LA-U dell'OLIVO
Settembre 29, 2024, 07:22:12 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 11 12 [13] 14 15 ... 20
  Stampa  
Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 158016 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #180 inserito:: Dicembre 12, 2012, 05:55:47 pm »

UNA CAMPAGNA ELETTORALE POLARIZZATA

Ma di moderato ci sarà assai poco

Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, anziché nel caos in cui siamo, potremmo affrontare le elezioni di febbraio senza grandi patemi d'animo. Nel migliore dei mondi possibili ci sarebbero due grandi partiti, l'uno di centrosinistra e l'altro di centrodestra, nessuno dei quali ricattato e condizionato da forze estremiste, che si contenderebbero l'elettorato di centro. Entrambi i partiti concorderebbero sul fatto che l'Italia non ha altre possibilità che rispettare gli impegni presi con i partner europei e che nulla serve di più, per rassicurare mercati ed Europa, della certezza che chiunque vincerà rispetterà gli accordi e governerà di conseguenza. Nel migliore dei mondi possibili i due grandi partiti si differenzierebbero fra loro solo perché, pur nel rispetto degli impegni presi, l'uno, quello di centrodestra, proporrebbe di ridurre la pressione fiscale su ceti medi e imprese tramite una contrazione della spesa pubblica mentre l'altro, quello di centrosinistra, proporrebbe risparmi che servano a migliorare la condizione dei ceti meno abbienti.
Ma non viviamo nel migliore dei mondi possibili, la situazione è diversa. Le elezioni non si caratterizzeranno per una competizione fra grandi partiti tesi alla cattura dell'elettorato centrista. Saranno invece elezioni iperpolarizzate, e iperideologizzate, nelle quali l'elettorato di centro si troverà spiazzato e, forse, politicamente orfano.

La scelta di Berlusconi di ricandidarsi smarcandosi da Monti e anticipando così di un mese la fine della legislatura è una scelta all'insegna della radicalizzazione. Berlusconi, alla ricerca di quel dieci o quindici per cento di voti o giù di lì che gli assegnano i sondaggi e che gli servono per restare in partita, dovrà fare (anche se egli dichiara oggi il contrario) una campagna di segno antieuropeo. Anche perché avrà Monti, con il suo ruolo di garante di fronte all'Europa, come uno degli avversari da contrastare. Gli elettori moderati, quelli che in anni passati avevano creduto alla sua promessa di rivoluzione liberale, se li è persi, è difficile che abbocchino ancora. Inoltre, si trova a fare i conti con una netta presa di distanza della Chiesa (si veda l'intervista del cardinale Bagnasco al Corriere di ieri). Dovrà pertanto cercare di fare il pieno degli «arrabbiati». Tanto più che la sua scelta si accompagna a una rinnovata alleanza con la Lega, un partito che ha combattuto il governo Monti e che, per giunta, nel modo intelligente che è proprio di Roberto Maroni, sta di nuovo perseguendo un progetto, sia pure soft, di secessione del Nord (per questo scopo, precisamente, gli serve togliere al Pdl anche la presidenza della Regione Lombardia). L'alleanza Berlusconi-Maroni sarà, non potrà non essere, una alleanza che userà toni e argomenti estremisti. Altro che convergenza al centro.

A quell'alleanza se ne contrapporrà un'altra, quella dei grandi favoriti in queste elezioni, l'alleanza Bersani-Vendola. Nemmeno questa coalizione, per la verità, è fatta per tranquillizzare l'elettorato centrista. Perché in essa Bersani, un «montiano» (uno cioè consapevole dei vincoli europei) capeggia un aggregato ove abbondano gli antimontiani, da Vendola a Fassina, alla Cgil.
Un aspetto significativo del caso italiano è dato dal fatto che certi argomenti antiglobalizzazione e antieuro (che sottendono una implicita richiesta di protezionismo e di autarchia) siano presenti sia a sinistra che a destra. A volte si fa fatica a distinguere, quando parlano di questi temi, un vendoliano da un leghista, un rappresentante della Fiom da certi esponenti dell'ala più estrema del berlusconismo. Non è tutta colpa loro: è proprio dei sistemi politici frammentati come il nostro di scoraggiare la responsabilità e favorire la demagogia. E resta, naturalmente, l'incognita Grillo. Non si può sapere quanti voti prenderà il Movimento Cinque Stelle e come e quanto ciò condizionerà gli equilibri politici futuri.

In una democrazia che si avvia a una campagna elettorale all'insegna della polarizzazione, c'è il rischio che una vasta area di elettorato si ritrovi politicamente orfana. E che cosa accadrebbe con una eventuale candidatura Monti, di cui ha parlato ieri su queste colonne Antonio Polito? Le conseguenze potrebbero essere diverse. La prima è che in questo modo Monti punterebbe a una legittimazione democratica, che deve passare, per esser tale, attraverso il voto popolare. La seconda è che egli potrebbe offrire una sponda a un elettorato, probabilmente ampio, che in questo momento legge e rilegge il menu politico-partitico senza trovare un piatto che possa soddisfarne il palato. La terza è che cadrebbero certi alibi. Nessuno dovrebbe più nascondersi dietro a quell'oggetto misterioso, che si presta a tutte le possibili interpretazioni, denominato «agenda Monti».

La misteriosa agenda Monti verrebbe sostituita da un chiaro programma con cui Monti, e chi lo segue, si presenterebbero alle elezioni. L'unico consiglio che forse si potrebbe dare a Monti, se davvero puntasse a catturare l'elettorato oggi politicamente orfano, sarebbe quello di fare qualche piccolo aggiustamento nella comunicazione. Va bene insistere, come egli fa, sulla lotta alla evasione fiscale. Ma forse bisognerebbe aggiungere qualche idea su come, attraverso quali tagli di spesa, ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese. Perché senza una indicazione su questo punto egli difficilmente potrebbe catturare quell'elettorato, oggi oberato di tasse, che non ha più Berlusconi come punto di riferimento. E anche perché, senza una riduzione, graduale quanto si vuole, del carico fiscale, la ripresa economica da lui promessa potrebbe non arrivare mai.

Angelo Panebianco

11 dicembre 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_11/campagna-elettorale-Panebianco_91e3de34-435a-11e2-b89b-3cf6075586fe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #181 inserito:: Dicembre 16, 2012, 11:49:26 am »

L'EUROPA NELLE URNE

Ma le elezioni sono italiane

La colpa più grave che hanno gli sfasciacarrozze, quelli che «dobbiamo uscire dall'euro», quelli che «senza l'Europa è meglio», è che spinge tutti gli altri ad adottare, per reazione, un atteggiamento altrettanto insensato: li spinge alla santificazione dell'Europa. Ma santificare l'Europa è un errore che si ritorce contro chi lo commette, lo rende troppo remissivo verso gli interessi altrui, di chi (oggi i tedeschi, ieri l'asse franco-tedesco) non ha alcuna remora a farli valere pesantemente.

Non esiste Santa Europa. Le relazioni europee appartengono alla categoria dei giochi misti : i giocatori (europei) hanno alcuni interessi in comune e alcuni interessi divergenti. Il problema di ciascun giocatore, se è dotato di razionalità, è di contribuire a preservare gli interessi comuni senza rinunciare a difendere i propri nella competizione con gli interessi degli altri.
Il rimprovero che, da quando è scoppiata la crisi dell'euro, si muove alla Germania è di far valere a tal punto i propri interessi da mettere a rischio quelli comuni. Il giocatore più forte risulta sprovvisto della duttilità necessaria per esercitare una vera egemonia (una egemonia è tale solo se procura vantaggi sia all'egemone che a tutti gli altri). Una critica altrettanto fondata si può rivolgere a quei Paesi che, non facendo le opportune riforme interne, contribuiscano a danneggiare gli interessi comuni europei. Con, in più, l'impossibilità di contrattare in modo efficace la difesa dei propri specifici interessi. La vera forza del governo Monti è stata quella di avere fatto un paio di riforme importanti, e di averne avviate altre, accrescendo così la propria capacità di contrattazione in Europa.

La propaganda antitedesca degli sfasciacarrozze non può farci dimenticare che un problema tedesco esiste. Si tratti di fiscal compact o di unione bancaria, ogni decisione che prende l'Europa può essere solo «alla tedesca». La durezza della Germania nella difesa del proprio interesse nazionale fa il paio (segnalando una scarsa capacità egemonica) con la grossolanità dei suoi interventi politici. La plateale sponsorizzazione di Monti non gli ha fatto certo un favore. Anche agli italiani dà fastidio (come ha osservato Massimo Franco sul Corriere di ieri) sentirsi trattati come una colonia. Va ricordato a tutti che il 17 febbraio andremo a votare solo noi italiani. Per fortuna.

Né va infine sottaciuto il grave danno che arrecherebbe alla fisionomia futura dell'Europa un ritiro della Gran Bretagna dalla Ue. Tutti sono soliti prendersela con l'euroscetticismo britannico. Ma quasi nessuno segnala che se quell'euroscetticismo ha molte cause, una di esse è l'ostilità per l'eccesso di dirigismo da cui è afflitta l'Europa carolingia. Non è così sicuro che la Gran Bretagna abbia fatto male dicendo un secco no al fiscal compact . Una sua uscita dalla Ue condannerebbe i liberali europei, pochi o tanti che siano, a non potere mai più sperare in una Europa meno dirigista. Né in una Ue ove la Germania risulti più condizionabile.

Il passaggio è stretto: di là gli sfasciacarrozze, di qua gli acritici laudatori dell'Europa. Urge la ricerca di una via intermedia.

Angelo Panebianco

16 dicembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_16/le-elezioni-sono-italiane-panebianco_1bbfbbf8-474f-11e2-adc8-d4e6244fe619.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #182 inserito:: Dicembre 22, 2012, 06:26:38 pm »

IPOTESI SU UNA SVOLTA (SE CI SARÀ)

Le due strade di un leader


Con il messaggio che il presidente del Consiglio, da ieri dimissionario, rivolgerà al Paese alla fine della settimana, salvo ripensamenti che sembrano prendere forza in queste ore, la svolta si sarà compiuta: Monti sarà diventato a tutti gli effetti un protagonista della campagna elettorale. Ma con quale ruolo? Con quali prospettive? Con quali ambizioni? Sulla carta, ci sono due possibilità. Monti potrebbe scegliere la strada più rischiosa e più ambiziosa, potrebbe porsi come il federatore di una vasta area di elettorato, che è delusa da Berlusconi, ma che vuole anche sbarrare il passo a un Partito democratico giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Oppure, potrebbe immaginare per sé e per quelli che lo seguono un ruolo e un compito molto più modesti: rovinare solo in parte la festa al centrosinistra, puntare ad impedirgli di fare la maggioranza al Senato, costringerlo alla trattativa nel dopo elezioni. Detto in altre parole, Monti deve scegliere fra quelle che potremmo chiamare la vocazione maggioritaria e la vocazione alla trattativa.

Forse, anche ciò che è accaduto a Melfi due giorni fa può essere letto nell'uno o nell'altro di questi due modi: Monti applaudito sia da Sergio Marchionne che dagli operai dello stabilimento - mentre la Cgil protestava fuori dai cancelli - è indicativo di cosa? Indica il fatto che a Melfi si è palesata, anche fisicamente, la contrapposizione fra due, assai diverse, ipotesi di governo, ciascuna sostenuta da un diverso blocco sociale? Oppure si è trattato solo di un messaggio implicito, e di una anticipazione, su temi che saranno oggetto di trattativa post-elettorale fra Monti e la sinistra?

Se sceglierà la strategia della vocazione maggioritaria Monti dovrà sciogliere due nodi. Il primo riguarderà la natura del suo messaggio complessivo al Paese, diciamo il suo «programma di legislatura». Per attrarre ampio consenso non potrà presentarsi con un progetto solo emergenziale. Dovrà infondere speranza. Dovrà fare promesse certamente realistiche, ossia non demagogiche, che tuttavia, siano tali da convincere gli italiani che i sacrifici fatti non sono stati sopportati invano e che, in futuro, le cose miglioreranno sicuramente. Dovrà spiegare in che modo, con quali mezzi e quali tempi, sarà possibile ridurre la pressione fiscale, fare le necessarie dismissioni pubbliche, liberalizzare, privatizzare. Dovrà fare cioè della famosa agenda Monti qualcosa di diverso da un programma emergenziale tutto lacrime e sangue.

Tra l'altro, una proposta che inviti alla speranza servirebbe a Monti anche per scrollarsi di dosso quell'immagine di uomo dell' establishment europeo lontano dal popolo, di freddo esponente di una tecnocrazia transnazionale senz'anima che i suoi avversari (a torto, ma non del tutto) gli hanno cucito addosso. Il Monti politico dovrà sbarazzarsi di quella immagine.

Quanto più ambizioso sarà il progetto che Monti illustrerà al Paese tanto più crescerà l'intensità del conflitto fra lui e le altre forze, non solo Berlusconi, ma anche, e soprattutto, il grande favorito, il Pd di Bersani. Chi appoggia Monti è pronto a uno scontro frontale con un Pd che è certamente in grado di gettare sul campo di battaglia un gran numero di forze e di sostenitori?
Il secondo nodo da sciogliere riguarderà la coalizione elettorale che a Monti farà riferimento. Dovrà essere tale da dare credibilità al progetto. Non potrà esserci un'evidente sproporzione fra il fine enunciato e il mezzo scelto per realizzarlo: all'ambizione del messaggio al Paese non potrà corrispondere uno strumento elettorale troppo gracile.
La lista elettorale (o la coalizione di liste) dovrà essere rappresentativa di un blocco di forze ampio. Poiché tagliare fuori Berlusconi e la Lega non può significare anche tagliare fuori quel vasto mondo che un tempo si era affidato al Cavaliere. La composizione delle liste elettorali che si richiamano a Monti dovrà riflettere, per qualità e rappresentatività, questa cruciale esigenza.

In caso contrario, se questi due nodi non verranno rapidamente sciolti nel senso indicato, vorrà dire che Monti si sarà affidato a una diversa strategia: quella giocata sull'idea di trattativa. Vorrà dire che sarà prevalso un calcolo, magari anche utile al Paese, ma assai più modesto: condizionare il Pd nella formazione del governo del dopo elezioni.

Se così è, allora Monti dovrebbe riflettere su una circostanza: esistono prove abbondanti a sostegno della tesi secondo cui quando si parte con ambizioni troppo limitate è molto facile fallire, non ottenere nemmeno il poco che si immaginava di ottenere. Solo se le ambizioni sono davvero grandi, qualcosa, in un modo o nell'altro, si realizzerà.
Angelo Panebianco

Angelo Panebianco

22 dicembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_22/dimissioni-monti-panebianco_2847ed90-4c00-11e2-a778-2824390bcabe.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #183 inserito:: Gennaio 05, 2013, 11:40:06 am »

LE CARTE (TROPPO COPERTE) DEL PD

La necessaria trasparenza


I sondaggi danno il Pd come il probabile vincitore delle elezioni. Però la campagna elettorale è lunga e ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto.

Facciamo un esempio. Molti danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri. Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in causa?

Politica estera a parte, molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri, quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia?

Non basta qualche virtuosismo verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che alla Cgil fanno riferimento.

Quando non ci sarà più Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd? Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è andato?

Il ragionamento vale anche per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato, in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil. L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali.

Il problema è reso ancor più acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella linea di un solido contraltare interno.

Poniamo che, dopo le elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle retrovie.

Angelo Panebianco

4 gennaio 2013 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_04/la-necessaria-trasparenza-angelo-panebianco_45da4bce-5636-11e2-9534-ad350c7cbb97.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #184 inserito:: Gennaio 14, 2013, 05:53:31 pm »

BERSANI TRA PARTITO E GOVERNO

Poteri e difetti di una leadership

Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico in questa campagna elettorale, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha più probabilità di vincere.

È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in accanita concorrenza.

La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della (ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del partito.

Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto» (Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra».

Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione. Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader pronto a ricostituire una identità collettiva.

Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e, per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici.

Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole, ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente riassorbita.

Si noti che è la prima volta che un segretario conquista tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani.

Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista. Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco, dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta politica, ma concesso dal partito.

L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione) prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali in campo) e stretta dipendenza dal segretario.

Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che governa l'insieme.

Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina, sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede).

Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni senza con questo compromettere la propria leadership?

C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno.

Angelo Panebianco

13 gennaio 2013 | 8:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_13/poteri-e-difetti-di-una-leadership-angelo-panebianco_78da54d8-5d52-11e2-8540-81ed61eeac0a.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #185 inserito:: Gennaio 21, 2013, 07:47:12 pm »

I CITTADINI E LO STATO

La fiducia che non c'è

Più che gli economisti, al capezzale dell'Italia, servirebbero gli psicologi. La ripresa dei consumi interni, senza la quale non si esce dalla fase recessiva, è bloccata da una generalizzata crisi di fiducia, da aspettative negative sulle condizioni future. La campagna elettorale in corso non sta fornendo rimedi per modificare questi atteggiamenti. La vera causa della sfiducia nel futuro non è presente, se non marginalmente, fra i temi della campagna elettorale. Essa consiste nell'aggravamento - dovuto alla crisi economica - della tradizionale diffidenza dei cittadini nei confronti dello Stato, una diffidenza che, a sua volta, alimenta le aspettative negative di ciascuno sul (proprio) futuro.
I politici parlano di «riforme» ma fingono di non sapere che lo Stato italiano è fin qui risultato irriformabile e che di tale irriformabilità c'è ormai generale consapevolezza. Pesano sia le nostre immarcescibili tradizioni amministrative sia tanti errori commessi, nel corso del tempo, dai governi (da tutti i governi). Prendiamo l'ultimo esempio: il Redditometro. Non ha importanza che adesso si dica che verrà applicato in modo blando. La frittata è fatta. Basta infatti leggere di che si tratta per chiedersi: «Ma in che mani siamo? Come ci si potrà mai fidare di uno Stato simile?». Bisognerebbe domandare a coloro che hanno materialmente compilato il Redditometro: «Ma voi, in coscienza, vi fidereste di voi stessi?».

La crisi aggrava una antica e mai risolta sfiducia dei cittadini nello Stato (a sua volta, causa della sfiducia nelle prospettive future).
Il successo di pubblico che hanno sempre ottenuto le puerili parole d'ordine sulla «riscossa della società civile» è una spia di quella sfiducia, unita al tentativo di identificare il capro espiatorio nei soli politici di professione e, in definitiva, nella democrazia rappresentativa.

L'irriformabilità dello Stato dipende dal fatto che le tradizioni culturali (giuridiche, in particolare) del Paese, e una vasta ragnatela di interessi politici e burocratici, hanno impedito che l'amministrazione venisse investita da una rivoluzione liberale, capace di convertire la diffidenza in fiducia. Decenni di vita democratica sono serviti a poco. L'amministrazione dello Stato continua imperterrita a operare secondo antichi principi illiberali: retroattività delle norme, inversione dell'onere della prova (sempre a carico del cittadino), una prassi per la quale è vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso. La democrazia, semmai, accrescendo il numero degli interessi in gioco, ha aggravato i mali antichi. Ha favorito una proliferazione e una complicazione delle norme che esaltano la discrezionalità politico-amministrativa. Ogni tanto si sente invocare la semplificazione del quadro normativo. Ma sono parole al vento. Una vera semplificazione toglierebbe spazio alla discrezionalità e troppi interessi ne verrebbero danneggiati.

C'è, sullo sfondo, anche il «tradimento dei chierici», dovuto all'attività di molti fra i giuristi che fanno i consulenti per l'amministrazione e a quei professori di diritto che hanno contribuito a forgiare le mentalità di coloro che nell'amministrazione operano.
Ad alimentare la sfiducia, oltre alle tradizioni amministrative, concorrono gli errori dei governi. Ivi compresi quelli del «governo tecnico».

Sarebbe ingeneroso accusare il governo Monti di non aver posto rimedio ai mali antichi sopra indicati. Ma è anche vero che non ci sono stati molti segnali che andassero in quella direzione. Forse anche perché del governo facevano parte vari esponenti di spicco dell'amministrazione.

Nel caso del governo Monti, tuttavia, non si può parlare di tradimento dei chierici. Certi errori (che hanno contribuito all'incertezza e alla sfiducia) sono ascrivibili ad altre cause. Prendiamo il caso dell'Imu. Come si fa, in un Paese di proprietari di case, per giunta in una fase di caduta della domanda interna, a mettere una tassa la cui reale entità finale resta sconosciuta ai contribuenti per mesi e mesi? Puoi anche accettare di pagare una nuova tassa ma è obbligatorio che la sua entità ti sia immediatamente nota. In caso contrario, viene meno la capacità dei singoli o delle famiglie di fare calcoli e progetti, di prendere decisioni di spesa. Il fatto che l'entità della tassa che ciascuno doveva pagare sia rimasta avvolta nel mistero per troppo tempo ha contribuito all'incertezza, al rinvio delle spese e, quindi, alla «gelata» dei consumi.

In questo caso, nell'errore, non hanno pesato le tradizioni giuridiche o gli interessi della burocrazia. L'ipotesi di chi scrive è che abbia giocato un ruolo, piuttosto, l'eccesso di macro-economisti presenti nel governo, persone addestrate a pensare in termini di modelli econometrici, di flussi, e di macro-grandezze, poco propense a mettersi nei panni dei consumatori o dei produttori, a ragionare sulle loro aspettative e sui (micro)comportamenti conseguenti.

Le componenti che alimentano la sfiducia nel futuro, deprimendo l'economia e facendo di quella sfiducia una profezia che si auto-adempie, sono molte e complesse. La principale sembra consistere in un diffuso giudizio negativo sulla affidabilità dei governi (intesi in senso lato, strutture amministrative comprese). Se è questo il problema italiano, di questo dovrebbe occuparsi la campagna elettorale. Ma, di sicuro, ciò non accadrà.

Angelo Panebianco

21 gennaio 2013 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_21/la-fiducia-che-non-ce-panebianco_0c8953e2-6397-11e2-9016-003bf863ea6b.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #186 inserito:: Gennaio 28, 2013, 11:47:59 pm »

PARIGI ISOLATA IN MALI

Il mal d'Africa degli Europei


C'è un qualche rapporto fra quanto accade in Mali e l'integrazione europea? Lasciare sola la Francia nella nuova guerra africana ha allontanato la realizzazione dell'Europa politica oppure fra le due cose non c'è alcun rapporto? Domande come queste cadono al di fuori del consueto repertorio di idee e ragionamenti di cui si nutre il senso comune europeista.
Bisogna chiedersi: cosa potrebbe dare la spinta necessaria per realizzare l'unità politica europea? Davvero è sufficiente il desiderio di stabilizzare la moneta comune, di mettere in sicurezza i livelli di benessere raggiunti? Anche il manifesto pubblicato due giorni fa da questo giornale a favore di una Europa unita, e che porta in calce la firma di illustri intellettuali europei, non si discosta dalla tradizione, non chiarisce i motivi per cui dovremmo fare questa benedetta Europa unita: vi si dice solo che altrimenti l'Europa uscirebbe dalla Storia (un argomento troppo vago per mobilitare le persone) e, più prosaicamente, che non si riuscirebbe a salvare l'euro.

Ma una reazione chimica così potente e drammatica quale quella che è sempre presente nella nascita di una nuova comunità politica, non si produce in quel modo. Le unificazioni politiche avvengono, quando avvengono, soprattutto perché rese necessarie da minacce alla sicurezza, alla vita, talvolta alla libertà, di centinaia, migliaia, o milioni, di persone coinvolte.
C'è una ragione che spiega perché gli europeisti militanti glissino sulla questione della sicurezza: ha a che fare con le condizioni in cui prese l'avvio e poi si sviluppò, durante la Guerra fredda, l'integrazione europea. Quel processo fu reso possibile dal fatto che la sicurezza europea era, all'epoca, appaltata agli Stati Uniti e al suo braccio militare, la Nato. Non dovendo occuparcene direttamente e autonomamente ci abituammo a pensare a una integrazione europea disancorata dalla sicurezza. Nacque così anche la leggenda secondo cui l'unità politica sarebbe un giorno arrivata, quasi automaticamente, come coronamento dell'integrazione economica, come una mela matura che cade dall'albero: un modo, non dissimile da quello che un tempo veniva detto marxismo volgare, di trattare la politica quale mera sovrastruttura dell'economia.

Non è così e ora che la sicurezza degli europei - per un insieme di ragioni che vanno dal declino della potenza americana alla natura delle nuove minacce alla sicurezza - non può essere più appaltata (o almeno non del tutto), sarebbe bene svegliarsi, cambiare registro. Nulla dovrebbe dimostrarlo meglio di quanto sta accadendo fuori dai confini dell'Europa, in aree ove sono in gioco aspetti vitali della sicurezza europea. Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo.
Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista.

La questione del Mali è diventata un test per capire che razza di Europa avremo in futuro. Abbiamo scelto di lasciare sola la Francia (dandole, al più, qualche sostegno logistico). In questo modo, l'intervento francese ha assunto le sembianze di una azione neo-coloniale volta soprattutto alla protezione degli interessi che Parigi coltiva in Niger e altrove. Avevamo una alternativa: prendere atto del vitale interesse europeo al contenimento dell'islamismo radicale, ammettere che spettava alla (potenziale) «comunità politica» europea nel suo insieme sventare la minaccia, «europeizzare» l'intervento militare in Mali (magari anche, a combattimenti conclusi, per dare qualche ragione di speranza ai Tuareg e aiutarli a liberarsi dall'abbraccio con gli islamisti). Per come si sono messe fin qui le cose, la Francia ne trarrà motivo per ribadire la propria indisponibilità all'unificazione politica in nome della Grandeur che essa continua a coltivare. Se avessimo fatto una diversa scelta, avremmo forse creato le condizioni per una maggiore solidarietà fra europei. Non sarebbe stato sufficiente per fare l'Europa unita, ma avremmo almeno cominciato a pensarci come una «comunità di destino» (necessaria pre-condizione dell'unificazione).

Alle minacce si può rispondere in due modi. Si può fronteggiarle, impegnarsi in un vigoroso «bilanciamento» nei confronti delle forze sfidanti. Oggi, ciò richiederebbe dall'Europa uno sforzo collettivo. Oppure, si possono blandire le forze minacciose e cercare un accomodamento.
È la strategia del bandwagoning (saltare sul carro del vincitore). Non richiede sforzi unificati e coordinati. Ciascuno la può praticare per suo conto. Per quanto sia scomodo, fastidioso e, forse, politicamente scorretto, di queste cose dovrebbero finalmente occuparsi coloro che credono nella necessità di una Europa unita.

ANGELO PANEBIANCO

28 gennaio 2013 | 10:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_28/mal-africa-europei_32fdcd8a-6911-11e2-a947-c004c7484908.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #187 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:21:42 pm »

LA FARSA DEI SONDAGGI «PROIBITI»

Scarso rispetto per chi voterà

Cosa succede quando le autorità proibiscono la vendita di un bene del quale c’è una forte domanda? Si formerà un mercato nero. Una conseguenza è che si accentuerà il peso delle disuguaglianze. Sul mercato nero, infatti, il bene proibito costa molto di più di quanto non costasse nel mercato libero, prima che intervenisse il divieto. Chi possiede più risorse può permettersi l’acquisto del bene proibito, tanti altri no. Qualcosa di simile accade quando, come in Italia, si vieta la diffusione di sondaggi nelle due settimane che precedono il voto. I sondaggi continuano ad essere fatti, naturalmente. Ma dal momento in cui scatta il divieto di pubblicazione, solo una frazione della popolazione verrà a conoscenza dei risultati delle nuove rilevazioni demoscopiche: sono coloro che hanno accesso ai canali di informazione riservati alle élite. Le informazioni sugli orientamenti di voto spariscono dai media e entrano in un altro circuito, più ristretto, composto da coloro che godono del vantaggio sociale di poter accedere a canali personali e riservati. In questo modo, l’asimmetria informativa, il divario fra chi sa e chi non sa, fra i pochi che hanno accesso ai sondaggi e la maggioranza che ne è esclusa, si accentua.

Perché in certi Paesi si proibisce, da un certo momento in poi, la pubblicazione dei sondaggi (pur sapendo che quel divieto provocherà la formazione di un circuito informale dominato dal chiacchiericcio fra i bene informati, una sorta di campagna elettorale nascosta e parallela) mentre in altri Paesi (come gli Stati Uniti) quella proibizione non c’è? La risposta plausibile è una soltanto. Il divieto di pubblicazione dei sondaggi è possibile dove non si ha paura di stabilire per legge che l’elettore è un bambinone immaturo, che va protetto dalle (supposte) cattive influenze dei sondaggi.

Tutti noi siamo continuamente influenzati da tante cose. E le ragioni che spingono ciascun singolo elettore a votare in un modo o nell’altro (o a non votare) possono essere le più varie. Ma se si decide per legge che l’elettore è un immaturo suggestionabile il rischio è che qualcuno, un giorno, faccia anche il passo successivo, quello che discende logicamente dal primo: se l’elettore è un bambinone, perché mai dovremmo lasciargli il diritto di voto?

Sullo sfondo si intravvede la cattiva coscienza di élite che non hanno mai saputo fare ben i conti con il suffragio universale e le conseguenze che ne discendono. Élite che hanno paura del popolo. E c’è la predilezione per i circuiti ristretti ove gli ottimati — qualcuno pensoso del bene comune, i più pensosi delle future distribuzioni di cariche — possano occuparsene al riparo dalla pressione popolare. La politica è solo una faccia della società. C’è una connessione fra l’ideale di una democrazia sotto tutela (che va difesa dal suo principale nemico: il popolo) e la pratica dei mercati protetti che impedisce la libera competizione. In queste condizioni, non fa meraviglia l’insorgenza di potenti movimenti di protesta. Meraviglia che qualcuno si meravigli.

Angelo Panebianco

17 febbraio 2013 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_17/panebianco-scarso-rispetto-per-chi-votera_83fc3a72-78d0-11e2-a28b-a2fa92ae99be.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #188 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:17:23 am »

Riforme per disperazione

Le elezioni hanno distrutto il vecchio bipolarismo, quello della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma non hanno ricostruito. Dovremo forse attendere le prossime elezioni (al termine di una legislatura che è lecito immaginare brevissima) perché alla distruzione segua la ricostruzione, perché nuovi e più stabili equilibri si affermino. Entrambi i poli tradizionali (centrosinistra e centrodestra) dovranno passare attraverso cambiamenti radicali (di leadership, di assetti, di proposte, di identità). Berlusconi ha smentito, con la sua impressionante rimonta, chi lo aveva dato per finito. Ma il problema di come dare stabilità e coesione a un centrodestra che, per ragioni sia di età che di credibilità internazionale, Berlusconi non potrà ancora guidare a lungo, è sempre lì e attende soluzione. Anche perché la resurrezione di Berlusconi non ha comunque impedito al centrodestra (e al Pdl) di perdere diversi milioni di voti (fra astensioni e spostamenti verso Grillo).

Una cosa le elezioni l'hanno però dimostrata: l'inconsistenza del progetto neocentrista. Monti e Casini devono ora prendere atto che non c'è alcun futuro al centro. Ancorché deboli, dispongono comunque di una quota di parlamentari che dà loro la possibilità, e il diritto, di trattare una qualche forma di onorevole resa con il centrodestra. Al quale probabilmente servirebbero degli «stati generali», o qualcosa di simile, ove possano essere discussi assetti futuri, leadership, proposte. In vista delle prossime, sicuramente vicine, nuove elezioni.

Se il problema del centrodestra dopo Berlusconi resta aperto, altrettanto drammatica è la condizione del Partito democratico. Ha fatto definitivamente il suo tempo il personale politico che veniva dal vecchio Pci e dalla vecchia sinistra democristiana (le componenti dalla cui convergenza nacque quel partito). Insieme a esse, ha fatto il suo tempo quella continuità identitaria (le «radici») su cui aveva puntato tutto Bersani.

Di fronte al Pd si aprono due strade, entrambe dolorose e difficili, al di là della proposta aperta di cui parla D'Alema in queste pagine. La prima è quella che alcuni, con una capacità trasformistica degna di Zelig, hanno subito indicato: prendiamo atto di avere sbagliato quando, alle primarie, abbiamo scelto la tradizione e l'identità (Bersani) al posto del cambiamento e della discontinuità (Matteo Renzi). Così però è troppo facile. La storia è spietata, non permette a nessuno di dire «avevamo scherzato, riportiamo indietro le lancette». Come se niente fosse accaduto.
Renzi è un giovane brillante e avrà un futuro politico (che dovrà inventarsi di sana pianta). Ma, essendo intelligente, sa che quel capitolo è chiuso. Egli però resta comunque l'emblema di ciò che il Pd avrebbe potuto essere. Il simbolo di un rinnovamento che facendo piazza pulita della vecchia identità avrebbe potuto trasformare un partito statico, conservatore, in un partito dinamico, innovatore.

C'è anche un'altra strada aperta per il Pd. Ancor più dolorosa della prima. Si tratta di prendere atto delle affinità esistenti fra gli orientamenti di molti dei propri elettori e il movimento di Grillo. È vero che Grillo ha preso voti da tutto l'arco politico. Ma, anche se non disponiamo ancora di serie analisi dei flussi elettorali, è chiaro che il Pd gli ha ceduto moltissimo sangue, forse più del Pdl (quest'ultimo colpito anche dall'astensionismo).

Inoltre, se si guarda alle proposte che il Movimento 5 Stelle ha fin qui avanzato - e alla cultura politica che quelle proposte sottintendono -, è facile rendersi conto che ci sono più consonanze (per esempio, sulla questione cruciale dello spazio da dare, rispettivamente, al mercato e allo Stato) con gli orientamenti della sinistra che con quelli della destra. Lo stesso Bersani, del resto, lo ha implicitamente ammesso con la sua immediata apertura di credito al Movimento 5 Stelle. Il Pd, o almeno una parte di esso, potrebbe prendere atto che il suo futuro sta in una qualche forma di convergenza con un movimento politico che ha dimostrato di sapere dare rappresentanza agli insoddisfatti e agli esclusi. È vero che Grillo, come fanno sempre i movimenti politici che attaccano il vecchio establishment, rifiuta le categorie di Destra e Sinistra (ma i nomi non sono poi così importanti: potremmo anche ribattezzare quelle vecchie categorie Gianni e Pinotto) ma è anche possibile che, nel XXI secolo, la vecchia sinistra debba cedere il passo a nuove modalità di aggregazione e di azione, più efficaci nel rappresentare il disagio per certi effetti (per esempio, sul versante dell'impatto ambientale) dell'economia capitalistica di mercato.

Ci sono temi pressanti (formare uno straccio di governo; eleggere il nuovo presidente della Repubblica) ma il problema dei problemi, quello di ridefinire gli assetti del centrodestra e del centrosinistra, non potrà essere nascosto sotto il tappeto. Il più importante banco di prova sarà la riforma della legge elettorale e delle istituzioni. Se la classe politica saprà giocarsi quella occasione alla grande, senza più i piccoli intrighi che hanno caratterizzato l'ultimo anno, nella piena consapevolezza di quanto potente sia stato il terremoto, allora forse si ripresenterà quella opportunità di uno scambio di alto profilo (sistema maggioritario a doppio turno contro elezione diretta del presidente della Repubblica) che, come ricordava ieri su questo giornale Antonio Polito, venne malamente bruciata, e sprecata, l'anno scorso. Se questo accadesse, alla distruzione di oggi seguirebbe la ricostruzione di domani.

Angelo Panebianco

28 febbraio 2013 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_28/panebiano-riforme-per-disperazione_afa43a84-816e-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #189 inserito:: Marzo 06, 2013, 12:25:34 pm »

L'AVVERSIONE ITALICA AI GOVERNI FORTI

Il fantasma senza tempo

Chi pensa che la democrazia necessiti di governi forti, dotati di tutti gli strumenti istituzionali necessari per attuare le proprie promesse elettorali, è un pericoloso golpista, un fautore di disegni autoritari, un nemico della «vera» democrazia? Da più di trenta anni è sempre a questa domanda che siamo inchiodati tutte le volte che insorgono conflitti intorno a progetti di riforma costituzionale. Oggi, una classe politica con un piede nella fossa (come Grillo, graziosamente, le ricorda ogni giorno), potrebbe avere interesse a non dare a quella domanda la risposta che è fin qui sempre prevalsa.


Senza una radicale ristrutturazione delle loro offerte politiche, centrosinistra e centrodestra non riuscirebbero a invertire la corrente, a riconquistare i consensi perduti. Ma la ristrutturazione dell'offerta politica è possibile solo se vengono cambiate le regole del gioco. Diversi editorialisti di questo giornale hanno ricordato, nei giorni seguiti alle elezioni, che la condizione di stallo in cui siamo potrebbe essere avviata a soluzione, se si realizzasse uno scambio virtuoso (fra sistema maggioritario a doppio turno e semi-presidenzialismo). Se si trovasse la volontà politica, basterebbero pochi mesi per fare tutto. Poi si tornerebbe a votare.


Ma occorrerebbe un consenso almeno sul fatto che la democrazia necessiti di quella stabilità che solo governi istituzionalmente forti sono in grado di assicurare, e che maggioritario e semi-presidenzialismo servono a quello scopo.
La Costituzione vigente fu redatta quando incombeva il fantasma del tiranno e il Paese era spaccato fra comunisti e anticomunisti. Si scelse di costruire un sistema di governo fondato sulla permanente debolezza degli esecutivi. E da lì non ci siamo mai schiodati. La fine della Guerra fredda aprì una «finestra di opportunità»: la riforma elettorale maggioritaria dei primi anni Novanta doveva favorire un cambiamento della forma di governo ma poi, con il fallimento della Bicamerale (il mancato accordo fra Berlusconi e D'Alema nella Commissione per le riforme costituzionali presieduta da quest'ultimo nel 1997), quella finestra si richiuse. Forse ora, proprio perché si trova con le spalle al muro, la classe politica potrebbe finalmente fare ciò che non seppe fare allora. Per riuscirci dovrebbe sconfiggere radicati e diffusi pregiudizi. Secondo i quali è un bene che l'Italia, unica fra le grandi democrazie europee, manchi dei requisiti istituzionali necessari per dare stabilità e forza ai governi.


Tutte le volte che la nostra forma di governo viene messa in discussione, nel Paese parte la mobilitazione dei «Giù-le-Mani-dalla-Costituzione-Boys» (acronimo: GMCB), una variopinta compagnia di ultraconservatori, spesso travestiti da progressisti, afflitti da inguaribile provincialismo. Così provinciali da non essersi mai degnati di studiare seriamente costituzioni e prassi degli altri grandi Paesi europei.


A riprova del fatto che non basta intervenire sulla legge elettorale per uscire dai guai si consideri la questione del bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri). È oggi quasi impossibile per chiunque (fanno fatica a farlo persino i GMCB) difendere un simile obbrobrio. Ma perché i venerandi costituenti si macchiarono di tale colpa? Erano forse stupidi o pazzi? Non lo erano.


Il bicameralismo simmetrico serviva al loro scopo, era coerente con il disegno costituzionale nel suo insieme, quello che condannava l'Italia ad avere sempre governi istituzionalmente debolissimi. Assicurando alle varie frazioni parlamentari, grazie anche al bicameralismo simmetrico, i margini di manovra e la chance per stravolgere ogni decisione governativa.

Una cosa è il potere (che a nessun Parlamento può essere negato) di respingere i provvedimenti del governo, tutt'altra cosa è il potere di stravolgerli sistematicamente, di svuotarli dall'interno. È questo potere che la nostra Costituzione esalta. Per inciso, Mario Monti voleva dire proprio questo quando, qualche mese fa, affermò che i governi non dovrebbero essere alla mercé dei Parlamenti, suscitando la reazione sdegnata dei tedeschi (i quali però non sanno che il loro Parlamento non ha lo stesso potere che ha il nostro di «conciare per le feste» i governi, di fare carne di porco dei loro provvedimenti). Le tanto lodate riforme del lavoro che fece a suo tempo il governo Schröder in Germania sarebbero impossibili in Italia (come si è visto nella vicenda della riforma del lavoro targata Fornero). Due Camere con uguali poteri erano, e sono, una garanzia di governi sempre in balia di qualunque frazione, o sottofrazione, parlamentare, e di massima lentezza e inefficienza dei processi decisionali. Più in generale, la debolezza istituzionale dell'esecutivo era, ed è, una assicurazione contro gli eventuali pruriti riformatori di questo o quel governo.


E naturalmente i regolamenti parlamentari vennero costruiti in modo coerente con il disegno costituzionale di cui sopra: fortunate, ad esempio, sono quelle democrazie (parlamentari o semi-presidenziali) in cui quasi nessuno ricorda i nomi dei presidenti delle Camere in carica, talmente irrilevanti, istituzionalmente e politicamente, sono le loro funzioni.
Basterebbero pochi mesi per dare alle istituzioni quella forza e quella efficienza la cui mancanza, alla fine, ha pesantemente e pericolosamente logorato la Repubblica. Non ha senso rassegnarsi a quel logoramento solo per fedeltà alle scelte contingenti (e, all'epoca, giustificate) di uomini - i costituenti - che uscivano da venti anni di dittatura.

Angelo Panebianco

6 marzo 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_06/fantasma-governo-Panebianco_355f23b8-8625-11e2-8496-c29011622c49.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #190 inserito:: Marzo 16, 2013, 05:41:20 pm »

LA SCELTA DI BERSANI E LA REALTÀ

Contro un muro (ben segnalato)

Come era prevedibile, il matrimonio fra Pd e Movimento 5 Stelle non si celebrerà. Ma i danni che il Pd ha inflitto a se stesso, per non parlare del Paese, sono già tanti. Nei giorni e nelle settimane che hanno seguito la «non vittoria» elettorale, il Pd è apparso preda di una sorta di cupio dissolvi . La sua immediata apertura di credito a Grillo ha fatto pensare a una nemesi storica. Nel periodo che seguì la Rivoluzione d'Ottobre diversi partiti socialisti finirono per autodistruggersi nel tentativo di inseguire e blandire i movimenti antisistema (comunisti) dell'epoca.

In questi giorni, gli eredi del vecchio Pci si sono genuflessi di fronte a un movimento antisistema che ha la gagliardia e l'energia propria dei nuovi movimenti e che considera il Pd, al pari di tutti gli altri partiti, spazzatura, o giù di lì. Vincolato dalla sua vera, forse unica, identità (l'antiberlusconismo), condizionato dall'antica regola «niente nemici a sinistra», prigioniero di un ristretto gruppo dirigente, ormai sconfitto, che cerca di allontanare nel tempo la resa dei conti con gli avversari interni, il Pd, inseguendo Grillo, ha finito per buttare a mare quasi tutto ciò in cui aveva detto di credere durante la campagna elettorale. È difficile, ad esempio, continuare ad accreditarsi, di fronte ai partner europei, come campioni di europeismo mentre si cerca l'alleanza con un movimento il cui leader dichiara che l'Italia è già quasi fuori dall'euro.

Il vero rischio per un Pd che ha dato mostra di credere che le ragioni di incompatibilità con il movimento di Grillo fossero meno, e meno gravi, di quanto in realtà non siano, è che molti altri suoi elettori (come tanti hanno già fatto), non vedano più ragioni per votare il Pd anziché i 5 Stelle. C'è la possibilità, se il ricambio al vertice del partito non avverrà in fretta, che quando Matteo Renzi o chiunque altro ne prenderà il controllo, egli si ritrovi intorno solo macerie fumanti.

La scelta dei presidenti delle Camere è oggi il test per capire se ragionevolezza e istinto di sopravvivenza prevarranno. Nuove elezioni immediate a parte, il risultato elettorale lascia aperta una sola strada: il governo del presidente, meglio se garantito da una riconferma di Napolitano al Quirinale. Un governo che faccia poche essenziali cose e che ci riporti subito dopo alle urne. Un governo che vedrebbe l'opposizione del Movimento 5 Stelle, i cui leader, non essendo stupidi, non hanno interesse a contribuire alla governabilità. E sapendo che il vero nodo è la legge elettorale e che può essere affrontato solo se ci si dice la verità. La verità è che non servono le pastette: l'unica riforma seria, a questo punto, implica maggioritario e collegi uninominali. Una tale riforma dovrebbe probabilmente scontare la dura opposizione dei 5 Stelle, un gruppo che deve il suo exploit alla legge elettorale vigente e che verrebbe forse danneggiato da un radicale cambiamento: ad esempio, i collegi uninominali, a differenza della lista bloccata (oggi in vigore), darebbero ai candidati una potenziale autonomia che i leader del Movimento 5 Stelle difficilmente apprezzerebbero.

La gravità del momento richiede lucidità. In tempi normali, gli interessi a breve termine degli attori politici prevalgono su quelli a medio termine. I politici si preoccupano dell'uovo di oggi, non della gallina di domani. In tempi eccezionali, però, far prevalere gli interessi a breve termine significa segare il ramo su cui si sta appollaiati.

Angelo Panebianco

16 marzo 2013 | 7:55© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_16/contro-un-muro-panebianco_b4cbde24-8e05-11e2-8e0e-c5b76e411d4a.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #191 inserito:: Marzo 25, 2013, 04:40:47 pm »

FRAGILITÀ E OPPORTUNITÀ A DESTRA

Perché non c'è un Renzi nel Pdl

È possibile che il complicato dopo voto produca un governo di tregua. Ma un governo di tregua per fare cosa? Per fare tre cose, si suppone.
In primo luogo, tenere a galla la zattera con qualche provvedimento che assicuri un po' di affidabilità agli occhi dei partner europei e dei mercati. Ma basterà che, in qualsiasi momento, una Cipro qualunque inneschi una valanga e tutto sarà rimesso in discussione. In secondo luogo, fare una nuova legge elettorale. Ma si dà il caso che sia più facile dirlo che farlo. Come si capisce appena si pone la domanda: quale nuova legge elettorale? In terzo luogo, dare ai partiti il tempo necessario per modificare le proprie offerte politiche in modo da riagganciare l'elettorato che li ha abbandonati scegliendo la protesta.

Delle tre cose da fare l'ultima è forse la più complicata. Come prova il fatto che nell'anno e passa di tregua assicurato dal governo Monti non c'è stata traccia di seria ristrutturazione di quelle offerte politiche. E il risultato si è visto alle elezioni.
Ci sono buone ragioni per pensare che un cambiamento dell'offerta politica (che significa cambiamento di leadership , di assetti organizzativi e di programmi), urgente per tutti, lo sia in particolar modo per la destra. Perché essa resta comunque la componente più fragile del sistema. Perché ha perso molti più voti di quelli che ha perso il Pd. Perché il reingresso di Berlusconi sulla scena elettorale dopo il suo annunciato ritiro ha solo rinviato il momento della verità: il momento in cui il Pdl (o qualunque cosa lo sostituisca) dovrà cominciare a camminare con le proprie gambe, senza più il padre padrone a comandarlo. E perché, soprattutto, sarebbe vitale per il Paese che, una volta finita la tregua, una volta tornati alle elezioni, dalle urne uscisse quello che un tempo si sarebbe definito un solido governo borghese.

Al Pdl serve urgentemente un Renzi di destra, uno che non debba baciare l'anello a Berlusconi, uno che sappia parlare al Paese con un linguaggio fresco. E che, a differenza di Berlusconi, sia molto meno vulnerabile dal punto di vista giudiziario. Sia chiaro, un tale (ipotetico) Renzi di destra non dovrebbe affatto piacere alla sinistra: il processo di autoaffondamento politico di Gianfranco Fini cominciò quando, rotto con Berlusconi, egli diventò per un certo periodo l'eroe dei giornali di sinistra. Sinistra e destra sono ovunque separati da interessi contrapposti, da opposte visioni del mondo, da opposti codici morali. Nel nostro Paese, poi, gli elettorati di sinistra e di destra (basta ascoltarne le conversazioni) nutrono gli uni nei confronti degli altri più o meno gli stessi sentimenti che il Ku Klux Klan nutre nei confronti dei neri.
È vero, come accennava ieri Galli della Loggia, che la sinistra ha avuto finora più successo nel convincere persino l'establishment che gli elettori di destra siano solo buzzurri impresentabili. Ma si conoscono anche tanti elettori di destra che pensano la stessa cosa di quelli di sinistra.

Il Renzi di destra dovrebbe fare, anche lui, orrore alla sinistra. Tanto più ci riuscirebbe quanto più coerentemente e aggressivamente (che non significa urlare: significa avere la solidità culturale necessaria per dare efficacia e un alto profilo alla propria proposta) fosse capace di rappresentare idee e interessi che hanno da sempre una precisa connotazione: l'individualismo come valore, la proprietà privata come diritto fondamentale, e fonte di libertà, anziché come colpa da espiare, l'idea che sia il «vil commercio», che siano i mercanti, e non i Savonarola, i costruttori di società decenti.

Il governo borghese che serve al Paese è un governo teso a rilanciare lo sviluppo capitalistico senza se e senza ma. Un governo che investa sulla crescita (altro che «decrescita felice»), che blocchi il processo di impoverimento nell'unico modo possibile: dando di nuovo alle classi medie indipendenti la voglia e l'incentivo per rischiare e investire. Voglia che non tornerà fin quando non ci saranno garanzie che i frutti del proprio lavoro non verranno in gran parte confiscati da uno Stato famelico. Il che significa tagliare le tasse, colpire la burocrazia, colpire i mercati protetti. Significa non commettere l'errore che commise Berlusconi il quale, per mantenersi al potere, venne a patti con le corporazioni che contribuiscono a strozzare la crescita.
Si è detto qualche volta che, non essendone capace la destra, in Italia tocca alla sinistra fare il lavoro della destra. Ma sono fole: la sinistra può fare solo la sinistra, ridistribuire il reddito in un regime di tasse alte. Se è la crescita ciò che si vuole, o la propizierà la destra o non lo farà nessuno.

Ma il punto debole di questo ragionamento non consiste forse nel fatto che del Renzi di destra qui ipotizzato non c'è, nella realtà, traccia alcuna? Sì e no. La destra, in Italia, esiste solo da venti anni. Ma in questo lasso di tempo è cresciuta una generazione di italiani che, spesso nel male ma qualche volta nel bene, non è più debitrice delle culture politiche dei grandi partiti, accomunati dal pregiudizio antiborghese, che dominarono la Prima Repubblica. Ci sono in giro diversi giovani colti, preparati, con esperienze di studio o di lavoro all'estero, e talvolta anche con un po' di palestra nella politica locale, che cercano un varco per farsi strada. La ristrutturazione dell'offerta della destra non potrà prescinderne.

Angelo Panebianco

25 marzo 2013 | 7:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_25/panebianco-perche-non-ce-un-renzi-nel-pdl_7896d738-9512-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #192 inserito:: Aprile 10, 2013, 06:36:18 pm »

LA SCELTA DEL CAPO DELLO STATO

Due scenari da evitare

I parlamentari che fra meno di due settimane dovranno scegliere il prossimo presidente della Repubblica sono certamente consapevoli delle poste in gioco secondarie connesse a quella scelta, ma non sembrano esserlo altrettanto di quella principale. La posta in gioco principale non è, detto con tutto il rispetto, il destino personale di Bersani o di Berlusconi. E nemmeno la scelta fra un governo di tregua e le elezioni. La posta in gioco principale è il destino della Repubblica. Parole grosse, certamente, che richiedono una spiegazione. Che sia in gioco il destino della Repubblica dipende dal fatto che la concomitanza di tre crisi (economica, politica, istituzionale) fa della Presidenza l'unico possibile «luogo» di difesa e di (parziale) stabilizzazione della democrazia rappresentativa. Un ruolo altamente politico, politicissimo, che va molto al di là della pura funzione di garanzia. Un ruolo imposto dalla forza delle cose e non dalla volontà di chicchessia. Un ruolo non previsto in questi termini dalla Carta del 1948, checché ne dicano certi costituzionalisti esperti nel gioco delle tre carte, che inventano sempre nuovi argomenti ad hoc per dimostrare che nulla è mai cambiato.

Tutti oggi si concentrano, comprensibilmente, sullo stallo politico prodotto dalla mancanza di una maggioranza parlamentare. Ma questo è forse il minore dei nostri guai. Chi pensa che sarebbe sufficiente riformare la legge elettorale non capisce o finge di non capire. Gli sfugge la gravità e la profondità della crisi. Significa che nemmeno il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle è riuscito a scalfire tante pseudo-certezze. Non si tiene conto di quanto sia ormai profonda la crisi dello Stato: come testimonia la condizione in cui versa l'amministrazione pubblica (che dello Stato, qui come altrove, è il cuore). Né si tiene conto del fatto che la fragilità della classe politica parlamentare non ha facili soluzioni. Se anche dalle prossime elezioni dovesse uscire una maggioranza di governo, quella fragilità non verrebbe meno. Perché ha a che fare con la debolezza e la precarietà dei rapporti fra i partiti e gli elettori. Voto di protesta, frammentazione politica e etero-direzione (gruppi extrapolitici di varia natura che impongono le proprie scelte a una classe partitica priva di forza e di autorevolezza proprie) ne sono la conseguenza.

In queste condizioni, sulle spalle del presidente della Repubblica, grazie alla durata del suo mandato, ai suoi poteri formali e di fatto, e al carisma che circonda l'istituzione della Presidenza (un carisma cresciuto nel tempo a partire da quando, negli anni Ottanta, iniziò la crisi della Repubblica dei partiti), è stato caricato un peso da novanta. Spetta a lui, o a lei, con le sue scelte, tenere insieme la Repubblica. Le sue qualità e capacità personali diventano decisive.

Non si tratta, moralisticamente, di deprecare il fatto che i politici badano, anche nella scelta di un Presidente, ai propri interessi di breve termine. È così, è un fatto. Deprecarlo è come prendersela con la legge di gravità perché ci impedisce di librarci nell'aria. Si tratta però di pretendere la consapevolezza che l'inevitabile perseguimento degli interessi di breve termine, partigiani, delle varie forze politiche, debba conciliarsi con il carattere strategico (per la sorte della Repubblica) della elezione del nuovo Presidente.

Nelle circostanze presenti, significa evitare che si realizzi l'uno o l'altro di due scenari, entrambi potenzialmente esiziali. Lo scenario A (da evitare) è quello di un accordo al ribasso: si sceglie una figura di scarsa rilevanza, in grado di svolgere solo un ruolo notarile, una figura che non riuscirebbe a entrare in sintonia con l'opinione pubblica, ad acquistare quella popolarità, e anche quel carisma personale, che, ormai, la dilatazione del ruolo politico della Presidenza impone.

Lo scenario B (anch'esso da evitare) è quello della scelta di una persona, magari anche dotata di un certo prestigio personale di partenza ma che, per le modalità della sua elezione, appaia all'opinione pubblica, come il Presidente di una sola parte. Il che accadrebbe oggi (il pericolo non è ancora del tutto rientrato) se un partito come il Pd, reduce da una non-vittoria elettorale, si eleggesse qualcuno di sua scelta acchiappando voti grillini in libera uscita. Quel Presidente sarebbe, fin dall'inizio del suo mandato, un'anatra zoppa. Ogni sua mossa verrebbe interpretata alla luce di quel vizio d'origine, sarebbe accompagnata da cori (applausi e fischi) da stadio. Le tante decisioni difficili e sofferte che dovrebbe prendere, nel corso del suo settennato, stante la persistente fragilità della classe politica parlamentare, avrebbero sempre l'effetto di dividere e mai di unire il Paese. Aggravando ulteriormente la crisi della Repubblica.

Uomo o donna che sia, il prossimo Presidente non potrà essere né una mezza figura né un'anatra zoppa. Perché dovrà unire (come è riuscito a Giorgio Napolitano), in tempi cupissimi per la nostra democrazia, la funzione del garante di tutti e le qualità politiche ormai richieste a un Presidente. Per questo è così strategica la sua scelta.

Naturalmente, sarebbe anche tempo di capire che, se si vorrà mettere in sicurezza la Repubblica, non si potrà ancora a lungo pretendere di «contenere» il ruolo del Presidente entro le formule costituzionali vigenti, occorrerà decidersi a ricomporre il rapporto fra potere e responsabilità mediante la sua elezione diretta. Ma questo passo, così logico e così necessario, richiederà alle classi dirigenti del Paese molta più energia morale e intellettuale, e molta più forza, di quelle oggi disponibili.

Angelo Panebianco

10 aprile 2013 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_10/due-scenari-da-evitare-editoriale-panebianco_0e1408b8-a19c-11e2-8e0a-db656702af56.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #193 inserito:: Aprile 16, 2013, 12:15:53 am »

LA RETE E LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

Le volpi e i leoni della Repubblica


Siamo alla vigilia di una mutazione della Repubblica italiana? Le «volpi» stanno per essere sopraffatte dai «leoni»? È accaduto tante volte. Sta per accadere in Italia? Il modo in cui avverrà l'elezione del presidente della Repubblica non ci darà la risposta conclusiva ma forse chiarirà quale sia la direzione del nostro cammino. Tutto si riduce a un interrogativo: il Movimento 5 Stelle sarà determinante nella elezione del presidente, i suoi leader potranno intestarsi, di fronte alla opinione pubblica nazionale e internazionale, il titolo di king-makers ? Se ciò accadrà guadagneranno una legittimazione che li galvanizzerà e li renderà fortissimi, e anche coloro che si sono fin qui ostinati a non prendere sul serio le loro idee, la loro visione del mondo, i loro programmi, dovranno abbandonare ogni illusione. Perché nessuna delle due strategie immaginate per fronteggiare l'affermazione di questo nuovo soggetto politico reggerebbe.

Risulterebbe impraticabile la strategia passiva (« ha da passà 'a nuttata »), di chi immagina che i 5 Stelle siano una meteora (come L'Uomo Qualunque o i poujadisti nella Francia degli anni Cinquanta) e che sia sufficiente aspettare che si distruggano da soli. Così come risulterebbe illusoria la strategia di chi ha pensato che fosse possibile coinvolgerli nel gioco politico con lo scopo di addomesticarli, di de-radicalizzarli (o, in subordine, di dividerli). Vari precedenti storici testimoniano di come il tentativo suddetto possa facilmente risolversi in un suicidio politico.

Il guanto della sfida alla nostra acciaccatissima democrazia rappresentativa è stato lanciato e, fino ad oggi, senza sbagliare un colpo. Non è vero che la democrazia rappresentativa sia sul punto di essere resa obsoleta, nel mondo occidentale, per l'avvento della cosiddetta democrazia del web. La democrazia rappresentativa è oggi, quasi dappertutto in Europa, in grave sofferenza a causa di una prolungata crisi economica. Solo in Italia (e in pochi altri luoghi), però, potrebbe uscirne davvero travolta o stravolta. Per la gracilità e il malfunzionamento delle nostre istituzioni e la radicalità degli odi che dividono le élite politiche tradizionali.

Occorrerebbe un governo stabile per porre in essere le condizioni necessarie alla ripresa economica. Ma la profondità della crisi politico-istituzionale, e il no di Bersani e dei suoi seguaci a un accordo con Berlusconi, rendono, al momento, impossibile la sua nascita. È un circolo vizioso: l'incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e ciò promette di fare ulteriormente lievitare la protesta contro la politica tradizionale. Dove si colloca il punto di rottura? Quale è il momento superato il quale non c'è più ritorno?

La democrazia assembleare, checché molti oggi ne pensino, non è la soluzione. Ha funzionato qualche volta, solo in comunità piccole e isolate, autarchiche. Ove prevalgono le grandi dimensioni e l'interdipendenza sostituisce l'autarchia, la democrazia rappresentativa è la sola democrazia possibile. La partecipazione via web può influenzarla ma non surrogarla.

La sfida portata da un movimento rivoluzionario come i 5 Stelle risulterà, col senno del poi, un grande servizio per il Paese se convincerà anche i più accesi conservatori della necessità di un nuovo patto costituzionale, di una rigenerazione della democrazia rappresentativa mediante radicali innovazioni.

Angelo Panebianco

15 aprile 2013 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_15/le-volpi-e-i-leoni-della-repubblica-panebianco_83fa088c-a58b-11e2-956c-2114dad3bbcc.shtml
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #194 inserito:: Maggio 08, 2013, 04:22:36 pm »

IL PD E IL PESO DEL PASSATO

Lo sguardo al Novecento

Si sa che sulle sorti del governo Letta peseranno soprattutto i modi e i tempi della ridefinizione degli equilibri interni al Partito democratico, uscito totalmente destabilizzato dalle elezioni e da ciò che ne è seguito. È possibile che alcune delle cause della crisi del Pd non siano del tutto chiare a molti dei suoi stessi militanti.

Che cosa ha fin qui frenato quel partito, che cosa gli ha impedito di darsi una identità adeguata, spendibile con più successo nelle nuove condizioni della competizione politica? È stato soprattutto il peso del passato . Il Pd non ha una identità adeguata, utile per vincere le elezioni, perché tende a perpetuare al proprio interno concezioni, di se stesso, del proprio rapporto con gli elettori e con la società italiana, ereditate dal passato e che sono incompatibili con le circostanze presenti.

Il problema principale è che, per un antico retaggio, il Pd concepisce il proprio elettorato assai più come un «blocco» che come un insieme di «flussi». Vediamo cosa ciò significhi. Nato dall'unione fra l'ex Pci e l'ex sinistra democristiana, guidato da persone formatesi in quelle esperienze, il Pd ha ereditato la visione del rapporto fra partiti ed elettori allora dominante. All'epoca, il sistema politico italiano era immobilizzato dalla conventio ad excludendum (la permanente esclusione del Pci, a causa della guerra fredda, dall'area di governo). Inoltre, la mobilità elettorale era molto bassa: pochi elettori si spostavano da un partito all'altro; pochissimi si trasferivano da sinistra a destra e viceversa. In un sistema statico come quello, si conducevano solo guerre di posizione. Il problema dei partiti non era conquistare un bel po' di voti altrui (cosa praticamente impossibile) ma mantenere, conservare, elezione dopo elezione, il proprio «pacchetto», il proprio blocco di voti. Si pensi al Pci. Escluso dalla possibilità di andare al governo, aveva certo interesse ad ottenere qualche voto in più ma l'interesse prevalente, dominante, era conservare i voti già acquisiti. Anche la sinistra democristiana, impegnata nelle lotte con le altre correnti Dc, aveva lo stesso problema: conservare i propri consensi, condizione necessaria per continuare a praticare il gioco del potere dentro l'allora partito di maggioranza relativa.

In un mondo statico, la cosa che conta è preservare la propria forza, non c'è spazio per innovative strategie di conquista: le vittorie e le sconfitte elettorali, in un mondo siffatto, si giocano ai margini, in virtù di piccoli pugni di voti che si spostano, erraticamente, di qua o di là. Sono queste circostanze che portano a pensare al proprio elettorato come a un blocco che, in quanto tale, potrebbe in qualunque momento «spezzarsi»: occorre quindi farne oggetto di manutenzione continua, innaffiarlo, coccolarlo, tenerlo unito a tutti i costi. «La base non capirebbe» è la frase che, in quel mondo, pone termine a ogni discussione nel caso in cui qualcuno, poco consapevole delle vere regole del gioco, si azzardi a proporre idee nuove o innovazioni strategiche.

Si pensi, per contrasto, a un qualunque dirigente di partito (ad esempio, di un partito socialdemocratico) di un altro Paese europeo. Quel dirigente, nell'epoca della propria formazione politica, ha conosciuto un mondo più dinamico. Il suo partito qualche volta ha vinto le elezioni ed è andato al governo, altre volte le ha perse ed è andato all'opposizione. Certamente, anche in quel partito c'era un nucleo di elettori stabili che non potevano essere troppo maltrattati, ma il nostro dirigente socialdemocratico sapeva che per vincere le elezioni bisognava fare guerre di movimento. Sapeva che occorrevano proposte politiche vincenti e che una nuova proposta è vincente se, pur scontentando, come è inevitabile, vecchi elettori, riesce a conquistarne di nuovi (ovviamente, in quantità superiore a quelli che si perdono). Sapeva che si vincono le elezioni solo se il flusso di elettori in entrata (i nuovi elettori che voteranno per il partito) risulterà superiore al flusso di elettori in uscita.

Il problema del Pd è che, guidato da persone che sono state iniziate alla politica nell'ultima fase della Prima Repubblica, ha continuato a pensare, anche nel ventennio successivo, al rapporto con gli elettori nel modo statico di allora (l'elettorato come blocco anziché come insieme di flussi) mentre, nel frattempo, il mondo circostante diventava sempre più fluido e dinamico. Si pensi, da ultimo, alle primarie Bersani/Renzi. È stato anche uno scontro fra la concezione statica e quella dinamica del rapporto con l'elettorato. Matteo Renzi diceva una cosa che sarebbe apparsa ovvia, scontata, perfino banale, in qualunque altro Paese, ossia che per vincere le elezioni bisognava parlare agli elettori di Berlusconi. Ma poiché la concezione prevalente nel partito, ereditata dal passato, era quella descritta, questa tesi suonava come eretica, scandalosa, alle orecchie dei tradizionalisti, e Renzi stesso veniva fatto passare per un cripto-berlusconiano.

Il Pd nacque su una parola d'ordine - «vocazione maggioritaria» - che avrebbe richiesto, se presa davvero sul serio, un radicale rinnovamento di mentalità e di concezioni. Quel rinnovamento non c'è stato. Se non avverrà in tempi rapidi il Pd chiuderà malamente la sua parabola. Dove tutto è in movimento non c'è futuro per chi si attarda in guerre di posizione.

Angelo Panebianco

5 maggio 2013 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_05/panebianco-sguardo-al-novecento_0537c0de-b549-11e2-86df-caa1160f5c6a.shtml
Registrato
Pagine: 1 ... 11 12 [13] 14 15 ... 20
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!