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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318177 volte)
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« Risposta #360 inserito:: Maggio 13, 2012, 05:54:35 pm »

    L'EDITORIALE

La rabbia dei barbari chi urla e chi spara


di EUGENIO SCALFARI


Sono avvenuti molti fatti nuovi negli scorsi giorni, che riguardano l'Europa in tempesta, ma l'evento centrale che tutti li riassume è stato l'elezione del socialista François Hollande alla guida della Francia. Non è soltanto una svolta politica francese, ma di tutta l'Unione ed ha un doppio significato: riafferma la volontà di rafforzare l'unità europea e di puntare sulla crescita economica e sulla moneta unica nel quadro della stabilità.

Molti temevano che quell'evento fosse bocciato dai mercati producendo così nuovi sconquassi finanziari; ma le cose sono andate diversamente. I mercati hanno capito e si sono allineati, anche i governi hanno capito e si sono allineati anch'essi. Si sta di fatto manifestando una convergenza di intenti che coinvolge l'Italia, la Spagna, l'Olanda, i tre paesi baltici, i Balcani, l'Irlanda, il Portogallo e perfino la Grecia. In Germania il partito socialdemocratico aumenta il suo peso in tutte le elezioni cantonali che si susseguono in questi mesi; quando l'anno prossimo ci saranno le elezioni politiche la soluzione che fin d'ora si profila sarà quella della coalizione tra Cdu e Spd.

Il Parlamento europeo e la Commissione di Bruxelles sono già su questa linea. Il riformismo non solo economico ma sociale emerge ormai come il solo sbocco possibile per uscire da una crisi recessiva che dura da anni e che sta producendo ovunque fenomeni preoccupanti.

L'evento francese è avvenuto attorno a due parole: i giovani, le diseguaglianze. Esse contraddistinguono
la sinistra del ventunesimo secolo. Ma eguaglianza senza libertà è una parola vuota e fa intravedere sullo sfondo dittature e tirannie; libertà senza eguaglianza spalanca la via a privilegi e a caste oligarchiche. Bisogna dunque coniugarli insieme quei due valori per costruire un presente accettabile e una speranza di futuro.

 Su queste due parole dobbiamo dunque concentrarci limitando il nostro ragionamento al caso italiano che riecheggia anche gli altri con cause ed effetti sempre più interdipendenti.

*  *  *

Chi dice di amare la politica ma di detestare i partiti esprime una dicotomia priva di senso perché la politica non si può fare senza i partiti. Da che mondo è mondo è sempre stato così. La politica è affidata a persone che decidono di operare insieme perché condividono una visione del bene comune.

Possono avere l'obiettivo di distruggere le istituzioni esistenti, ma una volta che quella distruzione sia avvenuta ed anzi nel momento stesso in cui avviene debbono dire che cosa vogliono mettere al suo posto. A questo punto sono essi stessi diventati un partito, comunque lo si voglia chiamare.

In tutti i paesi dell'Occidente sono sorti in questi anni di crisi movimenti di "arrabbiati". La recessione e i sacrifici che ne derivano sono stati il loro brodo di coltura, in Grecia, in Spagna, in Olanda, in Austria, in Germania, in Usa e naturalmente anche in Italia. Da noi gli arrabbiati si sono radunati sotto le insegne di Beppe Grillo e dello slogan "Vaffa" con quel che ne segue. Alcuni di loro però si sono presentati alle elezioni amministrative già cinque anni fa e si propongono ora di esser presenti anche alle future elezioni politiche.

Chi di loro ha partecipato con evidente successo alle recenti comunali ha dovuto indicare un programma, sia pure limitato, di obiettivi amministrativi usando un linguaggio politico per ottenere consenso. Il cemento per ora è il "Vaffa", cioè il rifiuto dell'esistente, ma anche un elenco di obiettivi da realizzare che comporterà inevitabili alleanze e modalità politiche. Grillo non vorrebbe quelle modalità ma le sue urla comiziesche si affievoliranno inevitabilmente se i suoi seguaci vorranno cimentarsi con la politica.

La Lega in questo senso fa testo. Quando nacque aveva come finalità la conquista d'una regione inventata, la Padania, e la sua secessione dall'Italia; ma via via che conquistava Comuni e poi Province e infine due Regioni, diventò inevitabilmente un partito. Condivise per anni il governo berlusconiano avallandone i pregi (pochi), i difetti (molti), le nefandezze (numerose). Degenerò trasformandosi in un partito inquinato dai virus della clientela e della corruzione. Ha perso in queste elezioni metà del suo elettorato. Ha vinto a Verona dove c'era e c'è un bravissimo sindaco la cui lista personale ha raccolto il 30 per cento dei voti mentre la lista del suo partito ne ha raccolto soltanto il 10. Tosi non è più un leghista, ma un sindaco come Fassino e Pisapia. Con una differenza però: il bravo Tosi non ha una visione del bene comune appropriata all'Italia ma soltanto quella della sua città. E così sarà anche per gli amministratori eletti nelle liste "5 Stelle".

Gli arrabbiati nella Lega non sono molti. Gli scontenti che rifiutano di pagare le tasse, quelli sì sono tanti, è un fenomeno assai diffuso coi tempi che corrono. Gli scontenti sono dappertutto. In Francia si sono ammucchiati in un partito vero e proprio che risucchierà una parte del gollismo e rappresenterà la nuova destra francese. In Grecia hanno messo in crisi i partiti tradizionali ma ora si trovano davanti a un bivio assai impegnativo: nelle nuove elezioni dovranno scegliere se vogliono restare in Europa dove stanno male o uscirne con la fondata prospettiva di stare molto peggio.

Questa è la vera linea di frattura in tutta Europa e riguarda anche la cancelliera Merkel. Anche per lei il problema è quello se uscire dall'Euro e quindi sfasciare l'Europa. Senza l'Europa i tedeschi starebbero meglio o peggio? La pancia suggerisce a molti di loro che starebbero meglio; la ragione suggerisce il contrario.

L'alleanza che si sta formando intorno a Hollande fa appello alla ragione.

Se la Merkel non lo capirà, l'Euro affonderà e annasperemo tutti in mezzo alla tempesta. Gli arrabbiati che oggi assediano le sedi di Equitalia staranno peggio di tutti.

*  *  *

Monti è un liberale pragmatico come gran parte dei suoi ministri; sono tutti consapevoli che il rigore era necessario purché affiancato da provvedimenti di crescita.

Il rigore era più facile (e più doloroso) da conseguire; la crescita presupponeva invece una politica europea perché non si può crescere da soli.

La Commissione di Bruxelles è da tempo su questa linea, la Bce anche, ma la Germania no, non ancora. La vittoria di Hollande è stata il punto di svolta e lo si comincia a vedere anche in Italia. Alcuni ministri, finora piuttosto in ombra, sono emersi in prima fila: Passera, Barca, Balduzzi, Riccardi. Il ministro dello Sviluppo l'altro ieri ha illustrato a Napolitano gli interventi previsti per la crescita e ne ha ottenuto il plauso. Il presidente della Repubblica batte da tempo su quel tasto ed ha inviato a Hollande più di un messaggio auspicando uno stretto raccordo col governo italiano. Monti dal canto suo è sulla stessa linea.

Il problema non è quello di isolare la Merkel ma di modificarne le priorità. E quindi: investimenti in infrastrutture europee affidate alla Banca degli investimenti (Bei), accettazione di investimenti nazionali per infrastrutture e ricerca che non gravino sul debito sovrano e sul deficit, raccolta di fondi sul mercato europeo con le stesse destinazioni produttive.

E intanto ricerca di risorse italiane e misure italiane di immediata attuazione, a cominciare dal pagamento dei debiti del Tesoro verso le imprese fornitrici che attendono da tempo il saldo dei propri crediti. Sarebbe un'iniezione di liquidità benedetta e dovrebbe accadere tra pochi giorni.

*  *  *

Dei tre partiti che sostengono il governo Monti, ciascuno per proprio conto e per le proprie ragioni, uno, il Pdl, è uscito a pezzi dalle elezioni amministrative del 6 maggio; un altro (Udc) non ha perso voti ma è diventato irrilevante perché non è riuscito ad intercettare neppure un voto di quelli che defluivano dal centrodestra. Infine il Pd: ha perso moderatamente in voti assoluti e in percentuale ma rimane tuttavia il solo vero perno aperto al futuro, con un riformismo consapevole dei sacrifici imposti dalla situazione ma pienamente aderente agli obiettivi del socialista Hollande con il quale del resto è affratellato nell'Internazionale.

Il Pd è tornato a proporre le elezioni a doppio turno sul modello francese, ma non è contrario alla riforma proporzionalistica abbozzata dagli "sherpa" dei tre partiti (Violante, Adornato, Quagliariello) e neppure al mantenimento del "Porcellum" se il Pdl dovesse schierarsi su quella posizione senza consentire alternative.
In quest'ultima ipotesi sarebbe molto opportuna la formazione d'una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità, del cui recupero c'è urgente bisogno e che interpella la società civile prima ancora dei partiti politici.

Nel principio di legalità c'è anzitutto l'etica pubblica da rispettare, la lotta alle mafie e alle oligarchie corporative, la giustizia nella pubblica amministrazione, la legalità fiscale (evasione) e la legalità costituzionale.
Una lista formata da persone competenti e civilmente impegnate nella difesa di questi valori darebbe un tono quanto mai riformatore al partito democratico e lo accrediterebbe come struttura portante a servizio della società civile.

Da questo punto di vista sembra inopportuno aprire oggi la competizione per la nomina del leader che guiderà il Pd nelle elezioni del 2013. Quel nome esiste già ed è il segretario in carica. Le primarie ci saranno se sarà necessaria una coalizione. Dipende dalla legge elettorale ma meglio sarebbe comunque che il Pd fosse il luogo politico della riunione di tutti i riformisti, a cominciare da Vendola. I moderati sono un'altra cosa, non c'è dubbio che il governo che uscirà dalle elezioni dovrà essere il risultato d'una alleanza politica tra riformisti democratici e moderali liberali. Da questo punto di vista è quanto mai opportuno non scrivere alcun nome d'un leader sulla scheda elettorale, anche per evitare il ripetersi di una grave scorrettezza costituzionale in palese contraddizione con le prerogative del capo dello Stato cui spetta la nomina del presidente del Consiglio e dei ministri.

Il Pdl scalpita ed è praticamente imploso. Gruppi e sottogruppi disputano la loro futura collocazione. Il vecchio Capo pensa probabilmente ad una sorta di lista civica nazionale che tenga uniti i moderati di centro e gli ultrà di destra, da Casini a Storace passando per La Russa.

Credo che sia un vano pensiero, almeno per quanto riguarda Casini. Le liste civiche hanno un senso se si prefiggono la difesa di valori specifici ma non se sono la foglia di fico per nascondere un partito logoro e scaduto.

Il presidente Napolitano guarda con attenzione al comportamento dei partiti e del governo, ma guarda soprattutto alla società italiana, ai suoi punti di debolezza e ai suoi punti di forza e d'impegno civile.
L'opera continua che assorbe tutto il suo tempo è un monitoraggio incessante per evitare fughe improvvise all'indietro e recuperare il senso di un riformismo attivo.

Le due parole "giovani e diseguaglianze" sono state le sue prima ancora che Hollande le pronunciasse. È una vita che Giorgio Napolitano ha speso per dare ai giovani certezze sul presente e speranze per il futuro e garantire pari opportunità per tutti gli italiani. Mai come oggi quei valori sono bersaglio degli irresponsabili e mai come oggi debbono essere scritti sulla bandiera della modernità politica e civile.
 

(13 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/13/news/la_rabbia_dei_barbari_chi_urla_e_chi_spara-35027273/?ref=HREC1-2
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« Risposta #361 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:56:46 am »

Opinione

Parole ambigue e teste ribalde

di Eugenio Scalfari

La trasmissione di Fazio e Saviano ha uno scopo giusto: restaurare il senso dei vocaboli. Perché il significato è cambiato.

Persino alcuni nomi propri sono irriconoscibili

(17 maggio 2012)

Fabio Fazio e Roberto Saviano hanno mandato in onda lunedì sera su La7 una trasmissione dedicata alle parole e l'hanno proseguita per qualche giorno. Ce n'era bisogno. Viviamo in un periodo in cui persino le parole si sono corrotte e sono diventate ambigue. Debbono dunque essere restaurate ed è proprio quello lo scopo della trasmissione.

Proverò anch'io a fornire qualche esempio con parole di uso corrente. I restauri mi piacciono molto e spero che i miei lettori ne ricavino qualche vantaggio.

Comincio con la parola onore. La prima osservazione che mi viene di fare è che l'onore ha due significati diversi per gli uomini e per le donne. Per molto tempo l'onore maschile è venuto dal coraggio con il quale si affrontano gli avversari e le avversità. L'onore femminile invece derivava dalla fedeltà rispetto al proprio uomo, si trattasse del padre, del marito, del fratello. Se rompeva la fedeltà la donna si disonorava e disonorava anche l'uomo cui apparteneva. Questo concetto di onore è stata una delle manifestazioni più evidenti del maschilismo che ha imperato per secoli e secoli. Adesso è in crisi.

L'aspetto negativo del mutamento in corso riguarda il valore della fedeltà. Anche la fedeltà è entrata in crisi, ma non solo quella della donna rispetto al suo uomo, ma quella verso una causa, un ideale, un contratto liberamente sottoscritto, una patria.

Il venir meno della fedeltà spesso viene bollato con la parola tradimento, usata da chi ne sopporta gli effetti per lui negativi. La usano anche i mafiosi contro chi si pente dei reati commessi per fedeltà al crimine e li puniscono selvaggiamente.
In politica è frequente il caso di chi rompe la fedeltà a un'idea e a un partito per passare nel campo avverso. Si chiamano trasformisti. Il trasformismo ha caratterizzato interi periodi storici. In questo che stiamo vivendo ne abbiamo avuto numerosi e non edificanti esempi.

Libero arbitrio potrebbe sembrare sinonimo di trasformismo e in alcuni casi è infatti invocato come motivazione nobilitante. Il corretto significato di questa espressione è invece del tutto diverso. Significa infatti agire secondo la propria e autonoma coscienza e non obbedendo a precetti e a discipline imposte dal di fuori.
Amore è una delle parole più usate da quando esiste la nostra specie. Ha un'infinita quantità di significati. Ne cito alcuni: c'è l'amore-passione, l'amore sensuale, quello romantico, quello casto (o platonico), quello filiale, quello materno e paterno. Molti lo definiscono una malattia, altri il massimo ineffabile della felicità. C'è l'amore per sé (egoismo) e l'amore per gli altri (altruismo, solidarietà). E' anche diventato un intercalare, "amò", molto usato tra ragazze che spesso usano il proprio corpo come merce di scambio.
La parola apparenza ha due significati contrastanti. Il primo sottolinea la sua mancata corrispondenza con la realtà: ciò che appare spesso non è. Il secondo significato sostiene invece che ciò che appare è la sola realtà possibile e non è mai la stessa; ciò che appare varia da persona a persona, da luogo a luogo, da tempo a tempo. L'apparenza è la realtà del relativismo.

Concludo su una parola che designa un nome di città ma è anche un frequente cognome: Ferrara. Tralascio la città, è bella e importante. Ho conosciuto una famiglia con quel cognome ed è a quella che dedico queste ultime righe.

Sono stato molto amico di Mario Ferrara. Fu un grande avvocato che durante il fascismo difese gli antifascisti nei processi politici contro di loro. Fu anche un grande liberale, editorialista del "Mondo" e del "Corriere della Sera". Suo figlio Giovanni ha seguito nobilmente le orme del padre e ne ho carissimo ricordo. L'altro figlio Maurizio fu un esponente del Partito comunista, e anche poeta e scrittore.

Giuliano è il figlio di Maurizio. Ha avuto molti innamoramenti politici: Amendola, Craxi, Berlusconi, il cardinal Ruini, il cardinale Ratzinger e poi papa Benedetto XVI, di nuovo Berlusconi e ora anche Mario Monti. Ha fondato e dirige "Il Foglio". Lunedì 14 maggio ha attaccato e pesantemente offeso Roberto Saviano e ha proposto la fondazione di un'associazione che abbia il compito di insultare sistematicamente il predetto Saviano. Sapevo che Giuliano è dominato dalla passione di mettere il piede sul petto dell'avversario, ma fino a questo punto non era mai arrivato, segno che la ragione è volata via dalla sua testa ribalda.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/parole-ambigue-e-teste-ribalde/2181035/18
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« Risposta #362 inserito:: Maggio 27, 2012, 04:55:36 pm »

L'EDITORIALE

Da Pacelli a Ratzinger la lunga crisi della Chiesa

di EUGENIO SCALFARI


La vecchia Italia affondò durante una giornata gonfia di tempesta e di presagi, nell'autunno del 1958: Papa Pio XII moriva in mezzo a una corte disfatta di cardinali decrepiti, di astuti procacciatori d'affari, di monache fanatiche, di nipoti parassiti. Nel palazzo papale di Castel Gandolfo, mentre il temporale gonfiava le acque del lago e lo scirocco spalancava le imposte e si ingolfava tra le tende e nei corridoi, dignitari laici ed ecclesiastici si preparavano a sgombrare. Ciascuno cercava di portar via, anche fisicamente, quanto più poteva; ma soprattutto ciascuno brigava per conservare qualche beneficio; una carica lucrosa, una fetta, per piccola che fosse, di quel potere che fino a quel momento da oltre dieci anni era stato amministrato senza scrupoli e senza concorrenze. L'affanno era visibile dovunque, nelle sale di ricevimento, nelle anticamere e fino intorno al letto del moribondo che, già in agonia, veniva impudicamente fotografato dal suo medico e dalla sua suora assistente, con la cannula dell'ossigeno in bocca, e i tratti del volto devastati dalle ombre della morte. Non era l'affanno della pietà; era l'affanno della cupidigia e della paura perché tutti sapevano, entro il palazzo, che non moriva un Papa ma finiva un regno.

Nel salotto privato del Papa, circondato dai porporati più anziani e potenti, dai capi del Sant'Uffizio, delle Missioni, del Tesoro, dei Seminari, il Camerlengo della Chiesa rappresentava l'ultimo anello d'una continuità che stava per spezzarsi definitivamente. Aveva, come sempre, un
volto assolutamente inespressivo; non era un uomo ma una carica, una funzione, una pausa del cerimoniale. Ma intorno a quella carica e all'uomo che ci stava dentro si andava tessendo proprio in quelle ore e in quel luogo la trama del conclave. Aloisi Masella, il Camerlengo, fu il primo e forse decisivo mediatore insieme ad Agagianian, il prefetto di propaganda Fide, tra il gruppo dei cardinali stranieri e i curiali. Cominciò di lì la ricerca che si sarebbe conclusa qualche settimana dopo sotto le volte della Sistina con un risultato che avrebbe sconvolto tutti i programmi, di un terzo uomo, un Papa che avrebbe dovuto essere al tempo stesso abbastanza pastorale per assorbire le irrequietezze della cattolicità, abbastanza diplomatico per non dimenticare le leggi del potere, abbastanza umile per restituire al Collegio e agli Episcopati le prerogative che Pacelli aveva confiscato. E abbastanza vecchio per non durare troppo a lungo.

Quando in quell'alba di tuoni e di vento il medico del Papa, Galeazzi Lisi, ne ebbe dichiarato la morte clinica, dignitari, curiali, camerieri segreti, banchieri, politici, fuggirono verso Roma su grandi automobili nere per preparare l'incerto avvenire. Uno stuolo di corvi abbandonava le strutture corrose d'un luogo dal quale una monarchia assoluta aveva governato un paese.

* * *
Il brano che avete letto è tratto da un mio libro intitolato L'autunno della Repubblica del 1969, nel pieno del movimento studentesco. Il capitolo qui citato s'intitola "La fine d'un regno" e racconta appunto la morte di Papa Pacelli, Pio XII, che impersonò per lunghi anni la Chiesa trionfante e combattente che conteneva però fin da allora quella crisi sistemica di cui parla il cattolico Alberto Melloni, uno degli storici della Chiesa più accreditati in questa materia.
Gli avvenimenti in corso segnano il momento culminate di questa crisi: la destituzione di Gotti Tedeschi dalla guida dello Ior, l'arresto del maggiordomo del Papa, Paolo Gabriele, la sorda lotta in corso tra le diverse fazioni curiali e anticuriali, la posizione sempre più traballante del Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Infine, la disperazione di Papa Ratzinger, chiuso nelle sue stanze e manifestamente incapace di tener ferma la barra in un mondo pervaso da cupidigie, ambizioni, complotti e contrastanti visioni della Chiesa futura.
Non mi occuperò tuttavia delle inchieste in corso, che il nostro giornale ha già ampiamente trattato in questi giorni e ancora oggi con tutti gli aggiornamenti di cronaca. Mi interessa invece - e spero interessi i nostri lettori - di dare un'occhiata di insieme ai pontificati che si sono susseguiti da Pacelli a Ratzinger. Sono stati attraversati tutti dal filo rosso del confronto tra la Chiesa e la modernità. Perciò questi pontificati meritano una speciale attenzione per capire quale sia l'essenza di questa crisi sistemica che avviene sotto i nostri occhi.

* * *
Il conclave che elesse Giovanni XXIII venne dopo la monarchia assoluta ma molto avveduta di Pio XII, un diplomatico per eccellenza che governò la Chiesa in tempi durissimi, con la guerra in corso e poi a guerra finita con la ricostruzione della democrazia e il governo della Dc degasperiana.
Pacelli ebbe tutti i difetti e tutte le qualità dei grandi pontefici. Abbiamo detto che eccelse nelle capacità diplomatiche e lo dimostrò ampiamente, soprattutto nel tormentatissimo periodo dell'occupazione nazista di Roma. Ma non mancava di pastoralità e neppure di grandi capacità sceniche. È ancora negli occhi di tutti i suoi contemporanei la sua visita al quartiere di San Lorenzo in Roma distrutto dal bombardamento americano, dove la sua veste bianca fu macchiata di sangue quando s'inoltrò tra le rovine per benedire i morti e soccorrere i feriti ancora distesi nelle strade devastate.

Il partito conservatore era anche allora asserragliato in Curia. Il Papa si guardò bene dal disperderlo, anzi lo rafforzò purché si sottomettesse. Decideva lui quando era il caso di farlo emergere o di farlo tacere. Del resto chi parlava per lui era il gesuita padre Lombardi, detto "il microfono di Dio" che combatteva i socialcomunisti a spada sguainata. Un'altra spada era nelle mani di Gedda e dei comitati civici che sconfessavano addirittura la politica di De Gasperi che non fu più ricevuto in Vaticano in udienza privata.

Ma Pacelli era anche nepotista nel senso classico e familista del termine. Era un principe e come tale si comportò e come tutti i principi indulse anche al populismo: riceveva ogni sorta di categorie della società civile: medici, avvocati, giornalisti cattolici, ciclisti e calciatori, casalinghe, poliziotti e militari, attori e operai, imprenditori e barbieri. Il populismo di Berlusconi fa ridere rispetto a quello di Pio XII che ora è in predicato di santità.

* * *
Papa Giovanni fu l'esatto contrario sia pure con alcuni condizionamenti. Fu eletto con una condizione: che restituisse alla Curia la sua indipendenza funzionale. A questo mandato si tenne fedele ma i curiali non avevano messo in conto che il Papa era comunque in grado di procedere a nuove nomine quando la morte avesse aperto vuoti nella gerarchia. C'era bisogno d'un Papa soprattutto pastorale e lo ebbero nel senso più pieno della parola. Giovanni fu molto più pastore che Romano Pontefice. Il fisico lo aiutava e l'eloquio anche ma soprattutto lo aiutò l'anima sua o se volete lo Spirito Santo. Amava i bimbi, le mamme, la famiglia, i poveri, gli esclusi.

Richiamò Montini alla Segreteria di Stato e convocò il Concilio Vaticano II dove affluirono i vescovi di tutto il mondo cattolico. Era passato un secolo dal Vaticano I che si radunò a poca distanza di tempo dalla fine del potere temporale dei Papi. Lì fu proclamato il Papa-Re, infallibile quando parla dalla cattedra, e fu elevata a dogma la verginità di Maria.

Il Vaticano II proclamò invece la necessità che la Chiesa si confrontasse con la modernità. Fu una rivoluzione, avviata ma ovviamente non compiuta. Fu la scelta d'un tema che doveva essere portato avanti a cominciare dalla modernizzazione della Chiesa, lo sconvolgimento della liturgia, la messa recitata nelle lingue correnti e non più in latino, col sacerdote rivolto ai fedeli e non più di spalle; l'apertura del dibattito sul ruolo dei laici e delle donne. Infine, il disinteresse del Vaticano nei confronti della politica italiana e quindi l'autonomia dei cattolici impegnati.
Ma su un punto i curiali avevano visto giusto: nel suo quarto anno di pontificato il Papa si ammalò, nel quinto anno morì.

Ricordo ancora i funerali: una folla immensa che dalla piazza arrivava al Tevere ed oltre, tutte le vie gremite da piazza Cavour e da Villa Pamphili, tutto Borgo Pio. Un Papa come lui non si era visto da gran tempo e non s'è più visto da allora.

* * *
Poi venne Montini. Di dire che ebbe qualità pastorali sarebbe dir troppo. Diplomatico, certo. Di populismo neppure l'ombra. Fu un politico, forse fin troppo. Ma non conservatore.
Il confronto con la modernità non lo portò avanti ma impedì che ci fossero ulteriori arretramenti. Fu un pontificato con fasi drammatiche in quegli anni di piombo culminati con l'assassinio di Aldo Moro, del quale officiò la messa funebre in Laterano.
Fu un Papa di interregno.

Forse Papa Luciani aveva con Papa Giovanni qualche lontana somiglianza ma morì dopo appena un mese. Dopo di lui salì in cattedra un cavallo di razza, un grande, grandissimo attore. Non so se la Chiesa avesse bisogno d'un attore, ma lui lo fu dalla testa ai piedi, nel momento dell'elezione, nel momento dell'attentato, nel momento della rivoluzione in Polonia, nel momento della caduta del Muro, nei suoi viaggi continui intorno al globo, nel Giubileo del 2000 e nella lunga fase della malattia e poi della morte.

Quando il Camerlengo pronunciò il suo nome dopo la fumata bianca dal camino della Sistina, tutta la piazza pensò che avessero eletto un Papa africano. Solo quando si affacciò si capì che era un bianco ma non italiano. "Se mi sbaglio mi corrigerete" ricevette un'ovazione da stadio e così cominciò.
Fino a Solidarnosc e poi alla caduta del Muro di Berlino, Wojtyla fu il Papa della libertà religiosa contro il totalitarismo comunista. In Occidente ebbe l'appoggio dei conservatori, dei liberali, dei democratici. Caduto il comunismo accentuò la sua critica verso il capitalismo ma contemporaneamente represse la "nuova teologia" e l'esperienza dei preti operai. L'indifferenza nei confronti dell'assassinio del vescovo Romero mentre officiava la messa in Salvador fu una delle pagine sgradevoli del suo pontificato, compensata tuttavia dalla sua peregrinazione ininterrotta in tutti gli angoli del mondo dove gli fu possibile arrivare.

Tentò d'avviare la riunificazione delle Chiese cristiane senza tuttavia compiere passi avanti significativi. Riconobbe le colpe storiche della Chiesa a cominciare dall'accusa di deicidio contro gli ebrei e dalla condanna di Galileo e di Giordano Bruno.

L'agonia fu molto lunga e scenicamente grandiosa. Non certo per calcolo ma per autentica vocazione. "Santo subito" fu l'invocazione della folla immensa che anche per lui occupò mezza città.
Un bilancio? I problemi della Chiesa alla sua morte erano gli stessi: potere della gerarchia, emarginazione del popolo di Dio, crisi delle vocazioni, crisi della fede in tutto l'Occidente, nessuna modernizzazione all'interno della Chiesa. Ma una modifica sì, si era nel frattempo verificata: il messaggio del Vaticano II non solo non aveva fatto passi avanti, ma li aveva fatti all'indietro. Non a caso al Conclave i martiniani furono marginalizzati fin dalla prima votazione e dalla seconda emerse Ratzinger mentre Ruini era pronto a intervenire se Ratzinger fosse stato battuto.

* * *
Benedetto XVI non è un grande Papa anche se l'ingegno e la dottrina non gli mancano. Non è un attore, anzi è il suo contrario. Wojtyla aveva un guardaroba grandioso perché tutto era grandioso in lui. Il guardaroba di Ratzinger è invece lezioso perché è il Papa stesso ad esser lezioso, come si veste, come parla, come cammina. Scrive bene, questo sì, i suoi libri sul Cristo si fanno leggere, le sue encicliche non sono prive di aperture ed anche alcuni suoi discorsi. La sua rivalutazione di Lutero ha suscitato sorpresa e qualche speranza di progresso verso la modernità, contraddetto però dalle sue scelte operative, dalla conferma di Sodano in segreteria e poi all'avvicendamento con Bertone: dal mediocre al peggio. Bertone: un Ruini senza l'intelligenza e la duttilità dell'ex vicario ed ex presidente della Cei. La gerarchia è ridiventata onnipotente ma spaccata in molti pezzi. L'ecumenismo è ormai è un fiore appassito anzitempo.

Benedetto XVI ha riesumato in pieno la tomistica di Tommaso d'Aquino con tanti saluti ad Origene, Anselmo d'Aosta e Bernardo. Agostino sembrava uno degli ispiratori di Ratzinger, ma quale Agostino? Il manicheo, il coadiutore di Ambrogio o l'autore delle Confessioni?  Agostino fu molte cose insieme arrivando fino a Calvino, a Giansenio e a Pascal. Se volesse dire qualche cosa di veramente attuale Papa Ratzinger dovrebbe dare inizio alla beatificazione di Pascal ma mi rendo conto che nel mondo dei Bertone, della Curia romana e delle attuali Congregazioni, questo sì, sarebbe un gesto radicale verso la modernità. Non lo faranno mai.

Il pontificato lezioso andrà avanti finché potrà, poi non ci sarà il diluvio ma una pioggia da palude piena di rane, zanzare e qualche anitra selvatica. Quanto di peggio per tutti.

(27 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/27/news/scalfari-35992713/?ref=HRER3-1
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« Risposta #363 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:36:00 am »

IL COMMENTO

Il pagliaccio che ride ma dovrebbe piangere

di EUGENIO SCALFARI

CE NE sono tante di questioni delle quali oggi bisogna occuparsi: la recessione mondiale che ormai morde dovunque e non solo in Europa e in America ma anche nei Paesi emergenti come la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica; la corruzione presente ovunque vi sia il potere ed ha raggiunto con drammatica intensità perfino i vertici della Chiesa di Cristo; l'incapacità europea di darsi un governo e una linea di politica economica. E poi ci sono le questioni italiane dove il dramma e a volte la tragedia si mescolano con il "burlesque" determinando una miscela esplosiva e comica. Il "ridi pagliaccio, la faccia infarina" con dietro la maschera dell'attore che piange lacrime di dolore e di sofferenza meriterebbe d'essere oggi assunto come simbolo delle sventure nazionali che contengono una dose di comicità tale da configurare un personaggio mostruoso in preda a passeggere ma intense emozioni prive di qualunque punto di riferimento razionale.

In questo ampio ventaglio di problemi partiamo dal più urgente che minaccia di sospingere tutti gli altri verso la catastrofe: la Spagna e la crisi bancaria spagnola. Si scatenò anche nel 2008 a ridosso della bolla immobiliare americana che provocò poco dopo il fallimento della Lehman Brothers. In Spagna stavano fallendo le principali casse di risparmio del Paese. Zapatero, ancora per poco al potere, le riunì nella Bankia, un nuovo istituto capitalizzato dallo Stato che avrebbe dovuto intraprendere una più tranquilla navigazione.

Sono passati quattro anni. Nel 2008 c'era la crisi finanziaria e bancaria ma non c'era la recessione, non c'era la crisi dei debiti sovrani, non c'era il crollo del mercato del lavoro. Adesso è l'economia reale a soffrire senza però che la finanza abbia distrutto i virus che l'avevano invasa. Bankia è di nuovo con la febbre a quarantuno e altrettanto male stanno le Casse di risparmio di Madrid e di Barcellona. Servono per domani diciannove miliardi e nei giorni seguenti un'altra cinquantina. Il governo spagnolo aveva pensato di procurarli emettendo un'analoga cifra di titoli di Stato e spostando d'un anno in avanti il pareggio del deficit. Ma poi ha pensato che l'aggravamento del debito avrebbe scatenato i mercati e perciò si è fermato. I mercati però si sono scatenati egualmente e per di più i depositanti creditori delle banche spagnole si sono messi in fila agli sportelli per ritirare i loro risparmi. Le società finanziarie hanno fatto prima: cliccando sui computer aziendali hanno trasferito milioni di euro dalla Spagna a più sicuri rifugi. Dove? In Germania ovviamente. Infatti l'interesse del Bund tedesco è calato di quasi un punto: valeva due euro, ora ne vale uno o poco più. La Spagna è in stato agonico, le banche tedesche e la clientela ingrassano.

Capisco che non bisogna irritare la Merkel perché l'Europa ha bisogno di lei. Però c'è un limite. Mi vengono in mente i "furbetti" di casa nostra che alla notizia del terremoto dell'Aquila ridevano commentando al telefono i pingui appalti che avrebbero ottenuto. Forse è irriverente paragonare le banche tedesche ai furbetti di casa nostra, ma purtroppo si tratta d'un paragone appropriato che non si verifica solo in Spagna ma in tutta Europa.

Dall'Italia, dalla Francia, dall'Olanda, dall'Austria, dal Portogallo, dalla Grecia, le banche rimborsano i depositanti mettendo in moto flussi di capitali a senso unico da tutta Europa alle banche tedesche. Salgono gli spread da un lato, scendono gli interessi dall'altro. Il governo tedesco ha una responsabilità politica e con esso ce l'ha la Commissione di Bruxelles e il presidente del Consiglio europeo. La Bce di Draghi ha lanciato l'sos, raccolto l'altro ieri dal governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco. Monti ha lanciato lo stesso segnale, Obama e Hollande altrettanto. Analogo allarme è stato manifestato da alti esponenti tedeschi dell'Spd e dei Verdi. Ma temo che non bastino i segnali. Bisogna che entro i prossimi giorni, anzi entro le prossime ore, ci sia una pubblica riunione di tutti i protagonisti e sia avanzata al governo tedesco una proposta concreta, accettabile ma ultimativa. Draghi l'ha già formulata: garanzia europea sui debiti bancari e unificazione del mercato bancario continentale. Contemporaneamente finanziamento alla Spagna coi fondi del Salva-Stati da rendere operativo con una dichiarazione comune del Consiglio dei ministri europeo e della Commissione. Se il fondo non disponesse materialmente dei denari necessari la Bce sia autorizzata ad anticiparli.

* * *
Queste sono misure d'urgenza e di estrema necessità senza le quali gli spread europei saliranno alle stelle e le Borse scenderanno in picchiata. È vero che Grillo e la Santanché, in prevista alleanza tra loro, predicano la nostra uscita dall'euro ed è vero anche che l'altro ieri un redivivo Berlusconi, tra gli applausi dei suoi deputati e senatori, ha proposto che la Zecca italiana stampi euro da distribuire alle famiglie e alle imprese in difficoltà.
Questa è la (involontaria) comicità di Berlusconi. Come se il ritorno alla lira fosse neutrale sul potere d'acquisto degli stipendi e delle pensioni; come se la Zecca italiana fosse agli ordini di Cicchitto e non della Banca centrale di Francoforte. Eppure queste dichiarazioni o esternazioni che dir si voglia non sono fatte a caso. Servono alla convergenza politica di quel che resta del Pdl, della Lega di Maroni ("Siamo disposti a costruire un nuovo rapporto amichevole col Pdl se ritirerà da subito la fiducia al governo Monti"), di Di Pietro e di Grillo. Gli obiettivi di questo schieramento le cui linee di tendenza sono ormai ben visibili, sono: abbattere Monti, abbattere le tasse, abbattere l'euro. Ridi pagliaccio, la faccia infarina: tragedia e comicità. Non fanno ridere, ma piangere sì.

* * *
Abbiamo già indicato una via d'uscita urgentissima, ma c'è una via d'uscita più solida da realizzare. Anche questa è stata prospettata da Draghi nel rapporto indirizzato ai governi del G8 e resa pubblica giovedì scorso. Si tratta d'una proposta lanciata quattro anni fa da Vincenzo Visco e recuperata l'anno scorso dal comitato dei cinque saggi nominato dal Parlamento europeo per trovare una soluzione al problema dei debiti sovrani europei (nel comitato c'era anche un tedesco e le conclusioni furono approvate all'unanimità). Si tratta di mettere in un Fondo comune europeo tutta la parte dei debiti sovrani in euro che eccedano il 60 per cento del rapporto tra il singolo debito sovrano e il Pil del Paese in questione. Il tasso d'interesse pagato dal Fondo sarebbe una media dei tassi d'interesse vigenti nei vari Paesi che hanno conferito una parte del debito. La media ponderata penalizzerebbe i Paesi virtuosi e premierebbe i Paesi meno virtuosi. L'Italia cioè pagherebbe un tasso minore del quattro per cento e la Germania un tasso maggiore del due. La proprietà del debito sovrano conferito al Fondo resterebbe tuttavia di pertinenza del Paese conferente. La Germania cioè - per andare al concreto - non dovrebbe addossarsi la compartecipazione dei debiti conferiti ma soltanto del proprio e così l'Italia, la Spagna e tutti gli altri. Non ci sarebbe cioè nessun trasferimento di titolarità del debito; il sacrificio (o il beneficio) sarebbe limitato al tasso d'interesse. La garanzia dei debiti conferiti al Fondo sarebbe europea e la sua copertura sarebbe il bilancio europeo opportunamente ricapitalizzato secondo le quote che spettano a ciascun Paese in base al reddito e alla popolazione.

Una riforma di questo genere sarebbe risolutiva, bloccherebbe la speculazione, farebbe scendere gli spread, consentirebbe importanti programmi di crescita economica e di tutela sociale e fiscale. Dovrebbe essere accompagnata anche da alcune importanti cessioni di sovranità dai governi alle Autorità europee a cominciare dall'unità del mercato bancario, dalla politica dell'immigrazione e dalla politica fiscale.

* * *
Questi obiettivi, quelli di emergenza e quelli di sfondo, hanno bisogno evidentemente di una politica per esser realizzati e - come è evidente - alcuni debbono essere raggiunti nei prossimi giorni, altri tra pochi mesi e altri ancora tra un paio d'anni. Alla confusa, demagogica e pericolosa convergenza anti-Monti e anti-euro va dunque opposta una responsabile coalizione di tutte le forze di centrosinistra in Europa e in Italia. Ripeto: centrosinistra, cioè la sinistra di governo e il centro. Negli altri Paesi i partiti hanno il peso che gli spetta per le funzioni che debbono svolgere: mettere in comunicazione il popolo e le istituzioni. In Italia purtroppo da molti anni non è più così. Quale più quale meno i partiti sono diventati clientele e uffici di collocamento del personale dirigente. C'è chi ha conservato una dignità ed una visione moderna del bene comune; chi è rimasto appoggiato a valori arcaici e ideologici e chi infine ha perso anche la dignità. Perciò è giusto dire - come dice Bersani - che non si può fare di ogni erba un fascio, ma è altrettanto spiacevole dover constatare che i partiti, anche quelli che hanno conservato la dignità, hanno tuttavia trascurato il rapporto con il popolo ed hanno contribuito a occupare le istituzioni invece di riconoscerne ed esaltarne l'autonomia.

Tutto il discorso sulle liste civiche - che rischia tuttavia di esser fattore di confusione se viene affrontato con retropensieri inaccettabili - verte su questo punto. La società civile, cioè gli elettori sovrani al momento del voto, dovrebbero riscoprire i partiti e "invaderli" laddove si riconoscano nei loro valori. Oppure formare liste civiche collegate con quei partiti, legge elettorale permettendo. Cioè: trasfusioni di sangue nuovo oppure circolazione extracorporea di sangue nuovo. I partiti - se vorranno rinnovarsi - debbono accogliere sia l'una sia l'altra soluzione purché gli obiettivi siano chiari e le persone appropriate per quanto riguarda l'etica pubblica, la competenza e l'entusiasmo per un'impresa molto audace.

PS. Alcuni giornali (Il Foglio, Il Fatto) e alcune trasmissioni televisive (il Tg di La7) hanno dato notizie che io, Carlo De Benedetti ed Ezio Mauro propugneremmo una lista civica di Repubblica che intraprenda una "scalata ostile" al Pd portando come personaggio di sfondamento Roberto Saviano. Saviano da un lato e noi dall'altro abbiamo smentito questa notizia degna soltanto del sito Dagospia, peraltro preclaro per chi ama il gossip.

Queste sono invece questioni molto serie e non gossippare e come tali dovrebbero esser trattate. Il giornalismo che usa il gossip fa molto male il suo mestiere e reca danno non alle persone ma al Paese.
 

(03 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #364 inserito:: Giugno 10, 2012, 11:20:12 pm »


L'EDITORIALE

Draghi, Bersani varie ed eventuali

di EUGENIO SCALFARI

Il cantiere per la costruzione dell'Europa e per la messa in sicurezza dell'euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell'emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un'Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.

I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall'altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall'angolo in cui era stata chiusa dai fautori d'una politica europea di sviluppo e propone l'obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.

Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall'emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.
 
Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del "fiscal compact" e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.

Su un solo punto importante tra quelli imposti dall'emergenza anche Berlino sembra d'accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l'intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest'operazione la "proprietà" di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l'intera architettura finanziaria dell'eurozona.

                                                                  * * *

La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d'un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell'Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l'ennesimo "niet" sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell'autunno del 2013. Poi si vedrà.

Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l'obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l'emergenza e salvare l'euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all'Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell'eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d'ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo "spread" e l'andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all'uscita di quel Paese dall'euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell'euro e  -  spero  -  la costruzione dell'Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la tempesta arriva la quiete.

                                                                   * * *

Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell'Unione, dell'euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.

Monti è alla guida d'un governo sorretto dalla "strana maggioranza" di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due  -  Udc e Pd  -  sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.

In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l'importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell'autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l'appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i "guastatori" fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria. In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell'altro ieri della direzione, come si trattasse d'una questione di secondaria importanza.

È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.

La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l'ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d'innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l'obbligo di emettere: o fa corpo con l'imputato fino in fondo o lo espelle fin dall'inizio dai propri ranghi.

Ma c'era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch'esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell'elezione dei membri dell'Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.

Si sperava che i partiti avrebbero scelto  -  secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie  -  persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C'è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti.

Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.

Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l'elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l'unanimità dei consensi.

                                                                        * * *

Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l'Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l'esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.

Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l'ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.

A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al "meeting" di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.

1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell'occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest'occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l'Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l'intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell'Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti "terzi" chiamati a garantire il controllo e l'efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?

2. L'ex ministro dell'Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell'Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un'Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.

                                                                       * * *

Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l'altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei "poteri forti" che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro.
Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni "poteri forti" sono insediati fin dall'inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.

Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.

(10 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/10/news/draghi_bersani_varie_ed_eventuali-36901047/?ref=HREA-1
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« Risposta #365 inserito:: Giugno 11, 2012, 05:57:58 pm »

LA LETTERA

Io, i poteri forti e il diritto alla lealtà

di MARIO MONTI


CARO direttore, la ringrazio per l'invito, che ho accolto volentieri, ad un'intervista pubblica con lei, Eugenio Scalfari e Claudio Tito per sabato prossimo a Bologna, nell'ambito della "Repubblica delle idee".

Nel suo bell'editoriale di ieri ("Draghi, Bersani, varie ed eventuali 1"), Eugenio Scalfari ha voluto farmi conoscere in anticipo due delle domande che potrebbero venirmi rivolte in quell'occasione: se esista in Italia una "questione morale"; se un'Europa federale comporti la messa in comune di una parte del debito pubblico degli Stati membri. Implicitamente, ha anche accennato ad un terzo tema che immagino verrà evocato: i cosiddetti "poteri forti". Sarò lieto di discutere con voi su questi ed altri argomenti. Mi preme tuttavia replicare fin d'ora in merito ad alcune esemplificazioni che Scalfari ha ritenuto di fare a proposito del terzo tema. Per comodità dei lettori, cito l'intero passaggio.

"... Alcuni 'poteri fortì sono insediati fin dall'inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica. Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi [in realtà, del ministero dell'Economia e delle finanze], Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della
Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano".

 Quando ho nominato sottosegretario Catricalà e confermato nelle loro posizioni Fortunato e Canzio, non ero certo all'oscuro dei loro rispettivi percorsi di carriera, né di chi avesse avuto un ruolo decisivo nel valorizzarli in passato. Ma si tratta di qualificati funzionari dello Stato e nel decidere di avvalermi della loro collaborazione li ho valutati alla luce di quelle che, dopo attento esame, mi sono parse le loro caratteristiche di competenza, integrità, autorevolezza nell'esercitare le funzioni ad essi attribuite, lealtà. Lealtà allo Stato e alle linee programmatiche del Governo, non ad una "mia" parte politica (che, come è noto, non esiste).

Certo, le due posizioni al ministero dell'Economia e delle finanze - oltre, beninteso, a quella di sottosegretario - rientrano nello "spoil system". Avrei perciò potuto modificarne a mia discrezione i titolari, magari per il fatto che il Ministro che li aveva nominati non sempre aveva mostrato particolare rispetto per le mie tesi di politica economica (o per la mia persona) nel corso degli anni. Ma non credo che sia questo il modo corretto di intendere lo "spoil system". Soprattutto se si è a capo di un governo sostenuto da una maggioranza che è composta da forze politiche antagoniste tra loro, con anime culturali e ambienti di riferimento spesso antitetici. Devo cercare, è stata la mia convinzione fin dall'inizio, di estrarre il meglio da ogni forza e di rendere compatibile ciò che "in natura" (cioè nei molti anni di acceso bipolarismo che ci hanno portato alla crisi del novembre 2011) ha mostrato di non esserlo.

In altre parole, non avrei potuto - ma neppure voluto - evitare di prendere in considerazione professionalità di valore solo perché erano "creature" di Gianni Letta o di Tremonti. O di Bersani, Casini o Alfano.
Nel caso di Catricalà, Fortunato e Canzio (il quale in più, come Ragioniere generale dello Stato, deve essere visto e rispettato dallo stesso ministro dell'Economia e perfino dal presidente del Consiglio, oltre che ovviamente da ciascun ministro, come imparziale garante della credibilità dei conti pubblici), non ho avuto finora alcun motivo per rammaricarmi delle scelte che ho fatto nel novembre scorso. Ho anzi apprezzato le loro qualità e il loro spirito di servizio.

Naturalmente, nel caso riscontrassi in loro, come in qualsiasi altro collaboratore, anche un solo caso di mancata correttezza o lealtà, non esiterei a privarmi della loro collaborazione. Nei primi mesi del mio mandato di Commissario europeo, nel 1995, un direttore generale si mise d'accordo con il governo del suo Paese, in una procedura di infrazione, senza riferirmene preventivamente, come avrebbe dovuto. Quell'alto funzionario, pur appartenente ad un grande Stato membro, venne rimosso dal servizio.

L'autore è presidente del Consiglio

LEGGI LA RISPOSTA DI EUGENIO SCALFARI 2
 

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/06/11/news/io_i_poteri_forti_e_il_diritto_alla_lealt-36964933/?ref=HRER1-1


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Grazie, ma io resto preoccupato

di EUGENIO SCALFARI


Ringrazio il presidente Mario Monti per le gentili parole che mi ha indirizzato e attendo con interesse le risposte che darà alle domande che gli rivolgeremo nel nostro incontro a Bologna nel corso del meeting su la Repubblica delle Idee del 16 giugno prossimo.

Il presidente si intrattiene sull'ultima parte del mio articolo di ieri e sulle osservazioni che ho rivolto ad alcuni importanti componenti del suo staff: il sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà e il suo capo di gabinetto Vincenzo Fortunato, nonché il segretario generale del Tesoro, Mario Canzio. Per quest'ultimo il professor Monti ricorda che il ragioniere generale esercita con scrupolo il suo ruolo di controllore della pubblica spesa e della sua corretta copertura. Non metto in dubbio quel ruolo ma osservo che il tema della copertura contiene inevitabilmente una dose di discrezionalità che in alcuni casi deve essere sottoposta al ministro del Tesoro, il quale di quella copertura ha comunque la responsabilità politica oltre che tecnica. Se così non fosse il ministro del Tesoro verrebbe scavalcato proprio nella sua funzione più gelosamente esclusiva. Il professor Canzio segue - così mi sembra - la filosofia tremontiana dei tagli lineari che è stata ritenuta esiziale dallo stesso Monti, che è per l'appunto titolare
del Tesoro.

Per quanto riguarda le altre due personalità da me indicate comprendo bene le ragioni politiche fatte presenti dal presidente Monti; faccio però dal canto mio due osservazioni a proposito di Catricalà.

1) Mentre il governo era ancora in fase di formazione si parlò di due vicepresidenti del Consiglio "politici", nelle persone di Gianni Letta e di Giuliano Amato. In corso d'opera quest'ipotesi fu abbandonata e la candidatura di Letta, spostata al sottosegretariato alla Presidenza, fu rifiutata dallo stesso interessato. Nel frattempo era stata avanzata la proposta di nominare Giuliano Amato ministro degli Esteri mentre al posto di Letta veniva indicato Catricalà. Il Partito democratico chiese allora che quella carica fosse divisa tra due persone aggiungendo che Giuliano Amato sarebbe certamente stato un ottimo ministro degli Esteri ma non rappresentava il Pd. Amato si ritirò, Catricalà rimase e la conseguenza fu che l'equilibrio politico risultò sbilanciato.

2) Il sottosegretario Catricalà propose un disegno di legge che tutti i costituzionalisti hanno giudicato ad altissimo rischio di incostituzionalità; esso modificava le proporzioni tra membri togati e membri laici a favore di questi ultimi negli organi disciplinari della magistratura. Inizialmente esso riguardava anche il Csm, cioè la giustizia ordinaria ma le proteste immediate del vicepresidente di quell'organo di autogoverno indussero il governo ad escludere quella norma dal disegno di legge preparato dal sottosegretario. Quest'ultimo però proseguì nella sua iniziativa per quanto riguardava la magistratura amministrativa e quella contabile (Consiglio di Stato e Corte dei conti). A questo punto l'intera vicenda venne alla luce, scoppiò un vero e proprio scandalo e Catricalà ammise (in una lettera a noi indirizzata e da noi pubblicata) d'aver fatto un errore e ritirò il disegno di legge che aveva già inoltrato alle magistrature interessate e che dal canto loro dissero che non avrebbero mai dato parere favorevole a quelle disposizioni che contrastano palesemente con l'ordinamento costituzionale.
Il minimo che il sottosegretario doveva fare sarebbe stato di dimettersi ma non lo fece.

Ho già detto che mi rendo ben conto che il nostro presidente del Consiglio deve tener conto della "strana maggioranza" che sostiene il suo governo ma il fatto che il suo segretario proceda così leggermente in una materia delicatissima è motivo di preoccupazione per tutti coloro che seguono con attenzione l'operato d'un governo prezioso in questo momento per tutta la collettività. Sul capo di gabinetto Fortunato non aggiungo nulla. Che sia un tremontiano di stretta osservanza lo sanno tutti ed anche questo, trattandosi della persona più vicina al presidente del Consiglio, ci lascia molto perplessi.
 

(11 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #366 inserito:: Giugno 17, 2012, 06:44:24 pm »


L'INTERVISTA

Scalfari racconta l'Italia e Repubblica

Poi confessa: "Oggi sono felice"

Il colloquio del fondatore del giornale con Concita De Gregorio. Dalla nascita al quotidiano nazionalpopolare. Poi la novità con Berlusconi.

E la ostinanta riaffermazione dell'importanza della politica nella vita di un Paese e dei suoi cittadini: "La responsabilità della disaffezione è dei partiti". Poi l'abbraccio finale con Ezio Mauro

di LAURA PERTICI


E finalmente arriva Eugenio Scalfari. Salone del Podestà, le sedie tutte piene, ragazzi a gambe incrociate, in terra. Signore e signori tra poco si chiude. Per esserci ancora, adesso e una volta di più, si sopporta di rimanere in fila strizzati, per ore. Poi si ascolta magari in piedi, appoggiati alle pareti, o a palazzo Re Enzo, qualche scalino più sotto. La gente partecipa anche se in strada, si assiepa addirittura davanti al maxischermo di piazza Maggiore, dove c'è il sole che abbaglia ma almeno si sente la voce. Perché il fondatore di Repubblica adesso parla, da programma è a mezzogiorno. Viene a guardare in faccia non il suo pubblico ma gli italiani-lettori, che chiama bolognesi, anche se chi ce l'ha fatta ad entrare è di qui come di tante altre città.

Concita De Gregorio prova a seguire il filo dei ricordi. Che Scalfari condisce con battute - "Come vi saluto? Preciso che non sono mai stato comunista ma mi viene da salutarvi col pugno"- verità taglienti, sentenze senza rete, divagazioni. La sua storia glielo consente e gli 88 anni aggiungono serenità, leggerezza. "Hai raccontato che il 14 gennaio del 1976, quando è nata Repubblica, tu sei andato davanti all'edicola a vedere chi avrebbe comprato un nuovo quotidiano" comincia Concita. "Sì. All'inizio i nostri lettori li conoscevo fisicamente. Gente che leggeva Proust. Li vedevi da lontano, l'aria straniata, spaesata ma intensa. Dentro di me pensavo 'questo lo compra'. Lo seguivo. E andava così. Poi, col tempo, è arrivato il successo. In tanti si mettevano in tasca il giornale in modo che almeno uscisse la testata e si potesse vedere che era Repubblica. Avevamo inventato un nuovo formato". Con una sessantina di compagni di viaggio, redazione in piazza Indipendenza, Roma. "Come faccio a ricordare tutti? Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Bernardo Valli, Giorgio Bocca, Miriam Mafai, Giuseppe D'Avanzo". Alcuni ci sono. Dopo un anno impossibile, altri non più. Loro e tutti quelli che li hanno seguiti formano oggi una strana famiglia. Con tanti figli. Diversi.

Perché tanto nel frattempo è cambiato - "All'inizio eravamo maschilisti", dice Scalfari. "Sicuro che ora sia diverso?", De Gregorio -. E tante sono state le trasformazioni, gli aggiustamenti, gli esperimenti, i salti in avanti del giornale. Ascoltando il Paese e provando a immaginarne il cammino. Negli anni Repubblica è diventato un quotidiano nazionalpopolare. Uno dei balzi, con l'arrivo delle Br, con il sequestro Moro. "Ci leggevano i democristiani e i brigatisti. Nella sua foto dal covo, Moro tiene in mano Repubblica". E non hai mai pensato, direttore, che potesse essere difficile tenere il passo, la voce degli altri troppo distante per riuscire a capire? "Ci ho pensato quando c'è stata la discesa in campo di Berlusconi. Invece è diventata una delle nostre risorse". Ma ora siamo di nuovo ad una svolta. Crisi. Governo tecnico. Società civile. La lontananza siderale dei partiti. Tutto è in movimento, tutto sembra scomposto. E noi siamo dentro questa oscillazione. De Gregorio ha in testa le domande che arrivano da un'Italia intera. "Direttore, bisogna dire qualcosa su Grillo. Se nasce l'antipolitica una qualche responsabilità ce l'avrà anche la politica, no?". Scalfari non cede. Segue i suoi, di pensieri, non arretra di un centimetro finché non ha finito. Il discorso pulito. Il quadro chiaro, se si può. Ma poi risponde. "La responsabilità è di questi partiti, non della politica. Quello della politica è un concetto ineliminabile, è come la metafisica. Sono i partiti a creare una stortura, deformando la loro funzione, quando occupano le istituzioni". Ma quale sarà il futuro degli italiani, e quale quello del nostro giornale? "Qui a Bologna - dice De Gregorio - la differenza l'ha fatta l'ascolto, sono venuti tutti ad ascoltare. Hanno partecipato moltissimi giovani. Direttore, tu cosa pensi per loro e per il domani?". "Il futuro - ne è certo Scalfari - non può che organizzarsi in un'architettura destinata all'interesse generale. E per quanto riguarda il giornale, lo sappiamo che è anomalo, i nostri lettori lo sanno. Quando, ben 16 anni fa, dovevo lasciare il testimone ad Ezio Mauro, lui ha voluto che tenessi la mia stanza in redazione. Io gli dicevo che volevo passargli le consegne e lui rimandava di settimana in settimana, di mese in mese. Di anno in anno. Ancora adesso ci sentiamo tutti i giorni, quattro volte al giorno. Ma io non interferisco. Ci parliamo solo per dirci qual è la nostra sensazione del Paese".

A questo punto l'argine è rotto. Gli occhi si inumidiscono. Si alza un applauso immenso. Scalfari guarda Mauro, seduto in prima fila. Mauro guarda Scalfari. Provando, inutilmente, a non muovere un muscolo. Ieri, ancora una volta insieme, hanno intervistato il premier Mario Monti, uno seduto di qua e l'altro di là. "Quando siamo usciti Ezio mi ha chiesto 'sei felice'? Io gli ho risposto 'molto'. E lui: 'Anche io'".

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« Risposta #367 inserito:: Giugno 18, 2012, 04:46:21 pm »

IL COMMENTO

Rinnovare i partiti

Liberare le istituzioni

di EUGENIO SCALFARI


Questa mattina si sta votando in Grecia e tra poche ore conosceremo il risultato, ma hanno sbagliato quanti (ed io con loro) hanno attribuito al voto il valore d'un referendum pro o contro l'euro e pro o contro l'Europa. Non è affatto così. Tutti i partiti greci, quelli tradizionali e quello di opposizione (socialista massimalista), non vogliono affatto uscire dall'Unione europea e abbandonare la moneta comune. Quanto agli elettori, essi sono perfettamente consapevoli che tornare alla dracma sarebbe un disastro di proporzioni immani; un sondaggio pre-elettorale prevede addirittura una vittoria dei partiti tradizionali, quelli cioè che si sono assunti la responsabilità del rigore tedesco, il che è tutto dire.

La Grecia quindi non se ne andrà dall'euro a meno che non sia la Germania a sbatterla fuori. Molti pensano che quest'ipotesi sia probabile: ucciderne uno per educarne cento; ma io non credo che sia così. Non solo è improbabile ma è addirittura impossibile. Sarebbe un esercizio di accanito sado-masochismo che un grande popolo non può permettersi. Il popolo e le classi dirigenti tedesche non possono permetterselo ed è inutile ricordarne il perché, stampato nella memoria del mondo intero a caratteri indelebili.
Però c'è un però: anche se l'esito del voto greco non potrà essere utilizzato dagli speculatori come pretesto, ne troveranno certamente altri per proseguire il loro attacco all'eurozona, ai debiti sovrani più esposti e alle banche più
fragili.

Del resto hanno già cominciato, con la Spagna prima e con l'Italia poi. L'obiettivo finale è la disarticolazione dell'eurozona, l'isolamento della Germania, la cancellazione d'ogni regola che miri a incanalare la globalizzazione in un quadro di capitalismo democratico e di mercato sociale.

Ormai è evidente che questa è la posta in gioco. Altrettanto chiara è l'identità delle forze contrapposte. Da un lato ci sono le principali banche d'affari americane che guidano il gioco, le multinazionali, i fondi speculativi, le agenzie di rating, i sostenitori del liberismo selvaggio e del rinnovamento schumpeteriano. Un impasto di interessi e di ideologie che noi chiamiamo capitalismo selvaggio e che loro nobilitano chiamandolo liberismo puro e duro.
Queste forze della speculazione hanno una capacità finanziaria enorme ma non imbattibile. La controforza è guidata dalle Banche centrali. Nei loro statuti è garantita la loro indipendenza e la ragione sociale prevede per tutte la tutela del valore della moneta e il corretto funzionamento del sistema bancario sottoposto alla loro vigilanza. Ma il compito implicito è anche lo sviluppo del reddito e dei cosiddetti "fondamentali" tra i quali primeggiano il risparmio, gli investimenti, la produttività del sistema e l'occupazione.

Le Banche centrali dispongono anch'esse di mezzi imponenti di contrasto, mezzi a loro immediata disposizione in caso di necessità e di emergenza. E poiché l'ala ribassista si scatenerà al più presto per non lasciar tempo ad accordi politici che affianchino al rigore lo sviluppo, le Banche centrali dovranno far mostra di tutta la loro potenza di fuoco per impedire la devastazione dei tassi d'interesse e l'ondata di panico che può rovesciarsi contro gli sportelli delle banche. Dovranno insomma impedire che si stringa la tenaglia sui debiti sovrani, che metterebbe a rischio gli Stati dei quali le Banche centrali sono una delle più importanti articolazioni. Indipendenti ma certo non indifferenti e non neutrali quando si tratti di vita o di morte non solo di uno Stato ma d'un intero sistema continentale.
Il panorama delle prossime settimane si presenta dunque molto movimentato. A mio avviso  -  ripeto quanto scritto la scorsa settimana e che vado scrivendo ormai da vari mesi  -  l'esito finale sarà positivo perché non è pensabile che uno dei continenti più popoloso, più culturalmente avanzato e più provvisto di esperienza storica decida di suicidarsi. Ma certo egoismi nazionali ed errori di tattica renderanno lungo e faticoso il guado verso un solido approdo di stabilità, rilancio dell'occupazione e uscita dalla deriva della recessione.

* * *

Tra gli errori di tattica che direttamente riguardano il nostro Paese è emerso nei giorni scorsi il problema degli esodati. In un contesto sociale già molto agitato dai sacrifici necessari per contrastare l'attacco dei mercati e dalla caduta del potere d'acquisto dei ceti più disagiati, il tema di quasi 400mila lavoratori di circa sessant'anni d'età privi sia di lavoro sia di pensione è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo: un dramma umano che si aggiunge a quello ancora più vasto dei giovani anch'essi in larga misura privi di protezione sociale e senza prospettive di futuro.

Il ministro Fornero ha sbagliato il tono della risposta al documento redatto dall'Inps accusando i dirigenti di quell'ente di provocazione voluta e quindi dolosa. Quanto al predetto documento che formula in 390mila la cifra complessiva degli esodati, il ministro l'ha definito impreciso e di dubbia interpretazione.

Come si vede il giudizio del ministro sull'operato dell'Inps in questa occasione è dunque molto duro ma contiene tuttavia un nucleo di verità. La massa degli esodati dovrebbe essere infatti classificata con molta attenzione per quanto riguarda il tipo di contratto originario che li legava al loro datore di lavoro, le cause e le modalità della loro uscita da quel contratto e i tempi precisi in cui quest'uscita diverrà operativa. L'Inps non ha approfondito come probabilmente avrebbe dovuto questa classificazione. Ha semplicemente diviso i 390mila in due categorie: i "prosecutori" e i "cessati". I primi secondo l'Inps ammontano a 130mila e sono quei lavoratori che hanno deciso di porre fine al rapporto di lavoro anticipatamente utilizzando le finestre a loro disposizione e continuando a pagare i contributi volontari fino a maturazione della pensione. I "cessati" sono stimati a 180mila e la causa della cessazione sono stati accordi aziendali di prepensionamento con uno "scivolo" che accompagnava il lavoratore al pensionamento. Accordi aziendali tuttavia che sono stati fortemente modificati in peggio dalla riforma pensionistica che ha spostato in avanti da cinque a sette anni la pensione adottando il metodo contributivo per tutti.

Queste specificazioni che si trovano nel documento dell'Inps non sono tuttavia sufficienti a parte l'attendibilità delle cifre il cui ordine di grandezza è comunque fortemente superiore a quanto finora ha previsto il governo. Manca nel documento la natura del contratto originario e mancano anche quei lavoratori coperti dalla cassa integrazione come rimedio estremo al già avvenuto licenziamento per fallimento o cattivo andamento dell'azienda. Manca infine la data nella quale il licenziamento già deciso e notificato al dipendente diventerà operativo.
La Fornero è sempre stata consapevole dell'entità del fenomeno. Lo dichiarò pubblicamente nel momento stesso in cui annunciava la riforma e garantì che i lavoratori colpiti sarebbero stati protetti man mano che la perdita di lavoro si fosse verificata. Ebbi l'occasione in quei giorni di incontrarla proprio per approfondire questa questione. Ricordo che mi ripeté l'impegno preso e le modalità di copertura. "Questa "tagliola" tra la data attesa per la pensione e quella prolungata dalla riforma non scatterà subito per tutti. Adesso è scattata per un gruppo di lavoratori che abbiamo valutato in circa 50mila" così mi disse allora "e abbiamo provveduto per loro anticipando la scadenza pensionistica. Agli altri penseremo quando la cessazione del rapporto di lavoro diventerà operativa".
Questa sua posizione gradualistica è stata riconfermata nei giorni scorsi di rovente polemica conclusa con una mozione di sfiducia personale al ministro presentata dalla Lega e da Di Pietro. La mozione non considera che una copertura preventiva di un debito dalle cifre ancora incerte iscrive quella posta passiva nella contabilità nazionale "sopra la linea", il che significa che va ad aumentare ulteriormente l'ammontare del già gigantesco debito pubblico.
Ciò che il ministro dovrebbe fare ora con la massima urgenza è di chiarire e indicare cifre certe rinnovando l'impegno alla loro copertura nella data corrispondente allo scatto della "tagliola". Che la pubblicazione del documento Inps abbia acceso un incendio di rabbie aggiuntive è un fatto incontestabile che poteva essere evitato non nascondendo le notizie ma dandole in modo sommario e quindi impreciso.

* * *

Ogni Paese europeo deve fare la sua parte per mettersi in sintonia con l'obiettivo finale che è quello di costruire uno Stato federale di dimensioni continentali.
Noi italiani ne abbiamo molto di lavoro da fare ma un punto domina su tutti gli altri: si chiama questione morale.
Enrico Berlinguer  -  l'ho già più volte ricordato  -  pose questo problema spiegando che in Italia la partitocrazia aveva stravolto il dettato costituzionale e il governo dei partiti aveva occupato le istituzioni, nessuna esclusa. Bisognava dunque liberarle, restituendole alla loro funzione di organi di governo depositari dell'interesse generale e non dei pur legittimi interessi particolari. Stato di diritto, separazione dei poteri, interesse generale rappresentato dal complesso delle istituzioni, forze politiche guidate da una propria visione del bene comune da sottoporre al voto del popolo sovrano.
Questo modello non aveva assolutamente nulla di comunista e stupì molto vederlo fatto proprio dal leader del Pci. Probabilmente Berlinguer usò la questione morale come risposta alla esclusione del Pci dall'alternarsi al potere delle forze costituzionali a causa della guerra fredda.
Sia come sia, quel tema fu posto e colse un aspetto essenziale della crisi italiana. Ora la sua soluzione non solo è matura ma necessaria.
 

(17 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #368 inserito:: Luglio 06, 2012, 10:54:04 am »

L'INTERVISTA

Napolitano: "L'Italia deve farcela sì alla Costituente senza di me"

Colloquio con il presidente della Repubblica: nel 2013 io lascio.

"Nel vertice di Bruxelles l'Europa ha aperto una nuova strada. Sul caso Mancino il mio comportamento sempre corretto"

di EUGENIO SCALFARI

È UNA calda domenica di estate e l'automobile sta percorrendo il viale di Castel Porziano che porta alla residenza del presidente della Repubblica. Ai fianchi della strada si stagliano gli alti tronchi dei pini marittimi intervallati da querce. Un cinghialotto ci passa davanti e scompare nel folto del bosco. Sulle strisce di prato ai lati del viale saltella qualche merlo e un'upupa, "ilare uccello" cammina impettita con la piccola cresta sul capo. Sarà pure ilare, io invece sono preoccupato.

Con il Presidente abbiamo concordato di scambiarci idee e opinioni su quanto sta accadendo in Italia e in Europa ed io metterò in carta i suoi pensieri e le sue valutazioni, ma non sarà un compito facile con i tempi che corrono e la crisi che continua ad infierire ormai da quattro anni.
L'auto è arrivata al Castello. Girando a destra si va verso il mare, a sinistra una breve salita conduce alla residenza. Ci sono stato molte volte con Sandro Pertini, con Cossiga, con Ciampi ed anche con Napolitano due o tre anni fa.

Ora siamo arrivati. Napolitano mi viene incontro e mi conduce in una piccola stanza. In un tavolo c'è la televisione, accanto alla finestra che guarda sul prato un tavolinetto con due sedie. Chiedo il permesso di togliermi la giacca, lui m'aiuta a sfilarmela; indossa una maglietta azzurra, io resto in maniche di camicia. Ci sediamo e la nostra conversazione comincia.

Non posso tuttavia esimermi dal chiedergli le sue reazioni ad una vera e propria campagna che è stata lanciata contro
di lui partendo da telefonate al Quirinale, che sono state intercettate, dell'ex ministro e vice Presidente del Csm Nicola Mancino.

Giorni fa Napolitano è intervenuto direttamente, ha fornito i chiarimenti che gli erano stati richiesti da varie parti ed ha messo per quanto lo riguarda la parola fine a quella polemica, "costruita sul nulla". "La correttezza dei miei comportamenti ha trovato il più largo riconoscimento. Ho perfino resa pubblica la lettera da me inviata al Procuratore generale della Cassazione cui sono attribuiti precisi poteri per il corretto andamento dell'amministrazione della giustizia".

Ma torniamo ai temi essenziali. Alcuni ritengono che i poteri del Quirinale abbiano registrato una forzatura in questi mesi. Come se ci fosse stata, in quest'ultima fase del settennato di Giorgio Napolitano una sorta di accentuazione presidenzialista a detrimento dei partiti e del Parlamento. È così? A me non pare, ma ho davanti a me l'autore di questa supposta forzatura. Lui che ne pensa?

Lui comincia con una constatazione comune a molti studiosi: quando il potere politico è forte il ruolo del Capo dello Stato resta ben circoscritto, quando la politica è debole esso naturalmente si espande.
"Sai - mi dice - in questi sei anni al Quirinale ho potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia forse il Capo di Stato europeo dotato di maggiori prerogative. I Re, dove ancora ci sono, sono figure importanti storicamente ma essenzialmente simboliche. Gli altri Capi di Stato "non esecutivi" hanno in generale poteri molto limitati. Il solo al quale, oltre a rappresentare l'unità nazionale, la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi è quello italiano. Naturalmente il presidente francese ha prerogative di rilievo molto maggiore ma in Francia c'è una forma di presidenzialismo, la nostra invece è una Repubblica parlamentare la cui Costituzione però ha riservato al Quirinale un peso effettivo. Penso sia stata una scelta molto meditata dei padri costituenti".

Domando quale sia il suo ruolo e lui spiega: sollecita quella "leale cooperazione istituzionale" che deve essere un criterio costante nei rapporti tra i vari poteri dello Stato e le diverse articolazioni della Repubblica. Presiede l'organo di autogoverno della magistratura; presiede il Consiglio Supremo di difesa che si riunisce periodicamente con la partecipazione del Presidente del Consiglio e dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell'Interno e dell'Economia. Inoltre il Presidente nomina i senatori a vita, 5 dei 15 giudici della Corte Costituzionale e concorre alla scelta di membri di altre istituzioni pubbliche secondo quanto previsto da disposizioni di legge. Ma soprattutto spetta al Capo dello Stato il potere di sciogliere anticipatamente le Camere quando esse non siano più in grado di esprimere una maggioranza e di svolgere correttamente la loro funzione e spetta a lui la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di quest'ultimo, dei ministri.

Così dispone la nostra Carta, gli dico, ma tu sai bene che questo fondamentale potere di nomina è stato rarissimamente esercitato. Certo che lo sa. La prima volta lo esercitò Luigi Einaudi. Era l'agosto del 1953. Einaudi si era ritirato nella villa di Caprarola e chiamò Giuseppe Pella, ministro del Tesoro del governo dimissionario. Gli comunicò che l'aveva nominato presidente del Consiglio. Lo pregò di mettere al Commercio Estero l'economista Bresciani Turroni e gli chiese di portargli la lista dei ministri entro i prossimi tre giorni.

La Dc fu presa alla sprovvista; votò la fiducia a Pella ma definì "governo amico" quello da lui presieduto. Una forma di distacco? Risponde: "Il governo non può mai essere pertinenza esclusiva di un partito. È un'istituzione, il governo, e risponde a tutti gli italiani. Naturalmente deve avere la fiducia di una maggioranza parlamentare che lo consideri un governo da sostenere attivamente. Quando non fosse più così, le Camere lo sfiducerebbero. Questo è il funzionamento corretto dì una democrazia parlamentare: il Capo dello Stato nomina tenendo ben presente che il governo dovrà avere la fiducia del Parlamento".

Bene. Questa prassi è stata sempre rispettata? Vediamo. Fu seguita da Scalfaro quando nominò Ciampi nel '93 e poi quando nominò Dini un anno dopo. Poi da te nello scorso novembre quando nominasti Monti dopo averlo nominato senatore a vita. "Per nominarlo senatore a vita c'era bisogno della controfirma di Berlusconi che era ancora a Palazzo Chigi. La diede subito".

Insomma, la Costituzione esiste da 65 anni e per un atto importantissimo com'è la nomina del capo del governo è stata rispettata solo quattro volte. Qui il Presidente obbietta: "Intendiamoci, è normale, nelle democrazie parlamentari, che sia il partito cui gli elettori abbiano dato la maggioranza, anche se solo relativa, in Parlamento, a esprimere il Primo ministro. Quel partito, in Italia, è stato per oltre 40 anni la Democrazia Cristiana; e se in due occasioni (1981 e 1983), a formare il governo di coalizione imperniato sulla Dc fu chiamato un non democristiano, molto pesò la valutazione e propensione del Capo dello Stato, anche in rapporto agli equilibri politici interni alla coalizione. Altro furono i quattro casi da te citati, nei quali il Presidente della Repubblica dové esercitare il suo potere per dare soluzioni a delle crisi politiche senza sbocco".

Gli ricordo che cosa sia stato il fenomeno della partitocrazia. Risponde: "Pressioni abnormi dei partiti sono state a lungo esercitate, più che per l'individuazione del capo del governo, per la nomina dei ministri (già con Einaudi Presidente) e soprattutto per la spartizione degli incarichi negli enti pubblici e nel sottogoverno, in una condizione - per di più - di democrazia bloccata fino agli anni '90".

Napolitano ritiene i partiti insostituibili; il loro ruolo è previsto in Costituzione: contribuiscono con metodo democratico all'indirizzo politico del Paese e sono il raccordo tra il popolo e le istituzioni. Ma per farlo devono oggi profondamente rinnovarsi e operare in modo trasparente, non possono e non debbono incombere sulle istituzioni.

La nomina di Monti è stata un'innovazione, ma oggi? Che cosa accadrà dopo Monti? Si ricomincerà col predominio dei partiti?

Arriva una telefonata e lui risponde brevemente. Stiamo chiacchierando da un'ora e gli domando se gli dà noia il fumo. "Clio fuma spesso, lo sai". Così accendo anch'io. "Vuoi fare due passi in giardino?". Meglio no, gli dico, non siamo forti di gamba nessuno dei due. Tu però non porti neanche il bastone. Telefona a Clio che ci aspetta in riva al mare per il pranzo. Le dice che abbiano ancora una mezz'ora di lavoro. Poi riprendiamo, ma parliamo di Sraffa e delle lettere di Gramsci. Lui era divenuto amico di Sraffa negli anni '60, l'aveva conosciuto attraverso Giorgio Amendola e andava a trovarlo ogni tanto al Trinity College a Cambridge. Sraffa aveva incontrato Gramsci da giovane a Torino e gli era rimasto legatissimo nei lunghi anni del carcere. Il giovane Gramsci aveva anche scritto su "Ordine Nuovo", ed era in rapporto con Piero Gobetti. Vedi, gli dico, lì i liberali si incontrarono con i comunisti. "Sì, diciamo però che Gobetti era un liberale molto sui generis". Diciamo pure che anche Gramsci era un comunista fuori ordinanza.

Mi racconta come riuscì a convincere Sraffa che custodiva una parte importante della corrispondenza gramsciana, a depositarla presso l'istituto che porta quel nome. Sraffa non si fidava. Chiese garanzie. Giorgio gliele dette in nome del partito e Sraffa si convinse. Intanto la mezz'ora è passata e lui ritelefona a Clio per spostare il pranzo alle due.

Mi sembra venuto il momento di parlare dell'Europa. "Non mi domandare se ce la faremo. Io so soltanto che dobbiamo farcela". Sì, ma come? "Hanno provato ad aprire nuove strade, e con successo, a fine giugno a Bruxelles Monti, Hollande, Rajoy, Draghi e altri". La Merkel secondo te come si muove? Terreno scivoloso. Un Capo di Stato non dà giudizi sul cancelliere della Germania parlando con un amico che poi scriverà. Ma lui qualche cosa la vuole dire: "Nei diversi scambi di opinioni che ho avuto in questi anni con la signora Merkel, si è sempre espressa reciproca comprensione e fiducia tra noi. Sono in giuoco questioni complesse, si sono manifestati disaccordi non lievi, ma il rapporto tra l'Italia e la Germania, e quindi tra i due governi e le rispettive rappresentanze e opinioni pubbliche, rimane un pilastro fondamentale della costruzione europea".

Napolitano ha incontrato pochi giorni fa l'ex cancelliere Schmidt, governò la Germania per molti anni, è stata una delle figure che fanno parte del pantheon nazionale ed europeo come Adenauer e come Kohl. Schmidt parla della solidarietà europea come di una necessità assoluta e sa bene come per uscire dalla crisi occorrano, nel rispetto delle discipline di bilancio, investimenti pubblici e interventi che mettano al sicuro il sistema bancario europeo. Nei giorni scorsi si sono in effetti prese da parte del Consiglio Europeo e dell'Euro Summit decisioni significative in questo senso. E non c'è bisogno di essere di sinistra per apprezzarle. Keynes era un liberale, Beveridge era un liberale, ma il primo, per dominare la crisi rilanciando la domanda, volle a suo tempo l'intervento pubblico, e l'altro tracciò, già alla fine della seconda guerra mondiale, le linee del welfare state.

"Io posso citare Luigi Einaudi, a te che sei liberale farà piacere. Ad esempio, l'Einaudi delle "Lezioni di politica sociale". La libertà è un principio fondamentale e l'eguaglianza pure: così si costruiscono le libere società e si fa crescere la democrazia".
Appunto. Da tempo ho la sensazione che Napolitano, da Presidente della Repubblica, sia più attento al pensiero di Einaudi. Ad un certo punto mi ha ricordato una pagina dello "Scrittoio del presidente" sulla quale Einaudi scrisse che uno dei suoi compiti era quello di trasmettere intatte le prerogative costituzionali del Capo dello Stato ai suoi successori. Questo è anche l'impegno di Napolitano, non ne fa un mistero anzi lo considera un dovere.

Gli domando se è favorevole allo Stato federale europeo, lui che rappresenta lo Stato italiano. Certo, bisogna muovere in quella direzione senza remore e tabù. "Gli Stati nazionali, dice, garantiscono una tradizione, una cultura, una storia, ma soltanto l'unione politica dell'Europa, secondo l'originaria ispirazione federale, garantisce la speranza del futuro". C'è chi vuole uscire dall'euro. "Sciocchezze o peggio pura demagogia".

Gli pongo l'ultima domanda: si può passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale con un emendamento e nel quadro delle modifiche previste dall'articolo 138? La risposta è un secco no a ogni approccio improvvisato e parziale. "Non mi pronuncio nel merito di progetti volti a cambiare l'architettura costituzionale, ma occorre in ogni caso una visione ponderata dei nuovi equilibri da stabilire tra le istituzioni e tra i poteri, una visione ponderata alla luce di fondamentali principi e garanzie. E' stata appena presentata la proposta della elezione di un'Assemblea costituente, e dopo trent'anni di tentativi abortiti di riforma costituzionale non si può negare che questo approccio abbia una sua motivazione. Tocca al Parlamento valutare quella e altre proposte".
Montiamo in macchina e finalmente raggiungiamo Clio a tavola. Parliamo di comuni amici. Di vacanze. Lui ne farà poche. Di solito va a Stromboli e poi sta qui. Finché tocca a lui, deve stare al pezzo. "Però conto i giorni alla rovescia fino al maggio del '13". Tu sai come la penso, gli dico. Ma mi ferma subito. Prendo congedo con un "a presto" reciproco.

Durante il ritorno a Roma rimugino su quanto ci siamo detti. L'Europa si può suicidare? Sembra impossibile ma un colpo può partire per caso ed esser fatale, perciò con le pistole  politiche e mediatiche non bisogna giocare.
Quando ci siamo lasciati, Giorgio mi ha regalato il "Doppio diario" di Giaime Pintor, una copia sua con molte sottolineature. Una frase (della lettera al fratello Luigi) sottolineata due volte è questa: "La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d'una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo".
Questo è un testamento: Giaime morì poco dopo mentre attraversava le linee tedesche. Era il 1943 e lui aveva 24 anni. Vale la pena di ricordarla la storia di quel giovane e insegnarla ai giovani d'oggi. Quella "corsa verso la politica" di cui egli parlava condusse alla libertà e alla democrazia. Dove mai può condurre  -  si chiede Napolitano  -  il fenomeno opposto, la allarmante tendenza attuale a una "fuga dalla politica"?
 

(05 luglio 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #369 inserito:: Luglio 08, 2012, 10:39:19 pm »

L'EDITORIALE

Ho parlato con Draghi di Balotelli e di Germania

di EUGENIO SCALFARI


LA SITUAZIONE economica si è di nuovo imbruttita. Non parlo di quella italiana e neppure soltanto di quella europea, parlo della situazione mondiale, compresi i colossi emergenti, la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica. La recessione che ha fatto la sua comparsa già da un paio d'anni ed è diventata una realtà da sei mesi, si aggrava; nuove "bolle" si profilano su alcuni mercati: quella immobiliare  -  pensate  -  in Cina; quella dei derivati un po' dovunque perché le banche occidentali sono quasi tutte inquinate di titoli sporchi, di scommesse, di "Corporate bond" e di obbligazioni sovrane che stentano a mantenere i valori nominali e perdono colpi sotto le ondate speculative.
 
Ma il fatto nuovo di questi ultimi giorni viene dalla Germania: la locomotiva europea è ferma. Non accadeva da molto tempo. I tedeschi consumano poco ma esportano e investono molto e il saldo tra questi "fondamentali" era positivo e consentiva al treno tedesco di correre con buona velocità. La novità sgradevole è che quel saldo ormai è in pareggio, perciò la locomotiva si è fermata. Non a caso Angela Merkel nella sua visita a Roma dell'altro giorno ha detto: "Anche noi sentiamo il morso della recessione, perciò dobbiamo rilanciare la crescita tutti insieme".

Parole sante anche se alquanto tardive. Però  -  ed ecco un'altra novità di questi giorni  -  politicamente la Merkel è in minoranza.
Quel suo "adesso noi europei dobbiamo agire tutti insieme" non è piaciuto né ad alcuni "poteri forti" né alla gente.

Non è piaciuto all'alleato storico della Cdu, la Csu cattolica che ha la sua base in Baviera, non è piaciuto alla Bundesbank che critica perfino il suo rappresentante nel direttorio della Bce e quasi sempre solidarizza con Draghi. Non è piaciuto ai magistrati della Corte costituzionale tedesca che vegliano a tutela della sovranità nazionale. E alla gente, cioè al tedesco medio che rimpiange ancora il marco e assiste frastornato a quanto accade o rischia di accadere anche in patria.
Per capir meglio in quale modo questi diversi umori si combinano tra loro e quale ne sia il risultato ho pensato che la persona più adatta a farmi da Virgilio attraverso l'inferno economico di questi mesi fosse Mario Draghi. Con lui ho da tempo una consuetudine di amicizia, perciò l'ho cercato e ci siamo scambiati sensazioni e opinioni.

* * *
Draghi non rilascia interviste. Spesso si esterna pubblicamente e l'ultima volta è di pochi giorni fa quando ha illustrato i motivi che hanno suggerito alla Bce di abbassare d'un quarto di punto il tasso di sconto ufficiale.

Decisione unanime, come ha voluto precisare. Ma in quella stessa occasione ha anche ricordato che l'economia reale non va bene, che recessione e disoccupazione sono preoccupanti e che i Paesi europei sotto attacco dei mercati debbono muoversi con la massima celerità e nel modo appropriato per scongiurare pericoli maggiori.

Queste sue parole  -  appaiate a quelle analoghe pronunciate contemporaneamente da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale  -  hanno avuto come conseguenza che la decisione positiva del taglio del tasso di sconto non ha avuto alcun effetto sui mercati che hanno dato maggior peso al pessimismo manifestato dalla Lagarde e dallo stesso Draghi e hanno depresso le Borse e fatto di nuovo impennare gli "spread" dell'Italia e soprattutto della Spagna. Insomma un flop (così è stato definito) sia della Bce, sia della Banca d'Inghilterra che aveva iniettato sul mercato notevole liquidità supplementare quello stesso giorno.

Della mia conversazione con il presidente della Bce non ho molto da riferire, non perché mi abbia rivelato misteri da custodire con la bocca cucita, ma perché una chiacchierata tra due amici non fa notizia. Tutt'al più contiene un po' di colore e quello a volte aiuta ad orientarsi.

Ho cominciato infatti con una battuta che l'ha fatto ridere di gusto. Gli ho detto: fino alla scorsa settimana l'Italia aveva tre Super Mario che facevano titolo su tutti i giornali, tu, Monti e Balotelli. Debbo dire che il terzo vi superava di gran lunga anche perché aveva segnato due gol proprio alla Germania eliminandola dalla gara. Adesso però non è più così. Dopo la sconfitta con la Spagna Balotelli si è addirittura inginocchiato piangendo.
Siete rimasti in due. Non è che finirete anche voi come il Super Mario in maglia azzurra?

"Spero di no" ha risposto, e ancora rideva. "Ma come mai hanno perso in quel modo con la Spagna?".

Hai visto la partita? Gli ho chiesto, Monti c'è andato.

"No, non ho visto niente, sono stati giorni per me molto pieni e poi il calcio non è il mio forte. Però mi stupisce, quattro a zero. E con la Spagna...".

Non credere che la Spagna a causa dello "spread" non sia degna di aggiudicarsi il Campionato europeo, gli ho detto.
Anzi è addirittura campione del Mondo. "Questo lo so, ma vorrei capire in che consiste la sua forza".

Debbo ammettere che non sono un esperto ma un po' ne mastico e gliel'ho spiegato così: gli spagnoli si schierano su due linee orizzontali di cinque giocatori ciascuna, quando sono sulla difensiva sono dunque in dieci nella loro metà campo ed è difficilissimo aprirsi un varco per gli attaccanti avversari. Ma quando avanzano si muovono sempre tutti insieme e sono in dieci nella metà campo avversaria.

Non passano mai la palla in avanti, se la passano orizzontalmente avanzando come una macchina da guerra. Non hanno una o due o tre punte ma ne hanno cinque ed altrettante alle spalle. Vincono così.

Mi stava a sentire ma evidentemente pensava ad altro.

Infatti mi ha detto: "Noi abbiamo lavorato in quattro per preparare il memorandum sulla futura architettura dell'Unione europea. Un po' come gli spagnoli, quelli del calcio s'intende".

Quelli del calcio, certo. Gli altri, i ministri, i capi delle banche, non lavorano affatto tutti insieme e soprattutto sono molto lenti. Sanno che debbono promulgare una legge, firmare un documento, avviare una procedura, ma rinviano e tutto resta fermo. Queste considerazioni Draghi le ha fatte più volte pubblicamente e più volte le ha comunicate alle autorità spagnole interessate, ma i risultati finora non si sono visti, gli spagnoli continuano a rinviare con il risultato che le loro banche sono ancora in pessima situazione. Per far intervenire il fondo "Salva Stati" e "Salva banche" ci vuole una richiesta del governo ma il governo finora tergiversa.

Gli spagnoli sono molto orgogliosi, sono hidalghi, ti guardano in faccia con occhi di sfida e battono il tacco con rabbia se tu rispondi a loro con lo stesso sguardo.

Come nel ballo flamenco, dove inarcano la schiena e le sopracciglia.

Trattare con loro non deve essere facile.

Ti piace la Spagna? gli chiedo. Circospetto: "In che senso?" il paesaggio, dico. "Certo, ma negli ultimi tempi ci vado tra un aereo e l'altro, di paesaggio ne vedo assai poco". Una domanda: spetta a te la vigilanza sulle banche?

"Spetta alla Bce, sì, lo ha deciso l'Eurosummit, lo sai, è una decisione ufficiale. Vigilanza sulle banche, garanzia sui depositi e assicurazione per le banche in crisi. Ma la vigilanza sarà nettamente separata dalla nostra politica monetaria. È tutto scritto nel comunicato dell'Eurosummit".

Ma mi piace sentirlo ripetere. "Però il governo interessato lo deve chiedere e ancora non l'ha chiesto". Sono hidalghi.
Possono fallire se non lo chiedono? "Penso a Balotelli".

Che c'entra? "Niente, ma mi viene in mente quando piangeva".

* * *
Dunque ricapitoliamo. La Merkel è politicamente in minoranza nel suo Paese.

Non era mai accaduto. Il governo spagnolo balla il flamenco dell'orgoglio e perde tempo prezioso per non piegarsi a chiedere l'intervento del fondo "Salva banche". I mercati guidati dalle banche d'affari americane e dagli Hedge Fund speculano al ribasso sui titoli bancari europei, la Bundesbank e l'opinione pubblica tedesca sognano un euro di prima classe insieme alla Finlandia e all'Austria, in Italia crescono i movimenti antipolitici che predicano l'uscita dall'euro. Intanto il cambio euro-dollaro è a 123 e tende a scendere ancora.

La battuta di Draghi su Balotelli che piange mi dà da pensare sicché, per concludere sparo qualche domanda finale: ti preoccupa l'inflazione? Risposta: "È l'ultimo dei miei pensieri". Ti preoccupa il ribasso dell'euro sul dollaro? "Favorisce le esportazioni, è uno stimolo". Allora ce la faremo? "Napolitano ha detto che ce la dobbiamo fare. Io ho grande affetto e stima per lui, mi associo alla sua esortazione e al suo impegno per quanto mi riguarda".

Personalmente continuo ad essere ottimista ma le stelle stanno a guardare.

Tocca a ciascuno di noi fare la sua parte e non allo stellone che è stato soltanto e sempre un'invenzione consolatoria.

Post scriptum: alcuni giornali conducono da tempo una campagna sul cosiddetto caso Mancino per mettere in difficoltà il Presidente della Repubblica. Negli ultimi giorni lo esortano a rendere pubbliche le telefonate che ha avuto con Nicola Mancino e che sono stare registrate dalla Procura di Palermo.

Non entro nel merito, che riguarda le Procure interessate, i gip che ne autorizzano gli interventi, il Procuratore generale della Cassazione che ha la vigilanza sul corretto esercizio della giurisdizione e detiene l'iniziativa di eventuali procedimenti disciplinari. Osservo soltanto che quei giornali così legittimamente desiderosi di chiarire eventuali misteri e possibili ipotesi di reato scrivono come se sia un fatto ovvio che il Presidente della Repubblica è stato intercettato e che il nastro dell'intercettazione è tuttora esistente e custodito dalla Procura di Palermo. Quei giornali dicono il vero perché l'esistenza delle intercettazioni è stata confermata da uno dei quattro sostituti procuratori palermitani in un'intervista al nostro giornale.

Quando qualche settimana fa Nicola Mancino, la cui utenza era vigilata dalla suddetta Procura, chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione col Presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero. Forse l'agente di polizia giudiziario incaricato dell'operazione non sapeva o aveva dimenticato che da quel momento in poi stava commettendo un gravissimo illecito.

Ma l'illecito divenne ancora più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono pubblicamente che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono nella cassaforte del loro ufficio dove tuttora si trova.

La gravità di questo comportamento sfugge del tutto ai giornali che pungolano il Capo dello Stato senza però dire una sola sillaba sulla grave infrazione compiuta da quella Procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione fino a quando  -   in seguito ad un "impeachment"  -  non sia stato sospeso dalle sue funzioni con sentenza della Corte Costituzionale eretta in Suprema Corte di Giustizia. Si tratta di norme elementari della Costituzione e trovo stupefacente che né i Procuratori interessati, né i giudici che autorizzano i loro interventi, né i magistrati preposti al rispetto della legge, né gli opinionisti esperti in diritto costituzionale abbiamo detto una sola sillaba in proposito con l'unica eccezione dell'ex senatore Giovanni Pellegrino, già presidente della Commissione parlamentare sulle stragi.

(08 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/08/news/ho_parlato_con_draghi_di_balotelli_e_di_germania_eugenio_scalfari-38712664/?ref=HRER2-1
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« Risposta #370 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:07:02 am »

E su Formigoni la Chiesa tace

di Eugenio Scalfari

L'inchiesta appurerà le sue eventuali responsabilità penali. Ma è impressionante il silenzio del Vaticano sulla questione morale che riguarda uno dei  più importanti tra i politici cattolici del nostro Paese

(04 luglio 2012)

Il nocciolo della questione morale è l'occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Le istituzioni sono portatrici dell'interesse generale; i partiti invece sono portatori di una loro visione del bene comune che si contrappone ad altre visioni. Questo nel caso migliore. Nel caso peggiore i partiti possono difendere interessi particolari che si identificano con una classe sociale, con una rete clientelare, con un'oligarchia collocata al vertice del partito e rinnovata soltanto per cooptazione.

Naturalmente analoghe deformazioni possono anche verificarsi in alcune istituzioni; i loro dirigenti anziché l'interesse generale a essi affidato possono coltivare il loro profitto e la loro inamovibilità. Ma per reprimere queste distorsioni esiste la magistratura, quella ordinaria e quella amministrativa, che vigilano sull'eventualità di istituzioni deviate. Un controllo analogo sui partiti è assai più difficile: essi sono infatti libere associazioni alle quali la Costituzione attribuisce il solo compito di "orientare la vita pubblica" senza tuttavia stabilire le modalità della loro organizzazione.

Quando il potere dei partiti li conduce a occupare le istituzioni o le loro propaggini (quello che si chiama il "parastato"), l'inquinamento dell'interesse generale con gli interessi particolari raggiunge il massimo suo livello e questo è per l'appunto il nocciolo della questione morale. Le cronache di questi giorni hanno portato alla ribalta alcuni personaggi emblematici. Uno si chiama Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita (il partito nato dalla fusione tra i democratici-liberali di Rutelli e i popolari di Enzo Bianco); l'altro si chiama Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega.

Lusi si è mangiato 25 milioni di euro e di un'altra cinquantina dice di averli versati a Rutelli e a Bianco che avrebbero dovuto utilizzarli per finalità politiche. Quali non è dato sapere. Belsito afferma di aver gestito analoghe situazioni facendo affluire soldi a Bossi e ai suoi familiari ma nel suo caso le finalità politiche non sono neppure menzionate. Belsito, prima ancor di essere nominato tesoriere della Lega, era stato fatto nominare da Bossi vicepresidente della Fincantieri, una società partecipata dal Tesoro; la nomina di Belsito fu fatta - su pressione di Bossi - da Marco Milanese, "favorito" dall'allora ministro del Tesoro, Giulio Tremonti.

Vengono in mente anche il caso Penati, esempio rilevante di malcostume politico in Lombardia, e il caso Formigoni, ancor più recente e in un certo senso ancor più emblematico dei precedenti. Formigoni è alla guida della Regione lombarda da molti e molti anni; le Regioni hanno tra i loro compiti amministrativi quello più importante e con maggior giro di denaro: la sanità.

La Procura di Milano lo ha messo sotto inchiesta proprio per le sue intese con una serie di personaggi che ruotavano come faccendieri o come dirigenti della Regione attorno alla sanità e all'istituto di Don Verzé (bancarotta fraudolenta), speculando, peculando, corrompendo. Sarebbe, se dimostrato, un caso gigantesco di malaffare al vertice della più importante Regione italiana, ma c'è un'ulteriore aggravante: Formigoni è uno dei leader di Comunione e liberazione ed è anche un "Memores Domini", cioè una persona dedicata a Cristo nella sua vita pubblica e privata, una sorta di "testimone" del Vangelo attraverso una delle Comunità religiose più importanti della Chiesa cattolica.

Domando: che cosa aspettano i membri di Cl e i giovani in particolare che ne costituiscono il nerbo, a sospendere Formigoni da ogni rapporto con la loro Comunità in attesa che l'inchiesta giudiziaria accerti i fatti e decida sull'eventuale rinvio a giudizio? Che cosa aspetta il Vaticano a intervenire? Qui si raffigura una questione morale ancor più vulnerante perché investe non solo la sfera civile e politica ma anche quella religiosa. Purtroppo non è la prima volta nella storia della Chiesa e verosimilmente non sarà l'ultima.

   
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-su-formigoni-la-chiesa-tace/2185597/18
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« Risposta #371 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:16:04 pm »

IL COMMENTO

Da Gramsci a Einaudi per rifondare il paese

di EUGENIO SCALFARI

DAI mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch'essi notevole successo e anch'essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell'Italia con un aumento dell'1 per cento rispetto al giorno precedente.

Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo "spread" del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall'Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno.
Queste le buone notizie. Ma il "downgrading" di Moody's , anche se Piazza degli Affari ha risposto con un'alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il "rieccolo" di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato con estrema attenzione.

Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l'implosione in mille frammenti. Questo risultato l'ha già ottenuto, è bastato l'annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del "Silvio c'è". Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano.

Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Micciché. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell'1 per cento, ma è il "folk" che conta. Il partito non c'era, non c'è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi.

Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell'ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l'ideale. Allora forza con l'aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l'ideale.

Il partito non c'è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale?
Questo è l'obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.

* * *

Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere l'obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo non si discute.
Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c'è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi.
Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza post-elettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l'alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente.

Diciamo: il partito dell'Aquilone al 15-18 per cento, l'Udc all'8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c'è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede.

Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il "Giornale", campane a festa per "Libero" e campane con doppia festa per il "Fatto" che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa.

Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all'opposizione ma un po' spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti.
Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c'è un'alternativa?

* * *

Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali.
Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul "Corriere della Sera" che cos'è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent'anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei "media" compreso e senza eccezioni.
Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest'ultimo punto. L'informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L'eccezione principale è stata "Repubblica" fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l'eccezione era stata "L'Espresso". Nei pochi anni della sua direzione l'eccezione fu anche il "Corriere" diretto da Piero Ottone.

La seconda osservazione riguarda invece la "scivolata" di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata "dannosa per l'Italia perché ha determinato la formazione d'un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d'un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà".

Questa "scivolata" - come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale - è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l'ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d'allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio - come allora lo si chiamava - aveva imboccato da solo la via dell'austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer.

La differenza di ora rispetto all'allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale - direbbe uno chef - al fritto misto.
In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos'altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c'è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché - come Ciampi può testimoniare meglio d'ogni altro - a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell'epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle spalle.

* * *

L'alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l'irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati.
Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull'"Unità" e Alberto Asor Rosa sul "Manifesto". Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un'economia globale; esisterà - se vuole sopravvivere - un'Europa-Stato.

In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell'eguaglianza. Deve togliere le bende che l'hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie.
E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte.

A quel punto si accorgeranno - il centro e la sinistra - che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l'alternativa.
A me ricorda lo slogan "giustizia e libertà"; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle "Lezioni di politica sociale".

Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all'attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale.

Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c'è un'altra strada. Quella è la sola vincente e l'obiettivo è di rifondare l'anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell'uno come nell'altro caso sarà comunque una vittoria.
Berlusconi - ovviamente - con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l'Italia di Santanché che certo non è la nostra.

(14 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/14/news/scalfari_15_luglio-39074568/?ref=HRER1-1
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« Risposta #372 inserito:: Agosto 05, 2012, 07:43:51 pm »

L'EDITORIALE

Nessuno può fermare l'intervento di Draghi

di EUGENIO SCALFARI

LA crisi dell'euro rispecchia il fallimento d'una politica senza prospettive. Al governo tedesco manca il coraggio di andare oltre uno status quo divenuto insostenibile. Questa è la causa del continuo peggioramento della situazione, nell'Eurozona negli ultimi due anni, malgrado ambiziosi programmi di salvataggio e innumerevoli vertici di emergenza.

Questo drastico giudizio l'ha scritto ieri sul nostro giornale Jurgen Habermas, un filosofo, uno storico, un profondo studioso dei pregi e dei difetti della democrazia. Concordo da tempo con la sua opinione e con quella di tutti coloro che hanno voglia di capire quali siano le vere cause che attanagliano l'Unione europea e in particolare i 17 Paesi dell'Eurozona.

Personalmente e nonostante questo giudizio di fondo sono stato ottimista sull'esito finale poiché non pensavo che l'Europa arrivasse al punto di volersi suicidare. E riponevo grande fiducia nella competenza tecnica e nella visione politica di Mario Draghi e nella forza e nell'indipendenza della Banca centrale europea da lui guidata. La conferenza da lui tenuta a Londra alcuni giorni fa aveva confermato queste speranze ed era stata anche positivamente accolta dai mercati. Poi nella mattinata di giovedì scorso si è svolta la riunione del consiglio direttivo della Bce e la conferenza stampa del suo presidente il quale, stando a chi gli ha parlato subito dopo, era felice del risultato.

Sedici membri di quel consiglio, formato dai governatori delle Banche centrali nazionali, avevano manifestato opinioni pienamente in
linea con quelle del presidente ed uno soltanto si era dissociato. Ora sono in corso gli studi necessari ad approntare gli strumenti operativi e su di essi ci sarà il voto definitivo del consiglio.
I mercati giovedì hanno accolto molto negativamente i risultati di quel vertice, ritenendoli ancora una volta insufficienti e interlocutori. Ma il giorno dopo  -  venerdì  -  c'è stata una netta inversione di tendenza sia nelle Borse sia negli spread dell'Italia e della Spagna. Eppure non era accaduto nulla di nuovo in quelle 24 ore che giustificasse le aspettative. Un errore di valutazione giovedì e un ripensamento venerdì?

I mercati  -  si sa  -  sono molto volatili ma la loro "volagerie" è sempre motivata da una causa, un dato nuovo, una più chiara e autentica spiegazione. Ma nulla di simile è accaduto. Allora perché un capovolgimento così improvviso e così vistoso? E che cosa c'è da aspettarsi per domani quando i mercati riapriranno?

* * *

Desidero ricapitolare le conclusioni raggiunte dal consiglio della Bce e riassunte da Draghi.
1  -  Il tasso ufficiale di sconto e il tasso riservato ai depositi delle banche presso la Bce sono rimasti invariati: 0,75 il primo e zero il secondo.
2  -  La Bce entro la fine di agosto interverrà sul mercato secondario per acquistare titoli pubblici a scadenza breve per cifre illimitate. Scadenza breve s'intendono Bot a un anno.
3  -  Si tratta dunque di operazioni tipicamente monetarie che possono tuttavia essere molto utili anche al Tesoro se limiterà le emissioni di Bpt e accorcerà la durata media del debito pubblico. Questa politica di accorciamento della durata media può essere adottata per un paio d'anni senza particolari difficoltà.
4  -  L'intervento della Bce avverrà però soltanto sui titoli pubblici di quei Paesi che lo avranno chiesto al fondo "salva Stati" sottoscrivendo con le autorità dell'Eurozona nuove condizioni ritenute necessarie. Una volta ottenuto l'ok dalle predette autorità la Bce darà inizio agli acquisti limitatamente ai Bot con scadenza breve fino al massimo di 12 mesi.
5  -  La Bce non esclude  -  ma senza impegno  -  altre iniziative come per esempio nuova liquidità alle banche che ne facessero richiesta, allentamento dei collaterali offerti in garanzia e perfino finanziamento diretto di imprese con l'acquisto di obbligazioni da esse opportunamente garantite.
Fin qui il resoconto di Draghi. Come sopra ricordato i mercati giudicarono negativamente sia la limitazione dell'intervento a titoli a scadenza breve sia il rinvio delle operazioni alla fine d'agosto sia, soprattutto, la necessità dell'ok del fondo "salva Stati". Ma il giorno dopo cambiarono idea. Forse sarà opportuno a questo punto qualche spiegazione e qualche osservazione.

La Bce non è una Banca centrale come tutte le altre. In comune ha soltanto l'indipendenza dai governi con un aspetto che ne rafforza l'azione operativa: le altre Banche centrali hanno il governo del loro Paese come interlocutore. La politica fiscale ed economica è esclusivo appannaggio del governo, la Banca centrale ha come compito la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la fissazione del tasso di sconto e la vigilanza sul sistema bancario.

La Bce invece non ha alcun governo come interlocutore e non lo avrà fino a quando non sia nato il nucleo d'un governo europeo con sovranità sul fisco e sulla politica economica degli Stati confederati.
Naturalmente anche la Bce ha dei vincoli operativi che risultano dai Trattati europei e dal suo Statuto. Le sono vietate operazioni di acquisto di titoli pubblici sul mercato primario. Le finalità da perseguire sono: assicurare la liquidità al sistema, evitare che il tasso di inflazione superi i limiti ritenuti appropriati, evitare situazione di deflazione, mantenere la stabilità dei prezzi, fissare il tasso ufficiale di sconto.

Questo è il quadro. Aggiungo  -  l'ho già scritto molte volte e lo ripeto  -  che la Bce è il solo istituto europeo dotato d'una formidabile potenza di fuoco e d'una capacità operativa rapida, naturalmente entro i limiti stabiliti dai Trattati e dallo Statuto.

* * *

Né i Trattati né lo Statuto prevedono che la Bce abbia bisogno d'un ok dal fondo "salva Stati" per adottare interventi che Trattati e Statuto prevedono nelle sue finalità. Per la semplice ragione che Trattati e Statuto enumerano i poteri e i vincoli della Bce da quando fu fondata quattordici anni fa mentre il fondo "salva Stati" non ha più d'un anno di vita.
E allora: non c'è dubbio alcuno che non esistano pericoli d'inflazione, Draghi l'ha detto decine di volte in pubbliche dichiarazioni e i tassi d'inflazione sono certificati dal bollettino della Banca.
Non c'è tuttavia dubbio alcuno che la stabilità dei prezzi e la stessa politica monetaria sono fortemente turbate dalle differenze dei tassi d'interesse derivanti dai diversi rendimenti dei titoli sovrani a scadenze quinquennali e decennali.
Non c'è infine dubbio alcuno che in alcuni Paesi dell'Eurozona è in atto una profonda recessione e una altrettanto marcata deflazione.

Poiché questo stato di cose è certificato dalla stessa Bce e rientra nelle finalità che essa ha l'obbligo di perseguire, non si vede ragione alcuna che essa debba o voglia ottenere l'ok del fondo "salva Stati" per realizzare obiettivi che non menzionano affatto quell'ok.
Ho grandissima stima ed anche affettuosa amicizia per Mario Draghi ma questo non mi impedisce di porgli la domanda: perché l'acquisto di titoli a breve in Spagna e in Italia dev'essere autorizzato? L'Italia in particolare ha varato con l'approvazione del Parlamento la riforma delle pensioni, la riforma del lavoro, la revisione della spesa e tutte le misure previste nella lettera firmata nell'agosto scorso da Trichet e dallo stesso Draghi, ivi compreso il pareggio del bilancio entro il 2013. È sottoposta, l'Italia, come tutti gli Stati dell'Unione alla vigilanza e al monitoraggio della Commissione europea.

È carente  -  questo sì  -  per quanto riguarda la crescita e la produttività, ma questi obiettivi non sono raggiungibili da un singolo Paese dell'Unione se non sono inquadrati e sostenuti da una politica dell'intera comunità europea. Crescere e aumentare la produttività in un sistema rigorista che non prevede crescita, ma soltanto recessione e deflazione, è impensabile. Non c'è bisogno di citare e demonizzare Keynes, basta ricordare Beveridge e Roosevelt ed anche quel brav'uomo di Hoover che precipitò gli Usa e l'Europa nel baratro del '29.

Domenica scorsa avevo chiesto a Draghi: se non ora, quando? Gli ripropongo la domanda leggermente modificata: perché non ora? Aspetta che Monti si sottoponga a ulteriori condizioni ma con quale certezza per il futuro? Certezze, non promesse da marinaio. Se Monti piegherà la testa stimolerà i mercati ad aggredire i titoli pubblici italiani. Che farà in quel caso Draghi? Difenderà il muro quando già sarà crollato?

Può darsi che questo vogliano i falchi della Bundesbank, i liberali tedeschi, la Csu della Baviera, gli hedge funds e le grandi banche americane ed anche Romney e Wall Street e la City. Ma questa è l'anti-Europa cui si aggiunge la rabbia sociale in tutti i Paesi.
Quanto alla Bundesbank, essa fa parte organica della Bce alla quale ha delegato come tutte le altre Banche nazionali la politica monetaria, la stabilità dei prezzi, la lotta contro la deflazione. Può votar contro nel consiglio direttivo ma poi deve comportarsi come la maggioranza avrà deciso. Questa è la regola e spetta a Draghi farla valere.
Lo ripeto, con amicizia e stima: perché non ora?

(05 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #373 inserito:: Agosto 10, 2012, 09:08:53 am »

L'estremo atto d'amore quando Eros ti abbandona

Hegel, il nuovo realismo e il senso della fine. L'opera costruita dal pensatore tedesco cambia il linguaggio della riflessione filosofica.

Senza più necessità di assoluto resta la ricerca di una forma che organizzi e interpreti il disordine

di EUGENIO SCALFARI

FRIEDRICH Hegel era assolutamente certo che la sua opera, disseminata nei molti libri da lui scritti a cominciare dal primo sulla Fenomenologia dello Spirito, avesse chiuso l'epoca dei sistemi filosofici. Ne conosceva tre che l'avevano preceduto: Platone, Aristotele, Kant. Forse anche Descartes ma non era certo che potesse esser definito un sistema vero e proprio.

Poi era comparso lui nel teatro della mente ed aveva costruito un'architettura completa e definitiva, fondata sullo Spirito e sulla dialettica. Altro non si poteva dire che lui non avesse detto salvo negare tutto senza affermare nulla. Hegel non pronunciò mai la parola "nichilismo" e negò risolutamente la dignità filosofica del relativismo. Il suo principio dell'identità tra il vero e il reale era infatti il pilastro sul quale poggiava l'assolutezza del suo sistema e della dialettica che lo permeava.

Naturalmente i filosofi che vennero dopo di lui continuarono a produrre architetture mentali che descrivevano nuovi teatri e nuovi scenari, ma si trattava piuttosto di rimaneggiamenti, classificazioni, emendamenti e restauri ma la struttura rimase l'hegelismo e la triade dialettica combinata con la filosofia della storia, con lo stato etico e con lo Spirito assoluto che fu il suo modo di insediare la metafisica e la trascendenza. Naturalmente il pensiero continuò a produrre idee, concetti, metodi di ricerca, ma il linguaggio cambiò radicalmente. Cambiò con Leopardi, cambiò con Nietzsche. I prodromi di quel mutamento venivano da lontano; erano cominciati con gli "Essais" di Michel de Montaigne e poi con i "Pensieri" di Pascal; ma fu Nietzsche il punto di svolta: un salto formidabile nel linguaggio e quindi anche nel pensiero che lo crea e ne è a sua volta condizionato.

Da allora il pensiero non può che manifestarsi con narrazioni, aforismi, contraddizioni registrate e volutamente non risolte; la preminenza della ragion pratica sulla ragion pura; lo "Zibaldone", ma anche "Zarathustra", la "Genealogia della morale" ed "Ecce Homo" come testi fondamentali.
La gabbia dei sistemi era saltata e così pure quella dei generi. E saltò anche la gerarchia dei valori. Per lunghissimo tempo la cuspide della filosofia era stata la metafisica. Poi diventò la critica, poi le si affiancò l'estetica. Infine, dalla fine del Novecento a questa prima decade del nuovo secolo, la nuova cuspide è diventata l'etica. Ma queste gerarchie non tengono più e la ragione sta nella scomparsa dell'assoluto e nella contemporanea scomparsa dell'antropomorfismo che per millenni aveva dominato la cultura. Nietzsche aveva decapitato la metafisica e sgominato i valori opponendo a ciascuno di essi un controvalore. Da Platone fino ad Hegel tutta la storia del pensiero era stata contestata; erano stati risparmiati soltanto Eraclito, Montaigne, Spinoza.

Si discute ancora se dopo Nietzsche sia possibile filosofare. Certamente è possibile poiché la storia del pensiero è inarrestabile, ma è cominciato dopo di lui un linguaggio del tutto diverso e il filosofo si è trasformato in un artista che inventa come ogni artista le parole e le forme con le quali esprimersi.

***
La scimmia pensante che noi siamo è in grado di pensare se stessa ma resta comunque radicata alla sua animalità e al coacervo dei suoi istinti. Da quando il nostro lontano antenato si eresse sulle zampe posteriori e poté sollevare la testa verso il cielo stellato, quell'evoluzione coincise con una moltiplicazione prodigiosa delle cellule cerebrali, della rete neuronale che le avvolge e le collega e con la formazione di mappe con funzioni specializzate.

Questa specializzazione ebbe un costo tutt'altro che trascurabile; la comparsa della mente riflessiva comportò infatti l'indebolimento o addirittura l'estinzione di alcune facoltà percettive e anche di alcune forme di socialità che consentirono una maggiore autonomia dell'individuo. Le mappe della memoria acquistarono una funzione primaria declinando in modo del tutto nuovo l'approccio al transito del presente, all'irruenza del futuro e al ricordo continuo ma continuamente cangiante del passato. A questo punto sul nostro schermo mentale apparve la figura della morte e la tremenda necessità che la nostra esistenza avesse un senso.

L'uomo non può vivere neppure un istante senza l'invenzione consolatoria d'un senso, senza una cometa che gli indichi un percorso, senza un tema che organizzi l'affollarsi altrimenti disordinato dei pensieri. Così nacquero i valori, così l'individuo acquistò la sua preminenza, così la cultura, cioè la chiave musicale della mente, è diventata l'elemento coesivo delle comunità. E così è nata la più stupefacente invenzione creativa della nostra specie: gli dei e il concetto stesso del divino, anzi del sacro con tutti i suoi misteri che ci spaventano e ci rassicurano. Così infine l'arte ha interpretato la natura, ne ha raccontato i mutamenti, spesso li ha preceduti guidata dalla necessità di costruire a getto continuo ipotesi consolatorie, riempiendo di senso la nostra esistenza di animali.

***
Prima di procedere oltre in questa rivisitazione del nostro divenire mi preme accennare alla cosiddetta rinascita del realismo, della quale ha scritto di recente Maurizio Ferraris e molti altri autori da lui citati. Il realismo non nega (e come potrebbe?) l'importanza delle interpretazioni attraverso le quali si articolano i giudizi individuali alle prese con un fatto o un soggetto.
L'ermeneutica resta  -  scrive Ferraris  -  un canone cognitivo essenziale anche se gli preferisce l'epistemologia. Ma, aggiungono i realisti, la diversità delle interpretazioni si articola comunque sull'asse della ricerca della verità e questo è il canone al quale l'ermeneutica non può comunque sottrarsi e che tutti i pensatori hanno accettato, da Platone fino a Heidegger.

È un'opinione. Pienamente legittima e pienamente contestabile, che deve però superare un ostacolo non da poco: quello che Immanuel Kant chiamò il "noumeno", la cosa in sé e la sua incomunicabilità. Con il noumeno non si comunica dall'esterno ma neppure dall'interno; il noumeno cioè non è conoscibile neppure da se stesso. Leibniz l'aveva chiamato "monade"; poteva comunicare soltanto col Creatore. Ma il Creatore altro non è che un'invenzione degli uomini per dare un senso al loro transito terrestre.

Freud fu molto incerto su questo tema che pose al centro delle sue riflessioni. Oscillò a lungo sulla conoscibilità dell'Es, cioè del mondo dove si agitano gli istinti. Sono conoscibili gli istinti? Chi può entrare nella caverna del profondo da essi abitata? Solo l'Io potrebbe tentarlo, ma che cos'è l'Io se non una creazione artificiale, una sorta di sovrano simbolico che riassume una quantità infinita di organi, di cellule, di gas, di minerali, di liquidi e miliardi di miliardi di atomi e di particelle elementari?

Noi uomini ci chiamiamo Io, la nostra mente ci ha dato questo nome che nasconde sotto il suo mantello un universo in continuo movimento e in continua mutazione. "Tutto si muove, tutto cambia, si muovono perfino le Piramidi d'Egitto e anch'io mi muovo e cambio ad ogni attimo. Io non racconto di me ma racconto un passaggio". Così scriveva il sere di Montaigne nella prima pagina dei suoi "Essais".

Dov'è dunque l'assoluto? Dov'è l'assolutezza della verità? Forse nell'attimo fuggente. Non a caso Faust voleva fermarlo, ma non ci riuscì. L'attimo fuggente si ferma solo con la morte e la morte è la sola verità che si realizza trasformando un corpo vitale in una spoglia e restituendo alla natura quel tanto di energia che chiamiamo vita.

I fatti esistono attraverso le interpretazioni. Le interpretazioni sono formulate dalla mente. La mente è un'efflorescenza immateriale prodotta da un organo composto da miliardi di cellule ed ha con il cervello lo stesso rapporto che uno strumento musicale ha con la musica. Fate che una corda di quello strumento sia stonata e anche la musica sarà stonata o, se volete, diversamente intonata. Ogni esecuzione musicale dello stesso brano e della stessa orchestra è diversa dalle esecuzioni precedenti e da quelle successive. È un "unicum". Perciò ogni verità è relativa.

Perciò, amici realisti, la verità assoluta non esiste. È soltanto un'ipotesi, non so neppure se consolatoria. Freud intitolò il suo libro fondamentale "Il disagio nella civiltà". Qualcuno cambiò il titolo con "Il disagio della civiltà". Ma l'originale è il primo. Il disagio sta nella civiltà. Noi siamo scimmie pensanti e quello è il disagio: il pensiero. L'animale che non pensa opera soltanto mosso da istinti coatti e non evolutivi. Per lui non esiste l'attimo fuggente perché vive una sequela di attimi che si ripetono. L'animale è innocente. Noi no perché noi pensiamo e sappiamo.

***
Il pensiero è un'immensa architettura mentale e ogni mente ha la propria perché non c'è mente che somigli ad un'altra come non c'è foglia dello stesso albero che sia identica alle foglie che le sono spuntate a fianco. Di più: la stessa foglia cambia man mano che il tempo passa.
Confesso qui che una delle canzoni che mi piace spesso riascoltare si chiama "As Time Goes By". Quel titolo traduce in note musicali una realtà, forse la sola sulla cui interpretazione c'è un accordo pressoché unanime. L'alternativa a quella realtà è l'eternità. Infatti l'abbiamo attribuita a Dio. Dio è eterno, gli dei sono eterni. Ma Odisseo, al quale prima Circe e poi Calipso offrirono l'eternità, la rifiutò. Voleva continuare il suo viaggio e l'eternità glielo avrebbe impedito perché l'eterno è sempre identico a se stesso.

Anche Eros è eterno, ma non è un Dio. È un'immensa forza primigenia che nasce nel momento in cui la luce si separa dalle tenebre. Infatti, stando alla mitologia, Eros è figlio della notte.
Non è un Dio, ma molto di più. Infonde il desiderio negli dei e negli uomini. La nostra infatti è una specie desiderante. Che cosa desidera? Desidera desiderare.
Perfino Hegel lo scrisse anche se non pensava a Eros.

Eros è il nome che la mitologia dette all'amore. E l'amore è il pilastro che sorregge la nostra esistenza, alimenta i nostri desideri, scatena il furore delle passioni e nutre la dolce tenerezza degli affetti. Si tinge  -  l'amore  -  di tutti i colori dell'iride.

Eros ama e infonde amore. Narciso è una sua creatura e anche Afrodite e anche Lucifero lo è perché quasi sempre l'amore desidera il potere e il potere esprime una tensione erotica. L'essere ha una curvatura erotica perché l'istinto di sopravvivere non è altro che amore per sé, amore per gli altri e amore per l'altro.

E dunque il senso. Che cosa è mai il senso? Mi pongo da molti anni questa domanda e alla fine sono arrivato ad una conclusione: il senso è anch'esso una forma di amore, uno specchio in cui guardarti, un'anima che ti conforti e che tu conforti, un corpo che vuoi possedere ed anche l'amore per il comando, il fascino della seduzione, la malinconia dell'abbandono. E l'addio alla vita.

Quello è l'estremo atto d'amore, quando Eros ti chiude gli occhi e ti abbandona insieme al tuo ultimo respiro.

(10 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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« Risposta #374 inserito:: Agosto 12, 2012, 04:09:50 pm »

L'EDITORIALE

Le munizioni di Draghi e il decalogo del Pd

di EUGENIO SCALFARI


A LEGGERE i giornali e ad ascoltare i telegiornali di questi ultimi giorni, si ha la sensazione di catastrofi sempre più numerose e incombenti: insolvenza delle imprese, rallentamento drammatico del Pil, disoccupazione alle stelle (e non solo quella giovanile), motore tedesco fermo, motore cinese in visibili difficoltà, Goldman Sachs in fuga dai titoli italiani, deflazione in atto in tutti i Paesi dell'Europa mediterranea, credit-crunch, sistema bancario bloccato. Che cosa vogliamo di più e di peggio? Ci si mette anche la Siria dove è accesa una miccia che rischia di far saltare tutto il Medioriente. Vi basta?
Le fonti di queste notizie sono tutte attendibili: autentiche e ufficiali, non c'è assolutamente nulla di inventato. Solo che andrebbero contestualizzate, ma questo è un esercizio non dirò impossibile ma arduo. Eppure qualcuno dovrebbe farlo. Proviamoci.

La recessione dell'ultimo trimestre per quanto riguarda l'Italia è aumentata dello 0,7 per cento; in termini annui, significa appunto il 2,50 per cento, ma la recessione dell'intero 2012, ormai statisticamente definitiva, è dell'1,9-2 per cento rispetto all'anno precedente, come infatti era previsto da tempo dalle medesime fonti autentiche e ufficiali. Quanto alle previsioni per il futuro, le stesse fonti autentiche ed ufficiali (Istat, Fmi, Bce, Eurostat) prevedono un inizio di ripresa, una luce in fondo al tunnel, che alcuni collocano all'inizio ed altri alla fine del 2013. La disoccupazione è aumentata in modo esponenziale, soprattutto giovanile e soprattutto nel Sud. Il fenomeno purtroppo era largamente previsto fin dall'inizio dell'anno. Va detto che nel frattempo alcuni metodi di accertamento sono cambiati: fino a qualche mese fa i lavoratori in Cassa integrazione non erano conteggiati tra i disoccupati, adesso lo sono secondo alcuni parametri adottati. Il fenomeno comunque è molto preoccupante anche se risulta da molte fonti che sono numerosi i giovani che rifiutano lavori dequalificanti e preferiscono rientrare nelle case di famiglia. In questo modo i risparmi accumulati dalle precedenti generazioni cambiano destinazione e la famiglia diventa una sorta di ammortizzatore privato. Il fatto è spiacevole ma non drammatico se non forse per le sue conseguenze sul tasso demografico il quale, però, era a livello molto basso da almeno trent'anni e, quindi, assai prima della recessione attuale.

Le banche italiane sono in difficoltà? Lo scrive il Trimestrale della Bce ma la Banca d'Italia non sembra dello stesso avviso, il governatore Visco affermò pochi giorni fa nell'intervista a Repubblica che le nostre sono banche particolarmente solide e l'ha ripetuto in dichiarazioni pubbliche di questi giorni. È vero che molte banche, e certo non solo quelle italiane, hanno in portafoglio ingenti quantità di titoli di Stato di vari Paesi, e non tutti di prima scelta, ma la Bce continua a ripetere  -  e va benissimo che lo faccia  -  che l'Eurosistema non verrà mai abbattuto perché imponenti difese esistono per stabilizzarlo e sconfiggere la speculazione. Tutto ciò ci tranquillizza.

Goldman Sachs. Ha ritirato nei mesi scorsi quasi tutti i suoi investimenti in titoli pubblici italiani: lo dicono i suoi stessi dirigenti e quindi è senz'altro vero. Nel frattempo però la Deutsche Bank ha moltiplicato i suoi investimenti in titoli italiani per un ammontare superiore a quello ritirato dalla Goldman. Se queste notizie vengono date contemporaneamente la questione si risolve in una diversa gestione delle due tesorerie. Dice un vecchio proverbio spagnolo: Si no es un problema no te preocupes y si es un problema porque te preocupas?

Si parla invece di insolvibilità d'una parte notevole delle imprese italiane. In quest'allarme c'è purtroppo molto di vero. Il governo è debitore delle aziende fornitrici per almeno 100 miliardi. Aveva deciso di metterne in pagamento subito almeno 30 e il ministro Passera aveva firmato il decreto necessario già il mese scorso, ma si scopre ora che la procedura per ottenere la bancabilità di quei crediti non sarà pronta prima della fine dell'anno.
Questa lentezza è inaccettabile, come pure il rinvio sine die degli altri 70 miliardi ed infine il fatto che i pagamenti di nuove forniture sono previsti nei contratti firmati dalle aziende pubbliche committenti a sei mesi data dalla fatturazione. In questo modo rischia di riformarsi lo stock di debito quand'anche fosse stato interamente liquidato. Tutto questo non va affatto bene, 100 miliardi di pagamenti che venissero effettuati nei prossimi giorni sarebbero, quelli sì, una frustata benefica per tutto il sistema. Passera lo sa meglio di tutti; se fossi in lui minaccerei ed effettuerei le dimissioni dal governo se questa pratica non verrà chiusa entro le prossime settimane.

Ma resta il tema che è il più importante di tutti: Draghi, la Bce, il ruolo che hanno e gli strumenti dei quali dispongono per salvare l'Europa dal default. Perché di questo si tratta. Limitandolo alla Grecia era comunque un rischio; estendere il rischio alla Spagna diventa un pericolo mortale; ma se il contagio si estende all'Italia, allora è l'Europa intera a dover combattere il naufragio. Forse si salverebbe la Germania pagando la sua sopravvivenza con la totale irrilevanza politica.

* * *

La Bce ha un armamentario di strumenti salvo i limiti che il suo Statuto gli pone: non può intervenire alle aste dei titoli sovrani e non può acquistarli sul mercato secondario se non per quantitativi limitati e autorizzati.
L'armamentario consiste in strumenti convenzionali e non convenzionali. Quelli convenzionali rientrano nella politica monetaria affidata alla Banca la quale stabilisce ogni anno la quantità di liquidità di cui l'Eurozona ha bisogno per il suo corretto funzionamento. Quelli non convenzionali sono previsti dallo Statuto in casi particolarmente emergenziali. L'erogazione di prestiti a tre anni all'1 per cento di tasso effettuata nell'inverno scorso dalla Bce alle Banche dell'Eurozona per un totale di mille miliardi rientrava in quella categoria e, checché se ne dica oggi, fu provvidenziale. Oggi forse sarebbe necessaria un'altra analoga operazione, probabilmente accompagnata da incentivi e disincentivi in funzione dell'uso che le banche richiedenti faranno di quella liquidità.
Un altro strumento potrebbe essere l'acquisto di obbligazioni emesse da imprese e un altro ancora nel ripetere l'acquisto di titoli a lunga scadenza sul mercato secondario ma per quantità limitate. Si tratta di strumenti di possibile applicazione ma di scarsa efficacia di fronte ad un attacco massiccio della speculazione.

Ma poi ci sono altri poteri dei quali dispone la Bce, che abbiamo già indicato domenica scorsa. Sostanzialmente sono due: intervento di politica monetaria per impedire l'emergere di isole deflazionistiche e analoghi interventi monetari per impedire turbativa nell'equilibrio dei prezzi e dei tassi di interesse tra i vari Paesi dell'Eurozona.
Non risulta che tali strumenti abbiano bisogno di speciali autorizzazioni. Deve essere solo accertata l'esistenz a dei pericoli dopodiché la Bce può dar seguito agli interventi monetari che consistono nell'acquisto di Bot a 12 mesi di massima scadenza.

Non soffermiamoci ora sull'utilità dell'uso di tali operazioni che avverrebbero per importi illimitati. Diciamo solo che esse avrebbero effetti sicuramente trasmettibili sui titoli a scadenza media e lunga. Ma il punto è un altro: Draghi ha deciso di metter mano a questi strumenti a condizione che il Paese interessato ne faccia richiesta al fondo salva-Stati; solo l'ok di quel fondo consentirà a Draghi di entrare in scena. Questa richiesta è sicuramente una sua facoltà, ma perché la fa? Qualcuno glielo impone? Oppure la fa perché vuole che il governo italiano sia maggiormente controllato dalla Ue? Ma questo non rientra nei compiti della Bce. La Bce deve impedire la formazione di fenomeni deflazionistici e l'instabilità dei prezzi e degli interessi nell'Eurozona. Questi fenomeni vengono certamente da lontano e non si risolvono senza la crescita dell'economia reale, ma la mancata crescita dipende principalmente dalla politica economica dell'Europa, non è un Paese da solo che possa attivarla.

Il presidente della Bce può e anzi deve pungolare l'Europa a muoversi in modo appropriato e Draghi l'ha fatto egregiamente anche se le sue prediche finora sono state inutili; ma non è compito suo sostituirsi all'Europa specie nel regime intergovernativo tuttora vigente. Benissimo lo stimolo, ma nel frattempo intervenga. Se subordina l'intervento all'inchino di Monti al salva-Stati si tratta, a nostro avviso, di una omissione di atto dovuto. Se le cose stanno diversamente sarebbe non solo opportuno ma doveroso che lo dicesse.

* * *

I lettori mi perdoneranno se passo  -  per così dire  -  dal sacro al profano parlando ora dell'intervista rilasciata al Foglio di giovedì scorso da Stefano Fassina al bravo Claudio Cerasa. Per chi non lo sapesse, Fassina è membro della segreteria del Pd e titolare del dipartimento di politiche sociali ed economiche di quel partito.
L'intervista descrive il programma elettorale di quel partito che diventerà in caso di vittoria il programma di un governo di centrosinistra.
È dunque altamente probabile che il contenuto di quell'intervista sia noto e approvato da Bersani visto che l'autore è il suo principale collaboratore.

Tralascio i giudizi su Monti, positivi per quello che ha fatto di buono e negativi per i molti errori e la molta insensibilità sociale. Tralascio anche la dichiarazione che con le prossime elezioni ci sarà comunque la cessazione di governi affidati a tecnostrutture. Vengo al sodo. Fassina espone un decalogo del quale cinque punti sono destinati all'Europa e cinque all'Italia. Eccone una sintesi.

Per l'Europa. "Chiediamo di fare un'unione fiscale nel continente e chiediamo che le leggi di bilancio di ciascun Paese siano autorizzate dal Consiglio Europeo prima di essere approvate e prevedano pesanti sanzioni per gli inadempienti. Va rilasciata al più presto la licenza bancaria al fondo salva-Stati affinché agisca sul mercato primario dei titoli pubblici. E poi Eurobond e Project Bond per mettere in atto una vera politica keynesiana. È necessaria l'unione bancaria e la vigilanza bancaria a livello europeo. L'euro è un progetto irreversibile.
A questo fine è necessario un programma di ristrutturazione dei debiti pubblici e la lotta senza quartiere ai paradisi fiscali".

Per l'Italia. "Ci vuole una patrimoniale a bassa intensità. Abolizione del Titolo Quinto della Costituzione riducendo il Federalismo e aumentando i poteri del governo centrale per quanto riguarda le opere pubbliche e le politiche sociali. Bisogna rivoluzionare la pubblica amministrazione. Bisogna salvaguardare l'italianità delle imprese strategiche. Proseguire senza tregua la lotta all'evasione e ridistribuire il carico fiscale in favore dei lavoratori e delle imprese". Naturalmente Fassina pensa che il protagonista politico italiano sia il Pd e i suoi alleati del centrosinistra e in Europa tutte le forze socialiste e democratiche (per ora al governo soltanto in Francia).
Che dire? per quanto riguarda l'Europa il programma è esattamente quello della Merkel, salvo che lei vorrebbe esserne la promotrice e non Bersani. Per l'Italia è, grosso modo, il programma di Monti rinverdito con una forte dose di sensibilità sociale. Per la politica monetaria sembra ricopiata da quella di Draghi. Aggiungo: personalmente constato che Fassina ha adottato, direi riga per riga, le esortazioni e i suggerimenti più volte da me indicati in questi mesi. La cosa, dopo molte critiche rivoltemi dallo stesso Fassina, mi rallegra all'insegna del motto "meglio tardi che mai".

Una sola osservazione: non credo che l'esponente del Pd possegga una sua bacchetta magica. E pertanto: lo Stato europeo da lui (e dalla Merkel) propugnato lo avremo tra cinque o dieci anni; l'unione bancaria tra un paio d'anni; la riforma dell'amministrazione italiana richiederà a dir poco una generazione. Nel frattempo e cioè nell'immediato che cosa farà il governo Bersani? Chiamerà Monti per proseguire tenendo conto del decalogo di Fassina? Casini ne sarà felice e anche noi.
 

(12 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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