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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 319141 volte)
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« Risposta #525 inserito:: Ottobre 19, 2014, 04:41:27 pm »

Nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!

Di EUGENIO SCALFARI
19 ottobre 2014
   
I titoli dei miei articoli domenicali li faccio utilizzando spesso i versi dei poeti che si attengono secondo me a descrivere il tema meglio d'ogni altra soluzione. Di solito utilizzo Dante ma non sempre. Questa volta m'era venuto in mente paggio Fernando, un bellissimo giovane che gioca una partita a scacchi con una principessa straniera che corteggia e vuole sposare.

Direi che Renzi che gioca e corteggia Angela Merkel sarebbe stato un buon titolo e un bel finale perché Renzi avrebbe vinto la partita e conquistato la principessa. La gioiosa commedia la scrisse a fine Ottocento Giuseppe Giacosa e fu rappresentata con successo in moltissimi teatri italiani. Ma non credo che le cose sarebbero andate e andranno a quel modo. Sicché sono tornato al canto VI del Purgatorio dantesco di qui il titolo che avrete certamente già letto.

C'è però in quel titolo un errore che mi corre l'obbligo professionale di indicare ai lettori: non è vero che la nave Italia sia senza nocchiere. Il nocchiere c'è ed è Matteo Renzi.

Somiglia, è vero, a paggio Fernando ma è molto più duro di lui e esperto principalmente o soltanto in quella che si chiama politica politichese. Una buona parte dei leader italiani di questo periodo ha questa stessa e sola competenza. Per approfondire temi specifici e specializzati si valgono di collaboratori non sempre all'altezza della situazione. I consulenti di Renzi più noti (a parte Padoan che è un caso speciale emanato a suo tempo dalla volontà di Giorgio Napolitano) sono per lo più donne: la Mogherini, la Madia, la Boschi e tante altre ancora.

Intelligenti senza dubbio ma con scarsa esperienza e conoscenza delle questioni che dovrebbero trattare per dar consigli al loro leader il quale peraltro molti consigli e molto autorevoli non sempre li riceve di buon grado; la politica politichese è appunto questo: si inventa da sola le soluzioni.

Talvolta sono buone e danno buoni risultati, tal altre (il più delle volte) sono pessime e travolgono il Paese nel peggio. Voglio sperare che questa sia la volta buona.

Una delle ragioni per le quali Renzi non può essere battuto in un'aula del Parlamento è che mancano le alternative o almeno così si dice.


È curiosa questa mancanza di alternative della quale l'Italia da quando esiste come Stato repubblicano, ma anche prima, non avvertiva l'assenza. Dopo De Gasperi nella Dc venne Fanfani e con lui La Pira e Dossetti e poi De Mita e poi Cossiga. In un momento di estrema difficoltà economica e politica, l'allora primo ministro Giuliano Amato suggerì al presidente Scalfaro di chiamare a formare il nuovo governo Carlo Azeglio Ciampi e fu un vero e proprio trionfo perché tutte le soluzioni che gli erano state poste furono entro un anno portate a compimento e si fecero le nuove elezioni. Naturalmente Renzi ha degli appoggi ed anche importanti e uno di questi è Giorgio Napolitano il quale, prima di lasciare il suo incarico al Quirinale, vorrebbe che le leggi costituzionali fossero state quantomeno ampiamente avviate e tra queste la legge elettorale, la giustizia civile, la riforma del lavoro. Un tema, anzi un numero sterminato di temi, che farli tutti insieme è molto aleatorio.

Quando Renzi arrivò al governo dopo aver conquistato il Pd con un voto di tre milioni di simpatizzanti, e poi con un colpo di mano si mise al posto di Letta, sembrava che non ci fossero alternative di sorta e sembra tuttora, ma non è affatto vero. Ci sono alternative per il Quirinale, ci sono alternative per la Presidenza del Consiglio. Basta pensare ai nomi di Romano Prodi, Enrico Letta, Walter Veltroni, e molti altri che mi sembra inutile ora elencare e che possono essere tratti anche dalla Corte Costituzionale e da altri luoghi dove persone tra i sessantacinque e i settant'anni hanno formato una loro esperienza di vita.

La mancanza di alternative è dunque una scusa che è stata usata infinite volte in tutti i Paesi. Pensate a Obama di fronte alla dinastia dei Bush o pensate a Mitterrand dopo il postgollismo che aveva in mano il Paese e pensate infine a quanto accadde in Germania quando Schroeder diventò cancelliere e fece riforme fondamentali per ammodernare l'economia tedesca; poi perdette le elezioni successive ma ci fu una larga coalizione con la Merkel che non aveva nulla di simile alle larghe intese che tuttora dominano lo scenario italiano.

La posta in gioco in questo momento (lo dicono tutti e in tutti i Paesi) è quella di ravvivare lo spirito del popolo italiano e da questo punto di vista Renzi sembra la persona più adatta: ha coraggio, è spregiudicato, conosce alla perfezione la politica politichese, è un po' scarso nella qualità dei collaboratori.

All'inizio del periodo renziano, quando con un colpo di pugnale alla schiena fece fuori Enrico Letta dopo averlo rassicurato fino a poche ore prima, sembrava che il processo di risanamento e di rifondazione dello Stato sarebbe stato compiuto nientemeno che in quatto mesi, da giugno a settembre: la riforma elettorale, la riforma del Senato e la sua pratica abolizione, il Titolo V, la giustizia soprattutto quella civile ma non soltanto, e, perla tra tutte le perle, il mercato del lavoro. Quattro mesi per questo lavoro.

Renzi ci mise la faccia, poi quando ha visto come andavano le cose la faccia l'ha ritirata immediatamente e adesso non si sa dove quella faccia la conservi. Da quattro mesi passammo a mille giorni cioè all'intera legislatura.



Sembra molto, ma non lo è. Aldo Moro che di queste cose se ne intendeva a fondo, disse in un'intervista che ci volevano almeno vent'anni per rifondare lo Stato italiano e che quei vent'anni lui li voleva passare in alleanza tra il popolo cattolico e quello operaio dei lavoratori comunisti. Purtroppo lo disse quindici giorni prima di esser rapito dalle Br e due mesi e mezzo prima di esserne trucidato. E così quel disegno procedette ancora un poco zoppicando e poi scomparve. Adesso si parla di manovra. All'inizio, quando dai quattro mesi il crono-programma passò ai mille giorni, si parlò di 23 miliardi che poi salirono a 24, poi a 26, poi a 30, poi a 33 e infine, tre giorni fa, a 36.

Ora si spera che restino questi perché non si tratta di ricchezze miliardarie a nostra disposizione.
C'è un punto che resta fisso: il deficit di bilancio non supererà il 3 per cento. Lo sfiorerà, questo sì, cavandone una cifra di 11 miliardi.

Naturalmente speriamo che la caduta di due giorni fa degli spread di tutto il mondo e delle quotazioni di Borsa delle banche sia decisamente superata come è apparso venerdì mattina, ma coi tempi molti bui nei quali viviamo non ci si può contare in modo certo. Potrebbero nuovamente crescere o non diminuire abbastanza nel quale caso il risparmio che ce ne attendiamo almeno in parte si volatilizzerebbe. Speriamo comunque nel meglio.

C'è poi il ricavo dell'evasione fiscale contabilizzato per circa 3 miliardi. Di solito l'evasione fiscale viene contabilizzata quando è stata incassata e non quando è semplicemente prevista, ma capisco che la situazione è tale per cui la politica politichese impone questo strappo e pazienza.

La spending review dovrebbe dare 15 miliardi. Cottarelli aveva studiato a fondo per due anni questo problema, coadiuvato da persone di estrema competenza. Non paragonabile a quella delle ragazze di paggio Fernando. La conclusione era stata una trasformazione delle strutture dello Stato a cominciare dalla sanità, dai piccoli ospedali, dai posti di pronto soccorso, dai piccoli tribunali o preture. Apparentemente potrebbe sembrare che l'idea centrale di Cottarelli fosse quella di abolire fin dove possibile i piccoli insediamenti sanitari o amministrativi o giudiziari concentrando il massimo del lavoro su quelli maggiori.

In realtà, come sa chi ha avuto modo di parlare con lui e con i suoi collaboratori, il progetto non era esattamente questo. I piccoli ospedali se situati in zone di difficile accesso dovevano restare e diventare semmai più efficienti e la stessa cosa dicesi per i pronto soccorsi che ne diventavano in qualche modo una filiale minore. Naturalmente bisognava rimodernare in tutti i sensi (quello edilizio compreso) i grandi ospedali eliminando alcuni dei baroni che ormai avevano fatto il tempo loro e potevano tranquillamente proseguire i loro studi e le loro consulenze a casa propria o nei propri studi privati. Analoghi criteri valevano anche per i tribunali e le preture. Non c'era una lotta ad oltranza per far sparire i piccoli e concentrarsi sui grossi ma c'era una selezione tra piccoli efficienti e necessari e grossi a volte pletorici e invecchiati.



Questo era il piano - per quanto risulta a me - di Cottarelli. Ma è un piano che mi ricorda le parole e le previsioni tempistiche di Aldo Moro, che non sono certo mille giorni. Io spero tuttavia che Renzi ce la faccia. Tra l'altro mi fa simpatia, del resto è normale perché la seduzione è il suo requisito principale e su quello basa il suo potere in modo non molto dissimile se non in meglio del Berlusca che l'aveva preceduto.

Il "figlio buono". E speriamo che lo sia. Ma se non lo sarà non portiamo in giro la favola che è insostituibile. I principi azzurri sono delle apparizioni di fantasia. Spesso risvegliano le ragazze, ma spesso no e risvegliano soltanto i Cappuccetti Rossi con i guai che ne vengono appresso.

Post scriptum. Vorrei dedicare qualche parola al tema che mi pare non più citato, dell'articolo 18. Ricorderete tutti come fu messo e perché e come fu salutato dai lavoratori che vedevano finalmente scomparire o attenuarsi i padroni e comparire al loro posto imprenditori capaci e disposti a lavorare come e più di loro.

Naturalmente il tempo passa e la società cambia e quindi il tema della giusta causa doveva necessariamente esser ridotto. Lo fece la Fornero, ministro del Lavoro nel governo Monti, donna di sinistra sociale. Restrinse i motivi di giusta causa alla discriminazione indicando a titolo esemplificativo la discriminazione di genere e di etnia. Ma era esemplificativo perché ci potevano essere una serie di discriminazioni abilmente nascoste ma che pure tali erano. Se per esempio l'imprenditore decide di licenziare un lavoratore perché ha gli occhi azzurri e gli sono antipatici, il lavoratore ha diritto di appellarsi al giudice per sapere se questa è una giusta causa non più esistente o una discriminazione esistente. Francamente non so quale sarebbe la risposta del giudice ma ho dei dubbi che sia certamente negativa per il lavoratore. Si possono fare decine e decine di altri esempi, per esempio quello di un lavoratore che viene licenziato perché fa la corte alla moglie dell'imprenditore la quale lo ricambia. È un problema privato o comporta anche un licenziamento? E se lo comporta, il licenziato non può appellarsi alla giurisdizione? E quale giurisdizione, perché alla fine di tribunale in Corte di appello e di Corte d'appello in Cassazione si arriva inevitabilmente alla Corte costituzionale la quale deve affrontare se la discriminazione sia in realtà una giusta causa oppure no. In molti casi non lo sarà, in altri lo sarà, sempre che sia approvata.

Io mi rendo conto che l'abolizione dell'articolo18 - che non conta assolutamente nulla per le ragioni sopraddette - rappresenti però una mano tesa di Renzi alla Confindustria e agli ambienti che ad essa si riferiscono.

Qui il politichese fa il suo gioco ed è naturale che lo faccia. Ma i lavoratori tuttora protetti, sia pure in modi più labili, sono 6 milioni di persone, che equivalgono a 10 milioni comprese le famiglie, ai quali bisogna aggiungere un indotto quindi si parla di molti milioni di persone. Che faranno queste persone? Scenderanno nelle piazze rispondendo alla Camusso e a Landini? Oppure andranno a farsi una partitina a carte e bere una birra in un parco fresco di qualche città? Mancano ormai pochi giorni e per quanto mi riguarda aspetto con molta curiosità se il vero politichese di chi dirige un partito soi-disant di sinistra democratica abbia convenienza a farsi stringer la mano più e più volte dal presidente della Confindustria e lotti a pugni con Camusso, Landini e dieci o dodici milioni di persone. Ecco un punto che per ora non so risolvere ma tra pochi giorni potremo parlarne con più attenzione.

© Riproduzione riservata 19 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/19/news/nave_senza_nocchiere_in_gran_tempesta_non_donna_di_province_ma_bordello_-98458229/?ref=HRER2-1
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« Risposta #526 inserito:: Ottobre 28, 2014, 11:57:08 am »

Il vicario di Cristo e la verità relativa che conduce a Dio
Risposta a Zygmunt Bauman sul dialogo secondo Papa Francesco

Di EUGENIO SCALFARI
28 ottobre 2014
   
È MOLTO difficile e per me in particolare che sono da tempo arrivato a considerare Berlusconi un disastro non solo per la nostra vita pubblica ma anche per i pensieri e i rapporti dell’Italia a livello internazionale, interessarmi a quanto scrive Zygmunt Bauman su Papa Francesco. Pochi giorni fa abbiamo pubblicato un suo articolo su Repubblica che tratta a fondo di questa questione ed ha un titolo estremamente significativo: "Se il Papa ama il dialogo vero più della verità". È tratto da una dissertazione tenuta alla Bocconi di Milano ed è chiarissima l’intenzione dell’autore che il titolo fedelmente rispetta: il dialogo vero ha più senso della verità assoluta.

Questo tema solleva com’è evidente una quantità di problemi che pongono in discussione "l’assoluto" e appunto la Verità che lo rappresenta. Si era mai sentito un pontefice che rappresenta il Vicario di Cristo in terra mettere in discussione la Verità assoluta? Il testo di Bauman descrive con molta chiarezza il gruppo di questioni che il suo articolo, ma soprattutto quello che ha detto papa Francesco, solleva. Cito la parte essenziale di quel testo: "La verità è un’idea agnostica per la sua origine e la sua natura. È infatti un concetto che può emergere solo dall’incontro con il suo contrario, con un antagonista. Verità è a suo agio in un lessico monoteistico e in ultima analisi in un monologo ed effettivamente usare 'verità' al singolare in un mondo polifonico è come voler applaudire con una mano sola. Con una mano sola si può soltanto dare un ceffone o una carezza, ma non applaudire. Papa Francesco non solo predica la necessità del dialogo ma la pratica. Di un dialogo vero tra persone con punti di vista esplicitamente diversi che comunicano per comprendersi. È stata una decisione molto significativa da parte di Francesco concedere la prima intervista del suo pontificato all’apertamente anticlericale La Repubblica rappresentata con Eugenio Scalfari da un decano del giornalismo che non fa mistero di non essere credente. Per il futuro dell’umanità in un mondo irreversibilmente multiculturale e multicentrico, l’accettazione del dialogo è dunque una questione di vita o di morte".

Ringrazio l’amico Bauman per la citazione che peraltro è pertinente al tema. È un tema infatti o meglio un gruppo di temi che domina o dovrebbe dominare il mondo intero ma purtroppo non è così perché una parte rilevante di popoli, pur essendo colti e notabili nella politica, nell’economia, nelle scienze sociali, nella medicina, è tuttavia indifferente a queste questioni. Indifferente nel senso che li rimuove perché richiamano l’inevitabile appuntamento con la morte e la morte è qualche cosa di comprensibilmente preoccupante. Alcuni pensano che sia la fine di tutto, altri sperano che sia l’inizio d’una nuova vita sia pure in forme assai diverse da quella precedente e ben conosciuta. Comunque è un pensiero inquietante, quale che sia il modo in cui si definisce e quindi viene rimosso, nascosto in qualche interiore caverna dalla quale comincia a sbucare soltanto quando l’età incalza e quell’appuntamento si avvicina. Non se ne conosce né il come né il quando ma si sa che avverrà e la rimozione diventa da un certo punto di vista ancor più necessaria ma da un altro punto di vista sempre meno possibile.

Papa Francesco è dunque, tra i numerosissimi vicari di Cristo che guidano la Chiesa da ormai duemila anni, uno dei pochissimi, secondo me addirittura l’unico, che affronta in questo modo il problema della Verità e quindi dell’assoluto. In una nostra recente conversazione gli chiesi che mi spiegasse che cosa è per lui la Chiesa missionaria, della quale parla in continuazione e ne incoraggia la crescita.

La risposta fu anzitutto una premessa: "Io sono religiosamente cresciuto nella compagnia di Gesù e sono tuttora interamente gesuita. Lei di recente l’ha scritto ma molti ne dubitano, se non altro perché pur potendo scegliere come nome pontificale quello di Ignazio, mai usato finora da nessun pontefice, ho scelto invece quello del Santo di Assisi. Anche quello non era mai stato scelto prima ma perché un gesuita che tale si sente dalla testa ai piedi non sceglie il nome di Ignazio ma quello di Francesco?"

Gli dissi che credevo di saperlo e cioè perché Francesco era un mistico e lui ama i mistici pur non essendolo affatto.

"È vero, questa è certamente una delle ragioni e forse la prima, ma non la sola. Francesco amava una confraternita itinerante di frati che avevano fatto rinuncia a tutti i piaceri della vita ma non alla gioia, non all’allegrezza, non all’amore. Alcuni di essi e lui soprattutto erano profondamente mistici in ogni atto, in ogni istante della loro vita, nel senso che si identificavano con nostro Signore, dimenticavano il loro io. Sentivano l’amore verso di lui e verso le creature che lui insieme al Padre aveva creato: le stelle, i tramonti, i fiori, gli animali, le donne, i bambini, i vecchi e insomma tutto ciò che ci circonda e al quale noi possiamo offrire soltanto l’amore in tutte le sue manifestazioni filiali, fraterne, paternali. Questo è stato il Santo di Assisi. La sua vicinanza a Santa Chiara è uno dei segnali più significativi, ma quello che lo identifica nel misticismo permanente sono le stimmate che a un certo punto comparvero su di lui com’erano comparse sulle mani del Signore. Ciò non significa che lui non si occupasse anche di questioni pratiche, concrete e vorrei dire politiche. Voleva che la sua confraternita avesse delle regole e passarono molti anni perché il papa gliele concedesse. Fu posta tuttavia una condizione: una parte dei frati francescani doveva predisporre e alloggiare in appositi conventi e soltanto un’altra parte sarebbe stata missionaria e itinerante. Francesco accettò. Quelli nei conventi riscoprirono San Benedetto, lo studio, il lavoro e la questua; ma la vera chiesa francescana missionaria fu quella itinerante".

Perché Santo Padre - gli chiesi - la Chiesa deve essere soprattutto itinerante e comunque missionaria? La risposta di Francesco fu immediata: "Noi dobbiamo parlare le lingue di tutto il mondo il che non significa soltanto e necessariamente i linguaggi veri e propri. Pensi che in Cina esistono almeno cinquantamila diversi linguaggi. La chiesa missionaria deve soprattutto capire le persone che incontra, il loro modo di pensare, la loro sintonia. Questa è la premessa che come vede è al tempo francescana e gesuitica perché la nostra Compagnia ha sempre fatto questo: capire gli altri, che siano miserabili socialmente, impreparati culturalmente, oppure colti, notabili nella vita sociale; e ancora meno rilevante per questa conoscenza degli altri sono le loro posizioni politiche, importanti per la vita pubblica dei popoli ma non per la religione. La religione aborre il politichese, non è e non dev’essere cosa nostra. Se per politica s’intende una visione del bene comune che per noi è quella contenuta nella nostra religione, allora sì, anche la politica diventa importante, le istituzioni diventano importanti per il bene di tutti, poveri e ricchi, colti o ignari, donne o uomini o bambini o vecchi. Il popolo si deve dedicare e realizzare queste istituzioni ma non innalzando il nome di un dio. Nessuno può appropriarsi del nome di un dio che è ecumenico e creatore".

E la Chiesa missionaria verso la quale lei ha così grande attenzione che cosa deve dunque fare? "La Chiesa deve entrare in sintonia con i linguaggi delle persone che incontra, capire come la pensano, quali sono le modalità dei loro rapporti con gli altri e con se stessi e una volta capito questo la Chiesa esorta le persone che ha incontrato verso il bene, fermo restando il libero arbitrio che il Creatore ha concesso a noi esseri umani".

Ricordo queste conversazioni con Sua Santità, cominciate circa otto mesi fa e più volte ripetutesi, l’ultima delle quali nello scorso settembre. Le riflessioni dell’amico Zygmunt Bauman mi hanno indotto a riprendere questi concetti che anche lui a quanto leggo dai suoi vari interventi e in particolare nell’ultimo su Repubblica segue con interesse e in gran parte, credo, condivide. Certo converrà con me su un aspetto peraltro essenziale: i papi hanno sempre riformato la Chiesa, all’interno ed anche all’esterno. Ma soprattutto all’interno, nelle regole che si danno ai vari ordini, nei modi con i quali i loro membri convivono tra loro e nei poteri che hanno nei confronti della Chiesa-Istituzione. All’esterno questi aggiornamenti sono stati molto più rari. Il cardinale Walter Kasper ha paragonato la Chiesa ad un castello con un ponte levatoio quasi sempre alzato. Papa Francesco ha ripreso questa frase e l’ha commentata dicendo che se il ponte levatoio non è abbassato e non consente quindi l’entrata e l’uscita, allora la Chiesa rischia di morire. Il Concilio Vaticano II avvenuto più di mezzo secolo fa, ha concluso, in totale dissenso con il Vaticano I, esortando la Chiesa a prendere contatto col mondo moderno. Se capisco bene, prendere il contatto significa capirlo, entrare, come dice il Papa, in sintonia con esso.

E la verità? Il Papa rifiuta la parola relativismo cioè un movimento vero e proprio con caratteristiche di politica religiosa; ma non rifiuta la parola "relativo". Il relativismo no ma che la verità sia relativa questo è un dato di fatto che il Papa riconosce e il titolo e la dissertazione con Bauman ne fanno piena fede. Naturalmente c’è la dottrina elaborata dai pensatori religiosi della patristica e da quelli che si succedettero nei secoli fino ad arrivare a Domenico e a Tommaso e perfino a Carlo Borromeo. Essi elaborarono, ciascuno a suo tempo e a suo modo, la dottrina la cui fonte principale però fu Paolo, apostolo per autodesignazione. La dottrina fu elaborata principalmente da lui e in parte dalla comunità ebraico-cristiana di Gerusalemme guidata a suo tempo da Pietro e da Giacomo.

La dottrina che noi leggiamo, cristiani o non cristiani, è il racconto che gli evangelisti fecero della vita e della predicazione e più della predicazione che della vita della quale i punti culminanti furono il discorso della montagna, l’ultima cena, la meditazione solitaria del Getsemani e infine e soprattutto la crocifissione. Questi racconti, l’ho già ricordato più volte ma credo sia utile ripeterlo, furono scritti da persone che non conobbero e non videro mai Gesù di Nazareth; racconti di seconda mano se non addirittura di terza che non di meno hanno fornito nei secoli, sia pure con continui rimaneggiamenti, una struttura dottrinaria che ha dato sostegno alla religione. Allo stesso modo altre religioni monoteiste sono nate su racconti poiché dio non parla con la sua voce. Dio non ha voce così come non ha nome e non ha figura immaginabile. Il Figlio ce l’ha e forse proprio per questo i cristiani lo inventarono così come le altre religioni monoteistiche inventarono le loro figure rappresentabili e immaginabili, a cominciare da quella di Mosè e a chiudere con quella di Maometto e dei suoi successori.

A me piacerebbe molto che l’amico Zygmunt Bauman, se avrà tempo e voglia, esprimesse la sua opinione su questi ed altri pertinenti problemi.
 
© Riproduzione riservata 28 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/28/news/il_vicario_di_cristo_e_la_verit_relativa_che_conduce_a_dio-99162795/?ref=HRER2-1
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« Risposta #527 inserito:: Novembre 03, 2014, 05:16:38 pm »

La Storia non si fa con un uomo solo al comando

di EUGENIO SCALFARI
02 novembre 2014
   
HO SCRITTO più d'una volta nelle scorse settimane che abolire l'articolo 18 come il governo si propone di fare ritenendolo della massima importanza per il nostro prestigio a Bruxelles, non interessa invece né gli altri Stati dell'Unione né il Parlamento di Strasburgo né la Germania. Che l'articolo 18 esista oppure no è un fattore del tutto irrilevante per quanto riguarda la politica estera e il prestigio italiano in Europa. Così scrivevo ma mi rendo conto che sbagliavo. Ed infatti: "Ai sensi dell'articolo 30 della Carta dei diritti, ogni lavoratore e quindi anche quelli extracomunitari ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato e incompatibile al diritto dell'Ue e alle legislazioni e prassi nazionali". Pertanto dell'articolo 18 il governo e addirittura il Parlamento italiano non possono decidere alcun provvedimento perché la legislazione europea fa premio su quelle nazionali di ciascun Paese, sempre che ovviamente i Parlamenti nazionali abbiano approvato e ratificato le disposizioni europee, ciò che da tempo è ovunque avvenuto. È strano che neppure la Cgil e la Fiom, che portano avanti combattendo a mani nude la loro battaglia, ricordino l'articolo 30 della Carta europea; basterebbe invocarla per bloccare qualunque provvedimento nazionale in merito. Ed è altrettanto strano che neppure l'opposizione interna del Pd richiami quelle disposizioni di Bruxelles. Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra forma fin qui applicata o almeno ostentata.

Esiste ancora un ostacolo al partito interamente personale ed è rappresentato dalle Istituzioni che esercitano la tutela della vigente Costituzione: il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale, l'Ordine giudiziario. Quest'ultimo non è neppure definito un potere e la ragione è evidente: si tratta di un potere diffuso del quale ciascun membro dell'Ordine è titolare. Il potere diffuso non è un potere costituzionale perché manca una gerarchia democratica che lo renda tale. Il Consiglio superiore della magistratura sì, è depositario di un potere attivo di autogoverno e lo esercita infatti avvalendosi di una gerarchia democratica, ma ovviamente non può e non deve entrare nel merito dei singoli processi, sia nella fase inquirente sia in quella giudicante. La gerarchia esiste ma è molto debole. Le conseguenze si vedono e non sono particolarmente confortanti. In particolare non è confortante la contrapposizione costante tra magistratura ordinaria e magistratura amministrativa.

Accade sempre più frequentemente che i Tar intervengano sull'operato della magistratura ordinaria, la quale è strutturata su una triplice struttura organizzativa. Questo dovrebbe costituire un apparato garante del diritto delle parti in causa: ma il fatto che a questa gerarchia si aggiunga anche l'intervento della magistratura amministrativa non accresce anzi indebolisce quelle garanzie, come del resto ha già notato qualche giorno fa il presidente Napolitano. L'esempio più recente e calzante riguarda il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris. È probabile che la magistratura ordinaria avesse male applicato la legge Severino, ma esistevano appunto gli altri gradi di giurisdizione per correggere; invece è intervenuto il Tar con una sospensiva, neppure con una sentenza di merito. La sospensiva ha reintegrato il sindaco con tutti i suoi poteri, rendendo in tal modo inevitabile l'intervento della Corte costituzionale.

Tutto ciò non accresce le garanzie ma accresce la confusione e la perdita di tempo, uno dei fattori di debolezza non solo della giurisdizione ma anche dell'economia italiana e della sua competitività. Quanto all'ostacolo di chi tutela la Costituzione nei confronti del partito personale, esso ha un solo modo per ottenere un risultato: aumentare il ruolo del potere legislativo nei confronti dell'esecutivo. Purtroppo in questo caso, come già abbiamo più volte osservato, il presidente della Repubblica ha manifestato il suo appoggio alla proposta di diminuire la presenza del Senato nel potere legislativo e alla sua nuova funzione di organo amministrativo, per di più nominato o eletto in secondo grado dagli stessi organi e persone che spetterà al Senato controllare, correggere ed eventualmente sanzionare.

Da questo punto di vista mi torna in mente una recente immagine estremamente efficace di papa Francesco. La Chiesa, ha detto Bergoglio, è un castello fornito di un ponte levatoio. Se il ponte non è abbassato consentendo l'entrata e l'uscita delle persone, ma è costantemente elevato e il castello non ha conoscenza della società esistente, la Chiesa morirà. Un Papa non aveva mai detto una simile perturbante verità che se è vera per un organismo che rappresenta addirittura una religione, vale mille volte di più per un organismo amministrativo che ha fatto parte finora del potere legislativo. Se così non sarà più, la forza del potere legislativo decadrà pesantemente e contribuirà al predominio del potere esecutivo. Non è certamente un bel vedere il fatto di assistere ad una così profonda trasformazione del sistema.

***

C'è ancora un tema che desidero esaminare brevemente e che è diventato di attualità tra le persone riunite per tre giorni alla Leopolda. Una riunione di fatto di molti politici renziani, di data antica o recente. Ad un certo punto di quella riunione Renzi ha detto una battuta piuttosto feroce nei confronti dei cosiddetti intellettuali che vengono spesso applauditi. Ed è giusto farlo, ha aggiunto il leader leopoldiano, ed ha battuto tre o quattro volte le mani. Era evidentemente un motto di spirito e come tale è stato interpretato dai presenti i quali hanno anche essi tributato agli intellettuali un ampio applauso-sberleffo e subito dopo l'hanno trasformato in una lunga orchestra di fischi e lazzi di vario genere. Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina? Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.

In effetti, tra le due guerre del secolo scorso e poi con sempre più opere e approfondimento conoscitivi, nacque a Parigi L'École des Annales, di cui maggiori ispiratori furono Bloch e Febvre e alla quale collaborarono Levi-Strauss e Foucault. Questa scuola  -  ovviamente fatta di intellettuali  -  sosteneva la tesi che comunque non fossero i singoli, le persone con un nome illustre, gli eroi, i poeti, gli scrittori di tragedie o commedie, i letterati a fare la storia, ma piuttosto i ceti sociali, le numerose etnie, i ricchi, i poveri. Bisognava aver letto Ricardo e Malthus e magari Marx ed Engels per capire chi e come fa la storia. Fossero anche i renziani, che considerano il presente come la sola vera realtà. Attenzione: non Renzi (che è il nome di un singolo) ma i renziani che rappresentano la cornice di un quadro dentro al quale ciascuno può fare un segno, disegnare un paesaggio, ravvivare un colore.

È questa la realtà? E coloro che si pretendono e sono intellettuali non si amareggiano d'esser fischiati o tutt'al più ignorati? Ci ho pensato a lungo e poi mi sono chiesto: chi sono gli intellettuali? Quelli che intelligono, cioè capiscono. Capiscono se stessi e gli altri, tengono abbassato il ponte levatoio tra il dentro e il fuori. Fanno la storia. Sì, la storia la fanno loro e sono di parola. Vogliamo dirne i primi nomi? Vogliamo cominciare da Omero? Da Esiodo? Da Solone? E poi avanti, fino a Dante, Petrarca, Boccaccio, Marlowe, Shakespeare, Rabelais, Cervantes, Montaigne; e finendo il nostro elenco che potrebbe durare chissà quanto, con Einstein, Freud, Nietzsche? Ce ne sarebbero pareti e pareti della Leopolda dove stampare alcuni di questi nomi. Forse perfino quello di Renzi. Lui è convinto di essere l'uomo della storia di oggi. Attento però: la storia si può far bene oppure male. Da soli si fa male. Ci vuole una squadra. Una squadra senza un nome non ha senso. Un nome senza squadra meno ancora.

© Riproduzione riservata 02 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/02/news/la_storia_non_si_fa_con_un_uomo_solo_al_comando-99558084/?ref=HRER2-1
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« Risposta #528 inserito:: Novembre 03, 2014, 06:03:04 pm »

Bismarck la Cancelliera e il premier nell'Italia alle vongole

di EUGENIO SCALFARI
26 ottobre 2014
   
ALCUNI giornali stranieri (i soliti che scommettono da sempre sulla crisi dell'euro o almeno sulla sua divisione in due o tre nuove monete che si chiamano ancora allo stesso modo, ma con una diversa numerazione che li colloca dal ruolo centrale al più debole e precario) hanno scatenato una battaglia che vede Mario Draghi come bersaglio, la Merkel come una statua di Bismarck fuori tempo, la Bundesbank come protagonista vincente e Matteo Renzi come un cavallino che raccoglieva scommesse di una sua vittoria alla testa di un "front mediterranée", ma che nel frattempo si è azzoppato ed è pertanto uscito di gara nella speranza di far ancora parte della grande stalla di riposo cui prima o poi si concorderà qualche premio di consolazione.

A me questa ricostruzione dei fatti e dei misfatti sembra alquanto fantasiosa oltre che gestita da centri speculativi che costruiscono alleanze cospicue e possono anche cambiare o condizionare alcune delle forze in campo.

Intanto la Bundesbank che sogna da almeno sette anni il ritorno al marco come moneta di riferimento occidentale in un mondo molteplice; la Bundesbank non vede una Germania europea ma piuttosto una Europa tedesca. Bismarck è il simbolo di questa visione sebbene lo si conosca storicamente poco perché dopo aver dato brevemente il peggio di sé dette il suo meglio per tutto il resto della vita politica.

Purtroppo per le tesi storicamente sbagliate della Banca centrale tedesca, dopo la Germania vittoriosa del 1870 ci furono le sconfitte della prima guerra mondiale, la Repubblica di Weimar con i suoi disastri; il nazismo con le sue stragi, la sconfitta della seconda guerra mondiale.

La democrazia tedesca di ampia cultura è quella di natura romantica, è la nascita dell'ideale europeo che non ha e non può avere natura bismarckiana. Forse era un sogno che assegnò alla Germania e all'Europa un ruolo di comune natura. Viceversa per una serie di errori e di occasioni mancate questo ruolo si trasformò in quello di commesso viaggiatore invece che di potenza politica, ma niente di più.

È questo l'ideale dei leghisti, degli inglesi anti-euro, dei lepenisti e dei Cinque stelle grillini oltre a movimenti di vario genere ma di analoga natura eversiva. Alcuni sondaggi attribuiscono a queste forze, peraltro dislocate e scarsamente connesse tra loro, il 40 per cento dell'opinione europea ma molto meno come forza istituzionale organizzata. Coltiviamo tempo stesso un punto di forza e una manifestazione di debolezza per quanto riguarda le formazioni istituzionalizzate che nel Parlamento europeo rappresentano comunque il 65 per cento dei deputati.

***

Dicevamo che Bismarck è ormai un simbolo remoto e perciò aggiungiamo che la Merkel non è affatto bismarckiana come qualcuno sostiene. È lei che si serve degli uomini della Bundesbank, ma non viceversa. È lei che vorrebbe utilizzare i socialdemocratici tedeschi che fanno parte della "grossa coalizione" ma dubito che ci riesca se i socialdemocratici trovano le necessarie alleanze all'interno del Partito socialista europeo.
Del resto venerdì scorso, a chiusura del vertice europeo, è stata proprio la cancelliera tedesca a prendere la parola per fare una lunga dichiarazione in favore di Draghi e della politica attuale della Bce, convenzionale e non convenzionale; dichiarazione riportata da quasi tutti i giornali internazionali a cominciare dalla Cina, dall'India, dall'Indonesia, dall'Egitto e dai Paesi arabi.

Certo la politica monetaria della Bce, quella contenuta addirittura nel suo statuto, esorta ad uscire al più presto dalla situazione monetaria in atto. La deflazione procede in termini reali ma svalutare dei crediti equivale a rivalutare i debiti. La Bce punta ad aumentare il tasso di inflazione, quindi svaluta: debiti sovrani in particolare e i debiti di un paese in generale. L'Italia è un paese debitore per eccellenza e ha tutto da guadagnare da una svalutazione dell'euro; la Germania si trova in una situazione più differita perché debiti e crediti grosso modo si equivalgono.
Quanto all'euro come moneta di riserva, un suo raffronto può generare incentivi ad investire nella moneta europea. Queste manovre riguardano soprattutto la tempistica e le aspettative di medio e lungo termine. Per l'Italia i veri interessi riguardano il flusso delle esportazioni. Quanto ai benefici sociali è evidente che i "bonus" diventano più modesti in termini reali ma migliorano nel rapporto col dollaro cosicché i loro percettori sono indotti a trasformarli in risparmio anziché in consumi.

***

Draghi ormai sta praticando in pieno l'aumento di liquidità nel sistema europeo e in particolare in quello che più ne ha bisogno, cioè il nostro. Ma ripete sempre più spesso la necessità di una riforma del lavoro che abbia come obiettivo principale l'aumento della produttività, la semplificazione e la lotta all'evasione.

Renzi naturalmente, ed i suoi porta-parola, rispondono di sì, che questi sono gli obiettivi da raggiungere nell'ambito di pochi giorni. C'è un grande sfarfallio di ricordare l'importanza del taglio delle tasse e di quello delle spese (evasione compresa). Le cifre più o meno si equivalgono ma la tempistica no. L'evasione per esempio avrà il bollino della Ragioneria solo quando sarà stata incassata e quindi sono 3 miliardi di meno del previsto.

I tagli della spending review erano previsti in 15 miliardi, poi sono scesi a 12, ma non si sa ancora dove si andrà a tagliare e con quali effetti  -  positivi o negativi  -  sulle aziende che quei tagli dovranno sopportare e sull'occupazione o disoccupazione che ne risulta. Se si faranno sarebbero una manna ma la loro realizzazione non è certo facilissima.

C'è insomma una situazione di stallo; la si doveva prevedere fin dai tempi in cui si parlava di mesi. Poi si arrivò ai mille giorni cioè alla fine dell'attuale legislatura. Personalmente non so ed anzi dubito molto che i mille giorni siano un lasso di tempo sufficiente a dar frutti. Ricordo di passaggio che venerdì scorso la deputata Simona Bonafè, ospite di Floris nella trasmissione di Otto e mezzo, ha segnalato con molta baldanza l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti decisa e attuata dal presente governo e mai praticata da nessun altro governo del mondo. Mi corre l'obbligo di ricordare che il provvedimento di cui si parla la fu immaginato, deciso e approvato dal governo di Enrico Letta. Bisognerebbe tenere la memoria in maggior esercizio.

Quanto alla partita europea Renzi aveva preannunciato una battaglia contro la politica di rigore e in favore di una ampia e immediata concessione di flessibilità di investire, incentivare produzioni, nuovi posti di lavoro, consumi. Le cose però non sono andate in questo modo e del resto era lecito aspettarselo. Il confronto non è ancora terminato perciò auguriamoci che vada nel modo migliore, ma la situazione attuale è finora sboccata sia pur in un parziale accordo tra l'Italia e la Germania. Noi rispetteremo gli impegni già assunti e ne prenderemo anche di nuovi che riguardano per esempio l'aumento, sia pure assai moderato, della diminuzione del debito. Per ora attendiamo di vedere il finale ma che più o meno è prevedibile: impegni rispettati da parte italiana, nuovi moderati impegni assunti, nuova e moderata flessibilità per quanto riguarda investimenti quasi quotidianamente monitorati dalla Commissione europea e dai suoi assistenti.

Nel frattempo ci sarà nel paese una prova degli umori della pubblica opinione in genere e dei lavoratori in particolare. Il confronto sarà tra la Cgil, la Fiom e alcuni dirigenti di sinistra del Pd. Il Pd come tale non sarà ovviamente presente. Personalmente penso che il sindacato avrà un successo notevole nelle piazze italiane. Ieri a Roma se ne è avuto un anticipo con la manifestazione di un milione di persone. Ma tutto questo sarà permanente o transitorio?

Molto dipende da che cosa nel frattempo diventerà l'attuale Pd il quale, soprattutto stando all'inezia dei suoi iscritti, di fatto ha cessato di esistere. Del resto non è il solo, è un partito personale ed il suo rappresentante è Matteo Renzi e alcuni collaboratori da lui scelti e adibiti ad allacciargli i calzari. Renzi credo sarebbe molto infastidito se i calzari gli venissero scelti da altri.

Ma sono tutti partiti personali: lo era e lo è ancora quello di Berlusconi; lo era e lo è quello dei Cinque stelle grillini. E così la Sel e così altri minori e quasi invisibili. Il Pd è una nuova Dc? No. È un partito di sinistra centro o di centrosinistra? No. E' un partito di centro? No. Sarà il partito di un leader come lo fu Berlusconi e come lo è Grillo (finché durerà) partiti populisti è dir poco; sono partiti personali ma non è un difetto o una colpa di Renzi o degli altri che ho qui nominato. L'abbiamo scritto e riscritto più volte: è la caratteristica degli italiani o per esser più esatti di una larga parte di essi. Fino a quando non cambieranno, almeno in parte, sono sempre stati così. L'aveva detto perfino Leopardi e dopo di lui Francesco De Sanctis, Giustino Fortunato, Gobetti, i fratelli Rosselli, Ugo La Malfa, e perfino Gramsci, Aldo Moro e Berlinguer.

Ci vorrebbe una minoranza consapevole che riuscisse ad aggregarsi una parte di questa indifferente maggioranza. Romano Prodi c'era riuscito ma durò solo due anni.

L'Italia è fatta così: alle vongole.
© Riproduzione riservata 26 ottobre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/10/26/news/bismarck_la_cancelliera_e_il_premier_nell_italia_alle_vongole-99030733/?ref=HRER2-1
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« Risposta #529 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:38:10 am »

Quei boss della camorra spaventati da un libro
Napoli, si chiude il processo ai capiclan che minacciarono di morte Roberto Saviano

di EUGENIO SCALFARI
08 novembre 2014
   
Lunedì si chiude davanti al tribunale di Napoli il processo contro i boss camorristi che hanno minacciato pubblicamente di morte Roberto Saviano e la giornalista del Mattino e ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. Si tratta di Francesco Bidognetti, Antonio Iovine, che nel frattempo si è pentito, e altri dei quali Saviano scrisse la prima volta su Repubblica del 6 luglio 2007 e sui quali tornò in molte altre occasioni, indicandoli come i principali rappresentanti della nuova camorra casalese.

La tesi di Saviano, che da allora è diventata un punto centrale della politica italiana, sostiene che i fenomeni mafiosi e camorristi condizionano l'intera politica e l'intera economia del nostro Paese e determinano la corruzione, l'evasione fiscale, il lavoro nero. Se si cambiasse questa situazione si trasformerebbe assai probabilmente l'intero assetto della vita pubblica italiana.

Questa tesi  -  nella quale anche io credo  -  è diventata un punto centrale della nostra politica, ma ho sbagliato ad usare il verbo "è diventata". In realtà avrebbe dovuto diventare ma purtroppo non lo è affatto. Le reiterate denunce di Saviano sono rimaste in gran parte lettera morta, la lotta alle mafie avviene soltanto con parole e si concentra su fenomeni antichi che risalgono a più di quindici anni fa.

È oggi che bisognerebbe operare ed è questa la ragione per cui l'esito del processo di Napoli contro la banda dei Casalesi è fondamentale.

Tra l'altro è in gioco anche il modo con il quale vive ormai da anni Roberto Saviano: un incubo permanente, una scorta a sua sicurezza che limita la sua libertà fino all'ultimo respiro, un'esistenza rapsodica che lo obbliga a cambiare ogni giorno il suo domicilio, impedendogli una residenza stabile, una famiglia, una serena compagnia. Questa situazione lo ha obbligato da circa due anni a trasferirsi per lunghi periodi all'estero e in particolare negli Stati Uniti dove le misure di sicurezza nel suo caso sono meno asfissianti e gli consentono un sia pur limitato spazio di libertà che l'ha comunque obbligato ad una assenza dall'Italia. Un sacrificio che i suoi amici sanno quanto gli pesi.

Ho visto Roberto tanti anni fa in una trasmissione televisiva, mi sembra fosse condotta da Daria Bignardi che l'aveva invitato a parlare del suo libro "Gomorra" appena uscito. Lessi il libro che mi piacque e mi colpì molto; poi vidi il film che ne fu tratto, dove il protagonista Toni Servillo incarnava alla perfezione la duplicità delinquenziale della nuova camorra. E infine ci conoscemmo e diventammo amici.

Dal processo di Napoli è emerso quanto importante sia stato il ruolo della stampa libera, di Saviano e del suo libro nella lotta alla camorra, tanto da spingere i boss a minacciare di morte Roberto. Per questi motivi non può sfuggire a nessuno l'importanza del processo e del verdetto che i giudici pronunceranno lunedì.

© Riproduzione riservata 08 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/08/news/quei_boss_della_camorra_spaventati_da_un_libro-100044849/?ref=HRER2-1
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« Risposta #530 inserito:: Novembre 11, 2014, 05:53:57 pm »


Scalfari: "Ho inseguito l'ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos"
Il fondatore di "Repubblica" compie oggi novant'anni. Ci confessa ricordi, paure, desideri. E affronta nuove sfide intellettuali

Di ANTONIO GNOLI
06 aprile 2014

I dati anagrafici sono la sola cosa che non possiamo travisare: "Sono nato il 6 aprile del 1924". Oggi compie novant'anni. Ragguardevole età che Eugenio Scalfari soppesa con affetto e disincanto: "Non c'è modo di chiedersi quanto tempo ci resta. Bisogna vivere come se fosse sempre l'ultimo giorno pieno", aggiunge. Osservo le mani venate di azzurro e l'ampia poltrona che avvolge il corpo magro. La mansarda dove sostiamo, all'ultimo piano di un attico non distante dal Pantheon, è carica di libri. È un pomeriggio romano. Lieve. Che si smorza nel sole barocco: "Vorrei che tu vedessi la terrazza. Le città osservate dall'alto sono come gli amori visti da lontano, hanno meno difetti". Mi viene da pensare che in quelle parole si nasconda un lato romantico. Una moltitudine di emozioni. Mi sorprende l'energia. E la pienezza dei giorni di cui parla: "Vivono di una densità diversa rispetto al passato e sono trafitti da pensieri ulteriori", precisa, con un velo di sorriso.



Quali pensieri?
"Intorno alle condizioni del tuo corpo. Lentezza, fragilità e quella sensazione che il tempo non lavori più a tuo favore".

Ma non necessariamente contro.
"No, infatti. Siamo animali simbolici e desideranti: costruiamo mondi, relazioni. Viviamo di immaginazione e di futuro. Ma c'è sempre un limite: un segno ineludibile. Un calcio in faccia alla realtà. Ho letto, da qualche parte, che l'esistenza della morte ci obbliga a non essere perfetti".

Hai mai teso alla perfezione?
"È un'ideale. O almeno così per lungo tempo l'ho pensata. La verità è che danziamo dentro il caos".

Cercando un senso e un ordine?
"Cercando, certo. Ma dubito che la perfezione sia di questo mondo".

Le tue incursioni nel cristianesimo e nella fede farebbero pensare a un bisogno di chiarezza ulteriore.
"Fa parte del bagaglio di un buon laico interrogarsi sulle grandi questioni che sono teologiche ma anche filosofiche. Resto un non credente".

E questo papa?
"Questo papa cosa?".

Così diverso.
"È la Chiesa che ti sorprende".

Monarchia seria.
"Le istituzioni vere, forti, collaudate sanno forse reagire meglio alla crisi dei tempi".

Cosa ti sorprende?
"L'assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico".

Ed è un bene?
"La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità. Qualche tempo fa ero ricoverato per una polmonite. Verso la fine della mia degenza mi annunciano una sua telefonata: c'è il papa in linea, mi dice l'infermiera. Non so come l'abbia saputo. Prendo la chiamata. Mi chiede: come sta? Rispondo: molto meglio. Lei non ha risposto, replica. Avverte dolori? Ha la tosse? Come si sente? No, no, sto bene, dico io, apprensivo. Allora auguri. E mette giù il telefono".

Sbrigativo ma efficace.
"È la naturalezza della sua parola e del comportamento che mi colpiscono. Insieme alla dolcezza e alla partecipazione all'altro".

È stato così con qualche altro papa?
"Non ne ho conosciuti molti. Ma li ho criticati quasi tutti. In particolare Pio XII. Ora che mi ci fai pensare ricordo un'udienza pubblica cui fui ammesso con mia madre. Avevo quattordici anni. Poco dopo ci saremmo trasferiti da Roma a Sanremo".

Che anno era?
"Il 1938. Mio padre fu chiamato a dirigere il Casinò della città. Era avvocato. Ma gli piacevano le donne e un po' le carte. Io fui iscritto al liceo Cassini. Arrivando dal Mamiani temevo che non mi sarei adattato facilmente".

Alludi a un certo provincialismo.
"I piccoli centri sono così. Mi avevano soprannominato "Napoli". Agli occhi della classe incarnavo il meridionale. Tra l'altro non ero mai stato a Napoli".

Una forma di razzismo?
"Blando, goliardico. Ma anche fastidioso. Smisero alla fine del primo trimestre. Nel frattempo si era formato un gruppo di studenti animato dagli stessi interessi culturali. Nella classe c'era Italo Calvino. Diventammo compagni di banco. Entrambi ci mettemmo a capo di questo gruppo. Ne sollecitammo gli aspetti più originali, le curiosità più riposte, le letture meno convenzionali. Italo disse che tutto quello che ci stava capitando accadeva nel nome di Atena, la dea dell'intelligenza e della Polis".

Il mondo greco contro quello romano vagheggiato dal fascismo?
"Eravamo studenti e non c'era un contrasto così netto. Ma ci sembrava di aver costruito una cultura parallela e autonoma rispetto a quella sviluppata dal fascismo".

Ma tu eri fascista?
"Convinto, e quando nell'inverno del 1943 il vicesegretario del partito Carlo Sforza mi cacciò dai Guf caddi, per alcuni giorni, in una specie di depressione".

Non riesco a immaginarti affranto.
"Era accaduto tutto in un attimo. Sforza mi contestò violentemente alcuni articoli che avevo scritto per Roma fascista. Mi strappò le mostrine e mentre mi sollevava da terra tenendomi per il bavero della divisa gli guardavo atterrito i polsi delle mani: tanto grandi da sembrare le cosce di un uomo. Ad ogni modo fu così che cominciai a rendermi conto che un'altra società era possibile. E che gli anni del liceo e le amicizie strette allora non erano passati invano".

Come spieghi quel mondo parallelo di interessi e letture che poco avevano a che fare con il fascismo?
"Negli ultimi anni in cui ho diretto Repubblica e in quelli successivi ho molto intensificato la mia ricerca letteraria, filosofica e religiosa. All'inizio qualcuno si sorprendeva di questi miei interessi in un certo senso lontani dal giornalismo. Dimenticando così che le mie prime letture furono ampiamente letterarie e filosofiche. Ricordo la mia prima lettura al liceo: Il discorso sul metodo di Cartesio. La chiarezza espositiva del testo, unita all'idea che il pensiero ha bisogno di regole, mi formò nel profondo. Tanto è vero che il mio approdo successivo all'Illuminismo non sarebbe stato così convinto senza Cartesio".

In questi anni il tuo entusiasmo per il secolo dei Lumi si è un po' raffreddato. Hai spinto in primo piano figure come Montaigne che relativizza la ragione, o come Nietzsche che la distrugge. Sei giunto alla conclusione che il mondo non era solo progresso e felicità?
"Sai, non è che gli illuministi, a parte qualche incallito materialista, fossero tutti beatamente rivolti alle sorti progressive della ragione. Diderot era ben conscio delle trasformazioni e della crisi del proprio secolo. E lo stesso Voltaire non fu da meno. Per non parlare della sensibilità protoromantica di Rousseau".

Insomma non fu solo il secolo dell'ottimismo?
"È così. Poi, sai, nell'intraprendere il lungo viaggio nella modernità, ero consapevole che il quadro mentale che si delinea da Montaigne in poi è mosso, frastagliato, insidioso e perfino contraddittorio. Accennavi a Nietzsche. Non mi sento nicciano. Ma so anche che se vuoi occuparti di filosofia - ossia di una delle forme supreme dei modi del pensare - non puoi prescinderne".

In che senso?
"Con lui si conclude la lunga epoca della modernità. Non è un fatto trascurabile. Mi colpiva che Nietzsche - nei primi giorni della sua follia, quando gli amici lo andavano a trovare a Torino - avesse accanto al letto gli Essais di Montaigne. Cioè la riflessione con cui ha inizio il viaggio nella modernità".

Perché sostieni che quel viaggio si conclude con Nietzsche?
"Perché dopo di lui non si può più pensare e scrivere di filosofia in modo sistematico. Non esiste più un centro da cui si irradia tutto il resto. La perdita della centralità dell'uomo comporta l'infinita moltiplicazione dei centri".

Quindi ciascuno diventa centrale a se stesso?
"Gottfried Benn - che fu un ufficiale medico ma soprattutto un saggista di talento - fa un'osservazione interessante: ho capito perché Nietzsche scrive per aforismi. Chi non vede più connessione può procedere solo per episodi. E noi, aggiungo io, presi singolarmente siamo degli episodi. Io sono il centro della mia periferia che è, a sua volta, la mia circonferenza. Nietzsche comprese che i grandi sistemi filosofici erano tramontati".

Tutto questo non crea smarrimento?
"Cambia il quadro mentale, si modificano i punti di riferimento. Non puoi più oggi metterti a scrivere Il discorso sul metodo come fece Cartesio. Sarebbe ridicolo".

Devi mettere in gioco te stesso?
"Devi farlo: ogni riflessione che riguarda il mondo ti interpella in prima persona. E non solo perché Freud ha scoperto l'inconscio, ma perché la vita - la tua vita e quella degli altri - si è letteralmente scomposta. Lo capì benissimo Rilke quando scrisse il primo grande romanzo dell'ultima modernità: I quaderni di Malte Laurids Brigge".

Un romanzo sovrastato dall'idea della morte e del ricordo.
"Fra tutti gli animali l'uomo è il solo che conosce l'invecchiamento e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, attraverso il ricordo".

Lasciare di sé una traccia?
"Per questo leggiamo Omero da tremila anni e Shakespeare da cinquecento. Ma anche il ciabattino del vicolo accanto vuole fare delle belle scarpe, non solo per lasciar prosperare la sua bottega ma perché così forse sarà ricordato".

È un trauma così forte essere dimenticati?
"In qualunque forma si presenti non amiamo l'abbandono. L'oblio esiste. E la traccia serve a combatterlo, a rinviarlo. Quello che abbiamo fatto di importante desideriamo che resti".

Sei molto narciso?
"L'ho anche scritto".

E vanitoso?
"È un sentimento che mi infastidisce. I nostri tempi sono dominati dalla vanità, come trastullo infantile. Ma essa è anche la forma più ridicola dell'ambizione. Che invece, entro certi limiti, è un tratto sano e importante del carattere".

Importante per il successo?
"Più che per il successo tout court, per il modo in cui lo persegui e lo ottieni. E soprattutto in vista di cosa".

Il potere ha bisogno della saggezza?
"Senza un po' di saggezza si finisce dritti nella tragedia scespiriana".

E il tuo potere come lo giudichi?
"Noto in me una forte componente "paterna". Capisco che la definizione è insolita. Ma credo mi corrisponda. Del resto, è il tratto del narciso: consapevole che solo amando gli altri può essere a sua volta amato".

La tua vita è stata governata dal "due"?
"Che cosa intendi?".

È un numero che ricorre spesso: due sono i giornali che hai fondato e diretto, due figlie, due mogli, due le grandi esperienze culturali che hai condotto. Mi fermo qui.
"Molte delle cose che elenchi sono legate al caso. Però è vero, sento che un "doppio" c'è in me. Mi piace immaginarlo legato ai desideri. Essi misurano la mia vitalità".

Ma anche le tue contraddizioni?
"Indubbiamente. Si può desiderare il bene del prossimo e avere cupidigia di potere, di femmine, di ricchezza. Non è il mio caso per fortuna".

E i tuoi desideri come sono?
"I desideri sono la sola cosa che la vecchiaia non ridimensiona. Per quanto mi riguarda sono stato un uomo plurimo e i miei desideri notevoli e spesso contraddittori. Ho dovuto conciliarli tra dolori e felicità".

Il desiderio allontana la morte?
"Per il fatto stesso di impegnare il futuro l'allontana. Ma anche quello che realizzi ti distanzia da essa".

È la società con i suoi meccanismi celebrativi?
"La festa e i riconoscimenti appartengono alla nostra antropologia. Perfino i miei novant'anni non sfuggono a questo impianto".

Non temi la monumentalizzazione?
"Dici l'eccesso di retorica?".

Sì.
"Certe cose mi imbarazzano e la pomposità, francamente, non mi piace. Ma non vorrei neppure che tutto si risolva in una malinconica ballata. Se è vero che uno dei modi per esorcizzare la morte è, come ti dicevo, nella traccia che lasci, questa la trovi anche quando si celebra un anno tondo e importante come i novanta".

Ti fa paura la morte?
"No, temo la sofferenza. Ma so che la morte è il nostro orizzonte. Ogni vera storia umana dovrebbe cominciare da qui, dalla fine".

© Riproduzione riservata 06 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/04/06/news/intervista_scalfari-82858950/?ref=search
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« Risposta #531 inserito:: Novembre 11, 2014, 06:05:47 pm »

È l'Italia il personaggio pirandelliano in cerca d'autore
09 novembre 2014

di EUGENIO SCALFARI

I nomi che dominano la scena italiana ed europea in questi giorni sono due: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. Qualche osservatore malizioso ha anche messo in rapporto queste due eminenti personalità ipotizzando un’eventuale successione dell’uno all’altro ma le cose non stanno affatto così, Draghi non ha alcuna intenzione di andare al Quirinale, i suoi compiti e i suoi obiettivi sono del tutto diversi come lui stesso afferma pregando i suoi amici di diffonderla. Cosa che, adempiendo al suo invito, faccio con piacere.

Napolitano dunque se ne va. Compirà novant’anni in giugno e molti speravano che restasse fino a quella data, invece non sarà così: le condizioni fisiche che sarebbero sopportabili per sostenere normali responsabilità non gli consentono invece di esercitare ancora per molti mesi le funzioni connesse alla carica estremamente impegnativa che ricopre da otto anni. Darà le dimissioni entro la fine dell’anno e probabilmente ne darà l’annuncio con il messaggio alla Nazione del 31 dicembre prossimo. Si apre quindi fin d’ora il tema della sua successione, nel quale non spetta certo a lui dare indicazioni di sorta.

Avrebbe voluto — e l’ha detto al nostro collega Stefano Folli — che alcune leggi di riforma istituzionale fossero state approvate durante il suo mandato e in particolare quella di riforma elettorale; ma il lavoro del Parlamento si è ingolfato per approvare una serie di annunci e proposte e perciò il desiderio di Napolitano resta inappagato.

Questa è la situazione con la quale la nostra vita pubblica dovrà fare i conti da domani in poi e che chiama in causa altri tre nomi da aggiungere a quelli di Napolitano e di Draghi e cioè Renzi, Grillo, Berlusconi.

"Sei personaggi in cerca di autore", scrisse Pirandello per una delle sue più brillanti tragicommedie. Ma i nostri cinque non cercano autore, lo sono stati e alcuni di loro lo sono ancora. È l'Italia semmai che cerca il suo autore e ancora non l'ha trovato. Io la penso così e non sono affatto felice.

***

Giorgio Napolitano è stato, non c'è dubbio, uno dei nostri migliori presidenti della Repubblica: ha avuto un rispetto non formale ma profondo per gli altri poteri dello Stato e per le prerogative che la Costituzione attribuisce al Presidente; ha considerato i cittadini come i destinatari dei benefici che la democrazia gli riconosce. La sua fermezza è stata probabilmente la maggiore caratteristica della sua presidenza e gli ha anche consentito di far sentire ai governi in carica la "moral suasion" che il Presidente può e deve usare per aiutare il potere esecutivo a governare il Paese nel modo migliore.

Le circostanze l'hanno obbligato a nominare tre governi senza che avessero ricevuto la preventiva designazione elettorale: quelli di Monti, di Letta, di Renzi. Li ha nominati perché la crisi economica internazionale aveva colpito anche e soprattutto l'Italia ed era necessario tentare di superarla o almeno di contenerla senza renderla ancora più critica ricorrendo ad elezioni anticipate, per di più con una legge elettorale sconfessata dalla Corte Costituzionale.

A volerlo sintetizzare nella sua essenza, questo è stato il ruolo di Napolitano. Le sue dimissioni aprono da domani una fase delicatissima che sarà di non facile né rapida soluzione. La ragione è semplice da spiegare: Renzi e il suo partito vorranno ora un inquilino del Quirinale che riconosca la primazia del capo del governo. Cioè esattamente il contrario di quanto è accaduto nell'ultimo quinquennio.

È un cambiamento? Certamente lo è, ma non nel senso di un'apertura al futuro, bensì di un ritorno al passato. Per tutto il corso della Prima Repubblica furono la Democrazia cristiana e i suoi alleati a "tener per mano" l'inquilino del Quirinale. La Dc lo eleggeva e la Dc lo guidava. Ci furono le sole eccezioni di Gronchi e di Pertini e non a caso: Gronchi era stato eletto da una inconsueta coalizione di minoranze e Pertini aveva un carattere che non a caso ne ha fatto uno dei capi della Resistenza. Per tutti gli altri il motore stava nel governo e il Quirinale aveva un ruolo subordinato. Il progetto di Renzi è di ritornare alla vecchia Dc nel suo rapporto con il Quirinale. Ma una difficoltà c'è: il Pd non ha nel plenum del Parlamento la maggioranza assoluta richiesta per l'elezione del Presidente. Quindi ha bisogno di costruirla. Con Berlusconi e/o con Grillo.

Il gioco sarà questo e comincerà fin da domani.

***

Nel frattempo l'economia italiana ed europea attraversano una fase di gravi tensioni ed è per questo che le carte del gioco sono nelle mani di Draghi.

Osservando con attenzione le sue mosse si capisce che il cardine della sua politica è quello di avvicinare quanto più è possibile l'azione della Bce ai privati. È il solo modo per agire sull'economia reale e quindi superare la crisi in atto.

Quando si parla di privati, specialmente in Italia, si parla di banche. Draghi sa bene che la Bce sulle banche deve operare ma mantiene fermo il principio del rapporto diretto tra Bce e privati, imprese che emettono obbligazioni garantite e ricevono prestiti su di esse.

Quanto alla politica monetaria vera e propria la Bce, con un voto all'unanimità a Francoforte, è autorizzata a portare il suo bilancio dai duemila miliardi attuali a circa tremila. L'obiettivo è di mettere a disposizione delle banche prestiti a quattro anni ad interesse praticamente zero. E in più l'acquisto di obbligazioni cartolarizzate e altre forme di sostegno. Il risultato, in parte già raggiunto in Europa, è la discesa del tasso di interesse e, di riflesso, del tasso di cambio euro-dollaro.

Per quanto riguarda l'Italia, Draghi ritiene che sono necessarie riforme rapide sul lavoro, sulla produttività e sulla concorrenza. Non so che cosa pensi delle battaglie che i sindacati fanno contro l'abolizione dell'articolo 18 ma non credo siano per lui di grande interesse. Ci deve essere, certamente, una protezione dei lavoratori contro vessazioni ingiustificate, ma non può essere limitata e comunque diversa tra un tipo di lavoratore e l'altro. Personalmente credo sia questo anche l'obiettivo della Cgil, ma Draghi di questi problemi non parla. Parla invece dell'Europa riconoscendo che il suo obiettivo sarebbe quello di necessarie cessioni di sovranità dei singoli Stati in favore dell'Unione. Lo preoccupa molto  -  a quanto so  -  il continuo aumentare dei partiti entrati nel Parlamento europeo e che detestano l'Europa, detestano la moneta comune e detestano soprattutto l'immigrazione. Se continua questa tendenza il Parlamento europeo correrà il rischio di essere in mano alle forze che rifiutano moneta comune e immigrazione.

È un tema estremamente preoccupante e Draghi ha perfettamente ragione a denunciarne la gravità.

***

Per quanto riguarda l'articolo18, del quale ho spesso parlato le scorse settimane, ho approfondito il tema della sua abolizione e sono arrivato alla conclusione che l'articolo 30 della Carta dell'Unione ha la sua interpretazione più netta e chiara nell'articolo 52 della Carta medesima.

Anzitutto il titolo di quell'articolo: "Portata e interpretazione dei diritti e dei principi" e poi il primo comma dell'articolo suddetto che così recita: "Eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti. Possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione e dall'esigenza di proteggere i diritti". Il che vuol dire che l'articolo 30 che prevede il ricorso di ogni lavoratore contro licenziamenti ingiustificati non può essere abolito perché andrebbe a ledere "l'interesse generale dell'Unione" già approvato insieme al Trattato di Lisbona.

La Cgil dovrebbe semmai estendere l'articolo 18 a tutti i lavoratori, quale che sia il loro specifico contratto di categoria.

Sarà comunque interessante vedere l'adesione dei lavoratori della Fiom allo sciopero generale ormai imminente.

© Riproduzione riservata 09 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/09/news/l_italia_il_personaggio_pirandelliano_in_cerca_d_autore-100111243/?ref=HREA-1
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« Risposta #532 inserito:: Novembre 16, 2014, 05:51:11 pm »

Torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa

Di EUGENIO SCALFARI

16 novembre 2014
   
MI CAPITA spesso, ma credo che accada a tutti, di capire meglio la natura della realtà che ci circonda se sono stimolato da incontri occasionali che in apparenza non hanno nulla a che vedere con essa: un vecchio film, una vecchia canzone, una frase letta in un libro o su un giornale.

Nei giorni scorsi ho visto un film del 1991 intitolato A proposito di Henry. Il protagonista, che è Harrison Ford, viene colpito da un incidente che lo paralizza completamente e gli toglie anche la memoria e la parola. I medici lo ritengono spacciato ma non è così: le cure che gli praticano dopo molti mesi hanno risultati sorprendenti, al punto che lui torna a casa e perfino al lavoro: era un avvocato molto importante e anche molto autoritario in studio, in tribunale e in famiglia. Ma pur essendo perfettamente guarito, Henry si rende conto che l’autoritarismo d’un tempo e l’autorevolezza che ne derivava non gli piacciono più, li sente come gravi difetti di carattere e concentra tutte le sue forze nel cambiare se stesso. Ci riesce e diventa un altro uomo, umile, affettuoso, caritatevole. Prima era dominato dall’orgoglio e tutto gli era dovuto; adesso vuole soltanto il bene degli altri e nulla per sé. Dopo la parola “End” ho pensato che Henry aveva rottamato se stesso.

 Qualche giorno dopo ho trovato canzoni della mia giovinezza incise su un cd. Tra quelle canzoni ce n’è una che racconta tutti i guai che affliggono il cantante che tuttavia termina con un finale consolatorio cantato in un francese bastardo che si rivolge ad una immaginata marchesa sua amica e dice così: “Malgré cela, Madame la Marquise, tout va très bien, tout va très bien”.

Significa che l’ottimismo è il solo modo per sopportare la fatica di campare. Un giovanotto che voleva parlarmi del suo futuro di giornalista e si dichiarava un cronista perfetto perché privo di idee politiche, ripeteva spesso durante il colloquio che della politica lui se ne fregava. Quel “me ne frego” mi ha fatto ripensare a tempi del passato: i fascisti avevano il “me ne frego” come parola d’ordine e lo mettevano anche nelle loro canzoni. Ho letto sul Manifesto che Asor Rosa parla anche lui del “me ne frego” come di un ricorrente malanno italiano. Stiamo molto attenti, con queste cose non si deve scherzare perché sono pessimi segnali per la vita democratica d’un Paese.

Infine m’è venuto tra le mani il libro di poesie del Parini e sfogliandolo con antico amore ho colto due versi assai belli e speranzosi: “Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languìa”. Recessione, depressione, deflazione: hai visto mai che questo scenario possa improvvisamente cambiare?
Voi vi domanderete perché io v’abbia fatto questi racconti invece di approfondire la realtà. Rispondo che ciascuno di essi configura un’ipotesi e scegliere tra di esse non è affatto facile, ma forse adesso le vediamo più chiaramente.

* * *

L’elemento politico che più degli altri caratterizza la situazione italiana è quello che Matteo Renzi definisce il Partito della Nazione. Non è il solo, si sprecano articoli, analisi, libri su questo tema. Il Partito della Nazione è visto bene da quasi tutto il Pd, ma anche dal centro democratico e comunque è una realtà: è un partito che fa prevalere i concreti interessi nazionali sulle ideologie.

C’è un solo guaio, ma non è affatto piccolo: il Partito della Nazione è soltanto uno. Pensare che ce ne possano esser due è privo di senso. Infatti ce n’è uno solo, quello di Renzi che raccoglie i voti della sinistra moderata, del centro e d’una parte della destra.

Grillo non ha niente a che vedere col Partito della Nazione, la Lega ovviamente è il suo contrario. Berlusconi no. Lui è favorevole, ideologie non ne ha mai avute. Però riconosce che quel partito c’è già e non è il suo, ma lui lo appoggia. Deve inghiottire qualche amaro boccone? Pazienza, purché duri e lui ne sia uno dei tanti padrini. Ha contrattato che la legislatura duri fino alla sua fine, 2018. E se dovesse continuare per un’altra legislatura? Benissimo, lui ne sarà sempre un padrino. L’obiettivo dei suoi fedelissimi è quello. Della famiglia anche. Affari e politica vanno d’accordo per un padrino del Partito della Nazione. E poi Berlusconi ha già detto più volte che Renzi lui sentimentalmente l’ha adottato.

Naturalmente esser guidati da un solo partito non è una conquista per la democrazia, anzi è una bastonata in testa. Attenzione però: ci sono vari modi di intendere la democrazia. Bipartitica? È un’ipotesi. Monopartitica: perché no, se il partito unico è democratico.

Il Partito della Nazione di Renzi è democratico, al suo interno si discute liberamente, Renzi non è solo al comando (l’avevo scritto qualche giorno fa ma lui mi ha smentito), con lui c’è una squadra che lavora, è competente, discute e ascolta tutti. Discute anche con il leader, ma poi è lui che decide.

Questa è la ragione per cui Renzi non vuole più il Senato, ma un assetto monocamerale. Contano solo i deputati e quindi il popolo sovrano che li elegge. Ma come li elegge? Ecco che arriva la riforma elettorale. In buona parte sono designati dal leader, in piccola parte dalle preferenze (pessimo tappabuchi, dovrebbero almeno essere collegi uninominali).

La tecnica è questa. Tony Blair? Certo, Tony Blair, di fronte al quale la Corona non contava assolutamente niente. E sarà così anche tra poche settimane, quando Napolitano si dimetterà. Il nuovo nome sarà Renzi a indicarlo e candidarlo. Qual è l’identikit che ha in mente? * * * In Germania la gente non sa neppure il nome del Presidente della Repubblica.

Quello del Cancelliere naturalmente lo conoscono tutti. Gli italiani però, almeno quelli che vanno a votare ed hanno quindi una sia pure sfocata visione del bene comune, il nome dell’inquilino del Quirinale vogliono conoscerlo, vogliono che abbia un prestigio ed anche qualche potere. Il motore starà a Palazzo Chigi e non al Quirinale, ma il Presidente della Repubblica “rappresenta la Nazione” ed è anche la tutela della Costituzione, quindi dev’essere una personalità che la gente conosce e apprezza.

Renzi lo sa, perciò la sua non sarà una scelta facile, uomo o donna che sia. E poi l’elezione del Capo dello Stato è sempre stata una scommessa. Solo Ciampi passò subito alla prima votazione e Napolitano alla quarta, perché se lo meritavano. Anche Cossiga passò subito, chi comandava allora era De Mita, che ottenne il “placet” immediato del Pci.

Tutti gli altri sono stati contrastati prima che un nome uscisse dalle urne con la maggioranza prescritta e così è possibile che avvenga anche questa volta.

* * *

Sarebbe utile sostituire Renzi e mettere al suo posto una persona che non guidi il Partito della Nazione ma il Pd?

Personalmente non credo sarebbe utile. Oggi il cambiamento lo vogliono tutti e non guardano molto se è un cambiamento ben fatto o mal fatto. E poi c’è la battaglia di Bruxelles che dovrà essere effettuata con coraggio e Renzi il coraggio ce l’ha. Lui pensa di vincere a Bruxelles. Qualora non vincesse, cioè non ottenesse i finanziamenti dei quali ha bisogno, governerà col deficit. Romperà con l’Europa? No, ma cercherà di fare di testa propria finanziando gli investimenti col deficit. Ma fino a che punto?

D’altra parte lui sa che se non ripartono gli investimenti e la nuova occupazione, l’opinione pubblica e soprattutto i giovani e i lavoratori, si arrabbierebbero molto con lui. In parte sta già avvenendo e la sua popolarità sta perdendo smalto.

A me Renzi non piace, vorrei che si auto- rottamasse come Harrison Ford nel film che ho raccontato. Ma per il bene del Paese debbo sperare che il suo programma abbia successo e “torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa”.

© Riproduzione riservata 16 novembre 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/16/news/torni_a_fiorir_la_rosa_che_pur_dianzi_langua-100667442/?ref=HRER2-1
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« Risposta #533 inserito:: Novembre 25, 2014, 04:36:55 pm »

Le nuove povertà che bussano alla nostra porta

Di EUGENIO SCALFARI
23 novembre 2014
   
IL TEMA che oggi desidero trattare è quello quanto mai attuale della povertà. C'è sempre stata da che esiste il mondo, ma oggi la società globale nella quale viviamo l'ha reso diverso da precedenti epoche ed è appunto questa diversità che dev'essere approfondita. Prima però, come talvolta accade in questo nostro appuntamento domenicale, dedicherò una premessa alla lettera che il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha indirizzato ieri al direttore del nostro giornale. Non spetta a me rispondergli ma una breve considerazione personale ritengo debba esser fatta.

Quella lettera mi è piaciuta. Spiega che la sua è una politica di sinistra e lo spiega con dovizia di persuasivi argomenti. Sostiene che la sinistra va cambiata per essere adeguata al mondo moderno ma mantenendo fermi i suoi principi che riassume identificandoli con la difesa dei deboli e degli esclusi. Afferma anche che il Pd non è un suo partito personale e che hanno torto quelli che dicono che lui comanda da solo. Questo lo avevo scritto io domenica scorsa e lui se ne era già pubblicamente risentito. Mi spiace rispondere che io continuo ad esserne convinto, come sono convinto che non basta sostenere d'essere per il cambiamento perché si può cambiar bene ma anche cambiar male. A parte queste due osservazioni critiche confermo che la sua lettera mi è piaciuta e ne condivido il contenuto. Purtroppo però essa corrisponde assai poco alla realtà che il nostro Paese sta vivendo e che la politica del governo non è ancora riuscita a modificare. Renzi fa annunci ai quali finora non sono seguiti fatti. Il solo intervento concreto è stato il bonus degli 80 euro, dieci miliardi purtroppo buttati al vento che graveranno sul bilancio dello Stato fino al 2016 e forse oltre. Avrebbe dovuto utilizzarli per creare nuova domanda e nuova offerta di investimenti. Per il resto nulla abbiamo visto finora. Ora il confronto si sposta in Europa. Molti auguri, caro Matteo, a te e a tutti noi, sperando di non uscirne con le ossa rotte ma anzi con un netto miglioramento delle nostre condizioni.

* * *

Che cos'è la povertà e come si può combattere? Esistono molte ricette, per giudicare la povertà bisogna rivisitare il passato. Papa Francesco ne ha parlato infinite volte e proprio in questi giorni ne ha parlato ancora. Cito una sua frase che risponde con molta chiarezza alla domanda che ho qui posta: "Che cos'è la povertà? Di questo solitamente si tace, si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, in formazione, per progettare un nuovo welfare e per salvaguardare l'ambiente. È giusto, ma il vero problema non sono i soldi che da soli non creano sviluppo. La loro mancanza è diventata una scusa per non sentire il grido dei poveri e la sofferenza di chi ha perso la dignità di portare a casa il pane perché ha perso il lavoro. Il rischio è che l'indifferenza ci renda ciechi, sordi e muti, presenti solo a noi stessi con lo specchio davanti. Uomini e donne chiusi in se stessi. C'era qualcuno così che si chiamava Narciso. Quella strada no. Noi siamo chiamati ad andare oltre, il che vuol dire allargare, non restringere, creare nuovi spazi e non limitarsi al loro controllo. Andare oltre significa liberare il bene e goderne i frutti".  Così papa Francesco e "L'Osservatore Romano" che pubblica interamente il suo messaggio e lo intitola appunto "La trappola di Narciso". Aggiungo a questa del Papa un'altra citazione che traggo da una poesia d'amore di Pablo Neruda. S'intitola "La povertà" e alcuni versi, rivolti alla donna amata, suonano così: "Amore, non amiamo / come vogliono i ricchi / la miseria. Noi / la estirperemo come dente maligno / che finora ha morso il cuore dell'uomo". "Se non puoi pagare l'affitto / esci al lavoro con passo orgoglioso / e pensa, amore, che ti sto guardando / e uniti siamo la maggior ricchezza / che mai s'è riunita sulla terra". La "Caritas" verso il prossimo di Francesco e l'amore verso la sua donna di Neruda: due modi entrambi fondati sull'amore come unica soluzione per sfuggire la miseria e fare dei poveri e degli esclusi il primo obiettivo della nostra vita.

* * *

Le civiltà antiche avevano come fondamento la schiavitù e questa situazione durò molto a lungo, quasi fino ai tempi moderni cambiando di nome ma restando nella sua essenza sempre presente in gran parte del mondo. Ci furono i servi della gleba, le "anime morte" e i poveri. I ceti dirigenti e possidenti consideravano la povertà come una sorta di schiavitù. I poveri non potevano esprimersi e partecipare alla vita pubblica e alle istituzioni che la guidano. Erano tutt'al più carne da cannone quando c'erano le guerre. I poveri in guerra mettevano a servizio delle classi dirigenti tutta la violenza repressa che gli covava dentro. Ad un certo momento però nacque in alcune zone del mondo la libertà o meglio il diritto di libertà. Quel diritto reclamava, tra le tante altre cose, la lotta contro la povertà poiché la sua presenza avrebbe di fatto limitato ai ceti abbienti la capacità d'esser liberi. Le persone con scarsi redditi sono giuridicamente libere ma non hanno la capacità di esserlo. Se guardiamo, tanto per fare un esempio, all'Egitto di oggi e agli altri Paesi della costiera meridionale del Mediterraneo ci rendiamo conto di che cosa sono state le cosiddette primavere arabe: il tentativo d'una gioventù povera che voleva uscire dalla povertà e conquistare i diritti di libertà che in teoria erano legalmente riconosciuti. Ebbero successo all'inizio, ma poi sono naufragate una dopo l'altra quando la plebe dei poveri è stata chiamata all'appello dal ceto dominante ed ha respinto obbedendo alla consueta e inevitabile servitù. I poveri insomma sono la palla al piede della democrazia. Lo erano nel mondo antico e lo sono ancora oggi.

***

La società globale però, in cui da almeno trent'anni viviamo con l'affermarsi delle nuove tecnologie, ha introdotto alcune notevoli differenze la prima delle quali è l'emergere di nuovi Stati poveri verso un benessere prima sconosciuto e contemporaneamente l'aumento della miseria in zone del mondo già povere. Le diseguaglianze si sono accresciute in misura sconvolgente. Questa situazione ha portato le migrazioni ad un livello mai conosciuto prima. Da quando l'uomo è apparso sulla terra il fenomeno delle migrazioni è sempre stato presente e dominante, ma riguardava comunità relativamente piccole. Ora siamo otto miliardi di persone e continueremo ad aumentare secondo tutte le previsioni, ma le enormi diseguaglianze hanno reso le migrazioni un fenomeno che già ora e sempre più in futuro diventerà dominante. Centinaia di milioni di persone vorranno trasferirsi da Paesi in preda alla miseria ed alla barbarie vera e propria verso luoghi più ricchi e più pacifici. L'Europa in particolare è destinata a diventare un paese meticcio, cioè una mescolanza di etnie che in parte già c'è ma il livello del meticciato è destinato a crescere in misura esponenziale. Siamo già entrati in una fase in cui le migrazioni di massa non saranno affatto pacifiche ma scateneranno scontri violenti ed anche mutamenti politici rilevanti. In Italia, in Francia e in altri Paesi d'Europa queste reazioni sono già in atto ma destinate a crescere. Metteranno in discussione la moneta unica e faranno risorgere i nazionalismi come reazione all'ideale dell'unità europea. Spesso questi mutamenti politici non vengono connessi con l'immigrazione ed è invece proprio quella la loro motivazione profonda. L'antidoto non è quello di abolire la diseguaglianza, che entro certi limiti è perfino un elemento di stimolo della produttività del sistema, ma di contenerla entro limiti accettabili. E qui entra in gioco, tra i vari fattori, anche quello religioso come elemento di ulteriore scontro tra le etnie migratorie da un lato e come elemento potenzialmente positivo di fraternità dall'altro. Papa Francesco predica la fraternità tra le religioni perché Dio è ecumenico ed è lo stesso per tutti, non è cristiano, non è musulmano, non è asiatico: è Dio per tutti. "Noi cattolici  -  ha detto più volte  -  parliamo tutte le lingue del mondo, cioè cerchiamo di capire gli altri e di amarli perché questo è il solo modo di amare Dio. Si chiama "agape"". Ecco, "l'agape" è uno dei modi per sconfiggere la povertà e render pacifiche le migrazioni di massa. Concludo con i versi di Neruda dalla poesia che abbiamo già citato: "Ahi, non vuoi, / ti spaventa / la povertà, / non vuoi / andare con scarpe rotte al mercato / e tornare col vecchio vestito (...) se la povertà scaccia / le tue scarpe dorate, / che non scacci il tuo sorriso che è il pane della mia vita". È questo che tutti vogliamo.

© Riproduzione riservata 23 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/23/news/le_nuove_povert_che_bussano_alla_nostra_porta-101203722/?ref=HRER2-1
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« Risposta #534 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:55:21 pm »

Il macigno del debito italiano e il buco nero della Grecia

di EUGENIO SCALFARI
30 novembre 2014
   
Al parlamento europeo questa settimana hanno parlato personalità molto autorevoli: il Papa, Draghi, Juncker.

Francesco ha detto testualmente: "Promuovere la dignità d'una persona significa riconoscere che essa possiede diritti inalienabili di cui non potrà essere privata ad arbitrio di alcuni. Occorre però prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci e in un loro paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione sempre più ampia di diritti individuali che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale. Al concetto di diritto non sembra più associato quello altrettanto essenziale e complementare di dovere. Così si finisce per affermare i diritti del singolo senza tener conto che ogni essere umano è legato ad un contesto sociale in cui i diritti e i doveri sono connessi a quelli degli altri e al bene comune della società stessa".

Così il Papa. È evidente che postula un futuro dell'Europa unita, con i singoli Stati strettamente associati tra loro.

***

Draghi ha esordito con un'affermazione che, pur avendola già pronunciata in vari luoghi, non aveva mai sostenuto in modo così esplicito: è necessario che l'Europa garantisca i debiti sovrani di tutti gli Stati membri. Il motivo proviene dal rischio delle elezioni politiche in Grecia. I sondaggi danno in testa Tsipras che guida il suo partito Syriza, ma una sua vittoria porterebbe con sé una situazione di estremo pericolo per l'Europa e per la moneta comune perché Tsipras è deciso a ripudiare sia l'euro sia l'Europa.

Potrebbe tuttavia restarci solo ad una condizione: che l'Europa si assuma per la durata di cinquant'anni il debito greco pagando alla Grecia anche gli interessi. Questa richiesta, ha detto Draghi, potrebbe anche essere accolta per la modesta entità di quel debito, se non che essa crea un precedente che può interessare soprattutto l'Italia. Ma adottare per l'Italia la stessa procedura chiesta da Tsipras è assolutamente impossibile: le dimensioni del nostro debito sovrano sono preclusive e per di più si scatenerebbe un'ondata speculativa di lunga durata che porterebbe al default l'Italia e con essa il sistema bancario mondiale.

Ecco perché le elezioni greche sono la dinamite che può mandare in crisi non solo il sistema europeo ma quello bancario del mondo con una crisi anche politica di dimensioni planetarie.

C'è un solo modo di reagire, secondo Draghi: imboccare con celerità la strada dell'Europa unita e sovrana. Ci vorranno anni, ma i primi passi irreversibili vanno fatti subito, le cessioni di sovranità economiche e politiche debbono essere discusse dal Parlamento di Strasburgo, dalla Commissione di Bruxelles e dai singoli Stati membri dell'Unione.

Chi parla ancora, in Italia, di un'ipotesi di Draghi al Quirinale ignora o non valuta l'importanza del compito che il presidente della Bce si è assunto. Altri pensano che sia un personaggio debole, contestato dalla Germania e dai potentati di Wall Street e della City. Direi che chi fa queste valutazioni non ha capito qual è l'importanza e il peso di Draghi presso tutte le altre banche centrali a cominciare dalla Federal Reserve, dalla Banca d'Inghilterra, dalla Banca Centrale del Giappone e da quella della Cina. Questo è Mario Draghi il quale si sta apprestando a dare esecuzione (si pensa che lo farà entro il prossimo febbraio ma forse anche prima) alle misure non convenzionali più volte da lui indicate.

Quando si parla di queste misure gran parte dell'opinione pubblica e degli operatori europei pensa all'acquisto dei titoli del debito sovrano dei vari Paesi membri dell'Unione. È possibile che si tratterà di questo intervento, ma non è detto. Può trattarsi di massicci acquisti di obbligazioni di debiti di aziende private che la Bce è pronta ad acquistare anche se prive di garanzia bancaria. In realtà questi acquisti sono già in corso ma in misura limitata; nelle prossime settimane si tratterebbe invece di acquisti molto rilevanti in tutti i Paesi membri dell'Ue.

Per questo Mario Draghi, a mio personale avviso, è la personalità più importante e non soltanto in Europa.

***

Infine Juncker. Ha proposto alla Commissione da lui presieduta e al Parlamento di Strasburgo un prestito dell'Unione ai vari Stati confederati di 315 miliardi da erogare in tre anni a partire dall'autunno del 2015.

Tuttavia di quella cifra, intestata ad un Fondo europeo, sono attualmente disponibili soltanto 21 miliardi. La differenza è enorme e tutto si riduce dunque ad uno dei tanti annunci cui siamo purtroppo abituati. Però qui la questione è molto diversa dal solito per le modalità con le quali Juncker intende procedere a partire dal prossimo gennaio: per finanziare il Fondo è indispensabile l'apporto dei singoli Stati membri; è aperto anche a Stati stranieri e ad altri Fondi internazionali, ma i "datori" principali sono gli Stati dell'Unione. Naturalmente Juncker chiede di più ai più forti economicamente e quindi alla Germania, ma tutti dovranno contribuire. Di fatto si tratta di quella europeizzazione del bilancio e di quella garanzia dei debiti sovrani della quale ha parlato Draghi che con Juncker ha contatti molto frequenti.

Gli Stati membri contribuiranno ricevendo in cambio, quando il Fondo europeo avrà raggiunto almeno 200 miliardi, facoltà di investimenti che potranno esser fatti utilizzando una politica di deficit spending di tipo keynesiano con una differenza però: dovrà trattarsi di investimenti capaci di creare nuovi posti di lavoro, salari e stipendi in grado di stimolare sia le esportazioni sia i consumi interni. Insomma un cospicuo aumento della domanda, capace di mettere in moto un processo di crescita duraturo. Esso consentirà un aumento delle entrate fiscali e quindi ulteriore disponibilità di risorse finanziarie. Ma il debito sovrano, fin quando non fosse garantito dall'Ue, rimane pur sempre il macigno che non c'è Sisifo capace di spostare rendendo il nostro Paese estremamente vulnerabile. A me non sembra che il nostro governo ne sia realmente consapevole. Lo utilizza come spauracchio per Bruxelles, ma forse non si rende conto che è un macigno che grava sulle spalle di tutti gli italiani (che non se ne rendono conto neanche loro).

***

Il nostro presidente del Consiglio, che non è affatto uno stupido, tutte queste cose le sa, ma le usa soltanto per realizzare l'obiettivo di rafforzare il suo potere e quello della sua squadra. Ed è allora che la questione diventa preoccupante per la democrazia italiana. Di queste preoccupazioni ho dato più volte notizia e non ho alcuna voglia di ripetermi. Lo farò, guarda caso, utilizzando alcune osservazioni recentissime di Silvio Berlusconi, con le quali in questo caso mi trovo d'accordo.

È molto singolare, dice Berlusconi, che Renzi insista tanto sul tema della legge elettorale da far approvare entro gennaio. A che cosa serve questa fretta che rischia di creare un ingorgo parlamentare inutile, anzi dannoso poiché impedisce l'esame e l'approvazione di riforme ben più importanti, tanto più se vuole che la legislatura duri fino alla sua scadenza naturale del 2018?

È altrettanto singolare -  dice ancora Berlusconi -  che non si preoccupi del fenomeno delle massicce astensioni in Calabria e soprattutto in Emilia. Dice che le astensioni non hanno nessuna importanza. Sbaglia di grosso. Io Silvio finché ho potuto e ancora oggi mi sono sempre preoccupato di mantenere e fare aumentare la fiducia degli italiani in me e nella politica popolare da me portata avanti e quando vedevo che quella fiducia si incrinava la mia preoccupazione mi portava a parlare e ad agire per riguadagnarla. L'importante è governare, dice Matteo. Certo, ma si governa se la fiducia non si incrina, altrimenti sei perduto.

Oggi comunque (sempre Silvio) quello che più conta è un Capo dello Stato capace e non uno o una che siano pupazzi con Renzi burattinaio. L'inquilino del Quirinale non può essere nelle mani di un burattinaio. Non è questo che io (Silvio) voglio e farò il possibile perché avvenga.

Naturalmente Berlusconi ha le sue ragioni per fare al suo alleato critiche così penetranti. Lui vuole che la legislatura duri fino al 2018. Con Renzi naturalmente, ma anche con lui. Possibilmente cambiando la legge elettorale e passando dal voto di lista al voto di coalizione. Allora lui sarà di nuovo alla testa di una forza politica importante. Forse non vincerà, ma supererà Grillo e potrà dettare o almeno suggerire riforme che lo interessano, soprattutto economiche e giudiziarie.

***

Si discute molto sulla legge delega che riguarda il Jobs Act. Alla Camera è passata con quaranta assenze nei banchi del Pd, ma lì la maggioranza assoluta era comunque nelle mani del governo e quindi non c'era bisogno del voto di fiducia. Al Senato è diverso. Per arrivare alla maggioranza assoluta a Renzi mancano 13 voti e se la sinistra dispone, come sembra, di 25 senatori pronti a votare contro, la fiducia diventa indispensabile e infatti Renzi ha deciso di chiederla. Il voto ci sarà in questa settimana. Ma, ecco il punto, è un voto non in regola con la Costituzione.

Le leggi delega, delle quali si fa ormai grande uso, contengono direttive di principio piuttosto generiche. Ad esse seguono i decreti attuativi che vengono decisi dal governo e esaminati da una Commissione la quale tuttavia emette pareri puramente consultivi. Se quei pareri non piacciono al governo, i decreti attuativi vengono applicati.

A mio avviso le leggi delega debbono essere discusse dal plenum delle Camere senza che si possa mettere la fiducia. Altrimenti si ottiene una maggioranza forzosa con la conseguenza che il Parlamento (in questo caso il Senato) approva lo strapotere del governo senza un voto libero.

Credo quindi che la questione debba essere sollevata e la fiducia preclusa, senza di che la Consulta potrebbe rapidamente intervenire se sarà opportunamente richiesta a farlo.

© Riproduzione riservata 30 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/30/news/il_macigno_del_debito_italiano_e_il_buco_nero_della_grecia-101750186/?ref=HRER2-1
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« Risposta #535 inserito:: Dicembre 07, 2014, 05:45:51 pm »

La Banca centrale e l'acquisto di Bond: i veri obiettivi di Draghi e quelli di Renzi

di EUGENIO SCALFARI
07 dicembre 2014
   
PER mettere davanti agli occhi della gente una situazione, un fatto, una persona, esistono almeno tre strumenti visivi e quindi mentali: la fotografia, il video, il film. Danno risultati molto diversi l'uno dall'altro: la fotografia ritrae in modo istantaneo, il video in modo animato, il film in modo narrativo e interpretativo. Infatti nel film ci sono gli attori ma c'è anche un regista che guida gli attori, le luci, il montaggio. Qualche volta per diventare il vero padrone del film l'attore fa anche il regista.

Quanto a noi giornalisti che abbiamo il compito di informare con spirito critico, noi guardiamo dall'esterno queste rappresentazioni, le interpretiamo e talvolta le giudichiamo; se il giornale dove scriviamo è autorevole possiamo anche condizionarli.

Il mio proposito è quello di raccontare oggi il film d'un personaggio molto spiccato e influente come Mario Draghi e comprendere la sua tattica economica e politica alla luce della sua strategia e poi applicare a Matteo Renzi questo stesso metodo. Credo sia il miglior modo per capire quanto sta accadendo in Italia e in Europa.
* * *
Il tema che più appassiona e coinvolge Draghi non è soltanto la politica monetaria che a stretto rigore è il suo compito istituzionale, ma è la politica economica e l'assetto istituzionale dell'Europa.

Draghi è da tempo convinto che nella società globale i continenti diventati Stati hanno la forza sufficiente per confrontarsi; la loro potenza deriva dall'ammontare della ricchezza, dalle risorse naturali e dalla demografia. Se il continente non diventa uno Stato ma continua ad essere un bazar di tante entità nazionali, queste non sono in grado di aver voce nella società globale, diventano staterelli con un ruolo secondario e quindi subalterno. È il caso dell'Europa che non ha una sua politica estera, una difesa comune e neppure una politica economica e fiscale.

Draghi questo problema lo sente come prioritario su tutti gli altri ed è questa priorità che spinge la sua strategia di fondo; se non si tiene presente e ci si limita a fotografare le sue mosse senza inquadrarle, si capisce ben poco. Lui d'altro canto deve tener conto dei binari dove corre il suo treno, delle stazioni dove transita e dei capi che manovrano gli scambi e i semafori col disco verde che consente il passaggio e quello rosso che lo impedisce.

Il suo obiettivo è di alzare il volume di liquidità della Banca centrale da lui guidata dai duemila miliardi attuali ad almeno tremila e anche di più. Solo con questa massa di risorse monetarie può sbloccare il "credit crunch" che ancora affligge molti Paesi dell'Eurozona.

Ma quell'obiettivo è realizzabile soltanto se, oltre all'acquisto di debiti dalle aziende che sarebbe l'ideale per promuovere investimenti e consumi, potrà adottare la "quantitative easing" cioè l'acquisto massiccio di titoli del debito sovrano dei membri dell'Eurozona.

In realtà chi avrebbe maggior bisogno di trasferire parte del proprio debito da creditori privati alle casse della Bce sono i Paesi economicamente in recessione, ma questo riempirebbe di titoli assai poco appetibili la Banca centrale. Se non sono spazzatura poco ci manca: Grecia, Portogallo, Italia (specie dopo il declassamento dell'agenzia di rating Standard & Poor's dichiarato tre giorni fa). Di qui la decisione  -  se la "quantitative easing" sarà adottata  -  di applicarla a tutti i paesi dell'Eurozona in proporzione al loro reddito. In quel caso nei forzieri della Bce entrerebbero anche bond di elevata solidità. Per quanto riguarda l'Italia, noi riceveremmo una quota non superiore ai 90 miliardi, pari al 17 per cento del totale previsto per la "quantitative easing", ma tutta l'Europa tirerebbe un respiro di sollievo per l'irrorazione monetaria ricevuta dall'intera Eurozona. Si farà o non si farà? La decisione dovrebbe essere presa il 22 gennaio ma l'esecuzione non sarà comunque immediata.

Questa è la fotografia della situazione. Il quadro generale, economico e politico, perseguito da Draghi è però un altro: la vigilanza bancaria affidata alla Bce, già in corso di esecuzione, l'unità del sistema bancario, anch'essa già parzialmente avviata, la garanzia europea su tutti i depositi bancari che dovrebbe preludere ad un bilancio unico dell'Unione e infine il trasferimento dei debiti sovrani ad un solo debito europeo con relativa cessione di sovranità fiscale. I singoli Stati insomma avrebbero analogo rilievo nei confronti dell'Ue di quanto l'abbiano il Texas, la Virginia, il Massachusetts, il Mississippi e tutti gli altri verso la Presidenza e il Congresso degli Usa.

Questo è il traguardo a raggiungere il quale Draghi lavora e questo è il vero binario dove il suo treno procede. Non corre purtroppo, ma comunque avanza.

La Germania è naturalmente il Paese leader, senza l'appoggio del quale non è pensabile di realizzare l'obiettivo. Continuerebbe a mantenere la leadership anche in un'Europa non più soltanto confederata ma federata e un continente finalmente diventato uno Stato più ricco di risorse degli stessi Usa?

Personalmente penso di sì e credo che anche Draghi sappia che senza questa certezza sarebbe molto difficile che il treno proceda: disco rosso e non verde. Ma la Germania non è il solo ostacolo. C'è anche la "grandeur" della Francia e c'è anche l'ostacolo non trascurabile dell'Italia.

Noi siamo un Paese in pessime acque economiche e abbiamo sulle spalle il maggior debito pubblico d'Europa e uno dei più elevati del mondo intero. Questa è senza dubbio la nostra debolezza ma paradossalmente anche la nostra forza: un default del debito italiano farebbe saltare in aria tutto il sistema bancario del mondo occidentale, non esclusi molti paesi asiatici; insomma un dissesto di gigantesche proporzioni.

Sicuramente Matteo Renzi utilizzerà questa nostra debolezza-forza nelle trattative che sta per intraprendere con le autorità europee, la Commissione e i governi dell'Eurozona.

Ma Renzi da che parte sta e che cosa veramente vuole? Anche qui bisogna distinguere tra tattica e strategia, tra singole mosse che colgono il presente e finalità proiettate sul prossimo futuro.

Le sue mosse Renzi le ha da tempo dichiarate e le ripete quasi quotidianamente: vuole prestiti europei previsti da Juncker e li vuole al più presto senza dover versare il contributo che Juncker chiede agli Stati membri. Vuole l'autorizzazione ad una politica di "deficit spending" destinata a investimenti da effettuare al di fuori del bilancio ufficiale. Il debito aumenterà, ma quello sul quale mette gli occhi la Commissione europea no e quindi neppure il deficit del 3 per cento stabilito dall'accordo di Maastricht, anche se Renzi chiede l'autorizzazione a superarlo fino al 2017 come la Francia.

Questi sono gli obiettivi immediati. Ma poi c'è l'obiettivo di fondo: rafforzare la struttura confederata dell'Unione e non muovere nessun passo verso quella federale. Esattamente il contrario della strategia di Draghi e la ragione è evidente: in una struttura federale il potere di Renzi, come di tutti i capi di governo dei Paesi membri dell'Ue, diventerebbe simile al potere d'un governatore regionale o del sindaco di un'area metropolitana. Renzi non vuole un declassamento di questo genere perciò si opporrà fino in fondo e farà quanto gli è possibile perché tutti gli altri Paesi  -  a cominciare dalla Germania  -  facciano altrettanto. Ma ha la forza sufficiente per farlo?

In parte la sta perdendo e i sondaggi ne mandano un segnale. È questa una delle ragioni per cui vuole procedere a tempo di record all'approvazione delle riforme, a partire da quella del lavoro, dalla legge elettorale e dall'abolizione di fatto del Senato, dall'elezione del nuovo capo dello Stato (quando tra poche settimane Napolitano darà le dimissioni) che sia di fatto uno strumento nelle sue mani.
Queste sono le sue finalità. È coraggioso, non si vedono nel Pd alternative, anche se il suo "Jobs act" non crea nessun posto di lavoro ed è di assai dubbia costituzionalità. L'insoddisfazione degli italiani nei suoi confronti è in costante aumento, la diminuzione delle tasse e la sconfitta dell'evasione fiscale sono favole che hanno molto poco da spartire con la realtà.

Questo è il quadro con cui gli italiani debbono confrontarsi, al quale c'è da aggiungere la forte sofferenza della democrazia parlamentare di fronte ad una legge che abolisce il Senato e trasforma il sistema consentendo al potere esecutivo di spolpare il potere legislativo e dove la corruzione continua a dilagare come prima e più di prima.

Aggiungo due parole (perché l'ho già detto domenica scorsa) sulla fiducia chiesta per la legge delega relativa al "Jobs act". Salta agli occhi di tutte le persone consapevoli che è del tutto irragionevole porre la fiducia sulle leggi delega. Così facendo si trasforma il libero voto in una situazione di libertà forzosa, si chiude il deputato o il senatore aderenti al partito di maggioranza dentro una gabbia, si reprime la libertà di dissenso sugli obiettivi che la delega si propone e che saranno resi esecutivi e precisati nei loro fondamentali aspetti dai decreti costitutivi che non sono neppure discussi dalle Camere. Sono analizzati da una commissione che emette un parere soltanto consultivo. La delega in sostanza è ottenuta con la gabbia della fiducia e non torna più in Parlamento. L'incostituzionalità è evidente e penso che la Corte la dichiarerebbe se ne fosse investita nei modi appropriati.

Ma c'è anche un'altra osservazione sulla costituzionalità del "Jobs act": esso contiene una notevole diseguaglianza tra i lavoratori già occupati nelle aziende e quelli che vi accedono con un periodo di prova e stipendi a tutele crescenti.

Questi lavoratori hanno un privilegio rispetto ai già occupati: le aziende che li assumono ed essi stessi sono sgravati dal pagamento dei contributi mentre quelli già occupati non godono di queste facilitazioni. Per converso questi ultimi sono ancora coperti dall'articolo 18 per quanto riguarda i licenziamenti, mentre i nuovi assunti ancora precari non hanno questa protezione.

Al tirar delle somme i lavoratori che fanno il medesimo lavoro si trovano in condizioni molto diverse, il che è palesemente incostituzionale.
Tendere alla produttività, alla competitività e all'aumento dei posti di lavoro fa parte purtroppo del mondo delle favole, mentre il tempo passa, i sacrifici aumentano, l'economia è inceppata, la corruzione aumenta.

Scrive nella poesia "Le Campane" Edgar Allan Poe: "Batte il tempo, il tempo, il tempo, mentre suona a morto, a morto, in un rùnico concerto, al rimbombo di campane, di campane, di campane... ". Campane a festa o campane a morto?
© Riproduzione riservata 07 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/07/news/la_banca_centrale_e_l_acquisto_di_bond_i_veri_obiettivi_di_draghi_e_quelli_di_renzi-102309017/?ref=HRER2-1
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« Risposta #536 inserito:: Dicembre 14, 2014, 06:07:02 pm »

La partita dell'Italia si gioca interamente in Europa

di EUGENIO SCALFARI
14 dicembre 2014
   
Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ha rilasciato una lunga intervista al nostro giornale nella quale espone la sua politica confrontandola con quella di Mario Draghi e con la politica dell'Unione europea.

Sui suoi rapporti con la Bce, di cui la Bundesbank fa parte, non dice nulla di nuovo: con Draghi spesso si telefonano quasi quotidianamente, su molte cose concordano e spesso lavorano in piena intesa su altre c'è un duraturo dissenso che non impedisce una reciproca e amichevole lealtà di comportamento.

La visione che Weidmann ha dell'Europa mette invece in luce alcuni aspetti che non conoscevamo, il più importante dei quali è la propensione di Weidmann verso un'Europa politicamente ed economicamente unita, con una politica economica e fiscale gestita da Bruxelles, un debito sovrano unico e numerose cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali. Se questo fosse avvenuto non ci sarebbero le attuali diseguaglianze tra i Paesi membri dell'Eurozona e le tensioni che ne sono la conseguenza. A proposito della Germania Weidmann è consapevole della sua attuale debolezza economica e demografica ma ritiene che la situazione migliorerà entro un paio di anni e ne fa uno dei suoi obiettivi principali.

Infine le regole che governano l'Unione europea. Il loro obiettivo è quello di ottenere un risanamento dei bilanci nazionali e la loro stabilità. Non sarebbero necessarie quelle regole se l'Europa fosse uno Stato federale, ma poiché non lo è e non lo sarà, le regole e la restrizione che esse comportano non possono essere violate.

la flessibilità tanto richiesta dall'Italia e dai Paesi economicamente più deboli è inaccettabile e va respinta. Questo è il pensiero della Bundesbank e del suo presidente che emerge dall'intervista che stiamo esaminando. Che cosa ne pensa Draghi? Non ritiene scorretto che il governatore d'una Banca centrale nazionale esprima pubblicamente il proprio pensiero e i suoi dissensi dalla Bce di cui fa parte? No, non lo ritiene scorretto e non ci vede nulla di nuovo. Che la Bundesbank sia contraria su alcuni punti decisivi della sua politica e in particolare alla possibilità del "quantitative easing" non è una sorpresa. D'altra parte il "qe" non è ancora stato deciso e neppure le forme della sua eventuale applicazione. Si deciderà entro il prossimo gennaio se sarà adottato e con quali regole; tra di esse una delle più importanti riguarda le modalità esecutive: se la scelta dei Paesi ai quali sarà applicato il "qe" spetterà alla Bce oppure se sarà esteso a tutta l'Eurozona in proporzione al Pil di ciascuno dei diciotto Paesi che la compongono.

***

Abbiamo cominciato da questa intervista perché, insieme a quanto detto da Draghi, traccia un panorama della massima importanza per il nostro governo. È infatti pacifico che per Renzi la vera partita ormai non si gioca in Italia ma in Europa e lì si deciderà entro poche settimane. L'azione politica del governo Renzi in Italia ne sarà fortemente condizionata. Se a Bruxelles dovesse fallire, la crisi italiana gli sfuggirebbe di mano e non gli resterebbe altra via che quella elettorale, sempre che il futuro inquilino del Quirinale glielo consenta. Renzi insomma rischia d'essere rottamato a Bruxelles e quindi anche a Roma. Ebbene, le prospettive della partita europea non sono affatto favorevoli per il nostro governo e lo si vede dal mutamento di Juncker, di Moscovici e del vice di Juncker preposto ai rapporti con i paesi in maggiore sofferenza economica Jyrki Katainen. La flessibilità chiesta dall'Italia sarà ridotta al minimo, l'autorizzazione alla politica keneysiana del "deficit spending" sarà negata al rischio di immediati processi di infrazione. L'aumento del debito pubblico non sarà sopportato e l'arrivo della Troika da possibile sta diventando probabile.

***

Questo per quanto riguarda l'economia. Nel frattempo sono però avvenuti negli ultimi giorni alcuni fatti che mettono a repentaglio il governo. Due in particolare: lo sciopero generale della Cgil-Uil, l'emergere sempre più evidente delle minoranze di sinistra interne al Pd. Lo sciopero è pienamente riuscito con oltre il 60 per cento di lavoratori che hanno rinunciato ad un giorno di paga (importante coi tempi che corrono) pur di manifestare per la loro esistenza e dignità. Susanna Camusso, che ha parlato a Torino di fronte ad una piazza gremita, ha messo in chiaro che lo sciopero, come tutti gli scioperi generali, ha come obiettivo il governo, per opporsi a Renzi e alla sua politica economica e sociale. Il "Jobs Act" non conta nulla (Camusso e Barbagallo), non crea alcun posto di lavoro, cancella l'articolo 18, dà mano libera ai "padroni" di licenziare. Ma al di là del solo Renzi l'intera politica sociale del governo si fonda su una generale "deregulation" contrattuale che priva d'ogni forza le organizzazioni rappresentative dei lavoratori. Queste politiche piacciono molto alla Confindustria ed anche a Bruxelles, favoriscono la privatizzazione delle aziende pubbliche e la loro vendita a investitori stranieri che adottano immediatamente politiche aziendali basate sull'esubero di lavoratori. Del resto la politica degli esuberi è una costante essenziale della politica del governo. I tagli effettuati e quelli che verranno per ricavare risorse produrranno inevitabilmente altri esuberi. Il risultato finale sarà esattamente l'opposto di quanto tutti vorrebbero e che lo stesso governo proclama come obiettivo numero uno: non già aumento ma diminuzione dei posti di lavoro. Per ottenere le risorse necessarie bisognerebbe cambiare la distribuzione delle imposte sulle varie categorie sociali e far diminuire le diseguaglianze: questa dovrebbe essere la politica fiscale del governo. Gli obiettivi della Camusso sono quelli qui esposti, condivisi interamente dalla minoranza di sinistra del Pd. Lo scontro decisivo interno al partito avverrà nell'Assemblea di oggi e sarà molto duro, con probabili ripercussioni addirittura nella scelta del futuro presidente della Repubblica.

***

Ma c'è un tema che ha poco da vedere con quelli fin qui trattati anche se le sue ripercussioni economiche sono tutt'altro che irrilevanti: la corruzione, le mafie, l'immoralità così universalmente diffusa, che inquina gran parte della classe dirigente ma è purtroppo presente anche capillarmente nei ceti sociali medio-bassi. C'è in tutti i Paesi la corruzione e il suo rapporto con la politica e con le istituzioni, ma in Italia è più diffusa e meno punita. Il tema chiama in causa la morale, le leggi che dovrebbero presidiarla, il costume che dovrebbe respingerla. Ho detto prima che la corruzione è diffusa ovunque e non solo in Italia, ma in alcuni Paesi che si distinguono dagli altri proprio per questo aspetto, il costume è diverso, la capillarità è minore, l'auto-punizione è più frequente attraverso auto-denunce, dimissioni dalle cariche ricoperte, auto-rottamazione, se vogliamo usare una parola di moda.

Lo scandalo di Roma, che coinvolge oltre al Comune anche Provincia e Regione, ha posto il governo di fronte all'urgente necessità di emanare leggi appropriate e lo sta facendo, con ritardo, perché il fenomeno esiste da sempre e nessun governo l'ha mai seriamente affrontato. I governi di destra (Berlusconi) l'hanno addirittura incoraggiato con leggi fatte su misura; quelli di sinistra l'hanno tollerato (mancate leggi sul conflitto di interessi, sulla prescrizione, sul riciclaggio di capitali). Oggi finalmente il governo sta preparando e varando leggi sulla prescrizione e sulla corruzione. Quest'ultima, da quanto se ne sa, sembra insufficiente. Attendiamo di poter leggere il testo definitivo. Il segnale comunque c'è anche se tardivo e va appoggiato dandone lode al governo che se ne è dato finalmente carico. È inutile dire che la parola giusta per definire il fenomeno è "vergogna". Non ci sono altre parole che questa.

Del resto che la corruttela ampiamente diffusa sia un fenomeno antico lo sappiamo dalla storia del nostro Paese e dagli scandali che vennero alla luce dopo il governo della Destra storica. Il trasformismo celò spesso fenomeni di corruzioni che travolsero governi, cooperative e perfino movimenti che si proclamavano di sinistra e denunciavano i padroni pur essendo anch'essi inquinati di corruzione. Ricordo qui una canzone che mio nonno paterno conosceva ed era una versione anarchica dell'inno dell'Internazionale. Diceva così: "Quando che sarò morto  -  non voglio le campane  -  ma voglio le puttane  -  e il Sol dell'Avvenir". La parola "puttane" è qui usata per significare che sono meglio loro che la gente cosiddetta perbene ma quasi sempre inquinata dalla corruzione. E il Sol dell'Avvenir è il segno d'un futuro anarchico e socialista che metta fine alla vergogna. Ma brillerà finalmente quel Sole?

© Riproduzione riservata 14 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/14/news/la_partita_dell_italia_si_gioca_interamente_in_europa-102843084/?ref=HRER2-1
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« Risposta #537 inserito:: Dicembre 22, 2014, 05:52:23 pm »

Tutto comincia da tre parole di Conrad sulla vita

Di EUGENIO SCALFARI
21 dicembre 2014
   
Nel 1913 Joseph Conrad scrisse forse il più bello dei tanti suoi romanzi e io comincerò con questa frase: "La storia degli uomini sulla terra fin dall'alba dei tempi si può riassumere in parole infinitamente evocative: "Nacquero, soffrirono, morirono". E tuttavia, che grande racconto!"

Dei tanti fatti accaduti in questi giorni, che vanno dalla pace finalmente scoppiata tra gli Stati Uniti d'America e Cuba, auspice papa Francesco, ancora una volta fattore di amicizia e solidarietà tra gli uomini, al progetto d'una intesa di Europa e Usa con Putin, fino all'ultima riunione del Consiglio dei capi di governo dell'Ue sotto la presidenza semestrale italiana che tra pochi giorni sarà scaduta; la frase di Conrad fornisce meglio di qualunque altro discorso l'essenza e mi fa pensare alla spiegazione dei dieci comandamenti mosaici fatta il 15 e il 16 scorsi da Roberto Benigni su RaiUno. Che racconto! Come dice Conrad dopo aver riassunto in tre parole la miserabilità della nostra vita.

Sbaglia chi pensa che Benigni sia un comico: è un grande attore che come tutti i grandi attori è anche il regista e lo sceneggiatore di se stesso e sceglie qualunque occasione per raccontare la vita, il suo aspetto drammatico e quello comico, i suoi significati spesso reconditi. Ridendo, lacrimando, gridando e mormorando, facendo vivere quello che finora forse avevano ignorato. C'è un passaggio di quella sua recita che mi ha colpito, quello in cui Benigni (e Franco Marcoaldi, che con lui ha preparato il testo) pongono al centro della tradizione mosaica questo concetto.

È quello secondo il quale spesso il corpo delle persone corre molto più velocemente lasciando l'anima indietro. Bisogna impedire che questo avvenga per evitare che l'anima, lontana dal suo corpo, si smarrisca e si perda. Il rapporto tra corpo e anima è la condizione che rende possibile la persona umana, la sua storia, il suo viaggio dentro di sé e la sua ricerca di amicizia e di solidarietà con gli altri, con il mondo che ci circonda.

Papa Francesco ha telefonato a Benigni e si è congratulato con lui. È vero: Roberto ha parlato per quattro ore di Dio. Quattro ore, che racconto! Dio  -  ha detto illustrando i comandamenti  -  è serenità ma è anche tragedia, è anche gelosia, è anche misericordia. Forse c'è. Ma il dubbio aleggia di continuo intorno alla sua figura, alle stragi terribili e orribili che l'uomo ha compiuto e ancora compie, quando l'anima si distacca dal corpo e lascia solo l'animale che siamo, la belva che possiamo diventare, mentre il Dio onnipotente lascia correre e sembra aver abbandonato la sua creatura.

Il Papa si è congratulato. Lui è sicuro che Dio pensa a noi senza interruzione, ma sa che esiste il dubbio e la miscredenza. Francesco si dà carico cercando nei limiti di una persona come tutte le altre di affrettare il cammino dell'anima affinché la bestia che è in noi si volga verso il Bene. Poi sarà il nostro libero arbitrio a scegliere quale sia il Bene e spesso se ne servirà a proprio uso e consumo.

***

Il muro tra l'America e Cuba è caduto e questo è un fatto di capitale importanza perché Cuba non è soltanto la grande isola che fronteggia la Florida e il Messico. Cuba rappresenta l'America centrale e meridionale che si affaccia sul grande golfo dei Caraibi, il Venezuela, la Colombia, il Guatemala, il Costa Rica, Panama, El Salvador, Porto Rico, Honduras. Li rappresenta non nel senso formale ma sostanziale del termine. Ed è proprio quell'aspetto che spiega l'interesse di Jorge Bergoglio nel far cadere quel muro. Papa Francesco patrocina una grande unione di tutta l'America Latina. Non è un interesse politico che non ha e non vuole che l'abbia la Chiesa. È un interesse spirituale, il medesimo che è contenuto nel suo recente discorso al Parlamento europeo.

Sono regioni dove il cattolicesimo è molto presente, insieme ad alcune Chiese protestanti. Una confederazione che andasse dall'Equatore fino all'Antartide e dal Pacifico all'Atlantico sarebbe una terra di missione formidabile e l'intero mondo cristiano ne riceverebbe un impulso missionario con effetti su tutto il Pianeta. Questa è l'importanza della nuova stagione che si apre tra Washington e L'Avana. Obama ci vede un successo che dà prestigio al suo gran finale, Raul Castro si attende un miglioramento sostanziale del tenore di vita del suo popolo. Papa Francesco spera in un'immensa prateria per le missioni della Chiesa. E tutti e tre colgono la verità di ciò che è accaduto e accadrà nel futuro.

***

Renzi intanto ha avuto a Bruxelles l'ultimo incontro con i colleghi dei Paesi membri dell'Ue e con la Commissione presieduta da Juncker. Chi ha vinto, chi ha perso: fioccano sui giornali le interpretazioni della tradizionale politica del rigore economico e quella, evocata ma non ancora entrata in funzione, della crescita.

Il punteggio di questa partita che ormai si protrae da almeno un anno è zero a zero. Non è stato deciso niente anche se è stato detto tutto a sostegno dell'una e dell'altra tesi. Il Paese che ai tempi delle vacche grasse, cioè nel periodo tra il 1995 e il 2005, utilizzò le abbondanti risorse disponibili per modernizzare lo Stato, le imprese, lo status dei lavoratori, fu la Germania ed anche la Gran Bretagna di Tony Blair fece lo stesso.

Altri Paesi furono a mezza strada in quella direzione (la Polonia fu uno di quelli). Altri ancora (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro) dissiparono allegramente (da noi ci fu la "Milano da bere", anzi l'Italia da bere, di craxiana e poi berlusconiana memoria) aumentando fino a livelli stellari il debito pubblico e insieme con esso l'evasione fiscale, il lavoro nero, la corruzione, i proventi della criminalità organizzata e la sua diffusione in tutto il Paese e il collegamento con le mafie internazionali (giapponese, marsigliese, colombiana, russa, albanese, turca, americana, tedesca, romena, slovacca) insomma una cintura planetaria, ovunque contigua alla classe politica e perfino a quella giudiziaria.

Questa purtroppo è l'Europa. Sarebbe andata avanti così ancora per qualche anno, poi sarebbe precipitata a fondo dal Mar Mediterraneo a quello Baltico. Ma nel 2007 è scoppiata in America la più grande crisi economica che si ricordi, più profonda, più vasta, più duratura perfino di quella del 1929.

Questa, che dura tuttora, è avvenuta quando già da sette anni era nata la moneta comune: i sei fondatori, tra i quali c'eravamo anche noi, sono ormai 18 e stanno per diventare 19. Molti incolpano l'euro per quello che sta accadendo nei Paesi della corruzione in grande stile, ma quei molti sono profondamente stupidi, scambiano gli effetti per le cause e non si rendono conto che solo l'esistenza dell'euro ha consentito di interrompere il sonno in cui i Paesi dissipatori continuavano a cullarsi: i Paesi cosiddetti virtuosi hanno suonato il campanello d'allarme ed hanno preteso che i dissipatori si mettessero in regola, sopportando i relativi sacrifici e alcune roventi umiliazioni per poi intraprendere di nuovo tutti insieme la crescita e lo sviluppo e magari passare da un'Unione di Stati confederati agli Stati Uniti d'Europa.

Su questo ultimo punto  -  che per quanto mi riguarda non faccio che invocare ed evocare  -  tornerò. Tornerò tra poco; ma prima voglio dire che Matteo Renzi sta sbagliando con l'Europa; evidentemente non ha buoni consiglieri e quanto a lui di questi problemi ne sa poco. E pensa che il metodo migliore sia quello di fare la faccia feroce. Le elezioni europee gli hanno dato un notevole successo (smaltito pochi mesi dopo dalle elezioni amministrative con un'astensione abnorme) e gli hanno evidentemente fatto adottare una tattica e una strategia che non porteranno a nulla.

Non era facendo il bullo nei confronti della Merkel che si risolveva il problema. Anzi: si alimentarono gli euroscettici e i loro partiti e movimenti che hanno soprattutto la Germania come nemico. Per cui attaccare quei movimenti ed insieme attaccare anche i fautori dell'euro è una strategia evidentemente priva di senso.

Tra l'altro chi adotta questa strategia finisce con l'indebolire la posizione di Draghi e della Bce che è allo stato dei fatti il solo vero protagonista della politica di crescita attualmente positiva con strumenti monetari da abbinare a riforme che creino posti di lavoro. Il "Jobs Act" non ha queste caratteristiche, non crea nessun posto di lavoro nuovo e semmai ne distrugge alcuni esistenti perché la libertà di licenziamento e l'abolizione dell'articolo 18 stimola ad ingaggiare lavoratori "apprendisti" e nel frattempo consente di disfarsi di una parte di quelli che fino a quel momento erano occupati nell'azienda in questione.

La vera strategia d'un Paese in difficoltà per i propri errori commessi in passato, avrebbe un solo modo per conseguire un successo: ancorarsi alla politica della Commissione Juncker con le poche aperture che ci saranno concesse per non crepare, ma pretendere, questo sì, che la Germania si metta alla testa del cambiamento dell'Europa con il finale obiettivo d'una Federazione con massicce cessioni di sovranità a cominciare dal fisco e dal debito sovrano europeo.

Questa sarebbe una politica seria e consentirebbe anche toni assai energici: se la Germania indugia o rifiuta di guidare il continente verso la costruzione d'uno Stato sovrano, assume responsabilità e impedisce il solo modo di uscire da una situazione insostenibile in un mondo dove la civiltà globale ha imposto ai continenti di diventare Stati anche laddove non lo erano e comunque di comportarsi e confrontarsi come tali. Se l'Europa non segue questa strada e se la Germania non si mette alla testa per guidarla esplicitamente noi saremo ridotti a quel che già siamo (e se ne vedono già gli effetti) cioè staterelli che non hanno alcuna voce politica né economica da far valere nel mondo.

Ma Renzi questa strada non la percorrerà mai. Intanto non ha nessuno che gliela consigli: il ministro Padoan è un bravissimo tecnico ma non è un politico e a questa strategia non ci arriva. Quanto a Napolitano quell'obiettivo dell'Europa federale l'ha sempre avuto in mente e l'ha esplicitato nell'ultimo suo discorso al Parlamento di Strasburgo. Perfino papa Francesco l'ha indicato anche lui al medesimo Parlamento. Ma in realtà da Napolitano tra i numerosi consigli che ha dato a Renzi non risulta che ci sia stato anche questo.

C'è da aggiungere che quanto al nostro presidente del Consiglio se c'è un'ipotesi sgradita è quella dello Stato federale d'Europa. Gli staterelli scomparirebbero o meglio sarebbero declassati e così pure i loro capi diventerebbero l'equivalente dei presidenti di Regione o poco più. Che il Senato diventi un'istituzione regionale gli va benissimo, ma se lui e tutti i suoi pari venissero declassati (rottamati?) no, non gli piace affatto.

Pazienza, ma peggio per noi perché così stiamo male e finiremo peggio.

***

Mi è venuto tra le mani, ma lo conoscevo da molto tempo e ne parlai ampiamente sul nostro giornale parecchi anni fa, il libro, l'unico da lui scritto, di Étienne de La Boétie. Visse a cavallo tra il 1500 e il 1600, era amico intimissimo di Montaigne che infatti ne vigilò l'agonia mentre la madre e la sorella ne aspettavano la morte nella camera accanto. Étienne aveva solo ventisette anni ma per le pagine di quel suo scritto è ancora vivente nella memoria di chi si occupa di capire la dinamica della vita pubblica e la sua storia.

Il libro di chiama "Discorso sulla servitù volontaria" e la tesi è questa: "È ben difficile credere che vi sia qualche cosa di pubblico in quel governo in cui tutto è nelle mani di uno solo o di una qualche aristocrazia, perché avere un padrone o parecchi significa essere colpiti varie volte da una tale disgrazia".

E più oltre discutendo il rapporto tra il leader e i suoi sudditi che in teoria rappresentano il popolo sovrano: "Da dove prenderebbe i tanti occhi con i quali vi spia se non glieli forniste voi? Come farebbe ad avere tante mani per colpirvi se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Che male potrebbe farvi se voi non faceste da palo al ladrone che vi saccheggia? Voi siete in realtà i traditori di voi stessi. Ma sapete perché? Perché lui e i suoi compagni di scelleratezze vi danno il potere di esercitare gli stessi arbitri e sopraffazioni su quelli che sono più deboli di voi. Così voi vi compiacete della vostra servitù perché tanti altri sono in servitù vostra. Il livello del vostro potere è diverso ma pur sempre di potere si tratta, sicché quella in cui vivete è una servitù che volontariamente accettate e vi assumete".

Ebbene, in tutti i Paesi questa servitù volontaria è stata ed è tuttora presente ma in Italia è stata e continua ad essere molto più presente che altrove.

Mi direte che oggi sono particolarmente pessimista. Rispondo che ne ho qualche buon motivo. Quei malanni della vita pubblica sono presenti ovunque ma da noi più che altrove. Del resto ogni Paese ha la classe dirigente che si merita: gli italiani non hanno mai amato le istituzioni e lo Stato che hanno sempre considerato ostile, inefficiente e corrotto. A torto o a ragione oggi lo considerano più che mai così.

Concluderò con alcuni versi di uno dei più grandi poeti del Novecento: W. H. Auden. Mi consolano perché dimostrano che noi italiani non siamo molto diversi dagli altri: "La politica dovrebbe adeguarsi a Libertà, Legge e Compassione/ Ma di regola essa obbedisce a Vanità, Egoismo e Tremarella./ La maggior parte degli uomini da soli a soli,/ sembrano gentili e amichevoli,/ ma l'Uomo collettivamente in genere/ si comporta da canaglia". Auguri di Buon Natale e Capodanno.

© Riproduzione riservata 21 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/21/news/tutto_comincia_da_tre_parole_di_conrad_sulla_vita-103414119/?ref=HRER2-1
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« Risposta #538 inserito:: Gennaio 01, 2015, 05:10:03 pm »

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia

Di EUGENIO SCALFARI
28 dicembre 2014
   
QUALCHE tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni.

Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo.

Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano.

Prima di affrontare il tema mi corre tuttavia l'obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni.

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Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno  -  come invece ancora accade per i vecchi assunti  -  dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.

Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso  -  come era un tempo  -  dal giudice del lavoro.

Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.

Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.

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La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.

La chiamano l'Italicum e  -  lo ripeto  -  mi sembra efficace ma è aggrappata all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l'ideale.

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Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).

Era molto semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: "Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata corrispondente ". Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968'72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.

Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.

Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni". Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende affaccendato. *** Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò.

Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano.

Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.

Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.

Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico.

Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.

Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto.

Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.
© Riproduzione riservata 28 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/28/news/la_coerenza_merce_rara_ma_in_italia_la_conosce_solo_la_mafia-103840787/?ref=HRER2-1

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« Risposta #539 inserito:: Gennaio 08, 2015, 05:22:14 pm »

Napolitano ci ha salutati ma chi andrà al Quirinale dopo di lui?

di EUGENIO SCALFARI
04 gennaio 2015
   
I GIORNALISTI della carta stampata e delle televisioni continuano ad esaminare, interpretare e discutere del messaggio con il quale Giorgio Napolitano ha dato il suo addio alla carica che ricopre, agli italiani da lui rappresentati nella loro totalità e nella loro auspicabile responsabilità e alla classe politica che bene o male (più male che bene) li rappresenta. Il totale degli ascolti registrati da tutte le televisioni a reti unificate per l'occasione è stata di tredici milioni, il settanta per cento di share, una cifra alla quale, se si aggiungono coloro che non l'hanno seguito in diretta televisiva e l'hanno però recuperato sui giornali o attraverso la rete Internet si arriva a quote del cento per cento degli italiani dai 14 anni in su. Sabino Cassese nel suo fondo di venerdì sul Corriere della Sera ha fatto il conteggio delle parole più usate nel saluto del Presidente della Repubblica, notando che sono state: unità, fiducia, nazione, doveri, Europa, responsabilità, lavoro, Mezzogiorno, rispetto verso gli altri e verso le istituzioni, corruzione, riforme. Le più ricorrenti di questo lungo campionario sono state fiducia, doveri, nazione. Quella non usata è stata diritti, ma, stando all'opinione di Cassese, era implicito nel testo del messaggio. Personalmente non credo che sia questa l'interpretazione esatta. La parola diritti solleva inevitabilmente contrasti, sia per mantenere quelli esistenti che spesso sono stati insidiati e in alcuni casi addirittura aboliti, sia per ottenerne altri che il mutamento d'epoca pone come indispensabili: in ogni caso sono fattori di nuove lotte che avrebbero comunque indebolito la reciproca fiducia e quindi l'unità nazionale che Napolitano ritiene a questo punto indispensabile.

Personalmente ho deciso di scrivere un ritratto politico e morale di Giorgio Napolitano due o tre giorni prima delle sue dimissioni che  -  ormai è certo  -  avverranno il 14 gennaio ma penso fin d'ora che, unitamente a Carlo Azeglio Ciampi, sia stato il solo a difendere le prerogative presidenziali che fanno del Capo dello Stato una figura costituzionale diversa da tutti gli altri Capi di Stato europei. Questa figura Napolitano vuole mantenerla. Vale la pena di capirne il perché.

***

In tutta Europa (salvo che in Russia e nei suoi dintorni che Europa non sono) il Capo dello Stato non ha alcuna funzione e quindi nessuno dei suoi rappresentati ne conosce o ne ricorda il nome. Le sue prerogative sono puramente cerimoniali, come accade d'altronde dove esiste la monarchia.

Il monarca, anzi, conta sempre meno del presidente d'una Repubblica. Così il re di Spagna, quello del Belgio, la regina di Gran Bretagna. In Italia è diverso: le prerogative del Presidente non sono affatto limitate al cerimoniale; riguardano diritti sostanziali: a lui è riservato il diritto di grazia, la nomina dei senatori a vita, la nomina del presidente del Consiglio e su sua proposta dei membri del governo e dei sottosegretari, la firma dei decreti-legge prima che siano presentati in Parlamento, l'inviolabilità per ogni eventuale reato che non sia stato colto in flagranza dalle forze della sicurezza pubblica. Infine spetta a lui lo scioglimento delle Camere o di una sola di esse quando prima della loro regolare scadenza si trovino in condizioni di non funzionare quale che ne sia la ragione.

La spiegazione di queste prerogative sostanziali non ha bisogno di alcun chiarimento, la nostra è infatti una Repubblica nella quale il Capo dello Stato tutela la Costituzione e coordina una leale discussione tra gli altri poteri costituzionali. Se alcuni di quei poteri vogliono rafforzare la loro autorità diminuendo i poteri di controllo che la contrastano, il Capo dello Stato ha la funzione di impedire questo mutamento e le sue prerogative sostanziali servono appunto a svolgere questo compito. Questo non significa affatto che vi sia o vi debba essere una dialettica polemica tra il potere esecutivo rappresentato dal presidente del Consiglio e quello del Capo dello Stato. Al contrario, ci deve essere e di fatto nel caso specifico c'è una collaborazione e una stima reciproca tra la presidenza del Consiglio e quella della Repubblica, la quale tuttavia può incorrere nel freno che il Capo dello Stato può e deve svolgere quando un potere tende a soverchiare l'altro.

Questa differenza tra la nostra idea di Presidente e quello che è avvenuto nel corso degli anni della Prima Repubblica è notevole. Il mutamento avvenne in concomitanza ed a causa del rapimento di Aldo Moro e della sua uccisione da parte delle Brigate Rosse. Siamo nel 1978 e si forma da allora un passaggio fondamentale di cui sono protagonisti personaggi come Pertini, Scalfaro, Ciampi, Napolitano che assumono al vertice dello Stato una funzione durata fino ad oggi, cioè più di trent'anni, completamente diversa da quella che c'era stata nei trent'anni dall'approvazione della Carta costituzionale fino, appunto, l'uccisione di Moro. Dal 1947 (firma della Costituzione) fino al 1978 il Capo dello Stato non aveva alcun potere e alcuna prerogativa se non di tipo cerimoniale. Naturalmente la lettera della Costituzione era più o meno simile a quella attuale ma esisteva la cosiddetta Costituzione materiale che era la prassi invalsa e che dava al Capo dello Stato poteri minimi rispetto a quelli che il partito di maggioranza e cioè la Dc con i suoi alleati imponeva. Questa è la differenza tra ieri e oggi: i primi trent'anni il Capo dello Stato non conta quasi nulla, come in tutta Europa, nei secondi trenta i quattro nomi che abbiamo indicato tornano alla letteralità della Costituzione e di quella si fanno scudo e rappresentanti.

In Europa le cose stanno molto diversamente. L'abbiamo già accennato e debbo dire che il potere esecutivo ed il suo principale rappresentante che siede a Palazzo Chigi vorrebbe un cambiamento dello stesso tipo di quello vigente in Spagna, Germania, Belgio, Gran Bretagna ed altri. Tutto questo sarà messo alla prova durante le prossime e imminenti elezioni del nuovo inquilino del Quirinale.

***

Renzi non ha la maggioranza assoluta del plenum parlamentare che voterà il nuovo Capo dello Stato. Alcuni membri dei partiti che non appartengono alla maggioranza voteranno per il nome scelto da Renzi, ma molti altri che appartengono invece alla maggioranza o allo stesso Pd voteranno probabilmente contro quel nome. Renzi queste cose le sa bene e quindi ne terrà conto nella tattica per arrivare ad una strategia che è quella da lui preferita. Ci sono varie possibilità nelle modalità con cui si sceglie il futuro successore di Napolitano: alcuni puntano su tecnici di vario tipo e di varie discipline alle quali il presidente del Consiglio è disposto a lasciare piena padronanza di quelle materie riservando al potere esecutivo la politica. È difficile pensare che un nome si imponga fin dalle primissime votazioni. Probabilmente ci sarà un periodo di assaggio ma non credo che sia lunghissimo a meno che non vi siano cessioni inevitabili dall'una parte e dall'altra. La soluzione mediana riguarda il livello dei tecnici che deve essere e sarà, se questa fosse la soluzione, molto elevato, riconosciuto non solo in patria ma anche a livello europeo e internazionale. Naturalmente i tecnici possono anche essere, e spesso lo sono, opportunisti nel senso che mettono la propria tecnica a disposizione di chi è più potente di loro e può dunque dare a quella loro capacità una sistemazione estremamente ambita. C'è poi un altro compromesso che è appunto quello di trovare tecnici non opportunisti. Non è facilissimo ma ce ne sono e su quelli bisognerebbe orientarsi. Poiché fare un elenco con alcuni nomi di opportunisti provocherebbe a chi lo fa una serie di sciagure giudiziarie del tipo querele per diffamazione o per calunnia bisogna seguir la via opposta: fare il nome dei più adatti e dei meno opportunisti. Ecco qualche nome in proposito: Pier Carlo Padoan, Renzo Piano, Riccardo Muti, Elena Cattaneo, Sabino Cassese, Gustavo Zagrebelsky, Umberto Eco.

Sono pochi e ce sono molti di più ma questi servono a dare un'indicazione di capacità e di livello che possa essere utile anche applicata a nomi equivalenti. Rappresentano varie branche della cultura, della scienza, della tecnica, dell'insegnamento, dello spettacolo e del diritto.

Più difficile è fornire il nome dei politici cioè di coloro che lasciano la tecnica a chi di dovere e si occupano del bene comune e della sua realizzazione. Questi nomi sono di molto minor numero perché la buona politica che si propone non già il potere per il potere, ma il potere per il bene comune, è assai limitata. Aristotele la mise in cima alle categorie dello spirito ma parlava in un'epoca che è molto diversa della nostra. Comunque ecco qualche nome che possa servire a utilizzare le persone qui indicate o altre di analogo livello e importanza: Romano Prodi, Walter Veltroni, Enrico Letta, Luigi Zanda, Piero Fassino, Pier Luigi Bersani. Anche qui ce ne sono altri ma non molti, ho già detto che la merce buona in politica è molto più rara e le scelte di qualità sono terribilmente difficili.
 
© Riproduzione riservata 04 gennaio 2015

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