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Autore Discussione: POLO DEMOCRATICO, perchè?  (Letto 16367 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Febbraio 29, 2016, 11:18:39 am »

L’ultimo Croce: “L’uomo vive nella verità”
Giovanni Spadolini

Giovedì 25 febbraio 2016

“La Voce Repubblicana”, 4-5 gennaio 1983

Toccò a me, come presidente del Consiglio, insediare il comitato per l’edizione nazionale delle opere di Benedetto Croce: settantatré volumi da riordinare secondo un criterio unitario ma rispettoso delle varianti, delle correzioni, dei ripensamenti, talvolta delle rielaborazioni dell’autore instancabile, in cui brillava una fede incomparabile nel lavoro come sogno di nobiltà divina, quasi di predestinazione.
Fu una cerimonia semplice e scarna: nessun abbandono alla retorica, quasi il tocco di una seduta di lavoro. Il comitato proveniva da un’udienza del presidente Pertini: in quel Quirinale da cui il maestro di Napoli aveva rifuggito, allorché un compagno di partito dell’attuale capo di Stato, Pietro Nenni, aveva portato la proposta di elezione in sede di direzione socialista (usando, Nenni, forse senza pensarci e in senso positivo, il giudizio su Croce come “papa laico” che invece Gramsci aveva coniato molti anni prima, ma in senso polemico e riduttivo).

Tutti uomini di cultura; nessun politico infiltrato e mascherato. Antichi allievi dell’Istituto di studi storici di Napoli, come Romeo o Galasso; presente allora, come sottosegretario alla presidenza, un crociano di assoluta fede e quasi di fisica insofferenza verso le manifestazioni dell’anticrocianesimo epidermico e ritornante. Francesco Compagna, anch’egli reduce dalle lezioni di palazzo Filomarino nell’immediato dopoguerra. Filologi e critici letterari in quantità per proporre soluzioni, per individuare rimedi, per approfondire analisi o colmare lacune.

Un’edizione nazionale pone infiniti problemi. Il mio intervento, come studioso prima ancora che come presidente del Consiglio, fu breve e ridotto all’essenziale. Croce ha realizzato in vita la sua edizione nazionale. Ha diviso le sue opere secondo uno schema che solo negli ultimi anni ha subito qualche correzione, qualche brivido di ripensamento o di autocritica. Ha anticipato quasi tutti i suoi libri sulla “Critica” e, dopo la “Critica”, sui “Quaderni della critica”; ha raccolto tutti i suoi scritti con metodo certosino, con pazienza esemplare anche le lettere aperte inviate ai giornali. Ha preventivato tutto; ha calcolato tutto. Quasi nel timore che manie esterne si sovrapponessero alla sua inimitabile costruzione intellettuale.

Instancabile artigiano
Col culto dei distinti che lo caratterizzava, e cui improntava l’intera sua concezione del mondo, ha separato nettamente le pagine di storiografica, di storia generale, di storia minore, di filosofia, di estetica, di critica letteraria, di politica. Conviene cambiare poco o nulla nella distribuzione dei suoi studi (recuperando solo qualche scritto giovanile dimenticato, qualche testo lasciato da parte nelle riviste, magari marginale o ereticale). Non solo: ma allontanarsi il meno possibile dai caratteri, dall’impostazione grafica da lui preferita.
Croce aveva l’amore “fisico” per i libri. Collaborava col suo editore, col vecchio Laterza, nella scelta dei caratteri, nella selezione della carta. Non amava i cambiamenti: l’uomo che contribuì a cambiare come pochi le basi intellettuali e spirituali della vita italiana, l’uomo che ispirerà tutti i rinnovatori (anche quelli che dopo la guerra avrebbero voluto “seppellirlo”, coloro – dirà una volta – “che vorrebbero ficcarmi a forza in una bellissima e decorosissima tomba”).

Anche in materia tipografica rifuggiva da tutte le novità, detestava tutti gli esibizionismi. Aveva una specie di pudore della pagina scritta. Lo sorreggeva il fremito della continuità coi grandi classici a cui si era nutrito e alimentato. Non ebbe mai bisogno di illustrazioni nell’opera sua: perché il suo stile di grandissimo prosatore riusciva a rendere chiari tutti i riferimenti anche artistici e architettonici.
Si consentiva, sì, qualche “divagazione”, qualche rapporto – editorialmente parlando – “extraconiugale”: ma sempre in una certa cornice, in un certo ambito ideale, in quella Napoli che comprendeva Morano, legato alla memoria di De Sanctis, quel suo mezzogiorno depresso e derelitto che lo congiungeva idealmente a Giustino Fortunato, quelle pubblicazioni di storia locale, quelle miscellanee introvabili che egli amava come pochi, anche per il senso della rarità, anche per il senso, in lui sconfinatamene vivo, delle piccole patrie (“l’Italia è una pianta dalla molte radici”, avrebbe detto Cattaneo).

Non ispirarsi, per l’edizione nazionale di Croce, ai criteri di grandezza che compenetrarono l’edizione nazionale di D’Annunzio, a suo tempo, dopo tutti i litigi e i bisticci col grande Arnoldo Mondadori. Croce, appunto, come anti-D’Annunzio, Croce come simbolo dell’Italia della ragione. Croce artigiano instancabile, che merita di rivivere in un’edizione nazionale non pomposa, non barocca, neanche troppo costosa (raccomandai di pensare a un’edizione universale per i giovani parallela a quella principale: e non secondo i criteri di arbitraria selettività che hanno caratterizzato certe immissioni di Croce nelle attuali “universali”).
Croce artigiano, come visse, con discrezione, con signorilità, con immenso distacco dalle cariche e dai riconoscimenti, con un’influenza profonda sulla cultura esercitata con la penna, al di fuori, perfino, di un diretto veicolo accademico.

Maestro di vita? Lucio Colletti ha riproposto questo tema in un recentissimo dibattito sull’eredità di Croce trent’anni dopo promosso dalla rivista ideologa del partito socialista, “Mondoperaio”, insieme con Rosario Romeo, con Cesare Leporini, con Augusto Del Noce. “Maestro di vita, conoscitore profondo delle passioni umane, alto moralista. Un uomo il cui incitamento alla serietà del vivere oggi vale più che mai”. Il tutto, da parte di Colletti, dopo una riduzione quasi spietata del peso di Croce nella cultura occidentale: divulgatore della cultura romantica tedesca, filosofo tutto sommato secondario e derivato, storico forse più grande nelle piccole cose che nelle grandi.
Romeo ha respinto la tesi di Croce come maestro di vita, quasi isolato dalla sua opera, quasi svincolato dal suo depositum fidei in senso laico. “Non si può accettare la tesi di Croce maestro di vita e moralista, né sul piano storico né sul piano logico, se si parte da un giudizio su Croce come debole filosofo, storico di scarso valore e critico letterario tutto sommato marginale”.
E Romeo non ha torto. “Come mai un pensatore, in fondo di secondo piano, ha potuto esercitare una funzione di primo piano nelle cultura italiana?”. E i rilievi dello storico sono tutti pertinenti, tutti azzeccati: compreso il rapporto fra Croce e la società italiana.

In quel dibattito si è parlato molto, con un termine orrendo, di “omogeneizzazione della società” operata da questa specie di livellamento culturale crociano. E Romeo ha avuto buon gioco nell’obiettare: “respingerei ogni omogeneizzazione, mi limiterei a parlare della creazione di un ethos pubblico”. Ma “la creazione di un ethos pubblico non è l’accettazione di una teoria filosofica idealistica. È sempre il risultato di un’egemonia culturale”. Romeo accetta il termine che era caro a Gramsci, riconosce che l’egemonia c’è stata, che si è proiettata nel lungo dialogo filosofico fra Croce e Gentile, che si è estesa nella lotta a tutte le forme di provincialismo italiano, che ha naturalmente comportato pedaggi pesanti, come la sottovalutazione della scienza, comune del resto a tutte le scuole filosofiche del primo ventennio del secolo, o come la subordinazione e talvolta il disconoscimento delle scienze sociali rispetto alle scienze umane.

È un’egemonia, quella del crocianesimo, che ha consentito all’Italia di avanzare nel livello di studi e nel respiro sociale nonostante il “fermo” imposto dal fascismo, e di prepararsi al traguardo del dopoguerra attraverso quel grande retroterra culturale che compenetrò in misura diversa tutte le forze democratiche all’indomani della liberazione.

Questo trentennale della morte di Croce ha permesso di fissare il grande debito che hanno verso Croce soprattutto tutti i non crociani, tutti coloro che ne respingono la dottrina, tutte le correnti che hanno più forte il senso messianico o fideistico della storia. Un giorno si affronterà pure il tema di quanto Croce abbia pesato nell’evoluzione politica dei cattolici democratici e di quale influenza abbia esercitato nella crisi ideologica, in atto, del comunismo (sì, del comunismo: proprio Croce che proveniva dalle simpatie verso Antonio Labriola e dalla sottoscrizione alle vittime socialiste del 1898!).

Ma soprattutto il trentennale della morte, ci ha permesso di ricordare quel Croce mosso, problematico, insoddisfatto o inquieto, quel Croce che noi conoscemmo nelle stanze di redazione del “Mondo” di Mario Pannunzio, l’ultimo Croce. Il filosofo per il quale il progresso rappresentava “il soffrire più in alto”, il pensatore che non si appagava più delle certezze dell’epoca liberale, ma contrapponeva a tutti i fanatici delle intolleranze manichee, abbastanza numerosi negli anni ’49-’50, l’uomo del dubbio e del tormento, il solo che “vive nella realtà”.

Una filosofia laica della vita
“Non andate in cerca della verità”: così suonavano le ultime parole della prima conversazione all’Istituto storico di Napoli pubblicata il 12 marzo 1949 sul “Mondo”: “non andate in cerca né del bene, né del bello, né della gioia, in qualcosa che sia lontano da voi, distaccato e inconseguibile, in effetti inesistente, ma unicamente in quel che voi fate e farete, nel vostro lavoro nel cui fondo c’è l’Universale [una maiuscola eccezionalmente tollerata da Pannunzio] di cui l’uomo vive; e per chiudere con un motto bizzarro ma profondo, che soleva ripetere un dotto tedesco, o se si vuole ebreo-tedesco, altamente benemerito degli studi, il Wartburg, tenere sempre presente che Gott ist im Detail, che Dio è nel particolare”.

Dio è nel particolare. È un motto che riassumeva intera la filosofia laica della vita, oggi che si parla tanto, a proposito e a sproposito, di laicità. Parallelo al giudizio che di Croce appena scomparso dette un grande poeta che l’aveva sempre molto amato, essendone misuratamente riamato, Eugenio Montale: una lezione segnata “da quel Dio che Croce, come tutti i credenti, non volle mai nominare invano”.

Giovanni Spadolini
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« Risposta #1 inserito:: Marzo 28, 2016, 07:22:00 pm »

Di FRANCESCO POSTORINO

Da poco meno di un mese è trascorso il 150esimo anniversario della nascita di Benedetto Croce (25 febbraio 1866).
Ne abbiamo approfittato per fare il punto sul significato del suo pensiero con uno dei suoi più grandi studiosi, Gennaro Sasso.

In una società sempre più piegata ai piani normativi dell’economia e all’«ospite inquietante» profetizzato da Nietzsche, la filosofia dello spirito, delineata da Croce, avrebbe qualcosa da dire oggi?

Non vorrei sembrare maleducato. Ma questa è la domanda che più mi aspettavo e che meno, tuttavia, avrei desiderato ricevere. Non ho mai avuto intenzioni pedagogiche e non sono in grado di leggere nel cuore nichilistico. In genere diffido dei filosofi considerati «attuali», ossia che hanno da dire qualcosa al nostro tempo. Perciò a questa domanda mi limiterei a rispondere: «direi di no, se il nostro tempo è determinato, nella filosofia, dai filosofi più letti o più nominati. Ma poi, chi sa».

Su Croce e sull'idealismo, senza essere un fedele né dell'uno né dell'altro, ho scritto molto: qualcuno, non a torto, potrebbe dire che ho scritto troppo. Al contrario, coloro che oggi "hanno il grido" su Croce scrivono pochissimo, anzi niente. Se ne può dedurre che non avvertano il bisogno di leggerlo e che, conoscendolo poco o niente, stiano bene così: a quel difetto potrebbero infatti rimediare con facilità, dal momento che le sue opere non sono difficili da trovare. Se, presso i più, l'opera di Croce è ignorata, il fatto ha in sé la sua ragione. Inutile, quindi, chiedersi se avrebbe qualcosa da dire oggi. La risposta (negativa) alla domanda è nel dubbio che la domanda nasconde in sé.  Per parte mia, porrei una questione diversa. Piaccia o no, per molti decenni, quella di Croce è stata una voce importante, e da parte di molti si è sentito il bisogno di ascoltarla, non solo per trarne insegnamenti, e per condividerne le parole, ma anche per contrastarne in ogni modo il suono. Nel tempo della cosiddetta egemonia, Croce è stato assai più avversato che condiviso. L'anticrocianesimo è stato, in Italia, assai più forte del crocianesimo. A parte ogni altra considerazione, non si dimentichi che Croce fu un filosofo laico, e che l'Italia è un paese cattolico, poco religioso, ma certamente non laico. In troppe cose, anche nel momento della maggiore espansione del suo pensiero, fra Croce e la cultura italiana il disaccordo fu profondo. Il disinteresse che oggi la cultura filosofica italiana dimostra per Croce e, sostanzialmente, anche per Gentile, costituisce la prova che, fra il recente passato e il presente, si è determinata una singolare, e assai grave, frattura. Ma anche continuità. Su questo, forse, occorrerebbe riflettere.

La filosofia di Croce è essenzialmente incentrata sul tema dell’«universale concreto»: il tentativo di stringere in un rapporto intrinseco l’Eterno e il tempo, il razionale e il reale. Crede che l’incontro tra l’universale e il particolare sia attendibile?

Non parlerei di attendibilità. Lei parla di incontro fra l'universale e l'individuale, e prescinde, mi pare, dal quadro teoretico in cui la questione è inserita e da cui prende il suo senso. Il quadro teorico a cui mi riferisco è quello che definisce i due punti logicamente più delicati del pensiero di Croce: la dialettica, hegelianamente concepita come dialettica di opposti assoluti (alla radice: l'essere e il nulla), e l'implicazione dei distinti. Discuterne significherebbe entrare nella questione e pensarla. Riassumerla in una formula sarebbe il peggior modo di trattarla. Qui posso dire, molto in breve, e senza darne adeguata dimostrazione, che sia la dialettica degli opposti, sia l'implicazione dei distinti, che Croce cercò di stringere insieme, facendo del distinto, di ogni distinto, una sintesi di opposti, non sfuggono a una difficoltà (che riguarda in genere il pensare dialettico nelle sue varie forme). Se gli opposti sono ciascuno, allo stesso modo, opposto al suo opposto, nell'esserlo sono identici. Se sono identici, come e perché li si dice opposti? Per dirli opposti occorre dire che lo sono, perché il positivo è positivo e non negativo, e questo è negativo e non positivo. Ma se del negativo si dice che è il negativo, il suo esserlo non è un non esserlo. Se il negativo «è», dirlo opposto al positivo, che anch'esso «è», è impossibile.  A sua volta, l'implicazione dei distinti dà luogo, a mio parere, a una difficoltà analoga e altrettanto pungente. I distinti possono essere concepiti come tali che costituiscono un organismo, o come tali che si dispongono in un circolo mobile e ininterrotto. In entrambe queste rappresentazioni è presente un'acuta difficoltà. L'organismo suppone le differenze. Ma se, per un verso, i distinti sono distinti perché l'arte non è filosofia, e questa non è arte, perché l'economica non è l'etica e questa non è l'economica, resta che queste forme sono distinte, e in quanto distinte, sono sintesi di opposti. Nondimeno, se sono sintesi, l'organismo è impossibile perché, per esserlo, supporrebbe la differenza, e fra le sintesi differenza non può esserci, se sono sintesi. Dunque, non c'è l'organismo. E il discorso riconverge nel segno dell'identità. Croce replicherebbe che se i distinti sono ciascuno una sintesi di opposti, a distinguerli è la specificità degli elementi di cui la sintesi è sintesi. La sintesi poetica si stringe fra l'intuizione il sentimento, quella logica tra il concetto e l'intuizione, quella economica fra la volontà e le volontà, quella etica, tra la volontà dell'universale e la volontà dell'individuale. Senza entrare nell'analisi di questo schema, e di altre specifiche difficoltà che darebbe luogo a molte complicazioni, resta che ciascuna di queste forme è una sintesi, che la sintesi è la risoluzione di un'opposizione, e che differenziare le sintesi è perciò impossibile. L'altra «figura» concettuale prevede, come ho detto, che i distinti siano concepiti, non tanto come parti di un organismo quanto come i momenti del circolo che essi formano in quanto ciascuno è in sé stesso forma della sua materia ed esposto tuttavia a decadere a materia della forma che gli subentra. Croce si travagliò a lungo per far sì che il circolo fosse in movimento, e non ricadesse, senza potervi sul serio ricadere, nella staticità dell'organismo. Il distinto, tuttavia, è sintesi perfetta di forma e materia. Com'è possibile che la perfezione conosca il momento della crisi e passi ad altro? Com'è possibile che ciò che è perfetto conosca la crisi che ne determina il passaggio ad altro? (Aggiungerò, fra parentesi, che questo è il luogo concettuale della maggior vicinanza che la filosofia di Croce fa registrare nei confronti di quella di Gentile e viceversa. L'atto è eterno, e eternità significa perfezione, intranscendibilità. Ma all'atto si perviene dalla natura, e alla natura si ritorna col decadere dell'atto nel fatto. Due processi impensabili. Se l'atto è eterno, come si giustifica la sua nascita, come si giustifica la sua decadenza?).

Queste sono difficoltà specifiche del sistema quale Croce lo congegnò nel primo decennio del secolo ventesimo. Nel 1909 con la riscrittura della Logica, il sistema era compiuto (nel 1902 era stata pubblicata l'Estetica, nel 1908 la Filosofia della pratica, il IV volume, Teoria e storia della storiografia, scritto fra il 1912 e il 1913, uscito prima in tedesco nel 1915, e in italiano l'anno successivo, fu concepito, nel suo stretto nucleo teoretico, come un'aggiunta da apporsi al capitolo della Logica relativo all'identità della filosofia e della storia. Da allora cominciò un lavoro di revisione e di ripensamento che non ebbe fine se non nel 1952, quando Croce morì. Ma fu una revisione del sistema eseguita all'interno delle mura del sistema. L'istanza sistematica e unitaria fu sempre fortissima in Croce: chi lo prende come un puro metodologo del sapere, temo che capisca poco, non solo del suo pensiero, ma anche della sua psicologia). Vorrei, al riguardo, aggiungere una rapida considerazione, che riguarda la storia della filosofia e il modo in cui si debba scriverla. Ammetto che la si possa scrivere in più modi e che di un filosofo si possa mettere in luce il significato culturale, lasciando in secondo piano quello filosofico. Chi, d’altra parte, legge Croce negli scritti filosofici, e dunque come filosofo, deve pensare quel che egli pensò, e, percorrendo la sua strada, percorrerne in realtà una diversa se questo la critica comanda. In Croce, tuttavia, c'è, anche dell'altro, che non potrebbe non esser preso in seria considerazione quando si studiasse il rapporto che egli intrattenne con il suo pensiero e con le crisi che vi avvertiva. C'è qualcosa che va al di là dei punti critici e problematici che, da molti indizi, si può esser certi che egli avvertisse come tali e non riuscisse però a risolvere. Questo «qualcosa» deve essere identificato nella forza persuasiva e autopersuasiva della sua scrittura, nella quale era infatti operante la convinzione di aver intuito, al di là della possibilità di darne la perfetta trascrizione filosofica, verità alle quali rinunziare era impossibile. Questa forza persuasiva e autopersuasiva è un elemento importante dell'universo crociano, e costituisce forse la ragione per la quale l'adesione data al suo pensiero fu spesso determinata più da questa forza persuasiva che era in lui che non dalla filosofia, intesa in senso stretto. La si può identificare nella e con la sua scrittura: salvo che fu la forza persuasiva e autopersuasiva che era in lui a far sì che egli amministrasse la filosofia come parte di un'idea della cultura e del mondo che andava al di là del suo stretto confine. Questa fu la ragione per la quale i filosofi tecnici guardarono spesso con diffidenza a un modo di filosofare che sempre più implicava in sé quel più ampio mondo culturale. Ma questa altresì fu la ragione per la quale si formò quello che il mio amico Tullio Gregory chiama il «crocianesimo civile». Resta che ricondurre la persuasione alla filosofia è il compito di chi intenda leggerlo in forma filosofica, conferendo alla persuasione la sua importanza culturale, ma impedendole di entrare nel recinto della filosofia e di disturbarne il rigore.

Lei sostiene che il metodo analitico e la natura dello «pseudoconcetto» non godono di un pieno diritto di cittadinanza entro il suo nucleo categoriale. Qual è, dunque, il ruolo che Croce attribuisce alle scienze empiriche?

Il ruolo che Croce attribuì alle scienze è definito con chiarezza nella Logica. Per dirla alla maniera di Hegel, la scienza è un prodotto dell'intelletto, non della ragione, opera per classi, non per concetti, separa il particolare dall'universale e li ricongiunge dal di fuori. La sua sintesi è una somma. Di questo si è parlato fino alla nausea negli anni passati, quando non c'era chi non si sentisse in diritto di dirigere contro Croce le più pesanti accuse, che dal filosofico passavano all'etico e al politico. E di imputargli ritardi in tutti i campi possibili: spettacolo penoso, perché imputare ad altri ritardi di cui si sia vittime, attribuire ad altri la propria inferiorità, significa in realtà attribuirsela, questa inferiorità, al grado più alto. Al di là di quel che debba pensarsi della scienza, ho sempre trovato deplorevole questo atteggiamento da «piccolo inquisitore» che tanto spesso l'intellettuale italiano ha assunto nei confronti di Croce. In realtà, ciascuno è responsabile dei propri limiti: darne la colpa ad altri è il massimo della viltà. Per questo, nel libro che nel 1975 dedicai alla «ricerca della dialettica», lasciai da parte quella polemica, che era dilagata al di là di ogni argine (ricordo che un illustre scienziato mi disse una volta che Croce aveva abbassato i cultori della scienza al livello degli idraulici, e io purtroppo non ebbi l'ardire di fargli osservare che se il filosofo idealista aveva offeso gli scienziati, lui, per certo, offendeva gli idraulici); e concentrai l'analisi sulla struttura logica dello pseudoconcetto e sulla sua pensabilità in termini crociani. Per farla breve, dissi che il concetto dello pseudoconcetto non aveva, e non poteva avere, il suo fondamento nel pensiero di Croce. Lo pseudoconcetto è scissione del concetto e lo presuppone; per esserlo, deve possederlo nella sua interezza dentro di sé. Ma se lo possiede dentro di sé, come può scinderlo? Per scinderlo, dovrebbe operare come concetto, non come pseudoconcetto il quale, se per definizione è scisso, è il risultato della scissione e non può esserne l'autore. Il concetto, però, non opera scissioni. Ne consegue che, nel teatro crociano, lo pseudoconcetto è un attore senza autore; e perciò non è nemmeno un attore. Deve essere intero, solo che lo pseudoconcetto è scissione.

Per quanto riguarda la filosofia e la scienza, non posso, in questa sede, dire quel che al riguardo penso (o cerco di pensare). Qui stiamo parlando di Croce, non di me. Se dovessi parlare in prima persona, cercherei di avviare un discorso relativo alla vocazione gnoseologica della scienza e a quella non gnoseologica della filosofia. Il discorso, come vede, ci porterebbe lontano: non necessariamente, se fossi io a condurlo, su alti Eldoradi.

Lei dice che la sua dialettica segna sempre la vittoria del «positivo». Il «negativo» e il male sono riconosciuti solo sul piano formale. È dovuto anche a questo, a suo parere, l’imbarazzo teoretico di Croce di fronte al fascismo?

Non sono io a dirlo, per la verità, ma Croce. Come si è visto qui su, per magri accenni, quella di Croce è una dialettica positiva. Che perciò viva il suo giorno difficile quando si trovi dinanzi lo spettro della decadenza, è comprensibile e innegabile. La decadenza è l'autocritica delle filosofie sintetiche. Non è un caso che Croce ne riprendesse il tema, che aveva già trattato nel 1915 quando, rielaborando vecchi scritti, mise insieme il libro sulla Spagna nella vita italiana della Rinascenza, nel 1925 scrisse la Storia dell'età barocca e nel 1931 la Storia d'Europa nel secolo decimonono. Restiamo sul terreno politico. Se, per un paio d'anni, insieme a non pochi personaggi della sua parte politica, Croce si illuse che il fascismo potesse contribuire a ridare vigore alle istituzioni liberali, l'illusione nasceva da un'errata valutazione politica; e certo non era dettata dalla persuasione che tutto ciò che accade nel segno della vittoria politica è segnato da positività. Come disse in una bella pagina della Politica 'in nuce' (1924) alla realtà appartengono anche i ribelli, gli oppositori, gli uomini del dubbio e del tormento, quelli, in una parola, che think too much e, in determinate situazioni, possono rappresentare essi la più profonda positività.

Il suo liberalismo «metapolitico» si mostra insensibile a molte cose e non riesce a svincolarsi dallo scenario idealistico. Questa è, quanto meno, la critica che gli muove Norberto Bobbio intorno alla metà degli anni ‘50. Lei, pur individuando molteplici aporie nell’impianto crociano, si oppone a questa celebre interpretazione. Perché?

Bobbio ha scritto sul liberalismo di Croce pagine insieme molto belle e, in certi passaggi, altrettanto anguste. Su questo ho scritto molto anch'io, discutendo anche di Bobbio, di Einaudi, di Calogero, tutti concordi nel diagnosticare come anomalo il suo liberalismo. Mi riesce difficile tornare sull'insieme delle questioni che quel liberalismo, che certo non è il liberalismo classico, presuppone alla sua radice. In breve, provo a dire così. La libertà è, per Croce, sempre superiore alle istituzioni nelle quali si incarna, l'energeia è superiore agli erga. Se si guarda al suo momento dinamico (humboldtianamente Croce, appunto, parlava di energeia), l'occhio discerne necessariamente il lavoro dello spirito che produce le sue opere, e il suo è uno sguardo filosofico. Se invece si guarda all'ergon politico che la libertà abbia prodotto dando luogo agli equilibri costituzionali che definiscono quel che si chiama liberalismo, lo sguardo affissa questa particolare (empirica) forma politica, che ha negli equilibri, nelle garanzie, nei diritti il suo tratto costitutivo. Preso il liberalismo in questa accezione, fra Croce e i suoi anzidetti critici non c'era luogo a sostanziali contrasti. Una volta ammesso che si trattava di un organismo giuridico, l'equilibrio delle norme poteva essere disposto in un modo o in un altro, ma sulla sostanza poteva essersi d'accordo. Nella sua forma empirica, questo era anche per lui il liberalismo. Bobbio predicava l'importanza delle regole e, da liberale classico, parlava di limitazione del potere dello Stato. Per questo aspetto, Croce sarebbe stato d'accordo con lui (o lui con Croce se a questo aspetto della questione avesse dedicata maggiore attenzione). Il punto serio della differenza (che non era tanto teoretica, quanto storico-politica), stava in ciò: Croce non credeva che le regole bastassero a garantire la vita di un'istituzione che pure di esse avesse fatto il suo fondamento. Se non avesse letto tanto Machiavelli e tanto Marx, gli sarebbe bastato Tacito a farlo dubitare del potere salvifico delle istituzioni in quanto istituzioni. Con tutti i limiti che le si possono riconoscere, l'Italia era retta a libertà quando il fascismo schiantò le sue istituzioni, che non trovarono infatti chi sapesse difenderle. Questa fu per Croce una lezione amarissima. Se non si tiene conto della parte che nel suo pensiero politico deve essere data ai maestri del realismo politico, e del trauma in lui prodotto dalla morte della libertà, di quel pensiero temo che non si riesca a cogliere il centro, che non si capisca che la sua preoccupazione fu che, nel dare il loro contributo all'ethos liberale e nel formare le sue regole, queste ne fossero compenetrate e vivificate. Si potrebbe dire che al giurista qui si contrapponeva il critico della società, e che da giuridico-politico, il discorso si faceva politico-morale. Curioso. A Croce fu tante volte rimproverato, anche da Bobbio, di aver ceduto alle lusinghe del realismo di Machiavelli e di Marx, di aver sacrificato l'etica alla politica. Ma alla fine, senza rinnegare la lezione di quei grandi realisti, il suo discorso politico si concluse proprio nel segno dell'etica, quale la intendeva lui, che la identificava con l'energia stessa dello spirito nella pienezza delle sue forme. Su questo credo che si debba insistere. Croce non volle mai ammetterlo, né volle farne una teoria. Farla gli sarebbe apparso riprovevole come se, per quella via, si andasse a far parte del male che si diagnosticava. Tuttavia, nel fondo del suo pensiero si era formata la convinzione che il mondo nel quale era nato e aveva pensato i suoi pensieri fosse finito, che la civiltà fosse entrata in una crisi della quale non si vedeva la risoluzione e la fine. In una tarda polemica, negli anni della seconda guerra mondiale, Gentile gli osservò che per lui la provvidenza aveva voltato le spalle al mondo. Voleva essere una critica: che ne è stato, intendeva dire al suo amico di un tempo perduto, del tuo idealismo? Ma, cogliendo nel segno, la critica lasciava intendere che, al di là di un mondo che stava andando in pezzi, Croce stava cercando il profilo di un mondo nuovo, che non poteva essere il suo. Per questo a leggerlo, e a studiarlo in certi aspetti del suo pensiero, emerge un personaggio assai meno semplice di quello che, nel bene e nel male, per esaltarlo o per denigrarlo, la vulgata ha delineato. Certo per capire questo, occorre averlo letto e studiato lasciando cadere i pregiudizi, quelli favorevoli non meno che gli altri, sfavorevoli, e cercando di andare in profondità. Occorre per questo, averlo studiato e possedere (poiché non parlo di me, posso dirlo) un po' di cervello nella testa.

Si potrebbe dire che Hegel sta a Kant come Croce sta alla (sfortunata) tradizione degli azionisti, in termini di Sein e di Sollen, di realtà effettuale e di imperativi?

Lascerei da parte sia il Sollen, sia il Sein, sia l’accettazione della realtà così com’è, sia l’istanza del cambiamento. Il rapporto che Croce stabilì con il Partito d'Azione è molto più complesso di quanto questa schematica contrapposizione non dica. Innanzitutto, il rapporto si stabilì in termini fortemente polemici con la componente toscana e con il liberalsocialismo di Guido Calogero, che poneva la giustizia, che per Croce, era un concetto empirico, sullo stesso piano della libertà, che per lui era un concetto puro, anzi il concetto puro come tutto il concetto. E fu, da parte sua, una polemica aspra: tanto più lo fu in quanto, liberalsocialismo a parte, Croce sapeva che molti, fra i suoi ideali discepoli, si stavano dirigendo verso quella sponda, o già vi erano approdati. In secondo luogo, la polemica fu determinata dal sospetto, o dal timore che, nell'interpretazione soprattutto che ne dava la componente liberalsocialista, il programma del Partito d'Azione contenesse aperture pericolose nei confronti del Partito comunista, verso il quale l'atteggiamento degli azionisti non era, in tutti, così lineare e univoco come si sarebbe potuto pensare se lo si fosse astrattamente dedotto dalle parole del programma, o dei programmi. Credo che in questo Croce non avesse torto. Un conto era dissertare di giustizia e di libertà, di pseudoconcetti e di concetti, e chiedersi se la sintesi ne fosse possibile. Un altro era credere che il problema consistesse nel far confluire in un nuovo organismo l'esperienza socialista come si era realizzata nella Russia sovietica e la tradizione liberale dell'Occidente. A parte la sua inclinazione conservatrice, Croce avvertiva in tutto questo il rischio del dottrinarismo; nel cui segno gli accadeva tuttavia di non considerare che il vecchio liberalismo richiedeva di essere profondamente rinnovato per renderlo idoneo a sostenere le nuove, dure sfide che si preparavano. Se lo si affrontasse come si dovrebbe, il discorso si farebbe al riguardo molto complesso, non lo si potrebbe esaurire in poche battute; anche perché ho l'impressione che, all'inizio degli anni quaranta, quando prese forma la polemica con Calogero, Croce sapesse sull'Unione Sovietica più cose di quelle che erano note al suo interlocutore e ai più degli azionisti. E' curioso, per altro, che la polemica di Croce battesse piuttosto sulla componente toscana del Partito d'Azione che non su quella torinese, che risentiva del pensiero di Gobetti e non aveva dimenticato la sua interpretazione della rivoluzione d'ottobre come rivoluzione liberale. Credo che in proposito molte ricerche dovrebbero ancora essere fatte: anche nell'Archivio di Croce. Qui posso solo dire che, per me che, essendo allora giovanissimo, mi iscrissi al Partito d'Azione nel settembre del 1944, e naturalmente non solo per me, la fine drammatica di quel partito due anni più tardi, significò una ferita mai rimarginata, una ragione profonda di permanente spaesamento. Ma di questo si parlerebbe meglio in un'altra occasione. Per restare a Croce, direi che la sua polemica fu così dura perché nella vicenda degli intellettuali che si erano formati anche sui suoi libri e che ora si distaccavano da lui, egli lesse in anticipo il destino che la sua opera avrebbe incontrato nel dopoguerra. Dopo essere stato per anni il punto di riferimento di quanti al fascismo erano ostili, e lo combattevano, e, fra questi, anche di non pochi comunisti, Croce avvertì chiaramente di essersi ormai avviato lungo il sentiero della solitudine e dell'isolamento.

Croce non sembra tanto ostile alla democrazia e al bisogno di estendere i diritti sociali a tutti, specie se si considerano alcune sue dichiarazioni rinvenibili negli Scritti e discorsi politici (1943-1947). Egli, tuttavia, relega la questione sociale nella famiglia dello pseudoconcetto. Non si rischia così di scivolare nel terreno problematico della «finzione» e svilire la dimensione delle masse, degli uomini al plurale?

A questa domanda credo di aver già risposto in vari modi. Lascerei stare lo pseudoconcetto e la riduzione ad esso della questione sociale. A parte il tratto conservatore che caratterizzò la posizione di Croce nel primo dopoguerra, e che aveva la sua origine nella percezione della debolezza da cui la sua parte politica appariva affetta nel confronto con il partito cattolico e con quello comunista, il suo problema fu che, a distanza di poco più di vent'anni, non si ripetesse il dramma del 1922. Come ho già detto, il suo problema fu la difesa a ogni costo della libertà in un paese che, vent'anni prima, l'aveva perduta senza averla difesa. E' singolare la teorizzazione che allora egli fece del Partito liberale come di un metapartito a cui doveva essere affidata la garanzia, per tutti i partiti, della libertà. Questa teorizzazione è singolare perché l'idea che la ispira ha una strana consonanza con la concezione, proposta nel programma liberalsocialista, della Corte Costituzionale come del luogo in cui le forze politiche si impegnavano a rispettare la comune libertà e a non ammettere in quel club politico chi non avesse sottoscritto questo impegno. La differenza era che il discorso azionista si svolgeva sul terreno giuridico-costituzionale, quello di Croce sul terreno politico; che era tuttavia, nello stesso tempo, metapolitico e alludeva a qualcosa che aveva il significato e il valore di una ferma garanzia. Il che dimostra che fra Croce e gli azionisti molte cose erano comuni: fu forse anche per questo che quelle non comuni presero il sopravvento e inasprirono un conflitto che sarebbe stato meglio mantenere sul piano politico.

Gli azionisti, nonostante il loro spirito egalitario, sono quindi più in sintonia con il crocianesimo e l’idealismo italiano che ad esempio con la cultura liberal di matrice anglosassone? Non crede che nella disputa accesa fra Croce e il Partito d’Azione, il primo abbia forse un po’ esagerato?

Alla prima domanda risponderei di sì. E questo vale anche per Bobbio, che in quegli anni lontani scriveva il libro sulla filosofia del decadentismo, leggeva Heidegger e riconosceva in Croce un maestro. Non conosco a sufficienza la sua storia in quel periodo. In anni più recenti, Bobbio scrisse che il suo passaggio dal crocianesimo alla filosofia analitica era avvenuto in modo quasi naturale: credo che alludesse al carattere «mondano» della filosofia di Croce o a qualcosa di simile, e che questo gli avesse facilitato l'approdo a quella spiaggia. Credo anche che decisivo sia stato, soprattutto, l'incontro con Kelsen, senza paragone più importante, anche per quanto riguarda, la disposizione filosofica, di quello con Gilber Ryle, pur da lui molto apprezzato.

Per finire, mi consenta una modesta considerazione, che riprende quella con cui ho cominciato a rispondere alle sue domande. Non sono adatto a dare consigli. E darli mi è sempre piaciuto altrettanto poco che riceverne. Così non mi sognerei mai di suggerire a   qualcuno la lettura di Croce (o di chiunque altro). La regola vale per tutti, e non c'è consiglio che possa addolcirla. Per sapere se valga o no la pena di leggere un libro, occorre leggerlo: da questo paradosso uscire è impossibile. Quella del consigliere letterario è una figura divisa tra l'ipocrisia e il ridicolo. Il problema serio, dunque, non è questo: non appartiene alla propaganda, alla parenesi, e allo spirito gregario. Riguarda il rapporto che i filosofi, in giro per le vie dell'Italia e del mondo intrattengono, o non intrattengono, con la cultura filosofica di ieri, e quindi, piaccia o non piaccia, anche con l'idealismo. Se rapporto non c'è, se in filosofia l'Italia è diventata una provincia tedesca o francese, poco male se in tale provincia si accenderà, prima o poi, una luce. Ma certo occorrerà che qualcuno studi anche il senso e il perché di quel sentiero interrotto. Per farlo dovrà leggere anche i filosofi che ora sono chiusi nell'anello dell'oblio. In coerenza con quanto detto fin qui, non spetta a me dire come questo libro debba essere scritto. L'augurio è che a scriverlo sia un uomo libero e assistito dall'intelligenza.

(17 marzo 2016)

Scritto giovedì, 17 marzo, 2016 alle 18:24 nella categoria Interviste. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.
6 commenti a “Liberalismo e dialettica in Croce. Intervista a Gennaro Sasso”

Valeria Pagnani scrive:   
18 marzo 2016 alle 23:31

Davvero un'intervista suggestiva. Due filosofi (uno giovane, uno maturo) che, a modo loro, hanno cercato la profondità.
Franco Crea scrive:   
19 marzo 2016 alle 18:47

Una conversazione davvero molto interessante, dove le voci si mescolano in un sentiero tortuoso: la storia crociana dell'idealismo. Personalmente non amo molto questo indirizzo di studio; ma trovo stimolante questa ricucitura fra le varie interpretazioni filosofiche, richiamata alla fine. Trovo del tutto incomprensibile e forse irragionevole il concetto "metapolitico" della libertà. Cosa puó significare? E soprattutto, come può essere compatibile col fenomeno politico-empirico? Forse neppure Croce l'ha mai saputo. Comunque, i miei complimenti per questa bella intervista.
Pasquale Giannino scrive:   
22 marzo 2016 alle 22:35

Ho letto con interesse l'intervista, che mi limito a commentare in relazione al brano che riguarda la questione delle “scienze empiriche”. Il mio è il punto di vista di un tecnico che nutre e coltiva un profondo interesse per un approccio ai problemi di conoscenza che superi la contrapposizione – tipicamente italiana – fra cultura umanistica e cultura scientifica. Per intenderci, fra i miei riferimenti culturali annovero intellettuali ad ampio spettro come Robert Musil, Bertrand Russell, Primo Levi e Carlo Emilio Gadda. Questa mia breve riflessione non è condizionata da preconcetti di natura ideologica né dalle dinamiche della competizione accademica, da cui sono alieno. Tenterò di esprimermi con il rispetto dovuto a uno studioso del livello e dello spessore del professor Sasso, nonché all'autore dell'intervista.

Con la nascita della scienza moderna – grazie all'intuizione che ebbe Galileo di utilizzare il linguaggio matematico per descrivere i fenomeni naturali e soprattutto grazie ai potentissimi strumenti del calcolo differenziale e integrale, di cui furono pionieri Leibniz e Newton e che furono perfezionati nei secoli successivi – è stato possibile, nel giro di qualche secolo, comprendere i fenomeni meccanici ed elettromagnetici. Le rivoluzioni scientifiche del Novecento – la meccanica quantistica e la teoria delle relatività generale – hanno reso possibile la comprensione di fenomeni piuttosto lontani dal senso comune e da ogni sorta di percezione – fenomeni che potremmo definire estremi – come quelli che si verificano a livello subatomico o in presenza di enormi concentrazioni di energia (suggerisco per approfondimenti l'ottimo libro divulgativo di Stephen Hawcking “Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo”). Ora, il metodo adottato dalla scienza moderna è sostanzialmente quello introdotto da Galileo e illustrato da Popper (talune speculazioni successive sono a mio parere abbastanza fuorvianti). In estrema sintesi, con riferimento allo studio di un particolare fenomeno naturale: costruzione di un modello matematico che consenta di fare delle predizioni intorno al fenomeno studiato; verifica sperimentale di quanto predetto dal modello e graduale perfezionamento dello stesso. Tale metodo si è rivelato particolarmente efficace nella descrizione dei fenomeni fisici, ha permesso agli scienziati di formulare teorie di validità sempre più ampia e generale. Dal Seicento ai giorni nostri la storia della fisica è scandita da successive unificazioni (generalizzazioni) di teorie parziali: l'unificazione fra la meccanica terrestre e quella celeste compiuta da Newton; la teoria dei campi elettromagnetici formulata da Maxwell; la descrizione unitaria dell'elettromagnetismo e della forza nucleare debole fornita da Abdus Salam, Sheldon Lee Glashow e Steven Weinberg (premi Nobel per la fisica nel 1979); la sfida già affrontata da Einstein e non ancora vinta di formulare una teoria unificata dei campi estesa ai fenomeni gravitazionali. Ora, il punto è questo: il progresso che si registra nella scienza moderna è del tutto inusitato nella storia della civiltà umana. Gli esempi che ho riportato afferiscono all'ambito di ricerca che mi è più congeniale per esperienza e formazione (sono un ingegnere elettronico, e non mi offendo se qualcuno mi dà del “tecnico”), ma non è difficile guardare ad altri ambiti in cui il metodo della scienza moderna è risultato vincente, producendo un progresso altrettanto rapido e inconsueto lungo il cammino della conoscenza: si pensi ai progressi compiuti nel campo dell'astrofisica; si pensi ai traguardi raggiunti in quello della genomica.

Veniamo al dunque. I filosofi oggi dovrebbero chiarire l'obiettivo delle loro speculazioni. Qual è la strada che intendono percorrere? Intendono muoversi su un piano meramente letterario? Intendono usare le parole per fare letteratura o per risolvere problemi di conoscenza? Ecco, se il loro obiettivo è fornire delle suggestioni letterarie, può anche aver senso continuare a discutere di Croce e Gentile. Ma se gli studiosi e i sostenitori di Croce e Gentile – che sono ancora tanti nel nostro Paese – intendono attribuire alla cultura neoidealistica italiana il merito di aver contribuito al progresso della conoscenza nella storia della civiltà occidentale, ebbene, dovrebbero chiarire quali sono i problemi di conoscenza che le speculazioni di Croce e Gentile hanno risolto e in che termini. Al tempo di Croce e Gentile, sulla scena internazionale operavano personaggi del calibro di Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein e i filosofi del Circolo di Vienna. Il loro contributo al progresso della conoscenza è chiaro, così come sono chiari i problemi che essi hanno affrontato e le soluzioni che hanno proposto, nonché i loro limiti. In perfetto stile autarchico, l'Italia di quegli anni produceva lo strascico neoidealistico di Croce e Gentile. Bene, la mia posizione è questa: reputo che il contributo di Croce e Gentile vada inquadrato in quella componente della filosofia occidentale che da Platone a Hegel fino al neoidealismo nostrano ha privilegiato le suggestioni letterarie; ha costruito sistemi prettamente dogmatici; ha avanzato la pretesa di giustificare tali sistemi attraverso un uso abile quanto ingannevole delle parole, spacciato per logica. Ecco, è questo a mio giudizio l'ambito in cui andrebbe ricondotto il dibattito intorno alle figure di Croce e Gentile. A meno che, ribadisco, i loro studiosi e sostenitori non chiariscano una buona volta quali sono i problemi di conoscenza affrontati dai due esimi esponenti del neoidalismo italiano e quali sono le soluzioni da loro proposte. Ma lo chiariscano illustrando problemi e soluzioni attraverso un linguaggio rigoroso, affinché sia possibile verificare le soluzioni proposte, ed eventualmente migliorarle o rigettarle. In caso contrario continueremo a discutere di questioni e suggestioni meramente letterarie. Potremo parlare, volendo, di questioni estetiche. Ma di certo non discuteremo di conoscenza.

Grazie dell'attenzione,
Pasquale Giannino
Francesco Da Rin scrive:   
23 marzo 2016 alle 10:58

Appoggio completamente quello gli argomenti sostenuti dal dott. Giannino con poche aggiunte:
Bisogna anche ricordare che Croce si vantava – si vantava – di non capire nulla né di matematica né di scienza – baserebbe valutare il dibattito – una vera e propria polemica - con Federigo Enriques sulla possibilità di una epistemologia come filosofia, per farsene un’idea.
Ma neppure questo è interessate. Interessante è il rapporto tra il pensiero crociano e la cultura italiana che non è propriamente fatto da una interpretazione autentica degli scritti – In quanti hanno letto con attenzione Croce?- ma della incomprensibile pervasività di quel pensiero nella cultura italiana. E come questo pensiero ancora oggi agisca – e proprio perché agisce io lo considero.
Mi pare già strana l’affermazione del proff. Sasso su un indistinto obblio dell’autore. Io vedo altrimenti e i casi sono due: o l’autore è stato a tal punto introiettato da scomparire per poter meglio agire, oppure è ben vivo come sotto cerco di dire.
Alla morte di Umberto Eco, che Croce lo aveva ben letto per rigettarlo (Croce trattando dell’Espressione entra a tutto diritto nel campo della linguistica), sul numero dell’Espresso a lui dedicato (nr 9 3 marzo 2016), Scalfari scrive un articolo il cui unico scopo sembrerebbe proprio quello di divulgare una polemica scritta che aveva avuto con Eco proprio sulla tesi crociana dei distinti. Chiaramente da due posizioni diverse.
E’ interessante che un “coccodrillo” venga usato per prendersi una rivalsa su uno scomparso: a me pare evidente che la questione sia, quantomeno per Scalfari, ben viva e “pesante”
C’è di più, l’articolo successivo, firmato da Wlodek Goldkorn, ipotizza che se “l’immaginazione precederebbe l’esperienza” ciò “implicasse un suo (sempre di Eco) ripensamento e riavvicinamento all’insegnamento di Benedetto Croce”.
Come se Eco guardasse a Croce con qualche interesse – lo riteneva confuso e ben poco strutturato.
Quindi, nel giro di tre pagine (3 pagine) nei primi due articoli dedicati a Eco, compare costantemente Croce.
E non mi pare poca cosa che la morte di Eco diventi l’occasione per parlare di Croce
Francesco Da Rin scrive:   
23 marzo 2016 alle 11:11

Ritornando alle questioni poste dal proff. Sasso
Inoltre è ulteriore cosa che la filosofia, così come l’intende Croce, non possieda limiti nazionali, ma miri, a torto o a ragione, ad essere universale, forse addirittura astorica (guarda alla storia ma vorrebbe trarsene fuori definendone i principi). Quindi è lo stesso Croce ad esporsi sul palcoscenico internazionale “correggendo” Hegel o pubblicando in tedesco prima che in italiano. Poi che vinca o perda questa tenzone a Lei giudicare: quanto è noto Croce fuori dell’Italia? E Hegel?
E la “correzione” è interessante, perché se Hegel, da buon tedesco, cerca di cucire gli opposti a sistema, Croce, l’italiano, individua opposti che non possono essere cuciti a sistema: i distinti.
Per cui, in ipotesi, se Hegel rende sempre possibile una sintesi, e quindi la possibilità che anche la scienza partecipi del tutto, per Croce questo non è neppure pensabile perché esiste un sistema decrescente a partire dallo Spirito, di cui, al massimo, la scienza è ancella.
Che Croce tendesse a “sezionare” anche i “corpi” interi è cosa ben nota a dipartire da quella distinzione tra poesia e struttura che forse per fraintendimento poi diventa la prassi di dividere “scolasticamente” ulteriormente la forma dal contenuto – sicuramente fraintendendo Croce che però ponendo la questione di come questi nell’opera riuscita si uniscano elidendosi, li individua e così facendo li distingue.
Lei dirà che io non ho capito nulla di Croce. Io le dico già da ora che è vero, ma ho guardato con più interesse a quello che poi quel pensiero – banalizzato, frainteso se vuole - comporta, quando può agire sulla realtà : il sistema educativo italiano ad esempio – su cui Croce ha una qualche responsabilità - non è fatto per produrre quadri intermedi che si integrino ad implementare il sistema ma bensì intellettuali generici che per svolgere bene il loro compito è meglio che non si sporchino mai le mani con la vile realtà.
Del resto qui è Croce ad agire in prima persona per cui ……….
Io, come Eco, potrei essere più interessato a Charles Pierce che diceva, da buon pragmatico: per accertare il senso di una qualunque costruzione intellettuale si dovrebbe unicamente considerare le conseguenze pratiche di tale costruzione, la somma di tali conseguenze costituirà l’intero significato di questa concezione.
Troppo semplice dirà Lei – forse – ma per me interessante.
Ulteriore questione che andrebbero approfondite – sempre in quanto Croce “forgiatore” di mentalità che evidentemente posseggono una lunga durata- è la sua lettura, tutta partenepea, del liberalismo – non la sua lunga gestazione anglosassone ma qualcosa da cui si capirebbe meglio la “via” tutta italiana fatta solo di diritti e mai di doveri – Berlusconi docet.
Per arrivare infine ad un campo in cui sono un poco più esperto: mi ha sempre incuriosito il modo in cui Croce piega alla sua estetica il purovisibilismo di Fiedler (senza elencare gli altri) che è pura matericità dell’oggetto artistico: l’idea se non trova corpo semplicemente non esiste.
-
Franco Crea scrive:   
23 marzo 2016 alle 21:10

Condivido le vostre affermazioni e consiglio la lettura delle opere di Carlo Ludovico Ragghianti, il quale ha "corretto", secondo me, il superfluo astrattismo di Croce sul versante estetico; mi spiace un po' che, nell'intervista, non si sia parlato di estetica: la vera rivoluzione crociana, nel bene e nel male. La faccenda del distinto, dell'opposto logico ecc., a parer mio - e con tutto il rispetto per i due autorevoli studiosi - lascia il tempo che trova.

http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/17/liberalismo-e-dialettica-in-croce-intervista-a-gennaro-sasso/
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 13, 2016, 01:05:52 pm »

Economia & Lobby
Neoliberismo: il capro espiatorio che fa comodo a tutti

Di Giuseppe Bianchimani
 9 giugno 2016

Contro ogni dato, statistica o curva d’incidenza, le cause del virus Ebola sono state individuate da Laura Boldrini nella “spinta al privato della Sanità mondiale “. L’11 settembre. Come dichiarò l’allora presidente della Commissione europea, Romano Prodi: “Quello che è successo a New York ci ricorda che non potrà più imporsi come dottrina una certa forma di pensiero unico che difende il liberismo sfrenato”. Questi sono solo due dei molteplici commenti che si possono ravvisare sul web, leggere tra le righe di giornale o apprendere in un dibattito televisivo. La scelta non ha come scopo attaccare i due personaggi in questione, bensì sfruttare la loro posizione autorevole per dare credito ad una tesi che si sta via via concretizzando: Vi è un male? La colpa è del neo-liberismo!

Penso che il problema principale sia definire che cosa si intende per neo-liberismo, poiché questa parola sembra dire tutto e niente. La mia idea è quella di chiarire quali sono le posizioni in merito per ciò che concerne la letteratura economica e quindi chiedersi: vi è effettivamente tra gli economisti teorici o tra i responsabili della politica economica una comunità ascrivibile al pensiero neo-liberista? E se la risposta dovesse essere affermativa, quali sono le implicazioni che ne discendono? Molti sostengono, che le cause della crisi risalgono al grande processo di deregolamentazione in materia finanziaria attuato dalla fine degli anni ottanta.

Questa iniziativa fu in gran parte dovuta e/o teorizzata da una classe di economisti, provenienti per lo più dall’università di Chicago, con a capo Milton Friedman, passati poi alla storia con il nome di neo-liberisti o Chicago boys. Secondo questa tesi, se oggi ci troviamo a sperimentare un periodo di scarsa crescita a livello globale (alcuni direbbero secular stagnation), un livello di diseguaglianze esacerbato ed una pesante incertezza diffusa nei mercati finanziari, circa la sostenibilità dei debiti pubblici, lo si può ricondurre per intero al neo-liberismo! Magari fosse così facile. Basterebbe invertire il mainstream dominante. La concezione comune è che in teoria economica vi siano due schieramenti, diametralmente opposti: i keynesiani da una parte ed i liberali dall’altra.

Uno scontro in cui i primi riconducono le cause della determinazione del reddito (ciò che si definisce comunemente Pil) a fattori di “domanda aggregata”, mentre i secondi sostengono che bisognerebbe attuare politiche di stimolo per “l’offerta aggregata”. In realtà queste sovrastrutture sono state abbandonate da tempo, in particolare dagli anni settanta in poi, con ciò che oggi viene definita la teoria dell’equilibrio. Riportando un caro esempio (si veda Monacelli), la macroeconomia moderna oggi non è composta né da “domandisti” né da “offertisti”; ma semplicemente da “equilibristi”. Ciò non vuol dire che vi sia una omologazione concettuale circa lo studio dei fenomeni socio-economici, al contrario vi è una sintesi di elementi dell’una e dell’altra corrente.

I modelli che fanno riferimento a questa impostazione teorica vengono definiti Dsge (per i più curiosi si veda Jordi Galì), un acronimo che sta per dynamic stochastic general equilibrium. Sostanzialmente, i Dsge cercano di spiegare fenomeni quali la crescita economica, fluttuazioni del ciclo economico (es. recessioni) e gli effetti della politica monetaria e fiscale, sulla base di modelli fondati da principi di equilibrio, ovvero l’interazione tra domanda ed offerta aggregata attraverso il sistema dei prezzi. Questa tipologia di modelli è ampiamente accettata, sia da economisti più vicini ad idee “conservatrici”, che da coloro che si sentono più prossimi alle idee “democratiche”.

È sorprendente inoltre sottolineare (come osservato da Gregory Mankiw qualche anno fa) che i consiglieri economici dei presidenti Usa e delle banche centrali sono quasi sempre reclutati tra le file dei “neokeynesiani”, cioè tra coloro che credono nell’efficacia della politica monetaria e fiscale (si pensi alle figure di Draghi, Bernanke oppure Olivier Blanchard, non proprio dei paladini del “liberismo sfrenato”). Come potrebbe essere altrimenti? I veri “mercatisti” non avrebbero salvato le banche, non le avrebbero parzialmente nazionalizzate e non avrebbero promosso gli stimoli fiscali.

Allora perché vi è tanto fervore ed accanimento verso il neo-liberismo? Probabilmente perché, e su questo la storia ha tanto da insegnare, l’utilizzo di un capro espiatorio fa sempre comodo per evitare ragionamenti più complessi. Con ciò non voglio asserire che le politiche economiche degli anni ottanta non abbiano influito sulla determinazione della crisi finanziaria, ma è oltremodo controproducente ragionare con delle categorie ormai desuete. Sembra quasi diventata un’ossessione, eppure oggi che cosa si intende per neo-liberismo? Forse è una domanda su cui in molti dovremmo riflettere.

Di Giuseppe Bianchimani | 9 giugno 2016

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/09/neoliberismo-il-capro-espiatorio-che-fa-comodo-a-tutti/2806635/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2016-06-09
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 26, 2017, 12:06:48 pm »

Io penso che il futuro della dimensione politica della nostra società debba segmentarsi in POLI di influenza o meglio di pensiero (almeno tre).

Il Polo della Sinistra storica (o marxista, o di conservazione, scelgano loro) ritengo sia utile, nel nostro sociale, soprattutto senza oneri di governo ma di stimolo e "sorveglianza" di certi valori irrinunciabili.

Se poi riuscisse ad essere propositiva, comprendendo l'evoluzione che ci sta investendo (con rischio di involuzione antidemocratica) potrebbe presto svolgere un ruolo di protagonista nelle cose da cambiare (in primis il Capitalismo come strumento di potere).

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« Risposta #4 inserito:: Marzo 01, 2017, 05:13:08 pm »

Che cosa si giocano i big di centrosinistra
Domani l’attesa assemblea del Partito democratico: da una parte la tradizione Ds, dall’altra il renzismo.
Un duello di mesi con liti e mediazioni. Ora l’atto finale

Pubblicato il 18/02/2017
Ultima modifica il 18/02/2017 alle ore 07:25

Roma
Il rottamatore ora rischia di rottamare il Pd 

L’apparente paradosso è a portata di mano e Matteo Renzi lo sa: il rottamatore della vecchia classe dirigente della sinistra, rischia di passare alla storia come il rottamatore del Pd. Accelerando la restaurazione della partitocrazia. Certo, la scissione si preparano a farla i suoi avversari e Renzi è pronto ad imputarglielo. Ma il segretario non ha mosso un dito per raffreddare gli scissionisti, che vogliono un congresso. Ma dopo l’estate. Renzi teme che una resa dei conti così lontana possa indebolirlo e che la possibile flessione del Pd alle Amministrative di primavera possa essere cavalcata dai suoi nemici. Loro, pensa Renzi, vogliono una cosa sola: la sua testa. Ma gli uni e gli altri in fondo vogliono la stessa cosa: tornare a comandare in casa propria. Se non cercherà un compromesso in extremis, Renzi è pronto a giocarsi il suo futuro, scommettendo sulla sua arma preferita: la rottura.
FABIO Martini

Con Renzi non si sono mai capiti, l’ultima volta che si sono parlati fu per l’elezione di Mattarella; poi ha contrastato ogni sua scelta in una lite senza fine. Ma che sarebbe stato proprio Pierluigi Bersani a rompere, il difensore del Partito inteso come “ditta”, non ci credeva nessuno fino a due giorni fa. Eppure sembra questo il destino di un comunista atipico, figlio di un benzinaio, vicino alla sinistra extraparlamentare in gioventù, poi laureatosi con una tesi sulla storia del cristianesimo. Ed è proprio una sterzata sul versante più radicale della sinistra quella che ora sta per fare, convinto che tanti voti regalati dal Pd ai grillini o alla destra possano essere recuperati cambiando segno, anche contro quell’Europa che fu simbolo degli ulivisti come lui. Ora gli tocca pure andare a braccetto con D’Alema, con il quale non ha mai legato. Per gettarsi, dopo lo strappo «doloroso» dal Pd, in una nuova avventura da protagonista, un’altra storica scissione che dilanierà il popolo della sinistra.
CARLO BERTINI

«Se prevale l’idea di andare ad elezioni senza un progetto - e con l’obiettivo di normalizzare il Pd - allora sia chiaro: una scelta di questo tipo renderebbe ciascuno libero... State pronti a ogni eventualità». Fine gennaio, Massimo D’Alema brucia sul tempo i titubanti leader della minoranza Pd e sdogana l’ipotesi di una scissione. Perché lo fa? «Per rancore personale», dicono i fedelissimi di Renzi. «Per recuperare potere», aggiungono i maliziosi. «Perché tiene al futuro della sinistra», replica chi è d’accordo con lui. Tre ipotesi non in contraddizione, ma non è il punto. Ciò che colpisce è il gioco d’anticipo rispetto al travaglio della coppia Bersani-Speranza, ed il fatto che un’eventuale scissione porterà il suo imprimatur: non quello di un giovane leader, dunque, ma quello del primo dei rottamati. Può darsi che non sia un bene, ma certo è una conferma: in certe battaglie guai a fare prigionieri. Soprattutto se si chiamano D’Alema. Chiedere a Veltroni e Prodi...
FEDERICO GEREMICCA

Dario Franceschini
È l’ago della bilancia ancora una volta. Del resto Dario Franceschini, è stato un po’ tutto. Ma sempre democristiano. Poi popolare, margheritiano-ulivista, capogruppo, ministro e infine segretario democrat dopo le dimissioni di Veltroni. Oggi è il mediatore per eccellenza. È Franceschini che tratta, Franceschini che smussa, Franceschini che tenta di ricucire. Uno strappo, forse, insanabile. Ma per molti (tanti militanti) anche inconcepibile. Perché come ripete da giorni «non si può rompere perchè c’è chi vuole il congresso a aprile e chi a settembre...».
Con Renzi sin dalle primarie del 2013, ora, guarda già alle prossime alleanze. Obiettivo: allargare il campo. Da qui, la proposta del premio di coalizione per vincere nella prossima tornata elettorale. Ma stavolta riuscirà a convincere tutti, anche D’Alema e Bersani? 
PAOLO FESTUCCIA

Michele Emiliano
Michele Emiliano è forse il più pericoloso avversario di Matteo Renzi. Gode infatti di una certa popolarità anche fuori dal Pd. È inoltre ingombrante per la sinistra dem che vorrebbe il monopolio dell’alternativa all’ex premier. Ma alla fine il governatore pugliese, che non ha una sua corrente, è stato l’unico dei potenziali scissionisti al quale il segretario ha telefonato per tentare di fermare la rottura. Eppure è stato uno dei più duri contro Renzi attribuendogli istinti napoleonici e la colpa di avere trasformato il Pd nel partito di petrolieri e banchieri. Si è candidato alla segretaria e fa parte del tridente d’opposizione con Rossi e Speranza. In politica arriva tardi, a 44 anni, dopo aver fatto il magistrato. Diventa sindaco di Bari nel 2004 e governatore nel 2015. Si è battuto per la de-carbonizzazione dell’Ilva. La rottura con Renzi si è consumata sul referendum sulle trivellazioni.
AMEDEO LA MATTINA

Andrea Orlando
Consigliere comunale del Pci a La Spezia a 21 anni, poi assessore, poi su su fino alla segreteria nazionale del Pd, al Parlamento e infine al governo. Ha macinato anni di gavetta Andrea Orlando, di riunioni e sezioni, una vita da mediano della politica: un solido quadro approdato presto in serie A, mai col carisma del bomber. Fino a oggi, alla presa di distanza dal segretario e al tornante che lo ha messo al centro dei giochi. Balenata e già accantonata l’ipotesi che potesse essere lui il candidato unitario anti-Renzi, rischia di trovarsi coi suoi «Giovani turchi» solitaria anima di sinistra di un Pd spostato verso il centro, se la minoranza abbandonerà effettivamente in blocco il partito. A meno che anche lui, che promette di cercare una mediazione fino all’ultimo per evitare la scissione, non dovesse alla fine cedere alle sirene dei vecchi compagni D’Alema e Bersani. 
FRANCESCA SCHIANCHI

Giuliano Pisapia
È un avvocato, un garantista, è soprattutto una persona onesta prestata alla politica. Nasce come “gruppettaro”, negli anni Settanta era un militante di Democrazia proletaria. Ma tutto si può dire di Giuliano Pisapia tranne che fosse e tantomeno che sia un estremista. Magari un radicale sì, nel senso che ha sempre difeso i diritti e le libertà di tutti (italiani e immigrati) senza deroghe. È stato deputato come indipendente nelle liste di Rifondazione comunista. Ruppe con Bertinotti nel ’98 perché votò la fiducia al governo Prodi ma poi i due ricucirono. Oggi l’ex sindaco di Milano ha dato vita al «Campo progressista». Un movimento politico che guarda alla sinistra delusa, vuole avere rapporti con Renzi ma non intende farsi assorbire dal suo Pd. E se ci fosse la scissione, se nascesse un nuovo partito con D’Alema, Bersani, Emiliano e gli altri, molto probabilmente Pisapia sarebbe della partita. Anzi del Partito.
RICCARDO BARENGHI

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Da - http://www.lastampa.it/2017/02/18/italia/politica/che-cosa-si-giocano-i-big-di-centrosinistra-DqToXjvv3IEynGAMcZx29O/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 01, 2017, 05:39:38 pm »

Lo scrivo da tempo: ex DC con ex PCI a freddo non si "incollano", a mio parere una possibile soluzione per star "vicini" e lavorare, sarebbe il creare un POLO DEMOCRATICO, in cui le varie anime di area CentroSinistra, legate ad un Progetto Politico preciso, possano dedicarsi al compito fondamentale di ogni politico, fare l'interesse dell'elettore Italiano.

Qualcuno sarà capace di fare il disfattista anche su un Progetto condiviso alla nascita (accadrà) ma buttarlo fuori dal POLO sarà più facile. Ciaooo

Da FB Isemplici del 22/02/2017

http://forum.laudellulivo.org/index.php/topic,13160.0.html
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 01, 2017, 05:45:23 pm »

Fossero anche 10 spezzoni, nulla impedisce di ritrovarsi, non ipocritamente dentro uno stesso partito, ma lealmente riuniti in un POLO DEMOCRATICO con il compito di pensare un Progetto Paese che il Governo dovrà realizzare. Gg

……………

Affatto! Io seguo Darwin che ci indica la vita. La paura della morte è strumento di dominio sul genere umano, da parte di chi pensa di credere in una fede che promette l'Aldilà. La Vita e la Morte non solo non sono gemelle, ma neppure sorelle. Non si conoscono! In ogni caso il libero arbitrio ci permette di riconsiderare la Morte e accettarla come porta d'ingresso verso "Altro", ma solo una BUONA VITA lo renderebbe di facile accesso. Gg

Da FB del 26/02/2017

……………….

Il "campo" politico segmentato in POLI, è la speranza che la politica attuale si nobiliti, evolvendo dall'essere pollaio dai troppi galli. Il POLO DEMOCRATICO che propongo come tema di discussione può dare dignità alla partecipazione responsabile di "diversi" che scelgano di avvicinarsi (da partiti indipendenti) per stendere e appoggiare un Progetto Paese e il conseguente Governo che lo realizzi. Gg

……

Chiedete case anti-sismiche ... anche per andare in vacanza!
Togliamo l'acqua nell'acquitrino dei profittatori e dei costruttori senza coscienza.
Boicottare chi delinque è l'arma vincente dei semplici Cittadini. Gg
Da FB del 26/02/2017

……………………
Dalla fondazione del PD è risultato evidente che la così-detta "fusione fredda" non avrebbe creato intese "forti". Gli ex-PCI e gli ex-DC sono sempre stati in "tensione calda". Noi nel forum (forumista e prima ulivo.it) l'abbiamo vissuta da indipendenti. ciaooo 

……..

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« Risposta #7 inserito:: Marzo 02, 2017, 12:46:24 pm »

Ridicolo ma forse proprio questo ci permetterà di mettere a fuoco un fatto: i poteri forti di cui tanto si parla non potranno esserne lieti (forse).

Chi tra noi da tempo pensa alla politica suddivisa in tre POLI che raggruppino i partitini volatili, forse potrà essere ascoltato.
In primis il PD che dovrebbe affrettarsi a formare il POLO DEMOCRATICO, dall'area di Centro a quella di Sinistra (anche radicale).

Il Polo Democratico che immaginiamo dovrebbe essere definito con compiti specifici: studiare e realizzare il Progetto-Paese che il suo Governo deve realizzare nella legislatura (5 anni).
I Partiti che aderiscono restano indipendenti nelle loro "case" e le beghe che fatalmente nasceranno non dovranno incidere in negativo nel lavoro del POLO.   

Se sono rose …
Ciaooo

Da FB del 2 marzo 2017

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« Risposta #8 inserito:: Marzo 06, 2017, 05:52:07 pm »

POLO DEMOCRATICO.

Cos'è: Il Polo Democratico è un accordo socio-politico concordato e sottoscritto tra Partiti o Movimenti, diversi tra loro, che dinanzi al Paese si impegnano a realizzare un preciso compito circoscritto e delimitato da un Progetto-Paese. La realizzazione di detto Progetto dovrà essere realizzato (nei termini minimi previsti) dal Governo del Polo Democratico entro la legislatura di 5 anni dalla sua costituzione.

Quando si costituisce il Polo Democratico: nasce in tempo utile per essere formato, presentato al Paese e votato nelle prime elezioni politiche previste. La sua approvazione deve essere verificata dall’esito delle elezioni stesse.
Il Polo Democratico sarà autorizzato alla formazione del Governo se uscirà vincente nelle suddette elezioni politiche.  
Se tale evento non si dovesse verificare i Parlamentari eletti e i loro Partiti faranno parte come intero Polo Democratico della Opposizione in Parlamento. L’impegno iniziale prevede che in questo caso nessun Parlamentare o Partito dovranno partecipare alla attività della coalizione vincente (Polo avversario).

Nel caso di vincita delle elezioni, il Polo Democratico forma il suo Governo e come tale si appresta alla nomina dei ministri in accordo con i Partiti che formano il Polo Democratico. Con questa operazione doverosa termina il rapporto diretto e condizionante tra il Polo Democratico e i Partiti che lo appoggiano, davanti al Paese e operativamente in Parlamento.

Quindi il Polo Democratico e il suo Governo … governano.

I Partiti saranno indipendenti dal Governo che appoggiano (nei limiti previsti dal Progetto-Paese) e saranno liberi di svolgere ogni azione politica e sociale rivolta ai Cittadini e alle loro associazioni.
Liberi da oneri di governo, come primo effetto positivo i Partiti e i loro Parlamentari avranno agio e tempo a disposizione per una vicinanza migliore con gli elettori e con la vita sociale Italiana. Oggi assolutamente teoriche o intorbidite da intermediari non sempre fulgidi.      

L’indipendenza del Governo del Polo (prenderà il nome del Primo Ministro) dai Partiti che l’hanno generato e lo sostengono in Parlamento, non impedirà che i Segretari dei Partiti abbiano la possibilità di verifica sul procedere del Progetto-Paese e su richiesta di una delle parti possano assolvere a compiti consultivi.

Segue:
« Ultima modifica: Marzo 07, 2017, 12:45:23 am da Admin » Registrato
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 22, 2017, 01:49:22 pm »

   Opinioni
Pierluigi Castagnetti   

· 22 marzo 2017

La passione fino all'ultimo, è morto sul campo

La mia amicizia con Alfredo Reichlin


Se ne è andato un amico, un carissimo amico.

Alfredo Reichlin è stato maestro di pensiero politico per tante generazioni di giovani comunisti e – negli ultimi anni, finito il comunismo – di giovani progressisti.

Senza mai rinnegare il suo passato e, anzi, continuando a sentirsi con il cuore e la passione comunista, accettava e capiva come pochi la lezione della storia. Per ciò riteneva doveroso, pur già anziano, non subire il tempo nuovo ma cercare di guidarlo.

Con questo spirito fu tra i fondatori protagonisti del Partito democratico.

Uomo interessato al dialogo con quanti provenivano da altre esperienze, mi onorò della sua amicizia ampiamente ricambiata.

Reichlin pensava il mondo, godeva dei suoi progressi che coglieva con lungimiranza nei processi di emancipazione dalla sottomissione e dalla miseria di popoli interi, ma ne soffriva – quasi in simbiosi fisica – le perduranti ingiustizie e l’inadeguatezza delle sinistre moderne a farne ragione di nuove battaglie politiche.

Per lui la politica e i partiti in particolare erano strumenti per fare storia. Sennò non lo riguardavano. Preoccupazioni che lo hanno accompagnato e consumato sino agli ultimi suoi giorni.

In questo senso possiamo dire che è morto sul campo.

da unita.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 23, 2017, 12:32:20 pm »


Categoria: Res Publica   

Perché una sanità da sogno costerebbe (molto) meno.
Spiegato in breve scritto da Luca Foresti il 21 Ottobre 2016


Una delle ragioni per cui i sistemi sanitari hanno problemi è la distanza che si è venuta a creare tra la catena del valore alla produzione generata da chi gestisce il sistema (chi lo governa, chi paga, chi eroga) e i cittadini che ne devono fruire.

Quale sarebbe una catena del valore a misura di paziente? E quanto costerebbe averla?

Primo anello di questa catena ideale è l’informazione. Tutto quello che può essere pubblicato online deve essere pubblicato online. Qualsiasi limitazione a questo principio viene interpretato come incapacità da parte del sistema di andare incontro al paziente. Foto dei medici, loro curriculum vitae, le loro statistiche cliniche, le loro agende, la spiegazione delle prestazioni che erogano, le opinioni dei pazienti su di loro, la possibilità di prenotare online una prestazione. Si tratta di informazioni che un cittadino di questa epoca si aspetta di avere dal sistema sanitario. Ovviamente avendo le informazioni online una parte consistente delle domande e dei dubbi che oggi si riversano nei call-center o sui desk scomparirebbero. I moduli non verrebbero più stampati ma si potrebbero scaricare e gestire in modo digitale, abbassando i costi sia per il sistema sanitario che per i pazienti.

Altro anello della catena del valore: il tempo. Ogni attesa “inutile” viene vissuta negativamente. Liste di attesa, code, lunghi tempi di anticamera fuori dagli studi, lungaggini per avere un referto. Oggi quasi tutto al di fuori della sanità avviene in tempo reale e queste attese sono incomprensibili ai più. Poiché l’attesa produce una parte consistente dei cosiddetti no-show (il paziente non si presenta all’appuntamento) dovuti al fatto che nel frattempo il problema o è passato o è stato gestito in altro modo, si libererebbero spazi e diminuirebbe il costo della gestione delle agende.

Poi c’è il costo: ci si aspetta di pagare una cifra appropriata rispetto alla prestazione erogata. Per cui ormai non è più considerata accettabile la mega-parcella per i 10 minuti del luminare. Questo ragionamento vale per la parte privata della sanità, mentre quella pubblica vede oggi una quantità di ticket pagati dai pazienti che è una piccola frazione del costo sanitario complessivo per lo Stato.

I luoghi: le persone cercano luoghi belli, curati, con odori, colori, rumori piacevoli. Sedie comode, wifi attivi, giornali freschi di giornata. Si tratta di aspetti quasi irrilevanti in termini di investimenti e di costi di gestione rispetto ai costi del personale, elettromedicali e infrastrutture.

Le persone: ci si aspetta di avere a che fare con persone gentili, che ascoltano e sanno aiutarci ad affrontare i nostri problemi di salute e anche di ansia sulla nostra salute. Ci aspettiamo di avere a che fare con persone equilibrate che sanno raccogliere e gestire le nostre difficoltà psicologiche, a volte strutturali e a volte causati dallo stato di salute in cui versiamo in quel momento. Nessuna spesa maggiore, ma formazione e controllo degli operatori da parte della struttura erogativa. Ovviamente persone così preparate produrrebbero meno reclami e problemi nella relazione con i pazienti e quindi risparmi per la struttura.

Poi c’è la qualità clinica: ci presentiamo al sistema con un problema. Ci aspettiamo che il sistema accolga il nostro problema e cerchi di affrontarlo, al meglio delle conoscenze scientifiche esistenti. Quindi ci aspettiamo che gli operatori sanitari siano preparati e sappiano dirci la verità su ciò che si può o non si può fare. E che ci mettano nelle condizioni di capire non solo la diagnosi ma soprattutto la prognosi. Vogliamo sapere che ne sarà di noi da quel momento in avanti. Vogliamo essere presi in carico fino a che non saremo giudicati fuori dal problema. E se il problema diventasse cronico, vogliamo che ci vengano ben spiegati tutti gli aspetti che possono migliorare la qualità della nostra vita. La gran parte dei problemi di cattiva gestione clinica deriva dal poco ascolto del paziente e dal poco tempo dedicato alla spiegazione di cosa fare. Il risultato di queste mancanze sono: medicinali, diagnostiche e terapie inutili prescritte. Ovviamente con costi maggiori per il sistema sanitario.

La tecnologia: tutto ciò che può essere fatto dalla tecnologia a minori costi e migliore qualità deve essere fatto in quel modo. Non vogliamo ripetere le stesse operazioni 100 volte. Non vogliamo portarci dietro tonnellate di referti da presentare all’ennesimo medico che per l’ennesima volta non sa nulla di noi e in 10 minuti deve sia capire tutta la nostra storia che capire cosa fare. Database unificati, sistemi informatici che si parlano tra loro. Anche qui, a meno di una quota di investimenti iniziali, oggi piuttosto limitata grazie a strumenti quali il cloud computing e il SaaS (Software as a Service) business model, i costi successivi si abbasserebbero sensibilmente, come tutti i processi di digitalizzazione dei servizi dimostrano.

Ultimo anello della catena del valore è la trasparenza: ci aspettiamo la massima trasparenza su tutto quello che riguarda la nostra salute. La trasparenza è un vincolo al comportamento degli operatori, che quindi devono stare particolarmente attenti a gestire in modo adeguato tutte le attività sotto la loro responsabilità

Questa è la catena del valore dei pazienti. Solo soddisfacendola creeremo un sistema migliore. E spenderemmo molto di meno rispetto ad oggi. Perché non provare a farlo?

Twitter @lforesti

Da - http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2016/10/21/perche-una-sanita-da-sogno-costerebbe-molto-meno-spiegato-in-breve/
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« Risposta #11 inserito:: Marzo 25, 2017, 09:45:48 am »


Spes ultima dea

Di Fernanda Fraioli
31.01.2017

Nel linguaggio quotidiano, la speranza è l’ultima a morire. Nel motto latino è riferito ad una divinità perché nel mito greco del Vaso di Pandora è quella tra gli dei che rimane a consolare gli uomini quando tutti gli altri se ne sono andati.
Ma anche nell’antica Roma, sia repubblicana che imperiale, ne ritroviamo il culto ove, oltre a dedicarle un tempio e una festa, veniva raffigurata sulle monete come una giovane donna che incede, sollevando l’orlo dell’abito con un bocciolo di fiore nella mano destra, fino ad assumere un valore religioso.
L’idea, di un imperatore romano, intendeva significarne l’azione benefica esercitata anche nell’aldilà.
Per arrivare, con gli imperatori cristiani a perdere i suoi aspetti mondani e assurgere tra le virtù teologali, quale valore religioso ultraterreno, arrivato, così, fino a noi.
Lo ritroviamo anche nei nostrani Sepolcri nei quali, però, il Foscolo si premura di ricordare come li fugga.
A Rigopiano, invece, questo lembo di terra finora sconosciuto ai più, i soccorritori si sono votati al suo culto quando intorno era tutto desolazione e tristezza e molti davano, per scontata, la sua dipartita.
Ed, invece, questi angeli, come ferventi credenti, non si sono fatti contagiare ed hanno continuato ad operare nel silenzio, lontano dalle polemiche dei riscaldati salotti televisivi che si sono registrate copiose.
Quando si lotta per salvare vite umane non si avverte il freddo tagliente ed i metri di neve che cadono sulle proprie teste, figurarsi i rimbrotti di politici e figuranti vari che si azzuffano a favore di telecamera.
L’imperativo non era rispondere alle polemiche.
Invece negli ovattati, caldi e comodi studi televisivi si sono registrate diatribe a gogò nel vano tentativo di affossare la nuova compagine della Protezione Civile da parte dei sostenitori di quella vecchia o di screditare le Amministrazioni, centrali o locali, attive e di controllo, amministrative o giudiziarie che fossero.
I soccorritori, invece - molti dei quali è bene ricordarlo, sono volontari - bramavano soltanto poter rispondere a quelle deliziose e bizzarre domande che, fortunatamente, gli sono state rivolte e, proprio grazie alle loro bravura, ostinazione e abnegazione.
“Dove sono i miei biscotti al cioccolato? Adesso ci portate a sciare?” quelle rivoltegli, in un esercizio di resilienza che solo i bambini sanno fare. Era questo che volevano sentirsi dire. E, francamente, anche noi.
Invece, no, siamo stati letteralmente torturati da opinionisti della più varia natura che non avendo nulla da dire, hanno detto molto, sbagliato, inopportuno, sovrabbondante.
Sarebbe bastato tributare un attimo di venerazione a questa dea contemplata dal rito pagano, ma anche cristiano, nel quale viene declinata accanto a fede e carità che, nelle sue forme più estreme raggiunge il sacrificio di sé, realizzando il comandamento dell'amore lasciato da Cristo ai suoi discepoli.
Tradotto in termini più semplici, laici e universalmente comprensibili, è quel bel tacere - secondo la tradizione attribuito a Iacopo Badoer - che non fu mai scritto.
Esattamente come fatto dal serpente utilizzato dai soccorritori che, per quanto hi-tech, è, pur sempre, l'emblema del silenzio perché è così che bisogna stare per capire se da sotto arrivano segnali.
Si usa una tromba da stadio: un solo suono significa “tutti zitti”, due che si può riprendere a scavare.
Ecco, anziché sopraffarsi con strepiti, teorie personalizzate, accuse gratuite, avremmo gradito sentire un suono di tromba, uno solo, provenire dal nostro tubo catodico.

Da - http://corrieredellumbria.corr.it/news/l-asterisco/247783/spes-ultima-dea.html
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« Risposta #12 inserito:: Aprile 03, 2017, 04:50:23 pm »

Il M5S è il primo partito con il Pd. Equilibrio quasi perfetto tra i 3 poli

Il sondaggio: grillini e democratici al 29%, ma il centrodestra incalza. Sale la fiducia nel governo. Tra i ministri Franceschini batte Minniti

Tra i ministri ottima performance di Dario Franceschini: il titolare dei Beni Culturali e del Turismo batte Marco Minniti, agli Interni

PUBBLICATO IL 30/03/2017

NICOLA PIEPOLI

Il Movimento Cinque Stelle diventa il primo partito italiano. Nell'ultimo sondaggio realizzato sulle intenzioni di voto, i grillini guadagnano mezzo punto percentuale rispetto alla settimana scorsa e raggiungono il Pd al 29%. Il sorpasso è imminente perché il M5S, a differenza dei dem, è in lenta ma costante crescita. Le rilevazioni fotografano un’Italia tripolare: il centrodestra unito è al 28,5%, anche se non è scontato che le tre forze principali (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) si presentino alle elezioni coalizzate tra di loro. I fuoriusciti dal Pd (Mdp) non decollano e restano inchiodati al 3,5%, un punto in più di Sinistra italiana. Mentre naviga attorno al 3% anche Ncd, il partito centrista di Angelino Alfano.
 
CHI SALE E CHI SCENDE 
Abbiamo poi chiesto al nostro campione se il consenso nelle tre maggiori forze politiche del Paese fosse cresciuto, rimasto uguale oppure diminuito. È il Movimento 5 Stelle l’unica forza politica a ottenere un saldo positivo. Perché? La motivazione principale è che i grillini sono considerati dagli intervistati «più vicini ai cittadini» perché «lavorano per il Paese». Il Pd subisce invece una forte diminuzione del consenso percepito, con il 44% degli intervistati che ritiene che la fiducia sia diminuita. I dem vengono avvertiti come un partito ripiegato su se stesso che trascura i reali problemi del Paese (questa è la motivazione per il 13% degli interpellati). Inoltre il Pd viene percepito come una formazione meno compatta del passato (9%) e lontana dall'opinione pubblica (8%). 
 
Per quanto riguarda il centrodestra, che abbiamo considerato come una forza unitaria, anche qui gli intervistati ritengono che il consenso sia diminuito (19%). Lega e Forza Italia sono percepiti come ripiegati su loro stessi, intenti a discutere di schieramenti e alleanze e non vicini alle esigenze dei cittadini. Dall'analisi dei dati emerge inoltre che il Movimento 5 Stelle è visto dagli elettori come immune da scissioni o diatribe interne, motivo per cui è percepito come più affiatato quindi più stabile e affidabile degli altri.
 
CAPITOLO PRIMARIE 
A un mese dalle primarie del Partito Democratico l’affluenza potenziale si attesta intorno al 16% e vede nettamente in testa l’ex segretario Matteo Renzi con una percentuale del 65%. Gli sfidanti Andrea Orlando e Michele Emiliano si attestano rispettivamente al 21% e al 14%. Si tratta di dati che, con il passare delle settimane e l’avvicinarsi delle primarie, vanno via via stabilizzandosi.
 
IL GOVERNO 
Per quanto riguarda lo stato di salute del governo e dei suoi ministri, il 44% degli intervistati dichiara di aver fiducia nell’esecutivo (+2%), mentre il 46% confida nel premier Paolo Gentiloni. Tra i ministri ottima performance di Dario Franceschini, con il 62%. Il titolare dei Beni Culturali e del Turismo è tallonato dal ministro degli Interni, Marco Minniti, e da quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, Graziano del Rio, entrambi al 58%. Promosso anche Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura, la cui fiducia raggiunge il 56%. Bene pure Pier Carlo Padoan, titolare del Tesoro, al 55%. Il ministro meno amato è invece Angelino Alfano con l’indicatore di fiducia che si attesta al 25%. In fondo alla classifica anche Poletti (Lavoro), Fedeli (Istruzione), De Vincenti (Mezzogiorno) e Lotti (Sport).
 
LA FESTA PREMIA L’EUROPA 
Alzando lo sguardo fuori dai nostri confini, migliora la percezione dell’Unione europea. Le celebrazioni per i 60 anni dei Trattati di Roma della scorsa settimana hanno fatto sì che la fiducia nelle istituzioni europee arrivasse al 49%, con un aumento di 5 punti rispetto al nostro sondaggio precedente (gennaio 2017). Abbiamo chiesto inoltre se i cittadini si considerassero favorevoli o contrari all'Europa unita, ottenendo un risultato favorevole nel 75% dei casi, con un incremento del 7% rispetto a due mesi fa.
         
 
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/03/30/italia/politica/il-ms-il-primo-partito-con-il-pd-equilibrio-quasi-perfetto-tra-i-poli-3p0EoF02fODbj4GwivD3DK/pagina.html
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« Risposta #13 inserito:: Aprile 03, 2017, 04:53:43 pm »

Il POLO Democratico (uno dei tre possibili) dovrà dare una svolta alla politica tentennante che ci opprime.

Un POLO Democratico che si forma e vive non come "inciucio" "tanto per campà" (grande coalizione) ma come Unione di Scopo per realizzare un Progetto-Paese condiviso.

Progetto-Paese che affronti e risolva le primarie necessità che ci fanno soccombere nel confronto mondiale in fase sempre più acuta.

Ar.   

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« Risposta #14 inserito:: Maggio 16, 2017, 01:51:57 pm »


Alla Johns Hopkins University «Io alla tua sinistra». «Punti di vista»

Derby Renzi-Prodi, affondi e aperture

A Bologna scintille sulla rottamazione, sintonia sulle legge elettorale. Poi mezz’ora di faccia a faccia.
«Ci hanno messo lontano uno dall'altro», ha esordito Renzi. «Ci sono tre persone in mezzo», ha constatato Prodi con un sorriso malizioso

Di Marco Imarisio

Alla fine ci è voluto il terzo tempo, come nel rugby. Non è stata proprio una rissa, anzi. Ma insomma, Romano Prodi e Matteo Renzi non si sono mai troppo capiti e continueranno così, per una questione prima antropologica che politica, evidente dal linguaggio del corpo. Ogni volta che uno parlava l’altro metteva su una faccia da poker, ben attento a non muovere un muscolo del viso. Appena concluso il dibattito sull’Europa dopo le elezioni francesi alla Johns Hopkins University, animato soprattutto da Marc Lazar, il professore di Science Po che conosce bene Francia e Italia e sa bene quanto sia difficile trarre lezioni nostrane dalla vittoria di Emmanuel Macron, i due ex presidenti del Consiglio hanno passato una mezz’ora in una stanza al terzo piano a parlare da soli.

Diverse visioni sulla Ue

Non sarà stato l’incontro di Teano, ma la prima apparizione pubblica congiunta del professore e dell’ex rottamatore aveva il valore di una prima volta assoluta, pare cercata soprattutto da Renzi, il cui nome è stato aggiunto all’evento solo quattro giorni fa. «There’s no love lost» direbbero gli studenti dell’università americana. Non c’è amore tra i due, entrambi muniti di carattere forte e di un passato comune che comprende punture reciproche, e in ordine discendente di importanza la mancata citazione di Prodi durante la cerimonia di apertura di Expo 2015, gli inviti renziani a ridimensionare «la mitologia» e il santino dell’Ulivo, le diverse visioni dell’Unione Europea, e sopra ogni cosa, sempre innominabile come si addice a ogni vera tragedia, i centouno anonimi del Pd che affossarono la candidatura del professore bolognese al Quirinale.

Il sorriso da faina

«Ci hanno messo lontano uno dall’altro» ha esordito Renzi. «Ci sono tre persone in mezzo» ha constatato Prodi con un sorriso malizioso. «E comunque io sono alla tua sinistra, la notizia è questa» ha replicato il segretario del Pd, con una stoccata che conferma il suo indubbio talento scenico. «Bisogna vedere come uno si volta» è stata la conclusione, perfida, del professore. Il penultimo presidente del Consiglio è arrivato in ritardo, scusandosi. In sua assenza, nell’incontro con i giornalisti, Prodi aveva alquanto maramaldeggiato. Marc Lazar dissertava sulle apparenti similitudini tra Macron e Renzi, dicendo che quest’ultimo aveva fondato anche lui un suo partito, il Pdr. Parola al sornione Prodi: «Il Vangelo secondo Lazar. Perfetto, nulla da eccepire». E giù un sorriso da faina. Salvo poco dopo ribadire che «In Italia, il Pd si chiama ancora Partito democratico», calcando ogni accento possibile su quell’«ancora». All’arrivo di Renzi, la stretta di mano tra i due è apparsa fugace. Senz’altro meno marcata della smorfia di Prodi quando il nuovo ospite ha attaccato la litania del rischio paralisi e ingovernabilità come conseguenza del No al referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale, alla quale il padre dell’Ulivo diede il suo benestare in zona Cesarini, tre giorni prima del voto.

«Rottamazione è un termine che non mi è mai piaciuto»

Quando i contendenti si sono trasferiti nell’aula magna, i toni e le espressioni del volto si sono fatti ancora più seri, in omaggio al luogo e agli studenti poco interessati a eventuali regolamenti di conti interni al centrosinistra. Ma certe volte uno fatica a trattenersi. «Rottamazione è un termine che non è mai piaciuto» ha sbottato Prodi. «Questo da te non me lo aspettavo» è stata la replica scherzosa di Renzi, che ha spesso ripiegato nella diplomazia. Quando Prodi ha preso la rincorsa criticando i bonus del governo e la burocrazia contro la quale «nessuno ha fatto nulla», arrivando a proferire un «su riforme e l’Europa dobbiamo essere coraggiosi e coerenti», Renzi ha glissato. «Avevo capito che dovevo fare un match con Romano, quindi non riapro certi temi». Anche perché tutto sommato qualche frecciatina può valere la benedizione prodiana su una legge elettorale «che dia stabilità». Ce n’era abbastanza per fermarsi a parlare ancora, al termine di un incontro che ha avuto comunque il significato di una riconciliazione. Per quanto è possibile. L’aula dove sono stati messi giornalisti e studenti a seguire il dibattito in video è la numero 101. Ma con scelta opportuna nessuno ha osato farlo notare ai due illustri conferenzieri.

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12 maggio 2017 (modifica il 12 maggio 2017 | 23:16)

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