WALTER VELTRONI ...
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Che sia una sfida vera
Gianfranco Pasquino
È proprio la stima che ho per Veltroni che mi obbliga a dichiarare il mio dissenso, non sulla sua candidatura alla carica di primo segretario del Partito Democratico, ma sulle modalità con cui sta maturando. Il Documento approvato dal Comitato Promotore indica come strada maestra la presentazione, in ciascuno dei 475 collegi uninominali ritagliati dal Mattarellum della Camera, di liste di candidati/e all’Assemblea Costituente. Liste, è bene ricordarlo, che contengono anche il nome del loro candidato alla segreteria del Partito Democratico. Inoltre, il tanto, giustamente, criticato, «Manifesto dei Valori» pone a fondamento ineludibile della scelta delle cariche sia il principio della contendibilità sia il metodo delle primarie. Quella che a molti di noi, democratici e di sinistra, è apparsa una designazione dall’alto, una vera e propria investitura, in particolare ad opera dei vertici dei Democratici di Sinistra, spazza via entrambi: principio e metodo. Invece, la bontà della candidatura di Veltroni non deve fare strame delle regole esistenti e fondanti del futuro Partito Democratico. Non è affatto già troppo tardi.
Se mercoledì a Torino, città natale del filosofo politico Norberto Bobbio che ha speso gran parte della sua ricerca sulla democrazia a individuarne le regole migliori e che si è opposto con tutto il suo magistero alla democrazia dell’applauso e dell’acclamazione (ricevendone, in cambio, da Bettino Craxi, l’epiteto «filosofo che ha perso il senno»), Veltroni dichiarerà la sua disponibilità a candidarsi, dovrebbe rimandare tutto ad un percorso democratico e partecipativo. Toccherà collegio per collegio, ai cittadini “democratici” di impegnarsi, se lo desiderano, per fare di Veltroni il candidato delle liste che presenteranno. Inoltre vedo che siamo addirittura già arrivati alla formazione di un ticket: segretario e vicesegretario. Non mi pare che neppure il ticket sia stato previsto dal documento dei Promotori i quali, incidentalmente, verrebbero in questo modo, platealmente sconfessati. Mi preoccupa anche la composizione del ticket, non per i nomi, poiché sicuramente anche Dario Franceschini ha qualità politiche, ma poiché assomiglia troppo ad una spartizione partitocratica concordata: un Ds alla segreteria, un Margherito alla vicesegreteria. L’aspirazione originaria del Partito Democratico era, almeno questo ci hanno detto, ripetuto, martellato nei congressi, quella di scomporre e ricomporre, aprendosi all’esterno, alle rigogliose culture riformiste della società civile. Non di sovrapporre meccanicamente le nomenclature dei due partiti, né di escludere eventuali competitors, senza neppure il passaggio, sacrosanto, delle primarie. E se, saltata la possibilità di scegliere liberamente il candidato alla segreteria, si mantenesse questa libertà di scelta almeno per i candidati/e alla vicesegreteria? Il segnale formale e procedurale della candidatura di Veltroni, è, dunque, a mio modo di vedere, pessimo. So, però, che in politica, conta anche la sostanza. Forse, Prodi, che ha commesso valanghe di errori in questo processo, doveva rivendicare la guida del partito, da subito; in subordine, doveva esigere la nomina di un segretario organizzativo e non politico; doveva, infine, bloccare le designazioni dall’alto, persino, quella dell’ulivista Veltroni, leale vice premier di un tempo che fu. Forse, adesso Prodi ritiene che la sfida alla sua Presidenza del Consiglio si attenuerà. Ma questa attenuazione non è un segnale positivo, poiché il governo e il PD hanno entrambi bisogno di grande slancio. E quando arriveremo alle elezioni politiche, il PD e l'Unione non potranno neppure sfruttare l’onda lunga di buone e fresche primarie. Il 14 ottobre 2007 Veltroni non diventerà soltanto segretario del Partito Democratico, ma anche inevitabilmente e, probabilmente in maniera opportuna, da subito, il candidato a Palazzo Chigi. In seguito, oltre a subire i contraccolpi di eventuali azioni di governo inadeguate e criticate, oppure di tensioni prodotte da critiche a quelle (in)azioni di governo, Veltroni non potrà usufruire della spinta a suo sostegno del popolo delle primarie. Non credo che la soluzione dei problemi causati da una intempestiva investitura verticistica possa trovarsi nella proliferazione di candidature di bandiera senza speranze, a meno che, peggio che mai, quelle candidature, che sembrano tutte venire dalla Margherita, non vogliano essere la precostituzione di correnti dentro il PD. Non mi resta che augurarmi che, se accetterà la investitura, Walter Veltroni sappia suggerire un originale e democratico percorso per renderla compatibile con quanto il Partito Democratico ha promesso, e deve mantenere.
Pubblicato il: 23.06.07
Modificato il: 23.06.07 alle ore 15.14
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Bartezzaghi ricordò che «l’anagramma del suo nome è "Wl’arte"».
E Camilleri descrisse il libro «Senza Patricio» come «una sinfonia».
Gli unici dubbi dai veri amici Dalla e De Gregori «Troppo buono e generoso»
Walter e il rischio dei laudatores
Gli elogi bipartisan degli artisti, da Buzzanca a Baricco
Se ha un difetto, è di essere troppo buono. O troppo generoso. O troppo razionale (Massimo Ghini, sul Corriere di ieri).
Ma possibile che Walter Veltroni non abbia un difetto vero? L’unanimismo che ha spinto e accolto la sua candidatura è proprio un vantaggio? La santificazione da parte di amici, personaggi dello spettacolo, star televisive non rischia di suonare affine a quella vissuta da un altro politico molto amato — ma anche odiato —, il buono, il generoso, il quasi immortale, l’Highlander (Michela Brambilla, sulla Repubblica di ieri) Silvio Berlusconi? È probabile, in alcuni casi certo, che non sia l’interesse ma la stima sincera ad accendere tanto entusiasmo. Uno scrittore come Alessandro Baricco, ad esempio, non aveva certo bisogno di ruffianarsi un politico quando disse in tv che «il ministero della Cultura va bene, ma solo se c’è Veltroni. Walter è una sicurezza per tutti».
E di sicuro il neutrale enigmista Stefano Bartezzaghi si limitava ai consueti giochi di parole quando annotava che «l’unico anagramma possibile del suo nomeè "Wl’arte"». Èprobabile però che tra i tanti laudatori si annidi qualche ruffiano autentico. E i ruffiani sono segno di successo, manon aiutano amantenere i contatti con la realtà e a maturare la consapevolezza dei problemi, come certo Veltroni è intenzionato a fare, avendo scelto per l’annuncio una città poco ruffiana come Torino. Qualcuno tra i vecchi amici ha espresso qualche perplessità. «Gira i tacchi e vai in Africa, Celestino!» sorrideva amaro Francesco De Gregori in una canzone ispirata — anche se mai collegata esplicitamente —ai tormenti politici ed esistenziali di Veltroni. E Lucio Dalla ha un ricordo bello ma non mitizzato di quel giovane che seguiva la sua tournée del 1979 appunto con De Gregori, Banana Republic, «e diceva di avere due sogni: diventare allenatore della Juve o direttore di Sorrisi&Canzoni tv» (aggiunge Dalla che «fare oggi il segretario del Partito democratico è come fare l’imperatore ai tempi di Romolo Augustolo, quando lo scettro era in vendita ma non lo voleva comprare nessuno»).
E comunque, annota Bartezzaghi: «Walter significa dominatore dell’esercito». Per un antico compagno che abbozza una critica, ci sono dieci avversari pronti ad adularlo. Marcello Dell’Utri: «Veltroni è un politico abile e un grande comunicatore. La sua Unità non era fanatica come questa. E poi non si è mai vestito da comunista». Mike Bongiorno, all’indomani della sfida del ’94 per la segreteria del Pds vinta da D’Alema: «Date retta a me che lo conosco fin da quand’era bambino; hanno sbagliato, dovevano fare Walter». Lando Buzzanca: «Resto uomo di destra ma a Roma voto Veltroni; un intellettuale di statura europea». Gianni Alemanno, dopo la netta sconfitta nella corsa per il Campidoglio: «Ormai Veltroni e io percorriamo strade parallele».
Tante cortesie da indurre Fabrizio Cicchitto a sbottare, preveggente: «Ma l’avete capito o no che Veltroni, il gentile, geniale, furbo, colto, intelligente Veltroni, è destinato a diventare il nostro principale avversario? E allora perché tante moine? Perché siamo sempre così carini con lui?». Non aveva ancora letto le recensioni ai libri. Il Veltroni saggista fu apprezzato pure da Clinton: quando Walter andò in America nel ‘97, il presidente—almeno secondo i giornalisti al seguito—lo ringraziò così per aver prefato l’edizione italiana di un suo saggio: «Lei mi ha capito. Noi due la pensiamo allo stesso modo. In più, lei scrive veramente bene». Per presentare I programmi che hanno cambiato l’Italia vennero al teatro Argentina Andrea Barbato, Corrado Augias, Maurizio Costanzo, Serena Dandini, AntonioRicci; in prima fila, Ettore Scola, Nanni Loy, Lea Massari, Angelo Guglielmi, Emmanuele Milano, Beniamino Placido, Sandro Curzi; fila di mezzibusti e presentatrici fuori dal teatro; quel giorno in Rai rimasero solo gli uscieri.
Nulla, in confronto al trionfo della presentazione di Senza Patricio, ancora all’Argentina. Parte subito forte Ermanno Rea: «Bellissimo. Un gioiello». Melania Mazzucco: «Per Veltroni scrivere è come volare. Da figlio diventa padre, da padre figlio, poi ancora padre...». Andrea Camilleri: «Questo non è un libro di racconti, questo è un canone inverso! Questa è una sinfonia, una sinfonia per solisti e coro!». Gianni Amelio (che il cronista, Luca Telese, descrive come visibilmente commosso): «È un libro magico. Mi fa quasi paura, perché parla di noi, di me. Walter, tu mentre scrivevi non potevi saperlo,maio sono Patricio!E io sono, anche, il papà di Patricio!». Paolo Bonolis: «Libro delizioso. Toccante. Ricorda Márquez». Al moderatore, Vincenzo Mollica, l’accostamento pare inadeguato: «Márquez, certo. Ma pure Fellini!». Quando poi uscì La scoperta dell’alba», l’entusiasmo dei recensori fu tale che si preferisce non riferirlo. Valga per tutti il biglietto che mandò Gianfranco Fini: «Caro Walter, ho letto il tuo romanzo, e l’ho davvero molto apprezzato. Spero che lo legga anche chi non vota per te...».
Poi, alla presentazione, per una volta al Circolo Canottieri Aniene: «È un gran bel libro. Leggetelo». È probabile che Bartezzaghi abbia ragione: «D’ora in poi Walter sarà ripetuto ovunque, a martello». Ad esempio alla City, dove —sempre a rileggere i giornali— nel novembre 2003 i broker furono «incantati» dall’intervento di Veltroni, al punto da bersi pure loro il noto annuncio: «Una volta conclusa l’esperienza in Campidoglio, riterrò chiusa la mia carriera politica, e mi ritirerò in Africa». È probabile pure che Veltroni sia sincero, quando lo dice. Nessuno crede più che la sua apertura agli altri, il suo personale culto dei morti, la sua attenzione ai deboli siano finti; al massimo, la discussione è se Veltroni sia davvero sincero con tutti, o se sia convinto di esserlo.
Ma il punto non è questo. La sfida ora non è dimostrare la sua sincerità, ma distinguere chi è sincero con lui, e chi non lo è. Chi lo loda sul serio, e chi per finta. Chi è preda di un’euforia autentica — come il suo nuovo assessore alla Cultura Silvio Di Francia: «Oggi siamo orgogliosi, e tutta Roma lo è!»—e chi, non solo tra i dalemiani (o i fassiniani, o i rutelliani, o i prodiani), al primo ostacolo l’euforia perderà di colpo. E comunque, Bartezzaghi, definitivo: «Rimarranno pochissimi quelli che penseranno innanzitutto a Walter Chiari...».
Aldo Cazzullo
23 giugno 2007
da corriere.it
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POLITICA
Il segretario Ds nega malesseri nelle aree più vicine a lui e a D'Alema
E frena sulla candidatura Bersani. "Io che farò dopo? Mai inseguito poltrone"
Fassino: "Giusto fare largo a Walter
E' il più fresco, non ha le nostre ferite"
di GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA - "Con Veltroni abbiamo scelto il più fresco di tutti noi. Diciamoci la verità: venendo dal Campidoglio Walter non si porta dietro le ferite delle nostre battaglie di questi anni". Generoso, realista: chiamatelo come volete. Piero Fassino è convinto della scelta fatta dall'Ulivo per la leadership del Partito democratico. Si è preso un giorno di riposo. E' a Venezia per celebrare il matrimonio del suo portavoce Gianni Giovannetti con Valentina Basarri. Il sole, la laguna, il ricevimento prelibato all'Harry's Dolci. Sarà per questo che non pensa al dopo, al 15 ottobre, quando i Ds non ci saranno più? "Non ho rimpianti. Se mi guardo indietro sono orgoglioso del percorso che abbiamo realizzato".
La scelta di Veltroni non è una resa dei leader della Quercia, a cominciare da lei e D'Alema? I Ds hanno portato voti e sangue al centrosinistra, ma non hanno potuto esprimere né il premier né il segretario del Pd.
"Ma no, non penso si possa avanzare questa obiezione. In primo luogo perché Walter è un dirigente dei Ds ed è stato addirittura il leader del partito. La sua appartenenza politica è chiara. Ma Veltroni rappresenta anche tutto l'Ulivo e il Pd, cioè uno spettro molto ampio di posizioni. I Ds erano in grado di mettere in campo altri dirigenti, ma poi bisogna tenere conto delle condizioni politiche. E queste condizioni hanno portato alla scelta più idonea".
Quindi è una leggenda la stizza dei dalemiani e dei fassiniani.
"Non vedo alcun malessere e delusione. Trovo anzi la soddisfazione per la scelta di un leader forte. Penso che questo segnale, dopo la sconfitta alle amministrative, abbia fatto tirare un sospiro di sollievo a tanti. All'indomani delle elezioni infatti abbiamo deciso di puntare su un doppio scatto rilanciando il centrosinistra sia sul fronte dell'azione di governo sia sul Partito democratico. E l'accelerazione più evidente riguarda il Pd. Ormai mancano 115 giorni alla sua fondazione. Solo poco tempo fa il cammino ci appariva molto più lungo e travagliato. A Orvieto avevamo fissato il traguardo alle Europee del 2009. Poi ci siamo accorti che per i tempi della politica e della società quella data era veramente troppo oltre. Abbiamo anche capito che bisognava eleggere un leader forte".
E il più forte, come dicono i sondaggi, è Veltroni.
"Sì. E il fatto che Walter abbia deciso di candidarsi rafforza questo processo. É un dirigente stimato da tutti. Ha un profilo che lo rende riconoscibile a un elettorato più largo del centrosinistra. La sua fede ulivista è sempre stata dichiarata. E' anche un esponente dei Ds e in questo c'è il riconoscimento del ruolo del nostro partito. Racchiude in sé le caratteristiche di unità e di novità".
Lei ha detto che tutti i Ds sostengono il sindaco di Roma. Consiglia a Bersani di ritirarsi?
"Bersani o altri sono liberi di decidere. È utile una pluralità di liste e di candidati. Tuttavia penso che su Veltroni si realizzi una larga convergenza unitaria. Ed è così che il suo impegno viene percepito dai cittadini. Uno dei nostri problemi di sempre è la Babele di linguaggi, il mettere troppo in evidenza più le divisioni che i punti in comune. Credo che di questo dobbiamo tenere tutti conto. La nostra gente vuole segnali di forte coesione e unità. Per una volta che possiamo essere davvero uniti perché presentarci divisi?".
Perché Veltroni sì e altri no, a parte i sondaggi?
"Per i tratti del suo profilo di cui parlavo prima. E perché venendo dal Campidoglio non si porta dietro le ferite delle battaglie di questi anni. E' il più fresco di noi. E può unire più di ogni altro".
Di solito le medaglie e i premi non vanno proprio ai feriti?
"Se parla di me, io sono appagato. Nel 2001 si profetizzava un ciclo della destra pari a quelli di Margaret Tatcher e di Helmut Kohl. Bene: sono passati sei anni e il centrosinistra è uscito dal cono d'ombra della sconfitta. Da allora, abbiamo vinto sempre nei vari passaggi elettorali, abbiamo ricostruito l'unità del nostro campo e rimesso in piedi l'Ulivo fino all'approdo del Pd. Un processo così importante che finirà per riguardare non solo noi. Fini e Berlusconi hanno avviato una discussione su come fondare un partito del centrodestra che possa competere con il Pd. E alla nostra sinistra forze gelosissime della loro identità come Rifondazione e il Pdci pensano a una casa comune. Il Pd è già un pezzo della riforma del sistema politico anche se sappiamo bene che questa riforma anche passa dalla revisione della legge elettorale. Noi non diamo per persa la possibilità di un'intesa. Ci sforzeremo per arrivarci. Sapendo però che il referendum è un'altra strada e che anche all'indomani del voto sui quesiti ci sarà bisogno di una buona legge. Non basterà il pronunciamento dei cittadini a cambiare la pessima qualità della norma Calderoli".
Lei ha parlato anche di uno scatto del governo. E la lettera dei quattro ministri della sinistra radicale che accusano l'esecutivo e Padoa-Schioppa?
"Abbiamo firmato i contratti del pubblico impiego, abbiamo sbloccato la Tav, stiamo portando a compimento le norme sul federalismo fiscale e si è aperto il tavolo con i sindacati su pensioni e lavoro. In più, c'è il surplus di 2,5 miliardi di euro che certo non piove dal cielo ma è figlio della ripresa economica accompagnata dalla Finanziaria e della lotta all'evasione fiscale. Un miliardo e 400 milioni saranno destinati ad aumentare le pensioni più basse, 700 milioni vanno agli ammortizzatori sociali e servono ad aiutare i precari, 600 milioni andranno ai giovani. Non sono scelte di poco conto. I ministri della sinistra radicale le sottostimano e sottovalutano il fatto che quelle decisioni sono già state assunte dal governo e apprezzate dalle parti sociali. Sulla base di quelle scelte possiamo predisporre un Dpef e una Finanziaria più rivolti allo sviluppo e che contengano anche prime significative riduzioni fiscali".
Il nodo restano le pensioni.
"È un passaggio delicato. Bisogna reperire un miliardo per passare dallo scalone agli scalini. Padoa-Schioppa è consapevole che una soluzione va trovata. E io sono fiducioso che il miliardo che serve, il ministro lo troverà".
Che farà Fassino il 15 ottobre, quando il Pd avrà un altro segretario?
"Contribuirò a costruire il Partito democratico facendo vivere le ragioni di una sinistra riformista moderna. In ogni caso sono un parlamentare dell'Ulivo. Non ho mai inseguito una poltrona. Continuerò a fare politica. Per passione, come sempre".
(24 giugno 2007)
da repubblica.it
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Diamanti
Veltroni e il rischio del remake
Forse non è entusiasta di "scendere in campo" così presto. Lontano (forse) dalle elezioni. In Italia, soprattutto, conviene sempre stare fuori. Assistere. Incombere. Essere chiamati in causa. Intervenire nel dibattito, esprimere una posizione, lanciare una parola d'ordine. Ma senza essere coinvolti. Fino all'ultimo minuto. Perché, quando prendi parte, la magia svanisce in fretta. Da "santo subito" si diventa "bersaglio". Di tutti. Avversari e soprattutto amici. Anche di quelli che prima incitavano a entrare nell'agone, a spenderti in prima persona. A essere generoso. Però, è difficile per Walter Veltroni continuare a lungo a fare il predestinato che si schermisce. E attende, il più a lungo possibile, prima di esporsi. Per evitare il fuoco nemico e quello amico. Ormai, la corsa è lanciata. A ottobre gli elettori del Partito Democratico voteranno, direttamente, per il segretario. Non per un portavoce indicato da Prodi. O per qualche altra carica di scarso valore. Troppo seria la situazione in cui versano la maggioranza e il governo per alimentare ulteriormente la delusione degli elettori.
Il gioco, quindi, si fa duro. Perché in gioco c'è la leadership futura e presente. Condivisa con - e contesa a - Prodi. Piero Fassino, al quale non può venire imputata mancanza di generosità, ha pensato bene di rompere lui gli, gli indugi. E ha candidato Veltroni. Da troppo tempo in attesa "sul bordo del fiume" , come ha osservato Salvatore Vassallo sul "Corriere della Sera". Lo ha costretto a nuotare. Ad affrontare le acque insidiose della contesa con gli altri candidati. Forse. Perché qui c'è un problema ancora irrisolto. Veltroni, oggi, è davvero il più popolare fra i leader del centrosinistra. Non c'è sondaggio che non lo veda largamente in testa, nelle scelte dei sostenitori e degli elettori del Partito Democratico. Se, però, intende confermare e perfino rafforzare questa posizione, non si può affidare a un referendum dall'esito scontato. A un altro plebiscito. Come quello tributato a Prodi, alle primarie del 2005. A un altro rito collettivo intorno a un solo celebrante. Prodi è l'inventore e il testimone dell'Ulivo. L'unico ad avere sconfitto Berlusconi. E costretto ad abbandonare, nel 1998, non dagli avversari politici, ma dai presunti alleati. Veltroni no. E' il sindaco di Roma. Un passato comunista definitivamente passato. Lontano. Perfino incomprensibile. Perché nulla, in lui, evoca quell'eredità scomoda. Da cui lo distaccano, anzitutto, ragioni fisionomiche e di stile. Veltroni. duro nella sostanza e lieve all'apparenza. Il più amato e atteso, dagli elettori dell'Ulivo e del PD.
E', però, un leader fra altri leader. Per questo non può essere promosso e "trainato" dalle tradizionali logiche di partito. Da intese trasversali, fra segreterie. Che prevedano, magari, una sorta di ticket: lui alla segreteria di partito con un uomo della Margherita accanto. Per dire: Franceschini. E, per completare, il quadro, un altro, che raccolga la rappresentanza della "società civile". Non può. Ne uscirebbe indebolito. Un leader come altri della prima e, soprattutto, seconda Repubblica. Frutto di compromessi. Secondo l'aurea regola "cancelli". Perché i leader forti emergono sempre da lotte dure e aspre. Senza esclusione di colpi. Com'è avvenuto (almeno fino agli anni Settanta) anche nella prima Repubblica, nei partiti di massa. Come avviene negli altri Paesi. Per dire: Sarkozy e Ségolène Royal non sono mica stati portati dagli altri leader di partito. Non Sarkò, che ha dovuto affrontare l'opposizione irriducibile di Chirac. Non Ségò, che ha avuto contro tutti gli "elefanti" socialisti. Compreso il suo "compagno segretario", François Hollande. Che ne ha mal sopportato l'ascesa. Perché non sopportava il fatto di diventare il "segretario consorte". E in Inghilterra: Tony Blair, che, dal 1994, ha "conquistato" Labour e ne ha modificato la stessa identità, facendone un partito nuovo. Oggi, per dieci anni, "cede" il passo a Gordon Brown. Un successore che non ha scelto, non gli piace; e che, se non bastasse, sua moglie Chèrie detesta apertamente.
Non può, Veltroni, proporsi come il candidato necessario e predestinato. La sua legittimazione ne uscirebbe danneggiata. Se è bravo, carismatico e popolare - e indubbiamente lo è - deve sfruttare queste doti per "conquistare" il partito. Contro altri candidati disposti a sfidarlo. Candidati veri e credibili. I leader principali: Fassino, Rutelli, D'Alema. Le eterne promesse, in attesa di essere promosse da un leader: Dario Franceschini ed Enrico Letta (bravi e preparati; ma, fin qui, perfetti come assistenti). Poi, i sindaci e i governatori del Nord: Chiamparino e Illy (aspetteranno un altro disastro elettorale per conquistarsi spazio politico?). E magari qualche grande firma di cui tanto si discute. E che tanto fa discutere. Montezemolo accanto a Monti. O viceversa. Se decidessero di "traghettare" il PD verso il centro, invece di attendere che la sinistra affondi lasciando aperto lo spazio di centro...
Una competizione vera, tra candidati veri, con progetti veri. Poche parole e poche idee, ma chiare e distinte. Per coinvolgere gli elettori del PD, galvanizzarli. Farli uscire dalla depressione che li ha attanagliati. Scoraggiati. La leadership del Partito Democratico, val bene una "lotta"; leale e aperta. E quindi dura. Selettiva. Altrimenti è difficile che gli elettori e i sostenitori del PD affollino di nuovo i seggi, per confermare una scelta già scritta. Per partecipare un nuovo plebiscito. A sostegno di un candidato pre-stabilito. Dalle segreterie dei partiti. E pre-annunciato. Dai giornali e dalle agenzie di sondaggi.
E' già avvenuto una volta. Allestire il remake, o peggio, le repliche di quello spettacolo, ancora nella memoria di tutti - come sa Veltroni, che è un cinefilo fine - è molto rischioso. Potrebbe risolversi in un flop.
(21 giugno 2007)
da repubblica.it
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Il sindaco di Roma prepara il suo «manifesto» per la leadership del Pd
Veltroni, un discorso contro l’immobilismo
Ultimi ritocchi all’intervento di Torino in cui dirà sì alla candidatura
ROMA — Veltroni non vuole che sia buonista, il discorso che terrà mercoledì pomeriggio nella sala gialla del Lingotto di Torino. È praticamente ultimato: l’ha scritto ieri, da solo, fino a sera, quando — polo celeste a maniche corte — ha accolto nel suo appartamento romano i suoi più stretti collaboratori, da Claudio Novelli a Walter Verini, fino a Marco Causi, dal 2001 assessore al Bilancio capitolino, docente d’economia e già consulente della presidenza del Consiglio durante il primo governo Prodi.
Una riunione notturna per controllare le sfumature, per rileggere, per correggere, per trovare il modo migliore per sciogliere i nodi più complessi: del discorso, sì, e quindi del centrosinistra, del Paese, del rapporto tra le coalizioni. ATorino, senza megaschermi o giochi di luci, senza avere alle spalle le immagini di Luther King, quasi senza citazioni, Veltroni sembra intenzionato a «picchiare duro» — per usare l’espressione di chi ha visto quel testo— sui mali del Paese. Primo tra tutti, l’immobilismo della politica. La sua idea — del Pd, ma anche del centrosinistra e del rapporto con la destra — è che la politica debba tornare a risolvere problemi: quindi basta con i veti incrociati, con gli ostruzionismi e con le condizioni da imporre agli alleati.
È ora di tornare alla politica del fare, una politica che si pieghi agli interessi del Paese: quindi, soprattutto, agli interessi della gente. Il Pd che ha in mente Veltroni, come spiegano i suoi collaboratori, «deve avere un’anima popolare ed essere liberale nel senso più pregiato del termine» e dovrà cambiare il modo stesso di fare politica in Italia. Oggi Veltroni partirà per la Romania, in veste di sindaco. Saranno, comunque, due giorni importanti per la politica, si continuerà a discutere.
Ieri, ad esempio, il ministro Bersani ha letto su Repubblica quella frase di Piero Fassino in merito alle altre possibili candidature alla guida del Pd—«la nostra gente vuole coesione, per una volta che possiamo presentarci uniti, perché dividerci?» — e ha commentato con i suoi collaboratori che l’obbiettivo è ampliare il confronto, il pluralismo e l’interesse dei cittadini e quindi «un’eventuale mia partecipazione alle primarie non sarebbe una spaccatura ma un arricchimento. Ben altre sono le divisioni che non vuole la nostra base». Bersani, pur non sciogliendo ancora la riserva se candidarsi o no, potrebbe anticipare la sua idea di Pd domani, in occasione della riunione dei giovani parlamentari e segretari regionali e di federazione dei Ds.
Alessandro Capponi
25 giugno 2007
da corriere.it
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