Mario LAVIA.

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Mario Lavia   @mariolavia
· 5 aprile 2016

Cosa c’è dietro le frasi di Cuperlo
Cuperlo che di solito è molto sensibile a non strappare la tela, pur nel suo stile compassato stavolta è stato particolarmente puntuto

Alla vigilia non c’era aria di tempesta ma invece ieri la sinistra pd ha scatenato un temporale primaverile che ha sorpreso per virulenza e per il suo protagonista, un Gianni Cuperlo forse mai così diretto contro il premier-segretario (Guarda il video). In una situazione politica nervosissima, nel giorno dello sbarco a Roma dei pubblici ministeri di Potenza per sentire la Boschi, con le opposizioni sul piede di guerra, la violenta polemica della sinistra in Direzione è stata la ciliegina sulla torta.

La “radicalità” dell’attacco di Cuperlo ha sorpreso tutti, mentre l’altro leader della minoranza, Roberto Speranza che ha usato toni ugualmente severi ma più dialoganti. Una divisione dei ruoli concordata? Probabilmente no. Era scontato che nella riunione di ieri la sinistra criticasse ma senza rompere, perché non è certamente questa la situazione politica ideale per forzare, davanti a una doppia scadenza elettorale – trivelle e amministrative – e in presenza di un violentissimo attacco al governo che vede muoversi in sintonia tutte le opposizioni. Anzi, semmai Speranza nei giorni scorsi è stato molto attento a non mischiarsi con la “Santa Alleanza” populista che muove lancia in resta contro Renzi (e infatti il segretario-presidente ieri ha pubblicamente apprezzato il nyet di Speranza a Di Maio che gli chiedeva di appoggiare la mozione di sfiducia prossima ventura): e però, una volta chiarito che non intende intrupparsi con i grillino-leghisti, l’ex capogruppo ha reclamato chiarezza, discussione, trasparenza su come si prendono le decisioni, per esempio sulla questione energetica che proprio nella sua Basilicata sta toccando un epicentro con i risvolti che sappiamo.

Insomma, ha riproposto un’annosa questione del metodo non disgiunta da quella del merito, con un occhio – anzi, tutti e due – “ai compagni che si riconoscono sempre meno in questo partito”: e però questo è un modo costruttivo di discutere. Mentre Cuperlo, di solito è molto sensibile a non strappare la tela, pur nel suo stile compassato stavolta è stato particolarmente puntuto. Non si conoscono i motivi più reconditi di questa asprezza – ammesso che vi siano – ma certo è che ha puntato a far male (“Non sei all’altezza, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo”) ponendo particolare enfasi sul referendum istituzionale dell’autunno: “Non è il tuo referendum, più lo personalizzi e più alimenti le ragioni del dissenso anche nel tuo campo”: parole forti, non spiegabili solo con la battaglia per una “libertà di coscienza” sulla riforma costituzionale che è richiesta veramente difficile per non dire impossibile accogliere, nel momento in cui il governo ne fa – come ha detto Renzi – “lo spartiacque” della stagione politica.

La “radicalità” dell’intervento di Cuperlo ha colpito anche uno che lo conosce bene come Paolo Gentiloni che ha messo i piedi nel piatto, alludendo al sentimento di alcuni che Renzi sia ancora considerato “un intruso”. La verità è che probabilmente Cuperlo teme quella che Vincenzo De Luca ha chiamato il rischio di una “pulizia etnica”, di una estromissione da ruoli politici e istituzionali, un’eventualità che l’esponente della sinistra non ha menzionato direttamente ma che deve essere all’origine delle sue preoccupazioni visto che ha parlato di “concentrazione del potere nelle mani di pochi” e del “rischio che si spezzi l’ultimo filo” che lo lega al Pd. E la domanda è sempre la stessa: è destinato a spezzarsi, questo filo? Non si prevede. Almeno fino alla prossima riunione.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/cosa-ce-dietro-le-frasi-di-cuperlo/

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Mario Lavia - @mariolavia
· 16 gennaio 2017

Sinistra italiana, neanche è nata e già è divisa. La lunga storia delle scissioni
Domani a Lecce con Pisapia i “dialoganti” dell’ex Sel

Ci ha pensato domenica Il Manifesto, con un lungo articolo di Daniela Preziosi, a gettare un fascio di luce sulla ennesima querelle a sinistra-sinistra. Querelle? Di più: diciamo che Sinistra Italiana, che nemmeno è formalmente nata, già si divide.

Il congresso fondativo infatti sarà a Rimini dal 17 al 19 febbraio, ad un anno e mezzo – addirittura – dalla prima iniziativa dei fuoriusciti del Pd che si incontravano con Sel, il 7 novembre 2015 al teatro Quirino di Roma: un tempo lunghissimo che evidentemente non ha sciolto ‘il’ nodo di fondo, quello del rapporto con il Pd.

Da quel 7 novembre 2015 moltissime cose sono successe e anche se l’impianto di fondo di SI non è cambiato (“Noi mettiamo a disposizione dei cittadini la possibilità di costruire un nuovo soggetto che non è di nessuno, che non ha un padrone. E’ una opportunità per quel popolo di sinistra che non ha più una casa”, ha detto Alfredo D’Attorre) pure la sottile linea di frattura gira sempre attorno allo stesso punto: col Pd ci si deve scontrare o ci si deve incontrare? Un classico del dibattito a sinistra.

A far esplodere la contraddizione in seno al partito è stata la scesa in campo di Giuliano Pisapia. Definito da qualcuno in casa Sel/SI (Giovanni Paglia) “un maggiordomo” del Pd, e invece artefice di un progetto interessante per altri: i quali hanno rotto gli indugi e scritto una lettera – sono in 16, fra cui il capogruppo Arturo Scotto – lamentando un brutto clima e reclamando che “sotto e oltre le differenze si riconosca un nucleo di verità e dignità”, che – tradotto – vuol dire pretendere un democratico spazio di parola.

Dietro il linguaggio felpato, i ’16’ pongono già il problema dei problemi: quello della democrazia interna, da sempre terreno di scontri interni nelle formazioni di sinistra. Oggi Stefano Fassina, uno dei ‘duri”, che si è “autosospeso” dal gruppo parlamentare di Sinistra italiana fino a che non ci sarà un chiarimento, ha detto a Repubblica.it che “il punto è che dobbiamo imparare a discutere al nostro interno in modo più rispettoso”. E in ogni caso, niente ruota di scorta, si sarebbe detto una volta: “Non siamo la compagnia low cost del Pd”.

E domani – informa ancora Preziosi – si terrà a Lecce una iniziativa proprio con Pisapia e alcuni dei ’16’, fra cui Dario Stefàno, da tanto tempi in rotta con la linea dura di Sel (Fratoianni, Fassina), il sindaco di Cagliari Massimo Zedda (idem), il vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio.

Da sempre le formazioni di ‘sinistra critica’ sbattono contro il muro del rapporto con il partito più grande della sinistra, ieri il Pci-Pds, oggi il Pd. Un giornalista attentissimo a queste dinamiche, anche dal punto di vista della ricostruzione storica, Ettore Maria Colombo, ha ricordato sul suo blog le tappe essenziali della scissione-mania che ci permettiamo di riportare in parte.

La sinistra cosiddetta ‘radicale’ – e già sarebbe meglio aggiungere ‘che tale fu’ – ha un’antica coazione a ripetere dalla quale non riesce proprio a discostarsi, neppur volendo. Una’storia’ e una ‘tradizione’ così radicata che ne ha causato una prima volta la morte – diciamo intorno al 2007/2008, quando Rifondazione comunista, fondata nel 1991/1992 per contrapporsi, da sinistra, allo scioglimento del Pci e alla sua trasformazione in Pds-Ds-Pd, si ruppe e diede vita a Sel di Vendola e Prc di Ferrero dall’altro (neppure insieme, nella fantomatica Sinistra Arcobaleno superarono il quorum a Politiche 2008 ed Europee 2009)  – e che sta per causarne, una seconda volta, la ‘ri-morte’ di quel che rimane di entrambe. Insomma, il rischio concreto è che, a sinistra del Pd, resti poco o nulla delle vestigia di un passato che fu, a metà degli anni Novanta, persino semi-glorioso. La Rifondazione di Garavini-Cossutta nel 1993/’94 prima e quella di Bertinotti-Cossutta nel 1996-’98 poi arrivarono a cifre elettorali ragguardevoli e condizionarono, per almeno tre volte, la nascita e poi la morte di governi di centrosinistra, cambiando di fatto la storia d’Italia: nel 1995-’96 dando, i Comunisti Unitari di Crucianelli, e negando, il Prc di Cossutta, la fiducia al governo Dini; nel 1996-’98 dando e poi negando, il Prc di Bertinotti e il Pdci di Cossutta, la fiducia al I governo Prodi e, il secondo, al I e al II governo D’Alema; nel 2007-2008 dando e poi negando, sempre il Prc di Bertinotti, la fiducia al II governo Prodi, che cadde ‘anche’ per colpa del Prc, pur se formalmente la crisi la aprì l’Udeur di Clemente Mastella. Poi, appunto, un lungo silenzio, quasi assordante, con Ferrero e Vendola che si litigarono le spoglie di una Rifondazione comunista ridotta in briciole (vinse Ferrero, congresso 2009 a Chianciano, Vendola, che di quella sconfitta ancora non si capacita, fondò Sinistra ecologia libertà con Verdi e Psi prima, poi da solo), il Pdci che si inabissava nel nulla, i Verdi pure. Infine, alle Politiche del 2013 – quelle ‘non perse’ ma neppure ‘vinte’ dal Pd di Bersani – la (finta, ingannevole, illusoria) rinascita: Sel, grazie alla coalizione Italia Bene comune, fatta con Pd e i centristi, rientrò in Parlamento dalla porta principale: gruppone alla Camera, Boldrini presidente, nuova attenzione dei media. Durò assai poco. Prima la scissione dei ‘miglioristi’ (nel senso di seguaci dell’ex enfant prodige di Bertinotti nel secondo Prc, Gennaro Migliore) che fondarono una piccola costola di area Pd e poi, nel Pd, entrarono, non pareggiati dai ‘nuovi innesti’ di fuoriusciti dal Pd (Fassina, D’Attorre, Galli, Mineo); poi la stagione dei sindaci ‘arancioni’ (Pisapia a Milano, Zedda a Cagliari, Doria a Genova) che presto dilapidarono la ‘Nuova Speranza’ che si era accesa nel popolo della Sinistra.

Come si può vedere da questa ricostruzione dei fatti, ogni volta che subentri una questione politica strategica si finisce con una scissione. E’ una maledizione che colpisce le organizzazioni della sinistra, seppure in contesti diversissimi, da sempre.

E in questo bailamme – nel quale va ricordato anche il flop della “Coalizione Sociale” di Maurizio Landini, tentativo un po’ ingenuo di fare una “Cosa” politico-sociale presto svanita nel nulla mentre resiste la civatiana “Possibile” – non sarà semplice per la nascitura SI tenere insieme le due anime, quella ‘irriducibile’ e quella attenta a non rompere il filo con il Pd tramite una nuova formazione Pisapia-Boldrini (se la presidente della Camera a un certo punto vorrà essere di questa partita), il ‘Campo progressista” dell’ex sindaco di Milano: chi vivrà vedrà.

Da - http://www.unita.tv/focus/sinistra-italiana-neanche-e-nata-e-gia-e-divisa-la-lunga-storia-delle-scissioni/

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Mario Lavia - @mariolavia
· 14 febbraio 2017

Chi è e cosa vuole Andrea Orlando. Gli inconvenienti di una candidatura
Giustizia: Orlando, su pene alternative passi avanti   
La “terza via” del ministro della Giustizia è un fatto nuovo nella geografia dem

Il prudentissimo Andrea Orlando ieri ha messo la testa fuori dal guscio e questa è una novità nella geografia politica del Pd.

“Prudentissimo” vuole essere un complimento. E’ un riconoscere, nelle mosse e nelle parole del Guardasigilli, tic e suggestioni che vengono da lontano. Perché l’esame del sangue di Orlando mostra nitidissime tracce della vicenda dei comunisti italiani, o meglio, della tensione dei comunisti italiani a superare se stessi, a “cercare altrove” ma in un “altrove” che non sia troppo distante, e comunque stando bene attenti a non deviare da una linea evolutiva abbastanza coerente – da Togliatti a Berlinguer a Napolitano, per capirci.

La prudenza dei comunisti, il pedalare in pianura, quel tipico “passismo” politico – per insistere con la metafora ciclistica – è un po’ la cifra del Nostro. Il quale ha fatto la “carriera” classica del dirigente politico, Fgci, consigliere comunale, segretario del Pci della sua La Spezia, assessore, deputato, portavoce del Pd, ministro. Una trafila relativamente lenta ma determinata. Sempre fedele a una certa idea della sinistra, Orlando non è uno che ama “strappare” quel filo rosso che svolge da quando era poco più che un ragazzino (è del ’69, a vent’anni era segretario della Fgci di Spezia, una organizzazione non gigantesca ma sempre presente): solo l’adesione al Veltroni del Lingotto (come detto, divenne portavoce del Pd) rappresenta uno scarto rispetto alla tradizione, peraltro interpretata anch’essa più come evoluzione che come rottura della tradizione.

E’ istintivamente un uomo del “centro” del partito, e con i vari segretari ha sempre collaborato: perché l’antica lezione comunista – che i partiti si guidano dal centro – è stata da lui ben assimilata. Lo stiamo vedendo anche adesso. Anche ieri, nella Direzione del Pd, nella quale Orlando si è smarcato da Renzi pur senza abbracciare Bersani, tentando di costruire una “terza via” in grado, nell’immediato, di disinnescare la polemica Congresso presto-Congresso lento grazie alla abbastanza tradizionale via d’uscita della Conferenza programmatica al posto del Congresso.

L’equidistanza, magari non millimetrica, fra Renzi e Bersani è stata comunque coraggiosa perché fra le altre cose pone a lui il problema del consenso nella sua corrente, quella dei Giovani Turchi che finora ha diretto insieme a Matteo Orfini che com’è noto è vicino a Renzi. Di fatto, con l’uscita di ieri, Orlando ha inferto un colpo serissimo alla componente. Il che è una bella responsabilità per uno che non dispone di tantissime truppe, pur calamitando – come ha notato Lina Palmerini sul Sole 24Ore – “tutto un mondo ex Ds che vorrebbe riprendere le redini del Pd”.

Si candiderà, Orlando? “Ne parleremo”, ha detto ieri ai giornalisti. Non è escluso. Di sicuro, renderebbe il Congresso più interessante – oltre al fatto che una sua candidatura “centrista” renderebbe ancora più valide le ragioni di quel Congresso che lui vorrebbe più in là.

Ma la sensazione è che, malgrado lusinghe e apprezzamenti (innanzi tutto da persone del calibro di Giorgio Napolitano e Emanuele Macaluso), Orlando lavori per smussare gli angoli (“Così c’è il frontale”, ha detto a Repubblica) elevando se stesso a eventuale “salvatore della patria”, se ve ne saranno le condizioni. Mediatore, più che protagonista diretto. Infatti è contro la scissione: “Credo che la parola scissione abbia già prodotto grandi danni nella storia della sinistra”.

Come tutti gli uomini politici esperti, Orlando infatti è uno che ha pazienza. Non è un velocista ma un fondista. E – complicazione forse insormontabile – è il ministro della Giustizia, ruolo che oggettivamente renderebbe complicato battere i circoli del Pd di tutta Italia e soprattutto sottoporsi a un voto che, in qualche modo, potrebbe avere un nesso con il giudizio sul governo.

E però intanto la sua bandiera, il Guardasigilli l’ha piazzata. Una bandiera “centrista” negli schemi del partito, “neo-socialdemocratica” dal punto di vista ideologico. Il richiamo alla necessità di una Bad Godesberg – la grande svolta revisionista della Spd – è sintomatico di un certo stilema tardo-Pci: andare oltre ma rimanendo in un solco ben definito, in omaggio a un “continuismo” che non esclude svolte ma le colloca con naturalezza in un alveo politico-culturale già noto.

Di certo, la sfida “socialdemocratica” di Andrea Orlando è partita, e paradossalmente nel tempo in cui proprio la socialdemocrazia sembra finire nei bauli della storia. Ma in politica, si sa, tutto è possibile.

http://www.unita.tv/focus/chi-e-e-cosa-vuole-andrea-orlando-gli-inconvenienti-di-una-candidatura/

Arlecchino:
Opinioni
Mario Lavia - @mariolavia
· 16 febbraio 2017

La prudente battaglia di Orlando per il dopodomani
E c’è da chiedersi se la sua sarebbe un’alternativa al renzismo o un’alternativa nel renzismo

Il prudentissimo Andrea Orlando ha messo la testa fuori dal guscio e questa è una novità nella geografia politica del Pd. “Prudentissimo” vuole essere un complimento. È un riconoscere, nelle mosse e nelle parole del Guardasigilli, tic e suggestioni che vengono da lontano. Perché l’esame del sangue di Orlando mostra nitidissime tracce della vicenda dei comunisti italiani, o meglio, della tensione dei comunisti italiani a superare se stessi, a “cercare altrove”, ma un “altrove “che non sia troppo distante, e comunque stando bene attenti a non deviare da una linea evolutiva abbastanza coerente – da Togliatti a Berlinguer a Napolitano, per capirci.

La prudenza dei comunisti, il pedalare in pianura, quel tipico “passismo” politico –per insistere con la metafora ciclistica –è un po’la cifra del Nostro. Il quale ha fatto la “carriera” classica del dirigente politico, Fgci, consigliere comunale, segretario del Pci della sua La Spezia, assessore, deputato, portavoce del Pd, ministro. Una trafila relativamente lenta ma determinata. Sempre fedele a una certa idea della sinistra, Orlando non è uno che ama “strappare “quel filo rosso che svolge da quando era poco più che un ragazzino (è del ’69, a vent’anni era segretario della Fgci di Spezia): solo l’adesione al Veltroni del Lingotto (come detto, divenne portavoce del Pd) rappresenta uno scarto rispetto alla tradizione. Se fosse nato prima, Orlando sarebbe stato un berlingueriano, e prima ancora un togliattiano.

Ragionatore, freddo, è istintivamente un uomo del “centro “del partito, e con i vari segretari ha sempre collaborato: perché l’antica lezione comunista – che i partiti si guidano dal centro – è stata da lui ben assimilata. Lo stiamo vedendo anche adesso. Da ultimo, lunedì, alla riunione della Direzione del Pd, nella quale Orlando si è smarcato da Renzi pur senza abbracciare Bersani, tentando di costruire una “terza via” in grado, nell’immediato, di disinnescare la polemica Congresso presto Congresso lento grazie alla abbastanza tradizionale via d’uscita della Conferenza programmatica al posto del Congresso.

Piano piano, l’idea “terzista” ha guadagnato il sì della sua componente e qualche adepto: Bettini, Zingaretti – insomma, i “renzisti non renziani” – un discreto bottino per uno che peraltro non dispone di tantissime truppe, pur calamitando – come ha scritto Lina Palmerini sul Sole 24Ore – tutto un mondo ex Ds che vorrebbe «riprendere le redini del Pd».

Il punto è esattamente questo. Esiste un pezzo importante del Pd di provenienza comunista che non ha del tutto elaborato il lutto della fine del Pci e che pertanto seguita a vivere il Pd come soggetto provvisorio, o al massimo come aggiornamento di quella storia. Il sospetto che uno come Massimo D’Alema, per fare il nome più significativo, viva il Pd in questo modo non è infondato: e infatti quel mondo, quella sensibilità, vedono ora in Orlando l’uomo giusto per chiudere la stagione “eccentrica “del renzismo. E il fatto che l’ex portavoce di Veltroni –lo ha notato perfidamente Orfini – possa essere il candidato appoggiato da D’Alema è una di quelle cose che la vita politica può riservare, malgrado la sua stranezza. Se ci fosse, la sua candidatura a segretario dunque potrebbe produrre l’effetto di neutralizzare la scissione, “trattenendo la sinistra bersaniana.

Ma c’è da chiedersi se la sua sarebbe un’alternativa al renzismo o un’alternativa nel renzismo: sinceramente, questo non è ancora chiaro. «Ne parleremo», ha detto ai giornalisti rispondendo alla milionesima domanda su una sua eventuale candidatura. È molto pressato, anche se nelle ultime ore l’ipotesi ha perso quota. Di sicuro, avrebbe reso il Congresso più avvincente e forse più incerto. Tuttavia la sensazione prevalente è che, malgrado lusinghe, apprezzamenti e pressioni, Orlando stia piuttosto lavorando per smussare gli angoli, senza scendere in campo. Un mediatore per definizione non si candida. E se resta fuori dalla pugna è anche perché c’è la non piccola complicazione che è il ministro della Giustizia, ruolo che oggettivamente renderebbe complicato battere i circoli del Pd per due mesi.

Con Renzi non rompe: «Io credo che Renzi abbia le energie per guidare questo passaggio e il partito. Io non ho mai detto che il tema sia Renzi. Farei male l’antirenziano avendo fatto il ministro nel suo governo. Ma dopo la sconfitta del referendum dobbiamo riposizionare il partito». Correggere, non svoltare. Però intanto la sua bandiera, il Guardasigilli l’ha piazzata. Una bandiera “centrista “negli schemi del partito, “neo -socialdemocratica “dal punto di vista ideologico. Il richiamo alla necessità di una Bad Godesberg –la grande svolta revisionista della Spd – è sintomatico di un certo stilema tardo Pci: andare oltre ma rimanendo in un solco ben definito, in omaggio a un “continuismo “che non esclude svolte ma le colloca con naturalezza in un alveo già noto. Di certo, la sfida “socialdemocratica” di Andrea Orlando è partita, e paradossalmente nel tempo in cui proprio la socialdemocrazia sembra finire nei bauli della storia. La sua è una battaglia non per domani, ma per dopodomani. Perché in politica, si sa, tutto è possibile.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/la-prudente-battaglia-di-orlando-per-il-dopodomani/

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Mario Lavia   - @mariolavia
· 19 febbraio 2017

L’angoscia della minoranza, una scissione “triste”
   
Pier Luigi Bersani arriva alla Direzione del PD al Centro Congressi di via Alibert, Roma, 13 febbraio 2017. ANSA/ ANGELO CARCONI   

Speranza, Rossi e Emiliano: la scissione è colpa di Renzi

Ufficialmente, la scissione oggi non c’è. Sostanzialmente, c’è. Una giornata particolare, davvero, per la minoranza del Pd. In bilico fra voglia di recidere gli ormeggi e il realismo su una scelta che non si sa quante “truppe” porterà con sé.

La nota serale di Speranza, Emiliano e Rossi spazza via i dubbi. È rottura, addebitata tutta a Renzi. Ma per tutta la giornata è stato un susseguirsi di toni diversi, dalla “controrelazione” di Guglielmo Epifani – a nome di tutta la minoranza – all’intervento, molte ore dopo, di Emiliano – “Siamo a un passo dalla soluzione, ho fiducia in Renzi” – la minoranza del Pd ha parlato lingue diverse.

Il più duro è Bersani. E i suoi, Zoggia, Stumpo, Gotor. Anche Enrico Rossi, tra l’altro molto seccato per le voci su eventuali ripercussioni sulla sua giunta toscana. Mentre il governatore pugliese e Francesco Boccia hanno dato la sensazione di voler trattare sulla data, e insomma di trovare una giustificazione per restare nel partito.

La nota dei “tre del Vittoria” dissipa l’idea di una scissione fra gli scissionisti. I quali tuttavia ancora non annunciano chiaramente l’uscita dal Pd, aspettano ancora chissà quale segnale, un segnale che Renzi a questo punto non può (e non intende) dare.

Martedì infatti la Direzione sarà una riunione abbastanza rapida, per non dire formale: Orfini proporrà i nomi della commissione congressuale e stop. La macchina è partita. Per restare a bordo, servirebbe alla minoranza una capriola: come fare per tornare indietro? Ma soprattutto: come spiegare una scissione perché il Congresso durerà tre mesi e non cinque (come suggerito da Boccia)?

Può darsi che il dado non sia ancora tratto, ma stasera la scissione è praticamente una realtà. Se si limiterà ai bersaniani o coinvolgerà anche Emiliano lo capiremo fra qualche ora. E se raccoglierà forze importanti nella base e nei gruppi parlamentari lo si capirà nelle prossime settimane. Ma è una scissione “triste”, senza l’epica dei grandi fatti politici. A meno che non si torni indietro…

Da - http://www.unita.tv/focus/langoscia-della-minoranza-una-scissione-triste/

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