dovere di ricordare il tema e di aggiungere qualcosa che fino ad oggi era rimasto un fatto privato, non per rispondere a lui ma per chiarire una vicenda che coinvolse in qualche modo l'Italia democratica (e anche quella antidemocratica).

Era un periodo molto agitato della vita italiana. Quella politica, quella economica, quella sociale. Eravamo nella seconda metà degli anni Sessanta e quell'agitazione, cambiando spesso segno e misura, durò fino alla metà degli anni Ottanta, culminando con il rapimento e poi l'uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978.

L'inizio di queste tristi e lunghe vicende cominciò con la strage di piazza Fontana a Milano, quando una bomba piazzata all'interno della Banca dell'Agricoltura uccise 17 persone e provocò il ferimento di molte decine di impiegati e di clienti. Era il 12 dicembre del 1969. La magistratura aprì immediatamente un'inchiesta e un'analoga indagine fu portata avanti dalla polizia. Tra gli investigatori c'era il commissario Luigi Calabresi, noto per la sua efficienza nel mantenimento dell'ordine pubblico e per la sua attenzione a non turbare ed anzi possibilmente a tranquillizzare i vari ceti che operavano nella città: il proletariato delle fabbriche, la borghesia delle professioni, degli affari, delle banche, e infine l'immigrazione dalle campagne meridionali che in quegli anni ancora continuava creando frizioni evidenti. Calabresi era molto attento a gestire un ordine pubblico che fosse in qualche modo al servizio dei vari ceti, distribuiti anche territorialmente in zone diverse. Quando si aprì il problema della strage in piazza Fontana Calabresi tentò in tutti i modi e avvalendosi anche dei vari "confidenti" della polizia di trovare una traccia criminale, gli autori di quell'accaduto che non aveva precedenti. Questa indagine dette pochissimi frutti, anzi quasi nessuno, tant'è che polizia e magistratura si orientarono in un certo senso ideologicamente: da un lato aprirono indagini verso gruppi ben noti di neofascisti, ma dall'altro puntarono sugli anarchici di cui c'era abbondanza anche perché si distinguevano nettamente in due parti non contrapposte ma profondamente diverse: una che non disdegnava di praticare violenza e l'altra che si limitava a predicare le tesi politiche dell'anarchia.

Tuttavia la parte violenta degli anarchici non aveva mai infierito contro la popolazione anonima, com'era accaduto alla Banca dell'Agricoltura. I suoi obiettivi semmai erano persone molto potenti. Così agivano certi anarchici non solo in Italia ma anche in Europa e in altri paesi: il regicidio. E così era stato ucciso Umberto I re d'Italia e qualche anno dopo a Sarajevo uno dei nipoti dell'imperatore d'Austria scatenando in quel caso addirittura la prima guerra mondiale 1914-18.

Niente di simile a piazza Fontana. Lì si era colpita proprio la popolazione civile il che dimostrava un puro desiderio di spargere sangue per aumentare la tensione sociale.

Furono arrestati parecchi anarchici tra i quali un ferroviere che si chiamava Giuseppe Pinelli. Lui la violenza non l'aveva mai praticata ed anzi l'aveva esclusa dalle sue idee. Predicava l'anarchia e la predicava con grande efficacia tanto che era diventato uno dei dirigenti o per lo meno una personalità a cui tutti gli altri guardavano, anche molti che anarchici non erano ma facevano parte di schieramenti politici di sinistra. L'arresto era comprensibile ma non dette alcun risultato, anzi ne dette uno sommamente tragico per le persone coinvolte a cominciare dallo stesso Pinelli. Era stato fermato e trattenuto per tre giorni nella Questura che aveva la sua sede in via Fatebenefratelli. L'interrogatorio al quale era presente anche Calabresi fu molto duro anche se nelle testimonianze emerse che il commissario non praticò mai la violenza. Non si arrivava però ad alcun risultato perché Pinelli negava di aver commesso o organizzato o comunque simpatizzato verso le bombe di piazza Fontana; al contrario condannava quel tipo di azione che aveva privato della vita molte persone, appunto impiegati o clienti, di cui si ignoravano le idee politiche e persino lo stato sociale. L'interrogatorio comunque continuava perché in questi casi uno degli elementi che può cogliere qualche notizia dall'interrogato si sposa con la stanchezza e mentre i poliziotti si avvicendavano ed erano quindi freschi e riposati Pinelli era ormai straziato da ore e ore di interrogatorio.

Ad un certo punto Calabresi fu chiamato dal Questore il quale aveva urgente bisogno di parlargli e lo aspettava nel suo studio. Il commissario andò nella stanza del Questore mentre l'interrogatorio continuò senza di lui. Ad un certo punto Pinelli cadde dalla finestra della stanza situata al quarto piano e morì prima di arrivare in ospedale. La Polizia parlò di suicidio, la piazza di omicidio, la magistratura stabilì che era caduto per un malore. Naturalmente l'effetto sulla cittadinanza di quanto era accaduto fu enorme e ancora più enorme fu quello esercitato sulla politica e in particolare su quella di sinistra: i comunisti, i socialisti, il partito d'azione, i repubblicani, insomma la sinistra e il centro sinistra. Venne l'idea di fare una grande manifestazione popolare per le strade della città, ma le strade erano state ovviamente tutte bloccate e impedite dalla polizia e quindi una manifestazione del genere era improponibile. Si passò allora all'idea di stilare un documento di denuncia e di farlo circolare su tutti i giornali e le agenzie di informazione. Più avanti, era ormai il 1971 e si stava tenendo il processo per la morte di Pinelli, fu stilato un testo, fu discusso da un gruppo del quale anch'io facevo parte (ero deputato alla Camera dal 1968 e lo rimasi fino al '72) e nel finale di quel documento c'era scritto che in attesa della fine del lavoro della magistratura, il primo atto di riparazione morale avrebbe dovuto essere l'allontanamento del commissario Calabresi dalla sua sede di lavoro. Non ricordo più tutte le firme ma ricordo che erano alcune centinaia di persone tra le quali Rossana Rossanda, Umberto Eco, e gli esponenti intellettuali di tutti quei settori che ho sopra ricordato.

Passarono alcune settimane. Calabresi non fu trasferito né lo voleva e cominciò una campagna sempre più violenta contro di lui, che culminò con il suo omicidio. In quel periodo cercai un colloquio con Calabresi, ma non riuscii a parlargli. Era stremato dalla situazione e non sovrapponeva al suo lavoro altri incontri inutili. Cercandolo ebbi modo di parlare brevemente con la moglie, molto più giovane di lui, la signora Gemma, la quale mi colpì per la sua gentilezza. Il commissario fu ucciso l'anno dopo, il 17 maggio del 1972, a soli 35 anni.

Ma la storia non finisce qui. Esattamente dieci anni fa, era il 16 maggio del 2007, ho rivisto la signora Gemma. L'allora sindaco di Roma Walter Veltroni aveva deciso di intitolare una via all'interno di Villa Torlonia a Luigi Calabresi. Decisi di partecipare e solo quando la cerimonia si fu conclusa la avvicinai, le chiesi se potevo abbracciarla e lei accettò, poi le dissi che ero andato lì per fare pace con la storia. Allora parlammo brevemente dei fatti del passato, del manifesto e delle firme, le dissi che quella firma era stata un errore. Lei accettò le mie scuse e si commosse.

Per il resto parlammo del lavoro del figlio Mario che allora era corrispondente di Repubblica da New York e che ora, da oltre un anno, dirige questo giornale.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/20/news/il_commissario_calabresi_e_quella_firma_del_1971-165894165/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: SCALFARI. Legge elettorale, la riforma che mette la camicia di forza al Senato
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2017, 11:59:48 am
Legge elettorale, la riforma che mette la camicia di forza al Senato

Di EUGENIO SCALFARI
04 giugno 2017

I POLITICI che guidano i partiti, gli studiosi che ne osservano le mosse con attenzione e i giornalisti che riferiscono al pubblico ciò che accade sono in queste ore più che mai attenti alla legge elettorale in discussione, che dovrebbe essere approvata, dopo l’accettazione o l’abolizione di qualche centinaio di emendamenti (tutti di scarso rilievo) entro un mese. Parliamo naturalmente dell’Italia. Ci sarebbero altre questioni internazionali di grande interesse, ma oggi ne faremo a meno in questa sede.

Sulla legge elettorale i pareri tra i politici e chi li esamina sono diversi. I politici delle tre principali formazioni operanti in Parlamento e cioè il Pd, Forza Italia con Salvini e Meloni, il Movimento 5 Stelle, sono per il cosiddetto modello tedesco che ha come base il criterio proporzionale. Gli osservatori sono alquanto critici sul proporzionale e preferirebbero il maggioritario. Il dibattito è in pieno svolgimento ma corre un rischio: non è affatto chiaro, per la pubblica opinione che segue quanto sta avvenendo politicamente, in che cosa consista la differenza. Proporzionale o maggioritario: che cosa vuol dire in concreto? E poi c’è un altro problema, ancor più rilevante: il modello tedesco, comunque rammendato, riguarda la Camera o il Senato? Comincio a rispondere a questa seconda domanda.

La legge in corso di discussione riguarda entrambe le Camere le quali, a questo punto, avrebbero una sola differenza tra loro: l’età degli elettori chiamati a votare: alla Camera si vota dai 18 anni, al Senato dai 25. La differenza è di 7 anni, quindi il numero degli elettori è minore al Senato e anche il numero dei senatori è minore. Questa dell’età è una differenza che c’è sempre stata, ma ci sono state finora anche altre diversità notevoli nelle rispettive leggi elettorali. Questa volta invece non ce ne sarà nessuna.

La prima (e molto grave) considerazione su questo punto è la seguente: il referendum del 4 dicembre scorso prevedeva un sistema monocamerale. Il Senato esisteva ancora ma con dei compiti in gran parte dedicati alle Regioni e alle loro competenze. I senatori erano scelti tra i consiglieri regionali con il voto di ciascuna Regione. Era previsto che andassero in Senato per un paio di giorni alla settimana e poi rientrassero nelle Regioni di provenienza riassumendo il compito regionale.

Tutti ovviamente ricordiamo che il suddetto referendum, voluto da Renzi e dal suo partito, fu contraddistinto da un’affluenza eccezionale che superò il 65 per cento dell’elettorato e fu vinto dai “No” col 60 per cento dei voti contro i “Sì” (renziani) che non superarono il 40 per cento. Una sconfitta sonora che ha influito sui fatti politici successivi sui quali ora ci intratterremo.

Ma il punto grave, anzi gravissimo, è il seguente: la legge elettorale in discussione attualmente regola sia la Camera sia il Senato, il quale dopo il referendum suddetto ha riconquistato la sua sovranità. Ne deduco che il Senato dopo l’applicazione del modello tedesco sarà identico o con piccolissime differenze alla Camera, quindi un duplicato, salvo l’età degli elettori e degli eletti. Il risultato del referendum del 4 dicembre verrebbe perciò superato: avremmo due Camere con simili meccanismi di formazione. È costituzionale questa situazione? Qualora la Corte fosse investita del problema, quale sarebbe il suo giudizio? E quale quello del presidente della Repubblica sull’intera legge visto che a lui spetta, una volta che il Parlamento abbia varato la legge elettorale, di firmarla oppure di rinviarla alle Camere?

Ci sono molti altri temi italiani da discutere ma questo intanto l’abbiamo posto per primo perché è di grandissimo peso.

***

Un’altra questione cui abbiamo già accennato nelle righe iniziali di questo articolo e che dobbiamo adesso esaminare è la differenza tra un sistema elettorale proporzionale e uno maggioritario. Molti osservatori preferiscono il maggioritario, ma che cosa significano quelle due parole? Il significato del proporzionale è chiaro: gli elettori danno il voto a un candidato o a un partito che presenta dei candidati e quelli vengono eletti proporzionalmente.

Questo è il proporzionale, ma il maggioritario che cos’è? La risposta più elementare: viene eletto chi prende più voti in un collegio o si conferisce un premio in seggi a chi ha superato un certo limite. La legge attuale ancora in vigore per la Camera attribuisce questo premio a chi superi il 40 per cento dei voti espressi e ottiene in quel caso il 55 per cento dei seggi della Camera. Il modello tedesco non prevede nulla di simile e ha altri modi per premiare, il più evidente dei quali riguarda i poteri del leader del partito vittorioso, che diventa Cancelliere. Così si chiama il primo ministro e i suoi poteri sono pressoché totali, perfino dal punto di vista costituzionale. Il presidente della Repubblica, eletto dalla Camera, è un personaggio onorabile e puramente rappresentativo che può soltanto suggerire talvolta al Cancelliere un qualche intervento e nulla più.

Da questo punto di vista il maggioritario non è possibile in Italia perché i poteri del nostro presidente del Consiglio sono indicati dalla Costituzione e sono alquanto limitati da un presidente della Repubblica che non è affatto un burattino. Del resto basta ricordare i nomi di quelli che hanno occupato quella carica fin dall’inizio della nostra storia repubblicana: Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, Mattarella. Vi sembrano nomi da poco la cui influenza è stata sulla vita del Paese pressoché nulla, oppure nomi determinanti taluni nel male ma la maggior parte per fortuna nel bene dell’Italia?

Quindi il modello tedesco non è attuabile nella sua essenza, impone alla nostra classe politica di prevedere delle alleanze a elezioni avvenute. Questo rende ancor più difficile la situazione perché non si tratta di alleanze che si trasformano in coalizioni e come tali vanno al voto, bensì di operazioni successive al voto anche se fin d’ora gli interessati ne stanno discutendo tra loro. E chi ne sta discutendo? Ovviamente Renzi con Berlusconi. Lo scrivono e lo dicono tutti i giornali e le televisioni; prove naturalmente non ce ne sono o meglio trafilano attraverso amicizie comuni e bene informate, ma comunque la realtà impone questo tipo di alleanze. Il Movimento 5 Stelle resterà inevitabilmente da solo perché se facesse un’alleanza con un’altra importante forza politica si dissolverebbe entro pochi giorni. È un movimento, quello 5 Stelle, che è nato per esser solo e da solo può conseguire un risultato ma non in compagnia: essendo votato da elettori con sentimenti di sinistra o di destra o di centro o di totale indifferenza ma necessità di esprimerla, l’accordo con un’altra forza politica ben determinata come collocazione farebbe saltare in aria il grillismo.

Perciò al Pd, per conquistare un’alleanza importante che superi in questo modo il proporzionalismo e acquisti quel tanto necessario di maggioritario, non resta altro che Berlusconi. Un Berlusconi però senza Salvini perché Salvini sarebbe indigeribile per il Partito democratico. Già Berlusconi crea qualche difficoltà agli stomaci ma superabile perché è la sola via d’uscita per riconquistare il maggioritario in un sistema totalmente proporzionale.

***

Questo tema si potrebbe però risolvere in un altro modo, molto più democraticamente accettabile. Ed è il seguente con una brevissima premessa: il Partito democratico è sempre stato chiamato e si è così anche definito di centrosinistra. Non di sinistra. Due parole alle quali Walter Veltroni che lo fondò dopo l’Ulivo ne aggiunse un’altra: riformatore. Quindi un partito di sinistra che cerca di raccogliere i voti della sinistra combinandoli insieme ai voti di centro che hanno un carattere più moderato. Ma riformatore è anche il centro. Queste cose bisognerebbe rileggerle in Democrazia e libertà di Tocqueville. Lì si apprenderebbero molte cose estremamente moderne e utili per quello che sta accadendo qui da noi ma che in parte (in gran parte) è accaduto anche con la vittoria di Macron in Francia. Se andassimo a guardare la struttura del suo governo e la sua composizione, ci accorgeremmo che Macron ha messo insieme dalla destra alla sinistra, passando per vie e comunità intermedie, un governo molto moderno che si dovrà occupare di ricchi e di poveri, di tasse e di spese, di disuguaglianze da colmare, di capitalismo da vivacizzare e di occasioni di lavoro crescente. Il tutto sotto la bandiera tricolore e quella a stelle dell’Europa, perché Macron vuole rafforzare l’Europa. Se avessimo un Macron italiano! Personalmente ho sperato per qualche tempo che lo fosse Renzi, ma ne sono stato purtroppo deluso. Renzi vuole comandare da solo. Macron non comanda da solo anche perché non è il primo ministro ma il presidente della Repubblica. Ha poteri propri: la politica estera e la difesa. E si vale di esperti di grandissimo livello. Per il resto ha un governo che è appunto composto da tutte le forze costituzionali che abbracciano l’intero quadro della classe dirigente del Paese.

La situazione in Italia è molto diversa e purtroppo, come abbiamo già visto, le alleanze fatte dopo le elezioni porteranno molte coalizioni e non sappiamo quanto dureranno. Se fossero state fatte prima (e sarebbe ancora possibile introdurle nella legge in discussione), la situazione sarebbe decisamente diversa. Renzi dovrebbe allearsi con un Pisapia e tutta quella sinistra che lo seguirà (i cui elettori saranno probabilmente molto più numerosi di quanto si pensi) e aggiungere a questa di sinistra un’alleanza al centro con Alfano e Parisi: insomma il centro moderato che è perfettamente consono a un partito che non a caso si definisce riformatore di centrosinistra. Questo dovrebbe essere l’obiettivo. Temo che non ce la faremo a vederlo.

Caro Matteo, dei libri che ti ho consigliato temo che tu non ne abbia letto una riga perché sei molto occupato in altre cose. Ma dovresti fare uno sforzo almeno per il Tocqueville che ho sopra ricordato. Quello sembra scritto per te. Fai questo sforzo nel tuo interesse che sarebbe, se fosse ben considerato da te medesimo, anche l’interesse del Paese e soprattutto non ti mettere in testa di far fuori Gentiloni a ottobre, questo sarebbe un altro drammatico errore.

© Riproduzione riservata 04 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/04/news/legge_elettorale_la_riforma_che_mette_la_camicia_di_forza_al_senato-167193566/?ref=RHPPLF-BH-I0-C4-P4-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Prodi, Renzi, Pisapia e una certa idea di sinistra
Inserito da: Arlecchino - Giugno 19, 2017, 05:31:42 pm
Prodi, Renzi, Pisapia e una certa idea di sinistra
Quasi certamente sarà il segretario Pd ad andare al voto, ma con quale legge elettorale? E con quali alleati per avere una solida rappresentanza nelle due Camere che hanno pari sovranità politica?

Di EUGENIO SCALFARI
18 giugno 2017

Il mondo sta cambiando e l’Europa e l’Italia cambiano anch’esse. Questa mutazione ci stupisce: che dobbiamo fare? Assistere passivamente? Reagire? Ma come? Combattendo contro oppure appoggiando il cambiamento e portandolo avanti fino a quando diventi una vera e propria rivoluzione? Una rivoluzione, quando eventualmente scoppiasse, sarebbe mondiale perché viviamo in una società globalizzata. Ogni Paese, ogni Stato, ogni continente reagirebbe a suo modo secondo gli interessi, i valori, i sentimenti delle persone, dei popoli, delle plebi.

È questo fenomeno che si sta per la prima volta verificando? Io non credo: il mondo cambia continuamente e quelli che lo vivono pensano che una grande novità si stia verificando, ma non è così. Tutto si muove di continuo, attimo per attimo, dentro e fuori di noi. Spesso i mutamenti ci sembrano impercettibili e infatti lo sono, ma col passare del tempo diventano massa. Questo ci spaventa e ci mobilita. Insomma ci scuote. Vogliamo dargli un nome? È la vita. Diversa ma estremamente simile per ciascuno di noi.

Noi non distinguiamo una formica dall’altra. Ma a me capita spesso che se incontro un gruppo di cinesi mi sembrano l’uno identico all’altro e se dall’alto di un aereo vediamo a terra un gruppo di persone, ci fanno lo stesso effetto delle formiche. In conclusione: tutto è relativo, ciascuno ha una sua verità assoluta, ma è assoluta solo per lui. Einstein scoprì la relatività delle onde e delle particelle elementari e di quanto venne dopo, ma questa appunto è la vita. La relatività di Einstein è, almeno per ora, la legge del creato.

Questa premessa era introduttiva della politica: anche quella sta cambiando in tutto il mondo, ma a me oggi interessa occuparmi di ciò che avviene in Italia. Naturalmente come la vedo io. La politica infatti è il tema principale d’una collettività, ma tutti quelli che se ne occupano portano in campo il proprio Io. E poiché noi siamo fatti in modo che una parte di noi porta se stesso all’opera, dobbiamo rivelarci agli altri prima di raccontare ciò che avviene intorno a noi e di darne un giudizio di valore.

Dunque presento ciò che siamo e pensiamo, anche se gran parte dei nostri amici e lettori lo sa da tempo. Noi apparteniamo a quella scuola politica dei fratelli Rosselli che lanciò come bandiera di raccolta il motto “Giustizia e Libertà”. Su quello slogan nacque il Partito d’Azione ed anche le brigate partigiane che quello slogan lo diffusero.

A sua volta la Rivoluzione francese del 1789 inventò la bandiera dei tre colori che significavano “libertà, eguaglianza, fraternità”. Da noi la gioventù mazziniana inalberò anch’essa il tricolore (con il verde al posto del blu). Il Partito d’Azione ebbe breve e sfortunata vita e si divise nel 1948, ma la sua cultura politica è rimasta ed è la nostra e dei nostri giornali: liberal-socialismo o liberal-democrazia, due dizioni diverse che significano la stessa cosa. Potremmo anche dire “sinistra liberale”. È sempre la stessa cosa. Vale per l’Italia ed anche per l’Europa.

Ancora non sappiamo se Macron sia un liberal-socialista europeista, ma è molto probabile che lo sia. Anche noi siamo profondamente europeisti; non a caso i tre fautori del Manifesto di Ventotene precedettero il Partito d’Azione ma poi fecero anch’essi proprio lo slogan di “Giustizia e Libertà”. Speriamo che Macron stia dalla stessa parte. La Francia è la Francia e la Marsigliese non è un inno soltanto francese ma anche europeo, come e più dell’Internazionale.

Con queste idee che ci animano, in Italia non possiamo che essere vicini al Partito democratico. Fu fondato da Veltroni il 14 ottobre del 2007; il programma fu da lui esposto al Lingotto di Torino il 27 giugno e le elezioni si fecero il 13 e 14 aprile del 2008. Ottenne quasi il 35 per cento dei voti, pari al massimo raggiunto da Berlinguer. Poi accaddero una serie di fatti e si succedettero vari governi, tecnici o tecnico-politici: il governo Monti, il governo di Enrico Letta, il governo Renzi ed anche quello tuttora in carica votato da Renzi ma presieduto da Gentiloni. Andrà avanti fino alla fine della Legislatura e si voterà di nuovo nell’aprile del 2018.

Quasi certamente sarà Renzi ad andare al voto, ma con quale legge elettorale? E con quali alleati per avere una solida rappresentanza nelle due Camere che hanno pari sovranità politica? Finora Renzi ha molto oscillato, anche perché per cambiare la legge elettorale ci voleva l’accordo generale dei quattro partiti (o movimenti che dir si voglia): il Pd renziano, la Lega di Salvini, Forza Italia di Berlusconi e il M5S di Grillo, Casaleggio, Di Maio e compagnia.

Inizialmente la legge era quella che imitava la legge tedesca, ma improvvisamente Grillo ha fatto saltare il banco e tutto è tornato a zero. Tre giorni fa Renzi ha incontrato Romano Prodi che si è posto come federatore tra Renzi e la sinistra dissidente che è uscita dal partito e dalla maggioranza. Questa sinistra sarà in questi giorni convocata da Pisapia e si vedrà se aderirà alle proposte conciliative di Prodi (e quindi di Renzi).

Se andasse in porto non sarà però sotto forma di rientro nel Pd, ma di alleanza con esso. In questo caso l’operazione sarebbe pienamente riuscita. La approverà anche Napolitano con una sinistra distinta ma alleata che probabilmente raccoglierebbe un 10 per cento del corpo elettorale votante. Renzi punta al 30. Se così andassero le cose il centrosinistra andrebbe vicino al 40 e forse lo sorpasserebbe con il centro guidato da Alfano e Parisi. I veri sconfitti sarebbero in tal caso Grillo e Salvini, con un Berlusconi amichevolmente autonomo.

La nostra valutazione di Renzi l’abbiamo già fatta molte volte, ma non è sempre la stessa. In certe occasioni i suoi errori sono marchiani, specie in politica economica quando prende la mano a Padoan ed opera senza di lui. E non parliamo del suo rapporto con la sinistra dissidente e con alcune personalità che hanno grandi meriti nella vita italiana e che lui ha sempre volutamente ignorato.

Altre volte invece la valutazione è stata positiva. Quando si è occupato di rafforzare l’Europa indicando quali erano le finalità europeiste. Dovrebbe puntare molto su Macron, ma lì interviene probabilmente una rivalità personalistica che non coincide con il vero interesse franco-italiano che dovrebbe esprimersi con un legame politico e personale tra i due personaggi che si propongono la costruzione della vera Europa. Comunque, se l’iniziativa di Prodi con Pisapia andasse a buon fine, probabilmente le doti di Renzi vincerebbero le sue debolezze e darebbero al nostro liberal-socialismo lo slancio economico e politico per l’Italia e l’Europa.

Il mio carissimo amico Ezio Mauro ha scritto giovedì scorso un articolo con una parte del quale chiudo questo mio articolo. «È ben chiaro che l’Italia dei piccoli paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia di una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale».

Se così non è viene fuori un’idea balorda dell’Italia: paese di singoli arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l’invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale. Ma fuori (questo forse non lo sanno) c’è il mondo.

© Riproduzione riservata 18 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/18/news/prodi_renzi_pisapia_e_una_certa_idea_di_sinistra-168404315/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI Come vorrei che Matteo e Giuliano fossero presi da incantamento
Inserito da: Arlecchino - Luglio 02, 2017, 05:06:31 pm
Come vorrei che Matteo e Giuliano fossero presi da incantamento
"Non c'è granché di nuovo in questo Insieme, ma molto di vecchio, quello sì.

Pisapia è stato un ottimo sindaco di Milano di sinistra, votato anche da personaggi come Giulia Maria Crespi e dalla famiglia cattolica dei Bassetti.
Non fece mai l'interesse dei padroni ma quello della città. Renzi l'avrebbe desiderato tra i suoi nuovi sostenitori ma lui non c'è andato"

Di EUGENIO SCALFARI
02 luglio 2017

OGGI parlerò ancora della sinistra. L'ho fatto anche la settimana scorsa auspicando che superasse le divisioni interne e si occupasse principalmente dell'Europa, ma le cose non sono affatto andate così. Si trattava di elezioni comunali e la sinistra non si è affatto unificata. Qua e là un nome l'ha unita quando il candidato era di simpatia e antica notorietà (vedi il caso di Palermo) ma il vero crollo è stato l'affluenza, specie nel centro- nord.

Si trattava comunque di elezioni comunali. Oggi il problema è del tutto diverso: il Campo progressista immaginato da Pisapia si è riunito in piazza Santi Apostoli a Roma insieme a tutte le altre sigle, da Bersani a D'Alema, da Fassina a Civati, da Gotor a Cuperlo con l'obiettivo di stare insieme. Hanno parlato in molti, provenienti in gran parte da specifici settori e attività: lavoratori, giornalisti della vecchia Unità, rappresentanti dei Verdi e gli amici del centro di Tabacci.

Tra i discorsi più importanti c'è stato quello del costituzionalista Onida che ha richiamato principalmente al rispetto della Carta. Naturalmente un discorso importante è stato quello di Bersani.

Renzi è stato pochissimo nominato. Il finale come previsto è stato di Pisapia il quale dopo aver ringraziato tutti quelli che lo avevano preceduto ha detto la sua. Ha segnalato molti dei guai che affliggono il nostro Paese.

Un lungo elenco al quale si impegnava a porre rimedio: la povertà, la disuguaglianza, la precarietà del lavoro, l'immigrazione, la necessità dell'acqua pubblica. Ha anche detto che l'Europa è un tema importantissimo e che la sinistra dovrà impegnarsi per diminuire i movimenti sovranisti e rafforzare le strutture europee.

Non è, la sua, una lotta contro Renzi; ci sarà, non c'è dubbio, ma non è quello l'obiettivo principale per la semplice ragione che il Pd non è più un partito di sinistra. Non lo si può definire neppure di destra; forse è di centro, ma che cos'è il centro? C'è Alfano nel centro, c'è Casini, c'è Parisi, c'è Toti. Renzi non è di centro. Renzi è Renzi, non ha un programma, non ha una linea, ha soltanto la brama del potere.

Questo pensano Pisapia e i suoi amici. Quindi la sinistra non c'è. Bisogna ricostruirla e se ci riusciranno rappresenterà il popolo lavoratore, i vecchi e i giovani, il Sud e il Nord, i poveri e gli intellettuali. Insomma l'Italia civile. Certo, la nuova sinistra sarà progressista ed europeista. E che cosa farà per l'Europa? Troppo presto per parlarne in concreto. Si vedrà.

Intanto costruiamo la nostra forza. Insieme. Questo non è un auspicio ma addirittura lo slogan d'un programma, così hanno detto Pisapia e tutti gli altri: INSIEME.

Questo è accaduto ieri. Vi piace? Vi convince? Oppure non vi riguarda? Pensate che la sinistra non conti più niente nel mondo? Conta semmai la destra, liberisti o professionisti o indifferenti o grillini o leghisti. Oppure pensate a voi stessi nei modi più vari e vi infastidisce la politica?

***

Domenica scorsa ho scritto sull'Espresso un articolo intitolato: "Inferno e Paradiso dentro il nostro Io". Ne riporto qui una breve citazione che può essere molto appropriata al nostro tema di oggi.

"Noi in qualche modo apparteniamo al genere animalesco, ma ne siamo usciti e formiamo una specie a parte: la più speciale delle nostre facoltà è che ora siamo in grado di osservare noi stessi mentre viviamo e operiamo. Il nostro Io convive con un Altro se stesso che si auto osserva e spesso i due sono contrapposti: l'Io che osserva se stesso può non piacersi e può influire e modificare i comportamenti dell'Io operante. L'Io dunque è duplice, ma spesso quello giudicante viene messo a tacere dal se stesso operativo. Questo è il vero e affascinante tema: due Io distanti tra loro e spesso contrapposti. È affascinante anche studiare quelle contrapposizioni. Il sentimento più interessante è l'Amore, per gli altri e per se stessi. In quel caso l'Amore diventa Potere. Al centro c'è sempre l'Io dalle molte forme. L'Io contiene la vita che è Inferno e Paradiso mescolati insieme. La morte placa e spegne il fuoco".

Dunque è l'Io dei protagonisti da studiare attentamente per capire che cosa sta accadendo e ciò che accadrà entrando nella storia. *** L'amore a sinistra opera per occupare uno spazio vuoto. Ma lo spazio vuoto non è mai esistito. L'ha detto Galileo e infine in modo definitivo Einstein e la fisica dei "quanti". Lo spazio vuoto non esiste neppure in politica. Si modificano le forze attrattive, questo sì.

La sinistra di Pisapia è una forza attrattiva? Come quella che ebbe a suo tempo Togliatti? E dopo di lui, con modalità assai diverse, Enrico Berlinguer? E dopo di loro Walter Veltroni?

No, la sinistra di Pisapia potrà difficilmente riempire un vuoto. Non ha miti, non ha ideologie. D'Alema la pensa come Civati? Gotor come Fassina? Pisapia come Camusso?

Si vedrà. Il loro Io giudicante non è affatto d'accordo con quello operativo. Il quale però lo fa tacere con un solo argomento: stiamo tutti insieme per mettere Renzi fuori gioco. Accetteremmo Franceschini, se venisse. E Zingaretti, perché no. E naturalmente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando.

Le prospettive del futuro, come sembra dai primi sondaggi, assegnano a questa sinistra fino a un possibile 10 per cento. Del resto l'affluenza declina per tutti, anche per Grillo, anche per Berlusconi. Ma soprattutto per Renzi. Questo è il progetto.

Ebbene, non c'è granché di nuovo in questo Insieme, ma molto di vecchio, quello sì. Pisapia è stato un ottimo sindaco di Milano di sinistra, votato anche da personaggi come Giulia Maria Crespi e dalla famiglia cattolica dei Bassetti. Non fece mai l'interesse dei padroni ma quello della città. Renzi l'avrebbe desiderato tra i suoi nuovi sostenitori ma lui non c'è andato. *** E Renzi? Finalmente si è convinto che la legislatura deve seguire il suo corso fino all'aprile del 2018. Allora sì, si voterà. Con quale legge elettorale? Ancora non lo sa. Alcuni suggeriscono il maggioritario, magari alla francese, col ballottaggio tra coalizioni.

Non sarebbe affatto male, ma quanto conta oggi il partito di Renzi? L'ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti gli assegna il 26 per cento, soprattutto se Franceschini tornasse saldamente con lui ottenendo però un riconoscimento concreto nel nuovo governo. Idem, a mio avviso, Zingaretti. Insomma non più un giglio magico di lottiano e boschiano sapore, ma una classe dirigente che dovrebbe avere Minniti come spina dorsale.
Ma questa riforma dovrebbe anche avere il conforto concreto di personaggi del calibro di Prodi, Veltroni, Enrico Letta ed anche Monti e Alfano e Parisi. Insomma una classe dirigente di stampo europeo che appoggi in tutti i modi la politica europeista di Mario Draghi.

Questa è una classe dirigente, di vecchia e nuovissima sinistra. Questo marchio ricorda che cosa fu la politica del Partito comunista italiano ai tempi di Togliatti, con una classe dirigente formata da Longo, Amendola, Ingrao, Berlinguer, Tortorella, Scoccimarro, Terracini, Reichlin, Napolitano. Discutevano, spesso dissentivano e infine trovavano un accordo e il partito guadagnava prestigio e forza.

Il materiale umano c'è, specie se consideriamo anche Gentiloni e Padoan. Renzi se la sente? Oppure ragiona ancora come l'unico gallo d'un pollaio senza galline?

Anche qui tutto dipende dall'Io. Se quello che giudica se stesso avrà la meglio la situazione migliorerà, altrimenti dominerà la logica di Pontassieve e sarà peggio per tutti. Pensate un po': vincerà Berlusconi e torneremo indietro di vent'anni.

Allora è meglio salvarsi l'anima e puntare sull'Ulivo di Romano Prodi. Di più non so dire. Mi viene in mente un sonetto dantesco che suona così: "Guido, i' vorrei / che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch'ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio".

Questo sonetto ha un seguito ma credo che basti così.

© Riproduzione riservata 02 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/02/news/come_vorrei_che_matteo_e_giuliano_fossero_presi_da_incantamento-169735452/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario.
Inserito da: Arlecchino - Luglio 09, 2017, 09:59:37 am
Scalfari intervista Francesco: "Il mio grido al G20 sui migranti"
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze.
Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d'oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"

Di EUGENIO SCALFARI
08 luglio 2017

GIOVEDÌ scorso, cioè l'altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L'ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".

Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d'acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l'ho interrotto dicendo: è un po' che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz'altro.

Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all'altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.

Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell'intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l'affratellamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l'amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.

Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.

Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l'amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.

Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".

Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?

"Il pericolo riguarda l'immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d'oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D'altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l'invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".

Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?

"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l'Europa. Il colonialismo partì dall'Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l'Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l'obiettivo principale dei popoli migratori".

Anch'io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l'Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l'ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.

"È vero, l'ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l'Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".

Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.

"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".

Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest'ultima cosa non l'avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".

Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".

Grazie, comincio dall'Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L'Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.

"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch'io, su sollecitazione dell'Ordine dei Gesuiti. "All'epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".

La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?

"Diciamo che c'è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l'immanenza e confermare la trascendenza".

Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?

"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".

Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c'è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l'aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell'ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.

"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch'io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento". Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un'immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni". Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c'è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D'altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c'è una linea che dall'orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.

"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l'ha fatto, mi piace moltissimo".

Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l'ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.

La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d'aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L'aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all'ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.

Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un'Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.

Un Papa come questo non l'abbiamo mai avuto.



© Riproduzione riservata 08 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2017/07/08/news/scalfari_intervista_francesco_il_mio_grido_al_g20_sui_migranti_-170253225/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Vetro soffiato Atei militanti ecco perché sbagliate
Inserito da: Arlecchino - Luglio 29, 2017, 12:03:23 pm
Eugenio Scalfari

Vetro soffiato
Atei militanti ecco perché sbagliate
Un conto è non rispecchiarsi in alcuna religione rivelata. Altro è credere, in modo assoluto e intollerante, nel grande nulla

Gli atei. Non so se è stata mai fatta un’indagine nazionale o internazionale sul loro numero attuale, ma penso che non siano molti. I semi-atei sono certamente molti di più, ma non possono definirsi tali. L’ateo è una persona che non crede in nessuna divinità, nessun creatore, nessuna potenza spirituale. Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla. Da questo punto di vista sono assolutisti, in un certo senso si potrebbero definire clericali perché la loro verità la proclamano assoluta.

Anche quelli che credono in una divinità (cioè l’esatto contrario degli atei) ritengono la loro fede una verità assoluta, ma sono infinitamente più cauti degli atei. Naturalmente ogni religione cui appartengono è molto differente dalle altre, ma su un punto convergono tutte: il loro Dio proclama una verità assoluta che nessuno può mettere in discussione. Nel caso della nostra storia millenaria il mondo è stato spesso insanguinato da guerre di religione. Quasi sempre dietro il motivo religioso c’erano anche altri e più corposi interessi, politici, economici e sociali, ma la motivazione religiosa era comunque la bandiera di quelle guerre, che furono molte e insanguinarono il mondo.

Gli atei - l’ho già detto - non sanno di essere poco tolleranti, ma il loro atteggiamento nei confronti delle società religiose è rigorosamente combattivo. La vera motivazione, spesso inconsapevole, è nel fatto che il loro Io reclama odio e guerre intellettuali contro religioni di qualunque specie. Il loro ateismo proclamato vuole soddisfazione, perciò non lo predicano con elegante pacatezza ma lo mettono in discussione partendo all’attacco contro chi crede in un qualunque aldilà, lo insultano, lo vilipendono, lo combattono intellettualmente. È il loro Io che li guida e che pretende soddisfazione, vita natural durante, non avendo alcuna speranzosa ipotesi di un aldilà dove la vita proseguirebbe, sia pure in forme diverse.

Con questo non voglio affatto dire che l’ateo sia una persona da disprezzare, da isolare e tanto meno da punire. Spesso i suoi modi sono provocatori, rissosi e calunniosi, ma questo non giustifica reazioni dello stesso genere. Certo non ispirano simpatia, ma questa è una reazione intellettuale di fronte alla prepotenza del loro Io.

Infine c’è una terza posizione, anch’essa minoritaria come gli atei, ma profondamente diversa: i non credenti. Non credono a una divinità trascendente, per quanto riguarda l’aldilà suppongono l’esistenza di un Essere e qui si entra in un’ipotesi affascinante che può assumere le forme più diverse. Per alcuni l’Essere è la forma iniziale dell’Esistere, per altri è l’Esistere che dorme, in perenne gestazione; per altri ancora è il caos primigenio, al quale l’energia delle forme torna dopo la morte d’una forma qualsiasi e dal quale forme nuove sorgono continuamente, con loro leggi e loro vitalità energetica. La vita e l’aldilà, da questo punto di vista, sono in continuo avvicendamento del quale noi umani ignoriamo i meccanismi creativi, ma che tuttavia sono in continua e autonoma attività.

L’Essere e il Divenire. Ci furono nell’antica Ellade, due filosofi che in un certo senso sono i predecessori di questo modo di pensare: Parmenide ed Eraclito. Non furono i soli, ma certamente i più classici e i più completi, ciascuno dal suo punto di vista.

Parmenide definì l’Essere come una realtà vitale ma stabile, non modificabile, il letto della vita che l’Essere contiene ma che non assume alcuna vitalità. Eraclito non ignora l’Essere, ma ipotizza che esso alimenti il Divenire. Si potrebbe dire che la vita dorme nell’Essere e si sveglia nel Divenire.
Ammetto qui la mia incompleta informazione culturale: più o meno i due filosofi appartengono alla stessa epoca e alla stessa terra, ma non credo che le date delle loro vite coincidano e tanto meno se abbiano avuto conoscenza l’uno dell’altro.

Il più vicino al mio modo di sentire è Eraclito. I suoi “detti” sono lucidi e splendidi così come ci sono stati tramandati. Parlo in particolare di quello che dice: «Ciascuno può mettere una sola volta nella sua vita i piedi nell’acqua del fiume». Quella frase quando la lessi ed ero molto giovane non la capii subito; ma poco dopo ne compresi il senso profondo: l’acqua del fiume scorre e quindi varia di continuo; tu ci metti il piede e quell’acqua non la ritrovi più perché scorre e cambia continuamente. L’acqua è una forma dell’Essere, ma il suo scorrere è la forma del Divenire.

Così è la nostra vita, i nostri pensieri, i nostri bisogni, i nostri desideri e la carezza della morte, che uccide una singola forma ma non la sua indistruttibile energia.

Questi sono, ciascuno a suo modo, i non credenti. Non credono in un aldilà dominato da una divinità trascendente delle religioni e non credono al nulla nichilista e prepotente degli atei, il cui Io è sostanzialmente elementare; anche se dotato di cultura e di voglia d’affermarsi. In realtà è un Io che non pensa. Un Io che non pensa e non si vede operare e non si giudica. Così è un Io di stampo animalesco. Mi spiace che gli atei ricordino lo scimpanzé dal quale la nostra specie proviene.

23 luglio 2017© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/07/19/news/atei-militanti-perche-sbagliate-1.306444?ref=RHRR-BE


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Macron ha in mano l'Europa. E Renzi come risponde?
Inserito da: Arlecchino - Agosto 03, 2017, 05:32:39 pm
Macron ha in mano l'Europa. E Renzi come risponde?
Il segretario Pd deve superare i vecchi contrasti e formare una squadra di prima scelta. Tre nomi sono indispensabili: Prodi, Letta e Veltroni

Di EUGENIO SCALFARI
30 luglio 2017

OGNI giorno che passa aumentano le discussioni su Macron. Più che su Trump, più che su Putin e su Erdogan. E non parliamo di Angela Merkel e tanto meno di Renzi. Chi è Renzi? Il signor Nessuno. È Macron che detta legge. Piace e dispiace, non solo sui punti di vista ma perfino secondo i giorni e soprattutto i suoi punti di vista si alternano sui giornali e nei talk show televisivi. Ma perché? Vi ricordate De Gaulle? Era un ufficiale francese di scarso peso durante l'ultima guerra mondiale. Dopo la sconfitta di Dunkerque riparò in Inghilterra dove nessuno si occupò di lui, salvo qualche pari grado inglese. Poi ritornò in Francia. Guidava una divisione francese ed ottenne di rientrare a Parigi per primo: questione di effetto pubblicitario. Ma da allora crebbe in Europa di giorno in giorno e il gollismo diventò addirittura un partito che ispirò la storia di Francia e d'Europa anche dopo la sua morte. Macron è un gollista? Per certi versi no, ma per altri sì. Dopo dirò quella che può sembrare una bestemmia storica: il gollismo risale alla politica di Richelieu, di Mazzarino e del Re Sole, Luigi XIV. E Macron fa parte di quella tradizione che ha mezzo millennio di storia. Cerchiamo di capir bene: la Francia è la Francia e da mezzo millennio vuole identificarsi con l'Europa. Col mondo no, con l'Europa sì. Perciò stiamo molto attenti al nuovo presidente francese.

Il problema attuale è l'Africa, anche per la Francia che ha sempre controllato la costiera mediterranea africana, da Tobruk a Ceuta. Naturalmente la costiera africana riguarda anche l'Italia e questo profila lo scontro in atto: Macron vuole trattenere i migranti nell'Africa dalla quale fuggono e cerca di mettere insieme Tripoli e Bengasi per un accordo negoziato a Parigi. L'Italia di Gentiloni e di Minniti vuole invece che l'Africa cresca in popolazione e in investimenti italiani, europei, americani, che rinsanguino i migranti fuggitivi, offrano loro lavoro e reddito determinando un movimento inverso rispetto a quello francese: non sono i rifugiati ad essere di nuovo chiusi nei paesi d'origine, ma piuttosto tecnici, capitalisti privati e pubblici internazionali a trasferirsi in Africa per pilotarne lo sviluppo economico e sociale.

Qui si confrontano due governi: Francia e Italia, Macron e Gentiloni-Minniti. Al di là delle apparenze, delle strette di mano e dei reciproci ringraziamenti, la realtà è questa. Qui cade opportuna la domanda: qual è la presenza di Renzi in questa vicenda? È assente o presente? E la sua presenza è concreta oppure soltanto figurativa, una sorta di "Paese dei campanelli" che serve soltanto a far diventare cantati i talk show dei vari Mentana, Gruber e chiunque altro?

***

Ho parlato recentemente con Renzi, non del tema libico-africano che era solo nello sfondo, ma dell'Italia e dell'Europa, o meglio di Renzi e dell'Europa nelle sue varie posture economiche, sociali, politiche. Ecco che cosa ne ho ricavato, detto in parole povere: Renzi sente Macron come l'avversario. Non è soltanto una valutazione politica, ma personale: Macron occupa la scena molto più di Renzi e questo per Matteo è intollerabile. Ecco perché ha deciso di aspettare la fine della legislatura prima di affrontare la competizione elettorale e tornare alla presidenza del Consiglio: deve avere una vasta forza politica per affrontare il rivale francese e deve essere una forza non solo vasta, ma coesa e qualificata, della quale lui sia la guida riconosciuta. Di centro-sinistra. Attenzione: prima viene la parola centro e poi sinistra. Se si scrive col trattino tra le due parole, quel "centro" acquista maggior peso; senza trattino è una compagine unificante che non dovrebbe consentire una sinistra dissidente, ma una classe dirigente unica, che esamina i progetti, ne discute liberamente, ma alla fine trova una soluzione condivisa e agisce di conseguenza.

Ho più volte richiamato da questo punto di vista l'esperienza del Partito comunista italiano ai tempi degli anni Cinquanta dello scorso secolo, fino agli anni Ottanta. Il comitato centrale, insediato dal Congresso nazionale, era il gruppo storico che governava il partito. Spesso, anzi quasi sempre, le discussioni e le analisi erano diverse e contrastanti: Ingrao non la pensava mai come Amendola, Longo aveva un'altra visione rispetto a Berlinguer, Napolitano rispetto a Reichlin e così via; ma alla fine il gruppo dirigente trovava la soluzione e il partito si muoveva compatto, riunito da due elementi: l'ideologia marxista e la classe operaia.

L'attuale classe dirigente del Pd, che ha credibilità, si compone di cattolici democratici e di sinistra marxiana, uniti insieme; non può dar vita ad una sinistra-sinistra ostile al partito e a sua volta frazionata in una decina di gruppetti che nel loro insieme non pervengono neppure al 10 per cento. Questa situazione va superata ed è a Renzi che spetta di imporlo. Deve avere una squadra di primaria scelta alla quale deve dimostrarsi sostanzialmente obbligato, superando vecchi ed aspri contrasti dei quali deve assumersi la responsabilità e il vivo desiderio di superarli. Se non si comporterà in questo modo il partito pronto alle nuove e assai difficili incombenze nazionali ed europee non ci sarà e se raggiungerà un 25 per cento, con numerosi contrasti interni, diventerà ancor più friabile. In quel caso si profilano alleanze spurie con la destra berlusconiana e il relativo fallimento di un Capo che guarda solo se stesso. Per far questo bisogna avere alle spalle mezzo millennio di storia politica nazionale. Noi non ce l'abbiamo. Quella culturale sì, anche più antica, ma non politica. Macron ha l'una e l'altra a sua disposizione e per questo è imbattibile.

La classe politica che Renzi deve mobilitare l'ho indicata con alcuni scenari già due o tre volte indicati in precedenti miei interventi, perciò li condenso in tre nomi, uno più difficile dell'altro ma egualmente indispensabili: Enrico Letta, Romano Prodi, Walter Veltroni. A fianco a questi ce n'è una trentina d'altri nomi, a cominciare da Gentiloni e da gran parte del suo governo, Minniti in testa.

Una squadra così, se Renzi la mobilita non per amor suo ma per costruire una politica riformatrice e attuarla, sarà un risultato determinante per l'Italia e per l'Europa. Diversamente torneremo a Enrico IV, Re di Francia e di Navarra e a suo nipote, il Re Sole,
di cui saremo una pedina nello scacchiere dominato dai cavalli, dalle torri, dagli alfieri con il Re e la Regina. Partita chiusa, caro Matteo; una partita così è perduta in partenza. Viene in mente il film Borsalino: anche in quel caso sembrava vinta e invece fu decisamente perduta.

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/30/news/macron_ha_in_mano_l_europa_e_renzi_come_risponde_-171949622/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Dall'Europa a Trump, confusi e divisi contro il Califfato
Inserito da: Arlecchino - Agosto 27, 2017, 09:01:53 pm
Dall'Europa a Trump, confusi e divisi contro il Califfato
Distrutti i centri di comando dell'Isis resta il problema delle periferie islamiche. Con il quale deve cimentarsi il nuovo assetto mondiale degli imperi e delle grandi potenze
 
Di EUGENIO SCALFARI
20 agosto 2017

LA SPAGNA e poi la Finlandia: le periferie del mondo islamico sono in pieno movimento anche se le vittime civili sono relativamente poche e i terroristi quasi tutti eliminati. Cifre modeste ma geograficamente diffuse. Da dove vengono i carnefici? Chi li ispira? Il Califfato esiste ancora? E Al Qaeda? E i gruppi marocchini? E gli Emirati Arabi? E i franchi tiratori di Mosul, di Raqqa, di Aleppo?

Insomma infuriano varie buriane ed Ezio Mauro nel nostro giornale di ieri ne ha messo in luce il significato. Lo condivido e a mia volta dirò anche io quel che penso su quanto continua ad accadere sul piano degli attentati sovversivi. La parola "sovversivo" è molto antica: risale a metà Ottocento, in Europa e soprattutto in Francia, in Italia, in Austria, in Russia. In Francia era ancora recente la Grande Rivoluzione. I sovversivi erano coloro che volevano cambiare profondamente la situazione politica e sociale di un territorio e a volte erano animati da patriottismo, a volte dall'anarchia oppure da un'ideologia. Altre volte addirittura da ideali reazionari che volevano riportare società e interessi da tempo scomparsi.

I sovversivi ci sono stati sempre e motivati con ragioni e interessi profondamente diversi, in un certo periodo il numero, i luoghi, le motivazioni di ceti sociali da cui provenivano davano luogo a organizzazioni durature e ideologicamente caratterizzate. Oppure erano forme, diffuse e potenti, di brigantaggio.

Ma questo non ha quasi nulla a che vedere con il sovversivismo anche se talvolta effettuarono occasionali alleanze tra briganti e sovversivi. Qual è la situazione di oggi? I briganti esistono ancora, hanno cambiato nome da tempo. Si chiamano Mafia, oppure 'Ndrangheta, oppure Camorra: è un brigantaggio con abiti civili e armi più economiche e politiche che da guerra. Il fenomeno nuovo (relativamente) è di tutt'altro genere ed è caratterizzato in modi assai diversi: in gran parte ha una motivazione religiosa che colora e in parte nasconde una rivolta sociale.

Questi sono i due fenomeni, diversi ma strettamente congiunti. Quanto alle loro strutture organizzative, anch'esse sono duplici: una o due sono i centri di comando, l'altra invece è costituita dalle periferie sociali dei Paesi dove la ricchezza e il capitale costituiscono la realtà di fondo. I centri di comando - religiosi - erano costituiti soprattutto a Mosul e a Raqqa. Lì c'era il quartier generale del Califfato e i suoi eserciti militarizzati che difendevano il loro territorio, dominavano le loro cellule sparse nel mondo, istruivano in appositi campi adeguatamente attrezzati i giovani che venivano da apprendisti di terrorismo e tornavano poi nei Paesi di origine organizzando cellule operative.

Questa situazione è parzialmente cambiata anche perché alcune grandi Nazioni per motivi diversi hanno tuttavia deciso di eliminare al più presto possibile i comandi del Califfato. Questa operazione è stata in gran parte risolta: Mosul e Raqqa sono state in gran parte conquistate, l'apparato militare del Califfato quasi interamente distrutto; il Califfo in persona sarebbe stato ucciso. Resta tuttavia intatto il problema delle periferie e, a fronte di esso, il nuovo assetto mondiale degli imperi e delle grandi potenze che, tra i tanti problemi che debbono affrontare, hanno anche quello delle periferie, della loro trasformazione politica e dei rapporti che si raccordano nella società globale.

Se vogliamo elencare con adeguate parole questo insieme di problemi diremo: tecnologie, emigrazioni, rapporti tra Paesi dai quali gli abitanti fuggono e Paesi che li respingono o li imprigionano, forze democratiche in varia trasformazione, alleanze e contrasti in costante mutamento. Infine: diminuzione dell'autorità delle Nazioni Unite e quindi un mondo in piena e pericolosa confusione. Come si vede, il panorama complessivo non è affatto felice.

***

Di Trump è inutile parlare: la sua è una politica mutevole se non addirittura giornaliera rispetto alla Russia, alla Germania, alla Francia, alla Libia, alla Cina, all'Egitto, alla Corea del Nord e all'Italia. È la meno considerata la nostra Nazione e quindi ne parlano poco e Trump pochissimo.

Con queste mutazioni non si può certo concludere che gli Usa non contino niente. Contano moltissimo, ma somigliano molto alla pallina bianca della roulette. Conta moltissimo perché dove si ferma vince. Solo che quasi a ogni giro il numero vincente cambia. Vince ma cambia. Somiglia maledettamente a Trump.

La Cina ha costruito un capitalismo dittatoriale, con delle sfumature di democrazia. Sfumature. Nella sostanza è un immenso Paese che compra tutto: isole, territori, banche, crediti, debiti, stadi sportivi, movimenti storici. Compra tutto e invia, quando necessario, gruppi di suoi cittadini nei luoghi comprati.

Sostanzialmente è un Paese tirannico e pacifico. Sembra una contraddizione e invece è un risultato. Della religione gli importa poco o niente. Quanto al Giappone, conta molto in economia e basta. In Europa, oltre a Merkel della quale tra poche settimane conosceremo l'esito decisivo delle elezioni, c'è Macron del quale abbiamo più volte parlato. È de Gaulle, è Pompidou, è Mazzarino, è il cardinale di Retz, è il grand commis, è Enrico IV, è il Re Sole. Insomma è la Francia che vuole incarnare l'Europa. Napoleone sì e no. Talleyrand un po' di più. Tocqueville bene, ma con un po' più di energia. Insomma Macron è Macron. Il numero dei francesi che si occupano di politica è in mastodontica diminuzione. Ma di quelli che invece se ne occupano lui è il Presidente con poteri quasi assoluti. E l'Europa? Ma non è francese l'Europa? Macron è europeista e sovranista. Piaccia o non piaccia. Il gioco con lui tocca soprattutto a Merkel.

Toccherebbe anche all'Italia, ma a chi? Spesso, anzi quasi sempre, chiudo questi articoli domenicali parlando di Renzi. Gli do consigli non richiesti, gli faccio critiche richieste ancora di meno. Renzi da solo non può fare nulla. In buona compagnia non ci vuole stare. Vuole decidere tutto lui e da solo, magari facendo qualche mezza alleanza non cucita ma imbastita che è molto diversa. Imbastirà con Alfano. Imbastirà con Franceschini, forse anche con Delrio e forse addirittura con Berlusconi. Se questo è il suo modo di procedere, alla fine non conterà niente anche se diventerà presidente del Consiglio.

Ciò che dovrebbe fare per contare in Europa nel nome di Ventotene e di Giustizia e Libertà l'ho già detto fino alla noia.
"Dimmi quando tu verrai dimmi quando quando quando... ".

© Riproduzione riservata 20 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/20/news/dall_europa_a_trump_confusi_e_divisi_contro_il_califfato-173424360/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. I nostri occhi puntati sull'Africa
Inserito da: Arlecchino - Settembre 01, 2017, 05:38:21 pm
I nostri occhi puntati sull'Africa
Immigrazione, accoglienza, povertà, lavoro, respingimenti e traffici umani sono le parole attraverso cui si declina il rapporto con l’Europa

Di EUGENIO SCALFARI
31 agosto 2017

IL 28 agosto, lunedì, c’è stata una riunione internazionale a Parigi cui hanno partecipato i capi di Stato e di governo di quattro nazioni dell’Ue: Francia, Germania, Italia, Spagna e in più alcuni alti funzionari dell’Ue e anche (come osservatori) dell’Onu.

Il tema, visto all’ingrosso, era quello del rapporto tra l’Europa dell’Ue e l’Africa del nord e del centro occidentale, dal Ciad al Niger e a tutti i paesi minori a sud della costiera mediterranea. Ovviamente la più interessata era la Libia, oltre che, ma in chiave minore, il Marocco e l’Algeria. Insomma il complesso ex imperiale e coloniale francese cui va aggiunta la colonia libica che fu in mani italiane dal 1911 fino al 1943, che la rese libera dal colonialismo prima giolittiano e poi fascista.

L'incontro del 28 scorso è stato il primo sul tema Europa-Africa, ma ce ne sarà tra pochi giorni un secondo e poi finirà con l’insediare una sorta di organo permanente di intervento e di gestione d’un tema che sopporterà allo stesso tempo pace e tempesta ma che si proporrà una finalità nobile e positiva per un verso, combattuta e sanguinosa dall’altro.

Il finale sarà sicuramente positivo (o almeno è questo ciò che penso) ma richiederà una trentina d’anni a dir poco prima che i risultati si stabilizzino al punto massimo che avremo finalmente raggiunto.

Il risultato del primo incontro è stato la partenza, condensata in due brevi documenti: uno di due pagine redatto in lingua inglese che indica le finalità dell’incontro; l’altro di sette pagine redatte in lingua francese, che entra nel dettaglio dei problemi che vanno affrontati e risolti e per alcuni ne indica genericamente la soluzione.

Sono alquanto stupito del modo con cui buona parte della stampa italiana ha dato conto di quanto è accaduto: un titolo molto evidente in prima pagina e un paio di pagine all’interno, assai diverse da giornale a giornale. Il tutto alla data di martedì. Ma su quasi tutti i giornali di mercoledì, cioè di ieri, il tema era già scomparso. Si parlava della Corea del Nord e di ciò che accade in quel teatro e poi del tema delle pensioni, dei palazzi instabili che esistono in mezza Italia, della scarsità di acqua e ovviamente di calcio. Non una parola sul tema Europa- Africa che è a mio avviso il numero uno nel rapporto tra due continenti che si fronteggiano da millenni e oggi si declina con varie parole: immigrazione, accoglienza, respingimento, traffici umani, incontri e scontri in tutto il Mediterraneo, povertà, lavoro, investimenti, alleanze tra governi e tribù, problemi sanitari, amicizia e contrasti con l’Africa centromeridionale e orientale.

Pensate che all’origine del nostro pianeta l’Africa e l’Europa erano un’unica terra, il Mediterraneo non esisteva. Parliamo di un passato di miliardi di anni che potrebbe ricostruirsi, sia pure tra altrettanti millenni.
Ebbene, scordarsi dopo un giorno dei problemi avviati per la convivenza utile anche se molto difficile da realizzare, è una leggerezza che ritengo inaccettabile, anche perché nell’incontro dello scorso lunedì uno dei personaggi chiave è stato il nostro premier Gentiloni e uno dei personaggi elogiati è stato il nostro ministro Marco Minniti, che non era presente (c’erano soltanto capi di Stato e di governo) ma è stato ricordato da Macron come uno dei più validi a occuparsi del problema e della sua concreta attuazione fin dalle prossime settimane.

Ma noi, giornali e giornalisti, ci occupiamo d’altro. Buon pro non ci farà.
***
Due parole su alcuni aspetti del tema Europa-Africa. Finora il Ciad e il Niger non erano stati presi in considerazione. Erano invece territori folti di bande del malaffare che ingaggiano africani in gravi ristrettezze di ogni genere e che sono pronti a pagare e a diventare schiavi degli affaristi, con la promessa che saranno portati fino all’imbarco su battelli di fortuna per essere transitati sulle coste europee, quelle italiane in particolare, con tutto quello di pessimo che ne seguirà, morte compresa.

Questo tema è stato preso in considerazione. Ciad e Niger combatteranno gli affaristi di merce umana e saranno loro a occuparsi delle persone schiavizzate e a rischio di morte.

Naturalmente Ciad e Niger e paesi limitrofi saranno inseriti nel piano europeo; aiuteranno e saranno aiutati. Sono problemi tutt’altro che semplici e andranno perciò seguiti con la massima attenzione. Facevano più o meno parte dell’impero coloniale francese ed è perciò ovvio che sia Macron quello che più degli altri si interessa di questi temi.

Merkel dal canto suo ha proposto l’abolizione del trattato di Dublino. Ottima proposta che va immediatamente realizzata, anche se non sarà facile perché riguarda tutti i 27 Paesi dell’Unione.

Infine: non si perda di vista che in tutto il “bailamme” africano ci sono anche molti islamici sensibili all’Isis: altro tema che non va mai perso d’occhio. Caro Gentiloni, caro Minniti e caro Renzi, l’Africa ci riguarda come tema principale. Non lo dimenticate e riservategli la massima attenzione.

© Riproduzione riservata 31 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/31/news/i_nostri_occhi_puntati_sull_africa-174261566/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un nome per guidare la nuova Europa di Ventotene
Inserito da: Arlecchino - Settembre 20, 2017, 10:28:18 pm
Un nome per guidare la nuova Europa di Ventotene
Nel vecchio Continente attuale una figura simile è molto difficile da trovare. Ma un personaggio c’è: è tedesco ma non è un allievo di Angela Merkel, semmai potrebbe essere il contrario. Ha un’esperienza politica di prim’ordine; è social-democratico; ha 73 anni, età perfetta per quella carica; è stato Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005. Si chiama Gerhard Schröder.

Di EUGENIO SCALFARI
17 settembre 2017

In un’intervista rilasciata venerdì al nostro giornale Romano Prodi rilancia la legge sullo “Ius soli” presentata da tempo al Parlamento. Il testo è fermo al Senato dove il Pd non raggiunge da solo la maggioranza assoluta e quindi ha bisogno di essere rafforzato con apporti esterni. Successivamente però le opposizioni a quel progetto sono aumentate e la maggioranza l’ha congelato, almeno fino a quando la legge di stabilità finanziaria non sarà stata approvata. Ciò significa che lo “Ius soli” tornerebbe in Parlamento nel gennaio 2018 senza tuttavia escludere che bisognerebbe forse emendarlo e rendere possibile il formarsi di una maggioranza assoluta. Il 2018 è tuttavia l’anno di fine legislatura e quindi di un nuovo Parlamento. La conseguenza di tutto questo discorso è che la sorte dello “Ius soli” è diventata quanto mai dubitabile.

Di qui l’intervento di Prodi il quale, per evitare che quella legge finisca in un cassetto e lì rimanga per un tempo indeterminato, ne chiede la ripresentazione immediata, magari con qualche emendamento di poca importanza e senza il voto di fiducia. Il tema a suo giudizio è talmente importante che il voto parlamentare deve esser dato per coscienza e non col vincolo politico della fiducia. Naturalmente la posizione di Prodi è interamente per il sì: chi nasce in Italia deve essere italiano e quindi europeo, sempre che, subito dopo la nascita, quel neonato e la sua famiglia restino in Italia per un periodo ragionevole di tempo e non per pochi giorni.

Romano: quasi sempre e ormai da molti e molti anni la pensiamo allo stesso modo. In questo caso tuttavia vedo parecchie e notevoli difficoltà. Le elenco anche se alcune di queste mie domande potrebbero sembrare paradossali.

1. La cittadinanza viene concessa a qualunque neonato figlio di genitori stranieri, provenienti da qualunque altro Paese, oppure alcuni ne sono esclusi ed altri no? Faccio un esempio: una famiglia anagraficamente nata in un qualunque Stato dell’Unione europea fa automaticamente parte dei 27 Paesi dell’Ue e non ha quindi bisogno di chiedere la cittadinanza ad uno di essi diverso da quello dei genitori?

2. Questo principio — se esiste per l’Europa dell’Ue — può essere esteso anche ad altri Paesi la cui storia abbia valori comuni con i nostri? Per esempio l’Inghilterra uscita dall’Ue ma comunque europea a tutti gli effetti; o anche gli Stati Uniti d’America e il Canada? E l’America del Sud e quella Centrale, di origini spagnole o portoghesi? Se queste ipotesi fossero applicate tutto il mondo occidentale avrebbe un’unica cittadinanza. Ma se non fosse così e per quanto ci riguarda, la cittadinanza italiana sarebbe singolare e non condivisibile se non si nasce sul nostro territorio. Nel qual caso si pongono altri e complessi problemi.

3. Accenniamo ad uno di questi. Supponiamo che i genitori del neonato in Italia sono di New York o di Los Angeles o di qualsiasi città Usa. E mettiamo che il neonato in Italia, una volta raggiunta l’età della ragione, preferirà avere la cittadinanza americana oppure inglese o tedesca o francese o brasiliana. Butterebbe via quella italiana e ne chiederebbe un’altra? Oppure si possono avere insieme tre o anche più cittadinanze?

4. Infine un’altra ipotesi: la famiglia che fa nascere il figlio in Italia appartiene ad una etnia profondamente diversa e anche a una diversa religione. Supponiamo che la famiglia sia turca oppure del Ghana, oppure dell’India o del Pakistan. Quel neonato è italiano se nasce a Roma o a Bari o a Palermo. Se è anagraficamente italiano, quando sarà adulto e avrà figli italiani, quei figli avranno profonde tracce dei genitori e dei nonni. L’americano no e l’arabo o il cinese sì? Ha un senso tutto questo?
Oppure in una società globale, sei giudicato e devi rispettare i doveri e i diritti del luogo dove ti trovi e non necessariamente in quello dove sei nato?

Caro Romano, mi piacerebbe conoscere la tua risposta a queste domande. Papa Francesco, come certamente sai, suppone che nella società globale in cui viviamo interi popoli si trasferiranno in questo o quel Paese e si creerà, man mano che il tempo passa, una sorta di “meticciato” sempre più integrato. Lui lo considera un fatto positivo, dove le singole persone e famiglie e comunità diventano sempre più integrate, le varie etnie tenderanno a scomparire e gran parte della nostra Terra verrà abitata da una popolazione con nuovi connotati fisici e spirituali.

Ci vorranno secoli o addirittura millenni affinché un fenomeno del genere accada ma — stando alle parole del Papa — la tendenza è questa. Non a caso egli predica il Dio Unico, cioè uno per tutti. Io non sono credente, ma riconosco una logica nelle parole di papa Francesco: un popolo unico e un unico Dio. Non c’è stato finora nessun capo religioso che abbia predicato al mondo questa sua verità.

Per lo “Ius soli” se ne riparlerà tra qualche mese in Parlamento e vedremo come andrà a finire. Nel frattempo però è accaduto in Europa un evento che nessuno si attendeva: di fronte alla Plenaria del Parlamento europeo Jean-Claude Juncker ha raccontato una situazione che sembrava poco ascoltata ma era invece molto importante e oserei dire rivoluzionaria a pochi giorni di distanza dalle elezioni politiche in Germania.

Ho scritto “una situazione rivoluzionaria” ed è effettivamente questa la realtà, ma se si guarda con occhio storico si vedrà che essa era già in corso di attuazione ai tempi del primo governo Prodi e poi quando lo stesso Prodi diventò Presidente della Commissione Ue ed estese i confini a molti altri paesi dell’Europa ex sovietica ed infine fu fatta propria da Matteo Renzi tre anni fa, all’epoca della sua visita con Hollande e con Merkel all’isola di Ventotene in seguito alla quale lo stesso Renzi formulò un programma europeista e quindi spinelliano, per l’attuazione del quale l’ex premier aveva cominciato a battersi senza tuttavia ottenere nulla di concreto.

Quel programma che per brevità possiamo chiamare Ventotene, è da tempo condiviso da Mario Draghi con un campo di competenze molto diverso ma con analoghe o addirittura identiche finalità ed ora, con una mossa improvvisa e radicale, è stato fatto proprio da Jean-Claude Juncker. In che cosa consiste? Nel rafforzamento e mutamento dell’Europa sulla linea di Ventotene.

Un’Europa collettiva, con meno senso di sovranismo nazionale e molto più ampio sovranismo europeo. A questa linea aderiscono già molte personalità ed anche alcuni governi. Abbiamo già indicato i nomi di Renzi e di Draghi ed ora anche quelli di Mattarella, Gentiloni e Minniti. Non è poco, le forze in campo sono autorevoli e sarebbero maggiori se Renzi si risvegliasse dal letargo vacanziero e riprendesse completamente il programma di Ventotene, da lui stesso lanciato ma poi messo a dormire.

L’intervento di Juncker, cui altri ne seguiranno come da lui stesso previsto dopo le imminenti elezioni tedesche, consiste nella creazione di un Ministro delle Finanze europeo, d’una velocità di offerta e di domanda economica promossa dai Paesi dell’eurozona, dal rafforzamento politico all’interno dell’Unione, dal presidente dell’eurozona, dalla creazione d’una vigilanza politica e poliziesca che controlli le cosiddette periferie dell’Isis in Europa, Londra compresa.

Juncker ha poi lanciato un programma di investimento e proposto una serie di accordi di libero scambio con paesi come il Giappone, il Messico, l’Australia e la Nuova Zelanda e tutta l’America Latina, dall’Argentina al Brasile, al Cile e a tutti gli altri. Ha proposto anche la creazione di un nuovo Fondo europeo e una politica dell’immigrazione molto simile a quella praticata da Gentiloni e Minniti per quanto riguarda l’Africa occidentale.

Infine — e sia pure con opportune cautele — Juncker ha lumeggiato la nuova figura d’un Presidente europeo eletto direttamente dal popolo sovrano dell’Unione. Non è da escludere che lo stesso attuale presidente della Commissione di Bruxelles che decadrà dal suo attuale incarico nel 2019, pensi a se stesso come candidato a quella carica presidenziale che oggi è più di forma che di sostanza ma che in un’Europa sulla linea di Ventotene diventerebbe del tutto simile alla struttura costituzionale degli Usa.

L’alternativa è che quella carica, ammesso che la linea Ventotene diventi una realtà, sia rivendicata da Merkel o da Macron. Si tratta tuttavia, in entrambi i casi, delle due figure politicamente più importanti dell’Europa attuale, partecipi di un duumvirato che non può essere rotto a favore dell’uno o dell’altro. Più probabile, sempre che sia una figura conosciuta e approvata dal corpo elettorale europeo, che sia di uno spagnolo o di un italiano. Non credo Renzi e non credo neppure Gentiloni o Mattarella: non sono personaggi di autorità popolare europea. Mario Draghi? È la persona più nota e più internazionale. Forse avrebbe le maggiori chance anche se non è molto amato dalla classe dirigente tedesca. Ma l’idea che Draghi sia pronto a battersi per raggiungere quell’obiettivo mi sembra — conoscendolo bene — da escludere.

Un Presidente europeo con poteri simili a quelli del Presidente americano non è facile da individuare. Il primo negli Stati Uniti americani fu Washington che veniva dall’aver guidato e vinto la guerra anticoloniale contro gli inglesi. Nell’Europa attuale una figura simile è molto difficile da trovare. Ma un personaggio c’è: è tedesco ma non è un allievo di Angela Merkel, semmai potrebbe essere il contrario. Ha un’esperienza politica di prim’ordine; è social-democratico; ha 73 anni, età perfetta per quella carica; è stato Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005; adesso presiede un’associazione dedicata ad educare politicamente e culturalmente i giovani.

Si chiama Gerhard Schröder. Sarebbe un eccellente Presidente della nuova Europa. E Juncker potrebbe essere uno dei ministri del suo governo mentre Merkel, come tutti gli altri capi dei 27 governi, continuerebbe ad essere la Cancelliera del proprio, sempre che le elezioni imminenti vadano a suo favore. Quanto all’Italia, in una situazione auspicabile di quel genere, noi avremmo tutto lo spazio per far valere le nostre motivazioni ed anche un ruolo importante nella politica europea, specie sul tema dell’immigrazione e su quello economico dell’occupazione e del liberalismo socialdemocratico.

Se il nome di Schröder che ora abbiamo fatto e la proposta che diventi presidente dell’Europa andassero a buon fine, immagino che Spinelli, Rossi e Colorni ne sarebbero felici. Ed io con loro.

© Riproduzione riservata 17 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/17/news/un_nome_per_guidare_la_nuova_europa_di_ventotene-175701962/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché è urgente che nascano gli Stati Uniti d'Europa
Inserito da: Arlecchino - Settembre 24, 2017, 12:04:40 pm
Perché è urgente che nascano gli Stati Uniti d'Europa

"L'Europa deve essere decisamente rafforzata e quasi tutti i protagonisti, capi di Stato e il governo dell'Ue ne sono convinti"

Di EUGENIO SCALFARI
24 settembre 2017

MENTRE leggete questo giornale i tedeschi stanno votando per eleggere il loro Parlamento che a sua volta dovrà eleggere il suo Cancelliere (quasi certamente da pronunciare al femminile) perché sarà certamente Angela Merkel a ottenere corposo vantaggio rispetto agli altri partiti. Ma la sua maggioranza sarà comunque relativa e avrà bisogno di alleanze per avere una coalizione che raggiunga la maggioranza assoluta.

Il compito è facilissimo perché gli altri partiti compatibili a far blocco con la Cdu sono soltanto due: i socialisti guidati da Schulz, l’ex presidente del Parlamento europeo, e i liberali che probabilmente rientreranno in Parlamento dal quale erano stati esclusi non avendo ottenuto il numero minimo previsto dallo statuto parlamentare.

E se, per ottenere la maggioranza assoluta, fosse necessaria un’alleanza di tutti e tre? Sembra impossibile un’ipotesi del genere. Qualora si verificasse, la Cdu dovrebbe accogliere uno dei due e guidare un governo senza maggioranza assoluta, situazione quanto mai sgradevole per la Germania e per l’Europa. Ma è un’ipotesi che si può escludere come avremo conferma tra poche ore. Il risultato riguarderà non soltanto la Germania ma l’intera Europa della quale la Germania, malgrado ciò che pensa Macron, è l’asse portante. Quindi è questo il tema che dobbiamo ora esaminare.

L'Europa deve essere decisamente rafforzata e quasi tutti i protagonisti, capi di Stato e il governo dell'Ue ne sono convinti. Il sovranismo dei 27 Paesi e soprattutto quello dei 19 che usano la moneta comune: l'Eurozona deve avere un ministro delle Finanze unico, responsabile della politica economica; un sistema bancario anch'esso unico; una sorta di Fbi unica nella lotta contro il terrorismo dell'Isis; un'unica politica estera e per quanto riguarda l'immigrazione; infine una struttura militare e naturalmente un'unica cittadinanza per quel popolo sovrano che eleggerà un proprio Parlamento e un presidente che abbia poteri di governo in tutto simili a quelli che ha il presidente degli Stati Uniti d'America.

Questi temi sono stati indicati e resi pubblici nei giorni scorsi dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e anche da Mario Draghi nella sua veste di capo della Banca centrale europea: anche lui sente la necessità d'una politica economica e bancaria che abbia come diretto interlocutore il ministro delle Finanze dell'Eurozona: è un binomio che esiste da un secolo in tutti i Paesi europei ma non ancora a livello di un'Eurozona perfettamente unita nella quale le singole nazioni regrediscano allo stesso modo in cui si trovano i governi d'una California o d'un Texas di fronte al governo presidenziale di Washington.

Negli Usa tuttavia i singoli Stati federati hanno rispetto al governo centrale lo stesso peso, ma quel Paese è da oltre 70 anni il più grande impero mondiale e ha una struttura da tempo collaudata. In Europa invece la federazione non esiste ancora. Se — come in molti ci auguriamo — sarà instaurata almeno entro due anni, i governi dei 19 Paesi dell'Eurozona avranno di fatto un peso diverso e non c'è dubbio che quello della Germania sarà il numero uno, seguito dalla Francia di Macron.

Ricorderete che la guerra americana tra nordisti e sudisti, voluta da Lincoln per abolire la schiavitù in tutti gli Stati dell'allora Confederazione e rendere tutti i cittadini di quei medesimi Stati eguali di fronte alle leggi locali e nazionali, fu una guerra tra il Nord e il Sud e vinse il Nord che guidò a lungo il Paese. La Federazione cioè c'era sulla carta ma era ancora il Nord a fornire la classe dirigente. Negli anni questa prevalenza si attenuò e infine scomparve. Oggi come oggi i singoli Stati della Federazione hanno peso diverso dal punto di vista economico ma non da quello politico: cittadinanza, legalità, occupazione, educazione, struttura militare, politica estera, sono tutti federali. C'è voluto tempo naturalmente ma abbastanza breve.

In Europa il percorso sarà certamente analogo, il che significa che il rapporto in senso federalistico dei 19 Paesi dell'Eurozona sarà guidato dalla Germania e, sia pur in modo minore, dalla Francia. Merkel sarà il vero protagonista di quel rafforzamento indicato da Juncker ma proprio per questa ragione non potrà essere il primo presidente dell'Eurozona. Dovrà essere scelto tra i candidati dei 19 Paesi, Germania compresa, ma non potrà essere la Cancelliera. Lei è fondamentale per costruire il nuovo sistema federale, ma non presiederlo. Romolo costruì Roma, e nel breve tempo in cui la costruì fu re: poche settimane. Ma il primo vero re fu Tarquinio Prisco e poi Anco Marzio e poi Tarquinio il Superbo; nessuno di questi era nato a Roma.

***

E tuttavia la Germania è un Paese del Nord, si affaccia sul Mare del Nord, sul Baltico, ma non sul Mediterraneo. Da questo punto di vista storico, geografico e anche sociale l'Europa è divisa in due. Qui sta la forza di Macron e la storia della Francia. Ma qui sta anche la storia della Grecia, della Spagna e soprattutto dell'Italia.

La nostra Nazione che ovviamente fa parte dell'Eurozona è stata la guida di tutta l'Europa (e non soltanto) dai tempi di Giulio Cesare fino alla fine dell'Impero romano. Nei secoli successivi è stato uno dei principali Paesi dal punto di vista culturale ma non più politico. Comunque sede del Papato, potere religioso ma, specie lungo tutto il Medioevo e il Rinascimento, anche potere politico d'importanza assai notevole.

Durante il Novecento, nel bene e nel male, abbiamo avuto di nuovo un certo peso politico e anche ora l'abbiamo.

Per quanto riguarda l'Europa da costruire questo peso c'è ed è anche avvertito dagli altri Paesi. Debbo purtroppo constatare che il Pd è il solo ad avvertire questa nostra importanza. Non lo sentono e anzi sono antieuropee le altre forze politiche: i Cinquestelle, la Lega di Salvini, i Fratelli d'Italia della Meloni e neppure Forza Italia di Berlusconi. Purtroppo non l'avverte neppure la sinistra-sinistra salvo a modo suo Massimo D'Alema.

Per fortuna il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella è pienamente consapevole della nostra importanza per l'Europa; lo è molto anche il Capo del governo Paolo Gentiloni e il Presidente emerito Giorgio Napolitano. Infine lo è anche il segretario del Pd Matteo Renzi, che si è battuto per l'Europa di Ventotene con notevole energia durante il suo governo. Esiste un documento ufficiale del Renzi capo di governo, nel quale si parla addirittura di un ministro delle Finanze unico per l'Eurozona e una cosiddetta Fbi, cioè una polizia europea contro il terrorismo del Califfato.

Ci auguriamo che questo atteggiamento sia sempre più attivo in questi mesi sia sul tema di rafforzare istituzionalmente l'Europa e sia sul tema di estrema importanza dell'immigrazione africana sul quale il nostro governo e in particolare il ministro Minniti stanno attuando una politica molto apprezzabile.

Questa partecipazione italiana alla costruzione di un'Europa federale sarebbe tanto più importante se il Pd riuscisse ad aumentare la propria forza parlamentare e quindi il proprio contatto con gli elettori che saranno chiamati alle urne nella primavera dell'anno prossimo. Purtroppo questa presenza politica nell'opinione pubblica non sembra ben praticata. Un Pd debole e bisognoso di strane alleanze non avrebbe molta importanza nella costruzione della nuova Europa. Questa insufficienza dovrebbe essere corretta rapidamente. I mezzi non mancano e li abbiamo spesso indicati. Purtroppo, da questo punto di vista, i nostri interlocutori sembrano sordi e in un mondo di sordi soffrono sia loro che non sentono sia noi che non siamo sentiti.

© Riproduzione riservata 24 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/24/news/perche_e_urgente_che_nascano_gli_stati_uniti_d_europa-176337173/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Le elezioni in Germania e il crepuscolo europeo
Inserito da: Arlecchino - Settembre 27, 2017, 12:34:18 pm
Le elezioni in Germania e il crepuscolo europeo
L’europeismo tedesco è finito in soffitta o in cantina. Il tema, rilanciato da Jean-Claude Juncker, non scompare ma passa in altre mani

Di EUGENIO SCALFARI
26 settembre 2017

Il leader dei socialisti tedeschi (Spd) Martin Schulz ha deciso di non fare alcuna coalizione con la Cdu di Angela Merkel. L’Spd che aveva nel precedente Parlamento il 26 per cento, in quello attualmente eletto è al 20 e questa è la ragione che ha motivato il passaggio dei socialisti all’opposizione.

Merkel non si è persa d’animo e ha in poche ore sostituito i socialisti di Schulz con i liberali-liberisti e i verdi. Invece d’una coalizione di centrosinistra ne ha fatta una decisamente di destra e per di più anti-immigrati.

In una situazione così diversa da quella che si auspicava e per di più con l’ingresso in Parlamento del partito populista di estrema destra semi-nazista, cresciuto dal 4 al 12,6 per cento, pensare che la Germania possa essere il perno del rafforzamento dell’Unione europea e soprattutto dell’Eurozona è diventato semplicemente immaginario: l’europeismo tedesco è finito in soffitta o in cantina. Il tema, rilanciato da Jean-Claude Juncker, non scompare ma passa in altre mani.

Certamente in quelle dell’Italia e anche in quelle di Macron, sebbene l’europeismo del presidente francese sia soprattutto un’Europa francese piuttosto che una Francia europea.
Questa situazione, che dopo l’intervento di Juncker sembrava molto positiva, si è trasformata nel suo contrario. Tutto questo a causa dell’egotismo di Schulz. Un personaggio che è stato per anni presidente del Parlamento europeo diventa l’affossatore dell’Europa regalando il suo Paese alle forze antieuropee.

È pur vero che la coerenza è una virtù molto fragile perché le persone cambiano continuamente il loro rapporto con il mondo

in cui vivono; ma di solito si tratta di cambiamenti marginali. Uno come quello di Schulz però non è marginale ma fondamentale ed è un tragico danno per le sorti dell’Europa, di quelli che ci vivono e in particolare della Germania, passata in poche ore dal bianco al nero.

© Riproduzione riservata 26 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/26/news/le_elezioni_in_germania_e_il_crepuscolo_europeo-176501302/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Da soli non si vince. Finalmente Renzi lo ha capito
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 06:39:15 pm
Da soli non si vince. Finalmente Renzi lo ha capito

L'apertura all'intera dissidenza di sinistra è una novità interessante.
Ma lo è ancora di più il nascere di una élite politica che consiglia il segretario del Pd

Di EUGENIO SCALFARI
08 ottobre 2017

Come sta la società, come stanno gli individui che ne fanno parte, come sta il popolo cosiddetto sovrano e insomma come sta il mondo e l’Italia che politicamente ci interessa? Ezio Mauro giovedì scorso si è posto analoghe domande chiedendosi soprattutto come sta la sinistra italiana: aveva immaginato una sorta di Spirito Santo laico che cercasse di tutelarla e incoraggiarla a dare il meglio di sé. Ma alla fine dell’analisi politica aveva concluso che quello Spirito Santo era disperato perché la sua tutela non era servita a niente e Lui alzava le mani piangendo.

Domenica scorsa anch’io avevo affrontato analoghi temi e avevo concluso l’articolo citando la celebre canzone del jazz americano intitolata Stormy Weather: “Il tempo è brutto e piove di continuo”. Così purtroppo stanno le cose e non sono migliorate in questi pochi giorni. Basta questo per ciò che riguarda l’Italia. Nel frattempo è accaduto di peggio in Sicilia dove si voterà per la Regione tra pochi giorni e dove un numero notevole di candidati aderenti al Pd e al partito di Alfano sono passati con Berlusconi. Altro che Stormy Weather: se la Sicilia politica fosse lo specchio dell’intera Italia bisognerebbe far suonare il Requiem di Mozart che musicalmente fa pensare più all’Inferno che al Paradiso.

Qualche segnale positivo è tuttavia arrivato alcuni giorni fa. Renzi ha aperto non uno spiraglio ma una porta e non solo a Pisapia, come del resto aveva fatto un mese fa, ma all’intera dissidenza di sinistra da Bersani a D’Alema, a Vendola, a Civati, insomma a tutti quelli che se ne sono andati o non erano mai entrati. Non è stato solo a prendere queste decisioni ma ha avuto suggerimenti di persone autorevoli che recentemente si sono avvicinate o riavvicinate a lui: Orlando, ministro della Giustizia ma in competizione con Renzi alle primarie, Romano Prodi, Walter Veltroni, i ministri Franceschini e Minniti.

L’apertura ai dissidenti sarebbe facilitata dal disegno di legge elettorale che prevede due terzi eletti con la proporzionale e un terzo votato in collegi che consentono una coalizione. Gli oppositori di questa legge che sarà presto presentata in Parlamento la considerano incostituzionale, ma non se ne comprende la motivazione. Non esiste alcuna norma costituzionale che vieti alleanze elettorali, mentre è altamente positiva l’abolizione delle preferenze che di solito aiutano il nascere di clientele, spesso di tipo mafioso.

Comunque l’apertura di Renzi è una novità ed è ancor più interessante il nascere di una élite politica che lo consiglia. Personalmente avevo auspicato che “il Re fosse assistito da una Corte di dignitari”; questa Corte si va finalmente formando e spero influisca utilmente sul segretario del partito. Avevamo dedicato a questa tesi la rievocazione del Partito comunista ai tempi di Togliatti e del gruppo che insieme a lui e con diverse intonazioni aveva governato il partito: Longo, Berlinguer, Amendola, Ingrao, Scoccimarro, Reichlin, Napolitano, Natta, Pajetta e molti altri. Spesso le loro idee differivano dalle altre e spesso anche da quelle di Togliatti, il quale, dopo ampie discussioni, prendeva lui la decisione come gli spettava, ma tenendo conto dei pareri diversi e talvolta addirittura divergenti dai suoi.

L’ideale è che questo avvenga anche con Renzi e il rientro dei dissidenti potrebbe arricchire il partito da questo punto di vista, come la presenza attiva di Cuperlo dimostra. Forse la pioggia di Stormy Weather cesserebbe di infradiciarci e il bel tempo della democrazia tornerebbe. Ma la democrazia che cos’è? Ecco un tema che non interessa soltanto l’Italia ma l’Europa e tutto il mondo occidentale. Cerchiamo di rispondere a questa domanda.

***

Democrazia è parola di origine greca, demos significa popolo. Disegna dunque un sistema politico in cui tutto il popolo partecipa al governo, naturalmente se ha voglia di partecipare.

La forma di questa partecipazione è varia. Può essere diretta (in forma referendaria) o indiretta e cioè con l’elezione da parte del popolo sovrano di un’assemblea deliberante. Naturalmente oltre all’elezione da parte del popolo sovrano esiste anche un potere con la sola competenza di controllare che la politica non invada campi diversi da quelli che gli sono stati riservati dalla Costituzione e dal principio di libertà che la stessa parola demos implicitamente contiene. Una democrazia illiberale tradisce il valore stesso del popolo sovrano e quindi non può e non deve essere accettata. Questo controllo da parte del potere giudiziario-costituzionale si estende anche alla democrazia diretta referendaria. Se la risposta del popolo deve essere data con un sì o con un no al quesito posto dai presentatori del referendum, occorre che la domanda non sia improponibile, come per esempio sarebbe quella che limitasse la libertà politica degli elettori.

Sembra dunque che la democrazia dia al popolo tutta la sovranità che gli compete. Ma le cose non stanno effettivamente così. Su questo punto ci fu un anno fa un dibattito tra Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale e giurista di grande vaglia, e me proprio sul tema della democrazia parlamentare. Lui sosteneva che il Parlamento e il referendum siano la vera e autentica forma del potere del popolo sovrano; io al contrario sostenevo che una democrazia elitaria, garantita dalla legge, avrebbe dovuto designare gli organi dirigenti del partito i quali a loro volta avrebbero compilato le liste dei candidati parlamentari. La mia tesi era molto semplice: gli elettori di solito non conoscevano i candidati designati dal partito, ma votavano il partito e cioè i suoi candidati. In sostanza il vero sovrano è la classe dirigente del partito che dà vita in questo modo a un sistema che io non chiamo democrazia ma più correttamente oligarchia.

E il popolo sovrano chi lo rappresenta? Direttamente non è il Parlamento a rappresentarlo mentre attraverso lo strumento referendario esso si rappresenta direttamente. Ma in una società sempre più complessa, con problemi economici, sociali, politici, internazionali, sempre più complessi, con l’aggiunta dell’immigrazione e del terrorismo mondialmente diffuso, il referendum non può essere la forma predominante delle decisioni politiche per la loro complessità e urgenza.
Non resta dunque che l’oligarchia la quale si traveste da diretta rappresentanza del popolo sovrano, ma non lo è.

Aggiungo a queste considerazioni la costante diminuzione dell’affluenza al voto dei cittadini elettori. Questa diminuzione dei votanti si realizza anche in forme assolutamente nuove. I grillini ne sono un esempio eloquente: aderiscono a un movimento che non ha alcun programma politico, non ha identità, non ha valori ma proclama un obiettivo: di spodestare i partiti esistenti siano piccoli o siano grandi, non importa, via tutti.

I grillini non hanno obiettivi politicamente concreti; fanno alcune proposte che piacciono a una moltitudine non politicizzata e contraria alla partitocrazia. Proposte che soddisfano alcuni bisogni popolari senza peraltro rimuoverne le cause che li producono. Non hanno una politica europea, oscillano sull’importanza della moneta comune. Sono privi di ideologie.

In realtà sono l’altra forma degli astenuti che ormai oscillano tra il 35 e il 40 per cento dei cittadini con diritto al voto. In più bisogna considerare le posizioni dei grillini e dei populisti di Lega e Fratelli d’Italia. Sapete la novità? A questo punto gli immigrati diventano una necessità
se diventeranno cittadini elettori. Ma ci vorrà un bel po’ di tempo. Idem per lo Ius soli, che se approvato attualmente riguarda i neonati. Perciò continua il diluvio e siamo fradici dalla testa ai piedi.

© Riproduzione riservata 08 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/08/news/da_soli_non_si_vince_finalmente_renzi_lo_ha_capito-177658432/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il Dio Tempo e la corte di Renzi Tutto scorre e le cose ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 21, 2017, 11:53:47 am
Eugenio Scalfari

Il Dio Tempo e la corte di Renzi
Tutto scorre e le cose cambiano.
E il Pd, già primo partito, rischia di perdere le elezioni.

A meno che non si rinnovi

Il tempo cambia di continuo; in un luogo fa un caldo secco, in un altro infuriano i temporali più terribili: fulmini, pioggia a diluvio, maremoti e terremoti. Ma cambia anche l’umore di chi vive il clima a modo suo: alcuni sfuggono il caldo e sopportano tranquillamente il freddo; altri all’incontrario. Infine c’è pure qualcuno che del tempo se ne infischia, non fa parte del suo buon vivere.

Così va il mondo, che vive il tempo in molti modi diversi l’uno dall’altro per quanto riguarda il clima. Ma con quella parola si designa anche una realtà del tutto diversa: quella del tempo che scorre via ogni attimo. Clima e temporalità, preistoria, tempo antico oppure medio o moderno o attuale o futuro. E tu che oggi osservi la temporalità non c’eri e non ci sarai quasi mai, tu vivi il presente attimo per attimo, non c’eri prima di nascere e non ci sarai dopo la morte.

Da questo insieme di considerazioni risulta evidente che il tempo è tutto ed è perfino collettivo e individuale. Da qui nasce l’idea che Dio altro non sia che il tempo o addirittura che il Tempo (ora va scritto con la maiuscola) sia Dio.

Se consideriamo il Tempo come Dio è evidente che una scintilla di temporalità sia dentro ciascuno di noi. Ieri eravamo di cattivo umore, oggi l’umore è discreto e forse domani sarà ottimo o pessimo. Ciascuno di noi cambia di continuo e così pure le famiglie, le comunità, i popoli. A volte c’è odio, a volte amore o allegria o malinconia o nostalgia o speranza. Il Tempo scorre e tu scorri insieme a lui ma a tuo modo. A me piacerebbe emigrare, a te no, a me l’astuzia, a te la sincerità e così via.

Possiamo applicare queste scintille di Tempo a tutto ciò che accade intorno a noi e commentarlo a nostro modo. Lunedì scorso per esempio papa Francesco, parlando con i giornalisti italiani accreditati a seguire il suo viaggio in Colombia, ha risposto all’argomento da alcuni sollevato sulla politica dell’immigrazione. Ha approvato la politica italiana su questo tema e in particolare quella adottata in Libia dal nostro governo che tende ad accettare entro tempi ragionevoli l’ingresso di emigrati africani in Italia e contemporaneamente ha lodato il nostro Paese per il programma di investimenti nella Libia tripolitana per far rientrare nella loro patria quelli che erano fuggiti, creando per loro lavoro e un’esistenza accettabile e garantita dalla presenza italiana: una lode molto apprezzata dal governo Gentiloni e dal nostro ministro Minniti che sono gli autori di questa politica.

Il Tempo c’entra anche in questo importante intervento del Papa. Fin qui la sua posizione era interamente orientata verso la libertà dell’immigrazione; adesso si è verificato un mutamento più realistico: immigrazione da accogliere e al tempo stesso sviluppo dell’economia africana per aiutare l’Africa a costruire una migliore società.

Ho colto questo passaggio perché dimostra la molteplicità temporale della politica. Non soltanto, ma soprattutto perché è la politica a rispondere a domande fondamentali per la nostra vita collettiva. La pace o la guerra credo sia tra le più importanti ma non la sola. Almeno in teoria, ma molto spesso anche nella realtà, si intraprende una guerra con tutto ciò che di rischioso e di doloroso comporta, sperando nella vittoria e quindi in una pace tutta a proprio favore. Ma ci sono anche i pacifisti ad oltranza, il loro pensiero è molto nobile anche se in parte è un sogno più che un progetto concreto. Si sogna che i conflitti tra le Nazioni siano risolti con la diplomazia e non con gli eserciti. È vero, la diplomazia più fare molto per affrontare i motivi di conflitto e realizzare gli obiettivi in un senso accettabile da tutte le Nazioni in contrasto, ma la guerra resta quanto meno uno strumento di minaccia se l’accordo non viene raggiunto.

È questa la realtà? Direi di no. Se fosse questa le guerre sarebbero assai più rare e invece sono assai frequenti nella storia. La ragione è ancora e sempre quella del potere: un sentimento insopprimibile nelle classi dirigenti che hanno i mezzi per influenzare la pubblica opinione. Tutte le guerre, locali o internazionali, sono nate così: un sentimento di potere, un’opinione pubblica conforme e la sconfitta del pacifismo.

La vera realtà è che il desiderio del potere porta alla guerra, la diplomazia viene dopo per accrescere i vantaggi di una vittoria o per limitare i danni d’una sconfitta.

Dobbiamo tuttavia osservare che l’esistenza ormai diffusa di armi atomiche ha avuto, almeno pare, l’effetto di impedire le guerre mondiali. Non i conflitti locali dove usare armi atomiche sarebbe pura follia. Infatti le guerre locali abbondano, ma sono tollerate: è sempre la ricerca del potere a provocarle, ma su scala sopportabile.
Gli esempi, in questa fase, sono in Siria e in generale nel Medio Oriente. Una miscela assai grave è quella della Corea del Nord, ma lì il pericolo di provocare un conflitto mondiale è presente e finora incita la diplomazia a portare avanti un negoziato sempre che il sentimento del potere non abbia la prevalenza.

Chiuderò queste riflessioni con qualche considerazione sull’Italia, dove si sta per giocare il tema delle elezioni politiche. Avverranno forse tra sei mesi, ma non si può escludere che avvengano prima. I protagonisti sono a dir poco cinque: Renzi, la sinistra-sinistra, Berlusconi, Salvini, i 5 Stelle. Evidentemente troppi per dare un governo al Paese, quale che ne sia l’orientamento.

Per raggiungere questo risultato occorre che i partiti minori si misurino con i maggiori ad essi più prossimi oppure siano ignorati o eliminati. E quindi: la sinistra-sinistra, che non ha alcun desiderio di confluire con il Pd, sarà sconfitta ma toglierà voti a Renzi.

La destra dovrà accettare l’alleanza con Salvini, ma questo schieramento difficilmente otterrà la vittoria.
Renzi, con Alfano e il sindaco Orlando, ma senza la sua sinistra, rischia di arrivare terzo dopo la destra e dopo Grillo. A meno che non si apra una serie di grandi nomi che potrebbero rilanciare il partito in tutta Italia e probabilmente anche in Sicilia.

Ho più volte suggerito a Renzi questa decisione: costruire una Corte, come facevano un tempo i Re che si circondavano dei notabili più efficienti, più popolari, più ascoltati. Nel Pd o vicino ad esso come sono molti a cominciare da Romano Prodi e da Walter Veltroni. E molti anche in Sicilia.

Una mossa di questo tipo metterebbe Berlusconi in difficoltà a mantenere l’alleanza con la Lega di Salvini e probabilmente gli stessi grillini perderebbero una parte dei loro seguaci e il numero degli astenuti diminuirebbe a favore di un nuovo Pd. La verità è infatti questa: bisogna costruire un nuovo Pd e Renzi da solo non lo può fare. Con una Corte di quel genere la forza del Pd aumenterebbe in Sicilia, in Italia e anche in Europa.

Temo però che Renzi non si senta disposto di affidarsi ad una vecchia ma ormai nuovissima classe dirigente. Se non si convertirà alla realtà, tra pochi mesi sarà fuori gioco e purtroppo cambierà in peggio la democrazia italiana e anche quella europea.

17 settembre 2017© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/09/13/news/il-dio-tempo-e-la-corte-di-renzi-1.309872?ref=fbpe


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Scorciatoie populiste, gli errori più gravi del leader
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 23, 2017, 10:37:46 pm
Scorciatoie populiste, gli errori più gravi del leader
Sulla questione Bankitalia Matteo Renzi punta sui numerosi cittadini che maledicono le banche.
Ma la sua scelta causa una serie di contraccolpi

Di EUGENIO SCALFARI
22 ottobre 2017

Dobbiamo tornare sulla questione Renzi-Banca d'Italia non perché ci siano novità ma per esaminare le conseguenze e le varie interpretazioni. In favore di Renzi c'è un certo tipo di populismo: quei numerosi cittadini con patrimoni e redditi alquanto limitati, che - a torto o a ragione secondo i casi - maledicono le banche che per loro rappresentano gli interessi di un capitalismo ladro. È assai probabile che Renzi, conoscendo questo fenomeno che tutti conosciamo, abbia puntato su di loro per allargare la platea dei suoi ascoltatori e sperabilmente degli elettori per il Pd. Questa motivazione è tuttavia molto esile, rispetto alla mole dei contraccolpi che ha suscitato e susciterà.

Il primo è la contrarietà di una buona parte della classe dirigente del Pd, di quasi tutta la classe dirigente del Paese e della pubblica opinione. Il secondo è un errore vero e proprio: gli italiani che se la prendono con le banche hanno di mira quelle operanti sul loro territorio, qualcuna grande e molte piccole e locali, ma non la Banca d'Italia della quale molti ignorano le funzioni. L'attacco di Renzi invece è stato soltanto nei confronti dell'Istituto di emissione e non alle banche e banchette che egli anzi difende. È curiosa questa dicotomia: lui spera di ottenere voti da chi odia le banche, ma parlando contro la Banca d'Italia dimentica che questa ha come compito di difendere le banche in difficoltà e di solito lo esplica.

Il terzo errore riguarda il suo rapporto con le personalità più autorevoli del Pd. Nella celebrazione effettuata sabato della scorsa settimana al teatro Eliseo gremito nella platea e nelle tribune dalla parte migliore e più attiva del partito, Renzi ha riconosciuto la necessità che il partito non fosse chiuso ma aperto: un partito che aveva il compito di ringiovanire e ricostruire la sua struttura e la sinistra che è in crisi in tutti in Paesi d'Europa salvo finora in Italia. Prima di lui aveva parlato Walter Veltroni e poi Paolo Gentiloni. Veltroni in qualche modo aveva fatto la storia del partito, le origini, la sua cultura politica, e le sue caratteristiche strutturali. Quando Renzi ha preso per ultimo la parola ed ha concluso la celebrazione, ha riconosciuto a Gentiloni un'efficiente condotta del governo di cui il Pd ha la maggioranza, e a Veltroni addirittura una qualità di padre del partito e in qualche modo padre della patria. Sostenendo che queste persone facevano parte insieme a lui della dirigenza del Pd e che altre ancora ne avrebbe accolte accanto a sé per formare una vera e propria classe dirigente con la quale avrebbe discusso e concordato tutte le azioni importanti da svolgere. Insomma una sorta di super direzione con la quale il partito avrebbe avuto una guida collettiva, di cui naturalmente il segretario era il capo riconosciuto.

Sono passati pochi giorni da quella riunione ed è scoppiato il caso Banca d'Italia. Discuteremo a parte la sostanza di quel caso, ma voglio ora far notare ai lettori che del resto ne sono certamente al corrente, che Veltroni non è stato informato minimamente dell'attacco all'Istituto di emissione e nessuna delle personalità ne era stata informata a cominciare ovviamente da Romano Prodi. Nessuno sapeva nulla, neanche Gentiloni che ricevette però la mozione per sottoscriverla con l'accordo del governo.

Per fortuna del Paese a Gentiloni quella mozione non piacque affatto così come era stata redatta dal Renzi e dal suo "Cerchio magico". Perciò mise al lavoro Anna Finocchiaro per modificarla non solo nella forma ma anche nella sostanza. Finocchiaro è molto brava in questo genere di questioni delicatissime e riuscì a modificarla in gran parte ma non totalmente. Tuttavia diventò accettabile per un governo come quello che abbiamo anche se però Renzi aveva già diffuso pubblicamente il testo originario. Quindi quello ufficiale contiene le correzioni notevoli di Finocchiaro ma quello del partito nella sua originaria integralità è comunque stato reso noto con tutti i mezzi di comunicazione. La reazione di Veltroni si compendia in due parole: "Documento incomprensibile e inaccettabile". Oltre a lui e con analoghe motivazioni si è schierato il presidente del gruppo Pd al Senato Luigi Zanda e molte altre personalità del partito. Il sigillo a queste posizioni è la dichiarazione fatta da Giorgio Napolitano che in qualche modo rappresenta e sostiene in ogni occasione con le appropriate motivazioni il bene del Paese.

L'altro errore compiuto da Renzi con la sua mozione è il più complicato e il più devastante di tutti ed è la coincidenza della posizione renziana con quella di Grillo, di Salvini e di Meloni. Questi movimenti sono sostanzialmente populisti in una fase dove appunto populismo e antipopulismo sono i due grandi fronti che si combattono in tutta Europa. L'errore, di cui secondo me Renzi non si è minimamente reso conto, è per l'appunto una sorta di populismo ancora iniziale; se questo tipo di politica continuerà, diventerà la vera caratteristica d'un partito nato su tutte altre basi e tutt'altre finalità. Definisco populista l'attacco alla Banca d'Italia perché appunto Renzi cerca nuovi elettori in fasce sociali che praticano inconsapevolmente un populismo di notevole marca: attaccare le banche e le banchette in genere non è una posizione seria e motivata: è un modo di pensare che cerca il male dove non c'è o dove ci può essere ma non come categorie (banche e banchette) ma su singoli istituti di credito e in alcune specifiche occasioni.

Di tutto questo credo che Renzi non si sia reso conto e proprio per questo ha compiuto un ulteriore errore dal suo punto di vista: vuol ingraziarsi chi vede il proprio male economico nelle banche e attacca non quelle banche ma la Banca d'Italia accusandola di far del male al sistema mentre la funzione che la Banca d'Italia esercita e che in larga misura effettua è proprio quella di proteggere il sistema bancario. Si vedrà ora se Ignazio Visco, governatore dell'Istituto di emissione sia incline a ritirarsi dalla carica o viceversa desidera essere riconfermato per i prossimi sei anni.

Ho avuto occasione tre giorni fa di parlare telefonicamente col governatore e posso riferire che lui non pensa affatto di ritirarsi anche se, qualora le autorità competenti lo pregassero di dimettersi per dar luogo a un mutamento, lui certamente darebbe le dimissioni per comportarsi come richiesto. Ma se questo non avverrà (e sicuramente non avverrà) il governatore attenderà le decisioni del presidente della Repubblica, lieto se saranno una riconferma. Spiegherà poi tutte le sue azioni con opportune documentazioni quando sarà interrogato dalla commissione incaricata di approfondire il funzionamento del sistema bancario italiano.

***

Ho già scritto prima che in tutta Europa è in corso uno scontro tra democratici e populisti. Inizialmente i movimenti populisti europei erano di piccola taglia elettorale e rappresentavano appunto quei piccoli gruppi di elettori i quali detestano la democrazia, che secondo loro, è un regime che fa l'interesse di pochi e danneggia quello del popolo sovrano. Negli ultimi tempi però questi piccoli movimenti che spesso non arrivavano neppure ad oltrepassare la soglia di voti che bisogna avere per entrar nei vari Parlamenti, hanno avuto una crescita di rapidità impressionante e quantitativamente di notevole rilievo. In tutti i Paesi d'Europa a cominciare dalla Germania, dall'Olanda, dalla Spagna, dalla Grecia, dall'Italia. In Francia no, questa crescita non c'è stata. Non c'è stata neppure negli otto Paesi che non hanno la moneta comune. Essere fuori dall'Eurozona è già di per sé un motivo di populismo monetario che consente ad essi di non conformarsi alla politica europea ma di averne una propria che spesso è più aperta verso Mosca che verso Bruxelles.

***

Il fatto della massima importanza che da un paio di anni sta avvenendo in tutta Europa è la trasformazione profonda della politica. Fino a un paio d'anni fa la politica era alla ricerca di quali fossero i provvedimenti da adottare per conseguire il bene del popolo. Il bene in tutti i sensi: maggior benessere economico, sociale, culturale. E poi di rapporti possibilmente amichevoli con le altre nazioni e in particolare con quelle politicamente più importanti nel proprio continente e nel mondo intero specie in tempi di società globale.

Infine la politica doveva perseguire e tutelare i grandi valori della libertà e dell'eguaglianza, senza mai abbandonare la tutela di uno di quei due valori che in quel momento non aveva dalla sua la maggioranza del popolo, ma che non poteva e non doveva in nessun caso scomparire. Un paese che gode della massima libertà ma con notevole distacco dall'eguaglianza sociale deve tuttavia tutelarne quel valore e viceversa. Una libertà senza eguaglianza affida il bene comune ai gruppi più forti, specie economicamente, di quel Paese se invece è l'eguaglianza a trionfare e la libertà a scomparire siamo a un passo dalla dittatura come del resto è accaduto in Russia.

Quei due valori sono dunque fondamentali entrambi e per mantenerli come tali occorre realizzare il mandato che ci viene dal pensiero di Montesquieu: una struttura politica di poteri separati l'uno dall'altro anche se al vertice debbono condividere lo stesso obiettivo e cioè la realizzazione del bene sociale attraverso la separazione dei poteri: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Quei poteri separati debbono tuttavia perseguire il medesimo fine che è appunto il bene comune e questo è assicurato da un vertice che alla tutela di quel fine è dedicato. Di solito si tratta del presidente della Repubblica e di una Corte non giudiziaria ma costituzionale che giudica infatti la costituzionalità degli atti compiuti dai singoli poteri.

Per restaurare e rinnovare la democrazia occorre un partito che col populismo non abbia nulla a che vedere e che pensi alla politica che abbia una P maiuscola come usava Aristotele. Quella maiuscola significa appunto una politica che persegua il bene comune in tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli economici e sociali, ma si compendiano appunto nella libertà e nell'eguaglianza, entrambe tutelate da appositi organi istituzionali. Avevamo sperato che il Pd fosse lo strumento politico per la realizzazione o il mantenimento o la maggiore efficienza e comunque l'atmosfera politica del Paese e del continente cui apparteniamo e questo era infatti la finalità del Partito democratico quando è nato dieci anni fa. E non voglio dire che sia scomparsa questa finalità, ma dico che è in pericolo e che il Partito democratico oscilla molto da questo punto di vista. Purtroppo Renzi ha il carattere che ormai conosciamo. Speravo che l'avesse cambiato e ne ero felice. Vedo che non è avvenuto ed anzi ha rifatto un passo indietro dalla strada appena imboccata.

Ora deve scegliere tra ritorno all'idea del partito aperto e un organo di consultazione e di attuazione di quanto deciso, oppure populismo fino in fondo all'insegna del "comando io" e allora, come Grillo e Salvini, diventeremo il peggio del peggio.

© Riproduzione riservata 22 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/22/news/scorciatoie_populiste_gli_errori_piu_gravi_del_leader-178958725/?ref=fbpr


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il fattore Gentiloni per ricucire lo strappo tra generazioni
Inserito da: Arlecchino - Novembre 07, 2017, 11:57:58 am
Il fattore Gentiloni per ricucire lo strappo tra generazioni
La continuità dura mezzo secolo. Poi avviene la rottura con i suoi effetti sulla politica. Non è affatto escluso che il presidente del Consiglio sia il successore di se stesso

Di EUGENIO SCALFARI
05 novembre 2017

LA STORIA e la filosofia della storia si pensano e si scrivono in vari modi. Si cerca anche di scoprire quali sono gli elementi essenziali e ricorrenti che alla storia danno un carattere, ma finora quell’elemento non è stato individuato tranne che in rare occasioni. Lo individuò a suo modo Cartesio e poi Kant e poi Hegel e Benedetto Croce. Molti altri la storia la fanno ma senza studiarne il carattere.

Quasi nessuno, ch’io sappia, ha studiato l’importanza delle generazioni, eppure quella è la vera legge che ha governato e governa l’andamento della storia. Le generazioni si succedono, il padre e la madre guidano ed educano i figli, la loro sensibilità, il loro modello di comportamento e anche la vita del loro futuro, gli studi che dovranno fare, la qualità degli amici che frequentano, la scuola dove vengono istruiti. Naturalmente i genitori, madre e padre, hanno compiti diversi ma — se la famiglia è omogenea — i figli crescono tra loro.

Il frutto di questo pensiero comincia fin dall’inizio dell’adolescenza, verso i 14, 15 anni. A quel punto figli e figlie cominciano a pensare in modo indipendente anche se in parte informati e influenzati dai genitori e anche dalla scuola. A 20 anni sono ormai del tutto autonomi e i pensieri e i comportamenti sono decisi da loro anche se i suggerimenti dei genitori continuano e vengono ascoltati. Tra i 22 e i 25 anni è ormai il loro tempo e la loro generazione comincia ad operare in modo non più guidato ma autonomamente consapevole.

Ora la domanda è questa: la nuova società rinnovata ma continuativa fino a quando sarà in grado di trasmettere alla successiva la continuità con la precedente? L’esperienza insegna che la continuità dura di solito tre o al massimo quattro generazioni, un secolo; ma più spesso mezzo secolo o poco più, cioè 50 o 60 anni al massimo. Dopo questo lasso di tempo avviene la rottura generazionale, con i suoi effetti sulla cultura ma soprattutto sulla politica: i suoi vizi ma anche le sue virtù. In teoria la società ( polis) ha il compito di fare il bene del popolo e chi governa conferma sempre che questo è il suo compito e questo il suo obiettivo. Talvolta coincide con la realtà ma più spesso no o per errori commessi da chi governa o con il desiderio di potere che induce a decisioni che spesso producono rotture inconciliabili. Bisognerebbe cambiare questa storia ma essa coincide con la storia del mondo, e cioè con la storia delle rotture, di generazione in generazione.

Sono di vario tipo queste rotture e avvengono soprattutto per lo scorrere del tempo che segna cambiamenti epocali e nuove attitudini per viverli e gestirli. Esigono anche che vi siano personalità che guidino questi mutamenti con l’intento esplicitamente dichiarato, anche se non sempre aderente alla realtà, di gestire quella rottura e le cause che l’hanno determinata. Bisognerebbe raccontarla questa storia, ma equivale alla storia del mondo. Occorre però capire in quale situazione si trova la generazione che attualmente decide le sorti del Paese. Non c’è modo migliore per l’inizio di un’epoca nuova recependo e guidando il cambiamento che la rottura ha prodotto ma assicurando nel contempo la continuità.

La cosa più singolare è che in questo momento la rottura si è verificata in tutto il mondo democratico occidentale e non soltanto nella politica ma nella vita e nella sua complessità: la famiglia, i rapporti uomo donna, la scuola per i figli, le Istituzioni che debbono governare e controllare il Paese, la propria professione, il lavoro, il futuro.

Naturalmente la rottura epocale della quale stiamo vivendo l’inizio non ha le stesse motivazioni in tutti i Paesi dell’Occidente. Noi dobbiamo comunque essere al corrente di quella prodotta nel nostro Paese e in quella Europa nella quale viviamo. Personalmente credo che la nostra rottura politica sia stata motivata dal sistema nel quale operano molti partiti. Negli altri Paesi d’Europa e d’America non è così: nella generalità dei casi esistono Parlamenti con due partiti, una destra e una sinistra che hanno in comune il sentimento democratico e cioè fare il bene del popolo, ma inteso e applicato in modi diversi. Uno dei due vince e ha quindi la maggioranza assoluta anche se l’affluenza al voto dei cittadini elettori è in costante diminuzione. A differenza degli altri Paesi, nel nostro i partiti che hanno un rilievo, anche se si distinguono tra quelli maggiori e quelli minori, sono a dir poco cinque e questa situazione determina uno stato confusionale molto elevato. Nella storia italiana c’è sempre stata, dalla caduta della Destra storica, una molteplicità di partiti dovuta al trasformismo imperante. Naturalmente questo trasformismo fu influenzato dall’avvicendarsi delle generazioni. L’Italia, proprio per questa ragione, non è mai riuscita a unirsi sostanzialmente. Esistono un Nord, un Centro, un Sud e due isole. Affermare che le condizioni di questo territorio siano comuni a tutti è un errore madornale. Lo Stato in Italia è una costruzione più formale che sostanziale. Fu fondato nel 1861 non a caso da personaggi molto diversi l’uno dall’altro: Mazzini, Garibaldi, Cavour. Fu un’operazione della massima importanza e pluralità, ma insieme all’unità formale e politica non ci fu l’unità sostanziale dei sentimenti, del lavoro, delle risorse, dei costumi. Rimasero differenti e in parte tuttora lo sono. L’unità d’Italia fu una rottura dell’equilibrio politico precedente ma, come già detto, fu istituzionale ma non sostanziale e se guardiamo all’Italia di oggi questa situazione risulta ancora più evidente.
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Mentre leggete queste righe si sta votando in Sicilia per eleggere il governatore di quella Regione a statuto speciale e i membri del suo Parlamento. I sondaggi che precedono il voto danno la destra di Berlusconi e di Salvini in gara per il primo posto. Chi perderà sarà il secondo; la competizione al vertice è dunque tra la destra e il Movimento 5 Stelle. Il terzo — risulta dai sondaggi — sarà il Pd. Comunque l’ingovernabilità non è prevista perché, se saranno i 5 Stelle a vincere saranno loro a governare.

Le elezioni siciliane avranno una influenza negativa sul partito renziano quando si andrà alle elezioni generali nella primavera del 2018? La maggior parte dei commentatori sostiene questa tesi. Personalmente ho molti dubbi e anzi ho quasi la certezza che questa influenza negativa non ci sarà. La ragione è questa: l’influenza delle elezioni regionali o comunali dura sicuramente il primo mese e quello successivo; a volte arriva a tre mesi ma certamente non di più. Il popolo degli elettori che va a votare alle elezioni nazionali si è già scordato di quello che è avvenuto in Sicilia, è normale che avvenga così; può influenzare alcuni professionisti della politica ma non il popolo che va a votare. Tra quelle siciliane e quelle nazionali corrono quattro mesi o forse cinque secondo che il voto si faccia a febbraio o a marzo o addirittura ad aprile. Quindi non è questa la ragione che in questo momento turba fortemente il Partito democratico.

In Italia, come abbiamo già detto, la democrazia è affidata a un numero piuttosto elevato di partiti, per consistenza maggiori alcuni e minori altri ma tutti comunque operanti attivamente nella società e nelle istituzioni.
Negli altri Paesi europei questa molteplicità di partiti non esisteva o perlomeno era di scarsissima influenza rispetto alla governabilità. Adesso tuttavia la situazione in Europa è profondamente cambiata, perlomeno in alcuni Paesi: la Spagna sta vivendo una crisi addirittura di sopravvivenza unitaria; la Germania ha subito (ed anche l’Austria) un profondo mutamento. Dopo la fine dell’ultima guerra mondiale il cancelliere Adenauer governò la Germania nella sua ripresa dopo la sconfitta nazista e nel suo europeismo che peraltro non arrivò mai oltre la confederazione dei vari Stati tra di loro. Quando arrivò Merkel esisteva già l’alleanza tra il suo partito, Cdu, e il Csu bavarese. Questa alleanza, con la legge elettorale tedesca, riuscì per un periodo a governare da sola o a passare all’opposizione di fronte a una vittoria dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco. Successivamente però la situazione cambiò e la Cdu ebbe sì il maggior numero di parlamentari ma non la maggioranza assoluta. Cominciarono dunque le “grandi coalizioni”. Quelle più frequenti furono con il partito socialdemocratico che però ebbe un peso molto notevole sulla politica generale del Paese.

Questa volta la situazione elettorale è andata diversamente: il Partito socialdemocratico aveva già perso la sua ala sinistra (Linke) e Schulz che ne era diventato da poco tempo segretario ha dovuto registrare una perdita molto pesante nelle ultime elezioni. In conseguenza ha deciso di passare comunque all’opposizione per tentare di risollevare il suo partito e in tal modo ha messo Merkel in seria difficoltà: deve cercare alleanza alla sua destra dove i liberali- liberisti sono decisamente conservatori nell’economia del rigore e antieuropei: l’Unione confederata sì, la federazione no a nessun patto. Ora Merkel si trova in questa molto scomoda ma inevitabile situazione: il suo partito di centrodestra si allea con la destra. Il suo peso in Europa è inevitabilmente diminuito; il tandem con la Francia è diventato di fatto inesistente perché Macron si avvale della situazione tedesca e si è posto come numero uno dell’europeismo operante. Per alcuni versi la situazione italiana somiglia a quella tedesca anche se gli attori sono profondamente diversi da quelli della Germania. Esaminiamo questa situazione.

Cominciamo dal Movimento 5 Stelle nel quale si è prodotta una situazione completamente diversa da prima: il candidato premier e quindi il capo del partito è da poche settimane Di Maio il quale sta dimostrando un’attitudine a guidare un movimento ormai di fatto diventato partito, molto diversa da quella del suo predecessore. Grillo aveva in mente soltanto l’abbattimento di tutti gli altri partiti. Il fatto di raggiungere una maggioranza assoluta lo lasciava abbastanza indifferente perché non avrebbe mai raggiunto il 51 per cento da solo. Del resto, come ho già detto, a lui non interessava governare: voleva soltanto una scopa per portar fuori l’immondizia degli altri partiti; poi sarebbe accaduto quello che nessuno avrebbe potuto prevedere e tantomeno Grillo.

Di Maio è invece completamente diverso e Grillo è ormai diventato una sorta di suggeritore, ascoltato o no. Di Maio non vuole spazzar via gli altri ma vuole vincere. Sa benissimo però che quand’anche vincesse le elezioni di primavera da solo non potrebbe governare e quindi qualche alleanza dovrà pure prevederla visto che il premio esistente nella precedente legge elettorale è ormai del tutto scomparso. È pur vero che un 5 Stelle alleato direttamente con un altro partito allo stato dei fatti è imprevedibile anche perché probabilmente provocherebbe una forte diminuzione degli aderenti i quali sono grillini per protestare. Se gli domandi il programma ti rispondono che ce l’hanno ma non te lo vengono a spiattellare. Protestano e quindi sono dei protestatari, il che in qualche modo li avvicina ai populisti.

Di Maio non può certo abbandonare questa posizione ma deve in qualche modo inserirsi nella politica e non sputarle contro. Infatti ha previsto che alle prossime elezioni inviterà anche e soprattutto persone competenti nelle materie principali del governo, in economia, politica sociale, scuola, problemi europei, immigrazione. Personalità competenti e simpatizzanti anche di altri partiti. Se riuscirà in questo disegno avrà alcune alleanze indirette ma operanti e quindi il suo 25 per cento potrebbe avvicinarsi addirittura al 40. Insomma dei Verdini su misura 5 stellata. Non a caso ci sarà nei prossimi giorni un lungo incontro- scontro tra Di Maio e Renzi. Ho la vaga sensazione che l’incontro sarà più interessante dello scontro, altrimenti non ci sarebbe questo appuntamento televisivo da entrambi desiderato. Mostreranno tutti e due i muscoli al pubblico, ne parleranno tutti i giornali. Non ho ben capito quali siano le ragioni di Renzi per questo appuntamento ma si capiscono benissimo quelle di Di Maio, dunque è lui a guadagnare più dell’altro. Comunque con Di Maio i 5 Stelle, diventati ormai un partito, possono guadagnare qualche punto: dall’attuale 28 possono anche arrivare alla trentina, certo non di più.

La destra berlusconiana. Non può che chiamarsi così anche se è alleata di Salvini e di Meloni che insieme i sondaggi li prevedono al 18 per cento mentre Forza Italia di Berlusconi gira tra il 12 e il 14. Uniti insieme arrivano più o meno al 30. Ma chi è il capo? Salvini rivendica questa posizione e numericamente insieme ai Fratelli d’Italia ce l’ha, ma Berlusconi è un giovanotto di ottant’anni ancora interessante e soprattutto interessato. L’alleanza con Salvini è indispensabile per lui ma può eventualmente cercarne altre, mentre con Salvini non ci va nessuno; è lui che deve raccogliere voto per voto come ha tentato di far perfino in Sicilia. Ma, Meloni a parte, nessun altro si alleerà con Salvini al posto di Berlusconi quindi Salvini ha un percorso solitario, Berlusconi può cambiare gioco come vuole. Non a caso il primo è antieuropeista e il secondo è europeista in piena regola anche se dell’Europa non gli importa assolutamente niente ma gli è molto utile conservare l’immagine e non a caso è tuttora iscritto al partito popolare dell’Unione. Comunque l’alleanza attuale gira anch’essa intorno al 30 per cento, alla pari più o meno con i 5 Stelle.

Il Partito democratico è guidato da un Renzi che ha riscoperto, dopo la celebrazione del decennale dalla fondazione del partito, il fascino del “Comando io”. Evidentemente è un atteggiamento caratteriale dal quale non si separerà mai.

Il “Comando io” è una realtà generale nella storia dei popoli: se non c’è un leader non esiste un partito. Il tema però non è quello di mirare la leadership ma la sua struttura operativa che deve essere collegiale come è sempre stata la civiltà occidentale. C’è uno Stato Maggiore sempre e dovunque: negli eserciti, nelle comunità, nelle religioni, nei sindacati, nelle famiglie. Un leader e i suoi compagni. Il “Comando io” ce l’hanno soltanto i dittatori ma quelli ormai, almeno in Occidente, non esistono più.

Del resto il Partito democratico è percorso da crescenti fremiti: Orlando freme, Franceschini freme, tutte e due sono nel governo ma tutte e due controllano pacchetti di voto nel partito. Ma poi c’è un altro gruppo di comando di grande autorevolezza a cominciare da Veltroni, da Prodi, da Enrico Letta, che dovrebbero far parte dello Stato Maggiore. Quindi il “Comando io” è pura follia in un sistema democratico. Naturalmente c’è un Rosato, una Boschi, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Serracchiani, ma quello è il giglio magico non uno Stato Maggiore.

Dopo avere esaminato i tre principali raggruppamenti politici, contornati da raggruppamenti minori, a cominciare dai dissidenti di D’Alema e di Bersani, chiudiamo parlando del governo Gentiloni. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, si è rivelato in pochi mesi un vero uomo di governo, fu investito di questa funzione quando Renzi la rifiutò dopo la sconfitta referendaria e indicò lui al presidente della Repubblica. Sembrava un suo sostituto messo a Palazzo Chigi e obbediente alle sue indicazioni.

Che Gentiloni sia riconoscente e quindi affettuosamente amico di Renzi è pacifico ed è dovuto, ma Gentiloni, che è persona di notevole intelligenza politica e moralità, si è immedesimato, come era ovvio e necessario fare, con la carica che gli fu affidata. L’ha condotta con indipendenza e intelligenza e ha creato un binomio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che rappresenta uno dei punti più saldi di una situazione peraltro molto agitata. Nel suo governo ci sono alcune personalità di prim’ordine sulle quali una dominante: il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ne parlo perché la sua personalità politica è piuttosto rara: oltre che ministro dell’Interno lo è anche dell’Immigrazione, degli Esteri per quanto riguarda la costiera africana del Mediterraneo e perfino dell’Economia per quanto riguarda le ripercussioni migratorie. È legato soprattutto a Gentiloni ed è di fatto il suo braccio destro. Questo governo condurrà l’Italia fino alle elezioni generali di primavera, ma non è affatto escluso che Gentiloni sia il successore di se stesso. Gli uomini su cui contare per il nuovo governo li conosce benissimo. Una parte saranno di nuova provenienza politica e una parte saranno quelli riconfermati. Se Renzi formasse il suo Stato Maggiore probabilmente riguadagnerebbe punti e arriverebbe di nuovo al 30. Tre gruppi al 30 rendono il Paese ingovernabile, tanto più che una nuova generazione non è ancora operativa e quindi il popolo sovrano è ancora di vecchio stampo.

In realtà la nuova maggioranza la deve trovare Gentiloni altrimenti l’ingovernabilità non è superata. I Verdini non bastano, bisogna che il Pd cresca e non si chiami più partito renziano. Lui resti il leader ma senza Stato Maggiore è meglio che si ritiri a Pontassieve.

© Riproduzione riservata 05 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/05/news/il_fattore_gentiloni_per_ricucire_lo_strappo_tra_generazioni-180267205/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. L'uomo solo al comando non batte i populismi di massa
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:22:35 pm
L'uomo solo al comando non batte i populismi di massa
La destra di Berlusconi, di Salvini e di Meloni è unita all'esterno, disunita all'interno. Ma per la raccolta dei voti si presentano tutti e tre sottobraccio. Il Pd di Renzi deve essere aperto non solo nei confronti dell'esterno ma anche all'interno

Di EUGENIO SCALFARI
12 novembre 2017

Debbo cominciare l'articolo politico che intendo scrivere con una citazione di Freud ricordata di recente sul nostro giornale da Massimo Recalcati. "L'uomo non è padrone nemmeno a casa propria". Ma perché non è padrone? Perché è certamente alle prese con l'ingovernabilità tra la sua vita e la sua coscienza. L'Io dovrebbe impedirla e spesso questa ingovernabilità viene risolta, ma l'Io a sua volta è un vigilante vigilato: da un lato vigila sulle sue passioni, buone o cattive che siano, e dall'altro le festeggia anche lui ed anzi ne accresce la potenza. Così le passioni diventano sempre più irruenti e rendono la tua coscienza verso il tuo prossimo e verso te stesso sempre più fragile. Questo è il problema. È politico? Sì è anche politico, anzi lo è soprattutto perché la politica è il confronto tra il pubblico e il privato, tra gli interessi particolari e quello generale.

Noi italiani ed anche noi europei siamo giunti ad un punto in cui quel confronto è diventato generale. Gli esempi più evidenti li danno in questa fase l'Italia e la Germania dal punto di vista della governabilità. L'Italia avrà probabilmente, dopo le elezioni del 2018, tre partiti maggiori di pari forza, che non saranno in grado di stabilire alleanze e questo complica ulteriormente il problema.

La Germania ha già avuto le elezioni e la conseguenza è stata quella di un taglio totale della sinistra: la Merkel rappresenta il centro ed è alleata con la destra. Niente di male, può accadere ed è infatti accaduto più volte, ma c'è un'aggiunta da fare: nella situazione attuale aumenta il populismo. L'unico vero vincitore in tutta Europa è il populismo, con la sola eccezione della Francia dove è stato duramente sconfitto. Germania, Spagna, Italia e insieme a loro gran parte dell'Europa dell'Est sono dominate dal populismo nelle sue varie forme che costruisce per accrescere la sua influenza sul popolo (cosiddetto) sovrano.

Il nostro populismo è ultra-trionfante. Se si guarda al referendum costituzionale dell'anno scorso, esso registrò il massimo dell'affluenza come non si era mai vista da molti anni e il massimo dei No, alcuni dei quali furono espressi da personaggi di rilevante autorità culturale, a cominciare da Mario Monti, o da rappresentanti della sinistra dissidente, ma a dir poco il 70 per cento dei No fu votato da persone che avrebbero votato contro qualsiasi referendum proposto da partiti costituzionalmente riconosciuti. In fondo la sostanza di quel referendum, al di là di imperfezioni (numerose) si basava su un punto di notevole importanza: il passaggio da un Parlamento fondato su due Camere a una Camera unica, come avviene in tutti i Paesi democratici dell'Occidente.

Se dal referendum vinto dal populismo passiamo all'esame politico del campo attuale troviamo il populismo in tutta la destra: quella di Berlusconi ha le caratteristiche del grande attore di teatro che però impersonava qualunque personaggio e recitava qualunque testo, comico o drammatico che sia, ma l'attore è sempre lui e piace ad un pubblico molto numeroso. Un altro populista è Salvini. Bossi non lo era, Zaia e Maroni non lo sono, ma Salvini sì ed opera entro tutti i Comuni e le Regioni del Nord identificati con un Nord che voleva dominare sull'Italia intera dopo averla conquistata. Non potendo conquistare come nordisti l'odiata Roma, l'odiata Napoli, l'odiata Firenze, preferiscono andarsene in nome dell'autonomia. Soprattutto il popolo veneto che non può dimenticare che furono i loro bisnonni o meglio i loro trisavoli a conquistare l'intero Mediterraneo, da Costantinopoli alla Turchia e alle sue colonie, alla Libia e al Marocco compresi Malta e Creta e Cipro e Rodi. E vi pare che chi ha nel suo spirito questo ricordo e questo messaggio non voglia l'autonomia dal governo dell'odiata Roma? E il Piemonte? E la Lombardia delle Cinque Giornate contro l'Austria? È vero, questo è il nostro Risorgimento senza il quale l'Italia non sarebbe stata unita. Ma un fondo populista vede ancora in polemica il Nord e il Sud, oltre all'autonomismo siciliano e quello pugliese.

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Torno allo scacchiere politico (il populismo è un elemento psicologico). La destra di Berlusconi, di Salvini e di Meloni è unita all'esterno, disunita all'interno. Ma per la raccolta dei voti si presentano tutti e tre sottobraccio; tre personaggi da avanspettacolo di notevole qualità, sia in commedia sia in tragedia. In opera musicale Meloni è un contralto, Salvini un baritono-basso, Berlusconi tenore o baritono alto. Orchestra al completo. Del resto il Berlusca con Fedele Confalonieri intrattennero da giovani il pubblico delle sale da ballo e perfino quello dei transatlantici da crociera di sessant'anni fa. Che trionfo, che carriera!

Segue Grillo, lui fa il burattinaio dei vari Arlecchini dei Cinquestelle. Da qualche tempo tuttavia gli Arlecchini si sono liberati dalla loro divisa di pezze a colori e hanno scoperto di essere uomini politici. I quali, fedeli in questo alle istruzioni di Grillo, non fanno alleanze se non con il loro popolo. E il loro popolo chi è, da dove viene, che cosa vuole? Il loro popolo non ama affatto la cosiddetta classe dirigente del Paese, buona o cattiva che sia. Vuole abbatterla, vuole che il terreno sia spianato, distrutte le siepi, i giardini con i cancelli, le spiagge libere a tutti, i partiti che non condividono queste richieste battuti e liquidati. L'Europa? Chissenefrega dell'Europa. L'euro? Forse era meglio la lira.

Se non ci fosse il Cinquestelle, che deve chiamarsi Movimento anziché partito perché partito è un pastrocchio che non dovrebbe più esistere e loro sono lì appunto per liquidarlo, probabilmente andrebbero a rafforzare la massa degli astenuti e viceversa: gli astenuti che decidono di votare vanno alle urne e votano scheda bianca o Cinquestelle.

Allora facciamo i conti: la destra berlusconiana, salviniana, meloniana, è fondamentalmente populista, magari sofisticata perché un programma di governo gli piacerebbe averlo e in parte ce l'hanno a cominciare dall'anti-immigrazione, sono guidati da un vecchio miliardario e da un combattivo padano che piace anche all'isola che sogna addirittura l'indipendenza. I grillini sono populisti senza menzionare la parola. Gli astenuti (salvo un 20 per cento che è la normalità), sono populisti anch'essi. Abbiamo in questo modo due formazioni politiche arricchite (o disturbate) da frange minori che stanno in coda al corteo ma comunque ne fanno parte. Ciascuna di queste forze rappresenta tra il 25 e il 30 per cento dell'elettorato, al quale bisogna aggiungere un 25-30 per cento degli elettori che non votano, senza conteggiare quel 20 per cento suddetto.

Il totale - destra, grillini, astenuti - dà più o meno il 75 per cento. Resta un 25 per cento dove si insedia il centrosinistra e la sinistra. Queste sono le operazioni numeriche datate al presente; ci vorranno altri sei mesi prima che si apra la corsa e molte cose possono accadere. Se cambiassero però, cambierebbero soltanto in meglio perché peggio di così è difficilissimo. Dobbiamo però aggiungere che tutte le forze (tutte) fin qui esaminate non spendono nemmeno una parola sull'Europa, salvo talvolta Berlusconi il quale sostiene di piacere ad Angela Merkel e che lei piace a lui. I seduttori sono simpatici, anche se spesso fanno danni come i processi sulle "olgettine" hanno dimostrato.

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E qui siamo a Renzi e al partito a lui d'intorno e non tutto schierato in suo favore. Nel suo caso mi permetto un'altra citazione dall'articolo di Massimo Recalcati: "Anche dalla psicoanalisi può venire un'indicazione preziosa: l'accanimento nella volontà di governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un ordine ottenuto con l'applicazione crudele del potere è peggio del male che vorrebbe curare; ogni volta che l'ambizione umana cerca di realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l'ingovernabile ma quello che lo sa ospitare".

Più volte ho sostenuto che Matteo Renzi era un uomo capace di buon governo, ma aveva un grave difetto caratteriale: voleva a tutti i costi comandare da solo, sistema incompatibile con una democrazia, soprattutto di sinistra (quella non più comunista dopo l'arrivo alla testa del Pci di Enrico Berlinguer). Probabilmente non si tratta di un difetto caratteriale ma psicoanalitico: se conoscesse bene il fondo dell'anima e le sue conseguenze sul suo comportamento forse quel difetto scomparirebbe.

Lui nega sempre con forza di voler comandare da solo. Sostiene che, come in tutti i partiti, c'è un leader anche in quello da lui guidato, ma è affiancato da una direzione con la quale spesso si consulta e a volte anche con persone autorevoli per capacità e per storia che aderiscono al suo partito e che lui incontra assai spesso per confrontare i punti di vista e acquisire esperienze e suggerimenti.

In una recente conversazione telefonica mi ha fatto i nomi di queste persone, tra i quali ricordo quello di Piero Fassino, di Dario Franceschini, di Andrea Orlando e di personalità tra le quali primeggia il nome di Walter Veltroni. Gli ho ricordato che le sue consultazioni sono però a sua propria disposizione. Per esempio sull'attacco - a mio avviso del tutto improprio - contro il governatore della Banca d'Italia non ha informato nessuno, non Veltroni, tantomeno Prodi e non credo che Fassino lo sapesse. La sua quindi è una consultazione che avviene su sua propria decisione, non è uno Stato Maggiore che opera con un Capo e con i comandanti delle varie armate. Se lui non creerà una sorta di Stato Maggiore non nel governo, dove Gentiloni ce l'ha, ma nel partito, la questione di un leader che comanda da solo resta ferma e questo non va affatto bene. Debbo dire che l'ha riconosciuto. Non so quanto valga questo riconoscimento ma mi sembra doveroso riferirlo.

Il secondo problema che riguarda il leader e l'intero partito è quello dell'ingovernabilità che, anzi, è un problema dell'intero Paese. L'ingovernabilità comporta alleanze e queste bisogna farle prima delle elezioni. Un'alleanza con Bonino sarebbe molto opportuna e comunque il partito deve essere aperto non solo nei confronti dell'esterno ma anche all'interno. Questo significa che il leader si consulta con gli esponenti più autorevoli del partito su tutte le decisioni da prendere.

Se questo avverrà il partito sarà profondamente rinnovato e potrà risolvere in qualche modo positivo il problema dell'ingovernabilità. Altrimenti la sinistra, quella dentro il Pd e quella che ne sta fuori, sarà liquidata dal populismo che sta dilagando e se vincerà decadranno i valori e gli ideali e crescerà purtroppo l'ingovernabilità dei corpi e delle anime.

© Riproduzione riservata 12 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/12/news/l_uomo_solo_al_comando_non_batte_i_populismi_di_massa-180876516/


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra.
Inserito da: Arlecchino - Novembre 16, 2017, 08:56:50 pm
I democratici e la sinistra

Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra.
Stiamo andando incontro all’ingovernabilità.
Le alleanze saranno indispensabili dalla sinistra al centro

Di EUGENIO SCALFARI
14 novembre 2017

Se dobbiamo dare un giudizio su quanto è avvenuto nella direzione del Pd convocata dal segretario di quel partito, mi avvarrò per cominciare di un sintetico scritto di de Maistre che nel suo libro Mélanges, considerato un capolavoro da Baudelaire, dice: «La ragione non genera che dispute, mentre l’uomo per comportarsi bene nel mondo non ha bisogno di problemi bensì di ferme credenze».

Applico questa massima a quanto è accaduto nella direzione del Pd: il discorso di Renzi l’ha seguita e le sue «ferme credenze» sono state queste.
1. Nella situazione attuale occorre che tutta la sinistra sia unita e chi è uscito dal partito rientri.
2. Non parliamo di quanto è accaduto negli anni precedenti.

Allora il partito era unito e ciascuno democraticamente esponeva le sue opinioni e i suoi dissensi; la maggioranza sosteneva il presidente del Consiglio e capo del partito e la minoranza esercitava un compito importante e utile, del quale ho sempre tenuto conto nei limiti del possibile.

3. Se in un momento difficile i dirigenti ritornano, compiranno un atto molto utile non solo per il partito ma per l’Italia e anche perfino per l’Europa.
4. Dal loro rientro in poi discuteremo insieme la linea futura, la campagna elettorale che condurremo nei prossimi mesi, quello che nel frattempo faremo e diremo.
5. Non ci chiedano però l’abiura rispetto a quello che abbiamo fatto finora. Avremo pur compiuto qualche errore perché la perfezione non esiste nel mondo, ma sono stati errori marginali. Comunque d’ora in avanti discuteremo la linea e l’attueremo insieme.

La notizia che fuori discorso Renzi ha dato è una sua dimostrazione di buona fede e di forte desiderio che il rientro dei dissidenti avvenga: è stato incaricato Piero Fassino di trattare con loro le modalità del rientro e il merito dei temi che saranno discussi e sui quali i rientrati avranno il loro peso indipendentemente dal loro numero. Fassino è una personalità primaria: a suo tempo fu segretario del partito che allora si chiamava Ds, democratici di sinistra; poi fu un ottimo sindaco di Torino e ora è una delle personalità più attive del Pd. Affidare a lui la trattativa coi dissidenti è il segnale più evidente della serietà del tentativo e delle garanzie che sono previste.

Accetteranno? Capiscono l’importanza d’un partito che a quel punto andrebbe da Bersani a Franceschini, da Pisapia a Minniti, da D’Alema a Orlando? E tengono conto dell’appello di Veltroni alla riunificazione? Walter è il padre del Pd e ancora nelle ultime ore ha fatto un pubblico appello all’unità. Se c’è una voce che merita d’essere ascoltata è la sua. È pessimista che il suo appello sia accolto ed è anche critico verso certi comportamenti renziani, ma conviene sul fatto che il partito debba essere di nuovo unito e riscrivere tutta la carta di rifondazione d’una sinistra moderna e antipopulista (perché è il populismo il vero nemico in Italia e in Europa).

Voglio ora discutere un punto sul quale l’errore della dissidenza di sinistra si manifestò pubblicamente: il referendum costituzionale che mirava a costruire un assetto sostanzialmente monocamerale. L’affluenza fu altissima e la votazione dei No fu del 60 per cento di fronte al 40 dei Sì. I dissidenti democratici, che ancora non erano usciti dal partito, votarono No o si astennero dando pubblica notizia della loro astensione.

Ho ricordato varie volte questo aspetto della questione: il grosso dei No fu votato dal populismo ispirato dai grillini, dalla Lega di Salvini e dai Fratelli d’Italia. Mi chiedo: come è possibile che la sinistra-sinistra non sapesse che tutti i Paesi europei sono monocamerali? E perché l’Italia ha rifiutato quel sistema, tanto più che l’intero mondo occidentale sta attraversando un’immensa crisi economica e sociale e anche politica che rende il monocameralismo assolutamente necessario in una situazione dove le decisioni da parte del governo e del Parlamento debbono essere realizzate con la massima velocità?

Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra. Stiamo andando incontro all’ingovernabilità. Le alleanze saranno indispensabili dalla sinistra al centro. E voi, dissidenti, volete che il Pd non potendo avere il vostro appoggio concentri con scarso successo la sua ricerca di sostegno al centro, oppure capite che una sinistra forte e compatta può ottenere dal centro ulteriori appoggi opportuni ma non indispensabili?

Mi sembra assolutamente elementare quel poco che qui ho scritto, come sono altrettanto consapevole dei difetti caratteriali di Renzi, che in questo caso sembra però averli superati. L’appello di Veltroni e l’incarico a Fassino vi sembrano poca cosa? Riflettete e poi decidete. Guardate a Cuperlo: rappresenta esattamente quello che dovete fare nella storia della democrazia italiana.
Debbo ora fare un’ultima osservazione critica. Mi dispiace molto, anzi moltissimo perché riguarda due persone con le quali ho da tempo rapporti di grande amicizia.

Si tratta del presidente del Senato, Grasso, e della presidente della Camera, Boldrini. Grasso si sta proponendo come il nuovo leader della sinistra-sinistra; Laura Boldrini è sulla medesima posizione: non capisco bene come risolveranno il problema di presiedere in due un partito per ora fatto di schegge che unite insieme arrivano a stento a superare la soglia prevista per l’ingresso nelle Camere. Ma la mia osservazione riguarda un altro punto della questione: i due presidenti delle Camere sono ora impegnati in una delicatissima azione politica e si oppongono entrambi alla riunificazione che si può fare soltanto a condizione dell’abiura da parte dell’attuale segretario del Pd.

La questione che li riguarda è però che essi resteranno per altri sei mesi se non anche di più presidenti delle Camere. Non sentono che un presidente del Parlamento non può e non deve spendere gran parte del suo tempo diventando leader d’un partito, grande o piccolo che sia? E si preoccupano di sapere quale sia il giudizio che di questa loro situazione dà l’opinione pubblica?

Personalmente entrai in Parlamento quarant’anni fa e naturalmente mi dimisi dal giornale che dirigevo ma ho sempre dichiarato, quando si votava su una qualunque questione, che io non mi sarei conformato al vincolo di mandato e avrei votato solo secondo coscienza come il mio partito o diversamente da esso. Se fossi parlamentare in questa situazione mi alzerei all’inizio di ogni seduta dichiarando di uscire dall’aula per non rientrarvi fino al giorno dopo perché la presidenza potrebbe essere indotta a comportamenti dettati dalla sua leadership di un partito.

La verità è che se vogliono far politica in prima persona debbono lasciare le cariche che ora stanno ricoprendo: chi presiede un’assemblea parlamentare deve essere assolutamente neutrale. Loro pensano di esserlo ed è una buona intenzione ma se ci fosse un contrasto politico non resisterebbero. Perciò prima si dimettono e meglio è.

© Riproduzione riservata 14 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/14/news/i_democratici_e_la_sinistra-181045373/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Un partito democratico e aperto per fermare i populismi
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 06:00:23 pm
Un partito democratico e aperto per fermare i populismi
L’Italia d’oggi è affetta da un populismo dilagante ma di nature profondamente differenti

Di EUGENIO SCALFARI
19 novembre 2017

Il socialismo democratico è in decadenza in tutta Europa e in tutto il mondo occidentale, compresi l’Inghilterra, gli Stati Uniti e le due Americhe del Centro e del Sud. Resta da capire il perché, ma occorre anche comprendere che cos’è la democrazia socialista.

Quando trionfò in quasi tutto il mondo il comunismo bolscevico, il socialismo di fatto aveva cessato di esistere. Quel poco che ancora sopravviveva era una sorta di piccola appendice del comunismo bolscevico. Parlando della situazione italiana fu tipico, da questo punto di vista, il partito d’Azione con il suo slogan “Giustizia e Libertà”. La decadenza attuale ha varie cause. La più importante è quella che identifica i liberali con il capitalismo, che usa la libertà ma assai poco la giustizia.

Una motivazione altrettanto importante è l’ondata di immigrazione che proviene soprattutto dall’Africa e ha l’Europa come principale meta da raggiungere. La terza infine è la pessima distribuzione della ricchezza e per conseguenza l’aumento della diseguaglianza economica e sociale. Quest’ultima in teoria dovrebbe favorire la crescita nei ceti più deboli ma ha invece generato un fenomeno relativamente nuovo cui gli studiosi di scienze sociali hanno dato il nome di populismo: il popolo è una massa che si ribella a tutto ma al tempo stesso ha bisogno di un capo che la guidi.

Quindi la situazione è un’anarchia con tendenze dittatoriali che rischiano in tempo breve di trasformarsi in una vera e propria dittatura.
Anche le dittature possono avere forme diverse l’una dall’altra. Nell’America del Sud e in particolare in Argentina ci fu la dittatura peronista: Peron le dette un ampio impulso a sfondo sociale e dopo la sua morte la vedova lo portò avanti con ancora maggior vigore.

Nel Centro America trionfò dopo lunghe battaglie la dittatura comunista di Fidel Castro a Cuba e il castrismo, declinato in varie forme e movimenti, oltre che a Cuba si diffuse in gran parte dell’America del Sud, dall’Uruguay al Cile al Venezuela e alla Colombia. Questo è il quadro generale del populismo.

Se vogliamo approfondire la situazione italiana, anche da noi nacque il populismo che risale al fascismo di Benito Mussolini. All’inizio della sua carriera politica era un socialista rivoluzionario, poi divenne guerrafondaio e incitò dal suo giornale Il Popolo d’Italia all’intervento italiano nella prima guerra mondiale dove avemmo come nemici tradizionali l’Austria e la Germania. Alla fine di quella guerra, gli ex combattenti che erano centinaia di migliaia fondarono un’associazione per rivendicare un particolare riguardo economico: molti avevano subito profonde ferite la cui guarigione era stata tuttavia parziale. Il sostegno economico doveva essere rivolto ai mutilati in particolare e a tutti gli ex combattenti in generale.

Mussolini si appoggiò molto agli ex combattenti e spronò il popolo a sostenerli e ad aderire al fascismo che per l’appunto aveva fatto di loro la sua base principale. I Fasci, fondati nel 1919, erano decisamente anticomunisti e proprio per questa ragione furono anche finanziati dal capitalismo delle grandi imprese a cominciare dalla Fiat e non soltanto: anche dalle associazioni degli Agrari particolarmente forti nell’Italia adriatica.

Mussolini metteva soprattutto in rilievo gli interessi dei reduci e dei Fasci di combattimento, che volevano la Repubblica. Si allearono invece con i nazionalisti che misero come condizione il mantenimento della monarchia. Tutto ciò venne fuori al congresso a Napoli del Partito fascista nel 1922. È inutile ricordare cosa avvenne dopo: la marcia su Roma, la conquista dell’Etiopia e dell’Albania, il Re imperatore e Mussolini il Duce. La domanda da farsi è: come mai quando cadde il fascismo tutti gli italiani si proclamarono antifascisti? Era il populismo che aveva sostenuto prima il fascismo e poi quando cadde in massa lo sconfessò. E adesso siamo ancora populisti? E come e con chi?

L’Italia d’oggi è affetta da un populismo dilagante ma di nature profondamente differenti. C’è un populismo motivato dall’immigrazione che ispira soprattutto la Lega di Salvini. Il populismo di Berlusconi riflette invece il fascino con il quale lui ha incantato una notevole quantità di persone. In che modo? La politica di Berlusconi somiglia molto al gioco delle tre carte che attrae e raduna molta gente; il capo del banco a volte fa vincere qualcuno della folla che si addensa attorno al suo tavolo ma il vero risultato è che intasca tutto lui. Non parlo qui di denaro, parlo di seguito elettorale. Lui è un attore e autore contemporaneamente, non ama la dittatura: ama vincere come tutti i giocatori.

I grillini (non sopportano di venire chiamati così ma questo è il nome con cui sono nati e tale rimane) sono i populisti per eccellenza: raccolgono gran parte di quelli che odiano non solo i politici ma la politica, non fanno alleanze con nessuno, i loro obiettivi sono la distruzione di tutti gli altri partiti o quanto meno la loro sonora sconfitta elettorale. Se andranno al governo dopo aver realizzato l’obiettivo numero uno, che è appunto la messa in mora della forma partito, decideranno (lo dicono sin d’ora) di corrispondere un aiuto economico a tutti i cittadini dei ceti popolari più bassi e medio-bassi imponendo un’imposta patrimoniale sui ceti molto ricchi, con la quale finanziare l’aiuto agli altri.

Ci sono poi coloro che si astengono dal voto. L’astensione definita naturale è quella che riguarda le persone anziane o indisposte o quelle già maggiorenni ma ancora troppo giovani per essere interessate alla politica. In termini numerici l’astensione naturale è valutata al 20 per cento del corpo elettorale ma noi siamo al 40-45 per cento il che significa che il 20-25 per cento è un’astensione a sfondo populista: cittadini che forse militavano in un partito che poi li ha delusi. Non avendo un altro partito che li attraesse si sono rifugiati nell’astensione o nel grillismo. I due flussi si equivalgono come intendimento, solo che gli astenuti furono delusi da un partito che amavano e la storia del costume ci insegna che chi è deluso da un amore assai difficilmente ci ritorna. E Renzi?

Il Pd non è populista, qualche passo sulla buona strada l’ha effettuato: Renzi ha escluso ogni abiura del suo passato di leader, ma nel futuro che comincia da subito e diventa quindi anche presente è disposto ed anzi desideroso di aprire il Partito ai dissidenti usciti dal partito. È desideroso che rientrino ed ha proposto che, una volta rientrati, si apra con loro una discussione sui temi di maggiore attualità sociale ed economica ed essi, anche se relativamente pochi di numero, avranno un peso particolare nelle decisioni da prendere. Carta bianca da scrivere insieme: questa è la proposta. Ed ha incaricato Piero Fassino — uomo di particolare impegno e autorevolezza — di consultare uno per uno i dissidenti che hanno a loro volta formato piccoli gruppi politici avversari del Pd, nel quale avevano lungamente militato ma che con il suo arrivo, a loro avviso, era diventato politicamente invivibile.

Fassino ha cominciato con l’incontrare i presidenti delle due Camere e Grasso in particolare, il quale sta per essere eletto Capo dei dissidenti. Poi Fassino ha proseguito nel suo giro e ormai ha incontrato quasi tutti ma i soli che hanno in qualche modo aperto alla discussione sono Pisapia ed i suoi seguaci. Almeno per ora c’è una chiusura netta da parte di tutti gli altri. Pisapia a sua volta ha posto una condizione che, almeno a quanto abbiamo capito, consiste nella creazione da parte del Pd di una nuova carica il cui nome potrebbe essere quello di moderatore, o almeno qualche cosa di simile. Il compito del moderatore sarebbe quello di presiedere le discussioni tra Renzi da un lato e gli ex dissidenti rientrati nel partito dall’altro.

Il moderatore sarebbe dunque una figura di notevole importanza, necessaria secondo Pisapia per guidare la discussione, nella quale Renzi è una parte in causa e che quindi non può presiedere. Sono stati anche formulati i nomi dei possibili moderatori: Veltroni, Prodi, o addirittura Gentiloni con l’autorità che gli deriva dall’essere presidente del Consiglio di un governo in gran parte formato con ministri provenienti dal Pd. Resta da vedere se Renzi accetterà. La proposta di Pisapia, a nostro avviso, è decisamente accettabile e non intacca affatto la carica di segretario del partito cui Renzi fu eletto con le Primarie.

Debbo fare un’ultima osservazione che ritorna su quanto già scrissi domenica scorsa. Riguarda la permanenza dei presidenti del Senato e della Camera indicati anche come i nuovi leader dei gruppi della sinistra dissidente.

Il parere che ho espresso domenica scorsa è che le due cariche parlamentari sono incompatibili con la guida di movimenti politici molto combattivi nei confronti del partito di provenienza.
Questo mio parere è stato in parte preso in considerazione da Luciano Violante, il quale è un costituzionalista e un politico di grande esperienza. In un’intervista su Repubblica Violante ha detto che se quanto sta avvenendo si fosse verificato a metà legislatura, Grasso e Boldrini avrebbero certamente dovuto dimettersi, ma poiché è avvenuto a legislatura pressoché terminata, la loro posizione è accettabile.

Mi fa piacere che Violante abbia previsto la necessità di dimissioni se ci trovassimo a metà legislatura, ma a differenza di quello che lui sostiene, il finale legislatura avverrà tra sei mesi e forse anche tra sette, e le dimissioni sono ancora più necessarie. Gli ultimi sei mesi saranno di piena campagna elettorale e quindi l’incompatibilità tra le due cariche diventerà ancora maggiore. Mi auguro che queste dimissioni ci siano, in realtà avrebbero dovuto già averle date. Se le daranno avranno le felicitazioni di molte e molte persone alle quali mi permetterò di aggiungere anche le mie.

© Riproduzione riservata 19 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/19/news/un_partito_democratico_e_aperto_per_fermare_i_populismi-181493148/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Perché Berlusconi somiglia a Mussolini ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 12, 2018, 06:07:36 pm
Eugenio Scalfari
Vetro soffiato

Perché Berlusconi somiglia a Mussolini
L'ex Cavaliere non è mai stato fascista.

Ma come il Duce si è sempre rivelato abilissimo a cambiare posizioni politiche

Silvio Berlusconi non è mai stato fascista, e non ha mai pensato ad ispirare la vita del popolo a ideologie come quella della antica Roma, della capitale imperiale, del Fascio Littorio e a conquistare un impero. Il fascismo è venuto da questa mitologia, era gestito da un Duce e attribuì al Re e quindi a se stesso il titolo di Imperatore.

Quindi niente fascismo per Berlusconi il quale tuttavia somiglia molto a Benito Mussolini, al punto d’essere una sorta di controfigura. Potrà sembrare assurdo sostenere una somiglianza che è quasi un’identificazione, ma questa è la realtà: un secolo dopo Mussolini è di nuovo con noi.

In che cosa consiste questa così forte somiglianza? Direi nell’estrema flessibilità politica del loro comportamento, con una sola anche se importante differenza: Mussolini cambiò musica una volta diventato Duce e distrusse la democrazia. Berlusconi a questo non ha mai aspirato e forse perché sono passati cent’anni da allora, il mondo ha ormai una società globale, la tecnologia è profondamente cambiata. Vale comunque raccontare gli aspetti di fondo di quelle due vite, entrambe ancorate dal desiderio di conquista del potere avendo come strumenti la flessibilità e il fascino che ne deriva in un popolo come il nostro, che è assai poco interessato alla politica.

Mussolini iniziò la sua vita politica sotto l’insegna del socialista rivoluzionario e direttore del giornale del partito, l’Avanti!. All’epoca della guerra di Libia che faceva parte dell’impero turco, l’Avanti! si schierò contro quella guerra incitando con articoli di Mussolini la classe operaia a bloccare i binari ferroviari e le stazioni dove transitavano i treni militari diretti a Napoli per imbarcarsi verso Tripoli. I socialisti non volevano la guerra e cercavano di impedirla in tutti i modi. Se c’era da combattere bisognava lottare in casa contro il capitalismo dominante.

Passarono appena tre anni da allora e scoppiò la prima guerra mondiale. Mussolini cambiò profondamente: divenne favorevole all’intervento italiano, fu espulso dal Psi e fondò un proprio giornale con il titolo Il Popolo d’Italia.

A guerra scoppiata, l’Italia era rimasta neutrale. L’interventismo di Mussolini aveva come ispiratore Gabriele D’Annunzio che godeva di ben altro seguito e autorevolezza culturale e politica. Fu lui in quel periodo ad essere chiamato il “vate” dell’intervento a fianco della Francia e dell’Inghilterra e con la Russia, contro l’Austria e la Germania.

Nel 1915 l’intervento avvenne, era scoppiata anche per noi la guerra mondiale. Finì nel 1918. L’anno successivo Mussolini fondò un movimento politico i “Fasci di combattimento”. Non aveva un seguito di massa, ma il suo era un piccolo movimento con qualche presenza soprattutto a Milano e in Lombardia e alcuni nuclei anche in Veneto, in Toscana e in Puglia. Il movimento mussoliniano diventò rapidamente un partito in gran parte sostenuto dagli ex combattenti, molti dei quali tornarono alle loro modeste occupazioni e orientati a favore del partito fascista che era in buona parte mobilitato a loro favore affinché lo Stato e la classe sociale ricca li sostenesse migliorando il più possibile la loro condizione.

Il partito fascista si batteva dunque per un proletariato ex combattente nella guerra appena finita ma anche con una pronunciata venatura di nazionalismo. Il programma del fascismo inizialmente era stato quello di abolire la monarchia in favore della repubblica, ma il partito nazionalista, che pure esisteva, si orientò verso una fusione con i fascisti ponendo tuttavia come condizione che essi rinunciassero all’ideale repubblicano e aderissero invece alla monarchia cosa che avvenne e culminò nel primo congresso del Partito fascista che si svolse a Napoli nel 1921.

Un anno dopo quel congresso, esattamente il 28 ottobre del 1922, ci fu la marcia su Roma dei fascisti provenienti da tutta Italia. Il re, Vittorio Emanuele III, si rese conto della loro forza e assegnò a Mussolini il compito di fare il governo. Naturalmente un governo democratico poiché i deputati fascisti rappresentavano soltanto il 30 per cento del Parlamento ma l’opinione pubblica era largamente con loro.

Fu un governo democratico con forti tinte autoritarie. C’era comunque una rappresentanza consistente del Partito popolare mentre il Senato di nomina regia era in larga misura antifascista. Così quel governo andò avanti a direzione mussoliniana fino al 1924, quando il leader socialista Matteotti fu ucciso da un gruppo di fascisti. A quel punto Mussolini aveva due strade: o dimettersi o rilanciare il governo trasformandolo da semidemocratico in dittatoriale. Scelse questa seconda strada e con le “leggi fascistissime” nel 1925 creò il regime. Da allora nasce il Duce e l’ideologia della Roma antica che sarà l’ancora culturale del fascismo.

Berlusconi non ha nessuna velleità di imitare il fascismo imperiale. La sua somiglianza con Mussolini riguarda il primo periodo del fascista, quello durante il quale Mussolini cambiò veste, linea, alleanze, cultura politica in continuazione e cioè dal 1911 fino al 1921. Da questo punto di vista tra quei due personaggi esiste, come abbiamo già detto, una pronunciata somiglianza.

Berlusconi fin da ragazzo si interessò di affari. Maestri e professori con modesti stipendi facevano un certo commercio attraverso ragazzi svegli tra i quali il più sveglio di tutti era per l’appunto Silvio. Quando c’era un compito in classe di matematica o anche di storia quegli insegnanti davano diverse versioni ma tutte degne di buoni voti a qualche ragazzo abbastanza intelligente e interessato, il quale vendeva quei compiti in classe trattenendo per sé una piccola ma interessante percentuale.

Man mano che il tempo passava l’affarismo di Berlusconi diventava per lui più conveniente. Fece traffici con banche private di dubbia moralità e ne ricavò risultati notevoli. Poi dopo la nascita delle televisioni locali (esisteva ancora il monopolio nazionale della Rai) si interessò alla pubblicità televisiva e decise di acquistare alcune televisioni locali. A Milano ne comprò due e poi una terza dalla Mondadori. A quel punto collegò tra loro le locali coprendo attraverso di esse una buona parte dell’Italia settentrionale e centrale. Aveva nel frattempo sviluppato i suoi interessi nell’edilizia e costruì la cosiddetta Milano 2 dove alloggiavano una parte dei tecnici televisivi alle sue dipendenze ottenendo le necessarie concessioni edilizie dal comune interessato.

Il possesso di un network non più locale ma seminazionale attirò naturalmente l’attenzione degli uomini politici alla guida dei partiti. Berlusconi aveva molti interessi a esserne amico usando a tal fine i poteri televisivi con i quali appoggiò soprattutto la Democrazia cristiana e il socialismo più moderato. Questa sua politica gli consentì di ottenere lavori rilevanti e gli ispirò infine il desiderio di essere anche lui direttamente il capo d’un partito. Poi arrivò la tempesta di Tangentopoli che distrusse totalmente la Democrazia cristiana. Berlusconi fondò Forza Italia mettendo alla guida della sua costruzione alcuni dei dirigenti d’una sua agenzia pubblicitaria, i quali tuttavia non avevano alcuna competenza politica ma soltanto organizzativa. La politica la faceva lui.

Per Berlusconi Tangentopoli fu una manna perché parte dei dirigenti della Dc e gran parte degli elettori democristiani affluirono al partito berlusconiano di Forza Italia. A questo punto incombevano le elezioni, era il 1994 quando Berlusconi si presentò per il battesimo elettorale. Le sue televisioni avevano appoggiato senza alcuna remora i giudici di Tangentopoli, e le elezioni andarono molto bene anche perché aveva contratto delle strane alleanze: da un lato la Lega Nord di Bossi e dall’altro il neofascismo di Fini. Bossi e Fini tra loro non si parlavano né si salutavano ma tutti e due venivano consultati da Berlusconi. Naturalmente le consultazioni erano puramente teoriche perché era solo Silvio che decideva il da farsi. Nel frattempo, ad elezioni avvenute, Berlusconi fu incaricato di formare il governo.

Questa situazione durò poco. La Lega decise di uscire dall’alleanza e Berlusconi dovette dimettersi da presidente del Consiglio. Il presidente della Repubblica, che lui sperava avrebbe respinto le dimissioni, viceversa le accettò e chiese però a lui di indicare un successore di suo gradimento per rendere meno traumatica quella crisi. Berlusconi indicò il nome di Lamberto Dini, che era stato il direttore generale della Banca d’Italia e nel suo governo il ministro del Tesoro. Dini governò per un anno e mezzo, poi nacque il primo governo Prodi che è stato probabilmente uno dei governi migliori dell’Italia degli anni Novanta.

Forza Italia è rimasto comunque un partito importante nei vent’anni che cominciano nel ’93 ed ora siamo nel 2018 Berlusconi ha governato più volte, altre volte ha perso, restando sempre un’alternativa e concentrando sul suo nome ostilità e simpatia. Adesso ha un’alleanza con Salvini e insieme all’alleanza esiste tra i due una rivalità sempre più forte e due politiche sempre più diverse tra loro ma utili ad entrambi per ottenere una forza elettorale che attualmente nei sondaggi è la più favorita delle altre: una destra unita e divisa al tempo stesso. In passato Berlusconi ha anche appoggiato la legge elettorale proposta da Renzi e sarebbe probabilmente pronto a un’alleanza o quantomeno a una favorevole amicizia politica col medesimo Renzi, il quale finora ha negato in modo totale questa eventualità.

Da questo racconto avrete ben capito che ho sostenuto che Berlusconi somiglia molto al Mussolini quale fu dal 1911 al 1925. È una curiosità storica credo di notevole importanza per il futuro.

12 febbraio 2018© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2018/02/08/news/perche-berlusconi-somiglia-a-mussolini-1.318124?ref=RHRR-BE


Titolo: EUGENIO SCALFARI. Papa Francesco e la società moderna
Inserito da: Arlecchino - Agosto 02, 2020, 05:34:16 pm
Editoriale
Papa Francesco e la società moderna

01 AGOSTO 2020

Ho parlato con Bergoglio del cambiamento climatico: "La Chiesa deve occuparsene ed educare al rispetto dell'ambiente"

DI EUGENIO SCALFARI

Jorge Mario Bergoglio, che è il nostro Papa dal 13 marzo 2013 e rappresenta una colonna portante non soltanto della Chiesa cattolica, di quella cristiana, di tutte le chiese e le religioni del mondo, ha scoperto in questi ultimi mesi il problema del clima terrestre. Il Sole – la nostra stella portante – sta invecchiando. La vecchiaia – ci dicono gli studiosi di questi problemi – è abbastanza avanzata. Naturalmente ci vorranno millenni per vedere un sole ombroso e non più luminoso come ancora è nonostante il suo invecchiamento sia già da qualche tempo iniziato. Ma il clima ha già subìto notevoli mutamenti. Questo aspetto della situazione ha largamente influenzato il nostro papa Francesco e non riguarda ovviamente il meteo che ci invita a uscire con l’ombrello o con un cappello di paglia che ci riparino dal clima d’un giorno qualunque: il mutamento ha ben altro valore, incide sul futuro della nostra stella e dei pianeti che ruotano attorno ad essa a cominciare dalla Terra, dalla Luna e dalle stelle che ci circondano e illuminano il nostro cielo.

Di questi problemi non avevo mai parlato finora con papa Francesco. Siamo veramente amici e lo diventammo fin dai primi mesi del suo pontificato. Avevo scritto sull’Espresso, appena la nomina era avvenuta, che era la prima volta di un pontificato d’un Papa latino-americano. Lui mi rispose con una lettera alla quale rimandava ma prevedeva un nostro incontro in uno dei prossimi mesi. Avvenne nel settembre di quello stesso anno e si concluse con l’apertura di una amicizia che per mia fortuna dura tuttora: ci siamo incontrati giovedì scorso e siamo stati per quasi un’ora a scambiarci notizie e valutazioni su quanto sta avvenendo attualmente. La crisi climatica è il tema che in questo momento occupa il mondo intero nonostante le malattie che incombono e che del resto hanno qualche rapporto anche col clima.

Non vedevo sua santità da oltre un anno sebbene ci scambiassimo numerose lettere. Bergoglio ha ottantatré anni, io ne ho novantasei e sto viaggiando nei novantasette. Ma appunto giovedì ci siamo di nuovo incontrati a Santa Marta in Vaticano. Non potevamo farne a meno e quindi ci siamo di nuovo abbracciati fisicamente e mentalmente.

Il tema era appunto quello del clima, ma detto in questo modo sembrerebbe una sciocchezza. Non è questo naturalmente. Ricordo ancora che papa Francesco quando fu eletto ebbe immediatamente il sentimento del suo compito religioso: la società europea e mondiale era profondamente cambiata, la modernità aveva capovolto la cultura europea, americana, orientale e quindi la Chiesa doveva anch’essa adeguarsi a quei mutamenti per poter continuare con efficacia la sua opera. Papa Francesco mi informò di questa necessità che il Concilio Vaticano II aveva indicato e che non era però ancora stato espletato. Il nuovo Pontefice avrebbe quindi dovuto occuparsi di questo e me lo disse e in qualche modo me lo chiese in quei primissimi incontri.

Decidemmo insieme dove cominciava per noi la modernità: l’illuminismo e tutto quello che ne venne nei secoli successivi. Questi furono i contenuti principali dei nostri argomenti che sua santità affrontò con molto interesse: Papi che hanno avuto questa funzione io non ne conosco: la Chiesa naturalmente si è aggiornata ma quasi sempre questo è avvenuto come risultato della società laica e prima ancora di quella medioevale da Gesù Cristo in poi. Gli Dei di un tempo erano di tutt’altra manica, la Chiesa ha duemila anni di esistenza e i mutamenti nel suo interno sono avvenuti tre o quattro volte, non di più.

Quella di Francesco è una novità cui ora se ne sovrappone un’altra: il Sole se ne va ma la profonda modifica della nostra stella e del cielo che ci sovrasta è decisiva e di questo si parla: l’impatto e i cambiamenti climatici si ripercuotono su quanti vivono poveramente in ogni angolo del globo.
Il nostro dovere a usare responsabilmente i beni della terra implica il riconoscimento e il rispetto di ogni persona e di tutte le creature viventi. Siamo convinti che non ci possa essere soluzione genuina e duratura alla sfida della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici senza una risposta concertata e collettiva, senza una responsabilità condivisa e in grado di render conto di quanto operato. Questo mi ha detto Francesco e questo è il tema che in questa fase gli preme più di ogni altro. «Ricordiamo – mi ha detto il Papa – quei luoghi del paese colmi di biodiversità che sono l’Amazzonia e il bacino fluviale del Congo con le grandi falde acquifere. L’importanza di luoghi come questi per l’insieme del Pianeta e per il futuro dell’umanità sono di grande importanza. In realtà stanno cambiando anche gli oceani e i fiumi. I tecnici se ne occupano ma la politica è presa da altri problemi. Compete alla Chiesa gran parte di questo lavoro. Tutte le comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione».

Francesco ha scritto un libro su questi problemi e l’ha concluso con questa frase: la Casa Comune di tutti noi viene saccheggiata, devastata, umiliata impunemente. La codardia nel difenderla è un peccato grave. Abbiate molta cura della Madre Terra. Questo è il tema e su questo l’ho ancora una volta abbracciato e promesso che avrei fatto per quanto mi riguardava il possibile per aiutarlo nel suo impegno.

***
Conte e il socialismo liberale

La politica italiana si occupa di questi problemi? A me non pare, tuttalpiù se ne occupa Conte. Salvini, Meloni, Renzi, i Cinque Stelle: alcuni di questi gruppi sono addirittura contro il tema del sole e della terra; altri se ne infischiano. Fino a qualche tempo fa mi sembrava che Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio, se ne occupasse moltissimo e mi sembrava questo uno dei motivi per appoggiarlo. Libero e socialista: questo era il compito che sembrava essersi assunto, un centrosinistra che poteva oscillare tra quei due valori abbracciandoli entrambi o favorendone almeno uno senza dimenticarsi dell’altro.

In queste ultime settimane tuttavia Conte ha perso molto della sua efficacia o almeno così sembra. Usa molto poco le personalità importanti del nostro quadro politico che potrebbero sostenerlo con notevole efficacia: Conte va avanti a tentoni; si sperava meglio e di più. Una personalità che sta tornando in linea è quella di Paolo Gentiloni, se Conte con Gentiloni, Fassino, Franceschini, Zingaretti, creasse un drappello d’alleanza e consensi credo che il Paese ne beneficerebbe. La Chiesa opera al meglio della modernità religiosa. La modernità laica dovrebbe cercare di eguagliarla. Ci riuscirà?

da repubblica


Titolo: Una poesia per il Paese delle tre forze
Inserito da: Admin - Agosto 15, 2020, 04:08:50 pm
Una poesia per il Paese delle tre forze | Rep

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Arlecchino Batocio
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il tempo di Cesare e i valori di Voltaire
Inserito da: Arlecchino - Agosto 24, 2020, 12:33:12 am
Il tempo di Cesare e i valori di Voltaire | Rep

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Arlecchino Euristico

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Titolo: EUGENIO SCALFARI. La forza dell’Io ascoltando il Bolero di Ravel
Inserito da: Admin - Settembre 21, 2020, 11:20:52 am
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Titolo: E. SCALFARI. La stagione del cambiamento che riguarda la politica e le stellle
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Una chiave per aprire la porta del tempo
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Titolo: EUGENIO SCALFARI. Il coraggio del Papa e la società moderna
Inserito da: Arlecchino - Novembre 10, 2020, 11:01:38 pm
EditorialeDiritti Civili

Il coraggio del Papa e la società moderna

22 OTTOBRE 2020

Nei nostri incontri è nata un’amicizia e adesso credo che se la Chiesa diventerà come lui la vuole cambierà la storia

DI EUGENIO SCALFARI

Ho incontrato papa Francesco molte volte: lo conobbi poiché il mio giornale, Repubblica, mi aveva incaricato di incontrarlo ed io ci riuscii con relativa facilità: anche il Papa aveva voglia di parlare con persone interessate a conoscere il Papa e quindi fu abbastanza semplice. Sua Santità mi invitò al palazzo di Santa Marta. Io ci arrivai senza difficoltà e fui rapidamente introdotto in una sala al piano terreno di quel palazzo e lì il nostro rapporto iniziò con molta amicizia fin dal primo momento. Io ne fui molto stupito, mentre papa Francesco ne era davvero interessato; e così cominciò. Sono perfettamente in grado di fare il resoconto di quello che ci siamo detti in decine di incontri a Santa Marta.

È da quegli incontri che ho tratto un libro che ne racconta i contenuti ed anche il rapporto personale che si instaurò tra noi molto velocemente. L'insieme di questi incontri, discorsi tra noi, di carattere storico, religioso, giuridico e personale soprattutto. È cominciato nelle prime settimane dall'elezione di papa Francesco ed è proseguito dal 2013 fino ad oggi: telefonate, incontri in Vaticano, lettere scambievoli ed anche e soprattutto la compilazione da parte mia delle conversazioni che avevamo e che io pubblicavo due giorni dopo sul nostro giornale che io inviavo al Papa non appena pubblicate. È nata in questo modo un'amicizia che addirittura culminò quando fui portato in clinica per un malessere che per fortuna passò presto e il Papa chiese notizie alla caposala della clinica dove ero. Lei mi portò il telefono della sala d'aspetto e nella camera in cui ero ricoverato. Capite bene, cari lettori, che un rapporto di questo tipo non credo sia avvenuto in altre occasioni tra un capo della Chiesa e un giornalista che non è mai stato neppure cattolico.
Avendo io pubblicato un anno fa, aggiornandolo poi fino allo scorso settembre, il mio rapporto è addirittura ormai parentale con questa aggiunta: la pensiamo in modo profondamente diverso. Io non sono credente e lui è il Pontefice da ormai otto anni. E questo è quanto. Stiamo attraversando una fase molto complessa della vita collettiva del mondo intero e quindi essere amico del Papa da parte di uno come me si può definire una situazione storica. Per me vale veramente molto, per lui abbastanza, per i miei lettori credo e spero moltissimo. Grazie.

"In un periodo in cui frequentavo il liceo di Sanremo (la mia famiglia viveva da qualche tempo in quella città) studiando filosofia mi soffermai con notevole interesse su Descartes che aveva lanciato un motto la cui celebrità diventò europea; erano tre parole: penso dunque sono. Santità qual è il suo pensiero su un filosofo come quello?"
"È certamente interessante ma non è completo. L'Io diventò in questo modo il centro dell'esistenza umana, la sede autonoma del pensiero. Descartes tuttavia non ha mai rinnegato la fede del Dio trascendente". Rispose il papa. "Da quanto ho capito lei è un non credente ma non un anticlericale. Sono due cose molto diverse".
"È vero, non sono anticlericale ma lo divento quando incontro un clericale".
Lui sorride e mi dice: "Capita anche a me. Quando ho di fronte un clericale, divento improvvisamente anticlericale. Il clericalismo non dovrebbe aver niente a vedere con il Cristianesimo; San Paolo che parlò ai gentili, ai pagani, ai credenti in altre religioni, fu il primo a insegnarcelo".
A questo punto chiesi in uno dei colloqui con Sua Santità a quale dei Santi lui si sentiva più vicino e su quali si era formata la sua esperienza religiosa. La risposta fu questa: "San Paolo è quello che mise i cardini della nostra religione. Non si può essere cristiani consapevoli senza San Paolo. Tradusse la predicazione di Cristo in una struttura dottrinaria che resiste da duemila anni. E poi Agostino, Benedetto e Tommaso e Ignazio. E naturalmente Francesco. Debbo spiegarle il perché?".

"Lei ha una vocazione mistica?".
"A lei cosa sembra?".
"A me sembra di no".
"Probabilmente ha ragione. Adoro i mistici, anche Francesco per molti aspetti della sua vita lo fu, ma io non credo di avere quella vocazione. Poi bisogna intendersi sul significato profondo di quella parola, il mistico riesce a spogliarsi del fare, dei fatti, degli obiettivi e perfino della pastoralità missionaria e s'innalza fino a raggiungere la comunione con le beatitudini. Brevi momenti che però riempiono l'intera vita".
"A lei è mai capitato?".
"Raramente. Per esempio quando il conclave mi elesse Papa. Prima dell'accettazione chiesi di potermi ritirare per qualche minuto nella stanza accanto a quella con il balcone sulla piazza. La mia testa era completamente vuota e una grande ansia mi aveva invaso. Per farla passare e rilassarmi chiusi gli occhi e scomparve ogni pensiero, anche quello di rifiutarmi di accettare la carica come del resto la procedura consente. Chiusi gli occhi e non ebbi più alcuna ansia o emotività. Ad un certo punto una grande luce mi invase, durò un attimo, ma a me sembrò lunghissimo. Poi la luce si dissipò, io mi alzai di scatto e mi diressi nella stanza dove mi attendevano i cardinali e il tavolo su cui era l'atto di accettazione. Lo firmai, il cardinale camerlengo lo controfirmò e poi sul balcone ci fu l'Habemus Papam".

Ci vedemmo ancora varie volte nella stanza di Santa Marta e in una di queste occasioni si riaprì il discorso su Sant'Agostino. Cambiò molte volte opinione, anche politica su quanto riguardava gli ebrei e altre minoranze politiche e spirituali ma ad un certo punto Agostino scelse un cristianesimo molto intenso, fu nominato vescovo di Ippona e pensò profondamente al tema della Grazia. A quell'epoca ancora si trattava di un tema non chiaro. Chi ti dava la Grazia e che cosa significava essere in possesso di quel sentimento? La Grazia la ottiene un credente che smarrisce la sua esistenza e si identifica per brevissimo tempo nel Dio creatore. Agostino fu intensamente colpito dalla Grazia e ne indicò anche le posizioni: Dio poteva riconoscerti in alcuni momenti estremamente brevi la Grazia, oppure Dio dava la Grazia ad alcuni cristiani e non ad altri; nel corso della loro esistenza molti che avevano ricevuto la Grazia l'avrebbero perduta per comportamenti non adatti e molti altri che non l'avevano avuta riuscivano ad acquistarla e conservarla per opposte ragioni. C'erano infine altre posizioni pensate da Agostino che davano al popolo cristiano e a ciascuno dei suoi membri una grazia che mai li avrebbe abbandonati. L'opposto di questa situazione sarebbe stato il fatto che il dio creatore ad alcune persone non concedeva assolutamente la grazia in nessun momento della vita. Con le conseguenze che ne risultavano.

Questo fu Agostino e non a caso Sua Santità Francesco ha scelto Agostino tra i santi più importanti e soprattutto gli ha conferito il ruolo che la Grazia si conquista: il Bene o il Male possono cambiare durante la propria esistenza e le conseguenze si avranno sulla Grazia in positivo. Così pure possono cambiare al contrario e la grazia ottenuta scompare definitivamente. Queste non è Agostino ma è Francesco. Io gli ho chiesto il suo atteggiamento su questo problema agostiniano e la risposta è stata: "È Dio che mi giudica; io ho la mia responsabilità".

Il Papa quando sono andato a trovarlo e poi dopo un'ora e anche più me ne son tornato via, mi ha sempre accompagnato all'uscita di Santa Marta. Ci vedremo presto spero, ho detto io salutandolo. "Certo - mi ha risposto lui, che mi ha sempre accompagnato al portone di uscita - dovremo anche parlare del ruolo delle donne nella Chiesa. Le ricordo che la Chiesa è femminile".
E parleremo, se lei vuole, anche di Pascal, mi piacerebbe sapere come la pensa su quella grande anima.
"Porti a tutti i suoi familiari la mia benedizione e chieda che preghino per me. Lei mi pensi, mi pensi spesso". Ci stringiamo la mano e lui resta fermo mentre salgo in auto. Io lo saluto dal finestrino mentre lui mi saluta con le due dita in segno di benedizione. Se la Chiesa diventerà come lui la vuole sarà cambiata un'epoca.

da repubblica.it


Titolo: EUGENIO SCALFARI, dialogo sul riformismo
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2021, 07:23:34 pm
Scalfari, dialogo sul riformismo | Rep

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