Mario LAVIA.

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Opinioni

Mario Lavia @mariolavia  · 16 giugno 2017

M5S nuova Dc? Il colpo di sole di Padellaro
I grillini esprimono molte pulsioni della classica destra italiana

Poiché Antonio Padellaro non solo è un grande giornalista ma un grande giornalista sulla scena dai tempi della Prima Repubblica – era cronista politico del Corriere della Sera – fa particolarmente impressione leggere su Il Dubbio la sua tesi secondo la quale “I MS non sono di destra, semmai più simili alla Dc”.

L’analisi politologica dell’ex direttore del Fatto è che “per vocazione tendono a occupare uno spazio che durante la Prima Repubblica fu occupato dalla Dc e dal ’94 da Forza Italia”.

Il punto, al di là delle apparenze di tipo geometrico, sta tutto qui: mentre il grillismo si nutre di sottocultura antiparlamentare alimentata dalla protesta (il populismo 2.0), dalla artefazione della realtà tramite strumenti vecchi e soprattutto nuovi (il web, dal giustizialismo, dalla a-democraticità della vita interna, dal rifiuto del dissenso, mentre la Dc espresse una cultura imperniata sulla capacità di mediare fra spinte diverse in vista di soluzioni di governo. L’abbiamo detta in due parole – ci si perdoni – ma la differenza è abissale.

Pensiamo che il Movimento di Grillo e Di Maio abbia chiare connotazioni di destra. Che sia attraversato da pulsioni (abbiamo citato l’antiparlamentarismo e più in generale il disprezzo verso la democrazia dei partiti democratici) che rientrano a pieno titolo nel bagaglio della storia della destra italiana. C’è anche un tratto violento – nel linguaggio, negli atteggiamenti dei leader, nella volgarità dei suoi aderenti – che non ricorda nulla di bello.

E certo non basta dirsi né di destra né di sinistra per porsi automaticamente al centro: altrimenti anche certi gruppi fascisti sarebbero centristi. E soprattutto essere di centro non significa scegliere una volta una cosa una volta l’altra, una volta con gli immigrati (Raggi 1) una volta contro gli immigrati (Raggi 2): quello è, nella migliore delle ipotesi, tatticismo. Nel peggiore (come nel caso citato), si chiama opportunismo.

Lo stesso Padellaro se ne rende conto e infatti a un certo punto dice una cosa diversa da quella detta poco prima: “Il M5S sta usando l’immigrazione come un taxi su cui salire per arrivare un po’ più avanti nei sondaggi. Quando non funzionerà più scenderanno”.

Ecco, appunto. Scusate la volgarità, ma che minchia c’entra la Dc con tutto questo?

Da - http://www.unita.tv/opinioni/m5s-nuova-dc-grillo-fatto-colpo-di-sole-di-padellar/

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Opinioni
Mario Lavia @mariolavia  · 9 giugno 2017

Caro Serra, la situazione è chiara: ecco cosa succederà
Si voterà nel 2018 col Consultellum: e forse non è un male…

 
Con l’abituale autoironia, Michele Serra scrive nella sua Amaca: “Dopo 40 anni che scrivo sui giornali, non sono capace di commentare la giornata di ieri”. Chi ne fosse capace – prosegue – può “spedire il suo articolo alla giuria selezionatrice del Pulitzer”. Fantastico.

Noi siamo certi che Michele Serra, al di là del paradosso, abbia ben compreso cosa sia successo alla Camera e cosa succederà adesso. Ma siccome lo prendiamo sul serio, spediamo questo articolo alla giuria del premio Pulitzer, hai visto mai…

E dunque, ecco cinque cose che crediamo di aver capito.

1. Il patto sul tedeschelum è saltato. Lasciamo qui perdere di chi sia la colpa (per chi scrive, di un Grillo impaurito dalla sua stessa svolta politicista). Ma alla fin fine, nessuno si sta strappando i capelli. Era una legge che in fondo non eccitava nessuno (tranne Berlusconi). Che grazie alla demagogia pecoreccia di social e talk dava l’idea di un inciucione. Che non avrebbe dato un governo coeso al Paese. Si è infine chiarito che il M5s è un tantinello ondivago, e che non esiste un’intesa Pd-Berlusconi.

2. Probabile che ci risparmieremo mesi di manfrine e finte trattative su una nuova legge elettorale. Rimarrà agli atti che l’unico partito che vuole un sistema che dia ragionevolmente un governo (cioè il maggioritario) è il Pd: ma è roba per la prossima legislatura, ormai. Infatti in primavera si voterà con il Consultellum – che è un proporzionale – che di positivo ha il fatto di fissare esplicitamente il traguardo del 40% per avere la maggioranza assoluta. Un obiettivo difficilissimo per tutti ma per il Pd non impossibile.

3. Il Pd si sta voltando alla sua sinistra, non per rifare una coalizione organica ma un’alleanza elettorale. L’interlocutore di Renzi è Pisapia, che è una persona molto seria e pensosa degli interessi della sinistra e dell’Italia (le due cose vanno insieme, come ci hanno insegnato decenni fa). La sinistra deve dunque scegliere se allearsi con Renzi o battersi contro di lui: Pisapia sembra sulla prima posizione, Massimo D’Alema sulla seconda.

4. Parallelamente sarebbe utile se i famosi moderati decidessero cosa fare da grandi. Dopo tanti fallimenti – da Casini a Fini, da Monti a Alfano – sarebbe l’occasione per fare punto e a capo e puntare a darsi una nuova fisionomia autonoma in grado di superare lo zerovirgolaqualcosa cui sono abituati.

5. C’è tempo per il Pd di organizzarsi meglio, sul territorio, sul web, ovunque. Renzi si può liberare dall’assillo delle elezioni presto, tanto si voterà nella primavera del 2018 (è chiaro che i parlamentari escogiteranno di tutto pur di non farsi mandare a casa). Un tempo prezioso per il governo Gentiloni di concludere la sua azione di governo riformista e di portare il Paese alle urne quando la legislatura sarà esaurita. Ci sono dunque diversi mesi per recuperare in pieno la famosa “vocazione maggioritaria”, recuperare un forte spirito di squadra e presentarsi come il partito delle riforme contro il partito dell’avventura o della conservazione.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/caro-serra-la-situazione-e-chiara-ecco-cosa-succedera/

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Focus

Mario Lavia  -  @mariolavia
· 17 giugno 2017

Italia 2017: anatomia di un colpo di Stato
Scafarto, le indagini manomesse, i punti oscuri

“Nel marzo del 2017 in Italia venne perpetrato un colpo di Stato“: scriveranno così i libri di storia sui quali studieranno i nostri nipoti. Sarà un capitolo importante della recente storia italiana nel quale si racconterà di un tentativo di rovesciare il governo del Paese in quel momento presieduto da Matteo Renzi.

Mentre ne scriviamo oggi naturalmente non sappiamo i nomi dei burattinai del tentato golpe, e nemmeno ne conosciamo a fondo dettagli, personaggi, conseguenze.

Nulla al momento sappiamo dell’esito dell’inchiesta Consip, entro la quale il tentativo prese corpo. Non avendo accesso a fonti dirette né essendo abituati a svuotare i cestini dell’immondizia delle Procure, ci affidiamo alle cronache, quelle condotte da cronisti ad alto tasso di professionalità, quelli che non hanno bisogno di scooppettini per vendere qualche copia dell’house organ delle procure diretto da Travaglio giornale o un po’ di libri di Lillo in più.

A noi pare una vicenda piena di cose strane, ma questo non conta nulla: per fortuna indaga una delle migliori Procure d’Italia, quella di Roma, subentrata a degli inquirenti su cui sta indagando il Csm.

Però sappiamo per certo che nell’anno di grazia 2017 in Italia c’è qualcuno che ha lavorato scientemente per colpire il presidente del Consiglio, il governo, il suo partito. Un golpe non deve essere necessariamente armi in pugno, occupazione della televisione e dei posti chiave della Capitale. Si può fare anche manomettendo atti giudiziari.

Andiamo al nocciolo. Al caso-Scafarto. Una storia di ordinario depistaggio, intricata trama di veleni, gerarchie, sottomissioni, millantato credito.

Scrive Claudia Fusani sul suo blog: “A questi che sono i filoni storici s’è aggiunta negli ultimi mesi l’indagine su chi ha fatto le indagini: il nucleo del Noe dei carabinieri a cui a fine febbraio è stata tolta l’indagine. In questo ambito sono indagati il capitano Gianpaolo Scafarto (falso documentale e ideologico) e il suo capo numero 2, il colonnello Alessandro Sessa, questa volta per depistaggio. La chat del gruppo di Scafarto acquisita su Whatsapp e i riscontri con sottufficiali impegnati nelle indagini già sentiti dai pm romani, raccontano, secondo l’accusa, di un’inchiesta che a un certo punto avrebbe lasciato da parte i fatti per inseguire un obiettivo politico, e cioè inguaiare Renzi Sr. Con inevitabili conseguenze sul figlio, all’epoca ancora premier”.

Punire il padre per educare il figlio: pochi dubbi su questo. Renzi figlio, chiaramente più politicamente smaliziato di Tiziano, intuisce la trappola e si sfoga duramente col padre in una telefonata intercettata non si sa quanto legalmente e pubblicata illegalmente dal Fatto di Marco Travaglio e contenuta nell’ultima opera di Marco Lillo.

Il tentato colpo di Stato teso a mettere in crisi il governo Renzi tramite la fabbricazione di false prove ruota, come detto, intorno alla figura di Gianpaolo Scafarto, capitano del Noe, che è il braccio investigativo a disposizione della Procura napoletana dove il pm Henry John Woodcock dirige l’inchiesta Consip (poi passata a Roma per competenza territoriale).

E’ Scafarto, per esempio, che assembla i pezzetti di carta finiti nel cestino dell’imprenditore Alfredo Romeo (tuttora in carcere), quelli con la mitica scritta “T.R.”, il “pizzino” che “incastrerebbe” Tiziano Renzi. Una prima bufala.

E’ Scafarto che accredita la tesi che attribuisce a Romeo la famosa frase su Tiziano in realtà pronunciata da Italo Bocchino.

E’ Scafarto che accredita la bugia sul coinvolgimento dei servizi segreti. Come scrivono Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi su Repubblica, ”il carabiniere scelto Biancu e il brigadiere Locci lo avvisarono tempestivamente che il sospetto che le indagini del reparto sul conto dell’imprenditore napoletano Alfredo Romeo fossero monitorate da uomini dei servizi segreti non solo non aveva fondamento ma, per giunta, era smentito da una prova contraria”.

E’ Scafarto, soprattutto, ad affannarsi non a cercare le prove ma a falsificarle – come ha scritto Annalisa Chirico sul Foglio – “per avvalorare una tesi”. E la “tesi” era semplice, mettere nei guai Tiziano Renzi, fino ad arrestarlo: “Remooo, ascoltala subito (una certa intercettazione-ndr) questo passaggio è vitale per arrestare Tiziano”, come emerge da una ormai leggendaria chat.

Ma è Scafarto a essere incastrato. “Gli accertamenti fin qui espletati – spiega la Procura di Roma al momento di togliere l’incarico al Noe – hanno evidenziato che le indagini del procedimento a carico dei Alfredo Romeo sono state oggetto di ripetute rivelazioni di notizie coperte da segreto”. Quando gli uomini di Pignatone si trovano davanti Scafarto, vedono un uomo che prima si avvale della facoltà di non rispondere ma poi un po’ nega, un po’ minimizza, un po’ chiama in causa Woodcock.

In effetti, Scafarto chiama in causa un sacco di gente, Woodcock innanzi tutto. Lo “scoop” è di Francesco Grignetti sulla Stampa.

Qui il pezzo di Fiorenza Sarzanini e Fulvio Fiano sul Corriere della Sera.

“Posso aver commesso errori ma non c’è stato dolo”, dice Scafarto ai magistrati romani. Certo, come no. La credibilità dell’uomo del Noe è ormai ridottissima. Ne scrive su Incammino Carmine Fotia.

E noi sul sito Unità.tv chiediamo chi ci sia dietro questo golpe da operetta. E intitoliamo il pezzo “Enough is enough”, ora basta. Speriamo.

Da - http://www.unita.tv/focus/consip-renzi-scafarto-travaglio-colpo-di-stato/

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Focus
Mario Lavia  @mariolavia  · 18 giugno 2017

I “duri” in campo contro Pisapia. Con la manina del lider Maximo
In campo l’anima avversa alla leadership dell’ex sindaco di Milano

La nuova coppia della sinistra italiana – Tomaso Montanari e Anna Falcone – ha promosso un’assemblea per chiamare a raccolta la parte più radicale della galassia a sinistra del Pd, quella, diciamo così, irriducibile ad ogni ipotesi di accordo con il partito di Renzi.

Al Brancaccio di Roma oggi Montanari ha tenuto un discorso che è piaciuto tantissimo a chi era presente. Un manifesto antirenziano in piena regola ma anche un altolà a chi pensa di collaborare con il Pd.

Di Montanari  – uomo molto intelligente, colto, affabulatore (mirabili le sue trasmissioni su Rai5 su Caravaggio) – offrì tempo fa un bel ritratto Marianna Rizzini sul Foglio, sostenendo che il presidente di Libertà e Giustizia (il cenacolo di Zagrebelsky-ndr) ha tutto “per piacere alla meglio gioventù del Pigneto (quartiere off di Roma e base dell’ avanguardia ‘anti’ che legge e cita gli articoli firmati dallo scrittore e giornalista Christian Raimo su Internazionale) e ce n’è abbastanza anche per tramutarsi in idolo della pancia indignata del web, tanto più che il Montanari prof. non governativo è ora anche molto ricercato come consulente culturale presso le nuove giunte grilline o di sinistra-sinistra”.

Politicamente l’indicazione di Montanari e Falcone è chiara: ripartire dal No al referendum del 4 dicembre (i due furono alfieri di quella battaglia): “Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione“, hanno scritto.

E’ dunque una iniziativa che punta a distinguere quest’area da quella di Giuliano Pisapia, che sarà a Piazza Santi Apostoli il 1 luglio con una sua manifestazione. Il discrimine “plastico” – al di là di differenze di analisi – sta esattamente nel No al referendum istituzionale: non a caso Pisapia (e gli viene sempre rimproverato) il 4 dicembre votò Sì.

Ma è evidente che il referendum a questo punto è poco più di un simbolo. Lo scontro vero è sul rapporto con Renzi.

Montanari e Falcone d’altronde sono chiari sul punto: “La leadership di Giuliano Pisapia (il sindaco dell’Expo e un uomo del Sì al referendum costituzionale) è il sigillo di questa ennesima versione del centrismo. E infatti Pisapia continua a predicare la possibilità/necessità di un’intesa col Pd renziano: che per la sinistra-sinistra invece “è indistinguibile da qualunque centro-destra liberista europeo”.

Ergo: il No al referendum significa anche un No alla leadership di Pisapia (se non addirittura al suo diritto di cittadinanza nell’area della sinistra a sinistra del Pd).

L’ex sindaco di Milano infatti è sospettato di “intelligenza col nemico”, fautore – come abbia visto nelle parole di Montanari e Falcone – di una “ennesima versione del centrismo”.

Sembra evidente che Pisapia non condivida (almeno non del tutto) questa analisi che sovrappone il Pd alla destra, con l’obbligata conclusione della primaria necessità di abbattere il leader riformista, giacché l’avvocato milanese ricorda sempre positivamente la collaborazione unitaria del Pd alla sua giunta milanese e non esclude chiude (anzi, lavora per questo) che Renzi sposti a sinistra la sua barra.

Sono due linee diverse, anzi confliggenti. Man mano che passano i giorni in quest’area le posizioni si vanno radicalizzando. E si assiste ad una crescente insofferenza, per esempio, di Sinistra Italiana verso Pisapia e una differenziazione in Mdp, dove la posizione di Massimo D’Alema pone come pregiudiziale la testa di Renzi mentre Pier Luigi Bersani appare pronto ad accettare la leadership di Pisapia.

Su Huffington post, Montanari si era espresso molto criticamente verso Mdp: “E’ diffusa la sensazione di una certa confusione tra mezzi e fini. Come se la principale preoccupazione dei pezzi di sinistra che provano ad unirsi fosse quella di garantire un futuro materiale ai loro apparati. Quasi che l’obiettivo primario sia cercare di andare in Parlamento: e non cercare di capire a cosa servirebbe andarci”.

Per questo il dilemma resta: o D’Alema o Pisapia.

D’Alema – non è un mistero – coltiva da tempo un rapporto speciale con Montanari con il quale si trova d’accordo con una valutazione di fondo: “Renzi non fa più parte della foto di famiglia del riformismo europeo”. Lo spinse per entrare nella giunta Raggi, lo convoca spesso nella prestigiosa sede della fondazione ItalianiEuropei, vede nello storico dell’arte un possibile leader. E anche Anna Falcone si è molto messa in mostra nella campagna anti-referendum, evidenziando, anche lei, una ottima preparazione: un ticket nuovo, affabile, radicale.

L’ex leader dei Ds dunque ha tutto l’interesse a una forte scesa in campo di un motivato gruppo anti-Pisapia. C’è la sua linea dietro l’iniziativa di domenica.

I due intellettuali, che peraltro giurano di non essere candidati a nulla (ma, si sa, esiste una forza delle cose…), dunque il 18 cominceranno a contarsi. Potrebbe uscirne l’ennesima versione di una sinistra minoritaria e identitaria, refrattaria alla prospettiva di governo, esaltata dai (relativi) successi di Mélenchon e Corbyn (dopo la delusione storica di Tsipras): e soprattutto pronta a combattere “derive centriste”. Quella di Renzi? No, quella di Pisapia.

Da - http://www.unita.tv/focus/tomaso-montanari-contro-pisapia-dalema-falcone-sinistra/

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Opinioni
Mario Lavia - @mariolavia
· 29 giugno 2017

Il Grande Congiurato vittima della Grande Congiura
Da Natta a Renzi, la lunga storia delle lotte dalemiane

Al Congresso del Pds del 2000 a Torino – quello dell’I Care di Veltroni – Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, alla fine del suo discorso disse una frase che grosso modo diceva così: “Cari compagni, quando mi accorgerò di non avere più il vostro sostegno, lascerò un minuto prima“. Una frase tanto più significativa in quanto egli lasciò per davvero palazzo Chigi qualche settimana dopo all’indomani di un cattivo risultato elettorale.

Ecco, 17 anni dopo, D’Alema non ha saputo rispettare questa promessa. Non se n’è andato “un minuto prima” ma molti minuti dopo. E’ da marzo infatti che dal partito socialista europeo gli avevano detto di lasciare la mitica Feps (l’associazione delle Fondazioni culturali dei partiti socialisti europei, fra le quali la sua Italianieuropei); e tuttavia lui ha resistito fino all’ultimo, persino proponendo una poco decorosa proroga fino all’autunno (ma che senso avrebbe avuto?) e beccandosi il più plateale dei “no” soprattutto dai rappresentanti italiani.

E però il Nostro l’ha presa molto male. Il problema, secondo D’Alema, sarebbe nel modo in cui è avvenuto un “cambio” che lui stesso si aspettava dopo 7 anni: “E’ stata un’operazione imposta dal partito, dall’esterno, e questa è una pesante violazione dell’indipendenza culturale della Feps”.

Tradotto: una congiura. Una parola magica nella biografia politica dalemiana.

Qualche osservatore di cose della sinistra italiana notò una volta che D’Alema eliminò, o concorse ad eliminare, tutti –  ma proprio tutti! – i capi.

Non solo i capi della sinistra. Il capolavoro tattico dalemiano resterà per sempre la Grandissima Congiura del contro Silvio Berlusconi ideata assieme a volponi come Buttiglione e Bossi davanti a una poco eroica scatola di sardine. Ma in fondo questo era il suo compito. Ma far fuori i leader della sinistra no, quella è un’altra storia.

Il primo fu Alessandro Natta, il segretario del Pci dopo Berlinguer, uomo di grande finezza intellettuale ma politicamente debole, il quale, dopo un serio malore, fu gentilmente persuaso dai giovani D’Alema e Occhetto (quella volta uniti nella lotta) a cedere il passo. Ad Achille Occhetto infatti toccò, e D’Alema ne fu il numero due: e tutti sanno come finì, quel “numero uno” che nel frattempo aveva liquidato il comunismo.

D’Alema segretario, dunque, bypassando il “popolo dei fax” che voleva Veltroni: e fu presto tostissima competition con Romano Prodi, e anche in questo caso sappiamo come finì. Non fu, banalmente, un colpo di mano del segretario dei Ds contro il Professore (altrimenti ci dà dello stupido come è capitato all’amico Marco Damilano) ma una sottile tela tutta politica ordita nei mesi di governo ulivista sempre nel nome del primato del Partito, dei Partiti (remember Gargonza) e nell’auspicio di una più forte guida in senso riformista (remember Clinton&Blair, due fugaci numi dell’universo dalemiano).

D’Alema non amò mai Rutelli né Fassino né “l’amalgama non riuscito” – il Pd veltroniano – tanto che contro Veltroni costruì una piccola macchina da guerra chiamata Red e infine piano piano ciao Veltroni. Di Bersani probabilmente il Nostro pensò che non c’era bisogno di particolari manovre, finché non apparve Renzi, il più odiato: cacciare Renzi divenne un’ossessione. Tutto ciò che fosse utile alla bisogna andava esperito, e dunque via alla scissione, dopo la violentissima campagna per il No al referendum del 4 dicembre.

E’ più forte di lui. Non è solo e tanto una questione di vendetta personale. E’ che siamo d’altronde nel pieno dei grandi romanzi politici, di cui le lotte interne costituiscono i capitoli più intriganti. E feroci. Quando la politica diventa davvero lo scontro corna contro corna, come i cervi.

Nel suo personale cahier des doléances, nel “diario intimo” dei suoi rancori, oggi Massimo D’Alema – ex enfant prodige, ex segretario, ex premier – annota l’ultima, a suo dire, Grande Congiura, l’estromissione dalla guida della Feps, ultima casamatta di un qualche pregio: a lui, il Grande Congiurato di almeno due decenni di vita della sinistra italiana, si attaglia in questa torrida estate l’antico motto di un grande vecchio del Pci che lo conosceva bene, Aldo Tortorella: “D’Alema? E’ rimasto vittima delle sue macchinazioni”.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/dalema-feps-prodi-veltroni-renzi-il-grande-congiurato-vittima-della-grande-congiura/

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