LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 08:19:13 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: LORENZO ZACCHETTI SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE  (Letto 4352 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« inserito:: Maggio 13, 2018, 05:53:07 pm »

SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE

LORENZO ZACCHETTI
24 aprile 2018

Appiattendosi sulla “ragion di Stato”, il P.D. ha trascurato il proprio orizzonte ideale, ma il mito del buongoverno non è sufficiente per mantenere il consenso. Ecco perché, prima di poter dare risposte a chi ci contesta nelle periferie e a chi ci lusinga con inviti al Governo, dovremmo prima risolvere alcuni dilemmi identitari

Non è la prima volta che la sigla P.D. si presta ad essere interpretata come “psicodramma”. Tre esiti deludenti su altrettante elezioni nazionali da che esiste il partito hanno consolidato la nostra attitudine alla sofferenza e al rimuginare sulle ragioni della sconfitta.

Eppure questa volta un elemento nuovo c’è: il senso di estraniamento e frustrazione di chi non si aspettava una debacle umiliante come quella del 4 marzo, nella consapevolezza di aver ben governato il Paese. Ed è una sensazione comprensibile, perché in effetti i governi guidati da Renzi e Gentiloni hanno centrato obiettivi importanti, come obiettivamente va riconosciuto anche da chi osserva le cose da altri punti di vista (anche interni al partito, come il sottoscritto).

Temo che ben presto verranno rimpianti persino da chi ha votato altre forze politiche.

Una sensazione nuova – a livello nazionale – ma non nuovissima, visto l’esito di numerose elezioni che recentemente hanno segnato il passaggio al centrodestra o al Movimento 5 Stelle di comuni precedentemente amministrati dal centrosinistra. Alcuni casi nella provincia di Milano, come Corsico e Settimo Milanese, sono stati altrettanto traumatici, vista la storica propensione dei loro elettori a concederci la loro fiducia. Non meno dolorosa è stata la perdita di cinque dei nove municipi meneghini nelle elezioni del 2016, dopo che il trionfo di Pisapia nel 2011 aveva portato a uno storico nove su nove anche nel decentramento cittadino. La gioia per la vittoria di Sala nel ballottaggio, benché più sofferta del previsto, ha anestetizzato la ferita aperta e ci ha allontanato da una riflessione che sicuramente avrebbe anticipato i temi oggi riemersi nel dibattito nazionale.

Se si trattasse di psicanalisi, potremmo dire che il problema rimosso è poi tornato a manifestarsi con prepotenza sotto forma di sintomo, in questo caso rappresentato dal clamoroso scollamento tra la nostra parte politica e i suoi tradizionali riferimenti: le periferie, i lavoratori e gli “ultimi” dai quali siamo sempre più lontani, mentre scopriamo di avere sempre più gradimento nei centri delle città e nei ceti più abbienti.

 

Ovviamente, questi voti non ci devono dispiacere affatto. Dobbiamo però capire le radici di questa mutazione genetica, che a mio avviso stanno proprio nella capacità del P.D. di assumere su di se’ la responsabilità di governare una fase decisamente difficile nella vita di un Paese che si è trovato schiacciato tra la fine del bipolarismo e la più grave crisi economica del secondo dopoguerra. Da Monti a Letta, per poi passare all’alternanza Renzi-Gentiloni, il P.D. ha accettato di stare nella stanza del potere, nel nome di una ragion di Stato che inevitabilmente non poteva fare contenti tutti. Non mi pare casuale che, per la prima volta, i nostri voti vengano specialmente da chi è soddisfatto della propria condizione sociale, spesso anche a prescindere da quello che fa la politica. A Milano, che è l’unica città d’Italia pienamente europea, il giusto orgoglio per l’amministrazione in carica da sette anni non ci deve far sottovalutare questo fondamentale aspetto.

Anche perché oggi Milano è incastrata tra il problema delle periferie, dove il consenso dell’unica esperienza di centrosinistra tuttora al governo è in evidente calo, e la questione regionale: che Gori (pur essendo un ottimo candidato) finisse col perdere contro Fontana era probabile, ma che il distacco fosse di queste proporzioni lo avevamo previsto davvero in pochi. Ci sono quindi tutte le premesse per pensare che, a meno di una svolta, nel 2021 anche qui possa esserci un passaggio di testimone, che ovviamente preferirei evitare.

Già, ma come? A ogni sconfitta, torna in auge il tema di un P.D. che non sarebbe abbastanza “radicato sul territorio”. Davvero è questo il problema? Forse è altrove è diverso, ma a Milano il presidio dei nostri circoli è capillare, vista la loro capacità di dialogare con le associazioni e organizzare iniziative. Sicuramente, nessun altro partito può vantare una presenza di questo livello nei quartieri, dove però l’esito elettorale è stato drammaticamente diverso, a prescindere dalle relazioni in essere e da quanto fatto nel corso dei precedenti mandati.

Nemmeno la più efficiente delle amministrazioni può soddisfare pienamente tutte le istanze di una società sempre più complessa e segnata dalle diseguaglianze, nella quale l’interesse di singoli o gruppi raramente coincide con quello collettivo. Fare sintesi tra bisogni diversi era il compito tradizionale dei partiti, oggi in evidente affanno, mentre inseguire le “buone pratiche” e un mito di perfezione gestionale costa una fatica immane e non porta i risultati sperati, anche perché il voto generalmente esprime una speranza verso il futuro, più che una riconoscenza per il passato. Anzi, talvolta posizioni più realiste del Re finiscono con l’etichettarti negativamente come fiancheggiatore dell’estabilishment, avviandoti verso una sconfitta non dissimile da quella toccata in sorte a Hillary Clinton. Anche in Italia, siamo stati percepiti come un partito ormai fin troppo a suo agio nella stanza dei bottoni, forse perché ci siamo appiattiti sulle responsabilità istituzionali, perdendo di vista l’orizzonte ideale.

Temo che sia difficile riconquistare la fiducia degli elettori senza prima chiarire bene la nostra identità e le nostre aspirazioni. I voti dei centri cittadini sono preziosi tanto quanto gli altri, ma se rappresentare tutti è praticamente impossibile (e mi torna in mente il progetto di un partito “della nazione”…) sarebbe bene porsi delle domande: siamo il partito del centro o della periferia? Degli imprenditori o degli operai? Del conformismo o dei diritti? Della conservazione o del progresso?

 

Se ci chiarissimo prima questi temi, non banali, sarebbe più semplice rispondere anche alla domanda che tutti si pongono in questi giorni, ovvero se confermare l’annunciata linea di opposizione al Governo che faticosamente si sta cercando di mettere insieme o se cominciare a prepararsi all’ennesima chiamata alla responsabilità che potrebbe arrivare dal Presidente della Repubblica o, con meno enfasi, dal Presidente della Camera nell’espletamento del suo mandato esplorativo.

Sarebbe più semplice anche rispondere a un’altra domanda, più importante nel lungo periodo: il P.D. ha ancora senso con le sue ragioni fondative o, come sostiene Cacciari, non è nemmeno mai nato? Si può ripensare oggi a ricostruire un nuovo centrosinistra o è una stagione definitivamente finita? Sarebbe necessario discuterne in ogni sede possibile, dai bistrattati circoli (che meriterebbero più considerazione) all’Assemblea nazionale, rinviata con quello che a mio avviso è stato l’ennesimo errore di questa tormentata fase di crisi esistenziale.

Da - http://www.glistatigenerali.com/milano_partiti-politici/scegliere-da-che-parte-stare/


Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #1 inserito:: Maggio 15, 2018, 04:09:58 pm »

I pareri di Farinetti.

Ci sarebbe molto da dire ma una cosa la scrivo subito: se Renzi segue il consiglio di prendersi "un po' di respiro" meglio cambi mestiere.

Se resta ancora in panchina, avvalora le tesi e le critiche di chi lo avversa da sempre.

Già fa incazzare il "PD ninna nanna" di questi mesi se ci si mette anche Renzi, non ci resta che andare a studiare il marxismo e dare uno sciroppo che svegli alla sinistraSinistra. 

ggiannig

Da Fb del 14 maggio 2018
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #2 inserito:: Giugno 23, 2018, 11:22:02 am »

Il bipartitismo in America

I numerosi tentativi di creare un “terzo partito” negli Stati Uniti.

 Di Maurizio Stefanini

E' in crisi il tradizionale bipolarismo americano? Nel 1992 il miliardario Ross Perot, con il 19%, aveva ottenuto il miglior risultato di un terzo candidato presidenziale nel XX secolo. Nel 1996 lo stesso Ross Perot, pur calando all’8%, aveva comunque ottenuto un dato assolutamente eccezionale per qualunque paese a uninominale-presidenziale secco, passando la soglia del 5% che dà diritto a un rimborsi elettorale. In apparenza, nel 2000 le terze opzioni sembrano essersi ridimensionate: contro il 48,3% del democratico Gore e il 48,1% del repubblicano Bush Junior, con l’ex-repubblicano Pat Buchanan il Reform Party già di di Ross Perot si è ridotto allo 0,4%, alla pari col libertarian Harry Browne. E anche il verde Ralph Nader, dopo essere arrivato nei sondaggi fino all’8%, ha dovuto infine fermarsi nel voto reale al 2,6%. Eppure, sono stati proprio i suoi voti marginali a far perdere a Gore la Florida, e quindi a permettere a Bush Junior di vincere per aver conquistato più stati, pur con meno voti popolari. Allontanata nel padre dalla Casa Bianca per colpa del terzo incomodo Ross Perot, la famiglia Bush ha potuto tornarci col figlio per merito del terzo incomodo Nader.

In effetti, però, la tentazione di un terzo partito negli Stati Uniti è antica. L'attuale contrapposizione risale alle elezioni del 1860, quando Abrahm Lincoln, leader di un Partito Repubblicano fondato appena 6 anni prima con l'obiettivo dell'abolizione della schiavitù, battè i democratici, che sempre sulla questione della schiavitù si erano divisi tra due candidati, nordista e sudista. E quel voto fu anche l'ultima occasione in cui comparve il partito whig, che era stato l'antagonista dei democratici dopo il 1832. Prima ancora il Partito Democratico Repubblicano, antenato dei democratici moderni, si era contrapposto al Partito Federalista, che in realtà, malgrado il nome, era piuttosto "centralista".

Dopo il 1860, in effetti, ci fu una volta in cui il bipolarismo repubblicani-democratici fu infranto: nel 1912, quando Theodore Roosvelt, già presidente repubblicano tra 1901 e 1908, si ripresentò alla testa di un suo Partito Progressista contro il presidente in carica William Howard Taft. Che era stato suo ministro della guerra, e che aveva scelto lui stesso come successore, ma che ora accusava di aver spostato il partito troppo a destra, su una linea succube di quei grandi monopoli contro cui lui aveva condotto una crociata anti-trust. Roosvelt prese il doppio dei voti di Taft, ma la divisione tra i repubblicani permise solo l'elezione del democratico Woodrow Wilson, che avrebbe poi portato gli Usa nella prima guerra mondiale. Malgrado il successo, il Partito Progressista sarebbe durato solo quattro anni, visto che la stessa sconfitta di Taft aveva spianato la strada per un rientro di Roosvelt. Ma gran parte dei suoi seguaci della sinistra repubblicana finirono invece con i democratici, ed è appunto a quest'epoca che si deve la definitiva inversione dell'originario quadro nel 1860, che aveva visto i repubblicani a sinistra e i democratici a destra.

L'etichetta di Partito Progressista fu però riesumata nel 1924 da un antico seguace di Roosvelt, il senatore del Wisconsin Robert Marion La Follette. Convinto bastian contrario, era stato l'unico della sua assemblea a votare contro l'ingresso degli Usa nella prima guerra mondiale. Ricevette 4.831.000 voti popolari, pari al 16,5%, e conquistò lo Stato del Wisconsin, con i suoi 13 voti nel collegio di grandi elettori che formalmente designa il presidente. Ma la sua morte, l'anno dopo, fu anche quella del suo movimento. Una terza reincarnazione il Partito Progressista l'avrebbe però avuta nel 1948 ad opera di Henry Wallace, che era stato vice-presidente del democratico Franklin Delano Roosvelt tra 1941 e 1945, e ministro del commercio tra 1945 e 1946. Ma dopo la morte del presidente, ruppe col suo successore Truman, non condividendo la rottura con l'Unione Sovietica. E su posizioni filo-sovietiche si presentò appunto alle successive presidenziali. La Follette aveva avuto l'appoggio del debole movimento socialista, il cui picco elettorale sono stati i 919.799 voti alle presidenziali del 1920 (negli anni ’90, è stato eletto un indipendente che si proclamava “socialista” alla Camera per il Vermont, ma si è poi iscritto al gruppo democratico). Wallace sarebbe stato ovviamente spalleggiato dai pochi ma attivi, e come si è scoperto ora abbondantemente finanziati da Mosca, comunisti americani. Con 1.157.172 voti non avrebbe conquistato però nessun grande elettore, e l'ultimo Partito Progressista sarebbe morto di morte naturale intorno al 1957.

Ovviamente, questo il filo-comunista Henry Wallace non va confuso col razzista George Wallace, il governatore dell'Alabama che nel 1968 ruppe con i democratici sulla politica di integrazione razziale e si presentò nel 1968 alla presidenza per un American Indipendent Party con cui conquistò il 13,5% del voto popolare e ben 46 voti elettorali, da 5 Stati del Sud. Abbastanza da far perdere il democratico Hubert Humphrey contro il repubblicano Richard Nixon. Anche questo fu un voto di svolta, dopo il quale la destra del Sud "assimilò" definitivamente il cambio di quadro politico che si era avuto tra 1912 e 1932, e passò dai democratici, partito "sudista" della Guerra di Secessione, alla "nuova destra" repubblicana. Wallace però tornò coi democratici, e prima di morire fece anche in tempo a diventare anti-razzista.

Un'effimera candidatura fu anche nel 1980 quella del repubblicano "liberal" John Anderson contro Reagan e Carter. Senza grossi exploit alle presidenziali ma con un certo radicamento nel territorio era stato nel secolo scorso quel curioso movimento nato nel 1875 come Greenback Party, e fondato in origine da contadini del West rovinati dalla depressione, che credevano di poter trovare sollievo dai debiti se si fosse abolita la convertibilità in oro dei biglietti di banca "dal dorso verde" (greenback). Trasformatosi in seguito in Greenback and Labor Party ebbe il suo picco nel 1878, con un milione di voti e 14 eletti al Congresso. Entrato in crisi, fu sostituito nel 1891 dal Partito Populista, che su una piattaforma socialisteggiante arriverà nel 1892 a conquistare per il suo candidato, James Baird Weaver, un milione di voti e 22 grandi elettorali. Ma morì del suo stesso suuccesso, nel momento in cui i democratici ne adottarono il programma, finendo così per assorbirlo.

Il Reform Party di Ross Perot non ha mai conquistato alcun seggio in Congresso. Ma col 19% alle presidenziali del '92 ha ottenuto il maggior risultato di un terzo partito dopo il Partito Progressista di Roosvelt, pur riuscendo solo a far vincere Clinton su Bush. Dopo 9 anni, è anche ormai il terzo partito di maggior durata dai tempi dei greenbacks-populisti. E non è ormai più un partito personale, dopo l'elezione a governatore del Minnesota dell'ex-lottatore Jesse Ventura e le adesioni del miliardario Donald Trump e del leader della destra repubblicana Pat Buchanan. Sono stati anzi proprio Trump e Buchanan, non Ross Perot, a correre per la nomination. Ma problema, a questo punto, è stato un terzo partito per farci cosa, visto che ogni nuovo leader ne portava un'idea diversa. Se Ross Perot si limitava a contestare le tasse, Jesse Ventura è un libertarian dottrinario, la cui richiesta di Stato minimo contemplava anche la liberalizzazione della droga. E mentre Trump puntava a un partito di centro tra repubblicani e democratici, Buchanan voleva collocarsi invece stabilmente alla destra dei repubblicani. Incertezze che hanno finito per compromettere definitivamente l’immagine del movimento.

Che succederebbe se negli Stati Uniti non ci fosse il sistema uninominale ma il presidenziale? Non siamo nella pura ucronia, perché in effetti, anche se è poco noto, esperimenti di adozione del proporzionale vennero fatti in passato da alcuni consigli comunali, tra cui anche quello di New York, tra 1936 e 1947. Ebbene, nel 1937 ottenero eletti ben cinque partiti: oltre a 13 democratici e 3 repubblicani, ci furono 2 consiglieri di una lista democratica dissidente, 5 dell’American Labor Party, sponsorizzato dai sindacati, e 3 City fusionists, quella che definiremmo una lista civica.  Nel 1941 i partiti rappresentati nel consiglio della “Grande Mela” divennero sei, con l’aggiunta di un comunista. E nel 1947 passarono a sette, con la comparsa di una lista dissidente dell’American Labor Party sostenuta dai sindacati dell’abbigliamento. 

Maurizio Stefanini. Romano, 39 anni, laureato in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista professionista. Collabora con diversi quotidiani e riviste a carattere nazionale. Ha appena pubblicato, assieme a Giovanni Negri, I Senzapatria. Avanti rispetto alla politica, indifferenti alla cosa pubblica, stanchi di un Paese che non funziona. Il romanzo degli italiani fai-da-te per le Edizioni Ponte alle Grazie. Altri suoi libri: Struttura e organizzazione del Primo Gruppo Divisioni Alpine, Fidel Castro, Cinque secoli di storia di Timor Est.

Da - https://digilander.libero.it/atticciati/storia/TerzoPartito.htm
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!