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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288611 volte)
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« Risposta #315 inserito:: Giugno 02, 2011, 05:01:55 pm »

2/6/2011

La scelta obbligata del premier

MARCELLO SORGI

La decisione della Corte di Cassazione di far votare anche sul nucleare, oltre che sulla privatizzazione dell’acqua e sul legittimo impedimento, fa del prossimo appuntamento alle urne per il 12 e il 13 giugno sempre più un nuovo referendum su Berlusconi, dopo quello delle amministrative, voluto dal premier in persona e conclusosi con la sua sconfitta personale e politica. Non servirà ad evitarlo la decisione assunta ieri sera dal Pdl di lasciare libertà di voto agli elettori sulla più insidiosa delle consultazioni.

Il ritorno del voto sul nucleare infatti rende assai probabile, per non dire certo, il raggiungimento del fatidico quorum della metà degli elettori più uno, richiesto dalla legge per la validità dei risultati e negli ultimi quattordici anni mancato anche grazie ad attive campagne per l’astensione. Se avesse deciso di puntare sulla diserzione degli elettori dai seggi, Berlusconi avrebbe corso il rischio di dover fronteggiare una doppia ondata di «sì» all’abrogazione.

La prima arriverà probabilmente da parte dei cittadini ancora impressionati dal recente disastro della centrale di Fukushima, e curiosi di sapere perché, se un Paese importante come la Germania ha prima sospeso e poi rinunciato del tutto all’utilizzo dell’energia atomica, l’Italia si ritrovi a indugiare, adoperando la tradizionale arma del rinvio e sotto sotto cercando di salvare il proprio piano nucleare. La seconda spinta verrà invece da tutti coloro che, soddisfatti per il recente crollo berlusconiano a Milano e a Napoli, non vedono l’ora di provocarne un secondo.

Dopo la decisione dei giudici della Suprema Corte, Berlusconi aveva pochi margini di manovra. Non poteva schierarsi certo per l’abrogazione di progetti fortemente voluti dal suo governo (vale per il nucleare, ma anche per l’acqua, e a maggior ragione per il legittimo impedimento). La scelta di mettere in libertà i suoi elettori - scorciatoia a cui i partiti ricorrono in genere quando sono in imbarazzo e temono delusioni - in qualche modo era obbligata. Servirà a tenere Berlusconi lontano da questa seconda campagna elettorale, anche se non potrà puntare sull’astensione adesso che l’affluenza ai seggi si preannuncia più forte. Dovrà tuttavia rinunciare a mettere la sordina a media e tv, con l’aggravante, ironia della sorte, che l’odiata (da lui) par condicio gli si riproporrà stavolta in modo perfetto, con una ripartizione esattamente a metà degli spazi televisivi tra «sì» e «no».

E’ davvero un cattivo momento, si sa, per il Cavaliere. E i referendum sono sempre bestie difficili da addomesticare anche per leader politici consumati, com’è ormai Berlusconi. La presenza, fra i tre temi soggetti al giudizio popolare, del legittimo impedimento, la legge salva-processi che già la Corte Costituzionale ha dimezzato e va in scadenza a ottobre, e che lo costringe da aprile a presentarsi tutti i lunedì in Tribunale a Milano, già da sola bastava a trasformare il 12 giugno in un altro giudizio di Dio su di lui. Dopo tutto quel che ha detto sulla giustizia e sui giudici, però, sarebbe veramente molto strano trovarlo assente anche in questo campo, proprio quando sono gli elettori a doversi pronunciare sull’argomento che più lo preme. Se poi, com’è possibile, la legge sul legittimo impedimento, o meglio quel che ne resta, dovesse essere abrogata, sul piano processuale nulla cambierebbe per il più eccellente degli imputati. Ma diventerebbe più difficile riproporla sotto altre forme da Palazzo Chigi come già fu fatto quando la Consulta cancellò il lodo Alfano.

Insomma una nuova delicata partita sta per aprirsi sull’orizzonte del Berlusconi declinante delle ultime settimane. Scriveva Leonardo Sciascia nel 1974, quasi quarant’anni fa, ai tempi del primo referendum sul divorzio: «Considero i referendum come gli avvenimenti più democratici mai verificatisi in Italia. Quelli che hanno dato veramente un’immagine di questo Paese che non si ha mai attraverso i risultati delle elezioni politiche o amministrative».

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« Risposta #316 inserito:: Giugno 07, 2011, 02:17:57 pm »

7/6/2011

Una nuova stagione a viale Mazzini

MARCELLO SORGI

In nessun Paese del mondo l’uscita di un conduttore da una tv e il suo probabile passaggio a un’altra rete hanno mai provocato quel che è accaduto ieri in Italia all’annuncio della separazione consensuale tra Michele Santoro e la Rai. Una scossa d’adrenalina in tutto il sistema politico, una tale ondata di reazioni, nella maggioranza e nell’opposizione, da far dimenticare le giornate più calde della rovente campagna elettorale appena conclusasi.

E’ un’anomalia alla quale è difficile abituarsi, e di fronte alla quale, anzi, non si finisce di stupirsi, anche se le guerre politiche attorno alla televisione, pubblica e privata, durano da oltre trent’anni in Italia, cioè da quando è finito il monopolio statale dell’emittenza, e hanno avuto una recrudescenza da quando il padrone delle tre maggiori reti private, divenuto presidente del Consiglio, ha esteso il suo controllo anche a quelle pubbliche.

Nel caso specifico c’è una ragione in più che spiega quanto sta accadendo: oltre a essere il bersaglio numero uno di Berlusconi, che lo aveva silurato già ai tempi della sua prima legislatura al governo nel famoso «editto bulgaro», e ne è stato cordialmente ricambiato in tutti questi anni in cui il famoso conduttore ha potuto trasmettere grazie a una sentenza della magistratura, Santoro è stato proclamato solo pochi giorni fa vincitore delle ultime elezioni, conclusesi, come si sa, con l’elezione dei sindaci Giuliano Pisapia a Milano e Luigi De Magistris a Napoli.

Naturalmente è tutto da dimostrare che l’endorsement venuto dallo studio di «Annozero» sia stato forte al punto da spingere così in alto i due principali vincitori e aprire un baratro talmente profondo per i candidati del centrodestra. Ma Berlusconi se ne è convinto e lo ha ripetuto fino alla noia ai suoi collaboratori e davanti al vertice del suo partito. Per molti di loro non era affatto una novità: nel 2001, parliamo di dieci anni fa, quando il centrodestra sfrattò di nuovo dal governo il centrosinistra, Berlusconi s’era addirittura fatto fare dai sondaggisti una tabella che faceva vedere a tutti e a suo parere dimostrava come ogni settimana Santoro gli portasse via da un punto e mezzo a due punti di vantaggio sui suoi avversari. E siccome aveva vinto per poco, non faceva che ripetere: «Se si fosse votato una settimana dopo, quello lì riusciva pure a farmi perdere!».

Se davvero, come ha annunciato Enrico Mentana ieri sera, Santoro è a un passo dall’accordo con La7, la tv di Telecom che s’avvia ormai a diventare stabilmente il terzo polo televisivo tra Rai e Mediaset, quella di Berlusconi sarà stata una vittoria di Pirro. Sai che soddisfazione, per lui che lo considera il peggior nemico, aver tolto Michele da Raidue per vederselo spuntare alla stessa ora, e magari con maggiori ascolti, su un altro canale. Per questo, all’interno della Rai eternamente in ebollizione, l’annuncio dell’accordo raggiunto con il conduttore ha sollevato reazioni negative anche all’interno del consiglio d’amministrazione, che è da sempre il tramite tra la tv di Stato e la politica, e nel fronte che fa capo al presidente del Consiglio. Curiosamente, sia da parte della sinistra che della destra del cda si sono levate voci che pretendevano che a Santoro, in caso d’uscita, fosse imposto una sorta di patto di non concorrenza per tenerlo lontano dalle telecamere per almeno due anni.

Ora, a parte la pretesa di difendere la libertà di stampa, e al suo interno quella del conduttore, imponendogli un bavaglio e cancellandolo dai teleschermi, è sicuro che a queste condizioni Santoro non avrebbe mai accettato di sciogliere il suo contratto con la Rai. In attesa di conoscere già oggi i dettagli dell’accordo e le intenzioni del leader del partito di «Annozero», si può tentare di stilare un provvisorio borsino dei vincitori del primo tempo di questa partita. Primo, ovviamente, Michele in persona: s’è tolto la soddisfazione di vedere uscire dalla Rai prima di lui Mauro Masi, il precedente direttore generale, che era arrivato a minacciarlo in diretta di sanzioni telefonandogli mentre il suo programma andava in onda, e alla fine di una trattativa abbastanza simile a quella che s’è conclusa ieri non era riuscito a convincerlo e aveva dovuto gettare la spugna. Inoltre, se quello di ieri è solo un arrivederci, e Santoro tornerà presto in scena da La7 o da un’altra emittente, non dovrà temere le proteste del suo pubblico, che si manifestarono sonoramente via Internet la volta scorsa, alle prime indiscrezioni della trattativa con Masi, e potrà togliersi la soddisfazione di far la concorrenza alla tv di Stato che lo ha messo alla porta e di continuare a criticare Berlusconi come gli aggrada.

La seconda vincitrice è Lorenza Lei, la nuova direttora generale della Rai. Si dirà che non può diventare un titolo di merito aver accontentato come prima mossa il più forte dei capricci del Cavaliere. Ma nel modo in cui lo ha fatto, riconoscendo a Santoro il valore della sua professionalità, lasciando aperto uno spiraglio a collaborazioni future, rifiutandosi di imporgli assurde clausole di non concorrenza, e trovando così il suo consenso, c’è una prova di autonomia che, pur nell’ambito ristretto in cui un manager della Rai deve muoversi, non è affatto comune. Immaginiamoci le facce dei consiglieri d’amministrazione che dovranno ratificare l’oneroso accordo di buona uscita di Santoro: per rifiutarlo, dovrebbero votare contro Berlusconi. E se lo accettano, dovranno invece riconoscere che la Lei ha deciso da sola, li ha messi di fronte al fatto compiuto e poi è passata all’incasso.

Quella della Rai è la storia di una guerra infinita, e anche il caso Santoro, c’è da scommetterci, non finisce qui. Ci sarà un contrattacco, non sarà il primo né l'ultimo. Ma dopo mesi, per non dire anni, di mediocre gestione e di andamento inconcludente, è possibile che dall’inatteso blitz di ieri pomeriggio al settimo piano di viale Mazzini venga un segno di cambiamento.

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« Risposta #317 inserito:: Giugno 08, 2011, 04:02:40 pm »

8/6/2011 - TACCUINO

Fumata nera e poche concessioni

MARCELLO SORGI

Se serviva una conferma che il vertice di maggioranza di lunedì è stato inutile, se non addirittura controproducente, nella giornata di ieri ne sono arrivate più d'una. La cautela con cui il ministro dell'Economia Tremonti ha evitato le domande dei giornalisti relative alle ipotesi di riduzioni fiscali, argomento su cui Berlusconi aveva insistito molto ad Arcore per rafforzare il rapporto con gli elettori delusi e costruire la ripresa del centrodestra nel fine legislatura, fa pensare che il ministro che ha in mano i conti dello Stato non abbia molte concessioni da fare su questo terreno.

L'altro fronte aperto è di nuovo quello dello spostamento dei ministeri a Milano, cavallo di battaglia della Lega negli ultimi giorni nella deludente campagna elettorale per le amministrative, su cui il premier aveva fatto qualche vaga apertura che aveva provocato la sollevazione del sindaco di Roma Alemanno e della governatrice del Lazio Polverini. Puntualmente le polemiche si sono riproposte ieri non appena il ministro Calderoli ha annunciato la presentazione di una proposta di legge per il trasloco ministeriale, sul quale il Carroccio sostiene di aver avuto un via libera da parte del Cavaliere. Berlusconi fa sapere di aver fatto un’apertura, al massimo, allo spostamento di qualche ufficio di rappresentanza. Ma questo non basta a placare le ire degli ex An romani e neppure a rassicurare i leghisti.v

La sensazione insomma è che malgrado la nomina di Alfano a segretario e l'avvio di una nuova fase del Pdl, sia il partito del presidente, sia la maggioranza nel suo complesso, fatichino ancora a digerire la sconfitta di Milano e Napoli, e soprattutto che non abbiano raggiunto alcuna intesa sulle prospettive. La continuazione della collaborazione tra i due alleati di governo come se nulla fosse accaduto si va rivelando impossibile per le difficoltà di Bossi di tenere a bada la base del suo partito sempre più inquieta, in vista dell’appuntamento di Pontida che per la prima volta dopo molti anni dovrà fare i conti con una sconfitta, e per le divisioni interne del Pdl, rimaste intatte, e anzi aggravatesi in qualche caso, anche dopo le rassicurazioni del presidente del Consiglio. Alla fine il partito è diviso tra chi ritiene che Berlusconi con un colpo d'ala possa ancora recuperare, e chi invece vorrebbe vedergli fissare fin d'ora tempi e modi della successione.

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« Risposta #318 inserito:: Giugno 09, 2011, 05:27:28 pm »

9/6/2011 - TACCUINO

I due alleati sono sulla stessa barca

MARCELLO SORGI

Il terzo giorno consecutivo di vertici di maggioranza, mentre il governo al Senato viene battuto due volte, è il sintomo più evidente della difficoltà in cui si dibattono Berlusconi e Bossi insieme. La novità è questa: la sconfitta elettorale ha stretto nella stessa barca i due alleati e li ha messi di fronte alle stesse difficoltà. E mentre Berlusconi cerca di trovare una via d’uscita davanti al suo partito che da lui si aspetta sempre un miracolo, Bossi sta sapientemente alimentando l’attesa del consueto appuntamento con il popolo leghista sul pratone di Pontida, come se appunto in quell’occasione dovesse annunciare una svolta.

Cerimonia a metà tra il mistico e il carismatico, Pontida per la verità ha subito lo stesso logorìo che il gruppo dirigente della Lega cerca invano da tempo di nascondere. Ai tempi dell’irresistibile ascesa del Carroccio era il luogo da cui Bossi lanciava i suoi ultimatum, che servivano a dare uno scrollone al patto con il Cavaliere e a tentare di ottenere qualche vantaggio per rinegoziare l’alleanza. E’ a Pontida, per intendersi, che il federalismo è stato promesso e rinviato per anni, fino a quando, a un passo dall’approvazione definitiva, l’elettorato lumbard ha cominciato a capire che rischiava una fregatura e che lo slogan costitutivo della Lega, «I soldi del Nord resteranno al Nord», non sarebbe mai diventato mai realtà.

Poi con il tempo, come accadeva ai tempi della Prima Repubblica, anche gli ultimatum leghisti sono via via svaporati in penultimatum: si veda la rottura minacciata sulla guerra in Libia durante la recente campagna elettorale per le amministrative, subito rientrata in uno dei più classici compromessi parlamentari. Adesso l’idea che i ministeri al Nord, ancora allo stato di proposta di legge, con Berlusconi che promette una cosa a Calderoli e il contrario di quella cosa ad Alemanno e Polverini, possano diventare la nuova bandiera da far sventolare il 19 giugno, data della prossima adunata sul pratone, per placare gli animi più inquieti e spingere i leghisti alla riscossa, rischia di trasformarsi in un miraggio. Ci vorrebbe ben altro, e Bossi è il primo a saperlo. Ma anche lui non sa come cavarsi dall'impaccio. Seduto tra Berlusconi e Tremonti, testimone silenzioso di un braccio di ferro sulla riforma fiscale destinato a protrarsi senza fine, il Senatur ha ben chiaro che questa stagione del centrodestra volge alla conclusione. Ma non ha ancora deciso come uscirne.

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« Risposta #319 inserito:: Giugno 10, 2011, 10:22:42 am »

10/6/2011 - TACCUINO

Sul quorum regna ancora l'incertezza

MARCELLO SORGI

Il tardivo appello di Confindustria a votare «no» al referendum sulla privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua aggiunge certo probabilità all'eventuale raggiungimento del quorum per la consultazione di domenica e lunedì, ma rivela il clima di incertezza in cui si dibattono fino all'ultimo partiti e organizzazioni di categoria. Viene da pensare che la Marcegaglia disponga di sondaggi che non possono ovviamente essere resi noti, ma che assegnano buone percentuali a chi punta alla riuscita dei referendum. E che ovviamente la presidente degli industriali, mettendo in conto questa possibilità, non voglia ritrovarsi tra gli sconfitti, al fianco del presidente del consiglio e del governo che hanno puntato sull’astensione.

Anche il segretario del Pd Bersani, che fino a due giorni fa puntava deciso sulla vittoria dei «sì» e della partecipazione al voto, ieri ha aggiustato il tiro, suggerendo agli elettori più convinti di andare ai seggi prima delle dieci, in modo da dare un segnale fin dalla prima rilevazione del Viminale, che avverrà appunto a metà mattinata, e incoraggiare così gli altri elettori più pigri a muoversi per tempo. Ci si potrà aspettare con una certa tranquillità che il quorum sia raggiunto, se domenica sera avrà votato attorno al quaranta per cento degli aventi diritto; sotto il trenta, invece, il rischio dell’invalidità resterà molto forte, e solo una partecipazione eccezionale nella mezza giornata di lunedì potrebbe scongiurarlo.

Al di là dei «sì» e dei «no» che saranno segnati sulle schede (i «sì» abrogazionisti sono dati in vantaggio sia sul nucleare che su acqua e legittimo impedimento), la vera partita è questa. Non a caso, completata ormai la serie di dichiarazioni di voto dei partiti, i due fronti - partecipazionista e astensionista - riproducono grosso modo gli schieramenti delle recenti amministrative, con Berlusconi e Bossi (quest’ultimo pronunciatosi per tramite di Reguzzoni) che tentano di prendersi la rivincita su Terzo polo e centrosinistra, o almeno di dimostrare che la sconfitta di due settimane fa sia stata solo un episodio. E l’opposizione, al contrario, che in caso di superamento del quorum sarebbe pronta a dire che ormai il Cavaliere non ha più la maggioranza nel Paese. Nell’un caso o nell’altro non conterà se chi ha vinto ce l’ha fatta solo per una manciata di voti trovati o mancanti. La caratteristica dei referendum infatti è che, finito lo spoglio, chi vince, anche con un solo voto in più dell’avversario, prende tutto il piatto.

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« Risposta #320 inserito:: Giugno 14, 2011, 06:19:03 pm »

14/6/2011

Tremonti nel mirino del premier

MARCELLO SORGI

Dopo quella di un governo Tremonti, nata a cavallo del primo turno delle amministrative per arginare la crisi di Berlusconi e del centrodestra, l’ipotesi di un governo senza Tremonti s’è affacciata ieri sera in seguito alla terza sconfitta consecutiva del premier e del suo governo.

Battuti politicamente nelle urne dei referendum sull’astensione, sul nucleare e sull’acqua, e personalmente, il Cavaliere, sul legittimo impedimento o su quel che ne restava, dopo la mezza bocciatura della Corte Costituzionale: così che da oggi stesso tornerà ad essere un imputato senza alcuna protezione dai suoi processi.

Il capovolgimento che punta a rompere una volta e per tutte gli argini della politica economica di rigore, fin qui tenuti alti dal ministro dell’Economia, conferma nuovamente e drammaticamente la precarietà della situazione politica. Dopo esserne stato il migliore amico, Tremonti è diventato inviso a una Lega in preda alla disperazione, che preme sul Cavaliere minacciando di disarcionarlo. A urne aperte, domenica, prima il ministro dell’Interno Maroni con un’intervista al Corriere, poi lo stesso Bossi, hanno preso di mira il responsabile dell’Economia, parlando a suocera (Berlusconi) perché nuora (Tremonti) intenda. E Calderoli commentando a caldo i risultati ha annunciato che a Pontida, all’adunata del popolo padano di domenica prossima, il Carroccio detterà le sue condizioni.

Si tratterà probabilmente di richieste inaccettabili, tipo l’immediata chiusura delle missioni internazionali e la fine della guerra in Libia, tra le quali faranno capolino le vere condizioni del Senatur, prima tra tutte la svolta economica, la riduzione delle tasse e la liberazione dei sindaci del Nord dai limiti di spesa imposti dal patto di stabilità. Il fatto che per questa strada l’Italia possa avviarsi sulla china della Grecia non preoccupa il principale alleato di governo, convinto che l’orizzonte nazionale, e in qualche caso quello provinciale, debba prevalere su tutto.

A Berlusconi resta il compito scomodo di mediare tra un partner della coalizione e un ministro, entrambi e a loro modo indispensabili. Ma chi gli è vicino dice che non ne ha voglia. Il presidente del Consiglio ritiene che sotto sotto Bossi abbia ragione e le resistenze tremontiane che ha cercato inutilmente di piegare nell’ultimo mese siano tali da condannare la legislatura a un avvitamento e il centrodestra a una sicura sconfitta elettorale. Che l’elettorato, in tutte le occasioni in cui ha potuto, abbia voltato le spalle principalmente a lui e all’inconcludenza del suo governo, il Cavaliere non vuol sentirselo dire. Anche la forte affluenza degli elettori alle urne referendarie, in barba al suo invito a non andare a votare, non la considera una sconfitta personale. Se il 44 per cento degli elettori del Pdl e quasi il 40 di quelli della Lega sono andati a votare, obietta, è perché si sono sentiti liberi di fare così sapendo che non mettevano a repentaglio il governo.

Una così testarda difesa di se stesso tuttavia non sottovaluta i segnali di scollamento dati per tre volte dall’elettorato. Di qui l’urgenza della svolta economica che Berlusconi vuole a qualsiasi costo, perfino la testa di Tremonti. Non lo preoccupa la firma messa sotto il piano di rientro triennale dal deficit: se Sarkozy chiede all’Europa una dilazione, perché l’Italia non dovrebbe accodarsi? Non lo interessano i rischi e le ricadute di una linea così avventurosa, né la necessità di dar corso agli esiti del voto in tempi brevi, come ha promesso ieri nell’asettico comunicato con cui ha commentato i referendum, sia in materia di nucleare che di abbandono dei progetti di privatizzazione dei servizi di distribuzione dell’acqua.

Per questo, anche se molti tra i suoi consiglieri lo invitano alla ragionevolezza, Berlusconi non farà nulla di quel che sarebbe urgente e necessario: come mettere mano al partito e al governo, ormai divisi per bande e correnti, e aiutare il giovane Alfano a dar corpo alla propria leadership, al momento puramente formale; nominare i ministri che mancano e sostituire quelli che non funzionano; gestire la trattativa con la Lega negoziando, ma anche richiamandola al senso di responsabilità indispensabile per una forza di governo; preparare l’appuntamento parlamentare della verifica del 21 e 22 giugno con programmi seri e scadenze ravvicinate; prendere atto che il voto sul legittimo impedimento richiede un marcato cambiamento di toni e di argomenti in materia di giustizia. No, Berlusconi, su questo e altro non cambierà passo, procederà ancora alla sua maniera. Se il suo declino appare ormai irreversibile e la caduta s’annuncia fragorosa, il suo cammino non è ancora giunto alla fine.

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« Risposta #321 inserito:: Giugno 16, 2011, 12:12:39 pm »

16/6/2011 - TACCUINO

Ma il Pdl non è pronto alle primarie

MARCELLO SORGI

I giornali vicini alla destra si affannano a scandagliare le reazioni interne del Pdl alla doppia sconfitta delle amministrative e del referendum e le eventuali alternative da discutere per imporre un deciso cambio di rotta che consenta di intercettare la protesta degli elettori di centrodestra. Ma anche le radiografie più precise, i sondaggi più approfonditi, gli esami più severi, non riescono a registrare segnali degni di nota. Tra il primo e il secondo turno delle amministrative, e poi tra i ballottaggi e i referendum, anzi, il numero dei partecipanti alla discussione s'è assottigliato, le voci si sono fatte più flebili, proposte chiare non se ne vedono o ascoltano.

E il paradosso è quello di un partito che sotto sotto vorrebbe che il leader che l'ha portato al disastro si facesse da parte, ma al dunque non è in grado di indicare un percorso per la successione o per un rafforzamento del vertice, o di individuare nuove e vere regole interne per uscire dal meccanismo della guida carismatica e delle decisioni che partono dall'alto e non vengono quasi mai discusse. L'esempio di questo malessere che neppure le scosse ricevute dalle urne sono riuscite a curare è dato dal nuovo segretario, Angelino Alfano, e dal suo primo mese di attività. Designato da Berlusconi come risposta visibile alla delusione elettorale, Alfano non potrà realmente insediarsi prima dell'inizio di luglio, quando la sua nomina sarà messa al voto del Consiglio nazionale. Nel frattempo, nessuno dei riti classici di inizio di una nuova leadership ha potuto essere messa in pratica dal nuovo segretario, apparso un paio di volte nel cortile di Arcore, solo per dichiarazioni di circostanza, mentre il fronte interno dei suoi oppositori si organizzava e si rafforzava. Così c'è chi dice che l'imprevista alleanza tra il governatore della Lombardia Formigoni, il sindaco di Roma Alemanno e il ministro dei Trasporti Matteoli sia nata proprio per contrastare Alfano, e che le stesse origini abbiano i mugugni di Scajola e l'accelerata del sottosegretario Micciché con il nuovo partito Forza del Sud.

Le assise del Pdl che dovrebbero segnare l'inizio di una nuova fase si annunciano di conseguenza come una specie di congresso democristiano fuori tempo, con le correnti e le sub correnti che si preparano a negoziare l'elezione di Alfano solo a patto di limitarne poteri e iniziative e di ottenere la lottizzazione dei vertici. Un patto per gestire il declino del berlusconismo, in attesa di vedere se il Cavaliere batte un colpo o si abbandona alla deriva.

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« Risposta #322 inserito:: Giugno 22, 2011, 12:17:22 pm »

22/6/2011 - TACCUINO
 
Bossi-Bersani

È tutta questione di legge elettorale
 
 
MARCELLO SORGI
 
Nel lungo elenco di riforme fatte, e soprattutto da fare, enunciato ieri da Berlusconi al Senato, mancava quella elettorale. L’unica, non a caso, a cui abbia accennato Bossi arrivando in Parlamento, e suggerendo di parlarne anche con l’opposizione. Il Senatùr è stato rassicurante e sulla linea pacificatrice che dovrebbe portare a una conclusione positiva, ancorché provvisoria, della verifica s’è schierato anche Maroni, dopo i boatos di Pontida.

Sotto traccia, ma in verità anche pubblicamente, si percepisce un lavorìo della Lega sul Pd per convincere Bersani alla cancellazione del Porcellum e a una sua rapida sostituzione con una legge proporzionale, senza premio di maggioranza, che salvi un minimo di aggregazione tra le forze superstiti, ma che consenta al Carroccio di presentarsi da solo e senza l’indicazione preventiva di un candidato premier, visto che il partito nordista non potrebbe schierare Bossi e non è ancora pronto, o non è tutto pronto, a correre dietro Maroni. Su questo punto, tra l’altro, significativa è stata la battuta del Senatùr che ha ricordato che il popolo della Lega ha gridato «secessione» e non «successione».

Bersani fin qui ha nicchiato. La Padania ieri, dopo l’incontro tra il ministro dell’Interno e il segretario del Pd, ha titolato «posizioni diverse, incontro proficuo». Ma tra i due partiti c’è un’oggettiva convergenza di interessi: a Bersani converrebbe che la Lega accelerasse il logoramento dell’alleanza con Berlusconi, per arrivare a una crisi in autunno e a un governo elettorale che, fatta la riforma, porti il Paese alle urne nella primavera del 2012. Per la Lega la modifica della legge è indispensabile per presidiare al massimo il territorio del Nord, mettendo in conto uno sfarinamento del Pdl dagli esiti imprevedibili, ma anche la possibilità che dal partito berlusconiano si stacchi un troncone nordista.

Finché il Pd resta attestato sulla posizione di una nuova legge maggioritaria a due turni, simile a quella in vigore per le comunali, l’intesa con la Lega è impossibile. Anzi Bossi valuta che se questa è la posizione, è più probabile che Bersani, visti i sondaggi che gli accreditano una vittoria anche con la coalizione mini con Di Pietro e Vendola, punti ad andare a elezioni con la legge attuale e nel tempo più breve possibile. Ma se nel Pd si apre uno spiraglio, molte cose potrebbero cambiare dopo l’estate.

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« Risposta #323 inserito:: Giugno 23, 2011, 10:13:33 am »

23/6/2011 - TACCUINO

Tutti deboli e il Cavaliere si rafforza

MARCELLO SORGI

Può sembrare un paradosso: eppure Silvio Berlusconi è uscito dalla sua terribile primavera molto meglio di come ci era entrato. Ha perso le elezioni amministrative, ha perso i referendum, ha visto calare pericolosamente il suo consenso nel Paese, indietreggiare il suo partito nei sondaggi al secondo posto dopo il Pd, crescere nelle stesse tabelle virtuali la candidatura a premier del suo avversario Bersani, ma alla fine a Montecitorio e nella verifica ha vinto lui, e la sua maggioranza raccogliticcia ha superato per la prima volta la soglia dei 316 voti, ciò che ha scoraggiato l'opposizione dal presentare mozioni di sfiducia.

Si dirà che è un risultato illusorio, che l'appoggio dei Responsabili viene e va, che le turbolenze nel partito del presidente si fanno sempre più forti, che la Lega ha sotterrato solo a metà l'ascia di guerra, e così via. Resta il fatto che, minacciato di trappole e agguati in un percorso di guerra come quello che ha dovuto attraversare in questi mesi, alla fine Berlusconi è riuscito a metabolizzare il pessimo risultato elettorale di cui in gran parte portava la responsabilità, la serie di richieste inaccettabili dal suo principale alleato di governo, l'inizio di frammentazione con scissioni praticate e annunciate nel suo partito, oltre alle immancabili, per lui, grane giudiziarie, che dopo la mezza cancellazione del lodo Alfano da parte della Corte costituzionale, e dopo l'altra mezza operata dagli elettori nelle urne referendarie, lo vedono oggi più indifeso, ma a sorpresa, dopo il rinvio del processo Mills, anche un po' meno gravato. Rimane ovviamente l'appuntamento del processo Ruby, sul quale dovrà pronunciarsi nuovamente la Consulta: ma fino ad allora anche i giudici di Milano dovranno aspettare.

Il Berlusconi un po' democristiano, morbido, aperturista, lontano (ma chissà per quanto) dai suoi inevitabili attacchi alla magistratura, perfino gigione con Di Pietro, nasce di qui: dalla consapevolezza, che per due volte ha ripetuto in Parlamento, che il governo malgrado tutto non ha alternative, e seppure non gode di buona salute, né di un sostegno d'opinione men che sufficiente, sta messo meglio (o meglio, meno peggio), sia dei suoi avversari dichiarati, sia di quella parte di alleati che in questi mesi hanno provato con tutte le loro energie a mandarlo a gambe per aria.

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« Risposta #324 inserito:: Giugno 25, 2011, 06:43:29 pm »

25/6/2011

Di Pietro il sensitivo della politica

MARCELLO SORGI


Con una raffica di interviste contemporanee, stile Berlusconi, ai maggiori giornali, Antonio Di Pietro ieri ha cercato di svelare il rebus sul nuovo Di Pietro su cui si arrovellano da giorni i suoi alleati e avversari. Dire che ci sia pienamente riuscito forse è troppo, perché, si sa, il leader di Italia dei Valori comunica più col corpo e la sua inconfondibile mimica che non con le sue stesse parole. Ma adesso si capiscono almeno le ragioni dell'inquietudine che lo ha portato, a sorpresa, il 13 giugno a non proclamarsi vincitore dei referendum, pur voluti da lui, lasciandone il merito ai cittadini che si erano recati alle urne e criticando apertamente per la conversione tardiva al rito della democrazia diretta Bersani, che al momento della raccolta delle firme lo aveva accusato di fare un favore a Berlusconi. La polemica tra i due leader è poi continuata nell'aula della Camera il giorno della verifica, quando Di Pietro ha di nuovo attaccato il leader del Pd e accettato un pubblico ed estemporaneo colloquio tra i banchi dei deputati con Berlusconi. Un Berlusconi che dopo anni di scontri frontali, Di Pietro imprevedibilmente ora non attacca più. Questa serie di gesti inattesi - in uno scenario animato dall'attesa esasperante della fine della stagione del Cavaliere, che al contrario continua a dominare - ha motivato le ipotesi più disparate sulle mosse dipietriste. S’ è detto che Di Pietro, sentendo aria di elezioni, pensava a riposizionarsi.

S’è parlato apertamente di un suo patto con il Cavaliere. S’è immaginata ogni possibile sua nuova collocazione, al centro del centrosinistra, al centro del centrodestra o al centro e basta, anche se l'ex pm di Mani Pulite continua a professarsi bipolarista. S’è ragionato su certi malinconici accenni al passato familiare. Come quelli al padre contadino, iscritto alla vecchia Coldiretti e «d'ufficio» alla Dc. O alla propria fede cattolica, all'educazione in seminario, agli anni in cui faceva il poliziotto, prima ancora di diventare magistrato. Da questo a dire che il leader di Italia dei Valori si prepara a ribattezzarsi democristiano, l'ennesimo in un panorama un po' affollato, tuttavia ce ne corre. Seppure è chiaro che tra le ragioni che lo hanno spinto alla metamorfosi c’è una sorta di gelosia politica per Casini, il potenziale, corteggiato, e finora mancato, alleato con cui Bersani pensa di avere la vittoria in tasca. Per capire davvero cosa ha in testa Di Pietro forse bisogna allontanarsi dalle categorie classiche della politica, tipo geografia delle alleanze e chimica delle coalizioni e dei partiti. E riflettere sul fatto che Tonino è una sorta di sensitivo, nato in una terra dove forti sono ancora i culti irrazionali della magia e del destino. Non a caso, pur essendo ormai da quasi vent'anni uno dei protagonisti del teatrino della Seconda Repubblica, Di Pietro recita ancora la parte del personaggio provvisorio, sempre a disagio tra le maschere del potere, felice solo quando può tornare al suo amato trattore e alla terra da arare. Bene: poiché anche in questa sceneggiata c’è del vero, o del verosimile, si può intuire che Di Pietro sia rimasto colpito, di recente, da due avvenimenti che lo hanno toccato da vicino: il successo, superiore a qualsiasi previsione, di De Magistris a Napoli. E la vittoria dei referendum, ottenuta anche grazie a dieci milioni di elettori del centrodestra disobbedienti alla direttiva berlusconiana di disertare i seggi, che sono andati a votare umiliando il partito astensionista e costruendo il quorum inattaccabile di ben ventisette milioni di voti. E' chiaramente in quest'ambito che il leader di Italia dei Valori intende muoversi: convinto che la frana nel campo berlusconiano sia solo all'inizio e possa contagiare, tutto o in parte, anche quello del centrosinistra, all'interno del quale il voto cosiddetto di protesta ha eletto Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli. Di Pietro sta rimuginando su un'alternativa che non sia di destra, né di sinistra, né di centro, ma cerchi piuttosto di pescare in più campi, partendo naturalmente da quello martoriato del Cavaliere. A modo suo, ha metabolizzato così, nel bene e nel male, la lezione di Segni e dei referendum del 1991 e '93.

Dopo quella grande prova di democrazia, infatti, nel '94, l'idea che dalla crisi della Prima Repubblica e dei partiti che l'avevano governata per quarant'anni si sarebbe usciti a sinistra si rivelò una fatale illusione, che aprì la strada a Berlusconi e alla destra. Vent'anni dopo ripetere quello stesso errore, nutrirsi dello stesso miraggio, scambiando il declino del berlusconismo per la crisi dell'opinione pubblica moderata e di centrodestra, è qualcosa che, prima ancora che accada, al sensitivo Di Pietro fa ribollire il sangue e drizzare i peli sulla pelle. Verrebbe da aggiungere: non a torto.

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« Risposta #325 inserito:: Giugno 28, 2011, 04:03:40 pm »

28/6/2011 - TACCUINO

Sul Fisco una mossa preventiva

MARCELLO SORGI

L'annuncio della riforma fiscale, fatta filtrare dal ministero dell’Economia in forma di bozza che prevede la riduzione dell’Irpef a tre sole aliquote del 20, 30 e 40 per cento, l’innalzamento dell’Iva di un punto e la cancellazione dell’Irap dal 2014, è una classica mossa preventiva. Tremonti non a caso l’ha decisa sotto pressione, mentre il vertice della Lega era riunito e dopo settimane in cui la tenaglia Berlusconi-Bossi inesorabilmente si stava stringendo attorno a lui.

Si tratta, com’è evidente, di dar contenuto alla scelta del governo di ricorrere nuovamente al meccanismo della legge-delega per realizzare la riforma più agognata, ma al momento anche più impossibile. Il premier, atteso invece nei prossimi giorni alla sottoscrizione della pesante manovra da quaranta miliardi finalizzata a proseguire la politica di rigore sui conti pubblici chiestaci dall’Europa, presentando insieme la nuova indispensabile torchiatura e la promessa (meglio sarebbe dire, la ripromessa) del taglio delle tasse, potrebbe cercare ancora di tenere a freno una maggioranza sempre più irrequieta e in particolare l'alleato leghista, uscito appena dalle turbolente assise di Pontida.

Non è un mistero che proprio da Pontida siano venute una serie di richieste, in parte inascoltabili come la cessazione delle missioni di pace internazionali, ma in parte al contrario presentate con l’urgenza di chi aspetta una risposta immediata. Tra queste, appunto, l’allentamento dei vincoli del patto di stabilità per i comuni virtuosi, misura di cui non a caso Tremonti non ha fatto cenno, e che difficilmente passerebbe nelle maglie strettissime delle autorità di Bruxelles.

La finanza locale è, non solo per la Lega, ma per tutto il governo e per il Pdl soprattutto, il fianco più esposto. Dopo l’abolizione dell’Ici, varata a inizio legislatura per onorare una promessa elettorale di Berlusconi, con l’impegno che i sindaci avrebbero ricevuto dallo Stato mezzi corrispondenti all’ammontare della tassa cancellata, gli enti locali non sono mai stati rimborsati, se non parzialmente, e il dissesto dei bilanci dei municipi ha raggiunto in molti casi livelli di guardia. Di qui i toni ultimativi di Bossi sul pratone davanti alla sua gente: i 121 sindaci del Carroccio d’altra parte insistono per riconquistare la propria autonomia. È del tutto ovvio che la riforma fiscale lanciata ieri da Tremonti in questo senso servirà a ben poco. Se i tempi della nuova legge delega saranno gli stessi di quella del federalismo fiscale, approvato in buona parte ma ancora inattivo, l’ira dei seguaci del Senatur continuerà a montare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8906&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #326 inserito:: Luglio 01, 2011, 11:27:27 pm »

1/7/2011

Palazzo Koch non è come la Rai

MARCELLO SORGI


La Banca d’Italia trattata come la Rai.

La scelta del nuovo governatore, dopo che quello in carica è stato chiamato a Francoforte a presiedere la Bce, condotta più o meno come se si dovesse trovare un nuovo direttore di tg (tra l’altro nemmeno questo il governo riesce a fare).

Durissima contro il governo, la nota con cui il Capo dello Stato ha cercato ieri di riportare nei giusti canali istituzionali il difficile negoziato su Bankitalia covava da giorni.

Dall’Inghilterra dove si era recato per ricevere la laurea ad honorem a Oxford, Giorgio Napolitano ha seguito a distanza, con crescente imbarazzo, le polemiche sempre più velenose su via Nazionale, le molte dichiarazioni a vanvera registrate dai giornali, l’anomala convocazione di Mario Draghi, governatore uscente in partenza per la Bce, da parte di Berlusconi. E appena rientrato in Italia è intervenuto con la severità che ritiene necessaria su una questione così seria.

Per il Capo dello Stato non ha senso l’alibi di cui finora il governo s’è fatto schermo, la legge varata sei anni fa dopo le sofferte dimissioni di Antonio Fazio per l’inchiesta su Antonveneta, con il nuovo meccanismo di nomina che prevede una sorta di concerto tra Palazzo Chigi e il direttorio della Banca d’Italia sul nome del candidato individuato dal presidente del Consiglio. Berlusconi finora ha evitato di indicare un nome a via Nazionale perché teme che venga impallinato dal direttorio della Banca, il quale a sua volta s’è riunito solo per far notare che senza il candidato non può esprimere il parere richiesto dalla legge. Di qui una serie di ritardi, e da un paio di giorni, stando alle indiscrezioni, un rinvio definitivo all’autunno, visto che l’insediamento di Draghi a Francoforte è previsto per il primo novembre. Ciò che appunto ha convinto Napolitano, a cui spetta la firma finale sul decreto di nomina, a muoversi e a far sentire energicamente la sua voce.

L’idea che il rinnovo del vertice di un’istituzione così importante come la Banca d’Italia, una volta attivata la procedura di nomina, possa essere lasciato in sospeso - né più né meno come avviene periodicamente per le nomine Rai, soggette ad ogni leggero cambiamento di clima politico, e ridotte a un borsino delle quotazioni che ricorda le corse dei cavalli - è semplicemente fuori dalla realtà. La nuova legge sarà pure infelice, come molte leggi frutto di emergenze e di compromessi dell’ultima ora. Ma non è certo inapplicabile.

Se Berlusconi intende proporre un solo candidato, come sembra orientato a fare, avanzando il nome del direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, è nel suo pieno diritto. Va detto che si tratterebbe di una candidatura autorevole, come quelle, alternative, del direttore generale di Bankitalia Fabrizio Saccomanni e dell’attuale membro italiano del Direttorio della Bce Lorenzo Bini-Smaghi. Ma se lo fa sapendo che sul nome del professor Grilli esistono riserve interne a via Nazionale, dovute, non alla persona, ma al fatto che è apparso chiaramente come il candidato del ministro dell’Economia Tremonti, il premier, prima, ha il dovere di esplorare a fondo queste perplessità. E proprio perché spetta a lui l’onere della proposta, o fare un nome diverso, o condurre informalmente una trattativa preliminare su più nomi, per arrivare a un accordo evitando alle istituzioni coinvolte nel procedimento di nomina la sensazione di un’imposizione.

Un negoziato chiaro, aperto e trasparente, ancorché riservato, vista la delicatezza del problema da risolvere: che parta dalla considerazione che tutti i candidati hanno le carte in regola per succedere a Draghi, che Palazzo Chigi non vuole a tutti i costi mettere un suo uomo in via Nazionale,ma arrivare alla scelta migliore e più condivisa. Si tratta semplicemente di rispettare lo spirito di una legge complicata, magari, ma esplicitamente mirata a far sì che la Banca d’Italia mantenga la sua indispensabile e connaturata autonomia. A farlo, inoltre, Berlusconi avrebbe tutto da guadagnarci: invece di apparire, come sembra, tirato da una parte e dall’altra e non in grado di arrivare a una decisione, se il prescelto non dovesse essere il candidato del ministro dell’Economia, o quello che appare tale anche a dispetto di se stesso, alla fine potrebbe dire a Tremonti che non è dipeso da lui.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8924&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #327 inserito:: Luglio 01, 2011, 11:32:41 pm »

30/6/2011 - TACCUINO

Bankitalia, ora si rischia l'impasse

MARCELLO SORGI


La visita a Palazzo Grazioli di Mario Draghi ha dato il senso di un’accelerazione della complessa procedura per designare il nuovo governatore della Banca d'Italia. Da giorni i nomi dei possibili candidati, il direttore generale del Tesoro Grilli, quello di Bankitalia Saccomanni e il membro del direttorio della Bce Bini-Smaghi, tutti molto qualificati per un incarico insieme gravoso e prestigioso, entrano ed escono dai vertici politici dedicati alla incombente manovra finanziaria. Tremonti punta su Grilli, che è stato al suo fianco nel difficile lavoro di tenuta dei conti pubblici ma è giudicato troppo vicino al governo dai vertici della Banca d’Italia, che preferirebbero la soluzione interna di Saccomanni.

Il problema è dato dall’applicazione della nuova legge che dal 2005 - anno delle sofferte dimissioni a seguito dell’inchiesta su Antonveneta del precedente governatore, Fazio -, è stata varata per stabilire un termine al mandato, in precedenza a vita, e criteri di nomina più condivisi di quelli che in passato lasciavano più autonomia al vertice di via XX Settembre e rendevano il governatore praticamente inamovibile. Di qui il nuovo sistema che affida al presidente del consiglio la designazione del candidato, al direttorio di Bankitalia il gradimento e al Capo dello Stato la nomina.

Alla prova dei fatti il meccanismo si sta rivelando inapplicabile e tende a produrre candidature in contrasto. Il conclamato deterioramento dei rapporti istituzionali ha fatto sì che da Palazzo Chigi, nel timore che sia Bankitalia che il Colle possano respingerla, non sia venuta alcuna designazione formale; che il direttorio di via XX Settembre, sollecitato ad attivarsi, si sia riunito solo per constatare la mancanza di nomi su cui esprimere un parere; e che il Quirinale finora non abbia potuto far altro che premere per una decisione. Se non si arriverà a un'intesa tra i tre poteri chiamati in causa dalla nuova legge, è prevedibile che il risultato sarà lo scontro tra almeno due candidature: Grilli, che Berlusconi potrebbe condividere per accontentare Tremonti, ma che difficilmente troverebbe il consenso di Bankitalia e del Colle, contro Saccomanni, più gradito a questi ultimi. La soluzione sarebbe quella di formare una rosa di nomi, non prevista tuttavia dalla legge. Ma qui appunto la mentalità decisionista stile Seconda Repubblica si scontra con uno dei metodi più antichi - la moltiplicazione dei petali e dei nomi - in uso nella Prima. Intanto, di rinvio in rinvio, anche una scelta così delicata resta bloccata.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8920&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #328 inserito:: Luglio 05, 2011, 04:30:13 pm »

5/7/2011 - TACCUINO

L'ombra degli scontri torna a dividere in due la sinistra

MARCELLO SORGI


Le polemiche seguite all’assalto, da parte dei black bloc, dei cantieri della Tav in Val di Susa non accennano a placarsi, ma le conseguenze più visibili si avvertono nel campo del centrosinistra. Il ministro dell’Interno Maroni va all’attacco e parla apertamente di terrorismo e di tentato omicidio per l’attacco deliberato alle forze dell’ordine, che hanno riportato sul campo centinaia di feriti. Dal centrodestra si arriva a paragonare i guerriglieri di domenica scorsa ai «khmer rossi» della Cambogia di Pol Pot, con un’evidente esagerazione mirata ad accentuare le divisioni nel campo opposto e a evitare qualsiasi distinzione con gli abitanti della Val di Susa che prima degli scontri avevano manifestato pacificamente il loro dissenso sulla ripresa dei lavori dell’Alta Velocità.

Mentre infatti Bersani ha subito preso posizione duramente nei confronti degli aggressori e in difesa di poliziotti e carabinieri, che hanno difeso i cantieri, tra l’altro presidiati dagli operai, Vendola, Ferrero, Ferrando, per citare solo i principali esponenti della sinistra radicale, pur condannando le violenze hanno eccepito sui comportamenti della polizia, sull’uso dei lacrimogeni e dei proiettili di gomma e insomma sullo svolgimento dell’operazione, in qualche caso paragonata al G8 di Genova del 2001, anche se è emerso chiaramente che stavolta le cose sono andate diversamente, e pur essendosi impegnati allo stremo per impedire ai black bloc di raggiungere l’area dei cantieri, le forze dell’ordine hanno operato con professionalità ed evitando qualsiasi forzatura non necessaria. Ferrando è arrivato a offrirsi pubblicamente come testimone a favore degli arrestati nel processo che seguirà. Evidentemente, a caldo, la sinistra radicale ha avvertito il rischio che a difendere i violenti restasse il solo Grillo, in termini tra l’altro che ieri, fatto inconsueto per lui, ha dovuto ritrattare.

Le tensioni avvertite ieri dopo la lunga battaglia di domenica approderanno presto in Parlamento, dove tuttavia la mancata presenza di deputati e senatori della sinistra radicale non consentirà un confronto pubblico tra Bersani e Vendola e forse anche un vero approfondimento dell’accaduto. L’attacco dei black bloc era infatti preannunciato da giorni, e insieme con la reazione di polizia e carabinieri a difesa dei cantieri, forse una azione preventiva per fermare a distanza gli assalitori avrebbe potuto meglio limitare i danni di una domenica da dimenticare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8939&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #329 inserito:: Luglio 06, 2011, 05:18:00 pm »

6/7/2011

E alla fine il premier rimase solo

MARCELLO SORGI

L’ affondamento dell’ultima norma «ad personam», inserita nel testo della manovra finanziaria di nascosto e ritirata precipitosamente ieri dal premier, porta con sé una novità, si direbbe un segno dei tempi, mai emerso finora così chiaramente: come ha dovuto ammettere nel comunicato vergato, non a caso, in prima persona, Berlusconi, al cospetto dei suoi guai giudiziari, è rimasto solo. Completamente solo. Gli uomini che gli sono sempre stati al fianco, in numerosi e difficili frangenti come questi, si sono defilati uno dopo l’altro.

Ghedini, proprio lui, il deputato-avvocato autore dei tanti lodi con cui il Cavaliere è riuscito a fasi alterne a limitare le conseguenze dei suoi processi, ha disconosciuto il testo con cui si tentava di dilazionare gli obblighi derivanti da sentenze civili che impongono risarcimenti molto onerosi. Tipo quello che l’azienda di famiglia del premier rischia di dover sopportare se i giudici di appello di Milano, nel prossimo fine settimana, confermeranno il verdetto che ha imposto il pagamento, prima di 750, poi di 490 milioni, per l’acquisizione della Mondadori, strappata al gruppo Cir di De Benedetti grazie alla decisione di un giudice condannato per corruzione.

Alfano, il ministro di Giustizia e neosegretario del Pdl che venerdì aveva auspicato dal palco della sua elezione un «partito degli onesti», è rimasto silenzioso. E Tremonti, che dopo una trattativa difficilissima aveva licenziato una manovra diversa da quella poi mandata al Quirinale con l’aggiunta della norma contestata, ha addirittura fatto saltare la conferenza stampa convocata per illustrare le misure del governo.

Un fuggi-fuggi generale. Poiché è impossibile, al di là di quel che vorrebbero far credere, che le persone più vicine e più direttamente coinvolte nella vicenda non sapessero, o non fossero intervenute, nel fine settimana in cui il testo da trasmettere al Capo dello Stato è stato rimaneggiato e adattato alla bisogna, se ne ricava che Berlusconi è stato abbandonato al suo destino e mandato a sbattere contro un muro proprio dai suoi, come il suo comunicato personale, al di là delle accuse di prammatica all’opposizione, testimonia chiaramente.

Si dirà che non c’era altra possibilità per evitare che il Capo dello Stato fosse costretto a respingere l’intero testo della manovra viziato dal codicillo «ad personam». Ed è un bene che la conclusione della vicenda sia stata questa: un rinvio della finanziaria avrebbe determinato conseguenze economiche gravissime e reazioni internazionali sconcertate, in un momento in cui l’Italia è un Paese sotto osservazione. Magari avranno provato tutti insieme - Ghedini, Alfano, Tremonti, per non dire di Letta, che doveva materialmente inviare il testo al Colle -, a convincere il Cavaliere dell’impraticabilità della soluzione proposta. In una manovra in cui - non è ancora certo, si vedrà - è atteso anche un taglio dei privilegi della classe politica, figuriamoci se poteva esserne inserito uno a parte, tutto nuovo, ritagliato su misura per soccorrere nuovamente il premier. Sia come sia, la novità sta nel fatto che alla fine Berlusconi è stato mollato. E, infuriato, ha dovuto suonarsi da solo la ritirata.

Intendiamoci, era già successo in passato che il Cavaliere avesse dovuto far marcia indietro sulla scelta di un ministro o su una proposta di riforma. Ma mai in materia di giustizia e mai sulla guerra senza quartiere che da anni lo oppone alla magistratura. Proprio perché il Pdl gli ha sempre riconosciuto la condizione di perseguitato, il terreno dei guai giudiziari è rimasto fuori da qualsiasi faida interna di partito, e talvolta ha funzionato, come lo stesso Alfano ha dovuto riconoscere all’atto della sua elezione a segretario, da comodo ombrello anche per quelli che in tutta evidenza perseguitati non erano. Per questo, fino a sei mesi fa, o a poche settimane fa, quando il Pdl a Milano organizzava manifestazioni davanti al Palazzo di giustizia nei fatali lunedì delle udienze del premier, nessuno si sarebbe sognato, non soltanto di dissentire, ma neppure di accarezzare il nervo più scoperto del Cavaliere.

Siamo dunque a una svolta. Maturata nel caos, come accade sempre attorno a Berlusconi, ma gravida di conseguenze. Se davvero il premier non è più padrone di se stesso, né del suo partito, le cose possono cambiare più rapidamente di quanto si poteva immaginare fino a qualche giorno fa. Il suo lento declino, che si trascina da mesi, potrebbe diventare inesorabile. Per ragioni politiche, oltre che giudiziarie, e con conseguenze terribili: come fa presagire il desiderio di vendetta che si affaccia tra le righe dell’ultimo, furioso, comunicato, uscito da Palazzo Chigi.

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