Mario LAVIA.
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Opinioni
Mario Lavia - @mariolavia
· 7 marzo 2017
Renzi, il premier deve essere il leader del partito. Orlando: no, separare i ruoli
L’ex leader riafferma la coincidenza di leadership e premiership, Orlando le separa
Il “nuovo” Renzi riprende il “vecchio” Renzi su un punto qualificante e addirittura preliminare a tutto il resto: il Pd conferma la sua vocazione maggioritaria, si candida a guidare il Paese e anzi candida il suo leader a palazzo Chigi. Sembra una cosa da poco. E invece, nell’Italia post 4 dicembre battuta dal vento proporzionalista, si tratta di idee controcorrente. E innovative, di fronte alla restaurazione del vecchio.
La presa di posizione di Renzi nella sua mozione congressuale è netta: “Analogamente a quanto accade in tutte le democrazie parlamentari, anche in quelle basate sui sistemi proporzionali, crediamo che la leadership che si propone per il governo del Paese debba essere la stessa che guida il partito”. Coincidenza fra leadership e premiership, come disegnata da Veltroni all’atto di nascita del Pd.
Così, l’ex premier ripropone il percorso che egli stesso seguì: conquista della premiership del partito con le primarie e conquista della premiership (con una manovra interna nel 2014, con le elezioni nel 2018).
Andrea Orlando e Michele Emiliano, nel momento stesso in cui escludono che il segretario del Pd venga indicato come leader di governo, vanno una direzione opposta.
Sulla mozione di Orlando si legge infatti: “È giunto il momento di riaffermare la distinzione tra partito e governo, che non è una questione organizzativa, è una scelta politica. Non solo per senso del limite. È una condizione per tornare a vincere, in un contesto politico e istituzionale mutato rispetto a quello bipolare e maggioritario in cui immaginammo le nostre regole. È il segno di aver colto la lezione della sconfitta del 4 dicembre: un partito nei fatti ‘assorbito’ nel governo non è stato in grado di coinvolgere la società e nemmeno di comunicare. Da tutto questo deriva la necessità di distinzione delle figure del candidato premier e del segretario del partito per testimoniare un modo di concepire la politica e un impegno nei confronti della nostra comunità. Il partito non è un comitato elettorale permanente”.
Peraltro sia il prima che il secondo hanno ormai aderito – non si quanto per convinzione, quanto per rassegnazione – all’ipotesi del ritorno al proporzionale, o meglio, all’idea della coalizione. Il recupero del cosiddetto “ulivismo” da parte loro allude alla necessità di formare un cartello, non importa quanto frazionato, in grado di essere competitivo per la vittoria finale, mandando poi al palazzo Chigi non necessariamente – anzi – il capo del partito più forte.
Di qui anche una profonda differenza fra Renzi e gli altri sul rapporto fra Pd e Mdp. Mentre per il primo si tratta di una rottura incomponibile e in ultima analisi quasi fisiologica, per i secondi è un accidente momentaneo in vista, se non di una ricomposizione organica, almeno di un’intesa forte di governo.
Insomma, per Renzi resta fermo il principio che deve animare la legge elettorale: garantire ai cittadini il potere di nominare non solo chi li rappresenta in Parlamento ma anche chi li governa. E’ un punto fondante dell’identità del partito nato nel 2008 che giustifica la costruzione di un partito fondato sul leader e sulle primarie che ne costituiscono la fonte di legittimazione (senza vocazione maggioritaria le primarie non hanno senso).
La novità semmai è nel superamento della leadership solitaria. Per la prima volta, a Otto e mezzo (la frase è passata inosservata perché l’attenzione di tutti era sul caso-Consip e il coinvolgimento di suo padre) Renzi ha parlato di “squadra”, una “squadra” di cui naturalmente egli si sente il “capitano”: e aver istituito un “ticket” con Maurizio Martina ne è certamente una spia.
D’altra parte, da molte parti Renzi viene invitato ad essere non più solo leader di un gruppo di sodali – il famoso Giglio magico e dintorni. Lo hanno fatto Beppe Sala e Sergio Chiamparino (renziano della prima ora, si badi) mentre anche una sostenitrice di Orlando come Anna Finocchiaro critica il ritorno al proporzionale e si augura “la ricostruzione di un soggetto politico, di un partito”, e da Areadem non contano le pressioni per una leadership che tenga conto della complessità del partito. Per esempio, Marina Sereni ha scritto due giorni fa che “l’esperienza di questi anni ha troppo spesso rimandato l’immagine di una forte leadership, fatto in sé positivo, poco disposta tuttavia all’ascolto”.
Ovvio che tutti questi appelli insistano in una situazione di debolezza dell’ex premier e che siano mosse da naturali e legittime istante di protagonismo.
Renzi lo sa e capisce che deve tenere conto di una situazione nella quale ha bisogno di altri: e nel frattempo – e forse proprio per questo – riafferma in un documento congressuale per il quale chiede i voti di iscritti e elettori la forza della leadership e la sua coincidenza con la premiership. Come a voler dire: terrò conto di tutti, ma il leader per il partito e per l’Italia resto io. E non c’è dubbio che una sua vittoria congressuale fermerebbe il vento proporzionalista che soffia sulla politica italiana, facendo ri-andare l’orologio dell’innovazione istituzionale.
Solo i fatti diranno se questa “novità nella continuità” sarà risultata vincente ma l’impressione – solo un’impressione – è che Matteo Renzi abbia ricominciato a dare le carte.
Da - http://www.unita.tv/opinioni/renzi-aggiusta-la-strategia-la-squadra-dentro-la-vocazione-maggioritaria/
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Focus
Mario Lavia - @mariolavia
· 12 marzo 2017
Lo squadrone della sinistra in questo lungo weekend
La svolta del Lingotto: il Pd si riconnette ai cento fiori d Veltroni
Si scherza. Ma non poi tanto. Perché si è capito – anche con una certa sorpresa – che il Pd “largo” non è più il Pd di Matteo Renzi e basta. Matteo Renzi ha scelto (per necessità? Per tardiva convinzione?) di virare: verso il partito-comunità – dizione di matrice cattolica – o se si vuole verso il partito plurale – dizione più laica. Solo giornalisti frettolosi possono scrivere che “non c’è la notizia” e non vedere che siamo entrati nel post-4 dicembre. È più preoccupante che non lo colga Michele Emiliano, che in questo nuovo quadro rischia di apparire come un solitario giustiziere della notte.
Ci si riavvicina dunque al Pd dei cento fiori di ispirazione veltroniana, meno caserma e più aperto alla società; ed è un gran risarcimento morale e politico per Walter Veltroni il teorizzare oggi quello che lui teorizzò dieci anni fa. (E sarebbe l’ora di chiamarlo, Veltroni, non a cariche burocratiche o onorarie, ma per chiedergli semplicemente di fare quello che lui vorrebbe e saprebbe fare. Esempio: perché non dargli carta bianca per costruire un nuovo rapporto con la cultura, con gli intellettuali che finalmente al Lingotto sono apparsi in carne e ossa – Magatti, Fabbrini, Vacca, Recalcati?).
Già, perché ci si è accorti che bisogna rifare i conti con l’egemonia, perché, come ha ammonito Panebianco e come sappiamo tutti per esperienza di vita, è proprio questo il terreno su cui stanno vincendo le due destre, grillini e sovranisti. E non basterà la piattaforma Bob e la Frattocchie 2.0 (così come non bastava la Frattocchie 1.0). Eppure il ritorno di una “questione degli intellettuali” chiamati non a suonare il piffero della rivoluzione ma a farsi carico della salvezza della democrazia è una buona notizia, specie se seguiranno i fatti.
Renzi dunque non è più il capo del Giglio magico ma si candida a leader di un partito complesso. Un partito che nel suo gruppo dirigente reale è già cambiato: Maurizio Martina ne è l’emblema. Incarna il renzismo dal volto umano – se si passa un po’ d’ironia – consapevole delle radici ma da quelle radici ormai lontano. Vengono avanti “esperti” come Tommaso Nannicini, il regista del Lingotto, o grandi figure “sociali” come Teresa Bellanova; viene fuori l’enorme popolarità di Paolo Gentiloni, la stima per Marco Minniti, l’energia di Matteo Richetti. E di tanti altri.
Ora, se – come insegnava Paolo Spriano – la storia di un partito è la storia dei suoi gruppi dirigenti, c’è da concluderne che il Lingotto 17 stata una po’ una svolta proprio perché c’è in campo una nuova tensione unitaria nel nuovo gruppo dirigente, che si innesta e non scalza il vecchio: quello che si sintetizza con la frase che si è passati dall’io al noi.
Si è spostato a sinistra, il Pd del Lingotto? Sì, ma è anche un’illusione ottica. Nel senso che il Pd del Lingotto di Veltroni era molto di sinistra, malgrado una certa vulgata gruppettara e radical chic dicesse il contrario: come se rifarsi a Palme e a Bobbio fosse un cedimento e non un inveramento dei grandi valori di progresso e del liberalismo democratico. Guarda alla sua sinistra, Renzi? E certo, dove dovrebbe guardare? È lì che si agita un pensiero, è lì che s lavora alle idee. Non certo da Casini e nemmeno da Alfano. Il Campo progressista di Giuliano Pisapia in questo senso è un laboratorio interessante, soprattutto perché trae linfa da concrete esperienze di governo (Milano, Cagliari, Bologna, il Lazio) e non per caratterizzarsi come una ridotta minoritaria e malmostosa, come purtroppo appare il partitino degli scissionisti e quello che resta di Sel.
Ascoltando Nicola Zingaretti e Andrea Orlando all’Eliseo di Roma non si percepivano francamente grandissime distanze da quello che contemporaneamente si stava dicendo a Torino. E non è solo per la mitezza di Orlando e per il suo ragionare serio e pacato: è che l’Eliseo e il Lingotto non sono due luoghi della politica alternativi, e neppure complementari. Possono benissimo andare insieme, una volta corretto quello che Renzi sta già correggendo.
C’è una sola vera differenza strategica fra Renzi e Orlando. Renzi non si rassegna alla logica proporzionale che soffia sull’Italia, Orlando sì. Per cui, il primo ragiona dentro la cornice della vocazione maggioritaria, l’altro è già nell’idea del cartello elettorale di sinistra. Ma i due convergono su un punto, che bisogna sempre più pensare a un campo largo, se si vuole arginare la rabbia che gonfia le vele delle due destre, il M5S e la destra sovranista, e riprendere il discorso delle grandi riforme, che in fondo sono l’unica ragione per cui la parola “sinistra” oggi ha un senso forte.
Da - http://www.unita.tv/focus/lo-squadrone-della-sinistra-in-questo-lungo-weekend/
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Opinioni
Mario Lavia - @mariolavia
· 22 marzo 2017
L’ultimo intellettuale-politico
Reichlin fu sempre alla ricerca del rinnovamento della sinistra
Il fascino che Alfredo Reichlin ha esercitato su generazioni di comunisti italiani stava nel suo complesso e sofferto ragionare. Un intellettuale, Reichlin, più che un politico d’azione – sebbene basti leggere la sua biografia per capire che fu anche dirigente di prima fila.
Ma insomma quello che voglio dire è che quando sentivi Reichlin ne uscivi immancabilmente diverso da come eri entrato. Fino all’ultimo, ragionò arrovellandosi su come restituire fascino e sostanza alla sinistra, quella sinistra di marca Pci che faceva tutt’uno con la sua vita.
Il comunismo italiano ha avuto in Reichlin un esempio alto e persino raro: di formazione togliattiana, di sostanza ingraiana, leale ma non aderente al berlinguerismo, e negli ultimi anni, cadute le certezze e i muri, sempre alla ricerca di qualcosa che, va detto, non trovò: non fu veltroniano pur attendendosene frutti positivi, non fu renziano pur intuendo che lì dentro c’era qualcosa di sensato.
Cos’era il Pd per un uomo come lui? Difficile dirlo. “E meno male che lo abbiamo fatto, il Pd”, ci disse il giorno dopo la sconfitta del Pd di Veltroni nel 2013. Per aggiungere subito dopo: “Avessi 40 anni lo farei io il PD!”. Voleva dire che l’operazione di fondo era giusta, un avanzamento nel solco della storia del riformismo italiano, ma che non era ancora, il Pd, un attore della Storia in senso gramsciano, capace cioè di rappresentare i bisogni delle classi subalterno in vista del governo dell’Italia.
Era, come dire, pessimista della ragione. Gli mancava la forza di un Togliatti, di un Ingrao, di un Berlinguer ma anche di un Lombardi, di un Moro, di un La Malfa. Inutile, era scomparso il suo mondo. Eppure fino alla fine scrisse, sulla sua Unità, che qualcosa si poteva e si doveva fare per sbarrare la strada ai mostri di questo tempo. Coltiviamo, immagino che avrà letto molto fino all’ultimo, che avrà cercato ancora.
Ecco l’ansia della ricerca, la contezza degli errori commessi, quel senso di inadeguatezza del presente e di provvisorietà della politica, il tutto unito a una forza intellettuale rara e, anche, a una arguzia tutta “romana”: questo e molto altro fu Alfredo Reichlin, grande direttore dell’Unità e ultimo esempio di una lunga storia che oggi è un po’ più lontana.
Da - http://www.unita.tv/opinioni/lultimo-intellettuale-politico/
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Focus
Mario Lavia - @mariolavia
· 21 marzo 2017
La cruda analisi di McEwan e il possibile vento anti-Trump in Europa
Dopo l’Olanda, le speranza in Francia e in Germania: ed ecco che il vento può cambiare
Nel suo ultimo, bellissimo romanzo – “Nel guscio” – Ian McEwan scrive una mezza paginetta lucidissima, dolorosissima, sul nostro presente. “La libertà di parola non è più garantita. La democrazia liberale non è più l’ovvio porto di destinazione. Robot che rubano posti di lavoro. La libertà individuale in rotta di collisione con la sicurezza. Il socialismo è in disgrazia. Il capitalismo corrotto, rovinoso e non meno in disgrazia. Nessuna alternativa in vista (…)”.
“Abbiamo costruito un mondo – prosegue McEwan – troppo pericoloso e complesso per poterlo governare con il nostro temperamento attaccabrighe. Si fa sera in questa seconda Età della Ragione. Siamo stati magnifici, ma ormai è finita”.
Sembra – forse è – proprio così. La vittoria di Donald Trump nel più grande paese democratico del mondo segna un prima e un poi. Nella vecchia Europa si subiscono pericolosi contraccolpi della crisi della democrazia del benessere in atto dal 1945: e dunque populismo, sovranismo, xenofobia; e povertà crescente, insicurezza, terrorismo, tensioni di ogni tipo. “Il socialismo è in disgrazia”, dice McEwan: e questo in un certo senso era noto da tempo. Ma che “la democrazia liberale” non sia più “l’ovvio porto” della nostra civiltà europea, questo sì fa male anche solo a dirsi.
E’ dunque tutto finito? No, dice più avanti lo stesso protagonista del romanzo di McEwan: l’Europa e il suo benessere, l’informazione e la tecnologia, le medicine e la cultura ci sono ancora. Politicamente – ci chiediamo – non siamo forse all’alba della costruzione di argini alla Grande regressione di inizio millennio?
Sembra infatti di essere in bilico. “Loro” non sono ancora passati, ma non sono nemmeno sbaragliati. Trump, la Brexit, l’involuzione dell’Europa dell’Est: tutte cose enormi che sono lì, a far da corona al putinismo, a Erdogan, alla mostruosa innovazione cinese… Eppure.
Eppure in Olanda l’onda nera è stata fermata, anche se non è tutto rosa e fiori, come spieghiamo qui. Ha scritto Walter Veltroni: “Vivo entusiasmo ha destato il risultato delle elezioni olandesi. I populisti xenofobi di Wilders non hanno avuto il successo atteso. Sono cresciuti ancora, ma sembra esserci un invisibile tetto di cristallo che ne contiene l’espansione, almeno in un’Olanda in cui l’immigrazione cala e il Pil cresce. Ma il motivo di soddisfazione, pur rilevante, è davvero solo quello. Per il resto va registrata la vittoria di un partito di destra, non certo filo europeo, che ha, per contenere, i populisti, rafforzato oltremodo la sua linea critica verso l’Unione europea”.
E ora tocca alla Francia. Dopo secoli, la Francia torna ad essere il termometro europeo: è lì che si vedrà se la febbre è finalmente scesa. E lì che si deciderà se l’Europa è solo un’espressione geografica oppure un qualcosa di politicamente vitale.
Ieri sera sulla principale rete francese è andato in onda Le grand débat, lo scontro fra i cinque candidati più forti: François Fillon (repubblicano, ex gollista), Emmanuel Macron (indipendente, ex ministro socialista), Marine Le Pen (Front National), Benoit Hamon (socialista), Jean-Pierre Melenchon (estrema sinistra).
Un dibattito molto ricco che – stando alle impressioni dei più importanti organi d’informazione francesi – ha segnalato una buona performance di Macron (sempre premiato dai sondaggi), una prestazione abbastanza buona del chiacchierato Fillon, una prova non entusiasmante di Marine Le Pen, una prestazione così così di Hamon e una performance brillante sotto il punto di vista comunicativo di Melenchon.
Tutti i sondaggi ormai vedono al ballottaggio Macron e Le Pen, una sfida che assomiglia ad uno scontro di civiltà. Eccoli ieri sera faccia a faccia.
Peccato che la Rai non abbia trovato il modo di far vedere questo importante dibattito, o almeno una sua sintesi, al pubblico italiano. E nemmeno La7, sempre così lesta ad arrivare dove gli altri non arrivano. Ovviamente, neppure Sky in chiaro.
Peccato perché le elezioni francesi sono uno spartiacque per l’Europa: dal prossimo maggio francese può partire una prima reazione al vento trumpista.
E il voto di Parigi è in un certo senso molto significativo per l’Italia, giacché anche qui, come in Francia, la partita è fra un progetto modernizzatore di riforme (Macron) e la chiusura nazionalista e reazionaria (Le Pen). Insomma, il clivage francese somiglia, mutatis mutandis, a quello italiano. Anche da noi inoltre si assiste ad una seria difficoltà di una destra “repubblicana” ed europeista – che fine ha fatto il “montismo”, che pensa di fare Forza Italia? – e al declino della sinistra socialista classica (il partito di Mitterrand che non va al secondo turno è il segno di una crisi storica, non occasionale come quella del 2002 quando Lionel Jospin non passò il primo turno).
La sinistra, già. In difficoltà ovunque: ai minimi termini in Spagna, Olanda, Francia, Gran Bretagna, Grecia, laddove cioè si è intestardita a replicare se stessa, più o meno. In difficoltà ma tutt’altro che spacciata in Italia – governata da un Pd ancora forte, mentre alla sua sinistra c’è vita, sebbene confusa. In piena corsa in Germania, alla vigilia delle cruciale elezioni del 24 settembre, con Martin Schulz che ha rinnovato l’immagine un po’ polverosa di una Spd col fiatone dopo anni di Grossa coalizione con Angela Merkel. Quella che appare oggi è una Spd arci-europeista e modernizzante, non più il partitone rosso e operaio (che già comunque era molto avanti, quello di Brandt e Schmidt, che aveva già fatto il gran salto riformista con Schroeder), che punta a battere l’avversario del partito popolare europeo: una Spd rinvigorita da un candidato che, come vogliono prassi e logica, è stato subito eletto leader del partito.
In conclusione. Lo stop olandese; la possibile vittoria del socialismo liberale di Macron; la possibile vittoria di una Spd moderna; ecco che l’Europa può reagire spinta da una sinistra liberale e rinnovata, magari in concomitanza con le prime difficoltà del presidente americano. Ecco che il vento può di nuovo cambiare, almeno un po’. E smentire Ian McEwan.
Da - http://www.unita.tv/focus/la-cruda-analisi-di-mcewan-e-il-possibile-vento-anti-trump-in-europa/
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Mario Lavia @mariolavia · 20 maggio 2017
Il travaglismo malattia infantile del giornalismo
Emerge la sostanza reazionaria del direttore del Fatto quotidiano
Lo “scoop” gli ha dato alla testa. Il Fatto sta diventando preda di un misto di parossismo, mania di persecuzione, fanatismo, arroganza e presunzione che non è esattamente un cocktail degno di serio strumento d’informazione. Ed è un peccato. Perché tra l’altro questa bevanda malefica conduce ad una regressione all’infanzia, al piagnisteo, al considerarsi vittime dei bambini più grandi. E così un giornale di battaglia sta diventando un distillato di nevrastenia. Un manualetto di liste di proscrizione, di fotografie dei “cattivi”, di propaganda anche un pochino volgarotta e guardona. Peccato – ancora una volta- perché non gli mancano giornalisti colti, intelligenti, purtroppo sovrastati dai famosi “segugi”, quelli degli “scoop”.
E’ un peccato, perché qui pensiamo che il giornalismo di battaglia, quello che non si riduce a fare gli scherzetti telefonici e le pernacchie, è un bel giornalismo. E che il giornalismo deve “prendere parte” in nome di quelli che si ritengono gli interessi dei cittadini e del Paese. Pensiamo che la dialettica, e la polemica, fra giornali e giornalisti sia un un elemento di vivacità intellettuale e di democrazia.
Ma qui più che di vivacità si tratta di sputtanamento. All’analisi è stato sostituito lo sberleffo. Parafrasando Lenin, l’estremismo di Travaglio è la malattia infantile del giornalismo.
Il problema è che il direttore e i suoi colleghi (che in questi giorni sono tutti su di giri, come punti dalla tarantola travagliesca che inocula evidentemente il liquido dell’arroganza) stanno dimostrando come mai prima d’ora la sostanza reazionaria del loro pensiero.
Travaglio è l’ultimo rampollo di una ideologia paurosamente antimoderna, autoritaria, antilibertaria. Nel suo mondo non c’è spazio per la pluralità delle idee, non c’è l’aria della libertà. E’ una cultura che promana dalla peggiore interpretazione del giacobinismo che intimamamente esclude il gioco fra fazioni diverse, il pluralismo e la tolleranza. C’erano solo loro, i giacobini, in nome e per contro del Popolo. Tutto si poteva fare, con quel mandato popolare (presunto). Sta qui la radice del totalitarismo contemporaneo.
Non c’è democrazia, nel cielo del Fatto. Solo sospetti, inquisizione, denigrazioni, complotti. “Tutti possono essere intercettati”, ha detto Travaglio in un dibattito televisivo dov’ero presente. Come nella Germania Est de Le vite degli altri, dove lo spione della famigerata Stasi ascoltava tutti. E in effetti il direttore del Fatto non avrebbe sfigurato negli anni bui del Terrore staliniano, “quadro” della Gpu, pronto a mettere in croce non i dissidenti ma quelli che – forse! – erano amici o parenti di possibili dissidenti… Lo Stato di Travaglio – e del suo faro morale Piercamillo Davigo – è lo Stato dell’ordine, della disciplina e dei codici. Non c’è speranza, non c’è salvezza. Una Repubblica Giudiziaria inquietante, uno Stato etico dei Gran Sacerdoti della morale di regime.
Nel travaglismo c’è dunque molto di culturale – giacobinismo, Restaurazione, stalinismo – e qualcosa di religioso – la Missione mistica di ripulire il mondo che egli si è autoassegnato e che alimenta a dismisura la sua vis polemica. E c’è – legittimamente – qualcosa di più prosaico, vendere copie, vendere libri… La Chiesa ha bisogno di carburante, no?
Sotto quest’ultimo aspetto Travaglio è stato bravo. Il Fatto è un giornale con buoni guadagni, dicono loro; il sito (diretto dal “rivale” Peter Gomez – un ben diverso approccio alla realtà, un altro spessore) va benissimo; pubblicazioni, libri, spettacoli, corsi; è un ottimo network con addentellati con la rete di Cairo (una bella rete, sia chiaro) e qualche influenza sui alcuni giornalisti: tutto bene, tutto lecito. Non è chiarissimo se gli riuscirà la “connection” politico-culturale con il M5S: l’impressione è che Travaglio non abbia voglia di imbarcarsi direttamente in politica, o forse è Grillo che non lo vuole fra i piedi, non sapremmo dire.
Sul grande “scoop” di Marco Lillo (non si capisce perché egli sia così eccitato in questi giorni, consiglieremmo maggiore aplomb anche se si comprende lo stress di vendere il libro: si è portato le copie persino in sala stampa al Foro Italico per gli Internazionali di tennis, su…) diciamo qui poche cose.
Di per sé non è un attacco alla democrazia: non è piazza Fontana o la P2. E’ piuttosto un attacco politico, come ci siamo permessi di dire davanti a Travaglio, e lui si è offeso. Un attacco politico a base di brogliacci, mezze rivelazioni, ma non è questo il punto. I giornalisti pubblicano quello che ritengono giusto pubblicare; il problema vero è che la magistratura è diventata un colabrodo, nel senso che pezzi di magistratura passano a giornali amici quello che vogliono in un circuito interessato e velenoso: politico, appunto.
Difficile (impossibile?) trovare rimedi. E’ possibile che la Storia dia ragione a Travaglio quando dice che nell’era di Internet come si fa a bloccare il flusso delle notizie. In attesa del verdetto finale, però, la legge andrebbe applicata. Soprattutto, ripetiamo, da chi amministra la legge, la magistratura.
Intanto i giorni dello “scoop” si vanno esaurendo – la gente in fondo ha altro da fare e la politica pure – e trascolorano in un mezzo disastro per i nostri eroi.
L‘inchiesta Consip – boh – vedremo come va a finire ma non sembra che siamo in presenza dell’Affaire Dreyfus che mutò il volto della Francia. I magistrati amici del Fatto sono oggetto di un’inchiesta. Il Csm è preoccupato. E dal punto di vista dei giornali, l’isolamento di Travaglio è evidente: e non perché ci sia il regime ma perché, ancora una volta, le grida manzoniane del direttore non sembrano supportate dalla realtà dei fatti. Coma sempre, c’è sempre qualcosa che non quadra, nelle sue campagne.
Qualche esempio al volo. Il caso di Vasco Errani. Il Fatto vi dedica pagine e pagine e nel novembre 2013 arriva addirittura a scrivere “10 buoni motivi per dimettersi”. Lui si dimette. Alla fine, Errani è assolto.
Ilaria Capua: Il Fatto nel 2014 intitola “Parlamento, commissioni a delinquere: 1 poltrona su 10 a condannati e indagati” e “Insegnanti, le oziosità di Ilaria Capua e i vecchi ritornelli”. Lei si dimette. Risultato finale: archiviata.
Raffaella Paita, siamo al 2015 ed ecco che il giornale di Travaglio scrive: “Regionali 2015, il sistema Paita delle erogazioni liberali che piace alle aziende”, oppure “Renzi e Bagnasco resteranno invischiati nella vicenda Paita?”. Lei perde le elezioni regionali in Liguria, anche a causa di questa vicenda. Risultato: assolta.
Pierluigi Boschi, il padre dell’ex ministra per le riforme sembra al Fatto proprietario di Banca Etruria, tanto da titolare: “Banca Etruria, il tesoro di Pierluigi Boschi che rischia di essere pignorato”. Dopo articoli e articoli diffamatori arrivano anche a scrivere: “Pierluigi Boschi, il socio legato alla ‘ndrangheta e le accuse (archiviate) di turbativa d’asta ed estorsione”. Risultato: archiviato.
Federica Guidi, l’ex ministra viene intercettata e tutto viene pubblicato sul quotidiano. Titolo: “Federica Guidi, storia dell’emendamento a favore di Tempa Rossa” e poi Governo Renzi, tutti i conflitti di interessi del neo-ministro”, nel 2016 “Federica Guidi, un altro esempio di politica interessata solo a se stessa”. Risultato: archiviata.
Beppe Sala: a dicembre 2016 “Giuseppe Sala indagato, i fatti erano noti. Perché candidarlo?”. Addirittura a gennaio si lamentano con Repubblica e Corriere che avrebbero messo la notizia in un “boxino” invece che in prima pagina. Lui si autosospende. Risultato: archiviato.
Per non parlare di Vincenzo De Luca, Stefano Graziano, Federico Pizzarotti e tanti altri, tutti archiviati e/o assolti. E la notizia dell’assoluzione di Renato Soru nascosta a pagina 20, dalle parti dei programmi televisivi.
Diciamo che sono tutti infortuni del mestiere. Nulla di eversivo. Finora, almeno.
Da - http://www.unita.tv/focus/il-travaglismo-malattia-infantile-del-giornalismo/
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