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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318442 volte)
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« Risposta #195 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:21:22 pm »

Effetto Astensione

di Eugenio Scalfari

Non andare a votare mi sembra una diserzione proprio quando si sta combattendo una battaglia campale per le sorti della Repubblica
 

Il 27 giugno del 1924 i partiti d'opposizione presenti alla Camera dei Deputati decisero di ritirarsi dai lavori parlamentari come segno di estrema protesta dopo l'uccisione di Matteotti avvenuta per mano di sicari fascisti pochi giorni prima. Alla testa di questo gruppo di dissidenti c'erano i socialisti e i democratici di Giovanni Amendola. Il gesto voleva scuotere l'opinione pubblica e soprattutto il re, ma non ebbe alcun effetto concreto. Sei mesi dopo, nel gennaio del '25, Mussolini si assunse la responsabilità politica di quell'omicidio e instaurò il regime dittatoriale. I deputati secessionisti furono dichiarati decaduti, i partiti soppressi e la Camera poco dopo fu sciolta. Il movimento secessionista prese il nome di Aventino in ricordo della secessione della plebe romana contro il Senato, avvenuta nel 494 a.C..

Ricordo questi fatti perché si riparla ora di un'altra possibile secessione parlamentare ed elettorale caldeggiata dai radicali come colpo di teatro per mettere in difficoltà il governo Berlusconi e mobilitare l'opinione pubblica. Emma Bonino, insieme a Marco Pannella, dovrebbe capeggiare gli 'aventiniani' e coinvolgere tutte le forze d'opposizione.

La Bonino ha tuttavia escluso che un'iniziativa di questo genere possa farla recedere dalla sua candidatura alla presidenza della Regione Lazio. I partiti d'opposizione hanno dal canto loro escluso di volersi associare a questa eventuale iniziativa che quindi, se ci sarà, riguarderà soltanto il Partito radicale la cui presenza in Parlamento è tuttavia meno che simbolica.

La questione sembrerebbe dunque chiusa prima ancora di nascere e tuttavia merita parlarne perché in realtà non è chiusa affatto. Esiste infatti una vasta platea di elettori di sinistra che vogliono desistere dal voto alle imminenti elezioni regionali non presentandosi alle urne o votando scheda bianca. Questo sarebbe il modo di manifestare il loro disprezzo della politica, dei partiti, del Parlamento, delle istituzioni in genere. Ed anche il loro modo di mettere in difficoltà Berlusconi e il suo governo. Aventiniani rispetto al voto: è valido questo messaggio? Può sortire a qualche risultato concreto nel senso desiderato da chi caldeggia una soluzione del genere? Analizziamo con attenzione questa proposta che serpeggia in questi giorni in misura abbastanza diffusa e cominciamo col dire che c'è astensione ed astensione.

Circa il 20 per cento degli astenuti è un tasso fisiologico che si registra ad ogni votazione. In altri paesi il tasso degli astenuti abituali è molto più elevato ma in Italia no. L'affluenza degli elettori alle urne oscilla di solito tra il 75 e l'80 per cento.
Hanno fatto eccezione le elezioni europee e quelle provinciali dove l'affluenza è stata notevolmente inferiore, ma in tutte le altre occasioni non è mai scesa sotto al livello del 75 per cento.

C'è poi un altro tipo di astensione che non può definirsi abituale e non è motivata da disinteresse per la politica. Al contrario, si tratta di un'astensione con precise motivazioni politiche. Ha colpito negli anni scorsi la sinistra con l'obiettivo di scuoterla da una condizione ritenuta non abbastanza energica e incisiva. Ha colpito e probabilmente colpirà anche il centrodestra. In queste ultime settimane anzi il fenomeno dell'astensione a destra sembra assumere proporzioni cospicue come effetto sia d'una politica economica penalizzante sui bisogni dei lavoratori, sia degli scandali a catena esplosi negli ultimi mesi. Stando ai più recenti sondaggi questo tipo di astensione punitiva rispetto al governo e al partito berlusconiano viene valutato intorno al 5 per cento e sembrerebbe destinato ad aumentare insieme a un travaso di voti che nel Nord si dirigerebbe verso la Lega. Sommando l'astensione punitiva proveniente dal centrodestra all'astensione abituale si avrebbe dunque un livello superiore al 20 per cento portando l'affluenza degli elettori attorno al 77-78 per cento dei voti validi.

In tale contesto come si collocherebbe l'eventuale 'aventinismo' degli elettori di sinistra? Per produrre un effetto massiccio, un allarme concreto di disaffezione dalla politica e dalle istituzioni bisognerebbe che il livello di affluenza non superasse il 50 per cento dei voti validi. Bisognerebbe cioè che la 'diserzione' dal voto proveniente da sinistra coinvolgesse il 30 per cento di elettori, di fatto quasi tutti quelli che votano per il centrosinistra. È possibile un fenomeno di questo livello? La realtà e l'esperienza fanno ritenere che non si arrivi a questo punto; ma ammettiamo per ipotesi che ci si arrivi. Quale sarebbe allora il risultato politico istituzionale?

Non è difficile prevederlo: lo schieramento di centrodestra, con la modesta astensione del 5 per cento, resterebbe di fatto integro e sarebbe ben lieto di poter disporre a piacimento delle Regioni, dei Comuni, del Parlamento senza più opposizione. Il governo della maggioranza diventerebbe la sola forza esistente senza nemmeno bisogno di far ricorso a decreti, ordinanze ed altri mezzi truffaldini. Avremmo un Parlamento ed Enti locali monocolori e una democrazia parlamentare che funzionerebbe come pura registrazione degli editti del Sovrano. Non a caso la Polverini, candidata alla presidenza del Lazio, a chi le preannunciava un ipotetico ritiro della Bonino dalla competizione elettorale ha risposto: "Ma se ne vada, nessuno la fermerà". Certo, non la fermerà la Polverini. I partiti del centrosinistra, giustamente, si sono rammaricati nei giorni scorsi di dover vincere 'a tavolino' in Lazio e in Lombardia per assenza di avversari, ma attendersi un analogo rammarico dallo schieramento opposto è pura illusione: ne sarebbero felici.

L'ipotesi realistica non è comunque quella che la sinistra si astenga nella sua totalità, ma piuttosto che una percentuale del 4-5 per cento diserti le urne. Con quale risultato? Che l'astensione punitiva da sinistra compenserebbe l'astensione punitiva da destra. Quindi rafforzerebbe lo schieramento avversario indebolendo il proprio.

Non mi sembra un obiettivo da perseguire; mi sembra piuttosto una diserzione proprio nel momento in cui si sta combattendo una battaglia campale per le sorti della Repubblica e della democrazia. Una diserzione dunque da scongiurare. Il rimedio non è l'Aventino degli scontenti e dei delusi di sinistra, ma un voto compatto per mandare a casa l'avversario ed evitare l'avvento di un regime. Se questo avverrà si saranno anche poste le basi per il rinnovamento etico-politico del Paese e anche della sinistra, entrambi urgenti e necessari.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #196 inserito:: Marzo 21, 2010, 04:21:01 pm »

L'EDITORIALE

Una bella piazza, un pessimo discorso

di EUGENIO SCALFARI

Ho aspettato il discorso di Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni prima di scrivere queste righe. Pensavo che avesse in serbo qualche idea nuova, qualcuna delle sue promesse elettorali  -  per altro mai mantenute  -  che sorprendesse il Paese e spiazzasse l'opposizione. E intanto, mentre si attendeva l'arrivo sul palco del Capo dei Capi, il Capopopolo, il Capopartito, il Capo del governo, ho guardato la piazza, le facce della gente, le loro parole ai microfoni delle televisioni. Le facce erano pulite, serene, allegre. Doveva essere una festa, la festa dell'amore verso tutti, verso gli altri; una festa di popolo con le sue idee, i suoi bisogni, le sue speranze, come ce ne sono in tutte le piazze democratiche di questo mondo. Così era stato detto dagli organizzatori e così sembravano aspettarsi i partecipanti.

Ma poi è arrivato lui e l'atmosfera è cambiata. Le gente allegra è diventata tifoseria, quella che inveisce contro i giocatori avversari e contro gli arbitri ai quali è affidato il rispetto delle regole di gioco. Una piazza, sia pure affollata, non cambia una situazione politica ma fornisce un elemento in più per valutarne i possibili esiti. Se all'inizio c'era attesa, alla fine il tono si è spento dopo un discorso che è stato uno dei più brutti che Berlusconi abbia mai pronunciato. Ripetitivo, retoricamente bolso, con un tentativo di colloquiare con la piazza che ripeteva un logoro copione già visto molte volte con lui e con altri in epoche più remote: "Volete voi che vinca la sinistra?". "Nooo". "Volete voi che vinca il Popolo della libertà?". "Sììì".
"Volete voi il governo del fare?". "Sì". "Volete che aumentino le tasse?". "Noo". Ha promesso addirittura che il suo governo avrebbe vinto il cancro. Incredibile, ma è accaduto in quella piazza e da quel palco.

Naturalmente ha attaccato a fondo la sinistra descrivendola come una peste da cui lui e soltanto lui ha salvato il Paese sacrificando la sua privata libertà. Si è vantato di avere ridotto i reati di furto di rapina e di omicidio a livello minimo mai raggiunto. Di aver riportato l'Italia tra le grandi potenze col massimo rilievo che tutti gli altri gli attribuiscono. Di aver bloccato l'immigrazione. Di aver fatto sciogliere i campi nomadi. Ha inneggiato a Bertolaso e ai provvedimenti di emergenza che hanno salvato il Paese. Ha ricordato per l'ennesima volta i rifiuti tolti a Napoli (adesso ci risono) e le case fabbricate a L'Aquila.

A metà spettacolo è arrivato al microfono Umberto Bossi e gli ha rubato per qualche minuto la scena. Non so se l'abbia fatto per distrazione o per sottile perfidia ma con il suo stentato parlottare Bossi gli ha conferito un merito che francamente non conoscevamo: quello di non aver firmato una direttiva europea sulla "famiglia trasversale"; un merito alquanto imbarazzante se attribuito proprio a Berlusconi.Quanto al programma per i prossimi tre anni (infrastrutture, diminuzione delle tasse, ampliamento delle case senza bisogno di nessuna autorizzazione e, appunto, la vittoria sul cancro) c'è stato anche uno scivolone clamoroso. La decisione di firmare davanti a quella piazza un patto con i candidati al governo delle Regioni, nel quale patto il governo da un lato e dall'altro le Regioni che saranno guidate dal centrodestra si impegnano a realizzare un programma comune con appoggio reciproco. E le Regioni guidate dall'opposizione, si domanderà qualcuno? "Con loro è impossibile discutere" ha detto dal palco Berlusconi. Il capo del governo ha cioè pubblicamente annunciato che discriminerà le Regioni che in libere elezioni saranno presiedute dall'opposizione. Se questa è la libertà da lui difesa e promessa, stiamone se possibile alla larga.

Ma oltre alla sinistra l'attacco si è concentrato contro i magistrati mossi da intenti politici. Come distinguere quei magistrati dagli altri? Il metro è ovvio. Quelli che processano lui o i suoi amici sono politicizzati, gli altri fanno il loro mestiere. L'attacco è stato particolarmente violento per i magistrati dei tribunali amministrativi di Roma e di Milano che "hanno volutamente truccato le carte per escludere il nostro partito dalle elezioni". In verità a Milano quegli stessi magistrati dopo un più attento controllo hanno riammesso Formigoni. A Roma le cose sono andate diversamente perché le regole escludevano l'ammissibilità di una lista.

Pochi minuti dopo il discorso è arrivata la notizia che il Consiglio di Stato, con una sentenza ormai definitiva, ha respinto per l'ottava volta il ricorso del Pdl per la riammissione della sua lista nella provincia di Roma. Tutti comunisti anche a Palazzo Spada? "Ma ci sarà una grandissima riforma della giustizia" ha minacciato il premier con aria truce. Una decimazione tra i giudici? Le "toghe rosse" all'Asinara? Infine il presidenzialismo: prima della fine di questa legislatura verrà stabilita anche l'elezione diretta del Capo dello Stato. Non poteva mancare, quello è ormai un pensiero fisso, la sua tarda vecchiaia lui la vuole passare al Quirinale. Un discorso piatto, accusatorio, politicamente scadente, letterariamente pessimo. Deludente anche per i suoi che sono una bella gente un po' frastornata.

* * *

I bisogni degli italiani, a qualunque parte politica appartengano, sono diversi da quelli che Berlusconi immagina.
Quando esordì in politica sedici anni fa aveva interpretato lo stato d'animo di una larga parte del Paese. Ricordate la Milano da bere di craxiana memoria? Ebbene, nel '94 non più soltanto Milano, ma tutto il Nord voleva una Padania da bere. Poteri forti, piccole imprese, partite Iva volevano abbattere i recinti, le regole, i lacci e laccioli che impedivano una libera gara. Fu l'epoca del liberismo e chi aveva garretti più robusti agguantava la sua meritata parte di successo e di felicità.

Questa era la domanda che veniva dal fondo del Paese e chi meglio di lui poteva capirla e soddisfarla? C'erano dei nemici da sconfiggere per attuare questo programma e lui li indicò: la casta politica impersonata dai comunisti e dalla sinistra. Il fisco e la burocrazia. E poi un uomo forte e antipolitico al vertice. Un partito-azienda ai suoi ordini. Le istituzioni da usare come una vigna di famiglia. Intanto si disfaceva il vecchio mito della classe operaia, si affermava l'economia globale, cresceva il boom della finanza e la bolla della "new economy".
La sinistra, di tutti questi fenomeni, capì poco o niente. Aveva un'altra visione del Paese che però in quel momento non corrispondeva alle domande, alle voglie, agli umori ed agli interessi della maggioranza. La sinistra pensava ad una crescita equilibrata, alla redistribuzione sociale del reddito per diminuire le disuguaglianze, alla legalità, all'accoglienza dell'onda migratoria. Privilegiava, almeno a parole, il "welfare" rispetto ad un liberismo darwiniano. Strappò ancora qualche vittoria elettorale, ma il trend era già passato di mano.

* * *

Il Berlusconi del 2007 è un fenomeno in parte diverso da quello del '94. È sempre un grande Narciso, un grande venditore e un grande bugiardo, ma alla passione per i propri privati interessi si è affiancata la passione per la politica. Che cosa c'è di più appagante della politica per un Narciso a 24 carati? La sua politica non sopporta regole né ostacoli. Vuole che tutto sia suo. Perciò l'obiettivo primario è il presidenzialismo, l'investitura popolare e plebiscitaria per un presidenzialismo che faccia piazza pulita di tutte le autorità di controllo e di garanzia. Che degradi il Parlamento, la Corte costituzionale, la Magistratura, insomma le istituzioni, al ruolo di consiglieri ed esecutori della volontà del Sovrano. Non più lo Stato di diritto ma lo Stato assoluto, il potere assoluto.

Il programma è questo ed è stato infatti questo il tono del suo comizio in piazza San Giovanni. L'obiettivo è la conquista del Quirinale come luogo di potere senza altri impedimenti. La grande riforma ha questo come scopo.
Qualcuno ha acutamente osservato che negli ultimi mesi l'onnipotente capo del governo e della maggioranza non è riuscito ad ottenere nemmeno l'eliminazione delle trasmissioni televisive della Rai a lui scomode. Le telefonate iraconde con l'Agcom e col direttore generale della Rai non sono riuscite ad ottenere il risultato voluto. Ha dovuto utilizzare l'impuntatura d'un radicale membro della commissione di Vigilanza della Rai per poter azzerare tutte le trasmissioni di informazione del nostro servizio pubblico televisivo. Dunque un onnipotente impotente?

Diciamo meglio: un onnipotente alle prese con regole e autorità neutre ancora esistenti e operanti. Per questo la priorità numero uno è per lui il potere assoluto. Disfarsi di quelle regole e di quegli ostacoli. Danneggiando pesantemente la Rai, favorendo pesantemente Mediaset che è cosa sua, come disse a Ciampi nel tempestoso colloquio del 2006 sul rinvio in P arlamento della legge Gasparri. Non vuole più essere un onnipotente impotente e neppure un potente limitato dalle regole e dalla legge. La legge la fa lui e lui soltanto.

Ha ragione il presidente Napolitano ad insistere sulla collaborazione di tutti alle riforme ed hanno ragione tutti gli osservatori che giudicano pessima una campagna elettorale che non si occupa affatto dei problemi concreti delle Regioni. Ma il tema posto dal Capopopolo e Capo del governo è lo stravolgimento della democrazia parlamentare in un regime di assolutismo ed è con questo tema che bisogna confrontarsi. Il comizio di piazza San Giovanni ce lo conferma. L'opposizione può e deve parlare di sanità, precariato, occupazione, sostegno dei redditi, Mezzogiorno. Ma deve far barriera contro la richiesta di potere assoluto e plebiscitato. Questo ci dice la giornata di ieri ed è un tema che non può essere eluso.

* * *

Lo Stato, nel senso della pubblica amministrazione, è a pezzi. Siamo in coda a tutte le classifiche internazionali. Una burocrazia elefantiaca, insufficiente, infiltrata dalla politica e spesso succube degli interessi anche illeciti.
Questa inefficienza dura da decenni e la responsabilità non è di Berlusconi ma di tutti i governi a partire dalla fine degli anni Settanta e forse anche da prima. L'amministrazione pubblica non è più stato un tema degno di attenzione mentre avrebbe dovuto essere l'obiettivo numero uno da perseguire.

Berlusconi però fa parte della lunga schiera dei governi responsabili di questa enorme disattenzione, ma quel tema non l'ha neppure sfiorato. Per lui la pubblica amministrazione è un cane morto da sotterrare nel momento stesso in cui il Sovrano assoluto sarà insediato. L'amministrazione dovrebbe rappresentare la continuità dello Stato di fronte all'alternarsi dei governi. Garantire il rispetto degli interessi sociali individuali legittimi ma insieme a quello degli interessi generali. Nulla di tutto ciò è all'ordine del giorno.

Quando parlo di pubblica amministrazione parlo anche, anzi soprattutto, della Giustizia che ne costituisce la parte essenziale; parlo della sanità, della fiscalità, della rappresentanza all'estero, della gestione di Regioni e di Enti locali. E parlo anche di governi. Il potere esecutivo fa parte della pubblica amministrazione anzi ne è il coronamento. Dovrebbe esserlo. In Usa il governo del presidente si chiama infatti Amministrazione. Ma quella è un'altra storia e un altro Paese.

Pubblica amministrazione, Costituzione, legalità: questo dovrebbe essere il programma di un serio partito democratico e riformista. Il presidenzialismo in salsa berlusconiana è l'antitesi del riformismo democratico.
Quanto alla lotta contro la corruzione, essa riguarda soprattutto i partiti. Dovrebbero darsi un codice etico e applicarlo puntualmente; prima che la magistratura si esprima, i partiti dovrebbero sospendere i loro membri indagati, una sospensione sul serio che non consentisse alcuna interferenza sulla politica. Il caso Frisullo da questo punto di vista è fin troppo eloquente. Il caso Frisullo dimostra anche quanto sia fallace e falsa l'accusa contro le "toghe rosse" o politicizzate. Mentre Trani mette sotto inchiesta il premier, la procura di Bari arresta Frisullo. L'Ordine giudiziario è un potere diffuso che viene esercitato dai magistrati secondo i loro ruoli, la loro competenza territoriale e i diversi gradi della giurisdizione, sicché è impossibile lanciare quotidianamente accuse nei loro confronti nelle quali eccelle il presidente del Consiglio. Da parte sua quelle accuse hanno una valenza eversiva che mina alle fondamenta lo Stato di diritto.

* * *

I sondaggi d'opinione non possono esser resi pubblici in queste ultime settimane prima del voto, ma chi ascolta e analizza i sentimenti della pubblica opinione si è fatto un'idea del "trend" pre-elettorale e il trend è questo: la quota dei non votanti sembra essersi attestata intorno al 30 per cento. Circa metà di questa astensione ha carattere permanente, l'altra metà ha carattere punitivo nei confronti dello schieramento di origine. Di questo 15 per cento gli esperti ritengono che almeno due terzi provenga da elettori di centrodestra. Astinenza significa sottrarre mezzo voto al proprio schieramento di provenienza.

Queste considerazioni non sono appoggiate da alcun sondaggio recente ma si deducono logicamente. Servirà la manifestazione di ieri in San Giovanni a modificare il trend? Credo di no. Il discorso di Berlusconi, l'abbiamo già detto, è stato di modestissima qualità. L'intento era di spingere il suo elettorato al voto compatto senza smottamenti pericolosi, ma da questo punto di vista l'occasione sembra mancata. Ma può un Paese come il nostro esser guidato da un piazzista che vende prodotti vecchi e spesso avariati? Questo è il mistero che, speriamolo, le elezioni del 28 marzo dovrebbero cominciare a sciogliere.
 

© Riproduzione riservata (21 marzo 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #197 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:34:05 pm »

I nuovi barbari

di Eugenio Scalfari

La modernità è morta o moribonda.

E si discute da chi e come sono condotte le invasioni barbariche in corso
 

Tutto è cominciato con un film di parecchi anni fa di produzione canadese intitolato 'Le invasioni barbariche' che ebbe molto successo. Era la storia di un'eutanasia compiuta da uno scienziato e docente universitario su se stesso con l'aiuto di suo figlio e di un gruppo di amici tra i quali una moglie da cui era da tempo divorziato e un paio di ex amanti. La morte del protagonista è splendida, avviene in un giardino sotto le stelle mentre parla con gli amici della morte di Socrate raccontata nel 'Fedone'. L'ho visto tre volte quel film e ancora non ho capito se i nuovi barbari fossero il suicida e i suoi scanzonatissimi parenti ed amici oppure gli altri che non capivano il loro approccio alla vita e alla morte e lo condannavano in nome del senso comune e - forse - del buonsenso.

Sull'onda di quel successo Daria Bignardi riprese il titolo del libro e condusse su La7 una trasmissione di successo intervistando personaggi di attualità e di qualità e portando all'attenzione del pubblico nuovi talenti ancora poco conosciuti. Roberto Saviano fu uno di quelli, Erri De Luca un altro; ma poi c'erano anche i politici opportunamente dosati ma sempre scelti tra quelli non più popolari ma più discussi. Anche in quella trasmissione non era ben chiaro chi fossero i nuovi barbari anche se la preferenza per i nuovi talenti segnava un consapevole distacco dai valori correnti. Ci andai anch'io un paio di volte in occasione dell'uscita di un mio libro e per altre occasioni di attualità. Comunque l'immagine delle invasioni barbariche era ormai entrata nel linguaggio corrente e fu spesso usata in saggi ed articoli di politica e di sociologia.

Non era mai avvenuto finora che i contemporanei avvertissero la fine della civiltà in cui erano nati e cresciuti. La storia antica procedeva con un passo molto più lento di quanto ora non accada e le trasformazioni d'una cultura e di un assetto sociale avvenivano molto gradualmente. La decadenza e la fine della grande civiltà egiziana fu impercettibile agli egiziani dell'epoca. Altrettanto era avvenuto per la fine della civiltà cretese-minoica, anche se su quel periodo di storia lavoriamo più su congetture che su fatti documentabili. Siamo però certi che anche la fine della civiltà romana, che la periodizzazione ufficiale fissa con l'ingresso dei
Goti in Italia nel 476 a.C., avvenne nella completa inconsapevolezza sia dei Romani invasi che dei barbari invasori.

L'epoca nostra rappresenta dunque un'eccezione. La storia delle idee nella cultura occidentale si occupa ormai da oltre cent'anni della fine della nostra civiltà. Spengler, Stirner, Nietzsche ne analizzarono le cause, ciascuno a suo modo, gettando uno sguardo su un futuro ancora incognito. Poi vennero guerre, genocidi, barbarie spaventose che confermarono l'ipotesi di un intero sistema di valori che stava affondando. Ora, dopo un secolo di discussioni, di libri, di crisi etico-politica, quest'ipotesi è diventata una quasi certezza: la civiltà in cui le persone della mia generazione sono nate e cresciute è ormai scomparsa o morente. Noi sopravvissuti siamo circondati dai nuovi barbari che daranno vita ad una nuova cultura e a nuovi assetti sociali dei quali tutto ignoriamo e che non sappiamo ancora se proseguiranno o regrediranno rispetto alla precedente stagione culturale.

A questo punto ci si è domandati quale sia il nome da dare alla civiltà appena morta o alle prese con gli ultimi sussulti dell'agonia e si è preso atto che si tratta della civiltà moderna. Fa una certa sensazione pensare e scrivere che la modernità è morta o moribonda. Per il senso comune questa affermazione risulta paradossale poiché si ritiene che nulla sia più moderno del supermercato, della rete Internet, dell'economia globalizzata, della tecnologia spaziale, della bioetica e del film 'Avatar'.

Lo sgomento è comprensibile. La convinzione che queste nuove acquisizioni segnino il culmine di una modernità in continua evoluzione e non il suggello della sua fine è altrettanto comprensibile. Ma non c'è dubbio - questo è almeno il mio pensiero - che la civiltà tecnologica esplosa negli ultimi quarant'anni e le novità che essa ha introdotto nel costume, abbiano poco o nulla a che fare con la modernità, quella di cui il Rinascimento costituì l'incunabolo e che si dispiegò pienamente con l'Illuminismo settecentesco e con l'età che fu definita 'goethiana' in omaggio ad uno dei suoi maggiori protagonisti.

Queste riflessioni mi ronzano intorno da tempo e me le ha ancor più stimolate un libro apparso da poco nelle librerie. Si intitola 'Lezioni illuministiche', l'autore si chiama Vincenzo Ferrone, docente di Filosofia all'Università di Torino, l'editore è Laterza. Si tratta di una cavalcata storico-filosofica che tratteggia la storia delle idee e i lineamenti dei 'tempi moderni' degli ultimi quattro secoli, dalla nuova scienza di Galilei e di Newton fino al pensiero di Cassirer e di Heidegger. Non è un libro riservato agli specialisti; può aiutare la riflessione e accrescere le informazioni anche di un pubblico genericamente colto e interessato ma non necessariamente specializzato.

La lettura delle 'Lezioni illuministiche' mi ha coinvolto anche per una singolare coincidenza: proprio in questi giorni l'editore Einaudi sta stampando un mio libro sul tema della modernità e dei 'nuovi barbari', che copre lo stesso periodo analizzato da Ferrone, con forme, percorsi e giudizi molto diversi, partendo da Montaigne e chiudendo con Calvino e Montale. Ma molti altri, a quanto so, stanno studiando questo tema e cercano di rispondere alla domanda se la modernità sia morta e chi siano i nuovi barbari e le invasioni barbariche in corso.

È un tema affascinante, sul quale varrà la pena di tornare.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #198 inserito:: Aprile 05, 2010, 12:16:28 am »

L'editoriale

Il vento vandeano, da Torino a Treviso

di EUGENIO SCALFARI

SE VOGLIAMO guardare al futuro dopo lo scossone elettorale le questioni sono due: il destino delle riforme e l'andamento dell'economia. Ma poiché entrambi questi temi sono condizionati dalla politica e dai rapporti di forza emersi dalle elezioni della scorsa settimana, i risultati del 29 marzo non possono essere archiviati come cosa nota.

Pesano sul futuro, sui comportamenti dei protagonisti e sugli umori della società. Perciò dobbiamo esaminarli con cura e al di fuori della propaganda di parte, rileggendo i numeri emersi dalle urne e cavandone un significato.

Comincerò dalla Lega, che politicamente è il partito vincitore. La sua vittoria politica è indubitabile: non governava nessuna Regione ed ora ne governa due; in Veneto ha largamente superato il Pdl; il Nord padano è saldamente guidato dal centrodestra e in particolare dalla Lega che può vantare anche una penetrazione inquietante in Emilia.

Alla vittoria politica non si è però accompagnata una vittoria elettorale in termini di cifre assolute. Gli elettori della Lega infatti sono stati due milioni e 750 mila; nelle europee erano stati due milioni e 900 mila; nelle politiche del 2008 ne aveva raccolti due milioni 847 mila. Il dato delle regionali del 2005 appartiene ad un'altra era geologica e non è dunque comparabile con quello attuale.

Roberto D'Alimonte sul 24 Ore del 31 marzo ha scorporato questi dati, regione per regione constatando che la Lega ha guadagnato voti in Veneto, in Emilia, in Toscana, nelle Marche, ma ne ha persi in Piemonte, in Lombardia e in Liguria.
Il risultato netto segna, rispetto alle europee, una perdita di 147 mila voti. Il risultato ci dice dunque che la Lega, in cifre assolute, non è affatto aumentata ma ha perso meno degli altri. Il suo peso politico è fortemente cresciuto ma il numero dei voti è più o meno quello che aveva negli scorsi due anni. Sfondamento dunque non c'è stato.


Lo stesso confronto esteso agli altri partiti dà i seguenti risultati in confronto con le europee: il Pdl ha perso due milioni e mezzo di voti, il Pd un milione, l'Idv 450 mila, l'Udc 360 mila.

Le percentuali registrano queste realtà, profondamente influenzate dalle astensioni nonché dalle dimensioni di ciascuno dei partiti sopra indicati, ma lo specchio più realistico ce lo fornisce il confronto globale con il corpo elettorale di tutti i cittadini che hanno diritto al voto.

Utilizzo le accurate elaborazioni di Luca Ricolfi che è un riconosciuto esperto in questa materia (La Stampa del primo aprile). Fatti 100 gli elettori con diritto di voto, il 30 per cento non ha votato, 12 hanno votato Lega e Idv, 29 hanno votato per i due partiti maggiori (Pdl e Pd) e i restanti 19 hanno votato per le decine di partiti e liste restanti. "Il principale partito di governo - conclude Ricolfi - è stato votato da un italiano su sette, mentre tre italiani su sette non ha partecipato al gioco".

Dal canto mio, sommando i voti del Pdl nelle tre Regioni del Nord, ottengo due milioni 384 mila voti e sommando quelli della Lega ne ottengo due milioni 292 mila. In Piemonte Lombardia e Veneto la Lega è complessivamente inferiore al Pdl di soli 152 mila voti. Di fatto nella Padania Bossi non ha superato Berlusconi ma l'ha raggiunto, conquistando due governatori su tre.

Questo è lo stato dei fatti: Non sono opinioni ma numeri. Lascio ai lettori di rifletterci su.

* * *

Si parla molto della presenza della Lega sul territorio. È cominciata la riscoperta del partito territoriale. Credo che sia una moda piuttosto che una realtà perché sul territorio ci sono tutti. Tutti gli elettori e tutti gli eletti di qualunque partito. C'è chi ci si muove bene e chi male, ma non è la presenza fisica che conta, bensì il modo e la qualità di quella presenza.

Distribuire volantini, attaccare manifesti e incollare francobolli sulle buste è una modalità necessaria ma se non c'è identità e chiarezza di scelte di indirizzo, la presenza sul territorio è perfettamente inutile.

La Lega governa nel Nord una moltitudine di Comuni, di fatto è ormai un partito di sindaci. Pare che siano bravi, giovani e capaci di amministrare.

Non hanno ideologia che comunque non gli servirebbe granché: non spetta a loro elaborare politiche generali. Pare anche che siano normalmente onesti.

Governano piccoli centri ma anche qualche grande città. Non grandissima. Ora hanno messo l'occhio su Milano e su Torino che saranno in palio l'anno prossimo.
La politica è affidata a Bossi e a Maroni che ha nel governo la carica di maggiore rilievo. La sintesi politica del programma leghista l'ha fatta Maroni pochi giorni fa in un'intervista a Sky 24: azzerare gli sbarchi degli immigrati clandestini, tolleranza zero per i medesimi ancora largamente presenti sul territorio, federalismo fiscale, Senato federale, sicurezza contro la micro-criminalità, lotta dura contro le mafie.

Di questi temi quello che può interessare il partito dei sindaci è la micro-criminalità e gli immigrati clandestini.

Ma anche la gestione dell'accoglienza per quanto riguarda gli immigrati regolari. Sembra però che quest'ultimo problema non sia molto popolare tra i sindaci leghisti, fatte salve alcune eccezioni sembra anzi che non li interessi affatto. Vedi Treviso.

Giulio Tremonti che ha partecipato a queste elezioni più come leghista che come esponente del governo e del Pdl, sintetizza questo programma con la triade Dio, Patria, Famiglia. La Famiglia (tradizionale) va a pennello con il tradizionalismo leghista. La Patria nazionale no, ma la piccola Patria locale e comunale senz'altro sì. Dio finora è stato un tema indifferente per i leghisti ma ora non lo è più. Il popolo leghista è formato da milioni di "indifferenti devoti" e i segnali non mancano. Il più recente e il più simbolico è stato quello dell'opposizione alla Ru486 lanciato da Cota e da Zaia e fortemente apprezzato dal Papa, dal cardinal Bertone segretario di Stato e da monsignor Fisichella, autorevole presule in ascesa a Roma.

Senza rientrare in una polemica che si è già fatta infinite volte su queste pagine, dico soltanto che la Chiesa in queste elezioni ha svolto la parte di una massa di spettatori che invade il campo da gioco mentre la partita è già in corso. Nelle gare sportive, quando fatti del genere si verificano, l'arbitro sospende la partita e squalifica il campo di gioco. Nel nostro caso il campo di gioco è lo spazio pubblico riservato alla Chiesa per propagandare liberamente le sue idee ma non per tirare sassi e petardi contro i giocatori. Questo ha invece fatto la Chiesa e questo comportamento avrebbe dovuto essere squalificato dalle autorità che rappresentano la laicità dello Stato. Ottenerlo da un governo come quello che ci sgoverna è impossibile, ma denunciarlo è necessario. Si somma alle infinite altre inadempienze e fa parte della sua necessità di legittimarsi di fronte alla Chiesa.
Anche la Lega desidera legittimarsi di fronte alla Chiesa; la pillola Ru486 è stata un segnale. Altri ne seguiranno, per farsi perdonare la mancata accoglienza e anzi la caccia all'immigrato. La Chiesa riprova quella condotta ma la perdona se vede segnali anti-abortisti.

Segnali che hanno il solo effetto di rimettere in voga l'aborto clandestino o, per chi ha soldi da spendere, l'aborto all'estero.

Questa politica sessuofobica è quanto di più lontano dalla predicazione evangelica. Quanto alla Lega, il motto tremontiano di Dio, piccola Patria e Famiglia rischia di trasformare le Regioni bagnate dal Po in una Vandea del ventunesimo secolo. Milano, Torino, Varese, Brescia, Bergamo, Padova, Ferrara, Mantova, insomma il Nord che conta, vorranno esser le capitali d'una Padania vandeana? Di un federalismo secessionista?

* * *

Le riforme. Berlusconi. L'opposizione. La crescita economica. I cittadini di questo paese.

A Berlusconi importa poco del suo partito. È il partito che ha bisogno di lui, non lui che abbia bisogno del partito. Quanto alla Lega, il vincolo tra lui e Bossi è fortissimo. Berlusconi è intimamente leghista, Bossi tiene in vita lui e il governo e per questo servizio di inestimabile valore può chiedere ciò che vuole e lo avrà. Le bizze fanno parte del rito.

Quanto alle riforme, la decisione tra loro è stata già presa: procederanno di pari passo federalismo e giustizia, legale impedimento giudiziario e rimpasto ministeriale: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio. Bossi vuole che le opposizioni partecipino, anche Berlusconi lo vuole e infatti dopo la vittoria elettorale porge la mano con mitezza quasi cristiana. "Sinite parvulos" dove i pargoli sono il Pd, Casini e perfino Di Pietro.

L'invito è accompagnato da un avvertimento che non è nuovo: se non rispondete con amore faremo da soli. Chi conosce il personaggio sa che se non faranno da tappetino la maggioranza "farà quadrato". Intanto l'invito al tavolo c'è ed è insistito. Bondi sta già versificando poesie. Cicchitto fa boccuccia. Gasparri è pronto perfino a cantare, sebbene per questo ci sia Apicella e per le crostate il cuoco Michele.

Ma il primo problema è proprio il tavolo. Fin qui Bersani ha detto con apprezzabile coerenza: il tavolo no, il confronto si fa in Parlamento. La differenza è netta: al tavolo si dialoga su un pacchetto, nel confronto parlamentare si discute proposta per proposta e le proposte vengono da tutte e due le parti. Naturalmente esiste un nesso tra le varie proposte ma non un voto di scambio. Questa è la differenza non da poco.

Poi ci sono le priorità. Berlusconi e Bossi sono d'accordo sull'appaiare le loro priorità; federalismo e giustizia. Ma l'opposizione ha una sua priorità diversa: la crescita economica e il sostegno dei redditi più deboli.

Maroni, interrogato in proposito, ha risposto: questo tema riguarda Tremonti, io non ci metto bocca. La domanda allora è questa: la priorità dell'opposizione sarà accolta? Il tema dell'economia e del lavoro affiancherà federalismo e giustizia? Sarà concordato un calendario parlamentare che intrecci i tre temi mettendoli sullo stesso piano e con lo stesso passo? Berlusconi ha anche lui sollevato un tema economico: la riforma fiscale. Ma Tremonti ha già spiegato che si potrà fare nel 2013.

Temo che sia ottimista, Tremonti; nel 2013, cioè alla fine della legislatura, non saremo affatto fuori dalla crisi che toccherà il culmine non prima del 2012 e poi comincerà a diminuire molto lentamente. Da qui ad allora la disoccupazione aumenterà ancora, i consumi resteranno stagnanti, altrettanto le esportazioni, ci sarà una stretta nel credito e nella liquidità, i tassi di interesse aumenteranno. Queste sono le previsioni generali, senza ancora entrare nel merito né della riforma fiscale né del federalismo.

Allora la seconda domanda è questa: se i temi del lavoro e del sostegno dei redditi non saranno affiancati alle priorità della maggioranza che cosa farà l'opposizione?

L'opposizione dovrà presentare i suoi progetti sulla crescita economica, forniti di copertura finanziaria credibile. E dovrà confidare che il presidente della Camera li inserisca tra la priorità di calendario, ma questo dipende dalla conferenza dei capigruppo. La posizione di Fini sarà comunque importante ed anche quella di Bossi.

Ricordiamoci che nella associazione delle Regioni la presidenza probabilmente spetterà ancora all'opposizione e da quella sede il federalismo deve necessariamente passare.

Comunque le riforme che interessano la maggioranza parlamentare arriveranno alle Camere e qui dobbiamo entrare nel merito.

* * *

Il presidenzialismo. Elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica? Le due ipotesi differiscono in modo radicale, perciò il Pdl e la Lega dovranno scegliere. L'elezione diretta del premier è incongrua. Dove è stata realizzata (Israele) ha dato pessima prova ed è stata rapidamente cancellata. Del resto il premier è il capo dell'esecutivo, cioè della pubblica amministrazione. A qualcuno deve rispondere del suo operato.

Il presidente della Repubblica è invece un organo di coordinamento. Per trasformare la carica in elettiva (non dal Parlamento ma direttamente da un voto popolare) dev'essere riformato l'intero sistema costituzionale e debbono essere rafforzati tutti gli organi di controllo. Non si può passare al presidenzialismo se prima o contemporaneamente non sono rafforzati gli organi di controllo e primo tra tutti il Parlamento e quindi cambiata la legge elettorale. Il potere degli apparati sull'elezione dei parlamentari va smantellato o fortemente indebolito. Il collegio uninominale potrebbe essere una soluzione, specie se scandito sul doppio turno. Non mancano altre soluzioni tecnicamente valide. Ma se il Parlamento non cessa di essere il pascolo degli apparati e soprattutto del governo, il presidenzialismo diventerebbe sistema autoritario, non contemplato e quindi escluso dalla Costituzione vigente. Tralascio gli altri temi che meritano un discorso a parte.

Il metro di giudizio, come abbiamo già detto più volte, è comunque lo Stato di diritto, i poteri costituzionali divisi e autonomi, nessuno di essi subordinato all'altro, indipendenti nella sfera delle proprie competenze. Se questo equilibrio venisse violato saremmo fuori dalla Costituzione.

Per concludere, una parola sul presidente Napolitano. Deve essere al di fuori delle parti perché questo è il suo ruolo. Deve applicare un filtro e un vaglio di costituzionalità ed anche di coerenza legislativa alle leggi e alla procedura di presentazione e di promulgazione.

Finché si atterrà a questi principi è perfettamente inutile e anzi dannoso tirarlo per la manica. Finora vi si è scrupolosamente attenuto e gliene va dato atto. Ove dovesse violarli, ciascun cittadino può avanzare critiche, rispettose anche se severe. Chi lo conosce sa che quelle violazioni non sono nel suo costume. Può fare errori.

Finora non ve ne è stata traccia. Il decreto cosiddetto "salva liste" non salvò un bel niente di fronte a irregolarità dimostrate da otto sentenze. Quindi non impedì nulla che non dovesse essere impedito.

Se ci fosse un attentato alla Costituzione per effetto di un colpo di forza del governo, il Presidente farà il dover suo e spetterà agli italiani di decidere la questione con il previsto referendum.

"Volete voi la dittatura d'un uomo o la libertà?". Può darsi che il dominio dei  "media" ponga il tema in modo surrettiziamente diverso, ma sarà questa la sostanza della questione e gli italiani sceglieranno.

 
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« Risposta #199 inserito:: Aprile 10, 2010, 11:07:04 pm »

Pagella elettorale

di Eugenio Scalfari


Da Bersani a Zaia il voto ai protagonisti delle elezioni regionali. Berlusconi si merita 10. Purtroppo
 

Sul Corriere della Sera di giovedì 1 aprile Pierluigi Battista ha sfornato una pagina di pagelle (12 per l'esattezza) in poche ma efficaci righe dedicate ai protagonisti delle elezioni regionali. Non avevo pensato che si potesse adottare questo metodo di giudizio anche per la politica; di solito lo si pratica sui giornali sportivi, ma Battista mi ha dato un'idea e gliene sono debitore, perciò mi ci proverò anch'io. La politica è un'attività molto complessa, si mescolano insieme tanti elementi: emotività, razionalità, geometria, volontà di potenza, vanità personale. Infine carisma. Quest'ultima è la più difficile da spiegare perché impalpabile, inafferrabile, però decisiva come il sex appeal nel campo dell'eros. Ma anche il giudizio sportivo è frutto di molti elementi: forza fisica, statura, velocità, capacità di tocco, calcolo e improvvisazione. Perciò se si danno pagelle sportive si può fare anche con la politica. Le mie sui protagonisti di questa campagna elettorale sono le seguenti.

BERSANI Una persona perbene. Non è grintoso. Leale e sorridente. Vede sempre il bicchiere mezzo pieno. Carisma no, simpatia molta. Buona competenza economica. In questa campagna elettorale ha giocato in difesa, non ha segnato gol e non ne ha presi. O meglio: i gol li hanno presi i candidati che lui non ha scelto ma piuttosto subito. Il mio voto è 6.

CASINI Si è visto abbastanza sulle televisioni. Lui è un bravo comunicatore, riesce a lanciare con impeto affermazioni spesso del tutto banali. Simpatia abbastanza. Un po' di carisma per via della bella presenza, ma nulla di più. Ha sbagliato completamente strategia. Il suo partito è stato irrilevante salvo che in Puglia dove la scelta di andare da solo ha aiutato Vendola ma chi ha deciso la sua condotta è stato da una parte il ministro Fitto e dall'altra la Poli Bortone. In tutte le altre regioni l'irrilevanza dell'Udc è stata completa tenendo presente che nelle elezioni regionali non c'è ballottaggio e vince chi prende più voti. Quando la corsa dei due candidati è molto affiancata tutte le liste alleate diventano determinanti, quella di Casini esattamente quanto le altre. Il mio voto per lui è
5.

COTA Non deve farmi velo il fatto che un leghista alla guida del Piemonte rappresenta ai miei occhi la vittoria dei lanzachinecchi, come ha scritto efficacemente sulla 'Stampa' lo storico De Luna. Ma qui giudichiamo l'efficienza in campagna elettorale e Cota merita un 7. Ha vinto anche per qualche errore della Bresso e per il voto dei 'grillini'. Ma di suo ha rafforzato la spinta leghista nelle campagne piemontesi. La sua dichiarazione post elettorale sulla pillola abortiva gli somiglia nel peggio. La medesima dichiarazione fatta dal suo collega Zaia, vittorioso in Veneto, dimostra che la Lega simbolicamente è una formazione vandeana. Quanto di peggio.

ZAIA Tutto ciò che ho scritto per Cota, voto compreso, si applica esattamente a Zaia il che significa che nella Lega i veri protagonisti sono molto pochi e non fanno i governatori delle Regioni.

SANTORO Non è stato un protagonista della campagna elettorale però in qualche modo vi ha partecipato. Il suo show dal Paladozza di Bologna è stato un evento tecnologico e mediatico ma senza alcuna influenza sulle elezioni. Dal punto di vista mediatico merita un 8 ma fuori concorso.

BAGNASCO Anche lui è fuori concorso. Se si trattasse di una partita di calcio il cardinale ha avuto il comportamento di uno spettatore che ad un certo punto della partita invade (sottobraccio al Papa) il campo scavalcando tutti i recinti e i divieti. Questo comportamento merita zero e la squalifica del campo.

VENDOLA Il carisma c'è in abbondanza. In più vari elementi di oggettiva discontinuità: è un omosessuale dichiarato, è di sinistra ed è cattolico praticante. Non ha esperienza di partito e questa è la sua quarta discontinuità. Per me il voto è 9.

BONINO Si è spesa senza risparmio ma con un handicap grave: era e resta legata ai temi classici del Partito radicale: diritti civili e legalità. Su questi temi ha avuto il consenso fervido di un buon 60 per cento dell'elettorato democratico, in più qualche voto di opinione e probabilmente anche di centrodestra, ma ha lasciato fredda una parte consistente del Pd. Il voto giusto mi sembra 7.

BURLANDO Non vola, non ha carisma, ma è serio, testardo, laborioso. Ha vinto una campagna non facile. Il 7 se lo merita tutto.

FORMIGONI Ha costruito da vent'anni una macchina da guerra che domina Milano e la provincia in modo totale, sorretta da Comunione e liberazione e dalla Società delle opere. La vittoria ce l'aveva in tasca e l'avrà in sempiterno, finché quella macchina da guerra non sarà smontata. Ma chi ci riuscirà? Secondo me neanche Bossi. Il suo voto è 7 per la campagna elettorale. L'efficienza della macchina di potere da lui costruita merita 10. In chi la pensa come me questo voto suscita disperazione.

DI PIETRO Buona campagna elettorale. Carisma poco e poca simpatia. Grinta molta. Un 8 ci sta tutto.

BERLUSCONI Del suo partito non si cura, lui può farne a meno perché è il partito che non può fare a meno di lui. La Lega non lo preoccupa perché lui è un leghista ante-marcia, l'amplificatore del nordismo e del privatismo. Il suo potere è costruito sulla sua capacità di venditore e di comunicatore. Non ha costruito un partito ma un movimento con il nome 'meno male che Silvio c'è'. Quest'uomo è una iattura per il paese perché ne eccita e ne interpreta gli istinti peggiori e la peggiore cultura. Non è il primo e non sarà l'ultimo della sua specie. Quanto a carisma ne ha da vendere. Si merita 10. Purtroppo.

POLVERINI Ha grinta grinta grinta. Innamorata del potere. Pur di averlo passerebbe sul corpo di chiunque e inghiottirebbe qualsiasi rospo. Ha perfino giurato fedeltà a Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni in quella grottesca farsa. Starà con chiunque l'aiuti a mantenere e a rafforzare il potere che ha conquistato. Ma la campagna elettorale l'ha condotta bene e merita un 8 e mezzo.

Per equanimità dovremmo anche dare pagelle a qualche intellettuale impegnato, a cominciare naturalmente da me. Ma il discorso sarebbe lungo e poi non sarei obiettivo perché parte in causa. Perciò, almeno per oggi, non facciamone niente.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #200 inserito:: Aprile 11, 2010, 11:10:47 am »

L'EDITORIALE

L'ultima sfida del Cavaliere al Quirinale

di EUGENIO SCALFARI


OGGI bisognerebbe parlare delle famose riforme. Ne parlano tutti: la Lega che vuole il federalismo compiuto e si acconcia a farlo marciare insieme al presidenzialismo e alla "grande grande" riforma della giustizia per tenere agganciato Berlusconi; l'opposizione che si dichiara disponibile a leggere le carte del centrodestra per giudicarle nel merito ma intanto pone come pregiudiziale provvedimenti economici a sostegno dei consumi e dei redditi più bassi; il ministro dell'Economia che preannuncia entro tre anni la "madre delle riforme", quella del fisco "dalle persone alle cose"; il presidente del Consiglio che, tra tutte, rilancia il presidenzialismo nelle sue varie versioni possibili e in particolare quella francese ma senza modificare la legge elettorale vigente in Italia. Infine ne ha parlato Giorgio Napolitano in varie recenti occasioni, l'ultima delle quali venerdì scorso da Verona.

Che cosa ha detto Napolitano? Ha detto che è necessario modernizzare lo Stato, che il federalismo è la prospettiva concreta per iniziare questo percorso, che esso deve essere concepito come uno strumento di autonomia delle istituzioni locali e deve servire a rafforzare l'unità del paese e la perequazione tra le sue aree territoriali. Di fronte a questo compito, di per sé immane, la riforma della "governance" del paese passa in seconda linea (così ha detto Napolitano) nell'ordine delle priorità perché rischia di introdurre nuovi elementi di divisione e di confusione.

In questi stessi giorni il presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge sui contratti di lavoro da lui considerata inadeguata e per certi aspetti di dubbia costituzionalità; ha invece promulgato quella sul legittimo impedimento nonostante i rilievi di presunte incostituzionalità formulati da tutta l'opposizione, da molti giuristi e dalla magistratura associata.

Insomma una miriade di tesi, ipotesi, convergenze, divergenze tra gli opposti schieramenti e all'interno dei medesimi; una crescente confusione di lingue e di interessi che alimenta l'indifferenza ostile dei cittadini e la loro separazione dalla politica e dalle istituzioni.

Emerge comunque la volontà berlusconiana di dare una spallata definitiva alla Costituzione repubblicana sostituendola con un regime autoritario, un Parlamento di "cloni" plebiscitati, un potere giudiziario frantumato e subordinato all'esecutivo. Questo sbocco era inevitabile, è stato covato negli scorsi dieci anni ed ora da quelle uova non usciranno teneri pulcini ma serpenti a sonagli.
In uno degli angoli del ring c'è Silvio Berlusconi, nell'altro, almeno per il momento, nessuno, o meglio un capannello di persone niente affatto concordi tra loro dalle quali sembra difficile estrarre un valido "competitor".

Giorgio Napolitano dovrebbe arbitrare la partita dalla quale potrebbe uscire una Repubblica ammodernata ma fedele ai principi dello Stato di diritto e della libertà, oppure un autoritarismo plebiscitario. L'arbitro potrà compiere il suo ufficio in assenza di uno dei due "competitors"? Oppure finirà, contro le sue intenzioni, col prender lui il posto nell'altro angolo del ring? E quale sarà in tal caso il finale di partita?

* * *

Il sipario si apre su tre scenari. Il primo si svolge il 1° aprile al Quirinale. Colloquio Napolitano-Berlusconi, presente Letta. Comincia distesamente ma si conclude nel gelo più assoluto. Il premier mette sotto accusa lo staff giuridico di Napolitano il quale gli risponde che si tratta di "validissimi servitori dello Stato" che collaborano con lui per valutare la conformità delle leggi con la Costituzione. Il premier rinnova le critiche, Napolitano ritiene concluso l'incontro e lo congeda. Poche ore dopo arriva da Palazzo Chigi una telefonata del premier che si scusa delle parole "sopra le righe" che attribuisce al nervosismo e allo stress della campagna elettorale da poco conclusa. "Non si ripeterà mai più" promette. "Ha la mia parola".

La seconda scena viene recitata a Parigi. Accanto ad un Sarkozy alquanto stupito da quel che sente in traduzione nel suo auricolare, il premier italiano annuncia "la riforma delle riforme": proporrà agli italiani il semipresidenzialismo alla francese, ma con una variante non da poco, la legge elettorale resterà quella attuale con i parlamentari indicati dagli apparati dei partiti e voterà il giorno stesso in cui si vota per il capo dello Stato con suffragio popolare diretto.

Quello stesso giorno, 9 aprile, prima di partire per Parigi Berlusconi aveva chiamato il Quirinale per ringraziare Napolitano d'aver promulgato la legge sul legittimo impedimento; gli aveva preannunciato che la stagione della riforme era finalmente arrivata. Tra queste ci sarebbe anche stata la proposta del semipresidenzialismo da lui "ripescata soltanto per fare un favore a Fini".

Ma parlando poche ore dopo da Parigi si era visto che non si trattava affatto di un ripescaggio (dal quale peraltro Fini si era immediatamente e clamorosamente smarcato) bensì di un obiettivo a lungo coltivato e gettato sul tavolo subito dopo le Regionali per farlo accettare dalla Lega in cambio del federalismo. B. B., Berlusconi e Bossi. Due alleati o due compari? Presidenzialismo e federalismo regionale. Tasse da ridurre nelle aliquote dell'Irpef e nello spostamento "dalle persone alle cose".
Che vuol dire? Le cose sono gli immobili, gli oggetti, i beni e i servizi acquistati, cioè i consumi. L'elemento della progressività scompare nelle tasse sui consumi.
Comunque per ora non si entra nei dettagli, ci penserà Tremonti tra tre anni sempre che, tra tre anni, la crisi sia terminata o non invece tuttora in pieno svolgimento dal punto di vista dell'occupazione e del reddito, come molti osservatori qualificati prevedono. Quel che è certo, Tremonti dovrà rientrare di almeno mezzo punto di deficit nel 2011 e di tre quarti di punto nel 2012, vale a dire rispettivamente di 8 e di 12 miliardi. Come antipasto all'abbattimento delle imposte non sembra affatto appetitoso.

* * *

La terza scena va in onda ieri dal convegno confindustriale di Parma. A mezzogiorno e mezza Berlusconi comincia l'arringa, diretta ad una platea di industriali piccoli, medi, grandi. Marcegaglia in prima fila col suo discorso in tasca che sarà pronunciato subito dopo quello del premier.
Il quale comincia come al solito: la crisi è finita o quasi, il declino non c'è stato e non ci sarà, l'economia italiana è competitiva più di tutte le altre in Europa, la società è coesa, le esportazioni vanno bene e andranno sempre meglio se sapranno dirigersi verso la Cina, l'India, la Russia. Le tasse ovviamente saranno abbassate e gli ammortizzatori sociali sono operanti e sufficienti.

Tremonti è al timone e fa benissimo. Il programma del Pdl e quello della Confindustria sono assolutamente identici "perciò qui sono a casa mia".
Segue la consueta illustrazione dei meriti acquisiti dal governo: l'Ici abolita, l'Alitalia salvata, i rifiuti di Napoli risolti, il terremoto dell'Aquila eccetera. Ma...
Ma da un certo momento in poi l'oratore passa bruscamente dal regno dell'amore a quello dell'odio. Chi l'ha visto a Parma ne descrive il volto di nuovo contratto sotto il cerone e i capelli dipinti sulla fronte. Nei telegiornali non ce n'è traccia perché quei passaggi sono stati "silenziati".

Nelle agenzie addirittura omessi.
Perciò ricorriamo al testo letterale, talvolta la pura cronaca si commenta da sola.
"Il governo italiano non è in grado di governare nel quadro del sistema vigente. Non può paragonarsi a nessun altro governo europeo da questo punto di vista. L'esecutivo non ha alcun potere; i disegni di legge vanno in esame alle Commissioni della Camera, poi in aula, poi al Senato.
"Nessuno dei due rami del Parlamento accetta di approvare lo stesso identico testo approvato dall'altro; lo deve dunque modificare a sua volta. Finalmente, una volta approvato dal Parlamento, quel testo, che non corrisponde più a quello inizialmente preparato dal governo, viene comunque rallentato dalle burocrazie nazionali e regionali. Senza dire, come antefatto, che il testo viene preliminarmente sottoposto al presidente della Repubblica e al suo staff che ne controlla addirittura gli aggettivi".

Segue un attacco in grande stile - non nuovo e perciò ancor più grave perché ripetuto in ogni occasione e perfino il giorno prima da Parigi per il sollazzo dei francesi - contro la Corte costituzionale, colpevole perché "essendo di sinistra e quindi politicizzata, annulla tutte le leggi e le sentenze che non piacciono ai pubblici ministeri, anch'essi politicizzati".
Siamo in pieno Caimano. Gli industriali vorrebbero che si parlasse dei loro problemi, la Marcegaglia lo dirà subito dopo a muso duro. Vorrebbero almeno un fondo di due miliardi e mezzo per tenere il mare agitato del 2010.

Ma a sentirlo attaccare la sua burocrazia, la sua Camera e il suo Senato, dove domina con maggioranze bulgare, comunque lo applaudono. Attacca i suoi perché li disprezza. Anche la platea di Parma li disprezza ed è divertita e soddisfatta dallo spettacolo vagamente schizofrenico. La doppia o tripla o quadrupla personalità del premier piace a quella platea.
Ho visto venerdì sera in Sky tivù un vecchio film di Dino Risi con Tognazzi e Gassman protagonisti. Uno fa il giudice istruttore e l'altro un imprenditore cialtrone e corruttore. Fu prodotto nel 1980, sembra scritto oggi sulla misura di Berlusconi.

* * *

Quelle frasi di Parma, nonostante il silenzio delle agenzie e dei telegiornali ufficiali, arrivano naturalmente alle orecchie del Quirinale. Si racconta che il Presidente ne sia rimasto stupefatto e indignato. Si è fatto chiamare al telefono Gianni Letta e gli ha chiesto conto di quanto aveva appena udito.
Pare che la risposta di Letta sia stata: "Non sapevo nulla. Ho udito anch'io. Le faccio le mie personali scuse".
E pare che la risposta del Presidente sia stata: "Le sue scuse personali non risolvono la questione. Se non si trattasse del presidente del Consiglio ma di una qualunque altra persona dovrei dire che siamo in presenza di un bugiardo che dice una cosa al mattino e fa l'opposto la sera oppure d'una persona dissociata e afflitta da disturbi schizoidi".

Ho scritto "pare" perché trattandosi di un colloquio telefonico tra due soggetti eminenti, le parole sopra riferite non possono che venire da amici intimi dell'uno o dell'altro. Perciò bisogna scrivere "pare" anche se si ha certezza che il colloquio sia stato nella sostanza di questo tenore.
È inutile soggiungere che un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che sente di doversi scusare a titolo personale per quanto detto poco prima dal suo premier, dovrebbe avere un soprassalto morale e dimettersi dall'incarico. Ma è altrettanto inutile aspettarsi da Letta un atto del genere e se gli chiederete perché vi risponderà che resta dove è per cercare di limitare i danni.
L'ipocrisia è il vero sentimento che governa il mondo.

* * *

Io credo - l'avevo già scritto domenica scorsa ma "repetita iuvant" - che i nodi sono arrivati al pettine e il tempo da qui allo "showdown" si sia raccorciato. Prima ci saranno i decreti attuativi della legge sul federalismo e la "grande grande" riforma della giustizia, intercettazioni comprese.
La squadra "occhiuta" del Quirinale "che controlla anche gli aggettivi" farà i suoi rilievi ma nei punti che interessano la Costituzione i rilievi non ci sono per definizione: dopo la doppia lettura in Parlamento la legge approvata a maggioranza semplice va al referendum confermativo se è impugnata da un quinto dei parlamentari.

Il secondo round ci sarà con la presentazione della legge sul presidenzialismo alla francese ma con la legge elettorale "porcellum" preparata a suo tempo da Calderoli.
Ed anche qui il referendum, se richiesto da un quinto del Parlamento.
E tuttavia queste riforme, a differenza di tutte le altre fin qui discusse, non sono semplici modifiche realizzate nei limiti dell'articolo 138 della Costituzione.
Queste riforme cambiano il volto della Repubblica perché distruggono lo Stato di diritto, alterano l'equilibrio dei poteri e la loro reciproca autonomia, ne subordinano uno o due al terzo prevalente. Devastano la giurisdizione, la legislazione, i poteri di controllo.

Mettono al vertice dello Stato un personaggio eletto da un plebiscito. Per cinque anni rinnovabili fino a dieci.
Questo scontro si concluderà nel 2011, ma comincerà tra meno di un mese. L'opposizione è divisa perché c'è ancora chi spera di prendere qualche voto in più tra tre anni attaccando fin d'ora Napolitano. "Deus dementet qui vult pervere".
Credo di sapere che Napolitano deve e vuole restare al di sopra delle parti perché quel capitale sarà il solo a poter far inclinare il piatto della bilancia dalla parte giusta e non da quella terribilmente sbagliata.

Credo di sapere, anzi di prevedere, che contro le sue intenzioni, sul ring a contrastare un vero e proprio "golpe bianco" ci sarà lui. Non in veste di giocatore ma in veste di arbitro di fronte a chi contesta gli arbitri, i soli che possano richiamarlo a rispettare le regole del gioco.
Credo di sapere e di prevedere che sarà una durissima battaglia per la democrazia italiana.

© Riproduzione riservata (11 aprile 2010)
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« Risposta #201 inserito:: Aprile 18, 2010, 10:14:48 pm »

L'EDITORIALE

Che cosa farà Fini quando sarà grande

di EUGENIO SCALFARI


CHE COSA farà da grande Gianfranco Fini? È ancora un possibile delfino di Silvio Berlusconi? Oppure uno dei suoi competitori? Un uomo di destra? Oppure un liberale? Rilevante o irrilevante? Questo gruppo di domande sollecita risposte alcune delle quali possono essere date fin d'ora, ma altre si vedranno col tempo perché lo stesso Fini oggi non saprebbe darle, neppure dopo aver inghiottito il siero della verità. La prima risposta certa è questa: non è mai stato il delfino di Berlusconi e mai lo sarà e la ragione è semplice: Berlusconi non vuole delfini. Non soltanto perché non se ne fida, ma perché non c'è nessuno come lui nel panorama politico italiano. Lui è un'anomalia assoluta, un fantastico imbonitore, capace di indossare qualunque maschera e di compiere qualunque bassezza che gli convenga.

Quando sarà arrivato al culmine del percorso che si è prefisso, non avrà altri pensieri che godersi la felicità d'aver gustato e posseduto tutto: il potere, la ricchezza, l'ubiquità, l'immunità. Che cos'altro può desiderare chi ha il culto di se stesso come obiettivo supremo da realizzare? Perciò nessun delfino, nessun successore designato. "Dopo di me il diluvio, che io comunque non vedrò". Perciò Fini non ha nessun avvenire dentro il Pdl dove i suoi colonnelli d'un tempo l'hanno già tradito e i suoi marescialli di campo che stanno ancora con lui finiranno con l'abbandonarlo anche loro se il percorso da lui intrapreso sarà troppo lungo e troppo accidentato.

Salvo forse Giulia Bongiorno e un Dalla Vedova e pochi altri che privilegiano le convinzioni agli interessi. La Polverini l'ha mollato il giorno stesso in cui fu eletta alla Regione; Alemanno è sulla soglia, Ronchi appena un passo indietro. Il presidente della Camera, a questo punto del suo percorso, ha assunto l'immagine d'un liberale, anzi d'un liberal-democratico, attento ai diritti e ai doveri e alla legalità. Allo Stato di diritto. Di qui il suo accordo con Napolitano. Quale avvenire politico può avere un uomo che ha scelto questa strada e questa immagine in un partito come il Pdl? Nessuno. E fuori dal Pdl? Fini è ancora rilevante perché potrebbe mettere in crisi il governo, ma nella canna del suo fucile ha soltanto quella cartuccia. Sparata quella non ne avrebbe più nessun'altra e la partita passerebbe in altre mani. A questo punto il suo futuro si potrà realizzare soltanto nelle istituzioni e non nella politica. È e potrà continuare ad essere un buon presidente della Camera o del futuro Senato federale o addirittura aspirare al Quirinale.


Non è poi un brutto avvenire anche se non è affatto facile; presuppone molta intelligenza, molta correttezza e coerenza di comportamenti ed anche un'Italia assai diversa da quella berlusconiana. Fargli gli auguri oggi significa perciò farli a tutti quelli che in un'Italia berlusconiana si trovano decisamente male. Nel breve termine può darsi che Fini giovedì prossimo formalizzi la sua rottura con Berlusconi o accetti un provvisorio armistizio per guadagnar tempo; ma la sostanza delle cose non cambierà e i voti dei quali dispone in Parlamento si faranno comunque sentire in qualche passaggio essenziale.

* * *

L'altro protagonista è la Lega. Molto più rilevante di Fini perché ha dietro di sé milioni di voti e controlla la parte più ricca e più produttiva del Paese. Bisogna capir bene quale è il rapporto della Lega con il Pdl con il quale è alleata e il suo rapporto con Berlusconi. Può sembrare che si tratti della stessa cosa, invece non è così. L'alleato della Lega non è il Pdl ma Berlusconi in prima persona. La Lega non lascerà mai Berlusconi perché è lui il suo amplificatore su scala nazionale e anche nel Nord leghista. La Lega non ha nessun uomo che possieda le capacità demagogiche di Berlusconi; Bossi è un'icona ma non ha carisma. La Lega perciò ha bisogno di Berlusconi almeno quanto Berlusconi ha bisogno della Lega. Il Pdl dal canto suo senza Berlusconi non esisterebbe. La figura geometrica che illustra questo trinomio è dunque quella d'un triangolo rovesciato; nei due angoli superiori ci sono Berlusconi e la Lega, nell'angolo inferiore c'è il Pdl. Due padroni e un sottopadrone. Fini si ribella proprio a questa geometria ma non ha la forza per disfarla anche perché il cemento che sostiene l'intera costruzione è nelle mani di Giulio Tremonti.

* * *

Guardate ora alla questione delle banche del Nord. E' stata esaminata con attenzione su vari giornali. Ne ha parlato più volte "24 Ore" con apprezzabile preoccupazione. Sulle nostre pagine sono intervenuti Massimo Riva e Tito Boeri mettendone in rilievo aspetti importanti e inquietanti ai quali ne aggiungerò uno che mi sembra il principale: la Lega vuole instaurare una sorta di autarchia finanziaria e bancaria nordista. Il senso della banca territoriale è questo. Se riescono in questo intento sarà una catastrofe per l'intero sistema economico italiano.

Bossi è stato assai esplicito e preciso su questa questione capitale. Ha detto: "La gente ci chiede di prenderci le banche e noi le prenderemo". Infatti le prenderanno passando attraverso le Fondazioni bancarie e insediando persone fidate nei consigli e nei vertici delle banche. Fidate per la Lega e per Tremonti, due ganasce della stessa tenaglia. Ma perché la gente fa quella richiesta a Bossi? Quale gente?

La Padania è un tessuto di medie, piccole e piccolissime imprese; le grandi e le grandissime si contano ormai sulle dita di una sola mano, anzi su un solo dito. Le banche e le Casse di risparmio hanno in quel tessuto la loro clientela naturale per una parte dei depositi raccolti e degli impieghi erogati. Ma soltanto una parte. Se sono banche di grandi dimensioni i loro sportelli di raccolta sono su tutto il territorio nazionale e i loro impieghi e intermediazioni sono ovunque in Europa. Ma "la gente" di Bossi e il messaggio leghista vogliono che il grosso degli impieghi rimanga su quel territorio anche se si tratta di impieghi non garantiti e concessi a condizioni di favore.

La territorialità bancaria nella visione leghista ha questo significato: raccolta di depositi ovunque, impieghi prevalentemente nel Nord. Questa è l'autarchia finanziaria leghista. Con altre parole questa è la politicizzazione del credito. Nella famigerata Prima Repubblica, un concetto del genere non era neppure pensabile. Ai tempi di Menichella, di Carli, di Baffi, di Ciampi, di Mattioli, di Cingano, di Siglienti, di Rondelli, una concezione del genere equivaleva ad una bestemmia.

Il credito è una linfa che circola in tutto l'organismo e affluisce là dove c'è bisogno ed è il mercato a stabilire la sua locazione ottimale. Perciò suscita preoccupato stupore vedere il sindaco di Torino che discetta sulla maggiore o minore "torinesità" dei dirigenti di Banca Intesa e i presidenti leghisti del Piemonte e del Veneto occuparsi della dirigenza di Unicredit, nel mentre il ministro dell'Economia si adopera per la creazione della Banca del Sud e consolida i suoi rapporti con le Generali.

La conclusione sarà l'isolamento del sistema bancario italiano dal sistema internazionale. Un'aberrazione che basterebbe da sola a squalificare un intero sistema politico. Ho scritto domenica scorsa che la Lega somiglia per molti aspetti ad una Vandea. Questo delle banche è un elemento qualificante di una concezione vandeana dell'economia. Anche la Chiesa di papa Ratzinger sta assumendo aspetti vandeani e per questo è aumentata la sua attenzione (ricambiata) verso la Lega. Ma qui il discorso è più complesso e ne parleremo una prossima volta.

* * *

Mentre questi fatti accadevano nell'area del centrodestra si è riunita ieri la direzione del Pd dando luogo ad un lungo dibattito privo tuttavia di apprezzabili novità e di concrete proposte. Il Pd è in attesa con le armi al piede, si direbbe in gergo militare. Nell'aria aleggia però una domanda: in tempi ormai remoti i due grandi partiti nazionali della Prima Repubblica avevano un invidiabile radicamento nel territorio. Come mai gli eredi di quelle due tradizioni politiche non sono riusciti a coniugare la concezione nazionale del partito e il suo radicamento territoriale?

La ragione è molto semplice e la storia ce la racconta. La Dc era radicata nelle parrocchie, nelle associazioni cattoliche, negli oratori, nelle cooperative bianche. Il Pci ricavava invece quel radicamento dal fatto che i comunisti erano licenziati dalle fabbriche o mandati nei reparti di confino. Occupavano le terre insieme ai contadini, morivano sotto il piombo dei mafiosi insieme agli operai scioperanti nelle zolfare siciliane e nelle cave calabresi. Leggete "Le parole sono pietre" di Carlo Levi e saprete come e perché i comunisti erano radicati sul territorio.

Il radicamento sul territorio non dipende dal numero dei circoli o delle sezioni. Dipende dalla condivisione della vita dei dirigenti con quella del popolo che li segue. Se quella condivisione non c'è e al suo posto c'è separatezza, il contenitore è una scatola vuota e il gruppo dirigente galleggia appunto nel vuoto. Non è questione di età, di giovani o vecchi, di donne o di uomini, di settentrionali o di meridionali, di colti o meno colti. È questione di creare una comunità e viverla come tale. La dirigenza del Pci era fatta di intellettuali che vivevano come proletari e in mezzo ai proletari. Se non c'è comunità, se non si sa suscitarla, non ci sono partiti ma gusci vuoti in balia della corrente. Anzi delle correnti. Questo è il problema del Pd. Mancano i don Milani e i Di Vittorio d'un tempo. Se risuscitassero sotto nuove spoglie molte cose cambierebbero in quest'Italia di maschere e di generali senza soldati.

© Riproduzione riservata (17 aprile 2010)
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« Risposta #202 inserito:: Aprile 25, 2010, 05:50:27 pm »

L'EDITORIALE

L'unità del Paese è soltanto un ricordo

di EUGENIO SCALFARI


NELL'ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Che cosa farà Fini quando sarà grande" avevo cercato di capire quale sarebbe stato lo sbocco politico dello scontro tra Berlusconi e Fini partendo da un presupposto: il presidente del Consiglio non ha alcun interesse alle future sorti del partito da lui fondato, non è su di esso che si basa la sua fortuna politica e il suo potere.

I fatti avvenuti subito dopo, la drammatica e pubblica rottura con il cofondatore, le reazioni della Lega, hanno clamorosamente confermato quel presupposto. Lo stesso Berlusconi ne ha fornito la prova più evidente quando ha ricordato che il Pdl non si chiama "partito della libertà" ma "popolo della libertà". Il rapporto dunque non è tra lui e un partito ma tra lui e il popolo, un rapporto diretto, senza mediazioni, carismatico e populista.

Quale sia quel popolo è tutto da vedere, ma le sue dimensioni quantitative debbono esser ben presenti: rappresenta (comprendendovi anche le liste collegate nelle ultime elezioni regionali) il 37 per cento dei votanti i quali, a loro volta, sono stati il 65 per cento del totale del corpo elettorale. Compresi in quel 37 per cento anche gli elettori che simpatizzarono per Fini. Difficile valutarne il numero ma il netto dei berlusconiani doc è comunque al di sotto di un terzo di quelli che hanno messo le schede nell'urna.

Molti osservatori sostengono che la stragrande maggioranza degli italiani non è interessata a questi temi che sanno di muffa e di politichese.

Concordo, ma resta il fatto che il governo è comunque la sede dove vengono decise le questioni che toccano da vicino gli interessi di tutta la nazione, dei ceti sociali che la compongono e dei singoli individui.

Per tutto l'Ottocento il corpo elettorale delle nazioni europee non superava mediamente il 15 per cento della popolazione attiva. In Italia era nettamente al di sotto di quella media: l'elettorato era soltanto maschile, c'era un limite di censo al di sotto del quale si era esclusi dal voto, gli elettori erano per conseguenza nettamente al di sotto del 10 per cento. Un'oligarchia di proprietari fondiari con una spolverata di professionisti e di dirigenti aziendali, che si allargò lentamente fino a comprendere una parte degli impiegati pubblici e di piccoli imprenditori e un primo nucleo di operai specializzati.

Non toglie che quei governi, sorretti da un consenso così ristretto, decidessero della felicità o dell'infelicità dei governanti, in gran parte contadini, braccianti, manovalanza generica.

Bisogna dunque stare attenti quando si batte il tasto di interesse o non interesse degli italiani. Il concreto individuale fa inevitabilmente parte del concreto collettivo; la politica del governo, sostenuto da una maggioranza parlamentare che vota a comando, incide su quel concreto, lo manipola lo indirizza, ne tiene conto o lo trascura, distribuisce felicità e sacrifici. Se tutto questo non interessa  -  e spesso accade  -  si tratta di incultura o di stato di ipnosi. Non è bene.

* * *

Il fatto più evidente dell'attuale situazione consiste nel disfacimento diventato sempre più rapido in questi ultimi mesi del sentimento di unità nazionale. Mentre si celebra proprio oggi la ricorrenza del 25 aprile 1945, cioè la liberazione dal nazifascismo e l'inizio della democrazia e della storia repubblicana (giugno 1946) e mentre si celebrerà il 5 maggio l'impresa garibaldina, l'imbarco dei Mille a Quarto, il loro sbarco a Calatafimi e poi, in pochi mesi, la battaglia del Volturno, l'incontro di Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele e infine la nascita di lì a poco dello Stato italiano; mentre queste ricorrenze incalzano, quello Stato che ha 150 anni di vita, si sta disfacendo sotto i nostri occhi.

Quelle ricorrenze hanno perso ogni significato epico, non suscitano entusiasmi e neppure tenerezza, neppure orgogliosa memoria, neppure condivisione di valori. "Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue e di cor" cantava il Manzoni. Ma dove mai? Siamo mille miglia lontani da quell'unità auspicata dai nostri grandi, mai realizzata nel profondo se non nel fango delle trincee, nei sacrifici dei più deboli, nelle speranze di quanti, malgrado tutto, hanno costruito, hanno prodotto, hanno dato un volto moderno, hanno tentato di estirpare i vizi e seminare le virtù civiche.

Magro è stato il raccolto ma tuttavia sufficiente per continuare a sperare e ad avanzare verso il futuro. Ma ora tutto sembra dissolto. Lo Stato si disfa sotto gli appetiti e la cupidigia; la nazione sta cessando di esistere nell'indifferenza sempre più diffusa. Non c'è un soprassalto collettivo contro ciò che avviene sotto i nostri occhi. L'indignazione è diventata quasi una professione di pochi.

Quando questo avviene, quando l'indignazione resta in appalto a poche voci, il segnale è quello d'una campana a morto mentre ci vorrebbe il suono di campane a martello che battessero da tutti i campanili. Quando il regionalismo arriva al limite di imporre nelle scuole maestri e docenti nati sul territorio e capaci di insegnare il dialetto locale come presupposto alla capacità di insegnare cultura, vuol dire che è in atto la scissione non più silenziosa ma dichiarata orgogliosamente dalla nazione e dallo Stato che la rappresenta.

Carlo Azeglio Ciampi si è dimesso per ragioni d'età dalla presidenza del comitato per le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Conoscendolo io credo alla sua motivazione, ma proprio perché lo conosco da quarant'anni posso testimoniare della sua amarezza per il disfacimento morale e politico che è sotto gli occhi di tutti. Dell'unità nazionale e costituzionale Ciampi è stato uno dei più validi assertori. Possiamo ben comprendere la sua tristezza e l'amarezza che la pervade.

* * *

C'è chi guarda soltanto all'albero e chi è responsabile della foresta. È normale che un individuo e una famiglia guardino all'albero della propria felicità ed è normale che una classe dirigente si dia carico dei problemi dell'intera foresta, la faccia potare, ne faccia tagliare le piante secche e ne faccia germogliare nuovi arbusti. Ciò che non è normale è una classe dirigente che guardi anch'essa soltanto ad un suo albero mandando tutto il resto in malora. Ciò che non è normale è quando il senso civico si trasforma in puro egoismo e localismo e i paesi si cingono di torri e porte e mura merlate e difendono il territorio dalla contaminazione degli altri. Una Chiesa cristiana dovrebbe denunciare chi compie questa strage dell'impegno civico. La coscienza nazionale dovrebbe denunciarla.

La Lega di Bossi, dopo la vittoria che gli ha consegnato il comando delle Regioni del Nord, sta seguendo questa strada: torri e mura merlate si moltiplicano nei Comuni e nelle Province leghiste; le Regioni incoraggiano e danno senso politico a questo scempio. Da Palazzo Grazioli Berlusconi acconsente e chiede contropartite. Alla Lega ha concesso il Piemonte ed il Veneto, i suoi ministri, la Gelmini in testa, forniscono i necessari supporti legislativi; il federalismo fiscale, per ora rimasto scatola vuota, dovrà essere una priorità nelle prossime settimane. In cambio Berlusconi chiede analoga priorità per la legge sulle intercettazioni, per il lodo Alfano, per il processo breve se la Corte costituzionale boccerà la legge sul legittimo impedimento, e sulla riforma della Giustizia così come l'ha pensata e redatta il suo avvocato Ghedini.

Questo è lo scambio. Dopo la rottura con Fini, che proprio su questi punti ha attaccato la politica del governo, Bossi ha minacciato le elezioni anticipate, poi ha tirato indietro la mano se i decreti attuativi del federalismo saranno approvati con precedenza assoluta. Il monito ha Fini come destinatario: attento, se vorrai metterci del tuo nei decreti sul federalismo, se incepperai il meccanismo da noi pensato e voluto, andremo alle elezioni e addio Fini e finiani.

Così funziona la diarchia tra Bossi e Berlusconi. L'albero cui guardano è il medesimo: il loro potere e l'incrocio degli interessi, io guardo le spalle a te e tu le guardi a me. Fini deve essere distrutto, la sinistra è irrilevante, Napolitano dovrà rassegnarsi e avrà il nostro rispetto e perfino le nostri lodi fino a quando sgombrerà il Quirinale.

* * *

Può funzionare questo sistema? Esso si basa sull'irrilevanza del centrosinistra, sulla rassegnazione del Presidente della Repubblica e sull'indifferenza passiva dell'opinione pubblica democratica.

Ebbene, pur con tutto il pessimismo che mi rattrista io non credo che questi tre presupposti ipotizzati dal tandem Berlusconi-Bossi corrispondano alla realtà. Bersani proprio ieri ha lanciato un appello a tutte le forze d'opposizione includendovi anche Fini, affinché stringano tra loro un patto in difesa della Costituzione repubblicana di fronte alla deriva che si sta verificando. È un passo avanti nella giusta direzione, ma contemporaneamente il segretario del Pd dovrebbe indicare alcuni punti concreti che possano costituire il nerbo di un nuovo futuro governo. L'alternativa non è soltanto un problema di schieramento ma è soprattutto un problema di contenuti. In questo caso i contenuti riguardano soprattutto i temi dell'occupazione, della crescita, del fisco.

Ho letto con molto interesse la proposta di Carlo De Benedetti (sul "Foglio" di giovedì scorso) sulla riduzione delle imposte sul reddito dei lavoratori, sul cuneo fiscale e sulla tassazione "delle cose" (immobili, cespiti patrimoniali), il fatto che sia l'editore di questo giornale non mi impedisce di dire che mi sembrano proposte valide che un governo di centrosinistra dovrebbe far proprie.

Quanto al presidente Napolitano, puntare sulla sua "amichevole neutralità" come fanno Berlusconi e Bossi sarà una delusione per loro. Napolitano farà ciò che gli compete senza guardare a chi giovi o chi danneggi. Lo abbiamo sentito ieri alla Scala e lo sentiremo il 5 maggio dallo scoglio di Quarto. Nel discorso alla Scala ha incoraggiato le riforme e in particolare il federalismo, purché condivise e nel quadro dell'unità nazionale. Ha avuto gli applausi di Calderoli e Berlusconi. Buon segno ma di scarso significato poiché le riforme, a cominciare dal federalismo, sono finora scatole vuote e la condivisione dovrà misurarsi con i contenuti di merito. Napolitano dal canto suo firmerà le leggi se può firmarle. Le respingerà se non saranno conformi secondo quanto gli compete di accertare. Non farà sconti. E se Bossi e Berlusconi pensano che sia facile ottenere dal Capo dello Stato lo scioglimento anticipato delle Camere, stiano certi che il percorso non sarà affatto facile e se ci sarà una maggioranza parlamentare per formare un nuovo governo, Napolitano adempirà rigorosamente al dovere di accertarne e convalidarne l'esistenza.

Quanto all'indifferenza della pubblica opinione democratica, quest'ipotesi riguarda direttamente noi e quanti come noi e ciascuno con le sue modalità considerano con preoccupazione il disfacimento del paese e la deriva che ne risulta. Si tratta di un'ipotesi senza fondamento. I nostri lettori ci confortano a proseguire questa battaglia di democrazia e di libertà. È ciò che abbiamo sempre fatto e sempre faremo.

(25 aprile 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #203 inserito:: Aprile 25, 2010, 11:29:56 pm »

Il potere e il vangelo

di Eugenio Scalfari

È dalla donazione di Costantino che la Chiesa si dibatte tra l'attuazione del messaggio di Cristo e la difesa del potere temporale
 

Molti specialisti di Vaticano e di Chiesa hanno commentato i cinque anni di pontificato di Benedetto XVI il cui anniversario è ricorso il 19 aprile. Io non sono uno specialista di questioni vaticane né ecclesiastiche. È tuttavia evidente che la storia di un'istituzione bimillenaria di dimensioni mondiali interessa tutti ed i laici in modo speciale. Perciò sono anch'io partecipe di questo interesse e mi varrò, per introdurre i miei ragionamenti, delle parole del cardinale Carlo Maria Martini, al quale mi sento da tempo legato da sentimenti di grande considerazione. Le pronunciò in un discorso all'Istituto delle Scuole Cristiane a Roma il 3 maggio del 2007. Disse così: "A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano I. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano II, altri molto meno, altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento".

La diagnosi di Martini - uno dei principi della Chiesa la cui lealtà verso Benedetto XVI fu determinante nel Conclave che lo insediò al vertice della cattolicità - mi ha dato materia di ampia riflessione. La terapia proposta da Martini è "pazienza e discernimento". Sono due parole generiche oppure contengono un profondo significato? Per comprenderne il senso m'è venuto alla mente il breve racconto che il cardinale mi fece in uno degli incontri che ho avuto con lui nel suo ritiro di Gallarate. Mi raccontò (l'ho già riferito a suo tempo) che nell'intervento da lui stesso pronunciato all'apertura del Conclave prima che le votazioni avessero inizio, ricordò ai suoi colleghi che compito del Conclave era l'elezione del Vescovo di Roma che in quanto tale avrebbe regnato sulla Chiesa come Pietro, vicario in terra del Signore. La prima e principale missione dei Vescovi della Chiesa apostolica è quella infatti di parlare alle genti proseguendo la predicazione evangelica e diffondendo la parola di Cristo. La missione pastorale. L'istituzione costituisce una sorta di guaina amministrativa, organizzativa, diplomatica, che custodisce il prezioso contenuto di quella predicazione. Detto più semplicemente: l'azione pastorale dei Vescovi è il fine, l'istituzione è il mezzo. Il fine deve sopravanzare il mezzo condizionandone l'azione e spetta al Vescovo di Roma mantenere la primazia del fine rispetto al mezzo.

Questa concezione tuttavia non ha quasi mai corrisposto alla realtà storica. La missione pastorale della Chiesa è sempre stata intensa e portatrice di frutti spirituali ed etici, ma la sopravvivenza e il rafforzamento dell'istituzione sono diventate, fin dai primi secoli, la preoccupazione dominante di quella che si chiamò la gerarchia ecclesiastica. "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre", scrive Dante quando nella 'Commedia' affronta questo delicatissimo argomento. La donazione di Costantino fu il primo atto (vero o supposto importa poco) che dette base temporale al Papato e costituì il suo potere. Da allora la logica del potere è diventata il centro della Chiesa di Roma determinandone le scelte e relegando la missione pastorale in una posizione secondaria. Benedetto, Francesco d'Assisi, Gioacchino da Fiore, Antonio, Domenico e tutti i grandi santi che fondarono ordini mendicanti, concentrati nella predicazione o nella contemplazione e nella preghiera, conobbero le asperità di quel percorso e della convivenza con la gerarchia. I Papi furono innanzitutto i capi della gerarchia, i Vescovi si conformarono a quella prassi salvo casi sempre più rari.

Il Concilio tridentino dette forma moderna e funzionale alla Chiesa dentro la quale il brivido mistico diventò sempre più raro, la spinta verso la povertà sempre più sospetta, l'afflato comunitario sempre più fievole e i vizi propri del potere sempre più diffusi. Il Vaticano II ha rappresentato l'estremo tentativo di considerare il messaggio cristiano come un lievito da inserire nella cultura moderna, in una concezione pluralistica della società che preservasse la dignità della persona indipendentemente dalla sua fede religiosa. I diritti e i doveri della persona, la sua libertà, la sua responsabilità, la radice morale e l'amore del prossimo a confronto con l'egoismo e con la volontà di potenza. Questa visione metteva in discussione la gerarchia e il primato dell'istituzione. Perciò il Vaticano II fu dapprima frenato e poi reinterpretato; gli episcopati ricondotti entro la guida della gerarchia, gli equilibri ristabiliti all'insegna della continuità.

Il quinquennio di Benedetto XVI ha avuto finora questo significato. Lo scandalo dei preti pedofili è stato affrontato dal Papa con apprezzabile anche se tardiva severità; ma non ha inciso sul tema di fondo e non ha proposto la domanda decisiva: la Chiesa è il luogo dove si attua il messaggio di Cristo o dove si amministra in suo nome il potere della gerarchia?

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #204 inserito:: Maggio 08, 2010, 02:54:56 pm »

Così è nata l'Italia

di Eugenio Scalfari


La guida delle élites. Il ruolo di Cavour e del re.

Ma fu un parto propiziato dal forcipe garibaldino
 

Mentre scrivo queste righe, proprio oggi 7 maggio ricorrono 150 anni dallo sbarco dei garibaldini a Talamone, due giorni dopo la loro partenza dallo scoglio di Quarto sulla costa genovese. A Talamone furono accolti con simpatia dagli abitanti di quella insenatura a poche miglia dalla palude di Orbetello e dall'Isola del Giglio. Trovarono una partita di vecchi fucili ad avancarica e qualche centinaio di baionette e ripresero il viaggio due giorni dopo. Impiegarono ancora più d'una settimana per sbarcare a Calatafimi dove, sotto la fucileria della fanteria borbonica, pare che il comandante pronunciasse la frase passata poi nella leggenda risorgimentale: "Bixio, qui si fa l'Italia o si muore". Mi pare obbligatorio (ed è un obbligo che adempio con piena partecipazione) rivisitare in breve spazio ad un secolo e mezzo di distanza l'impresa garibaldina dalla quale uscì come un neonato estratto col forcipe lo Stato unitario italiano. Col forcipe, cioè non per naturale evoluzione, non per un disegno studiato e preparato nelle cancellerie di Torino, di Parigi, di Londra e tantomeno di Vienna.
Hanno dunque ragione gli storici che hanno messo in rilievo il carattere fortemente minoritario ed elitario del moto risorgimentale, con poca o nessuna partecipazione delle masse contadine che costituivano allora la stragrande maggioranza della popolazione della Penisola. Erano intellettuali, studenti, giovani di alti ideali, poeti, cospiratori per vocazione, i protagonisti di quel movimento.

Al loro fianco c'era anche qualche imprenditore di vista lunga, interessato a modernizzare quell'espressione geografica definita Italia, unificandone i mercati, abolendo i dazi e creando una nuova e unica moneta. Ma erano pochi, anzi pochissimi. Molti di quei pochissimi avevano già partecipato ai moti di indipendenza del '48 e del '49; erano stati risvegliati alla coscienza patriottica dalla lettura dell'
Alfieri e del Manzoni, dalle canzoni del Leopardi, dagli inni del Berchet e di Mameli. Avevano assorbito la predicazione unitaria e repubblicana di Mazzini. E molti di quei pochissimi, in maggioranza lombardi, veneti, liguri, avevano perso la vita alla difesa di Roma e di Venezia, nelle battaglie della prima e della seconda guerra di indipendenza e guardavano a Torino come ad un centro di raccolta e di guida della rivoluzione italiana.

Torino però, cioè Cavour, non aveva affatto in mente la creazione dello Stato italiano. L'alleanza con la Francia di Napoleone III e la guerra all'Austria erano state volute e preparate in otto anni di intenso lavoro diplomatico e il fine, concordato con l'alleato francese e partecipato anche al governo di Londra, era la fondazione di uno Stato del Nord-Italia sotto la guida della monarchia piemontese, che comprendesse oltre al Piemonte ed alla Liguria anche la Lombardia, il Veneto e possibilmente l'Emilia o almeno parte di essa.
La pace conclusa da Napoleone III con l'Austria anticipatamente e all'insaputa del governo di Torino, che lasciava il Veneto all'Austria, aveva mutilato il progetto di Cavour, che si dimise dopo una scenata assai vibrata tra lui e il re. Ma questi conosceva bene Cavour e previde che sarebbe tornato ben presto a guidare il governo. C'era molto da fare per amministrare quella vittoria, sia pur parziale. Bisognava superare l'antica rivalità tra Torino e Milano, arrivare ad una pacifica convivenza con l'Austria, convincere il Papa a cedere le legazioni emiliane, unificare il fisco, il sistema monetario, il mercato delle merci e dei servizi, creare le grandi infrastrutture che collegassero i territori collocati lungo le rive del Po fino al delta. Cavour non aveva altro in mente. Con i Borboni di Napoli si apriva una fase di convivenza, di commerci, di egemonia culturale e commerciale dalla quale il Nord sarebbe uscito sicuramente rafforzato e il Sud stimolato e pungolato.

Garibaldi non era previsto. Quando Cavour fu informato della sua avventurosa iniziativa, lo considerò un incidente di percorso. Fastidioso.

Da impedire per non impensierire i governi amici di Francia e di Inghilterra. Questo giudizio negativo di Cavour durò tutt'al più una decina di giorni, poi cambiò. Fece mostra di impedire la spedizione garibaldina ma sottomano la rese possibile. Si prese il rischio in minima parte pronto però ad assumerne la paternità se l'impresa garibaldina avesse avuto successo. Intanto mobilitò l'esercito, allertò la diplomazia, inviò nel Sud uno stuolo di spie, di collaboratori fidati, di 'infiltrati' come oggi si direbbe, tra le camicie rosse del Comandante. Garibaldi era consapevole. Appena arrivato a Palermo assunse il titolo di pro-dittatore. Quel 'pro' significava che la sua dittatura era fatta in nome di un potere legale che non si era ancora scoperto ma che il Generale aveva già anticipato lanciando lo slogan "

Italia e Vittorio Emanuele". Ciò non gli impedì di forzare la mano alla politica del nuovo Stato sia ad Aspromonte sia a Mentana.
Ma questo non cambiò la situazione. Intanto l'Italia unita era nata. Appunto con il forcipe garibaldino. Gli italiani naturalmente ancora no. Da allora si sono affrontate molte tesi e molte critiche al moto risorgimentale. Critiche da sinistra (il Risorgimento creò istituzioni che escludevano il proletariato), critiche da parte cattolica (il Risorgimento fu fatto contro e senza i cattolici) ed ora da parte della Lega e del nordismo leghista (il Mezzogiorno è stato per 150 anni una palla al piede del Nord che si è svenato inutilmente per assistere un popolo di fannulloni). Ciascuno di questi revisionismi crede di aver ragione. Tutti in realtà perdono di vista un punto essenziale: un nuovo potere pubblico non è mai nato se non ad opera di una minoranza. Non esiste esempio nella storia di un nuovo potere pubblico nato da un movimento di popolo. La rivoluzione bolscevica del '17 ne fornisce un esempio clamoroso, ma perfino la grande Rivoluzione francese dell'Ottantanove non fa eccezione: la conquista delle Tuileries del 10 agosto del '92, il Terrore robespierrista del '93-'94, furono opera di minoranze. Quanto alla fase riformista dell'89, anch'essa istituì un potere nuovo e fu opera del Terzo stato riunito in assemblea, che certo non rappresentava la maggioranza dei francesi, in quella fase ancora estranea al Terzo stato fatto di professionisti, docenti, intellettuali e magistrati. Le minoranze fondano i nuovi poteri. Sta poi ad esse di evocare il popolo ed educarlo. A volte ci riescono, a volte no.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/cosi-e-nata-litalia/2126505/18/1
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« Risposta #205 inserito:: Maggio 09, 2010, 06:00:17 pm »

I giorni terribili dell'attacco all'euro

di EUGENIO SCALFARI

Due giorni terribili e una terribile nottata tra i capi dei governi europei, mentre crollavano le Borse di tutto il continente e Wall Street addirittura precipitava di mille punti in pochi minuti. Un errore umano? Molto peggio: l'errore umano aveva messo in moto le tecnologie computerizzate che avevano trasmesso l'ordine di vendere a tutti gli operatori collegati in rete. Così la tecnologia amplifica e soverchia le manchevolezze degli umani, dei quali sempre più spesso diventa padrona.
Quei minuti di panico si sono tuttavia protratti per tutta la giornata sulle due sponde dell'Atlantico; la riunione dei leader europei è durata otto ore, con lo spettro di che cosa potrà accadere lunedì alla riapertura dei mercati.

Lo spettro dell'affondamento dell'euro ha dato loro il coraggio che fin qui gli era
mancato. Soprattutto era mancato ad Angela Merkel, cioè alla Germania e alla Bundesbank che ne rappresenta il cuore monetario, ancora nostalgico del marco, abbandonato in favore della concezione europeistica di Kohl. C'è voluto un intervento diretto di Barack Obama sulla cancelliera della Germania federale per farle comprendere che la fase dei "se" e dei "ma" doveva essere superata e che non era più questione di giorni ma di ore se non addirittura di minuti per prendere le decisioni necessarie. Si vedrà domani se i mercati si stabilizzeranno e se la speculazione concederà alla politica una pausa di respiro.

I provvedimenti decisi dal vertice europeo sono stati, finalmente, all'altezza della sfida: la disponibilità della Bce, ovviamente con decisione autonoma, ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco e la decisione della Commissione di Bruxelles di mobilitare 70 miliardi di euro accantonati nel bilancio dell'Unione per far fronte alle calamità naturali e usarli invece per prestiti immediati ai Paesi in difficoltà.

La frustata che gli speculatori hanno dato ai governi li ha finalmente risvegliati dall'ipnosi e li costringerà a reagire?

****

La novità delle ultime quarantott'ore è questa: i governi hanno capito che l'attacco della speculazione non è più soltanto contro la Grecia. L'obiettivo è assai più alto, il dissesto dell'economia greca ne è stato soltanto il detonatore, ma ormai è chiaro quale sia il bersaglio: l'euro, la moneta unica europea, la tenuta del sistema europeo e la sua necessaria evoluzione politica. L'aveva già scritto qualche giorno fa Mario Pirani su queste pagine e l'ha detto giovedì scorso con chiarezza il ministro Tremonti alla Camera. C'erano solo cinquantotto deputati ad ascoltarlo e quasi tutti dell'opposizione, il che non depone a favore della sensibilità europeistica del nostro Parlamento e sottolinea il suo inguaribile provincialismo.

A questo punto le domande che dobbiamo porci sono tre: perché la speculazione attacca l'Europa, le sue Borse, la sua moneta? Quali sono, tecnicamente e politicamente, i punti deboli dell'Unione europea? Quali sono le terapie necessarie per difenderci? Possiamo aggiungere anche una quarta domanda: chi sono gli speculatori? È mai possibile che abbiano tanti mezzi e tanto coraggio da partire in battaglia contro una struttura di dimensioni continentali che coincide con l'area più ricca del mondo?

Questa quarta domanda è preliminare alle altre e va dunque affrontata per prima. La speculazione non è formata da un gruppo di operatori che si consultano tra loro e mobilitano i loro capitali per influenzare i mercati e trarre profitto dalle loro oscillazioni. La speculazione è un sinonimo del mercato. La speculazione è il mercato. Il mercato consiste in un luogo organizzato dove si registrano  -  attraverso la domanda e l'offerta  -  le aspettative di un'immensa massa di risparmiatori. La speculazione dunque non è altro che l'aspettativa che si forma liberamente, sulla base di libere valutazioni delle forze in campo.

La crisi di due anni fa partì dalla bolla immobiliare americana e si propagò con la velocità del fulmine in tutto il mondo. Fu la prima vera prova della globalizzazione finanziaria. Si confrontarono le aspettative ribassiste e deflazionistiche con la risposta dei governi, a cominciare da quello americano. I governi riuscirono a gestire la crisi e a controllare le aspettative ma pagarono un prezzo altissimo: dovettero iniettare sul mercato migliaia di miliardi di liquidità accumulando debiti immensi. Sono stati chiamati "debiti sovrani" e "fondi sovrani" sono stati chiamati gli enti preposti alla loro gestione.

L'uscita dalla crisi prevede che i debiti sovrani siano riassorbiti gradualmente ma in un periodo relativamente breve di tre o quattro anni. Ogni sistema, ogni fondo sovrano effettuerà l'operazione di assestamento secondo i propri mezzi e le proprie scelte; l'inflazione sarà inevitabilmente una scelta comune, non facile da guidare e difficilissima da far accettare alle pubbliche opinioni. Ma ancora più difficile sarà l'assestamento basato sul taglio di spese, inasprimento di imposte, disagio sociale. Il caso greco ne è la più lampante dimostrazione anche perché è maturato su un terreno politicamente e socialmente friabilissimo.
Adesso è la volta dell'Unione europea, la crisi si è concentrata su quell'obiettivo. Come ha ricordato Tremonti, la parola crisi in greco significa discontinuità.

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Perché la speculazione attacca la moneta europea, le sue Borse, le sue banche? La risposta è semplice: la speculazione attacca i fondi sovrani europei, cioè la struttura finanziaria dell'Unione attraverso gli Stati che la compongono e cerca di colpire la stessa Banca centrale europea, cioè il cuore dell'Unione, il solo ente veramente autonomo e veramente federale che gli Stati abbiano finora saputo esprimere.
La speculazione, cioè l'insieme delle forze che operano nei mercati internazionali, sa da tempo che la Bce è la sola Banca centrale esistente che non abbia alle sue spalle uno Stato sovrano. Questa situazione le conferisce il massimo di indipendenza, ma al tempo stesso il massimo di solitudine e di fragilità. La politica monetaria è interamente nelle mani della Bce e di conseguenza sono di sua esclusiva spettanza la quantità di moneta in circolazione, il tasso ufficiale di sconto, le operazioni di mercato aperto. 

Ma gli Stati membri mantengono il completo dominio delle rispettive politiche di bilancio, delle rispettive politiche fiscali, della spesa pubblica sia nazionale sia locale, degli incentivi, delle pubbliche retribuzioni, dell'organizzazione del "welfare". I meccanismi di coordinamento sono blandi e nella maggioranza dei casi si risolvono in raccomandazioni. Il bilancio amministrato dalla Commissione di Bruxelles non ha alcuna vera flessibilità.

Insomma l'Europa è ancora lontanissima dall'essersi data una struttura federale e politiche comuni, anzi unificate, con massicci trasferimenti di sovranità dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo nel campo della politica estera, di quella della difesa, dei diritti e dei doveri, delle elezioni parlamentati e del governo dell'Unione.
La speculazione conosce perfettamente questa situazione ed ha interesse a bloccare qualsiasi sviluppo dell'Unione verso un assetto federale. L'ideale per le forze di mercato è che esso sia regolato il meno possibile e che il potere economico, soprattutto nei suoi aspetti finanziari, sia il solo dominante nello spazio globale del pianeta.

Questa è dunque la posta, la quale tuttavia comporta anche una contro-indicazione: se gli Stati nazionali membri dell'Unione hanno chiaramente capito la pericolosità estrema dell'attacco, vorranno e sapranno elaborare una risposta che sia all'altezza della crisi? Vorranno affrontare il problema della sovranazionalità europea cedendo all'Unione la parte politica della loro sovranità? O si limiteranno a rendere più strette le maglie del coordinamento tra le loro politiche nazionali?

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La crisi in corso contiene dunque un pregio, l'abbiamo già detto: ha reso attuale e non oltre procrastinabile il tema dello Stato federale europeo. Purtroppo non sembra che l'evidenza e l'urgenza di risolverlo siano in grado di indurre le classi dirigenti e le opinioni pubbliche nazionali a varcare finalmente la soglia di un vero federalismo. Mancherà certamente il contributo della Gran Bretagna, ancora irretita dal mito anglosassone e dalla relazione speciale tra Londra e Washington.
Quanto agli Stati europei del continente, non sembra che dispongano di una visione europea unitaria. Una classe dirigente europea e un'opinione pubblica europea capaci di sospingerli e costringerli non esistono. Ci sono singoli individui e ristretti ambiti sociali minoritari, niente di più.

Se debbo esprimere un'opinione personale, credo che l'attacco in corso contro l'attuale sistema europeo si attenuerà nei prossimi giorni e nei prossimi mesi, ma non sarà affatto sgominato. Verrà contenuto, questo è probabile, ma preparerà ulteriori ondate. Voglio dire insomma che la crisi non è alle nostre spalle ma è ancora davanti a noi con tutta la sua terribilità.
 

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« Risposta #206 inserito:: Maggio 16, 2010, 12:02:06 pm »

COMMENTO
Il dramma del federalismo in Italia e in Europa


di EUGENIO SCALFARI

LA SETTIMANA si è chiusa con le Borse di nuovo in caduta verticale. Dunque la speculazione non è ancora domata e non lo sarà fin quando l'Europa non avrà fatto passi decisivi verso uno Stato federale compiuto e dotato di una sua politica economica e fiscale come di una sua politica estera e militare. Per noi italiani il tema del federalismo europeo si intreccia con quello del federalismo italiano, arrivato ormai alla sua fase cruciale. La scatola vuota tanto propagandata dalla Lega dovrà nei prossimi mesi ed anni esser riempita di concreti contenuti che incideranno sulla struttura dello Stato, delle Regioni, degli enti locali; sull'equilibrio sociale e politico, sui poteri costituzionali, su alcuni grandi servizi pubblici a cominciare dalla sanità e dall'istruzione.
Federalismo italiano e federalismo europeo sono dunque due percorsi paralleli con reciproche influenze. Del primo si sono occupati nei giorni scorsi su Repubblica Giorgio Ruffolo (che ha anche scritto un libro interessante in materia) e Massimo Salvadori. Del secondo ha trattato Luigi Zingales su 24 Ore del 9 maggio. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal canto suo è ripetutamente intervenuto in questa così delicata questione, tanto più attuale per noi italiani nell'anno in cui si celebra l'impresa garibaldina dei "Mille" e i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia. Da questo tema dobbiamo quindi cominciare la nostra analisi.

* * *

Il Risorgimento fu concepito e attuato da una "élite", minoritaria come tutte le "élite".
Era una minoranza molto composita nella quale convivevano sentimenti, ideali, interessi e una visione culturale che aveva radici antiche.

Lasciamo da parte Dante, che ne ebbe il presentimento e le fornì per primo un comune linguaggio; ma non possiamo non includervi Alfieri, Foscolo, Manzoni, il folto gruppo di riformisti e illuministi tra i quali spiccarono i nomi dei Verri e del Beccaria.

Politicamente il Risorgimento come movimento d'indipendenza e di unità nazionale nacque nella testa di Giuseppe Mazzini. Cavour ci arrivò per pragmatismo. La sua prima idea era stata un regno padano da Torino a Venezia, sulle orme del suo predecessore Massimo d'Azeglio. Ma quando Garibaldi arrivò a Palermo con le sue Camicie rosse, non esitò un momento a saltare in sella a quel movimento vincente e a piegarlo agli interessi della monarchia sabauda.

Molte critiche sono state fatte, allora e dopo fino ai giorni nostri, da sponde diverse. Furono critici i cattolici e criticissimo il papa Pio IX; fu critico Mazzini e il partito d'Azione, fu critico Gramsci e la sinistra marxista. Oggi è critica la Lega e l'opinione nordista che la Lega cavalca a briglia sciolta. Ma tutti questi punti di vista così diversi tra loro convergono su un punto: il Risorgimento - dicono - fu opera di una minoranza e questa è la sua debolezza. Le masse cattoliche, contadine, operaie, furono assenti ed escluse dalle istituzioni. Quindi un movimento deforme, come deforme fu lo Stato che nacque da esso. Una deformità che ha impedito la maturazione di un vero sentimento nazionale e un radicamento delle istituzioni nella coscienza popolare.
È vero, fu uno Stato creato da una minoranza e nato con il forcipe d'una volontà minoritaria. Ma, come ho già più volte ricordato, non è mai esistito nella storia un nuovo potere che sia nato dalla consapevole volontà di vaste masse popolari. La creazione d'un potere nuovo è sempre stato il prodotto d'una minoranza, un risultato demiurgico che solo in un secondo momento ha evocato il popolo ed ha inserito gradualmente nelle istituzioni le masse popolari. Così sono sempre andate le cose; perfino la Rivoluzione dell'89 fu un fatto di minoranze per non parlare dei bolscevichi di Lenin. Nel bene e nel male gli Stati sono nati in questo modo.

Il Risorgimento arrivò ultimo tra le nazioni d'Europa e non poteva che nascere in quel modo: centralizzato, tra nazioni già radicate nella storia e nella coscienza popolare. Se fosse nato su basi federali sarebbe stato spazzato via in un baleno.

Le masse popolari sono ormai entrate da tempo nelle istituzioni, anzi si sono abituate a profittarne fin troppo e il motivo è semplice: le nostre istituzioni sono state molto spesso occupate da gruppi di puro potere con scarsa o nessuna visione del bene comune. Le istituzioni sono state usate per tornaconto degli occupanti e delle vaste clientele (o cricche) che ne hanno tratto beneficio.

Questa è la nostra vera debolezza con la quale il Risorgimento ha poco o nulla a che vedere. Se il sentimento nazionale è debole, la sua debolezza coincide con la disistima verso le confraternite del potere. Se il prestigio e la fiducia degli italiani verso Napolitano è quasi il doppio della fiducia verso Berlusconi, la ragione è quella: Napolitano rappresenta tutti, Berlusconi rappresenta se stesso e i suoi.

* * *

Il federalismo, fiscale e istituzionale, può essere a questo punto della nostra storia un passo in avanti o una catastrofe nazionale. C'è infatti un punto dal quale parte la questione federalista: la disistima verso le istituzioni coinvolge le Regioni prima ancora dello Stato. Il clientelismo regionale è ancor più esteso di quello statale, la burocrazia regionale è pletorica, i consigli e le giunte regionali sono un ricettacolo di malgoverno e spesso di malaffare. La Sanità, che è uno dei più grossi affari pubblici, alterna punti di eccellenza con situazioni di vergognosa miserabilità, la mappa dei posti letti è assurda, la mescolanza tra affari e politica ha raggiunto livelli sciagurati. Campania, Calabria, Sicilia, Abruzzo, Molise, Lombardia, Lazio, per citare solo i casi più evidenti, sono territori già commissariati o di imminente commissariamento, dove la rete clientelare e il malaffare che ne consegue sono ormai entrati nelle consuetudini dei proverbi e delle barzellette.

E' una rete difficilissima da rompere, dove il vero reato non è neppure più la corruzione ma l'associazione per delinquere, tanti sono i legami trasversali che intercorrono tra i membri delle cricche.
Da questa Suburra parte, ahinoi, la marcia del federalismo italiano.

* * *

Scrive Ruffolo che per bonificare questa Suburra ci vogliono le macro-regioni. Dice al contrario il nostro presidente della Republica che le macro-regioni rappresenterebbero inevitabilmente la fine dello Stato unitario. Ad esse non a caso puntano Bossi e Calderoli: la Padania come la Baviera.

Si dirà che la Baviera convive agevolmente con gli altri lander della Germania federale ed è vero. Ma attenzione: non esiste un divario così marcato tra i lander tedeschi che possa essere confrontato con il divario socio-economico-criminale che divide l'Italia in due. La Westfalia, la Renania, Amburgo, non hanno nulla da invidiare alla Baviera della quale sono perfino più ricchi. Semmai un divario esiste con i lander dell'Est che fino a vent'anni fa erano ancora sotto il tallone stalinista; ma non paragonabile al nostro Mezzogiorno.

Una Padania istituzionalizzata, con un suo governo ed un suo Parlamento, può anche essere generosa nel periodo iniziale di un siffatto federalismo, ma avrebbe gettato le basi di una reale separazione tra l'Italia peninsulare e quella cisalpina. Quest'ultima centripetata dall'Europa, l'altra piegata verso il Maghreb, la Grecia, l'Albania e l'incrocio dei traffici mafiosi del Mediterraneo e dell'America Latina, lontana ma molto presente.
E' questo il federalismo macro-regionale? Temo di sì e per questo lo avverso, da italiano e da europeo.

* * *

Due parole su un altro nordismo che meriterà però un più articolato discorso: il nordismo europeo che molti coltivano dopo la battaglia tra la speculazione internazionale e l'Unione europea. La battaglia procede a fasi alterne, ma la guerra è ancora tutta da combattere e non sarà vinta fin quando l'Unione non sarà diventata un vero Stato federale, magari a due velocità ma con la moneta comune sempre più al centro del sistema.

Molti (e Zingales tra questi) suggeriscono di spaccare in due l'area e la moneta dell'Unione: un'area Sud con un euro-sud e un'area Nord con un euro-nord.

La geografia non è coerente fino in fondo: nel nord-nordest ci sono paesi come i Baltici, la Romania, la Bulgaria, i cui fondamentali sono forse più compatibili con il Sud; ma questi sono dettagli, sia pure assai eloquenti.

Non si capisce se l'euro-sud sarebbe una moneta diversa e se avrebbe una sua diversa Banca centrale. Se così fosse, la speculazione internazionale avrebbe a disposizione una vasta prateria, da Lisbona a Madrid, ad Atene passando probabilmente anche dai territori italiani a sud di Firenze.

Se invece l'area Sud avesse la stessa moneta del Nord con una banda d'oscillazione attorno al cambio fisso dell'Euro, è di tutta evidenza che per la speculazione internazionale sarebbe un gioco da bambini distruggere l'intero meccanismo.

Per quanto riguarda l'Italia, allora sì, la secessione non più solo di fatto ma istituzionale sarebbe inevitabile, con la Padania agganciata all'euro e il resto d'Italia ad un qualche fiorino di antica e non commendevole memoria.
E' questo che volete? A me sembra pazzesco il solo pensarlo.

(16 maggio 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #207 inserito:: Maggio 23, 2010, 11:02:46 am »

La memoria e l'effimero

Eugenio Scalfari


Il Salone del libro di Torino e la partecipazione di gente di ogni età suscita qualche speranza ma non è purtroppo rappresentativo di un paese, di una patria, di una nazione
 

Il Salone del libro di Torino ha chiuso i suoi battenti lunedì scorso, le pagine culturali dei giornali ne hanno ampiamente riferito segnalando che l'affluenza del pubblico e gli acquisti di libri negli "stand" degli editori sono stati del trenta per cento superiori a quelli del 2009.
I libri erano dei più vari tipi: "gialli", avventurosi, politici, filosofici, fumetti, atlanti, insomma letture per tutti i gusti e tutte le età, come il pubblico che per quattro giorni ha affollato gli spazi e le sale di quella gigantesca esposizione.
Ma il tratto distintivo di quella manifestazione di cultura e d'informazione è stato il titolo: la memoria, la trasmissione della memoria da una generazione all'altra con tutti i mezzi, quelli tradizionali della parola scritta e dell'oralità e quelli offerti dalle più moderne tecnologie informatiche.
Sono stato al Salone dovendo presentare un mio libro appena uscito; ma volevo anche capire quali fossero le tante persone che per ore hanno riempito quelle sale e quegli "stand", munite di macchine fotografiche e di telefonini, in caccia di libri, di "divi", e di autografi.

Li ho visti fare ressa attorno a Roberto Saviano che raccomandava di "scrivere per resistere"; applaudire Gustavo Zagrebelsky che difendeva la laicità dello Stato e la libertà di informazione; accogliere con ovazioni da stadio un campione di calcio di cui non ricordo il nome, una coppia di indiani che si battono per la pace tra indù e musulmani. E mi sono domandato chi erano, chi era quella moltitudine di vecchi e giovani, di donne e di ragazzi, di stranieri e di italiani del Nord e del Sud del nostro Paese.
Erano venuti per trasmettere e ricevere la memoria o semplicemente per partecipare ad un evento? Per raccontare agli amici che loro a quell'evento c'erano stati, esibire le foto che avevano scattato sottobraccio con i "Vip", le dediche sui libri, le strette di mano date e ricevute? Difficilissimo rispondere a queste domande. La gente non porta scritti in faccia i suoi più intimi connotati. Un bel volto giovanile ti impressiona più favorevolmente di chi è segnato dagli anni, dalle frustrazioni, dall'anonimato di tutta una vita. L'evento li riscatta per poche ore, ma il "racconto delle gesta" passa su di loro come una goccia d'acqua sul vetro.

Ci sono tuttavia diversi tipi di eventi. Tanto per distinguerne due, c'è quello di un Salone di libri e quello d'un incontro di calcio. Ricordo un film di molti anni fa nel quale un magistrato molto zelante istruiva un'inchiesta a carico d'un imprenditore corrotto e corruttore, impersonato da Vittorio Gassman. L'Italia d'allora (come quella di oggi) era divisa in fazioni che si accapigliavano tra loro in nome di opposte ideologie e tifoserie ma soprattutto di opposti interessi clientelari. Nel colmo di una di quelle risse la voce d'un altoparlante informò che la squadra nazionale di calcio aveva vinto i Campionati mondiali. La rissa cessò di incanto e si trasformò in un corteo compatto, imbandierato di tricolori, nelle cui file moralisti e corruttori marciavano insieme dietro la stessa bandiera per poi tornare a rissare non appena l'evento calcistico avesse cessato di unirli.
Rivedendo quella vecchia pellicola mi sono domandato se un paese dove il sentimento nazionale si risveglia soltanto quando scende in campo la squadra degli azzurri, sia unito da comuni memorie o da effimere emozioni che non durano più di mezza giornata.

Un evento centrato sulla lettura di libri e partecipato da una vasta platea suscita comunque qualche speranza ma non è purtroppo rappresentativo di un paese, di una patria, di una nazione. Quanti sono gli italiani che leggono libri e giornali? Forse un quarto della popolazione dai quattordici anni in su, con una prevalenza di anziani. Un quarto o poco più. Il resto è dominato da effimere emozioni e da effimeri eventi. Quanto al racconto della storia comune, familiare e nazionale, si tratta di memorie scritte sull'acqua, di messaggi chiusi in una bottiglia e gettati in mare nella speranza che qualcuno li trovi su qualche spiaggia deserta, ingombra di rifiuti e di ossa di seppia seccati dal sole e dalla salsedine.

(20 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-memoria-e-leffimero/2127423/18
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« Risposta #208 inserito:: Maggio 23, 2010, 05:27:44 pm »

L'EDITORIALE

Il commissario Tremonti nella tempesta europea

di EUGENIO SCALFARI

Dedico ancora una volta queste mie note domenicali alla crisi economica e politica che scuote l'Europa e l'America. Ma prima non posso tralasciare lo scontro che si è acceso sulla legge che vuole mettere il bavaglio all'informazione e che per l'ennesima volta sta bloccando i lavori parlamentari su un provvedimento "ad personas". Non si tratta solo di intercettazioni ma dell'intera attività della magistratura istruttoria, preclusa ai giornalisti e a chiunque voglia condurre inchieste su situazioni criminali o para-criminali, su chiunque voglia indagare sull'attività di enti pubblici a cominciare dal governo e su chiunque voglia capire quali siano le responsabilità degli uomini che a quelle istituzioni sono preposti.

La legge in seconda lettura al Senato era già stata approvata dalla Camera ma la commissione senatoriale che la sta esaminando l'ha fortemente modificata in peggio. Ha radicalizzato le pene per giornalisti ed editori, ha sbarrato definitivamente gli accessi alle fonti, ha vietato l'attività di cronaca e di inchiesta con modalità tali da realizzare un vero e proprio bavaglio a quel diritto di libertà talmente fondamentale per la democrazia da aver meritato addirittura la tutela costituzionale. Il nostro giornale si sta battendo da mesi su questo tema e questa volta per fortuna non è il solo. Gran parte della stampa e dell'editoria sono sulla stessa linea.

Partiti, associazioni, movimenti giovanili sono mobilitati a difesa di quel diritto di libertà. Le istituzioni di garanzia, a cominciare dal Quirinale, vigilano con speciale attenzione e non è neppure mancata una testimonianza proveniente da un membro del governo Usa sull'importanza dei mezzi di indagine, intercettazioni comprese, nella lotta contro la criminalità internazionale. Insomma lo scontro è al culmine anche perché le modifiche peggiorative introdotte al Senato richiederanno una terza lettura da parte della Camera dove le divisioni interne alla maggioranza potrebbero produrre rilevanti novità.

Non si tratta né d'una questione specifica e limitata né d'un atteggiamento corporativo da parte di giornali e di editori. La legge patrocinata dal presidente del Consiglio e dal ministro della Giustizia coinvolge e deforma uno dei connotati essenziali della Costituzione repubblicana. Questo spiega la centralità del tema e l'importanza dello scontro in atto. I membri del governo sono allineati a difesa della casta cui appartengono, nella pretesa di ottenere il silenzio e l'impunità per le loro non commendevoli gesta. Tutti, salvo Giulio Tremonti. Quel silenzio è molto significativo.

* * *

Un dato di fatto sta emergendo con chiarezza nella politica italiana: da quando il dissesto finanziario della Grecia ha innescato la seconda fase della crisi economica internazionale, il governo italiano è commissariato, il commissario è Tremonti. È lui che detta le soluzioni, la tempistica, l'ammontare delle manovre di assestamento del bilancio, la distribuzione degli oneri tra le varie categorie sociali ed è lui che si raccorda con le istituzioni europee. È lui cioè che traduce in italiano la politica europea della Commissione di Bruxelles e della Bce.
In questo contesto Silvio Berlusconi è non più che l'ombra del ministro dell'Economia. Di tanto in tanto, per non scomparire del tutto dalla scena, tenta qualche fuga in avanti, qualche correzione marginale al dettato tremontiano, qualche dilazione nella tempistica e diluizione dei contenuti, ma presto rientra e si allinea ai "diktat" del suo ministro-commissario, che è ormai il vero capo di questo sconquassato governo.

La politica di Tremonti è chiara: una manovra di 28 miliardi di euro da rendere esecutiva subito, per decreto data l'urgenza, che metta al riparo i conti dello Stato per i prossimi due anni 2011-2012, attraverso tagli di spesa, prelievi "una tantum" sul pubblico impiego e sulle finestre di uscita di pensionati per vecchiaia e per anzianità aziendale, condoni edilizi, diminuzione dei trasferimenti dal centro agli enti locali, congelamento di grandi opere, congelamento di contratti collettivi in scadenza. Insomma una vasta manovra con effetti inevitabilmente depressivi perché abbassano la capacità di spesa della popolazione specie in una fase di ampio ricorso alla Cassa integrazione e di diminuzione dell'occupazione precaria.

Questo hanno deciso i vertici europei, questo stanno facendo gran parte dei paesi membri dell'Unione, a cominciare dai più solidi e dai più deboli: la Germania come la Grecia, la Francia come la Spagna, la Gran Bretagna come l'Irlanda e il Portogallo. Perfino Obama ha imboccato questa strada obbligata perché l'attacco dei mercati contro i fondi sovrani, cioè contro i debiti contratti dagli Stati per fronteggiare la crisi  bancaria e industriale del 2008-2009 ha reso inevitabile un assestamento gigantesco  delle pubbliche finanze in tutto l'Occidente.

La dimensione della manovra italiana è notevolmente minore di quanto avviene altrove, ma se si tardasse ad attuarla subito aumenterebbe inevitabilmente; perciò ha ragione Tremonti a scandirne l'urgenza oltre che la necessità. C'è oltretutto da tutelare una massa ingente di titoli pubblici in scadenza nei prossimi mesi e da reperire la nostra quota di contributo al Fondo europeo di sostegno ai bilanci dei paesi in dissesto. In conseguenza esiste la fondata ipotesi che la manovra da 28 miliardi possa non esser sufficiente e che altri disagi possano derivarne ai bilanci familiari e ai livelli dei redditi individuali.

I partiti d'opposizione hanno ragione di ricordare a Tremonti la dissipazione di risorse che fu fatta agli inizi di questa legislatura, quando già la crisi mondiale e la bolla immobiliare americana erano in piena evidenza; ma quegli errori sono ormai avvenuti e un loro voto contrario alla manovra che sarà nei prossimi giorni varata non avrebbe alcuna giustificazione plausibile per quanto riguarda tagli di spesa e prelievi, salvo discuterne le modalità sociali. Però c'è un però, che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha già messo in evidenza e che Tremonti farà bene a prendere molto sul serio e a non rinviarlo con la sua consueta e alquanto arrogante alzata di spalle. Il però è quello della crescita. Bersani ha detto che senza crescita non si va da nessuna parte. L'hanno detto anche Barroso e il presidente della Banca centrale Europea, Trichet. Ne tenga dunque conto il nostro ministro-commissario.

* * *

La crescita non può venire che da una ripresa della domanda di consumi e di investimenti. Gli strumenti sono lo sgravio fiscale e contributivo, l'accelerazione dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, un primo inizio di riforma fiscale che serva a finanziare queste misure di sostegno attraverso uno spostamento dell'onere dal reddito delle persone al valore delle cose, oltre alla lotta contro l'evasione fiscale (per cui nuovi condoni non rappresentano una propedeutica appropriata). Aggiungo (e l'hanno già detto in varie occasioni Bersani e Carlo De Benedetti ed è un punto di facile comprensione) che una più vivace crescita del Pil farebbe diminuire il deficit a parità di disavanzo del bilancio, facilitando in tal modo un più rapido rientro nei parametri del patto europeo di stabilità.

Tremonti incontrerà nei prossimi giorni le parti sociali per esporre i criteri della sua manovra e chiedere a quelle organizzazioni saggezza di comportamenti. Ma le vere prove che dovrà affrontare saranno quelle con l'opposizione parlamentare e con le aspettative dei mercati. Il falso slogan berlusconiano della crisi che sarebbe da tempo alle nostre spalle non inganna e non incanta più nessuno. La crisi è ancora tutta davanti a noi e addirittura minaccia al cuore l'Europa, i fondi sovrani dei suoi Stati membri e la moneta comune. Ci vuole perciò molto coraggio e molta coesione sociale e politica. Il presidente-ombra finora ha fatto solo danni. Il ministro-commissario può dare inizio ad una svolta che i fatti rendono necessaria, ma non avendo la bacchetta magica dovrà negoziare per il bene del paese e dell'Europa.

* * *

Reggerà l'Europa? Ma quale tipo d'Europa?
L'Unione attuale è da almeno dieci anni in mezzo al guado. L'euro ha appunto dieci anni di vita e altrettanti ne ha la Banca centrale che emette la moneta comune, sia pure con qualche vistosa eccezione. La Bce è la sola Banca centrale che non abbia alle sue spalle uno Stato, perché l'Unione non lo è. Ho scritto altre volte che una siffatta Banca centrale rappresenta un'anomalia che la rende più indipendente di tutte le altre dal potere politico ma nel contempo più fragile. È ormai chiaro che questa fase di transizione deve ormai finire. Può finire in due modi: facendo rapidamente diventare l'Unione uno Stato, con un suo bilancio, una sua fiscalità, un Parlamento con candidature europee anziché nazionali, una sua politica estera, una difesa comune. Ci vorranno anni, ma i passi decisivi debbono esser fatti subito, quantomeno per quanto riguarda la fiscalità, il bilancio, il governo economico europeo, con le relative cessioni di sovranità.

L'altra strada è quella proposta dalla Germania: invece d'una cessione di sovranità dagli Stati all'Unione, una delega ai paesi più forti per governare l'economia e la finanza dell'intera Unione. Insomma un Direttorio dotato di ampi poteri. Angela Merkel sottintende che i membri del Direttorio siano, oltre alla Germania, la Francia, l'Italia, l'Olanda, il Belgio, cioè i paesi fondatori, Gran Bretagna esclusa per via della moneta non comune. Ma, a parte i malcontenti di un assetto di questo genere, la proposta non nasconde la realtà: si tratta di un'egemonia tedesca sull'Europa, sia pure con un diritto di veto della Francia e gli altri a reggere la candela.

Tutti i poteri nuovi nascono da un'egemonia, ma qui c'è di mezzo una storia plurisecolare, una guerra che ha visto la Germania contro il resto del mondo, un genocidio spaventoso. E c'è soprattutto una disparità di economie che va assolutamente colmata ma con terapie farmacologiche e non chirurgiche. La Germania  -  è vero  -  possiede a sua volta un'arma deterrente potentissima: se non si raggiungesse un accordo che la soddisfi potrebbe decidere di uscire dall'euro e tornare al marco. Si assumerebbe la responsabilità  -  per la terza volta in un secolo  -  d'aver ucciso l'Europa e d'avere al tempo stesso suicidato se stessa.

Non crediamo che possa arrivare a tanto. Non crediamo che la sinistra tedesca, i liberaldemocratici, i verdi, l'industria, il sistema bancario, infine la gran parte dell'opinione pubblica tedesca possano accettare un doppio omicidio politico di questo genere. Se il nordismo europeo varcasse questa soglia, veramente una nuova barbarie seppellirebbe l'intera civiltà occidentale e il nostro continente diventerebbe un arcipelago regionale gravido di contraddizioni tra deboli e debolissimi e non risparmierebbe nessuno, rafforzando soltanto le criminalità organizzate e consegnando un immenso mercato alle bocche voraci dei poteri forti mondiali.

Questi scenari apocalittici sono fuori dalle previsioni ma è opportuno siano tenuti presenti da quanti pensano che ci sia ancora tempo per occuparsi soltanto dell'utile proprio e della propria casta di appartenenza.
Quel tempo è finito. La crisi greca ha avuto almeno il pregio di mettere questa dura realtà sotto gli occhi di tutti. Non è così, onorevole ministro Giulio Tremonti?
 

© Riproduzione riservata (23 maggio 2010)
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« Risposta #209 inserito:: Maggio 30, 2010, 07:49:35 pm »

L'EDITORIALE

Finanziaria colabrodo senza equità né crescita

di EUGENIO SCALFARI

DOMANI la manovra arriverà finalmente in Parlamento. Domani il governatore Mario Draghi leggerà la sua relazione annuale alla Banca d'Italia. Domani, alla riapertura delle Borse, si vedrà se i mercati si saranno stabilizzati o lanceranno nuovi attacchi contro i fondi sovrani e contro l'euro.
Nel frattempo la manovra ha perso per strada alcuni pezzi. La soppressione delle Province è stata per ora abbandonata. I tagli e i congelamenti stipendiali di alcune categorie, tra le quali i magistrati, sono stati attenuati.
L'opposizione parlamentare, mai consultata durante l'iter del decreto, si è incattivita. La Cgil, anch'essa platealmente ignorata, ha preannunciato lo sciopero generale per il 25 giugno. Ma l'impianto e i saldi del decreto sono quelli approvati dal Consiglio dei ministri: 24 miliardi nel biennio 2011-2012 per riportare il deficit entro la soglia del 3 per cento fissata dalla Commissione europea e dal Consiglio dei ministri dell'Unione.
Si può dunque dare un giudizio sull'insieme di questi fatti, anche se non saranno pochi gli emendamenti che il decreto subirà nel corso del dibattito parlamentare. Ma affinché il giudizio sia adeguatamente documentato occorre articolarlo sui tre obiettivi che la manovra si propone: risanamento del bilancio, equità, crescita.
La Confindustria questo giudizio l'ha già dato: positivo per quanto riguarda il risanamento del bilancio, negativo per quanto riguarda la crescita. Analogo giudizio hanno dato la Cisl e la Uil.

La Cgil è stata negativa sia sulla crescita sia sull'equità. L'Europa ha plaudito sull'abbattimento della spesa pubblica ma ha raccomandato di far di più per la crescita; identica l'opinione del Fondo monetario e dell'Ocse. La Banca centrale europea teme una crescita troppo lenta. Timori analoghi ha manifestato Draghi parlando qualche giorno fa. Ascolteremo domani la sua relazione.
Intanto la speculazione attende con le armi al piede, incoraggiata dagli articoli dell'"Economist" e del "Financial Times". Vedremo domani se sui mercati splenderà il sole o diluvierà.

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I 24 miliardi di aggiustamento erano e sono necessari. Semmai ci si può chiedere perché tanta urgenza. Potevano esser tagliati alla fine di giugno o addirittura in settembre e il governo avrebbe avuto più tempo per studiar meglio i provvedimenti e consultare l'opposizione e tutte le parti sociali.
Se la fretta ha avuto come motivazione la difesa dei titoli emessi dal Tesoro, a nostra opinione quella motivazione è sbagliata: la manovra di riduzione della spesa non incide sulle aste dei Bot e dei Btp, come non hanno inciso sull'andamento dei titoli spagnoli gli aggiustamenti di spesa approvati dal governo di Madrid.
Comunque, forse troppo in fretta, quell'aggiustamento Tremonti doveva farlo e l'ha fatto. Le vere ragioni della fretta derivano probabilmente dalla contrapposizione politica tra lui e Berlusconi che infatti - nonostante le smentite di rito - è arrivata ormai al calor bianco e non fa presagire nulla di buono. Ma questo è un altro discorso, che si sta svolgendo tutto in stretto gergo politichese e perciò di ardua traduzione.

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Metà della manovra pesa sui dipendenti dello Stato, l'altra metà sulle Regioni e sui Comuni. Dal punto di vista geografico il peso maggiore si scaricherà sul Mezzogiorno perché la cosiddetta fiscalità di vantaggio in favore degli investimenti nel Sud è aria fritta come è aria fritta l'intero capitolo dedicato all'aumento della produttività: quando la domanda langue, l'investimento non è stimolato in misura apprezzabile e l'edilizia privata e pubblica sono ferme, la produttività resta un'aspirazione consegnata ad un improbabile e comunque lontano futuro.
Nel frattempo ci sono 2 milioni di giovani tra i 20 e i 30 anni di età che sono scomparsi dalla scena, hanno interrotto gli studi, non hanno alcuna formazione professionale, non si sono neppure iscritti negli elenchi dei disoccupati. Due milioni di fantasmi, in buona parte concentrati nel Sud e in Veneto, ai quali nessuno pensa salvo i genitori che debbono mantenerli. Una situazione assurda e inaudita, un bacino potenziale per le organizzazioni criminali come unica contropartita all'inedia.

La logica dei tagli e dei congelamenti previsti per i dipendenti pubblici è formalmente corretta: hanno avuto negli anni scorsi incrementi retributivi decisamente maggiori di quelli dei dipendenti privati e quindi possono "star fermi per un giro" per riallinearsi con i loro colleghi del privato.
Questa "fermata" si effettua tuttavia su livelli stipendiali molto bassi, pari mediamente a 1.200-1.300 euro netti mensili. Il taglio complessivo supera mediamente il 20 per cento se vi si comprendono liquidazioni e altri compensi; cioè riduce la media in prossimità dei 1.000 euro. E' vero che di altrettanto si riduce la spesa pubblica la quale, ricordiamolo, è cresciuta dal 2007 al ritmo di 2 punti di Pil all'anno. Ma l'incremento stipendiale degli statali rappresenta solo una parte dell'aumento di spesa e neppure la parte maggiore. Forse si sarebbe dovuto operare con più incisività sul resto.

Infine un'altra motivazione, in questo caso politica: gli "statali" votano in maggioranza a sinistra. Il loro scontento non peserà se non marginalmente sul consenso raccolto dal governo. "Abbasso gli statali" è uno slogan che viaggia in tandem con quello di "Roma ladrona": piace alla Lega e questa è una ragione in più per spiegare le scelte che il governo ha compiuto.

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L'altra metà dell'aggiustamento grava su Regioni (8 miliardi), Comuni (3 miliardi), Province (0,6 miliardi). Lo Stato riduce per 11,6 miliardi i suoi trasferimenti. Gli Enti locali vedano loro dove tagliare, grasso ce n'è. Oppure aumentino le imposte di loro competenza. O infine taglino i servizi.
Credo che grasso da tagliare effettivamente ci sia e sarà un bene se verrà eliminato. Non vorrei che crescessero i debiti con le banche. Ma potranno anche affittare o vendere i beni demaniali in corso di trasferimento. Nel complesso questa parte della manovra non sembra pessima. Colpirà più i Comuni (che hanno però meno grasso) che le Regioni.

La Lega, una volta tanto, è divisa. Alcuni pensano che il centralismo di Tremonti faccia a pugni col federalismo; altri vedono nella manovra un colpo di frusta che affretterà il federalismo fiscale. La verità non sappiamo quale sia perché il federalismo è tuttora un oggetto misterioso. Una cosa peraltro è evidente: il federalismo avrà comunque un costo e un governo senza soldi non sarà in grado di affrontarlo fino a quando il fabbisogno non si sarà stabilizzato e il deficit non sarà rientrato nelle norme europee. Perciò se ne parlerà nel 2012 se tutto va bene. Aggiungo un'osservazione a proposito di federalismo: il passaggio all'autonomia fiscale e istituzionale, se sarà effettivo e non simulato, sarà un fatto rivoluzionario e accentuerà la disparità tra Regioni efficienti e Regioni  -  cicala, gran parte delle quali si trovano nel Sud.
Sull'inefficienza sudista sono state ormai scritte intere biblioteche e i numeri del resto stanno a dimostrare che non si tratta di opinioni ma di fatti. Pochi ricordano tuttavia che il livello di reddito disponibile per i meridionali è meno della metà del reddito del Nord. Dunque: gestione amministrativa inefficiente, livello delle risorse bassissimo.

Come sarà finanziato nel Sud il passaggio dall'inefficienza all'efficienza? Ci sarà una diminuzione di occupati, un taglio di consulenti, un taglio di pensioni di invalidità, insomma una compressione del potere d'acquisto dei meridionali. Questo è certo. E' anche inevitabile e necessario. Perfino utile. Ma quella è gente che si è arrangiata per sopravvivere. Chi li deve aiutare per non crepare di stenti? O debbono arruolarsi nella camorra e nella 'ndrangheta? Le donne nella prostituzione e i maschi nella malavita?
Ci vorrà dunque un trasferimento dal Nord al Sud in quella fase; sarà cospicuo e durerà per molti anni. Impegnerà le finanze pubbliche che dovranno "metter le mani nelle tasche". Di chi? Di quali contribuenti? Ci avete pensato?

Aggiungo un'altra osservazione: il nostro Sud è qualcosa di simile alla Grecia rispetto all'Europa. La speculazione lo sa. Perciò concentrerà il tiro sull'Italia in corrispondenza all'attuazione del federalismo.
Finirà nel solo modo possibile: un federalismo al Nord e un'accentuazione di centralismo statale al Sud. Italia a due velocità. Sono prospettive raccapriccianti.

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Tutto ciò detto, credo che Tremonti abbia fatto quello doveva. Molti errori, molte lacune nel risanamento del bilancio, ma l'aggiustamento ci sarà. Non al cento per cento ma almeno al 51.
Questo risanamento vuol dire che i conti non erano sani. Ci si poteva pensare prima. Molti l'avevano previsto da un pezzo. Furono insultati e chiamati anti-italiani. Tutto ciò è arcinoto e Tremonti e Berlusconi lo sanno benissimo: il fatto che continuino a insultare la sinistra nel momento stesso in cui si dimostra che la sinistra non faceva che certificare la realtà, è semplicemente vergognoso.

Ora però è il momento di dare un giudizio sulla parte della manovra riguardante la crescita economica. Ebbene non c'è assolutamente niente da dire in proposito per la semplice ragione che provvedimenti per la crescita nel decreto non ci sono. Non ce n'è neanche l'ombra. Lo stesso ministro dell'Economia, nella conferenza stampa con cui ha presentato il decreto, ha detto che la ripresa sarà molto lenta.

Bisognerebbe stimolarla, ma ci vogliono soldi che non ci sono. Ne hanno dilapidati un bel po' nei due anni di governo ma ora la cassa è vuota, l'avanzo netto delle spese correnti è sotto zero, lo stock del debito è risalito al 117 del Pil.
Stimolare la ripresa, incrementare l'aumento del Pil, si ottiene con uno sgravio fiscale sul ceto medio, sul lavoro dipendente, sul cuneo fiscale. Per finanziarlo bisogna colpire l'evasione e i patrimoni. Non con un prelievo "una tantum" ma con un'imposta sulle cose per tassare di meno i redditi e accrescere così la domanda.
Lotta all'evasione e spostamento dell'onere tributario dalle persone alle cose per portare l'incremento del Pil dall'1 per cento almeno al 2.

Questo bisognerebbe fare. Tremonti non l'ha neppure pensato, perciò su questa questione merita uno zero. E' sperabile che il Parlamento lo obblighi a pensarci seguendo così le indicazioni dell'Ocse, del Fmi, della Commissione europea, della Bce, della Confindustria, della Cgil, dell'opposizione parlamentare. Del Capo dello Stato. E anche dell'odiato Mario Draghi.

(30 maggio 2010) © Riproduzione riservata

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