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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 289099 volte)
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« Risposta #540 inserito:: Novembre 07, 2012, 04:25:03 pm »

Editoriali
07/11/2012

Il compromesso possibile

Marcello Sorgi


Il nuovo blitz sulla legge elettorale in commissione al Senato non dev’essere drammatizzato, anche se ieri ha provocato un mezzo putiferio. Già contrario al meccanismo con cui una maggioranza formata da Udc, Pdl e Lega aveva introdotto una soglia minima per l’ottenimento del premio di maggioranza, il Pd ha considerato quasi un golpe l’innalzamento della stessa soglia. Ed in effetti, passare dal 37,5 per cento al 42,5 per cento vuol dire rendere quasi irraggiungibile il premio, e tornare, in pratica, al sistema proporzionale. Quello adoperato per quasi mezzo secolo nella Prima Repubblica, in base al quale i partiti si presentavano ognuno per conto proprio e solo dopo il voto trattavano in Parlamento per decidere le alleanze con cui governare.

 

Attualmente, con il Porcellum, è l’opposto: la lista che prende più voti, indipendentemente da quanti ne prende, ottiene il premio e conquista il 55 per cento dei seggi alla Camera. Al Senato il meccanismo è diverso perché si vota su base regionale e si concorre, dunque, per tanti premi quante sono le regioni. Teoricamente (ma fin qui non s’è mai verificato, e il Porcellum ha fatto vincere una volta Prodi e una Berlusconi), con un quadro politico simile a quello delle regionali siciliane, il Movimento 5 stelle, giunto primo con il 18 per cento, avrebbe potuto ottenere ben 340 deputati a Montecitorio.

 

Ma anche prima che la campana suonasse in Sicilia, la Corte costituzionale era intervenuta per segnalare il rischio di uno stravolgimento del meccanismo elettorale, a prescindere da chi poi si fosse trovato a incassare un risultato «drogato» dal premio. Occorre ancora sottolineare, infatti, che in Sicilia, sempre per restare allo stesso esempio, più di metà degli elettori hanno disertato le urne. La tabella delle percentuali, di conseguenza, va dimezzata: il vincitore, che con la sua coalizione s’è piazzato poco oltre il 30 per cento, ha in realtà raggiunto solo il 15; lo sconfitto che è arrivato al 26, di fatto il 13. E così via, fino a Grillo, che è stato, sì, la rivelazione, non essendosi alleato con nessuno e avendo trionfato lo stesso, ma appunto ha messo insieme un 18 per cento che in sostanza vale 9.

 

Fuori dalle complicate alchimie dei numeri, se ne ricava che i giudici costituzionali avevano visto bene, e in anticipo, dove ci avrebbe portato l’idea di pompare i risultati elettorali, e rimediare così al deficit di politica che ha accompagnato tutto il ventennio della Seconda Repubblica. L’illusione che coalizioni rissose e incapaci di governare potessero essere sostituite da alleanze dai confini più ristretti, ma dalle dimensioni gonfiate artificialmente, s’è consumata nel corso di quest’ultima legislatura. Non ha funzionato per Berlusconi, che ha visto dissolversi tra risse e lotte intestine il Pdl e la sua maggioranza di oltre cento deputati. Né per Veltroni e il Pd, sconfitto alle ultime elezioni, e tornato precipitosamente con Bersani a cercare l’alleanza con la sinistra estrema. 

 

Di qui, prima ancora che la Corte si pronunciasse, l’esigenza di una nuova legge elettorale. E l’insistenza, anche in questi ultimi giorni, di Napolitano, per spingere i partiti verso l’accordo e verso un compromesso ragionevole. Diciamo la verità, ci sarebbe stato tutto il tempo, in cinque anni di legislatura, per portare a casa questa come altre riforme urgenti. Sarebbe pure servito a dare la sensazione di una politica che cerchi di ritrovare se stessa e provi a parare così gli attacchi dell’antipolitica. Invece, lungo tutto questo tempo, s’è assistito a un nulla di fatto, al suicidio di una classe dirigente, che, tra incapacità di decidere e incremento della corruzione, è riuscita solo a offrirsi come bersaglio a un’opinione pubblica indignata e disorientata.

A questo punto, tuttavia, è inutile recriminare. Con le poche settimane che rimangono, di qui allo scioglimento delle Camere, è diventato indispensabile scoprire le carte e rinunciare a qualsiasi sotterfugio o tentazione di propaganda, anche se le elezioni si avvicinano. Quella soglia del 42,5 per cento, uscita dalla commissione del Senato, e da ieri al centro delle polemiche, in una seria trattativa politica, potrebbe scendere al 40 per cento, o ancora di qualcosa: trasformandosi in un obiettivo possibile per un’alleanza bene assortita, con un programma condiviso, e una squadra di governo qualificata e in grado di affrontare i pesanti problemi che il Paese continuerà ad avere davanti nei prossimi anni.

 

Chiudere l’epoca della Seconda Repubblica è ormai diventato indispensabile. Ma non è affatto scontato, come preannunciano i venti di guerra che arrivano dalla Camera in direzione del Senato. Tutto dipenderà dal buon senso e dalla disponibilità dei principali leader politici. Riflettano. E trovino un punto di incontro, dal momento che la riforma, dopo la sentenza della Consulta, non è aggirabile, e potrebbe far da base a un nuovo inizio per un sistema politico esausto. Restare ancora nella terra di mezzo, invece, sarebbe veramente disastroso.

da - http://lastampa.it/2012/11/07/cultura/opinioni/editoriali/il-compromesso-possibile-XmuJzUKUNnob6UBwiqUyxJ/pagina.html
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« Risposta #541 inserito:: Novembre 08, 2012, 11:20:55 pm »

Editoriali
08/11/2012 - taccuino

Nessuno vuole arrivare in aula senza un patto preventivo

Marcello Sorgi

Il giorno dopo il voto a sorpresa in Senato sulla riforma elettorale, che ha alzato al 42,5 per cento la soglia per l’ottenimento del premio di maggioranza, il presidente Schifani, d’intesa con il Quirinale, insiste perchè il testo destinato all’aula possa uscire dalla commissione con un consenso il più largo possibile.

 

Il tentativo è di recuperare il Pd, che ha preso malissimo l’approvazione a sorpresa dell’emendamento che introduce un limite quasi insormontabile al premio, e di fatto reintroduce il proporzionale. Bersani accusa Casini di aver voluto in questo modo lavorare per una legge che riduca il quadro politico dopo le elezioni a una «palude», dalla quale poi anche un Monti-bis farebbe fatica a venir fuori. Casini ovviamente respinge le accuse, ma conferma che lasciando in vigore il Porcellum si darebbe all’alleanza Bersani-Vendola, valutata sul 30 per cento, la possibilità di prendersi il 55 per cento dei posti alla Camera: prospettiva, questa, da evitare a qualsiasi costo secondo l’Udc.

 

Dietro queste schermaglie, tuttavia, la trattativa è in corso. L’ipotesi di cui si parla è di ridurre la soglia di accesso al premio dal 42,5 al 40, sempre più del 37,5 per cento uscito dalla prima votazione sulla riforma. Una coalizione che sia in grado di raggiungere questo obiettivo, al momento, non c’è, né s’intravede all’orizzonte. 

Per questo Bersani resiste, accusando Udc, Pdl e Lega di voler far passare al Senato una legge contro il Pd. Una trattativa parallela si sta svolgendo sull’ipotesi di un premio più ridotto da assegnare alla lista che dovesse arrivare prima, anche senza ottenere la maggioranza. Si tratterebbe di una sorta di premio di consolazione, che rafforzando la posizione del primo partito, metterebbe comunque il leader vincitore nelle condizioni di ricevere l’incarico di formare il governo, seppure subordinato a una trattativa che si svolgerebbe dopo il voto.

 

In realtà nessuno ha interesse a portare in aula un testo che, pur se approvato al Senato, dove il centrodestra ha ancora la maggioranza, troverebbe alla Camera, dove il regolamento prevede il voto segreto, un’accoglienza densa di incognite e un probabile fronte trasversale di franchi tiratori. 

 

Napolitano spinge per convincere il Parlamento ad approvare la riforma, ma dopo quanto è accaduto martedì sa di doversi adoperare perchè anche il Pd sia soddisfatto. Berlusconi, tornato dalle vacanze, segue tutta la trattativa passo passo e ieri ha avuto un primo incontro con Alfano e il vertice del Pdl.

 da - http://www.lastampa.it/2012/11/08/cultura/opinioni/editoriali/nessuno-vuole-arrivare-in-aula-senza-un-patto-preventivo-fYXmp0HmcsELeebQj2ofvO/pagina.html
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« Risposta #542 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:04:19 pm »

Editoriali
11/11/2012

La parentesi che non si chiude

Marcello Sorgi

Il primo anniversario del governo Monti e della caduta di Berlusconi ci porta la conferma di una legge, non scritta, ma saldamente scolpita nel dna dell’Italia: l’impossibilità, per un Paese come il nostro, di essere o diventare normale. 

Anche in questi dodici mesi, che hanno segnato il crollo della Seconda Repubblica, l’Italia, più che alle regole della politica, ha continuato ad obbedire ad uno dei principi fondamentali della fisica: nulla si crea e nulla si distrugge. E basta solo confrontare quel che è accaduto nello stesso periodo nel resto del mondo per accorgersi che è così. 

In un modo o nell’altro, in Europa, anche le crisi più gravi hanno trovato uno sbocco, dal Belgio in cui da dicembre il socialista Elio Di Rupo ha posto fine a un vuoto di governo che durava da 540 giorni, alla Grecia in cui s’è dovuto votare due volte in un mese, alla Francia ex di Sarkozy e ora di Hollande, alla Spagna dove l’eredità di José Luis Zapatero pesa sulle spalle di Mariano Rajoy.

 

Da noi invece la parentesi che doveva servire a calmare le acque, fin troppo agitate, dell’ultimo governo, potrebbe allungarsi anche nella prossima legislatura, e Monti è il candidato più autorevole a succedere a se stesso. Mentre Berlusconi, dato politicamente per morto un anno fa, è ancora sulla scena, e nelle ultime settimane ha annunciato alternativamente, due o tre volte, il suo ritiro e il rientro in campo. Tornano, o stanno per tornare, gli irriducibili della sinistra radicale, fuorusciti dal Parlamento nel 2008 per la rottura dell’alleanza con il Pd voluta da Veltroni (che non si ricandiderà), e riammessi da Bersani, che li ha ripescati con Vendola. Bossi, a causa degli scandali che hanno investito la sua famiglia, non è più il capo della Lega, ma non s’è messo da parte. Le novità sono Grillo e Renzi: ma il primo, nello spettacolo, se non proprio nella politica-spettacolo, c’è da un bel po’. E il secondo è pur sempre il sindaco di Firenze: se perderà le primarie, non diventerà certo un Cincinnato.

 

Tutto si tiene: la discussione sulla nuova legge elettorale, indispensabile, vista l’insostenibilità di quella attuale, consiste nella ricerca del metodo migliore per consentire a chiunque di salvarsi, vincenti possibili e futuri perdenti. Se alla fine la riforma ci sarà, avremo tre, e non più due, schieramenti: sinistra, centro e destra, in cui vecchi e nuovi si mescoleranno, per regolare poi i conti in campagna elettorale. Se non ci sarà e resterà il Porcellum, vedremo rinascere il bipolarismo - centrodestra contro centrosinistra -, con amicizie e alleanze ritrovate, tra quelle che sembravano finite per sempre.

 

A ben vedere è abbastanza anomalo anche il modo in cui abbiamo fatto l’esperienza della larga coalizione, che in quest’anno ha sostenuto il governo Monti. Altrove, non c’è niente di strano, se per un periodo partiti abitualmente avversari si mettono insieme, per affrontare gravi problemi del loro Paese che richiedono uno sforzo comune. E’ successo in Germania e sta accadendo in Grecia. Qui al contrario è una soluzione praticata di nascosto, basata sul dire il contrario di ciò che è e sul «si fa, ma non si dice». Si cominciò, viene quasi da ridere a ricordarlo, con un vertice segreto, tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, nel tunnel sotterraneo che collega il Senato a Palazzo Giustiniani. Si proseguì cercando di legittimare, se non una vera e propria alleanza, un regime di rapporti più civili e responsabili, dopo la mezza guerra civile che aveva caratterizzato il ventennio precedente. Ma appena i vertici «ABC», dalle iniziali dei partecipanti, divennero ufficiali e più frequenti, maturò un brusco pentimento. Ci fu perfino chi disse che erano legati a quei vertici, e non all’ondata di corruzione dilagante nelle regioni, l’irruzione dell’antipolitica, sfociata, sia nel successo di Grillo che nel ritorno di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco per la quarta volta alle amministrative del 6 e 7 maggio.

 

Già mezzo secolo fa, nel «Giorno della civetta», Leonardo Sciascia sosteneva che in Italia la «linea della palma», del comparaggio, degli scandali, si era spostata troppo a Nord. A Roma ancora oggi si dice che «chi vo’ campa’, deve fa’ il morto». Monti seduto all’ombra di una palma è impossibile da immaginare. Ma se la politica italiana continua a restare così inconcludente, e indifferente a se stessa, dopo questo primo anno virtuoso del governo tecnico, non ci aspettano bei tempi.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/la-parentesi-che-non-si-chiude-XxT5BglVTVBGmJsYsjj1mN/pagina.html
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« Risposta #543 inserito:: Novembre 13, 2012, 07:40:55 pm »

Editoriali
13/11/2012

Il rischio della sindrome democristiana

Marcello Sorgi


Se nel centrodestra temono che le primarie si risolvano in un flop, forse anche nel centrosinistra farebbero bene a cominciare a preoccuparsi: almeno dopo il dibattito di ieri sera. 

 

Doveva essere un confronto all’americana, quello su Sky, ma alla fine s’è risolto in una specie di congresso democristiano. Renzi ha cercato in ogni modo di ravvivarlo, giocando con la tattica dell’uno contro quattro. Gli altri hanno fatto spallucce, lasciandolo a sciorinare il solito campionario di battute, e continuando ognuno per conto proprio. Nel contesto, Tabacci è stato la rivelazione: l’usato sicuro che si impone per esperienza e capacità. Vendola, invece, la delusione (alla fine lui stesso ha ammesso di essere «un acchiappanuvole»). Quanto a Bersani,
dall’alto della sua responsabilità, ha mostrato un distacco che gli impone posizioni sfumate. 

 

Renzi è un contemporaneo che si sforza (e qualche volta ci riesce) di mostrarsi già collocato nel futuro, guarda tutto come se fosse alle sue spalle. Il suo pezzo forte resta D’Alema: quando ha detto che le previsioni del «líder máximo» sono come le profezie dei Maya, il pubblico si spellava le mani per gli applausi. E tuttavia non è riuscito a intaccare la calma inossidabile del segretario.

 

Bersani in certi momenti sembrava il notaio di un telequiz, in cui i concorrenti si affrontavano sotto i suoi occhi, ben sapendo che se alla fine il centrosinistra riuscirà a governare, il premier sarà lui. Se si scatenavano contro Casini, e tutti lo hanno fatto, con più o meno enfasi, il segretario sorrideva bonario, come se pensasse: «Divertitevi pure, che tanto poi ricucire tocca a me». Non ha mai attaccato nessuno, neppure Renzi, e in conclusione ha apprezzato che alla prima uscita pubblica in tv, la coalizione sia apparsa più unita che in passato: in fondo le primarie servono anche a questo.

 

Così che l’unico colpo basso lo ha giocato una sostenitrice di Renzi contro Laura Puppato, accusata di aver lasciato il posto di sindaco di Montebelluna per andare in consiglio regionale, e adesso, di lì, di volersi trasferire in Parlamento e forse al governo. Puppato ha incassato male, ma non malissimo, consapevole che essere l’unica candidata donna giocherà a suo favore, anche se la sua performance tv non è stata brillante.

 

Se Renzi s’è mosso da solo contro tutti gli altri è perché - il confronto di ieri sera lo ha dimostrato - difficilmente potrà vincere al primo turno. Chi per una ragione, chi per l’altra, Tabacci, Puppato e Vendola nelle urne delle primarie giocheranno contro di lui e a favore di Bersani. E non perché si siano messi d’accordo con il segretario, anche se si sono ben guardati dal criticarlo. Ma perché nessuno di loro, con evidenza, corre per arrivare al secondo turno, ma solo per presidiare una fetta precisa di elettorato di centrosinistra. In questo senso, ma solo apparentemente, dato che le primarie appartengono a un’altra epoca, il confronto tra i cinque riecheggiava i vecchi congressi della Dc: dove tutti fingevano di darsele di santa ragione dalla tribuna per due o tre giorni, salvo poi ritrovarsi uniti al momento di fare il governo e spartirsi le poltrone. 

da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-della-sindrome-democristiana-5QBH2EsL9tJ6L2qUqOuZiN/pagina.html
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« Risposta #544 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:20:21 pm »

Editoriali
11/11/2012



Marcello Sorgi

Il primo anniversario del governo Monti e della caduta di Berlusconi ci porta la conferma di una legge, non scritta, ma saldamente scolpita nel dna dell’Italia: l’impossibilità, per un Paese come il nostro, di essere o diventare normale. 

Anche in questi dodici mesi, che hanno segnato il crollo della Seconda Repubblica, l’Italia, più che alle regole della politica, ha continuato ad obbedire ad uno dei principi fondamentali della fisica: nulla si crea e nulla si distrugge. E basta solo confrontare quel che è accaduto nello stesso periodo nel resto del mondo per accorgersi che è così. 

In un modo o nell’altro, in Europa, anche le crisi più gravi hanno trovato uno sbocco, dal Belgio in cui da dicembre il socialista Elio Di Rupo ha posto fine a un vuoto di governo che durava da 540 giorni, alla Grecia in cui s’è dovuto votare due volte in un mese, alla Francia ex di Sarkozy e ora di Hollande, alla Spagna dove l’eredità di José Luis Zapatero pesa sulle spalle di Mariano Rajoy.

 

Da noi invece la parentesi che doveva servire a calmare le acque, fin troppo agitate, dell’ultimo governo, potrebbe allungarsi anche nella prossima legislatura, e Monti è il candidato più autorevole a succedere a se stesso. Mentre Berlusconi, dato politicamente per morto un anno fa, è ancora sulla scena, e nelle ultime settimane ha annunciato alternativamente, due o tre volte, il suo ritiro e il rientro in campo. Tornano, o stanno per tornare, gli irriducibili della sinistra radicale, fuorusciti dal Parlamento nel 2008 per la rottura dell’alleanza con il Pd voluta da Veltroni (che non si ricandiderà), e riammessi da Bersani, che li ha ripescati con Vendola. Bossi, a causa degli scandali che hanno investito la sua famiglia, non è più il capo della Lega, ma non s’è messo da parte. Le novità sono Grillo e Renzi: ma il primo, nello spettacolo, se non proprio nella politica-spettacolo, c’è da un bel po’. E il secondo è pur sempre il sindaco di Firenze: se perderà le primarie, non diventerà certo un Cincinnato.

 

Tutto si tiene: la discussione sulla nuova legge elettorale, indispensabile, vista l’insostenibilità di quella attuale, consiste nella ricerca del metodo migliore per consentire a chiunque di salvarsi, vincenti possibili e futuri perdenti. Se alla fine la riforma ci sarà, avremo tre, e non più due, schieramenti: sinistra, centro e destra, in cui vecchi e nuovi si mescoleranno, per regolare poi i conti in campagna elettorale. Se non ci sarà e resterà il Porcellum, vedremo rinascere il bipolarismo - centrodestra contro centrosinistra -, con amicizie e alleanze ritrovate, tra quelle che sembravano finite per sempre.

 

A ben vedere è abbastanza anomalo anche il modo in cui abbiamo fatto l’esperienza della larga coalizione, che in quest’anno ha sostenuto il governo Monti. Altrove, non c’è niente di strano, se per un periodo partiti abitualmente avversari si mettono insieme, per affrontare gravi problemi del loro Paese che richiedono uno sforzo comune. E’ successo in Germania e sta accadendo in Grecia. Qui al contrario è una soluzione praticata di nascosto, basata sul dire il contrario di ciò che è e sul «si fa, ma non si dice». Si cominciò, viene quasi da ridere a ricordarlo, con un vertice segreto, tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, nel tunnel sotterraneo che collega il Senato a Palazzo Giustiniani. Si proseguì cercando di legittimare, se non una vera e propria alleanza, un regime di rapporti più civili e responsabili, dopo la mezza guerra civile che aveva caratterizzato il ventennio precedente. Ma appena i vertici «ABC», dalle iniziali dei partecipanti, divennero ufficiali e più frequenti, maturò un brusco pentimento. Ci fu perfino chi disse che erano legati a quei vertici, e non all’ondata di corruzione dilagante nelle regioni, l’irruzione dell’antipolitica, sfociata, sia nel successo di Grillo che nel ritorno di Leoluca Orlando a Palermo, sindaco per la quarta volta alle amministrative del 6 e 7 maggio.

 

Già mezzo secolo fa, nel «Giorno della civetta», Leonardo Sciascia sosteneva che in Italia la «linea della palma», del comparaggio, degli scandali, si era spostata troppo a Nord. A Roma ancora oggi si dice che «chi vo’ campa’, deve fa’ il morto». Monti seduto all’ombra di una palma è impossibile da immaginare. Ma se la politica italiana continua a restare così inconcludente, e indifferente a se stessa, dopo questo primo anno virtuoso del governo tecnico, non ci aspettano bei tempi.

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/la-parentesi-che-non-si-chiude-XxT5BglVTVBGmJsYsjj1mN/pagina.html
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« Risposta #545 inserito:: Novembre 14, 2012, 05:38:01 pm »

Editoriali
14/11/2012 - taccuino

Il ritorno di Calderoli e la lenta agonia del Porcellum

Marcello Sorgi

La riapparizione in scena dell’ex ministro leghista Calderoli, padre pentito del Porcellum, ha sancito ieri un nuovo blocco della trattativa infinita sulla legge elettorale al Senato. Calderoli, in un ennesimo tentativo di mediazione, dopo la votazione sul 42,5 per cento come soglia di accesso al premio di maggioranza, ha proposto di ragionare su un calcolo del premio in percentuale dei voti raccolti: ad esempio, il 20, o il 25 per cento in più di quelli usciti effettivamente dalle urne per il vincitore.

 

Fatti due conti, la risposta del Pd, comunicata a stretto giro dalla capogruppo Anna Finocchiaro, è stata un «no». Se infatti con il 42,5 per cento di sbarramento il premio è praticamente irraggiungibile, perchè nessuna coalizione, al momento, è in grado di puntare a un obiettivo così alto, con il premio percentuale proposto da Calderoli diventerebbe impossibile anche puntare a una semplice maggioranza. Supposto che un’alleanza, con la propria lista, fosse in grado di arrivare al quaranta per cento, il 20 per cento aggiuntivo ipotizzato dall’esponente leghista la porterebbe al massimo al 48, due punti sotto il 50 per cento, e ben lungi da un livello in grado di garantire la governabilità.

 

Al dunque, e al di là dei tecnicismi su cui si continua a discutere, il problema resta quello della possibilità o meno per uno degli schieramenti di conquistare sul campo il diritto a governare. Il centrodestra, preoccupato che alla fine il centrosinistra possa riuscirci, frena su qualsiasi ipotesi che possa garantire questo sbocco. L’Udc, che vuole arrivare a una riforma che consenta di decidere dopo il voto, e non prima, quale tipo di governo costruire, al Senato s’è schierata con Pdl e Lega nelle votazioni pensando che questo avrebbe spinto il Pd a più miti consigli. Ma a giudicare dalle reazioni, non è così. E non lo è stato neppure ieri, quando Calderoli ha preso l’iniziativa di avanzare una nuova proposta.

 

Se la riforma non passa, a Bersani rimane la carta di riserva del mantenimento del Porcellum, che così com’è in caso di vittoria assegnerebbe al centrosinistra il 55 per cento dei seggi alla Camera. Il segretario del Pd sa bene che, dopo la sentenza della Corte costituzionale, lasciare il Porcellum intatto è impossibile. Ma dopo che Udc, Pdl e Lega si sono alleati alle sue spalle, non vuole in alcun modo aiutarli a venir fuori dall’impasse. Così, di giorno in giorno, ogni compromesso si allontana. Napolitano dal Quirinale preme, ma le risposte che arrivano dalla presidenza del Senato, visto quel che sta accadendo, non fanno affatto ben sperare.

da - http://lastampa.it/2012/11/14/cultura/opinioni/editoriali/il-ritorno-di-calderoli-e-la-lenta-agonia-del-porcellum-44fuv17bFKBkX3DGifQj6K/pagina.html
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« Risposta #546 inserito:: Novembre 15, 2012, 04:47:01 pm »

Editoriali
15/11/2012 - taccuino

Pier si schiera di nuovo col centrodestra

Marcello Sorgi

Il duro scontro sulla data delle elezioni, che ieri ha opposto Alfano a Bersani e ha fatto temere per qualche ora una crisi di governo, ha visto nuovamente Casini schierato dalla parte del Pdl. In meno di un mese, è la terza volta, dopo il voto a sorpresa con cui i centristi fecero passare in commissione al Senato la bozza di riforma e elettorale e quello con cui successivamente fu portata al 42,5 per cento la soglia di accesso al premio di maggioranza. 

 

Ma mentre il centrodestra ha le sue ragioni per preferire un election day unico per regionali e politiche, con una sola campagna nazionale, per puntare a far sbiadire il ricordo degli scandali che hanno posto fine alle amministrazioni della Lombardia e del Lazio, l’affiancamento dell’Udc ha una spiegazione diversa. Oltre a cercare di federare una più vasta area di centro, mettendo insieme i vari spezzoni che si stanno organizzando in vista del voto, Casini infatti è impegnato in una delicata iniziativa, per far sì che la «Lista per l’Italia» possa fregiarsi, prima della scadenza delle urne, del nome del presidente del Consiglio. Ora, non è un mistero che il centro sia schierato con Monti e punti a fargli fare il bis, contrariamente al centrosinistra e al centrodestra che otterranno dalle primarie i nomi dei loro candidati premier. Ma che Monti accetti, oltre alla lista, una sorta di partito a suo nome, è ancora tutto da vedere. 

 

La strategia casiniana punterebbe a un avallo del premier da rendere esplicito anche nel corso della campagna elettorale. Dato che Monti ha detto e ripetuto che non ritiene di prendervi parte, basterebbe, per i centristi, che si limitasse a dire che non può impedire a nessuno di richiamarsi all’esperienza dei tecnici: specie in elezioni politiche istituzionalmente dedicate a valutare l’attività di un governo e a decidere se confermarlo o cambiarlo. 

Ma anche in questa forma, l’eventuale ingresso del presidente del Consiglio in campagna elettorale avrebbe forti conseguenze: i candidati premier di Pd e Pdl, infatti, non potrebbero restare indifferenti all’entrata in campo di un concorrente così forte. E’ vero che, nel caso di un risultato elettorale orientato verso un bis, Monti ne ricaverebbe il vantaggio di non ritrovarsi come Prodi, che in tutte e due le sue esperienze dovette scontare la mancanza di un partito proprio e la difficoltà, per questo, di tenere unita la sua coalizione. Ma dopo una campagna in cui, seppure con un ruolo sfumato, il premier dovesse essere presente, non è detto che aumenterebbero le possibilità di rimettere insieme, se necessario, la larga maggioranza che lo ha sostenuto fin qui.

da - http://lastampa.it/2012/11/15/cultura/opinioni/editoriali/e-pier-di-nuovo-si-schiera-col-centrodestra-xrSV0R9qy7kPRfroZewPpN/pagina.html
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« Risposta #547 inserito:: Novembre 17, 2012, 03:41:57 pm »

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16/11/2012

Le ragioni del cambio di rotta

Marcello Sorgi


Sentire i segretari dei due maggiori partiti della maggioranza dire che non scommetterebbero un centesimo, o nemmeno un centesimo, sulla possibilità che il governo possa tentare un bis dopo le elezioni, non deve aver fatto molto piacere al professor Monti. 

 

Soprattutto se si tratta degli stessi leader che fino al giorno prima litigavano pesantemente sulla data delle elezioni, ma che due settimane fa si erano trovati concordi, ciascuno con le proprie richieste, nel demolire la legge di stabilità, che intanto ha avuto la sua prima approvazione in Parlamento. 

 

Alfano e Bersani, dopo essersi scambiati accuse mercoledì, ieri sembravano di nuovo d’amore e d’accordo nel prevedere poche settimane di vita per il governo: giusto il tempo della campagna elettorale, già cominciata prima ancora di sapere esattamente quando si voterà e con quale legge elettorale, e se si andrà alle urne in date diverse per regionali e politiche, oppure in una sola per tutte e due. 

 

Tanta fretta di far capire a Monti che non deve farsi illusioni sul futuro non può essere motivata da ambizioni che il Professore, per parte sua, non ha mai manifestato apertamente. A tutti quelli che gliel’hanno domandato in questi mesi, ragionando sul fatto che la crisi economica potrebbe richiedere un prolungamento della politica di rigore inaugurata un anno fa, e dell’azione diplomatica condotta incessantemente dal premier in Europa, Monti ha sempre risposto che considera la scadenza elettorale della prossima primavera come il termine naturale del suo impegno. Solo talvolta, quando gli interrogativi si sono fatti più insistenti, s’è spinto a dire che se gli sarà chiesto di restare, non si tirerà indietro. Ma solo, appunto, se e quando glielo chiederanno.

 

Perché allora Alfano e Bersani hanno colto al volo l’occasione di un dibattito pubblico, in cui sedevano uno di fronte all’altro, per preannunciare al presidente del Consiglio lo sfratto da Palazzo Chigi? Probabilmente hanno sentito anche loro quel che da giorni si va dicendo nei corridoi della politica (e che la Stampa ha riferito ieri) sull’eventualità che Monti, pressato dalla nuova formazione centrista che si sta organizzando attorno a Casini, Montezemolo e ad altri gruppi moderati, potrebbe cedere all’invito di consentire che la lista che ne verrà fuori possa essere fatta in suo nome. La «lista Monti», autorizzata - o non ostacolata pubblicamente - dall’interessato, avrebbe l’effetto di cambiare la geografia politica preelettorale, introducendo un’opzione che adesso è soltanto a livello di desiderio o di obiettivo da raggiungere, ma con il nome di Monti acquisterebbe concretezza e crescerebbe di peso.

 

L’avvertimento simultaneo dei due leader del Pd e del Pdl è venuto di qui. Con la loro scommessa, o mancata scommessa, di un centesimo, sul Monti-bis, hanno voluto chiarire che il sostegno fornito fin qui al governo dei tecnici verrebbe meno immediatamente nel caso in cui il presidente del Consiglio decidesse a qualsiasi titolo di entrare in campo, o di concedere che il suo nome fosse usato in campo per fini di parte in campagna elettorale.

Per quanto connesso a esigenze politiche (Alfano e Bersani, nelle prossime elezioni politiche, e nei rispettivi campi, si giocano tutto), il messaggio, soprattutto nei toni, è stato fin troppo duro. Nessuno dei due, va sottolineato, ha preso impegno contemporaneamente a proseguire nell’azione di risanamento promossa da Monti, pur sapendo che sarà necessario. Così, quel che è stato detto non gioverà di certo alla vita del governo, sia che duri soltanto poche settimane, sia che si trovi nella necessità di continuare, per le incognite adesso non del tutto prevedibili di una crisi ben lontana dall’essere risolta.

 

Fino a qualche tempo fa, si diceva che in politica le parole sono pietre, e per questo occorre usarle con riguardo. Questi lanciati da Alfano e Bersani all’indirizzo di Monti erano indubbiamente due sassi pesanti.

da - http://lastampa.it/2012/11/16/cultura/opinioni/editoriali/le-ragioni-del-cambio-di-rotta-CzKdn2FSQShycui4zdBwbO/pagina.html
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« Risposta #548 inserito:: Novembre 21, 2012, 04:06:43 pm »

Editoriali
21/11/2012 - taccuino

Affluenza e secondo turno

Le vere sfide di Renzi e Bersani

Marcello Sorgi

La lunga vigilia delle primarie del Pd alimenta sondaggi di ogni genere: Bersani in vantaggio più o meno grande secondo l’affluenza. Renzi, di conseguenza, secondo, con maggiore o minore distacco. Vendola, a sorpresa, in rimonta, soprattutto al Sud. Tabacci e Puppato in coda. 

Nessuno è in grado di prevedere se il segretario del Pd, superando il 50 per cento dei voti domenica prossima, sarà in grado di chiudere la partita al primo turno, oppure no. Le previsioni sono difficili proprio perchè legate all’affluenza, che tuttavia si prevede massiccia, ai seggi, visto il dato assoluto del Pd, in crescita nei sondaggi, che dimostra come la competizione per designa il candidato-premier sia sentita.

E tuttavia, una griglia, per quanto approssimativa, di valutazioni sui risultati domenica è già stata abbozzata. Con l’ufficiosa, ma praticamente certa, scelta di Prodi a suo favore, Bersani ha con sè il novanta per cento del partito e il leader storico, nonchè due volte presidente del consiglio, della coalizione: sulla carta, un sostegno sufficiente a vincere al primo turno. Quella parte del vertice del Pd che le primarie le avrebbe evitate volentieri (anche per risparmiarsi la polemica sulla rottamazione) sostiene che a questo punto, per lui, non sarebbe una gran prova restare al di sotto del cinquanta per cento e dover ricorrere al secondo. Vorrebbe dire che tra il sentire del gruppo dirigente e quello degli elettori c’è un evidente divario: è esattamente ciò su cui punta Renzi.

Per il quale, già andare al ballottaggio sarebbe una vittoria, e non arrivarci, ovviamente, una secca sconfitta. Certo, se Renzi al primo turno si qualifica dieci o più punti sotto al segretario, difficilmente potrà rimontare. Ma se gli arriva vicino, la partita resta aperta e fa riacquistare peso anche a Vendola. Il leader di Sel punta sul Sud, dove ha più sostenitori, per un risultato a due cifre. Se supera il 10 per cento e si avvicina al 15, infatti, sarà in grado di condizionare la corsa per il secondo turno, e, in caso di vittoria di Bersani, di dire che senza i voti dei suoi (non tutti, tra l’altro, perchè nella sinistra radicale saranno in molti ad astenersi al ballottaggio) non ce l’avrebbe fatta. Comunque le guardi, le primarie del Pd si giocano sui primi tre candidati. Gli altri due, pur non essendo in grado di influire granché sul risultato, se ne avvantaggeranno in termini di visibilità. A Tabacci è già accaduto nel faccia a faccia tv di Sky: candidato di riserva, da esponente della Prima Repubblica e vecchio dc, è riuscito a dimostrare come anche alle soglie della Terza la professionalità politica possa conquistarsi uno spazio.

da - http://lastampa.it/2012/11/21/cultura/opinioni/editoriali/affluenza-e-secondo-turno-le-vere-sfide-di-renzi-e-bersani-i5t5iRMJdkLO5icOyjeokN/pagina.html
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« Risposta #549 inserito:: Novembre 23, 2012, 05:00:09 pm »

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22/11/2012 - taccuino

Legge elettorale, l’asse Lega-Pd sull’”ascensore” spiazza il Pdl

Marcello Sorgi


A furia di dire «al lupo, al lupo», finirà che nessuno crederà più alla possibilità di un accordo sulla legge elettorale e invece, a sorpresa, la riforma magari salterà fuori lo stesso. Dopo giorni e giorni di melina, ieri infatti c’è stata una novità rilevante: l’ex ministro Calderoli ha ripresentato la sua proposta cosiddetta «dell’ascensore» (premi elettorali diversi e crescenti, in percentuale dei voti presi dal partito vincente) e il Pd l’ha sostanzialmente sposata, facendola sua in un emendamento della Finocchiaro che aumenta, ma di poco, le quantità dei premi ma recepisce il meccanismo proposto dall’esponente leghista, già padre del vituperato Porcellum.

 

Prima di spiegare di che si tratta, però, occorre sottolineare che con l’avvicinamento tra la Lega e il Pd s’è rotta la maggioranza che al Senato aveva messo sotto il partito di Bersani, proponendo un testo che alzava così tanto, fino al 42,5 per cento, un livello irraggiungibile da qualsiasi partito o coalizione, la soglia necessaria per ottenere il premio, da reintrodurre in pratica il proporzionale puro stile Prima Repubblica e il ritorno ai governi non scelti dagli elettori, e formati dopo trattative in Parlamento. Questa maggioranza aveva visto uno schieramento che andava dall’Udc, appunto, alla Lega, passando per il Pdl, mentre il Pd era rimasto solo in minoranza. Adesso, se le cose continueranno ad andare in questa direzione, dopo il ribaltone di ieri sarà il Pdl a rischiare di restare isolato, mentre Lega, Pd e presto anche l’Udc potrebbero consolidare una nuova intesa.

 

Il punto d’incontro che ha portato alla svolta è la possibilità di conseguire un premio con qualsiasi tipo di vittoria, e non solo con il superamento della soglia. Nella versione proposta da Calderoli, un partito o una coalizione che raccolgano tra il 30 e il 35 per cento dei voti otterrebbero il 27,5 per cento di seggi in più del loro risultato. Nell’emendamento proposto dal Pd, a parità di condizioni e di risultati, si arriverebbe al 30 per cento. E al di là della complicata aritmetica che le accomuna, tra le due versioni la distanza, in termini assoluti, non è grande: 7 deputati e 3 senatori in più o in meno, secondo che si scelga Calderoli o Finocchiaro, un divario del tutto appianabile. Chi invece non vuol rinunciare alla supersoglia del 42,5 e alle preferenze sono gli ex-An. Ma ormai la trattativa s’è rimessa in moto e Napolitano dal Quirinale preme perchè si arrivi al più presto a uno sbocco.

da - http://lastampa.it/2012/11/22/cultura/opinioni/editoriali/legge-elettorale-l-asse-lega-pd-sull-ascensore-spiazza-il-pdl-w0AwQbNJbX0WhGn7amKMhN/pagina.html
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« Risposta #550 inserito:: Novembre 27, 2012, 05:29:15 pm »

Editoriali
27/11/2012

Quello che manca a chi vota centrodestra

Marcello Sorgi

Il successo delle primarie del Pd, riconosciuto da tutti, fa sorgere spontanea qualche domanda: come sono andate a finire quelle del Pdl? E perché, dopo averle annunciate e smentite molte volte, il centrodestra, non si sa se per farle o non farle, sta andando verso una scissione? 

 

Di ora in ora si susseguono annunci infondati e continui aggiustamenti. Sembrava che già ieri mattina, in una delle sue frequenti telefonate a Canale 5, Berlusconi avrebbe comunicato il suo ritorno in scena e la fondazione di una nuova Forza Italia, il partito con cui diede la scalata al governo quasi vent’anni fa. Poi c’è stato un rinvio a giovedì. A distanza di un anno e mezzo dalla designazione di Alfano come delfino, il segretario si preparerebbe a separarsi dal Cavaliere, per restare alla guida del Pdl, in cui invano nel corso di questi mesi ha cercato di introdurre normali principi di democrazia, e che, svuotato della componente berlusconiana, resterebbe saldamente in mano agli uomini dell’ex An. 

 

Ma al di là dei dettagli della scissione, ormai annunciata, e degli elenchi di nomi di chi si prepara a passare da una parte o dall’altra, quella a cui stiamo assistendo è l’implosione, non solo del centrodestra, ma del modello del partito personale inventato e portato al successo da Berlusconi. Lui stesso, convinto che il declino sia dovuto, non ai suoi errori, ma al logoramento d’immagine del personale politico che lo ha accompagnato fin qui, ne progetta un’edizione ridotta, non un altro partito-azienda com’era quello delle origini, ma una specie di arca di Noè, con cui traghettare il meglio della sua gente verso prossime fortune.

 

Ora, cosa possa rappresentare in termini elettorali una nuova Forza Italia con le amazzoni del Cavaliere e senza i volti dei “vecchi” ex An, nessuno è in grado di dirlo. I sondaggisti, che considerano Berlusconi perfino più usurato di quelli che vuol rottamare, non azzardano più del dieci per cento. E quanto possa pesare un Pdl svuotato dagli ex Forza Italia e con Alfano alla guida, è altrettanto azzardato valutarlo. Dovrebbe oscillare sul quindici-diciotto per cento.

 

Ma anche ammesso che i due tronconi, che dovrebbero presentarsi separatamente alle elezioni, possano riunirsi dopo il voto, per partecipare a una maggioranza e sostenere un governo, quel che resta da capire è come si comporteranno gli elettori cosiddetti moderati in mancanza di un’offerta politica chiara, ancorché non del tutto condivisibile, com’era stato il centrodestra di Berlusconi nell’ultimo ventennio. Oltre a introdurre normali regole democratiche in un’area politica che le ha sempre rifiutate, le primarie che il Cavaliere si ostina a rifiutare avrebbero avuto anche un altro scopo: dare piena rappresentatività a tutte le anime interne, dalla Santanchè alla Gelmini e Frattini, e poi arrivare alla sintesi scelta dagli elettori.

 

Così invece Berlusconi sarà libero di fondare il suo nuovo movimento e condurre come crede la sua campagna elettorale, attaccando Equitalia e la politica di rigore imposta dal governo e forse lasciando anche sfogo a sentimenti antieuropei. Una forma di grillismo in doppio petto, il cui primo assaggio è stata la conferenza stampa a Villa Gernetto tre settimane fa. Quanto ad Alfano, se davvero resterà in sella al Pdl, dovrà cercare di recuperare i voti perduti. Gli elettori moderati che non vogliono votare per una destra divisa, ma non hanno ancora deciso di spostarsi al centro, sono avvertiti. Anche se Berlusconi, di qui a giovedì, ha tutto il tempo per cambiare ancora idea almeno un paio di volte.

da - http://lastampa.it/2012/11/27/cultura/opinioni/editoriali/quello-che-manca-a-chi-vota-centrodestra-bwAVGGoNYoBDnlovrMIDdN/pagina.html
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« Risposta #551 inserito:: Novembre 28, 2012, 11:44:46 pm »

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28/11/2012 - taccuino

Tra i duellanti è scattata l’ora dei colpi bassi

Marcello Sorgi


Nelle primarie del Pd è l’ora dei colpi bassi tra i due candidati in corsa verso il ballottaggio di domenica. Il fair play del primo faccia a faccia, quello con tutti e cinque i concorrenti del primo turno, dovrebbe essere archiviato stasera, quando Bersani e Renzi si affronteranno su Rai1 alle 21,10, davanti a una platea prevedibilmente più vasta dei tre milioni di elettori di tre giorni fa. Un dibattito che per forza di cose non potrà limitarsi al tema della rottamazione, che ha tenuto campo in gran parte della campagna per il voto del 25 novembre. Ma dovrà essere allargato ai prossimi programmi di governo dei due candidati, costringendo così Bersani e Renzi a scoprire tutte le loro carte.

 

Renzi preme per un allargamento delle regole che mirano a evitare grandi scostamenti tra gli elettori del primo e secondo turno. E già ieri sera, a Porta a porta, ha attaccato Bersani sostenendo che Equitalia, realizzata dal governo Berlusconi, fu in realtà concepita quando il segretario era al governo con Prodi e Visco. Ma Bersani, forte dei suoi nove punti di vantaggio sullo sfidante, finora s’è mostrato molto sicuro di sé e ha detto che non scommetterebbe un centesimo su un’eventuale rimonta dell’avversario.

 

Anche i sondaggisti, al lavoro già all’indomani del primo risultato, la considerano molto difficile. L’elettorato s’è già riposizionato per il ballottaggio e solo un 8 per cento dichiara di essere ancora indeciso. Il sindaco di Firenze, stando ai primi polls, difficilmente riuscirebbe a portare dalla sua parte più del 2 per cento degli elettori di Bersani. Potrebbe forse intercettare fino a una metà dei voti andati a Vendola, ma non basterebbero a portarlo al primo posto. La sua speranza resta legata a una fortissima crescita dell’affluenza, che non è affatto da escludere, dato che la sfida a due attira molto di più di quella a cinque e il faccia a faccia televisivo di stasera eserciterà un forte richiamo per tutti quei sostenitori dell’uno e dell’altro che domenica scorsa non sono andati a votare.

 

Sia Bersani che Renzi continuano ad escludere un compromesso a due dopo il voto, basato sul fatto che il partito, fino a prima delle primarie diviso tra un’infinità di correnti, da lunedì 3 dicembre avrà soltanto un leader e un capo della minoranza che peserà quasi metà del Pd. Ma si sa, in questa fase non possono dire altro. Ed è davvero difficile credere che dopo aver messo su un putiferio come questo, Matteo Renzi, in caso di sconfitta, se ne torni a Firenze.


da - http://lastampa.it/2012/11/28/cultura/opinioni/editoriali/tra-i-duellanti-e-scattata-l-ora-dei-colpi-bassi-VEDvVCYDjmFEKlKNT9kUNI/pagina.html
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« Risposta #552 inserito:: Novembre 30, 2012, 11:30:11 am »

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30/11/2012 - taccuino

Anti-Monti o moderato?

Silvio indeciso sulla strategia

Marcello Sorgi


Annunciato ma non ancora formalizzato, l’addio alle primarie del Pdl, conseguente alla decisione di Berlusconi di tornare in campo, si lascia dietro uno strascico di polemiche, soprattutto di Giorgia Meloni e degli ex An, che nella nuova Forza Italia che il Cavaliere si prepara a rimettere in pista non troverebbero posto. Il paradosso così sarà che nel centrodestra chi si stava orientando verso una scelta filo-Monti (Alfano, Gelmini, Lupi e tutta l’aria moderata) e sperava che Berlusconi confermasse la sua decisione di ritagliarsi un ruolo da padre nobile, farà accanto al Fondatore una campagna elettorale dura col governo e con la «sudditanza» dell’Italia all’Europa. E chi invece (La Russa e gli ex An) aveva mal digerito la stagione dell’appoggio al governo tecnico e della larga maggioranza, e sperava appunto di andare alle elezioni con le mani libere, si ritroverà fuori dal nuovo partito.

 

La verità è che Berlusconi non ha ancora bene chiara la sua strategia. L’unica cosa è che ha deciso, dopo mesi di incertezza - culminati nel doppio annuncio dell’uscita di scena e del ritorno in campo di un mese fa - è di riprendere pienamente in mano il controllo del partito. Di qui il «serrate le file» che ha convinto anche Alfano a rinunciare alle primarie e che vedrà nel prossimo ufficio di presidenza il ritorno del Pdl (sarà una delle ultime volte che questo nome sarà usato) alla piena unità attorno al Fondatore, mentre La Russa e i suoi si preparano a calare in acqua la scialuppa con cui dovranno navigare da soli fino al voto. Dai sondaggi che riceve quotidianamente, il Cavaliere ha ricavato l’indicazione che una versione moderata del Pdl, con un nuovo nome e con alleanze più centriste (Casini e Montezemolo) potrebbe puntare a un’area di oltre un terzo dell’elettorato e competere così con il Pd, che nei sondaggi risulta primo partito con percentuali che oscillano attorno al 30%. Tutto ciò a patto, beninteso, di presentarsi senza Berlusconi, ciò che appunto il leader del centrodestra non può accettare.

 

C’è però un’altra indicazione che viene dai sondaggi: una larga parte dell’elettorato di centrodestra non ne può più di rigore, ritiene che l’Italia stia peggio di un anno fa e vorrebbe tornare al «meno tasse per tutti» che segnò la discesa in campo del primo Berlusconi vittorioso. Ed anche se questa linea oggi è fuori dalla realtà, di fronte alle dimensioni della crisi dell’area euro, c’è da scommettere su quale alla fine sarà la scelta del Cavaliere.

da - http://lastampa.it/2012/11/30/cultura/opinioni/editoriali/anti-monti-o-moderato-silvio-studia-la-strategia-0qVS0AgxgpHrTSebG1g8CM/pagina.html
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« Risposta #553 inserito:: Dicembre 07, 2012, 03:48:34 pm »

Politica
07/12/2012 - personaggio

L’anno nero di Berlusconi dalla sconfitta alla riscossa


Deluso e solitario, Letta e Confalonieri non condividono l’avventura

Marcello Sorgi

Roma

Adesso tutti dicono evviva, finalmente, era ora, solo lui poteva decidere nello stesso giorno di liberarsi dell’odiato «governo dei banchieri» e guidare la riscossa del centrodestra. Parlano così, nel partito, anche quelli che fino a ieri erano i «montiani», fautori della svolta mirata a trasformare in leader del nuovo centrodestra lo stesso presidente del consiglio che ieri è stato affossato. 

 

Nel Pdl che prende la rincorsa, non c’è spazio per la domanda che tutti si fanno dopo quel che è accaduto: ma come fa un uomo di settantasei anni, giunto al termine della sua parabola politica, a decidere di rimettersi in gioco e ricandidarsi per la sesta volta alla guida del Paese?

 

Quando si parla di Berlusconi, si sa, la risposta non va cercata nella logica politica, ma in quell’impasto di intuito, senso dell’avventura e gusto per le sfide che lo ha caratterizzato nella sua lunga vita di imprenditore e di leader politico. Con l’aggiunta, però, di un di più di solitudine e di disperazione che lo hanno accompagnato nell’ultimo anno, da quel fatidico 15 novembre 2011 dell’annuncio delle dimissioni alla decisione di tornare in campo.

 

Chi gli è stato vicino in questi mesi sostiene che all’inizio, ma solo all’inizio, s’era rassegnato. La gazzarra di quella sera sotto casa sua lo aveva indignato, ma il giorno dopo la festa dei suoi supporters lo aveva riconfortato. Si sentiva sconfitto, sì. Ma anche sfinito e rassegnato all’impossibilità di cambiare il Paese come aveva sognato.

 

Se ne era stato tranquillo fino a Natale. E aveva accolto con soddisfazione il voto con cui l’11 gennaio 2012 la Camera evitava l’arresto a Nicola Cosentino, il discusso plenipotenziario della Campania. Un favore che il vecchio amico Bossi gli aveva reso, anche a dispetto delle proteste dei leghisti, e del prezzo da pagare con gli elettori nordisti per il salvataggio di un terrone inquisito per camorra. Altra buona notizia, il 9 marzo, era stato l’annullamento in Cassazione della condanna per mafia di Marcello Dell’Utri. Una decisione inattesa anche dall’interessato, che temeva il peggio, e subito contraddetta da nuove indagini della magistratura, sullo stesso Dell’Utri, sulla moglie e sull’aiuto datogli da Berlusconi con l’acquisto della villa brianzola del senatore, che in caso di sentenza infausta si preparava a emigrare a Santo Domingo.

 

Il fronte della magistratura, nel bilancio dell’annus horribilis del Cavaliere, ha pesato più di qualsiasi sconfitta politica. Non a caso Berlusconi non s’è mai rassegnato all’ingiunzione con cui i giudici del caso Mondadori lo hanno costretto a pagare più di mezzo miliardo di euro a Carlo De Benedetti. E per la stessa ragione, la condanna subita a Milano un mese fa, nel processo per l’evasione fiscale sui diritti cinematografici delle sue tv, lo ha convinto, nel giro di ventiquattrore, a rimangiarsi l’addio comunicato solennemente in televisione.

 

Politicamente, per tutta la durata di quest’anno, Berlusconi è apparso deluso, quando non disgustato dalla piega presa dal Pdl: il partito fondato in piazza San Babila in mezzo a gente osannante, e intitolato per questo al Popolo della libertà, lo vedeva sprofondare a poco a poco nelle liturgie classiche della politica. Vertici inconcludenti, correntismo, faide interne. Niente entusiasmo. Un linguaggio involuto, lontano dalle sofferenze inflitte dal «governo delle tasse» a chi aveva condiviso il suo sogno. E anche quando provava a rappresentare gli interessi delle partite Iva o dei piccoli e medi imprenditori, il Pdl lo faceva, ai suoi occhi, seduto insieme a tutti gli altri al tavolo delle trattative a Palazzo Chigi, non per strada e sul territorio.

 

Poi, sono arrivate le sconfitte. Il centrodestra che già veniva dalla batosta del 2011, la sorpresa dei sindaci di Milano e Napoli, l’avanzata dell’antipolitica, la novità di Grillo, non poteva permettersi di essere battuto due volte, alle comunali e alle regionali, a Palermo e nella Sicilia ch’era stata il granaio dei voti di Forza Italia nell’epoca precedente. E’ in questo quadro che anche il rapporto tra Berlusconi e il suo delfino ha cominciato a logorarsi. Non sul piano personale, perchè, soprattutto in questa stagione di solitudine, il Cavaliere non rinuncia ai suoi affetti. Ma su quello caratteriale, prima che politico. Avrebbe voluto sentire il suo pupillo più portato a osare, a scommettere sugli slanci e sulle mosse imprevedibili che hanno segnato in tutte le sue stagioni lo stile berlusconiano. E non avrebbe mai voluto vederlo innamorare delle primarie del Pd.

 

Quelle file ordinate degli elettori del Pd che Berlusconi si ostina a definire «comunisti» rappresentavano per lui «una prova generale del regime che vorrebbero imporre», oltre a significare l’esatto contrario della sua idea di democrazia. Berlusconi infatti pensa che la democrazia debba essere festa, canti, balli, karaoke, ola da stadio. Ancora oggi, a un anno dal suo ritiro, è felice quando lo fermano per strada o lo chiamano ad alta voce gridando il suo nome. Il suo odio per le primarie nasceva di lì: ecco perchè le ha fatte saltare.

 

Così è arrivato alla svolta. Covarla, la covava almeno da giugno. Ma nell’accelerata finale dell’ultimo mese, anche stavolta, come ai tempi della prima discesa in campo, s’è ritrovato isolato. Neppure Letta e Confalonieri, gli amici più fidati, gli hanno detto di sì. Mentre prepara il suo ritorno, il discorso, i manifesti, il simbolo del nuovo partito, le apparizioni in tv, con la sua maniacale cura dei dettagli, Berlusconi è solo. Ma non gliene importa niente.

da - http://lastampa.it/2012/12/07/cronaca/politica/l-anno-nero-di-berlusconi-dalla-sconfitta-alla-riscossa-C4Ku9MzPIHRaL5bj56pKsO/pagina.html
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« Risposta #554 inserito:: Dicembre 13, 2012, 06:42:17 pm »

Politica

13/12/2012 - centrodestra. Silvio in campo

La coalizione impossibile del Cavaliere “Da Casini alla Lega contro la sinistra”

Berlusconi disposto a trattare sulle alleanze, ma con un punto fermo: vuole comandare lui

Marcello Sorgi
Roma

Alla fine di una giornata in cui frotte di Amazzoni si rincorrevano allarmate preannunciando un passo indietro del leader, e dopo una lunga intervista collettiva in occasione della presentazione dell’ultimo libro di Bruno Vespa, Silvio Berlusconi ha confermato quel che ormai tutti avevano capito: non sarà candidato a Palazzo Chigi per la sesta volta. 

 

O meglio, lo sarà ancora per qualche giorno, in attesa di lasciare il posto a Monti, se lo vorrà, ad Alfano, se potrà, o a un candidato della società civile, un imprenditore di successo da trovare e di cui si continua a parlare, o Montezemolo, che si dovrebbe riavvicinare. 

La complicata strategia del Cavaliere ha un solo obiettivo, rimettere insieme il centrodestra da Casini a Maroni, ancora maggioritario nel Paese, e un’infinità di varianti. La migliore sarebbe che Monti rompesse gli indugi e si candidasse, impegnandosi per federare i moderati, schierandosi contro Bersani e il centrosinistra, e preparandosi a succedere a se stesso, ma non più alla guida di una larga coalizione come quella che ha sostenuto il governo dei tecnici. La subordinata è un accordo tra Pdl e Lega, o tra la Lega e le rinate Forza Italia e An, ribattezzata Centrodestra nazionale, per salvare il Nord e prendere più senatori possibile con l’aiuto dei premi elettorali regionali. Non è facile, ma Maroni nell’incontro di martedì sera ha lasciato capire che si potrebbe fare se Alfano, e non più Berlusconi, fosse il candidato alla presidenza del Consiglio. L’alternativa a tutto ciò è la solitudine e la sconfitta: non è da escludere, data la confusione che regna nel centrodestra. Ma Berlusconi non vuol metterla in conto e si dice sicuro che tutto si risolverà.

 

La sua uscita pubblica di ieri sera ha avuto il merito di portare allo scoperto quel che da giorni si intuiva o veniva sussurrato nei corridoi di Montecitorio. Il Pdl percorso da divisioni insanabili è stato messo sotto pressione e portato fino alle soglie dell’implosione dal ritorno in campo del Fondatore. Ma nei pochi giorni in cui ha ripreso pienamente la guida del partito, il Cavaliere ha dovuto constatare che la situazione era abbastanza diversa da quella che le Amazzoni, incitandolo a ricandidarsi, gli avevano prospettato. Le possibilità di ricomporre tutto il centrodestra e riportarlo alla vittoria sotto la sua guida sono molto poche. Ogni ipotesi di leadership divide e allontana un pezzo o l’altro dalla coalizione. A cominciare, ovviamente, da quella di Berlusconi, che non trova d’accordo neppure tutto il Pdl. Se il candidato è Monti, certo, ci sono più possibilità di recuperare Casini e i centristi, ma la Lega non ci sta. Ed è tutto da vedere che il presidente del Consiglio, appena scaricato dal Pdl, offra la sua disponibilità. Se invece si vuol ricostruire l’Asse del Nord con il Carroccio, la tassa da pagare è la presidenza della Regione Lombardia per Maroni e l’abdicazione in favore di Alfano per la candidatura a Palazzo Chigi. Ma i centristi, a quel punto, si tirerebbero indietro: si potrebbe tentare di riagganciarli con Montezemolo, incrociando le dita e sperando che alla fine Casini acconsenta. Ma anche in questo caso, la Lega non è detto che accetti.

 

L’unico dato certo, in conclusione, è che Berlusconi è tornato in campo. A richiamarlo alla lotta, scuotendolo dall’abulia in cui era precipitato nell’ultimo anno, sono state le sentenze dei magistrati, che continua a definire «un cancro», e lo sprone delle Amazzoni, schierate in doppia fila davanti a lui, a spellarsi le mani di applausi per il suo rientro in scena. Berlusconi darebbe qualsiasi cosa, pur di rivedere unito il centrodestra e battere Bersani e il centrosinistra. Ma se non ci riuscirà, è evidente cosa ha in testa e quale sarà l’obiettivo che condizionerà le sue prossime mosse. Essere o non essere candidato a Palazzo Chigi, guidare o no la coalizione o il partito, alla fine sono tutte possibilità che è disposto a mettere sul piatto dell’accordo. Su una sola cosa, però, non vuol trattare: quale che sarà la soluzione finale dell’ingarbugliata vicenda del centrodestra, a comandare vuol essere sempre lui.

da - http://lastampa.it/2012/12/13/italia/politica/la-coalizione-impossibile-del-cavaliere-da-casini-alla-lega-contro-la-sinistra-iUgmPG6VmFvhn0Ow933KxN/pagina.html
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