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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318350 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Dicembre 27, 2010, 12:40:25 pm »

L'EDITORIALE

I tre voti che pesano sul futuro del paese

di EUGENIO SCALFARI


INIZIO questo articolo con un'ipotesi. So bene che l'ipotesi configura una realtà virtuale che spesso non coincide con quella reale ma ci aiuta spesso a capire meglio quello che è accaduto.

Facciamo dunque l'ipotesi che il 14 dicembre scorso il governo fosse stato battuto, sia pure per un solo voto, e che Berlusconi si fosse dimesso chiedendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere.

Il Presidente - l'ha detto pochi giorni dopo parlando alle Alte Cariche dello Stato - è in linea di principio contrario allo scioglimento anticipato di una legislatura; perciò, prima di addivenire alla richiesta del premier dimissionario, avrebbe verificato l'esistenza di una maggioranza alternativa.

Quella maggioranza - contraria allo scioglimento anticipato ma tuttavia incapace di esprimere un governo coeso e di indicarne il premier - c'era come tuttora presumibilmente c'è. Che cosa avrebbe fatto Giorgio Napolitano di fronte ad un Parlamento che non vuole essere mandato a casa ma non riesce a indicare un nuovo premier?

Forse avrebbe risolto il problema affidando l'incarico di formare un governo ad un uomo al di fuori dei partiti, con una forte caratura economica e/o costituzionale, in grado di portare avanti la legislatura rafforzando e restaurando le istituzioni e riconciliando con la politica quella moltitudine di cittadini che è profondamente delusa dall'imbarbarimento istituzionale in atto.

Personaggi adeguati da un tale incarico ce ne sono in abbondanza, a cominciare
dal governatore della Banca d'Italia, dal presidente del Consiglio di Stato, dal presidente della Corte Costituzionale, da qualche "emerito" di quella medesima istituzione. Per salvare la continuità politica, il Capo dello Stato avrebbe potuto perfino affidare l'incarico ad un "eminente" della maggioranza berlusconiana, del tipo di Gianni Letta, di Pisanu, di Tremonti.

Un governo formato con questi criteri avrebbe probabilmente riscosso la fiducia del Parlamento anche perché, al di là delle appartenenze di partito, un'elevata percentuale di deputati e di senatori non ha nessuna voglia di ritornare ai propri lavori domestici e - in aggiunta - un'elevata percentuale di cittadini elettori non ha alcun desiderio di tornare anticipatamente al voto. Un'ultima considerazione: un voto fatto in questa fase e con la legge elettorale vigente darebbe probabilmente una maggioranza di un tipo alla Camera e una maggioranza di una diversa tipologia politica al Senato. Si avrebbe perciò una nuova legislatura con due Camere diversamente orientate tra di loro, e quindi con una situazione travagliata come e più di quella attuale.

Aggiungo dal canto mio che una campagna elettorale nella presente congiuntura economica non farebbe che esasperare lo scontro sociale già largamente in atto e rappresenterebbe una ghiotta occasione per incoraggiare la speculazione ad attaccare il nostro debito sovrano sui mercati finanziari. Questa del resto è anche l'opinione manifestata pubblicamente e più volte dal Capo dello Stato.

* * *

Tutto il ragionamento fin qui svolto si basa su ipotesi logiche che non prevedono alcuna forzatura costituzionale. Infatti, per quanto riguarda le prerogative del Quirinale, la Corte è chiarissima in proposito: il Capo dello Stato, sentiti i presidenti delle Camere e i gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri. La medesima procedura è prevista per lo scioglimento delle Camere.

È perciò probabile che le cose sarebbero andate così, con largo vantaggio per le istituzioni, per i cittadini e quindi per il paese. Ma le ipotesi non sempre si verificano. Nel nostro caso, il 14 dicembre il premier ha avuto un'ampia maggioranza al Senato e la fiducia della Camera per tre voti di scarto. Le modalità di acquisizione di quei tre voti sono note ma ufficialmente non contestabili, salvo improbabili esiti dell'inchiesta giudiziaria in corso.

Il governo è quindi in carica nella piena legalità costituzionale e può benissimo proporsi di andare avanti fino al termine naturale della legislatura, varando un programma di riforme sociali, economiche e istituzionali. Non l'ha fatto prima, quando disponeva di una vasta maggioranza in entrambe le Camere. Potrà farlo ora con tre voti o magari con dieci di sostegno?

Berlusconi e soprattutto Bossi si sono dati la metà di gennaio come termine ultimo. Se a quella data la maggioranza si sarà rafforzata quantitativamente e politicamente, con un accordo con Casini, andrà avanti. In caso contrario Berlusconi andrà al Quirinale a dimettersi chiedendo le elezioni anticipate.
Che cosa farà a quel punto il Capo dello Stato?

* * *

I presupposti della sua azione non sono diversi da quelli precedenti al 14 dicembre scorso. Dovrà perciò verificare se in Parlamento emergerà una maggioranza contraria allo scioglimento oppure no.

In quest'ultimo caso la continuità da lui auspicata sarà interrotta e i pericoli per la stabilità economica si riproporranno tali e quali. Avremo dunque perso inutilmente un mese e ci ritroveremo nella stessa situazione dopo aver offerto purtroppo ai cittadini e alla pubblica opinione internazionale lo spettacolo del peggior trasformismo che si sia mai verificato in un paese democraticamente maturo dell'Occidente.

* * *

Avremo dunque la risposta tra tre settimane e ci sarà anche per quella data la sentenza della Corte sul "legittimo impedimento", che non è un elemento indifferente rispetto alle varie ipotesi sopra indicate.

Mi domando, e molti si domandano con me, quale sarà l'atteggiamento del centrosinistra nell'ipotesi di elezioni anticipate, oppure in quella di un accordo Berlusconi-Casini-Fini. Vediamo.

Accordo di Casini-Fini con Berlusconi: la legislatura procede fino al 2013 e tenta di fare le riforme tante volte promesse e mai effettuate: nuova legge elettorale, Senato federale, diminuzione del numero dei parlamentari, federalismo fiscale, riforma della giustizia per rendere il processo civile e quello penali più rapidi e il ruolo del Pubblico ministero più simile a quello di un avvocato di accusa. Infine, riforma fiscale che diminuisca il peso delle imposte sul reddito e introduca un prelievo sul patrimonio al di sopra di una certa soglia.

Il gruppo Casini-Fini cercherà di modellare quelle riforme nella prospettiva d'una nuova destra, "repubblicana", che si troverà di volta in volta in contrasto con il populismo berlusconiano o con la Lega o con tutti e due. Se Casini-Fini si appiattissero sui desideri del premier, non si capirebbe per quale motivo sia stata montata questa cagnara da quattro mesi a questa parte.

Sarà dunque un processo molto travagliato, quello sulle riforme, nel corso del quale il Partito democratico potrà essere determinante per far pendere la bilancia dall'uno o dall'altro lato. Ma proprio per questo travaglio è molto probabile che Berlusconi e Bossi manderanno al più presto tutto all'aria.

Se invece il percorso delle riforme proseguisse e con esso la legislatura, verrà anche il momento della scadenza del mandato di Bersani da segretario del Pd e ci sarà un nuovo congresso e nuove primarie di partito. Bersani presumibilmente si ricandiderà ed avrà quasi certamente Veltroni come concorrente. Di Pietro e Vendola saranno fuori da questa tenzone che riguarda soltanto il Pd. Se invece a gennaio Berlusconi e Bossi, non riuscendo a rafforzare la maggioranza, decideranno per la crisi e se Napolitano dovesse accettare lo scioglimento delle Camere, si verificherebbe l'ipotesi peggiore per il Pd, che si troverebbe alle prese con il Terzo Polo sulla sua destra e con Vendola e Di Pietro sulla sua sinistra.

Andare alle elezioni da solo significherà per il Pd esporsi dunque a perder voti sull'uno e sull'altro versante. Puntare su un'alleanza con Casini significherà un salasso a sinistra; puntare sull'alleanza con Vendola significherà affrontare le primarie di coalizione che vedranno molteplici candidati ai nastri di partenza. Non è immaginario pensare che oltre a Bersani e Vendola ci saranno anche Veltroni, probabilmente Bindi e D'Alema, per non parlare di Di Pietro. Una situazione che rischia di polverizzare l'intera sinistra.

Questo è il panorama che occorre evitare a tutti i costi, sperando nella saggezza e nell'umiltà dei vari interlocutori e in un accordo di tutte le opposizioni.

Se debbo dire la mia, questa dell'accordo generale mi sembra un'ipotesi cosiddetta di terzo grado, teoricamente la sola valida, praticamente impossibile da realizzare.

Come si vede, quei tre voti del 14 dicembre rischiano di avere come risultato la scomparsa della sinistra italiana e di consegnare il paese per altri dieci anni al berlusconismo populista, autoritario e leghista. Con la speculazione che spennerà il nostro debito sovrano a suo piacimento.

Chi volesse trovare un solo colpevole non riuscirebbe, lo sono tutti, nessuno escluso.
 

(27 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/27/news/i_tre_voti_che_pesano_sul_futuro_del_paese-10605857/?ref=HRER1-1
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« Risposta #256 inserito:: Gennaio 08, 2011, 04:28:38 pm »

Fenomenologia di Alfano

di Eugenio Scalfari

Astuto come una volpe, ma addomesticato a riconoscere la voce del padrone.

Interpreta la giustizia come un Valore sull'asse tra Popolo e leader.

Ed è dunque l'erede perfetto del premier

(29 dicembre 2010)

Il vero uomo del giorno, l'uomo nuovo cui si apre un luminoso domani (ma anche il suo oggi non è affatto disprezzabile) sapete chi è? Ve lo dico per esclusione. Non è più Fini, non è ancora Casini, non è Tremonti, non è Vendola e tantomeno Di Pietro, non è Gianni Letta che sarà sempre e per tutta la vita un grande "consigliori" e ne è pago. E non sono né la Carfagna né la Meloni.

Eccolo. Sorriso attraente, cipiglio che esprime intransigenza. Stempiato quanto basta per far emergere il pensiero. Lingua sciolta anche se un po' ripetitiva. Capacità di tradurre gli slogan ideologici in concetti. Non viceversa. Capacità di usare parole decisive per esprimere significati opposti a quelli elencati nei vocabolari. In queste capacità sta la sua grandezza. A giusta ragione.

Stiamo parlando di Angelino Alfano, nato il 31 ottobre del 1970 ad Agrigento, la madre insegnante elementare, il padre insegnante alle medie. Segno astrologico Scorpione. Lo scorpione è testardo e secerne un liquido velenoso che procura la morte immediata a chi ne viene inoculato. Punge chiunque gli si avvicini, uomo o animale. Insomma, lo scorpione è una macchina da guerra e per questo è temuto. Angelino però è un tipo particolare di scorpione, lì sta la sua forza: infatti, quando lo giudica opportuno, rinuncia a pungere, spiana il cipiglio nel sorriso, riservandosi di passare all'attacco in un momento più propizio.

Non conosco quale sia il suo ascendente oroscopale, ma penso alla Bilancia o a qualche altro segno moderatore. Angelino racconta che suo padre, risparmiando fino all'osso, riuscì a mantenerlo agli studi e lo mandò a fare l'università a Milano. Da Agrigento alla capitale morale fu un bel salto quello di Alfano junior. Da ragazzo aveva partecipato a qualche manifestazione di protesta studentesca, allora era l'epoca della Pantera; ma a Milano non fece niente di simile. A Milano Angelino studiava e aiutava la famiglia mandando in Sicilia metà della sua borsa di studio: 350 euro al mese. Con altrettanto viveva lui e certo non deve essere stata una gioventù dorata. Però, accidenti come l'hanno forgiato quelle ristrettezze!

Moralmente integerrimo, astuto come la volpe, addomesticato a riconoscere la voce del padrone, mano di ferro in guanto di ferro e infine scorpione per la puntura letale e finale. La cultura di Alfano junior ricorda quella di Michela Brambilla. Lui ragiona muovendosi sull'asse "Popolo sovrano-Leader". Il primo vota il secondo e da quel momento la sovranità passa interamente al Leader, al quale tutti gli altri poteri sono subordinati. Alfano junior è fermamente convinto che lo Stato di diritto sia esattamente questo. Ogni diversa interpretazione ed ogni diversa prassi rappresentano un insulto alla buonanima di Montesquieu e soprattutto una violazione del testo costituzionale.

Lui intanto fa il ministro della Giustizia. Come tale deve difendere i cittadini dalle sopraffazioni dei violenti e dei presunti tali. L'arresto preventivo dei facinorosi - invocato dal capogruppo del Pdl, senatore Gasparri - lo trova completamente consenziente; infatti ha inviato subito gli ispettori del suo ministero ad esaminare le carte processuali della Procura di Roma che aveva scarcerato una trentina di studenti fermati dalla Polizia il 14 dicembre a Roma.

Il capo dei suoi ispettori gli aveva fatto presente che non c'era materia di ispezione alcuna visto che la custodia cautelare, salvo casi di particolare gravità, è un potere discrezionale del pubblico ministero. Ma Alfano junior si rifà al principio "Popolo sovrano-Leader" e vi aggiunge per completezza il successivo trasferimento di sovranità dal Leader al ministro della Giustizia. L'ispezione nel caso specifico potrebbe risultare intimidatoria. Appunto: l'effetto politico e pedagogico che Angelino si propone è proprio questo: correggere i magistrati d'accusa affinché essi correggano gli studenti protestatari.

Alfano junior ha la risposta pronta per chi gli domanda perché mai la trasmissione della sovranità dal Popolo al Leader abbia come ulteriore tappa la trasmissione al ministro della Giustizia. Perché per esempio non a quello dell'Interno? Maroni ci terrebbe. Ma Alfano ha le idee chiarissime: la giustizia è un principio che pervade la vita pubblica nella sua interezza. Ci deve essere giustizia in ogni attività, dai tribunali alla scuola, alle fabbriche, all'ordine pubblico, ai trasporti, all'economia, alla finanza. La giustizia non è un potere, è un Valore. Quindi il Popolo sovrano-il Leader-il Ministro della Giustizia. Questa è l'architettura, questo è lo Stato di diritto. Tutto il resto è subordinato. Che cosa gli volete opporre a uno che ragiona così?

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/fenomenologia-di-alfano/2141409/18
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« Risposta #257 inserito:: Gennaio 09, 2011, 04:56:03 pm »

IL COMMENTO

E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella

di EUGENIO SCALFARI

Un secolo e mezzo è trascorso da quando nel cortile di Palazzo Carignano a Torino il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato italiano. L'anniversario si presta ad alcune riflessioni, rese ancor più attuali e necessarie dopo il discorso di Giorgio Napolitano a Reggio Emilia, luogo storico del Risorgimento, perché fu lì che la bandiera tricolore sventolò per la prima volta, portatavi dall'armata napoleonica che aveva fondato la repubblica Cisalpina su un territorio strappato all'Austria e ai Savoia, più o meno corrispondente a quello che la Lega usa chiamare Padania.

Riflettere sulle condizioni dell'Italia dopo 150 anni di storia unitaria, dei quali 85 di monarchia e 65 di repubblica, si presta anche ad un consuntivo che riguarda al tempo stesso le condizioni economiche e politiche del paese e i suoi valori culturali e morali.

Il tema consentirebbe molte citazioni, poiché i protagonisti sono tanti e ancor più quelli che hanno studiato quelle vicende, ma prometto di non farne alcuna e di dire ciò che penso con parole mie salvo una di Ingeborg Bachmann, che traggo dal bel libro di Marcello Fedele Né uniti né divisi. Eccola: "In ogni testa c'è un mondo e ci sono delle aspirazioni che escludono qualsiasi altro mondo e qualsiasi altra aspirazione. Eppure noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

Si direbbe che il nostro presidente della Repubblica abbia avuto presenti quelle parole quando ha
ammonito che trasformare uno Stato centralizzato in uno Stato delle autonomie è un'impresa e una sfida di grande rilievo che ha bisogno della collaborazione di tutti. Ma osservando quanto accade sotto i nostri occhi si direbbe anche che delle due proposizioni della Bachmann sopracitate, la seconda sia stata del tutto cancellata dallo spirito della nazione, mentre la prima domina la scena della politica, dell'economia e del sociale.

Si direbbe cioè che si stia svolgendo da anni una lotta di tutti contro tutti per la conquista dell'egemonia e del potere, il suo rafforzamento e la sua estensione, senza più alcun disegno del bene comune. Una lotta che esclude e non include, nella quale ciascuno dei protagonisti si sente depositario della verità e della legalità; ciascuno le plasma a proprio piacimento e se ne vale come armi contundenti; ciascuno si esprime in termini ultimativi chiedendo una resa o la cancellazione degli altri.

Quando un Paese in tempi di tempesta dà questo spettacolo di sé, vuol dire che siamo arrivati ad un punto di svolta estremamente rischioso. Ho usato fin qui il verbo al condizionale, sembrerebbe, si direbbe, ma si tratta di un'inutile cautela: la situazione di pericolo e di fragilità che stiamo attraversando richiede il verbo all'indicativo: il pericolo c'è, è evidente e palpabile.

Quando un terzo della generazione giovane è escluso dal lavoro; quando le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sono arrivate a livelli intollerabili; quando la distanza tra Nord e Sud raggiunge livelli del 40-50 per cento per quanto riguarda l'occupazione, il reddito, le infrastrutture, la criminalità, gli sprechi amministrativi, l'assistenza sanitaria, l'efficienza educativa, l'economia sommersa; quando tutto questo avviene e si aggrava giorno dopo giorno senza che la classe dirigente se ne dia carico e vi ponga riparo, ebbene, occorre che l'allarme sia lanciato affinché gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani di buona volontà si uniscano scrollando dalle loro spalle indifferenza e delusione e prendano in mano il proprio destino e quello della comunità, parlino tra loro e si ascoltino. Per risalire la china in cui siamo precipitati, "abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

* * *

Il Risorgimento, quel tratto di storia patria che ebbe come prologo la repubblica napoletana del 1799, continuò con i moti carbonari del 1821, con la fondazione della Giovane Italia del '30, con i moti del '31, con le Cinque Giornate milanesi del '48 e poi con la prima guerra d'Indipendenza, la repubblica di Roma del '49, l'insurrezione di Venezia, la sconfitta di Novara, la guerra del '59 in alleanza con la Francia, la spedizione garibaldina del '60 e infine la proclamazione dello Stato unitario nel marzo del '61, fu un esempio della collaborazione degli uni con gli altri affinché qualcosa andasse a buon fine.

Le aspirazioni erano diverse, come è normale che sia. I Savoia e Cavour volevano un regno del nord Italia, i Lombardi volevano l'autonomia e l'indipendenza, Carlo Cattaneo voleva il federalismo dei municipi e gli Stati Uniti d'Italia basato su tre o quattro entità territoriali confederate, Mazzini voleva la Repubblica unitaria in una Europa democratica e pacifica, Garibaldi voleva la rivoluzione popolare, l'indipendenza e l'unità conquistate dal basso, la fratellanza e un'idea di socialismo, ma voleva soprattutto l'Italia unita, fosse pure sotto Vittorio Emanuele.

Cavour era probabilmente il solo ad avere una visione d'insieme e gli strumenti per guidare pragmaticamente quel movimento i cui molteplici fili passavano tutti tra le sue mani. Aveva una diplomazia, un esercito, denaro, spie e una passione. Usò spregiudicatamente Garibaldi, pose il problema italiano nel consesso europeo radunato a Plombiers, usò la contessa di Castiglione e Costantino Nigra per stipulare l'alleanza con Napoleone III, volle il matrimonio tra la figlia del re e Girolamo Bonaparte, mandò i bersaglieri in Crimea. Cercò perfino di utilizzare Mazzini e Cattaneo. Cercò di bloccare l'impresa dei Mille ritenendola prematura, ma quando le Camicie Rosse salparono da Quarto fece di tutto perché la squadra navale inglese ne favorisse l'arrivo a Marsala. Alla fine mise in marcia l'esercito verso il Sud e lo fece seguire dai plebisciti di annessione.

Certo, fu un'annessione cui seguì l'atroce guerra civile del brigantaggio e del borbonismo cattolico. Atroce da ambo le parti, con un solco sanguinoso che inquinò la raggiunta unità per molti anni, aggravato da un centralismo sul modello piemontese, dalle tasse e dalla leva militare. Dall'ostilità del Vaticano e del mondo cattolico e dall'assenza delle "plebi" contadine.

La questione meridionale fu posta all'attenzione del Paese pochi anni dopo, da Giustino Fortunato e poi da Nitti cui si affiancò la prima leva del meridionalismo con la grande inchiesta sul Mezzogiorno di Franchetti.

Era un punto di vista documentato, ma difficilmente avrebbe potuto trasformarsi in una questione nazionale: anche il Nord aveva necessità e urgenze di modernizzazione e le fece valere con una forza direttamente proporzionale alle industrie e alle banche che ne rappresentavano il tessuto produttivo e finanziario. I confini territoriali e la grande pianura solcata dal Po e dai suoi affluenti fecero il resto, un polo di attrazione che trasferì dal Sud al Nord risorse, talenti e maggior attenzione dei governi.

Sarebbe fazioso tacere che un movimento di capitali dal Nord al Sud vi fu: la rete dei trasporti, la rete dell'elettricità, capitali e lavori pubblici: lo Stato non lesinò, ma il grosso di quelle risorse fu intercettato dalle clientele meridionali, in gran parte latifondiste e agrarie. L'alleanza politica fu tra la classe dirigente settentrionale e le clientele del Sud. Le plebi - come allora le chiamavano - presero la via della grande emigrazione verso la Francia e verso le Americhe.

* * *

Io credo che il dibattito revisionista sul Risorgimento, che fu aperto a sinistra da Gramsci e dalla parte cattolica da Sturzo, sia stato utile e culturalmente fecondo. I continuatori furono liberali e radicali: Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni.

Non altrettanto fecondo è stato il revisionismo più recente, che si trasformò in una denigrazione sistematica del moto risorgimentale con una venatura abbastanza evidente anche se dissimulata di nordismo. Fece da apripista al leghismo becero che ormai è un potere in grado di condizionare l'intero assetto politico del paese.

Il leghismo dalle mani pulite rappresenta un fenomeno corruttivo molto profondo: tollera, anzi puntella il potere delle "cricche" con uno scambio politico ormai chiarissimo: fate i vostri comodi nel Centro, nel Sud, nelle istituzioni ma in contropartita riconoscete che il Nord è cosa nostra, il federalismo siamo noi a gestirlo e a farne le leggi e i decreti di attuazione.

Così un partito che vale il 12 per cento in termini nazionali ma il 30 per cento nella Padania, è diventato non solo il possessore della golden share nella politica nazionale, ma la forza che sta costruendo un federalismo secessionista con la complice benevolenza del berlusconismo, tanto più eminente quantitativamente e tanto più fragile come potere forte. C'è da discutere se la Lega sia costola del berlusconismo o viceversa. Propendo per il viceversa: il berlusconismo è nordista non meno della Lega, ma da Torino a Treviso, con la sola eccezione del potere aggregato di Formigoni, è Bossi che governa. Se continua così, Berlusconi diventerà il proconsole di Bossi nell'Italia centromeridionale. Le premesse ci sono tutte e Tremonti ne è consapevole e fa parte del gioco.

* * *

Dice Napolitano che, nonostante queste torsioni costituzionali che deformano il volto della democrazia, il moto risorgimentale sboccato nell'Unità ha di gran lunga migliorato le condizioni non solo del Nord ma anche del Sud. È certamente così in termini assoluti, ma non lo è in termini relativi e infatti è lo stesso Presidente a segnalare - da qualche tempo con accresciuto vigore - quelle criticità. In specie se riguardano i giovani. Se la media nazionale della disoccupazione giovanile segna un pauroso 30 per cento, nel Sud tocca il 40 con punte del 50. Un abisso, nel quale la gioventù meridionale rischia di scomparire diventando un esercito di disperati abbandonato a se stessi, senza futuro e senza presente. La coesione sociale è ormai una lastra di vetro che può infrangersi con conseguenze letali per tutto il Paese.

Proprio mentre si celebra l'unità d'Italia, la separazione tra le istituzioni e il popolo ha superato i livelli di guardia e non è un caso se la sola istituzione che raccoglie il massimo consenso sia proprio quella che ha sede al Quirinale: un'istituzione che però ha il solo potere della parola e della testimonianza, così come si era già visto quando toccò a Ciampi lo stesso compito.

Il Risorgimento può essere interpretato in molti modi, ma ce n'è uno che sottolinea la continuità ideale tra l'unità del paese e i valori culturali della modernità ed ha la sua icona nella bandiera dei tre colori. I tre colori e i tre principi: libertà eguaglianza fraternità.

La rinuncia a quei tre colori e a quei tre principi significherebbe la fine dell'unità perché su di essi si basa il patto costituzionale. Il federalismo agganciato a quei tre principi è un avanzamento; senza di essi ed anche senza uno solo di essi il federalismo disgrega il patto costituzionale, disgrega la convivenza, disgrega l'economia e la coesione sociale.

Facciamo voti perché ciò non avvenga, ma l'esito dipende da ciascuno di noi e dalla sua volontà di battersi affinché quei tre colori e i principi che rappresentano non siano cancellati dalla nostra storia.

(09 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/09/news/bandiera_tre_colori-10996813/?ref=HREC1-2
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« Risposta #258 inserito:: Gennaio 17, 2011, 11:34:06 am »

L'EDITORIALE

La classe operaia deve tornare in Paradiso

di EUGENIO SCALFARI

ANZITUTTO l'aritmetica. A Mirafiori ha votato il 94 per cento dei dipendenti, 5.136, tra i quali 441 impiegati, capireparto e capisquadra. Le tute blu, cioè gli operai veri e propri, erano dunque 4.660 in cifra tonda. I "sì" all'accordo sono stati il 54 per cento e i "no" il 46 per cento.

Al netto del voto impiegatizio i "sì" hanno vinto per 9 voti, due dei quali contestati. Marchionne aveva dichiarato che per andare avanti doveva avere almeno il 51 per cento. Con il voto dei colletti bianchi lo ha avuto, ma senza quel voto no: ha avuto il 50 più nove voti (o sette), per arrivare al 51 gli mancano 41 voti.

Questa è l'aritmetica, che ovviamente non dice tutto ma dice già abbastanza. Dice cioè che la situazione di Mirafiori che esce da questa votazione sarà assai difficilmente governabile tenendo soprattutto presente che una parte notevole dei "sì" ha votato di assai malavoglia e molti l'hanno esplicitamente dichiarato.
Ed ora una prima domanda alla quale, oltre che Marchionne, dovrebbero rispondere i dirigenti Cisl, Uil e gli altri firmatari dell'accordo: è possibile che in queste condizioni il 49,91 per cento degli operai di Mirafiori sia privo di rappresentanza?

Sulla base di un referendum del 1995 infatti  -  ribadito nell'accordo Fiat-Cisl-Uil ed altri  -  la rappresentanza è riservata soltanto ai sindacati che hanno firmato l'accordo, ma i loro delegati non saranno eletti dai dipendenti, saranno "nominati"
dai sindacati firmatari.
Avete capito bene? Nominati. Esattamente come avviene per i deputati nominati dai partiti con la legge elettorale chiamata "porcellum", porcheria dal suo autore, il leghista Calderoli, circondata ormai da una generale e bipartisan disistima.

La "porcheria" della rappresentanza a Mirafiori che esclude anziché includere, è in regola, lo ripeto, con quanto stabilito dalle intese sindacali vigenti, ma è clamorosamente contraria al buonsenso e al ruolo di una rappresentanza effettiva. Dequalifica metà dei dipendenti al ruolo di "anime morte" reso celebre da Gogol e prassi costante nelle campagne della Russia zarista fino alla rivoluzione del 1905. Si può adottare nella Fiat del 2011? Ancora qualche numero. I lavoratori di Mirafiori iscritti alla Fiom sono seicento; quelli non iscritti a nessun sindacato sono più di duemila.

Sommandoli insieme, i lavoratori che non avranno rappresentanza saranno a dir poco 2.600 su un totale di cinquemila. Se ne deduce sulla base dei numeri che la maggioranza largamente assoluta degli operai di Mirafiori non sarà rappresentata.
Bonanni e Angeletti ritengono che una situazione del genere sia accettabile da veri sindacalisti, senza degradarli oggettivamente a sindacalisti "gialli"?

* * *

Ho scritto ripetutamente (e ancora il due gennaio) che il problema sollevato da Marchionne non è peregrino e non riguarda soltanto la Fiat.
L'economia globale ha reso possibile la formidabile emersione economica di interi "continenti": Cina, India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Erano paesi addormentati nella loro miseria che ora irrompono terremotando l'intero pianeta e provocando un trasferimento di benessere dal vecchio mondo opulento verso un mondo nuovo di imprenditori, finanzieri, consumatori e lavoratori.

Il caso Marchionne-Fiat ha messo l'economia italiana di fronte a questa realtà, ma in ordine di tempo è l'ultimo (per ora) non il primo; era stato preceduto da centinaia di altri analoghi casi riguardanti imprese di dimensioni medio-piccole messe fuori mercato dall'economia globale. Ne cito due tra le più note: Merloni e Omsa, ma l'elenco ne comprende (e ne comprenderà) moltissime altre. Il trasferimento di benessere dall'Occidente ricco ai paesi emergenti è un dato di fatto che nessuno potrà bloccare. Un altro dato di fatto riguarda gli assetti sociali e la loro auspicabile evoluzione nei paesi emergenti. Non c'è dubbio che col tempo i diritti dei lavoratori, le loro condizioni e i loro salari tenderanno ad allinearsi a quelli occidentali, ma questa evoluzione sociale richiederà un tempo molto più lungo dell'involuzione economica in atto nell'Occidente. È in corso nei paesi emergenti quello che l'economia classica definì il "risparmio forzato" e cioè l'accumulazione del capitale attraverso lo sfruttamento del lavoro.

Pensare quindi di livellare fin d'ora verso l'alto i diritti e le retribuzioni dei lavoratori di quei paesi è pura illusione. Avverrà viceversa (sta avvenendo) il contrario: sono le condizioni di lavoro in Occidente che scenderanno.
Un'alternativa c'è: il soccorso dello Stato alle aziende in difficoltà. E chiaro che imboccare questa strada porta verso un sistema di economia interamente sovvenzionata. È pensabile un'ipotesi di questo genere? Certamente no.
Allora qual è la strada da seguire? L'ipotesi Marchionne è correggibile senza imboccare quella della sovvenzione alle aziende come sistema?

* * *

Sì, l'ipotesi Marchionne è correggibile anzi, deve essere corretta al più presto perché, così come si è delineata a Pomigliano e a Mirafiori, non è accettabile. Non solo perché moralmente ingiusta ma perché non è funzionalmente percorribile. Ezio Mauro, nel suo articolo di venerdì scorso su questo stesso argomento, ha segnalato che  -  a detta dello stesso Marchionne  -  il costo del lavoro dell'automobile grava per il 7 per cento sul costo totale.
È evidente a tutti che non si risolve una crisi di queste proporzioni riducendo quel 7 per cento ed è altrettanto evidente che i rappresentanti dei lavoratori hanno il diritto di sapere come è composto il restante 93 per cento e quali misure vengono prese per ridurlo.

Abbiamo già documentato su queste pagine (Massimo Giannini di ieri) che i salari dei lavoratori dell'auto nelle nazioni europee nostre concorrenti sono nettamente maggiori dei nostri. Dunque c'è un difetto, se non altro conoscitivo, nello schema Marchionne e c'è un altro difetto, in questo caso compensativo, che va colmato. Si toglie benessere da un lato; che cosa si dà dall'altro? Il posto di lavoro, risponde la Fiat. Errore. Il posto di lavoro è un salario che compensa il lavoro. Qui c'è un contratto che incide sul benessere complessivo. Come viene compensato?

* * *

Se si cambia il rapporto tra aziende e lavoratori, tra imprese e sindacati, a causa d'una rivoluzione economica di dimensioni planetarie che incide sui rapporti sociali nei paesi opulenti, la conseguenza è che non si può scaricarne tutto il peso su uno solo dei fattori di produzione. Anche l'altro fattore deve entrare in gioco, deve impegnarsi nell'innovazione dei processi e dei prodotti, deve far aumentare la propria produttività e non solo quella proveniente dal lavoro. E così come l'imprenditore e il management controllano le frazioni di minuto del rendimento dei lavoratori, altrettanto concreto e puntuale deve essere il controllo dei rappresentanti dei lavoratori sugli investimenti innovativi dell'imprenditore. Tanto più se le retribuzioni e i premi del manager dipendono dai risultati.
Quali risultati? Gli incrementi del titolo in Borsa o l'attuazione di un piano industriale? I fattori in gioco non sono due ma tre: il lavoro, il management, gli azionisti. La sede è il consiglio di amministrazione.

Perciò i lavoratori debbono essere rappresentati nei consigli di amministrazione, soprattutto per le imprese quotate in Borsa o al di sopra di certi livelli di fatturato e di occupazione. E debbono essere rappresentati anche in appositi organi che vigilano sull'evoluzione della produttività e sulla sua distribuzione.
La soluzione adottata in proposito dalla Volkswagen è la più aderente a questo tipo di rapporti: una "governance" aziendale duale, con un consiglio di sorveglianza dove siedono anche i rappresentanti dei lavoratori e un consiglio di amministrazione che ne attua la strategia. Ma esiste ancora più pertinente, il caso Chrysler dove i lavoratori allo stato dei fatti sono proprietari dell'azienda.
Infine, poiché la perdita di benessere riguarda l'intera società nazionale e l'intero Occidente, mutamenti compensativi dovrebbero anche avvenire sul recupero di una concertazione tra parti sociali e governo, che fu instaurata da Amato e poi soprattutto da Ciampi nel 1992-93 e durò con indubbi risultati fino al 2001, poi fu smantellata e infine soppressa nell'era berlusconiana.

Quando si chiedono sacrifici ad una parte della società, essi vanno bilanciati con un accrescimento dei poteri di quella parte, altrimenti si provocano terremoti sociali di incalcolabili effetti.
A proposito del movimento studentesco si è detto e scritto che il conflitto va molto al di là della riforma Gelmini.
Il conflitto esterna un disagio profondo dei giovani che riguarda il loro futuro, il loro lavoro, la loro partecipazione alle decisioni che riguardano l'avvenire del Paese.

Credo che analogo sia il modo di sentire degli operai. Il conflitto con la Fiat è un aspetto del problema ma non è il problema. Gli operai sono ancora molti milioni ma nell'opinione generale sembrano inesistenti, non hanno più luoghi appropriati nei quali esprimersi e farsi sentire, i sindacati soffrono della stessa separatezza di cui soffrono i partiti.

I lavoratori, stabili o precari, dipendenti o autonomi, reclamano partecipazione e rappresentanza e questi loro diritti stanno scritti in Costituzione. Anzi, la loro formulazione sta addirittura nell'articolo numero 1 della nostra Carta fondamentale. Ecco perché penso che Marchionne sia stato involontariamente utile. Ha aiutato gli immemori a ricordarsi di quei diritti e alla necessità di attuarli

Post scriptum. Un compito della massima importanza in tutta questa vicenda e nelle sue conseguenze vicine e lontane dovrebbe spettare a chi governa il Paese e "in primis" al presidente del Consiglio. Il quale invece, proprio in queste ore, è affaccendato in tutt'altre faccende: Ruby-Rubacuori e la Procura di Milano che l'ha convocato per il 21 gennaio chiedendo al Tribunale di poter procedere con il rito abbreviato perché gli indizi di prova dei quali già dispone sono tali e tanti da ritenere già chiusa la fase istruttoria salvo gli ultimi interrogatori mancanti.

Non entriamo qui nel merito dei fatti, sono già stati descritti ieri su queste pagine da Giuseppe D'Avanzo con una completezza che non ha bisogno di ulteriori approfondimenti. Ma c'è un punto che merita riflessione e risposta al coro orchestrato dai sodali del premier sotto inchiesta. Costoro sostengono (e l'ha sostenuto ieri con un apposito comunicato lo stesso premier) che la Procura milanese è entrata a piedi uniti nella privatezza di persone perbene e questo sarebbe un inaccettabile sopruso che invalida l'ordine costituzionale e va severamente bloccato e punito.

La riflessione è la seguente: il reato, qualsiasi reato, riguarda l'intimità e la privatezza delle persone. Una persona ne uccide un'altra, oppure la rapina, oppure la deruba, oppure la truffa, oppure la stupra. Come avvengono questi atti? Nel buio, in una casa, in una strada deserta, nell'intimità dei rapporti. Quando il magistrato inquirente ha notizia di un reato e apre un'indagine su quell'ipotesi, deve agire inevitabilmente sulla privatezza delle persone, delle famiglie, dei luoghi sospetti. Le indagini giudiziarie riguardano quei luoghi e quelle persone, ovunque abbiano operato.

È bene tenere a mente questo punto che il premier disconosce e i suoi turibolanti altrettanto. Se poi la persona sospettata riveste anche ruoli pubblici, ci sono ovviamente ricadute, ma l'istruttoria e il processo si svolgono nel contesto privato dove gli atti delittuosi sono stati commessi. Chi ritiene eversivi questi modi di procedere, ritiene in realtà eversiva la giustizia e il potere giudiziario nel suo complesso. Il che è gravissimo e, questo sì, eversivo.
 

(16 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2011/01/16/news/la_classe_operaia_deve_tornare_in_paradiso-11280829/?ref=HRER2-1
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« Risposta #259 inserito:: Gennaio 19, 2011, 06:50:06 pm »

No, le palle sul tavolo no

di Eugenio Scalfari

Linguaggio da trivio. Insulti in quantità. Linguaggio violento.

E' la telepolitica al tempo del bunga bunga, è il mondo dei Feltri e dei Sallusti:  un brodo di volgarità  e di bugie camuffate da notizie

(17 gennaio 2011)

Il direttore del Giornale Sandro Sallusti, il vicedirettore Nicola Porro e Vittorio Feltri Il direttore del Giornale Sandro Sallusti, il vicedirettore Nicola Porro e Vittorio FeltriVittorio Feltri, direttore di "Libero": "Mi auguro che Berlusconi non diventi mai presidente della Repubblica. Vi immaginate il viavai di "escort" al Quirinale e i corazzieri nudi che giocano al "bunga bunga" insieme al capo dello Stato? Una roba da crepare dalle risate!". Alessandro Sallusti, direttore del "Giornale": "Feltri, come Giorgio Napolitano, hanno cambiato bandiera. Feltri è un traditore. Fino ieri era berlusconiano, adesso non lo è più. Tra poco sarà un compagno di Fini e della sinistra". Bruno Vespa, conduttore di "Porta a Porta": "È venuto il momento per Berlusconi di mettere le palle sul tavolo. O fa sul serio le riforme tante volte preannunciate o sarà meglio che se ne vada a casa". Italo Bocchino, capogruppo di "Futuro e Libertà" alla Camera: "Ne ho viste tante nella vita ma le palle di Berlusconi su un tavolo, quelle no, non le voglio vedere".

Dal canto mio, di trasmissioni televisive ne ho viste tante anch'io e ad alcune ho anche partecipato, ma mai come quella di sabato sera 8 gennaio su La 7 condotta da Luca Telese e Luisella Costamagna, nella quale sono risuonate frasi come quelle che ho appena citato, non le avevo mai viste prima d'ora. Telese e la Costamagna sono due bravi giornalisti, la loro è una trasmissione tutta politica anzi, per dirla con franchezza, tutta politichese. La "verve" dei due conduttori cerca di darle un tocco di intrattenimento, ma non ci riesce. Dura un'ora, che non è poco, e viene subito dopo il Telegiornale delle 21 guidato da Mentana che è anche quella una trasmissione soprattutto di politica interna. Mentana spiega e racconta quanto è accaduto con un linguaggio comprensibile ed un'attenzione al significato che gli altri telegiornali trascurano volutamente perché non desiderano che i telespettatori capiscano. Si comportano come quelli che Barbara Spinelli chiama "i militanti dell'ignoranza" e Mentana ha successo proprio perché è un militante della conoscenza, vuole che il suo pubblico comprenda quello che vede.

Telese e Costamagna vorrebbero anche loro che gli ascoltatori capissero e sono lì per aiutarli, ma non ci riescono quasi mai non per difetto di professionalità ma perché il "format" che gli è stato affidato si basa interamente su un battibecco tra due o tre protagonisti che si producono in duelli incomprensibili, cifrati, quasi sempre violenti, non per passione, ma per maniera. Sono violenti manieratamente, non polemizzano ma recitano la polemica, fingono la rissa. I fatti e la loro sostanza passano in seconda linea nonostante la buona volontà dei conduttori, i quali purtroppo soggiacciono anche loro alla convinzione che la rissa fa bene all'"audience".

Non so quanto questo modo di gestire le televisioni sia produttivo ma so per certo che un ragionamento pacato servirebbe ad istruire ed educare il pubblico mentre la rissa per la rissa lo diseduca. Anche la rissa ha diversi livelli di qualità e se ho citato la trasmissione dell'8 gennaio è perché in quel caso il livello ha raggiunto una volgarità senza pari nonostante gli sforzi dei conduttori di riportarlo su un terreno almeno approssimativamente civile.

Ma a suo modo quella puntata è stata anche un gioiello. Rappresentava infatti alla perfezione lo stato di degrado della politica e di un certo giornalismo da trivio. Il tema che i due invitati (Sallusti e Bocchino) erano stati chiamati a discutere era il contrasto scoppiato tra il direttore del "Giornale" e Vittorio Feltri, che appena pochi giorni fa dirigeva lui il "Giornale" avendo Sallusti come suo vice e che improvvisamente ha lasciato l'incarico per assumere la direzione di "Libero" insieme al suo collega Belpietro. Apparentemente questo improvviso colpo di scena era avvenuto senza traumi tra Feltri e Sallusti, ma poi era arrivato il tempo degli insulti e delle accuse.

Non so quanto possa interessare ad un pubblico normale una bega tra due giornalisti rivali che praticano la professione in un modo squalificante e squalificato. Ma si tratta comunque di uno spettacolo inverecondo e sono assai stupito - lo dico con sincera amarezza - che due professionisti di buon livello come Telese e Costamagna si siano lasciati prender la mano fino a quel punto.
Il cortocircuito tra i media e la politica di cui tanto si parla deriva dall'indulgenza verso questo tipo di trasmissioni e dall'esistenza di giornalisti come quelli che dirigono giornali prima affiancati e ora divisi ma sempre nello stesso brodo di volgarità e di bugie camuffate da notizie.

   
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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/no-le-palle-sul-tavolo-no/2142255/18
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« Risposta #260 inserito:: Gennaio 23, 2011, 10:55:55 am »

Ritorna in scena il partito democratico

di EUGENIO SCALFARI

È molto difficile in queste settimane di tensione politica, giudiziaria, mediatica, che ci sia in Italia un evento tale da esimerci dallo scandalo Berlusconi. Se ne è dovuto occupare, nel linguaggio appropriato che è quello della più alta istituzione dello Stato, il nostro Presidente della Repubblica e se ne è dovuto occupare addirittura il Papa. E ovviamente se ne occupano i giornali per soddisfare il legittimo diritto dei loro lettori ad essere informati.

Ieri Ezio Mauro ha indicato ancora una volta la linea del nostro giornale: a noi non interessano i comportamenti privati delle persone che rientrano nell'ambito della loro libera scelta; a noi interessano i comportamenti non saltuari ma ripetuti fino a esser diventati uno stile di vita d'un uomo pubblico, anzi del più importante degli uomini pubblici, che sono inevitabilmente di (cattivo) esempio all'insieme dei cittadini e che contrastano con l'articolo 54 della Costituzione secondo il quale il rappresentante di un'istituzione deve tenere alto il decoro dell'ente che rappresenta.

Voglio qui citare le parole con le quali Walter Veltroni ha aperto ieri il suo discorso al Lingotto di Torino, dedicate proprio a questo tema, perché in quelle parole ci riconosciamo interamente: "Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano: sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell'ultimo suo messaggio televisivo".

"Ciò che dava più dolore  -  ha aggiunto Veltroni  -  è che quella espressione minacciosa sulla "punizione" dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno può dimenticare che per difendere l'onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati hanno dato la vita. La situazione in cui l'Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del Consiglio è accusato non di comportamenti ma di gravi reati. Egli sostiene per l'ennesima volta che solo di fandonie e di complotti si tratta. Ma non lo deve dire in Tv facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo ai magistrati, come ogni cittadino".

Ho citato Veltroni perché l'evento sul quale mi sembra doveroso oggi riflettere e commentare è il suo discorso, la risposta di Bersani, l'ingresso  -  finalmente  -  del Partito democratico in un'arena politica dove finora era mancata la presenza della maggiore forza d'opposizione. Quest'assenza suscitava sconcerto e turbamento, molti davano per liquidato il riformismo democratico italiano e il vuoto che a causa di quell'assenza si stava creando rendeva ancor più difficile lo sblocco d'una situazione sempre più insostenibile.

Ieri questo vuoto è stato colmato o almeno sono state poste le premesse perché lo sia. Con lucidità di pensiero e con fermezza d'intenti.
La maggior forza d'opposizione è finalmente entrata in campo con un obiettivo e un programma. Ora il quadro è finalmente completo ed è questo che dobbiamo esaminare: la sua efficacia, la sua capacità di modificare gli equilibri e di sanare gli squilibri, l'accoglienza che potrà ricevere da un Paese turbato, insicuro, arrabbiato.

* * *
Una prima osservazione riguarda la riapparizione di Veltroni sulla scena politica dopo due anni dal Congresso del 2008 e un anno dalle dimissioni da segretario del partito.

Ha parlato da leader, con la passione e l'eloquenza d'un leader ed anche con il senso di unità e di generosità che un leader deve avere, il desiderio di fare squadra, di rilanciare una scommessa all'insegna del cambiamento. "Dobbiamo uscire dal Novecento", ha detto e ripetuto più volte e più volte ha cercato di scrollare di dosso il fin qui diffuso rimprovero che veniva mosso al Pd e a tutta la sinistra, d'essere paradossalmente diventato una forza conservatrice anziché innovativa.

"Non ci potrà mai essere una forza più radicale della nostra" ha detto "perché più radicale del nostro riformismo non ci sarà nulla e nessuno". E citando Mark Twain: "Tra vent'anni sarete più delusi per le cose che non avrete fatto che per quelle che avrete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete i venti con le vostre vele. Esplorate. Scoprite. Sognate".

La platea del Lingotto e probabilmente i democratici militanti e i tanti diventati indifferenti o addirittura ostili per delusione subita, è questo che aspettavano: non di perenne attracco ai porti dove impera il politichese, la conservazione dell'esistente, le rivalità tra capi e capetti, tra galli e galletti, ma il coraggio di fronte alle novità e la capacità di affrontare il mare aperto.

Bersani è un uomo concreto. D'Alema un politico fine. Franceschini un combattente esperto. Enrico Letta un abile diplomatico. All'interno di un recinto. Veltroni ha anche lui queste qualità insieme ai difetti che in tutti rappresentano l'altra faccia dei punti di forza; ma possiede un "in più" che nessuno degli altri ha: è capace di evocare un sogno. Non il sogno dell'utopia, ma quello che emerge dalla realtà.
Si discute spesso del carisma e della sua definizione. Spesso il carisma sconfina nel populismo ed è quello di Berlusconi. Ma ci fu il carisma di De Gasperi, che certo non era un populista, e quello di Berlinguer, quello di Ugo La Malfa, quello di Craxi, quello di Pertini. C'è stato uno specialissimo carisma di Ciampi e quello di Romano Prodi e quello, impalpabile perché volutamente privo d'ogni retorica, di Giorgio Napolitano.

Ebbene, c'è anche un carisma di Veltroni: il realismo che evoca il sogno di un'Italia nuova e di una nuova frontiera. Veltroni ha ricordato nel suo discorso Roosevelt e Luther King e la nuova frontiera kennedyana. Potrà funzionare oppure no il suo carisma, ma nel Pd oggi è il solo che possieda quel requisito e se non lo saprà usare la responsabilità sarà soltanto sua.
 
* * *
Le sue proposte politiche, economiche, sociali, sono state "offerte" come suggerimenti al gruppo dirigente e agli organi del partito, dei quali si è ben guardato dal mettere in discussione il ruolo. Ma erano suggerimenti così precisi e circostanziati, così "oltre" il politichese corrente da costituire un programma e una strategia.

A partire dall'Europa, che non deve e non può diventare uno Stato, ma deve però esprimere un governo che guidi l'economia del continente e un Parlamento che sia eletto direttamente da tutti i cittadini dell'Unione.

E poi: una politica economica che abbia come obiettivo la crescita, la cultura, la ricerca; una politica finanziaria volta alla riduzione del debito pubblico; un patto con i ceti abbienti per farli contribuire al finanziamento necessario a ridurre il debito con un prelievo patrimoniale diluito in tre anni così come fu fatto nel 1998 con la tassa per l'ingresso nell'euro; una politica dei redditi in favore delle donne, delle famiglie, dei giovani, dei lavoratori, delle partite Iva, delle imprese, ottenuta con sgravi concretamente indicati; il federalismo visto come autonomia delle comunità. "L'Italia  -  ha detto con molta efficacia  -  è la comunità delle comunità, un Paese molteplice, la cui molteplicità può essere una grande ricchezza o una grande sventura ma che comunque non potrà mai esser cancellata perché è iscritta da secoli nella nostra storia".

Ha detto anche parole molto chiare sul caso Marchionne, l'altro evento che ha fatto irruzione nella nostra immobile economia. Un'irruzione positiva secondo Veltroni, che ora però dovrà dimostrare la sua capacità di vincere la sfida del mercato con nuovi modelli di auto, nuovi investimenti, un piano industriale adeguato associando però i lavoratori al controllo e alla partecipazione nell'azienda agli utili ed anche al capitale e assicurando la rappresentanza di tutti i lavoratori senza discriminazioni.
Infine la lotta alla mafia e alla corruzione, indicando anche qui gli strumenti concreti per renderla efficace.

****
C'è stata, nel discorso di Veltroni, anche un'apertura a Vendola, un invito a collaborare e a non chiudersi nei veti, nel massimalismo e nell'utopia. In realtà quell'apertura è stata possibile perché Veltroni  -  così penso io  -  è il solo nel Pd che possa ridimensionare Vendola. Anche il governatore con l'orecchino è portatore d'un sogno. Se si confronta soltanto col politichese, il sogno di Vendola vince anche se isolerebbe la sinistra in una presenza puramente testimoniale. Ma se il sogno vendoliano e la sua "narrazione poetica" si confronta con un sogno che emerge dalla realtà, allora l'orecchino non basta a fare la differenza anche se può dare un contributo ad un riformismo "ben temperato".

* * *
La risposta di Bersani è stata una presa d'atto all'interno della cornice indicata da Veltroni. Una presa d'atto coraggiosa e costruttiva, l'invito a fare squadra e a vitalizzare le strutture del partito, rinnovandole se necessario, spronando i democratici alla battaglia.

Bersani ha un suo modo di parlare paesano e colloquiale. Dopo il discorso di Veltroni così teso e intenso, faceva uno strano effetto, di quelli che spesso Crozza provoca quando lo imita a "Ballarò". Uno strano effetto ma molto positivo, di chi ricorda che un partito è comunque lo strumento di filtraggio sia della realtà sociale sia del sogno d'una nuova frontiera. Ma su questo non c'era contrasto con Veltroni, che aveva concluso il suo discorso con l'elogio della politica, quella praticata con la maiuscola, come il solo strumento che consenta la realizzazione del bene comune.
Oppure del male comune, come quello in cui il Paese è sprofondato e dal quale deve riemergere se vuole ancora avere un futuro.

(23 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/23/news/pd_scena-11548961/?ref=HREC1-4
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« Risposta #261 inserito:: Gennaio 28, 2011, 10:04:23 pm »

La privacy del Cavaliere

di Eugenio Scalfari


Giuliano Ferrara accusa la sinistra di essere bigotta e retriva, pur di affondare contro Berlusconi. Ma Wilde, a cui tanto spesso Il Foglio si è ispirato, si sarebbe messo a urlare di disgusto vedendo la Santanchè e le varie vallette che popolano i palazzi e le ville dell'Amor vostro e si sarebbe messo a urlare di più se avesse incontrato Lui

(27 gennaio 2011)

La sinistra ha sempre sostenuto la libertà sessuale, ha combattuto per introdurre il divorzio nella legislazione italiana, per legalizzare l'aborto, per la fecondazione assistita, per il riconoscimento delle coppie di fatto, per l'interruzione della vita decisa dal malato terminale o da chi lo rappresenta e - infine - per il rispetto assoluto della privatezza dei propri comportamenti, quali che siano.

Ma oggi quella stessa sinistra ha buttato alle ortiche il libero amore e la libertà sessuale e, ossessionata dalla sua faziosità antiberlusconista, si schiera con la parte più retriva e bigotta della pubblica opinione e con la magistratura oscurantista, riportando indietro di un secolo le lancette dell'orologio contro l'uomo che, sia pure con qualche eccessiva intemperanza, ha modernizzato non solo la politica ma la morale e il costume. La sinistra dunque è oggi la punta di lancia della reazione contro la cultura libertaria e libertina.

Così scrive "Il Foglio" e in prima persona il suo direttore che si autodefinisce ateo-devoto senza però che questa definizione metta in discussione i suoi sentimenti libertari. Il nemico, per la seconda volta nel giro di un mese, è Barbara Spinelli.

Sembrava - così scrive l'elefantino - una liberale votata all'annuncio dei diritti senza doveri, della famiglia aperta, della donna padrona del proprio corpo, ma ora ce la ritroviamo in veste monacale, una sorta di Savonarola in gonnella, di "piagnona" in pieno Ventunesimo secolo. Ha messo in soffitta Voltaire ed ha abbracciato la Santa Inquisizione.

"Il Foglio" non è "Libero" né "Il Giornale" e Giuliano Ferrara ci tiene a marcare la sua differenza con Belpietro e Sallusti.
Feltri, semmai, non gli dispiace per il suo piglio guascone, ma di mezzo c'è la cultura e quella venatura di snobismo che circola nelle pagine del suo giornale. Oscar Wilde sarebbe un buon punto di riferimento per i "foglianti".

Capisco che il monachesimo sia visto come il diavolo da chi celebra ogni giorno, sia pure con una punta di ironia, l'Amor suo.
Però alcune cose non tornano.

Non torna soprattutto il canone estetico. Fede e Lele Mora? Il cerone sulla faccia dell'Amor vostro? Il "bunga bunga" come stile di vita pubblicamente rivendicato? La Santanchè?

Avete dedicato, voi foglianti, pagine ammirate a Virginia Agnelli e a Kiki Brandolini e vi trovate a berciare con la Santanchè e con Marina Berlusconi? No, non va affatto bene per quanto riguarda il canone estetico, caro Giuliano. Wilde si sarebbe messo a urlare di disgusto vedendo la Santanchè e le varie vallette che popolano i palazzi e le ville dell'Amor vostro e si sarebbe messo a urlare ancora di più se avesse incontrato Lui, proprio Lui sulla sua strada.

Questo per quanto riguarda l'estetica, il gusto, la grazia che per voi - e anche per me - non sono poca cosa.
Ma poi c'è la verità, per relativa e bistrattata che possa essere.

Noi non siamo né monacali né occhiuti censori. Adoriamo la privatezza, la difendiamo e sempre la difenderemo per noi e per chiunque altro. Ma siamo anche rispettosi delle leggi e dello Stato di diritto. Posso pronunciare la parola Stato di diritto senza dovermi difendere dalle ingiurie di conformismo?

Allora. I reati avvengono quasi sempre in luoghi privati e nascosti, sono consumati in case private, in circoli dove gli estranei non hanno ingresso, in vicoli oscuri, in una cantina, in un garage. Mi sembra improbabile che qualcuno avvisi la polizia che alle ore 15 di domani andrà ad uccidere o a derubare o a stuprare o a truffare il signor Tale nella tale piazza, della tale città.

Ne consegue che per difendersi la società ha creato un sistema giudiziario e l'ha dotato di una polizia per indagare e individuare i rei ogni volta che la notizia di un crimine le pervenga.

Dove è la violazione della privatezza di fronte alla notizia di reato e all'obbligo che incombe sui magistrati di iniziare le indagini? L'assassino di Avetrana non può esser ricercato nella sua casa e può opporre la privatezza ai carabinieri che vanno a rivoltargli i materassi del letto?

E queste obiezioni e questo furore dobbiamo sentirlo sulla bocca del presidente del Consiglio che preannuncia la punizione dei magistrati avendo alle spalle la bandiera che testimonia la sua qualità di altissimo pubblico ufficiale della Repubblica?

E voi, spiriti sottili, atei ma devoti, allineati ma irriverenti, libertari ma snob, irruenti ma ricercati, voi non vedete con orrore o almeno con disgusto lo squallore e la disperazione in cui l'Amor vostro è precipitato portandosi dietro un pezzo del Paese?

E non sapendo con chi prendervela, ve la prendete con Barbara Spinelli?

Vi dovrebbe venire un po' di rossore sul volto, ma se non vi viene spontaneamente fatevelo pennellare sulle gote dal truccatore di scena, in modo che noi lo si possa vedere e perdonare la vostra vergogna.

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« Risposta #262 inserito:: Gennaio 30, 2011, 10:15:58 pm »

Quante sono le divisioni del capo dello Stato

di EUGENIO SCALFARI


Siate buoni! Lo dice un uomo anziano che fabbrica ciambelle col buco e ne diffonde il consumo e poi - non so perché - chiude con questa esortazione il suo messaggio pubblicitario. Ma le sue ciambelle sono fatte con ottima farina. Qui, nella ciambella Italia, è l'ottima farina che manca, la nostra è una farina piena di vermi e di impurità ed è la materia prima che fa difetto. Perciò l'esortazione ad esser buoni, che la più alta autorità dello Stato non cessa di lanciare alle forze politiche e alle istituzioni imbarbarite, cade in un vuoto dove s'incrociano grida, insulti, delegittimazioni e malcostume diffuso in tutti i livelli.

Si accumulano indizi e prove di gravi reati, ma non è neppure questo l'aspetto che desta maggiore sgomento: i reati, veri o presunti, hanno i loro luoghi per essere accertati ed eventualmente puniti; ma è l'indecente spettacolo dei comportamenti viziosi e della paralisi istituzionale che ne consegue a gettare il Paese nello sgomento. L'articolo 54 della nostra Costituzione esorta ed anzi impone al titolare di quella istituzione di comportarsi con decoro, ma non era mai accaduto nella nostra storia di centocinquanta anni che l'onore e il decoro istituzionale fossero violati fino a tal punto. C'è un solo luogo pubblico, un solo Palazzo, che non è stato lambito da quest'ondata di disistima ed è il Quirinale, la presidenza della Repubblica.

Si dice che il Capo dello Stato, al di là delle esortazioni, dell'esempio e dei pressanti consigli,
non abbia altri strumenti per intervenire e ci si domanda sconfortati: di quante divisioni dispone Giorgio Napolitano? E' un potere armato o disarmato? E' soltanto una voce che grida nel deserto e altro non può fare?

In realtà il Presidente non è soltanto una voce e una presenza vigilante ma non operativa. A parte il potere di promulgare le leggi o di rinviarle al Parlamento, che non può essere reiterato, il Presidente dispone di altri due strumenti previsti dalla Costituzione. Il primo riguarda la formazione del governo, il secondo lo scioglimento anticipato delle Camere. Si tratta di strumenti estremamente incisivi, che vanno dunque usati con la massima ponderazione, ma che costituiscono una riserva preziosa quando le strutture istituzionali rischiano di decomporsi in un generale marasma. Questo rischio sta incombendo sulla nostra democrazia, sicché i due strumenti che abbiamo sopra indicati vanno esaminati con attenzione e se del caso utilizzati dal Capo dello Stato che ne ha la titolarità.

*  *  *

La formazione del governo. La Costituzione stabilisce che "il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti delle Camere e i rappresentanti dei gruppi parlamentari, nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". L'articolo successivo prescrive che "il governo entro quindici giorni dal suo insediamento si presenta in Parlamento per ottenere la fiducia".

Questa procedura è chiarissima né si presta ad equivoci. Il Capo dello Stato "nomina" il presidente del Consiglio e le opinioni espresse dai presidenti delle Camere e dei gruppi parlamentari non vincolano il Capo dello Stato ma contribuiscono a renderlo compiutamente informato sugli orientamenti del Parlamento.

Su questa procedura costituzionale si è sovrapposta la prassi dell'incarico esplorativo. Sulla base di questa prassi il Capo dello Stato anziché nominare, incarica una personalità da lui scelta per accertare preliminarmente l'esistenza di una maggioranza parlamentare disposta a dare la fiducia all'incaricato. Se l'accertamento dà esito positivo, l'incaricato scioglie la riserva e il Capo dello Stato lo nomina; se l'accertamento è negativo al Capo dello Stato non resta altra soluzione che lo scioglimento delle Camere.

Questa prassi tuttavia non è affatto vincolante poiché non prevista in Costituzione. Il governo Pella per esempio fu "nominato" da Luigi Einaudi senza l'accordo della Dc di cui Pella era peraltro autorevole membro. Quando si presentò alle Camere la fiducia comunque la ottenne senza averne avuto la certezza preliminare. Le cose andarono in modo non identico ma analogo quando Gronchi nominò Tambroni a capo del governo.

Ci sono situazioni nelle quali la maggioranza esistente è soltanto formale e posticcia e può modificarsi di fronte all'iniziativa del Capo dello Stato il quale, se si rende conto di questa possibilità, può tenerne conto operando di conseguenza. Non si tratta di una forzatura interpretativa ma dello scrupoloso rispetto di quanto stabilisce la Costituzione.

Noi pensiamo che la situazione attuale potrebbe esser risolta, nel caso in cui l'attuale governo fosse sfiduciato o decidesse di dimettersi, direttamente con la nomina d'un nuovo presidente del Consiglio e senza bisogno d'un incarico preliminare.

*  *  *

Il secondo strumento riguarda lo scioglimento delle Camere in anticipo con la loro naturale scadenza. Esso può essere deciso dal Capo dello Stato senza bisogno che il governo in carica glielo chieda. La Costituzione infatti non prevede questa richiesta.

Naturalmente il Capo dello Stato deve avere una valida ragione per metter fine anticipatamente alla legislatura. Quando per esempio una Camera sia guidata da una maggioranza diversa da quella esistente nell'altra Camera, oppure quando il governo in carica non sia più in grado di governare; oppure per altre ragioni ancora, come accadde quando il Senato fu sciolto anticipatamente per due volte con l'obiettivo di far coincidere nella stessa data la scadenza delle due Camere, che all'epoca avevano una durata diversa.

Il marasma attuale e le reciproche delegittimazioni che si lanciano le più alte cariche istituzionali potrebbe ampiamente giustificare uno scioglimento delle Camere ancorché in presenza di un governo non sfiduciato.
Siamo arrivati al punto che il partito di maggioranza chiede le dimissioni del presidente della Camera, il quale a sua volta chiede le dimissioni del presidente del Consiglio; quest'ultimo insulta quasi quotidianamente la Corte costituzionale e - da quando ha ricevuto mandato di comparizione per essere interrogato per gravi reati - estende l'insulto alla Procura di Milano definendola (anche qui quotidianamente e pubblicamente) sovversiva ed eversiva e rifiutando di presentarsi al suo cospetto per essere interrogato. Come tutto ciò non bastasse, il partito finiano denuncia al Tribunale dei ministri il ministro degli Esteri per abuso d'ufficio, il Pd e l'Udc deplorano il presidente del Senato, i rappresentanti della Lega e del Pdl disertano le riunioni del Copasir (Comitato di controllo parlamentare dei servizi di sicurezza) che ha chiamato a deporre il presidente del Consiglio o in sua vece il sottosegretario Gianni Letta.

Infine si fa strada una singolarissima prassi da parte di Berlusconi d'intervenire telefonicamente nelle trasmissioni televisive per insultare i conduttori e gli ospiti delle medesime, imitato dal direttore generale della Rai, Masi, che interrompe in diretta Annozero dando vita ad una rissa verbale con Santoro davanti a sette milioni di telespettatori.

Se in queste condizioni Giorgio Napolitano decidesse di sciogliere il Parlamento e rimettere il giudizio su quanto avviene al popolo sovrano, credo che nessuno potrebbe formulare nei suoi confronti la menoma critica: farebbe il suo dovere rispettando in pieno la lettera e lo spirito della Carta costituzionale.

(30 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it/politica/2011/01/30
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« Risposta #263 inserito:: Febbraio 06, 2011, 10:10:11 am »

L'EDITORIALE

Il cavaliere e il raìs due leader in fuga

di EUGENIO SCALFARI

Tre giorni fa, mentre la sollevazione del popolo egiziano era arrivata al punto culminante, Silvio Berlusconi fu l'unico tra i dirigenti politici di paesi occidentali a dire che "Mubarak è un uomo saggio e bisogna lasciarlo dove sta. Sarà lui a fare le riforme e solo dopo potrà ritirarsi con onore".
 
Berlusconi e Mubarak risultano dunque strettamente  -  e inconsapevolmente  -  legati tra loro in diversi modi. Il primo è Ruby-Rubacuori, pretesa nipote del presidente egiziano secondo quanto Berlusconi dichiarò alla questura di Milano per ottenere la liberazione della minorenne marocchina dalla custodia della polizia. Mubarak non ha mai saputo di questa "birboneria" congegnata dal presidente del Consiglio italiano tirandolo in ballo.

Il secondo elemento che li lega è la crisi politica che incombe su entrambi; estremamente drammatica quella che minaccia il leader egiziano che deve fronteggiare un paese in rivolta; molto diversa e pacifica quella in corso in Italia che tuttavia configura anch'essa la decomposizione d'un sistema di potere e sembra preannunciarne la fine.

Infine un terzo elemento: sia al Cairo che a Roma, in attesa che le due crisi trovino una soluzione, il potere effettivo non è più nelle mani dei due leader ma è passato ad altre forze di tutela; al Cairo l'esercito, a Roma la Lega Nord. Due forme di transizione che sottolineano in modi diversi ma analoghi il declino inarrestabile dei vecchi leader e l'inizio di una fase nuova
e ancora ignota ma ormai inevitabile.

Mubarak e Berlusconi, due destini gemelli. Chi l'avrebbe immaginato appena qualche settimana fa?

* * *

Le partite in corso qui da noi sono tre, distinte e conflittuali tra loro.

Quella che interessa la Lega è la partita del federalismo. Dovrebbe esser portata a compimento entro il prossimo maggio; se quella data sarà superata la sconfitta politica per Bossi sarà cocente.

Perciò la Lega la mette in cima nella scala delle priorità e ha deciso di gestirla in esclusiva schiacciando in angolo le priorità del suo alleato.

Le partite che interessano Berlusconi sono invece quella di sottrarsi ai processi e quella di avviare provvedimenti di crescita economica che rilancino un paese immobile, impagliato e mummificato. Anche per queste due partite il tempo a disposizione si conta ormai a settimane, ma per quanto riguarda lo scontro giudiziario addirittura a giorni.

Il Paese assiste. In realtà la sola partita che lo interessi veramente è quella economica che però le altre contese rischiano di relegare in seconda o terza fila. Su questo terreno dovrebbero entrare in campo le opposizioni unificando i loro  intenti, i loro programmi e le loro iniziative. Se riusciranno a farlo avranno anche preparato quello schieramento unitario con il quale dovranno affrontare le elezioni che, da maggio in poi, potranno essere indette in qualunque momento.

* * *

Il federalismo è partito col piede sbagliato e non è con le pezze di Calderoli che può essere recuperato e avviato sui giusti binari. Il tema dei costi standard è ancora tutto da discutere, ma non è neppur questo il punto essenziale.

Tremonti ha un suo "mantra" al quale nessuno ha mai creduto: minore burocrazia, minori spese, maggiori controlli dei governati sull'operato dei governanti.

Il mantra di Tremonti ha un difetto molto grave: non c'è una sola cifra che ne attesti la veridicità. Anzi: i decreti legislativi finora approvati o in corso d'approvazione dimostrano il contrario. I Comuni per ora sono alla fame; potranno avere un moderato sollievo tra tre anni. Intanto dispongono di risorse minime, ottenute con incrementi di sovraimposte e con tagli spesso crudeli di servizi. Regioni e Province stanno anche peggio. Lo stock degli impiegati aumenterà. I conflitti all'interno delle varie autonomie e con lo Stato aumenteranno anch'essi. Le diseguaglianze tra Comuni ricchi e poveri nella stessa area regionale e provinciale susciteranno continui conflitti di campanile. Bisognava accorpare i Comuni e abolire le Province prima di partire. Da ottomila Comuni a tremilacinquecento, questo era l'obiettivo e questa doveva essere la prima mossa d'un sistema di autonomie locali. E una politica del Mezzogiorno che diminuisse le diseguaglianze con il Nord.

Poiché niente di tutto ciò è stato fatto, avremo un sistema sgangherato di autonomie a due velocità e una selva di conflitti, rivalità, campanilismi e ulteriore decomposizione del sistema-paese. Di tutto questo Berlusconi se ne infischia ma  -  non sembri un paradosso  -  se ne infischia anche la Lega. Dopo il voto contrario della Bicamerale e lo sgarro costituzionale respinto giustamente da Napolitano, Bossi ha detto: "Quello che ci sta a cuore è che i soldi del Nord restino al Nord, il resto sono chiacchiere".

Voce dal sen fuggita. Se questa è la sostanza che sta a cuore alla Lega, essa non sta combattendo per un sistema di autonomie ma per una politica secessionista. Assolutamente inaccettabile. Io non credo che il Nord, tutti gli italiani del Nord, vogliano un federalismo secessionista. Le forze politiche responsabili (ovviamente non quelle di Moffa) dovranno porre questa domanda agli elettori di Torino, di Bologna, di Genova. Forse avremo qualche positiva sorpresa se la domanda sarà fatta con chiarezza e convinzione.

* * *

La politica di crescita. Ora la vuole anche Giuliano Ferrara, di nuovo nel ruolo di consigliere del Principe.

Sinceramente me ne rallegro, anche se le cognizioni economiche di Ferrara non risultano eccezionali, ma il "dominus" è Tremonti ed è a lui che bisogna guardare.

Il ministro dell'Economia è alla prese con la dottrina Merkel-Sarkozy-Trichet, che comporta rigore nei bilanci e riduzione dei debiti sovrani. È chiaro che per far fronte a questi criteri la crescita è indispensabile. Ma come si ottiene?

La risposta di Tremonti è questa: si ottiene con riforme senza spese, liberalizzazioni, vendita di patrimonio pubblico, aumento di produttività e di competitività. Un po' di sgravi fiscali (spiccioli) per imprese e lavoratori.

Infine grande riforma del fisco (nel 2013 e anni seguenti).

Per intanto riscrittura dell'articolo 41 e abolizione dell'articolo 43 della Costituzione. Per poi, magari, abolire anche l'articolo 1, quello che recita "la Repubblica è fondata sul lavoro".

Una parola sull'articolo 41 (e 43): sono due articoli contenuti nella prima parte della Costituzione quella dedicata ai principi ispiratori della nostra Carta. Per convenzione tra tutte le parti politiche e sociali, la prima parte della Carta non deve essere toccata. Questa convenzione è saltata? Si può intervenire su tutto? C'è stata una consultazione su questo delicatissimo argomento?

Aggiungo: poiché presumibilmente le opposizioni voteranno contro la riscrittura dell'articolo 41, si andrà al referendum confermativo, con la conseguenza che avremo per la prima volta nella storia repubblicana un referendum costituzionale sulla prima parte della Carta, cioè sui principi che ispirano il nostro patto costituzionale.

Ebbene, noi crediamo che sia gravissimo questo programma di sottoporre a voto parlamentare e poi a referendum i principi che ci legano al patto costituzionale. Crediamo che il Capo dello Stato non firmerebbe quella legge e che la Corte la boccerebbe. Per modificare i principi ci vuole un'Assemblea costituente e troviamo molto strano che finora nessuno abbia sollevato questa questione.

Torniamo alla crescita. Con riforme senza spese non si fa niente. Va bene liberalizzare e certo sarebbe un bel giorno quello in cui la burocrazia decidesse in pochi giorni su un'autorizzazione o una licenza e che non ci volessero trenta passaggi e un anno e mezzo per ottenere un permesso.

In tutta franchezza noi credevamo che questo problema fosse stato risolto da un pezzo perché tutti i governi degli ultimi vent'anni ci hanno detto d'avere semplificato e ridotto all'osso il numero delle leggi e delle inutili complicazioni. Ricordo che Calderoli  -  ministro della Semplificazione  -  fece un pubblico falò con tanto di fotografi e televisioni e bruciò non so quante centinaia di leggi da lui abolite. Caro Calderoli, ma quali leggi ha bruciato se sono tutte ancora lì e se è vero che bisogna semplificare la burocrazia per costruire un edificio qualsiasi e per ottenere un qualsiasi permesso? Dunque non era vero quello che lei ci ha fatto intendere. Dunque avete gabbato anche questa volta i cittadini. Dunque siete un governo di imbroglioni. Dunque stiamo ancora discutendo sulla Salerno-Reggio Calabria. Non è una vergogna?

* * *

È chiaro che le riforme senza spese non hanno nulla a che vedere con la crescita specie se la crescita bisognerebbe avviarla presto, anzi prestissimo. Nessuno vuole la patrimoniale, salvo l'imposta sulle case prevista dal decreto sul federalismo municipale. Ma per avviare la crescita, incrementare imprese e salari, rilanciare i consumi che scendono, contenere l'inflazione (che è una tassa, non è vero ministro Tremonti? Una tassa per di più regressiva?) i soldi ci vogliono.

Lei, nonostante i tagli, ha fatto correre le spese correnti (riducendo al minimo quelle per investimenti) del 2 per cento l'anno. Ha fatto aumentare il debito fino al 118 per cento. Ha azzerato l'avanzo delle partite correnti. Ha fatto aumentare la pressione fiscale.

I soldi per la crescita da dove li prenderà? Lo vedremo dai concreti provvedimenti che riuscirà a portare in Parlamento sempre che riesca a farsi luce tra il federalismo secessionista che piace tanto anche a lei e le leggi che servono al premier per bloccare i processi che lo riguardano.

* * *

Dovrei parlare ora dell'altra partita, quella appunto sullo scontro giudiziario. Ma su quella non dico nulla, parlano e parleranno le carte. Una parola sulla foto "osé" della quale si parla con crescente insistenza. Se la foto c'è, qualcuno l'ha scattata. Quindi il premier fa entrare nelle sue case gente che è in grado di ricattarlo. Chiedo a Gianni Letta: perché lei ha escluso la ricattabilità del premier deponendo di fronte al Copasir? Se la foto ci fosse lei sarebbe smentito dai fatti. Ha considerato questa ipotesi? Le guardie non dovrebbero perquisire gli invitati del premier quando si tratta di "ragazze di vita"? E se quelle foto se le vendessero e se in contropartita del silenzio chiedessero soldi posti seggi nel Parlamento e nelle Regioni? Siamo ridotti in queste condizioni ed è questo l'uomo che rappresenta il governo e lo Stato?

(06 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/06
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« Risposta #264 inserito:: Febbraio 11, 2011, 03:32:14 pm »

La morale dell'elefantino

di Eugenio Scalfari


E se la sacra pazzia di Berlusconi fosse anche intrisa di reati oltre che di peccati e grossolanità? A noi miserabili miscredenti importa poco del peccato e molto del reato

(11 febbraio 2011)

Manifestazione del Pdl Manifestazione del PdlDedicare per la seconda volta di seguito il mio "Vetro soffiato" a Giuliano Ferrara e al suo codice estetico-morale non era nei miei pensieri, ma dopo aver letto il suo Elefantino di lunedì scorso non posso farne a meno. Si tratta di una "Lettera alle belle anime azioniste (nella loro miseria)" ed è la prima violazione del canone estetico: usare l'aggettivo sostantivato di azionista nel suo doppio significato di militante del partito d'azione (che è scomparso dalla scena politica 62 anni fa) e di portatore di azioni d'una società è un giochetto talmente banale da ricordare lo stridore d'una lama di coltello sul marmo. I foglianti non possono usarlo senza venire clamorosamente meno alla loro estetica. Potremmo semmai farlo noi "nella nostra miseria" ma la raffinata sensibilità vostra non ve lo consente.

Il testo di quella lettera aperta contiene però molto di peggio. Racconta la serata al Palasharp di Milano, affollata da 12 mila persone per iniziativa di "Libertà e giustizia". Cito: "Abbiamo visto il moralismo dei finti perseguitati, degli autori che dicono di andare a letto presto, sì, "ma solo perché leggo Kant" (così ha specificato Eco ammiccando con una battuta miserabile a una platea di devoti dell'onore d'Italia). E che orrore la fosca antropologia di Zagrebelsky, la voce chioccia e la perfidia negli occhi. Il cattolicesimo reazionario e sessuofobo d'uno Scalfaro. La mediocre telefonata di Ginsborg, le banalità di Saviano e che delusione la Camusso a rapporto dai suoi nemici di classe, gli azionisti billionaires".

Un elenco dozzinale di insulti, ma attenti agli aggettivi e ai sostantivi: la voce chioccia, e passi per chioccia, ma l'Elefantino non aveva fatto il tifo per il film "Il Discorso del Re"? La perfidia degli occhi: come fa a scorger perfidia attraverso le immagini televisive? Il cattolicesimo sessuofobo e reazionario; sta forse pensando al cardinale Ruini? Ginsborg mediocre, Saviano banale, Camusso e gli azionisti nemici di classe. Dov'è il Ferrara prezioso che gareggia in abiti di flanella o di lino bianchi con parole ficcanti che lasciano il segno? Ha perso il gusto di ferire l'avversario con un vocabolario mantenuto sotto la canfora e sguainato al momento giusto? Ci contentiamo di banale, mediocre, sessuofobo?
L'Elefantino dovrebbe stare molto attento a rinverdire il suo canone estetico per una ragione che lui del resto conosce perfettamente: quando si affronta l'avversario sul terreno della morale bisogna avere una morale oppure un'estetica o magari e meglio ancora entrambi quei codici. Poiché l'Elefantino non dispone del primo requisito per sua volontaria rinuncia, gli resta il secondo che va coltivato con la massima cura per non lasciarlo appassire. L'estetica è fatta di finezza e di sottintesa ironia, la radicalità la devasta.

"All'inflessione piccolo dialettale di Zagrebelsky in fondo in fondo preferisco la banda Cavallero" e poi oltre: "Per fortuna quel mondo ha prodotto anche i Violante, persone di razza che ne hanno fatte più di Carlo in Francia ma non si abbasserebbero mai a scrutare i giorni, le notti e le vite degli altri". Davvero? Carlo in Francia? Il buco della serratura? Siamo arrivati a questo? Tra poco i lettori foglianti dovranno leggere che "si combatte alla grande, si vincerà tra un attimino e sì, è assolutamente così". E allora meglio "Libero" di Belpietro e il "Giornale" di Sallusti.
Però alla fine arriva il colpo di reni. Eccolo ri-finalmente, il Ferrara dei bei tempi: una citazione di Emerson, Ralph Waldo, in inglese nelle note (ma non era meglio mettere in nota la traduzione italiana?) "Ho tutto sommato l'impressione che dove ci sia una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato, lì troveremo anche l'argine e la purificazione e alla fine si scoverà un'armonia con le leggi morali". Fin qui la citazione di Waldo. Segue il finale speranzoso dell'Elefantino: "La pazzia di Berlusconi sarà in qualche modo riscattata, belle anime azioniste, la vostra mancanza di vita è inescusabile".

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« Risposta #265 inserito:: Febbraio 12, 2011, 10:46:51 pm »

L'INTERVISTA

"Sembra il finale del Caimano e il Cavaliere usa le sue tv"

Nanni Moretti: "Così si perpetua il berlusconismo". "L'Italia non è un Paese di insurrezioni".

"La sinistra avrebbe dovuto sollevare il gigantesco conflitto di interessi subito, prima, durante e dopo le elezioni. Non fece nulla"


di EUGENIO SCALFARI


"Sembra il finale del Caimano e il Cavaliere usa le sue tv" Nanni Moretti
Non vedevo il film di Nanni Moretti, "Il Caimano" da quando fu proiettato per la prima volta cinque anni fa nella sala del "Sacher" a Trastevere. Ricordo che era gremita, con la gente seduta per terra nei corridoi della platea e addossata alle pareti. Alla fine ci fu un'ovazione.

Lui era imbarazzato perché non riusciva a sottrarsi alla folla che voleva abbracciarlo o almeno dargli la mano. E d'umore molto scorbutico Moretti, si concede molto poco.

Non è per sobrietà ma per una sorta di nevrosi che ha come risvolto positivo una lucidità mentale che aguzza la sua capacità di capire gli altri e se stesso. I suoi film raccontano il suo sé ed anche il sé altrui; i personaggi sono spesso la sua controfigura o il suo opposto. Per questo il personaggio Berlusconi gli è venuto benissimo: è il suo opposto assoluto salvo quel tanto di paranoia che perseguita tutti e due. Perciò gli è stato facile metterlo in scena, l'ha costruito animandolo di passioni opposte alle sue e in quel modo il ritratto si è perfettamente sovrapposto all'originale. Il Caimano non è il risultato di una profezia azzeccata ma d'un attento lavoro di psicanalisi.

Di quel film ricordavo il finale, il discorso del protagonista in Tribunale, la sentenza di condanna, l'arringa del leader all'uscita dal Palazzo di Giustizia, l'insurrezione della sua gente e infine le fiamme della città incendiata. Insomma la guerra civile.
Siamo a questo? I seguaci di Berlusconi insorgeranno?
Contro la magistratura e contro le leggi? Dopo 15 anni di confisca berlusconiana d'una parte cospicua della pubblica opinione? L'ho chiesto a Moretti in una lunga telefonata dopo aver letto le sue interviste all'"Unità" e al "Manifesto", nelle quali parlava dei suoi agitati rapporti con la Rai che aveva bloccato gli ultimi sette minuti del suo film nella trasmissione di Serena Dandini di giovedì sera.

"Non credo" risponde Moretti. "Noi non siamo un Paese di insurrezioni e poi siamo in Europa, la gente pensa piuttosto come sbarcare il lunario e non ai vizi di Berlusconi o a quelli dei magistrati che secondo lui lo perseguitano. Ma quanto doveva accadere ormai è accaduto. La bomba è scoppiata e non restano che rovine fumanti".

Le parole del Caimano nel finale del film sono identiche a quelle pronunciate negli ultimi tre giorni da Berlusconi nei suoi interventi pubblici. Dico identiche, non simili: identiche. Sembra quasi che abbia rivisto il film e ne abbia mandato a memoria quelle parole. Insomma, dico a Moretti, gliele hai scritte tu, non Giuliano Ferrara.
"Hai ragione, sembra che il finale del Caimano sia esattamente il Berlusconi di questi giorni".

Tu però le ha scritte cinque anni fa, nel 2005. Lui era al governo da quattro anni. All'epoca non si parlava di "escort", ma la sua concezione del potere era già evidente.
"Era evidente già molto tempo prima. Questa storia comincia nel 1994, quando prese il potere per la prima volta. Non era mai accaduto che un "tycoon" della televisione diventasse capo del governo mettendo insieme le sue televisioni private e quella pubblica. Un gigantesco conflitto di interessi che la sinistra avrebbe dovuto sollevare subito, prima, durante e dopo le elezioni che comunque furono perse".

La sinistra di allora era il Pds guidato da Occhetto, le elezioni furono perse perché la Dc di Martinazzoli seguì le indicazioni del Vaticano e non si alleò con il Pds. La sinistra sollevò il tema del conflitto di interessi.
"Sì, lo sollevò ma poi non fece nulla per impedirlo e quando tornò al governo con Prodi il conflitto di interessi fu abbandonato. Secondo me avrebbe dovuto essere il tema numero uno. Le televisioni sono lo strumento principale di Berlusconi che le usa con una spregiudicatezza raccapricciante. In più ha anche in mano il cinema attraverso la Medusa, il suo dominio sulle comunicazioni è pressoché totale. L'opinione pubblica italiana si forma per l'80 per cento sulle televisioni, così è nato il berlusconismo e così rischia di perpetuarsi".

Prodi però vinse e vinse due volte anche se la seconda fu una vittoria di breve e travagliata durata...
"E fu buttato giù da Bertinotti tutte e due le volte. A me il governo Prodi del '96 sembrò un buon governo, lo dico perché mi si accusa spesso d'avere un partito preso contro la sinistra riformista. Non è vero. Non mi piace la sinistra inconcludente, sia quella radicale sia quella riformista. Negli ultimi anni sono stati purtroppo inconcludenti tutti e due".

Tu pensi che non ci sia possibilità di uscire dalla situazione presente? Se si determinasse un'alleanza di tutte le opposizioni la vittoria sarebbe molto probabile.
Non risponde, tanto che penso che la linea telefonica sia per qualche ragione caduta; invece no, Nanni è all'altro capo del filo. "Ci sto pensando, ma come sai non sono un politico e comunque non spetta a me dar consigli. Non lo so, francamente non lo so. Anzi, non farmela questa domanda".

Ormai te l'ho fatta, scriverò che non lo sai, come hai appena detto. Ma c'è un altro tema sul quale mi piacerebbe avere la tua risposta ed è il berlusconismo. Di personaggi come lui ce ne sono parecchi ma il berlusconismo è un modo di pensare e di comportarsi che in Italia sembra scritto su una parte della nostra antropologia. C'è stato il caso di Mussolini, dell'Uomo Qualunque, di Craxi e infine di Berlusconi. Sono cose molto diverse ma con profonde analogie. Che cosa ne pensi?
"Penso che il berlusconismo sia una causa e contemporaneamente un effetto. I casi da te indicati sono diversi ma c'è una predisposizione italiana a farsi sedurre dalla demagogia e dal populismo. Tempo fa, quando fu eletto in Francia Sarkozy presidente della Repubblica molti pensarono che era emerso in Europa un altro Berlusconi, ma non è affatto vero. Sarkozy è tutt'altra cosa. Ha anche lui alcuni aspetti politicamente sgradevoli ma non hanno niente a che vedere col berlusconismo. Tra l'altro non possiede e non influenza né televisioni né giornali".

E poi la Francia non è l'Italia, lì lo Stato esiste davvero, da noi no.
"A me piace lo Stato se fosse libero dalle lobbies e dalle bande che troppo spesso lo occupano. Noi abbiamo al governo la lobby più potente che ci sia mai stata in questo Paese e lo si doveva capire fin dal primo momento".

Gli dico: forse non te lo ricordi, ma io scrissi un articolo su Repubblica nell'agosto del '92 intitolato "Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa". Nel '92, due anni prima che lui si occupasse di politica. I segnali erano evidenti.
"Ma i politici non lo capirono".

Oggi l'hanno capito.
"Temo che sia troppo tardi".

Io spero di no. La conversazione è finita. Abbiamo deciso di incontrarci presto per fare un po' di monitoraggio. Ma sono cose che si dicono e poi non si fanno e del resto monitorare, a questo punto, non basta più.

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #266 inserito:: Febbraio 13, 2011, 11:10:39 pm »

Che ipocriti questi atei devoti

di Eugenio Scalfari

La campagna di Giuliano Ferrara contro i «moralisti» serve solo a confondere le acque: qui è in corso un'inchiesta penale per accertare dei reati gravi.

Cosa c'entra il peccato?

(11 febbraio 2011)

Dedicare per la seconda volta di seguito il mio "Vetro soffiato" a Giuliano Ferrara e al suo codice estetico-morale non era nei miei pensieri, ma dopo aver letto il suo Elefantino di lunedì scorso non posso farne a meno. Si tratta di una "Lettera alle belle anime azioniste (nella loro miseria)" ed è la prima violazione del canone estetico: usare l'aggettivo sostantivato di azionista nel suo doppio significato di militante del partito d'azione (che è scomparso dalla scena politica 62 anni fa) e di portatore di azioni d'una società è un giochetto talmente banale da ricordare lo stridore d'una lama di coltello sul marmo. I foglianti non possono usarlo senza venire clamorosamente meno alla loro estetica. Potremmo semmai farlo noi "nella nostra miseria" ma la raffinata sensibilità vostra non ve lo consente.

Il testo di quella lettera aperta contiene però molto di peggio. Racconta la serata al Palasharp di Milano, affollata da 12 mila persone per iniziativa di "Libertà e giustizia". Cito: "Abbiamo visto il moralismo dei finti perseguitati, degli autori che dicono di andare a letto presto, sì, "ma solo perché leggo Kant" (così ha specificato Eco ammiccando con una battuta miserabile a una platea di devoti dell'onore d'Italia). E che orrore la fosca antropologia di Zagrebelsky, la voce chioccia e la perfidia negli occhi. Il cattolicesimo reazionario e sessuofobo d'uno Scalfaro. La mediocre telefonata di Ginsborg, le banalità di Saviano e che delusione la Camusso a rapporto dai suoi nemici di classe, gli azionisti billionaires".

Un elenco dozzinale di insulti, ma attenti agli aggettivi e ai sostantivi: la voce chioccia, e passi per chioccia, ma l'Elefantino non aveva fatto il tifo per il film "Il Discorso del Re"? La perfidia degli occhi: come fa a scorger perfidia attraverso le immagini televisive? Il cattolicesimo sessuofobo e reazionario; sta forse pensando al cardinale Ruini? Ginsborg mediocre, Saviano banale, Camusso e gli azionisti nemici di classe. Dov'è il Ferrara prezioso che gareggia in abiti di flanella o di lino bianchi con parole ficcanti che lasciano il segno? Ha perso il gusto di ferire l'avversario con un vocabolario mantenuto sotto la canfora e sguainato al momento giusto? Ci contentiamo di banale, mediocre, sessuofobo?

L'Elefantino dovrebbe stare molto attento a rinverdire il suo canone estetico per una ragione che lui del resto conosce perfettamente: quando si affronta l'avversario sul terreno della morale bisogna avere una morale oppure un'estetica o magari e meglio ancora entrambi quei codici. Poiché l'Elefantino non dispone del primo requisito per sua volontaria rinuncia, gli resta il secondo che va coltivato con la massima cura per non lasciarlo appassire. L'estetica è fatta di finezza e di sottintesa ironia, la radicalità la devasta.

"All'inflessione piccolo dialettale di Zagrebelsky in fondo in fondo preferisco la banda Cavallero" e poi oltre: "Per fortuna quel mondo ha prodotto anche i Violante, persone di razza che ne hanno fatte più di Carlo in Francia ma non si abbasserebbero mai a scrutare i giorni, le notti e le vite degli altri". Davvero? Carlo in Francia? Il buco della serratura? Siamo arrivati a questo? Tra poco i lettori foglianti dovranno leggere che "si combatte alla grande, si vincerà tra un attimino e sì, è assolutamente così". E allora meglio "Libero" di Belpietro e il "Giornale" di Sallusti.

Però alla fine arriva il colpo di reni. Eccolo ri-finalmente, il Ferrara dei bei tempi: una citazione di Emerson, Ralph Waldo, in inglese nelle note (ma non era meglio mettere in nota la traduzione italiana?) "Ho tutto sommato l'impressione che dove ci sia una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato, lì troveremo anche l'argine e la purificazione e alla fine si scoverà un'armonia con le leggi morali". Fin qui la citazione di Waldo. Segue il finale speranzoso dell'Elefantino: "La pazzia di Berlusconi sarà in qualche modo riscattata, belle anime azioniste, la vostra mancanza di vita è inescusabile".

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« Risposta #267 inserito:: Febbraio 17, 2011, 05:07:42 pm »

Il legno storto e quello putrido

di EUGENIO SCALFARI

Mubarak è caduto sotto la spinta irrefrenabile della gioventù egiziana. Berlusconi oscilla, sempre più impotente e sempre più Caimano e registra per la prima volta lo smottamento dei consensi che finora costituivano la base del suo sistema di potere. L'opposizione comincia (finalmente) a considerare la necessità di costruire un'alleanza repubblicana che guidi il paese fuori dal pantano in cui è precipitato.
 Questi sono i fatti della settimana che si conclude oggi con la manifestazione delle donne in tutte le piazze d'Italia per affermare la loro dignità ed opporsi al degrado che ci sovrasta.

 C'è un tema che unifica questo panorama di eventi e lo prendo da una frase ormai celebre di Immanuel Kant sul "legno storto dell'umanità". Isaiah Berlin ha scritto un libro intitolato a questa frase. L'umanità è un legno storto e lo è perché l'uomo risulta da un'incredibile mescolanza di istinti e di ragione. Un legno storto ma un legno vivo, con radici e fronde vitali. Nelle vene del suo tronco scorrono linfe, passioni, sentimenti, memoria, progetti, ragionamenti, sogni, trasgressioni, bisogno di regole e di limiti.

 Questo è il legno storto e questo siamo tutti noi. Ma l'opposto non è un improbabile anzi impossibile legno dritto, bensì un legno marcio, un legno imputridito, divorato dai parassiti e dai coleotteri velenosi. Noi, legno storto, non vogliamo che il nostro legno imputridisca, marcisca e sia divorato dai parassiti.

Questo dunque è il tema al quale gli eventi di questi giorni si ricollegano ed è la chiave per poter leggere e svolgere con chiarezza. Un tribuno che si eccita quando fiuta l'odore del nemico e dello scontro, ha citato anche lui la massima kantiana leggendola come un alibi che giustifichi i peccati di tutti e di uno in particolare. Ha anche accusato Umberto Eco di leggere Kant senza capirlo. Non so se quel tribuno vociante e urlante dal palco d'un teatro milanese imbandierato di mutande abbia letto i romanzi e i saggi di Eco. Se li avesse letti si sarebbe accorto che tutta l'opera di Eco è l'analisi e il racconto del legno storto che combatte il legno marcio, a volte vincendo, a volte soccombendo, ma sempre e comunque testimoniando.
 Detto questo, a noi non importano molto i peccati perché siamo libertini illuministi e relativisti. A noi importano gli eventuali reati e chi pecca e crede confidi nella misericordia di Dio.
* * *
Berlusconi non è un fatto episodico e anomalo nella storia italiana.
Conversando l'altro giorno con Nanni Moretti, l'autore del Caimano ha detto ad un certo punto che dai geni antropologici della nostra nazione sembra emergere una sorta di predisposizione a cedere alla demagogia. Nel suo articolo di mercoledì scorso Barbara Spinelli aveva esaminato della predisposizione come si manifesta nelle sue varie forme e quali ne siano state le cause storiche.

Molti anni prima, nel 1945, in un dibattito alla Consulta che è rimasto nei verbali di quell'istituzione, ne parlarono Ferruccio Parri e Benedetto Croce a proposito di Mussolini e del fascismo. Croce sosteneva che fosse un fatto anomalo, un tragico incidente di percorso; Parri era di diverso avviso, non un incidente ma, appunto, una predisposizione, un effetto ricorrente ad intervalli periodici, un virus annidato nell'organismo del paese insieme agli anticorpi capaci di combatterlo ma a volte soccombenti di fronte alla sua irruenza.

In un contesto diverso e con caratteri diversi, Berlusconi raffigura una nuova insorgenza di quel virus e questo spiega il largo consenso che l'ha fin qui sorretto. Ma ora gli anticorpi sono entrati in azione e non basteranno i tacchi dalla Santanché e le contumelie di Ferrara a ridare al virus la sua potenza corrompitrice.
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L'opposizione sta finalmente considerando la necessità di dar vita ad un'alleanza repubblicana. Sembra decisa sull'obiettivo che si propone ma ancora molto incerta sulle modalità, sui tempi, sulla leadership ed anche sui partecipanti. Da Fini a Bersani? Da Casini a Vendola? Anche con Di Pietro? Guidati da chi? Per fare che cosa?

Includendo anche quella parte del Pdl che dovesse eventualmente abbandonare il proprietario di quel partito?

E la Lega? Si deve trattare con la Lega? Questa lunga sfilza di domande ancora senza risposte è preoccupante.

Significa che i soggetti protagonisti non hanno ancora capito che il tempo a disposizione è corto e che compete proprio a loro di accorciarlo perché - e questo lo capiscono tutti - nelle odierne condizioni il paese non può stare più oltre.
 Debbo su questo punto una risposta personale a Nichi Vendola il quale giovedì scorso ad Annozero di Michele Santoro ha ricordato un mio articolo di oltre due mesi fa in cui sostenevo che non era il momento di andare alle elezioni e che bisognava piuttosto lavorare per disarcionare Berlusconi installando al suo posto un governo interinale che guidasse il paese fino alla fine naturale della legislatura.

È perfettamente esatto, ho scritto proprio così perché allora il contesto politico ed economico a mio avviso consigliava questa soluzione ed in questa chiave si aspettava il voto parlamentare del 14 dicembre. Ma proprio quel voto, con i suoi tre voti di differenza in favore del governo ottenuti sappiamo come, cambiò radicalmente il contesto. Oggi non si può che andare alle elezioni a meno che il premier non si dimetta. C'è ancora chi crede in un'ipotesi del genere? Mubarak è stato costretto a farlo, ma l'Italia non è l'Egitto e i due casi non sono paragonabili.
Dunque bisogna affrettare le elezioni e rispondere a quella selva di punti interrogativi che abbiamo sopra elencato.
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Un'alleanza repubblicana deve avere dei promotori che indichino gli obiettivi e decidano la leadership. I promotori si sono già manifestati: Bersani, cioè il Partito democratico unito su questa linea e Casini, cioè l'Udc, o forse il Polo della nazione che comprende anche Fini e Rutelli.

L'obiettivo è stato indicato: cambiare la legge elettorale avvicinandola agli elettori; affiancare con misure appropriate la crescita economica al rigore di bilancio; costruire un federalismo che non sia secessionista ma un solido ed efficiente sistema di autonomie regionali e comunali. Infine restituire alle istituzioni la loro dignità, la loro autonomia e la loro efficienza nel rispetto della reciproca indipendenza tra i poteri dello Stato.

Fin qui i promotori. I quali - ecco un punto che ancora non è stato chiarito ma che è parte essenziale dell'operazione, non possono mettere veti alle forze politiche che decidessero di partecipare all'alleanza, anzi debbono mirare ad ampliarla il più possibile.

Gli esiti scoraggianti dell'Unione che erose dall'interno il governo Prodi del 2006 avvennero in un contesto del tutto diverso. Oggi non si tratta di dar vita ad un'alleanza di governo così estesa. L'alleanza di governo riguarda i partiti promotori. Le altre forze saranno invitate a far parte d'un cartello elettorale che concordi sull'obiettivo ed è questo che marca la differenza.

Ma c'è un altro punto che va chiarito. Una volta perfezionata l'alleanza e il cartello elettorale, i promotori debbono chiedere al Presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere per la loro manifesta impossibilità di legiferare. Il Parlamento da oltre due mesi è in stato di paralisi e questo di per sé motiva la richiesta di scioglimento della legislatura.

Va aggiunto che la paralisi parlamentare e l'impotenza del governo a governare motiva anche l'iniziativa autonoma del Capo dello Stato il quale ieri pomeriggio ha richiamato di nuovo l'attenzione pubblica su questa sua insindacabile prerogativa costituzionale.

Resta il tema della leadership. Esprimo su questo punto un parere personale: non credo che il leader d'una alleanza tra la sinistra e il centro-centrodestra possa esser guidata da un esponente politico proveniente da una delle forze alleate. Deve essere rappresentativo di tutte e soprattutto della società civile.

Parlammo a suo tempo d'un "Papa straniero" in questo senso.  Prodi lo fu e vinse due volte in nome e per conto delle forze alleate. Ciampi, in condizioni del tutto diverse, guidò un governo di ricostruzione repubblicana.

Il leader di questa alleanza non può che rispondere a queste caratteristiche: rappresentare il comune denominatore e possedere una specifica competenza soprattutto economica perché è quello il tratto dominante della situazione.
 Ma va aggiunto che anche la scelta del presidente del Consiglio spetta al Capo dello Stato che, in situazioni del genere e con l'aiuto della coalizione vincente può anche scegliere un premier diverso da quello indicato sulle schede come leader della campagna elettorale.

Post scriptum. Domenica scorsa segnalai la pericolosità di riformare l'articolo 41 della Costituzione. Tutte le opposizioni hanno criticato quell'ipotesi approvata dal Consiglio dei ministri, definendola del tutto inutile ai fini della crescita economica. Per quanto mi riguarda sono perfettamente d'accordo su questa critica, ma la vera pericolosità è un'altra: sarebbe la prima volta che si emenda un articolo scritto nella prima parte della Costituzione, quella cioè che enumera i principi ispiratori della nostra Carta. Riscrivere quell'articolo e metterlo in votazione costituirebbe un pericolosissimo precedente. Del resto il ministro Sacconi, parlando in televisione di questa questione, ha dichiarato che la riscrittura dell'articolo 41 prelude ad una vera e propria rivoluzione culturale basata su nuovi principi ispiratori. Si aprirebbe dunque la strada ad uno stravolgimento della Costituzione, che non può esser fatta a colpi di emendamenti ma richiederebbe l'eccezionalità d'una nuova Assemblea costituente. Credo che le forze politiche responsabili dovrebbero impedire che un precedente del genere sia una mina sotterranea sotto la nostra democrazia costituzionale.
 

(13 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #268 inserito:: Febbraio 20, 2011, 10:21:41 am »

IL COMMENTO

Don giovanni all'inferno e Benigni in paradiso

di EUGENIO SCALFARI

TANTO era stato retorico e melenso il Festival di Sanremo, con le sue canzoni nuove e mediocri e quelle antiche ridotte ad ali di farfalla appiccicate al muro con lo spillo, e tanto si è trasformato in una festa popolare, colorata, irriverente e istruttiva non appena Roberto Benigni è apparso sul palcoscenico dell'Ariston sul cavallo bianco e con in mano la bandiera dai tre colori.

Così, per quaranta minuti, 20 milioni di italiani hanno riso, hanno applaudito, hanno preso a cuore il Risorgimento e una patria creata da una minoranza di giovani coraggiosi che hanno dato la vita per far sorgere una nazione.

Benigni ha toccato tutti i tasti del suo inimitabile repertorio, ha lanciato bonariamente le frecce della sua micidiale comicità ed ha contemporaneamente dispensato preziosi insegnamenti di etica pubblica che forse molti degli ascoltatori avevano dimenticato. Ha dato anche notizie di fatti antichi probabilmente ignoti ai più; la
più commovente è stata quella del ventenne autore del nostro inno nazionale che pochi mesi dopo averlo composto morì nello scontro di Porta San Pancrazio dove caddero insieme a lui i Manara, i Cairoli e i giovani della Legione lombarda guidati da Garibaldi per difendere la Repubblica romana.

"Umberto svegliati, italiani svegliatevi" intercalava Benigni rivolgendosi a Bossi mentre raccontava la morte di Mameli e di tanti altri giovani del Nord. Non so come abbiano reagito e che cosa abbiano sentito dentro di loro i
tanti milioni di telespettatori.
So che io me lo sarei abbracciato quel burattino ridente e sudato che è una grande ed amata persona.

Torniamo alle dolenti note di queste tese giornate. Quello che più di tutto avvilisce non noi che serbiamo nel cuore il sentimento della nazione, ma le istituzioni che dovrebbero rappresentarla, è il comportamento di quei 315 parlamentari, anzi 320 dopo l'ultima transumanza, che votano a comando le proposte più incredibili, più scriteriate e più concettualmente impudiche che mai siano state presentate nelle aule parlamentari.

Hanno affermato come verità rivelata che la vergognosa telefonata di Berlusconi alla Questura di Milano per liberare la "nipote di Mubarak" fu l'atto d'uomo di Stato che voleva e doveva evitare una grande crisi internazionale. Hanno deciso, non avendone alcun potere, quale fosse il giudice competente a giudicare il presidente del Consiglio, interferendo come mai era avvenuto così platealmente con l'ordinamento costituzionale e con l'autonomia della giurisdizione. Sono pronti ad eseguire senza neppure un sussulto di incertezza gli ordini degli avvocati del premier, decisi a far sollevare dal Parlamento il conflitto di attribuzione del processo di Milano, incuranti dell'avvertimento che la Corte costituzionale ha fatto filtrare sulla irricevibilità d'un ricorso del genere poiché non è la Corte che stabilisce la competenza del Tribunale ma la Cassazione.

Quei due avvocati e il ministro della Giustizia che li affianca scopertamente commettendo in questo modo una gravissima irritualità, sono talmente accecati dall'ansia di sottrarre al processo il loro cliente da commettere asinerie professionali che non sfuggirebbero neppure ad un giovane praticante. Ghedini e Longo dovrebbero almeno ripassarsi la procedura penale prima di coinvolgere il loro raccomandato ad errori di tali portata.

Nel frattempo il "calciomercato" prosegue a vele spiegate. Bisognerebbe conservare l'elenco dei "transumanti", quei senatori e deputati che tra il 14 dicembre e il 16 febbraio hanno cambiato gruppo parlamentare due, tre e perfino quattro volte. E bisognerebbe anche prender nota delle motivazioni che di volta in volta hanno - non richiesti - fornito. La più clamorosa è stata quella d'un parlamentare che dopo aver girovagato è approdato al Pdl perché un suo zio era sacerdote salesiano e Berlusconi pare abbia frequentato da ragazzo una scuola di salesiani.

Noi festeggeremo il 17 marzo la seduta solenne che si svolse a Torino a Palazzo Carignano nel 1861, dove il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato unitario e si trasformò nel primo Parlamento italiano. Ne sono accadute tante in questi centocinquanta anni; è accaduto anche che il Parlamento sia stato ridotto ad un "bivacco di manipoli" e poi abolito; ma non era ancora accaduto che si trasformasse in uno spettacolo di guitti, con tutto il rispetto dovuto ai comici di quella fatta. Con l'ultimo oltraggioso sberleffo lanciato dai ministri leghisti Bossi e Calderoli che hanno definito incostituzionale e non hanno votato sul decreto con il quale venerdì scorso il 17 marzo è stato proclamato per quest'anno festa nazionale. Il ministro dell'interno Maroni ha addirittura disertato il voto nella riunione del Consiglio dei ministri. La cosa incredibile non è che Bossi, Calderoli e Maroni la pensino in questo modo, ma che siano ministri della Repubblica ed abbiamo giurato fedeltà alla Costituzione.

* * *

Ma il massimo dello sfregio è quello che si sta preparando dopo che il Consiglio dei ministri ha approvato all'unanimità la relazione di Alfano sulla riforma della giustizia e sulle intercettazioni.

Il premier vuole che i testi di queste leggi prevedano il processo breve che cancelli le sue vertenze con la magistratura, dividano in due il Csm, separino le carriere dei pubblici ministeri da quelle dei giudici, ripristinino l'immunità dei parlamentari, blocchino la pubblicazione delle intercettazioni e ne impediscano il racconto anche quando le carte non siano più secretate.

Pretende infine che il processo del "Rubygate" sia assegnato al Tribunale dei ministri per deliberazione delle Camere e quindi spento con la delibera della Giunta per le autorizzazioni a procedere. Un salvacondotto totale per lui e per la cricca che ha operato all'ombra del suo potere.

Se tutto questo dovesse avvenire la trasformazione della nostra democrazia parlamentare in un potere assoluto sarebbe compiuta. Le elezioni si trasformerebbero in un plebiscito e il Parlamento in una sede di passiva registrazione dei voleri del Capo.

A meno che....

* * *

A meno che le opposizioni non si uniscano per dar battaglia e probabilmente vincerla. Ma lo faranno?

Non sembra sia questa l'intenzione di Casini. L'ha detto chiaramente con una recentissima dichiarazione in due trasmissioni televisive. Ha detto che è sua intenzione presentarsi da solo alle elezioni (con Fini e Rutelli) rifiutando l'alleanza con l'opposizione di centrosinistra. Nelle elezioni per la Camera - Casini lo ha ammesso - la coalizione Pdl-Lega sarà vittoriosa e incasserà il premio di maggioranza, ma al Senato, secondo il leader dell'Udc - non vincerà. Ci saranno allora due Camere con maggioranze diverse e quindi una situazione ingovernabile senza un compromesso.

Spetterà allora a lui, Casini, proporre una "grande coalizione" che unisca tutte le forze politiche per gestire la crisi, a cominciare dal Pdl e dalla Lega, ma senza Berlusconi premier.

Questo è il progetto, probabilmente supportato anche dal Vaticano. Questa non è una mia supposizione: il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Andrea Riccardi, l'ha pubblicamente sponsorizzato: un partito di ispirazione cattolica dove tutti i cattolici politicamente impegnati possano, se vogliono, confluire e che diventi il perno di un'alleanza moderata e riformista la cui guida possa ripristinare un'etica pubblica accettabile e garantire alla Chiesa il rispetto di quei diritti non negoziabili che alla Chiesa stanno a cuore.

Che dire d'una linea politica e d'un quadro così tratteggiato?

* * *

Noi pensiamo che sia scriteriato. Per varie ragioni. La prima riguarda l'ipotesi d'una sconfitta della coalizione Pdl-Lega al Senato. Possibile ma tutt'altro che certa, specie dopo le vicende non certo corroboranti del partito di Fini e dopo la formazione del partito del Sud di Micciché, una sorta di lista civica d'appoggio a Berlusconi.
La seconda ragione riguarda l'auspicata vittoria al Senato di Udc e Pd, partiti non alleati tra loro e con obiettivi difformi sul seguito da dare a quella eventuale vittoria.

La terza - e a mio giudizio la più importante - dipende dalla mano tesa di Casini ad un Pdl senza Berlusconi premier. Casini crede veramente che un Berlusconi vittorioso alla Camera e alla testa d'un partito di cui è lui a cementare la compattezza, rinuncerebbe alla premiership? E con essa allo scudo che lo difende dalla magistratura?

Che pensa - Casini - che un'alleanza così composta potrebbe smantellare il berlusconismo ripristinando l'etica pubblica, recuperando la legalità repubblicana, inaugurando una politica economica difforme da quella di Tremonti per quanto riguarda la crescita e la distribuzione del reddito?

Infine: Casini ritiene che il Pd si acconcerebbe ad una soluzione di questo genere?

Il Pd, se accettasse un quadro simile a quello sopra tratteggiato e non lo combattesse vigorosamente, cesserebbe di esistere. Può darsi che questa ipotesi rientri nelle intenzioni della Chiesa e dell'Udc, ma non sarebbe certo un bene per il paese. Senza una sinistra riformista e responsabile ma forte ed intransigente sui punti cardinali del suo programma, l'Italia diventerebbe un paese guelfo guidato da forze conservatrici. È comprensibile che Casini e la Chiesa abbiano quest'obiettivo, ma non è certo quello dell'Italia giovane che rappresenta la sola vera riserva del nostro futuro.

Post Scriptum. Giuliano Ferrara, in un articolo pubblicato sul "Foglio" di venerdì, per difendere i comportamenti libertini dell'Amor suo, si è dedicato ad un argomento insolito: l'esaltazione del melodramma italiano in confronto con la musica sinfonica europea. Verdi e Donizetti da un lato, Beethoven, Schubert e Brahms dall'altro. Sono belle anzi magnifiche le sinfonie di quei grandi - scrive Ferrara - ma agli italiani si addice il melodramma e cita in proposito Massimo Mila nonostante il suo antifascismo azionista.

Voi direte: che c'entra tutto questo con la lotta politica della quale Ferrara è uno dei più rumorosi alfieri? Secondo Ferrara c'entra. Per comprendere Berlusconi e amarlo bisogna rivisitare i personaggi del melodramma. Lui è uno di loro nel bene e nel male. "La donna è mobile" con quel che segue. Ma anche il bene, la generosità, la sfida del pericolo, il ballo in maschera che non è necessariamente il bunga bunga.

Capisco che quando si è a corto di argomenti si cerchi un'uscita improvvisa e laterale, ma questa del melodramma mi sembra grottesca. E se poi vuole inoltrarsi sul tema, il direttore del "Foglio" s'imbatterà inevitabilmente nel "Don Giovanni". Non è anche quello un melodramma? La musica è di Mozart ma il libretto dell'italiano Da Ponte. Il protagonista finisce all'inferno. Per me va bene, ma non penso sia una buona soluzione per come auspicherebbe Ferrara.

(20 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #269 inserito:: Febbraio 27, 2011, 05:53:05 pm »

Con le radici in quel "lenzuolo"

di Eugenio Scalfari

L'Espresso nacque nel 1955.

L'idea era di combinare nobiltà letteraria e impegno civile con una cronaca sbrigliata, spregiudicata e moderna.

Dopo tanti anni ci crediamo ancora

(25 febbraio 2011)

Scrivere questo "Vetro soffiato" in occasione del nuovo "Espresso" che oggi si presenta ai lettori, mi riporta con la memoria agli inizi di questa storia, al vecchio "Espresso" che allora veniva affettuosamente chiamato "lenzuolo" perché il suo formato era quello dei giornali quotidiani, ancora più grande di quelli di adesso. I lettori di oggi mi permetteranno di ricordarlo: quel lenzuolo andò in edicola dall'ottobre del 1955 alla primavera del '74. Presumibilmente gliene avranno parlato i loro padri e i loro nonni.

Tutto cominciò a Roma, in via Po, tre stanze e un bagno in subaffitto in un appartamento al primo piano. Direttore Arrigo Benedetti che era stato fondatore e direttore dell'"Europeo" del quale "L'Espresso" lenzuolo riprese il formato. Io ero il direttore amministrativo e scrivevo di economia. Il capo redattore Antonio Gambino. Gli altri erano Carlo Gregoretti, Enrico Rossetti, Franco Lefevre, Sergio Saviane, Mario Agatoni, Fabrizio Dentice. Un unico inviato ma di grande qualità: Manlio Cancogni. Pochi mesi dopo arrivarono Camilla Cederna, Gianni Corbi, Livio Zanetti, Nello Ajello.

La ricchezza, vorrei dire la cifra di nobiltà del giornale era costituita dalla parte culturale affidata a firme di primissima scelta: la critica letteraria a Geno Pampaloni e a Paolo Milano, il teatro a Sandro De Feo, il cinema ad Alberto Moravia, la musica a Massimo Mila, le arti a Ragghianti e a Venturi, l'architettura a Bruno Zevi. Era il meglio della cultura italiana.

L'idea di Benedetti era di abbinare questa cifra di qualità e di nobiltà letteraria all'impegno civile e a una cronaca sbrigliata, spregiudicata e moderna. E a un apparato fotografico che fece scuola per la sua audacia rappresentativa. Erano gli anni della "dolce vita", ricordate? E del "miracolo italiano". La cifra la davano Federico Fellini con il suo cinema e Guido Carli, allora governatore della Banca d'Italia, con la sua lira che incuteva rispetto a tutta Europa.

Quanto all'impegno civile e politico, va detto che "L'Espresso" nacque, nell'idea di Benedetti e nella mia, come costola del "Mondo" di Mario Pannunzio. Il "Mondo" era più una rivista politica e culturale che un settimanale di informazione. Vendeva 15 mila copie, si rivolgeva a un élite di liberali di sinistra. "L'Espresso" ai suoi inizi ne vedeva 60 mila e l'arco dell'impegno politico oltre ai radicali si estendeva anche ai socialisti. I punti di riferimento erano infatti Ugo La Malfa e Pietro Nenni. Di lì partimmo. E attraverso tante lotte politiche, economiche e soprattutto culturali siamo arrivati a "Repubblica", ai giornali locali, alle radio, ai siti-web e all'"Espresso" di oggi.

Personalmente sono abbastanza contento e spero, cari lettori, lo siate anche voi.

 
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