Titolo: Angelo PANEBIANCO. Inserito da: Admin - Luglio 19, 2007, 10:57:38 am L’Europa e il riconoscimento di Hamas
Le illusioni del realismo di Angelo Panebianco Hamas, per bocca del suo leader Haniyeh (La Repubblica di ieri), ha ringraziato il ministro degli Esteri italiano Massimo D'Alema per le sue parole («Hamas è una forza reale che rappresenta tanta parte del popolo palestinese »). La presa di posizione del ministro italiano è il seguito di una iniziativa (la lettera a Tony Blair) assunta da dieci ministri europei, francese e italiano inclusi, e tende alla legittimazione di Hamas di fronte alla comunità internazionale. Come, con sentimenti opposti, ha colto anche l'ambasciatore israeliano Gideon Meir (nell'intervista al Corriere di ieri), Hamas ha così segnato un punto nel braccio di ferro con il presidente Abu Mazen, la cui posta è il diritto di rappresentanza dei palestinesi. Una parte d'Europa, dopo il colpo di stato a Gaza, sembra voler riconoscere il fatto compiuto e accettare gli integralisti di Hamas come interlocutori al posto del moderato Abu Mazen. L'ambasciatore Meir ha ragione quando ricorda a D'Alema che anche Hitler vinse, come Hamas, democratiche elezioni e che quello dunque non può essere un argomento buono per legittimare dei fanatici estremisti, ma difficilmente questa constatazione può far cambiare idea alla parte di Europa più interessata a normalizzare i rapporti con i movimenti integralisti del Medio Oriente che alla sicurezza di Israele. C'è un'Europa che, scambiando per realismo le proprie illusioni, pensa di poter trattare con chiunque, anche con il diavolo, trovandovi comunque un tornaconto. Essendo secolarizzata essa non registra il fatto che movimenti politico-religiosi come Hamas o Hezbollah non hanno nulla in comune con i vecchi «movimenti di liberazione nazionale ». La dimensione religiosa (e il fanatismo che essa alimenta) di questi gruppi sfugge alla sua comprensione. E favorisce l'illusione di poter negoziare con essi con reciproca soddisfazione. Lasciamo da parte il caso della Francia che in questo momento sta lanciando messaggi contraddittori (la firma del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner nella lettera dei dieci, in effetti, è in contraddizione con le posizioni del «Quartetto» di cui la Francia fa parte). E' possibile che Sarkozy non abbia ancora messo definitivamente a punto la sua posizione sul Medio Oriente, come sembrerebbe indicare la presa di distanze di Kouchner dalle parole di D’Alema. Prendiamo invece il caso dell'Italia il cui governo, grazie soprattutto all’attività del ministro degli Esteri, ha indubbiamente una posizione coerente. C'è continuità fra le diverse iniziative del governo Prodi sulla scena mediorientale. Fin dai tempi della guerra del Libano (luglio 2006) quando D'Alema si dimostrò assai meno indulgente nei confronti di Israele che dei suoi nemici integralisti. Allora D'Alema legittimò Hezbollah con parole simili a quelle ora usate per Hamas: è una forza popolare, disse, radicata nella società libanese. Giudizio descrittivamente ineccepibile da cui veniva tratta l'eccepibile conclusione che il «dialogo» con Hezbollah fosse necessario. Il tutto sullo sfondo (è l'aspetto più importante) delle ottime relazioni che l'Italia ha instaurato con l'Iran e con la Siria, g l i stati-sponsor di Hezbollah e di Hamas. La coerenza è certa ma è lecito dubitare che l'arrendevolezza nei confronti degli estremisti e dei loro sponsor serva alla stabilità del Medio Oriente e, quindi, agli interessi dell' Italia e dell'Europa. Per fortuna, molte partite sono ancora aperte. C'è spazio per la resipiscenza. Per riconoscere, ad esempio, che buttare a mare i moderati (come oggi Abu Mazen) e legittimare gli estremisti è sempre stata, fra tutte le politiche concepibili, la peggiore. 19 luglio 2007 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2007, 05:26:41 pm Editoriali
I democratici e la vocazione maggioritaria Pd, alla ricerca dell’identità di Angelo Panebianco Nella prima grande assemblea del Partito democratico che ieri, a Milano, lo ha incoronato segretario, Walter Veltroni, in coerenza con ciò che aveva già sostenuto durante la campagna per le primarie, ha disegnato l'identità della nuova formazione. Il filo conduttore di un intervento che, per sua natura, non poteva che spaziare su tanti temi, è rappresentato dalla volontà, ribadita dal neosegretario, di fare del Pd un partito a vocazione maggioritaria, ossia un partito che, al pari di quanto fanno tanti in altri Paesi europei, possa legittimamente aspirare a vincere le elezioni e, se possibile, a governare da solo. Tutto l'intervento di Veltroni andava in quella direzione: ad esempio, nel passaggio in cui ha sostenuto che in caso di voto anticipato (che egli non auspica prima che si faccia la riforma elettorale e magari anche una riforma costituzionale) il Partito democratico si presenterebbe agli elettori da solo, o in alleanza con poche forze riformiste ad esso affini, sicuro che la coerenza e la nettezza della sua proposta politica lo renderebbero comunque competitivo nei confronti dell'alleanza di centrodestra. Bisogna partire da qui, dall'idea del partito a vocazione maggioritaria, per tentare di comprendere come Veltroni si muoverà in una fase molto delicata in cui dovrà da un lato costruire e consolidare il nuovo partito e, dall' altro, fronteggiare la crisi della maggioranza parlamentare che sostiene il governo Prodi. Un fine così ambizioso necessita di mezzi adeguati. I mezzi riguardano sia il modo d'essere del nuovo partito, il suo profilo organizzativo, sia il contesto istituzionale in cui dovrà muoversi. Su tutt’e due i versanti Veltroni, se vorrà rimanere fedele al suo progetto, dovrà fronteggiare grandi difficoltà e schivare molte trappole. Dal punto di vista organizzativo un partito a vocazione maggioritaria non può che basarsi su una forte leadership monocratica. Avere adottato, come il Partito democratico ha fatto, un sistema di elezioni «aperto» anche ai non iscritti (le cosiddette primarie) per la scelta dei candidati alle cariche di partito è stato un passo assai importante in quella direzione. Ma la novità deve essere puntellata con altre innovazioni organizzative adeguate. La discussione innescata dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara sulla questione del tesseramento riguarda precisamente questo aspetto. Un partito che vive di primarie non può riproporre contemporaneamente le soluzioni organizzative (tessere, congressi, eccetera) dei vecchi partiti di massa. Deve darsi modalità diverse di organizzazione della partecipazione. Su questo tema, probabilmente, inizieranno fra poco molti conflitti sotterranei dentro la Costituente del Partito democratico. Una buona parte della vecchia classe dirigente, nata dalla fusione di Ds e Margherita, si sentirebbe minacciata e perderebbe peso a favore di Veltroni, il leader plebiscitato dalle primarie, se lo statuto che dovrà essere varato andasse in quella direzione. Dalle soluzioni organizzative che verranno adottate nei prossimi mesi capiremo se e quanto il neosegretario sarà condizionato nella sua azione dalle vecchie strutture partitiche, ereditate dal passato. Quanto maggiore sarà il condizionamento, tanto minore sarà lo spazio di manovra di cui Veltroni disporrà per dare carne e sangue al suo progetto. C'è poi il contesto esterno, la questione della riforma elettorale. Veltroni si è lasciato aperte molte strade (resistendo alle spinte di chi nel suo partito lo invitava, implicitamente, a una scelta netta e immediata). In un passaggio efficace del suo discorso, snocciolando anche cifre sui voti ottenuti e i seggi conquistati, ha ricordato che nei grandi Paesi europei i partiti oggi governanti non governerebbero affatto se, in quei Paesi, i sistemi elettorali, anche quelli di tipo proporzionale, non contenessero comunque forti correzioni in senso maggioritario.Èun sistema elettorale del genere (un sistema, potremmo dire, che favorisca le aggregazioni anziché limitarsi a fotografare la distribuzione dei consensi esistente) che Veltroni, coerentemente con il suo progetto, auspica anche per l'Italia. Perché è così importante che Veltroni segua con determinazione e tenacia il suo sogno del partito a vocazione maggioritaria? Perché quel tentativo potrebbe favorire in Italia una grande svolta. Il contraccolpo non mancherebbe infatti anche a destra. Potrebbe infine nascere un sistema politico con due grandi Soli, due grandi partiti fra loro in competizione, circondati, ciascuno, da qualche piccolo pianeta. La condizione necessaria per passare dalla democrazia della paralisi e dell’impotenza alla democrazia governante. 28 ottobre 2007 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Inserito da: Admin - Novembre 25, 2007, 11:50:49 am LA CRISI DEL MAGGIORITARIO
Una sconfitta italiana di Angelo Panebianco Alla fine degli anni Settanta, Prima Repubblica, Giuliano Amato propose per l'Italia un sistema maggioritario a doppio turno. In una riunione da lui convocata per ascoltare le reazioni di studiosi delle più varie estrazioni politiche, le critiche risultarono, se ricordo gli umori in sala, più numerose dei consensi. Ci fu persino qualcuno che, contrario al maggioritario, si spinse a dire che la democrazia, per essere davvero tale, necessita della proporzionale (nella tanto rimpianta Prima Repubblica queste sciocchezze erano la norma). Oggi, dopo un quindicennio di peregrinazioni in agitate acque maggioritarie (o quasi), è ormai da tutti deciso che è bene fare dietrofront, tornare alla proporzionale, essendo quello l'unico sistema elettorale adatto all'Italia. Bene, forse è davvero così. Ma vorrei far notare che dovremmo allora riflettere su quale democrazia sia mai la nostra e sulle ragioni di un così clamoroso fallimento. Nella Prima Repubblica c'era il Partito comunista. Allora, si diceva, solo la proporzionale, diluendo le tensioni fra maggioranza e opposizione, può sostenere la fragile democrazia italiana. All'inizio degli anni Novanta, crollato il Muro, si pensò che l'Italia potesse entrare nel novero delle democrazie normali ove l'alternanza al governo non costituisce un dramma per nessuno. E il sistema maggioritario venne scelto per accelerare la trasformazione e stabilizzarla. Tenuto anche conto del fatto che, fra tutte le grandi democrazie occidentali, solo la Germania e la Spagna utilizzano sistemi elettorali proporzionali (sia pure corretti). Si discuterà all'infinito se il fallimento del tentativo sia dipeso dal fatto, come ha sempre sostenuto Giovanni Sartori, che sbagliammo sistema maggioritario (a un turno unico anziché a doppio turno) oppure dal fatto che non adeguammo al maggioritario la Costituzione o, ancora, dal fatto che, varato il maggioritario, ci impegnammo allo spasimo per proporzionalizzarlo (con la quota proporzionale, con regolamenti parlamentari e sistema di finanziamenti che incoraggiavano la frammentazione, eccetera). Ma la causa di fondo, forse, è un'altra: che l'alternanza (la quale pure abbiamo conosciuto in questo quindicennio di quasi-maggioritario) è rimasta un dramma, un trauma, per la parte del Paese che perde le elezioni. Per questo, forse, non possiamo permetterci il maggioritario. Si demonizzavano fra loro, nella prima fase della guerra fredda, Dc e Pci (ed era comprensibile). In seguito, però, venne ferocemente demonizzato Craxi. Oggi c'è Berlusconi, domani, probabilmente, un altro, e dopodomani un altro ancora. E la frammentazione degli schieramenti (causa «ufficiale » del fallimento del maggioritario), forse, è stata un modo involontario per continuare a diluire le tensioni. C'è sempre qualcosa di «emergenziale», un grumo oscuro, nella vita della democrazia italiana. Per questo, forse, la proporzionale ci si confà. Purché si smetta di mentire. La proporzionale, con Cose Bianche, Cose Rosse e il resto, servirà forse alla nostra difficile democrazia per sopravvivere (altro che Germania) ma, di sicuro, non per vivere bene. 24 novembre 2007 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco - Gli avversari del dialogo Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2007, 12:25:55 pm IL BIPOLARISMO ITALIANO
Gli avversari del dialogo di Angelo Panebianco L'aspetto più importante dell'incontro fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sta forse nella sua valenza simbolica. Con il colloquio, e le successive dichiarazioni distensive, dei due leader più forti, si è voluto porre termine, simbolicamente, al bipolarismo feroce che caratterizza la storia italiana dal 1994, alla reciproca delegittimazione, allo scontro fra nemici. Al di là degli aspetti tecnici (quale legge elettorale? quali riforme costituzionali?) questo è il vero significato dell'incontro. Se infatti si vuole inaugurare una diversa fase politica, nella quale le coalizioni di governo possano formarsi fra simili, dotati di reali affinità programmatiche, e non fra diversi e lontani con il solo scopo di «battere il nemico », i leader rivali devono incontrarsi con rispetto e concordare nuove regole del gioco, tali da conseguire due obiettivi: assicurare che in futuro la competizione non possa degenerare in guerra e garantire a chi vince la possibilità di governare in ragione della sua interna coerenza programmatica. Naturalmente, quest'ansia di normalità democratica dovrà essere messa alla prova: si tratterà di vedere se i tifosi, i sostenitori delle due parti, saranno d'accordo, accetteranno una riconversione, che implica un cambiamento di menta-lità, così profonda. Non è detto che ciò accada. Soprattutto perché in un quadro politico frammentato, sono tanti quelli che hanno troppo da perdere in una conversione alla normalità, e che soffieranno sul fuoco per bloccare il processo. Per quanto riguarda la sostanza (riusciranno i nostri eroi a fare, per lo meno, una decente legge elettorale?) è lecito essere scettici. Veltroni e Berlusconi condividono un interesse (a un sistema elettorale che favorisca i due grandi partiti) ma ciò li mette in rotta di collisione con altri potenziali partner. Ad esempio, se davvero giungessero a un accordo su una legge elettorale di tipo spagnolo (che sovrarappresenta i grandi) si troverebbero di fronte alle barricate erette da tutti gli altri. O accetteranno, alla fine, un compromesso al ribasso che non li favorirà oppure dovranno fronteggiare formidabili opposizioni. Tra i due è messo meglio Veltroni. Se andrà ma-le, se il Parlamento non sarà in grado di fare una legge elettorale a lui gradita, egli potrà ripiegare sul referendum. Berlusconi, invece, è in guai più seri. Ha rotto con Gianfranco Fini, l'unico fra i suoi ex partner che avrebbe potuto spalleggiarlo nella ricerca di una legge elettorale che favorisse le grandi formazioni. E, col referendum incombente, rischia persino una rottura con Umberto Bossi, il solo alleato che non lo abbia ancora abbandonato. La nascita del Partito democratico (nel centrosinistra) e lo sparigliamento delle carte voluto da Berlusconi (nel centrodestra) hanno indubbiamente fatto entrare aria fresca e dato a molti la sensazione che, nel nuovo clima, si potesse uscire dai rifugi e togliersi gli elmetti, che i tempi plumbei della democrazia blindata fossero alla fine. È una bella sensazione anche se la storia passata del Paese non autorizza a scommettere molto sulla possibilità di un lieto fine. 02 dicembre 2007 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco. La parabola del prodismo Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:03:41 am IL PROFESSORE E IL PD
La parabola del prodismo di Angelo Panebianco Nonostante nella giornata di ieri Romano Prodi si sia mostrato assai accondiscendente nei confronti di Walter Veltroni è illusorio credere che ora, dopo la caduta, il «prodismo» sia destinato a una immediata scomparsa, ad andarsene subito, in silenzio. E' stato troppo importante per la sinistra italiana: verosimilmente, la sua uscita di scena sarà lenta, accompagnata da potenti colpi di coda. Che cosa è stato il prodismo? E, prima ancora, è legittimo parlare di prodismo? E' legittimo perché, come altri «ismi» importanti della nostra storia (dal degasperismo al berlinguerismo, dal craxismo al berlusconismo), quel termine designa non solo l'avventura personale di un leader e di un gruppo di uomini a lui fedeli ma anche una cultura politica: Prodi e i suoi, quando inventarono l'Ulivo, proposero al Paese un'idea di società e un progetto per il futuro le cui coordinate culturali affondavano in una certa tradizione del cattolicesimo politico. Politicamente, il prodismo è stato il frutto di una anomalia altrettanto radicale di quella che ha caratterizzato la storia del centrodestra, l'una e l'altra figlie del caos e della destrutturazione partitica seguiti al crollo della Prima Repubblica. All'anomalia dell'imprenditore che fonda un partito, «inventa » il centrodestra e ne diventa capo inamovibile ha fatto da pendant, a sinistra, l'anomalia di un uomo privo di una propria base partitica di potere che, nonostante ciò, per ben due volte, nel 1996 e nel 2006, viene scelto dalla sinistra come candidato premier. Quell'anomalia si spiega con il fatto che gli ex comunisti identificarono in Prodi, per le sue personali caratteristiche politico- culturali, la sua storia passata e le sue relazioni presenti, l'uomo che avrebbe potuto traghettarli verso la Terra Promessa, là dove il peccato originale sarebbe stato mondato, là dove gli «ex» sarebbero diventati, prima o poi, dei «post». Nel '96, Prodi era perfetto per il ruolo. Veniva dalla sinistra democristiana, da un mondo che aveva sempre dialogato col Pci e ne aveva condiviso i nemici (l'alleanza contro Craxi fu la progenitrice della successiva alleanza contro Berlusconi). In più, la sua fama di tecnocrate, la dote di relazioni con il business e con la finanza di cui disponeva e la sua concretezza padana promettevano di dare alla sinistra quel valore aggiunto di «modernità» di cui essa aveva allora disperatamente bisogno. C'è una differenza fondamentale fra il Prodi che affronta le elezioni del 1996 e poi governa per due anni e il Prodi dal 2006 ad oggi. E' quella che corre fra un fenomeno politico nella fase iniziale, ascendente, e lo stesso fenomeno colto nel momento discendente della sua parabola. Nel 1996 Prodi suscitò grandi attese nel «popolo di sinistra». Suscitò, per esempio, l'entusiasmo di tanti intellettuali (molti dei quali, già fiancheggiatori del Pci, si trovarono a proprio agio con un uomo della sinistra cattolica, per giunta professore, ossia uno di loro). Inoltre, più e meglio degli ex comunisti, egli sembrava in grado, usando le corde del cattolicesimo sociale, di «far ragionare» anche la sinistra estrema. Promise l'Europa, il mercato, l'equità sociale, la normalità democratica. Mise in piedi una coalizione che non era solo «contro» (Berlusconi) ma che aveva anche qualche idea sul che fare per l'Italia. I suoi due anni di governo furono dominati dall'esigenza del rigore (Ciampi, al Tesoro, fu il suo alter ego) e dalla ricerca, coronata da successo, dell'ingresso nell'euro. Poi l'uomo «senza partito» venne messo da parte, tradito dalla sinistra estrema ma anche dal fatto che gli «ex» pensarono (sbagliando) di poterne ormai fare a meno. Richiamato in servizio nel 2006 (per le stesse ragioni per cui era stato incoronato dieci anni prima) si è trovato ad operare in tutt'altre condizioni. Era ormai diverso lui ed erano diversi i tempi. Nel 2006 la coalizione messa in piedi è stata, a differenza del '96, solo un'accozzaglia eterogenea creata per battere Berlusconi. La nuova legge elettorale ha avuto le sue colpe ma è falso che tutte le colpe siano della legge elettorale. Arrivato fortunosamente al governo, Prodi si è trovato privo di una «missione» e, per giunta, a capo dell'esecutivo più spostato a sinistra dell'intera storia repubblicana. Era rimasta solo, del tempo che fu, l'aspirazione al rigore (con Padoa-Schioppa al posto di Ciampi), bilanciata, però, dalla forza del «partito della spesa» e dal fatto che ora Prodi, molto più che nel '96, si proponeva come il garante del rapporto fra moderati e sinistra estrema. Dietrologie a parte, è vero che l'incoronazione di Walter Veltroni a leader del Partito democratico ha dato al prodismo la botta definitiva. A differenza di D'Alema (l'ultimo dei togliattiani), Veltroni è davvero un «post», uno che si è lasciato alle spalle il passato. La sua affermazione come leader ha reso superflui Prodi e il prodismo. Per un paradosso storico i prodiani furono i primi a volere il Partito democratico ma la sua nascita ha segnato l'inizio della loro fine politica. E' tutto qui il nodo della ormai famosa «vocazione maggioritaria». Nella visione che era stata dei prodiani il Partito democratico doveva essere il baricentro di una più larga Unione nella quale far convivere la sinistra estrema e quella moderata. Nella visione di un «post» senza complessi come Veltroni il Partito democratico deve diventare adulto camminando sulle proprie gambe. Non è che quella dei prodiani sia una visione «maggioritaria» e bipolare e quella di Veltroni no. Sono due modi diversi di declinare l'idea maggioritaria. Solo che in quella di Veltroni non c'è più posto per i mediatori fra sinistra moderata e sinistra estrema. Al di là delle apparenze odierne la partita non è finita e Prodi non è uno che si fa mettere da parte. Chi scommette sul fatto che le tensioni interne al Partito democratico diventeranno fortissime scommette sul sicuro. 26 gennaio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco Il dialogo e le invettive Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2008, 03:01:06 pm IN CAMPAGNA ELETTORALE
Il dialogo e le invettive di Angelo Panebianco Ci avviamo verso una campagna elettorale diversa da quelle che abbiamo fin qui conosciuto? I partiti si scontreranno duramente su proposte politiche alternative ma senza imporci un clima plumbeo da guerra civile, da contrapposte mobilitazioni contro il «nemico alle porte»? L'intenzione c'è. Almeno da parte dei due principali leader, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi. Assumendo la leadership del Partito democratico, Veltroni ha reiteratamente asserito di voler costruire un partito per anziché un partito contro, un partito che si qualifichi per le soluzioni che propone piuttosto che per l'antiberlusconismo. A sua volta, Berlusconi lascia intendere che in caso di vittoria vuole inaugurare una fase di fair play verso l'opposizione e che farà di tutto per coinvolgerla nelle deliberazioni del governo. I due massimi leader sembrano avere preso atto del fatto che la contrapposizione selvaggia che ha caratterizzato la nostra storia recente ha portato il sistema politico alla paralisi e ha lasciato esausto il Paese. La stessa richiesta fatta nei giorni scorsi da Veltroni di dare vita a una Grande Coalizione per le riforme istituzionali era sì finalizzata a ottenere il rinvio delle elezioni ma era anche, di per sé, una novità. Solo poco tempo fa sarebbe stato impensabile per un leader della sinistra proporre un'alleanza di governo con Berlusconi (allearsi con l'Uomo Nero?). Il clima delle campagne elettorali condiziona le vicende del dopo-elezioni. Una campagna dura ma senza demonizzazioni renderebbe più facile instaurare condizioni di cooperazione su temi importanti fra la futura maggioranza e la futura opposizione. Ma è realistico credere alla possibilità di una campagna elettorale siffatta? Vi si oppone la nostra tradizione. Vi si oppone il fatto che la demonizzazione dell'avversario è in questo Paese per tanti un mestiere, un'attività politico-economica da cui dipendono remunerazioni, status, carriere. Vi si oppone il fatto che, da noi, molti, e non solo politici di professione, sembrano identificare interamente la politica e l'agire politico con l'invettiva (è sempre stato così ma da Mani Pulite in poi questo fenomeno si è grandemente accentuato): se lo spazio per l'invettiva si riducesse tutti costoro penserebbero di essere stati defraudati del loro «ruolo politico». Vi si oppone il fatto che negli stessi partiti di Veltroni e Berlusconi abitano tantissimi che diventerebbero afoni se la delegittimazione dell'avversario perdesse il peso determinante fin qui avuto. Probabilmente, sarebbe necessario un forte ricambio del personale parlamentare, forze fresche disposte ad adottare uno stile più pacato e propositivo. E occorrerebbe la capacità dei leader di resistere alle pressioni di molti gruppi esterni: quei gruppi che vogliono una politica debole e delegittimata e sanno che un clima da guerra civile ne è la migliore garanzia. 06 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco Il partito dei cattolici Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2008, 03:54:38 pm LA SCELTA CENTRISTA
Il partito dei cattolici di Angelo Panebianco La rottura fra Berlusconi e Casini è ormai certa. Occorre riconoscere a entrambi un grande coraggio. Berlusconi, scegliendo la separazione da Casini, mette a rischio una vittoria elettorale che era fin qui data per certa. Casini, rifiutando di entrare nel Popolo della Libertà alle condizioni di Berlusconi, sceglie una strada rischiosissima, quella della lotta per la sopravvivenza. Hanno certamente anche pesato ruggini personali. Ma forse la separazione definitiva delle loro strade era comunque inevitabile (se non fosse accaduto adesso sarebbe accaduto in seguito). Al fondo, infatti, c'era un dissenso strategico, non componibile. Di tutti gli alleati di Berlusconi Casini era l'unico a non condividere l'idea che la politica italiana dovesse stabilmente imperniarsi su una competizione bipolare nella quale (come sempre accade nelle competizioni bipolari) il «centro» non è stabilmente occupato da alcun partito ma è, invece, il luogo in cui convergono, contendendosi gli elettori di centro, lo schieramento di destra e lo schieramento di sinistra. Fedele alla tradizione politica (quella democristiana) da cui proviene, Casini ha puntato tutto sul mantenimento di un partito di centro. Anche la sua preferenza per un sistema elettorale «alla tedesca» è sempre stata funzionale a quel disegno. L'incomponibilità dei disegni strategici ha reso «armata» e altamente conflittuale la coesistenza fra Casini e Berlusconi nel precedente governo di quest'ultimo. E l'avrebbe resa armata e conflittuale anche in una nuova esperienza di governo. Da qui il rifiuto di Berlusconi di rivedere un film già visto. Si noti che questa divergenza strategica non è legata a dissensi di tipo programmatico. Nei resoconti giornalistici sulle trattative fra Berlusconi e Casini non si trovano tracce di dissensi programmatici (sulla politica economica, sulla politica estera, sui temi etici o su altro). Qual è allora il punto? Perché non solo Casini ma anche altri ritengono indispensabile la sopravvivenza di un partito di centro, di un partito capace di occupare in permanenza il centro? È all'interno del mondo cattolico che va cercata la risposta. Il partito di centro, infatti, nella tradizione italiana, è un partito di cattolici. È l'espressione dell'organizzazione politica dei cattolici. Ma i cattolici, oggi, sono ampiamente presenti, e visibilissimi, in tutti e due gli schieramenti. Sono accasati nel Partito democratico come lo sono in Forza Italia e in An. Senza contare il fatto che se in queste elezioni ci sarà, come tutto lascia intendere, la lista per la moratoria sull'aborto promossa da Giuliano Ferrara, diversi elettori cattolici saranno fortemente tentati di votarla. E dunque perché un partito cattolico di centro? La risposta è chiara: la storia pesa. Una parte, non sappiamo quanto grande, del mondo cattolico, una parte dello stesso clero (alto e basso), si ricorda della Dc e pensa che senza un partito ispirato allo scudo crociato le esigenze dei cattolici non sarebbero sufficientemente tutelate in politica. Queste elezioni saranno, oltre a molte altre cose, anche un test sull'atteggiamento dei cattolici. Possono affidare le loro aspirazioni e le loro speranze al gioco bipolare della competizione fra sinistra e destra o devono di nuovo investire su un partito dei cattolici? 17 febbraio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Inserito da: Admin - Marzo 17, 2008, 02:56:37 pm IL NODO DELLA POLITICA ESTERA
Finanziare le missioni di Angelo Panebianco Gli osservatori che lamentavano con rassegnazione l'assenza dei temi di politica estera dalla campagna elettorale sono stati serviti. Con l'intervento dell'ex ministro della Difesa Antonio Martino, critico del nostro impegno in Libano, le successive precisazioni di Berlusconi, e le conseguenti polemiche, un aspetto cruciale della politica estera italiana, quello relativo alle missioni militari all'estero, ha fatto irruzione nell'agenda elettorale. Se si continuerà a discutere di politica estera e della difesa, naturalmente, c'è da scommettere che ciò avverrà nel modo approssimativo e propagandistico che è tipico delle campagne elettorali. Proviamo allora a richiamare alcuni fatti. Nel passaggio dal governo Berlusconi al governo Prodi ci furono alcuni (pochi, anche se importanti) cambiamenti di sostanza anche se le maggiori discontinuità furono di tipo retorico- ideologico. I cambiamenti riguardarono la presenza italiana in Iraq e l'atteggiamento verso il conflitto israelo-palestinese. Sull'Iraq pesava il fatto che l'intero centrosinistra aveva dato un giudizio negativo sia dell'intervento americano sia della nostra successiva partecipazione. Ne seguì il ritiro della missione militare. L'altro punto di vera discontinuità riguardò Israele. Bisogna ricordare che il governo Berlusconi aveva innovato rispetto alla tradizione italiana: aveva schierato nettamente l'Italia al fianco di Israele. Con il governo Prodi, e soprattutto con l'azione del ministro degli Esteri Massimo D'Alema, l'Italia tornò all' antico, alla politica, di andreottiana memoria, di prevalente sostegno alla causa palestinese. In vari momenti, quella politica ha assunto, nelle parole del ministro, si trattasse dell'azione israeliana di contrasto a Hezbollah o delle ritorsioni contro Hamas, una forte connotazione anti israeliana. Casi Iraq e Israele a parte, la principale differenza fra il governo Berlusconi e quello di Prodi stava nel fatto che il primo rimase unito sulle principali questioni internazionali e della sicurezza, mentre il secondo dovette fare i conti con forti divisioni interne. Ricordiamo che il governo Prodi, per aver voluto mantenere gli impegni assunti (Afghanistan, base di Vicenza) dovette sfidare fortissime turbolenze parlamentari e inciampò anche, nel 2007, in una crisi di governo. Che cosa aspettarsi nel caso di un nuovo cambio della guardia? Ci sarebbe almeno un mutamento di sostanza e riguarderebbe Israele. Un nuovo governo Berlusconi archivierebbe il neo andreottismo. In fondo, anche la polemica sulla missione in Libano sembra avere avuto come bersaglio proprio quella politica. Ci si dovrebbero aspettare poi cambiamenti sul piano retorico-ideologico. A differenza del governo Prodi, un eventuale futuro governo Berlusconi non dovrebbe fare i conti con una componente interna antiamericana. Ciò lo renderebbe più libero di ribadire in ogni momento la propria solidarietà con gli Stati Uniti nelle varie crisi (sull'Iran, ad esempio). Su tutto il resto è difficile fare previsioni. Di sicuro, né in Libano né in Afghanistan (le due missioni di cui si discute), chiunque vinca le elezioni, ci saranno cambiamenti non preventivamente concordati in sede Onu (Libano) o in sede Nato (Afghanistan). Forse, come afferma Berlusconi, verranno modificate le regole d'ingaggio dei nostri militari in Afghanistan ma difficilmente ciò potrà avvenire senza un coordinamento con Francia e Germania e senza che il governo coinvolga nella scelta anche l'opposizione (sinistra estrema esclusa). Molte cose non dipendono da noi e su molti aspetti della politica estera una certa continuità c'è sempre stata e ci sarà in futuro. C'è un punto però su cui la campagna elettorale dovrebbe fare chiarezza. Non si può discutere di impegni militari all'estero senza parlare di risorse. Il problema è stato sollevato dal ministro della Difesa Arturo Parisi ( Il Resto del Carlino, 15 marzo), il quale ha ricordato che, all'epoca del governo Berlusconi, l'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti colpì duramente il bilancio della Difesa portandolo dai 19,8 miliardi del 2004 ai 17,8 del 2006 con danni per l'operatività delle Forze Armate. Il ministro osserva anche che la successiva opera di recupero ha solo in parte rimediato ai danni in precedenza prodotti. Ecco un bel tema per la campagna elettorale. Le missioni militari sono un aspetto centrale della nostra presenza internazionale. Non sarebbe male quindi se, anziché prendere posizioni affrettate su questioni (come il nostro ruolo in Libano o in Afghanistan) che non dipendono solo da noi ma dalla nostra concertazione con altri Paesi, ci concentrassimo su ciò che sicuramente dipende solo da noi: quanti soldi il prossimo governo sarà pronto a impegnare per la sicurezza nazionale? 17 marzo 2008 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco. Pasticci con le ali Inserito da: Admin - Marzo 25, 2008, 03:57:14 pm CORDATE
Pasticci con le ali di Angelo Panebianco Fino a qualche giorno fa niente sembrava in grado di animare la campagna elettorale. Si parlava soprattutto delle somiglianze fra i programmi dei due principali contendenti. Poi è esplosa la questione Alitalia. A tre settimane dal voto, è diventato il tema su cui le forze politiche (a cominciare da Berlusconi, con la sua proposta di una cordata italiana da contrapporre ad Air France) sembrano puntare per mettere in difficoltà gli avversari. Niente di peggio poteva accadere poiché, come ha osservato Sergio Romano (Corriere, 23 marzo), una questione così grave richiederebbe di essere trattata con una serietà che è difficile ottenere da forze politiche impegnate a sgambettarsi in una campagna elettorale. Si intrecciano tre questioni. La prima riguarda i giochi interni al sistema dei partiti. Si sono delineate alleanze trasversali in cui ciascuno crede di avere la propria convenienza. Se Berlusconi, a nome del «partito del Nord», cerca di mettere in difficoltà Veltroni, i piccoli, a loro volta, hanno trovato un varco per picchiare duro sui grandi. Così, la Sinistra Arcobaleno apre a Berlusconi su Alitalia contro il Partito democratico (suo diretto concorrente a sinistra), mentre Casini, concorrente al centro del Popolo della Libertà, polemizza con Berlusconi e si schiera col Partito democratico. La seconda questione (la più esplosiva, almeno in prospettiva) riguarda la spaccatura Nord/Sud, Milano contro Roma. E’ il problema del declassamento di Malpensa e delle sue vere o presunte conseguenze per lo sviluppo del Nord. E’ difficile non notare che le divisioni politiche su Malpensa rispecchiano abbastanza fedelmente la geografia elettorale italiana. Infine, c’è la questione sindacale. I sindacati, corresponsabili del disastro Alitalia, cercano anch’essi di sfruttare le divisioni politiche e rinviare il momento in cui pagare il conto degli errori accumulati. Sarebbe interessante capire se davvero essi credono che i giochi del passato possano essere riprodotti all’infinito, se credono che, senza la vendita a un compratore credibile, il fallimento dell’azienda possa essere evitato. Naturalmente, i sindacati possono ancora contare su sponde politiche di un certo peso (come segnala la dissociazione del ministro Bianchi dalla posizione ufficiale del governo Prodi). E’ un pasticcio colossale nel quale, per giunta, è difficile stabilire chi guadagnerà elettoralmente e chi perderà. Prendiamo il caso dell'elettorato del Nord. Ci sono certamente cittadini sensibili alla difesa di Malpensa da parte della Lega e di Forza Italia così come ce ne sono molti affezionati all'idea della «compagnia di bandiera». Ma ce ne sono anche altri che si domandano se non sia peggio lasciare le cose come stanno, col rischio di continuare a far pesare sui contribuenti (magari anche in violazione delle regole europee) i costi di un’azienda in dissesto che si sarebbe dovuto far fallire oppure vendere già molti anni or sono. Pessimo argomento da campagna elettorale, il caso Alitalia è una buona dimostrazione di cosa succede quando i dibattiti accademici su «statalismo e liberismo» lasciano il campo alla politica vera e alla lotta sempre prosaica (anche se ammantata di sacri principi) fra gli interessi organizzati, aziendali, territoriali o sindacali che siano. 25 marzo 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I fallimenti dello Stato Inserito da: Admin - Marzo 30, 2008, 04:04:01 pm POLITICA E MERCATO
I fallimenti dello Stato di Angelo Panebianco In tempi di recessione il mito del «despota benevolo», dello Stato che si fa carico del bene comune contro gli egoismi del mercato, riprende inevitabilmente forza. Il mercato viene messo allora sotto accusa a causa dei suoi «fallimenti » (oggi si tratta degli effetti di contagio della crisi finanziaria americana innescata dalla vicenda dei mutui subprime). In quei frangenti, un numero crescente di persone si rivolge allo Stato per ottenere protezione dalle conseguenze negative del malfunzionamento dei mercati. Nessuno, o quasi, sembra disposto a porsi la domanda: chi ci proteggerà dal protettore? Altrimenti detto, invocare più Stato contro i fallimenti del mercato è una prassi normale, comprensibile, nelle fasi recessive, ma questo non autorizza a dimenticare che i «fallimenti dello Stato » sono spesso più gravi, e possono avere conseguenze più catastrofiche, dei fallimenti del mercato. Noi italiani dovremmo saperlo meglio di chiunque altro. Si pensi alla società e all'economia meridionali: lì c'è sempre stato un massimo di intervento statale, di intermediazione pubblica, un massimo di Stato «protettore». A qualcuno sembra che ciò abbia mai giovato alle condizioni della Campania, della Calabria o della Sicilia? A dispetto dei suoi tanti critici, la cosiddetta «globalizzazione », la brusca accelerazione dell'interdipendenza economico-finanziaria internazionale iniziata nei primi anni Novanta del secolo scorso, ha prodotto soprattutto effetti positivi: ha regalato una lunghissima fase di prosperità all'Occidente e, fuori di esso, ha strappato alla povertà milioni e milioni di persone. Inoltre, si è accompagnata a una diffusione delle libertà politiche nel mondo che non ha precedenti. Oggi, per la prima volta nella storia, democrazie e semi democrazie sopravanzano numericamente le autocrazie fra i regimi politici del mondo. Non è che la diffusione del mercato produca meccanicamente la diffusione delle libertà politiche. I rapporti fra mercato e democrazia sono complessi e in parte ancora oscuri: talvolta, lo sviluppo dell'economia di mercato aiuta l'affermazione della democrazia, altre volte è la democrazia che, consolidandosi, favorisce l'economia di mercato e, altre volte ancora (è il caso della Cina), l'economia di mercato coesiste a lungo con l'autocrazia politica. Però, è innegabile l'esistenza di una tendenza generale che vede associate la diffusione delle libertà economiche (di mercato) e quella della libertà politica. Oggi si assiste a un’inversione di tendenza. Si chiedono, in America come in Europa, barriere contro la concorrenza, limiti alla circolazione dei capitali, eccetera. Ovunque si punta a un maggior ruolo nell'economia del comando politico. Ma, attenzione, il «ritorno dello Stato » non è di oggi. Possiamo dire che la sua rentrée sia iniziata dopo i fatti dell'11 settembre 2001. Ossia, con il ritorno della guerra dopo la decennale parentesi seguita alla fine della Guerra fredda. Gli anni Novanta sono stati infatti il vero decennio della globalizzazione, una sorta di Belle époque nella quale crollarono le spese militari, la diffusione della democrazia nel mondo assunse ritmi tumultuosi, l'economia di mercato portò benessere anche dove non se n'era mai visto, la politica sembrò per un momento ritrarsi dalla scena. Dopo l'11 settembre, la politica (e dunque lo Stato), si riprese molti dei privilegi che aveva perduto nel precedente decennio. Come è inevitabile quando la sicurezza torna a essere un tema dominante. E ciò rallentò, come molti analisti osservarono, la corsa (che era stata sfrenata per tutti gli anni Novanta) della globalizzazione. Le spinte recessive di oggi sembrano portare a compimento il processo: la politica pare riacquistare pienamente un primato in precedenza indebolito. A riprova del fatto che non esistono nelle vicende umane processi «irreversibili» la spinta propulsiva propria della globalizzazione dei mercati, per effetto della rivincita della politica, probabilmente si affievolirà. Tutto questo è forse inevitabile ma a differenza di coloro che si limitano ad applaudire il ritorno della politica e auspicano che essa riesca a imbrigliare i mercati, io penso che ci saranno anche grossi prezzi da pagare: sotto forma di minor diffusione sia del benessere sia delle libertà. Del comando politico non possiamo fare a meno soprattutto perché è a esso che affidiamo la nostra sicurezza. Rallegrarsene però non ha senso. Il comando politico è un «male necessario». In quanto tale va sempre preso con le molle, va maneggiato con prudenza. In fondo, come non ricordare che la democratizzazione della Russia venne bloccata da una guerra (Cecenia) e che l'autoritarismo di Putin è stato alimentato dal forte controllo statale sull'economia? 30 marzo 2008 da corriere.it Titolo: Angelo Panebianco. Il grande tabù delle elezioni Inserito da: Admin - Aprile 10, 2008, 04:11:53 pm EUROPA, SARKOZY E SPESE MILITARI
Il grande tabù delle elezioni di Angelo Panebianco Le questioni di politica internazionale hanno una curiosa caratteristica: in campagna elettorale valgono meno di zero, non portano voti, se ne parla il meno possibile. Però, a elezioni concluse, sono quelle questioni a provocare alcune delle più gravi turbolenze, talvolta anche sismi capaci di fare oscillare violentemente i palazzi della politica. Il governo Berlusconi si trovò immerso nella temperie internazionale seguita agli attacchi dell'11 settembre 2001 e, dopo, fronteggiò formidabili opposizioni di piazza per il suo appoggio agli americani nella guerra in Iraq. Il governo Prodi, a sua volta, con la sua risicata maggioranza, si è trovato continuamente sulla graticola a causa dell'impegno in Afghanistan. Nulla fa ritenere che le cose possano andare diversamente per il prossimo governo. Tra i tanti omissis di questa campagna elettorale c'è anche una mancanza di riferimenti ai cambiamenti dello scenario europeo. La novità è data dal ruolo del presidente francese Sarkozy. Superando almeno in parte il vecchio asse franco-tedesco, Sarkozy si sta muovendo a tutto campo con l'intento di rilanciare il primato francese in Europa. La mossa più spettacolare è stata l'intesa con il premier britannico Gordon Brown. Ne è scaturita la promessa di Sarkozy di ricucire lo strappo di De Gaulle del 1966 (quando il generale fece uscire la Francia dall'organizzazione militare della Nato) abbinandola però a un deciso impegno per la difesa europea, un tema da sempre cavallo di battaglia dei britannici. La difesa europea promette quindi di diventare, in tempi difficili per l'Unione, uno dei nuovi motori dell'integrazione. Se così sarà, i Paesi che non saranno pronti a investire risorse su questo (costoso) fronte saranno tagliati fuori dal club degli stati europei influenti. Parlare di difesa europea significa parlare di spese militari. Veltroni e Berlusconi non vi accennano. Anche nei programmi dei due partiti mancano impegni espliciti e quantificabili. Il problema è serio anche perché pesa (in stridente contrasto con i nostri impegni nelle missioni di pace) una tradizione di disattenzione ai problemi della sicurezza: se, ad esempio, sono necessari tagli di bilancio, il settore della difesa è sempre il primo a essere colpito. La «nuova Europa» è un ambiente difficile e competitivo. Conta ormai assai poco essere stato un «socio fondatore». Ora si pesa solo per la forza che si ha e per il contributo che si è disposti a dare. Se la difesa europea, come pare, diventerà una questione davvero importante nei prossimi anni, l'influenza politica tornerà a essere misurata in Europa, almeno in parte, sulla base del più classico dei criteri: la forza e la qualità dell'organizzazione militare (dimmi quante divisioni hai e ti dirò quanto conti). I leader tacciono su un tema inadatto alla propaganda ma chi vincerà se lo ritroverà sulla scrivania. 07 aprile 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La vera forza della Lega Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:20:44 pm LA PROVA DEL FEDERALISMO FISCALE
La vera forza della Lega di Angelo Panebianco Il successo elettorale della Lega Nord sembra avere sconcertato e stupito tanti osservatori. Sconcerto e stupore sembrano dipendere dalla circostanza che, eccezion fatta per una manciata di attenti analisti del fenomeno, la Lega, nonostante la sua storia ormai ventennale e il suo radicamento territoriale, resta ancora per tanti un oggetto misterioso, un enigma, giudicato più per le periodiche intemperanze verbali dei suoi leader che per la sua natura. Il riflesso pavloviano di molti è ancora quello (come accadeva agli albori della vicenda leghista) di liquidare il fenomeno sotto l'etichetta di «movimento di protesta». In parte, ciò dipende dalla difficoltà di comprendere che cosa davvero sia un partito regionale o territoriale. Un partito regionale è un partito che sfugge alle classiche etichette destra/sinistra: imponendosi come portavoce di una certa area territoriale, che aspira a rappresentare in modo monopolistico, è un partito interclassista e comunitario. E' un partito-comunità. Per un gruppo politico siffatto, avere un ruolo nel governo nazionale è importante ma solo se ciò rende più efficace la sua azione a favore della comunità territoriale rappresentata. La sua vera forza sta nel controllo delle amministrazioni locali e in una presenza capillare sul territorio. Come ha osservato Andrea Romano (La Stampa), non si capisce la Lega Nord se non si tiene conto della capacità che Umberto Bossi ha avuto nel corso degli anni di fare crescere una classe dirigente locale, di giovani amministratori, spesso abili, e capaci di tenersi in sintonia con le domande dei loro amministrati. Per questo, certi paragoni reggono poco. Non funziona accostare la Lega, partito territoriale insediato in alcune delle zone più ricche del Paese e che gode del consenso di ceti produttivi, ai movimenti classici di tipo ideologico, vuoi di estrema destra (come il lepenismo in Francia) vuoi di estrema sinistra (come la sinistra massimalista in Italia). Al di là di certe somiglianze superficiali con i movimenti estremisti (e senza negare che le spinte anti-politiche possano oggi avere avuto un qualche ruolo nel successo elettorale della Lega), un partito regionale come la Lega Nord vive e prospera in virtù di un rapporto «contrattuale», di scambio, su temi concretissimi, che toccano direttamente le loro vite e i loro interessi, con i propri rappresentati. A dare forza alla sua azione, a spiegare il suo radicamento e i suoi successi, sono due circostanze. In primo luogo, il fatto che un partito regionale non deve preoccuparsi, a differenza dei grandi partiti nazionali, delle «compatibilità» (se non quando non preoccuparsene danneggerebbe i territori rappresentati) e degli interessi nazionali. Ciò lo rende meno impacciato dei partiti nazionali che devono mediare fra tanti interessi, territorialmente diffusi, e fra loro contrastanti. In secondo luogo, il fatto che il comunitarismo territoriale che lo ispira gli permette di muoversi «come se» le popolazioni rappresentate fossero internamente omogenee. Per l'interclassismo comunitario, «se ci guadagna» il territorio, ci guadagnano tutti i suoi abitanti. In questa prospettiva, per inciso, l'erosione dell'area dell'incompatibilità di interessi, e della conflittualità, fra datori di lavoro e salariati, dovuta ai cambiamenti intervenuti nella struttura economica e sociale, può contribuire a spiegare il tracollo della sinistra classista e certi significativi spostamenti di voto operaio verso la Lega. Per capire meglio le specificità della Lega si pensi alle differenze fra il suo ruolo nel precedente governo Berlusconi e quello svolto dalla sinistra massimalista nel governo Prodi. La sinistra massimalista tenne il governo Prodi in scacco su tutti i temi possibili, dalla politica estera al welfare, fu fonte di continua instabilità. La Lega Nord, nel passato esecutivo di Berlusconi, invece, sostenne sistematicamente le politiche governative nel loro complesso, tenendo ferma la barra sui pochi ma cruciali temi che le interessavano: l'immigrazione, la devolution. Né si può ignorare, a conferma del carattere assai pragmatico dell'azione leghista, che il governo Berlusconi fu debitore nei confronti della Lega di un ministro del Lavoro (Roberto Maroni) cui si dovette, fra l'altro, uno dei provvedimenti più significativi di quel governo: la legge Biagi. Poiché la natura della Lega non è cambiata, nulla lascia pensare che le cose andranno ora diversamente. La Lega si impegnerà nel governo sostenendolo lealmente ma chiedendo in cambio provvedimenti precisi sulle cose che stanno a cuore ai suoi rappresentati: sicurezza, immigrazione, federalismo fiscale. Sulla sicurezza e sulle politiche dell'immigrazione, probabilmente, non incontrerà difficoltà dal momento che esiste, su questi temi, omogeneità di vedute nel centrodestra. Assai più delicato e complesso potrebbe risultare invece il tema del federalismo fiscale: agitato propagandisticamente per anni, questa volta il federalismo fiscale entrerà davvero nell'agenda politica, diventerà oggetto di vere decisioni. Qui potrebbero insorgere problemi, anche seri, fra il partito regionale (che punta a trattenere al Nord il massimo possibile delle risorse prodotte) e il partito nazionale, il Pdl, che deve mediare fra interessi diversi e che non può ignorare le domande, di tutt'altro tenore, del Mezzogiorno. La sintesi, difficile comunque, sarà resa verosimilmente ancora più ardua dalla fase recessiva che ci aspetta. E' lecito ipotizzare che proprio sul federalismo fiscale, nei prossimi anni, il centrodestra possa giocarsi il suo futuro, garantendosi sine die, o prima o poi perdendo, il sostegno del partito regionale. 17 aprile 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL CASO ICHINO Inserito da: Admin - Aprile 26, 2008, 02:26:21 pm IL CASO ICHINO
Lo spirito giusto di Angelo Panebianco All'indomani della vittoria del centrodestra era lecito chiedersi se le profferte di collaborazione con l'opposizione avanzate da Silvio Berlusconi durante la campagna elettorale sarebbero state subito accantonate. Non è stato così. La richiesta, clamorosa e senza precedenti nella storia della Repubblica, che Berlusconi ha fatto al giuslavorista Pietro Ichino, neoeletto nelle liste del Partito democratico, di entrare a far parte del nuovo governo, conferma che il vincitore delle elezioni punta effettivamente a una cooperazione ampia e a relazioni diverse da quelle del passato con l'opposizione parlamentare. E' stata evocata la Francia di Sarkozy. Ma ci sono, fra Italia e Francia, troppe differenze di contesto, di uomini, di stili politici, perché il parallelo sia davvero convincente. Nel caso italiano vale assai di più il diffuso riconoscimento che i nostri problemi sono troppo gravi e complessi per poter essere avviati a soluzione perpetuando il clima da guerra civile e da muro contro muro che ha caratterizzato le precedenti esperienze di governo dal 1994 in poi. Ichino ha declinato l'invito ma lo ha fatto con parole che non chiudono le porte alla possibilità di convergenze fra maggioranza e opposizione su quelle tematiche del lavoro di cui egli è uno dei massimi specialisti. A differenza di Oscar Giannino che, su Libero, ha criticato la scelta di Ichino, penso che quest'ultimo non potesse fare altrimenti. Sia perché il passaggio di un neoeletto dall'opposizione al governo sarebbe stata giudicata severamente da molti della sua parte politica, sia, e soprattutto, perché Ichino si è dato un compito assai difficile: contribuire alla affermazione, dentro il massimo partito della sinistra italiana, di una visione moderna e realistica dei problemi del lavoro, una visione che a tutt'oggi conta fieri avversari nel sindacato ed è anche destinata, verosimilmente, a incontrare resistenze nello stesso Partito democratico. Come è testimoniato dalle polemiche che, da sinistra, hanno sempre accompagnato gli editoriali che sui temi del lavoro Ichino ha pubblicato per anni sul Corriere ma anche da certe reazioni stizzite che hanno seguito l'annuncio della sua candidatura al Parlamento. Si è aperta una partita complessa e interessante. Molto, nei rapporti futuri fra governo e opposizione, dipenderà dalle ulteriori mosse di Berlusconi. Ma molto dipenderà dalle risposte dell'opposizione. Per esempio, se Veltroni darà vita a un governo-ombra, oltre alla qualità e alla preparazione delle persone scelte, conterà lo spirito con cui esso opererà. Se il suo compito non sarà solo quello di contrastare l'azione del governo (per far questo non c'è alcun bisogno di governi- ombra) ma anche di favorire convergenze fra maggioranza e opposizione su decisioni importanti, ecco che si tratterà di un'innovazione utile per il Paese. Andrebbe per esempio in quella direzione una rinuncia da parte della maggioranza ad esprimere la presidenza della commissione Lavoro di Palazzo Madama affidandola proprio a Ichino. Certi poveri di spirito (nonché violentatori della lingua italiana) chiamerebbero tutto ciò «inciucio». Si tratterebbe, invece, del superamento di una patologia che ci ha afflitto per anni, dell'avvento di una democrazia parlamentare civile e matura. 26 aprile 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il dialogo come metodo Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 09:51:23 pm L’APERTURA DEL PARLAMENTO
Il dialogo come metodo di Angelo Panebianco Il discorso con il quale il neo-presidente della Camera Gianfranco Fini ha salutato i deputati sembra uno di quei discorsi destinati a lasciare il segno. Con la sua elezione e con le sue parole, Fini è uscito del tutto dal cono d’ombra in cui — ma prima della vittoria di Gianni Alemanno a Roma— si era trovato relegato a causa delle modalità con cui era avvenuta l’aggregazione fra Forza Italia e An e del successo elettorale della Lega. Col suo discorso Fini ha inteso imporre una forte, personale impronta sulla legislatura che si apre ma anche, implicitamente, definire, dal suo punto di vista, l’identità del nuovo centrodestra. Almeno quattro passaggi del suo discorso sono apparsi finalizzati a questo scopo. In primo luogo, l’omaggio, irrituale, a Papa Benedetto XVI, che ha immediatamente seguito il più consueto omaggio al presidente della Repubblica. E' in nome del principio della laicità delle istituzioni, dice Fini, che il Parlamento deve riconoscere il ruolo della religione cristiana come cemento dell’identità culturale italiana. Con questo richiamo Fini ha inteso anche ricordare che il centrodestra, in Italia come al Comune di Roma, non mancherà mai di difendere l’identità cristiana del Paese. Questo aspetto è ulteriormente rafforzato da un altro passaggio, quello in cui, dopo avere reso omaggio alla Liberazione e alla riconquistata libertà, Fini ha sostenuto che oggi la minaccia non viene più dai totalitarismi ma dal relativismo culturale e morale. E' un altro punto su cui Fini ha voluto ribadire la sua consonanza con la lezione del Pontefice. Implicitamente, egli ha così anche affermato un aspetto centrale, dal suo punto di vista, dell’identità politica del centrodestra. Ma ci sono almeno altri due passaggi, politicamente assai salienti. Il primo è quello in cui ha ringraziato due ex presidenti della Repubblica, Cossiga e Ciampi (ma, significativamente, non Scalfaro) per il contributo che diedero all’abbattimento degli steccati lasciati dalla storia e alla ricostituzione di una memoria condivisa. Tante cose sono accadute dai tempi di Fiuggi e Fini aveva già dato una fortissima accelerazione al superamento delle divisioni passate, soprattutto nella veste di ministro degli Esteri del precedente governo Berlusconi (il viaggio in Israele fu, a questo fine, decisivo). Ma ora, dopo la sua elezione e il suo discorso, un’epoca della storia della Repubblica si è davvero chiusa. Ci aspettano di sicuro altre divisioni ma non più quelle del passato. Da ultimo, Fini (come già Schifani in Senato) ha ribadito la necessità di un accordo fra maggioranza e opposizione sulle riforme. Più che un richiamo rituale è stata un’implicita presa di posizione contro tendenze di segno contrario che potrebbero facilmente manifestarsi. Alcune delle condizioni che giocavano a favore di un dialogo costruttivo fra maggioranza e opposizione si sono infatti indebolite. C’è una maggioranza che ha vinto tanto e potrebbe essere tentata (sbagliando) di «fare da sola» anche in materie in cui l’accordo con l’opposizione è indispensabile. E c’è un leader del Pd, Walter Veltroni, indebolito dalle sconfitte e, quindi, più condizionato, con meno margini per trattare con la maggioranza. Il richiamo di Fini è servito anche a ricordare alle due parti che senza collaborazione non si potrà fare il bene del Paese. 01 maggio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I RIFIUTI E LA LINEA IERVOLINO Inserito da: Admin - Maggio 20, 2008, 05:50:11 pm Editoriali
I RIFIUTI E LA LINEA IERVOLINO La battaglia decisiva di Angelo Panebianco Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti (ma forse così non è) che in Campania, nella drammatica vicenda dei rifiuti, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi non sarà in gioco solo la credibilità del neonato governo Berlusconi. L'immagine internazionale del Paese è stata orribilmente sfigurata a causa di quella vicenda. Senza un immediato e radicale cambio di rotta, senza un vero avvio di soluzione del problema, rischiamo di non potere mai più ridare (parole di sapore antico ma, credo, calzanti) l'onore perduto all'Italia. Di fronte al mondo come di fronte a noi stessi. Occorre una grande concordia di intenti, una ferrea volontà di coordinamento degli sforzi fra tutte le istituzioni che contano, da quelle politiche (a tutti i livelli), a quelle ammini-strative, a quelle giudiziarie. Possibilmente, con l'impegno e il sostegno dell'intera società, della Chiesa, dei mezzi di comunicazione, eccetera. Anche perché si è ormai capito che la possibilità o meno di affrontare con successo la questione dei rifiuti dipenderà in larga misura dagli esiti del braccio di ferro fra lo Stato democratico e la camorra (che non intende rinunciare all'ultra-redditizio business dei rifiuti) per il controllo del territorio campano: una sfida che lo Stato democratico potrebbe benissimo perdere. C'è dunque, finalmente, quella concordia di intenti? Solo in parte, a quanto sembra. Se il presidente della Regione campana Antonio Bassolino si dichiara pronto a cooperare lealmente con il governo, altri sembrano, incredibilmente, ignari della gravità della situazione. È impressionante, ad esempio, il resoconto ( La Stampa, 19 maggio) dello stillicidio di intralci posti, negli ultimi mesi, da alcune procure campane all'attività del commissario Gianni De Gennaro, al suo disperato tentativo di tamponare l'emergenza. Ed è ugualmente impressionante il contenuto dell'intervista rilasciata ieri al Corriere non da un passante ma dal sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Invece di appellarsi ai suoi cittadini perché collaborino con le pubbliche autorità, invece di lasciare da parte le polemiche e invitare tutte le istituzioni all'azione concorde, la Iervolino (rendendo così poco credibile la sua stessa dichiarazione di voler cooperare col governo) non rinuncia a sottolineare il suo ruolo di «antagonista » di Berlusconi e della maggioranza. Con varie battute sarcastiche, come quella sulla proposta di tenere segreti i siti delle discariche: «Che facciamo? Vestiamo gli operai da Cappuccetto Rosso e camuffiamo le scavatrici da carri di Babbo Natale?». Si vede che al sindaco di Napoli mette allegria stare seduta sulla tolda del Titanic. La storia insegna che nelle grandi tragedie un ruolo importante, in negativo, lo svolge sovente l'inadeguatezza politica di chi occupa rilevanti posizioni pubbliche. A Napoli e dintorni è in corso da mesi una sorta di guerriglia «a bassa intensità », scontri fra dimostranti e polizia, roghi di cassonetti, eccetera. Forse la camorra, come anche nella vicenda dell'assalto al campo Rom, sta mandando un messaggio al governo e, in realtà, all'intera società italiana, un messaggio del tipo «questo è territorio nostro, non provatevi a mettervi di mezzo». Sarà difficile per chicchessia mettersi di mezzo se le istituzioni non remeranno tutte con lo stesso ritmo e nella stessa direzione. 20 maggio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se lo Stato fallisce Inserito da: Admin - Maggio 27, 2008, 06:55:50 pm DEMOCRAZIE
Se lo Stato fallisce di Angelo Panebianco Che cos’hanno in comune i due temi caldi di questi giorni, il braccio di ferro fra il governo e le comunità locali campane sulle discariche e il dibattito sulla necessità o meno di introdurre il reato di clandestinità? Pur essendo questioni diversissime esse condividono il fatto di sollecitare risposte a una domanda decisiva: quale «livello di statualità », quale grado di controllo territoriale da parte dello Stato, riteniamo compatibile con la forma di governo democratica? In linea di principio, le democrazie possono distinguersi fra loro per il fatto di essere associate a Stati «forti» (effettivo monopolio della forza, effettivo controllo sul territorio) oppure a Stati «deboli». Nella realtà, naturalmente, è sempre una questione di grado: non esistono Stati così forti da esercitare un controllo totale sul territorio (caso francese: rivolta della banlieue) e, inoltre, esistono, sul versante opposto, vari gradi possibili di debolezza dello Stato. E' però un fatto che quando la debolezza supera una certa soglia lo Stato debole si trasforma in uno «Stato fallito». Se mai quella soglia venisse superata in un Paese occidentale anche la democrazia (che non può vivere in assenza di Stato) vi morirebbe immediatamente. La democrazia italiana ha sempre convissuto con uno Stato relativamente debole. Non foss'altro per la sua incapacità di stabilire un effettivo monopolio della forza nei territori storicamente controllati dalla criminalità organizzata. La novità di questi anni è l’esplosiva miscela fatta di cambiamenti culturali (ampie fasce di cittadini sempre meno disponibili ad accettare il comando statale), inefficiente funzionamento della macchina amministrativa (apparati repressivi inclusi) e trasformazioni sociali (l'immigrazione ne è un aspetto). Tutto ciò ha ulteriormente indebolito il «grado di statualità», in termini di controllo delle risorse coercitive, della forza e di controllo territoriale, avvicinando così il Paese pericolosamente a quella zona rossa superata la quale ci sono solo lo «Stato fallito» e la conseguente anarchia. Poiché abbiamo una tradizione di Stato debole molti credono che l'ulteriore indebolimento che esso ha subito in questi anni (testimoniato, ad esempio, dai continui successi ottenuti fino a oggi dalle comunità locali in rivolta contro decisioni governative in materia di opere di pubblica utilità) non comprometterebbe la democrazia. Sbagliano clamorosamente. Una democrazia si differenzia da un regime autoritario perché distingue in modo sufficientemente chiaro, sulla base di leggi e procedure codificate, ciò che è negoziabile e ciò che non lo è. E ciò che non è negoziabile (le decisioni assunte da organi democraticamente eletti) viene imposto. Anche con la forza, quando occorre. A patto naturalmente che lo Stato non sia ridotto a una finzione, non sia diventato così debole da non poterselo più permettere. Chi plaude come «democratica» la rivolta antidiscariche, forse non lo sa ma il «modello di Stato» che sta proponendo a tutti noi è il Libano. Anche la discussione sul reato di clandestinità ha molto a che fare con il livello di statualità ritenuto accettabile, opportuno, nonché compatibile con la democrazia. Il reato di clandestinità, com’è noto, è vigente in altre democrazie occidentali. Da noi alcuni vi si oppongono solo per ragioni pragmatiche: sono quelli che dicono che a causa dell’inefficienza del nostro sistema giudiziario, l'introduzione di questo reato renderebbe impossibile espellere i clandestini. Forse hanno ragione. Però costoro hanno anche il dovere di proporre misure per ridurre quell'inefficienza (magari anche a costo di far strillare un po' l'Associazione nazionale magistrati e altre strutture sindacali). A occhio, però, direi che i «pragmatici » non sono in maggioranza fra coloro che si oppongono al reato di clandestinità. La maggioranza mi pare composta da quelli che difendono l'attuale basso livello di statualità, che vogliono che i confini nazionali restino porosi non solo di fatto ma anche di diritto. Sono persone (fra esse ci sono anche alcuni uomini di Chiesa) che ritengono un maggior controllo statale sul territorio incompatibile con la democrazia. La storia, le tradizioni, pesano. Poiché la nostra è una tradizione di Stato debole molti pensano che solo uno Stato debole possa sposarsi con la democrazia. Costoro temono eventuali rafforzamenti del livello di statualità perché li interpretano tout court come manifestazioni di tendenze autoritarie in atto. Per la stessa ragione, essi ignorano o sottovalutano i segnali, accumulatisi negli ultimi anni, di «cedimento strutturale» del nostro sistema statuale. Talvolta, un eccesso di statualità può effettivamente innescare tendenze autoritarie e uccidere la democrazia. L'anarchia, però, è sempre in grado di produrre lo stesso risultato. 27 maggio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se la società civile scendesse in piazza Inserito da: Admin - Giugno 02, 2008, 11:45:54 am RIFIUTI E DISFATTA DEL SUD
Se la società civile scendesse in piazza di Angelo Panebianco Nel suo L'armonia perduta, del 1999, a proposito di quell'invenzione culturale che è stata la «napoletanità», Raffaele La Capria scrive che essa «... fu l'approdo inevitabile di questa piccola borghesia che rinunciava a priori, per risolvere il problema della plebe, a ogni vero tentativo di trasformazione sociale. Che rifiutava a priori ogni tentativo di industrializzazione, in quanto comportava rischi e richiedeva investimenti, capacità imprenditoriali, cultura, proprie di una classe dirigente moderna e di una borghesia degna di questo nome». Assillata dall'esigenza di controllare la plebe, la borghesia napoletana, per La Capria, diede vita a una forma di civiltà duttile e raffinata ma immobile, impermeabile alle esigenze della modernità. L'ambivalente sentimento dello scrittore nei confronti della borghesia della sua città ritorna oggi negli interventi che egli dedica all'emergenza napoletana. Lo si coglie anche nelle riflessioni pubblicate ieri sul Corriere. Quell'ambivalenza dà luogo, mi sembra, a oscillazioni nel giudizio. C'è una differenza fra la prima parte, dove risponde a Ernesto Galli della Loggia, e la seconda dove esamina criticamente Il mare non bagna Napoli, il libro di Anna Maria Ortese. Nella prima parte, egli accusa l'Italia per quanto è accaduto e accade a Napoli. Il rischio è che il lettore vi veda (fraintendendo, credo, il vero pensiero di La Capria) una sorta di assoluzione per Napoli, un voler gettare sulle spalle di altri le responsabilità. Nella seconda parte, però, egli dedica un giudizio molto affilato e duro alla borghesia napoletana, della quale dice che essa non si è mai confrontata con il mondo e, pertanto, non è mai stata in grado di conoscersi: «Come si fa a essere classe dirigente se non si sa chi si è?». Io credo che a Napoli oggi possa servire più questo duro giudizio sull'inettitudine della sua borghesia, della sua classe dirigente, che una chiamata di correo per l'Italia nel suo insieme. Perché nelle chiamate di correo è sempre insito il rischio, anche al di là delle intenzioni, di allontanare la responsabilità da chi in primo luogo la possiede. E' mia impressione che i napoletani, e in particolare proprio quella borghesia da cui fin qui, nella vicenda dei rifiuti, ci si è attesi invano uno scatto d'orgoglio, la manifestazione di un'inequivocabile volontà di prendere in mano il destino della propria città, non abbiano ancora misurato fino in fondo il baratro morale in cui Napoli è precipitata agli occhi del resto dell'Italia. Forse, per quella normale forma di cortesia che impronta le conversazioni private, i non napoletani evitano di calcare troppo la mano quando parlano con dei napoletani. Ma è purtroppo un fatto che, ad esempio, quando al Nord oggi si parla di Napoli (e la cosa non coinvolge solo elettori leghisti ma i più disparati ambienti, culturali e politici) smorfie e commenti carichi di disprezzo sono la regola. Il resto del Paese si sente danneggiato da Napoli due volte. In termini di immagine, perché la vicenda napoletana dei rifiuti coinvolge l'intera Italia agli occhi del resto del Mondo. E in termini di sforzo finanziario, perché quella storia costa cifre colossali ai contribuenti italiani. Da quindici anni, o quanti ne sono passati da quando dura il problema dei rifiuti, afflitta da quegli antichi difetti acutamente individuati da La Capria, la società civile napoletana, quell'ambiente borghese fatto di professionisti, professori, imprenditori, giornalisti, magistrati, è stato silente, e quindi complice, degli errori inanellati dalla classe politica. Quella società civile non può fingere di non avere responsabilità possedendo essa le risorse culturali ed economiche che avrebbero potuto metterla in grado di esercitare un'influenza positiva, se solo lo avesse voluto. Trovo stupefacente che quella classe borghese non abbia ancora sentito su di sé tutto il peso morale dell'emergenza e non si sia data da fare di conseguenza. Trovo strano, ad esempio, che essa non sia stata ancora in grado di portare in piazza mezzo milione, o più, di persone, con lo scopo di solidarizzare con chi, da De Gennaro a Bertolaso, ha tentato e tenta l'impossibile per rimediare, e di dire basta alle manovre dilatorie e alle «rivolte » suscitate ad arte, mediante le quali, da troppo tempo, si impedisce di porre termine a questa scandalosa situazione. Se quella reazione ci fosse stata, il clima e il vento sarebbero già cambiati e Napoli potrebbe guardare con più fiducia al futuro. Per i rifiuti ma forse anche per i suoi più generali problemi di sviluppo. L'assenza di quella reazione spiega anche l'incapacità delle istituzioni di cooperare fra loro (come mostra l'ultimo, devastante, intervento della magistratura), di remare nella stessa direzione. Non dovrebbe essere questo il compito di intellettuali di grande prestigio come La Capria? Quello di spingere i propri concittadini ad abbandonare l'apatia, a muoversi per riconquistare un orgoglio e un onore oggi perduti? Anche i difetti più antichi e radicati di una classe dirigente che, in realtà, non sa dirigere più nulla, possono essere riscattati nelle situazioni di emergenza. Anzi, è solo in presenza di crisi gravissime che potenziali classi dirigenti, abituate a stare in ginocchio, riescono talvolta ad alzarsi in piedi. In quasi tutto il Sud, non solo a Napoli, è da sempre radicata l'idea che tocchi agli altri, al Nord ricco oppure allo Stato, «risarcire» il Sud, risolvere i problemi della società meridionale. Ma è una tragica illusione. Gli «altri», si tratti dello Stato o di qualunque altra entità, anche ammesso (e non concesso) che lo vogliano, non potrebbero comunque riuscirci. Nessuno è in grado di aiutare davvero un altro se quest'ultimo non aiuta se stesso per primo. 31 maggio 2008(modificato il: 01 giugno 2008) da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il monito di Obama Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:27:51 pm Il monito di Obama
di Angelo Panebianco Probabilmente non è così esperto da mettere in conto tutte le conseguenze delle proprie dichiarazioni. Gli premeva solo segnare un punto contro il suo avversario, il repubblicano John McCain. Ma quando, alcuni giorni fa, Barack Obama, il candidato democratico, ha assunto una durissima posizione contro l'Iran, chiarendo che lo considera un nemico dell'America, egli ha lanciato, involontariamente, anche un messaggio all'Europa. Soprattutto, a quella parte d'Europa tentata dall'appeasement con l'Iran. Riflettano quelli che in Europa pensano che con l'Iran bisogna fare solo affari, fingere che il presidente iraniano Ahmadinejad sia un pazzo isolato che non va preso sul serio quando ribadisce che Israele dev'essere distrutto e chiudere gli occhi di fronte all'espansionismo del-l'Iran in Medio Oriente e al suo programma nucleare. Non sappiamo se il «predicatore » diventerà presidente e se, diventandolo, darà vita a una politica estera mediocre e oscillante (come quella di Jimmy Carter) oppure di grande profilo come quella di altri presidenti democratici. Ma una cosa è sicura. L'America (eventuale) di Obama non cesserà di essere pronta alla durezza nei confronti delle più pericolose potenze revisioniste, quelle che si propongono di rovesciare a proprio vantaggio, anche con la forza delle armi, lo status quo (l'Iran di oggi è una potenza del genere nello scacchiere mediorientale). C'è quindi da scommettere che molto del favore che Obama raccoglie anche in Europa (la «buona America » contro quella cattiva di Bush) si ridurrà se egli diventerà presidente. Si noti che una politica dura nei confronti del-l'Iran porterà per forza altre conseguenze. Non potrà essere abbandonato l'Iraq perché ciò permetterebbe all'Iran di dilagare senza contrappesi nella parte sciita di quel Paese. Nel Libano, dove l'Hezbollah filoiraniano si è ulteriormente rafforzato, si dovrà continuare a fronteggiarne la minaccia. La stessa cosa varrà per Gaza. E' un monito anche per noi italiani. Bene ha fatto il governo a non ricevere Ahmadinejad durante la sua visita alla conferenza della Fao e bene hanno fatto le forze politiche a tenersene distanti. Così come è giusto voler entrare nel gruppo 5+1 per partecipare all'azione internazionale coordinata contro la potenziale minaccia nucleare iraniana. Anche a costo di perdere commesse e affari. Poiché una guerra (che, purtroppo, ha forti probabilità di scoppiare se non ci saranno, nei prossimi anni, un cambio di regime in Iran o una sua rinuncia al nucleare militare) farebbe perdere a tutti molto di più. Come ha scritto Mario Ricciardi sul Riformista, trattare con i gangster politici si può e, talvolta, si deve, ma si può fare solo mettendo una pistola sul tavolo. Chi non la pensa così nel caso dell'Iran ne sottovaluta la minaccia oppure ha ragioni inconfessate per approvarne l'avventurismo (perché, ad esempio, detesta a tal punto Israele da considerarlo una pedina sacrificabile). L'Iran, si dice, è una società complessa ove sono presenti molte forze. Lo è di sicuro. Ma per permettere alle forze interne contrarie all'avventurismo dell'attuale gruppo dirigente iraniano di prevalere, occorre un Occidente compatto e deciso, tale da non lasciare al regime spiragli per giocare un Paese occidentale contro l'altro. Forse persino Obama non sarà molto diverso da Bush su questo punto. 08 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il ritorno all'antico Inserito da: Admin - Giugno 22, 2008, 04:46:07 pm GOVERNO E OPPOSIZIONE
Il ritorno all'antico di Angelo Panebianco Non se ne sentiva la mancanza ma la notizia è ufficiale: è tornato il «regime» con annessi «attentati alla Costituzione » e «derive autoritarie». La sinistra dura e pura, quella che oggi vuole dare lo sfratto a Walter Veltroni per connivenza col nemico, torna agli argomenti di sempre. Mobilita persino (lo ha fatto l’Unità ieri) i «reporter europei» contro il divieto di pubblicare le intercettazioni. È un dettaglio irrilevante, naturalmente, il fatto che nessuno di quei reporter europei (come i pubblici ministeri dei relativi Paesi) abbia mai potuto fare l’uso delle intercettazioni che si è fatto fin qui in Italia. La difesa del circo mediaticogiudiziario viene assimilata alla difesa della libertà di stampa. Per inciso, chissà come si deve sentire Luciano Violante, nonostante l’autorevolezza di cui ha sempre goduto a sinistra sui temi giudiziari: avendo detto cose assai diverse da quelle che dice la «sinistra anti-regime», rischia di essere trattato da traditore. La battaglia anti-regime ha fatto male alla sinistra in passato. È stata una strada politicamente fallimentare. Se verrà imboccata di nuovo (e ce ne sono i segnali) farà ancora male alla sinistra. E anche alla democrazia italiana. Il paradosso è che la mobilitazione anti-regime non avviene in un Paese che soffre di iper-decisionismo ma del suo esatto contrario, di un’insuperabile debolezza decisionale. Nel 2001 Berlusconi aveva, sulla carta, una fortissima maggioranza ma questo non impedì che la sua azione venisse continuamente bloccata dai veti incrociati. L’illusione ottica si è ripresentata dopo le ultime elezioni. La vittoria del centrodestra è stata così netta da far pensare che nulla avrebbe potuto impedire a Berlusconi di governare con vero piglio decisionista. Ma non può essere così in un sistema politico come il nostro. L’illusione ottica si sta dissolvendo. Il governo appare già oggi indeciso a tutto. Basti guardare alla girandola di norme che vengono inserite nei decreti (a immediata operatività) e, un istante dopo, ne escono per essere trasferite dentro disegni di legge: in un sistema indecisionista come il nostro, trasferire una norma da un decreto a un disegno di legge significa farla uscire dall’agenda politica. Prima che se ne discuta di nuovo, campa cavallo. A differenza di quanto accade in altre democrazie, in Italia ottenere grandi consensi elettorali e disporre di una grande maggioranza non garantisce la capacità decisionale del governo. Nonostante le differenze fra il governo Berlusconi e il governo Prodi (minor numero di partiti nella coalizione, maggioranza sicura in entrambe le Camere), non è detto che, in termini di capacità decisionale, a Berlusconi vada davvero molto meglio che a Prodi. Perché restano inalterati i problemi di fondo della nostra democrazia: i debolissimi poteri di cui gode il premier e un numero di poteri di veto, diffusi a tutti i livelli del sistema istituzionale, più elevato di quello di altre democrazie. Basti guardare, ad esempio, alla capacità che hanno certi settori della magistratura campana (il commissario De Gennaro è stato esplicito su ciò) di bloccare o rallentare l’azione governativa nella vicenda dei rifiuti. È strano, o perlomeno prematuro, che si accusi un sistema politico cronicamente malato d’indecisionismo di essere un regime. 17 giugno 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Giudici, la svolta che serve ai democratici Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 10:29:34 am IL RAPPORTO CON I PM
Giudici, la svolta che serve ai democratici di Angelo Panebianco L’arresto del presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco e di altri dirigenti politici e amministrativi e l'incriminazione di molte altre persone nell’ambito di una inchiesta su presunte tangenti nella sanità ha scompaginato le file del Partito democratico di quella regione ricordando a tutti che i problemi dei rapporti fra giustizia e politica non riguardano solo Berlusconi. Come sempre accade in questi casi vengono poste pubblicamente domande destinate a restare senza risposta. Una per tutte: a parte l’esigenza di ottenere il massimo impatto mediatico, c’è stata anche qualche altra ragione dietro la decisione (ovviamente molto grave per le sue conseguenze) di procedere all’arresto della massima autorità politico- amministrativa della Regione? Ancorché indubbiamente meno spettacolare, una semplice incriminazione a piede libero non sarebbe ugualmente servita agli scopi dell’inchiesta? Una cosa è certa. Se mai Del Turco, alla fine, dovesse uscire pulito da questo affare giudiziario non ci sarà comunque mai alcuna sede disciplinare nella quale le suddette domande potranno essere poste a quei magistrati. L’imbarazzo del Partito democratico è evidente. Il silenzio dei suoi vertici sulla vicenda abruzzese, durato per buona parte della giornata di ieri, è stato rotto solo a metà pomeriggio da una dichiarazione di Walter Veltroni che, mentre manifestava stupore e amarezza per l’arresto di Del Turco, riconfermava, un po’ ritualmente, la sua fiducia nella magistratura. Ma forse, oggi, dal Partito democratico è lecito attendersi anche qualcosa d’altro. Forse anche per il Pd è arrivato il momento, dopo anni di silenzi, acrobazie e furbizie da parte dei partiti predecessori (Ds e Margherita), di smetterla di fare il pesce in barile sulle questioni della giustizia e dei rapporti fra magistratura e politica. È lecito chiedere al Partito democratico: come pensate di tornare a essere forza di governo se non avete una vostra posizione sulla giustizia, una posizione che non si limiti a essere, come è sempre stato fin qui, una fotocopia di quella dell’Associazione nazionale magistrati? Almeno da Mani pulite in poi la sinistra ha nel complesso finto (e comunque questo è il racconto che, per lo più, ha «venduto » all’elettorato e ai militanti o ha permesso che venisse venduto dai propri giornali di riferimento) che non ci fossero veri problemi nel rapporto fra giustizia e politica. Ha negato l’esistenza di un potere discrezionale eccessivo dei pubblici ministeri, ha finto di non vedere le continue invasioni di campo. Ha accreditato in sostanza l’idea che i problemi derivassero tutti, e soltanto, dalla natura corrotta del nemico del momento (Craxi, Berlusconi). In mezzo a tanti convegni inutili, l’unico convegno davvero prezioso che purtroppo manca ancora all’appello è quello in cui il Partito democratico, pubblicamente e solennemente, sceglie la strada della discontinuità, di una svolta decisa nella sua politica della giustizia. Solo dopo l’incresciosa manifestazione di Piazza Navona, il Pd ha preso le distanze dal partito di Di Pietro. Ma perché quella decisione non si riduca solo a furbizia tattica occorrono ora cambiamenti nelle concezioni e nelle scelte in materia di giustizia. Non esistono dubbi che, senza una collaborazione fra maggioranza e opposizione una riforma dell'ordinamento della giustizia (separazione delle carriere, responsabilizzazione dei pubblici ministeri, eccetera) che lo renda coerente con lo spirito e i principi di una democrazia liberale e che riequilibri i rapporti (squilibrati ormai da quasi un ventennio) fra magistratura e politica, non potrà mai passare. È lecito dunque attendersi dalla massima forza di opposizione non solo qualche battuta utile per ottenere un titolo sui giornali ma un ripensamento serio delle proprie posizioni. Luciano Violante, un esponente politico la cui influenza passata sulla politica della giustizia della sinistra sarebbe impossibile sottovalutare, sembra oggi uno dei pochi consapevoli della necessità di cambiamenti. In un intervento ieri sulla Stampa Violante ha criticato in termini che a me paiono ineccepibili la nuova versione della cosiddetta norma blocca-processi decisa dal governo. L'argomento che ha usato dovrebbe fare storcere il naso ai giustizialisti. Ha sostenuto che, se pure la nuova versione è meglio della precedente, produce anch'essa danni, lasciando in questo caso troppa discrezionalità ai magistrati. Violante, mi pare di capire, dichiara il suo favore per un sistema nel quale, come avviene in tanti Paesi occidentali (in passato si è tentato di farlo anche in Italia ma senza grandi risultati), Guardasigilli e Parlamento dettino annualmente alla magistratura le priorità. A me pare, però, che senza una riforma che, tra le altre cose, separi le carriere e tolga di mezzo l'obbligatorietà dell'azione penale, non sarà mai possibile ricondurre nell'alveo delle istituzioni democratico-rappresentative le grandi scelte di politica delle giustizia. Forse proprio Violante, con la sua autorevolezza, potrebbe oggi essere, insieme ad altri (come i radicali, oggi accasati nel Partito democratico, con il loro patrimonio di battaglie e proposte garantiste) uno degli uomini in grado di fare da battistrada a un nuovo corso, aiutare il Partito democratico a cambiare registro. 15 luglio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 10:54:28 am SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI
La doppia morale di Angelo Panebianco Ma perché la cifra stilistica della sinistra italiana deve essere per forza il doppio standard, la doppia morale? Prendiamo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il governo utilizza una norma vigente per dichiarare lo stato d'emergenza di fronte all'afflusso dei clandestini. Dalla sinistra partono bordate: razzismo, xenofobia, autoritarismo, intollerabile clima emergenziale. Quella norma però è stata in passato utilizzata anche dal governo Prodi. Come mai all'epoca nessuno fiatò? Come mai nessuno di quelli che oggi strillano accusò quel governo di razzismo e xenofobia? Perché i «sacri principi», quali che essi siano, devono sempre essere piegati alle esigenze politiche del momento? Non è forse un modo per dimostrare che in quei principii, utili solo come armi da brandire contro l'avversario, in realtà, non si crede affatto? La spiegazione più ovvia, più a portata di mano, quella che rinvia l'esistenza della doppia morale, del doppio standard, alle persistenti scorie lasciate in eredità al Paese dalla vecchia tradizione comunista, è insoddisfacente: spiega troppo o troppo poco. Certo, è vero, nella tradizione comunista il doppio standard era la regola. Per i comunisti esisteva un fine superiore, una nobile causa al cui raggiungimento tutto doveva essere subordinato e piegato. Il ricorso continuo alla menzogna, ad esempio, era giustificato dal fine superiore. Così come il doppio standard. Si pensi alla sorte di certi leader democristiani: Fanfani, Andreotti, Cossiga. Su di essi il Pci riversò a più riprese ogni genere di accuse, spesso anche quella infamante di essere registi di trame paragolpiste. Però, se il vento cambiava , quei registi occulti delle peggiori trame si trasformavano in amici e «compagni di strada»: il giudizio politico-morale su di loro dipendeva dall'utile politico del momento. E la capacità di intimidazione culturale del Pci e delle forze che lo fiancheggiavano era tale da non rendere necessario rispondere a una domanda che, del resto, solo pochi osavano porre: ma come è possibile che oggi strizziate l'occhio a un tale che fino a pochi mesi fa accusavate dei più infami misfatti? Qualcosa del genere, d'altra parte, accade ancora. Si pensi al caso di Umberto Bossi del quale non si è ancora capito se si tratta di un leader xenofobo e parafascista, praticamente un delinquente, una minaccia per la democrazia, oppure di una costola della sinistra, uno con cui, magari, si può essere disposti a fare un po' di strada «federalista» insieme. O meglio, abbiamo capito benissimo: Bossi continuerà ad essere, alternativamente, l'una o l'altra cosa a seconda di come evolveranno nei prossimi anni i suoi rapporti con Berlusconi. Dicevo che non ce la possiamo cavare tirando in ballo solo la tradizione comunista. Sarebbe sbagliato e anche ingiusto verso molti ex comunisti. Tra i comunisti c'erano molte persone serie, rigorose, di qualità. Queste persone, quando presero atto che la superiore causa era un vicolo cieco, o un'impostura, cambiarono registro. Misero da parte quella doppia morale che, ormai, ai loro stessi occhi, non aveva più alcuna giustificazione morale e politica. Spesso, questi ex comunisti, rimasti all'interno dello schieramento di sinistra, sono tra le persone migliori in cui ci si può imbattere, quelle con cui anche liberali come chi scrive possono trovare punti di incontro e affinità, con le quali, comunque, non capita mai di provare quel fastidio che si può invece provare quando si incontrano certi esponenti, politici o intellettuali, della sinistra mai-stata-comunista. I quali, spesso, continuano, imperterriti, a usare il doppio standard e la doppia morale. La sinistra attuale è un amalgama informe che mescola brandelli della vecchia tradizione comunista con tic e cliché culturali di derivazione azionista e del cattolicesimo di sinistra. Queste ultime due componenti sono, forse, ancor più responsabili della prima nell'alimentare oggi quel mito della superiorità antropologico- morale della sinistra che continua a giustificare il ricorso al doppio standard e alla doppia morale. Tutto ciò è bene esemplificato dagli atteggiamenti dominanti a sinistra sulle questioni di giustizia. Il «pieno rispetto» per la magistratura e la regola secondo cui «ci si deve difendere nei processi e non dai processi» sono nobili principi che vengono sempre invocati quando nei guai ci sono gli avversari di destra. Ma se in graticola finiscono esponenti della sinistra (a patto, naturalmente, che non siano «ex socialisti») la musica improvvisamente cambia. Diventa legittimo attaccare i magistrati e persino difendersi «dai processi». Personalmente, ho forti perplessità sui comportamenti tenuti, nell'esercizio delle loro funzioni, da magistrati come la Forleo e, soprattutto, De Magistris, ma non sono affatto sicuro che ad essi si possano attribuire più scorrettezze di quelle imputabili a certi magistrati che in passato si occuparono di Berlusconi e di altri nemici della sinistra. Si guardi a come opera il doppio standard nelle valutazioni di processi e procedimenti giudiziari a seconda che vi siano coinvolti amici o nemici. Se, poniamo, viene scagionato un imprenditore «amico» si plaude all'impeccabile comportamento dei magistrati e non ci si impegna certo in «analisi» minuziose con lo scopo di fare le bucce ai risultati delle inchieste. Altrimenti, come ha giustamente osservato Pierluigi Battista sul Corriere due giorni fa, lo spartito cambia, il doppio standard impera. Questi signori, sempre impegnati a stilare pagelle e ad assegnare brutti voti a quelli che definiscono «sedicenti» liberali, non hanno mai capito che indice di liberalismo è usare un solo criterio, un solo metro di giudizio, sempre lo stesso, per gli amici e per gli avversari, e che fare un uso così platealmente strumentale dei principi significa non avere alcun principio. Quando qualcuno di loro finalmente lo capirà, avremo, e sarà un bene per il Paese, qualche esponente in meno della genia dei «moralmente superiori» e qualche liberale in più. 27 luglio 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il paradosso del federalismo Inserito da: Admin - Agosto 04, 2008, 11:35:21 am UNA RIFORMA POCO DISCUSSA
Il paradosso del federalismo di Angelo Panebianco Non conosciamo ancora le sole cose che davvero contino in questa materia, e cioè i dettagli, ma siamo comunque abbastanza sicuri del fatto che stiamo per diventare (qualunque cosa ciò concretamente significhi) uno Stato «federale ». Dopo decenni di sforzi, alcuni coronati da successo e altri meno, di spostamento di poteri e competenze verso la periferia, Regioni e enti locali, sta per arrivare il «federalismo fiscale». Che del federalismo politico, almeno in linea di principio, è l'anima, la struttura portante. Lo reclama la Lega, lo hanno promesso Berlusconi e Tremonti, lo vogliono anche le Regioni e le amministrazioni locali, soprattutto del Nord, guidate dal centrosinistra. Certo, saremo comunque uno Stato federale un po' strano, uno Stato federale con i prefetti: rimarremo, cioè, una mescolanza di vecchio centralismo napoleonico e di nuovo federalismo. Ma non c'è dubbio che se davvero arriverà il federalismo fiscale (se non sarà solo un bluff) la fisionomia del nostro sistema statale cambierà. Non subito, magari. Ma col tempo cambierà, e di parecchio. Però, c'è un però. Forse eravamo distratti quando la spiegazione è stata data ma non abbiamo ancora capito come la classe politica giustifichi di fronte al Paese una simile rivoluzione istituzionale e costituzionale. Non mi si fraintenda. Magari è un'idea eccellente (al Nord ne sembrano convinti quasi tutti, anche se poi, scavando un po', si scopre che ciascuno ha in mente un federalismo diverso da quello del suo vicino) ma bisognerà pur spiegarla al Paese, possibilmente andando al di là degli slogan e della propaganda di derivazione prevalentemente leghista. Per esempio: quale sarà l'utilità del federalismo fiscale, se c'è, per il Mezzogiorno? Mentre si prepara una rivoluzione istituzionale, almeno potenzialmente, di immensa portata, come il federalismo fiscale, il Sud è silente. Sembra che la sola preoccupazione della classe politica meridionale sia quella di assicurarsi «compensazioni» adeguate (la quota del gettito fiscale che le Regioni più ricche dovranno comunque trasferire, tramite lo Stato centrale, alle Regioni più povere). Tutto qui? Il Sud non ha altro da dire? Solo garantirsi di essere sussidiato per l'eternità? In epoche intellettualmente più felici per il Mezzogiorno è esistito un pensiero meridionalista di grande qualità e spessore che ha guardato anche al federalismo come a un possibile motore di sviluppo, a unmezzo di emancipazione economica e sociale. Di quell'epoca e di quel pensiero non è rimasto nulla? Oggi non sembra arrivare alcun contributo di idee e di proposte alla «impresa federalista» dal Mezzogiorno d'Italia. Il federalismo parla solo, o prevalentemente, con accenti e inflessioni del Nord. Forse è anche per questo che la classe politica ha qualche difficoltà a presentarlo come un grande progetto per il Paese nel suo insieme. L'assenza di spiegazioni articolate alimenta voci e chiacchiere. Come quella secondo cui solo con il federalismo fiscale si potranno ridurre le tasse. Questa, se permettete, è una bugia. Il livello di imposizione fiscale può benissimo scendere anche in uno Stato centralista. Anzi, col centralismo, di solito, è più facile decidere di ridurre la pressione fiscale. Il federalismo, per contro, può anche far lievitare, anziché contrarre, la spesa pubblica (rendendo così impossibile la riduzione delle imposte): perché, ad esempio, crescono i «costi di transazione», ossia i costi che dipendono dall'accrescimento dei livelli istituzionali e dalle aumentate negoziazioni fra Stato centrale, Regioni, enti locali. Ma, si dice, col federalismo fiscale, gli amministratori locali dovranno giustificare davanti ai loro elettori ogni tassa e la sua entità. E qui sorge un interrogativo che l'assenza di una discussione pubblica sul federalismo fiscale non aiuta a chiarire. Davvero le classi politiche locali, anche quelle del Nord (anche quelle leghiste), sono pronte a un simile salto nel buio? Ha osservato giustamente Guido Tabellini (Il Sole 24 Ore, 31 luglio) che il federalismo fiscale può innescare comportamenti fiscali virtuosi solo a patto che si stabilisca un legame diretto fra spesa e prelievo: il politico locale sa che se non contiene le spese e le imposte pagherà un prezzo politico. Ciò è possibile solo se, trasferimenti perequativi dalle Regioni ricche a quelle povere a parte, i governi locali avranno ampi margini nelle scelte delle aliquote e le basi imponibili locali saranno ben visibili ai cittadini. Solo in quel caso l'aumento delle tasse, o la loro mancata riduzione, non verrà imputato dai cittadini allo Stato centrale ma agli amministratori regionali e locali. Veniamo da anni in cui le spese locali sono cresciute a dismisura perché ciò era nell'interesse di Comuni e Regioni (al Nord come al Sud): tanto, le tasse si pagavano prevalentemente al centro (allo Stato centrale) ed era solo sul centro che si scaricava quindi il malcontento. Come la metterebbero Regioni e Comuni se, con un «vero» federalismo fiscale, la musica dovesse davvero cambiare? Non ne uscirebbero destabilizzate quasi tutte le amministrazioni regionali e locali attuali? Per esempio, è curioso il fatto che i leghisti vogliano più di tutti il federalismo fiscale e allo stesso tempo si oppongano (più o meno come si opponeva Rifondazione comunista nel passato governo Prodi) alla liberalizzazione dei servizi locali. Ma il federalismo (fiscale e non) non è per l'appunto voluto soprattutto al fine di favorire concorrenza, riduzione dei monopoli pubblici, comportamenti locali virtuosi? Urgono ragguagli sul perché stiamo per diventare uno Stato federale. 03 agosto 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I profeti disarmati e la prepotenza di Putin Inserito da: Admin - Agosto 18, 2008, 04:28:00 pm L’EUROPA DAVANTI ALLA CRISI GEORGIANA
I profeti disarmati e la prepotenza di Putin di Angelo Panebianco Machiavelli, le cui idee, dopo cinquecento anni, continuano a scandalizzare tanti, diceva che i profeti disarmati sono sempre destinati alla rovina. In Europa occidentale coltiviamo da tempo (con un’ossessione particolare dopo la fine della guerra fredda) l’idea che il Diritto e la Morale possano sostituire nel mondo la Forza e che l’Europa stessa, la sedicente «Europa civile», abbia una speciale missione da svolgere per attuare questo stupefacente disegno. Si tratta di una tragica illusione. Il diritto e la morale possono, nelle faccende internazionali, legittimare la forza (possono dare «più forza» alla forza) ma non possono sostituirla. Con la sola eccezione del Papa, gli altri, se vogliono contare e decidere del proprio destino, devono disporre anche di un bel po’ di «divisioni». Molti commentatori europei sostengono che, con la cosiddetta «mediazione », fra russi e georgiani, del presidente francese Sarkozy, l’Europa (l’Unione Europea) è tornata a contare nel mondo. Ma se consideriamo freddamente i fatti dobbiamo ammettere che, al contrario, l’Europa esce malissimo da questa crisi. Ha solo mostrato una volta di più che essa non è neppure embrionalmente e, continuando così, non diventerà mai, un’entità politica. Per tre collegate ragioni. La prima è di immagine (ma nella politica internazionale l’immagine, e quindi il prestigio, contano tanto) e le altre due di sostanza. Con i militari russi che tuttora occupano spavaldamente ampie porzioni di territorio georgiano anche fuori dell’Ossezia e dell’Abkhazia, la cosiddetta mediazione europea è stata irrisa e sbeffeggiata. I russi, dedicandosi a ciò che essi chiamano «misure aggiuntive di sicurezza» (la distruzione, tuttora in atto, delle strutture militari georgiane) e procrastinando il più possibile il ritiro delle truppe, stanno chiarendo che, nei loro intendimenti, la Georgia (rea, tra l’altro, di fare transitare verso l’Europa energia non direttamente controllata dai russi) dovrà avere un futuro di «sovranità limitata ». L’Europa, con la sua cosiddetta mediazione, è oggi, agli occhi di tutto il mondo ex comunista (sia le vecchie colonie «interne » dell’Urss che i suoi vecchi satelliti) nient’altro che la complice, più o meno riluttante, di questo disegno russo. Un pessimo risultato di «immagine» davvero. La seconda ragione è di sostanza. In questa crisi l’Europa (occidentale) ha preso di fatto le distanze dagli Stati Uniti, li ha lasciati soli a condannare «senza se e senza ma» la Russia e a sostenere l’integrità della Georgia. Con il doppio effetto di indebolire diplomaticamente gli Stati Uniti e di dare al risorto imperialismo russo la possibilità di sfruttare le divisioni occidentali al fine della ricostituzione della propria area di influenza. La prossima volta potrebbe toccare all’Ucraina. Noi europei faremo allora un’altra brillante mediazione? Davvero il mondo ex sovietico è oggi più sicuro di quanto sarebbe stato se l’Europa avesse fatto fronte unico con gli Stati Uniti nel contrapporsi politicamente alla Russia in questa crisi? La Polonia (che, oltre che della Nato, fa parte dell’Unione europea) è appena stata minacciata di possibile attacco nucleare visto che ospiterà lo scudo antimissilistico statunitense. La cosa, forse, ci riguarda. La terza ragione della pessima prova offerta dall’Unione in questa crisi (o meglio, dai suoi Paesi leader) riguarda lei stessa, i suoi rapporti interni. L’Europa occidentale ha dimostrato una sordità sconcertante di fronte alle paure dei Paesi ex comunisti, ivi compresi quelli che fanno oggi parte dell’Unione. Che i polacchi e i baltici fossero, insieme agli ucraini, a Tbilisi a sostenere il presidente georgiano Saakashvili, non è frutto di capricci o di una infantile volontà di disobbedire ai «grandi» dell’Unione. Non si capisce perché abbiamo fatto l’allargamento europeo se non siamo disposti a farci carico delle paure degli ex satelliti di Mosca, quei Paesi che hanno sperimentato sulla propria pelle, per tantissimo tempo, i rigori del potere russo. In questa crisi, abbiamo purtroppo chiarito, non solo alla Georgia, all’Ucraina e agli altri Paesi ex sovietici, ma addirittura agli ex satelliti, quelli che sono già nell’Unione europea e quelli che sono in procinto di entrarci, che essi potranno sperare solo negli americani perché a noi, delle loro paure e della loro sicurezza, importa poco. Su queste basi non è possibile che l’Unione europea, l’Europa a ventisette, l’Europa dell’allargamento, possa immaginare di avere un qualsivoglia futuro politico. Ma, si dice, non possiamo isolare la Russia. Certo che non possiamo isolarla. Ci serve il suo gas, ci serve il suo appoggio nella crisi iraniana, ci serve che essa svolga un ruolo internazionale di cooperazione. Ma non possiamo permettere che essa usi il bastone e la carota con noi senza fare la stessa cosa nei suoi confronti. Non possiamo dimenticare che la Russia è un regime semi-autoritario che usa da tempo politicamente, nella sua politica estera, le risorse del suo capitalismo di Stato e oggi, di nuovo, anche le sue risorse militari. Non possiamo dimenticare che la sua involuzione autoritaria (alimentata dalle «utili guerricciole » su cui ha scritto acutamente Sandro Viola qualche giorno fa) è la prima causa del suo risorgente imperialismo e che non si possono intrattenere con una democrazia autoritaria le stesse relazioni di fiducia reciproca che esistono fra democrazie liberali. E’ dall’involuzione interna della Russia che, prima di tutto, nasce (rinasce) la sua minaccia verso l’esterno (lo ha ricordato Filippo Andreatta sul Corriere di ieri). Dobbiamo tener conto delle «ragioni» della Russia ma non al punto di andare contro i nostri interessi vitali (per esempio, l’interesse a forniture di idrocarburi dal Caucaso non interamente monopolizzate dai russi o l’interesse a farci carico dei problemi di sicurezza di tutti i membri dell’Unione, presenti e futuri). Né possiamo dimostrare disinteresse, o peggio, per l’aspirazione alla libertà dei cittadini delle ex colonie russe. I russi sperano che l’Europa proceda sul cammino iniziato, che essa, prima o poi, porti a compimento il decoupling, lo sganciamento dagli Stati Uniti. Ai prepotenti piace avere a che fare con i profeti disarmati. 18 agosto 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il silenzio sui cristiani Inserito da: Admin - Settembre 08, 2008, 12:25:05 am PERSECUZIONI ANTICATTOLICHE
Il silenzio sui cristiani di Angelo Panebianco Con l’eccezione della stampa cattolica, i mezzi di comunicazione non hanno dato risalto al fatto che ieri la Conferenza episcopale ha indetto una giornata di solidarietà con i cristiani perseguitati dai fondamentalisti indù (e una fiaccolata con l’appoggio di «Liberal» è prevista per mercoledì prossimo). Come se fosse una faccenda interna della Chiesa. Le notizie sulle uccisioni di cristiani che si verificano da alcune settimane nello Stato indiano di Orissa vengono naturalmente pubblicate (ieri sono state aggredite quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta). Così come vengono (di solito) pubblicate le notizie sui periodici massacri di cristiani in certi Paesi islamici. Ma quando queste cose accadono ci si limita a registrare i fatti, per lo più senza commenti. Eccezionalmente, fece scalpore, nel 2006, l’uccisione di un sacerdote italiano in Turchia ma la causa è da attribuire, oltre che alla nazionalità del sacerdote, al fatto che la Turchia ha chiesto di entrare nell’Unione Europea. Sembra che per noi, e per l’Europa, il fatto che in tante parti del mondo persone di fede cristiana vengano perseguitate e, con frequenza, uccise, non sia un problema sul quale occorra sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure i fatti sono chiari. In un’epoca di risveglio religioso generalizzato sono ricominciate in molti luoghi le guerre di religione ma con una particolarità: in queste guerre i cristiani sono solo vittime, mai carnefici. Da dove deriva tanto disinteresse per la loro sorte? Sono all’opera diverse cause. La prima è data da quell’atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo «scontro di civiltà ». Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse. D’altra parte, basta rammentare le reazioni europee al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Venne biasimato il Papa, non i fanatici che usarono quel discorso per tentare di incendiare il mondo islamico. C’è anche una seconda causa. Sotto sotto, c’è l’idea che se uno è cristiano in Pakistan, in Iraq, in India o in Nigeria, e gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. La tesi dei fondamentalisti islamici o indù secondo cui il cristianesimo altro non è se non uno strumento ideologico al servizio della volontà di dominio occidentale sui mondi extra occidentali sembra condivisa, qui da noi, da un bel po’ di persone. Persone che credono che l’Europa debba ancora fare la penitenza per le colpe (alcune reali e altre no) accumulate nei suoi secolari rapporti col mondo extra occidentale. Ne derivano il silenzio sulla libertà religiosa negata ai cristiani, soprattutto nel mondo islamico, e il disinteresse per le persecuzioni che in tanti luoghi, islamici e no, subiscono. Ne deriva anche una sorta di illusione ottica che a molti fa temere di più i segnali di risveglio cristiano (del tutto pacifico) in Italia che tante manifestazioni di barbarie religiosa altrove. Nel frattempo, le religioni «altre», con l’immigrazione, acquistano qui da noi un peso crescente. È difficile che si riesca a fare «patti chiari» con gli adepti di quelle religioni. Almeno finché non avremo capito che il mondo è cambiato e che le nostre reazioni, per lo più automatiche, irriflesse, a quei cambiamenti, sono datate e inadeguate. 07 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA CRISI DEL ’29 ED OGGI Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:58:34 pm LA CRISI DEL ’29 ED OGGI
Le facili profezie di Angelo Panebianco. Spiegare l’ignoto attraverso il già noto, cercare di orientarsi di fronte agli eventi inattesi rifacendoci ai precedenti, alle nostre personali esperienze passate o alle esperienze di altri di cui siamo venuti a conoscenza, sono attività in cui tutti siamo continuamente impegnati, spesso anche inconsapevolmente. Si spiega anche così il fascino irresistibile che esercitano sempre le analogie storiche. L’analogia storica ha la rassicurante caratteristica di darci una spiegazione facile, di immediato consumo, di eventi che, in assenza del ricorso all’analogia, resterebbero incomprensibili, e dunque, proprio perché incomprensibili, ancora più spaventosi di quanto già non siano. Gli sconvolgimenti del mercato finanziario americano, il protrarsi e l’aggravarsi di una crisi della quale non si vede la fine, l’alternarsi di salvataggi (le agenzie finanziarie Fannie Mae e Freddie Mac e a quanto pare anche il colosso assicurativo Aig) e di clamorosi fallimenti (la grande banca d’affari Lehman Brothers), con tutte le conseguenze a catena che ne derivano, ha reso irresistibile per i mass media il riferimento al ’29 e alla Grande Depressione degli anni Trenta. Una crisi cominciata con il crollo di Wall Street e propagatasi a tutto il mondo con effetti economici catastrofici e immani sconvolgimenti politici. Quella crisi portò in America alla reazione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt ma diede anche il colpo di grazia alla Repubblica di Weimar spianando la strada del potere a Hitler. E fece vacillare, e anche crollare, molti altri regimi politici. Non solo a quella crisi, ma anche a quella crisi, va fatta risalire la catena di eventi che finì per far precipitare il mondo nella Seconda guerra mondiale. Nonostante il fascino dell’analogia, il ’29 c’entra poco con ciò che sta accadendo. Lo ha spiegato benissimo Alberto Alesina (Il Sole 24 Ore di ieri). La Grande Depressione fu l’effetto di politiche radicalmente sbagliate adottate dalla presidenza Hoover e dalla Banca Federale (restrizione della liquidità, misure protezioniste, comportamenti punitivi nei confronti degli «speculatori »). Un insieme di risposte sbagliate che portarono al disastro sia l’America che il resto del mondo. Ci sono quindi due ottime ragioni per respingere l’analogia con il ’29. La prima è che la storia ci insegna più cose quando ce ne serviamo per evidenziare le differenze (fra ieri e oggi) e non soltanto le somiglianze. La seconda, di sostanza, è che gli ammaestramenti del passato pesano sull’oggi. La vera utilità del richiamo al ’29 e alla Grande Depressione è sempre consistita nel suo ruolo di spauracchio. Quel richiamo funziona come una profezia che si autofalsifica. Mette in moto comportamenti che ne assicurano la non evenienza. Come, ad esempio, mostrarono le reazioni efficaci alla gravissima crisi asiatica del 1997. Naturalmente, come tutti gli esperti ci dicono, la crisi continuerà a dispiegarsi per un certo tempo, mieterà ancora molte vittime e richiederà, come auspica il governatore di Bankitalia Mario Draghi, un’azione internazionale concertata di ridisegno di molte regole. Ma prima o poi finirà lasciandoci in eredità, sperabilmente, mercati finanziari in tutto o in parte risanati. Ciò che non è affatto chiaro è quali saranno le ricadute politiche della crisi. I «declinisti», i sostenitori della tesi secondo cui gli Stati Uniti sono una potenza ormai in declino, ne trarranno probabilmente la conclusione che questa crisi finirà per accelerare le dislocazioni di potenza già in atto nel sistema internazionale. Più la crisi finanziaria americana dura, maggiore è lo spazio di manovra politico a disposizione delle potenze emergenti. Alla fine, un’America ridimensionata dovrà cedere lo scettro di superpotenza e acconciarsi al ruolo di grande potenza in mezzo ad altre grandi potenze (Cina, Russia, India, e forse altre ancora). In un’altra, e opposta, interpretazione, la «distruzione creatrice» che è tipica (secondo l’economista Joseph Schumpeter) del procedere del capitalismo, eliminando ciò che non è più vitale, e risanando il sistema finanziario, finirà per dare rinnovato vigore alla potenza americana. A seconda di quale delle due interpretazioni risulterà corretta, la storia politica mondiale dei prossimi decenni prenderà una direzione o l’altra. 18 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il riformismo bocciato Inserito da: Admin - Settembre 28, 2008, 12:16:32 pm Editoriali
DEMOCRATICI E CASO SCUOLA Il riformismo bocciato di Angelo Panebianco Walter Veltroni, nell'eccellente discorso del Lingotto (27 giugno 2007) con cui ufficializzò la sua candidatura a leader del Partito democratico, e nei discorsi dei mesi successivi, mise a punto la carta di identità di una moderna sinistra riformista proponendola al neonato partito. Veltroni batteva allora con vigore su un tasto: il Partito democratico avrebbe sviluppato una reale capacità di intercettare le aspirazioni degli elettori e dei ceti sociali più dinamici e orientati alla modernizzazione del Paese, solo se avesse abbandonato, su un ampio arco di problemi, le posizioni conservatrici che avevano in passato caratterizzato la sinistra. La visione articolata da Veltroni appariva allora forte ed efficace ma restavano sospesi due interrogativi. Sarebbe egli riuscito a imporre un così radicale cambiamento di prospettiva a tanti militanti fino ad allora di diverso orientamento? Sarebbe riuscito, soprattutto, a ottenere un riposizionamento e un rinnovamento, culturale e di proposte, di quel sindacato (la Cgil in primo luogo) il cui appoggio è necessario a un partito di sinistra riformista? Non solo quel riposizionamento del sindacato non c'è stato ma è lo stesso Partito democratico a reagire oggi alle difficoltà suscitate dalla sconfitta ritornando sui propri passi, abbandonando la strada del rinnovamento, ridando spazio a quelle posizioni conservatrici che il Veltroni del Lingotto sembrava determinato a combattere. Il miglior test per sondare lo «spessore riformista » di un partito italiano consiste nel valutare le posizioni che esso assume sulla scuola. La scuola pubblica è come l'Alitalia: rovinata da decenni di management interessato a garantirsi clientele e da un sindacalismo cui si è consentito di cogestirla con gli scadenti risultati (in tema di preparazione dei ragazzi) che i confronti internazionali ci assegnano. Solo che nel caso della scuola pubblica non ci sono cordate di imprenditori o compagnie straniere cui affidarla. Proprio nel caso della scuola il Partito democratico sta fallendo il test sullo spessore riformista. Perché ha scelto ancora una volta (come faceva il Pci/Pds/Ds) di accodarsi acriticamente alle posizioni della Cgil, di un sindacato che, in concorso con altri, porta pesanti responsabilità per lo stato disastrato in cui versa la scuola, un sindacato interessato solo alla difesa dello status quo (come è successo, del resto, nel caso di Alitalia fin quando ha potuto). Prendiamo la questione del ritorno al maestro unico deciso dal ministro Gelmini. Sembra diventato, per la sinistra, sindacale e non, il simbolo del «vento controriformista» che soffierebbe oggi sulla scuola. Al punto che, come è accaduto a Bologna, si arriva persino a far sfilare i bambini contro il ministro (nel solco di una tradizione italiana, antica e spiacevole, di uso dei bimbi per fini politici). Si fa finta di dimenticare che la riforma della scuola elementare del 1990, quella che abolì il maestro unico, fu un classico prodotto del consociativismo politico-sindacale che caratterizzava tanti aspetti della vita repubblicana. Nel caso della scuola funzionava allora un'alleanza di fatto fra Dc, Pci e sindacati. L'abolizione del maestro unico fu dettata esclusivamente da ragioni sindacali. E' antipatico citarsi ma alla vigilia dell'approvazione della legge scrissi su questo giornale: «Nonostante le nobili e altisonanti parole con cui l'operazione viene giustificata la ratio è una soltanto: bloccare qualsiasi ipotesi di ridimensionamento del personale scolastico come conseguenza del calo demografico e anzi porre le premesse per nuove, massicce, assunzioni di maestri. Non a caso sono proprio i sindacati i più entusiasti sostenitori della riforma (…) Questa classe politica ha sempre trattato così la scuola, incurante delle esigenze didattiche ma attentissima a quelle sindacali» (Corriere della Sera, 22 novembre 1989). Veltroni e il Partito democratico dovrebbero spiegarsi: è quella cosa lì che, ancora una volta, vogliono difendere? Per il futuro vedremo ma la verità è che, fino a questo momento, il ministro Gelmini ha fatto pochi errori. I provvedimenti fino ad ora adottati sono di buon senso e per lo più tesi ad arrestare il degrado della scuola. Ma, anziché riconoscerlo e dare il proprio contributo di idee e di proposte (come dovrebbe fare un vero partito riformista, ancorché all'opposizione), il Partito democratico preferisce ripercorrere l'antica strada: quella della «mobilitazione», della sponsorizzazione dei sindacati, anche quando questi difendono posizioni indifendibili. Non è casuale che proprio sulla scuola la Cgil si appresti a fare lo «sciopero generale ». Difende un potere di cogestione che viene da lontano e che ha contribuito a danneggiare assai la scuola (dove la quasi totalità delle risorse se ne va in stipendi a insegnanti troppo numerosi, mal pagati e mal selezionati). Un potere di cogestione che fino ad oggi ha sempre potuto contare sulla complicità di governi e opposizioni. Non è plausibile che nel Partito democratico siano tutti felici di queste scelte (che danno un brutto colpo alla credibilità del Pd come partito riformista). E infatti non è così. Ricordo un intervento critico di Claudia Mancina ( Il Riformista) sulle attuali posizioni del Pd sulla scuola. O le parole per nulla critiche nei confronti della Gelmini pronunciate (a proposito della polemica sull' impreparazione di certi insegnanti meridionali) da uno che di scuola se ne intende: l'ex ministro dell'Istruzione Luigi Berlinguer. Sarebbe bene che anche molti altri, dentro il Partito democratico, venissero allo scoperto. Ha senso continuare a trattare la scuola pubblica come un «dominio riservato» del sindacalismo? 28 settembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il nuovo mondo multipolare Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2008, 11:56:34 am LA FINE DEL SECOLO AMERICANO
Il nuovo mondo multipolare di Angelo Panebianco Oggi, in tutto il mondo, come è giusto, le preoccupazioni si concentrano sulle conseguenze immediate della crisi finanziaria, sui risparmi, sulle imprese, sul tenore di vita delle persone. Ma la crisi avrà anche potenti riflessi politici, forse cambierà il volto della politica mondiale. Essendo troppi i fattori in gioco, è sempre impossibile prevedere il futuro ma è per lo meno plausibile immaginare che uno degli effetti della crisi sia quello di accelerare una tendenza già in atto: alla ridistribuzione del potere internazionale, al definitivo passaggio dall'unipolarismo (un mondo dominato da una sola superpotenza) al multipolarismo (un mondo spartito tra alcune grandi potenze). Il ridimensionamento degli Stati Uniti, e la conseguente nascita di un mondo multipolare, dovrebbero essere, in questa ipotesi, gli esiti di una doppia crisi. Innanzitutto, una crisi di risorse: gli Stati Uniti, plausibilmente, avranno difficoltà crescenti a reperire le risorse finanziarie necessarie per continuare a svolgere il ruolo di superpotenza globale (per ragioni che ha spiegato, tra gli altri, sul Corriere di martedì, Fareed Zakaria). In secondo luogo, una crisi di modello culturale, con la drastica perdita di appeal in giro per il mondo della «società aperta» (o libera) così come è stata fin qui incarnata dagli Stati Uniti. Chiunque sia il prossimo Presidente degli Stati Uniti, la sua «agenda» sembra già predisposta: oltre ad agire per il superamento della crisi, egli dovrà anche gestire il ripiegamento americano. Da buon patriota, lo farà tentando di rallentare il processo e di diluirne nel tempo le conseguenze. La speranza di un mondo multipolare, senza più gli «arroganti» americani a farla da padroni, accomuna da tempo molti europei e la gran parte del mondo extraoccidentale. Quella speranza sta probabilmente per diventare realtà. Quando la crisi finirà non sarà crollato il capitalismo ma sarà forse al tramonto il «secolo americano ». Gli Stati Uniti resteranno ancora per un certo tempo la più forte potenza militare ma il «gioco » sarà ormai multipolare e il divario con le altre grandi potenze tenderà a ridursi. Ma un mondo siffatto sarà anche più «pacifico» e più «libero»? Penso di no, penso che sarà un mondo più pericoloso ancora di quello che abbiamo conosciuto e nel quale, inoltre, le prospettive della libertà (per milioni di persone) si faranno ancor più precarie di oggi. La pace correrà rischi maggiori. L'esperienza storica suggerisce che un sistema multipolare sia più pericoloso tanto del sistema bipolare (1945-1989, l'età della guerra fredda) quanto di quello unipolare (dal 1989 ad oggi, l'età della superpotenza solitaria) che si sono succeduti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Nel sistema bipolare le due superpotenze si controllavano a vicenda. Diedero così vita a uno stabile equilibrio (del terrore). La principale ragione della stabilità era che non esisteva una terza potenza così forte da poter alterare l'equilibrio alleandosi con l'una o l'altra delle due superpotenze. Nel sistema unipolare, a sua volta, la stabilità dipendeva da uno squilibrio di potenza così accentuato da rendere impossibile per qualunque Stato sfidare militarmente gli Stati Uniti (la sfida all'America venne infatti dal terrorismo, da un gruppo transnazionale, non da un grande Stato). Invece, nei sistemi multipolari, con quattro o cinque grandi potenze, la guerra fra di esse è resa più probabile a causa di quei repentini cambiamenti di alleanze (tipici dei sistemi multipolari) che alterano l'equilibrio delle forze mettendo di volta in volta l'una o l'altra grande potenza sotto scacco. Non è che nel multipolarismo prossimo venturo dovrà per forza scoppiare una guerra fra grandi potenze (grazie al Cielo non ne abbiamo più avuta una dalla Seconda guerra mondiale e speriamo di continuare così). È solo che le probabilità di tale guerra sono maggiori proprio in quel tipo di sistema internazionale. Si aggiunga il rischio protezionismo. Se, come è certo, usciremo dalla crisi attuale con più intervento statale nell'economia, ovunque nel mondo, non sarà poi tanto facile tenere a freno le spinte protezioniste (che l'intervento statale favorisce). Forse quelle spinte verranno contenute e forse no. Se non lo saranno, cresceranno i pericoli: il protezionismo, di solito, favorisce le guerre. Va notato inoltre che se il potere si distribuisce tra grandi potenze con regimi politici diversi è più difficile realizzare accordi di governance (tipo Bretton Woods) di quanto non lo sia se a distribuire le carte sono solo potenze democratiche. Al guaio di una pace più precaria va aggiunto quello di una libertà in ritirata. I cosiddetti «liberisti» si affannano a spiegare che la crisi finanziaria non è solo figlia del «fallimento del mercato» ma anche di un «fallimento dello Stato» (le leggi varate dall'Amministrazione Clinton). Ma non c'è niente da fare, il patatrac è senza rimedio. Ovunque nel mondo si levano attacchi contro il «liberismo selvaggio» (che è poi liberalismo tout court, come Piero Ostellino, su questo giornale, insiste giustamente a ricordare). Si assisterà ovunque a una perdita di credibilità del «sistema liberale» (capitalismo privato più democrazia liberale) e a una crescita di attrattiva dei sistemi autoritari e semi-autoritari (Cina, Russia). In fondo, non si sta dimostrando che capitalismo e crescita economica possono fare a meno della democrazia liberale? E non è forse questo un messaggio attraente per tanti tiranni in tanti luoghi? Dal '45 ad oggi (con un'accelerazione dopo la guerra fredda) abbiamo assistito a una impetuosa diffusione della democrazia nel mondo. Negare che ciò abbia avuto a che fare con il ruolo degli Stati Uniti significa negare l'evidenza. Con un'America in ripiegamento anche l'area di diffusione della democrazia potrebbe ridursi. E l'Europa? Forse la gravità della crisi finanziaria la spingerà a fare un salto verso l'unità politica (e militare). Ma è improbabile. Nel mondo multipolare l'Europa sarà, più plausibilmente, un vaso di coccio, pronta a venire a patti con chiunque, forse anche a scoprire le virtù (nascoste) delle potenze illiberali. Come certi giornali inglesi ai tempi di Monaco per i quali Hitler non aveva avuto torto a prendersi i Sudeti e, in fondo, non era poi quel diavolo che si diceva che fosse. 10 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dopo la crisi l'Atlantico è più largo Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 12:41:36 pm EUROPA E USA
Dopo la crisi l'Atlantico è più largo di Angelo Panebianco Come è stato spesso osservato, ogni volta che si diffonde l'idea che l'America sia entrata in una fase di declino, essa reagisce e, al suo interno, si mettono in moto processi che le danno nuovo slancio, una nuova giovinezza. Le profezie sul declino americano (come quella dello storico Paul Kennedy negli anni Ottanta) erano insomma, fino a oggi, «profezie che si auto-falsificavano ». Magari andrà così anche questa volta. C'è però una differenza rispetto agli anni Ottanta. Allora, l'America aveva di fronte solo un rivale in declino (l'Urss) e le ricette reaganiane bastarono a rivitalizzarla, rivitalizzando l'intero Occidente. Oggi, la crescita delle potenze asiatiche sembra un fatto irreversibile. La crisi finanziaria potrebbe allora accelerare (come ho scritto sul Corriere il 10 ottobre) la tendenza, già in atto, alla ridistribuzione del potere, il definitivo passaggio da un sistema internazionale unipolare (una sola superpotenza) a un sistema multipolare (quattro o cinque grandi potenze). Non mi pare che la possibile emergenza di un sistema multipolare sia in contraddizione con la constatazione che l'America resterà comunque a lungo la più forte potenza militare né con il fatto che solo l'America ha tuttora le risorse per far ripartire un nuovo ciclo economico espansivo. Sarebbe un multipolarismo asimmetrico (come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi), un sistema internazionale comunque diverso da quello che abbiamo conosciuto. Con regole diverse. La mia ipotesi è che un mondo del genere sarebbe più pericoloso (con più rischi di guerra) e più ostile alle libertà. È stato il predominio indiscusso dell'America a favorire la diffusione della democrazia nel mondo (ci sono oggi molte più democrazie che in passato). Con un ridimensionamento, sia pure relativo, dell'America, quel processo perderebbe la spinta propulsiva. Che fine farebbe l'Europa in un sistema multipolare? Il multipolarismo è un sogno coltivato da molti europei desiderosi di sbarazzarsi degli arroganti americani. Al tempo dell'invasione del-l'Iraq, il francese Chirac e il tedesco Schroeder accarezzarono l'idea di dare vita, insieme alla Russia di Putin, a una coalizione capace di «bilanciare» gli Stati Uniti, come si fa, appunto, nei sistemi multipolari. All'epoca sembrava un soggetto da film di fantastoria. Ma domani? Per cavarsela in un mondo multipolare l'Europa avrebbe solo due possibi-lità: diventare in fretta un «Superstato» (gli Stati Uniti d'Europa) capace di trattare alla pari con le altre potenze o, in alternativa, mantenersi legata agli americani. Sul Corriere di ieri Mario Monti ha giustamente ricordato quale straordinario successo sia stato il raggiunto accordo fra i governi europei sulle misure per fronteggiare la crisi finanziaria. Un successo dei governi, come Monti ha sottolineato. Penso si possa dire che abbiamo visto in azione una sorta di incarnazione della «Europa delle patrie» prefigurata a suo tempo dal generale de Gaulle. Proprio come de Gaulle sognava, il presidente Sarkozy sta oggi energicamente coordinando un'Europa dei governi impegnati a fronteggiare l'emergenza. La Commissione (che, insieme alla Corte di giustizia e alla Banca europea, rappresenta la dimensione sovranazionale dell'Unione) è invece emarginata. In una situazione da «stato d'eccezione», le decisioni spettano al potere vero, quello dei governi. Quali ne sono le implicazioni per un mondo multipolare? Raramente, in Italia almeno, il dibattito pubblico sull'Europa tiene conto dei risultati dei più seri «studi europei » (un filone sviluppatissimo nelle accademie e nei centri di ricerca occidentali). Esistono oggi molti bravi studiosi delle istituzioni europee. Sapete quanti di loro reputano possibile una prossima trasformazione dell'Unione in una Federazione, negli Stati Uniti d'Europa? Nemmeno uno. Gli studiosi possono sbagliarsi, per carità, ma la cosa più probabile è che l'Europa resti in futuro ciò che oggi è: un bizzarro amalgama di sovranazionalità (solo in certe materie) e di compromessi intergovernativi. Niente Stati Uniti d'Europa. Un'Europa che può scegliere la strada del massimo coordinamento nelle fasi di emergenza ma che è anche pronta a dividersi di nuovo (per esempio, sulla sicurezza) quando l'emergenza finisce. Come farebbe un'Europa simile a fronteggiare il mondo multipolare, plausibilmente dominato dalla competizione fra grandi imperi? Sarebbe un vaso di coccio. Per difendere indipendenza e libertà, dovrebbe restare legata agli Stati Uniti e alla loro «egemonia liberale ». Se il «blocco transatlantico» resistesse, esso resterebbe comunque, anche con un'America in ripiegamento, la più importante concentrazione di potere politico, economico e militare. Ma resisterebbe quel blocco alle prevedibili tensioni? Se Barack Obama diventerà presidente ci sarà forse una nuova luna di miele fra Stati Uniti e Europa. Finita la luna di miele, l'insofferenza europea per gli americani e la voglia di prenderne le distanze (come si è visto ad agosto, in occasione della guerra russo-georgiana) torneranno a farsi sentire. Tanto più che dalla crisi finanziaria America e Europa usciranno in modi diversi. Lo ha scritto benissimo Salvatore Carrubba ( Il Sole 24 ore, 18 ottobre). Solo apparentemente America e Europa stanno reagendo allo stesso modo (con massicce iniezioni di statalismo) alla crisi in atto. Per l'America, infatti, si tratta di misure temporanee, prese obtorto collo (incoerenti con la sua radicata cultura individualista, liberale e libertaria). Per l'Europa (continentale), che nei decenni passati aveva subìto più che abbracciato con convinzione il liberalismo economico, si tratta invece di tornare, con le solite ricette socialdemocratiche (da chiunque gestite) e simil- keynesiane, allo statalismo di sempre. Quando la crisi sarà superata, si scoprirà di quanto si siano allontanate, sul piano culturale prima ancora che su quello delle scelte politico-economiche, le due sponde dell'Atlantico. Pensare che il nuovo interventismo statale europeo possa restare a lungo senza effetti sui rapporti internazionali mi pare un'illusione. Comunque, vale la pena di parlarne. Sperando che, a forza di parlarne, diventi anche questa una profezia che si autofalsifica. 20 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO I rischi dei troppi no. (se sono troppi, dire si a chi? ndr) Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2008, 11:11:47 am Editoriali
PARTITO DEMOCRATICO E RIFORME I rischi dei troppi no di Angelo Panebianco La manifestazione di sabato scorso ha dato a Veltroni una rinnovata forza politica. È sperabile che egli se ne serva per sottrarsi alla trappola in cui sindacati e proteste studentesche, ma anche Berlusconi, lo hanno fin qui sospinto. La trappola consiste nel fare del Partito democratico il campione del «cartello dei no», di una coalizione di interessi che difende lo status quo in settori come la scuola o il pubblico impiego. Per il fatto che impiegati pubblici e insegnanti rappresentano una parte rilevante della constituency elettorale del Partito democratico, del bacino da cui provengono i suoi voti, l’attivismo del governo in quei settori crea obiettivamente un serio problema a Veltroni. Ma l’arroccamento, il «no» ad ogni provvedimento, spiegabile con la condizione di debolezza in cui l’opposizione si è trovata dopo le elezioni, rischia di diventare suicida. Due ministri in particolare, Brunetta (Pubblica amministrazione) e Gelmini (Istruzione), stanno toccando importanti santuari elettorali del Partito democratico. Ciò spiega l’astio nei loro confronti degli esponenti di quel partito e dei suoi giornali d’area (Il Riformista escluso). Tanto più che i due ministri si muovono in un modo insidioso per i difensori dello status quo. Non hanno fatto l’errore di proporre l’ennesima «Grande Riforma» della pubblica amministrazione o della scuola. In Italia le Grandi Riforme non portano da nessuna parte, finiscono con un buco nell’acqua. Brunetta e Gelmini si sono mossi invece pragmaticamente, mettendo in fila un provvedimento dopo l’altro. Questo modo di procedere è insidioso per gli oppositori perché rende difficile dire sempre no. Si può contestare un provvedimento o l’altro ma si diventa poco credibili se li si contesta tutti. L’accresciuta forza politica di Veltroni dovrebbe aiutarlo a riprendere un cammino (prefigurato in campagna elettorale) teso a fare del Partito democratico una vera forza riformatrice. In materia di pubblica amministrazione come di scuola ciò può solo significare assumere posizioni davvero indipendenti da quelle del sindacato. Sulla scuola, ad esempio, la difesa sindacale della «quantità» (tanti insegnanti mal pagati) a scapito della qualità non dovrebbe più trovare, come fin qui è stato, l’appoggio del maggior partito di opposizione. Il che significa che il confronto con il governo dovrebbe spostarsi dal tema della quantità (no ai tagli, sempre e comunque) a quello della qualità (idee per migliorare la qualità dell’insegnamento). Né le cose dovrebbero andare diversamente nel caso dell’Università. Non siamo al ’68. Gli studenti occupanti godono dell’incoraggiamento aperto di quella parte della docenza che non desidera un uso più responsabile dei soldi pubblici. Alcune delle Università più virtuose ed efficienti si sono già smarcate dalla protesta. Se il governo avrà su questo punto un ripensamento (magari anche spronato in questo senso dall’opposizione) ed eviterà l’errore di tagliare i fondi in modo uniforme, mettendo sullo stesso piano gli atenei efficienti e quelli inefficienti, se procederà premiando i primi e punendo i secondi, assisteremo finalmente a un bello scontro frontale (il Paese ha solo da guadagnarci) fra la buona Università e quella cattiva. Si tratti di scuola, di pubblica amministrazione o di università, il Partito democratico deve dunque ricalibrare la sua azione. Le proposte di riforma (in dieci punti) appena avanzate dal Pd in materia di istruzione sono ancora troppo generiche (è facile dire che si vuole premiare il merito; il difficile è farlo) e sembrano, più che altro, un mezzo per fare fuoco di sbarramento contro la Gelmini. Più di proposte generiche servirebbe, da parte del Pd, un serio ripensamento sui problemi dell’università e della scuola. Per esempio, ci vorrà pure, prima o poi, una pubblica spiegazione sul perché, a suo tempo, Luigi Berlinguer, ministro dell’istruzione del primo governo Prodi, venne bruciato, fatto fuori, quando tentò di introdurre (contro i sindacati) un po’ di meritocrazia negli avanzamenti in carriera degli insegnanti. Riflettere sugli sbagli del passato è l’unico modo per non ripeterli in futuro. E per non trovarsi (di nuovo) a marciare accanto a chi difende cause indifendibili. 30 ottobre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una società aperta Inserito da: Admin - Novembre 06, 2008, 11:47:41 am LA DEMOCRAZIA USA
Una società aperta Viene sanata la frattura della discriminazione razziale, che appariva come la principale macchia della democrazia Usa. Il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito di Angelo Panebianco Nessuno oggi può sapere che cosa farà il nuovo presidente, che cosa diventeranno gli Stati Uniti nell’era di Barack Obama. Ma tutti, persino i tanti nemici dell’America sparsi per il mondo, sono costretti a riconoscere che la democrazia americana continua ancora oggi a disporre di doti che nessun’altra comunità politica possiede. «Se qualcuno pensava che l’America non fosse il Paese ove tutto è possibile...». Le parole con cui Obama ha iniziato il suo patriottico discorso di ringraziamento alla nazione che lo aveva appena eletto rendono perfettamente il senso di ciò che è accaduto. Un giovane senatore afro-americano, di poca esperienza politica, con un passato di simpatie radicali e un background da outsider si è dapprima imposto contro un establishment democratico che gli era ostile, sconfiggendo alle primarie un cavallo di razza come Hillary Clinton, e ha poi conquistato la Casa Bianca contro un avversario di grande valore come John McCain (il cui spessore politico e la cui tempra morale, per inciso, tutti, anche quelli che gli erano ostili, hanno potuto misurare ascoltando il bellissimo discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Obama, e ha invitato i repubblicani a stringersi intorno al nuovo presidente). È vero in generale che in tempi di crisi le personalità carismatiche hanno più probabilità di affermarsi. E, senza dubbio, la gravissima crisi finanziaria, con i suoi pesantissimi effetti sull’economia americana, ha favorito l’outsider Obama. Il successo del suo stile profetico e l’entusiasmo che ha suscitato in una parte così ampia degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il senso di smarrimento e la paura per il futuro che attanagliavano la società americana già prima che (sono passate solo poche settimane) la crisi rivelasse tutta la sua gravità con i fallimenti bancari e il crollo di Wall Street. E, tuttavia, questo risultato non sarebbe stato comunque possibile se l’America non fosse ancora, nonostante tutte le sue trasformazioni, ciò che i suoi Padri Fondatori vollero che fosse: una società aperta e libera e una democrazia autentica le cui istituzioni non hanno subito l’usura del tempo e nella quale è sempre possibile per gli outsider di valore farsi strada ed affermarsi. Centocinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù, cinquant’anni dopo la fine della segregazione razziale, un nero arriva alla Casa Bianca e sana così la frattura più grave, in passato sempre giudicata da tutti insuperabile, della storia degli Stati Uniti, quella che appariva come la principale macchia, il difetto peggiore, della democrazia americana. Almeno per ora il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito. È sperabile che una ricaduta della vittoria di Obama consista, per lo meno in questa Europa che ha così tanto mostrato di apprezzare il neo-eletto presidente, in una maggiore disponibilità da parte di molti (per esempio, da parte di quei tanti intellettuali che l’America l’hanno sempre detestata senza comprenderla) a sforzarsi di capire qualcosa di più della società americana, della sua storia, della sua cultura politica, delle sue istituzioni. Un compito difficile, impegnativo, dal momento che per tanti europei l’America, con la sua storia diversissima dalla nostra, è sempre stata un enigma. Detestabile proprio perché incomprensibile. Detestabile per quel suo impasto di patriottismo e di religiosità così lontani dalla sensibilità di molti europei. Detestabile per il suo individualismo. Detestabile per la sua disponibilità a tollerare livelli di disuguaglianza economica e sociale superiori a quelli tollerati in Europa. E detestabile anche per ciò che di quella disuguaglianza è sempre stata la contropartita: la mobilità e il dinamismo, alimentati dalla fiducia, propria di una società individualista, che a ciascuno sia possibile, almeno in linea di principio, innalzarsi contando sulle proprie forze e capacità anziché sulla protezione dello Stato. Le anchilosate, oligarchiche e demograficamente invecchiate società europee applaudono Obama ma in quell’applauso si nasconde un paradosso. Poiché la vittoria di Obama (ma anche la corsa del suo avversario McCain) mette in risalto ciò che rende l’America irrimediabilmente diversa dall’Europa. Perché nelle chiuse società politiche europee un Obama o un McCain (anche lui un outsider nella sua parte politica) non avrebbe nessuna chance. Il neo-presidente dovrà fronteggiare immani problemi. Dovrà aiutare l’America a uscire dalla crisi, dovrà imparare a muoversi in un mondo ormai multipolare e dovrà contemporaneamente cercare di contrastare (in Iraq, in Afghanistan e in altri luoghi) potenti forze destabilizzatrici. La «Repubblica imperiale» americana acquisterà certamente, con Obama, un nuovo stile. Ma i segni del passato saranno comunque visibili. Forse Obama ripercorrerà, in condizioni mutate, le orme di Franklin Delano Roosevelt (il presidente del New Deal), forse si ispirerà anche ad altri presidenti democratici, come Woodrow Wilson, con il suo idealismo internazionalista, o forse sceglierà non l’isolazionismo (oggi impossibile) ma un parziale ripiegamento, di tipo jeffersoniano, una parziale e selettiva riduzione dell’impegno americano nel mondo. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che, quali che saranno le virtù e gli errori della nuova. Amministrazione, di sicuro non ci saranno rotture radicali, non ci sarà alcun congedo dalla tradizione americana. Finita la luna di miele, quelli che detestavano l’America ricominceranno a detestarla e quelli che l’amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni. 06 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I due ministri più osteggiati Inserito da: Admin - Novembre 15, 2008, 12:05:46 pm BRUNETTA, GELMINI E IL PD
I due ministri più osteggiati di Angelo Panebianco Campagne di stampa contro Renato Brunetta, continue manifestazioni contro Mariastella Gelmini. Domandarsi perché Brunetta e Gelmini siano osteggiati dalla sinistra italiana più di qualunque altro membro del governo (ministri leghisti inclusi) significa interrogarsi sulla natura della suddetta sinistra, sul suo insediamento sociale, sulle domande dei ceti che ad essa fanno riferimento. E significa chiedersi quali residue chance siano rimaste a quel progetto di «forza politica riformista » da cui nacque il Partito democratico. I due ministri, fra mille difficoltà, stanno tentando di incidere due bubboni malati (pubblica amministrazione, istruzione) della nostra vita pubblica. Sono ambiti disastrati, soffocati da una ragnatela di rendite, piccoli privilegi, cattive abitudini, sprechi, inefficienze. E' più facile fallire che avere successo se si tenta di intervenire in questi settori ed è probabile che anche i tentativi di Brunetta e Gelmini alla fine falliscano. I due ministri, come chiunque altro, possono anche commettere errori ma stanno per lo meno tentando di fare qualcosa. Poiché fare l'opposizione a un governo non significa affatto picchiare duro su qualunque ministro, anche su quelli che un po' di «riformismo» tentano di praticarlo, non dovrebbe un'opposizione riformista cercare, proprio con quei due ministri, punti di incontro? Così formulata, la domanda è naturalmente ingenua. La ragione per cui Brunetta e Gelmini sono oggi le bestie nere della sinistra è che essi stanno operando nel suo «territorio di caccia», nel cuore stesso della sua constituency elettorale: impiego pubblico e scuola. I dati sulla geografia sociale del voto sono inequivocabili: insieme ai pensionati, i dipendenti pubblici (in generale) e gli insegnanti rappresentano una parte preponderante del bacino elettorale della sinistra, del Partito democratico in primo luogo. Purtroppo per il Partito democratico e le sue aspirazioni riformiste, molti appartenenti a questi ceti (anche se non tutti) non chiedono riforme modernizzatrici ma una difesa dello status quo. Ad esempio, dietro alla radicalizzazione della Cgil ci sono di certo molte cause. Ma penso che l'attivismo dei ministri Brunetta e Gelmini abbia qualcosa a che fare con quel processo. Stando così le cose, il Partito democratico è oggi in trappola. Da un lato, come qualunque altro partito, deve tener conto delle domande dei propri elettori. Tanto più che anche su pubblica amministrazione e scuola subisce il lavorio ai fianchi di Di Pietro e di una sinistra massimalista che spera di rientrare in gara nelle elezioni europee. Dall'altro lato, se si appiattisce su quelle domande, finisce per togliere ogni residua credibilità alla piattaforma modernizzatrice con cui si presentò alle elezioni. In queste situazioni solo la leadership può fare la differenza, smarcandosi dal fronte conservatore, proponendo nuove mete, mettendo in campo— anche su pubblica amministrazione, scuola, università — progetti seri, al di là degli slogan e della propaganda. Con il fine, in prospettiva, di conquistare nuovi territori di caccia, di agganciare elettori interessati alla modernizzazione del Paese. Nel caso di Veltroni, in fondo, si tratterebbe di rileggere i propri discorsi dal Lingotto in poi e di proporre al Partito democratico di agire di conseguenza. Anche a costo di ridisegnare le proprie alleanze sindacali. 15 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica e la libertà Inserito da: Admin - Novembre 22, 2008, 12:21:57 pm CRISI E OLTRE
La politica e la libertà di Angelo Panebianco Ciò che più sgomenta della battaglia delle idee che la crisi sta alimentando è la voluttà con cui tanti si impegnano ad archiviare, attribuendola alla follia umana, quella rivoluzione liberale che prese l’avvio con le vittorie di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Reagan (1980) e i cui effetti si manifestarono ovunque. Dimenticando che quella rivoluzione fu una reazione alla crisi, economica e morale, degli anni Settanta. E cancellando, con un tratto di penna, i benefici che ne derivarono: una trentennale crescita economica mondiale e una spettacolare accelerazione della globalizzazione, certo nutrita di squilibri e disuguaglianze, ma anche capace di diffondere benessere e libertà in tanti luoghi che queste cose non conoscevano. Oggi si torna a rivendicare il «primato della politica» e ci si fa beffe degli stolti che confidano nella libertà, anche in quella «economica». Conviene ricordare a chi irride il «liberismo » qualche insegnamento della storia. Anche dopo il ’29 il primato della politica venne riaffermato con forza (il New Deal, il socialismo scandinavo, l’Iri, i piani quinquennali sovietici, il riarmo hitleriano) in variante democratica o totalitaria. E anche allora l’intellighenzia occidentale si buttò con entusiasmo ad inseguire i miti del momento, sostenendo che il «liberalismo» (giudicato un residuo ottocentesco) era finalmente al tramonto, che stava per nascere la luminosa era della «pianificazione ». Sappiamo come finì. Il primato della politica sfociò nel protezionismo selvaggio e tutto si concluse (dieci anni dopo l’inizio della grande crisi) con una guerra mondiale. Il rapporto fra la politica e il mercato è uno degli aspetti più complessi (e oscuri, difficili da mettere a fuoco) delle società contemporanee. Lo dimostra, per un verso, la tradizionale difficoltà del pensiero liberale (e della scienza economica di ispirazione liberale) di fare i conti con il ruolo della politica. Spesso, all’acuta, intelligente, analisi delle situazioni economiche, quel pensiero affianca una critica solo moralistica della politica (per la sua propensione a farsi influenzare dagli interessi delle lobbies e a sacrificare la razionalità economica alle esigenze del consenso). Ma la difficoltà di fare i conti con la complessità del rapporto fra politica e mercato è dimostrata anche dalla disinvoltura dei fautori del primato della politica, i quali ne esaltano la capacità di occuparsi del «bene comune » (redistribuzione, protezione dei più deboli) ma sembrano ignari degli «effetti collaterali», pesantemente negativi, che quel primato porta con sé. Gli assertori del primato della politica hanno un grande vantaggio rispetto ai liberali. Consiste nel fatto che dalla politica tutti si aspettano la soluzione ai loro problemi e le attribuiscono ogni colpa delle mancate o cattive soluzioni. La politica è il deus ex machina che tutti invocano. È interessante il fatto che non solo la gente comune ma anche gran parte delle élites fatichino ad accettare l’idea che non tutto ciò che accade sia il prodotto di decisioni politiche. Essi mostrano di non riconoscere che molti accadimenti sono semplicemente il frutto del reciproco adattamento «spontaneo» fra i comportamenti di milioni e, a volte, miliardi di persone, l’esito aggregato, per lo più imprevisto e imprevedibile, di un gran numero di azioni ispirate da altrettante menti singole. Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élites continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei. La differenza è che questa idea di onnipotenza è stata trasferita, proiettata, su uomini in carne ed ossa, i cosiddetti potenti della Terra. I più, misconoscendo il ruolo fondamentale degli aggiustamenti spontanei, credono nella sola esistenza delle «mani visibili». Siano esse di Roosevelt, di Clinton, di Bush. Ma anche di Sarkozy, Berlusconi, eccetera. L’attesa salvifica che oggi circonda Obama è un esempio estremo di questo persistente atteggiamento. A me pare che in questo atteggiamento si annidino due errori. In primo luogo, l’errore di non riconoscere che l’onnipotenza della politica è solo un mito. Un mito lugubre, per di più. Con quanto più accanimento è stato perseguito tante più catastrofi si sono prodotte. Il grande lascito culturale (che oggi la crisi va disperdendo) delle rivoluzioni liberali di trenta anni fa —a loro volta, ispirate al liberalismo classico, sette-ottocentesco— stava nel rifiuto dell’onnipotenza della politica, nel riconoscimento che solo lasciando massima libertà agli individui e alla creatività individuale si fa il bene di una società, che compito del governo non è darci la «felicità» ma lasciarci liberi di cercare la nostra personale strada alla felicità. Il secondo errore consiste nel non vedere i costi del primato della politica, non saper contrapporre ai vantaggi di breve termine i costi dì medio-lungo termine. Nel breve termine la politica è sicuramente in grado di assicurare vantaggi. Per esempio, in una situazione di crisi, salvando il credito, tamponando gli effetti della disoccupazione, eccetera. Ma il punto è che ciò che la politica ci dà con una mano oggi se lo riprenderà domani con gli interessi (in termini di controllo sulle nostre vite). Certamente, dobbiamo oggi affidarci a decisioni politiche per fronteggiare la crisi. E dobbiamo purtroppo accettare una più forte presenza dello Stato. Ma se non lo facciamo a malincuore, se ci mettiamo dentro un immotivato entusiasmo, se non ci rendiamo conto che si può accettare un temporaneo ampliamento del ruolo dello Stato in condizioni di emergenza solo pretendendo che lo Stato si impegni a ritirare di nuovo i suoi tentacoli quando l’emergenza sarà finita, contribuiamo a preparare un futuro persino peggiore del presente. È una questione di atteggiamenti culturali. In America esistono potenti anticorpi che impediranno degenerazioni permanenti del tipo «socialismo di Stato». In Europa continentale gli anticorpi sono più deboli (in Italia, poi, sono debolissimi). Il rischio, qui da noi, non è il «ritorno dello Stato» della cui invadenza, in realtà, nonostante tanti sforzi, non ci siamo mai liberati. Il rischio è che quell’invadenza torni a godere di piena legittimazione culturale. Il rischio è dimenticare che quanto più la politica si impiccia, quanto più pretende di dispensarci la felicità, tanto più si riduce, col tempo, la libertà di ciascuno di noi. 22 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ae non indigna la caccia agli ebrei Inserito da: Admin - Novembre 30, 2008, 11:05:02 pm TERRORE JIHADISTA
Ae non indigna la caccia agli ebrei di Angelo Panebianco Mentre sono ancora frammentarie e confuse le notizie sui protagonisti, così come gli indizi sui mandanti, dell'attacco jihadista a Mumbai, gli analisti già ricominciano a dividersi, seguendo un canovaccio che è sempre lo stesso quando si tratta di terrorismo islamico. La divisione è fra chi ritiene che ogni singolo episodio terroristico, quale che sia la sua gravità, sia interamente spiegato dall'esistenza di conflitti locali (si tratti, di volta in volta, del Kashmir, della Palestina, del conflitto fra casa regnante ed estremisti in Arabia Saudita, dell'Afghanistan, dell'Iraq, eccetera) senza bisogno di prendere troppo sul serio le rivendicazioni dei jihadisti sul carattere «globale » della loro guerra contro apostati e infedeli, e chi invece ritiene che i conflitti locali siano fonti di alimentazione del jihad globale. Non è una disputa accademica. Perché l'interpretazione che si adotta suggerisce linee di azione differenti. Se vale la prima interpretazione si tratterà, per l'Occidente, di agire pragmaticamente caso per caso, accettando il fatto di trovarsi per lo più di fronte a forme di irredentismo (Kashmir, Palestina), che usano strumentalmente la coperta dell'estremismo islamico, o di guerre civili che hanno per posta il potere all'interno di questo o quello Stato musulmano. Se vale la seconda interpretazione si tratterà di non perdere di vista il quadro di insieme e, per esso, il fatto che nel mondo islamico è da tempo in corso una lotta nella quale tanti gruppi estremisti (collegati tramite il web e le reti di solidarietà e finanziamento presenti in tutte le comunità islamiche, anche quelle europee) cercano di spostare a vantaggio delle proprie idee gli equilibri di potere all'interno della umma, della comunità musulmana nel suo insieme. In uno scontro di civiltà che usa la religione per distinguere musulmani buoni e cattivi e per identificare i nemici: i cristiani, gli ebrei, gli indù, eccetera. Se si evitano le scelte ideologiche preconcette occorre riconoscere che tutte e due le interpretazioni contengono elementi di verità. Lo dimostra il caso di Mumbai. Hanno ragione quegli analisti che inquadrano la vicenda all'interno del conflitto indo-pakistano e delle sue connessioni con la guerra in Afghanistan. È plausibile che i burattinai stiano all'interno delle forze armate pakistane e che vogliano impedire la normalizzazione, sponsorizzata dagli Stati Uniti, dei rapporti fra Pakistan e India, sperando in una reazione indù antimusulmana: più sale la tensione, più essi possono segnare punti a proprio vantaggio all'interno del Pakistan nonché a favore dei propri alleati-clienti nella galassia talebana in Afghanistan. Ma ciò non spiega tutto. Fra gli ospiti degli hotel aggrediti erano gli americani e gli inglesi i più presi di mira. È dipeso solo dal ruolo degli angloamericani in Afghanistan? O non era anche un modo per lanciare agli islamisti sparsi per il mondo il messaggio secondo cui l'azione in corso era comunque parte di una più ampia lotta in cui il Grande Satana resta il nemico più importante? E, soprattutto, come si spiega l'attacco (anch'esso pianificato) al Centro ebraico, l'assassinio di un rabbino e di altri otto ebrei? Cosa c'entrano gli ebrei con il conflitto indo-pakistano? Assolutamente nulla. Ma c'entrano moltissimo con l'ideologia jihadista e con il fanatismo antisemita che la caratterizza. Il richiamo più immediato è al caso di Daniel Pearl, il giornalista ebreo-americano rapito e sgozzato in Pakistan nel 2002. Il fatto che egli fosse ebreo ebbe una parte decisiva nel suo assassinio. L'attacco al Centro ebraico è la dimostrazione del fatto che il terrorismo islamico ha due facce, trae alimento da due radici: i conflitti regionali ma anche un'ideologia jihadista che ha per posta la riorganizzazione della umma, la comunità dei credenti, in chiave antioccidentale e della quale è un tassello essenziale la «guerra ai sionisti». Per questa ragione, pur dovendo modulare le risposte a seconda delle condizioni locali, non conviene perdere di vista il quadro di insieme. Le battaglie «locali» (soprattutto quando si colpiscono anche ebrei e americani) ottengono una eco immediata in tutti i luoghi del mondo ove l'estremismo islamico alligna e favoriscono un proselitismo i cui effetti si manifesteranno in seguito, con altre azioni terroristiche, in altre parti del globo. Per quanto riguarda noi europei di singolare nei nostri atteggiamenti verso il terrorismo islamico c'è l'indifferenza che spesso mostriamo per un aspetto della sua ideologia che dovrebbe, a rigore, apparirci ripugnante: l'antisemitismo. È una vecchia storia. La stessa Europa che ricorda l'Olocausto e si commuove davanti al film Schindler's List non prova particolare sdegno per l'antisemitismo diffuso nel mondo arabo, e musulmano in genere, di cui la «caccia all'ebreo» da parte dei jihadisti (anche a Mumbai) è una diretta conseguenza. Non casualmente, qui da noi trovò fertile terreno, dopo l'11 settembre, la favola secondo cui il jihadismo sarebbe colpa di Israele, un frutto delle persecuzioni israeliane nei confronti dei palestinesi. E vanno anche ricordati i sondaggi che registrano l'ostilità di tanti europei per Israele. Al fondo, sembra esserci una strategia inconsapevole e politicamente suicida. C'è l'idea che solo se neghiamo l'evidenza, ossia i veri caratteri dell'ideologia jihadista, solo se spieghiamo le sue manifestazioni violente come il frutto esclusivo di circostanze specifiche in luoghi lontani da noi, possiamo sperare di essere lasciati in pace. 30 novembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quando cambia il bersaglio Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2008, 11:19:00 am GIUDICI E PD
Quando cambia il bersaglio di Angelo Panebianco Non siamo forse alla fine della stagione iniziata con la vicenda di Mani Pulite dei primi anni Novanta. Ci sono però due fatti nuovi. Il primo è l'indebolimento di quegli elementari meccanismi di autodifesa che la magistratura usava per tutelare il proprio prestigio sociale e non offrire la gola scoperta a possibili interventi disciplinatori della politica. La furibonda guerra fra le Procure di Salerno e di Catanzaro ha mostrato all'opinione pubblica quanto sia malato il sistema giudiziario. Il rapido intervento del Csm, con drastiche sanzioni a entrambi i contendenti, è un tentativo di impedire un più ampio smottamento. Anche se spettacolare questa guerra è però solo l'ultimo di una serie di episodi che hanno eroso il consenso di cui la magistratura godeva presso l'opinione pubblica. Fu grazie a quel consenso che alcune Procure assunsero, a partire dagli anni Novanta, il ruolo (informalmente politico) proprio delle «burocrazie guardiane». Cercarono, cioè, di mettere sotto tutela la classe politica, una cosa che è qualitativamente diversa dal normale controllo di legalità che i singoli magistrati svolgono nei Paesi democratici. La cosiddetta Seconda Repubblica ne fu condizionata. Né poteva essere diversamente. Poiché era stata la «rivoluzione dei giudici», come venne definita in gergo giornalistico, a dare il colpo mortale alla Prima Repubblica, era inevitabile che le Procure si trovassero a svolgere un ruolo politicamente sovraesposto nella Seconda. Un' amministrazione sapiente e accorta del rapporto con l'opinione pubblica era però la condizione indispensabile per lo svolgimento di quel ruolo. Venute meno sapienza e accortezza quel rapporto si è spezzato. La seconda circostanza è data dal parziale cambiamento dei «bersagli politici ». Oggi la novità, suscettibile di modificare i rapporti fra politica e magistratura, è costituita dalla pluralità di inchieste su giunte di centrosinistra. L'azione delle Procure, da Mani Pulite in poi, ha sempre contato sul sostegno della sinistra nelle sue varie incarnazioni. Anche l'alleanza del Partito democratico con Di Pietro ha indirettamente ribadito questa tradizionale posizione. Ma in passato quel sostegno dipendeva dalla constatazione che a «farsi male» erano soprattutto gli avversari della sinistra. Adesso che a farsi male è anche il Partito democratico, è possibile che intervengano (non immediatamente, ma in futuro) cambiamenti di rotta. Le risposte della classe politica sono, al momento, insoddisfacenti. Il Guardasigilli dice, anche con riferimento alla guerra Salerno- Catanzaro, che tutto andrà a posto con le «riforme ». Ma ammesso, e non concesso, che venga fatta una buona riforma dell'ordinamento giudiziario, solo un pregiudizio legalistico può far credere che cambiare le norme faccia anche cambiare d'incanto atteggiamenti e comportamenti. Gli effetti delle buone riforme si vedono, se si vedono, solo a distanza di anni. Al momento, sarebbe già tanto se passasse la legge sulle intercettazioni telefoniche. La sua assenza spiega perché non sia cessata quella forma di abuso che è la «pesca a strascico» (come l'ha argutamente definita Il Riformista), le intercettazioni diffuse, senza freni né regole. Se pretendiamo di essere una società liberale, la pesca a strascico, per lo meno, dovremmo vietarla. 07 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’identità e gli apparati Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2008, 09:45:53 am IL PD DOPO LA SCONFITTA ABRUZZESE
L’identità e gli apparati di Angelo Panebianco Dopo la catastrofica sconfitta in Abruzzo il Partito democratico è costretto a rifare i conti. Come ha scritto Massimo Franco sul Corriere di ieri, il problema del Pd non è la cannibalizzazione da parte dell’Italia dei Valori: il successo di Di Pietro, così come la scelta dell’astensione da parte di tanti elettori abruzzesi in precedenza di centrosinistra, sono i sintomi, non le cause. Sono i sintomi di una malattia che se non verrà subito curata porterà il Pd all’autodistruzione. La malattia è presto detta: il Pd, al momento, non è né carne né pesce. È un partito senza identità. E se sei privo di identità perché mai gli elettori dovrebbero votarti? Troppo forte è risultato il divario fra i proclami sul nuovo riformismo e la realtà quotidiana. Da che cosa è fatta l’identità di un nuovo partito che, per giunta, si pretende riformista? Che cosa consente di definirlo nuovo? Che cosa consente di definirlo riformista? La novità dipende dal tasso di rinnovamento della classe dirigente. Il riformismo dipende dalla qualità delle policies, delle politiche che si adottano. La ragione per cui il Pd, fin dai suoi primi passi, è stato giudicato da tutti come la sommatoria dei Ds (gli ex Pci) e della Margherita (l’ex sinistra Dc) dipende dal fatto che la sua nascita non ha coinciso, né al centro né alla periferia, con un forte rinnovamento dei gruppi dirigenti. Fin quando il grosso della maggioranza di quei gruppi continuerà ad essere composta da persone già dirigenti del Pci e della Dc non ci sarà alcun nuovo partito. Dal momento che quel vecchio personale non può che riproporre atteggiamenti e comportamenti adottati in un’altra epoca, ai tempi della sua socializzazione e delle sue esperienze nei vecchi partiti. Ma i rinnovamenti delle classi dirigenti non avvengono spontaneamente. Devono essere i leader a imporli. Per quanto riguarda poi il riformismo, tutto dipende dalle politiche che si adottano. Insieme alla qualità e alla novità degli uomini e delle donne che assumono ruoli dirigenziali, sono le politiche scelte a dare identità ai partiti. Si badi: ho detto politiche, non proclami. Anche sotto il profilo delle politiche il Pd è risultato né carne né pesce. Messi da parte i buoni propositi della campagna elettorale, non è riuscito fin qui a svolgere un ruolo di partito di opposizione con solide e riconoscibili posizioni riformiste. Ha oscillato paurosamente. Incapace di chiarimenti interni definitivi fra le sue diverse anime, ha finito per apparire indeciso a tutto. Su scuola e università, a un certo punto, ha dato un calcio al suo preteso riformismo cercando persino di cavalcare la cosiddetta Onda. Sulle questioni economiche è apparso diviso fra la tentazione di seguire il radicalismo della Cgil e quella di assumere una linea più realistica. Sulla giustizia, non è riuscito a scegliere fra il giustizialismo di Di Pietro e la posizione riformista maturata negli ultimi tempi da Luciano Violante. Forse, proprio la giustizia potrebbe diventare, per il Pd, il banco di prova di una identità riformista fin qui più proclamata che praticata. Affidi a Violante il compito di guidare i colloqui con la maggioranza sulla riforma della giustizia. Prenderebbe due piccioni con una fava. Si distanzierebbe da Di Pietro e darebbe al Paese un messaggio riformista. È anche così che si costruiscono le identità politiche. 17 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il garantismo degli amici Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2008, 11:34:31 pm IL PD E LA QUESTIONE GIUSTIZIA
Il garantismo degli amici di Angelo Panebianco In una intervista al Riformista l'ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco, a proposito dei suoi ex compagni del Partito democratico, ha dichiarato: «Quelli del Pd sono garantisti a corrente alternata. Un garantista vero solidarizza innanzitutto con i nemici. Difendere gli amici è un'altra cosa: si chiama complicità ». Il commento di Del Turco stigmatizza le evidenti contraddizioni dei vertici del Partito democratico di fronte agli sviluppi delle inchieste giudiziarie che riguardano propri esponenti. La scarcerazione del sindaco di Pescara Luciano D'Alfonso ha spinto Walter Veltroni, per la prima volta da quando è segretario di quel partito, a prendere duramente le distanze dall'azione dei magistrati («fatti gravissimi», ha detto a proposito dell'inchiesta di Pescara) e ha anche obbligato il ministro- ombra della Giustizia Lanfranco Tenaglia ad accorgersi del fatto che «polizia e magistratura devono riscoprire una cultura delle indagini che si è troppo appiattita sulle intercettazioni» (verrebbe da dire: ben arrivato tra noi, onorevole). Ne è conseguita, e anche questa è una novità, una presa di posizione polemica dell'Associazione Nazionale Magistrati nei confronti della leadership del Partito democratico. Che cosa significa tutto ciò? Che stiamo per assistere a uno spettacolare cambiamento di rotta del Partito democratico, alla fine del suo abbraccio (mortale) con Di Pietro, a una disponibilità a rompere finalmente con il «partito giustizialista» e a sedersi a un tavolo con la maggioranza per discutere seriamente di riforma della giustizia? È improbabile. Per due ragioni. La prima è che settori rilevanti del partito giustizialista si trovano all'interno del Partito democratico e occupano posizioni dirigenziali di rilievo. È falso che il giustizialismo sia appannaggio del solo partito di Di Pietro. L'alleanza elettorale con Di Pietro è stata fatta anche perché esistevano forti affinità ideologicoculturali fra i due partiti in materia di giustizia. È probabile che in questo momento, nelle stanze chiuse del Partito democratico, siano in corso scontri duri fra dirigenti di diverso orientamento. La seconda e più importante ragione ha a che fare con le caratteristiche di porzioni rilevanti di iscritti e anche dell'elettorato del Partito democratico. Un paio di settimane fa un'associazione di area composta da giovani sotto i trenta anni ha incalzato il Partito democratico sulla cosiddetta «questione morale». Era solo il sintomo di un problema ben più ampio. C'è un'intera generazione di giovani politicamente attivi la cui «socializzazione primaria» alla politica è avvenuta a seguito degli eventi provocati dalla vicenda di Mani pulite. Questa generazione, nata dopo il crollo delle antiche ideologie, è cresciuta credendo fermamente in tre dogmi. Per il primo dogma, l'Italia sarebbe il Paese più corrotto della Terra o giù di lì. Per il secondo, l'etica è il solo metro di giudizio della politica e i «valori» (etici) vanno contrapposti agli «interessi » (sempre sordidi, per definizione). Ciò basta a spiegare perché tanti di questi giovani risultino poi sprovvisti degli strumenti necessari per pensare politicamente. Per il terzo dogma, infine, i magistrati (mi correggo: i pubblici ministeri) sarebbero cavalieri senza macchia, angeli vendicatori che combattono eroicamente il Male della corruzione. Si aggiunga il fatto che tanti di questi giovani sono privi, causa il cattivo funzionamento di molte scuole, di buone conoscenze storiche, e il quadro è completo. Il successo che riscuotono i libri ispirati almoralismo giustizialista è perfettamente spiegabile. Occorrerebbero, da parte dei vertici della politica, grande capacità pedagogica, solide risorse culturali e disponibilità a un lavoro di lunga lena per dare a questi giovani strumenti di orientamento politico meno labili, meno inconsistenti. Ecco perché è improbabile attendersi dal Partito democratico svolte in materia di giustizia. Anche a costo di negare l’evidenza. L’evidenza è rappresentata da uno squilibrio dei poteri così forte da intaccare , come ha scritto Peppino Caldarola (sempre sul Riformista) la sovranità popolare. Il sindaco di Pescara, come, prima di lui, il presidente della Regione Del Turco, si è dovuto dimettere, non a seguito di una condanna da parte di un giudice al termine di un regolare processo, ma a causa dell’inchiesta di un procuratore. Con tanti saluti alla presunzione di non colpevolezza, e anche alla democrazia rappresentativa. 28 dicembre 2008 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli infortuni dell'Onu Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2009, 02:55:57 pm PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE
Gli infortuni dell'Onu di Angelo Panebianco C’è una differenza fra la guerra del Libano del 2006 e l’attuale conflitto a Gaza. Questa volta, sono molti di più i governi disposti a riconoscere le ragioni di Tel Aviv. Per conseguenza, anche l’opinione pubblica internazionale, e occidentale in particolare, non si è compattamente e pregiudizialmente schierata contro Israele. I regimi arabi moderati, che temono più di ogni altra cosa le aspirazioni egemoniche dell’Iran (alleato e protettore di Hamas) mantengono, nonostante l’opposizione delle piazze, un atteggiamento prudente. La fazione palestinese moderata di Abu Mazen (sanguinosamente cacciata da Gaza, nel 2007, dai miliziani di Hamas) considera Hamas l’unica responsabile dell’attacco israeliano. Anche in Europa il vento è in parte cambiato. I governi tedesco, italiano e dei Paesi dell’Europa orientale hanno preso chiare posizioni a favore del diritto di Israele a difendersi dai missili di Hamas. E i l Presidente Sarkozy, nonostante la tradizione francese (poco sensibile alle ragioni di Israele), sarà obbligato, nel suo prossimo tentativo di mediazione, a tenerne conto. Comincia a farsi strada la consapevolezza che fra le molte asimmetrie del conflitto c’è anche quella rappresentata dal diverso valore attribuito dai contendenti alla vita umana. Per gli uomini di Hamas, come per Hezbollah in Libano, la vita (anche quella degli appartenenti al proprio popolo) vale talmente poco che essi non hanno alcun problema a usare i civili, compresi i bambini e le donne, come scudi umani. Per gli israeliani, le cose stanno differentemente. Cercano di limitare il più possibile le ingiurie alla popolazione civile anche se, naturalmente, la natura del conflitto esclude che essa non sia coinvolta. L’attacco dell’esercito, appena iniziato, volto a bloccare definitivamente Hamas, è stato a lungo ritardato. Tra le ragioni del ritardo c’era anche il timore per l’alto costo in vite di civili che l’attacco potrebbe comportare. Insomma, di fronte alla complessità del problema e alla diffusa consapevolezza che non si può negare a uno Stato il diritto di difendersi da un’organizzazione di fanatici votati alla distruzione di quello stesso Stato, c’è questa volta, in giro, meno voglia di dare addosso pregiudizialmente a Israele. Ma con un’eccezione di assoluto rilievo: le Nazioni Unite. Richard Falk, «relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi», rappresentante dell’Human Rights Council (Consiglio per i diritti umani) delle Nazioni Unite, sta usando la sua carica, e la sponsorizzazione dell’Onu, per fare propaganda pro-Hamas e antisraeliana. Le sue tesi «sull’aggressione israeliana » a Gaza sono esattamente le stesse di Hamas. Il caso di Richard Falk è interessante perché ci aiuta a capire come vengano trattati i «diritti umani» alle Nazioni Unite. Ebreo americano, già professore di diritto internazionale a Princeton, Falk è quello che in America si definisce un radical. E dei più accesi. Fra le sue molte imprese si possono ricordare il suo giudizio entusiasta sull’Iran di Khomeini (un «modello per i Paesi in via di sviluppo», lo definì arditamente nel 1979) e i suoi dubbi, alla Michael Moore, sulla «verità ufficiale» americana sull’11 settembre. Nel 2007 paragonò la politica israeliana verso i palestinesi a quella della Germania nazista nei confronti degli ebrei. È persona non grata in Israele. La nomina di Falk (con il voto contrario degli Stati Uniti), nel marzo 2008, a rappresentante per i territori palestinesi del Consiglio per i diritti umani, un organismo dominato da Paesi islamici e africani, ebbe un solo scopo: quello di predisporre un corpo contundente da usare contro Israele. È un altro clamoroso infortunio dell’Onu. Dopo quello che, alcuni anni fa, portò la Libia, nella generale incredulità, alla presidenza della Commissione per i diritti umani (poi abolita). Se l’Onu si occupasse seriamente di diritti umani dovrebbe mettere sotto accusa un bel po’ dei propri Stati membri, ossia tutti gli Stati autoritari o totalitari (dalla Cina a quasi tutti i regimi del mondo musulmano). Ma non può farlo. In compenso, i diritti umani vengono spesso usati come proiettili per colpire le democrazie occidentali e Israele. Anche se creare una «Lega delle democrazie» è risultato fino ad oggi impossibile, un maggiore coordinamento fra i Paesi democratici in sede di Nazioni Unite sarebbe quanto meno auspicabile. Al fine di imporre a certi suoi organismi comportamenti più decorosi. Nonostante il credito di cui l’Onu continua a godere, è un fatto che, nelle crisi internazionali, sanno spesso muoversi con maggiore credibilità, pur con le loro magagne e imperfezioni, i governi delle democrazie. Per lo meno, devono rispondere del proprio agire alle loro opinioni pubbliche e hanno comunque (non c’è Guantanamo che tenga) carte più in regola degli altri anche in materia di diritti umani. 04 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un conflitto nuovo. La crisi di Gaza Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2009, 01:04:50 am La crisi di gaza
Un conflitto nuovo di Angelo Panebianco Chiunque abbia, se non altro per ragioni anagrafiche, un passato, è portato a leggere i conflitti di oggi alla luce degli schemi mentali di ieri. Per decenni il conflitto israeliano-palestinese venne interpretato in Occidente con gli schemi della guerra fredda. A lungo, dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra l'Urss e Israele, quel conflitto fu parte, pur con le sue peculiarità, del confronto politico e militare fra mondo occidentale e mondo sovietico. Per tutti coloro che in Europa occidentale simpatizzavano per l'Urss e per «la lotta dei comunisti a favore dell'emancipazione del Terzo Mondo», Israele era un avamposto dell'imperialismo americano. Contavano anche le peculiarità del conflitto e i loro riflessi in Europa. Dopo il '73, con la crescita del prezzo del petrolio e l'uso politico dell'energia da parte dei Paesi produttori, trattare con i guanti governi e opinione pubblica arabi diventò vitale per un'Europa assetata di energia: la causa palestinese acquistò pertanto sempre maggiore popolarità fra noi mentre le ragioni di Israele di fronte al «rifiuto arabo» persero progressivamente terreno nella considerazione delle opinioni pubbliche europee (anche fra molti di coloro che erano schierati contro l'Urss su altri fronti). Se a ciò si sommano le memorie antiche, le influenze, più o meno sotterranee, del pregiudizio cristiano antigiudaico, si comprende molto degli atteggiamenti europei verso il conflitto israeliano-palestinese, per lo meno dalla fine degli anni Sessanta in poi. Il passato pesa sul presente ed è comprensibile che riflessi automatici portino ancora oggi tanti a leggere l'attuale scontro a Gaza con le categorie del passato. Ma è singolare che ciò avvenga al prezzo di una grande rimozione. Sono due i fatti nuovi che hanno determinato un cambiamento qualitativo del conflitto israeliano- palestinese e che tanti sembrano voler rimuovere. In primo luogo, l'irruzione della religione, e più precisamente dell'islam politico, nel conflitto. Certo, il conflitto israeliano-palestinese continua ad essere anche ciò che è sempre stato: uno scontro fra due popoli per il dominio territoriale. Ma da tempo non è più soltanto questo. Il rafforzamento di movimenti come Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano ha cambiato radicalmente il quadro. Come il fatto che quei movimenti siano interni a una galassia islamista che, in ogni angolo del mondo, si riconosce nelle stesse parole d'ordine e afferma la propria identità contro gli stessi nemici (i musulmani moderati, l'Occidente corrotto e materialista, l'entità sionista, gli infedeli, a qualunque credo appartengano). In queste condizioni, pensare alle soluzioni del conflitto nei modi che erano ancora plausibili ai tempi degli accordi di Oslo non è più possibile. «Pace contro territori» è un compromesso realistico (anche se, ovviamente, difficile da imporre agli estremisti delle due parti) se i principali attori in gioco hanno scopi esclusivamente politici. Ma diventa assai più arduo se per una delle parti in gioco (nel caso specifico, Hamas e, dietro Hamas, l'intera galassia dell'estremismo islamico mondiale) rinunciare alla distruzione di Israele significherebbe violare un tabù religioso, peccare di blasfemia. Il secondo fatto nuovo, che cambia la natura del conflitto, è dato dallo scontro per l'egemonia fra l'islam sciita guidato dall'Iran e quello sunnita. Non è un caso che, nella vicenda di Gaza, i governi arabi sunniti si siano fin qui mossi con prudenza. Nella speranza, non dichiarata, che Israele riesca a ridimensionare Hamas (gruppo sunnita ma legato all'Iran). E non è un caso, come mostra l'assenza di sommovimenti anti-israeliani in Cisgiordania, che anche Fatah, il movimento oggi guidato da Abu Mazen, speri nel ridimensionamento degli odiati «nemici-fratelli» di Hamas. Nulla di tutto ciò si spiegherebbe se i due fatti citati (l'irruzione dell'islam politico e il ruolo dell'Iran) non avessero cambiato i termini del conflitto israeliano-palestinese. Ma la rimozione incombe. Sorprende, ad esempio, scorrere un recente intervento sul conflitto a Gaza, apparso su Repubblica, dell'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema, uomo informato dei fatti, e constatare che né la parola Iran né la parola jihad vi trovino posto. È come se per D'Alema nulla di sostanziale fosse cambiato nel corso degli anni: quello israeliano-palestinese viene ancora interpretato come uno scontro fra uno Stato e un movimento irredentista, un conflitto, vecchio di mezzo secolo, per il dominio territoriale in Palestina. Se non che, il conflitto israeliano-palestinese è questo ma non è più soltanto questo. A causa del carattere politico-religioso di Hamas e della volontà di potenza iraniana. Segni di rimozione appaiono anche le reazioni di certi laici nonché di esponenti di spicco della Chiesa cattolica di fronte alla preghiera di massa organizzata dalla fratellanza musulmana contro il nemico sionista (al termine di raduni in cui si bruciano le bandiere di Israele), di fronte cioè a manifestazioni che vedono impegnati i sostenitori di Hamas presenti all'interno dell'islam italiano ed europeo. Se la paura del fondamentalismo islamico può spiegare le reazioni flebili e sommesse di molti di quei laici, il caso della Chiesa cattolica, come ha mostrato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è più complesso. La Chiesa sembra oggi divisa fra la sua antica diffidenza (quando non si tratti di aperta ostilità: vedi le parole del Cardinal Martino su Gaza) per Israele, e la presa d'atto, ben chiara negli scritti e nei discorsi di Papa Benedetto XVI, del fatto che la violenza del fanatismo religioso sia oggi la minaccia più grave per la civile convivenza. E anche per le prospettive di pace in Palestina. 12 gennaio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I media come arma Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2009, 07:44:47 pm LA GUERRA A GAZA
I media come arma di Angelo Panebianco Le polemiche innescate dai contenuti della trasmissione televisiva «Anno Zero» sulla guerra di Gaza possono aiutarci a riflettere su un aspetto cruciale di questo conflitto (come di altri che lo hanno preceduto): il ruolo dei mass media, delle televisioni in primo luogo, non come strumenti di informazione sulla guerra ma come armi della guerra e nella guerra. E' qualcosa che va al di là delle tradizionali forme di propaganda, più o meno pianificata, che hanno sempre accompagnato i conflitti e li accompagnano tuttora. La prima volta che si comprese appieno il nuovo (e imprevisto) ruolo attivo giocato dalle televisioni nei conflitti asimmetrici fu all'indomani della conclusione della guerra del Vietnam: si disse allora, con qualche esagerazione ma anche con qualche elemento di verità, che gli Stati Uniti avevano perso quella guerra non nelle risaie e nelle giungle dell'Indocina ma nelle case americane dove ogni sera il piccolo schermo faceva entrare le immagini delle devastazioni prodotte dai bombardamenti statunitensi. Da allora, nessun governo o gruppo armato impegnato in una guerra ha più dimenticato che le immagini televisive e i commenti che le accompagnano sono parte integrante, non accessoria, dei conflitti, e dei conflitti asimmetrici soprattutto: è da essi che dipende lo spostamento, a favore di uno dei belligeranti, dell'orientamento delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali. E poiché nelle democrazie i governi devono tenere conto delle opinioni pubbliche, lo spostamento di queste ultime da una parte o dall'altra non è senza effetti internazionali: spinge o può spingere i governi delle democrazie ad esercitare pressioni diplomatiche a favore del belligerante che ha conquistato il sostegno dell'opinione pubblica. Il caso di Gaza (una guerra che forse è ora giunta a conclusione) è da manuale. Dal punto di vista strettamente militare la disparità delle forze fra l'esercito israeliano e Hamas era massima. Hamas ha avuto quindi a disposizione, in questa guerra, soprattutto una carta e l'ha giocata fino in fondo: le vittime civili. Il calcolo era semplice: più vittime civili ci sono (e non possono non esserci vittime civili data la natura del conflitto), più i networks televisivi ne parlano, più è probabile che le opinioni pubbliche, soprattutto europee, si schierino contro Israele e che, infine, la «comunità internazionale » (leggi: le democrazie occidentali) sia costretta a tenerne conto. La contromossa israeliana (vietare l'ingresso a Gaza ai giornalisti finché durano i combattimenti) è parte della stessa logica. Si considerino gli scopi bellici dei due contendenti. Per Israele «vincere» significava ridimensionare Hamas militarmente (mettere il gruppo in condizione di non lanciare più missili sul territorio israeliano) e politicamente (creare le condizioni per una successiva riconquista del potere a Gaza, a spese di Hamas, da parte della fazione palestinese moderata, Fatah). Per Hamas, invece, «vincere» significava sopravvivere, quali che fossero le perdite subite, essere ancora in grado di riorganizzare le forze per colpire di nuovo Israele fra qualche tempo. Come in Libano nel 2006: Hezbollah «vinse» la guerra semplicemente perché sopravvisse all'offensiva israeliana. In queste condizioni, e data questa disparità degli obiettivi dei due contendenti, usare i civili come scudi era per Hamas una necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere una pressione internazionale tale da fermare Israele. Il che, dal punto di vista di Hamas, avrebbe significato vincere. Per Israele valeva la regola contraria: meno civili cadono, meno è probabile che la comunità internazionale si metta di mezzo. Per questo, la guerra è stata condotta simultaneamente in due ambiti diversi (sul terreno e sui mass media). Il contenzioso sul numero di vittime civili (ovviamente difficile da stabilire, dato che i combattenti di Hamas sono mescolati alla popolazione) diventa parte integrante della guerra. Come mostra anche il fatto che le notizie, più o meno attendibili, sui caduti civili sono, fra tutte le notizie di guerra, quelle a cui i mass media danno in assoluto più risalto. Per i sostenitori occidentali di Israele le vittime civili sono, in parte, una tragica conseguenza della natura di questa guerra e, in parte, il frutto dell'azione deliberata di Hamas. Per gli avversari di Israele sono invece la prova della natura criminale di quello Stato. Le televisioni svolgono un ruolo nel far pendere la bilancia dell'opinione pubblica da una parte o dall'altra. Però, va subito aggiunto, a mò di correttivo, il fatto che contano anche le più generali condizioni politiche in cui si svolge il conflitto. Se il calcolo di Hamas, come sembra ora possibile, si rivelerà alla fine sbagliato non sarà perché l'arma di guerra massmediatica sia di per sé spuntata o debole, ma perché essa è stata neutralizzata, almeno in parte, dall'atteggiamento prudente tenuto per tutta la durata del conflitto dai governi arabi (spaventati dall'alleanza fra Hamas e l'Iran) e dalla ostilità dei palestinesi di Abu Mazen per Hamas. Insieme alla compattezza della società israeliana nel sostenere l'azione del proprio esercito e all'efficacia di quella stessa azione (niente a che vedere con quanto avvenne in Libano nel 2006), questi fattori hanno giocato un ruolo importantissimo nella guerra. Hanno impedito o ritardato uno spostamento massiccio, «a slavina», delle opinioni pubbliche occidentali a favore di Hamas. 18 gennaio 2009 DA corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Logorare stanca Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2009, 11:20:54 am IL PD E LE CORRENTI
Logorare stanca di Angelo Panebianco I partiti correntizi, le cui leadership si reggono su coalizioni di correnti interne, hanno una naturale tendenza all'immobilismo. I capicorrente hanno interesse a che il leader non si rafforzi troppo e giocano a frenarne le iniziative. Nel Partito democratico si sta riproducendo lo stesso schema che abbiamo già visto in azione prima delle elezioni, un anno fa, all' epoca del dialogo (poi fallito) fra Veltroni e Berlusconi sulla riforma della legge elettorale. Allora, i capicorrente si diedero da fare per far fallire un progetto di riforma - la proposta Vassallo/Ceccanti - che, se attuato, avrebbe rafforzato il peso parlamentare dei due grandi partiti e, per conseguenza, anche il peso politico dei rispettivi leader (di Veltroni nei confronti dei suoi capicorrente, di Berlusconi nei confronti dei suoi alleati). Oggi la storia si ripete, identica. Un accordo fra Partito democratico e Popolo della Libertà prevede uno sbarramento del quattro per cento alle elezioni europee. E' stato stipulato da Veltroni con il preventivo consenso dei capicorrente del suo partito. Ma adesso, quegli stessi capicorrente si sono messi al lavoro per sabotarlo dando ascolto alle proteste dei piccoli partiti di estrema sinistra. Che i piccoli partiti strillino è naturale e, dal loro punto di vista, legittimo. Ma perché i capicorrente del maggior partito di opposizione si preoccupano di quegli strilli? Per due ragioni. La prima, tipica dei partiti di corrente, è il loro interesse a che il segretario resti politicamente debole in attesa del momento in cui sarà possibile sostituirlo. La seconda ragione è che tendendo una mano ai piccoli partiti essi intendono anche dare la botta finale alle velleità maggioritarie del segretario. Si tratta di seppellire definitivamente la veltroniana «vocazione maggioritaria» e tornare alle «vaste alleanze» del tempo che fu. Lo stesso schema vale per ogni materia in cui esista la possibilità di accordi ragionevoli fra la maggioranza e il Partito democratico. Vale, ad esempio, per la giustizia. Di Pietro, da solo, non avrebbe la forza di far fallire un accordo fra Berlusconi e Veltroni ma i capicorrente del Partito democratico possiedono quella forza. Vale, come si è visto, per la riforma dei contratti di lavoro: la spaccatura fra la Cgil e gli altri sindacati si è subito tradotta in una divisione dentro il partito, con Veltroni a favore dell'accordo e D'Alema e Bersani contrari, insieme alla Cgil. Ci sono due problemi, però. E' vero che «logorare il segretario fingendo di sostenerlo» è una tecnica antica, tipica dei partiti di corrente (nella vecchia Dc veniva usata continuamente) ma, nel caso del Partito democratico, la sua condanna all'immobilismo a causa dei poteri di veto interni, la sua conseguente incapacità di giocare un ruolo nazionale contrattando con la maggioranza accordi su materie cruciali, non si risolvono solo in un logoramento del segretario ma anche del partito nel suo complesso. E' vero, inoltre, che la posta in gioco riguarda la politica delle alleanze. Ma se il progetto veltroniano condensato nello slogan «partito a vocazione maggioritaria» è fallito o langue, non è detto che il progetto alternativo - un'alleanza che si estenda dal «centro» di Casini ai residui frammenti della vecchia sinistra comunista - possa dimostrarsi più realistico, oltre che di superiore appeal. 02 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quel silenzioso terzo partito Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2009, 11:53:39 am POLITICA E CASO ENGLARO
Quel silenzioso terzo partito di Angelo Panebianco Proviamo a riprendere fiato. Il conflitto fra i difensori del «diritto alla libertà di scelta» e i difensori della «sacralità della vita» è degenerato nel modo in cui sappiamo. La violenza dello scontro ha coinvolto le istituzioni al massimo livello e ha spaccato il Paese. Due partiti nemici (si badi: ho detto nemici, non avversari) si fronteggiano e nessuno sa come andrà a finire. Come sempre in questi casi, è scattato, nei due campi, l'ordine di mobilitazione generale, la militarizzazione delle coscienze è in corso, e la consegna, per le opposte schiere, è di non fare prigionieri. Eppure, nonostante la violenza del conflitto, e la polarizzazione che l'accompagna, non è così facile (come vorrebbe farci credere la propaganda dei due contrapposti partiti) spazzare via i dubbi che le persone di buon senso, quali che siano le loro convinzioni morali, devono per forza nutrire di fronte a una vicenda come quella di Eluana. Anche se non è detto che i protagonisti ne abbiano piena contezza, l'intrattabilità politica del tema trova una eco nei «trasversalismi » e in certe contorsioni che si manifestano in queste ore nell'arena pubblica. Se il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, sceglie di non seguire il leader dello schieramento cui appartiene, aprendo così una frattura difficilmente ricomponibile, ecco che Antonio Di Pietro, l'arcinemico di Berlusconi, dichiara di dare libertà di coscienza ai suoi parlamentari sul provvedimento del governo, ammettendo così implicitamente il proprio accordo con la scelta del premier di tenere in vita Eluana. E si noti che anche alcuni settori del Pd sono orientati a votare a favore. Ormai le cose si sono spinte troppo in là, è troppo tardi per fermare il processo che si è messo in moto ma è giusto per lo meno dare testimonianza del fatto che, oltre ai due partiti che si scontrano, ne esiste anche un terzo, per lo più silenzioso, e che, comunque vada la vicenda, è già stato sconfitto. È il partito di chi pensa che la Politica, la Democrazia, il Diritto, e tutte le altre più o meno utili astrazioni che siamo soliti invocare per imporre faticosamente un minimo di ordine nella vita associata dovrebbero essere tenute fuori dalla porta al di là della quale sono in gioco, come in questo caso, le questioni ultime dell'esistenza. È il partito di chi pensa che occorrerebbe coltivare, nella riservatezza e nella discrezione, una zona grigia, protetta da una necessaria ipocrisia, nella quale le decisioni sul caso singolo (sempre diverso, almeno per qualche aspetto, da qualunque altro caso singolo) restano affidate alla sensibilità e alla pietas del medico che ha in cura il malato e ai sentimenti delle persone che lo amano. Che è quanto si è sempre fatto, checché ne dicano certi sepolcri imbiancati. È il partito di chi pensa che quelle situazioni debbano essere sottratte al clamore delle «battaglie di principio». Condivido quanto ha detto Emanuele Severino (sul Corriere di ieri): a scontrarsi sono due forme di violenza. I due partiti millantano certezze assolute che, su questa terra almeno, a nessuno è dato di possedere. Fa francamente effetto (e non è un bell'effetto) vedere, nei telegiornali, le opposte fazioni mobilitate e schierate, a Udine e in altri luoghi, l'una a difesa della vita di Eluana e l'altra a difesa del suo diritto a morire. Credo che, in queste ore, nessuno incarni lo spirito dei due partiti contrapposti meglio di Marco Pannella e di Giuliano Ferrara, due uomini stimabilissimi per il coraggio, la passione e l'onestà intellettuale con cui difendono le cose in cui credono. Schierati sugli opposti lati della barricata Pannella e Ferrara hanno tuttavia una cosa in comune: credono entrambi che tocchi alla legge, e alla democrazia che fa le leggi, il compito di imporre la soluzione. Per il diritto del singolo a scegliere, sempre e comunque (Pannella). Per l'intangibilità della vita, sempre e comunque (Ferrara). Anche se la differenza è che, per Ferrara, l'intervento del Parlamento dovrebbe essere la risposta di emergenza a una sentenza emessa in assenza di legge. Spiacente ma sono in disaccordo con entrambi. Deploro fortemente la giuridicizzazione (e l'inevitabile politicizzazione che l'accompagna) di questioni come questa. La legge è uno strumento che gli uomini hanno inventato per ridurre l'arbitrio, per trattare in modo il più possibile simile casi simili. Le «buone» leggi (non sempre le leggi sono buone) rappresentano effettivamente un utile strumento, ancorché imperfetto, per favorire uguali trattamenti e affermare principi universalistici in molte situazioni. Ma non credo affatto che una legge possa davvero regolare le questioni-limite di cui qui parliamo. Data l'estrema variabilità dei casi, e le profonde, irriducibili, differenze fra le persone, una legge che offre una buona soluzione per un caso può risolversi in una intollerabile forma di violenza in un altro caso. D'altra parte, dire leggi significa dire tribunali. Proprio il caso di Eluana mostra quanta fragilità, quante incongruenze, quante contorsioni, siano contenute nelle sentenze dei tribunali su vicende come la sua. Lo stesso discorso vale per la democrazia. Con tutte le sue brutture e volgarità, è pur sempre la migliore forma di governo, dal momento che consente di risolvere le controversie senza spargimenti di sangue, con il voto anziché con le armi. Da qui però ad affidarle le decisioni sulla vita e sulla morte ce ne corre, o ce ne dovrebbe correre assai. Parlamenti e tribunali, insomma, dovrebbero essere tenuti lontani da queste cose, a conveniente distanza di sicurezza. Certo, i progressi della medicina modificano continuamente le situazioni e la politica subisce un'inevitabile pressione a intervenire. E può anche accadere, in qualche caso, che un Parlamento riesca a sfornare una legge (ci credo poco, ma l'eventualità non può essere scartata a priori) che rappresenti un buon punto di equilibrio fra opposte, e forse ugualmente rispettabili, esigenze. Se non c'è verso di tenere le grinfie dello Stato, ancorché democratico, lontano dalle questioni estreme, che almeno si evitino gli eccessi. La politicizzazione della morte è il misfatto più grave che una democrazia possa commettere. 09 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I confini della politica Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2009, 06:20:46 pm La legge sul fine vita
I confini della politica di Angelo Panebianco La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini. L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini. Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita. I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione. Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza. Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii. Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato. 23 febbraio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Usa, i pericoli del nuovo corso Inserito da: Admin - Marzo 01, 2009, 06:18:39 pm LA STRATEGIA ANTICRISI DI OBAMA
Usa, i pericoli del nuovo corso di Angelo Panebianco No, we cannot. L'inquietudine e le preoccupazioni per i primi passi dell'Amministrazione Obama, per il modo in cui il nuovo Presidente americano sta reagendo alla crisi economica, crescono fra gli osservatori. Tutti sappiamo che le decisioni dell'America ci riguardano, che la crisi mondiale, là cominciata, può finire solo se l'America farà le scelte giuste contribuendo a ricostituire la fiducia perduta dei mercati e ponendo le condizioni per il rilancio, in tutto il mondo, della crescita. Il dubbio che serpeggia è che il nuovo Presidente possa non rivelarsi all'altezza, che la Presidenza Obama possa un domani, quando verrà il momento dei bilanci, mostrare di avere qualcosa in comune con l'Amministrazione (repubblicana) di Herbert Hoover, la quale, con le sue scelte sbagliate, aggravò la crisi seguita al crollo di Wall Street del 1929. Certo è che fin qui i mercati hanno reagito con scetticismo o addirittura negativamente a tutti gli annunci e a tutte le decisioni prese dall'Amministrazione. Ciò nonostante, Obama sembra deciso a pagare le cambiali contratte in campagna elettorale con la sinistra americana: piano sanitario nazionale, rivoluzione verde, massicci investimenti pubblici, tasse più elevate per gli alti redditi. La dilatazione della spesa pubblica implica un cambiamento epocale, il passaggio a una fase di forte presenza statale nella vita economica e sociale americana. Ma è proprio quella la ricetta giusta per rassicurare i mercati e rilanciare consumi e investimenti? Se lo sarà, la Presidenza Obama risulterà un successo e non solo l'America ma tutto il mondo ne verranno beneficiati. Altrimenti, la crisi si aggraverà e ci vorranno molti più anni di quelli che oggi gli esperti prevedono per uscirne. Nell'attesa, possiamo però già valutare alcune conseguenze che la crisi, e le prime risposte dell’Amministrazione Obama, stanno determinando in tutto il mondo. Tramonta rapidamente l'immagine di un'America che doveva il suo grande dinamismo alla valorizzazione massima dell'iniziativa individuale e che, come tale, si proponeva quale modello da imitare per le altre società. Se anche l'America «sceglie» lo Stato, il massiccio intervento pubblico, cosa possono fare quelle società che hanno sempre avuto una fiducia assai minore nelle virtù dell'individualismo, nelle benefiche conseguenze collettive della valorizzazione della libertà individuale? Due aspetti delle risposte, pur fra loro assai differenziate, che i governi, americano ma anche europei, stanno dando alla crisi, dovrebbero essere attentamente valutate. Il primo riguarda la pericolosa rotta di collisione che, in situazione di crisi, può determinarsi fra le ragioni dell'economia e quelle della democrazia. La logica economica, in queste situazioni, può entrare in conflitto con la logica politica. I governi prendono decisioni volte a rassicurare l'opinione pubblica e a sostenere, con politiche pro-occupazione e misure di segno egualitario (più tasse sui ricchi), il consenso nazionale, decisioni che tuttavia possono aggravare o prolungare nel tempo la crisi. Blandire Main Street (l'uomo della strada) scaricandone tutti gli oneri su Wall Street può essere un'ottima mossa politica nel breve termine, ma i costi di medio e lungo termine potrebbero rivelarsi assai elevati. Il secondo aspetto riguarda gli effetti sugli atteggiamenti culturali diffusi. Nel momento in cui si radica l'idea secondo cui il mercato è il «Dio che ha fallito», si afferma per ciò stesso la pericolosa illusione che la salvezza possa venire solo dallo Stato. Si dimentica il fatto essenziale che tanto il mercato quanto lo Stato, in quanto istituzioni umane e per ciò imperfette, possono fallire ma che i fallimenti dello Stato sono in genere assai più catastrofici di quelli del mercato. Quando il mercato fallisce provoca grandi, ancorché temporanee, sofferenze (disoccupazione, drastica riduzione del tenore di vita delle persone, povertà). I fallimenti dello Stato, per contro, si chiamano compressione delle libertà (sempre), oppressione politica (spesso) e, nei casi estremi, tirannia e guerre. Oggi, i Robin Hood di tutto il mondo (i nostri, i Robin Hood italiani, sono addirittura entusiasti) lodano Obama che toglie ai ricchi per dare ai poveri. Finalmente, come si sente continuamente ripetere, lo «strapotere del mercato» è finito. Dimenticando che quello «strapotere» ci ha dato decenni di crescita economica impetuosa con molte ricadute virtuose in ambito politico (si pensi a quanto si è diffusa e radicata nel mondo la forma di governo democratica). Tornare all'epoca dello «strapotere dello Stato» è certo un'idea attraente per coloro che detestano il mercato, e la competizione che ne è l'essenza. Ma che succede se lo strapotere dello Stato impedisce di rilanciare la crescita, e ci fa precipitare in un mondo di conflitti neo-protezionisti? Lo sceriffo di Nottingham sarà pure stato sconfitto ma non resterà, a quel punto, abbastanza bottino per sfamare i poveri. 01 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il mercato nell'angolo Inserito da: Admin - Marzo 16, 2009, 05:16:17 pm IL CASO PREFETTI
Il mercato nell'angolo di Angelo Panebianco La decisione, da ricondurre soprattutto alla volontà del ministro del Tesoro Giulio Tremonti, di affidare ai prefetti il monitoraggio sulle attività del credito ha i caratteri delle decisioni importanti: per i suoi aspetti simbolici e per i suoi presumibili effetti pratici. Lasciamo da parte gli aspetti più contingenti collegati a quella decisione: la rivalità fra Tesoro e Bankitalia, la scontata opposizione dei banchieri, eccetera. Non è possibile comprendere il senso della decisione senza inquadrarla nella più generale azione intrapresa dal ministro Tremonti e senza tener conto del rapporto fra la posizione culturale che Tremonti ha autonomamente elaborato (e che, grazie al suo ruolo politico e istituzionale, è ormai un pezzo importante della «identità» del centrodestra) e le quotidiane decisioni che egli assume in qualità di massima autorità di governo dell' economia. Il ministro del Tesoro, infatti, è portatore di una visione, indubbiamente coerente, sullo stato del mondo nella congiuntura presente e di idee (fino ieri giudicate dai più non ortodosse, forse anche bizzarre) su come l'Occidente dovrebbe agire per fronteggiare una crisi che, per lui, è morale prima che economica. E' ovvio che ci sia un rapporto fra quella visione (articolata da Tremonti, oltre che in altri luoghi, nel libro «La paura e la speranza») e le decisioni prese. Certo, senza calcare troppo la mano sulla cogenza di quel rapporto, dal momento che, ovviamente, un ministro prende le sue decisioni sulla base dei vincoli e degli stimoli che la realtà gli impone. Ma un rapporto fra le due cose (la visione e le decisioni), benché allentato e mediato, comunque c'è. Per quanto riguarda le decisioni del ministro (quella sui prefetti a parte), al netto delle opposte propagande, sembra convincente la tesi di molti osservatori neutrali, secondo cui Tremonti si è mosso fin qui con equilibrio, adottando una linea di azione che mira a tamponare gli aspetti più gravi della crisi tenendo però conto dei vincoli che gravano sul Paese a causa del debito pubblico. Ciò che l'opposizione giudica colpevole inazione sembra piuttosto il frutto di un calcolo in base al quale la massima prudenza è necessaria per camminare sull'orlo dell' abisso senza precipitarvi dentro. Né sembra sbagliata la tesi di Tremonti secondo cui una crisi mondiale da indebitamento ha poche probabilità di essere curata facendo ancor più debiti. Si tratta di un' implicita critica (che mi pare condivisibile) alle scelte dell'Amministrazione Obama e uno stop anticipato a chi vorrebbe, a casa nostra, fronteggiare la crisi dilatando ulteriormente il debito. Il problema vero, a me pare, sta, più che in molte delle decisioni fin qui prese, nella visione di Tremonti e negli effetti a lungo termine che essa può esercitare sul futuro del Paese. Fulcro di quella visione è l'idea che il primato del mercato abbia condotto il mondo occidentale in un vicolo cieco, in una crisi morale e ora anche economica, e che occorra ristabilire il primato della politica attraverso regole dotate di forte caratura etica, al servizio del bene comune. Il rifiuto dell'idea che i mercati abbiano capacità di autoregolazione e che perciò sia necessaria una forte guida politica è ben illustrato dalla polemica di Tremonti contro gli «economisti » e dalla contestuale rivalutazione dei «giuristi». Tremonti ha cercato, oltre che in altri luoghi culturali, in una corrente liberale, l'ordoliberalismo della scuola di Friburgo (un gruppo di economisti e giuristi tedeschi di ispirazione liberale attivi nella prima metà del secolo scorso) i suoi referenti. E' la scuola a cui si ispira la cosiddetta «economia sociale di mercato». Essa combina meriti e una potenziale ambiguità. L'ambiguità sta nel fatto che, nell'economia sociale di mercato, l'accento può cadere, a seconda delle circostanze, sul sostantivo mercato oppure sull'aggettivo sociale. Se cade sul mercato, ne deriva che lo Stato (come nell'ispirazione originaria della scuola di Friburgo) deve limitarsi a porre regole che consentano al mercato di autoregolarsi senza produrre effetti «tossici». Se invece l'accento cade sul «sociale », allora la politica è chiamata a svolgere, tramite le sue regole (il diritto) un ruolo assai più attivo, di controllore diretto. C'è insomma il rischio di dare vita a uno Stato interventista che spazzi via l'autonomia del mercato. Era questa la sostanza della polemica insorta nel 1949 entro la Mont Perelin Society (una celebre associazione di studiosi liberali) fra l'economista austriaco Ludwig von Mises e l'esponente dell'ordoliberalismo Walter Eucken. In ogni caso, è questo il problema italiano. Nella nostra situazione, infatti, ciò che Tremonti chiama «mercatismo» ha goduto solo di un'effimera popolarità in tempi recenti. Noi veniamo da una tradizione di controllo statale sull'economia. Anche la Costituzione non è una solida barriera. I costituenti erano anch'essi antimercatisti. Al punto di negare alla libertà economica, per la costernazione dei liberali, la qualifica di diritto fondamentale di libertà (la libertà economica è per la Costituzione solo un «interesse legittimo», subordinato alle più generali esigenze politiche e sociali). E' questa anche la ragione per cui l'appello da parte dell'opposizione alla Costituzione contro l'uso dei prefetti (lo ha notato Alberto Mingardi sul Riformista) è un'arma spuntata. Non è sorprendente, allora, che Antonio Di Pietro sia favorevole alla scelta di Tremonti: vi vede una possibilità di commissariamento indiretto dell' economia non incompatibile con la sua visione da sempre favorevole, sulla scia dell'esperienza di Mani Pulite, a un forte interventismo delle procure nella vita economica. L'elemento accomunante è la sfiducia nell'autonomia e nella capacità autoregolativa dei mercati. E' possibile che nel breve termine molte scelte del ministro Tremonti si rivelino appropriate per fronteggiare l'emergenza. Una volta superata la crisi mondiale, nel lungo termine, il rischio è che l'eredità lasciata al Paese consista più in un ritorno agli antichi vizi che nell'acquisizione di nuove virtù. Al di là e contro, certamente, le reali intenzioni di Tremonti. 16 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se l'Occidente è più debole Inserito da: Admin - Marzo 23, 2009, 11:22:10 am DIRITTI UMANI E GIOCHI DEL MEDITERRANEO
Se l'Occidente è più debole di Angelo Panebianco Quando la crisi economica sarà superata il mondo ci apparirà assai cambiato. Si modificheranno gli equilibri di potenza fra aree geografiche e fra Stati. E i mutamenti nella distribuzione del potere avranno ripercussioni su tanti aspetti della vita degli abitanti del pianeta. L'esito più probabile è un ridimensionamento, sia pure relativo, del peso politico del mondo occidentale nelle vicende internazionali, una riduzione della sua capacità di imporre i propri valori, le proprie concezioni, le proprie istituzioni. Una vittima illustre sarà probabilmente quel «regime dei diritti umani» affermatosi, sia pure in modo lento, tortuoso e imperfetto, dopo il 1945, nell'epoca della Pax Americana: un'epoca in cui il primato politico americano traeva, pur con una elaborazione originale, nutrimento e forza dalle influenze di una più antica cultura europea. In anni recenti, dominati da diffusi risentimenti nei confronti degli Stati Uniti, si è spesso dimenticato quanto stretto fosse quel collegamento. Ma tanto la nascita delle Nazioni Unite quando la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (gli eventi che hanno dato impulso a tutte le successive iniziative per la promozione dei diritti dell'uomo) non furono frutti del caso ma della visione e della volontà degli Stati Uniti. Roosevelt progettò l'Onu ispirandosi a quella Società delle Nazioni voluta alla fine della prima guerra mondiale da un altro Presidente americano: Woodrow Wilson, portabandiera di un internazionalismo democratico nutrito di utopia che non nascondeva il suo debito verso la migliore cultura liberale europea. A sua volta, la Dichiarazione universale del '48 sarebbe stata impensabile se non fosse stata preceduta e ispirata da documenti che hanno fatto la storia dell'Occidente moderno, dalla Dichiarazione di indipendenza americana alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Rivoluzione francese. Il giusnaturalismo cristiano, il costituzionalismo liberale, le rivoluzioni democratiche occidentali sono le vere fonti di quell'insieme, nutritissimo, di norme e istituzioni che dopo il '45, al riparo della potenza americana, si è sviluppato al fine di offrire qualche protezione alle persone contro la tirannia. Cosa resterebbe di quelle norme e di quelle istituzioni nel momento in cui il primato americano venisse meno e, più in generale, ciò che siamo soliti chiamare Occidente vedesse drasticamente ridimensionata la propria capacità di influenza? L'indebolimento relativo del mondo occidentale, sul piano economico, era già in atto da tempo. Negli ultimi anni si è tanto discusso dello spostamento verso l'Asia del potere economico mondiale. L'incertezza riguardava solo i tempi. La crisi potrebbe accelerare il processo. Gli indizi non mancano. Da un lato, la comunità euro- atlantica vive un momento assai difficile, esemplificato dalle divergenze fra l'Amministrazione americana e i principali governi europei su diagnosi e terapie per affrontare la crisi economica. Al G20 di Aprile, probabilmente, un qualche compromesso verrà trovato (per tenere buoni i mercati) ma la divisione c'è e l'America non dispone di risorse di leadership tali da poter imporre agli europei le proprie soluzioni. Per giunta, gli europei stessi sono divisi: alcuni cercano, all'interno di una formale unità di intenti (come ha osservato André Glucksmann sul Corriere di ieri), di trovare da soli la via alla salvezza. Dall'altro lato, sembra chiaro che se la crisi verrà superata moltissimo si dovrà al cosiddetto G2, alla capacità di Stati Uniti e Cina di coordinare fra loro le misure anticrisi. Superata la crisi, potremmo trovarci con un'America almeno in parte politicamente ridimensionata, un'Europa ulteriormente indebolita e forse anche più divisa, e una grande potenza autoritaria ormai detentrice della co-partnership nel governo degli affari mondiali. Che accadrebbe ai diritti umani? Con una Cina autoritaria che uscisse rafforzata dalla crisi o anche con una Russia semi-autoritaria che consolidasse ulteriormente la sua capacità di ricatto energetico nei confronti dell'Europa, crescerebbe il tasso di ipocrisia a cui dovremo adattarci: Tibet, quale Tibet? Omicidi di Stato in Russia? Ma quando mai? Peraltro, abbiamo già prove abbondanti di cosa succede alle istituzioni dei diritti umani quando l'egemonia occidentale si indebolisce. È un po' ciò che accade a una democrazia quando al suo interno agisce un partito totalitario: esso usa le libertà democratiche per scavare la fossa alla democrazia. Le istituzioni dei diritti umani cambiano segno se l'Occidente ripiega. Accadde alla Conferenza Onu contro il razzismo di Durban del 2001, trasformata in una manifestazione di razzismo antisemita da tirannie islamiche e africane. Sarebbe successo di nuovo nella prossima Conferenza sul razzismo di Ginevra se la reazione americana prima e italiana poi non avessero spinto anche i più riluttanti fra i Paesi europei a imporre cambiamenti radicali del testo che la Conferenza sarà chiamata ad approvare. Per inciso, c'è un altro caso, che ci riguarda da vicino, in cui l'azione dei nemici dei diritti umani si manifesta: quei Giochi del Mediterraneo che si terranno a Pescara fra un paio di mesi e dai quali i fautori arabi della distruzione di Israele ne hanno ottenuto l'esclusione. Il ministro degli esteri Frattini, che ha avuto grandi meriti nell'azione per impedire una Durban 2, sostiene, con rammarico, che non è più possibile fermare la macchina dei giochi. Forse non è più possibile ma sarebbe stato necessario muoversi per tempo. Una luce assai sinistra illuminerà quei giochi dal primo giorno all'ultimo. Contro la convinzione di chi pensa che la storia proceda in modo inesorabile, non c'è ragione per credere che i diritti umani siano destinati ad affermarsi sempre più. Ci sono invece ragioni per credere il contrario. Figli della cultura occidentale, i diritti umani, come la democrazia politica, sono legati al destino dell'Occidente, ne seguono e ne seguiranno la parabola. 23 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La lunga partita a tre Inserito da: Admin - Marzo 30, 2009, 09:15:10 am La lunga partita a tre
di Angelo Panebianco L'identità del nuovo partito, del Popolo della Libertà, è risultata chiaramente definita nel discorso con cui il premier Silvio Berlusconi ha concluso i lavori del congresso. Nonché nel dialogo che Berlusconi ha pubblicamente intavolato con l'altro protagonista dell'evento, il presidente della Camera Gianfranco Fini, a proposito della riforma della Costituzione. Chi pensa che il Popolo della Libertà sia solo una Forza Italia allargata ad An forse sbaglia. C'è una differenza essenziale (sul piano simbolico-identitario ma con inevitabili ricadute politiche) fra Forza Italia dal 1994 in poi e il neonato partito. Forza Italia, così come Berlusconi volle all'inizio e come ancora ribadì nella campagna elettorale del 2001, era (simbolicamente) il partito della «rivoluzione liberista»: meno tasse, meno Stato, più liberalizzazioni, più libertà di impresa. Il Popolo della Libertà si configura invece (sempre simbolicamente, ben inteso) come il partito della «riforma dello Stato»: della Costituzione, della pubblica amministrazione, eccetera. È vero che la riforma dello Stato era comunque un elemento ben presente nell'identità di Forza Italia (Berlusconi parlava già nel 1994 di riforma dello Stato). Ed è ugualmente vero che il suo precedente governo diede vita a una profonda riforma della Costituzione poi bocciata dagli elettori in un referendum. Ma è anche vero il fatto che la riforma della Costituzione e dello Stato veniva allora invocata come strumento per una più efficace realizzazione della promessa rivoluzione liberista. Era quest'ultima la meta finale, era quest'ultima la vera ragion d'essere di Forza Italia (ricordate lo slogan «meno tasse per tutti»?) così come il suo leader la proponeva agli italiani. Non è più così nel Popolo della Libertà. La rivoluzione liberista è andata definitivamente in soffitta. E non solo perché questi tempi di crisi registrano ovunque il prepotente ritorno dello Stato. Il cambiamento era in atto da tempo. La campagna elettorale di Berlusconi nel 2008 era già molto diversa dalle sue campagne precedenti. A fare da apripista, in larga misura, era stato l'attuale ministro del Tesoro Giulio Tremonti che già da tempo proponeva una visione dei rapporti fra Stato e mercato assai lontana dal liberismo (o liberalismo economico) delle origini. Scomparsa la rivoluzione liberista, resta, e diventa costitutiva dell'identità del nuovo partito, la riforma dello Stato. Da mezzo, da strumento, la riforma dello Stato diventa il fine. Non è casuale che Renato Brunetta sia stato il ministro più applaudito dal congresso. Come non è casuale che gran parte dell'intervento di Berlusconi abbia riguardato i temi della Costituzione, della pubblica amministrazione, della scuola, dell'università, dei servizi pubblici in genere. E, naturalmente, l'identificazione del Popolo della Libertà con la riforma dello Stato è rafforzata dal fatto di essere esso il «partito del governo», la forza di sostegno dell'azione quotidiana dell'esecutivo, nonché dei suoi progetti futuri. Si sono sprecati in questi giorni i confronti fra la Dc e il Popolo della Libertà ma si dimentica una differenza simbolica essenziale: la Dc era il gestore/custode della Costituzione e dello Stato, il Popolo della Libertà si presenta come il campione del cambiamento costituzionale e statuale. Né potrebbe essere altrimenti, essendo proprio di tutte le leadership carismatiche proporre radicali cambiamenti, mai la tranquilla gestione dell'esistente. Poi, simboli e identità a parte, c'è, naturalmente, la politica. Osservando la politica si può forse essere scettici sulla possibilità di una «stagione costituente». Richiederebbe, come ha giustamente sostenuto Fini e come Berlusconi (ma con molti distinguo) gli ha concesso, il coinvolgimento dell'opposizione. Ma, nonostante le aperture di Massimo D'Alema, è dubbio che l'opposizione possa essere alla fine disponibile. Se non altro perché, essendo gran parte degli elettori del centrosinistra affezionata, oggi come nel '94, allo schema «Berlusconi uguale autoritarismo», difficilmente il Partito democratico potrebbe mettere la propria firma su una riforma della Costituzione che (come vuole Berlusconi) avesse, tra i suoi elementi qualificanti, il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Più che al rapporto fra maggioranza e opposizione sarà dunque alla dialettica fra Berlusconi, Fini e Bossi che occorrerà guardare per capire se e in che misura le affermazioni di principio e le rivendicazioni identitarie di oggi avranno effetti, e quali, sulla fisionomia dello Stato democratico di domani. 30 marzo 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL NORD TRA PDL E LEGA Inserito da: Admin - Aprile 13, 2009, 09:33:36 am IL NORD TRA PDL E LEGA
Che cosa chiede la classe media di Angelo Panebianco Come confermano le tensioni di questi giorni (decreto sicurezza, questione del referendum sulla legge elettorale) il vero tallone d'Achille dell'altrimenti fortissimo governo Berlusconi è dato dalla rivalità fra la Lega e il Popolo della libertà: una rivalità la cui posta, come si sa, è l'egemonia sul Nord e, in particolare, sul Lombardo- Veneto. In questa lotta per l'egemonia la partita che davvero conta riguarda la questione della rappresentanza politica di un insieme di ceti, sociologicamente assai articolati al loro interno, che un tempo si sarebbero detti «ceti borghesi» o classe media indipendente: piccoli e medi imprenditori, professionisti, commercianti, artigiani. E' quell'insieme di ceti da cui dipende da sempre il dinamismo economico, la ricchezza, il benessere del Lombardo-Veneto. Data l'importanza e il peso economico di queste regioni, inoltre, è evidente che chi riesce ad assumere la rappresentanza piena della classe media indipendente, e a stabilizzare il rapporto con essa, si garantisce una duratura posizione di centralità nel sistema politico italiano. La ragione per cui la partita per l'egemonia su questi ceti si disputa solo fra Popolo della libertà e Lega, dipende dal fatto che le opposizioni, date le loro caratteristiche, non sono in grado di partecipare alla gara. Non lo è l'Udc, un partito che, tradizionalmente, ha i suoi punti di forza nel Mezzogiorno. Non lo è, per ragioni diverse, il Partito democratico. Il paradosso del Partito democratico è che mentre esso dispone al Nord di alcuni eccellenti amministratori, perfettamente in grado di dialogare con successo con la classe media indipendente, non è invece capace di farlo in quanto partito. Data la prevalente incidenza, come risulta dalla geografia sociale del voto del 2008, di lavoratori dipendenti (con una sovrarappresentazione di dipendenti pubblici) e pensionati, fra i suoi elettori, il Partito democratico è condannato, anche per la stessa provenienza sociale dei suoi iscritti e militanti, a farsi soprattutto portavoce degli interessi sociali organizzati dai sindacati, Cgil in testa, a scapito di altri interessi. Il fallimento del progetto veltroniano, del «partito a vocazione maggioritaria », è dipeso anche dal fatto che il Pd non è riuscito a presentarsi, a nord dell'Emilia-Romagna, come un interlocutore credibile per la classe media indipendente. Solo una partita politica a due, dunque. Ma anche una partita resa assai complessa dal fatto che, per ragioni diverse, sia il Popolo della libertà che la Lega incontrano più difficoltà di quante i loro dirigenti siano disposti ad ammettere nell'assicurarsi la piena fiducia di quei ceti, nell'interpretarne le esigenze e nel tutelarne gli interessi. Sottoposti a un regime di elevata fiscalità e penalizzati dalle inefficienze del sistema pubblico, questi ceti chiedono, da sempre, meno tasse e meno burocrazia. Oggi, pressati dalla crisi, chiedono anche sostegni e agevolazioni da parte dello Stato. Dal 1994 in poi il grosso della classe media indipendente del Nord aveva trovato in Berlusconi il proprio campione e in Forza Italia il proprio partito di riferimento. Ma le cose sono cambiate, almeno in parte, con la nascita del Popolo della libertà. Il Popolo della libertà non è Forza Italia: la fusione fra Forza Italia e An lo ha reso di gran lunga il più forte partito nazionale ma ne ha anche meridionalizzato l'insediamento. Il baricentro del Popolo della libertà, a differenza di quello della vecchia Forza Italia, gravita oggi più verso il Sud che verso il Nord. Per la competizione della Lega, certo, ma anche perché le politiche che possono essere proposte con successo al Sud sono diverse da quelle che possono mietere consensi al Nord. Il successo della Lega nelle elezioni del 2008, forse, non sarebbe stato così pronunciato se non si fosse diffusa nell’elettorato la percezione di un relativo spostamento di attenzione da parte dell'allora costituendo Popolo della libertà verso altri interessi geografici e sociali. Come prova il sostanziale abbandono da parte del gruppo dirigente dell'ex Forza Italia degli antichi slogan sulla «liberazione fiscale». La meridionalizzazione non ha spezzato del tutto ma ha certamente incrinato il rapporto fra il Popolo della libertà e la classe media indipendente del Nord. E il recupero, pur possibile, si rivela comunque assai difficile. Porte aperte per la Lega, dunque? E’ la Lega destinata a vincere definitivamente la battaglia per l'egemonia? Così suggeriscono i sondaggi ma dei sondaggi è sempre bene diffidare. Già, perché anche la Lega deve affrontare grossi problemi se vuole diventare permanente punto di riferimento di quei ceti. Prendiamo il caso del federalismo fiscale. La Lega lo ha voluto a tutti i costi, e quale che ne sia il costo. Ma il federalismo fiscale in Italia non può che essere «solidale»: tradotto dal politichese, significa che le regioni che fanno un cattivo uso del denaro raccolto con i trasferimenti (per esempio, mantenendo in piedi sistemi sanitari inefficienti) si vedranno garantito il diritto di continuare a farne un cattivo uso. Nessuno conosce il costo dell'operazione ma si è capito che sarà elevato. In questo caso, sarà la classe media del Nord a pagare il prezzo più alto. La Lega, la cui identità fa tutt'uno con il federalismo fiscale, potrebbe a quel punto essere additata come la vera responsabile degli effetti negativi della riforma. Ce n'è comunque abbastanza per alimentare diffidenze e sospetti verso la Lega. La condizione della classe media indipendente settentrionale è davvero paradossale: da un lato, è corteggiatissima ma, dall'altro, fatica oggi a trovare una sicura rappresentanza delle proprie istanze. La lotta per l'egemonia sul Nord sembra destinata a durare molto a lungo. 12 aprile 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi è presente stavolta ha torto Inserito da: Admin - Aprile 20, 2009, 11:55:42 am CONFERENZA DI GINEVRA
Chi è presente stavolta ha torto di Angelo Panebianco Si apre oggi a Ginevra, sotto i peggiori auspici, la Conferenza delle Nazioni Unite sul razzismo. Gli occidentali sono arrivati a questo appuntamento divisi. Gli Stati Uniti, Israele, il Canada, l’Australia e l'Italia hanno confermato che non parteciperanno non essendoci garanzie che la Conferenza, i cui lavori preparatori sono stati dominati dai Paesi islamici, non si risolva anche questa volta (come accadde nella precedente conferenza di Durban nel 2001) in un atto di accusa contro Israele e contro l'Occidente. Olanda e Germania hanno dato all'ultimo momento forfait. La Gran Bretagna e la Francia, invece, hanno scelto di essere presenti. Così come il Vaticano. Il presidente iraniano Ahmadinejad, già arrivato a Ginevra, è stato ricevuto con tutti gli onori dalle massime autorità elvetiche (il che ha suscitato una dura protesta di Israele) e sarà fra i primi a prendere la parola nella tribuna messagli a disposizione dall'Onu. Molte cose non vanno, evidentemente, se a una Conferenza sul razzismo, che dovrebbe essere espressione dell' impegno delle Nazioni Unite in difesa dei diritti umani, può impunemente prendere la parola un signore che ritiene la Shoah una «invenzione» e presiede un regime che ha al proprio attivo l'assassinio di centinaia di oppositori politici. Comunque vada a finire la Conferenza, tre lezioni si possono già trarre da questa vicenda. La prima è che se l'Occidente si divide, coloro che puntano a usare le istituzioni internazionali in chiave antioccidentale hanno facile gioco. Se ci fosse stato un blocco compatto dei Paesi occidentali a difesa di principi per essi irrinunciabili, quei Paesi islamici che giocano sulle divisioni dell'Occidente avrebbero dovuto tenerne conto, e la stessa Conferenza di Ginevra avrebbe forse avuto un diverso avvio. I Paesi europei che, insieme al Vaticano, hanno scelto comunque di andare alla Conferenza forse riusciranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la loro presenza contribuisca a dare legittimazione internazionale a regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita. La seconda lezione è che i diritti umani non possono essere facilmente separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati. La dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 e le tante altre dichiarazioni, convenzioni e istituzioni promotrici dei diritti umani che l'hanno seguita, erano espressioni della tradizione occidentale. Rispecchiavano il predominio politico-militare, economico e culturale, del mondo occidentale. Nel momento in cui l'Occidente perde peso politico, altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni culturali, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiandone radicalmente l'ispirazione e il significato. È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della libertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religione islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori preparatori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anziché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun denominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, dovrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esserci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trarre dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» politica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia. La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita attenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presidente americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista americana- iraniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadinejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giugno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (paradossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale. 20 aprile 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I due ostacoli alle riforme Inserito da: Admin - Aprile 28, 2009, 05:52:16 pm IL PREMIER FORTE E I SUOI CONTRAPPESI
I due ostacoli alle riforme di Angelo Panebianco Per la prima volta da quando è finita la Prima Repubblica, le celebrazioni del 25 aprile sono avvenute in un clima di concordia nazionale anziché di contrapposizioni. E’ un’ottima cosa in sé ma anche un segnale di incoraggiamento che potrebbe favorire una ripresa del dialogo fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione. Vanno in quel senso anche le parole appena pronunciate dal segretario del Pd, Dario Franceschini, il quale, riconoscendo l’errore commesso quando il centrosinistra approvò da solo la riforma del titolo quinto della Costituzione, chiede al governo di non procedere, in materia costituzionale, a colpi di maggioranza. La ripresa del dialogo sulla riforma costituzionale, del resto, è resa necessaria dalle circostanze. Non è pensabile che si possa introdurre in Italia il federalismo fiscale (una misura che comporterà una radicale trasformazione dello Stato) senza toccare la Costituzione nei suoi rami alti, nel circuito Governo-Parlamento. E certamente, se ripresa del dialogo ci sarà, essa dovrà tenere conto dei paletti che su questo tema ha posto il Capo dello Stato nel suo intervento della scorsa settimana. Conclusa la tornata elettorale delle europee e delle amministrative è probabile che il dialogo riparta. Nonostante la sua necessità, una convergenza maggioranza/opposizione sulla riforma della Costituzione, è tuttavia resa difficile dalla persistenza di due ostacoli. Capire quale sia la natura degli ostacoli forse non aiuterà a superarli ma potrà almeno introdurre un po’ di chiarezza nella discussione. Il primo ostacolo è di ordine culturale. Il secondo è di ordine politico. L’ostacolo culturale riguarda il mancato accordo su cosa possa essere in Italia un «contrappeso ». Posto che la riforma della Costituzione implichi un rafforzamento del potere istituzionale del Capo del governo, quali sono i contrappesi possibili, a garanzia del fatto che un premier troppo forte non finisca per esercitare un potere incontrollato? Che sia necessario rafforzare i poteri istituzionali del premier è sempre stata un’idea condivisa da molti (era condivisa, ad esempio, dai principali schieramenti all’epoca della Bicamerale). Nasce dalla constatazione che la Costituzione del ’48, per ragioni tante volte citate (in primis, il ricordo ancor fresco della dittatura), aveva concesso solo deboli prerogative al Capo del governo. Non ci si faccia ingannare dalla forza che concentra in sé oggi il premier Berlusconi: si tratta di una forza che ha ragioni politiche, non istituzionali. Quando Berlusconi uscirà di scena, se non saranno intervenute modifiche costituzionali, torneremo rapidamente alla regola italiana dei Capi di governo deboli (l’ultimo è stato Romano Prodi). Dunque, serve effettivamente rafforzare i poteri istituzionali del premier. Ma, allora, quali contrappesi bisogna contestualmente predisporre? Il problema può essere così riassunto: deve restare il Parlamento il principale contrappeso oppure occorre accettare un depotenziamento del ruolo del Parlamento e fare affidamento su altri contrappesi (il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale, le regioni)? A me pare che se si vuole rafforzare i poteri istituzionali del premier occorra puntare sulla seconda alternativa. Non è possibile accrescere i poteri del premier lasciando inalterati quelli del Parlamento. Il solo caso noto di forte capo dell'esecutivo abbinato a un forte Parlamento è quello del presidenzialismo statunitense. Ma non solo il presidenzialismo non è all'ordine del giorno in Italia. Esso è anche di difficile esportabilità (come provano i tanti fallimenti sperimentati dai presidenzialismi latinoamericani). Il semipresidenzialismo francese (quando il Presidente controlla la maggioranza parlamentare), il governo del premier britannico (finché regge l'assetto bipartitico) implicano invece che il capo dell'esecutivo, presidente o premier, domini, oltre che l'esecutivo, anche il Parlamento. Il Parlamento non è, in quei Paesi, un vero contrappeso. Diverso è il caso del Cancellierato tedesco ma solo perché il federalismo, tramite la Camera alta, contribuisce a limitare il potere del Cancelliere. Comunque sia, è questo l'ostacolo che dovrebbe essere superato per ottenere una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione: occorre un accordo che identifichi, in modo realistico, a quali contrappesi affidare il bilanciamento di un rafforzato potere esecutivo. Un accordo richiederebbe sia il riconoscimento da parte del centrodestra che i contrappesi sono comunque necessari sia l'abbandono da parte del centrosinistra (dove questa idea è tradizionalmente più radicata) della convinzione che il Parlamento debba restare un forte contrappeso. Il secondo ostacolo è di ordine politico-strutturale. Nasce dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra. Il centrodestra è dotato attualmente di una forte leadership. Il centrosinistra no. E' naturale, quindi, che il centrodestra sia più interessato del centrosinistra a una riforma costituzionale che rafforzi il Capo del governo. Ciò, però, non dipende solo dal fatto che il centrosinistra è oggi all'opposizione e, comprensibilmente, non vuole dare ulteriori vantaggi a Berlusconi. Data la sua incapacità di dotarsi di una leadership forte, il centrosinistra avrebbe problemi ad accrescere il potere dell'esecutivo anche se fosse maggioranza: la struttura oligarchica del centrosinistra frenerebbe il rafforzamento del potere del premier anche in quel caso (se il premier diventa troppo forte, gli oligarchi perdono potere). L'ostacolo rappresentato dall’asimmetria fra centrodestra e centrosinistra mi sembra più importante dell'ostacolo culturale. Gli orientamenti culturali hanno certamente una loro forza autonoma ma, alla lunga, finiscono quasi sempre per piegarsi al gioco delle convenienze e degli interessi. Ancorché necessaria, una convergenza fra maggioranza e opposizione sulla riforma della Costituzione sembra poco probabile finché permarrà quella cruciale asimmetria. 28 aprile 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La sfida crudele di un regime Inserito da: Admin - Maggio 03, 2009, 11:40:32 am DELARA GIUSTIZIATA IN IRAN
La sfida crudele di un regime di Angelo Panebianco In Iran, una giovane pittrice, Delara Darabi, è stata giustiziata per omicidio dopo un processo che Amnesty International ha giudicato non equo, non rispettoso dei diritti della difesa. Amnesty non è l’oracolo e la valutazione sui procedimenti giudiziari che comportano pene capitali è sempre controversa. Ma la notizia segue di poche settimane quella sulla condanna a otto anni «per spionaggio» alla giornalista americana-iraniana Roxana Saberi e contribuisce a ribadire la fosca reputazione del regime. Non più fosca di quella di altri regimi autoritari, naturalmente. Ma con la differenza che l’Iran è una grande potenza regionale le cui scelte in gran parte decideranno se ci sarà pace o guerra in Medio Oriente nei prossimi anni. Sfrondata dagli usuali toni retorici, la questione della violazione sistematica dei diritti umani incide in due modi sui rapporti internazionali. Da un lato, radicalizza la distanza, culturale e psicologica, fra i regimi democratici e i regimi autoritari. Dall’altro, in caso di gravi contenziosi geo-politici, rende difficile trovare forme di risoluzione pacifica delle controversie: nessuno può fidarsi di nessuno. Ad esempio, nel caso dell’Iran e della sua volontà di diventare una potenza nucleare, a fare paura non è la bomba nucleare iraniana in sé. A fare paura è la bomba nucleare in mano a un regime come quello degli ayatollah. Contro l’opinione di coloro che mettono sullo stesso piano i regimi autoritari e quelli democratici ricordando le magagne di questi ultimi, si può osservare che la differenza resta comunque netta. Non è che i primi violino i diritti umani e i secondi no. La differenza è che nel caso dei regimi autoritari la violazione di quei diritti è la norma, rispecchia la quotidianità dei rapporti fra potere politico e sudditi, mentre nel caso dei regimi democratici è l’eccezione. Quando una dura politica repressiva all’interno si sposa, come in Iran, a una politica estera «rivoluzionaria », a una proiezione aggressiva verso l’esterno (programma nucleare, appoggio ad Hamas e Hezbollah, aspirazione all’egemonia regionale, minacce a Israele, radicale contrapposizione ideologica all’Occidente), i margini di manovra per chi aspira a instaurare un modus vivendi con la potenza in questione diventano quasi nulli. Persino quando ci sarebbe, come c’è nei confronti dell’Iran, l’interesse a trovare un accomodamento: contro l’Iran sarà infatti difficile stabilizzare l’Iraq, trovare soluzioni al conflitto israeliano-palestinese, concentrare ogni sforzo nella guerra afghano-pachistana. Né il pugno chiuso di Bush né (finora) la mano tesa di Obama hanno prodotto risultati. L’Iran non dà segnali di voler normalizzare i suoi rapporti con il resto del mondo. Sfortunatamente, la normalizzazione non può esserci, e non ci sarà, senza significativi cambiamenti del regime. Quanto meno, senza cambiamenti che segnalino il passaggio dalla fase rivoluzionaria (iniziata con Khomeini nel 1979 e mai terminata) a quella post-rivoluzionaria. Il giorno in cui avvenisse quel passaggio, l’inaugurazione di una politica estera più cauta e pragmatica potrebbe accompagnarsi alla decisione di migliorare l’immagine internazionale del regime. Ne conseguirebbe una minore propensione a fare uso del pugno di ferro nei confronti degli iraniani. Al momento, però, di tutto questo non c’è traccia alcuna. 03 maggio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un dialogo senza ambiguità Inserito da: Admin - Maggio 13, 2009, 11:15:26 am IL PAPA E L’ISLAM, LA FORZA DI UNA SCELTA
Un dialogo senza ambiguità Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania. Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente ancora molti momenti salienti ma un primo bilancio è reso possibile dall’accoglienza che gli è stata fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivocabili, che egli ha già pronunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l'ebraismo e l'islam. Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza. Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi come mille anni fa, il terreno di incontro/scontro fra le tre religioni monoteiste. E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensano, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi elementi di conflitto che minaccino oggi la stabilità mondiale. E' di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto preceduto da una lunga scia di polemiche e incomprensioni che hanno fin qui segnato i suoi rapporti sia con l'ebraismo che con l'islam. Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l'occasione per ribadire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte occasioni. Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesimo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vincolo che li unisce. Forse non tutte le incomprensioni spariranno di colpo ma sono state poste le basi per un loro superamento. Benedetto XVI ha parlato così agli ebrei ma anche, contestualmente, ai cristiani. Ha voluto dire agli uni e agli altri che anche gli ultimi detriti sopravvissuti dell'antico antigiudaismo cristiano devono essere spazzati via senza indugio dalle coscienze. Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presente, vale più di mille riconoscimenti diplomatici. E' un'implicita affermazione del diritto all'esistenza dello Stato di Israele contro coloro che vorrebbero cancellarlo. Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l'islam. E non solo a causa degli eventi che seguirono il discorso di Ratisbona. E' più delicato anche perché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stesso, la sfera religiosa e quella mondana. Una operazione complessa che nasce dal riconoscimento, più volte ribadito da Benedetto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l'islam è di natura diversa da quello che lega il cristianesimo e l'ebraismo. Quella relazione speciale che c'è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebraismo, non c'è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam. Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, all’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e anche in occasione del viaggio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulmano, in modo da renderlo davvero proficuo sgombrando il campo dai malintesi. Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico). Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein. E' un modo, l'unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte. In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compreso dagli islamici che lo hanno accolto. Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi. Benedetto XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza. Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristiani del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali. La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circolano e predicano in Occidente. Ed è un bene che sia così. Il viaggio del Papa può aiutare l'azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convivenza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell'uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell'uso porta sempre con sé. Angelo Panebianco 11 maggio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il paradosso del nuovo Fini Inserito da: Admin - Maggio 25, 2009, 11:02:34 am Editoriali
LE MOSSE DI UN LEADER Il paradosso del nuovo Fini Il presidente della Camera Gianfranco Fini sta vivendo la fase forse più paradossale della sua carriera politica. Nel corso del tempo egli è andato sviluppando idee, sicuramente frutto di una sincera, e forse anche sofferta, maturazione personale, che oggi lo portano a differenziarsi, talvolta anche aspramente, su molti temi, dal governo e dalla maggioranza di cui fa parte. Si tratti dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina, della questione della laicità e dei rapporti fra Stato e Chiesa, del caso Englaro o del ruolo del Parlamento, le prese di distanza di Fini dal governo ormai non si contano. Così facendo Fini ha finito per trovarsi nella curiosa situazione di essere applaudito soprattutto da quella parte del Paese che, riconoscendosi nell’opposizione, non lo voterebbe mai. Fini è un politico navigato e dunque è lecito chiedersi (anche se è difficile rispondersi): a quali elettori si rivolge, quale parte del Paese aspira a rappresentare? La «buona politica» è, e sempre deve essere, una ben dosata combinazione di convinzione e di convenienza. Una politica senza convinzione e tutta convenienza è una politica opportunistica: è l’acqua in cui sguazzano i piccoli politici, i trasformisti di professione. Ma nemmeno una politica fatta solo di convinzione è una buona politica. Essa facilmente si riduce a testimonianza morale, a predica inutile. Il buon politico deve essere un uomo di convinzioni, comunque maturate, ma anche dotato di quel forte istinto del potere che gli permetta di costruirsi una strategia in grado di mobilitare consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Le idee che oggi Fini difende sono certamente frutto di una lunga maturazione. Ad esempio, risale ormai a diversi anni fa la sua proposta (che fece infuriare il partito di cui era allora il leader, Alleanza nazionale) di concedere il voto agli immigrati. Ciò nonostante, appare assai grande la distanza fra il Fini che oggi manifesta le sue perplessità sui «respingimenti » e il Fini che ieri tuonava contro il governo Prodi, colpevole a suo giudizio di debolezza nella lotta contro l’immigrazione clandestina. La sua stessa difesa, contro l’irruenza del premier, del ruolo e delle prerogative del Parlamento, sembra qualcosa di più di una semplice difesa d’ufficio da parte del presidente della Camera. Sembra anche una forte presa di distanza dalle posizioni presidenzialiste (come tali, in Italia, sempre innervate di un certo antiparlamentarismo) che lo stesso Fini sosteneva fino a poco tempo addietro. Si potrebbe anche guardare con simpatia, e con una certa ammirazione, un leader politico che ha avuto il coraggio di rimettersi in gioco e di rivedere criticamente tante sue posizioni precedenti. Ma resta la domanda: a quale strategia si lega questa evoluzione? Esistono nel Paese tanti potenziali elettori di centrodestra disposti a seguire Fini (contro Berlusconi e contro Bossi), attratti dalle sue idee su ciò che dovrebbe essere una destra moderna? Se quei tanti elettori ci sono, Fini avrà avuto ragione e la sua risulterà una «buona politica » (una giusta combinazione di convinzione e convenienza). Ma se non ci sono, allora anche i convinti applausi che egli oggi riceve dai giornali d’opposizione non gli serviranno a nulla. Poiché politica e testimonianza morale sono incompatibili. di ANGELO PANEBIANCO 24 maggio 2009(ultima modifica: 25 maggio 2009) da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Europa dimenticata Inserito da: Admin - Giugno 07, 2009, 07:51:46 pm Il discorso di Barack
Europa dimenticata E’ un’ovvietà il fatto che i discorsi politici, come qualunque altro discorso, assumano significati diversi per gli ascoltatori in ragione delle differenti caratteristiche e identità degli ascoltatori stessi. Apparentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discorso può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati diversi col passar del tempo, in ragione degli eventi verificatisi dopo che quel discorso è stato pronunciato. Tutti nel mondo (sia quelli che lo hanno approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi novità contenute nel discorso pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio completamente nuovo (una nuova chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicuramente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scontro di civiltà». Ed è la stessa ragione per cui è piaciuto a tanti europei, nonché a tutta quella parte dell’America che ha votato per Obama e vuole lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le tensioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi politici assumono sempre significati diversi a seconda dell’identità degli ascoltatori, è anche possibile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza dell’America da parte di altri settori dell’universo islamico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizionalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideologica all’Occidente, e all’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetrazione e di diffusione fra i musulmani. A quel mondo, infatti, non può sfuggire che, se Obama rappresenta, come sicuramente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui disponeva in precedenza, che avrà forse più difficoltà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volontà e le proprie soluzioni. È possibile dunque che nei prossimi mesi si manifesti una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe rispondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di debolezza da sfruttare cinicamente. E, probabilmente, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non seguiranno alle parole. Il discorso pronunciato da Obama, fra qualche tempo, verrà riletto in un modo o in un altro a seconda di ciò che l’Amministrazione americana sarà stata in grado di fare. Obama si è assunto, certo consapevolmente, col suo discorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mondo islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella conduzione di quelle che considera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachistano). Deve, e questo è persino più difficile, rilanciare il processo di pace israeliano-palestinese. Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi come mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloccare dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a capo del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scommessa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politica pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è così, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica radicale dello status quo mediorientale, allora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Oriente entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre. C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragione, che Obama è, in virtù delle sue esperienze e della sua formazione, un multiculturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la categoria di Occidente e, quindi, anche il rapporto con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto constatare anche ieri in Francia durante le celebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente francese Sarkozy, centrato sui legami fra Francia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rinsaldare, Obama ha risposto con un messaggio, come sempre retoricamente abile, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiaggia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti. Angelo Panebianco 07 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La svolta delle città Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 06:16:33 pm La svolta delle città
Per aiutare i lettori ad orientarsi, di fronte ai risultati di questa tornata di elezioni, occorre prima di tutto rammentare che europee e amministrative sono fra loro diversissime. Dal punto di vista della politica interna italiana (tralascio qui gli aspetti che riguardano la composizione del Parlamento europeo) le elezioni europee sono un evento più mediatico che di sostanza. Hanno a che fare con questioni di «immagine», non con gli equilibri politici. In termini di immagine è vero che Berlusconi non ha raggiunto l’obiettivo dello «sfondamento» elettorale. Però, attenzione a non scambiare ciò per l'inizio di un declino politico. La verità è che il Popolo della Libertà, persino in elezioni «bizzarre» e anomale come quelle europee (con la loro alta astensione), mantiene sostanzialmente i suoi consensi e supera largamente il centrosinistra. E ciò accade nonostante si tratti del principale partito di governo che, in quanto tale, opera in una situazione di grave crisi economica. E che deve fronteggiare l’ascesa della Lega. Il partito di Berlusconi, in realtà, segue un trend che è generale in Europa e che vede le forze di centrodestra prevalere nettamente su quelle di centrosinistra. La conferma viene dal voto più importante ai fini della dinamica politica interna, le amministrative. Qui si sta realizzando un netto successo del centrodestra e del suo leader Berlusconi, ottenuto in elezioni che tradizionalmente avvantaggiavano il centrosinistra. Persino nella «rossa » Firenze il Pd riesce a strappare solo un ballottaggio al Comune. Nelle amministrative, molto più che nelle europee, emergono le gravi difficoltà in cui si dibatte la principale forza di opposizione, il Partito democratico. Esso tiene a fatica nelle storiche aree del vecchio insediamento, Emilia Romagna e Toscana. Ma, per fare altri esempi importanti, viene sostanzialmente espulso definitivamente dalla Lombardia, dove perde anche storiche roccaforti come Pavia e Cremona e subisce, a Milano, il sorpasso del candidato del centrodestra Podestà sul presidente uscente della Provincia Penati. È nettamente distaccato dal centrodestra in Veneto. Arretra in Campania e perde definitivamente la Provincia di Napoli. Cala anche in altre aree di suo tradizionale insediamento come Umbria, Marche, Basilicata. Politicamente poi, la croce che il Partito democratico si è portato addosso nell’ultimo anno, Di Pietro, risulta ulteriormente appesantita. A destra, i forti successi della Lega al Nord in Province e Comuni accrescono la spinta alla competizione fra le due forze di governo, Lega e Popolo della Libertà. Si rafforzano le tendenze emerse nelle elezioni politiche del 2008. Il vero luogo della competizione è, al momento, tutto interno all’area di governo. E la cosa è preoccupante. A lungo andare, non fa bene alla democrazia la presenza di una opposizione democratica debolissima, in crisi di idee e di identità e che, troppo spesso, non sa trovare toni e argomenti che la rendano una plausibile alternativa di governo. Angelo Panebianco 09 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Referendum, antidoto ai troppi partiti Inserito da: Admin - Giugno 13, 2009, 09:58:19 pm Sistema elettorale
Referendum, antidoto ai troppi partiti Gli italiani saranno chiamati il 21 giugno a votare per un referendum che propone di modificare la legge elettorale in vigore. Come risulta dai sondaggi, tanti italiani sono ancora disinformati, non sanno nulla dei quesiti referendari. E, inoltre, una gran parte delle forze politiche li incita alla astensione. Anche in queste sfavorevoli circostanze è però giusto continuare a discuterne. La mia prima osservazione è che diversi critici del referendum hanno avanzato una obiezione che non sembra leale. Hanno sostenuto che quello che uscirebbe da una vittoria dei «sì» nel referendum non sarebbe comunque un buon sistema elettorale. L'obiezione non mi pare leale perché in Italia non esiste l'istituto del referendum propositivo. Non si può dunque sottoporre al voto popolare il sistema elettorale che si preferisce (io, per esempio, preferisco di gran lunga i sistemi elettorali maggioritari, con collegi uninominali). Col referendum abrogativo si può solo incidere su leggi esistenti. Il referendum tenta semplicemente di migliorare quella che in tanti giudichiamo una pessima legge elettorale. Non può fare nulla di più. Per onestà nei confronti dei lettori devo precisare che mentre scrivo questo articolo mi trovo in flagrante conflitto di interessi. Faccio parte del comitato promotore del referendum e certamente intendo difendere, insieme al referendum, la coerenza e la validità della mia scelta. Che cosa intendevano (intendevamo) fare i proponenti del referendum, soprattutto con il quesito più importante, quello che chiede di spostare dalla coalizione di partiti alla singola lista il premio di maggioranza? Intendevano (intendevamo) contrastare l'aspetto più grave e pericoloso della legge elettorale in vigore: il fatto che essa non contiene alcun anticorpo contro la frammentazione partitica (e ricordo che fra tutti i pericoli che può correre una democrazia quelli che vengono da un eccesso di frammentazione partitica sono di gran lunga i più gravi). Ma, si obietterà: alle ultime elezioni, nonostante la legge in vigore, la frammentazione partitica è stata drasticamente ridotta. E’ vero ma la causa è stata esclusivamente una decisione politica: la scelta di Walter Veltroni di sbarazzarsi dell'antica coalizione di centrosinistra e di puntare sul «partito a vocazione maggioritaria». Fu quella decisione che, ricompattando la sinistra (anche se non del tutto: Veltroni commise poi il gravissimo errore di allearsi con Di Pietro), obbligò anche la destra a un analogo ricompattamento (con la nascita del Popolo della Libertà). Ma ora Veltroni è fuori gioco e anche il partito a vocazione maggioritaria è stato messo in soffitta. Alle prossime elezioni il Partito democratico tornerà, presumibilmente, a una più tradizionale politica delle alleanze (ed è plausibile che, per diretta conseguenza, si manifestino tendenze disgregative anche a destra). La legge elettorale in vigore tornerà allora a sviluppare le sue letali tossine, alimenterà di nuovo la frammentazione partitica. Se non si fa qualcosa (e l'unico «qualcosa » possibile è, al momento, il referendum) il sistema politico italiano sarà di nuovo tra pochi anni, come è stato negli ultimi decenni (fino al 2008), il più frammentato dell'Europa occidentale. Come sempre quando si ragiona di sistemi elettorali le critiche più serie e argomentate alla proposta referendaria sono state avanzate da Giovanni Sartori. Sartori fa due obiezioni. La prima: con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum un partito che raggiungesse, poniamo, solo il trenta per cento dei voti potrebbe aggiudicarsi il premio di maggioranza conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. La seconda: poiché il premio di maggioranza va alla lista più votata la legge verrebbe aggirata con la formazione di liste-arlecchino formate da tanti partiti che si metterebbero insieme solo per conquistare il premio di maggioranza e si dividerebbero di nuovo il giorno dopo le elezioni. Si tratta di obiezioni serie ma mi permetto di fare due osservazioni. La prima è che, certamente, è in teoria possibile che un partito con solo il trenta per cento dei voti conquisti il premio di maggioranza e quindi la maggioranza assoluta dei seggi. Però, questo è vero anche nel caso dei sistemi maggioritari: nulla vieta, in teoria, che un partito si aggiudichi la maggioranza dei collegi (e quindi la maggioranza dei seggi) ottenendo però, su scala nazionale, un numero di voti limitato. In un sistema maggioritario ciò può accadere se nei collegi sono presenti molti partiti. Più in generale, nei sistemi maggioritari, è quasi sempre la minoranza elettorale più forte che si aggiudica la maggioranza dei seggi. In pratica, però, non credo che se si votasse con il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum correremmo questo rischio: gli elettori sarebbero portati a concentrare i loro voti sulle due formazioni più forti (è l'effetto del cosiddetto «voto utile» o strategico). Mi azzardo addirittura a fare una previsione: se si votasse con il sistema elettorale proposto dal referendum ci sarebbe un duello all'ultimo voto fra Popolo della Libertà e Partito democratico, e il partito che fra i due uscisse perdente supererebbe comunque la soglia del quaranta per cento dei voti (per effetto, appunto, del «voto utile»). E vengo al problema delle liste-arlecchino. Sartori ha ragione: molti piccoli partiti si aggregherebbero al carro dei due partiti più grandi. Però, la loro libertà d'azione dopo il voto verrebbe compromessa. Una cosa, per un piccolo partito, è disporre di un proprio simbolo e di autonomo finanziamento pubblico. Una cosa completamente diversa è rinunciare al simbolo (e, con esso, a un rapporto diretto, non mediato, col proprio elettorato) e dover per giunta fare i conti, per la spartizione dei finanziamenti, con il gruppo dirigente del grande partito a cui ci si è aggregati. Non credo che, dopo le elezioni, quei piccoli partiti disporrebbero ancora di molta libertà d'azione. Se così non fosse, d'altra parte, perché mai la Lega dovrebbe essere, come è, così ferocemente contraria al referendum? E perché mai Di Pietro (oggi politicamente molto più forte rispetto a quando vennero raccolte le firme del referendum) si sarebbe ora schierato per il «no» dopo avere sostenuto per tanto tempo il «sì»? I nemici di Berlusconi temono che, con il nuovo sistema, egli possa rafforzarsi ulteriormente. Osservo che è sbagliato giudicare i sistemi elettorali alla luce di preoccupazioni politiche contingenti. Prima o poi, Berlusconi dovrà comunque lasciare il campo. Invece, il rischio, esasperato dall'attuale legge elettorale, di un'eccessiva frammentazione partitica peserà a lungo su di noi. Se non riusciremo, con il referendum, ad aiutare la classe politica a porvi rimedio. Angelo Panebianco 13 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La prudenza e il dilemma degli Usa Inserito da: Admin - Giugno 23, 2009, 09:40:00 am La prudenza e il dilemma degli Usa
IL DILEMMA DELL’OCCIDENTE Ciò che è accaduto ha tutta l'aria di essere un salto di qualità irreversibile nel conflitto che oppone l'ala dura del regime iraniano ai riformisti. La manifestazione non autorizzata degli oppositori è stata affrontata con la violenza dagli apparati repressivi. Un attentatore kamikaze si è contemporaneamente fatto esplodere presso il mausoleo di Khomeini (e si tratta, come ognun capisce, di un fatto di grande impatto simbolico). Soprattutto, Mousavi, il candidato sconfitto alle elezioni per la Presidenza, si è ribellato apertamente alla Guida Suprema Khamenei, è sceso in piazza con gli oppositori, si è dichiarato pronto a morire e ha chiesto l'azzeramento delle elezioni («i brogli erano pianificati da mesi» ha detto). Non sappiamo come finirà questa prova di forza, anche se al momento le carte migliori (gli apparati della forza, le milizie armate) sembrano essere saldamente nelle mani di Khamenei e di Ahmadinejad. Sappiamo però che il mondo occidentale deve ora fronteggiare un terribile dilemma. Prima che arrivassero le nuove notizie sulla prova di forza in atto a Teheran, le difficoltà di fronte a cui si trova l'Occidente erano ben illustrate da una apparente contraddizione. Nello stesso momento in cui l'Unione Europea (con fermezza) e l'Amministrazione Obama (con circospezione) condannavano i brogli elettorali e le violenze del regime contro gli oppositori, l'Italia confermava di avere invitato, in accordo con gli Stati Uniti, il ministro degli Esteri iraniano Mottaki a partecipare alla conferenza sull'Afghanistan che si terrà a Trieste, in occasione del G-8, dal 25 al 27 giugno. Cinica realpolitik? No, la contraddizione era figlia di un dilemma autentico. Da un lato, c'è infatti la necessità di assicurarsi la collaborazione di una potenza regionale del peso dell'Iran per venire a capo della guerra in Afghanistan (e per stabilizzare l'Iraq). Dall'altro lato, c'è il fondato timore che l'evoluzione in atto in Iran, la scelta della Guida Suprema Khamenei di sostenere Ahmadinejad, e la possibile, definitiva, sconfitta delle componenti riformiste, possano irrigidire ulteriormente le posizioni internazionali del regime. Con gravissimi rischi per la pace. Non c'è, al momento, molto che dall'esterno si possa fare per favorire un' evoluzione della politica di Teheran che sia coerente con le aspirazioni di libertà di tanti iraniani e foriera di cambiamenti nella politica estera del regime. Anzi, come è illustrato dal dibattito americano (di cui il New York Times ha dato ieri un ampio resoconto) è anche possibile che un aperto sostegno occidentale, soprattutto americano, agli oppositori di Ahmadinejad e di Khamenei possa risultare controproducente, possa essere proprio ciò che serve all'ala dura del regime per gridare al complotto internazionale e sbarazzarsi con la violenza degli oppositori. Ciò spiegherebbe, secondo questa interpretazione, la cautela diplomatica fin qui tenuta da Obama nonostante la netta presa di posizione, quasi unanime, del Congresso a favore degli oppositori scesi in piazza a Teheran. Se la situazione precipita è difficile che Obama possa mantenere a lungo la posizione prudente assunta. Se, come allo stato degli atti sembra probabile (ma c'è sempre, in questi frangenti, la possibilità di svolte repentine e imprevedibili), il regolamento di conti in atto mettesse completamente fuori gioco le componenti più moderate del regime, la politica estera iraniana diventerebbe ancora più pericolosa di come oggi è. Finora, gli estremismi di Ahmadinejad erano, a detta degli specialisti di politica iraniana, parzialmente frenati dalla necessità, per Khamenei, di tenere conto dell'equilibrio delle forze fra le diverse componenti del regime. Rotto quell'equilibrio, spostato definitivamente il baricentro verso l'ala dura, sarebbe difficile immaginare una politica estera iraniana meno aggressiva. Tanto più che i fallimenti economici interni richiederebbero, per essere nascosti, una escalation della conflittualità con il mondo esterno. Con ricadute sul conflitto israeliano-palestinese, sull'Iraq e su altri scacchieri. Nel suo discorso in Egitto di due settimane fa Obama ha proposto al mondo islamico di voltare pagina. Una parte di quel mondo ha accolto con favore l'invito. Ma un'altra parte no. Quel discorso, pur innovativo, aveva un punto debole. Che succede se gli «uomini di buona volontà» delle diverse civiltà e religioni non riescono a tenere sotto controllo i fanatici e i propagatori d'odio? L'universo politico (come scriveva il giurista Carl Schmitt) è in realtà un «pluriverso»: oltre che per le possibilità di compromesso lascia sempre spazio per differenze e odi irriducibili. Mentre si offre il dialogo occorre disporre anche di strategie alternative. E' il tema di una discussione che appare assai serrata all'interno dell'Amministrazione americana. Se in Iran la situazione precipita, se la fazione di Ahmadinejad, sostenuta da Khamenei, si sbarazza, anche fisicamente, degli oppositori, Obama dovrà presto dotarsi di qualche carta di riserva. Angelo Panebianco 21 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Anatomia di una crisi Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:11:33 am LA CRISI DELLA SINISTRA ITALIANA
Il ventennio di rimozioni Anatomia di una crisi Da diversi mesi il tema rimbalza da un Paese all' altro («Le Monde », ad esempio, vi ha dedicato due dense pagine di analisi e commenti qualche giorno fa) e le elezioni europee, con i pessimi risultati conseguiti dai partiti socialisti e affini, hanno reso ancora più accesa la discussione. Non c'è praticamente forza di sinistra in Europa che non si ponga una domanda: come mai, in tempi di massiccio ritorno dello Stato nella gestione dell' economia, di critica al mercato, di indebolimento della fiducia liberale nella capacità di autoregolazione dei mercati, i partiti socialisti (e affini) non riescono ad approfittarne? Non dovrebbero essere proprio i partiti socialisti, antichi alfieri dell'intervento dello Stato e dell' uso della spesa pubblica per fini di ridistribuzione della ricchezza, i naturali punti di riferimento politico degli elettori in questo tempo di crisi? Il problema è assai complesso e richiede risposte (o tentativi di risposta) a più livelli. Bisogna tener conto della tendenza generalema anche delle specifiche situazioni nazionali. Sul piano generale si può forse sostenere (come chi scrive ha fatto sul «Corriere Magazine» un paio di settimane fa) che i partiti socialisti non possano approfittare della situazione creata dalla crisi economico-finanziaria perché non esistono più, in Europa, le condizioni sociali e politico-culturali che favorirono i loro successi nel XX secolo. Nelle attuali società individualiste gli antichi ideali di «giustizia sociale» e di uguaglianza a cui i partiti socialisti finalizzavano l'intervento dello Stato e l'espansione dei sistemi di welfare state, non hanno più corso. In tempi di crisi, certamente, si invoca l'intervento dello Stato ma per ragioni squisitamente pragmatiche (bloccare la disoccupazione, tamponare gli effetti sociali perversi della crisi). Nelle ricche società europee di oggi a nessuno, o quasi, importa più nulla di quella «società degli uguali» che i partiti socialisti offrivano come meta degna di essere perseguita in tempi di assai più rigide disuguaglianze di classe. E le destre sono oggi sufficientemente pragmatiche e spregiudicate per gestire l'intervento dello Stato senza bisogno di caricarlo di ingombranti significati ideologici. Le risposte generali, però, corrono sempre il rischio di essere generiche. Bisogna per forza guardare anche alle specificità dei casi. Ad esempio, i laburisti britannici (con la rivoluzione di Blair) e i socialisti spagnoli si erano già liberati dei miti e delle ideologie otto-novecentesche. Oggi pagano soprattutto il fatto di avere governato a lungo nella fase che ha preceduto lo scoppio della crisi. Neppure per capire i guai della sinistra italiana, del Partito democratico, bastano le risposte generali. Anche qui bisogna tener conto delle specificità. La principale delle quali è che la sinistra italiana paga il conto, oltre che delle difficoltà che l'accomunano ai partiti socialisti europei, anche di un ventennio di rimozioni e trasformismi. La verità è che se Berlusconi non fosse esistito, se non fosse entrato in politica nel 1994, la sinistra italiana se lo sarebbe dovuto inventare. Da quindici anni Berlusconi, con la sua presenza, aiuta la sinistra a non fare i conti con se stessa, con il vuoto in cui è precipitata dopo il crollo del muro di Berlino. In tutto questo tempo, Berlusconi è servito alla sinistra italiana per non guardarsi allo specchio. Se lo avesse fatto avrebbe scoperto che lo specchio non è in grado di riflettere alcuna immagine. Checché se ne dica, un tentativo, uno solo, di costruire una nuova identità c'è stato. Lo ha fatto Walter Veltroni. Il suo discorso del Lingotto era più o meno questo. Ma ci sono limiti a ciò che un leader può fare. Nel caso specifico, c'erano anche i limiti del leader. Incapacità di fare i conti col passato, rimozioni e trasformismi. Di che altro sarebbero il sintomo, ad esempio, gli inopinati omaggi che gli uni o gli altri continuano di tanto in tanto a tributare a Enrico Berlinguer, ossia all'ultimo dei grandi capi del comunismo italiano? Come si è chiesto Giovanni Belardelli sul «Corriere » di ieri, a chi e a che serve Berlinguer nella società attuale? O, ancora, era davvero pensabile che la sinistra (da Mani Pulite fino alla recente alleanza con Di Pietro) potesse trovare una identità politica di ricambio facendosi megafono dell'Associazione Nazionale Magistrati? O che potesse diventare competitiva con la destra, soprattutto al Nord, senza contrastare apertamente le correnti sindacali più conservatrici in materia di legislazione del lavoro, di scuola o di pubblica amministrazione? O che potesse acquisire credibilità a fronte del più esplosivo fenomeno del nostro tempo, l'immigrazione, innalzando solo il vessillo della «solidarietà »? Non è un caso che anche molti dei cosiddetti «giovani », più o meno emergenti, del Pd, per lo meno a una prima occhiata, sembrino vecchi quanto i loro nonni. La migliore osservazione sul Partito democratico l'ha fatta Claudio Velardi, ex collaboratore di Massimo D'Alema: al Pd, dice Velardi, serve un «pazzo», nell'accezione positiva del termine, uno che si prenda il partito sparando sul quartier generale. Un leader che unisca estro, solidità culturale e credibilità. E la caparbietà necessaria per dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione culturale e politica. Senza farsi condizionare troppo dai vecchi oligarchi del partito o da centri di potere esterni. Angelo Panebianco 30 giugno 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I veri ostacoli delle riforme Inserito da: Admin - Luglio 06, 2009, 09:44:10 am LE RESISTENZE SOCIALI E TERRITORIALI
I veri ostacoli delle riforme Forse bisognerebbe scavare più a fondo di quanto in genere non si faccia quando ci si interroga sul perché sia così difficile per i governi italiani, di destra o di sinistra, fare riforme incisive a favore della concorrenza. Quelle mancate riforme, dopotutto, contribuiscono a spiegare due decenni di bassa crescita (in un’epoca di grande espansione dell’economia internazionale) e sappiamo che, se non si faranno, anche la ripresa potrebbe risultare difficile e stentata una volta superata la crisi mondiale. Ma, forse, quelle riforme sono rese estremamente difficili dal fatto che, se attuate, potrebbero destabilizzare la democrazia italiana e, persino, mettere a rischio la stessa unità del Paese. Insomma, c’è probabilmente qualcosa di più, dietro alle riforme mancate, della resistenza delle solite lobbies. Sul Corriere del 28 giugno scorso Mario Monti ha elencato i settori che dovrebbero essere interessati dall’azione riformista: «... la riduzione strutturale della spesa pubblica corrente, anche attraverso la riforma delle pensioni, la formazione del capitale umano, le infrastrutture, una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite, la liberalizzazione dei servizi e specialmente dei servizi pubblici locali». Effettivamente, sappiamo che sono quelle le riforme che servirebbero per dare un nuovo slancio all’economia italiana e metterla in condizione di sfruttare al meglio le occasioni che le si presenteranno quando la crisi mondiale finirà. Ciò che invece non sappiamo, ciò che è più difficile prevedere, è quali sconvolgimenti sociali potrebbero derivare da radicali interventi riformatori in tutti quei settori. Nonostante la tradizionale turbolenza della nostra vita politica, la società italiana, nel corso dei decenni, sembra essersi ben adattata a vivere in condizioni di bassa crescita. Al punto che la perpetuazione dei suoi equilibri, sociali e territoriali, pare dipendere ormai proprio dall’assenza di incisive riforme liberalizzatrici in una serie di settori strategici. In altri termini, secondo questa ipotesi, ciò che obbliga da decenni l’economia italiana a funzionare a basso regime è anche ciò che assicura al Paese condizioni di stabilità sociale e territoriale. In queste condizioni, tentare di dare molta più potenza alla macchina richiederebbe modificazioni drastiche e subitanee di radicatissime abitudini sociali, la messa in discussione di equilibri consolidati, la penalizzazione (almeno a breve termine) di vaste aree territoriali oggi garantite dalle rendite, grandi, piccole, e anche piccolissime, assicurate dai mercati protetti. Con conseguenze, sociali e politiche, assai poco prevedibili. Una delle ragioni, forse la più importante, per cui la società italiana risente oggi meno di altre degli effetti della crisi mondiale, è dovuta proprio alla presenza di quei fattori che ne hanno frenato la crescita nei decenni precedenti. Dipende dal fatto che, accanto al welfare «ufficiale», quello gestito dallo stato, c’è anche un esteso welfare «occulto» che tutela tante famiglie italiane a vari livelli di reddito. Ci sono protezioni e fringe benefits assicurati ai tanti dalle innumerevoli corporazioni, le rendite garantite dalla spesa pubblica (sprechi inclusi), i benefici assicurati ai singoli dall’economia sommersa. Non casualmente, a soffrire di più a causa della crisi sono fino ad oggi quei settori della piccola impresa e del commercio (come ha osservato Dario Di Vico sul Corriere del 2 luglio) che sono tra i pochi davvero esposti alla concorrenza di mercato. Dall’elenco di Monti estraggo il caso che conosco meglio, quello della formazione del capitale umano. E’ la questione dell’istruzione. Sarebbe auspicabile una riforma meritocratica dell’Università (Francesco Giavazzi, su questo giornale, 3 luglio) e della scuola in generale. Ed è vero che il ministro Gelmini è sinceramente interessato a farla. Ma potrà mai il Parlamento (nelle sue componenti di destra e di sinistra) consentire davvero incisive riforme meritocratiche nel settore dell’istruzione? Ne dubito. E non certo a causa della resistenza di qualche «barone» o di qualche preside di liceo. A causa del fatto, piuttosto, che verrebbero scossi equilibri territoriali, locali, consolidati. Prendiamo il caso dell’Università. In Italia ci sono centri universitari ottimi, centri universitari così così e centri universitari pessimi. Questi ultimi godono di esteso sostegno e di granitiche complicità nelle comunità territoriali di appartenenza. Una riforma meritocratica (che, se fosse davvero tale, dirotterebbe i finanziamenti sui centri e i ricercatori migliori) li metterebbe in ginocchio. E che cosa credete che accadrebbe? Quei pessimi centri universitari sono pur sempre erogatori di stipendi e rendite, e grazie ad essi vive anche un esteso indotto cittadino. Inoltre, essi contano sulla complicità delle famiglie le quali, pagando tasse basse, assicurano comunque ai propri figli diplomi dotati di valore legale. Ci sarebbero probabilmente rivolte in stile Reggio Calabria 1970. I sindaci, i sindacati, i deputati locali (di destra e di sinistra) farebbero barriera in difesa del pessimo centro universitario minacciato. Ciò che vale per l’istruzione vale, credo, per tutti gli altri settori che dovrebbero essere interessati da incisive riforme. In molti casi, colpire la rendita può significare mettere a rischio o, per lo meno, in grave sofferenza, anche i legami fra le diverse aree territoriali del Paese. Ciò significa che non bisogna fare quegli interventi riformatori? Bisogna farli di sicuro, a meno che non ci si rassegni definitivamente all’idea che la democrazia italiana possa reggere solo se si accettano bassi tassi di crescita (anche a crisi superata) e forse, in prospettiva, un ulteriore impoverimento complessivo. Ma bisogna anche individuare le strategie utili per attutire gli inevitabili, probabilmente fortissimi, contraccolpi. Angelo Panebianco 06 luglio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La concretezza di un successo. Inserito da: Admin - Luglio 11, 2009, 09:15:07 am IL G8 E LE ASPREZZE ITALIANE
La concretezza di un successo Dal punto di vista dell’Italia, il G8 è stato un vero successo. Il nostro Paese ha svolto al meglio il suo ruolo di anfitrione e le posizioni del governo italiano su importanti dossier hanno trovato uno spazio che pochi osservatori, nei commenti della vigilia, avevano previsto. Prima dell’incontro, molti temevano (o auspicavano, a seconda dei punti di vista) che le vicende private di Berlusconi potessero provocare qualche atto di clamorosa contestazione del primo ministro italiano da parte dell’una o l’altra delegazione. Con conseguenze pesantissime per l’Italia. Non è accaduto. In più, le autorità italiane hanno dimostrato di sapere gestire con efficacia un avvenimento complesso come il G8. Presidente della Repubblica e presidente del Consiglio si sono mossi in sintonia. E anche le opposizioni (con l’eccezione di Di Pietro) hanno mantenuto un comportamento altamente responsabile. Come il presidente della Repubblica aveva richiesto. E come è necessario quando sono in gioco gli interessi nazionali. In quei frangenti, il governo non rappresenta una parte ma l’intero. Ed è bene che così sia considerato dalle forze politiche e dai cittadini. Anche la scelta di tenere il G8 all’Aquila si è rivelata felice. Non erano mancate le perplessità dopo la decisione di Berlusconi, all’indomani del terremoto, di spostare dalla Maddalena all’Aquila la sede del vertice. Quelle perplessità, soprattutto in riferimento alle delicate questioni della sicurezza, non apparivano infondate. Ma anche su questo piano Berlusconi ha scommesso e ha vinto. Tenere il vertice nelle zone terremotate, di fronte alla città devastata dal sisma, ha dato un segno di concretezza, di contatto con la realtà, ai colloqui su quei disastri del mondo a cui i governanti dei più importanti Paesi dovrebbero trovare rimedi. E’ stato scritto in questi giorni che il G8 è morto, che all’Aquila se ne sono celebrati i funerali. E’ così. Il G8 non è più rappresentativo della reale distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo. Tanto è vero che lo si è dovuto aprire, anche in questa occasione, alle altre grandi potenze economiche, Cina in testa. Noi italiani, al pari degli altri europei, non possiamo rallegrarcene. Il G8 era un luogo nel quale i Paesi europei, e fra essi anche l’Italia, erano in grado di esercitare una vera influenza. Lo hanno dimostrato proprio il vertice dell’Aquila e il caso italiano. L’Italia ha avuto un ruolo centrale in questo vertice non solo dal punto di vista cerimoniale, in quanto Paese ospitante, ma anche dal punto di vista sostanziale: ad esempio, le posizioni sostenute dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti in materia di riforma delle regole del sistema finanziario hanno qui trovato sostegni e ampie convergenze. Difficilmente, ci sarà altrettanto spazio per le posizioni dell’Italia o di altri Paesi europei nei vertici allargati (il G20) che, inevitabilmente, finiranno per sostituire del tutto il G8 nei prossimi anni. Più che il rischio c’è la certezza di un drastico indebolimento delle capacità negoziali e di una altrettanto drastica perdita di influenza dei Paesi europei, spesso fra loro litigiosi e divisi, in quei futuri consessi dominati, oltre che dagli Stati Uniti, dai colossi asiatici e da altre potenze emergenti. Per ora, gustiamoci la riuscita del vertice e la buona figura che l’Italia vi ha fatto. Da oggi ricomincia, con le asprezze di sempre, la solita politica italiana. Angelo Panebianco 11 luglio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. CORTE SUPREMA E TRASPARENZA Inserito da: Admin - Luglio 15, 2009, 10:21:24 am CORTE SUPREMA E TRASPARENZA
Quelle domande ai giudici Usa Come è nella tradizione della democrazia americana, l'audizione di fronte alla Commissione giustizia del Senato di Sonia Sotomayor, designata come giudice della Corte Suprema dal Presidente Obama, è stata, per lei, una prova assai dura. Ha dovuto difendere il proprio passato come giudice della Corte d'Appello federale di fronte alle domande incalzanti dei senatori. La Sotomayor è di origine ispanica. La sua affermazione secondo cui una «saggia donna ispanica» sarebbe un giudice migliore di un «uomo bianco», l'ha esposta alla accusa di alcuni senatori repubblicani di praticare una sorta di razzismo alla rovescia. La Sotomayor ha dovuto spiegare che quel discorso era solo volto a interessare alla carriera giuridica un pubblico latino giovane che, per lo più, se ne tiene lontano. Ha dovuto poi replicare all’obiezione di essere una «attivista liberal », più interessata a modificare la legge che ad applicarla. E ha dovuto render conto delle posizioni assunte in cause riguardanti dispute razziali. La Sotomayor non è il primo giudice designato alla Corte Suprema che viene messo in graticola dai senatori e non sarà l'ultimo. L'audizione è un interrogatorio ove abbondano le domande scomode, che serve al Senato per confermare o rifiutare la designazione presidenziale del candidato (e all'opinione pubblica per valutare le qualità del giudice designato e l'operato del Senato) ed è un'istituzione cruciale della democrazia americana. Dà trasparenza al processo decisionale mediante il quale un’assemblea rappresentativa avalla o respinge la nomina di un giudice della Corte. Per la sensibilità europeo- continentale ciò può apparire strano ma questo modo di procedere non toglie affatto prestigio alla Corte Suprema. Al contrario, lo rafforza. Le istituzioni americane sono diversissime dalle nostre. Figlie di un'altra storia e di un'altra cultura politica. Però in quelle istituzioni c'è un insegnamento che vale anche per noi. La nostra (europea, e italiana in particolare) è una tradizione di chiusure corporative e di mancanza di trasparenza. Basti pensare al fatto che in Italia le critiche al modus operandi della magistratura vengono spesso trattate dai suoi rappresentanti come delitti di lesa maestà, subdoli tentativi di «delegittimazione ». Oppure, si pensi a come vengono designati i giudici della Corte Costituzionale. Siamo sicuri che il prestigio della Corte verrebbe indebolito se i candidati designati dovessero affrontare pubblicamente una batteria di domande, sul modello americano, da parte del Senato? L'America è una democrazia che combina la gelosa difesa dell'indipendenza dei giudici (a tutti i livelli) con il rifiuto dell'esistenza di caste burocratiche chiuse, impermeabili al controllo democratico. Nella tradizione europeo-continentale, invece, le magistrature sono tecno- burocrazie separate dal processo democratico. In considerazione dell'accresciuto peso che queste tecno- burocrazie svolgono nella nostra vita associata, avvicinare un poco, su questi aspetti, le due sponde dell’Atlantico, non sarebbe forse sbagliato. Angelo Panebianco 15 luglio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La debole unità di un Paese Inserito da: Admin - Luglio 28, 2009, 11:23:46 pm I PARTITI E LA CONTESA TRA NORD E SUD
La debole unità di un Paese Dobbiamo davvero preoccuparci per l’unità futura del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimostrata, e denunciata da Ernesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che cosa indicano le voci intorno alla possibile nascita di una «lega sud» che potrebbe domani contrapporsi frontalmente al «partito del nord»? Davvero la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , talché l’unità morale del Paese sarebbe già irrimediabilmente svanita? I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizzazioni a cui gli uomini danno vita. E’ ormai dalla fine della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capacità integrativa, o federativa, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, viene chiamata Prima Repubblica, l’unità del Paese dipendeva dal ruolo federatore svolto dalla Democrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne insieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chiesa) di acutizzarsi dispiegando tutta la loro potenziale capacità disgregativa. Nel suo ruolo di partito di maggioranza relativa la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lombardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio. Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del legame fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fase storica, seguita alla dittatura e alla sconfitta bellica, in cui l’eredità risorgimentale era stata seriamente lesionata e logorata sul piano politico-simbolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lungo periodo dominato da una (sciagurata) pedagogia negativa sul Risorgimento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memoria converrebbe riprendere in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia patria circolanti nella scuola pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settanta. Dunque, piaccia o meno, è ai partiti politici che bisogna guardare per capire quale sorte sia riservata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettivamente, l’estrema precarietà della situazione che viviamo salta agli occhi. Alla Dc è sì succeduto un altro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Paese. Il partito federatore, subentrato alla Democrazia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo partito sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quanto accadde negli anni Novanta. Spazzati via i partiti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusconi, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana. Ma il Popolo della Libertà ha due evidenti punti di debolezza. Il primo è che si tratta di un contenitore mal amalgamato, nato dalla recentissima fusione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mantenere competitivo il centrodestra nel momento in cui è stato creato il Partito democratico. Dovesse quest’ultimo dividersi (e la possibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sorte. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmente, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi. Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politica? Si frantumerà, come è probabile, seguendo la sorte di tanti altri partiti carismatici? Oppure sperimenterà quel raro fenomeno che viene detto «istituzionalizzazione del carisma», sopravvivendo politicamente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è contenuta proprio nelle risposte a queste domande. Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si frantumasse in due tronconi, uno di centro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali possono essere lette anche come un’anticipazione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipendente » esaspererebbe le spinte centrifughe. Venuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, oggi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancorché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove venisse meno il federatore? L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tronconi territorialmente contrapposti, si capisce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese. È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplenza diventando gli (involontari) garanti della coesione sociale e politica. Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi. Angelo Panebianco 26 luglio 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dal moralismo al riformismo Inserito da: Admin - Agosto 03, 2009, 03:19:50 pm IL PD E LE INCHIESTE GIUDIZIARIE
Dal moralismo al riformismo Analizzando la situazione creatasi in Puglia a seguito delle inchieste sulla sanità che vedono coinvolti i partiti di centrosinistra, Antonio Macaluso ( Corriere , 31 luglio) si è chiesto maliziosamente «… se i pesanti attacchi di tutto il fronte dell’opposizione nei confronti del presidente del Consiglio e dei suoi comportamenti — sicuramente discutibili — non abbiano talvolta voluto coprire i timori per quello che l’inchiesta avrebbe potuto portare alla luce». È probabile che sia così. Ma la vicenda pugliese, se non fosse usata come mezzo per regolamenti di conti interni, potrebbe diventare la dimostrazione del fatto che non tutto il male viene per nuocere. A patto che ci sia un leader abbastanza coraggioso per prendere di petto il vero problema che attanaglia il Partito democratico, la tara che impedisce a quel partito di darsi una credibile identità riformista. Mi riferisco al fatto che esso non è mai stato in grado di impostare in modo sano e corretto, di fronte a se stesso e all’opinione pubblica, la questione del rapporto fra morale e politica. Detto così, lo riconosco, suona tutto un po’ astratto e accademico ma, in realtà, mi riferisco a due concretissimi problemi di cui, non casualmente, nessuno parla nel confuso dibattito precongressuale del Pd. Il primo riguarda il fatto che la debolezza politico- culturale del Pd lo condanna a essere un partito «eterodiretto», un partito che, nelle scelte che davvero contano, subisce il pesante condizionamento di alcuni «giornali di riferimento ». Il secondo riguarda l’incapacità di sbarazzarsi dell'alleanza con Di Pietro: come potrebbe sbarazzarsene, tenuto conto che il Pd non dispone al momento delle armi culturali necessarie per combattere quello che è ormai il suo più insidioso competitore? Le domande che il congresso del Pd dovrebbe porsi sono le seguenti: quale futuro politico può avere un partito che si presenta come riformista ma la cui componente identitaria principale, quella che trasmette soprattutto di sé, è il moralismo? E, ancora: è il moralismo una risposta giusta o sbagliata ai delicati problemi di etica pubblica che la democrazia deve quotidianamente fronteggiare? All'origine della grande tara, della scelta del moralismo come elemento ideologico dominante della identità della sinistra italiana, ci sono probabilmente gli eventi del quinquennio 1989-1994, il periodo che va dalla caduta del Muro di Berlino all'ingresso in politica dell’Uomo Nero, Silvio Berlusconi, passando per Mani Pulite. Orfana del comunismo, la sinistra non seppe far altro, anche aggrappandosi agli aspetti peggiori dell’eredità di Berlinguer (la diversità antropologica, l’austerità), che mettersi a gridare «al ladro ». In parte, per blandire le procure impegnate nelle inchieste sulla corruzione, offrendo loro una alleanza politica di fatto (e sperando così di limitare i danni) e in parte perché non aveva altra identità a cui aggrapparsi. Oltre a tutto, il passaggio dal comunismo al moralismo, dalla rivoluzione comunista alla «rivoluzione dei Santi», favorì il matrimonio dell’ex Pci con la sinistra democristiana, anch’essa allo sbando dopo la fine della Dc. La ciliegia sulla torta fu l’arrivo di Berlusconi: di fronte all’Orco, simbolo di tutti i vizi e le turpitudini del Paese, occorreva che i buoni, i santi, gli incorrotti, facessero blocco insieme: per lo meno, questa è stata la favola raccontata per quindici anni agli elettori del centrosinistra. Ma le favole funzionano solo se le si riconosce come tali. Se le si scambia per descrizioni della realtà portano alla rovina. Ancora una volta, quel genio della comunicazione che è Berlusconi, pur in grave difficoltà a causa della sua disordinata e sconsiderata vita privata, li ha battuti usando quattro paroline magiche: «non sono un santo». Tutti sanno infatti che di santi, su questa terra, ne circolano davvero pochi, e nemmeno i moralisti lo sono (anche se fingono, per convenienza politica, di esserlo). Sposando il moralismo, quali che siano i vantaggi politici a breve, ci si scotta sempre. In primo luogo, non si possono affrontare correttamente le questioni di etica pubblica. In termini di etica pubblica, il problema non è mai «combattere i corrotti » (l’accertamento dei reati di corruzione spetta alla magistratura penale). Il problema è invece incidere sulle condizioni, sulle circostanze, che accrescono o diminuiscono la propensione alla corruzione. Persino Madre Teresa di Calcutta, santa donna (uno dei pochi santi in circolazione nel XX secolo), avrebbe probabilmente avuto problemi con la giustizia se le avessero affidato un assessorato regionale alla Sanità in certe zone del Mezzogiorno. In secondo luogo, sposando il moralismo, riducendo la politica a una questione di santi e di reprobi, ci si imbatte sempre, prima o poi, in qualcuno che si dichiara più santo di te. La principale ragione per cui il Pd subisce da mesi e mesi, senza reagire, l’offensiva di Di Pietro, è che, dopo quindici anni di confusione fra moralismo e etica pubblica, esso si ritrova con buona parte dei suoi elettori e militanti in sintonia ideologica con il dipietrismo. Eppure, prendere di petto queste questioni è vitale per il Pd. L’occasione per fare un salto dal moralismo al riformismo, per affrontare a muso duro il «partito moralista », potrebbe consistere nell'accoglimento della richiesta del presidente della Repubblica di un accordo bipartisan sulle intercettazioni. La politica moralista è sempre stata intrecciata con le questioni di giustizia. Imboccando la strada di un accordo con il centrodestra sulle intercettazioni, il Pd potrebbe cominciare a sciogliere quell’intreccio. Scegliendo di porre fine a una ventennale, opportunista, politica di fiancheggiamento della Associazione Nazionale Magistrati, scegliendo di non chiudere più gli occhi di fronte agli eccessi dell'attivismo giudiziario, il Pd comincerebbe a regolare i suoi conti anche con il dipietrismo e le sue finte virtù. In nome e per conto di una identità riformista finalmente in cantiere. In un mondo di peccatori, quel poco di etica pubblica che è possibile salvaguardare richiede lucido e pragmatico riformismo. Lasciando alla Chiesa il compito di proclamare i santi. Angelo Panebianco 03 agosto 2009 da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica non è lotta tra bene e male (dice lui!). Inserito da: Admin - Agosto 26, 2009, 04:38:13 pm IL DIBATTITO SU MORALISMO E RIFORMISMO
La politica non è lotta tra bene e male E' possibile liberare dalla gabbia mentale in cui sono imprigionati coloro che confondono politica e morale, che credono che moralità e moralismo siano sinonimi, che pensano che la politica sia una guerra fra l'armata della luce e quella delle tenebre? In un editoriale del 3 luglio ho sostenuto che il Partito democratico dovrebbe scrollarsi di dosso l'ipocrita impalcatura moralista che si è costruito. Che nel Pd ci sia una divisione fra riformisti e moralisti è dimostrato dalle reazioni a quell'articolo. Linda Lanzillotta, prendendo lo spunto dalle inchieste pugliesi, ha fatto un ineccepibile intervento (Corriere del 4 agosto) sulla necessità di una riforma del sistema della sanità che separi politica e amministrazione: un esempio cristallino di ciò che intendevo, nell’editoriale citato, per approccio riformista ai problemi di etica pubblica. Però, sempre sul Corriere del 4 luglio, si poteva anche leggere la sdegnata replica al mio articolo di Franco Monaco, democratico doc come la Lanzillotta, ma di altra pasta. Quello di Monaco sembrava un comunicato dell’ufficio stampa dell’Italia dei Valori. È la presenza di tanti Monaco a spiegare l’impossibilità per il Pd di scindere le proprie sorti da quelle di Di Pietro, di fare il salto dal moralismo al riformismo. Anche se è difficile oggi separare la questione del moralismo da quella della presenza in politica di Silvio Berlusconi proverò a farlo. Perché ci sono anche, mi ha ricordato Mario Pirani ( La Repubblica , 7 agosto), ottime ragioni politiche per criticare Berlusconi. L’intervento di Pirani, uno dei pochi editorialisti di Repubblica da cui non mi senta culturalmente agli antipodi, mi ha richiamato alla mente certi rituali del Pci, dove il reprobo veniva attaccato da uno che egli non riteneva troppo diverso da sé. Pirani elenca i tratti di Berlusconi (il conflitto di interessi, gli attacchi alla magistratura, eccetera) che richiedono di essere combattuti. Bene, ma faccio notare a Pirani che la sua ricostruzione è troppo squilibrata. Berlusconi, dice Pirani, è un unicum nel panorama conservatore: non è Sarkozy, la Merkel o Cameron. Sì, ma uno sguardo storico aiuta a capire. Noi non abbiamo avuto de Gaulle. Né la secolare alternanza fra conservatori e laburisti. Noi avevamo un sistema bloccato dominato da democristiani e comunisti. Berlusconi è un unicum ma è il prodotto di un altro unicum: la rivoluzione giudiziaria che spazzò via i partiti moderati e che, anch’essa, non ha confronti con quanto accaduto in altre parti d’Europa. Inoltre, come Pirani sa, i conflitti di interesse sono, per le democrazie, difficili da gestire (vedi il caso Bloomberg a New York). Da noi, certo, il problema è reso ancor più acuto a causa delle televisioni. Ma imporre all’imprenditore che assume certi ruoli di vendere le aziende significa ignorare le regole del mercato: poiché vendere per legge è uguale a svendere tanto vale stabilire che agli imprenditori sia interdetta la politica. È fattibile? In altri termini, Pirani ha ragione ma fino a un certo punto: dimentica le cause che hanno «prodotto» Berlusconi e sottovaluta la complessità, e la difficile trattabilità, dei problemi che la presenza in politica di figure come la sua comportano. Mi meraviglio poi che Pirani adotti un atteggiamento così acritico sulla questione del rapporto fra Berlusconi e la magistratura. Ricordo che nei primi anni Novanta io e Pirani, consapevoli dei guasti di un sistema giudiziario fondato sull’onnipotenza del pm, eravamo fra i pochi a invocare la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Possibile che Pirani abbia cambiato idea al punto di vedere nello scontro fra Berlusconi e certi settori della magistratura solo la lotta fra un impunito e i suoi irreprensibili accusatori? Se così fosse, sarebbe Pirani, e non io, come egli mi accusa, a sfogliare le favole dei fratelli Grimm. È infine strano che un fine analista sembri non comprendere il vero segreto del successo di Berlusconi dal ’94 in poi: il fatto che in un Paese iperstatalista, dominato fino a quel momento dai grandi «collettivi» (il Partito, il Sindacato, la Corporazione) abbia fatto irruzione un imprenditore che si è appellato allo spirito individualista, che ha proposto una «via individualista alla felicità». Si può deprecare il fatto ma non sottovalutarlo. Personalmente, ciò che soprattutto non sopporto di Berlusconi è la distanza, per me intollerabile, fra le promesse e le realizzazioni (di liberazione degli individui da «lacci e lacciuoli», nelle sue esperienze di governo, se n’è vista poca) ma, di sicuro, non sono fra quelli che deprecano l’appello al ruolo dell’individualità. Torno sulla questione del moralismo. A forza di campagne moralistiche, nel corso dei decenni, si è messa larga parte delle nuove generazioni nell’impossibilità di capire alcunché di politica. Le si è addestrate a pensare la politica nei termini infantili e menzogneri della lotta fra il bene e il male, le si è condannate a non vedere la complessità del mondo e la sua ineliminabile ambiguità, anche morale. Non molti, ormai, riescono a distinguere fra la moralità (che investe una dimensione personale: riguarda il rapporto fra me, i miei atti e la mia coscienza e, per chi ci crede, Dio) e il moralismo, che è una tecnica di combattimento politico. I moralisti sono di due tipi: quelli che ci credono e quelli che si fingono. Quelli che ci credono pensano che invocare di continuo la moralità sia un modo di testimoniare la propria appartenenza alla schiera dei buoni. Sarebbero inoffensivi se la loro ingenuità non venisse sfruttata da altri, i veri utilizzatori del moralismo come tecnica politica. Da coloro, cioè, che in un mondo di esseri imperfetti e peccatori, si attribuiscono virtù che non hanno e si ergono a giustizieri morali. Sono i responsabili della propagazione di una immagine farsesca della politica, come luogo del confronto fra luce e tenebre. La loro presenza rende difficile affrontare i temi di etica pubblica. Questi ultimi riguardano, per lo più, problemi di convenienza collettiva: ad esempio, conviene abbassare il tasso di corruzione, per generare condizioni di fiducia sociale e incentivi allo sviluppo, per migliorare le condizioni di vita. Ma parlare di queste cose con i moralisti è fiato sprecato. Angelo Panebianco 14 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una battaglia dimenticata Inserito da: Admin - Agosto 31, 2009, 03:31:24 pm I PARTITI E LA RIDUZIONE DELLE TASSE
Una battaglia dimenticata Diceva Adam Smith, padre dell’economia moderna, che perché in un Paese si dia «opulenza» occorrono tre condizioni: la pace, una «leggera tassazione» e una buona amministrazione della giustizia. Sostituiamo «opulenza» con «crescita economica sostenuta» e guardiamo, usando quelle lenti, al caso italiano degli ultimi decenni. La pace fortunatamente c’era ma il livello troppo alto di tassazione e il cattivo funzionamento della giustizia (si pensi alla giustizia civile, quella che più incide sugli affari) bastano a spiegare — se crediamo ad Adam Smith — perché l’Italia abbia avuto per così tanti anni, prima che esplodesse la crisi mondiale, tassi di crescita bassissimi. La domanda che oggi tanti si pongono è: quando la crisi finirà, quando l'economia mondiale tornerà a crescere, l’Italia ricomincerà ad arrancare, come ha fatto nei decenni scorsi, dietro ai nostri partner europei e occidentali più importanti? Ciò è assai plausibile se non verranno rimosse le cause della bassa crescita del passato. Qualche buona notizia forse c’è. Ad esempio, se la riforma del processo civile, voluta dal ministro Alfano, riuscisse davvero, come il ministro promette, a rendere più rapidi i procedimenti giudiziari, verrebbe meno un tradizionale impedimento al buon funzionamento della nostra economia. Resterebbe comunque l’altro handicap, un livello di tassazione troppo elevato. Francesco Giavazzi, su questo giornale (26 agosto), ha chiesto al premier Berlusconi di tornare alle sue (non attuate) proposte «rivoluzionarie » dell’esordio, del 1994 e del 2001, in materia di fiscalità: si riducano drasticamente le tasse, dice Giavazzi, puntando sulla crescita per alleviare la pressione del debito pubblico. Altri economisti non concordano: avendo noi sulle spalle il terzo debito pubblico del mondo, dobbiamo muoverci, essi dicono, con la massima prudenza e gradualità. Lasciando ai tecnici dell’economia la discussione sul fatto se sia meglio procedere con una terapia d’urto in fatto di riforme (Giavazzi, ma anche Giacomo Vaciago sul Sole 24 ore ), con uno shock, oppure con lentezza e gradualità (la «corrente continua» di cui ha parlato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti), bisogna anche ricordare che la questione ha importanti implicazioni politiche, tocca problemi di consenso e di coesione delle coalizioni elettorali che sostengono le diverse forze politiche. Le circostanze forgiano e alimentano gli interessi. In un regime di basse tasse gli interessi contrari a innalzamenti della pressione fiscale sono potenti e rappresentano un forte deterrente per i governi. In un regime di tasse alte, come quello italiano, vale l’opposto: è il «partito delle tasse» a rappresentare la costellazione di interessi più potente, quella che ha i mezzi per opporsi con forza a modificazioni dello status quo fiscale. In Paesi occidentali con una storia diversa dalla nostra, il partito delle tasse è normalmente rappresentato dalla sinistra (mentre a destra sono più forti gli interessi alla riduzione della pressione fiscale). Nel nostro Paese non è così: il partito delle tasse taglia trasversalmente destra e sinistra, è ben rappresentato in tutti e due gli schieramenti. Se ci limitiamo alle forze di governo sembra plausibile sostenere che il Pdl sia diviso fra una parte che vorrebbe rispondere positivamente alla domanda di riduzione della pressione fiscale che viene da settori consistenti dell’elettorato di quel partito e la parte che, vivendo di intermediazione pubblica, teme che una riduzione delle tasse porti con sé una contrazione dell’ammontare delle risorse a disposizione. Le molteplici lobby della spesa pubblica sono, e sono sempre state, le componenti più forti e aggressive del partito delle tasse. Del tutto speciale è poi il caso della Lega. La Lega ha sempre impostato la sua polemica politica sui «soldi» ma ne ha fatto, in coerenza con un’ispirazione territorial-comunitaria, più una questione di rapporto fra Roma e il Nord («Ci teniamo noi i nostri soldi») che una questione di minor pressione fiscale sui cittadini. Per inciso, credo che questa sia anche la ragione principale per la quale la Lega, pur in crescita, non potrà non incontrare un limite nella sua espansione elettorale al Nord. La crisi e il debito ci opprimono e non ha torto Tremonti quando dice che governare significa prendere decisioni qui e ora per affrontare i problemi che incombono. Però, se siamo tutti d’accordo che senza forti riduzioni della pressione fiscale non c’è crescita seria (e pare difficile che questa tesi, a sostegno della quale abbondano le osservazioni storiche, possa essere smentita da qualcuno), allora bisognerebbe, quanto meno, indicare una prospettiva, un percorso, che ci porti, con tutte le cautele e le gradualità del caso, verso un regime di fiscalità meno esosa, per le imprese e per i cittadini. Tremonti lascia intendere che sarà il federalismo fiscale, «la madre di tutte le riforme », come egli la chiama, a sciogliere molti nodi. Può essere che sia così ma può anche essere che il fortissimo partito delle tasse riesca a piegare il federalismo fiscale alle sue esigenze. È successo tante volte, in tanti Paesi, non solo in Italia, che riforme istituzionali concepite per raggiungere certi scopi siano state piegate dagli interessi costituiti al servizio di scopi differenti. Dubito che il federalismo fiscale, se non accompagnato da misure incentivanti la riduzione delle tasse, possa essere, da questo punto di vista, una panacea. Checché ne dicano i suoi nemici la crescita economica è un valore, perché porta con sé più benessere, più libertà e anche la possibilità, se lo si vuole, di politiche volte ad assicurare una maggiore equità (la crescita non garantisce di per sé equità ma la sua assenza comporta sempre iniquità). Per ottenerla non si conosce strumento migliore della «leggera tassazione» di cui parlava Adam Smith. Angelo Panebianco 31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA Inserito da: Admin - Settembre 06, 2009, 12:11:29 pm I COSTI DI UNA FRATTURA IMPREVISTA
Le scelte politiche dei cattolici Singoli eventi non possono modificare le relazioni fra istituzioni ma possono accelerare tendenze in atto. Il caso Boffo, pur nella sua gravità, non causerà il riposizionamento della Chiesa nei confronti del sistema politico italiano. Può però accelerarlo. Ricapitoliamo il percorso compiuto. Tramontata l’epoca dell’unità politica dei cattolici, scomparsa la Dc, la Chiesa (italiana) si adattò al nuovo mondo bipolare. Il bipolarismo presentava per essa un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio era che, non essendo la Chiesa monolitica, le sue componenti, in ragione dei loro differenti orientamenti, potevano trovare interlocutori, a beneficio dell’istituzione, in entrambi gli schieramenti. Lo svantaggio era che il feroce bipolarismo italiano rischiava di trasferire i suoi veleni nella Chiesa accrescendo, oltre il limite di guardia, la conflittualità interna. La fortuna della Chiesa, per un lungo periodo, fu di contare, alla testa della Conferenza episcopale, su un uomo come il Cardinale Camillo Ruini, capace, con energia e finezza politica, di garantire una navigazione sicura in acque insidiose. Dal ’94 ad oggi, dire «bipolarismo » significa dire Berlusconi: nel senso che è stata la presenza di Berlusconi (più delle leggi elettorali) ad assicurare, grazie ai consensi e agli odi che ha suscitato, la divisione del Paese, il bipolarismo politico. Nei governi Berlusconi la Chiesa italiana trovò più di un interlocutore ben disposto: il centrodestra assunse in toto , creando frustrazione nelle sue frange laiche, la rappresentanza delle istanze della Chiesa (fecondazione assistita, opposizione ai Dico, testamento biologico, ecc…). Il prezzo, per la Chiesa, fu di scontentare quella parte di sé e del più generale mondo cattolico ostili a Berlusconi. Ma era un prezzo che poteva essere pagato fin quando il centrodestra fosse rimasto un interlocutore affidabile. Oggi le cose sono in movimento. La Chiesa, come tutti, deve prendere atto che il ciclo politico di Berlusconi è comunque nella fase discendente. Al massimo, entro qualche anno, dovrà concludersi. E, come tutti, la Chiesa deve anche chiedersi se il bipolarismo sopravvivrà all’uscita di scena di Berlusconi. In più, le vicende personali del premier e ora il caso Boffo, sembrano avere innalzato il livello di conflitto all’interno dell’istituzione. Garantire l’unità, trovare una sintesi, impedire conflitti laceranti, è adesso, per i vertici della Chiesa italiana, difficile. E’ evidente che la Chiesa, confusamente, si interroga sulle opzioni disponibili: mantenere un rapporto privilegiato con il centrodestra tenendo a freno gli avversari interni? Puntare su un «partito cattolico » di centro (una mini- Dc) che tuteli i suoi interessi quali che ne siano le alleanze? Cercare nella sinistra un nuovo interlocutore? La prima opzione è resa complessa dalle vicissitudini del premier e dai loro contraccolpi. La seconda rischia di risultare velleitaria. La terza deve fare i conti con l’egemonia esercitata sulla sinistra da moralisti che si ammantano di «virtù repubblicane » e che incarnano un nuovo partito ghibellino. Alla fine, i nodi verranno sciolti dalla politica. A decidere, anche delle scelte della Chiesa, sarà la sorte del bipolarismo: in sostanza, la capacità o meno del centrodestra di superare la crisi di successione senza disgregarsi. Angelo Panebianco 06 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. PD - Un'offerta inesistente Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 11:02:43 am IL PROFILO POLITICO DEL PD
Un'offerta inesistente Il Partito democratico si avvia verso il congresso. La lotta precongressuale è stata aspra ma ciò non è servito a guarire la malattia di quel partito: la scarsa credibilità della sua «offerta politica» complessiva, l'assenza di un insieme di idee e di proposte potenzialmente in grado di convincere una parte rilevante di quegli elettori che, fin qui, si sono tenuti alla larga dal Partito democratico. Di più: mi pare che ci sia, in settori significativi del Pd, la sfiducia nella possibilità stessa che una forte offerta politica possa essere confezionata. Come altro si può interpretare il fatto che il gruppo dirigente oggi non speri, per vincere di nuovo, nelle virtù e nelle capacità proprie ma unicamente negli incidenti di percorso altrui? Non è forse vero che, per tornare al governo, il Pd si affida solo alla speranza di una uscita di scena di Berlusconi e della disgregazione del centrodestra? Non è forse vero che esso ripone le proprie chances, anziché nella capacità di attrarre elettori, in quella di attrarre alleati? Puntare tutte le proprie carte, piuttosto che sulle possibilità di sfondamento nell'arena elettorale, sulle manovre nell'arena parlamentare, significa sostituire la tattica alla strategia, sperare che il tatticismo e le capacità manovriere possano sopperire ai ritardi culturali e alle inadeguatezze politiche. Quando Massimo D'Alema dice che un partito del 27-30 per cento può andare al governo solo costruendo alleanze, rivela la sua sfiducia nelle possibilità di crescita autonoma del partito. Una sfiducia della quale è peraltro facile identificare l'origine: va cercata in una pagina di storia ormai chiusa, quella del partito comunista. Non critico D'Alema per questo: tutti noi siamo condizionati dalle nostre esperienze passate. Ma è un fatto che pensare che un partito del 30 per cento sia condannato a rimanere tale è un portato di quella esperienza. All'epoca del bipolarismo Usa/Urss il Partito comunista non aveva possibilità di espansione al di là di una certa soglia elettorale. Poteva accrescere la propria influenza politica e, eventualmente, entrare nell'area di governo, solo grazie alla sua capacità di costruire alleanze. È quello schema che, consapevolmente o meno, D'Alema oggi ripropone. Ma nel mondo attuale, senza più conventio ad excludendum, guerra fredda e partiti comunisti, quello schema dovrebbe essere buttato via. Perché, nelle nuove condizioni, un partito del 27/30 per cento (alle precedenti elezioni) può benissimo, se azzecca la proposta politica, se intercetta la domanda del Paese, sfiorare la maggioranza dei consensi (e magari, se poi governa male, tornare al 27 per cento o anche meno alle elezioni successive). Capisco il fatto che, in politica, le proposte degli avversari siano sbagliate per principio. Ma la verità è che l'idea del «partito a vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni non era affatto sbagliata. Nasceva dalla presa d'atto che, nel dopo guerra fredda, un partito di sinistra (non comunista), se centra la proposta politica, può benissimo giocarsela «alla pari» con la destra. L'idea era eccellente ma venne realizzata male. La proposta politica non fu abbastanza innovativa e ci fu l'errore dell’alleanza con Di Pietro. Certo, poi ci vogliono anche le alleanze. Ma le alleanze vengono dopo la proposta politica. È nella proposta politica la vera debolezza del Pd. Ne deriva un circolo vizioso: la debolezza dell'offerta politica genera problemi di identità che alimentano la sfiducia, la quale a sua volta impedisce di agire creativamente per modificare l'offerta politica. Faccio solo l’esempio di un problema nel quale la debolezza, di visione e di proposte, del Pd è evidente: la questione dell'immigrazione. Si tratta di una questione decisiva. Nel XXI secolo è uno dei due o tre temi su cui ci si gioca, in Europa, il destino politico. I punti di criticità sono due: il problema dell'immigrazione clandestina e quello dell'immigrazione islamica. Sull'immigrazione clandestina il Pd balbetta. Affiorano qui i cascami di ammuffiti terzomondismi di origine comunista e cattolica. La sola cosa che il Pd sa fare è accusare di razzismo il governo. Ma davvero la politica detta dei respingimenti (in presenza di una colpevole latitanza dell'Unione Europea nel contrasto all'immigrazione clandestina) può essere così liquidata? Zapatero, il premier spagnolo, non risulta iscritto alla Lega Nord. Ma tratta con la massima durezza l'immigrazione clandestina. Non è forse nell'interesse dei Paesi europei mandare messaggi chiari alle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani? E, ancora, davvero il reato di clandestinità (che esiste in tante democrazie) è una infamia? Che lo descriva così qualche vescovo poco interessato al fatto che l'Italia possieda dei confini (il reato di clandestinità è proprio questo: la dichiarazione secondo cui i confini dello Stato non sono una finzione o una barzelletta) è comprensibile, ma se lo fa un partito di opposizione esso si condanna a non diventare forza di governo. C'è poi la questione dell'immigrazione islamica. Bisognerebbe smetterla di gridare all'islamofobia tutte le volte che qualcuno ricorda che l'immigrazione islamica è quella che comporta le maggiori difficoltà di integrazione e, in prospettiva, i rischi più seri. Come dovrebbero insegnarci le imprudenti politiche della Gran Bretagna e dell'Olanda, «dialogo» e «accoglienza» non risolvono il problema. Perché non ci siano penosi risvegli fra qualche anno, occorre dettare condizioni chiare. Ma quelli del Pd, quando discutono di immigrazione, sembrano disinteressati al tema. Era solo un esempio, anche se rilevante. Costruire una offerta politica adeguata ai tempi può essere, per il Pd, una impresa faticosa, destinata anche a suscitare forti conflitti interni. Ma, almeno, sarebbero conflitti da cui potrebbero nascere serie elaborazioni culturali e sforzi di immaginazione politica. Molto meglio che stare seduti sul greto del fiume, ripetendo fino alla noia vecchi slogan, e aspettando, inerti, di vedere passare sull'acqua il cadavere del nemico. di ANGELO PANEBIANCO 10 settembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN Inserito da: Admin - Settembre 21, 2009, 04:06:48 pm LE RAGIONI DELLA MISSIONE IN AFGHANISTAN
Un impegno sul terrorismo Oggi, nel giorno dei funerali dei sei paracadutisti caduti a Kabul, l’Italia ufficiale si stringerà, con compostezza e rispetto, intorno ai nostri soldati. Come è certamente nei sentimenti di tutti e come l’opinione pubblica esige. Oggi non si sentiranno le «stecche» che si sono udite nel giorno dell’attentato. E’ importante che quelle stecche non si sentano più. Le questioni di guerra hanno questo di diverso rispetto alle normali lotte fra i partiti per, poniamo, l’accaparramento di cariche di presidenti di Regione: ci va di mezzo la vita dei soldati. Come ha osservato Emma Bonino ( Il Riformista , 19 settembre) il nemico ascolta, eccome: ci ascoltava quando, all’epoca del governo Prodi, la sinistra estrema minacciava sfracelli se non ce ne fossimo andati presto dall’Afghanistan e oggi ascolta le dichiarazioni (poi rettificate) di Umberto Bossi. Per questo, tali questioni non possono essere trattate dai partiti come se fossero faccende interne. Ciò non significa che non si debba partecipare, insieme agli alleati, a una riflessione collettiva su come fronteggiare le nuove, sempre più difficili, condizioni del conflitto in Afghanistan. Al di là di eventuali revisioni di strategia militare o politica, c’è un dirimente punto politico, come ha notato Sergio Romano, sul Corriere del 19 settembre, e come ha riconosciuto il ministro della Difesa Ignazio La Russa ( Il Corriere , 20 settembre): si tratta di rinnovare ogni sforzo affinché al Paese torni ad essere ben chiara la posta in gioco. Non è solo un problema italiano. E’ un problema europeo. Oltre che in Italia anche in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna, nelle opinioni pubbliche tende oggi a prevalere la richiesta di ritiro. Negli anni immediatamente successivi all’ 11 settembre 2001 era ancora chiaro agli europei il perché della presenza militare in Afghanistan. In seguito, man mano che andava sbiadendo la memoria dell’11 settembre e i talebani, ricostituite le forze, ricominciavano a combattere con crescente efficacia, le classi dirigenti europee non seppero rimotivare le opinioni pubbliche. E’ il senso della presenza europea in quel teatro che è andato perduto. Va urgentemente (ri) spiegato alle opinioni pubbliche che una vittoria talebana a Kabul destabilizzerebbe il Pakistan, e il fondamentalismo islamico tornerebbe a galvanizzarsi ovunque (anche in Europa). E’ per evitare che i kamikaze si mettano all’opera qui da noi che siamo in Afghanistan. Poiché la guerra va ora male per gli occidentali, si è diffusa la tesi (consolatoria) secondo cui ciò che là accade avrebbe poco a che fare con il terrorismo islamico. Dipenderebbe dalle lotte fra i pashtun e le altre etnie, dai riflessi della rivalità indo-pachistana, eccetera. Questi elementi esistono. Ma sarebbe cecità non vedere che il conflitto ha due facce: la prima legata alle specificità locali e la seconda alle sorti del terrorismo internazionale. Ma come la mettiamo, qui da noi in Italia, si sente ripetere, con l’articolo 11 della Costituzione? L’articolo 11 venne scritto perché i costituenti avevano in mente le guerre di aggressione del fascismo. Sono quelle guerre che la Costituzione vieta. Significa far torto alla intelligenza e al patriottismo dei costituenti sostenere che essa ci impedisce di partecipare, con gli alleati, ad azioni militari tese a contrastare (oggi in Afghanistan, domani forse in Somalia e in altri luoghi) la diffusione del terrorismo. Angelo Panebianco 21 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE (secondo Panebianco) Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2009, 11:04:17 am TESTAMENTO BIOLOGICO, LA SOLUZIONE POSSIBILE
La zona grigia tra vita e morte Approvato nel marzo scorso dal Senato, il disegno di legge sul fine vita dovrebbe approdare alla Camera entro qualche settimana. Il testo varato dal Senato risente pesantemente dei violenti scontri ideologici esplosi a febbraio, in occasione della tragica conclusione della vicenda di Eluana Englaro. La scelta di interrompere, in ottemperanza a una sentenza di tribunale, l’alimentazione artificiale alla Englaro spaccò il Paese in due, diede luogo a una contrapposizione feroce fra due visioni (su questo punto è già intervenuto sul Corriere della Sera Giovanni Sartori), due concezioni della vita e della morte, e del diritto di ciascuno (rivendicato dagli uni, negato dagli altri) a decidere della propria morte. Oggi, a distanza di mesi, placate (ma fino a quando?) le passioni ideologiche, sembra essersi aperto uno spazio di manovra per uscire dal cul de sac in cui la vicenda Englaro aveva sospinto il Paese. Un certo numero di deputati del Popolo della Libertà (molti dei quali vicini al presidente della Camera Gianfranco Fini) ha mandato una lettera aperta al presidente del Consiglio, pubblicata dal Foglio (23 settembre), proponendo una revisione del testo approvato dal Senato. Si chiede che la legge si limiti a fissare dei paletti, ad affermare principi generali (il rifiuto sia della eutanasia che dell’accanimento terapeutico) abbandonando però «l’iper-regolamentazione giuridica» che caratterizza l’attuale testo. Si tratta, dice la lettera, di fare una legge ispirata alla «persuasione che il rapporto con la malattia, con le cure e con la morte (…) appartenga a uno spazio personale di cui la legge può prudentemente fissare i confini 'esterni' ma non i contenuti 'interni', che sono interamente affidati alle relazioni morali e professionali che legano il malato al suo medico e ai suoi congiunti». Questa lettera, portando alla luce il disagio di alcune componenti della maggioranza, ha riaperto una discussione che sembrava ormai chiusa. Per capire i termini della questione occorre fare uno sforzo di immaginazione, fingere che sulla vicenda non pesi, come invece pesa, la «politica». Per politica intendo cose come la preoccupazione del governo di garantirsi, tramite la legge sul fine vita, un solido rapporto con la Chiesa, la fronda di Gianfranco Fini all’interno del Pdl, l’interesse dell’opposizione ad allargare le divisioni nella maggioranza, i conflitti, che fanno da sfondo a tutta la vicenda, fra clericali e anticlericali, fra berlusconiani e antiberlusconiani, eccetera. Conviene mettere in parentesi tutto ciò e ragionare solo sulla questione del fine vita. Un buon punto di partenza può essere la teoria (che ha apparentemente poco a che fare col tema) formulata dall’economista Friedrich von Hayek sul rapporto fra la conoscenza e il mercato. Per dimostrare che i sistemi di mercato sono superiori ai sistemi di pianificazione Hayek sostenne che i pianificatori falliscono sempre per difetto di conoscenza. Il pianificatore centrale, nonostante i suoi deliri di onniscienza, difetta delle conoscenze «localizzate», relative alle specifiche situazioni «locali», sempre diversissime le une dalle altre, in cui sono quotidianamente coinvolti gli attori economici (produttori e consumatori) e che solo essi possono conoscere. Da qui la superiorità dei sistemi economici decentrati (di mercato) rispetto ai sistemi economici pianificati. Applichiamo la teoria al tema del fine vita. Le situazioni estreme con cui si confrontano i medici sono fra loro diversissime: dal punto di vista clinico e dal punto di vista del rapporto con ciascun paziente, i suoi familiari, eccetera. L’altissima variabilità delle situazioni rende la legge (l’equivalente del pianificatore centrale di Hayek) uno strumento inadatto a regolamentare nel dettaglio i casi: una disposizione di legge che va bene per un caso non va bene per un altro. Da qui la necessità che (come, tacitamente, si faceva prima che il tema venisse politicizzato) sia lasciato spazio alla discrezionalità e al giudizio del medico, in accordo col paziente o con i suoi familiari, sul caso singolo. Perché solo la conoscenza che essi (e non la legge) hanno del caso singolo, può permettere di fare le scelte più appropriate, di muoversi nel modo migliore nel terreno accidentato che separa l’eutanasia da una parte e l’accanimento terapeutico dall’altra. A febbraio, deplorando la politicizzazione del tema che il caso Englaro aveva provocato, chi scrive si espresse sul Corriere (9 e 23 febbraio) a favore del mantenimento di una «zona grigia» da preservare contro le intrusioni dello Stato (e la violenza che sui casi singoli quella intrusione avrebbe sicuramente provocato). La si chiami zona grigia o in un altro modo, di questo si tratta. Il problema è evitare «l’iper-regolamentazione giuridica». Come sostengono, giustamente, gli estensori della lettera sopra citata. C’è però una possibile obiezione. L’ha formulata l’on. Alfredo Mantovano, sostenitore dell’attuale testo di legge. Dice Mantovano (sul Foglio , 25 settembre): attenzione, il caso Englaro è nato da sentenze della magistratura, ideologicamente orientate, che forzavano le leggi vigenti nella direzione dell’eutanasia. Lasciare discrezionalità e decisione ai medici e ai familiari significa, in realtà, rimettere nelle mani dei giudici le scelte ultime in tema di vita e morte. Se non vogliamo che siano i giudici a decidere, deve essere il Parlamento a farlo. La preoccupazione di Mantovano è legittima. Osservo però che egli manifesta una eccessiva sfiducia nella capacità di auto-organizzazione della società (riferita in questo caso, al rapporto fra medici e pazienti). Il ricorso al giudice ci sarebbe solo nelle situazioni in cui quella capacità di autorganizzazione venisse meno. Per ogni singolo caso che approdasse in tribunale ce ne sarebbero moltissimi altri che non ne avrebbero bisogno. Che poi ci siano settori della magistratura che spesso pretendono di legiferare sostituendosi al Parlamento è vero ma è un problema generale, che di sicuro non riguarda solo la questione del fine vita. Visto che una legge sembra a questo punto necessaria, che almeno essa sia il più possibile «liberale». Intendendo per tale una legge che lasci alle persone spazi di autonomia «dallo Stato» e che scommetta sulla responsabilità degli informati e competenti sul caso singolo. Accettando anche quelle possibilità di errore che, come sempre nelle umane cose, accompagnano la responsabilità e la libertà. Angelo Panebianco 30 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La stabilità di un governo - (si ma quale governo?) Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:01:45 am IL PREMIER E I TIMORI DEL COMPLOTTO
La stabilità di un governo I capigruppo del Pdl di Camera e Senato hanno lanciato l'allarme contro un presunto piano eversivo che sarebbe in atto per «fare fuori» Silvio Berlusconi, per costringerlo alle dimissioni. Sono i «fantasmi del 1994» a essere stati implicitamente evocati. Nel '94, ricordiamo, la caduta del governo Berlusconi fu propiziata dalla garanzia offerta ai «congiurati » che non ci sarebbero state immediate elezioni anticipate. Ma al Quirinale oggi siede un vero custode della Costituzione come Giorgio Napolitano e questa è la migliore garanzia che i fantasmi del '94, comunque, non si materializzeranno. I due capigruppo hanno reagito a un «clima» (soprattutto la sentenza ai danni di Fininvest sulla vicenda Mondadori, arrivata pochi giorni prima della pronuncia della Corte costituzionale sul Lodo Alfano). Ma sbagliano, fanno il gioco dei loro avversari, scegliendo la strada della drammatizzazione. Certamente, ci sono settori della sinistra politica, nonché dell'establishment economico-finanziario, che sognano la «spallata ». Come mostrano le indulgenze e le coperture che quei settori danno agli strampalati allarmi sul «fascismo alle porte» e sulle «minacce per le libertà democratiche». Ma è difficile che nuovi aspiranti congiurati possano portare a compimento i loro disegni. Il governo Berlusconi conta su un'ampia e solida maggioranza. E continua a godere di forti consensi nel Paese (più forti, stando ai sondaggi, di quelli di qualunque governo del recente passato al secondo anno di legislatura). Non sembrano esserci le condizioni per una sua liquidazione tramite congiure di Palazzo. Neppure in caso di bocciatura del lodo Alfano. A proposito del quale è ovviamente lecito pensarla come si vuole. Chi scrive pensa che il lodo Alfano sia un ombrello utile per garantire la stabilità dei vertici istituzionali della Repubblica. Soprattutto dopo che (come ha ricordato Giuliano Ferrara sul Foglio ) tra i demagogici sviluppi della cosiddetta «rivoluzione giudiziaria» del 1993 ci fu l'eliminazione della protezione assicurata dall'articolo 68 della Costituzione. Tanto più in un Paese in cui, come tutti sanno (compresi quelli che fanno finta di non saperlo), accanto a tanti magistrati che fanno solo il loro lavoro, ce ne sono altri che perseguono disegni politici. Garantire che i risultati elettorali non vengano annullati dall'azione di chi fosse tentato di usare le risorse giudiziarie per costruirci sopra carriere politiche è una garanzia minima che la democrazia deve dare a se stessa. Berlusconi ha tutti gli strumenti per governare. Per giunta, ha dimostrato in varie occasioni, dalla vicenda dell’immondizia in Campania al terremoto dell'Abruzzo, al G8, alla gestione della crisi economica, di saperlo fare. A lui e ai suoi conviene impegnarsi solo nell'azione di governo (facendo magari, finalmente, anche certe riforme promesse e non attuate: per fare un solo esempio, non si dovevano abolire le Province?), smettendola di seguire sul terreno della drammatizzazione coloro che, forse pensando di valere poco, disperano di essere capaci di sconfiggere Berlusconi in campo aperto, in una normale, democratica, competizione elettorale. Angelo Panebianco 06 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quei produttori da ascoltare Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:21:32 pm IL PDL, LA LEGA E LE PICCOLE IMPRESE
Quei produttori da ascoltare Che cosa sta accadendo nei rapporti fra il governo e quel mondo di piccole imprese del Nord che, oltre a essere la vera spina dorsale del nostro sistema economico, è sempre stato anche, fin dai giorni del suo ingresso in politica nel 1994, il nucleo duro, la componente più importante, del seguito elettorale di Silvio Berlusconi? Da diversi mesi le approfondite inchieste di Dario Di Vico pubblicate dal Corriere documentano il disagio e le grandi difficoltà che vive ogni giorno questo cruciale (per le sorti del Paese) ceto sociale. La situazione deve avere raggiunto livelli davvero allarmanti se ieri perfino Il Giornale (per la penna, come sempre lucida, di Nicola Porro), commentando l'incontro nel Varesotto (a Vergiate) di una nutrita platea di piccoli imprenditori con Bossi e Tremonti, notava che in quel mondo «… l'umore è pessimo. Ancora, miracolosamente, non si è tradotto in aperta contestazione alla gestione di questo governo …. Ma la riserva di pazienza … è in via di esaurimento». Tradizionalmente sottorappresentata nella Prima Repubblica, la classe media del Nord (piccoli e medi imprenditori, artigiani, professionisti, commercianti) vide improvvisamente cambiare il proprio rapporto con la politica nel 1994. Le elezioni di quell'anno sono ricordate soprattutto per il successo di Berlusconi e del suo partito, Forza Italia, costruito in pochi mesi. Ma il cambiamento forse più profondo riguardò gli equilibri territoriali della rappresentanza: per la prima volta nella storia repubblicana, sotto il traino di Forza Italia e della Lega, il Nord, e segnatamente la Lombardia, acquistava una centralità nelle istituzioni rappresentative che non aveva mai avuto in precedenza. Il «vento del Nord» manifestò, da allora, i suoi effetti con la massima intensità. Si può ritenere che le formidabili resistenze che l'allora outsider Berlusconi suscitò subito nel sistema politico, ma anche nel sistema della grande impresa e nell'insieme delle corporazioni che erano state i pilastri di sostegno della Prima Repubblica, fossero anche (non solo, ma anche) alimentate da una furibonda «lotta per la rappresentanza »: la lotta fra il Nord emergente e quegli ambiti, territoriali e professionali, tradizionalmente sovrarappresentati nell'arena politica, che avevano usufruito, durante la Prima Repubblica, di canali privilegiati di accesso ai Palazzi romani. Nel 1994 Berlusconi conquistò i ceti medi del Nord innalzando la bandiera della liberazione fiscale e della rivolta contro l'eccesso di burocrazia statale. Il suo successo fu tale che l'altro attore che aspirava a rappresentare quei ceti e che preesisteva a Forza Italia, la Lega di Bossi, si trovò relegato in un ruolo comunque importante ma secondario. Perché oggi le cose sono in movimento? Per tre ragioni, fondamentalmente. La prima è che Forza Italia, essendo confluita nel Popolo della Libertà, ha inevitabilmente acquisito un profilo meno «settentrionale» di un tempo. La sua capacità di ascolto è diminuita: deve tener conto anche degli interessi e delle aspirazioni di altre zone del Paese. La seconda è che la Lega ha affinato al massimo la sua capacità di azione sul territorio e si pone come l'interlocutore più presente e affidabile nel dialogo con i ceti medi del Lombardo- Veneto. Aspira, e i più recenti risultati elettorali la confortano, a sostituire il Pdl come rappresentante unico di quegli interessi. Agevolata anche da una struttura partitica che per livello di organizzazione e coesione ricorda un po' il Pci emiliano o toscano di qualche decennio fa. Il Pdl, poco coeso, diviso al suo interno in una pluralità di sottogruppi in competizione e senza presenza capillare sul territorio, perde progressivamente terreno a favore della Lega. La terza ragione ha a che fare con l'azione del governo. Ammainate le antiche bandiere della liberazione fiscale, delle liberalizzazioni e della de-burocratizzazione della vita economica, il governo Berlusconi non dispone, al momento, di una proposta forte, di alto profilo, con cui arginare la concorrenza della Lega. Assai più esposti ai colpi del mercato, per nulla protetti, a differenza della grande impresa, i piccoli imprenditori vedono sommarsi, ai mali antichi, le conseguenze della crisi. Il governo garantisce ascolto e provvedimenti ma la questione della rappresentanza, per questi ceti, resta apertissima. E' evidente che una parte di essi è già passata o si appresta a passare sotto le ali protettive della Lega, ma è altrettanto evidente che un'altra, forse più numerosa parte preferirebbe farne a meno. La Lega infatti, con la sua ideologia comunitario- territoriale, e una prassi coerente con quella ideologia, suscita anche diffidenze, promette protezione ma non sempre innovazione, rappresentanza sindacale di interessi territoriali ma non necessariamente dinamismo sociale. Prefigura una società relativamente chiusa, ancorché efficacemente difesa nei suoi interessi quotidiani, più che una società dinamica e aperta. Anche se va riconosciuto che la Lega è riuscita nel tempo a creare una classe di amministratori locali spesso competenti e con autentica capacità di ascolto nei confronti dei ceti produttivi. L'abbandono da parte del governo dell'antica proposta «liberista» che fu della Forza Italia delle origini è certo dovuta anche alla esigenza di fronteggiare la crisi, di attutirne gli effetti, senza destabilizzare i conti pubblici (che è quanto il ministro Tremonti, e l'esecutivo nel suo insieme, sono fin qui riusciti a fare con successo). Però è anche indubbio che in questo modo il Pdl si è trovato sprovvisto delle sue armi più efficaci nella sfida con la Lega per la rappresentanza dei ceti medi del Nord. In Germania il partito liberale ha riscosso un grande successo con la sua battaglia antitasse. Anche nel Nord d'Italia quello sembra essere il miglior terreno su cui chi ne avesse voglia e capacità potrebbe sviluppare un'azione efficacemente competitiva nei confronti della Lega e della sua utopia comunitaria. Angelo Panebianco 11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Re: Angelo PANEBIANCO. L’estremista, il fazioso e il pluralista Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2009, 03:56:48 pm CATEGORIE DI UNA (BRUTTA) STAGIONE
L’estremista, il fazioso e il pluralista Viviamo in una fase, simile ad altre della nostra storia, di incanaglimento della lotta politica, siamo immersi in un clima di guerra civile virtuale. Siamo, pur con i nostri difetti, una democrazia ma rispettabili pensatori di altri Paesi, aizzati da demagoghi nostrani, vengono a spiegarci che viviamo sotto una dittatura. Abbiamo un dibattito pubblico apertissimo ma c’è chi racconta che la libertà di stampa è minacciata. Alcuni parlano dell’Italia come se si trattasse dell’Iran o della Birmania. Abbiamo libere e regolari elezioni ma una parte non esigua degli elettori dello schieramento sconfitto non riconosce la legittimità del governo in carica (ma la stessa cosa facevano certi elettori dell’attuale maggioranza quando governavano i loro avversari). E’ in questi momenti che conviene tornare ai «fondamentali»: che cosa permette a una democrazia di sopravvivere? Di quali virtù o qualità deve essere dotata la cittadinanza democratica? La democrazia è un regime moderato. Ha bisogno che a guidare i governi siano sempre forze moderate, di destra o di sinistra, e che le componenti estremiste siano tenute a bada. Ma perché ciò accada occorre che, fra i cittadini, prevalgano certi atteggiamenti anziché altri. Nelle democrazie, in tutte, la maggioranza dei cittadini ha interesse nullo, scarso o sporadico per la politica. E’ sempre una minoranza, magari consistente ma pur sempre minoranza, a seguire con continuità le vicende politiche. Sono gli atteggiamenti prevalenti in questa minoranza a dettare tono e qualità della democrazia. Sono tre i tipi umani che più frequentemente si incontrano in tale minoranza: l’estremista, il fazioso, il pluralista. Li indico nell’ordine che va dal meno al più compatibile con la democrazia. Gli estremisti veri e propri, così come qui li intendo, sono (fortunatamente) sempre pochi, anche se rumorosi e, spesso, pericolosi. La loro presenza dipende da certe caratteristiche della politica, dal fatto che la politica, più di qualunque altra attività umana, si presta ad essere il luogo in cui si possono scaricare le frustrazioni personali. Per l’estremista la politica è una grande discarica nella quale egli getta la parte peggiore di sé. L’estremista è uno che odia. Odia se stesso in realtà ma trasforma l’odio per se stesso in odio per il «nemico politico». La politica, data la sua natura competitiva e conflittuale, si presta bene per questa operazione. Lo sventurato giovane che su Facebook si è chiesto perché nessuno abbia ancora ficcato una pallottola in testa a Berlusconi è una vittima del clima che gli estremisti alimentano (per inciso, quel brutto incidente potrebbe essere la sua fortuna: se non è uno stupido rifletterà, capirà che un uomo è tale solo se pensa con la sua testa, se non si fa comandare o suggestionare dal clima dominante negli ambienti che frequenta). Poi c’è il fazioso. A differenza dell’estremista il fazioso, come qui lo intendo, non è un caso psichiatrico. Però è spaventato dalle opinioni in contrasto con la sua. Nei mezzi di comunicazione cerca più conferme ai suoi pregiudizi che informazioni o dibattiti di idee. È rassicurato dall’idea che esista, in materia di politica, la «verità», unica, chiara, indiscutibile, e che egli, essendo onesto e intelligente, la conosca. Per lui, quelli che non vogliono accettare la verità in cui egli crede sono disonesti o stupidi. Il fazioso teme lo stress che gli procurerebbe il riconoscimento che il mondo è davvero complesso e ambiguo. Ha bisogno di contare su un quadro di certezze: di qua il bene, di là il male. Un grande economista, Joseph Schumpeter, diceva che spesso eccellenti persone, brave nel loro mestiere, sono in grado di parlare con competenza e maturità dei problemi della loro professione ma regrediscono all’infanzia appena cominciano a parlare di politica: il Bene, il Male, le fate e gli orchi, gli sceriffi col cappello bianco e i banditi col cappello nero. Il fazioso, essendo spesso tutt’altro che stupido, vive con patimento la sua contraddizione: la coesistenza, in lui, dell’orrore per le opinioni diverse dalla sua e del riconoscimento della necessità del pluralismo delle opinioni in una democrazia. C’è infine il pluralista. Accetta il fatto che il mondo sia complesso e, dunque, che non ci sia, sui fatti contingenti della politica, una Verità acquisita per sempre. Accetta che il problema sia, ogni giorno, quello (faticoso) di impadronirsi, confrontando le opinioni e riflettendo sui fatti, di quel poco di precarissima «verità» che si riesce ad afferrare. Senza abdicare alle proprie convinzioni più profonde non teme di ascoltare pareri diversi. Pensa che, se sono ben argomentati e presentati con garbo, possano anche arricchirlo. Quanto più nella minoranza che si interessa con continuità di politica prevale il tipo pluralista, tanto più la democrazia è salda e sicura. Non è questione di destra o sinistra o, attualmente, di berlusconiani e antiberlusconiani. Ci sono faziosi e pluralisti di ogni tendenza. Ad esempio, la differenza fra un fazioso antiberlusconiano e un pluralista antiberlusconiano è che per il primo Berlusconi è il nemico mentre per il secondo è solo un avversario. C’è poi la questione dell’uovo e della gallina. Ci sono fasi in cui, entro la minoranza che segue la politica, i pluralisti si trovano in difficoltà e sembrano quasi soccombere di fronte alla prepotenza dei faziosi (sempre seguiti da un imbarazzante codazzo di estremisti). È difficile stabilire se in quei momenti i faziosi prevalgono perché aizzati dalle urla di furbi demagoghi o se, invece, i furbi demagoghi hanno successo a causa dell’esistenza di una folta pattuglia di faziosi. Angelo Panebianco 19 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'emergenza meridionale Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 11:20:04 pm IL SUD TRAVOLTO DALLE INCHIESTE
L'emergenza meridionale L’inchiesta che coinvolge l’ex ministro della giustizia Clemente Mastella, alcuni suoi familiari ed esponenti dell’Udeur è l’ultimo tassello che si aggiunge alle affollatissime cronache politico- giudiziarie campane. Ha scioccato tutti il caso di Castellammare di Stabia: il camorrista con tessera del Pd che ha ammazzato un consigliere comunale del suo stesso partito. Poi c’è stata la sconsolata intervista ( Corriere , 20 ottobre), di fatto una dichiarazione di impotenza, di Enrico Morando, commissario straordinario del Partito democratico in Campania. Mentre, a pochi giorni ormai dalle primarie del Pd, si discute se sospenderle o no in Campania, date le condizioni in cui versa il partito (come dimostrano i tesseramenti gonfiati dalle lotte di corrente). Una débâcle per il Pd in una regione nella quale la sinistra è dominante da decenni. Si aggiunga, per completare il quadro campano, che anche a destra, nelle fila dell’opposizione, non se la passano bene. Come mostra il conflitto, interno al Pdl, sulla candidatura alle regionali di Nicola Cosentino, a sua volta coinvolto in un’indagine per presunte relazioni con la camorra. Premesso che l’unico modo per salvaguardare un minimo di civiltà è tenersi abbarbicati alla presunzione di non colpevolezza per qualunque indagato, resta che i discorsi che si sentono fare sanno di vecchio. Si può continuare a guardare il dito anziché la luna e raccontarsi che il problema sono le «infiltrazioni » criminali nei partiti o il clientelismo dei politici. Ma significa prendersi in giro. I partiti, organizzati o no, pesanti o leggeri, sono strutture che si adattano all’ambiente. L’ambiente è il Paradiso? I partiti saranno composti da angeli. L’ambiente è l’inferno? Prevarranno i diavoli. L’ambiente chiede sostegno al mercato? E’ ciò che i partiti daranno. L’ambiente chiede spesa pubblica e clientelismo? I partiti soddisferanno la richiesta. Non è dai partiti ma dalla società che dovrebbe partire la bonifica. Il problema (che sta mettendo a rischio l’unità stessa del Paese) della Campania, come di vaste zone del Sud, è che non c’è più da decenni un progetto plausibile per lo sviluppo nel Mezzogiorno. Non ce l’ha la destra come non ce l’ha la sinistra. A meno che non si dica che il progetto per il Mezzogiorno sia il federalismo fiscale (si può immaginare l’effetto catartico del federalismo fiscale su Castellammare di Stabia). O la banca del Sud. O i piani per una «Lega Sud» (che sarebbe anche una buona idea ma solo se il suo slogan fosse «mettiamoci a fare denaro», ossia impegnamoci per lo sviluppo, anziché «dateci i denari»). Forse sarebbe il caso di convenire che in ampie zone del Sud (non in tutte, certo) mancano attualmente le condizioni minime che rendono praticabile la democrazia locale (comunale, provinciale, forse anche regionale) e che un commissariamento centrale si rende, per quelle zone, e per molti anni, indispensabile. In modo da coordinare interamente dal centro sia la guerra alle organizzazioni criminali sia l’imposizione (per lo più, contro le classi dirigenti locali) di progetti di sviluppo. Occorrerebbe un accordo di ferro fra maggioranza e opposizione. Siccome quell’accordo non si può fare, continueremo ad ascoltare impotenti le notizie che arrivano dalla Campania e da altre zone del Sud lamentando le solite infiltrazioni, la solita corruzione, il solito clientelismo. Angelo Panebianco 22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA DA CORRIERE.IT Titolo: PANEBIANCO. Il provincialismo che frena le riforme (untori pro-silvio?). Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 09:57:25 am TIMORI DI UN ESECUTIVO FORTE
Il provincialismo che frena le riforme C’ è la tenue possibilità, come ha osservato Sergio Romano (il Corriere, 1˚novembre) che l’elezione di Pier Luigi Bersani a segretario del Partito democratico contribuisca a rendere meno irrespirabile l’aria del Paese. C’è l’interesse del governo ad evitare, per il futuro, continui scontri frontali con l’opposizione: la sponsorizzazione della candidatura di Massimo D’Alema alla carica di responsabile della politica estera della Unione europea è una mossa che va in quella direzione. Ma c’è anche un interesse di Bersani a superare il clima da guerra civile. Bersani, la cui tradizione politica di provenienza teneva in gran conto il realismo, sa bene che quel clima può favorire solo gli estremisti. Alla lunga, la «politica delle urla» danneggia le forze moderate di sinistra. Si tratta di una possibilità tenue. I «combattenti della guerra civile» non molleranno l’osso, hanno troppo da perdere. Se ci sarà, su certi temi, dialogo fra maggioranza e opposizione, si può scommettere che Bersani verrà accusato dai suddetti combattenti di essere un traditore. Ma Bersani si gioca il futuro del Pd. Sa che deve dare del suo partito l’immagine di una «forza tranquilla », capace di occuparsi con serietà dei problemi del Paese. Solo così può sperare di attrarre, nel Nord d’Italia soprattutto, quella parte di elettorato che oggi non lo voterebbe ma che potrebbe domani cambiare idea, che potrebbe abbandonare il centrodestra se il Partito democratico fosse capace di costruirsi una reputazione di seria e dinamica forza riformista. Per qualificare così il proprio partito Bersani deve cercare il dialogo con la maggioranza là dove più accentuato è l’attivismo riformista del governo. Lavoro, scuola- università, pubblica amministrazione sono àmbiti nei quali il governo, comunque si giudichi la sua azione, ha mostrato una forte caratura riformista. Che deve fare l’opposizione? Continuare a dire che «è tutto sbagliato, è tutto da rifare», oppure tentare di dialogare apertamente col governo cercando reali punti di incontro per poi poter rivendicare una parte del merito dei provvedimenti adottati? Se sui temi suddetti, e anche su altri (per esempio, le questioni degli sgravi fiscali alle imprese o della potatura della spesa improduttiva) il Pd fosse capace di presentarsi con proposte costruttive verrebbe certo accusato di intelligenza col nemico dai guerrafondai ma potrebbe guadagnare credibilità agli occhi dell’elettorato più centrista. C’è poi il capitolo delle riforme istituzionali. Qui il terreno però è decisamente minato. Capire dove sono collocate le mine è importante. Sulla riforma della giustizia, nonostante l’opera, comunque preziosa, di pontieri di prestigio come Luciano Violante, le possibilità di azione bipartisan sembrano, al momento, scarse o nulle. È improbabile che il governo presenti un progetto di riforma che possa ottenere l’avallo della Associazione nazionale magistrati. E senza quell’avallo è difficile che il Pd sia in grado di accordarsi col governo. Probabilmente, la questione della riforma della Costituzione (tranne negli aspetti che toccano il tema della giustizia) diventerà, di nuovo, come tante altre volte in passato, un terreno di seria discussione fra maggioranza e opposizione. Le fondazioni che fanno capo a Gianfranco Fini e a Massimo D’Alema ci lavorano su da qualche tempo. E Violante ha ricordato i punti su cui, in Parlamento, è forse possibile trovare una intesa: «Trasformare il Senato in Camera delle Regioni, lasciare a Montecitorio la legislazione ordinaria e il potere di dare e togliere la fiducia, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare i poteri del presidente del Consiglio » ( Il Foglio , 31 ottobre). Pur auspicando che un’intesa si trovi, mi permetto di essere scettico. A meno che non cambino certe condizioni. Di riforma della Costituzione si parla dai tempi di Craxi e sono sempre falliti tutti i tentativi di farla. Le responsabilità di questi ripetuti fallimenti non sono solo della classe politica. Sono anche di quelle forze, esterne alla classe politica in senso stretto, che hanno il potere di legittimare oppure di delegittimare l’operazione di riforma. Penso, in particolare, ai professori di diritto costituzionale. Fin quando la maggioranza dei costituzionalisti, come fino ad oggi è stato, manterrà un atteggiamento conservatore, le possibilità di cambiamento consensuale della Costituzione continueranno ad essere ridotte. Immaginiamo che si trovi un accordo sui punti indicati da Violante, ivi compreso il più controverso: il rafforzamento dei poteri del capo del governo. Non ci sarebbe immediatamente una straordinaria mobilitazione di costituzionalisti di prestigio contro la «deriva autoritaria », contro il «fascismo alle porte»? E quella mobilitazione, sfruttata dalle forze politiche e dai giornali contrari all’accordo, non avrebbe un potente effetto delegittimante sull’intera operazione? Così è stato in passato. Perché le cose dovrebbero oggi cambiare? In una eccellente ricostruzione- analisi della vicenda che apparirà sul numero di novembre di Le nuove ragioni del socialismo (e la cui lettura consiglio a quei politici, di maggioranza e di opposizione, che vogliano seriamente imbarcarsi nell’impresa), Augusto Barbera mostra benissimo quanto il provincialismo, l’incapacità di confrontarsi con le esperienze costituzionali europee — britannica, spagnola, tedesca — pesi sui pregiudizi, non solo dei politici, ma anche di molti costituzionalisti. Fare le riforme costituzionali non è solo una questione affidata alle possibilità di accordo fra maggioranza e opposizione. È anche una questione di aggregazione di consenso fra coloro che sono ritenuti competenti e legittimati a dire la loro sull’argomento. Convincere la cultura costituzionalista del Paese che la democrazia richiede governi istituzionalmente forti è un lavoraccio: troppi costituzionalisti pensano ancora il contrario. Ma è un lavoraccio necessario, se si vuole arrivare a risultati. Altrimenti, la ripresa del dialogo sulle riforme costituzionali sarà solo, come altre volte, una scusa per instaurare, per qualche mese, un clima meno avvelenato fra le forze politiche. Meglio di niente. Ma troppo poco, forse, per le esigenze del Paese. Angelo Panebianco 03 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il presidente sconosciuto Inserito da: Admin - Novembre 09, 2009, 11:36:23 am SE VAN ROMPUY GUIDERA’ L’EUROPA
Il presidente sconosciuto Dal trattato di Lisbona, ora che con la ratifica della Repubblica Ceca è caduto l'ultimo ostacolo formale che ne impediva la messa in opera, nessuno si aspetta miracoli. Ma ci si aspetta che arresti la crisi delle istituzioni europee iniziata con la mancata ratifica del trattato costituzionale a seguito dei referendum francese e olandese del 2005 e il contraccolpo che ne è seguito: la marcata «rinazionalizzazione » della politica europea, il passaggio a una fase in cui i governi europei, con le loro specifiche esigenze, hanno occupato tutta la scena. Dalle disposizioni del trattato ci si attende più forza per le istituzioni dell’Unione e più efficienza per i suoi processi decisionali. Ci si aspetta, più in generale, condizioni favorevoli al riavvio del processo di integrazione. Ma l'Unione, anche con il nuovo trattato, resta un sistema complesso nel quale elementi di sovranazionalità e potere degli Stati sono obbligati a convivere. E la loro convivenza comporta inevitabilmente difficoltà e incongruenze. Come mostrano le stesse dinamiche connesse alla «partita» delle nomine previste dal trattato di Lisbona: la nomina del presidente del Consiglio europeo e quella dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica della sicurezza. In entrambi i casi, anche se in modo diverso, si pone il problema della ricerca di un difficile equilibrio fra esigenze nazionali (dei singoli Stati) ed esigenze europee (dell'Unione nel suo complesso). La principale esigenza europea è che le cariche di presidente e di responsabile della politica estera si consolidino e acquistino col tempo crescente prestigio: in una parola, che si «istituzionalizzino ». L'inizio è decisivo. Una falsa partenza (per esempio, dovuta alla scelta di candidati di basso profilo) potrebbe compromettere l'operazione, togliere forza alle cariche previste dal trattato. Il problema è se, e fino a che punto, l'esigenza europea si concilia con le esigenze nazionali, i calcoli e le aspettative dei governi più coinvolti in questa partita. Prendiamo il caso della presidenza del Consiglio europeo. C'è (o c'era) sul tavolo un'unica candidatura di grande prestigio, quella di Tony Blair. Ma è traballante o forse già tramontata e va rafforzandosi l’ipotesi di una guida affidata all’attuale primo ministro belga Herman van Rompuy. Blair ha, o aveva, profilo e statura giusti per dare forza e slancio alla Presidenza del Consiglio. Ma poi ci sono le esigenze nazionali, non necessariamente congruenti con l'interesse europeo. A parte la convenienza dei conservatori britannici, probabili vincitori delle prossime elezioni, a non avere un avversario politico interno come Blair alla testa dell' Unione, c'è la più generale circostanza che i governi dei grandi Stati possono preferire per quella carica uomini di più bassa statura politica: qualche rispettabile figura sconosciuta ai più, troppo debole per dare lustro alla carica ma malleabile e disposta a seguire docilmente le istruzioni dei governi che più contano in Europa. Anche nel caso della nomina del responsabile della politica estera il problema della composizione fra interessi nazionali e interesse europeo si pone. Ma in modo diverso rispetto al caso precedente: qui sono in campo solo nomi di prestigio. Noi italiani siamo direttamente coinvolti in questa partita in virtù della scelta del governo Berlusconi di appoggiare la candidatura di Massimo D’Alema. Una candidatura forte anche in Europa, per la statura del personaggio (già primo ministro e poi ministro degli Esteri nell’ultimo governo Prodi). Alla candidatura di D’Alema si contrappone, fino a ora, solo quella dell’attuale ministro degli Esteri britannico David Miliband. È evidente dove stia, nel caso della candidatura di D’Alema, l’interesse nazionale italiano così come le nostre principali forze lo interpretano: non solo si ottiene per un prestigioso politico italiano una carica così importante ma, in più, la sponsorizzazione del governo, se l’operazione andasse in porto, avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra maggioranza e opposizione. C’è poi, anche in questo caso, l’interesse europeo. Esso può essere soddisfatto dall’alto profilo dei candidati. Ma dal punto di vista europeo, c’è un ulteriore problema: come la politica estera dell’Unione verrebbe influenzata dalla scelta dell’uno o dell’altro? L’Alto rappresentante ha infatti, almeno sulla carta, considerevoli poteri. Può incidere davvero (anche se, naturalmente, sempre coordinandosi con i governi che contano) sulle scelte dell’Unione. E i dossier su cui dovrà lavorare sono davvero delicati: rapporti con gli Stati Uniti, rapporti con la Russia, e tutte le esplosive questioni mediorientali. Sia D’Alema che Miliband sono politici di razza, non banderuole, e conosciamo i loro convincimenti. È presumibile che la politica estera della Ue risulterebbe parzialmente diversa a seconda che l’uno o l’altro divenisse «ministro degli Esteri» europeo. Sono note, ad esempio, certe riserve che la candidatura di D’Alema suscita in Italia e fuori d’Italia, non certo per la persona (il cui valore è considerato fuori discussione) ma per un aspetto, soprattutto, della sua passata esperienza di ministro degli Esteri: la sua politica di allora per il Medio Oriente, il suo filo arabismo, e la sua posizione meno comprensiva per le ragioni di Israele che per quelle dei suoi nemici. D’altra parte anche per Miliband non mancano le riserve, se non altro data la tradizionale posizione della Gran Bretagna, critica di molti aspetti della costruzione europea. Sarebbe utile se i diversi candidati per le cariche in gioco fossero chiamati a esporre preventivamente di fronte all’opinione pubblica europea le loro intenzioni sulle più delicate questioni che ha di fronte a sé la Ue. Ciò aiuterebbe forse a trovare il giusto equilibrio fra i legittimi interessi nazionali e l’altrettanto legittima esigenza degli europei di conoscere quale politica i prescelti contribuirebbero a costruire. Angelo Panebianco 09 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se l’Islam diventa partito Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 04:44:46 pm PERCHE’ PREOCCUPA L’ANNUNCIO SPAGNOLO
Se l’Islam diventa partito La politica democratica è strutturalmente vincolata a un orizzonte di breve periodo. La natura del sistema democratico spinge gli uomini politici ad occuparsi solo dei problemi che agitano il presente. Le altre grane, quelle che già si intravedono ma che ci arriveranno addosso solo domani o dopodomani non possono essere prese in considerazione. A differenza di ciò che fa la migliore medicina, la politica democratica non si occupa di prevenzione. Se così non fosse, una notizia appena giunta dalla Spagna dovrebbe provocare grandi discussioni entro le classi politiche di tutti i Paesi europei, Italia inclusa. La notizia è che, come era prima o poi inevitabile che accadesse, c’è già su piazza un partito islamico che scalda i muscoli, che è pronto a presentarsi con le sue insegne nella competizione elettorale di un Paese europeo. Si tratta del Prune, un partito fondato da un noto intellettuale marocchino, da anni residente in Spagna, Mustafá Bakkach. Ufficialmente, il suo intento programmatico è di ispirarsi all’islam per contribuire alla rigenerazione morale della Spagna. In realtà, cercherà di difendere e diffondere l’identità islamica. Avrà il suo battesimo elettorale nelle elezioni amministrative del 2011. Se otterrà un successo, come è possibile, solleverà un’onda (ce lo dicono i flussi migratori e la demografia) che attraverserà l’intera Europa. L’effetto imitativo sarà potente e partiti islamici si formeranno probabilmente in molti Paesi europei. A quel punto, la strada della auspicata «integrazione» di tanti musulmani che risiedono in Europa diventerà molto ripida e impervia. Perché? Perché la scelta del partito islamico è la scelta identitaria, la scelta della separazione, dell’auto- ghettizzazione. Si potrebbe anche dire, paradossalmente, che quando nasceranno i partiti islamici sarà possibile valutare davvero quale sia, per ciascun Paese europeo, il reale tasso di integrazione dei musulmani. Perché è evidente che il musulmano integrato (per fortuna, ce ne sono già moltissimi), quello che vive quietamente la sua fede e non ha rivendicazioni identitario-religiose da avanzare nei confronti della società europea in cui risiede e lavora, non voterà per il partito islamico. A votarlo però saranno comunque molti altri, sia per adesione spontanea (in nome di un senso di separatezza identitaria) sia a causa della pressione degli ambienti musulmani che frequentano. Al pari del partito islamico spagnolo, si capisce, ogni futuro partito islamico europeo dichiarerà (e non ci sarà ragione di credere il contrario) di rifiutare la violenza. Non potrà infatti rischiare (pena il fallimento del progetto politico) vicinanze o contaminazioni con cellule terroriste più o meno attive o più o meno dormienti in Europa. Ma ciò non toglie che l’ideologia dei partiti islamici sarà comunque quella tradizionalista/ fondamentalista. Sarà l’ideologia della cosiddetta Rinascita islamica, impregnata di valori antioccidentali e, alla luce del metro di giudizio europeo, illiberali. Si tratterà di forze illiberali che useranno la politica per strappare nuovi spazi, risorse e mezzi di indottrinamento e propaganda. Per questo, il loro ingresso nel mercato politico-elettorale europeo bloccherà o ritarderà a lungo l'integrazione di tanti musulmani. Che fare? La politica democratica non può facilmente difendersi da questa insidia. Però le possibilità di successo o di insuccesso dei partiti islamici nei vari Paesi europei dipenderanno da un insieme di condizioni. Conteranno certamente anche le maggiori o minori chances che ciascun singolo musulmano avrà di ben inserirsi nel lavoro, e di poter accedere, per sé e per la propria famiglia, a condizioni di benessere (ma guai a credere che basti solo questo per annullare le spinte identitarie). Conteranno anche, e forse soprattutto, le caratteristiche istituzionali dei vari Paesi europei. Si difenderanno meglio, io credo, le democrazie dotate di sistemi elettorali maggioritari (che rendono difficile l’ingresso di nuovi partiti) rispetto a quelle che usano l’una o l’altra variante del sistema proporzionale. La Gran Bretagna ha commesso errori colossali con la sua politica verso l’immigrazione musulmana. Il suo scriteriato «multiculturalismo» ha finito per consegnare all’Islam, e anche all’Islam più radicale, importanti porzioni del suo territorio urbano (al punto che oggi la Gran Bretagna deve persino fronteggiare il fenomeno dei numerosi cittadini britannici, di lingua inglese, che combattono in Afghanistan insieme ai loro correligionari talebani). Tuttavia, quegli errori sono forse ancora rimediabili. Il sistema maggioritario rende infatti molto difficile l’ingresso nel mercato politico britannico di un partito islamico. Diverso è il caso dei Paesi ove vige la proporzionale nell’una o nell'altra variante: l'ingresso è relativamente facile e la politica delle alleanze e delle coalizioni, tipicamente associata ai sistemi proporzionali, garantisce influenza e potere anche a piccoli partiti. Una circostanza che i futuri partiti islamici potranno sfruttare a proprio vantaggio. Da antico, e non pentito, sostenitore del sistema maggioritario penso che quella qui descritta rappresenti una ragione in più per adottarlo. Angelo Panebianco 18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il bipolarismo al tramonto (realtà distorte pro silvio) Inserito da: Admin - Novembre 25, 2009, 03:44:45 pm SEGNALI A DESTRA (E A SINISTRA)
Il bipolarismo al tramonto Prosegue il lento disfacimento della trama bipolare. Forse scopriremo in seguito che il bipolarismo (competizione e alternanza fra due schieramenti) ha rappresentato una parentesi nella storia repubblicana. Una parentesi che ha coinciso con l'era Berlusconi. E' iniziata con la «discesa in campo» del 1994 e finirà nell'istante in cui Berlusconi (inventore e federatore del centrodestra che non lascia eredi politici) uscirà di scena. Ma, contrariamente a ciò che pensano alcuni, la fine del bipolarismo non porterà stabilità. Verosimilmente, almeno per una lunga fase, accrescerà instabilità e ingovernabilità. L'ultimo scontro fra Gianfranco Fini e la Lega è solo un altro episodio che segnala il disfacimento in atto del bipolarismo. Che cosa ha detto in realtà Fini parlando di razzismo? Ha ribadito ciò che si sapeva, ossia che, quando Berlusconi se ne andrà, egli romperà l'alleanza con la Lega. Senza più federatore, il centrodestra si spaccherà: da una parte, presumibilmente, Tremonti e Bossi asserragliati nel fortilizio nordista, dall'altra parte ciò che resterà del fu-Popolo della Libertà. E qui entrano in gioco i calcoli (e le illusioni) di coloro che dall'esterno sperano in quel risultato. I calcoli, prima di tutto, del Partito democratico. Comprensibilmente, il neosegretario Bersani punta le sue carte sulla speranza che, dopo Berlusconi, il centrodestra si disintegri. Ciò che forse Bersani non considera è che la disgregazione del centrodestra scatenerebbe un terremoto anche nel centrosinistra. Le prime elezioni del post-Berlusconi le vincerà probabilmente il Partito democratico (per una ragione meccanica: vince chi aggrega i suoi, perdono quelli che vanno alle elezioni divisi) ma c'è la possibilità che si tratti di una vittoria di Pirro. Il tramonto del bipolarismo susciterà potenti spinte centrifughe dentro lo stesso Partito democratico. Sarà durissima governare con forti divisioni interne, con l'ingombrante alleanza del populismo autoritario di Di Pietro e con una parte assai significativa del Nord all'opposizione. E' difficile che possa essere un'esperienza lunga e di successo. Poi ci sono i calcoli di coloro che grazie alla disgregazione del centrodestra sperano di poter confezionare una grande formazione neo-centrista. E' il sogno della nuova Dc. Richiede un cambiamento di sistema elettorale (proporzionale con o senza sbarramento). L'illusione sta nel credere che un forte partito neo-centrista, magari pronto ad allearsi al Partito democratico in un nuovo «centrosinistra» (nell'accezione della Prima Repubblica), possa stabilizzarsi subito, senza passare per un lungo periodo di rodaggio. E senza fare i conti con il ruolo della Lega al Nord. Se finirà il bipolarismo, il periodo di instabilità che seguirà sarà, presumibilmente, assai lungo. Avremo per un certo tempo più disgregazioni che aggregazioni dentro il sistema politico. Uno scenario che potrà essere scongiurato solo se Tremonti, Fini e gli altri maggiorenti del centrodestra troveranno un nuovo punto di incontro. Oggi ciò appare, però, poco probabile. Né sembra che Berlusconi abbia la forza o la volontà per favorire una tale evoluzione. La fragilità della politica italiana sta nel fatto che i suoi equilibri poggiano interamente sulle spalle di un uomo solo. Quando egli uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Dopo di che ci aspetterà, probabilmente, un'altra interminabile «transizione». In stile italiano. Angelo Panebianco 25 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. (saper scrivere per mistificare non da' onore. ADmin). Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2009, 09:19:52 am La via d’uscita dall’estremismo
L’intervento di Fabrizio Cicchitto alla Camera due giorni fa, dedicato all'identificazione, nomi e cognomi, di quelli che egli considera i «mandanti morali» dell'aggressione fisica al premier, è stato del tutto sbagliato e inopportuno. Non aiuta il clima politico. Soprattutto, non aiuta il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, a sciogliere i nodi che egli sa di dover sciogliere. Sarebbe anche nell'interesse del centrodestra, e del Paese, che questo avvenisse. Possiamo mettere in questi termini il problema dell’opposizione. La sua componente estremista ha un capo riconosciuto, con un profilo netto, Antonio Di Pietro. Bersani, invece, deve ancora dimostrare di saper essere, al di là della carica politica, il capo riconosciuto, con un profilo altrettanto netto, della componente democratica dell'opposizione. Quando si dice che il Pd dovrebbe rompere l'alleanza con Di Pietro si dice una cosa giusta ma banale. Si perde di vista che «rompere con Di Pietro» sottintende una complessa operazione politica che, per essere attuata, ha bisogno di una leadership coi fiocchi. Si tratta di un'operazione che implica sia la resa dei conti con il «dipietrismo interno» al Partito democratico sia una ricalibrazione dei rapporti con le forze esterne (certi magistrati, certi giornali, eccetera), che sul dipietrismo interno al Pd hanno sempre fatto leva per condizionarne la politica. Opporsi alla persona di Berlusconi o opporsi alle politiche del governo? La risposta rivela la concezione della lotta politica, nonché il giudizio sullo stato della nostra democrazia, di ciascun singolo oppositore. Da quando c’è Berlusconi le due anime hanno convissuto e, quasi sempre, quella antiberlusconiana pura ha prevalso, essendo stato fin qui l'antiberlusconismo il vero ancoraggio identitario della sinistra. E’ evidente che Bersani, per la sua storia personale, ambirebbe a portare il Pd fuori dall'orbita del massimalismo antiberlusconiano, dare a quel partito ciò che esso non ha: un chiaro profilo riformista. E’ anche evidente che egli (legittimamente) si preoccupa di non perdere consensi. Poiché il massimalismo antiberlusconiano è ben presente nell'elettorato e fra i militanti del Pd un’operazione che separi nettamente i destini politici degli estremisti da quelli dei riformisti appare, sulla carta, assai rischiosa. Ma qui entra in gioco la questione della leadership. Immaginiamo che Bersani batta il pugno sul tavolo e dica: «Di Pietro non è un alleato ma un avversario da isolare e i dipietristi interni al partito sappiano che non sarà più tollerato chi tiene il piede in due staffe. A loro volta, le forze esterne che pretendono di condizionarmi sappiano che la linea politica del Pd la detto solo io a nome della maggioranza congressuale che mi ha espresso. Se vogliono opporsi a me e logorarmi si accomodino ma sia chiaro che, così facendo, favoriranno il centrodestra ». Gli antiberlusconiani duri e puri (anche quelli del Pd) griderebbero al tradimento ma ciò potrebbe essere compensato dalla scoperta, da parte degli elettori di sinistra, del fatto che c'è ora in circolazione un leader riformista forte e vero, dal profilo netto, che potrebbe domani anche portarli alla vittoria. La politica, si dice, è ormai troppo debole per non essere condizionata da forze esterne. Tramontata l’epoca dei partiti di massa, è solo la leadership che può ridare forza alla politica. Angelo Panebianco 17 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il piede in due staffe (anche i lacchè scrivono)... Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2009, 05:27:26 pm Il piede in due staffe
Una delle ragioni per le quali non conviene prendere troppo sul serio l'attuale revival di discussioni sulle «riforme costituzionali» è che le trattative sulle riforme sono come i negoziati internazionali: non portano a nulla se l'uno o l'altro (sia esso un partito politico o uno Stato) dei supposti protagonisti della trattativa è debole e diviso al suo interno, il che lo rende un negoziatore poco efficace e poco affidabile. Questa è la situazione in cui versa oggi il Partito democratico. La conclusione del congresso di quel partito, come era forse prevedibile, non lo ha ricompattato e stabilizzato. Nonostante gli sforzi di Bersani, si fatica a intravedere una linea chiara. Se Bersani dice una cosa qualsiasi, gli esponenti della minoranza lo rimbeccano immediatamente sui giornali. A volte, dicono cose opposte a quelle che sostiene il segretario persino certi esponenti della stessa maggioranza (caso Rosy Bindi). Il Partito democratico è preda di una specie di «congresso permanente» che alcuni, o molti, confondono con la democrazia. I partiti di governo, tenuti insieme dai dividendi del potere, possono permettersi un simile coro di voci discordanti (talvolta, ne sono persino avvantaggiati). I partiti di opposizione non possono. Le difficoltà della leadership sono ben rispecchiate nel modo in cui il Pd si avvia verso le elezioni regionali. In Lazio non ha ancora trovato un candidato da opporre a una sfidante fortissima come Renata Polverini, in Puglia la questione Niki Vendola ne sta da tempo dilaniando le carni. La Campania è già praticamente persa. Piemonte e Liguria, se i sondaggi sono attendibili, sono in bilico. Il Pd rischia assai grosso. Un quasi-cappotto alle regionali suonerebbe come una campana a morto. È tradizione, in Italia, che l'opposizione ottenga lusinghieri successi alle elezioni regionali. Una sconfitta del Pd testimonierebbe, a un tempo, della buona salute di cui continuano a godere i partiti di governo e della malattia che attanaglia il maggior partito di opposizione. La malattia si chiama crisi di identità e le incertezze del partito sulla questione delle alleanze ne sono la spia. L'amletico dubbio è: rompere con Antonio Di Pietro e allearsi con l'Udc (peraltro determinante in molte regioni) adottando con decisione quello stile di opposizione pacata e responsabile che è nelle corde di Bersani o perseverare in un’alleanza che spaventa e allontana i moderati? La minoranza del partito vuole che con Di Pietro non si rompa. Alcuni esponenti vicini a Massimo D'Alema vorrebbero il contrario. Sapendo peraltro che mettere fine all'alleanza con Di Pietro significherebbe attirarsi gli strali, e le consuete accuse di tradimento, di quei mezzi di informazione che campano sull’antiberlusconismo radicale. Come sempre, quando un partito è tirato per la giacca in direzioni opposte, a prevalere, almeno temporaneamente, è il «centro», in questo caso rappresentato da coloro che ritengono conveniente tenere il piede in due staffe: corteggiare l'Udc e non spezzare il rapporto con Di Pietro. Ma in politica quelli che tengono il piede in due staffe rischiano molto: rischiano di essere considerati da chi li osserva «né carne né pesce». È la condizione peggiore che si possa immaginare quando si tratta di andare a chiedere ai cittadini consensi e voti. Angelo Panebianco 30 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le fermezza e l'ipocrisia Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2010, 07:01:12 pm Le fermezza e l'ipocrisia
Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni. Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni. Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa? Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore. Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni. Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri. C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema. Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione. E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili. Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti. Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata. Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?). Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati. Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale». Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale. Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale. La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive. In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai. Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili. Angelo Panebianco 08 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La rivoluzione mancata del pdl Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2010, 03:00:12 pm La rivoluzione mancata del pdl
Il paradosso delle tasse In materia di tasse Silvio Berlusconi ha un grande merito e un altrettanto grande demerito. Il merito è che la questione della riduzione drastica delle tasse entrò nella agenda italiana grazie a lui. Ai tempi della Prima Repubblica il tema era tabù. La Lega di Bossi, è vero, ne aveva parlato prima ma, in quel caso, le tasse erano solo un elemento fra gli altri entro la cornice del rivendicazionismo identitario-territoriale. Il demerito di Berlusconi è di non avere dato seguito alla promessa. Sergio Rizzo ( Corriere, 11 gennaio) ha ricostruito in modo esauriente la storia degli annunci e delle promesse mancate. Per arrivare a oggi, quando nel giro di pochi giorni Berlusconi ha rilanciato il vecchio progetto delle due sole aliquote per poi subito accantonarlo. L’occasione mancata risale al governo Berlusconi del 2001-2006. Si andò vicino al traguardo con la legge delega, predisposta da Giulio Tremonti, che introduceva le due aliquote. Poi i contrasti nella maggioranza bloccarono il progetto. Berlusconi non fu capace di imporre ai suoi alleati una riforma su cui si giocava l’identità politica sua e di Forza Italia. Perché ora dovremmo credere che la grande riforma fiscale si farà, se non venne fatta allora, in un’epoca di espansione economica internazionale? Il paradosso delle tasse può essere così riassunto: la storia di un quindicennio mostra che Berlusconi è inaffidabile quando promette la riforma fiscale. Al tempo stesso, c’è la quasi certezza che se la riforma non verrà fatta da lui non verrà fatta da nessun altro. Non dal centrosinistra che sulle tasse ha ereditato gli atteggiamenti della classe politica della Prima Repubblica e che, per cultura, e per gli interessi della sua constituency elettorale, è ostile a riduzioni generalizzate della pressione fiscale. Ma nemmeno dal centrodestra, nel quale, tolta la componente di Forza Italia (e neppure tutta) del Pdl, sono presenti tanti politici che sulle tasse non hanno mai condiviso fino in fondo le idee (o i sogni?) di Berlusconi. Certo, per ridurre le tasse occorre prima tagliare la spesa pubblica (campa cavallo). Oppure, come sostiene il «partito liberista» (da Antonio Martino a Oscar Giannino, ad Alberto Mingardi), occorre rovesciare le priorità: fare in modo che sia una drastica riduzione delle tasse a imporre la contrazione della spesa pubblica. Ci sono nodi tecnici da sciogliere, e conti da far quadrare, come il ministro Tremonti ricorda. Ma ci sono anche nodi politici. Ridurre le tasse significa destabilizzare clientele e corporazioni che vivono di spesa pubblica, colpire gli interessi cresciuti al riparo di un’alta fiscalità. E favorire cambiamenti di mentalità, fare accettare anche nelle aree del Paese che non ci credono l’idea che un livello troppo alto di tassazione sia un indicatore della scarsa libertà dei cittadini. Con lodi o biasimi, a seconda degli orientamenti, gli ultimi decenni verranno ricordati nei libri di storia come quelli della «era Berlusconi». Ma se Berlusconi non riuscirà a rivoluzionare il fisco, nemmeno il più benevolo degli storici vi aggiungerà mai la parola «liberale». Angelo Panebianco 16 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il bipolarismo senza equilibrio Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2010, 08:48:12 pm Il bipolarismo senza equilibrio
La nostra vita pubblica, apparentemente immobile, sembra vivere in realtà di oscillazioni radicali, sembra evolvere passando da uno squilibrio all’altro. Da noi, si tratti di rapporti fra politica e giustizia, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni entro il sistema dei partiti, non si trovano mai o quasi mai «punti di equilibrio» soddisfacenti. Nei rapporti fra politica e magistratura, ad esempio, siamo passati dal dominio della politica con debole o nulla indipendenza dei magistrati (nei primi decenni della Prima Repubblica) alla situazione opposta del predominio giudiziario sulla politica. Forse, l’episodio emblematico che consacrò la svolta fu, nel 1993, il proclama televisivo con cui l’allora pool di Mani Pulite affossò il decreto Conso sulla questione della corruzione. Da uno squilibrio all’altro, insomma. La stessa cosa vale per i rapporti fra pubblico e privato. O è il pubblico (che poi significa sempre politica, partiti) a dominare il privato oppure è il privato che si appropria del pubblico. Anche qui, si danno, per lo più, oscillazioni da un estremo all’altro. Anche se guardiamo ai rapporti fra i partiti, fra le maggioranze e le opposizioni, la situazione non è diversa. In Italia sembra esserci spazio solo per le alleanze formali, cementate dalla comune gestione del potere, e per le contrapposizioni totali alimentate da linguaggi e toni da scontro di civiltà (ma anche accompagnate, come è inevitabile perché il sistema non crolli, da frequenti accordi sottobanco). Guardiamo all’oggi. Il bipolarismo richiederebbe una prevalenza della moderazione sull’estremismo, una convergenza al centro. Non è necessario che ciò accada continuamente (anche nei sistemi bipolari più stabili si danno inevitabilmente momenti o episodi di lotta feroce) ma è necessario, perché il sistema duri, che moderazione e convergenza al centro siano, almeno, le tendenze prevalenti. In Italia non è così. La caratteristica italiana è che mentre i fautori della moderazione sono per lo più contrari al sistema bipolare, i difensori del bipolarismo sono contrari alla moderazione. Lo si vede in ogni zona del sistema partitico. Nel centrodestra le cose appaiono solo un po’ più confuse e complesse a causa degli effetti dell’esercizio del potere, del ruolo di Berlusconi, e della presenza della Lega (un partito di rappresentanza territoriale che, in quanto tale, ha un rapporto solo strumentale con il bipolarismo) La tendenza— che però, ripeto, riguarda l’intero sistema politico— è invece visibilissima nel caso del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Qui, spingono chiaramente per la moderazione coloro che vorrebbero far saltare il bipolarismo mentre i difensori del bipolarismo cavalcano l’estremismo. Lo si è visto, qualche mese fa, nella gara per la segreteria nazionale. Il segretario uscente, Dario Franceschini, difendeva il bipolarismo usando però i toni e gli argomenti dell’estremismo giustizialista. Lo sfidante Pier Luigi Bersani sceglieva invece una linea assai più moderata (opposizione ferma sì ma senza massimalismi) mentre i dalemiani che lo sostenevano non facevano mistero della loro crescente insofferenza per l’alleanza con Di Pietro. Questa moderazione, però, non era funzionale all’idea di fare del Pd una componente stabile del gioco bipolare. Ciò che si intravedeva era un diverso disegno. Il progetto era quello di sacrificare il bipolarismo sull’altare di una alleanza con i centristi di Casini (in attesa del botto finale: la disgregazione del centrodestra dopo l’eventuale uscita di scena di Berlusconi). Fra il bipolarismo massimalista (Franceschini) e l’anti-bipolarismo moderato (Bersani) il «popolo democratico» scelse allora il secondo. Il progetto di Bersani e D’Alema è ora stato sconfitto in Puglia. Se è vera l’ipotesi che da noi si procede solo passando da uno squilibrio all’altro, nel caso del Pd il pendolo dovrebbe ora di nuovo spostarsi verso l’irrigidimento massimalista. È probabile che assisteremo a una progressiva chiusura anche di quei piccoli spiragli di dialogo sulle riforme che si erano recentemente aperti. A maggior ragione se, come è possibile, le elezioni regionali andranno male per il Partito democratico. Ed è anche molto probabile che una nuova svolta massimalista del Pd non dispiaccia a Berlusconi. Nel breve termine, essa darebbe infatti ulteriori vantaggi al centrodestra. A destra come a sinistra sono deboli le forze disponibili a far funzionare il sistema bipolare tramite moderazione e convergenze al centro. Le forze contrarie sono più consistenti. Ricorrere a espressioni come « punto di equilibrio » , «equilibrio fra i poteri» (e ad altre espressioni ancora in cui figuri la parola «equilibrio») significa affidarsi a un linguaggio metaforico. Si vuole indicare, semplicemente, il consolidamento di prassi, di comportamenti, che raccolgano l’approvazione, se non di tutti, quanto meno dei più. Perché, si tratti di rapporti fra politica e magistratura, fra pubblico e privato, o fra maggioranze e opposizioni, non si riesce quasi mai a creare sufficiente consenso diffuso non sui contenuti (dove il dissenso e il conflitto sono legittimi e necessari) ma sul modo in cui quei rapporti dovrebbero correttamente svilupparsi? Perché queste oscillazioni fra estremi opposti? Le ragioni sono complesse e ciascuno può scegliere le risposte che preferisce. La più semplice è che, a tutte le latitudini, in alto e in basso, fra le élite come fra i cittadini comuni, mentalità, cultura e sensibilità liberali siano tuttora pressoché introvabili. Angelo Panebianco 28 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. (pistolotto pro-silvio e anti-Obama... Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2010, 12:18:10 pm OBAMA E L’EUROPA MAI COSÌ DISTANTI
Il divorzio atlantico La visita di Silvio Berlusconi in Israele non è stata solo un successo personale del premier italiano. Non ha soltanto ribadito agli israeliani (e ai loro nemici), ma anche all’opinione pubblica italiana, che il deciso schieramento dell’Italia a fianco del «più grande esempio di democrazia e libertà del Medio Oriente» rappresenta — come ha osservato giustamente Peppino Caldarola sul Riformista — la più forte discontinuità di politica estera fra i governi del centrodestra berlusconiano e tutti i precedenti governi italiani. Quella visita, che dà ulteriore forza alla posizione energica assunta sulle questioni della difesa di Israele e del nucleare iraniano dal cancelliere tedesco Angela Merkel, ha anche varie implicazioni di politica internazionale. Soprattutto, contribuisce a segnalare all’Amministrazione Obama che la distratta negligenza con cui il presidente ha trattato gli storici alleati europei dell’America nel suo primo anno di governo è stata forse uno dei suoi più gravi errori politici (da cui non sembra abbia voglia di emendarsi, come dimostrerebbe, se venisse confermato, anche il recente annullamento della sua visita in occasione del prossimo vertice, fissato per maggio, fra Unione Europea e Stati Uniti). Noi europei, per lo più con ragione, siamo soliti lamentarci di noi stessi, della nostra incapacità di darci quel tanto di coesione necessaria per parlare al mondo con una sola voce (continua a mancare quel numero telefonico unico che Henry Kissinger non trovava quando voleva comunicare con l’Europa). E sappiamo che questo stato di cose durerà probabilmente ancora per generazioni, se mai finirà. Inoltre, è più che lecito, e anche Obama ha ragione a farlo, rimproverare gli europei per la loro mancanza di nerbo quando si tratta di concorrere con l’America a fronteggiare le minacce. I tanti «no», soprattutto tedeschi e francesi, alla disperata richiesta di Obama di un maggiore impegno in Afghanistan, stanno lì a dimostrare di quanta poca determinazione alcuni dei principali Paesi europei siano dotati quando ci sono in gioco questioni cruciali per la sorte del mondo occidentale, come il contenimento dell’islamismo radicale o la stessa sopravvivenza della Nato. Detto tutto il male che si può dire dell’Europa, resta però il fatto che Obama, fin dai primi giorni del suo insediamento, ha probabilmente sbagliato i calcoli. Ha pensato che fosse ormai tempo di ridimensionare il peso e il ruolo di quella speciale «relazione transatlantica » fra Stati Uniti ed Europa, che è stata, per cinquant’anni, uno dei pilastri della stessa potenza americana nel mondo. Non si è reso conto che se andasse in pezzi la «comunità euro-atlantica», il declino americano, comunque in atto (un declino che spaventa tanti e rallegra tanti altri) potrebbe solo subire un’accelerazione. Nonostante i suoi continui omaggi al multilateralismo, Obama è stato fin qui altrettanto «unilateralista » del suo predecessore Bush. Ha pensato che i vecchi alleati democratici fossero solo un ingombro, non un punto di forza, per le relazioni internazionali dell’America. Come ha osservato Robert Kagan in un recente scritto molto critico sull'attuale Presidenza, la svalutazione delle relazioni euro-atlantiche da parte di Obama discende, almeno in parte, da una visione che, volendo liquidare l'eredità wilsoniana (la tradizione di interventismo democratico che si fa risalire al presidente Woodrow Wilson) in tutte le varianti, assume l'alleanza e il rapporto privilegiato con le democrazie (europee, ma non solo) come non più vitale per gli interessi dell'America. Per Obama, nel suo primo anno di Presidenza, era invece vitale solo cercare intese realistiche con chiunque (persino all'Iran è stata tesa la mano, ed è stata ritirata solo perché gli iraniani l'hanno morsa) sulla base dell'irenico, e sbagliato, presupposto che sia sempre possibile mettersi d'accordo, trovare comunque una convergenza su interessi comuni. Gli esiti non sono stati fin qui brillanti. Il rapporto privilegiato che Obama pensava di stabilire con la Cina (il G2) non ha soltanto spaventato altri Paesi asiatici (come l'India), è anche stato privo di buoni frutti. I cinesi hanno detto «no» a tutte le richieste americane (il viaggio di Obama a Pechino fu per molti versi umiliante). Adesso fa la voce grossa (forniture d'armi a Taiwan, scontro su Internet, visita preannunciata del Dalai Lama a Washington), ma sapendo bene di non poter rompere con il principale creditore dell'America. L'indecisione strategica è evidente. Così come è evidente nel caso dell'Iran. Si è passati da una fase in cui, alla ricerca di chissà quali concessioni del regime iraniano, si scelse di non sostenere la rivolta popolare, a una fase in cui si torna a un atteggiamento duro e deciso (sperando che la Russia, ma soprattutto la Cina, non impediscano un'azione concertata della comunità internazionale contro il nucleare iraniano). La grande forza dell'America, dopo la seconda guerra mondiale, è sempre consistita nel fatto che, pur trattando e negoziando con le tirannie, essa non perdeva di vista l'importanza del suo rapporto privilegiato con le altre democrazie, europee in primo luogo. L'Amministrazione Obama sembra non averlo capito. Per giunta, e nonostante le tante magagne dell'Europa, quale altro vero alleato l'America potrebbe mai trovare per contrastare la minaccia del terrorismo islamico? Tenuto conto che l'Europa, per geografia, risorse e storia, è, da un lato, la più esposta al pericolo e, dall'altro, quella dotata della migliore expertise per muoversi con una qualche efficacia nello scenario mediorientale. Forse il declino della potenza americana è inarrestabile, come molti ritengono, a causa del deterioramento della forza economica che la sosteneva e dell'emergere di altre potenze. Forse, come pensano altri, non c'è nulla di già scritto, di predeterminato, in queste faccende. E' però plausibile aspettarsi un'accelerazione del declino se la dirigenza americana penserà di poter fare a meno di quel rapporto con l'Europa che per tanto tempo ha contribuito ad assicurare a noi la libertà e agli Stati Uniti il primato. Angelo Panebianco 05 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La corruzione e i partiti Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:03:21 pm DIRIGENTI ELETTI E SELEZIONE CHE NON C’E’
La corruzione e i partiti Il caso del senatore Di Girolamo ma anche quanto documentano tante inchieste della magistratura sulla politica locale chiamano direttamente in causa le modalità di reclutamento della classe politica, al centro e alla periferia (le vicende giudiziarie che coinvolgono, rispettivamente, la Protezione civile ma anche Telecom e Fastweb toccano invece aspetti diversi). Come sempre, quando scoppia una emergenza giudiziaria, e tanto più se ci si trova alla vigilia di qualche importante scadenza elettorale, si invocano e si propongono nuove regole, soprattutto per quanto riguarda la composizione delle liste elettorali. È giusto che i partiti, in questa situazione, si diano delle norme stringenti nella selezione dei candidati. Proporre nuove regole, più o meno moralizzatrici, ha lo scopo di tranquillizzare un’opinione pubblica allarmata e sconcertata. Ma che servano davvero a risolvere, alla radice, il problema della qualità dei reclutamenti dei politici è un altro discorso. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda la natura dei partiti: la loro plasticità e permeabilità. I partiti sono strutture camaleontiche, che si adattano all’ambiente in cui operano, e sono anche, inevitabilmente, condizionati, sia per il reclutamento del personale politico sia per quanto riguarda le influenze che su quel personale sono esercitate dall’esterno, da gruppi, aziende, notabili (ma anche, in certe zone, organizzazioni criminali), che nei diversi territori sono dotati delle maggiori risorse. Ne discende che le battaglie moralizzatrici (anche ammesso, e non concesso, che vengano intraprese con reale convinzione e con reale volontà) tese a bonificare i partiti sono destinate a sicuro fallimento se non si procede prima, o almeno contestualmente, a bonificare l’ambiente. È inutile, ad esempio, stupirsi delle «infiltrazioni mafiose » nei partiti se parti ampie delle economie dei territori in cui le infiltrazioni avvengono sono in mano alla criminalità. Per bonificare con speranze di successo i partiti bisogna intervenire sull’economia di quei territori. Tramontata l’epoca che alcuni (ma non chi scrive) ritengono gloriosa dei partiti di massa ideologici, i partiti sono ormai quasi esclusivamente comitati elettorali e rimarranno tali. La loro permeabilità all’ambiente resterà, pertanto, elevatissima. E il reclutamento del personale politico continuerà a esserne condizionato. Il secondo aspetto importante riguarda l’opacità delle relazioni fra gruppi di affari e il personale politico. Qui bisogna davvero intendersi. Non si riuscirà mai a dare la trasparenza necessaria alla attività delle lobbies che operano sul piano locale e sul piano nazionale se continueremo a demonizzarle (come la nostra cultura politica ha sempre fatto) anche a prescindere dalla individuazione di specifici e circostanziati reati penali. Le lobbies, in tutte le democrazie, sono una costante. Imporre la trasparenza necessaria per contrastare le attività illecite richiede, come contropartita, la piena accettazione pubblica delle attività lobbistiche. I vescovi hanno levato giustamente la loro voce contro i perversi rapporti fra politica e affari nel Mezzogiorno. Ma è un problema che non si risolve se non ci si fa venire nuove idee su come combattere l’economia parassitaria (l’economia che vive di distribuzione di risorse pubbliche) nel Sud del Paese. C’è poi il fatto che non bisognerebbe avanzare richieste contraddittorie. È più che lecito, ad esempio, criticare l’attuale legge elettorale perché, fra le altre cose, spezza il rapporto fra l’eletto e il territorio. Ma come si concilia questa critica con la richiesta di usare la ramazza contro i comitati d’affari locali? Se, cambiando legge elettorale, si rinforzano i legami fra eletti e territorio (per esempio, reintroducendo le preferenze) anche i rapporti fra i candidati, gli eletti e gli interessi dei gruppi locali che fanno affari con la politica non possono che rafforzarsi. Chi scrive è sempre stato un fautore del sistema maggioritario con collegi uninominali. Perché mi sembra il sistema elettorale che meglio favorisce la competizione fra opposti schieramenti politici. Ma mentirei se sostenessi che con il collegio uninominale si allenterebbe la dipendenza degli eletti dai gruppi di interesse locali. Probabilmente, quella dipendenza potrebbe solo accrescersi. Il fervore con cui, improvvisamente, si cerca di trovare «nuove regole» è comprensibile. Ma non porterà da nessuna parte senza interventi ben più incisivi e importanti sugli ambienti sociali ed economici in cui i partiti operano. Ad esempio, scordatevi la possibilità di avere nel Sud partiti puliti e lustri se la realtà meridionale, per tante parti, resta quella che è. Anche se una certa, diffusa mentalità legalistico-formalistica porta tanti a non comprenderlo, una nuova «regola», quale che essa sia, per esempio in materia di composizione delle liste, se cade in un ambiente con essa incompatibile, verrà necessariamente aggirata o stravolta. Passata l’emergenza, tutto ricomincerà più o meno come prima. Angelo Panebianco 26 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un partito prigioniero (il solito gufo di silvio). Inserito da: Admin - Marzo 10, 2010, 09:15:21 am IL PD E L’IPOTECA DI PIETRO
Un partito prigioniero La tragicommedia non è ancora finita. Per ora il «golpe » (come certi oppositori, dotati, come ognun vede, di senso della misura e dell’equilibrio, hanno subito definito il decreto salva-liste) è stato bloccato da un Tar. Ieri la lista pdl nella provincia di Roma ha subito un nuovo stop. Vedremo gli sviluppi. Al momento, si constatano due conseguenze. La prima è data dal grave danno d’immagine che il centrodestra si è auto-inflitto e di cui è il solo responsabile. La seconda riguarda gli effetti sull’opposizione. La reazione del Partito democratico fa riflettere. È possibile che abbia ragione Giuliano Ferrara («Il Foglio», 8 marzo): il Pdl aveva fatto un clamoroso autogol ma il Pd non è stato poi capace di approfittarne. I dirigenti del Pd avrebbero potuto dire: accertato che i nostri avversari sono dei pasticcioni, noi che abbiamo a cuore la sorte della democrazia e che non possiamo accettare che una competizione democratica venga svuotata di significato per assenza del nostro principale antagonista, sosterremo le scelte che farà il presidente della Repubblica per sanare questa anomala situazione. Sarebbero usciti da questa vicenda a testa alta, come l’unico partito importante dotato di senso delle istituzioni. Ma ciò avrebbe anche richiesto che il Pd fosse un partito diverso da ciò che è, un partito forte, capace di decidere da solo la propria agenda politica, non un partito debole e etero- diretto, un partito che l’agenda, nei momenti critici, se la fa dettare sempre da altri, si tratti dei giornali di riferimento o di Antonio Di Pietro. All’indomani del decreto, incapaci di sfruttare il grande vantaggio tattico che il Pdl aveva loro offerto, i dirigenti del Partito democratico si sono subito infilati in una trappola. Parlo della manifestazione di sabato prossimo. Se non verrà annullata, risulterà per il Pd un boomerang e un pasticcio politico, in qualche modo summa e specchio di tutte le sue debolezze. I dirigenti del Pd possono negarlo quanto vogliono ma la manifestazione avrebbe necessariamente il carattere di una presa di posizione contro il capo dello Stato e non solo contro il governo. Il decreto salva-liste, infatti, è stato firmato e difeso da Napolitano. In questa situazione, la stella di Di Pietro, oggi vero leader morale dell’opposizione, brillerebbe: egli è infatti il solo non-ipocrita della compagnia, quello che dice pane al pane, quello che ha chiesto subito l’impeachment per il capo dello Stato. Si badi: se fosse vera la tesi (ma i costituzionalisti sono assai divisi) secondo cui il decreto crea un grave vulnus al processo democratico, allora Di Pietro avrebbe mille volte ragione a proporre l’impeachment. Quello del Pd risulterebbe dunque un capolavoro politico alla rovescia. Consentirebbe (e ha già consentito) al centrodestra, responsabile del pasticcio, di fare la vittima e di ergersi a difensore del presidente della Repubblica. L’intera vicenda si presta a considerazioni amare sulla qualità, la tempra e la professionalità della classe politica, di destra e di sinistra. Sulle debolezze (tante e complesse) del centrodestra avremo modo di ragionare in seguito. Per quanto riguarda il Pd, basti ricordare che esso, incapace di tracciare una linea di divisione netta fra sé e il movimento giustizialista, incapace di combattere i giustizialisti (apprezzati da tanti anche al suo interno), ha finito per abbracciarli. E questo è il risultato. Angelo Panebianco 10 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Quelle inutili nostalgie Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 10:34:20 am LA PRIMA REPUBBLICA VA RIMPIANTA?
Quelle inutili nostalgie Di fronte al marasma in cui è quotidianamente immersa la nostra vita pubblica attuale è comprensibile che tanti ripensino con nostalgia alla Prima Repubblica, trasfigurata nel ricordo e idealizzata come un’oasi di ordine politico e di pace. Un «luogo» ove erano inimmaginabili la volgarità dell’oggi, e ove (come si sente continuamente dire) i politici erano dei veri professionisti, misurati nelle parole e capaci di gestire con competenza situazioni difficili. Il contrario dello spettacolo di disordine, dilettantismo e sguaiataggine cui assistiamo. La nostalgia per il passato è uno dei più naturali e ricorrenti fra i sentimenti degli uomini. C’è gente che ricorda con nostalgia persino le guerre e altre catastrofi (magari perché, all’epoca, possedeva la cosa che tutti rimpiangono quando non c’è più: la gioventù). È accaduto anche in Russia: spaventati dal disordine successivo alla caduta dell’Urss, tanti russi si scoprirono nostalgici dei «bei tempi» del potere totalitario comunista. Dunque, non c’è nulla di strano nel fatto che tanti italiani oggi ricordino con nostalgia la Prima Repubblica. Ma ne vale la pena? La Prima Repubblica non era affatto un luogo ameno, o un’irreprensibile democrazia. Era un regime partitocratico (il termine venne coniato allora) nel quale i tentacoli dei partiti si estendevano ovunque. La sua storia va divisa in due parti. Nella prima parte, l’Italia fu immersa in una guerra civile virtuale: da un lato i comunisti, di stretta osservanza sovietica, dall’altro lato i democristiani e i loro alleati. La Falce e il Martello e lo Scudo Crociato, che campeggiavano sulle loro bandiere, erano simboli di guerra, di armate al servizio di visioni della società e della politica mortalmente nemiche. L’inamovibilità della Dc, l'assenza di alternanza al governo, non erano casuali. Erano il prodotto necessario della natura degli attori politici. Se vogliamo capire, guardando allo scontro di oggi fra berlusconiani e antiberlusconiani, dove abbiamo appreso la sciagurata abitudine di trattare la politica come conflitto fra Bene e Male è a quell’epoca che dobbiamo rivolgerci. Nella seconda fase della Prima Repubblica, le contrapposizioni ideologiche si stemperarono un po', i nemici ideologici impararono a coesistere ma ciò non migliorò la condizione della nostra vita pubblica. Per certi versi, la peggiorò. Si aprì infatti l’epoca che Alberto Ronchey per primo battezzò della «lottizzazione», una selvaggia e continua spartizione delle spoglie pubbliche fra fameliche macchine partitiche. Non esisteva una reale separazione dei poteri. Finché i partiti non cominciarono a indebolirsi (più o meno, dalla Presidenza Pertini in poi), ad esempio, i Presidenti della Repubblica erano comandati a bacchetta dalle segreterie di partito. La costituzione formale era una cosa ma ciò che contava era la costituzione materiale: le vere regole del gioco avevano ben poca attinenza con le regole formali (costituzionali). La Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità molti disastri. Ne cito quattro. L'assenza di alternanza andava a braccetto, nella Prima Repubblica, con un'endemica instabilità governativa. La conseguenza era l'incapacità della politica di concepire e attuare piani a medio termine nei suoi vari settori di competenza. Era costretta ad occuparsi solo del consenso immediato. Il dissesto idrogeologico, il decadimento di tante infrastrutture, la carenza di ospedali, carceri o scuole, da cui siamo tuttora afflitti, hanno la loro radice nell’incapacità della Prima Repubblica di attuare politiche di respiro nei vari ambiti. La pubblica amministrazione, oltre che come ricettacolo di clientele, fu utilizzata per assorbire manodopera intellettuale, soprattutto dal Mezzogiorno, senza riguardo per i suoi problemi di funzionalità. La sua celebre inefficienza, che tuttora ci opprime, è un regalo della Prima Repubblica. Con lo stesso cinismo venne sempre trattata (dai democristiani, in primo luogo) la scuola. Usata per lungo tempo soprattutto come strumento di organizzazione di clientele, dopo il '68 diventò (come, in seguito, accadrà anche alla Rai) la principale sede di uno strisciante «compromesso storico»: il clientelismo dei democristiani si acconciò a convivere con la demagogia sindacale e con gli ideologismi anti-sistema di tanti ex sessantottini diventati insegnanti. Chi vuole capire quali siano le cause degli attuali guai della scuola è al quarantennio della Prima Repubblica che deve guardare. Infine, la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità un colossale debito pubblico (una colpa più grave, per i suoi effetti, del finanziamento illecito dei partiti). Si consentì a tanti italiani di vivere al di sopra dei loro mezzi scaricandone i costi sulle generazioni successive. Anche i figli dei nostri figli continueranno, incolpevoli, a pagare quel conto. Ma, si dice, i partiti erano fonte di «professionalità » (sottintendendo: altro che i dilettanti attuali). Questo è vero ma la professionalità dei politici dell'epoca non impedì nessuno dei disastri che ho sopra ricordato. Ma, si dice ancora, c'era più decoro, meno volgarità imperante. Anche questo è vero, ma si dimentica qual era la causa del minor tasso di volgarità. La società era meno libera, condizionata da modelli di comportamento assai più rigidi degli attuali. La volgarità di oggi è, per così dire, il lato oscuro della libertà. Siamo più liberi, e ciascuno fa uso di quella libertà come sa e come è portato a fare. C'è poi il capitolo magistratura (l'unico rispetto al quale persino un detrattore della Prima Repubblica, quale è chi scrive, ha qualche tentennamento). Siamo passati da una magistratura dipendente dal potere politico (almeno nella prima fase della Prima Repubblica) all’anarchia giudiziaria attuale, dove ci sono magistrati che vorrebbero avere diritto di vita e di morte sui governi (si tratti del governo Prodi o del governo Berlusconi) e assistiamo al fenomeno dei raider giudiziari, procuratori che costruiscono inchieste spettacolari (spesso destinate a finire in nulla) per poi costruirci sopra carriere politiche. Non siamo riusciti a trovare un accettabile punto di equilibrio fra la dipendenza di ieri e l'anarchia di oggi. La nostalgia è un sentimento rispettabile ma, come spiegano gli psicologi, non è sano. È nel presente che viviamo e sono i problemi di oggi che dobbiamo affrontare con gli strumenti di oggi. Non serve evocare un’età dell'oro che non è mai esistita. Angelo Panebianco 15 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tremonti, Fini e le scelte del Pdl Inserito da: Admin - Marzo 25, 2010, 11:06:50 am TRA RAPPRESENTANZA E CONFLITTUALITA’
Tremonti, Fini e le scelte del Pdl Comunque vadano le elezioni regionali per il Popolo della libertà, i risultati difficilmente ne freneranno la conflittualità interna. Per due ragioni. La prima è che il calendario politico è diverso dal calendario gregoriano. Secondo il calendario gregoriano mancano tre anni al 2013 e, quindi, alla fine della legislatura. Ma per il calendario politico ne mancano due. Nel senso che il governo ha ormai poco tempo per attuare i suoi programmi: due anni, forse anche meno. L’ultimo anno sarà elettorale e, a quel punto, ci si preparerà al duello, si scalderanno i muscoli, si fronteggeranno le manovre dei possibili «traditori », eccetera: l’attività dell’esecutivo verrà piegata a queste esigenze. Con la riduzione del tempo a disposizione del governo cresceranno nervosismo e conflittualità. La seconda ragione è che il Pdl è una costruzione assai fragile, l’aggregazione di una molteplicità di gruppi e gruppuscoli tenuti insieme solo dalla leadership di Berlusconi e sulla quale, per giunta, pesa il conflitto fra il premier e Gianfranco Fini. Molti dirigenti e parlamentari non possono non interrogarsi sul futuro del partito (e, quindi, sul loro futuro personale): sarà ancora Berlusconi a guidare il partito nella sfida elettorale del 2013? Oppure ragioni anagrafiche o anche l’usura politica lo obbligheranno a lasciare? E in tal caso che fine farà il Pdl? Il Pdl è certamente molte cose. È, prima di tutto, una classica grande aggregazione di centrodestra. In quanto tale, ha attirato, come fanno sempre queste aggregazioni, una quota elevata di personale politico con esperienze di governo, nazionale o locale, in precedenti formazioni moderate. È l’aspetto che più lo avvicina alla Dc e che, per certi versi, lo rende erede (questione religiosa a parte) di quella esperienza. Ma il Pdl non è solo questo. È anche un partito che, attraverso la componente Forza Italia, ha reclutato un personale che proprio in Forza Italia ha fatto il suo apprendistato, un personale «chiamato alle armi» dal Berlusconi del ’94 e del 2001, quello del programma «liberista» (meno di tutto: Stato, burocrazia, tasse) e che ha il suo elettorato di riferimento in quella parte di cittadini, soprattutto al Nord, sensibili a quei temi. E c’è la componente An, con una storia e un insediamento sociale ed elettorale assai diversi da quelli di Forza Italia. Come potrà stare insieme in futuro questa aggregazione? Qualcuno potrà vincere la partita della successione a Berlusconi mantenendola unita? Al momento c’è un solo dirigente che ha messo il suo ingegno, le sue risorse culturali e la sua capacità di governo al servizio di un progetto che possiamo definire «post-berlusconiano», in grado, cioè, sulla carta, di andare oltre Berlusconi. È Giulio Tremonti. Il ministro dell’Economia si è mosso su tre piani: quello dell’azione di governo (tenendo in piedi il Paese nel mezzo della tempesta globale), delle alleanze sociali, che ha gestito con accortezza, e sul piano della proposta politico-culturale. Quanto a quest’ultima, è strano che non si siano notate certe somiglianze, forse involontarie, fra la posizione tremontiana e alcuni aspetti, oltre che del conservatorismo classico europeo, anche del neoconservatorismo americano: mix di mercato e Stato, recupero della tradizione religiosa, enfasi sulla centralità della coesione sociale, eccetera. È un’offerta politica che potrebbe mordere su una parte significativa di quell’elettorato moderato cui Tremonti si rivolge. Inoltre, l’accento sulla coesione sociale ha anche l’effetto di spiazzare una sinistra in crisi di identità e con poche idee. Ma ci sono due «ma». Il primo riguarda il rapporto con la Lega. A parte Berlusconi, Tremonti è l’unico leader del Pdl che possa garantire l’alleanza con la Lega. Ma potrebbe riuscirci, uscito di scena Berlusconi, senza perdere porzioni rilevanti del Pdl nel Centroitalia e nel Sud? Il secondo «ma» riguarda la parte di Forza Italia tuttora ancorata alle tradizionali posizioni liberiste del Berlusconi del ’94 e del 2001. Questa parte del partito non può riconoscersi nel tremontismo. Così come non vi si riconoscono quei settori di classe media indipendente del Nord che, da un lato, sono refrattari alle chiusure del comunitarismo leghista e, dall’altro, sono delusi dalla dismissione del programma liberista (sul deficit di rappresentanza di questi ceti i lettori del Corriere sono stati informati dalle approfondite inchieste di Dario Di Vico). La dismissione del programma liberista è forse il problema che più pesa sulle prospettive del Pdl. È un fatto però che l’oppositore per antonomasia, Fini, non lo ha fin qui riconosciuto come il tema su cui costruirsi una posizione di forza per le sfide del dopo Berlusconi. C’era e c’è, insomma, un «posto vacante » ma Fini non lo ha occupato. Anziché scegliere la strada, che potrebbe rivelarsi sterile, della fronda continua, Fini avrebbe potuto contrapporsi a Tremonti (e a Bossi) in nome delle «ragioni» (abbandonate) del ’94, diventando punto di riferimento per quella parte dell’elettorato di centrodestra non catturabile né dalla Lega né dal tremontismo. Anche la polemica con Berlusconi, in questo caso, si sarebbe dovuta concentrare sulle incoerenze, sul divario fra promesse e realizzazioni, sull’abbandono del liberismo originario. Quella scelta sarebbe stata certamente in conflitto con la formazione personale e le esperienze passate di Fini ma, a ben vedere, non più di quanto lo siano le posizioni assunte sui temi etici o sull’immigrazione. E, in seguito, ci sarebbe stato tempo e modo per stipulare i necessari compromessi con il resto della dirigenza del partito. La storia è sempre imprevedibile, naturalmente. Al momento il futuro del Pdl appare incerto. E non si può scommettere su una riduzione della sua interna conflittualità. Tra le molte ragioni c’è anche il fatto che non è emerso ancora nessuno con la statura adeguata per occupare il «posto vacante». A meno che, a dispetto di pronostici, età e usura politica, quel posto non venga alla fine rioccupato, ancora una volta, da Berlusconi. di ANGELO PANEBIANCO 25 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Popolare e borghese Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 07:45:48 am IL NUOVO VOLTO DELLA LEGA
Popolare e borghese Forse non bisognerebbe perseverare, a campagna elettorale conclusa, nell'errore commesso prima e durante la campagna, quello di sopravalutare l'influenza dei suoi risultati sulla stabilità del governo nazionale. Il governo in quanto tale è sicuramente uscito vincitore da un'elezione regionale che gli illusi credevano di trasformare in un referendum contro Berlusconi («Faremo come in Francia»). Ma sarebbe sopravvissuto anche a una sconfitta. E i gravi problemi che ha sul tavolo e aspettano di essere affrontati sarebbero stati lì comunque. Saranno le scelte o le non scelte su quei problemi che in definitiva rafforzeranno o indeboliranno il governo. Né ha molto senso trarre chissà quali indicazioni dal forte astensionismo registrato. E' possibile, se non probabile, che alle prossime elezioni politiche (nel 2013) la tendenza astensionista non si confermi. La drammatizzazione, la trasformazione delle elezioni in «giudizi di Dio», funziona molto meglio nelle elezioni politiche che in quelle regionali. E lì, in genere, ha un effetto inibitore sull'astensionismo. Fine della storia. In seguito, fra qualche mese, quando di queste elezioni non importerà più nulla a nessuno, verranno pubblicate ottime analisi disaggregate dei dati e serie ricerche sui flussi elettorali, e sarà possibile capire nel dettaglio (ma la cosa, a quel punto, interesserà solo agli studiosi) che cosa è davvero successo nella pancia del Paese. Al momento, sono solo possibili valutazioni generiche e di massima. Intanto, notiamo un paradosso: Berlusconi premier ha molti più motivi di sorridere del Berlusconi leader del Pdl. Non solo la maggioranza di governo non è stata duramente punita, come di solito avviene, ma ha addirittura vinto le elezioni. Il Pdl, invece, è in seria difficoltà a causa della avanzata della Lega in tutto il Nord. Una crescita entro certi limiti prevedibile dal momento che i candidati leghisti alla Presidenza in Veneto e Piemonte non potevano non tirare la volata al loro partito ma anche una crescita che, per le sue dimensioni e proporzioni, pone un'ipoteca sul futuro del Pdl. E' la capacità competitiva del Pdl nell' area del centro-destra del Nord che dovrà essere soppesata nel prossimo futuro. Inoltre, i successi registrati dalla Lega nelle tradizionali zone rosse (in certe aree dell'Emilia soprattutto) dovrebbero preoccupare sia il Pdl che il Partito democratico. Sembrano indicare che là dove la tradizione politica locale predilige i partiti popolari con vocazione per il radicamento territoriale, la Lega possiede sia notevoli capacità competitive nei confronti dei partiti d'opposizione che un tempo si sarebbero detti «borghesi» (come il Pdl), a debole radicamento, sia una certa potenzialità di espansione ai danni di forze popolari tradizionalmente dominanti (come, appunto, il Pd nelle zone rosse). Ma su questo solo l'analisi dei flussi elettorali potrà darci indicazioni più precise. Soprattutto, bisognerà comprendere come è andato trasformandosi, e come ancora si trasformerà per effetto della crescita, il movimento di Bossi. I vecchi cliché, ma anche qualche vecchia buona analisi, non ci aiutano più a capire. Se dalla destra dello schieramento ci spostiamo verso il centro, ci imbattiamo nell’Udc di Pier Ferdinando Casini. In fondo, in questa campagna, Casini aveva il progetto più ambizioso: dimostrare di essere il vero ago della bilancia della politica italiana, dimostrare ai due blocchi che si poteva vincere solo alleati con lui. Ha mostrato di essere determinante in Lazio, in Puglia (dove la sua mancata alleanza con il Pdl ha favorito l’affermazione di Nichi Vendola), in Liguria. Ma ha mancato l’en plein in Piemonte dove sosteneva la Bresso. Più grave ancora, lo spostamento a sinistra del baricentro dell’opposizione che queste elezioni prefigurano riduce il valore del capitale politico a sua disposizione. A sinistra, infatti, un’ulteriore radicalizzazione sembra un esito probabile. L’Italia dei Valori consolida le sue posizioni ed è ormai un interlocutore/ competitore/alleato di peso di cui il Partito democratico non può più fare a meno. C’è poi il fenomeno, per certi versi enigmatico e comunque non previsto dai sondaggi, rappresentato dai successi delle liste di Beppe Grillo. E c’è la consacrazione di Vendola come potenziale leader nazionale. Quella che avrebbe dovuto essere, nel progetto da cui nacque quel partito, il motore, l’anima e la forza egemone del Partito democratico, ossia la componente riformista, esce male anche da queste elezioni. Si conferma il fatto, oggi come in passato, alla luce dell’intera storia della sinistra italiana, che il massimalismo paga più della moderazione, che i riformisti sono destinati a restare minoranza. Come, del resto, i liberali a destra. Angelo Panebianco 31 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. La Polonia e le vendette della Storia Inserito da: Admin - Aprile 12, 2010, 11:37:49 pm EUROPA IN DIFFICOLTÀ
La Polonia e le vendette della Storia Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento verso Est Anche se non c'è alcun legame, ma solo una coincidenza temporale, fra il disastro aereo che decapitando in terra russa una parte importante della classe dirigente polacca ha risuscitato i fantasmi della Seconda guerra mondiale e le divisioni europee sulla questione del salvataggio della Grecia, i due episodi segnalano quanto gravi e complessi siano i problemi che attanagliano l'Europa. Non sono passati molti anni da quando gli europei, o molti di loro, parlavano dell'Europa come se si trattasse di un continente ormai al riparo dalle imboscate della storia. C'è stato un tempo in cui le elite europee credevano sinceramente che l'integrazione fosse una strada a senso unico e dalla quale l'Europa non sarebbe mai più tornata indietro. Molti pensavano che persino l'unificazione politica fosse a portata di mano, realizzabile nel giro di una o due generazioni. L'Unione godeva allora di grande prestigio (accresciuto dal successo della moneta unica) e la sua capacità di attrazione sui Paesi che non ne facevano parte era fortissima. Era l'epoca in cui si potevano immaginare ambiziose strategie e grandiosi piani di sviluppo (la strategia di Lisbona del 2000). In polemica con gli Stati Uniti, si favoleggiava di una Europa «potenza civile » che, con i suoi modi gentili e rassicuranti, avrebbe portato stabilità e benessere negli scacchieri caldi del Pianeta. Poi le cose cominciarono a girare in un altro modo. Con l'allargamento, l'eterogeneità interna all'Unione aumentò, crebbero i contrasti e i rischi di paralisi dei processi decisionali europei. La guerra in Iraq, spaccando l'Europa in due fronti, uno a favore e uno contro gli Stati Uniti, rivelò poi l'esistenza di radicali divergenze nelle concezioni geopolitiche e nel modo in cui i governi europei definivano i rispettivi interessi nazionali (la cosa si è ripetuta durante la guerra russo- georgiana del 2008, quando proprio i polacchi assunsero le posizioni più intransigenti verso il rinascente imperialismo russo). Il colpo più duro fu la sconfitta della cosiddetta «costituzione europea » nel referendum francese del 2005. Proprio in uno dei Paesi-cardine dell'Unione l'elettorato sceglieva di dare un violento ceffone a quelle elite che avevano ritenuto i tempi maturi per una maggiore integrazione. La successiva adozione del trattato di Lisbona tamponò la ferita senza guarirla. Guardiamo all'oggi. Possiamo scegliere una lettura immediata, più superficiale, delle attuali ragioni di crisi oppure una lettura che scavi alla ricerca delle forze più profonde. A una lettura immediata, molti problemi sembrano dipendere dagli atteggiamenti di una Germania emancipata dai complessi del passato e dalle linee guida dei suoi moderni fondatori, da Adenauer a Kohl. Nel caso della Grecia spetterà agli esperti valutare l'accordo raggiunto ieri, dopo un lungo travaglio, nell'Eurogruppo: la Germania, dopo essersi eretta a inflessibile ostacolo per una soluzione europea della crisi greca, ha scelto all'ultimo momento (anche tenendo conto dell'esposizione delle banche tedesche nella crisi) la via del compromesso. Importante per se stessa, l'evoluzione della crisi greca lo sarà anche, e soprattutto, per misurare le possibilità future di tenuta dell'eurozona. Quelle possibilità dipendono dalla continua capacità dei partner di convergere verso un interesse comune. Se si afferma la percezione di una incompatibilità fra gli interessi nazionali, la convergenza diventa ardua. Per ora si può solo osservare che rinunciando al suo tradizionale ruolo di leader dell'Europa, la Germania ha già mandato in pezzi l'asse franco-tedesco, l'antico motore dell'integrazione. Ma si noti anche, cambiando luoghi e scenario, quanto la politica della nuova Germania condizioni la vicenda polacca. Le paure di Varsavia nei confronti dell’imperialismo russo, alimentate da una memoria che non può essere cancellata, sono esasperate dalla scelta tedesca di un matrimonio di interessi con la Russia di Putin e Medvedev. I Paesi dell'Est, Polonia in testa, sono sempre meno sicuri che l'Unione sia capace di dare loro adeguata protezione e una solidarietà non solo formale a fronte dei periodici ruggiti dell'orso russo. Se si scava a un livello più profondo, però, il problema non è più la politica della Germania. Il problema è che la storia pesa e, soprattutto quando viene negata, finisce per presentare il conto. Nulla è avvenuto in modo più superficiale, più acritico, dell'allargamento a Est. Bisognava sapere che quell'allargamento interessava Paesi che avevano riacquistato l'indipendenza nazionale dopo mezzo secolo di dominio sovietico e che le loro (comprensibilissime) preoccupazioni geopolitiche sarebbero state indirizzate a cercare protezione da un possibile, risorgente imperialismo russo. Così come, più in generale, bisognava saper valutare il peso delle secolari divisioni dell'Europa. Non era possibile forzare troppo la mano nella direzione dell'unificazione politica senza provocare reazioni popolari che avrebbero messo a rischio persino il tantissimo di buono che l'integrazione economica e monetaria aveva dato all’Europa. Ci sono tempi e ritmi che vanno rispettati. Sempre guardando alle forze più profonde, è difficile non mettere in relazione l'attuale crisi dell'Unione con l'indebolimento del ruolo politico degli Stati Uniti. Agli europei, spesso, non fa comodo ricordarlo ma non ci sarebbe stato nessun processo di integrazione europea al di fuori del contesto di sicurezza garantito dopo la Seconda guerra mondiale, dagli Stati Uniti. Ciò suggerisce la possibilità che il futuro della comunità euro-atlantica e quello dell'integrazione europea siano fra loro più connessi di quanto di solito si creda e che il declino o il rilancio della prima possano coincidere con il declino o il rilancio della seconda. Angelo Panebianco 12 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un favore alla Lega Inserito da: Admin - Aprile 18, 2010, 10:09:44 pm IL PARADOSSO DEL CASO FINI
Un favore alla Lega Accade continuamente che certe nostre azioni, volte a ottenere determinati risultati, producano effetti opposti, in contrasto con le nostre intenzioni. Una delle ragioni per le quali è possibile che il presidente della Camera Gianfranco Fini cerchi un accomodamento dell'ultimo minuto con Berlusconi consiste nel fatto che una scissione potrebbe ampliare ulteriormente gli spazi di manovra della Lega di Bossi. Sarebbe paradossale se proprio Fini, il leader che contrasta il peso politico della Lega nella maggioranza e nel governo, si trovasse nella condizione di favorirne involontariamente l'accrescimento anziché il ridimensionamento. Nel breve termine, come ha osservato Stefano Folli ( Il Sole 24 ore), una scissione dei finiani potrebbe esaltare il ruolo della Lega nel governo non lasciando a Berlusconi altra scelta se non quella di rafforzare ulteriormente l'asse con Bossi. Ma le conseguenze di più ampia portata si avrebbero in sede elettorale (con o senza elezioni anticipate). Oggi, complici anche certe letture superficiali dei risultati delle regionali, la forza della Lega appare alquanto sopravvalutata. La Lega ha infatti ottenuto un grande successo ma con la complicità dell'astensione (l'astensionismo ha colpito il Pdl non la Lega). E’ plausibile che, nelle prossime elezioni politiche, riassorbito l'astensionismo, i rapporti di forza fra Lega e Pdl possano tornare più o meno ai livelli delle politiche precedenti. Ma se ci fosse una scissione le cose cambierebbero. Il Pdl apparirebbe al Nord ancor più fragile di quello che è e la Lega potrebbe avvantaggiarsene strappando molti elettori al partito di Berlusconi. L'egemonia leghista al Nord diventerebbe allora una «profezia che si autoadempie». La scissione finiana contribuirebbe al risultato. Inoltre, quale che sia la consistenza delle truppe finiane, è probabile che il grosso di quelle truppe sia dislocato essenzialmente nel Centro-Sud, da Roma in giù. Fini potrebbe così trovarsi, involontariamente, alla testa di una specie di Lega Sud, con una capacità di attrazione nel Nord del Paese vicina allo zero o giù di lì. Sarebbe un passo in più verso uno scenario un po' fosco, quello di una netta divisione politicoterritoriale fra Nord e Sud. D’altra parte, sono i numeri a dire che fino ad ora è stata solo la leadership di Berlusconi a tenere insieme le diverse anime territoriali della maggioranza. Fini ha però di fronte a sé anche un’altra opzione: fare ciò che fino ad oggi non ha fatto o non è riuscito a fare (come ha osservato Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere del 16 aprile). Evitare la scissione e costruire una corrente, interna al Pdl, dotata di un suo chiaro e riconoscibile programma, capace di parlare davvero all’elettorato di destra. In questo caso, Fini si doterebbe di una certa forza contrattuale da spendere nelle trattative con Berlusconi, Tremonti e Bossi sulle varie questioni interessate dall’azione del governo. È una strada sdrucciolevole: elaborare un programma siffatto (soprattutto, sulle questioni economiche) non è facile. Ma sembra anche, per Fini, l’unica possibilità. Limitarsi a fare il controcanto ogni volta che Berlusconi parla, come il Presidente della Camera ha fin qui scelto di fare, può strappare applausi alla sinistra ma, politicamente, non porta da nessuna parte. Con o senza scissione. Angelo Panebianco 18 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it Titolo: Angelo PANEBIANCO. I costi politici dei tagli Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 12:42:50 pm FEDERALISMO E SPESA AL SUD
I costi politici dei tagli Riforma seria: un assetto federale serio riduce i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere La manovra in atto sui conti pubblici non è soltanto una mossa necessaria per tranquillizzare i mercati e salvare la stabilità monetaria. È anche qualcos’altro: è una sorta di anticipazione, di prova generale, dei conflitti che si manifesteranno quando si tratterà di varare, con i decreti attuativi, il federalismo fiscale. Contenere e razionalizzare la spesa, ridurre il ruolo dell’intermediazione statale, eliminare gli sprechi? Semplice a parole, complicatissimo nei fatti. La resistenza della Lega sulla questione dell’abolizione di alcune Province è assai significativa. Così come è significativa la paura del partito berlusconiano che il blocco degli stipendi degli statali e le misure anti-sprechi possano aprire, soprattutto al Sud, grandi falle nel suo bacino elettorale. Prendiamo il caso degli enti locali. I tagli indiscriminati, dice giustamente Luca Ricolfi (La Stampa, 28 maggio), trasmettono un senso di iniquità perché colpiscono allo stesso modo gli enti virtuosi e quelli viziosi. Verissimo, ma il fatto è che misure mirate, concentrate proprio là dove si annida lo spreco, sarebbero politicamente destabilizzanti: ovviamente, i tagli selettivi colpirebbero prevalentemente (non solo, ma prevalentemente) le istituzioni locali del Mezzogiorno. Tenuto conto che il consenso del Sud è decisivo al fine di vincere le elezioni, quale governo se li può permettere? Questa è la ragione per la quale da sempre (non solo oggi), quando si tratta di varare manovre di austerità, si ricorre a tagli e blocchi indiscriminati (alle università, agli enti locali, eccetera). Si ritiene (probabilmente, con ragione) che sia politicamente meno pericoloso permettere che un senso di iniquità si diffonda fra i virtuosi che scatenare la furibonda reazione dei viziosi. Se i tagli, infatti, si concentrassero su quei territori ed enti ove sono più forti gli sprechi dovrebbero colpirli ancor più pesantemente. È politicamente più accorto spalmare le misure restrittive su tutti, diluendone così l’impatto. Due aspetti si sommano e frenano l’opera di razionalizzazione della spesa. C’è la volontà della politica di non rinunciare a nessuno degli strumenti locali di intermediazione di cui dispone. La Lega, con le sue posizioni in difesa delle Province o del controllo municipale sui servizi, non è diversa, sotto questo profilo, dai notabili politici meridionali: cambia solo il contesto in cui l’una e gli altri operano. E c’è poi, soprattutto, la questione del Mezzogiorno, che nessuno sa più come affrontare. Ciò ci porta al problema del federalismo fiscale. È sempre stato presentato dai suoi sostenitori come la manna. Col federalismo fiscale, ci viene detto, si ridurranno le tasse, si razionalizzerà la spesa pubblica, migliorerà la qualità dei servizi sociali. Solo vantaggi, insomma, e nessuna controindicazione. Anche chi, come chi scrive, pensa che il federalismo fiscale sarebbe una buona cosa per il Nord, dubita fortemente che tutte queste belle conseguenze si avrebbero anche nel Centro-Sud. Per una ragione generale e per una più specifica. La ragione generale è che abitudini radicate e regole informali condizionano i comportamenti degli uomini assai più delle regole formali. Se con le suddette abitudini e regole informali va a scontrarsi una nuova regola formale (poniamo, il federalismo) è assai probabile che quest’ultima abbia la peggio, che venga aggirata o piegata a vantaggio delle prime. Sono possibili eccezioni, naturalmente, ed è sperabile che il federalismo risulti appunto una di queste felici eccezioni. Ma lo scetticismo è lecito. La ragione più specifica ha a che fare con le condizioni del Mezzogiorno. Il «non detto» del federalismo fiscale è che esso deve ridurre sensibilmente i trasferimenti dalle regioni ricche a quelle povere o, quanto meno, istituire rigidi paletti: così rigidi da obbligare il Sud (ma anche alcune regioni non virtuose del Centro e del Nord), a razionalizzare la spesa, migliorando altresì la qualità dei servizi erogati ai cittadini. Ma come può avvenire questo miracolo? Un acuto osservatore del Mezzogiorno (Massimo Lo Cicero, Il Riformista, 25 maggio) ha notato che il Sud sta all’Italia come la Grecia sta all’Unione europea. In entrambi i casi si tratta di obbligare il soggetto inadempiente a una dura disciplina. Ma c’è una cruciale differenza. Non è difficile per l’Unione emanare un diktat per obbligare il governo greco a cambiare registro (altra cosa è che il governo greco faccia davvero ciò che deve). Qui il ricatto, il diktat, è per così dire «esterno». Ma nel caso del Sud non c’è possibilità di ricatto esterno. Per il governo si tratta di incidere sulle proprie aree di consenso elettorale, rischiando di regalarle all’opposizione o al ribellismo sociale, o a entrambi. Per il federalismo fiscale ci sono tre possibilità. Non si fa perché, a causa della crisi, non sono affrontabili i suoi costi di avvio. In tal caso, però, la stabilità del quadro politico è a rischio. La Lega, a causa della sua stessa ragione sociale, non può accettare questa soluzione. Oppure si fa un finto federalismo (tutto cambia nella forma e nulla nella sostanza: nessuno perde niente). Però anche un finto federalismo ha le sue controindicazioni. Persino un finto federalismo costa. Può funzionare solo se si escogita qualche trucco che posponga il più possibile nel tempo il pagamento del conto (come ha fatto Obama con la riforma sanitaria). Infine, si fa un vero federalismo, sapientemente disegnato. Ma un vero federalismo non può che far saltare, per le ragioni dette, quanto meno a breve termine, gli equilibri politici nelle regioni che più dovrebbero modificare il proprio modus operandi. Chi se ne assumerà la responsabilità? Sulla carta ci sarebbe anche una quarta possibilità: si ricorre a soluzioni istituzionali diverse a seconda delle condizioni dei diversi territori (federalismo al Nord, controllo centralizzato sulla spesa al Sud). La migliore ricetta. Se non fosse per un piccolo dettaglio: è politicamente impraticabile. Angelo Panebianco 29 maggio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_maggio_29/panebianco-costi-politici-tagli-editoriale_8cd948f6-6ae1-11df-9ae5-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. ERRORI SI’, MA TROPPA OSTILITA’ Inserito da: Admin - Giugno 05, 2010, 05:16:38 pm ERRORI SI’, MA TROPPA OSTILITA’
La fragilità di Israele E’un noto circolo vizioso: l’ossessiva, e di per sé giustificata, ricerca di sicurezza da parte di chi vive in costante pericolo, può indurlo in errori che ne accrescono ancor di più l’insicurezza. È capitato ad Israele. Cadendo stupidamente nella trappola preparata dai simpatizzanti di Hamas e spargendo sangue, il governo israeliano ha fatto un regalo ai suoi nemici (e sarà un bene se ne pagherà il conto sul piano elettorale). E ha dato altra linfa alla generale ostilità per Israele, l’unico Paese al quale non si perdona niente. Pur essendo anche l’unico Paese che vive in permanente stato d’assedio dalla sua fondazione. Nulla misura la «popolarità» di Israele meglio dell’atteggiamento delle Nazioni Unite. Dove si passa spesso sopra ai delitti di qualunque sanguinario regime ma mai a quelli, veri o presunti, della democrazia israeliana. Lo si chiami pure lapsus freudiano ma molti ricordano la mappa del Medio Oriente che faceva mostra di sé all’Onu e sulla quale non v’era traccia di Israele. La volontà della maggioranza del Consiglio per i diritti umani di metterlo oggi sotto inchiesta (con i soli voti contrari di Stati Uniti, Italia e Olanda) è in linea con una consolidata tradizione onusiana di ostilità preconcetta verso quello Stato. Alessandro Piperno (Corriere, 2 giugno) ha dato un giudizio che merita attenzione sui sentimenti odierni degli israeliani: «Mi sono fatto l’idea — scrive — che Israele sia un Paese in cui la gente, più o meno consapevolmente, si sente spacciata (...) Forse hanno capito di poter vincere qualche altra battaglia ma che alla lunga la guerra sarà perduta. Hanno constatato che la violenza non è più utile alla causa di quanto lo sia stata l’utopia del dialogo ». Contro la sopravvivenza di Israele giocano tre forze: la demografia, la geo-politica e i sentimenti di ostilità di tanta parte del mondo (rilevanti pezzi di Europa inclusi). La demografia, ossia i differenti tassi di crescita della popolazione ebraica e di quella arabo- israeliana. La geo-politica, ossia il declino della potenza americana e i suoi effetti sul Medio Oriente. La rottura dell’alleanza fra Turchia e Israele è parte di un più generale distacco dello Stato turco dal mondo occidentale, accelerato dalla perdita di potenza degli Stati Uniti. Israele ha fin qui dovuto la sopravvivenza alle sue armi e alla protezione statunitense. Se quest’ultima si indebolirà, le armi non basteranno ad assicurare la salvezza. C’è poi l’avversione di tanta parte dell’opinione pubblica mondiale. Chi finge che il pregiudizio antisemita non c’entri nulla deve spiegare questa mancanza di equanimità verso la democrazia israeliana. E deve spiegare perché la legittima difesa dei palestinesi si accompagni spesso alla cecità di fronte alla natura dei movimenti islamisti e alla ferocia dei nemici di Israele. Ricordo una lettera che mi inviò un tale a seguito di un articolo sul conflitto arabo-israeliano. Dopo avermi accusato di negare l’evidenza, ossia la «natura criminale» di Israele, quel tale concludeva con una domanda: «Ma perché difende Israele, lei che non è nemmeno ebreo?». Checché ne dicano i suoi nemici, Israele è una realtà fragile, precaria. Se un giorno venisse distrutto c’è chi brinderebbe anche in Europa. Ma quella tragedia anticiperebbe o accompagnerebbe una grande sconfitta occidentale: la vittoria di concezioni, modi di vita, istituzioni, antitetici ai nostri e a noi ostili. Angelo Panebianco 04 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_04/panebianco-fragilita-israele_f043e192-6f98-11df-b547-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La questione non e’ padana Inserito da: Admin - Giugno 27, 2010, 12:36:46 pm IL TEMA VERO: IL SUD ARRETRATO
La questione non e’ padana Dalla Sicilia all’Alto Adige, tentazioni secessioniste non sono mancate. Ora però andiamo a celebrare i centocinquanta anni dell’unità d’Italia mentre l’unità scricchiola più che mai. È un pessimo segno che la lotta politica (che ha sempre una dimensione simbolica) diventi competizione intorno a simboli nazionali: la bagarre nel consiglio comunale di Milano sulle «radici padane » della città, la polemica sull’esistenza o meno della Padania, le baruffe sull’inno di Mameli. «Esiste» la Padania, intesa non come luogo geografico e nemmeno come semplice blocco di interessi, ma come vera nazione? Al momento sembra di no, tranne che nella mente dei militanti leghisti. Però, attenzione: le nazioni sono tutte, storicamente, comunità «inventate». Esistono o non esistono a seconda di quanti credono, o non credono, nella loro esistenza. Quando si scatena una competizione fra simboli e controsimboli non si può sapere come andrà a finire. Oggi la Padania non esiste sia perché l’imprenditore politico che ne possiede il copyright, Umberto Bossi, è ben lontano dall’avere, al Nord, la maggioranza dei consensi sia perché, a quanto sembra, nemmeno i cuori di molti elettori leghisti sono scaldati dalla Padania/ nazione. Votano Lega, stando ai sondaggi, per una varietà di motivi: economici (meno tasse e meno trasferimenti al Sud), antistatalisti (meno burocrazia centrale), di sicurezza (questione della immigrazione). Oppure perché solo i leghisti sono andati a parlare con loro nei paesi o nei quartieri. L’impacchettamento di questi variegati motivi, la loro ricomposizione entro un quadro simbolico coerente (la Padania) è un’operazione non ancora riuscita alla Lega ma non è detto che in seguito ciò non possa accadere. Se la Padania (ancora) non esiste, che cosa fa scricchiolare l’unità nazionale? Il fatto che arrivino al pettine i nodi di un fallimento storico, dell’incapacità delle classi dirigenti di risolvere il problema del Sud. Non si può avere una «questione meridionale» che duri ininterrottamente per centocinquanta anni senza che, alla fine, ciò comporti gravi conseguenze politiche. Rispetto a ciò, la Lega è un effetto (il più appariscente), non una causa. Perché l’idea che il Sud sia una palla al piede che frena lo sviluppo del Paese, non circola solo fra i leghisti, ha una diffusione ampia. Per quale altro motivo, d’altra parte, il federalismo fiscale avrebbe potuto suscitare così tanto interesse? Ne discende una logica conseguenza: è del Sud che ci si deve occupare. Perché se non si creano, e in fretta, le condizioni per uno sviluppo autonomo del Sud, saranno guai. Qui ci si scontra però con l’abulia delle classi dirigenti meridionali. Nelle regioni più disastrate non è in atto alcun piano di bonifica radicale delle istituzioni, niente che lasci intravedere una reale disponibilità a mutare comportamenti e abitudini. Nessuno crede che i servizi pubblici al Sud cesseranno, a breve, di essere scadenti e molto più costosi che in Lombardia o in Emilia, che tante scuole e Università del Sud smetteranno di distruggere capitale umano anziché crearlo o che le amministrazioni locali, con la loro inefficienza, cesseranno di frenare lo sviluppo. Chi vuole difendere l’unità nazionale deve impegnarsi, con atti concreti, per cambiare le condizioni del Sud. Altrimenti, la lotta fra simboli e controsimboli avrà, alla fine, un esito scontato. Angelo Panebianco 24 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_24/panebianco-editoriale-questione-padana_0da73670-7f4e-11df-a8d7-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le tante bugie tra nord e sud Inserito da: Admin - Luglio 10, 2010, 11:24:27 am Vizi e pregiudizi contro lo sviluppo
Le tante bugie tra nord e sud Non si verrà mai a capo della divisione Nord/Sud se non si aggrediranno certe costruzioni ideologiche che funzionano da schermo, che impediscono di vedere la realtà, e di fatto la legittimano e la perpetuano. Mi riferisco, in primo luogo, a quella «teoria del colonialismo interno» abbeverandosi alla quale sono cresciute intere generazioni di meridionali. È la teoria secondo cui, dall’Unità in poi, il Sud sarebbe stato vittima della colonizzazione, con annesso sfruttamento, del Nord. Come tutte le costruzioni ideologiche, la teoria mescola qualche verità e molte bugie. Essa ha dato luogo a una «sindrome da risarcimento» che ha legittimato per decenni un colossale trasferimento di risorse pubbliche dal Nord al Sud. Poco male se si fosse trattato di una «bugia utile», se fosse servita a colmare il divario, a creare nel Sud le condizioni per uno sviluppo economico auto-sostenuto. Ma quella strada ha portato solo a disastri: dilatazione della intermediazione politica, gonfiamento dei ceti politico- burocratici, parassitismo, corruzione, alimentazione della criminalità. Il contrario di ciò che serve allo sviluppo. Ma, nonostante l’evidenza, teoria del colonialismo interno e sindrome da risarcimento sono tuttora vive, influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti di molti meridionali. Quale altra fonte di legittimazione potrebbe avere, ad esempio, la ventilata Lega del Sud? ventilata Lega del Sud? Anche al Nord, naturalmente, abbondano stereotipi e costruzioni ideologiche. Nella diffusa idea che il Sud sia solo una palla al piede per lo sviluppo del Nord convivono verità (sull’oggettivo costo del Sud) e bugie. È falso che il Nord non pagherebbe alti prezzi facendo a meno del Sud. Amputata del Sud, quanto meno, l’Italia subirebbe un drastico declassamento in Europa, cesserebbe di essere uno dei quattro grandi Stati europei. È comunque ovvio che il Nord possiede le carte migliori. È un’asimmetria di cui le classi dirigenti del Mezzogiorno devono tener conto. Il Sud ha di fronte due strade: la via «brasiliana» e la via «slovacca». Esistono certe interessanti analogie fra la storia dell’America Latina e quella del Sud d’Italia. Per un lungo periodo, le classi dirigenti latinoamericane coltivarono nei confronti degli Stati Uniti lo stesso atteggiamento di molti meridionali italiani nei confronti del nostro Nord. Attribuendo all’imperialismo yankee la causa del proprio sottosviluppo i latinoamericani si autoassolvevano da ogni responsabilità e, con i loro comportamenti, perpetuavano il sottosviluppo. Poi in alcuni Paesi (Brasile, Cile ed altri), le classi dirigenti si sono rinnovate rimuovendo alcuni degli antichi vizi. Anziché continuare ad imputare ad altri la colpa delle proprie disgrazie hanno inaugurato vere politiche di sviluppo che hanno dato in brevissimo tempo grandi frutti. Abbandonare la sciagurata teoria del colonialismo interno è necessario perché il Sud possa cominciare a seguirne le orme. In alternativa, il Sud può scegliere la via slovacca. La Slovacchia era la parte più povera della Cecoslovacchia. Gli slovacchi tirarono troppo la corda, pretesero troppe risorse. Minacciarono anche la secessione. I cechi risposero: accomodatevi. E secessione fu. Sarebbe assai più utile per il Sud, e per l’Italia tutta, se il Mezzogiorno (magari sfruttando l’occasione del varo del federalismo fiscale) si decidesse ad imboccare la via brasiliana. Angelo Panebianco 10 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_10/panebianco-bugie-nord-sud_2e713ebc-8be4-11df-9aa1-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. (ignora il tronco e si scandalizza per la pagliuzza) Inserito da: Admin - Luglio 21, 2010, 11:15:31 pm Un consiglio (poco) superiore
Assai opportunamente il presidente della Repubblica ha posto il veto sul tentativo del Consiglio superiore della magistratura (Csm), che è ora in scadenza, di discutere di regole deontologiche in relazione a questioni come la nomina, fatta dagli stessi che compongono l’attuale Consiglio, di Alfonso Marra alla Corte d’Appello di Milano. Auspicando che sia il prossimo Csm ad occuparsene, Napolitano ha impedito che una eventuale presa di posizione del massimo organo di autogoverno della magistratura finisse per interferire con le indagini in corso. Di queste cose si occuperà, in seguito, il nuovo Csm, in un clima auspicabilmente più sereno. Resta, e resterà irrisolto, però, il problema rappresentato da una istituzione fondamentale del nostro sistema giudiziario, il Csm, che è destinata a non recuperare la sua antica credibilità senza seri interventi di riforma. Carlo Federico Grosso, che del Csm è stato in passato membro laico, ha ricordato (La Stampa, 20 luglio) i due principali difetti del Consiglio: l’esasperato correntismo e i rapporti di scambio più o meno sotterranei con la politica. Notiamo che fra i due aspetti c’è una relazione: la competizione correntizia porta inevitabilmente le correnti ad intrecciare rapporti con le varie componenti della classe politica. Se il correntismo finisse, anche le relazioni con la politica potrebbero diventare meno opache. Ma, allo stato degli atti, far finire il correntismo è impossibile. Occorrerebbero quelle buone riforme, non solo del Csm ma della istituzione giudiziaria nel suo insieme, che, come è ormai abbondantemente provato, la classe politica non è in grado di attuare: la destra perché ha più intenti punitivi che riformatori nei confronti della magistratura, e la sinistra perché sa solo blandirla. Per ragioni diverse, né l’una né l’altra delle due componenti della classe politica è in grado di concepire e attuare un equilibrato progetto di riforma che sappia coniugare efficienza, funzionalità e rispetto dei principi liberali. In questa situazione di stallo, però, da molti indizi risultano sempre più numerosi i magistrati che si rendono conto del fatto che, così come è, l’istituzione non funziona, che avrebbe bisogno di un forte rinnovamento. È più o meno ciò che succede in università. Molti di quelli che ci lavorano si rendono conto di quali siano i problemi ma nessuno di loro, singolarmente, può farci nulla. Forse bisognerebbe riportare indietro le lancette dell’orologio, ritornare ai tempi in cui i compiti del Csm erano più limitati. Il difetto del Csm, così come lo ha disegnato la Costituzione, è strutturale. È un organo i cui componenti sono eletti dagli stessi delle cui sorti decidono. Gli eletti si occupano, oltre che dei provvedimenti disciplinari che riguardano i loro elettori, anche delle loro nomine, trasferimenti, eccetera. Era inevitabile che, in queste circostanze, le correnti organizzate finissero per dominare il Csm e la lottizzazione diventasse, per diretta conseguenza, il criterio dominante nelle decisioni del Consiglio. Riportare fuori dal Consiglio (in organi giudiziari non elettivi) le valutazioni sulle capacità professionali e le decisioni su nomine e trasferimenti ridurrebbe, almeno in parte, verosimilmente, la pressione correntizia. Sarebbe un buon inizio. Per ridare al Csm il lustro e la credibilità perdute. P.S. Tra i compiti del Csm ci dovrebbe essere anche quello di vigilare sulle dichiarazioni dei magistrati. Quella di ieri del pm di Caltanissetta, secondo il quale la verità sulle stragi sarebbe vicina e la politica potrebbe non reggerne l’urto, appare clamorosa e assai avventata. Cerchi la verità, ma non ne anticipi le conseguenze politiche. Angelo Panebianco 21 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_21/consiglo-poco-superiore-panebianco-editoriale_31f1b120-9486-11df-91c3-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Governo del fare, che cosa resta? Inserito da: Admin - Agosto 01, 2010, 09:42:16 am IL RISCHIO DI RIPETERE L’ESPERIENZA DI PRODI
Governo del fare, che cosa resta? I numeri sembrano dare ragione a Fini e torto a Berlusconi. Con un gruppo parlamentare di più di 30 deputati, più numeroso del previsto, il presidente della Camera è ora in grado, plausibilmente, di ridurre l’(ex) fortissimo governo Berlusconi nelle condizioni in cui si trovava il precedente, fin dall’origine debolissimo, governo Prodi: una maggioranza troppo risicata, margini di manovra troppo stretti, una navigazione parlamentare disseminata di ostacoli. Tanto più che Fini, pur promettendo formalmente una sorta di «appoggio esterno» al governo, ha messo in chiaro che intende tenersi le mani libere sui temi che contano, dalla «legalità» (leggi: intercettazioni e riforma della giustizia) alle questioni che toccano l’unità nazionale (leggi: federalismo fiscale). In queste condizioni, che cosa resterà, nei prossimi mesi, di quel «governo del fare » che Berlusconi aveva promesso ai suoi elettori? E, inoltre, sarà disponibile Bossi a mantenere il sostegno a un governo che risultasse privo della forza necessaria per attuare il federalismo fiscale? E non è solo una questione di numeri parlamentari. Ci sono anche i tanti effetti collaterali della fine del Popolo della Libertà nella sua versione originaria. È l’intero sistema politico che viene rimesso in moto, con conseguenze imprevedibili. È da vedere se Berlusconi avrà la forza per predisporre argini sufficientemente alti a difesa del governo. La principale conseguenza «sistemica» della rottura fra Berlusconi e Fini potrebbe essere quella di ridare rapidamente peso politico e importanza a un «luogo», per lungo tempo messo da parte, anche se mai spazzato via del tutto, dal sistema bipolare: il centro. Vediamo perché. Con la fine del Popolo della Libertà suonano le campane a morto anche per il Partito democratico. Le due aggregazioni nemiche si sorreggevano a vicenda. La fine dell’una annuncia la fine dell’altra. Il Partito democratico, del resto, era ormai sfibrato da troppe sconfitte e da troppe risse interne. Adesso che il Popolo della Libertà si è diviso, non c’è più alcun collante che possa tenerlo insieme. Il segretario del Pd, Bersani, lo sa. Per questo avrebbe bisogno (ma difficilmente la otterrà) di una immediata crisi di governo che lo rimetta in gioco. Salgono le azioni di Casini (corteggiatissimo da Berlusconi) e dell’Udc. E il «centro» può diventare una calamita capace di attirare molti potenziali transfughi del Pd. È possibile che in tempi rapidi, qualche mese al massimo, il centro, ossia l’area parlamentare che sta in mezzo fra Berlusconi e la sinistra, diventi piuttosto affollato. Anche perché l’avvenuto indebolimento parlamentare del governo apre per quest’area spazi fino a ieri insperati di manovra e di negoziazione. Chi scrive pensa che, pur con tutti i difetti manifestati, il sistema bipolare sia il più utile per il Paese. L’attuale legge elettorale premia le coalizioni contrapposte ma le leggi elettorali difficilmente resistono a cambiamenti troppo radicali degli equilibri politici. Nei prossimi mesi ci saranno due aspetti da tenere d’occhio. Si tratterà di capire, in primo luogo, se Berlusconi potrà ancora attingere a una qualche riserva di risorse che gli consenta di governare il Paese pur nelle mutate condizioni. Si tratterà, in secondo luogo, di valutare le conseguenze sistemiche della rottura fra Berlusconi e Fini. Bisognerà cioè capire se questo divorzio risulterà, alla fine, un episodio importante ma dagli effetti circoscritti oppure, come sembra più plausibile, il punto di avvio di una valanga destinata a investire e, forse, a travolgere l’intero sistema politico. Angelo Panebianco 31 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_31/panebianco-governo-fini-berlusconi_56b886ec-9c64-11df-80c5-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre idee opposte di Repubblica Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:08:31 am BERLUSCONI, L’OPPOSIZIONE E LA LEGA
Tre idee opposte di Repubblica Al termine della votazione sulla sfiducia a Caliendo, un finiano avrebbe esclamato: «È finita la monarchia». È una perfetta descrizione del passaggio dei finiani allo schieramento antiberlusconiano. Non nel senso superficiale di una loro diversa collocazione parlamentare, ma nel senso profondo dell’adesione a una «idea di repubblica» opposta a quella incarnata da Berlusconi. È dal 1994 che a scontrarsi in Italia non sono solo schieramenti che rappresentano interessi diversi. La violenza verbale che accompagna il conflitto è spiegata dal fatto che a duellare sono idee diverse di repubblica. Sono ben tre e si fronteggiano dagli anni Novanta. Il bipolarismo, però, risolvendo la politica in un confronto fra due soli schieramenti, ha obbligato le fazioni sostenitrici di due di esse a stipulare fra loro un’alleanza strumentale. Nessuna di queste tre idee di repubblica ha fin qui prevalso sulle altre. L’Italia è quindi, dagli anni Novanta, in una condizione di stallo politico. A scontrarsi sono, prima di tutto, la variante berlusconiana della «democrazia plebiscitaria» e la «democrazia acefala» (senza un leader) sostenuta dalla maggioranza dei suoi nemici. C’è poi in campo una terza idea di repubblica, incarnata dalla Lega, e definibile, a seconda dei gusti, federalista, nordista o separatista. La democrazia plebiscitaria nasce sempre per la comparsa di un capo carismatico. La sua caratteristica è la fragilità. Dipende dalle sorti di un uomo. O trova uno sbocco istituzionale (presidenzialismo, premierato: forme di democrazia che rafforzino il vertice del potere esecutivo) oppure si dissolve quando egli esce di scena. «Plebiscitarismo» è per molti sinonimo di tirannia. In realtà, indica solo il rapporto diretto fra un leader e i seguaci. Può darsi in certi regimi autoritari come nelle democrazie che hanno istituzionalizzato la dimensione plebiscitaria. La democrazia plebiscitaria è «sul piatto» in Italia da quando c’è Berlusconi. Ricchezza, controllo di televisioni e carisma sono state le sue risorse. Ma Berlusconi, a differenza di de Gaulle e di altri capi carismatici, ha fallito (ammesso, ma non è sicuro, che i suoi scopi andassero oltre le situazioni contingenti), non ha saputo dare uno sbocco istituzionale alla democrazia plebiscitaria. I suoi nemici gli hanno opposto la difesa della democrazia acefala. Se la democrazia plebiscitaria ruota intorno a un singolo leader, la democrazia acefala ha una struttura oligarchica (più capi che si controllano a vicenda). La cosiddetta Prima Repubblica ne è un esempio. In essa i leader che cercavano di elevarsi al di sopra del resto dell’oligarchia (Fanfani, Craxi) suscitavano forti resistenze e venivano prima o poi abbattuti. La Costituzione del ’48, consegnandoci un esecutivo debole, ha dato vita a una forma di «parlamentarismo integrale» (come lo chiamava Gianfranco Miglio) che è un perfetto abito istituzionale per la democrazia acefala. Se i fautori della democrazia acefala sono stati in grado, quanto meno, di resistere al ciclone Berlusconi è perché hanno dalla loro la forza della tradizione e, con essa, il sostegno dei custodi della tradizione, come magistrati e intellettuali. Si noti un altro aspetto. La democrazia acefala, a differenza di quella plebiscitaria, mal si concilia con il bipolarismo. Il bipolarismo, effetto combinato dell'abbandono della proporzionale e dell'irruzione di un capo carismatico, è fragile perché incompatibile con la tuttora vigente forma istituzionale della democrazia acefala. E' probabilmente destinato a scomparire quando uscirà di scena Berlusconi. In questa incompatibilità fra bipolarismo e forma istituzionale della Prima Repubblica c'è anche il vizio d'origine del Partito democratico. Nato sulla scia del bipolarismo, può esistere solo grazie ad esso. Ma il conservatorismo costituzionale che impregna la sua cultura politica gli impedisce di puntare a uno sbocco istituzionale (una riforma della Costituzione) che superi la democrazia acefala, mettendo così in sicurezza il bipolarismo. La terza idea di repubblica è quella leghista. Ha conseguito grandi successi (ha imposto il federalismo come tema prioritario dell'agenda politica) ma non ha ancora ottenuto la vittoria decisiva. Mentre democrazia plebiscitaria e democrazia acefala sono «progetti» nazionali, quella di Bossi è una rivendicazione regionale: il federalismo è la via per dare forza alle regioni del Nord. L'alleanza fra Berlusconi e Bossi e il conseguente compromesso fra due idee di repubblica, plebiscitaria e federalista, sono stati possibili ma non senza tensioni. Basti pensare alla potenziale incompatibilità fra l'individualismo (che è la vera cifra culturale del berlusconismo) e il «comunitarismo» leghista. Questa è anche la ragione per cui non penso che i leghisti possano assorbire facilmente il grosso dell'elettorato berlusconiano del Nord, anche dopo l'eventuale uscita di scena di Berlusconi. Si potrebbe ora scommettere su una vittoria della democrazia acefala, per quanto mal messi siano i suoi sostenitori. Possiedono la forza della tradizione, un atout che può rivelarsi decisivo dato il fallimento di Berlusconi, la sua incapacità di dare un ancoraggio costituzionale alla democrazia plebiscitaria. Sarebbe però una vittoria di Pirro. Per tre ragioni. Perché la democrazia acefala può essere resa stabile solo dalla presenza di grandi partiti, forti e radicati. Ma in Italia non li resuscita più nessuno. In secondo luogo, perché necessita di un ambiente internazionale protetto (come era, per l'Italia, quello della guerra fredda, della politica dei blocchi). Nel sistema internazionale fluido e iper-competitivo di oggi la democrazia acefala è poco attrezzata per fronteggiare le sfide. In terzo luogo, perché la nostra storica divisione Nord/Sud si è ormai troppo acutizzata e i conflitti che suscita non possono essere facilmente smussati e sopiti con le tecniche tipiche della democrazia acefala. Lo stallo, il conflitto fra opposte idee di repubblica, è destinato a continuare. Resti o no in scena Berlusconi. Angelo Panebianco 09 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_09/panebianco-repubblica-berlusconi_b5cc1788-a37c-11df-9c56-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il compromesso più difficile Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:05:19 pm RISCHIO DI CRISI SUL FEDERALISMO
Il compromesso più difficile Forse la crisi di governo si verificherà a ottobre o, forse, l'esecutivo durerà, fra (pochi) alti e (molti) bassi, fino all'inizio del prossimo anno. Forse, il casus belli su cui si dissolverà formalmente la maggioranza sarà la giustizia, il terreno propagandisticamente propizio per campagne su temi come legalità e moralità. Ma sarà solo scena. Se crisi sarà, infatti, la ragione vera avrà a che fare con il federalismo, con la distribuzione delle risorse fra Nord e Sud. Non casualmente Bossi sta già mobilitando i suoi in vista di quello scontro. I finiani sanno bene, d'altronde, che i voti dovranno cercarseli al Sud. Sanno che avranno successo solo se riusciranno ad imporsi come una articolazione credibile di quella «Lega Sud» che - ormai è chiaro - non sarà mai un unico partito ma un'aggregazione politicamente eterogenea di molti partiti. È il destino di tutte le forze politiche italiane. Partono per fare una cosa e finiscono per fare l'opposto. Ad esempio, i sedicenti «liberali» berlusconiani sono in realtà dei dirigisti. A loro volta, i sedicenti «riformisti» del Partito democratico sono in realtà dei conservatori. Allo stesso modo, i finiani volevano essere la «destra moderna e liberale» e faranno la Lega Sud. È chiaro che quella fra Nord e Sud è la divisione che ormai più conta e che sta oscurando tutte le altre. Tre sono i possibili sviluppi. I primi due metterebbero a rischio l'unità nazionale. Solo il terzo potrebbe portare, col tempo, a una ricomposizione. La prima possibilità è che il federalismo sia imposto alle condizioni della Lega Nord. Il Sud interpreterebbe quella vittoria come una propria sconfitta, la legittimità del nuovo assetto sarebbe compromessa fin dall'inizio, le tensioni Nord/Sud crescerebbero ulteriormente. La seconda possibilità è una sconfitta della Lega Nord e il tramonto del progetto federalista. A ribellarsi, in questo caso, sarebbe il Nord (non solo quello che vota Lega). Il no al federalismo verrebbe interpretato come una prova della volontà del Sud di non rinunciare ai propri vizi, si tratti dei costi della politica locale o dei dissesti della sanità regionale. Anche in questo caso le tensioni fra Nord e Sud crescerebbero. Coloro che pensano di ricreare i quieti equilibri (con annessi flussi di risorse) del passato, sbagliano i conti. Quegli equilibri non sono più ricostituibili. La terza possibilità è un compromesso soddisfacente per tutte le parti in campo: il Nord non abbandona il Sud al suo destino, il Sud accetta di iniziare un percorso, rigorosamente controllato, di bonifica amministrativa, unito a iniziative di stimolo (infrastrutture, defiscalizzazioni) per la crescita economica. Pur necessario per salvaguardare l'unità nazionale, il suddetto compromesso è oggi meno probabile di quanto non apparisse un tempo. Per la sua natura di partito nazionale, radicato al Nord come al Sud, il Popolo della Libertà era nella condizione migliore per realizzare un compromesso soddisfacente. Ma, adesso, la rottura fra Berlusconi e Fini, e la prospettiva di una dura competizione fra i rispettivi partiti per i voti del Sud, rendono più difficile l'accordo. Sarà bene che i leader calcolino con attenzione le loro mosse. Se la prossima campagna elettorale si risolverà in uno scontro fra opposti egoismi regionali sarà poi difficile (chiunque vinca) rimettere insieme i cocci. Angelo Panebianco 17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_17/panebianco_compromesso_7e5e99c2-a9c3-11df-bd6c-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Democrazia «bipolare», una discussione necessaria Inserito da: Admin - Agosto 30, 2010, 04:31:10 pm LEGGE ELETTORALE E SISTEMA MAGGIORITARIO
Democrazia «bipolare», una discussione necessaria Il sistema elettorale attuale piace a pochissimi, persino fra coloro che se ne sono avvantaggiati. Tutti sappiamo che arriverà prima o poi il giorno in cui verrà sostituito o cambiato. Difficilmente la legge elettorale che porta la firma di Roberto Calderoli e che è in vigore dal 2005 potrà resistere ancora per molti anni. Al momento, tuttavia, è più facile pensare di cambiarla che riuscirci. Per due ragioni. Perché il nucleo centrale dell’attuale maggioranza di governo (berlusconiani e leghisti) non ha interesse a cambiarla. E perché gli avversari della legge vigente sono divisi, sono in radicale disaccordo fra loro, hanno idee diversissime su cosa mettere al suo posto. Non c’è niente di male in ciò e sarebbe anzi sorprendente il contrario. Le diverse leggi elettorali non sono neutre rispetto alle chance di affermazione delle varie fazioni in campo e dei loro progetti politici. A rischio di semplificare eccessivamente, possiamo dire che il confronto principale è fra coloro che vogliono sbarazzarsi del bipolarismo (la contrapposizione fra due soli schieramenti inaugurata nel 1994) e coloro che vorrebbero rafforzarlo. I primi pensano a un cambiamento della legge elettorale vigente che faccia saltare il premio di maggioranza (lo chiamerebbero «sistema tedesco» ma la sostanza sarebbe questa). Eliminato il premio, che obbliga a formare coalizioni prima del voto, il bipolarismo verrebbe travolto. Si tornerebbe all’assetto della Prima Repubblica, con le coalizioni di governo che si formano in Parlamento dopo le elezioni. C’è chi pensa che tale assetto favorirebbe la ricostituzione di un grande rassemblement parlamentare «centrista» dotato di una formidabile rendita di posizione: la possibilità di contrattare la formazione dei governi sia con la sinistra che con la destra. Al momento, è anche l’idea di quella parte del Partito democratico che si immagina perdente in un nuovo scontro elettorale con Berlusconi e per questo affida le proprie fortune politiche future a improbabili scenari di «governi tecnici» e riforma elettorale (il solito «sistema tedesco») che — così essi sperano—colpisca l’attuale premier. C’è poi la posizione di chi difende il bipolarismo, ma pensa anche che la legge elettorale attuale (con le sue liste bloccate) lo assicuri malamente, sacrificando troppo della rappresentatività sull’altare della governabilità. Una governabilità, per giunta, neppure garantita, date le altissime probabilità, dovute ai cattivi marchingegni di questa legge, di maggioranze diverse fra Camera e Senato. Sta qui, mi sembra, il senso che i promotori hanno voluto dare all’appello a favore dell’uninominale maggioritario pubblicato dal Corriere due giorni fa e al quale anche chi scrive ha aderito. Non è una operazione nostalgia, come indicano la quantità e qualità di consensi e di adesioni che l’iniziativa sta suscitando nel Paese. Non è solo il tentativo di resuscitare un movimento che, grazie alle intuizioni di Marco Pannella (che fondò la Lega per l’Uninominale nel 1986) e di Mario Segni (Movimento per la riforma elettorale, del 1987), portò poi al referendum del 1993 e alla chiusura di una lunga fase storica. È soprattutto il tentativo di tenere viva un’idea di democrazia (maggioritaria, bipolare, tendenzialmente bipartitica) che ai promotori dell’appello pare tuttora più allettante dei disegni concorrenti. E anche per ricordare a tutti che quando, fra qualche mese o qualche anno, verrà messa mano alla legge elettorale, con quella prospettiva si dovrà comunque fare i conti. Angelo Panebianco 30 agosto 2010 http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_30/panebianco_30214862-b3f6-11df-913c-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO ovvero la firma spiega tutto... (sic). Inserito da: Admin - Settembre 07, 2010, 12:26:04 pm LE SCELTE DI FINI DOPO LA ROTTURA NEL PDL
Destra moderna o Lega Sud? Nell’origine delle cose si può leggere anche la loro fine. Ufficializzando la rottura con Berlusconi e la nascita di Futuro e Libertà, Gianfranco Fini ha chiuso con una esperienza, quella del Popolo della Libertà, cui aveva aderito, a ridosso delle elezioni passate, non per intima convinzione ma perché costretto dal diktat dell’attuale premier. Banalmente, non si può stare a lungo dentro un partito carismatico se si detesta (personalmente e politicamente) il capo di quel partito e se si è detestati (personalmente e politicamente) da lui. Fini ha fatto un discorso di respiro, come devono essere i discorsi fondativi di nuove formazioni politiche. Ma non ha rinunciato a qualche tatticismo. Come altri hanno già osservato, si è lasciato aperte tutte le strade, dal patto di legislatura (nella cui praticabilità credono in pochi) all’interruzione, entro qualche mese, di questa esperienza di governo. Ha negato con forza una sua disponibilità a fare ribaltoni, a uscire dal perimetro del centrodestra, ma ha anche offerto una sponda a quella parte di opposizione che, prima di andare a nuove elezioni, spera di cambiare la legge elettorale. Nel discorso di Fini c’erano molte cose, anche fra loro piuttosto eterogenee. Alcune, già presenti nel programma originario del Pdl e poi abbandonate per strada (dalle liberalizzazioni alla abolizione delle province alla privatizzazione delle municipalizzate), corrispondono a temi molto popolari presso l’elettorato di centrodestra, anche se, significativamente, indigesti per la Lega. Altre (questione dell’immigrazione) erano direttamente finalizzate a ribadire quanto ormai sia grande la distanza che separa Fini dal partito di Bossi. Altre cose ancora servivano a recuperare aspetti di una antica identità (l’omaggio a Almirante, a Tremaglia e a Tatarella) che, oltre a piacere a una parte dei militanti, potranno rivelarsi preziosi al momento della prova elettorale. È infatti possibile che alle prossime elezioni, tenuto conto della vischiosità dei comportamenti elettorali, Futuro e Libertà si trovi a prendere la maggioranza dei suoi voti nel vecchio bacino dell’Msi (Lazio, Campania, Sicilia, eccetera). Altre cose, infine (giustizia) servivano a ribadire le ragioni della definitiva consumazione del rapporto con Berlusconi e Forza Italia. Sono rimasti, o così sembra a chi scrive, non del tutto chiariti nel discorso di Fini alcuni aspetti cruciali. Sarebbe utile se il presidente Fini volesse precisare meglio il suo pensiero. Il primo è un tema forse importante più sul piano dell’identità che su quello pratico. Non si capisce bene cosa farà Futuro e Libertà sulle questioni costituzionali. La destra berlusconiana, quella stessa destra di cui Fini è stato sodale per sedici anni, dal ’94 ad oggi, ha sempre suscitato formidabili resistenze a sinistra a causa della sua piattaforma (in senso tecnico) rivoluzionaria o revisionista. In sostanza, quella destra (anche Fini fino a poco tempo fa) non condivide l’impianto della Costituzione del ’48 e propugna (senza riuscire a realizzarli) radicali cambiamenti costituzionali: da qualche forma di presidenzialismo o premierato a mutamenti in profondità (separazione delle carriere dei magistrati, riforma del Csm) dell’ordinamento giudiziario. Nel suo discorso di Mirabello, ma anche in certi suoi interventi precedenti, Fini ha dato la sensazione di avere totalmente abbandonato le istanze revisioniste (anche le sue battute sul Parlamento ridotto a dipendenza dell’esecutivo sembrano andare in quella direzione). Antiberlusconismo a parte, questo congedo dal revisionismo costituzionale è forse ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il «cesarismo» in generale, e quello berlusconiano in particolare. È corretta questa lettura? Futuro e Libertà sarà un partito totalmente «rappacificato» con la Costituzione del ’48? Come dicevo, il tema non è tanto importante dal punto di vista pratico (le riforme costituzionali, ormai è accertato, non si possono fare) ma lo è sul piano identitario. Anche la battuta di Fini sulla legge elettorale da cambiare non aiuta. Dire che si può scegliere fra l’uninominale e la reintroduzione delle preferenze è forse politicamente furbo (si strizza l’occhio all’opposizione) ma non serve a chiarire. Alla fin fine, come Fini sa, chi vuole l’uninominale pensa a un tipo di democrazia completamente diversa da quella di chi vuole la proporzionale con le preferenze (e, con essa, secondo un’antica formula non propriamente di destra, la «centralità del Parlamento»). Il secondo tema riguarda il federalismo. Fini, va detto a suo merito, non ha eluso del tutto il problema. Ha riconosciuto che se, nella distribuzione delle risorse, si abbandona il criterio della spesa storica per passare a quello dei costi standard (architrave della riforma detta del federalismo fiscale) il Sud dovrà cambiare tanto del suo modo di usare le risorse pubbliche. Ma poi ha subito annacquato l’affermazione evocando il «federalismo solidale». Ma, come Fini sa bene, non c’è possibilità di introdurre veri cambiamenti se non si fanno pagare, nel breve termine, costi assai alti a tutta quella parte del Sud (ma anche a qualche pezzo del Nord) che vive grazie a un pessimo uso del denaro pubblico. Si può invocare quanto si vuole la «solidarietà » ma non c’è verso di introdurre il federalismo senza che questo comporti dolorose riconversioni. Il che non può non implicare, sotto il profilo politico, almeno nel medio termine, la destabilizzazione di settori rilevanti delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Quel che si capisce è che Fini chiede, su federalismo e Sud, un compromesso. Ma sta a lui e ai suoi, allora, dimostrare che un compromesso «virtuoso» è possibile, che evocare la solidarietà non sia solo un espediente per difendere l’esistente. Sta a lui, in sostanza, dimostrare che Futuro e Libertà, anche su questo terreno, è la destra moderna che egli ha evocato, e non l’ennesima variante di una qualsiasi «Lega Sud». Angelo Panebianco 07 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_07/panebianco-destra-moderna-lega-sud_4e881f8a-ba3e-11df-a688-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli occhi chiusi dell'Occidente Inserito da: Admin - Settembre 14, 2010, 08:06:09 am Gli occhi chiusi dell'Occidente
Nei nove anni trascorsi dall’11 settembre la sfida del radicalismo islamista non è stata sconfitta. È stata fatta solo una disperata, e costosissima, opera di contenimento. Ma la minaccia è sempre lì. Come lo è la volontà di ampia parte del mondo occidentale di non prendere atto della natura del problema. Consideriamo alcuni episodi recenti. Un pazzo esibizionista, Terry Jones, col suo sproposito, poi rientrato, di bruciare il Corano, non dovrebbe fare primavera ma centinaia di migliaia di persone che, in Afghanistan, in Kashmir (almeno 18 persone uccise) e in altri luoghi, fanno della minacciata azione del suddetto pazzo un pretesto per prendersela con i cristiani e l’intero mondo occidentale, fanno primavera, eccome. La «loro» malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione. Oppure prendiamo il caso dei tanti occidentali che vivono sotto scorta perché, avendo manifestato idee contrarie all’Islam, sono minacciati di morte dai fondamentalisti. Non si sono mai visti in giro molti slanci di simpatia per queste persone né molto sdegno morale per la loro condizione. Si teme forse l’accusa di islamofobia? O, ancora, prendiamo il caso del banchiere Thilo Sarrazin. Ha scritto che non desidera vivere in una Germania islamizzata, popolata da islamici che neppure imparano il tedesco. È stato oggetto di linciaggio morale e di provvedimenti punitivi. Perché? Non ha diritto alle sue opinioni? E perché quelle opinioni vengono esorcizzate anziché discusse? Qualche risposta, nel caso dell’Europa, ce la dà il combinato disposto di flussi migratori e di tendenze demografiche. Le comunità islamiche sono in grande crescita. Già oggi l’Islam è qui la seconda religione. Inoltre, il differenziale demografico fra musulmani e non musulmani fa sì che entro pochi decenni, se il trend non si invertirà, la maggioranza dei giovani europei, dai vent’anni in giù, sarà di religione musulmana. Uno dei più prestigiosi missionari italiani, padre Piero Gheddo (come riporta Il Foglio, 10 settembre), parla, come già lo storico Bernard Lewis, di un’Europa alle soglie di un grande cambiamento, sul punto di essere fortemente condizionata, nelle sue leggi e nei suoi costumi, dalle pressioni di comunità islamiche in espansione. Il disagio suscitato dalla crescente presenza islamica spiega il montare di opposti eccessi nelle nostre società: un odio cieco e irragionevole per i musulmani in generale e, insieme, le timidezze, la voglia di fingere di non vedere le prepotenze dei fondamentalisti e il pericolo che rappresentano. La crescita della presenza islamica è un fatto irreversibile. Ma non è stata scritta la parola definitiva su quali rapporti si affermeranno fra musulmani e società europee. Nascerà, come si spera, un Islam «europeo», ove religione e piena accettazione dei princìpi occidentali di convivenza civile riusciranno a convivere? Oppure, prevarranno il rifiuto, la separazione e il conflitto? L’esito dipenderà, almeno in parte, dalle scelte degli europei: dalla loro capacità di valorizzare il ruolo dei leader non fondamentalisti, a scapito dei fondamentalisti, delle comunità musulmane, e dalle regole di convivenza che riusciranno a varare e a fare rispettare. E dipenderà anche dal loro impegno nel fronteggiare la sfida militare del radicalismo islamico nei molti luoghi in cui si manifesta. Poiché si ha a che fare con un sistema di vasi comunicanti, se il radicalismo islamico dovesse collezionare sconfitte nei vari angoli del mondo, ciò avrebbe effetti positivi sugli orientamenti prevalenti nelle comunità musulmane europee (fra i giovani, soprattutto). Così come effetti di segno contrario, negativi, avrebbero le vittorie del radicalismo islamico. Bisognerebbe però sbarazzarsi della tesi minimalista che molti hanno adottato in Occidente (e che contribuisce a spiegare, ad esempio, il tiepido appoggio europeo all’impegno Nato in Afghanistan): la tesi secondo la quale una minaccia globale non esiste, essendo i vari conflitti in cui opera il radicalismo islamico figli solo di circostanze e situazioni locali. Per cui serie sconfitte occidentali in Afghanistan, in Medio Oriente o nel Corno d’Africa non avrebbero implicazioni altro che per l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Corno d’Africa. Le cose non stanno così. Non c’è differenza fra quanto accade oggi e quanto è accaduto in altre vicende del passato, dalle lotte fra cattolici e protestanti nell’Europa del XVI secolo allo scontro globale fra comunisti e anticomunisti nel XX secolo. Quei conflitti traevano sempre nutrimento da circostanze locali fra loro diversissime, ma erano poi unificati da ideologie comuni e da solidarietà transnazionali che si concretizzavano in appoggi, finanziamenti, flussi di combattenti da un luogo all’altro. E dalla presenza di vaste reti di simpatizzanti. Non c’è incompatibilità, oggi come in passato, fra le ragioni locali dei vari conflitti e gli scopi sovrannazionali delle ideologie che li connettono. Un’Europa che trova comodo abbracciare la tesi minimalista non è, a sua volta, di grande aiuto per una America, già indebolita dalla crisi, guidata da un’Amministrazione che si mostra sempre più oscillante e incerta, priva di una salda strategia ai fini del contenimento dell’islamismo radicale. Eppure, almeno un’occasione per discutere seriamente di islam e Europa e delle complesse ramificazioni del problema, gli europei potrebbero ora coglierla. L’occasione dovrebbe essere rappresentata dai negoziati con la Turchia (dopo il referendum, vinto dal partito islamico al potere, sulle modifiche della Costituzione). La Turchia dei prossimi anni ci servirà forse a scoprire il grado di compatibilità fra liberaldemocrazia e islam. L’abbandono dei tratti più autoritari dell’eredità di Ataturk (il ridimensionamento del ruolo politico dei militari) aprirà la strada a una conciliazione piena fra islam e democrazia? O la democratizzazione sarà la levatrice di nuove forme di islamismo autoritario? Il test ci riguarda da vicino. Per l’importanza geopolitica della Turchia. Ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazia europee e le comunità musulmane. di Angelo Panebianco 14 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_14/panebianco_ochi_chiusi_occidente_143cd00c-bfbe-11df-8975-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un partito senza identità Inserito da: Admin - Settembre 18, 2010, 09:42:04 am IL PD SULL’ORLO DELL’IMPLOSIONE
Un partito senza identità Seguendo le sorti del Popolo della Libertà anche il Partito democratico è sull’orlo di una implosione? La mossa di Walter Veltroni, l’aggregazione di un «movimento» di contestazione della segreteria, non è solo un episodio dell’annoso duello fra Veltroni e Massimo D’Alema. La gravità delle condizioni in cui versa oggi il Pd è tale che difficilmente l’esito potrà essere qualcosa di diverso da una frattura irreversibile. La ragione di fondo è che il Pd è un partito di opposizione che non riesce a trarre profitto, in termini di consensi, dalle gravi difficoltà della maggioranza di governo. E non può trarne profitto perché non è un corpo sano ma malato. C’è qualcosa di drammatico, e di rivelatore sia dei limiti delle classi politiche sia delle tendenze profonde del Paese, nel fatto che tutti i tentativi di costruire grandi forze «riformiste» falliscano in Italia. L’operazione non riuscì negli anni Sessanta dello scorso secolo con l’unificazione socialista. Poi non riuscì a Craxi. Infine, non è riuscita al Partito democratico. Per un verso, non c’è, e non c’è mai stata, per così dire già «preconfezionata», una domanda di riformismo sufficientemente forte e ampia nell’elettorato di sinistra. Per un altro verso, ci sono limiti nella cultura politica delle classi dirigenti della sinistra che le hanno sempre rese incapaci di creare, con le loro azioni, le condizioni perché quella domanda crescesse e si diffondesse. Alla debolezza dal lato della domanda hanno sempre corrisposto la fragilità e l’incoerenza dal lato della offerta. Si guardi a cosa è successo dopo le elezioni. Mandato via Veltroni, il Pd non è stato più capace di trovare un baricentro politico. Alla più conclamata che praticata «vocazione maggioritaria » di Veltroni (che commise il fatale errore dell’alleanza con Di Pietro) si è sostituita una sorta di rassegnata presa d’atto del carattere irrimediabilmente minoritario del Pd. Da qui la ricerca di alleanze purchessia, l’oscillazione fra velleitari progetti di Union sacrée contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici (alleiamoci con i centristi di Casini, magari offrendo loro anche la presidenza del Consiglio) e fumosi slogan (il nuovo Ulivo). Risultato: il Pd è oggi un partito senza identità, alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola. Anziché elaborare proposte, costruirvi sopra una identità chiara, e solo dopo tessere le alleanze in funzione delle proposte e dell’identità, il Pd è partito dalla coda, dalle alleanze. Impantanandosi, non riuscendo a stabilire un rapporto forte con l’opinione pubblica. Dirlo è un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma è un fatto che nulla può dare il senso della crisi di un partito di opposizione più della sua paura di nuove elezioni. Si spezza il rapporto fra Berlusconi e Fini? La maggioranza è a rischio? Che altro dovrebbe allora fare il maggior partito di opposizione se non chiedere, a gran voce, elezioni immediate? E invece no. Per paura delle elezioni si trincera dietro il pretesto della urgenza di una riforma elettorale (dimenticandosi di spiegare perché, se era così urgente, non la fece quando aveva la maggioranza, all’epoca dell’ultimo governo Prodi). È un vero peccato. La democrazia italiana avrebbe bisogno di un solido partito di sinistra riformista, sicuro di sé, delle proprie ragioni, della propria identità. Ma non è questo oggi l’identikit del Partito democratico. Angelo Panebianco 18 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_18/un-partito-senza-identita-angelo-panebianco_d395f316-c2e3-11df-824c-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dalla parte di un elettore Inserito da: Admin - Settembre 27, 2010, 09:41:50 am TROPPE FAZIONI, NESSUNA CHIAREZZA
Dalla parte di un elettore Con la verifica parlamentare del 29 settembre il governo cadrà oppure sopravviverà senza che gli italiani che non siano addetti ai lavori abbiano avuto la possibilità di capire le autentiche ragioni della crisi politica in atto. E' difficile che gli elettori del centrodestra, questioni di case a parte, abbiano davvero compreso quali siano i motivi della rottura fra Berlusconi e Fini. Così come, d'altra parte, è improbabile che gli elettori del centrosinistra siano stati in grado di spiegarsi i perché dello scontro (poi provvisoriamente rientrato) fra Veltroni e Bersani. Nei primi anni Settanta, ai tempi della Dc, la politica italiana era giudicata incomprensibile dall'allora segretario di Stato americano Henry Kissinger. Lo era anche per tanti italiani. E le cose non sono molto cambiate. Perché la politica italiana è così poco trasparente per gli elettori? Perché, in democrazia, il grado di trasparenza, di comprensibilità della politica, è inversamente proporzionale al numero di fazioni presenti nell'arena. Nei casi (storicamente rari) dei sistemi bipartitici, la politica è una attività relativamente trasparente: ci sono due sole fazioni in gara per la conquista del governo e gli elettori sanno, almeno per grandi linee, che cosa comporti la vittoria dell'una o dell'altra. Nei sistemi multipartitici, per contro, la politica è un gioco più complicato, più difficile da decifrare. Ma ci sono gradazioni. Più il sistema multipartitico è frammentato (più alto è il numero di fazioni) meno ci si capisce. Sul numero delle fazioni incidono molte cose ma la più importante è il sistema costituzionale. Molto dipende dal grado di dispersione o di concentrazione del potere che le istituzioni democratiche favoriscono. Dove il potere è più concentrato (nelle mani di un premier come in Gran Bretagna o di un Presidente come in Francia) e il governo è il vero «comitato direttivo» del Parlamento, la frammentazione è contenuta. In questo caso, non c'è solo più efficienza nell'azione dell'esecutivo, c'è anche maggiore capacità degli elettori di comprendere cosa stia bollendo nella pentola della politica. Il nostro è sempre stato un sistema democratico con tante fazioni e tanti poteri di veto sulle azioni dei governi. A causa delle circostanze storiche in cui esso nacque, perfettamente rispecchiate in un testo costituzionale che non contiene antidoti contro la frammentazione. Quando, nei primi anni Novanta, crollò il sistema partitico sorto con le elezioni del '48, si aprì una finestra di opportunità: iniziarono gli sforzi per passare da un sistema politico ad alta diffusione del potere ad un altro ove il potere fosse più concentrato. Il cambiamento della legge elettorale, l'adozione di un sistema maggioritario imperfetto, fu il primo passo in quella direzione. Il secondo passo fu la scelta dell'elezione diretta di sindaci e presidenti di regione e di provincia. Poi il cammino si interruppe. Non ci fu mai quella riforma della Costituzione che avrebbe dovuto coronare e stabilizzare per sempre il passaggio da un sistema democratico frammentato, con poteri dispersi, ad uno più coeso. L'ingresso in politica di Silvio Berlusconi diede ad alcuni la speranza, e ad altri il timore, che quella concentrazione del potere che era impossibile attraverso una revisione costituzionale lo fosse per via politica. Berlusconi, dividendo il Paese in due, e utilizzando risorse extraistituzionali (carisma, ricchezza personale, televisioni), diede la falsa impressione che un processo irreversibile di ricomposizione fosse in atto. Ma era solo apparenza, un'illusione. Che si dissolverà del tutto quando Berlusconi uscirà di scena. La frammentazione non è scomparsa e, con essa, e grazie ad essa, nemmeno la scarsa comprensibilità della politica italiana. D'altra parte, la dispersione del potere avvantaggia molti. Dove esistono tante fazioni e tanti poteri di veto, ogni detentore di rendite piccole o grandi sa di essere più protetto contro l'azione del governo. C'è sempre qualcuno, qualche fazione, a cui ci si può rivolgere per bloccare decisioni sgradite. La frammentazione rende la politica debole, tutela e garantisce lo status quo, rende difficili i cambiamenti che potrebbero fare bene al Paese ma male a certi interessi costituiti. Chi preferisce, e in questo Paese sono in tanti, un'eccessiva dispersione del potere, attribuendole virtù che non possiede, scambiandola per la variante italiana del meccanismo democratico dei pesi e contrappesi, ha il diritto di farlo. Ma non ha il diritto di lamentarsi se poi la politica risulta incomprensibile. Angelo Panebianco 27 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_27/panebianco-dalla-parte-elettore_a11a1506-c9f6-11df-9db5-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L’universita’ dimenticata Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2010, 12:08:44 pm LA MAGGIORANZA E LA RIFORMA GELMINI
L’universita’ dimenticata Il governo e la sua maggioranza, o ciò che ne resta, accumulano autogol. Non sono bastati la disastrosa gestione del conflitto fra Berlusconi e Fini e il suo impatto negativo, registrato dai sondaggi, sui consensi al governo. Adesso, la maggioranza è anche decisa a giocarsi credibilità e aperture di credito faticosamente ottenute, grazie al lavoro dei ministri migliori, presso settori qualificati dell’opinione pubblica. Mi riferisco al probabile affossamento della riforma universitaria. La riforma era in dirittura di arrivo (l’inizio della discussione alla Camera era prevista per il 4 ottobre). I capigruppo hanno deciso il rinvio al 14 ottobre. Dieci giorni soltanto ma sufficienti per affossare il provvedimento. Infatti, il 15 ottobre comincia la sezione di bilancio e la discussione dovrà essere subito sospesa per almeno un mese. Non solo la riforma non arriverà in porto prima dell’inizio dell’anno accademico. Ma, probabilmente, a causa dei vincoli dei calendari parlamentari e delle risse nella maggioranza, finirà per slittare sine die (si veda la puntuale ricostruzione fatta oggi, su questo giornale, da Lorenzo Salvia). Con le probabili elezioni a primavera che ormai incombono, se ne riparlerà nella prossima legislatura. La riforma del ministro Mariastella Gelmini è un ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore. Non è perfetta. Ci sono anche cose che non convincono. Ma è sicuramente il frutto di uno sforzo encomiabile di affrontare di petto i problemi dell’Università. Chi la rifiuta in blocco lo fa per faziosità ideologica oppure perché appartiene ai settori più conservatori del mondo universitario. Molti, però, fra gli universitari, si rendono conto che il provvedimento è indispensabile. I rettori più consapevoli della necessità della riforma e anche tanti professori la aspettano con più fiducia che apprensione. Ed è un merito della Gelmini e del suo lavoro. Anche gli imprenditori attendono il provvedimento essendo chiaro che miglioramenti sensibili del capitale umano (della preparazione dei nostri laureati) saranno necessari, nei prossimi anni, all’economia italiana. Il varo della riforma era insomma un test atteso da m o l t i p e r v a l u t a r e l’affidabilità dell’esecutivo. Che fanno allora il governo (il «governo del fare» come piace definirlo al presidente del Consiglio) e la sua maggioranza? Rinviano la riforma e ne mettono a rischio l’attuazione. Mandano un altro pessimo segnale al Paese e mettono in difficoltà quei rettori che avevano dato fiducia alla Gelmini. Sembra difficile attribuire queste scelte sciagurate ad altro se non a una grave forma dimiopia politica. Varare una così importante riforma significherebbe dire al Paese: è vero, siamo immersi in risse continue, ma sappiamo anche, su questioni concrete come il destino dell’istruzione superiore, portare a termine i nostri progetti. Forse, ai capigruppo di maggioranza converrebbe ripensarci. Cosa resterà altrimenti? Solo la rissa quotidiana e la prospettiva, che non dovrebbe essere allettante per la maggioranza, di uscirne alla fine con le ossa rotte. Angelo Panebianco 04 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_04/universita-dimenticata-editoriale-panebianco_d14d9270-cf73-11df-8a5d-00144f02aabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Musulmani d'Europa Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 06:30:49 pm Il commento
Musulmani d'Europa La dichiarazione del cancelliere Angela Merkel («il multiculturalismo è fallito») è stata interpretata da tutti come una constatazione di fatto sugli errori della politica dell'immigrazione tedesca degli ultimi decenni ma anche come il segnale di una svolta imminente. Anche in Germania, come in tutto il resto dell'Europa, la questione degli immigrati è ora un problema politico di prima grandezza: dare risposte incoerenti con le domande dell'opinione pubblica può significare perdere le elezioni. È la nuova grande questione che divide, e dividerà a lungo, le democrazie europee e che va ad aggiungersi alle più tradizionali divisioni sui temi economici. Partiti anti-immigrati sorgono come funghi e fanno pienoni elettorali in tanti Paesi europei. Dove questo non accade è solo perché i partiti più tradizionali, già insediati, hanno indurito per tempo il loro approccio all'immigrazione. Due giorni fa, il Sole 24 Ore ha pubblicato un'utile inchiesta sulle politiche europee dell'immigrazione mostrando un quadro assai differenziato. Si va dai Paesi fino ad oggi più accoglienti, come la Svezia o l'Olanda (che però stanno sperimentando forti rivolte anti-immigrati) a quelli più chiusi come la Grecia. Ma non è difficile immaginare che le varie democrazie europee, adattandosi alle domande delle loro opinioni pubbliche, col tempo finiscano tutte per convergere su politiche selettive, che mettano più filtri, e più rigorosi, di quelli utilizzati nel recente passato. C'è la reazione delle opinioni pubbliche ma c'è anche un'incertezza obiettiva su come fronteggiare il problema. Nessuna delle due strade fin qui adottate, quella originariamente francese dell'assimilazionismo (chi arriva deve spogliarsi della precedente identità per abbracciare identità e cultura del Paese ospitante) e quella, originariamente anglosassone, del multiculturalismo, sembra funzionare. Il multiculturalismo, soprattutto, ben prima che lo riconoscesse la Merkel, appariva più un sogno da idealisti che una politica realisticamente praticabile. Il multiculturalismo prevede infatti che le varie culture presenti sul territorio vengano preservate, anche con leggi apposite, e che le diverse comunità culturali si autogovernino per tutti gli aspetti che riguardano la tutela della propria identità. Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico. Per questo, il multiculturalismo non è una politica adatta per le democrazie europee. Gran Bretagna, Olanda, Germania avevano scelto quella strada e ne hanno verificato l'impraticabilità. Ma se la via francese (l'assimilazionismo) è difficilissima e quella multiculturale impraticabile, che fare allora? Assistere passivamente al montare dei conflitti? Il problema della maggiore o minore capacità di convivenza con la nuova immigrazione dipende non da uno ma da un insieme di fattori: la qualità e il rigore dei filtri predisposti (le politiche dell'immigrazione in senso stretto), i cicli economici, la capacità di offrire servizi agli immigrati che lavorano, la capacità di reprimere i comportamenti illegali, eccetera. Ma dipende anche dalle tradizioni di provenienza e appartenenza degli immigrati. È inutile girarci intorno. Ci sono immigrati che, per la tradizione di provenienza, possono trovare un loro ruolo nei Paesi ospitanti (e col tempo, potranno forse anche essere assimilati nel senso francese del termine. E, se non loro, i loro figli) con relativa facilità. Episodi di intolleranza, anche gravi, ci sono e ci saranno. Ma nel complesso, molti immigrati, soprattutto dell'Est europeo, riusciranno ad inserirsi con successo nelle società europeo-occidentali. C'è però il caso dell'islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si constata il fallimento del multiculturalismo. Ciò che ovunque in Europa si teme è che una crescita eccessiva delle comunità musulmane, grazie anche al differenziale demografico, finisca per imporre le trasformazioni più forti nelle regole di convivenza delle società europee. La domanda di cui nessuno conosce la risposta è la seguente: cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico? La risposta dipenderà in parte da noi europei, dagli atteggiamenti che assumeremo e dalle politiche che adotteremo. Ma, in larga parte dipenderà anche dalla evoluzione del mondo islamico. Se il ciclo fondamentalista (connesso al cosiddetto «risveglio islamico») che ha investito l'islam mondiale negli ultimi decenni non si esaurirà presto, dovremo attenderci aspri conflitti e fortissime tensioni anche in Europa (altro che pacifica convivenza multiculturale). Se invece quel ciclo, raggiunto un picco e punte di massima espansione, andrà ad esaurirsi, come è possibile che prima o poi accada, allora nasceranno forse esperimenti inediti e interessanti: la democrazia potrà misurare il proprio successo anche sulla sua capacità di favorire la piena adesione dei musulmani immigrati alle regole della società aperta e libera. Oggi ciò non appare probabile. Ma è lecito, per lo meno, sperarlo. ANGELO PANEBIANCO 21 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_21/panebianco_bd297000-dcd1-11df-bdeb-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Classe (per nulla) dirigente Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2010, 06:50:49 pm IL COMMENTO
Classe (per nulla) dirigente Rivolte urbane, guerriglie notturne, sindaci alla mercé delle piazze. Di nuovo la Campania. Di nuovo l'immondizia. Governo, Regione, Napoli, si palleggiano le colpe e magari è vero che le responsabilità sono di tutti. Ma resta che la Campania non si sa tirare fuori da una situazione che, come ha scritto accoratamente Giuseppe Galasso su questo giornale (il 24 ottobre) umilia l'Italia intera. Il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravissimi problemi che lo attanagliano. Consiste nel fatto che le sue classi dirigenti (politici, imprenditori, professionisti, intellettuali) siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi. Nel politichese di alcuni anni fa si sarebbero dette prive di «progettualità», fallite. Non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere «abbandonato il Sud»: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare). Ma ne perdono tanti quando si tratta di lavorare per cambiare le cose. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia constatiamo che l'unità scricchiola, che si sentono rumori sinistri. Se non ci saranno novità la democrazia, così come funziona nel Mezzogiorno, e l'unità del Paese potrebbero presto entrare in rotta di collisione. L'esperienza storica ci dice che, spesso, la democrazia è un'ottima cura per molti mali: col tempo, fa fiorire una società civile basata sulla cooperazione e la fiducia, fa crescere il capitale umano e sociale, promuove lo sviluppo. Ma non ovunque. Di certo, sessant'anni di democrazia non hanno portato quei doni al Mezzogiorno. La democrazia è servita al Sud, più che per curarsi degli antichi vizi, per accrescere il proprio potere contrattuale nei confronti dello Stato e delle regioni più sviluppate. Senza il Sud non si vincono le elezioni nazionali e questo dà a chi difende il Mezzogiorno così come è oggi una fondamentale arma di ricatto nei confronti di qualunque coalizione politica nazionale, di destra o di sinistra che sia. Le voglio proprio vedere, ad esempio, certe Regioni del Sud (quelle con i peggiori disastri nella Sanità) accettare senza fiatare il passaggio dalla spesa storica ai costi standard come prevede il progetto del federalismo fiscale, ben sapendo che ciò comporterebbe una drastica contrazione di risorse e l'obbligo di porre fine a sprechi e a parassitismo. È in questo senso che unità del Paese e democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili. Non si può avere una questione meridionale perenne: alla lunga, si finisce per disfare ciò che il Risorgimento ha creato. L'aspetto più grave non sta nella protervia dei maneggioni ma nei pensieri e nelle parole di tante persone per bene. Chiunque scriva di Mezzogiorno sa di cosa parlo. Quando si toccano questi argomenti si ricevono tanti messaggi dal Sud, spesso di professionisti o di insegnanti. Persone istruite, che fanno opinione nei rispettivi ambienti. Persone capaci di fare l'apologia del regno borbonico, di trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra, di liquidare la storia dell'Italia unita come il frutto di un'odiosa colonizzazione. Questa forma di autoassoluzione, condita di leggende nere sull'unità d'Italia è, da sempre, la maledizione del Sud. Se non se ne libererà non cambierà mai nulla. E dei «doni» della democrazia resterà solo una capacità di ricatto sempre meno sopportata dal resto del Paese. Angelo Panebianco 26 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_26/classe-per-nulla-dirigente-editoriale-angelo-panebianco_2e086226-e0c0-11df-b5a9-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'altra secessione Inserito da: Admin - Novembre 04, 2010, 09:17:32 am Il sud contro il nord
L'altra secessione Possiamo pensare alla politica come a una torta a due strati: c’è uno strato superficiale e uno sottostante. Lo strato superficiale è quello della politica politicienne su cui si concentra l’attenzione dei media: crisi di governo? Elezioni? Governi tecnici? Nuove sorprese sul piano giudiziario? Nuovi gossip? Poi c’è lo strato sottostante che sta in profondità. Mentre lo strato superficiale è o può essere soggetto a repentini cambiamenti, nello strato profondo i cambiamenti, ammesso che avvengano, richiedono tempi lunghissimi. Tra i due livelli ci sono influenze asimmetriche, di differente intensità (è più forte l’influenza dello strato profondo su quello superficiale che il contrario). Appartiene allo strato profondo la divisione Nord/Sud. Ciò che accade in quello superficiale, di volta in volta, può disvelare aspetti diversi di quella storica divisione, e può anche, in certe fasi, esasperarla, ma non l’ha creata e non può eliminarla. L’esasperazione della frattura Nord/Sud che sperimentiamo da un ventennio ha la sua causa nella fine della Dc e del sistema di scambi mutualmente soddisfacenti (ampiamente finanziato con l’indebitamente pubblico) che la Dc garantiva fra i diversi territori. Quel sistema aveva assicurato per molti anni una certa tranquillità di superficie ma nella pancia del Paese anche allora si celavano umori cattivi. Qualcuno ricorderà «radio bestemmia », un esperimento di Radio Radicale degli anni Ottanta (non c’era ancora all’orizzonte nessuna Lega a minacciare secessioni). Per tre giorni il microfono fu lasciato, senza controllo, in mano agli ascoltatori: si cominciò con risse e insulti fra tifoserie calcistiche e si finì con una grande esplosione di odio viscerale fra terroni e polentoni. In questi anni siamo stati soprattutto colpiti dal fenomeno più appariscente: il vento del Nord, il leghismo, con il suo secessionismo culturale e, potenzialmente, politico. Non abbiamo prestato abbastanza attenzione al fenomeno opposto e simmetrico, ma più silenzioso, meno visibile: il secessionismo culturale del Sud. La voglia di bruciare il tricolore non appartiene solo ai più esagitati fra i leghisti: anche dal Sud vengono lanciati cerini accesi. Che altro è se non voglia repressa di bruciare il tricolore la rappresentazione del Risorgimento come uno stupro di gruppo ai danni del Mezzogiorno da parte di un Nord violento e rapace? La leggenda nera sull’Italia unita nasce subito dopo l’unificazione nutrendosi di fatti veri (l’occupazione piemontese, la spietata guerra al brigantaggio, il peggioramento delle condizioni delle campagne, la grande migrazione verso le Americhe) ma letti piattamente, senza spirito critico, senza inserirli in una visione più ampia, nella quale la partita del dare e dell’avere fra le regioni ricche e quelle povere svelerebbe il proprio carattere autentico: quello di un complesso interscambio che ha portato, nel lungo periodo, più vantaggi che svantaggi all’intera comunità nazionale. A causa dell’esasperazione della divisione Nord/Sud degli ultimi vent’anni, l’antica leggenda nera viene ora riproposta con forza dagli appartenenti alle classi colte meridionali. Si può leggere di tutto: puntigliose rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie, invettive contro Cavour e i piemontesi, criminalizzazione del Nord di ieri e di oggi. Da tante lettere che arrivano quando si scrive di questi argomenti si ricava la sensazione che molti meridionali appartenenti alle classi colte siano sinceramente convinti di due cose. La prima è che, se non ci fosse stata la colonizzazione del Nord, il Sud sarebbe ora qualcosa di simile alla Svizzera o all’Olanda. La seconda è che le classi dirigenti del Sud non abbiano responsabilità dei mali in cui il Sud si dibatte. Nella versione meno spudorata, o meno irrealistica, si parla più prudentemente (come fa il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo) di complicità, di patti perversi fra Roma e le classi dirigenti meridionali. Perché questa forma di secessionismo culturale danneggia il Sud (polemizzando con me, c’è caduto, sia pure da par suo, anche un finissimo osservatore come Ruggero Guarini su Il Foglio del 28 ottobre)? Perché giustifica e perpetua l’irresponsabilità delle classi dirigenti meridionali e garantisce in questo modo l’impossibilità di una svolta. Sembra che ci sia una sorta di «blocco sociale» composto da classi dirigenti che, spesso, hanno assai male amministrato e di classi colte che tengono loro bordone mal consigliando e mal giustificando. È vero che ci sono anche segnali che vanno in una diversa direzione. C’è il fatto che il Sud (come il Nord) non è un blocco territoriale omogeneo: esiste anche un Sud produttivo e ben governato. Inoltre, anche in politica non tutto è sempre scontato: ad esempio, Gianfranco Micciché, tenendo a battesimo la sua costituenda Forza del Sud, ne ha parlato come di un movimento politico che deve spingere il Mezzogiorno a ritrovare il suo orgoglio, mettere al bando ogni sterile lamentela, impegnarsi per creare sviluppo e benessere. Si tratterà di vedere se alle intenzioni corrisponderanno i fatti e se le resistenze di quella consistente parte del Sud che non ne vuol sapere potranno essere superate. Il secessionismo culturale del Sud, nonostante il suo successo e la sua diffusione, ha il fiato corto. A differenza di quello del Nord non può tradursi in secessionismo politico: non dispone dei soldi. Può però avere l’effetto di esasperare ulteriormente il secessionismo nordista. Infatti, anche il movimento leghista è a un bivio, spinto dai suoi stessi impulsi in direzioni diverse: la testa (la ragione) gli detta di cercare soluzioni federali; la pancia lo spinge verso la secessione: un esito che, se si realizzasse, abbasserebbe drasticamente il rango internazionale del Nord (per esempio, in Europa) con molte e pesanti ripercussioni negative. Berlusconi, costruendo l’unico vero partito nazionale in circolazione (forte al Nord come al Sud) ha precariamente, avventurosamente, e provvisoriamente, surrogato il ruolo storico che era stato della Dc, tenendo di fatto insieme il Paese. Quando il suo partito si disferà (probabilmente ciò accadrà quando egli uscirà di scena), Nord e Sud si troveranno l’uno di fronte all’altro senza mediazioni, l’uno contro l’altro. E per l’unità d’Italia sarà l’ora della verità. Però, forse, è imminente una crisi di governo, forse andremo presto a elezioni. Parlando di Nord e Sud ho divagato? Non mi pare. Perché, crisi o no, elezioni o no, è dallo strato profondo della torta che partono comunque gli impulsi più potenti. Da essi dipenderà, anche a breve, il futuro del Paese. Angelo Panebianco 04 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_04/panebianco-altra-secessione_5583edd4-e7dc-11df-a6d6-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Cristiani invisibili Inserito da: Admin - Novembre 12, 2010, 12:07:30 am IL SILENZIO SULLE PERSECUZIONI Cristiani invisibili Dopo l'attacco di gruppi riconducibili ad Al Qaeda contro una chiesa di Bagdad che provocò cinquanta morti e un centinaio di feriti il 31 ottobre scorso, una nuova ondata di attentati ha preso di mira, questa volta, le case abitate da cristiani: il bilancio provvisorio, probabilmente destinato a salire, è di almeno tre morti e decine di feriti. In Iraq è caccia aperta ai cristiani e, come dice monsignor Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Bagdad, «il governo non fa nulla per fermare gli attentati». È facile, per gli occidentali, liquidare la questione come una delle tante tragiche conseguenze della guerra in Iraq. C'è del vero ma è anche una spiegazione insufficiente. Così come è insufficiente rilevare che ciò che sta accadendo è anche la conseguenza della forse prematura scelta americana di dichiarare chiusa la guerra in Iraq e di ritirare il grosso delle truppe. Un ritiro che ha lasciato l'Iraq in balia dei piani egemonici iraniani e sta vanificando il lavoro svolto, a suo tempo, dal generale David Petraeus: la guerriglia sunnita è ora in forte ripresa così come l'attivismo di Al Qaeda. I cristiani, inermi e quindi facili bersagli, sono vittime in uno scontro di potere fra gruppi islamici. Ciò che così non si spiega, però, è perché i cristiani siano continuamente oggetto di attentati in una fascia che va dall'Indonesia all'India, dal Pakistan al Vicino Oriente e che si spinge fino ai territori islamici dell'Africa subsahariana. Le cifre sulla persecuzione dei cristiani nel mondo sono impressionanti. Ogni singolo caso ha certamente anche motivazioni «locali», è anche un portato di condizioni locali. Ciò è vero per definizione. Ma cosa lega la persecuzione dei cristiani nel mondo extraoccidentale, quale è il denominatore comune? Normalmente, chi nega l'esistenza di qualsiasi cosa possa anche solo ricordare vagamente l'espressione «scontro di civiltà» non ha risposte da dare. Il denominatore comune, infatti, c'è: consiste nel fatto che le comunità cristiane, anche se composte da pachistani, iraniani, nigeriani, o anche se, come nel caso delle comunità del Medio Oriente, lì già presenti molti secoli prima che arrivasse l'Islam, vengono associate dai loro nemici al mondo occidentale, ne sono considerate quinte colonne. Uccidere cristiani, anche là dove essi hanno solo la religione in comune con gli occidentali, ha un grande valore simbolico: elimina una presenza «impura», la spazza via dai territori che agli occhi di chi uccide, e dei tanti che applaudono alle uccisioni, appartengono di diritto ai praticanti di un'altra religione e, contemporaneamente, sferra un altro colpo agli odiati occidentali. Gli occidentali, però, fanno finta di niente, fingono di non vedere e non capire. La persecuzione dei cristiani non è un tema che sia mai davvero entrato nelle agende dei governi occidentali di Stati Uniti e Europa, sembra non riguardarli. Con tutto ciò che succede nel mondo, paiono pensare governi e opinioni pubbliche, perché dovremmo preoccuparci anche delle disgrazie dei cristiani non occidentali? Invece, dovremmo preoccuparcene. Il nostro sostanziale disinteresse serve a un bel po' di fanatici in giro per il mondo anche per prenderci le misure, per giudicarci. Ciò che vedono può indurli a pensare che siamo deboli e decadenti e che non c'è pertanto alcun motivo di fermare la mattanza. Angelo Panebianco 11 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_11/cristiani-invisibili-angelo-panebianco-editoriale_8ec9b2ca-ed5b-11df-bb83-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il Partito delle Delusioni Inserito da: Admin - Novembre 16, 2010, 05:34:59 pm Il Partito delle Delusioni
La vittoria di Giuliano Pisapia alle primarie milanesi del centrosinistra contro il candidato del Partito democratico Stefano Boeri rappresenta, come ha scritto sul Corriere di ieri Michele Salvati, una «secca sconfitta politica» per il gruppo dirigente di quel partito. Una sconfitta che si somma a tante altre batoste, come, a suo tempo, la vittoria di Nichi Vendola in Puglia contro il candidato ufficiale del Pd, la perdita di regioni tradizionalmente governate dalla sinistra, il successo, anche se per ora solo mediatico, della rivolta capeggiata dal sindaco di Firenze Matteo Renzi, e altro ancora. Se la politica italiana è, come è, alla deriva, se la rottura del Pdl e il possibile declino di Silvio Berlusconi preannunciano una crisi di sistema destinata ad avere ripercussioni ovunque, è difficile pensare che possa cavarsela un partito di opposizione così mal messo come il Partito democratico. Talmente mal messo da non aver saputo nemmeno approfittare, in questi anni, della crisi economica per rimontare nei sondaggi (che è ciò che normalmente accade in democrazia: i consensi per l'opposizione crescono quando il governo deve fronteggiare una grave crisi). Così come è fallita l'aggregazione a destra denominata Popolo della libertà sta fallendo l'aggregazione a sinistra denominata Partito democratico. Quando nacque, il Pd suscitò molte speranze fra coloro che auspicavano un rinnovamento della cultura politica della sinistra. Ma le speranze andarono deluse. A poco a poco vennero fuori le magagne: il nuovo contenitore risultò privo di contenuti, più un mezzo per assicurare la sopravvivenza di spezzoni di vecchia classe dirigente che un partito (nonostante, va detto, la serietà degli sforzi iniziali dell'allora segretario Walter Veltroni) dotato di identità e capacità progettuale. Forse il Pd cominciò a morire quando, nell'inverno 2007-2008, fallirono le trattative tra Veltroni e Berlusconi per una riforma, a vantaggio dei grandi partiti, del sistema elettorale. Se quelle trattative fossero andate in porto, il Pd sarebbe forse riuscito a mettere in sicurezza, oltre al bipolarismo italiano, anche se stesso. Probabilmente, avrebbe ugualmente perso le elezioni del 2008 ma, almeno, avrebbe monopolizzato l'opposizione e sarebbe stato in gara per giocarsi, con qualche chance di successo, la prova elettorale successiva. Non andò così. L'incapacità di elaborare e imporre una sua visione delle cose politiche ne fece un partito né carne né pesce, in balia delle pressioni esterne: prima succube dei giustizialisti, poi alla rincorsa dei centristi di Casini, e oggi anche di Fini, domani probabilmente risucchiato (ma, sicuramente, dopo avere perso per strada molti pezzi) dal radicalismo di Vendola e Di Pietro. Non deve rallegrare il declino del Partito democratico. Per chi, come chi scrive, è scettico sulle possibilità del cosiddetto «terzo polo» (spesso, quando si va alla verifica, i terzi poli risultano avere più leader che elettori), quel declino, insieme alla crisi del centrodestra, preannuncia lo sfarinamento del sistema politico vigente anziché la sua imminente ricomposizione su nuove basi. Le crisi di sistema sono lunghe, complesse e imprevedibili. Quando alla fine si affermeranno nuovi equilibri, difficilmente ne sarà protagonista il Partito democratico con la sua fisionomia di oggi. Angelo Panebianco 16 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_16/panebianco-partito-delle-delusioni_5e948abc-f148-11df-8c4b-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Diciamo la verità sulla crisi Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 11:51:18 am RAZIONALITÀ POLITICA ED ECONOMICA
L'editoriale Diciamo la verità sulla crisi Se si leggono in controluce le tante analisi che gli economisti dedicano alla bufera che, dalla crisi greca a quella irlandese (ma Portogallo e Spagna sono già nel mirino), ha investito l'Europa monetaria, non è difficile scoprire quale sia oggi il vero nemico dell'euro, quello che ne minaccia la sopravvivenza: questo nemico è rappresentato dalla perdurante vitalità della democrazia. Intendendo per tale l'unica democrazia che c'è, quella che, nonostante l'Europa, non si estende, continua a non estendersi, al di fuori dei confini nazionali. Sono le democrazie europee, necessariamente condizionate dagli orientamenti dei loro elettorati, a minacciare oggi la moneta unica. Quando si dice che fu la rigidità della cancelliera Angela Merkel, motivata dalla resistenza dell'elettorato tedesco a pagare per il malgoverno altrui, a fare precipitare la crisi greca e a trasformarla nel detonatore di una più vasta crisi dell'euro, si sta appunto dicendo che la democrazia entrò allora in rotta di collisione con le esigenze dell'Europa monetaria. Ed è ancora ai meccanismi democratici che si fa riferimento quando ci si interroga sull'eventualità che in Irlanda venga a mancare una maggioranza politica in grado di sostenere le misure di risanamento con effetti a catena sulla zona euro. O quando si attende col fiato sospeso una possibile sentenza della Corte costituzionale tedesca che dichiarando illegali i salvataggi dei Paesi in difficoltà tolga ogni residua difesa alla moneta unica. Quando si dice che l'Europa è la nostra «casa comune» si dice una cosa vera ma incompleta. Bisognerebbe infatti precisare che questa casa comune è in realtà un condominio con ventisette appartamenti. I condomini, pur essendo obbligati a convivere, considerano davvero «casa» solo il loro appartamento mentre il condominio ha valore ai loro occhi unicamente per i servizi che riesce a garantire a ciascun condomino. Come in tutti i condomini, hanno più onori e oneri i proprietari di appartamento che dispongono di più millesimi. E, come in tanti condomini, si litiga, si cerca di scaricare il più possibile sugli altri i costi dei servizi comuni. Come spesso accade, inoltre, i condomini più sciatti, meno virtuosi (quelli che danneggiano il giardino o dimenticano aperti i rubinetti dell'acqua provocando danni negli appartamenti vicini) cercano di scaricare, in tutto o in parte, i costi della loro sciatteria sui condomini virtuosi. L'immagine del condominio ci aiuta a mettere a fuoco un fatto che, parlando d'Europa, non bisognerebbe mai dimenticare, ossia la circostanza per cui i francesi, i tedeschi, e tutti gli altri (persino noi italiani), a oltre mezzo secolo dall'inizio del processo di integrazione europea, continuano a considerare la loro appartenenza nazionale molto più importante della loro comune appartenenza europea. Il «noi» Stato - nazionale (Francia, Germania, Spagna, eccetera) resta assai più sentito del «noi» Europa. E anche dove, come in Italia, le lacerazioni interne sono profonde (e lo stesso Stato unitario viene sempre più spesso messo in discussione) ciò non comporta affatto la sostituzione dell'identità nazionale con una identità europea. Per questo, le democrazie nazionali restano forti e vitali e il loro orizzonte non è al momento superabile. Va precisato, per coloro che tendono a confondere giudizi di fatto e giudizi di valore, che qui si sta constatando un fatto senza fare apprezzamenti. Dal momento che è una scelta saggia guardare ai fatti per come sono, anche quando non ci piacciono, piuttosto che girare la testa dall'altra parte. Possiamo spiegare la suddetta circostanza in vari modi. Possiamo vedervi il frutto di una eredità storica che continua a indirizzare le lealtà dei cittadini verso simboli nazionali. Oppure, possiamo spiegarla in termini di calcoli e convenienze: si preferiscono centri decisionali nazionali perché danno ai cittadini l'illusione di essere da loro più controllabili, e quindi più attenti ai loro interessi, rispetto a un lontano centro decisionale europeo. Comunque sia, resta che, stante la vitalità della democrazia nazionale, i leader devono continuare a rispondere ai loro elettori e che meccanismi democratici di centralizzazione delle decisioni e di legittimazione del potere a livello europeo non possono facilmente sostituirsi a quelli nazionali. È anche la ragione per la quale la Germania, frustrando l'aspettativa di tanti, non riesce ad essere il leader dell'Europa: un leader è tale se sa farsi carico delle esigenze degli altri, ma i governi tedeschi, come tutti i governi democratici, sono obbligati a mettere al primo posto le esigenze dei loro elettori. Quando nacque l'euro tutti pensarono che esso non avrebbe retto nel lungo periodo senza un salto di qualità sul piano dell'integrazione politica. L'euforia di quei giorni spinse però molti a scommettere che sarebbe stata proprio la moneta unica, in virtù dei benefici che era in grado di dispensare, a fare prima o poi il miracolo, a obbligare gli europei a crearle un contraltare, o un contenitore, politico. Fu un calcolo sbagliato. Se le cose stanno così, per salvare l'euro, dovremo inventarci cose diverse da quelle che di solito vengono proposte. È inutile continuare a inseguire il miraggio degli Stati Uniti d'Europa, di una democrazia continentale che oggi (per il futuro si vedrà) gli europei non vogliono e non chiedono. Meglio, senza ipocrisie, fare appello alle convenienze: conviene a tutti, anche agli elettori tedeschi, che l'euro non affondi. E sperare che, passata in un modo o nell'altro la nottata, si ricostituisca la compatibilità, oggi perduta, fra la razionalità politica (democratica) e la razionalità economica. Angelo Panebianco 28 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_novembre_28/panebianco_75bbd4e4-fac5-11df-abbf-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una proposta a Berlusconi Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 11:59:25 am SCENARI PER IL 14 DICEMBRE
Una proposta a Berlusconi Sull'Italia incombono in questo momento due crisi, una già in atto, politica, e una alle porte, istituzionale. La crisi politica, e lo spettro della crisi istituzionale, a loro volta, rischiano di innescare, a brevissimo termine, una terza crisi, di natura finanziaria. La crisi politica è legata al venir meno della maggioranza parlamentare senza che esista una credibile alternativa. La crisi istituzionale nasce dal fatto che la leadership di Silvio Berlusconi intorno alla quale, e contro la quale, si è fin qui organizzato l'intero sistema degli equilibri politici, non ha cambiato in quindici anni l'inadeguata architettura costituzionale della Repubblica: un assetto, ricordiamo, che si è tentato di riformare inutilmente per un trentennio, fin dai tempi in cui Bettino Craxi lanciò il progetto, poi fallito, della Grande Riforma. La leadership di Berlusconi, con la formidabile concentrazione di potere personale sempre contrastata, però, da fortissimi contropoteri, quello giudiziario in primo luogo che l'ha caratterizzata, ha fino ad oggi nascosto agli occhi dei più, sia fra i sostenitori che fra i suoi nemici, il problema istituzionale sottostante. Riassumibile in questi termini: non solo non esistono più i grandi partiti di massa che facevano da collante del sistema politico ma non esiste nemmeno alcun antidoto istituzionale che possa frenare, una volta uscito di scena Berlusconi, una frammentazione e una diffusione del potere incontrollate; un antidoto che possa impedire la formazione di governi di destra o di sinistra diversi, per coesione e capacità d'azione, dall'ultimo governo Prodi. In altri Paesi, dove le istituzioni favoriscono la formazione di governi stabili a prescindere dalle persone, l'uscita di scena di un leader non crea sconvolgimenti. E non è vero che la fine di un ciclo che ha visto al comando un leader forte sia sempre sanzionata da una sconfitta elettorale. Tanto Charles de Gaulle in Francia che Margaret Thatcher in Gran Bretagna lasciarono il potere senza sconfitta elettorale de Gaulle perse un referendum, non le elezioni quando venne meno il consenso di cui godevano, soprattutto presso le classi dirigenti. In Italia, per l'assenza di istituzioni in grado di garantire il passaggio delle consegne da un leader e da un governo forti a un altro governo altrettanto forte, le cose stanno diversamente. È questa condizione che fa della crisi politica in atto il detonatore probabile di una crisi istituzionale. E poiché i mercati finanziari ci vedono e ci sentono benissimo, questa doppia crisi ci mette nelle condizioni di essere tra le prossime vittime del terremoto che ha investito l'eurozona. Con una differenza rispetto agli altri Paesi già terremotati Grecia, Irlanda o sul punto di esserlo, una differenza che va a merito dell'azione svolta in questi anni dal governo in carica. Se finiremo nella morsa della crisi finanziaria non sarà perché il governo in carica ha mal governato l'economia. Sarà perché la crisi politico-istituzionale avrà aperto un varco che renderà possibile l'aggressione a un Paese oberato da un grande debito pubblico, da una fragilità economico-finanziaria che viene da lontano. Insomma, piove sul bagnato, la crisi politica non poteva presentarsi in una situazione internazionale peggiore. Berlusconi è chiuso nel bunker in attesa del fatidico 14 dicembre. Non ha un partito che possa imporgli di vedere ciò che non vuole vedere: ossia che, qualunque cosa accada il 14 dicembre, che egli non ottenga la fiducia o che la ottenga, sarà comunque in grossissimi guai. E il Paese con lui. Anche perché, dal punto di vista degli interessi del Paese, la data che più conta non è il 14 ma il 16 dicembre, quando si riunirà il Consiglio europeo per tentare di frenare lo smottamento in corso nell'Europa monetaria, per arginare il contagio. Se arriveremo all'appuntamento con un governo dimissionario o con un governo azzoppato, in sella solo per un paio di voti fortunosamente acchiappati, ci troveremo con la gola scoperta, pronta per essere azzannata, non potendo prendere impegni credibili che spengano la sete di sangue dei mercati. Il dilemma di Berlusconi, a meno che egli non abbia il coraggio di sparigliare le carte, è semplice: se verrà battuto otterrà forse le elezioni ma con forti probabilità di non riuscire a vincerle, per lo meno al Senato, stante la legge elettorale in vigore. In caso di elezioni, è più facile scommettere sull'ingovernabilità che sulla formazione di una maggioranza coerente. Se invece il 14 dicembre Berlusconi otterrà la fiducia, si tratterà di una vittoria illusoria. Non potrà guidare un governo stabile ed efficiente se lo scarto a suo favore risulterà di pochi voti. Con il 51 per cento non si governa, diceva Enrico Berlinguer. È ancora così (in Parlamento almeno) ed è una delle nostre maggiori patologie. Anche in caso di fiducia, Berlusconi non risolverebbe dunque il problema del governo. E allora che fare? È comprensibilissimo che Berlusconi voglia salvare una esperienza di governo che ha avuto, oltre ad aspetti negativi, anche diversi aspetti positivi. E che voglia anche difendere, in un Paese abituato ad adulare i vincitori e a calpestare i vinti, una esperienza politica personale che dura dal 1994. Ma se vuole tutto questo deve per forza uscire dal bunker. Deve avere il coraggio di offrire ai «terzopolisti», in nome dell'emergenza nazionale, un Berlusconi bis incardinato su poche e chiare proposte: oltre a mantenere l'impegno sul federalismo, deve assicurare interventi sull'economia (concordati sia con Tremonti che con Fini) che rassicurino i mercati e aprano vere prospettive di sviluppo. Deve offrire, inoltre, una disponibilità alla riforma elettorale: con l'unico vincolo che, a differenza di quelle fin qui ventilate, sia una riforma che salvaguardi il bipolarismo (cosa che Fini ha più volte detto di volere). E deve accantonare il tema della giustizia: non perché di una riforma della giustizia non ci sia bisogno (chi scrive pensa che sarebbe necessaria, eccome) ma perché è un fatto che Fini non la vuole e altri conflitti su quell'argomento, mentre il Paese rischia di incappare in una crisi finanziaria, risulterebbero incomprensibili agli italiani. Se poi la proposta verrà rifiutata, allora Berlusconi avrà almeno la possibilità di lasciare il terzo polo con il cerino acceso in mano, ad assumersi la responsabilità di una crisi al buio in un frangente così difficile. Quella qui immaginata ci sembra l'unica possibile scelta saggia per Berlusconi, l'unica che potrebbe forse fare uscire il Paese dal cul de sac in cui si trova. Bisognerebbe però che Berlusconi trovasse in sé quelle risorse di saggezza e di coraggio che i leader raramente trovano nella fase declinante del loro ciclo politico. Angelo Panebianco 05 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_05/una-proposta-a-Berlusconi-angelo-panebianco_51571bdc-0046-11e0-861f-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le elezioni che verranno Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2010, 02:31:36 pm I LEADER E LE REGOLE DEL VOTO
Le elezioni che verranno Lo sbocco politico dell'attuale situazione sembra inevitabile: elezioni a primavera, con il rischio che ci consegnino un Parlamento ingovernabile, senza una maggioranza stabile. Ma se gli attori che contano riuscissero a mettere da parte i tatticismi e a ragionare in termini strategici, ecco che potrebbe aprirsi una fase interessante, utile per il Paese. Dopo il «ritiro» per k.o. tecnico sul voto di fiducia di Gianfranco Fini, sono solo tre i lottatori rimasti in gara: Berlusconi, Bossi e Casini. Le loro scelte decideranno il futuro. Bossi vuole le elezioni? Sembra di sì, lo ha ripetuto ieri. Sa che avrebbe un forte successo elettorale ma, essendo un politico lungimirante, sa anche che correrebbe dei rischi. Se i consensi per il suo alleato Berlusconi franassero al Sud e si formasse una nuova maggioranza imperniata sui centristi e sulla sinistra, Bossi si troverebbe escluso dal governo, forse per un periodo lungo. La sua promessa di federalismo diventerebbe via via meno credibile agli occhi degli elettori leghisti. Se così è, la partita che più conta è quella fra Berlusconi e Casini. Casini ha un grosso problema: deve decidere cosa fare da grande, quando Berlusconi uscirà di scena. Essendo poco plausibile che voglia diventare il nuovo Prodi del centrosinistra, deve scegliere: vuole essere in permanenza il leader di una piccola formazione centrista che contratta di volta in volta con la destra e con la sinistra o vuole entrare in una gara per la leadership di un centrodestra alternativo alla sinistra? Vecchi riflessi democristiani lo spingono verso la prima opzione, la sua storia personale dovrebbe rendergli più attraente la seconda. Ma il presupposto di una gara per la leadership del centrodestra è che il centrodestra continui a esistere, che non si disgreghi. Anche Berlusconi ha un grosso problema. Non vuole solo vincere le prossime elezioni e al Senato, con questa legge elettorale, difficilmente potrà vincerle. Deve anche mettere in sicurezza il Popolo della Libertà, assicurarsi che la sua eredità politica non si disperda al vento quando l'età gli imporrà di ritirarsi. La soluzione, se c'è, passa per un cambiamento della legge elettorale sul quale possano incontrarsi, con diverse motivazioni, Berlusconi e Casini. Spetta a Berlusconi la prima mossa. Lui dovrebbe aprire le trattative. Ponendo però una condizione: che il bipolarismo venga preservato solo così potrà sopravvivere il centrodestra. Ciò significa chiedere a Casini, non di rinunciare al suo progetto neo-centrista, ma di ricalibrarlo, adattandolo a una condizione di perdurante bipolarismo. Casini potrebbe anche trarre ispirazione dalle sagge parole pronunciate recentemente su questi argomenti dal cardinale Camillo Ruini. Le proposte fino ad oggi formulate dagli avversari della legge elettorale vigente andavano tutte nel senso della archiviazione dell'esperienza bipolare/maggioritaria dell'ultimo quindicennio. Quella archiviazione è l'obiettivo dei proponenti del cosiddetto «sistema tedesco». Ma è anche lo scopo di proposte apparentemente più modeste. Ad esempio, chiedere di conservare la legge attuale ma con un premio di maggioranza che si ottiene solo superando una certa percentuale di voti il 40 o il 45 per cento significa voler far rivivere al Paese l'esperienza del 1953 quando non scattò quel premio di maggioranza, voluto da Alcide De Gasperi, che la propaganda antidemocristiana dell'epoca definiva «legge truffa». Significa voler dare vita a un sistema proporzionale da Prima Repubblica, mandare in cavalleria il bipolarismo, scompaginare centrodestra e centrosinistra. Significa puntare a un grande raggruppamento parlamentare «di centro» inamovibile, arbitro e protagonista - quale che sia, di volta in volta, il voto espresso dagli italiani - di qualunque possibile combinazione di governo. Non è un progetto lucido. Non può infatti offrire garanzie di stabilità al Paese. Essendo ormai svaniti i partiti di massa, radicati nella società, che facevano da collante alla Prima Repubblica, il progetto neocentrista ci consegnerebbe un Parlamento allo sbando, un ritorno alle pratiche trasformiste del parlamentarismo ottocentesco, una maionese impazzita. Casini è troppo accorto per non rendersene conto. Per questo, potrebbe riconsiderare le sue idee in materia elettorale se Berlusconi facesse una buona proposta. Berlusconi, dando retta ai fautori da sempre di questa soluzione come Marco Pannella e Mario Segni, dovrebbe farsi promotore del ritorno ai collegi uninominali e di una riforma compiutamente maggioritaria. Non dovrebbe farsi bloccare dalla vecchia idea secondo cui i collegi uninominali sarebbero poco adatti al centrodestra dal momento che esso dispone di un personale politico meno esperto, meno spendibile nei collegi uninominali, di quello di cui dispone la sinistra. Sia perché, rispetto agli anni Novanta, il personale della destra è diventato più esperto sia perché, su questo stesso piano, la sinistra è assai meno forte di un tempo. Con i collegi uninominali, destra e sinistra se la giocherebbero alla pari. In astratto, le scelte possibili sono tre. La prima è il maggioritario a un turno (il sistema britannico). Ma quel sistema piace solo a chi scrive e a pochi altri. Non è una opzione praticabile. Restano allora due possibilità: un maggioritario a doppio turno di tipo francese (con una soglia di esclusione alta fra primo e secondo turno) oppure quella variante del sistema elettorale australiano di cui chi scrive ha già dato conto ai lettori del Corriere il 12 ottobre scorso. È, quest'ultima, una proposta suggerita da un gruppo di lavoro coordinato da Pietro Ichino (Pd) e a cui Stefano Ceccanti (anche lui del Pd) ha dato recentemente forma in un progetto di legge presentato al Senato: un maggioritario a turno unico ma con la facoltà per l'elettore di esprimere due voti anziché uno soltanto (una prima e una seconda scelta). Evitando i tecnicismi e detto in modo un po' approssimativo: in ciascun collegio vince il seggio il candidato che ottiene la maggioranza assoluta sommando prime e seconde scelte. Con l'uno o l'altro sistema verrebbe preservato il bipolarismo ma le seconde e terze forze avrebbero buone chance di affermazione. Berlusconi disporrebbe di uno strumento più adatto della legge elettorale attuale per affrontare le prossime elezioni e metterebbe in salvo la sua eredità politica. Casini, a sua volta, potrebbe aspirare, per questa via, a svolgere in futuro un ruolo simile a quello che ebbe in Francia Giscard d'Estaing anziché ritrovarsi nella condizione dell'involontario genitore di un neotrasformismo parlamentare ormai fuori tempo massimo. Angelo Panebianco 19 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_19/panebianco_le-elezioni-che-verranno_e448412e-0b49-11e0-bf9a-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La nostalgia dei conservatori di sinistra Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2010, 10:43:11 am L'EDITORIALE
La nostalgia dei conservatori di sinistra C'è qualcosa che accomuna l'opposizione della Fiom all'accordo Fiat-sindacati su Mirafiori e quella del Partito democratico alla riforma Gelmini dell'università, appena varata dalla maggioranza di governo. Sono le due più recenti manifestazioni di quella strenua difesa dello statu quo in qualunque ambito della vita sociale, politica, istituzionale, che è ormai da tempo la più evidente caratteristica della sinistra italiana, nella sua espressione sindacale come in quella politico-parlamentare. Si tratti di scuola, di rapporti di lavoro, di magistratura, di revisioni costituzionali o quant'altro, non c'è un settore importante della vita associata in cui il conservatorismo della sinistra non si manifesti con forza. Forse ciò aiuta a spiegare una circostanza che sarebbe altrimenti incomprensibile: il fatto che l'opposizione di sinistra non si sia minimamente avvantaggiata in questi anni, stando ai sondaggi, delle gravi difficoltà di un governo che ha dovuto fronteggiare le conseguenze della crisi mondiale e che è stato inoltre investito da scandali e furibonde divisioni. Tanto è vero che tutti continuano a prevedere, in caso di elezioni, una vittoria (quanto meno alla Camera) del centrodestra. La domanda che la sinistra italiana dovrebbe porsi è la seguente: perché nemmeno la forte disillusione di tanti italiani nei confronti di Berlusconi, il fatto che ormai più nessuno creda nella «rivoluzione liberale» sempre promessa e mai attuata spostano a sinistra l'asse politico del Paese? Può essere che la risposta giusta sia la seguente: dovendo scegliere fra ciò che ritiene un male (Berlusconi) e ciò che ritiene un male ancora maggiore (la sinistra), il grosso degli italiani continua a optare per la minimizzazione del danno, per il male minore. Una delle ragioni, forse, è che, tolta una cospicua ma minoritaria area di conservatori a oltranza, la maggioranza relativa degli italiani pensa che stare fermi condannerebbe il Paese alla decadenza economica e sociale e che risposte magari insufficienti, o anche sbagliate, ai problemi collettivi, siano comunque preferibili alle non risposte. Ci sono due modi per fare opposizione a un governo. Il primo consiste nel contrapporre ai progetti governativi di modifica più o meno profonda dell'esistente, proposte diverse, che ovviamente si giudicano migliori, di modifica altrettanto o anche più profonda. Il secondo consiste nel difendere l'esistente. Quest'ultima è stata la scelta della sinistra in quasi tutti i campi di interesse collettivo. Ne è derivata una paurosa mancanza di idee nuove sul che fare, una mancanza di idee che ha fatto subito appassire la rosa appena sbocciata del Partito democratico. Non è facile ricostruire le cause del conservatorismo della sinistra. Forse, una delle più importanti, è l'evidente nostalgia per la cosiddetta Prima Repubblica, che poi altro non è se non nostalgia per i tempi in cui la sinistra era rappresentata da un grande partito il Pci, rispettato e temuto da tutti, capace, pur dalla opposizione, di influenzare potentemente la vita pubblica e i costumi collettivi. Non avendo mai fatto davvero i conti con la storia comunista, la sinistra italiana, o ciò che ne resta, non ha saputo nemmeno fare i conti con tutto ciò che non andava nella Prima Repubblica. Ha finito per idealizzarla. Solo così si spiega il fatto che la sua opposizione alla destra sia sempre stata improntata al seguente ritornello: sono arrivati i barbari, i quali stanno distruggendo tutto ciò che di buono avevamo. Ma davvero era così buono ciò che avevamo? No, non lo era. Quasi tutti i problemi che ci attanagliano oggi (ne cito tre: debito pubblico, cattiva qualità dell'istruzione, cattivo funzionamento della giustizia) sono il frutto di pessime scelte della troppo mitizzata classe politica della Prima Repubblica, almeno dagli anni Settanta in poi. Il punto è che quella mal riposta nostalgia ha finito per alimentare una ideologia conservatrice, che si traduce nella pura e semplice difesa dalle minacce portate dai barbari di ciò che la Prima Repubblica ci ha lasciato in eredità. C'è poi, certamente, a spiegazione del conservatorismo, una ragione più generale. Fronteggiare i nuovi problemi, dall'invecchiamento della popolazione alla immigrazione, alla accresciuta competizione internazionale, significa dare risposte creative che rimettano in discussione molte soluzioni del XX secolo che si ritenevano a torto definitivamente acquisite. Non essendo in grado di trovare risposte creative, la sinistra si è ridotta a giocare solo sulla difensiva. C'è chi pensa che il conservatorismo della sinistra venga da lontano, sia una eredità di quella incapacità di fare i conti con la modernità che caratterizzava il vecchio Partito comunista: fu proprio in polemica col Pci, oltre che con la Dc, che i socialisti craxiani si appellarono allora a una idea di modernità che avrebbe dovuto far circolare in Italia aria nuova. Ma è vero che ci sono stati anche momenti (diverse importanti decisioni del primo governo Prodi ne sono un esempio) in cui la sinistra ha saputo, sia pure con fatica, uscire dal recinto della conservazione sociale. E, comunque, non ha mai potuto perseguire la vocazione conservatrice, sua o del suo elettorato, senza pagare il prezzo di aspri conflitti interni. Ciò forse spiega anche la sua nota schizofrenia: finché si tratta di gestire, assieme alla maggioranza, nel chiuso delle commissioni parlamentari, certi provvedimenti, la sinistra può anche esibire fervore riformista. È costretta però a metterlo da parte (il caso della riforma Gelmini è esemplare) non appena deve fare i conti con le sollecitazioni della parte più chiusa e conservatrice del suo elettorato. Forse il discorso di Walter Veltroni al Lingotto, con il quale si inaugurò la segreteria del neonato Partito democratico, è stato l'ultimo tentativo (poi fallito come a suo tempo fallì il tentativo craxiano) di disegnare i contorni di una sinistra non conservatrice. Dopo di che, il nulla. In altri Paesi, sinistre messe alle corde sono state capaci di reagire e di rinnovarsi, di inventarsi idee nuove e proposte. La sinistra italiana ne sembra incapace. Continua a denunciare i barbari per evitare di parlare a se stessa e al Paese di progetti per il futuro. Angelo Panebianco 29 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_29/la-nostalgia-dei-conservatori-di-sinistra-angelo-panebianco_e5574c82-1318-11e0-8894-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Luoghi comuni tra Nord e Sud Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2011, 05:27:21 pm Il commento
Luoghi comuni tra Nord e Sud Umberto Bossi ha indicato date precise: fra il 17 e il 23 gennaio deve passare il «federalismo», ossia il decreto attuativo più importante, sul fisco municipale. Altrimenti, non resterà che il voto. La scissione dei finiani non è stata in grado di abbattere il governo ma lo ha reso debolissimo nelle Commissioni parlamentari della Camera. Non è facile che il provvedimento passi. Soprattutto, non è facile che passi senza stravolgimenti e senza dilatazione delle spese. Dalle notizie che circolano, sembra inoltre che non ci sia al momento la disponibilità del ministro Giulio Tremonti ad accettare le condizioni (quoziente familiare, cedolare secca sugli affitti) poste dall'Udc di Pier Ferdinando Casini per votare a favore. I giochi sono aperti e tutto da qui alla fine di gennaio può accadere. Per dare un giudizio fondato su che cosa sarà davvero (se sarà) il federalismo in Italia bisognerà aspettare di vedere quale provvedimento, con quali caratteristiche, verrà alla fine varato. Gli esperti sono al momento divisi, danno giudizi discordanti. C'è chi parla di tradimento delle intenzioni federaliste originarie, chi pensa che tutto si risolverà in una partita di giro, un passaggio di mano fra centro e periferia dell'esazione dei tributi, congegnato in modo da non favorire la responsabilizzazione fiscale degli enti locali, e chi invece sostiene che, per l'essenziale, ciò che si sta per varare sia autentico federalismo fiscale. Se guardiamo alle condizioni politiche generali dobbiamo osservare come esse non siano affatto favorevoli alla complessa trasformazione denominata «federalismo fiscale». Il rischio più forte è che ne esca ulteriormente esasperata la divisione fra Nord e Sud. Si considerino i fatti: o il federalismo fiscale sarà una cosa seria, e allora comporterà tagli drastici alle capacità di spesa di molti comuni del Sud (oltre che di qualche comune del Nord), o questo non avverrà e sarà allora una farsa, una partita di giro appunto. Ma se tagli drastici alle capacità di spesa degli enti locali del Sud ci saranno, come sarà possibile conservare il consenso politico necessario nel lungo arco di tempo richiesto per portare il federalismo a regime? Se sarà solo una partita di giro, le regioni produttive del Nord si sentiranno prese in giro e si accentuerà il loro distacco politico-psicologico dal Sud. Se sarà una cosa seria, provocherà probabilmente la rivolta politica di ampia parte del Sud. Il federalismo richiederebbe una collaborazione senza remore fra le varie aree del Paese, una disponibilità a rimettersi in gioco dove è maggiore il ristagno economico e il fardello di politiche sbagliate unita alla assenza di atteggiamenti inutilmente punitivi da parte delle regioni più produttive e ricche. Collaborazione e disponibilità che non ci sono state. I segnali, anzi, sono di segno opposto. Sono di questi giorni le notizie sulle massicce assunzioni di precari da parte della giunta Lombardo in Sicilia. Nel rigoroso rispetto della tradizione. Ancora qualche anno fa si poteva immaginare il coinvolgimento del Sud in un percorso virtuoso di risanamento, la sua disponibilità a uno scambio fra meno risorse oggi e più sviluppo domani. Adesso che sono sorte varie Leghe Sud, quella ipotesi è meno credibile. Comunque vada l'iter parlamentare, si può scommettere che le prossime elezioni si giocheranno già tanti scaldano i muscoli a destra e a sinistra sul pericoloso crinale che contrappone Nord e Sud. Angelo Panebianco 06 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_06/luoghi-comuni-tra-nord-e-sud--angelo-panebianco_b30f9e12-195a-11e0-b4e1-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. I Nemici della Crescita Inserito da: Admin - Gennaio 27, 2011, 05:17:36 pm LA FORZA DI CHI NON COMPETE
I Nemici della Crescita Due giorni fa il presidente Giorgio Napolitano ha esortato la politica ad assumere come obiettivo prioritario l'impegno a sostenere la crescita economica. Ma la politica è al momento troppo distratta da altre cose per dare a quell'appello l'importanza che merita. Inoltre, in una società abituata da troppo tempo a livelli di crescita più bassi dei propri dirimpettai e concorrenti si fatica a comprendere che assenza di sviluppo o sviluppo stentato configurano una vera e propria emergenza nazionale, finiscono alla lunga per avere conseguenze disastrose per qualsiasi società. Non importa quanto quella società sia ricca. Senza crescita, una società consuma più ricchezza di quanta ne produca e finisce su un piano inclinato al termine del quale ci può essere solo un impoverimento complessivo con gravi effetti sociali e gravi contraccolpi politici. Per rilanciare lo sviluppo devono essere soddisfatte due esigenze: la prima riguarda il mondo delle imprese e il comportamento degli attori che operano in quel mondo, imprenditori e sindacati. La seconda riguarda le pratiche e i comportamenti di tutti gli altri attori sociali, politici e istituzionali. La prima esigenza è che i comportamenti dei soggetti dell'impresa siano coerenti con le condizioni in cui si svolge la concorrenza di mercato. L'azione dell'amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne, i referendum a Pomigliano e a Mirafiori, e la spaccatura fra la Fiom e gli altri sindacati hanno innescato una reazione a catena che sta investendo le relazioni industriali nel loro complesso, i soggetti che le animano, nonché, in prospettiva, i rapporti fra quei soggetti e la politica. Le nuove condizioni della competizione nel mercato globale - la cosiddetta, e malamente detta, globalizzazione - fanno saltare le vecchie pratiche «neo-corporative» (le varie forme di concertazione centralizzata a livello nazionale) e inevitabilmente cambiano anche la natura dei soggetti organizzati in campo, dalla Confindustria ai sindacati. Questi ultimi si dividono, forse definitivamente, fra quelli che accettano la sfida della competizione globale (e che puntano ad avere più salario in cambio di più produttività) e quelli che non la accettano e per questo rilanciano l'antica contrapposizione frontale fra capitale e lavoro. Dal punto di vista dell'interesse collettivo la ristrutturazione in atto sembra andare nella direzione giusta: attrezzando le imprese per la competizione globale essa spinge sul pedale della crescita. Però, che il mondo delle imprese si dia da fare per competere sui mercati globali è solo una condizione necessaria per rimettere in moto lo sviluppo. Non è affatto una condizione sufficiente. Occorre anche che gli altri attori societari, quelli non direttamente esposti alla competizione, adeguino i loro comportamenti. Ciò è molto più difficile perché questi attori, a differenza delle imprese, hanno un rapporto mediato, e non diretto, con il mercato e le sue dure regole competitive. Soffrono anch'essi della mancanza di crescita ma non operano in prima linea: lavorano nelle retrovie, non hanno una visione diretta e immediata di ciò che accade al fronte. Protestano quando si accorgono che non ci sono più soldi per investimenti nei servizi o si oppongono ai tagli ma, in genere, non mettono in relazione la mancanza di risorse con il mancato o debole sviluppo. Le ragioni per cui un Paese smette di crescere possono essere tante ma una delle migliori spiegazioni fa leva sul ruolo dei vested interests, degli interessi costituiti che danno vita a forti «coalizioni distributive», tese, cioè, a distribuire la ricchezza esistente anziché ad allargare la torta della ricchezza. Secondo questa interpretazione un Paese smette di crescere o ha una crescita troppo bassa quando le coalizioni distributive presenti sono più forti delle coalizioni produttive, di coloro che hanno interesse allo sviluppo. Per Mancur Olson, l'economista che propose questa interpretazione, così si spiega il fatto che negli anni Cinquanta il Giappone, l'Italia e la Germania abbiano sperimentato un boom economico mentre, nello stesso periodo, la Gran Bretagna arrancava penosamente. In quei tre Paesi la guerra non si era limitata a distruggere le infrastrutture materiali. Ne aveva anche distrutto le infrastrutture sociali, spazzando via le preesistenti coalizioni distributive. In Gran Bretagna ciò non era accaduto. Da qui la differenza. Colpire rendite e mercati protetti è difficilissimo perché significa indebolire coalizioni distributive che nel nostro Paese sono diventate col tempo assai potenti. La loro forza era la principale causa della debole crescita economica anche prima che scoppiasse la crisi mondiale. Finita la crisi, se non si agirà per ridimensionarle, la condizione di bassa crescita persisterà. Se l'obiettivo prioritario deve essere lo sviluppo economico, allora ogni intervento di riforma va finalizzato allo scopo. Prendiamo il caso del federalismo. Se ben congegnato, in teoria, può responsabilizzare i territori nell'uso del denaro pubblico, ridurre lo spazio per il consumo parassitario di risorse. Se fosse mal congegnato darebbe ragione a chi (Dario Di Vico, sul Corriere di ieri; Mario Deaglio sulla Stampa del 24 gennaio) teme effetti esattamente contrari: innalzamento della pressione fiscale, nuove opportunità di sfruttamento della ricchezza prodotta da parte di ceti parassitari locali: un rafforzamento, anziché un indebolimento, delle già forti coalizioni distributive. Sarà in grado la classe politica di fare una riforma federalista credibile da questo punto di vista? Se non serve allo scopo, allora è davvero meglio lasciar perdere. Angelo Panebianco 27 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_27/panebianco-nemici-della-casta_1e853924-29da-11e0-88f8-00144f02aabc.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'Occidente si illude di contare Inserito da: Admin - Febbraio 03, 2011, 06:39:28 pm L'Occidente si illude di contare Barack Obama sarà ricordato come un nuovo Jimmy Carter, il presidente che «perse» l’Iran, che subì la rivoluzione khomeinista del 1979? Forse, ma l’ironia sta nel fatto che se questo sarà il suo destino, non sarà lui a forgiarlo, non dipenderà da lui. Dipenderà da come evolverà la situazione in Egitto e negli altri Paesi mediorientali in ebollizione. Nonostante tanti commenti che in Occidente sostengono il contrario, è davvero poco ciò che l’America, per non parlare dell’Europa, può fare in questo frangente. Il destino dell’Egitto è in larghissima misura alla mercé delle scelte che prenderanno, in risposta ai moti popolari, gli attori egiziani che contano. Più che «auspicare » e «suggerire» (e tenere incrociate le dita) gli occidentali non possono fare. Per aver chiara quale sia la reale capacità di incidenza dell’America basti pensare al Pakistan: sia sotto Bush che sotto Obama l’America lo ha ricoperto di dollari senza però mai ottenere che esercito e servizi segreti pachistani smettessero di appoggiare i talebani. È un aspetto della sopravalutazione delle capacità di controllo degli eventi da parte degli occidentali anche la discussione sulla mancata previsione di cosa stava accadendo. Che «prima o poi» le dittature, anche quelle che sembrano più solide, cadano, è inevitabile. Ma nessuno può pronosticare quando prima e quando poi. Molto spesso le dittature hanno una vita lunghissima. Non raramente sopravvivono anche alle crisi di successione. L’unica cosa che, in termini molto generici, si poteva prevedere, e che difatti era stata ampiamente prevista, è che la crisi economica mondiale avrebbe alla lunga destabilizzato, qua e là, diversi regimi dittatoriali. La ragione è semplice: le dittature si garantiscono la stabilità «pagando in contanti» l’acquiescenza, distribuendo a cascata risorse a settori strategici della popolazione (è anche la ragione per la quale in quei regimi lo Stato è massicciamente presente nella economia). La crisi mondiale, riducendo il flusso di risorse, aveva ottime probabilità di gonfiare in diversi luoghi malcontento e opposizione facendo emergere per di più il peso della corruzione.Ma nessuno (nemmeno gli specialisti, gli studiosi dei singoli Paesi) era in grado di dire dove e quando sarebbero esplose proteste così forti da far cadere il regime. La slavina, partita dalla piccola Tunisia, ha investito l’Egitto, ma anche altri Paesi, come Algeria, Giordania, Yemen, sono coinvolti. Poiché l’Egitto è il più importante Stato dell’area, è sull’intero Vicino e Medio Oriente che la sua evoluzione interna inciderà. Il mondo occidentale vive questi eventi in preda a una profonda incertezza. Il Medio Oriente è da sempre il suo nervo scoperto, il suo tallone d’Achille: perché lì c’è Israele, perché lì c’è il petrolio, perché lì ci sono alcuni fra i suoi più inflessibili nemici. Se l’auspicio degli iraniani si realizzasse, se le forze dell’islamismo radicale prevalessero nei principali Stati dell’area (che accadrebbe il giorno in cui quelle forze riuscissero a vincere in Arabia Saudita?) sarebbe per tutti noi un disastro di proporzioni inimmaginabili. Se si può fare poco per condizionare gli eventi, che almeno quel poco non consista di plateali errori. Obama ne ha già fatti quando, in polemica con la politica del suo predecessore, ha demoralizzato gli oppositori democratici del regime di Mubarak e di altre dittature mediorientali, togliendo ai gruppi interessati alla democrazia appoggio morale e finanziario. È evidente che una democratizzazione dell’Egitto e di altri Paesi dell’area è auspicabile. Non solo perché le persone vivono molto meglio nelle democrazie che nelle dittature. Anche perché le democrazie stabili (se e quando riescono a diventare stabili), a meno che non debbano lottare per la sopravvivenza, non esportano, in genere, troppa aggressività. Ma la democratizzazione è un processo difficilissimo. Può finire nel caos. Oppure, attraverso la democratizzazione, possono arrivare al potere forze illiberali (Hamas vinse regolarmente le elezioni a Gaza). In un contesto esplosivo come il Medio Oriente l’avvento di democrazie illiberali non significa pace ma guerra e catastrofi. L’incertezza occidentale ha dunque buone giustificazioni. Tra gli errori che bisognerebbe evitare c’è anche quello di cadere nelle trappole propagandistiche che vengono tese da chi ha interesse a confondere ancor di più il già confuso mondo occidentale. È già cominciata sui mass media una operazione pubblicitaria tesa a «vendere» i Fratelli musulmani come un interlocutore tutto sommato accettabile per noi. In fondo, si dice, a differenza di Al Qaeda, non mettono (più) bombe. Ma il fatto che non mettano più bombe, che abbiano da tempo rinunciato alla violenza, non ne fa affatto un interlocutore. Ideologicamente non sono diversi da Al Qaeda e una loro vittoria finale in Egitto (possibile — esercito permettendo — essendo la Fratellanza l’unica forza politica ramificata e organizzata della società egiziana) configurerebbe precisamente un esito illiberale in grado di spostare in senso antioccidentale l’asse dell’intero Medio Oriente. Se alla fine, sciaguratamente, prenderanno il potere o avranno comunque una forte influenza su di esso, bisognerà per forza cercare di venirci a patti. Ma, almeno, evitiamo di insultare la nostra intelligenza accettando di considerarli una «forza democratica » o giù di lì. Gli esiti della trasformazione in corso incideranno sugli equilibri mondiali. A cominciare dai rapporti fra Stati Uniti ed Europa. Se gli esiti saranno positivi, se, ad esempio, il post Mubarak si risolverà in una transizione controllata verso un assetto stabile e meno opprimente del regime oggi in crisi, tutto bene. Ma se dovessero vincere in Egitto e altrove forze islamiche radicali, è facile scommettere che fra America ed Europa crescerebbero incomprensioni e divisioni. Nonostante l’oscillante Obama, l’America dovrebbe per forza scegliere una linea di contrasto. Per fare quadrato in difesa di Israele e per difendere i propri interessi strategici. L’Europa, che ama poco Israele, e che è debole e spaventata, faticherebbe assai a seguirla. Angelo Panebianco 03 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_febbraio_03 Titolo: Angelo PANEBIANCO. La loro libertà, le nostre paure Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2011, 10:51:19 am L'ONDA DELLA RIVOLTA La loro libertà, le nostre paure Ha osservato giustamente Sergio Romano (Corriere, 13 febbraio) quanto sia paradossale il fatto che gli occidentali, gioendo per la cacciata di Mubarak, si siano trovati ad applaudire un colpo di Stato militare. Ma non è il solo paradosso. C'è anche una particolare circostanza, al tempo stesso ironica e tragica (e anche, in qualche misura, «scandalosa»), che spiega l'atteggiamento ambivalente degli occidentali verso le rivoluzioni mediorientali, e che può essere così riassunta: come possiamo toglierci dalla testa il «cattivo pensiero» secondo cui, nel complicato contesto mediorientale, dittature corrotte e repressive siano state comunque una garanzia di pace, sia pure precaria, e che la (eventuale) democratizzazione di quei regimi, egiziano in testa, possa sfociare nella guerra? Da un lato, come si può non solidarizzare con le persone, per esempio con quei tanti ragazzi, scese coraggiosamente in piazza per chiedere libertà? Abbiamo fatto benissimo a solidarizzare con loro. Se non lo avessimo fatto, avremmo mostrato di non credere nei valori di libertà in cui diciamo di credere. E, inoltre, come indicano anche le notizie degli scontri in corso in Iran, il contagio democratico potrebbe (ma il condizionale è d'obbligo) riaprire i giochi perfino nel più pericoloso Stato teocratico. Dall'altro lato, come è possibile incanalare i processi in corso in modo che i cambiamenti di regime non siano il detonatore di nuove guerre? Tra le cose che sappiamo sulle democrazie c'è il fatto che, una volta che si siano stabilizzate, difficilmente si faranno la guerra fra loro. Non è che siano sempre più pacifiche dei regimi autoritari. Sappiamo solo che raramente le democrazie stabili si aggrediscono. Da qui l'idea, visionaria e utopica, secondo cui in un mondo composto esclusivamente di democrazie stabili, la guerra scomparirebbe. Si badi che questa idea non è rimasta relegata nel chiuso delle discussioni accademiche. Ha ispirato anche l'azione di diversi presidenti americani, da Woodrow Wilson a Ronald Reagan, da Bill Clinton a George Bush jr. Se la democrazia liberale, o qualcosa che vi si avvicini, prevarrà nel mondo islamico, pensavano, ad esempio, i neoconservatori raccolti intorno a Bush, la regione verrà pacificata, non ci saranno più attentati come quello dell'11 settembre, e persino la pace fra Israele, palestinesi e mondo arabo diventerà possibile. Le cose sono però più complicate. Ci sono due precisazioni da fare. La prima è che se le democrazie stabili tendono ad instaurare fra loro rapporti pacifici, la regola non vale per i regimi in transizione verso la democrazia. Anzi, esistono prove del fatto che i regimi in via di democratizzazione possano essere particolarmente aggressivi anche verso i vicini democratici. Fin quando la democrazia non si stabilizzerà, è alto il rischio che le neo-élite uscite dalle prime libere elezioni incanalino verso un nemico esterno le tensioni che sempre accompagnano i cambiamenti di regime. Croazia e Serbia erano Paesi in via di democratizzazione all'epoca delle loro guerre. La seconda precisazione è che i processi di democratizzazione non sfociano necessariamente in democrazie liberali. Spesso generano democrazie illiberali, regimi ibridi che mettono insieme istituti liberali (elezioni più o meno libere) e istituti illiberali (regole emergenziali finalizzate alla repressione degli oppositori). Una democrazia illiberale può essere estremamente aggressiva verso l'esterno, più aggressiva di certi regimi puramente autoritari. Se applichiamo al contesto egiziano queste considerazioni, possiamo constatarne la rilevanza. I militari si sono affrettati a rassicurare il mondo sul mantenimento del trattato di pace con Israele. Ma come possono garantire che questa condizione permarrà anche dopo libere elezioni, dopo l'installazione di un governo democratico in un Paese ove, come in tutte le piazze arabe, l'ostilità per Israele è radicata da decenni nel popolo? Tra l'altro, i trattati di pace, pur formalmente in vigore, possono essere abrogati di fatto: ad esempio, un governo democratico, che dovrà comunque fare i conti con una forte presenza parlamentare dei Fratelli musulmani, continuerà, come la dittatura di Mubarak, a collaborare con Israele nel contrasto alle azioni belliche di Hamas a Gaza? È lecito dubitarne. Si consideri un altro aspetto. La dittatura egiziana ha goduto per decenni dell'appoggio americano ed europeo. Nonostante Obama e gli altri occidentali si siano alla fine sganciati da Mubarak, il ricordo di quell'appoggio non può essere facilmente cancellato dalle menti degli egiziani. I leader che andranno a cercarne il voto in libere elezioni dovranno tenerne conto. È possibile, se non probabile, che la democratizzazione si accompagni, almeno all'inizio, a una forte affermazione di correnti antioccidentali e antiisraeliane. Con conseguenze geo-politiche facili da immaginare. Si deve dunque sperare nella lungimiranza dei militari egiziani? In realtà, bisogna sperare nella gradualità dei processi in corso. Ad esempio, abbiamo ormai scoperto (anche grazie alle vicende afghane e irachene) che le elezioni libere devono essere il coronamento del processo di democratizzazione, il punto di arrivo, non di partenza. Prima, bisogna consolidare le istituzioni in grado di limitare i poteri del governo (corti costituzionali e altri contrappesi) nonché togliere gli infiniti vincoli, legali e burocratici, che gravano sulle libertà personali degli individui. Solo dopo il completamento di questo laborioso percorso, si potrà ragionevolmente sperare che libere elezioni non sfocino in democrazie illiberali, minacciose per i cittadini e per la pace. Hanno ragione coloro che sostengono che la democrazia possa benissimo conciliarsi con la religione musulmana (come provano diversi regimi democratici esistenti nel mondo islamico) e che, anche in quel mondo, la democrazia, se ben consolidata, sia in grado di tenere a bada i fanatici. Ma il percorso che porta alla stabilizzazione delle democrazie, e al godimento dei loro buoni frutti, è lungo, accidentato e costellato di pericoli. La consapevolezza di ciò spiega l'ambivalenza occidentale. Angelo Panebianco 15 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Angelo PANEBIANCO. Gli alleati immaginari Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2011, 10:46:45 am LA DEBOLE IDENTITA' DELLA SINISTRA
Il commento Gli alleati immaginari Nonostante i dinieghi del governo, il mondo politico continua a scommettere sulle elezioni anticipate. In tal caso, quali schieramenti si confronteranno? Sappiamo già quale sarà l'identità del centrodestra: lo guiderà di nuovo Berlusconi in alleanza con Bossi. È più confuso, al momento, il quadro dello schieramento opposto. Una volta scartata l'ipotesi, inverosimile e perdente, della «santa alleanza» di tutti gli antiberlusconiani, restano poche opzioni. Uno schema che circola, anche se smentito da alcuni dei diretti interessati, punta a mettere insieme «terzo polo» e centrosinistra. Nel caso in cui il centrodestra non riuscisse a riconquistare la maggioranza, lo schema prevede Pier Ferdinando Casini premier, alleato al Partito democratico, senza Di Pietro e con il sostegno esterno dei neocomunisti di Nichi Vendola. Proponendo Rosy Bindi come candidato premier e quindi, implicitamente, rinunciando a dar battaglia per le primarie, Vendola sembra avere offerto (tacitamente) la sua disponibilità. Il diavolo fa le pentole eccetera e gli «schemi di gioco», costruiti a tavolino, risultano in genere diversi dal gioco effettivo. Ma, per un momento, prendiamo per buono il suddetto schema. Per funzionare ha bisogno, fra l'altro, che Vendola non ottenga un exploit elettorale. Se questo fosse il caso sarebbe difficile tenerlo fuori dalla porta. Qualche settimana fa, il vicesegretario del Pd Enrico Letta ha dichiarato che, a suo giudizio, il «fenomeno Vendola» si sgonfierà (Corriere, 16 gennaio). Ma è più probabile che Vendola sia destinato a un forte successo nel suo schieramento (nonostante la sua prova non certo brillante come amministratore della Puglia). Concorrono tre ragioni. La prima ha a che fare con la sua personalità. La seconda con le caratteristiche delle culture politiche della sinistra. La terza, infine, con le «circostanze», le condizioni in cui versa il Partito democratico. Possiamo sorridere delle ardite affabulazioni di Vendola ma non possiamo negare che si tratti di un personaggio non banale, dotato di un suo spessore e che ciò ne spieghi le notevoli capacità mediatiche. Vendola parteciperà alla campagna elettorale contando su due carte. Mentre i Democratici parleranno soprattutto di Berlusconi (di come farlo fuori), Vendola parlerà soprattutto di politica. Inoltre, avrà il vantaggio dell'autonomia. Gli altri sono eterodiretti, la loro agenda (le cose da dire e da non dire) è di fatto ispirata prevalentemente da centri di potere esterni alla politica partitica (procure, giornali di riferimento). Vendola, invece, può decidere in autonomia la propria agenda. Capacità mediatiche, autonomia e volontà di parlare di politica potrebbero farlo spiccare come una macchia bianca su sfondo nero entro lo schieramento di sinistra. Tanto più in una campagna elettorale che, è certo, emarginerà quasi ogni tema che non riguardi la condotta privata del premier e sarà trasformata, da destra e da sinistra, in un referendum su «Berlusconi o le procure». Poi ci sono i contenuti del messaggio di Vendola. Ho ascoltato con attenzione alcuni suoi discorsi e sono arrivato alla conclusione che la combinazione «orecchino più Marx», per dire un particolare mix di elementi emozionali e razionali, sia una formula di grande efficacia. Da un lato, la poesia, l'affabulazione post-moderna, i discorsi sull'amore, che possono fare presa sui più giovani e, dall'altro, un anticapitalismo aggressivo ma aggiornato ai tempi, mondato (quasi del tutto) di quegli elementi «vetero» che erano ancora presenti nei ragionamenti del pur bravo Fausto Bertinotti. Parlando di «politica» piuttosto che di «etica» (per lo meno, nel senso triviale che questa parola ha assunto qui da noi), Vendola è in grado di lanciare messaggi ottimistici, di speranza, per il futuro. In questo è simile a Berlusconi. Salvo, naturalmente, il fatto che i loro messaggi ottimistici hanno contenuti opposti. In una cultura politica nella quale non è affatto scomparso il ricordo del comunismo, perché un aggiornato messaggio neo-comunista lanciato da uno che sa usare i media non dovrebbe avere successo? Quando Vendola dice, ad esempio, che la sinistra deve strappare alla destra la parola «libertà» e poi dà a quella parola il significato che le dava Marx, perché questo non dovrebbe piacere a certi elettori di sinistra più delle cupe parole d'ordine del giacobinismo giudiziario? Perché, posti di fronte alla scelta fra il Capitale e il Codice Penale, non dovrebbero scegliere il Capitale? Naturalmente, un successo di Vendola sarebbe escluso se il Partito democratico fosse in buona salute, se ci fosse in campo una credibile piattaforma di sinistra liberal-riformista. Il che non è: come indica anche l'emarginazione di fatto del leader riformista di maggior spessore che il Partito democratico abbia espresso al Nord, Sergio Chiamparino. Il Partito democratico è un progetto abortito e nemmeno i grossi guai di Berlusconi (o qualche punto percentuale in più del solito suggerito dai sondaggi) bastano a cambiare le cose. È abortito quando ha dichiarato il fallimento della vocazione maggioritaria, quando ha sostituito i discorsi sulle alleanze ai discorsi sui contenuti, quando si è messo a inseguire ogni sorta di massimalismo su per i tetti di Roma, quando non è stato capace di creare un abisso che lo separasse dai giustizialisti, quando, insomma, ha riconosciuto di non avere una proposta forte e autonoma, sostenuta da gente sicura di sé e delle proprie idee, da presentare al Paese. È fallito per le ragioni che il sindaco di Firenze Matteo Renzi richiama ormai ogni giorno. Naturalmente, in politica, nulla è definitivo. Ma occorrerebbe una nuova generazione di leader per ridare slancio al Partito democratico. La crisi di credibilità di quel partito, speculare, per motivi diversi, a quella di Berlusconi, dà a Vendola la possibilità di affondare i denti nelle sue carni. Di quella crisi di credibilità è anche parte la «eresia» Fiom. Quella eresia non ci sarebbe stata se il Partito democratico fosse stato capace di portare su una seria piattaforma riformista il grosso di quella che un tempo era la sua gente, almeno nelle fabbriche. Anche un'alleanza di fatto con la Fiom, che in qualche misura è nelle cose, è un asset che Vendola potrebbe sfruttare abilmente. Chi ha creduto che l'anticapitalismo fosse ormai finito, morto e sepolto, definitivamente sostituito da altre e più nuove «narrazioni», dovrà probabilmente ricredersi. Angelo Panebianco 20 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il vento arabo della libertà Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:44:23 pm Il vento arabo della libertà Il giusto e l'utile In politica si dà spesso uno spiacevole divario fra ciò che «è giusto» e ciò che «è utile», fra ciò che pensiamo sarebbe giusto fare alla luce dei principi che professiamo e ciò che sappiamo essere utile per i nostri interessi. In politica internazionale, poi, quel divario è la regola. Ciò contribuisce a spiegare l’elevato tasso di ipocrisia che, con buona pace di WikiLeaks, circonda i rapporti interstatali. Si finge di fare ciò che è giusto ma si opera per realizzare solo l’utile. Soltanto in rare, eccezionali, circostanze, il giusto e l’utile coincidono. Adesso, per l’Italia nei suoi rapporti con la Libia, e per l’Occidente tutto nei suoi rapporti con il Medio Oriente, è arrivato uno di quei momenti: fare ciò che è giusto per sostenere le ribellioni contro i tiranni coincide con l’utile, con il nostro interesse. Nelle fasi di effervescenza rivoluzionaria va di moda criticare la Realpolitik, le commistioni e le complicità con i tiranni. Ma in circostanze normali, non rivoluzionarie, la Realpolitik è una necessità. Saremo tutti contenti se e quando i cinesi si libereranno del giogo autoritario ma, fino ad allora, continueremo a trattare con la dittatura. Non possiamo autoflagellarci per avere trafficato per decenni con i dittatori mediorientali, da Ben Alì a Mubarak, a Gheddafi. Lo imponevano gli interessi delle democrazie occidentali: nessun governante democratico può conservare il potere se non tutela l’interesse del proprio Paese così come esso viene definito dai gruppi interni, politici, sociali ed economici, che contano. E l’interesse richiedeva di coltivare quelle relazioni. Adesso però il gioco è cambiato e anche i nostri interessi in rapporto al Medio Oriente sono in via di ridefinizione. Il giusto e l’utile tendono ora a coincidere: contribuire, da parte nostra, a favorire in quei Paesi l’affermazione di regimi politici più accettabili per i loro cittadini è coerente sia con i nostri valori che con i nostri interessi. A che cosa siamo interessati? Siamo interessati al fatto che le transizioni in Medio Oriente non acquistino, col tempo, un segno antioccidentale. Come opportunamente ricordava Pierluigi Battista sul Corriere di sabato, anche in Iran la rivoluzione contro il regime oppressivo dello Scià cominciò in nome della libertà ma sappiamo come andò a finire. Ci sono vitali interessi occidentali, di sicurezza ed economici, in gioco. Aiutare in modo non blando o episodico gli insorti può contribuire a prefigurare una situazione nella quale riusciremmo forse a esercitare una qualche influenza sulle condizioni post rivoluzionarie. Le sanzioni già decise dagli Stati Uniti contro Gheddafi, quelle che l’Onu sta adottando, e quelle che probabilmente varerà l’Unione Europea nei prossimi giorni, sono solo un primo passo. C’è un problema italiano in rapporto alla Libia e c’è un problema europeo in rapporto al Medio Oriente nel suo insieme. La vicenda libica ha posto il nostro Paese in prima linea. Ha detto il vero Pier Ferdinando Casini quando, primo fra tutti, ha denunciato il fatto che ciò che accade in Libia è per noi una emergenza nazionale che andrebbe affrontata con il massimo di coesione della classe dirigente. Siamo i più esposti per gli intensissimi rapporti che abbiamo sempre coltivato con il regime libico, per gli approvvigionamenti energetici, per il volume dei nostri interessi in Libia, per le questioni di sicurezza coinvolte (la possibile ripresa di massicci sbarchi dall’Africa entro breve tempo). E siamo i più esposti anche perché, sfruttando la cattiva fama che ci hanno procurato in Libia le nostre storiche relazioni con Gheddafi, vari competitori occidentali potrebbero tra poco farsi avanti per subentrare all’Eni e al centinaio di imprese italiane che hanno fino a oggi operato in quel Paese. In queste condizioni, e per quanto difficile ciò possa essere, identificare per tempo i possibili interlocutori della «nuova Libia» e aiutarli in tutti i modi, anche finanziariamente, sia ora, contro i colpi di coda del regime morente, sia dopo, nel periodo della ricostruzione, è per l’Italia ancora più vitale che per gli altri Paesi occidentali. La sospensione del trattato Italia-Libia potrebbe non bastare. Se non avremo un ruolo da protagonisti in questa fase, non potremo sperare di averne uno a rivoluzione conclusa. C’è poi l’Europa. I suoi interessi in Medio Oriente sono troppo importanti perché essa possa permettersi il lusso di non adottare, sia pure in accordo con l’alleato americano, una posizione al tempo stesso energica e lungimirante. I primi segnali sono pessimi. Scegliere, come le democrazie nordiche europee hanno fatto in questi giorni, lo «scaricabarile », rifiutare anche in via ipotetica l’idea di una gestione europea del possibile afflusso di profughi dal Nord Africa, la dice lunga sulla condizione in cui versa l’Unione. Lo tsunami politico mediorientale può essere quella «sfida esterna» ai più vitali interessi della sicurezza dell’Europa in grado di far fare un salto di qualità all’integrazione europea. Oppure, può essere lo scoglio che la farà definitivamente naufragare. La relazione è nei due sensi: la sfida mediorientale potrebbe indurre più coesione in Europa e più coesione le sarebbe necessaria per influenzare, magari ponendo mano a un piano straordinario di aiuti, il futuro del Medio Oriente: al fine di scongiurare derive fondamentaliste in Paesi privi di un passato democratico, e di impedire che la regione venga sconvolta, fra qualche tempo, da nuove guerre. Concludo osservando che non bisognerebbe farsi prendere troppo la mano della cronaca perdendo di vista i tempi più lunghi della storia. Molti osservatori oggi dicono che le attuali rivoluzioni mediorientali condotte in nome della libertà segnano una sconfitta delle tesi sui conflitti di civiltà. A parte il fatto che non sappiamo ancora come andranno a finire quelle rivoluzioni, si consideri il caso dell’Arabia Saudita. Immaginiamo che la rivoluzione arrivi anche lì. Qualcuno può seriamente sostenere che a Riad si installerebbe un «governo democratico»? A vincere, proprio là dove il mondo più si rifornisce di energia, sarebbe, più facilmente, un fondamentalismo fanatico: un conflitto di civiltà al quadrato. La prudenza è una virtù indispensabile per commentare gli eventi di questi giorni. Angelo Panebianco 27 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tre scenari per una crisi Inserito da: Admin - Marzo 07, 2011, 11:36:50 pm L'ITALIA E IL FUTURO DELLA LIBIA
Tre scenari per una crisi Non bisogna mai mettere con le spalle al muro un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere Per quanto essa sia elusiva, vaga e refrattaria a essere imprigionata in definizioni precise, dall'idea di «interesse nazionale» non si può tuttora prescindere. Nonostante i fiumi di inchiostro versati sui cambiamenti delle relazioni interstatali indotti dalla cosiddetta globalizzazione o, nel caso dei Paesi del Vecchio continente, dall'integrazione europea, l'interesse nazionale resta la principale bussola per coloro che devono decidere le politiche estere come per coloro che ne valutano gli effetti. Cruciali questioni di interesse nazionale, come tutti sanno, sono in gioco per l'Italia nella vicenda libica. A seconda degli esiti di quella crisi il nostro interesse nazionale verrà salvaguardato oppure gravemente danneggiato. Allo stato degli atti, sembrano essere tre i possibili esiti della crisi libica. Nel primo scenario, Gheddafi viene sconfitto, abbandona il potere e gli subentra una nuova classe dirigente che, nonostante grandi difficoltà, si rivela capace di tenere insieme il Paese e di ristabilire normali relazioni con gli altri Stati. Nel secondo scenario, la guerra civile si protrae a lungo e la Libia sprofonda negli inferi, finisce nel girone riservato agli «Stati falliti», in compagnia di Paesi come la Somalia o l'Afghanistan. Nel terzo scenario, infine, Gheddafi riprende il controllo dell'intero territorio, Cirenaica compresa, al prezzo di un terribile bagno di sangue. Il primo scenario, ovviamente, è il migliore per la Libia ma anche per noi italiani. Si tratterà di stabilire relazioni con una nuova classe dirigente che, presumibilmente, avrà anch'essa interesse a un buon rapporto con l'Italia, che avrà bisogno dei legami economici con noi, tanto più nella fase della ricostruzione post dittatura. Avevamo, è vero, eccellenti rapporti con Gheddafi, il che ci renderà sospetti ai loro occhi, ma è comunque un fatto che, fra gli occidentali, non siamo stati i soli a coccolarlo. Il realismo imporrà ai nuovi dirigenti libici di non rinunciare a una cooperazione vantaggiosa per entrambi i Paesi. Gli altri due scenari, invece, ci danneggerebbero grandemente. Se la Libia diventasse uno Stato fallito, si trasformerebbe in una piattaforma adibita al trasferimento al di qua del Mediterraneo di fiumi di disperati, di caos, di criminalità e terrorismo, ossia dei frutti avvelenati che crescono sempre negli Stati falliti. E noi saremmo in prima linea, i primi a subirne le conseguenze. In uno scenario «somalo» diventerebbe prima o poi inevitabile un intervento militare della comunità internazionale volto a frenare il caos. Nonostante le insidie e l'alto rischio di fallimento a cui un intervento militare andrebbe incontro. Ma anche il terzo scenario, quello che prevede un Gheddafi di nuovo vittorioso in Libia, sarebbe pessimo per noi. In politica internazionale l'ipocrisia è la regola. Fino a ieri tutti, non solo noi italiani, fingevano di non sapere che Gheddafi fosse un turpe dittatore che aveva sempre fatto strame di diritti umani. Lo fingevano i governi, i banchieri, il Consiglio dei diritti umani dell'Onu, persino la prestigiosa Lse (la London School of Economics and Political Science di Londra) destinataria di generosi finanziamenti libici, e tantissimi altri. Adesso però l'incanto si è rotto, adesso Gheddafi è un paria, un ricercato dell'Interpol, un possibile imputato del tribunale penale internazionale. D'ora in poi, fare affari con lui diventerà molto difficile. Se Gheddafi riconquisterà la Libia, per l'Italia saranno dolori, pagheremo un costo economico salatissimo. Per non parlare della difficoltà di ristabilire rapporti di cooperazione su materie sensibili come il controllo dell'emigrazione dall'Africa. La questione dei rapporti economici Italia-Libia ha due facce. C'è, in primo luogo, il destino del centinaio di imprese che operavano fino a pochi giorni fa in Libia e il futuro ruolo dell'Eni. Adesso che anche noi abbiamo scaricato Gheddafi, un vendicativo dittatore di nuovo in sella potrebbe decidere di spazzarci via a vantaggio di meno scrupolosi concorrenti. La Cina, soprattutto, un Paese che non ha problemi a trattare con i peggiori dittatori, sarebbe certo lieta di subentrare alle nostre e alle altre imprese occidentali. E c'è poi la questione dei fondi sovrani, dei cospicui investimenti dello Stato libico in Italia (la presenza in Unicredit, Finmeccanica, Eni, il ruolo della Banca libica con sede a Roma, eccetera). Per ora, in omaggio alle direttive Onu, abbiamo congelato, come altri Paesi, i beni della famiglia Gheddafi e ci siamo dichiarati pronti, per bocca del ministro degli Esteri Franco Frattini, a congelare anche i fondi sovrani se ciò verrà deciso dall'Onu o dall'Unione Europea. Ma è un tema delicatissimo. Da un lato, sarà impossibile per noi non ottemperare alle eventuali richieste in tal senso degli organismi internazionali. Dall'altro lato, sarà di particolare danno farlo dal momento che i libici sono uno dei principali investitori sulla nostra piazza e, per giunta, un congelamento dei loro capitali sarebbe un pessimo segnale per altri investitori. In ogni caso sarebbe per noi una perdita secca e pesante. Posto dunque che non solo ai libici ma anche a noi conviene che Gheddafi se ne vada, si può constatare quanto siano state improvvide le dichiarazioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu del 26 febbraio secondo cui Gheddafi va processato di fronte al Tribunale penale internazionale, l'apertura di un procedimento a suo carico da parte del Tribunale dell'Aja, l'allerta dell'Interpol per impedire che egli e il suo entourage possano espatriare. Non bisogna mai mettere un dittatore che non ha ancora abbandonato il potere con le spalle al muro. Serviva un salvacondotto, non un processo. Magari Gheddafi è davvero pronto, come ha detto, a morire con le armi in pugno. Ma un salvacondotto, come alternativa al bagno di sangue, doveva comunque essergli offerto. E dovrà essergli offerto. Conviene anche agli entusiasti della cosiddetta «giustizia internazionale». Per dimostrare che fra i suoi effetti perversi non ci sia anche quello di prolungare le sofferenze dei popoli. Angelo Panebianco 07 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Angelo PANEBIANCO. La paura e la ragione Inserito da: Admin - Marzo 16, 2011, 12:16:25 pm LA SCELTA NUCLEARE
La paura e la ragione Non sappiamo ancora se i giapponesi riusciranno a impedire la fusione del reattore di Fukushima salvando il loro Paese da un disastro che sarebbe incomparabilmente maggiore di quello provocato dal terremoto e dallo tsunami. Tutti però abbiamo almeno potuto constatare un fatto: il contrasto fra l'ammirevole compostezza del popolo giapponese così duramente colpito e le assai meno composte reazioni occidentali. «Il paradosso del progresso materiale e tecnologico - ha scritto il Wall Street Journal in uno dei migliori commenti che si siano letti sulla vicenda - è che noi sembriamo diventare tanto più avversi al rischio quanto più il progresso ci rende maggiormente sicuri». Per un verso, è proprio grazie agli sviluppi tecnico-scientifici che abbiamo raggiunto eccezionali livelli di benessere e anche (proprio così) di sicurezza: fingiamo per lo più di non saperlo ma la vita quotidiana nelle società pre-moderne era infinitamente più insicura, brutale e breve, di quanto non sia oggi nelle società industriali. Per un altro verso, raggiunti tali livelli di benessere e di sicurezza sembriamo voler rifiutare anche i rischi che pure sono intrinseci allo sviluppo tecnico-scientifico. È giusto interrogarsi sull'atomo e sui suoi pericoli, pretendere che si faccia tesoro delle esperienze dolorose e che si correggano gli eventuali errori, che i controlli siano esigenti, che la ricerca e le applicazioni della tecnologia della sicurezza siano sempre meglio sviluppate. Ma è anche necessario non smarrire il filo della razionalità. Senza rischi e assunzione di rischi non ci sarebbe mai stato alcun progresso tecnico-scientifico: quel progresso grazie al quale, nelle moderne società industriali, ad esempio, è crollata la mortalità infantile e gli uomini vivono assai più a lungo di un tempo. Non c'è dinamismo sociale possibile che non porti con sé pericoli. Perché non è possibile rinunciare all'atomo? Perché, anche se non potremo liberarci ancora per lungo tempo dalla dipendenza dal petrolio, è vitale diversificare le fonti di energia e quella atomica resta, dopo petrolio e gas, la più importante. Si noti che, nonostante l'aggravamento che ha fatto registrare nelle ultime ore la situazione nella centrale di Fukushima e l'allarme delle opinioni pubbliche, i governi dei Paesi occidentali che dispongono di centrali si sono impegnati, con vari accenti, ad innalzare i livelli di sicurezza, non certo a sbarazzarsi della energia nucleare. L'atomo comporta rischi? Certamente, ma si può agire, e si agisce in tutto il mondo per ridurli. D'altra parte, la controprova è data proprio dal Giappone: la schiacciante maggioranza delle centrali giapponesi ha resistito benissimo sotto l'impatto di un terremoto di violenza devastante. Ci si potrebbe addirittura spingere a sostenere che la dipendenza dal petrolio (a parte i pesantissimi costi economici che impone a chi non lo possiede) comporti pericoli maggiori delle centrali, ossia dell'uso pacifico dell'energia nucleare. Dipendere, per i rifornimenti energetici, da aree ad altissima instabilità politica è infatti causa di rischi immensi. Immaginiamo che una nuova guerra scoppi prima o poi in Medio Oriente e che, come tanti paventano, vi vengano impiegate armi nucleari. Il petrolio mediorientale diventerebbe improvvisamente indisponibile. Che accadrebbe allora a tutti noi? Discutere i pro e i contro dell'atomo va benissimo. Ciò che non va è l'irrazionalità di chi, pretendendo l'impossibile, ossia eliminare il rischio, rinuncia semplicemente a vivere. Angelo Panebianco 16 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: In questa guerra gli italiani rischiano di più - (soliti VELENI TRA LE RIGHE) Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 11:32:57 am OPERAZIONE «ALBA DELL'ODISSEA»
In questa guerra gli italiani rischiano di più Abbiamo fatto la cosa giusta, l'unica possibile, aderendo alla «coalizione di volenterosi» impegnati, dietro mandato Onu, a bloccare l'azione di Gheddafi contro i ribelli di Bengasi. E sicuramente faremo bene a partecipare con tutti i nostri mezzi a questa azione internazionale. Non potevamo di certo tirarci indietro. Impedire a Gheddafi di fare un bagno di sangue in Cirenaica è sacrosanto. Ciò premesso, qualche chiarimento in più lo dobbiamo a noi stessi, al Paese. Perché le guerre, come osservava giustamente Alberto Negri sul Sole 24 Ore di ieri, si sa come cominciano e non si sa come finiscono. E se anche l'opinione pubblica, forse, non lo ha ancora pienamente realizzato, siamo in guerra. In una guerra, per giunta, di cui non sono chiare le finalità e gli sbocchi possibili. Poiché è noto che i soli bombardamenti sono di rado risolutivi per vincere una guerra, e manca al momento qualsiasi copertura legale internazionale per una azione di terra contro le forze di Gheddafi, sembra evidente che l'impegno occidentale in corso ha un obiettivo di minima e uno di massima: quello di minima è impedire a Gheddafi di sopraffare l'intera Cirenaica. Una azione occidentale «di successo» potrebbe allora sancire la definitiva divisione della Libia in due tronconi. Non possiamo non chiederci se a noi italiani converrebbe un simile esito. L'obiettivo di massima, a quanto si capisce, è infliggere così tanti danni alle forze militari di Gheddafi da spingere le tribù che lo sostengono a «scaricarlo», consentendo così la riunificazione del Paese. Sarebbe un risultato eccellente (un vero, pieno successo della coalizione occidentale) ma è difficile negare che se quello è l'obiettivo, allora si tratta di una scommessa ad altissimo rischio. Cosa faranno in realtà i gruppi che sostengono Gheddafi nessuno oggi può saperlo. Si tenga poi conto del difficilissimo contesto internazionale: la Russia, dopo essersi astenuta sulla risoluzione 1973, ha ora assunto una posizione duramente ostile all'intervento occidentale. Anche la Cina è ostile ma più cauta. La Lega araba, il cui assenso aveva consentito agli Stati Uniti di rompere infine gli indugi e di passare all'azione, ora critica i bombardamenti ritenendoli al di là degli obiettivi della costituzione di una no-fly zone. Il che riflette il fatto che il mondo arabo è spaccato, diviso fra i nemici di Gheddafi e quelli che, come la Siria, l'Algeria e il Sudan, lo appoggiano. Il modo in cui il mondo occidentale si è mosso fin dall'inizio in questa vicenda solleva molte perplessità. Obama ha rivelato, con le sue oscillazioni nelle settimane che hanno preceduto l'intervento, una irresolutezza strategica imbarazzante: il leader del mondo occidentale non dovrebbe permetterselo. L'Europa ha fatto come al solito nei momenti di crisi: è andata in pezzi. La Germania non è il Lussemburgo e il fatto che si sia tirata fuori chiarisce definitivamente che l'Europa non dispone di una leadership all'altezza della gravità delle sfide. Anzi, non dispone di una leadership, punto. La Francia ha fatto il suo gioco: la Grandeur ha sempre un certo fascino per i francesi e Sarkozy aveva bisogno di riprendersi un po' della popolarità perduta. Ieri in Francia si sono tenute delle importanti elezioni cantonali (quando si dice le coincidenze), un test cruciale in attesa delle prossime presidenziali. Fare la guerra per spingere i concittadini a stringersi around the flag (intorno alla bandiera) è uno stratagemma classico della più classica realpolitik. La causa è nobile (salvare uomini dallo sterminio) e inoltre, il che non guasta, in Libia c'è la prospettiva di un grosso «bottino»: chi farà i migliori affari con gli insorti a guerra conclusa? Per la Francia, come per la Gran Bretagna, i rischi di guerra sono più che compensati dai possibili guadagni. L'Italia, invece, è in tutt'altra situazione. Noi siamo quelli che rischiano di più. Non solo economicamente ma anche fisicamente. Siamo il Paese più vicino e il più esposto alle ritorsioni. Per carità di patria sorvoliamo sulle contorsioni fatte in questi giorni dal nostro governo (e speriamo anche che rientri il dissenso, che non conviene a nessuno, della Lega). Limitiamoci a riconoscere che noi avevamo, e abbiamo, obiettivamente, fra gli occidentali, la posizione in assoluto più difficile. Il calcolo costi/benefici è diverso per l'Italia e per la Francia. Il che obbliga anche chi, come chi scrive, è favorevole alla nostra presenza nel conflitto, a guardare comunque con rispetto alle perplessità, tutt'altro che campate in aria, di alcuni esponenti politici (come quelle espresse dal sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano sul Corriere di ieri). Noi italiani non siamo abituati a pensare alla politica internazionale in termini realistici. Non è passato in fondo troppo tempo da quando più di metà degli italiani stava sempre con gli americani a prescindere e i restanti italiani con i sovietici, sempre a prescindere. Siamo impreparati a un gioco in cui dobbiamo bilanciare solidarietà con gli alleati, perseguimento, quando è possibile, di «buone cause» e attenzione ai nostri interessi. Lo fanno gli altri, dobbiamo farlo anche noi. È una caratteristica di tutte le coalizioni di guerra: gli alleati hanno una causa comune ma anche interessi non coincidenti. Mentre a francesi e inglesi importa ridimensionare la nostra presenza in Libia noi abbiamo l'interesse opposto. Dovremmo, in primo luogo, impegnarci fin da subito, a guerra ancora in corso, in un piano di ricostruzione della Libia. Su questo terreno, grazie ai nostri storici rapporti con quel Paese, abbiamo un possibile vantaggio rispetto agli alleati e dovremmo sfruttarlo al massimo. Abbiamo bisogno di riprendere l'iniziativa e siamo certamente in grado di farlo più nell'ambito economico-civile che in quello strettamente militare (ove il nostro apporto non potrà essere determinante). Dovremmo, in secondo luogo, dimostrare al nostro Paese che la classe dirigente, di governo e di opposizione, è all'altezza della sfida che abbiamo di fronte. L'importanza della vicenda libica è tale che si rende necessario un dibattito parlamentare in cui maggioranza e opposizione spieghino agli italiani i tanti risvolti (sul piano militare, sul piano economico, su quello delle minacce terroristiche, su quello relativo agli sbarchi dei profughi) che ha per noi la guerra libica e mostrino, per una volta, la più ampia concordia di intenti possibile di fronte a una così grave crisi. Abbiamo appena festeggiato i centocinquant'anni dell'Unità d'Italia. Dimostriamo che non era solo retorica, che non siamo sempre divisi, come per lo più diamo l'impressione di essere, in tante «patrie» (non solo la Padania ma anche la destra, la sinistra, eccetera) che hanno in comune solo il livore reciproco, che siamo capaci, in un gravissimo frangente, di convergere intorno ai nostri più vitali interessi nazionali. Se non ora, quando? Angelo Panebianco 21 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali Titolo: Angelo PANEBIANCO. Nazionalismi di ritorno Inserito da: Admin - Aprile 03, 2011, 10:44:30 am MAI COSI' DIVISI IN GUERRA
Il commento Nazionalismi di ritorno La guerra libica ha messo a nudo la grave crisi in cui versa il mondo occidentale, la comunità euro-atlantica. Come già accadde nel 2003, all'epoca dell'invasione dell'Iraq, le due forze che hanno sempre dato coesione al mondo occidentale, ossia la credibilità della leadership americana e la solidarietà infra-europea, vacillano paurosamente. Ma oggi la situazione è persino più grave del 2003 perché, per gli effetti prodotti dalla crisi economica, l'America è molto più debole di allora e perché nel frattempo i rapporti fra gli Stati europei (dalla bocciatura del trattato costituzionale del 2005 alle disavventure dell'euro) si sono progressivamente deteriorati. E ora è sopraggiunta la crisi libica ad incattivire ulteriormente gli animi. È sperabile che a crisi conclusa si possano ristabilire in Europa le relazioni di un tempo. Ma non sarà facile. C'è stata un'epoca in cui alcuni, di orientamento antiamericano, coltivavano l'illusione di un'Unione Europea capace di sbarazzarsi, grazie ai progressi dell'integrazione, del rapporto con gli Stati Uniti, di cominciare a muoversi sulla scena internazionale in modo indipendente e anche, eventualmente, in opposizione all'America. Era un'illusione. La comunità euro-atlantica (lo storico legame fra Europa e America) e l'integrazione europea, direbbe un giurista, simul stabunt vel simul cadent, sono legati a corda doppia, staranno o cadranno insieme. È grazie ai legami con l'America che l'integrazione europea è nata e si è sviluppata. Sembra plausibile che un indebolimento o una disarticolazione di quei legami non preluda a chissà quali traguardi dell'integrazione dell'Europa ma al suo declino. La comunità euro-atlantica vacilla perché vacilla la leadership americana. Come hanno mostrato le oscillazioni dell'Amministrazione Obama, la sua incapacità di darsi un riconoscibile disegno strategico, a fronte delle rivoluzioni arabe. E come si è visto nella crisi libica. Le stesse tensioni fra i Paesi europei sono favorite, o esasperate, dal deficit di leadership americana. Ciò non dipende solo dalle personali indecisioni di Barack Obama. Esse ci sono ma non fanno altro che aggravare una crisi di credibilità dell'America che ha l'origine nel suo indebolimento politico complessivo. Poiché era il vigore di quella leadership il collante del blocco euro-occidentale, il suo appannamento ha riflessi destabilizzanti che acuiscono i problemi legati ai contenziosi infra-europei. È inutile negarlo. Un'Italia lasciata fin qui sola dall'Europa a vedersela con gli sbarchi e, in più, con il sospetto che il vero scopo dell'impresa sia accrescere l'influenza anglo-francese in Libia a scapito dell'Italia, può lasciare strascichi pesanti, può influenzare l'opinione pubblica italiana rendendo in futuro meno europeista il Paese che, storicamente, lo è stato più di altri. L'intervista rilasciata ieri dal primo ministro francese François Fillon al Corriere è un prezioso passo distensivo. Ma occorrerà molta buona volontà da entrambe le parti per riportare alla normalità i rapporti fra Italia e Francia. Il tutto mentre la Germania, con la sua scelta di tirarsi fuori (e di cercare altrove, nel rapporto con le potenze emergenti, Cina, Russia, Brasile, nuove sponde politiche), chiarisce che l'Europa è politicamente acefala, senza un vero leader disponibile a fare la sua parte. Ma, si potrebbe obiettare, questa è solo una faccia della medaglia. L'altra faccia è che una compattezza europea, e anche una leadership tedesca, ci sono e si manifestano su un diverso terreno, quello della governance economica dell'Europa. L'intesa raggiunta dal Consiglio europeo del 24-25 marzo, la riscrittura delle regole del «Patto di stabilità e di crescita» non segnano forse un salto di qualità proprio sul piano cruciale della governance e non annunciano progressi in tema di integrazione dei mercati? A parte il fatto che le sconfitte elettorali subite dal partito di Angela Merkel, e il suo oggettivo indebolimento, gettano ombre sulle reali possibilità di attuazione dell'intesa, le due cose possono benissimo, almeno per un certo periodo, andare insieme: si puntella l'euro, si impongono controlli più stringenti sulle finanze dei Paesi europei, si accresce il coordinamento politico-economico, mentre, su altri versanti, dove sono in gioco altre questioni (rifornimenti energetici e non solo), i rapporti politici si deteriorano, avvelenati dai sospetti e dalle polemiche. Alla lunga, le due tendenze finirebbero per entrare in rotta di collisione ma nel breve periodo possono anche coesistere. Il ritorno del nazionalismo, un processo che era già in atto da tempo, che spinge alla competizione i Paesi europei, non è ovviamente una buona notizia in generale ed è pessima per l'Italia. Tenuto conto del fatto che l'Italia, alle prese con i suoi soliti problemi interni, è incapace di darsi compattezza a sostegno dei propri interessi nazionali. Il modo in cui ci siamo divisi sulla vicenda libica ne è solo (ma in un contesto particolarmente grave) l'ennesima conferma. Riassumendo, la perdita di credibilità della leadership americana indebolisce la comunità euro-atlantica ed esaspera le divisioni fra i Paesi europei. L'indebolimento della solidarietà entro l'Unione, a sua volta, spinge gli Stati europei - alcuni (Francia, Gran Bretagna) con una baldanza che viene dalle loro tradizioni storiche, altri di malavoglia - a ripercorrere le antiche strade delle «politiche nazionali». Si tratta, nell'età ormai dominata da mega-potenze globali, solo di un'illusione, di un vicolo cieco? Nel medio-lungo termine, certamente. Nel breve periodo, è la strada che gli europei meglio conoscono (grazie al proprio passato), la sola che sanno percorrere quando cadono, una dopo l'altra, tutte le altre illusioni. Una conclusione rapida e positiva della vicenda libica (con l'uscita di scena di Gheddafi), benché difficile da ottenere, migliorerebbe forse il clima europeo. In ogni caso, è da augurarsi che americani ed europei, magari spinti a ciò proprio dalle rivoluzioni arabe, si siedano prima o poi intorno a un tavolo per capire se sia possibile ridare slancio a una sfibrata comunità euro-atlantica. Senza la quale, nemmeno l'integrazione europea sembra destinata a un grande futuro. Angelo Panebianco 03 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_03/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. La politica delle tribù Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 10:32:09 pm POCHI LEADER, TROPPI NOTABILI
La politica delle tribù Come è naturale, l'opinione pubblica è oggi colpita soprattutto dalla ferocia degli scontri fra maggioranza e opposizione, si tratti di processo breve o di sbarchi di clandestini. L'attenzione è calamitata dalla radicalizzazione del conflitto politico, dalla sua acuta intensificazione, anche emotiva. Si perde di vista il fatto che c'è anche un altro processo assai rilevante in corso. È più silenzioso, meno spettacolare ma, forse, persino più preoccupante. Riguarda la decomposizione delle forze politiche esistenti. Era già da tempo frantumato lo schieramento di sinistra e non ci sono lì prospettive di ricomposizione. La novità è la disarticolazione in corso nel Pdl, la formazione dominante del centrodestra. Lo strappo di Gianfranco Fini è stato solo l'inizio. Oggi, se si guarda al Pdl, si vede che è tutto un fiorire di raggruppamenti autonomi (da Scajola a Micciché ad altri) di variabile e mutevole consistenza. Il processo centrifugo non risparmia il livello locale: in vista delle elezioni amministrative, in molte situazioni, proliferano i candidati-sindaci di centrodestra in lotta fra loro. La crisi investe il centro come la periferia. La classe politica, a destra e a sinistra, sembra disintegrarsi in una miriade di piccoli potentati autonomi. Questo sfarinamento pone ipoteche pesanti, forse più pesanti della stessa radicalizzazione, sul futuro della democrazia italiana, ne compromette, nel medio termine, la governabilità. La frammentazione ha una spiegazione relativamente semplice anche se, purtroppo, non ci sono, per contrastarla, rimedi altrettanto semplici. Bisogna, per capire, risalire all'epoca della distruzione dei partiti «storici», ai tempi delle inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta. Si dissolsero allora formazioni politiche che avevano una lunghissima storia alle spalle e un antico radicamento nel Paese. Era la premessa di una permanente frammentazione del sistema partitico. In sintesi: se non ci sono i partiti, sostituiti da fragili contenitori elettorali, si torna, con gli aggiornamenti del caso, alla politica dei notabili dell'Italia pre-fascista o della Terza Repubblica francese. Ad attutire e a mascherare il fenomeno intervennero allora la legge elettorale maggioritaria e, soprattutto, l'ingresso in politica di Silvio Berlusconi nel 1994. Spaccando in due il Paese, e creando una grande formazione (un grande contenitore elettorale) di centrodestra, Berlusconi impedì che la fine del vecchio sistema partitico dispiegasse tutti i suoi effetti. Era la sua forte leadership, la sua fama di invincibile macchina da guerra elettorale, a garantire la tenuta e la relativa coesione del contenitore. Adesso che quella leadership vacilla e che molti, a torto o a ragione, pensano che essa sia entrata nella fase declinante, la perdita di coesione non può più essere fermata. Il notabilato che Berlusconi aveva raccolto intorno a sé è costretto a rimettersi in gioco, deve andare alla ricerca delle vie migliori per assicurarsi la sopravvivenza politica. Senza attribuire virtù taumaturgiche alle sole leggi elettorali, va detto che il sistema oggi in vigore, per come è congegnato, non serve per disincentivare lo sfarinamento politico. Non si sfugge al circolo vizioso: un accordo fra le principali forze politiche per interventi anti-frammentazione (come una nuova legge elettorale) sarebbe necessario, ma quelle forze politiche sono ormai troppo frammentate per poterlo stipulare. Angelo Panebianco 09 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_09/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le Ragioni degli Altri (visti da un berlusconiano viscido) Inserito da: Admin - Aprile 17, 2011, 05:05:01 pm PERCHE' SIAMO COSI' DIVISI
Le Ragioni degli Altri Ha ragione Michele Salvati quando osserva, sul Corriere di ieri, che berlusconiani e antiberlusconiani sono come nazioni nemiche e ferocemente ostili. Ma, forse, la malattia è assai più diffusa di quanto lui non pensi. Non riguarda solo i rapporti fra i politici. Temo coinvolga, da una parte e dall'altra, una grande quantità di italiani. Per questo, a differenza di Salvati, non penso che possa essere efficace quella riscrittura delle regole che Walter Veltroni e Giuseppe Pisanu (Corriere, 15 aprile) vorrebbero affidare a un improbabile governo di emergenza. Il problema italiano sta al di là (o al di qua) delle regole. Consiste in un livello di inimicizia fra le fazioni superiore a quello che si riscontra normalmente nelle democrazie. Qualcosa che non si cura con nuove regole. Credo si illudano quelli che pensano che quando uscirà di scena Berlusconi il livello di inimicizia che corrode la nostra vita pubblica crollerà. Non crollerà, resterà intatto l'antagonismo di fondo che coinvolge una parte cospicua degli italiani. Che cosa pensano gli elettori di sinistra di quelli di destra? Ascoltatene le conversazioni: pensano, per lo più, che gli elettori di destra siano degli stupidi (rincretiniti dalle reti Mediaset) oppure dei corrotti. Gli elettori di destra, a loro volta, ritengono che quelli di sinistra appartengano essenzialmente a due categorie, entrambe spregevoli: o sono in evidente malafede o sono dei sempliciotti aizzati da demagoghi senza scrupoli. Nessuna delle due parti è disposta ad ammettere che «gli altri», forse, hanno, oltre che interessi, anche valori diversi dai propri. Ciascuna contrappone i propri valori ai «disvalori» altrui. Il disprezzo è reciproco. Anche se non ci sono ricerche che lo comprovino sospetto fortemente che gli italiani di destra e quelli di sinistra tendano a frequentarsi assai poco fra loro. Un indizio sta nel fatto che i matrimoni misti (fra esponenti della destra e della sinistra) «fanno notizia». Ciascuno sta rinserrato nella sua parrocchia, parla quasi esclusivamente con quelli della sua parte politica. Il livello di inimicizia, e di disistima reciproca, spinge alla non frequentazione e la non frequentazione, a sua volta, rafforza pregiudizi e ostilità. Eppure, persino nel caso italiano, così frastagliato e frammentato, sarebbe possibile riconoscere, per chi fosse disposto a osservare le cose con un minimo di obiettività, le stesse divisioni valoriali che sono presenti in tante altre democrazie. Se destra e sinistra significano qualcosa, infatti, esse indicano posizioni diverse su due problemi: le libertà economiche e i diritti civili. Quanto al tema economico, la destra predilige normalmente la libertà rispetto alla eguaglianza e la sinistra l'eguaglianza rispetto alla libertà: la destra è, in materia economica, più «liberale» e la sinistra più «socialista». In tema di diritti civili, invece, le parti si invertono: la sinistra è più «libertaria» (si tratti di matrimoni fra omosessuali o di concessioni di diritti agli immigrati) e la destra è più «tradizionalista». Questa divisione fra una destra liberale e tradizionalista e una sinistra socialista e libertaria la si ritrova ovunque nel mondo occidentale. Variamente declinata a seconda delle specificità storiche di ciascun Paese. Nel caso italiano non c'è dubbio che il grosso degli elettori di Berlusconi si sia riconosciuto in lui proprio perché lo ha percepito come il campione di quella configurazione valoriale convenzionalmente definita «destra». Così come gran parte degli elettori della sinistra vota in quel modo perché si riconosce in una diversa, e opposta, configurazione valoriale. Ma se le cose stanno così, perché allora la (naturale, normale) ostilità per i leader dello schieramento avverso non si accompagna mai al riconoscimento che gli elettori dell'altra parte non sono sciocchi o, peggio, esseri spregevoli ma persone con valori diversi dai propri? Le ragioni affondano nel nostro passato e spetta agli storici ricostruirle. Il feroce conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani è solo un episodio di una lunghissima storia di «non riconoscimento» reciproco, di negazione all'altro di ciò che si riconosce a se stessi (essere cioè portatori di valori opinabili ma legittimi) e, probabilmente, non sarà l'ultimo. Se traduciamo tutto ciò sul piano delle «regole», arriviamo alla triste conclusione che non esistano regole che possano guarire la malattia. Il bipolarismo funziona male a causa di un eccesso di inimicizia. Ma se abbandoniamo il bipolarismo e torniamo ai vecchi metodi della proporzionale e dei governi «centristi», non miglioreremo le cose: la democrazia sarà ancora una volta inefficiente per l'immobilismo, per l'assenza di alternanza, e per il fatto di relegare le estreme nel ghetto antisistema. Una democrazia nella quale nessuno è disposto a riconoscere le ragioni dell'altro è condannata comunque all'instabilità e all'inefficienza. Su questo bisognerebbe lavorare prima di pensare alle regole. Angelo Panebianco 17 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_17/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE Inserito da: Admin - Aprile 23, 2011, 06:22:27 pm L'ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE
L'omaggio alla libertà Una costituzione è fatta di principi e di regole che devono dare corpo ai quei principi. La dimensione simbolica di una carta costituzionale non è meno importante delle sue regole operative. La questione dell'articolo 1 della Costituzione è tornata ora alla ribalta per l'iniziativa di un deputato del Pdl, Remigio Ceroni, che ne ha proposto una radicale revisione. L'iniziativa è figlia della situazione di conflitto politico feroce che stiamo oggi vivendo e seguirà, presumibilmente, la sorte di altre prese di posizione legate al clima del momento: finirà fortunatamente nel dimenticatoio. Resterà però, al di là delle vicende contingenti, il problema rappresentato dalla formulazione del primo comma dell'articolo 1 il quale, come è noto, recita: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». All'Assemblea costituente due esponenti della cultura politica liberale, Ugo La Malfa e Gaetano Martino, avevano proposto una diversa versione che richiamava i «diritti di libertà» come primo fondamento della Repubblica. Ma la maggioranza (democristiani, socialisti e comunisti) scelse diversamente. Come ha ricordato Michele Ainis nel suo editoriale di ieri sul Corriere, la proposta di sostituire la parola «lavoro» con la parola «libertà» ritorna periodicamente. È stata avanzata formalmente qualche anno fa dai radicali e spesso rilanciata da altri uomini di cultura liberale, come Mario Segni o Renato Brunetta. Ainis afferma che sarebbe superfluo un simile intervento dal momento che la libertà, secondo lui, già albergherebbe, «come noce nel mallo», nella democrazia evocata nello stesso articolo 1. Dissento da Ainis e spiego perché. La libertà degli individui (e non, come scrive Ainis, del «popolo» che è soltanto una astrazione) non è affatto già contenuta nella parola democrazia. Questa assimilazione non funziona né dal punto di vista concettuale né da quello storico ed empirico. Sul piano concettuale, democrazia e libertà sono cose diverse (hanno anche una origine storica diversa). Tanto è vero che quando usiamo, per brevità, la parola «democrazia» siamo quasi sempre costretti a precisare che ci stiamo riferendo a una sua particolare versione, quella liberale appunto, la liberaldemocrazia, la versione che combina democrazia e libertà e non ad altre forme di democrazia (popolare, consigliare, eccetera). Né l'assimilazione regge sul piano empirico. Non solo è perfettamente concepibile una democrazia illiberale ma, per giunta, ne esistono in giro molti esemplari: l'attuale Federazione Russa è un esempio. Ecco perché non si dà alcuna ridondanza se la Repubblica democratica viene fondata sulla libertà anziché sul lavoro. Ma non sono quisquilie, dirà qualcuno? Non abbiamo problemi più seri di cui occuparci? Se la dimensione simbolica di una costituzione è importante, allora quisquilie non sono. I liberali di questo Paese hanno sempre vissuto con grande disagio e come prova del proprio stato di esigua minoranza, il fatto che la nostra carta d'identità collettiva, anziché con un omaggio alla libertà, si aprisse con una formulazione che rivelava la lontananza di tanti membri della Assemblea costituente dai principi della tradizione liberale. Viste le numerose conversioni (verbali) al liberalismo a cui abbiamo assistito dopo la caduta del comunismo forse sarà il caso, quando se ne troverà il tempo, di porre termine a quel disagio. Angelo Panebianco 22 aprile 2011(ultima modifica: 23 aprile 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_aprile_22/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. Distanti e divisi, i nodi del centrodestra Inserito da: Admin - Maggio 20, 2011, 08:49:44 am DOPO LE AMMINISTRATIVE
Distanti e divisi, i nodi del centrodestra Difficilmente Bossi romperà l'alleanza col premier Vorrà ricontrattarla e Berlusconi ha poco tempo Cosa prefigurano per il futuro politico del Paese il terremoto milanese e, più in generale, i risultati di questa tornata amministrativa? L'unica cosa che possiamo prevedere con un discreto grado di sicurezza è quale sarà, per effetto di questi risultati, la configurazione del centrosinistra alle prossime elezioni politiche. Invece, è buio pesto per quanto riguarda l'altro versante dello schieramento: il centrodestra. Possiamo dire che a sinistra c'è stato un chiarimento, le incertezze strategiche che hanno condizionato l'azione del Partito democratico negli ultimi mesi si sono dissolte, sono state spazzate via dai «fatti», ossia dai numeri. Queste elezioni amministrative hanno archiviato il progetto - da sempre attribuito a Massimo D'Alema - che prevedeva una alleanza fra Partito democratico e il cosiddetto Terzo polo di Pier Ferdinando Casini e l'emarginazione delle Estreme (Di Pietro e forse anche Vendola). I successi dei candidati delle Estreme (ma anche del movimento di Grillo) e la mancata affermazione elettorale del cosiddetto Terzo polo chiudono la partita. Il centrosinistra si presenterà alle prossime elezioni con una coalizione in cui le Estreme esigeranno, e otterranno, un ruolo di comprimari, una coalizione il cui asse sarà nettamente spostato a sinistra. Professionisti di lungo corso quali sono quelli del Pd sanno, naturalmente, che una coalizione del genere correrà grossi rischi, sanno che un tale profilo sarà comunque poco congruente con gli orientamenti di fondo del Paese, sanno che potrebbe ripetersi lo scenario dei primi Anni Novanta (vittoria nelle amministrative del '93, sconfitta nelle politiche del '94). Ma sanno anche che c'è, rispetto ad allora, una fondamentale differenza: è data dal fatto che per Berlusconi si avvicina, verosimilmente, il momento della conclusione della sua avventura politica, e ciò può gettare nel marasma il centrodestra. Una coalizione «di sinistra», anziché di centrosinistra, non vincerebbe mai contro un centrodestra forte ma potrebbe vincere (e persino con una certa facilità) contro un centrodestra demoralizzato, privo di un leader trainante, e dilaniato dalle divisioni. Nella sconfitta del centrodestra (che diventerebbe disfatta totale se la Moratti, come a questo punto è possibile, perdesse al secondo turno) c'è qualcosa persino di più grave del referendum su se stesso platealmente perduto da Berlusconi proprio a casa sua: c'è una perdita di contatto con la realtà, con gli umori e con le vere aspettative dell'elettorato. In genere, è proprio ciò che accade ai leader e alle classi dirigenti in declino. Giuliano Ferrara ha ragione quando dice che la campagna elettorale del centrodestra è stata un colossale errore dall'inizio alla fine. E nulla lo illustra meglio del caso di Milano. È normale che l'opposizione cerchi di politicizzare il voto comunale ma non è normale che lo facciano le forze che hanno governato la città: a queste ultime serve invece, per lo più, enfatizzare la dimensione amministrativa, valorizzare i risultati che l'amministrazione comunale ritiene di avere raggiunto: anche perché, tolta una fascia di votanti «ideologici» (che votano a destra o a sinistra a prescindere), ci sono poi sempre molti elettori che non dimenticano la posta in gioco, ossia la qualità della «loro» vita nella «loro» città. Avendo perso il contatto con la realtà, Berlusconi ha imposto una politicizzazione del voto milanese che non ha giovato al sindaco uscente. Adesso ha poche alternative: se tenta solo di sopravvivere navigando a vista non sopravviverà. Né sopravviverà il centrodestra. Egli deve, in accordo con Tremonti, fare ciò che è lecito aspettarsi da un governo di centrodestra: dare una vera sferzata pro-crescita all'economia, liberare gli ingessati «spiriti animali» del capitalismo italiano, venire incontro alle domande dei ceti medi indipendenti, affrontare, con misure straordinarie, il nodo e il blocco dell'economia meridionale. E deve inoltre decidersi a preparare seriamente e con cura la propria successione. Si ritiene, in genere, che una formazione politica non possa sopravvivere all'uscita di scena del capo carismatico che l'ha creata. È vero spesso ma non sempre. Spetta a Berlusconi operare perché la dissoluzione del centrodestra, altrimenti inevitabile, non si compia nel giro di pochi anni o pochi mesi. Poi ci sono i riflessi sul rapporto fra Pdl e Lega. Se le incertezze strategiche del Pd sono state spazzate via dai risultati del voto, quegli stessi risultati aprono una fase di incertezza strategica per Bossi. Difficilmente egli romperà l'alleanza con Berlusconi: dove potrebbe andare? Ma è certo che vorrà ricontrattarla. Berlusconi ha di fronte a sé poco tempo e moltissime cose da fare. Angelo Panebianco 18 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_maggio_18/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. Anatomia di un declino Inserito da: Admin - Maggio 28, 2011, 11:07:36 am UNA LEADERSHIP IN DIFFICOLTA'
Il commento Anatomia di un declino C'è una parte del suo tradizionale elettorato che non crede più in Berlusconi. Non è che si sia spostato a sinistra. Non lo ha fatto. Nemmeno si è spostato sulla Lega. Ha semplicemente smesso di votare Berlusconi. Perché? I guai giudiziari del premier ne hanno certamente logorato l'immagine ma non credo sia questa la ragione principale del distacco. Non si trovano spiegazioni plausibili se ci si limita a cercarle in superficie, nelle contrapposte propagande: «di qua la libertà, di là il comunismo» come dice la destra; «di qua la vera democrazia, di là la destra eversiva e populista» come replica la sinistra. Sono argomenti buoni per comizi e articoli di editorialisti-militanti un po' esagitati, e utili per soddisfare pubblici «propaganda-dipendenti». Ma non spiegano nulla. La vera ragione sta nel fatto che quella parte di elettorato che aveva votato Berlusconi contro la «società corporativa», sperando che egli la smantellasse (o, quanto meno, la indebolisse fortemente) ha constatato che ciò non è avvenuto e ora si è stancata, non crede più alle sue promesse. Sfruttando il vuoto di potere che si era creato nei primi anni Novanta e le nuove regole del gioco (maggioritarie) Berlusconi mise in piedi, fin dal suo ingresso in politica nel 1994, una coalizione sociale fortemente eterogenea (più eterogenea di quella della sinistra). Usò il linguaggio «liberale» dell'appello al mercato, della riduzione del peso della politica, della de-regolamentazione, per attirare a sé quella parte di elettorato, prevalentemente (ma non solo) del Nord, interessato alla competitività, alla riduzione del peso della politica nella vita associata, allo smantellamento dei mercati chiusi, protetti e iper-regolati da uno Stato inefficiente, costoso e sprecone. Ma, per vincere, Berlusconi dovette anche inglobare ampie porzioni di elettorato più interessato alla difesa dell'esistente che a radicali cambiamenti. I suoi successi, da allora in poi, sono dipesi dalla capacità di stare in equilibrio fra due mondi contrapposti, portatori di domande incompatibili. È stato un eccezionale esercizio di leadership tenere insieme per tanto tempo una coalizione siffatta. Ma non poteva durare in eterno. Non che non ci siano state anche cose buone (dal punto di vista della modernizzazione del Paese) fatte dai governi Berlusconi. Per esempio, se non fosse per la faziosità che acceca tanti professori, essi dovrebbero riconoscere che la riforma universitaria Gelmini, pur con i compromessi che sono stati necessari per vararla, è decisamente migliore delle pessime riforme fatte in passato dalla sinistra. Stante che il miglioramento del capitale umano è essenziale allo sviluppo, si capisce anche perché è meglio, in genere, che scuola e università siano in mano alla destra (sempre che essa sia capace, come è stato questo il caso, di scegliere un buon ministro) piuttosto che alla sinistra: a differenza della sinistra, la destra non è «ostaggio» delle corporazioni che dominano il settore dell'istruzione (capaci solo di protestare per i «tagli» mettendo la sordina sulle proprie inefficienze), è più libera di agire. È probabilmente la stessa ragione per cui Roberto Maroni, esponente di un partito privo di legami clientelari con il Sud, è risultato un ministro degli Interni più efficiente di altri nella lotta contro la criminalità organizzata. Ma ammesso che alcune cose buone sono state fatte (anche in altri campi, come quello del mercato del lavoro), resta che non sono state rimosse le fondamentali cause del declino. La società corporativa è ancora viva e vegeta, continuano ad esistere inespugnabili mercati protetti, fonti di tanti sprechi e inefficienze, i piccoli e medi produttori continuano a subire vessazioni burocratiche, il peso dell'intermediazione politica non è stato minimamente scalfito. Certo, c'è stata la crisi e nessuno può togliere a Giulio Tremonti il grandissimo merito di avere impedito all'Italia di fare la fine della Grecia. E, certo, la riduzione drastica delle tasse da sempre promessa da Berlusconi non poteva esserci con questi chiari di luna. Ma l'elettore che si sta staccando dal premier constata che molte altre cose potevano essere fatte e non lo sono state. Privatizzare e liberalizzare sarebbero state cose possibili in questi anni senza intaccare la giusta linea tremontiana del rigore. Oggi la società sarebbe molto più «libera» e le energie liberate sarebbero una preziosa e potente risorsa per rilanciare la crescita. Sfortunatamente una politica siffatta, stante l'eterogeneità della coalizione sociale del centrodestra, sarebbe venuta incontro alle domande di una parte dell'elettorato ma ne avrebbe anche antagonizzata un'altra parte. Quando il ministro Renato Brunetta (sul Foglio di ieri) espone un complesso progetto - che egli dice già approvato dal Pdl - teso a rimettere in moto lo sviluppo, è impossibile non domandarsi perché quelle cose non siano già state fatte da tempo (e non basta riferirsi alla scissione finiana per spiegarlo). Non è ormai un po' tardi per annunci e promesse? Gli antiberlusconiani per principio pensano che gli elettori delusi da Berlusconi avessero sbagliato a sceglierlo fin dall'inizio. Ma cos'altro avrebbero potuto fare? Rivolgersi alla sinistra? Ma quegli elettori sanno che la base sociale prevalente della sinistra è data dalle corporazioni del pubblico impiego, un mondo incompatibile con le loro aspirazioni. Per inciso, è in questa prospettiva che si comprende anche perché la Lega non riesca a sfondare nelle grandi città del Nord a spese del Pdl e anzi mostri segni di arretramento. La Lega esprime un attaccamento al ruolo della intermediazione politica altrettanto forte di quello della sinistra. Non può intercettare i delusi da Berlusconi. La verità è che se il problema italiano si riduce alla gestione della società corporativa allora la sinistra è più adatta allo scopo rispetto alla destra (alla destra berlusconiana per lo meno). Può farlo con più sapienza. Il premier si era presentato come l'uomo «del fare». Paga il prezzo di ciò che non ha fatto. Angelo Panebianco 28 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_maggio_28/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. Se tramonta il bipolarismo Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 10:47:11 am Se tramonta il bipolarismo
L'opinione generale secondo cui gli equilibri del sistema politico italiano stiano per cambiare radicalmente sembra fondata. L'incognita è se ciò avverrà nel giro di qualche mese oppure di un paio d'anni: quanti ne mancano alla conclusione naturale della legislatura. Gli equilibri della cosiddetta Seconda Repubblica si sono retti sulla presenza di Silvio Berlusconi. Il bipolarismo italiano era, ed è tuttora, un bipolarismo personalizzato, fondato sulla contrapposizione fra i sostenitori e i nemici di Berlusconi. Quando l'attuale premier uscirà di scena quegli equilibri salteranno. Ci sono due possibilità. La prima consiste nel passaggio dal bipolarismo personalizzato a un bipolarismo «impersonale» o istituzionalizzato: la contrapposizione non sarebbe più fra amici e nemici di Berlusconi ma fra una destra post berlusconiana e la sinistra. Naturalmente, emergerebbero, a destra come a sinistra, nuovi leader e entrambe le coalizioni dovrebbero rinnovare profondamente la propria «ragione sociale». Ma non ci sarebbe più «un uomo solo al comando»: alla leadership carismatica subentrerebbero leadership più oligarchiche, più collegiali. Non solo a sinistra, dove è sempre stato così, ma anche a destra. La seconda possibilità è la fine del bipolarismo: partiti che ottengono mandati in bianco alle elezioni, governi che si formano e si disfano in Parlamento senza alcun bisogno di chiedere il permesso agli elettori. Per alcuni questo sarebbe un ritorno ai veri e sani principi della democrazia parlamentare, per altri (compreso chi scrive) sarebbe invece la riproposizione di antichi riti trasformisti. Non credo che esista la terza possibilità auspicata in questi giorni da Giuliano Ferrara: un Berlusconi di colpo ringiovanito che riprenda con nuova verve le idee e i progetti del 1994, rivitalizzando così la propria leadership e la propria organizzazione politica. Il tempo è impietoso con tutti. Si tratta di vedere «come» Berlusconi deciderà di lasciare la scena politica. Lo farà preparando sul serio la successione oppure dovremo fra poco constatare che le mosse recenti, da Alfano segretario alle ventilate primarie, sono state fatte solo per guadagnare tempo? Se, come credo, l'alternativa che ci aspetta è fra un bipolarismo istituzionalizzato e il trasformismo parlamentare, allora Berlusconi preparerà davvero la propria successione salvando anche il Popolo della Libertà (senza il quale non è nemmeno concepibile il centrodestra) se, e solo se, lavorerà per consolidare il bipolarismo. Nei momenti di passaggio da un equilibrio all'altro, secondo tradizione, viene organizzata dalla politica una grande festa da ballo «a tema»: il tema è sempre la legge elettorale. Qualcuno ne parla già apertamente e altri no ma tutti coloro che fanno professionalmente politica sanno che la riforma della legge elettorale è tornata di attualità. Se guardiamo alle dinamiche in atto e alle forze in campo, dobbiamo concludere che l'esito più probabile sia un ritorno alla proporzionale: basta eliminare il premio di maggioranza e il gioco è fatto. Poiché ciò a cui guardano gli attori politici è il proprio interesse di brevissimo termine (la politica è un'attività molto incerta, non consente di ampliare troppo l'orizzonte temporale, di fare calcoli che vadano al di là del breve periodo), il ritorno alla proporzionale, in questo momento, sembra convenire a (quasi) tutti. Quella scelta spalancherebbe le porte al secondo scenario qui ipotizzato: la fine del bipolarismo, la rinascita del trasformismo parlamentare. Quella scelta avrebbe due controindicazioni. La prima riguarda il futuro della democrazia italiana. Per le ragioni dette, ciò può preoccupare più noi cittadini che i politici. Non esistendo più i forti e radicati partiti della Prima Repubblica, con la proporzionale si assisterebbe al trionfo di un notabilato politico impegnato a fare e disfare alleanze parlamentari: instabilità e ingovernabilità diventerebbero endemiche. La seconda controindicazione riguarda il Popolo della Libertà. La fine del bipolarismo e il ritorno alla proporzionale ne decreterebbero la dissoluzione. Si illudono coloro che in quel partito pensano che con la proporzionale potrebbero comunque godere di un bella rendita elettorale. Non esistono partiti per tutte le stagioni. Ricordate come finì la Dc di Mino Martinazzoli? Si illuse di poter sopravvivere al passaggio dalla proporzionale al maggioritario. Una volta effettuato il passaggio, il partito si dissolse. Il Pdl è nato con il bipolarismo e ne ha bisogno per continuare a esistere. Il suo interesse è che il sistema bipolare sopravviva. Per questo serve al Pdl una riforma elettorale maggioritaria, non proporzionale. In quella direzione dovrebbe muoversi Silvio Berlusconi se volesse davvero assicurare un futuro alla propria creatura politica. Poi, certo, ci sono i contenuti della politica. La legge elettorale può solo influenzare la conformazione del campo di gioco, dettare alcune regole della competizione, e decretare la sopravvivenza o la dissoluzione delle forze esistenti. Vincere le elezioni è tutta un'altra storia. Conterà cosa farà o non farà il governo nei due anni restanti e, forse ancor di più, conteranno i profili e le scelte dei leader che, a destra e a sinistra, emergeranno al tramonto dell'era berlusconiana. Angelo Panebianco 06 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_giugno_06/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. Dai Referendum una Lezione che Brucia Inserito da: Admin - Giugno 15, 2011, 06:50:00 pm IL CENTRODESTRA ALLO SPECCHIOIl
Dai Referendum una Lezione che Brucia Quelli che si sono svolti, come tante altre volte è accaduto nella nostra storia, erano referendum contro il governo (e, nel caso specifico, contro Berlusconi) e la sconfitta del governo è stata netta e bruciante. Come tutti gli osservatori hanno concordemente rilevato. Con l'aggravante che il centrodestra, non pago della lezione delle amministrative, ha continuato, anche in questa campagna referendaria, ad accumulare errori. Mentre le opposizioni facevano propaganda per il «sì» e mobilitavano il Paese, il governo non è stato neppure capace di tentare una contro-mobilitazione a favore del «no», in difesa di quelle che erano comunque le «sue» leggi. E le estemporanee dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che sarebbe stato meglio «non andare a votare» o le risibili parole d'ordine sulla «inutilità» dei referendum, hanno aggiunto, per la maggioranza e per il governo, danno al danno. È meglio perdere in modo aperto, in uno scontro frontale, o cercare di nascondersi in qualche angolo buio nell'illusione di schivare le conseguenze della sconfitta? È politicamente più grave perdere un referendum salvando almeno la faccia o perdere entrambi? Il centrodestra ha confermato, con i suoi comportamenti opportunisti, di essere un esercito allo sbando. È vero, naturalmente, che in questa vicenda l'opportunismo non ha riguardato solo il centrodestra. Anche il Pd di Bersani, sposando il doppio «sì» sulla questione dell'acqua, ha fatto il suo bravo salto della quaglia. Ma in politica contano i risultati: l'opportunismo di chi vince è oscurato dalla vittoria, quello di chi perde è messo in risalto dalla sconfitta. Se l'aspetto politico dei risultati della consultazione è chiaro, più complicato diventa valutare, nelle implicazioni e ramificazioni, le conseguenze per il Paese della vittoria dei «sì». Mi riferisco ai due soli quesiti che non avevano una valenza esclusivamente simbolica ma anche pratica: i quesiti sull'acqua. Non a quello sul legittimo impedimento, già svuotato dalla sentenza della Corte Costituzionale né a quello sul nucleare. A proposito del quale è meglio dirsi la verità: anche senza la tragedia giapponese l'Italia non sarebbe riuscita lo stesso ad entrare nel club nucleare. Quello era comunque un autobus definitivamente perduto tanto tempo fa: in un Paese dove non si riesce a fare la Tav o a mettere in funzione un termovalorizzatore, come sarebbe stato possibile localizzare da qualche parte una centrale nucleare senza scatenare feroci e invincibili resistenze locali? Nei due referendum sull'acqua, invece, all'inevitabile aspetto simbolico, si uniscono gli effetti pratici. Gli effetti pratici riguardano sia il caso dell'acqua (che la legge abrogata non privatizzava affatto), rendendo molto più difficoltoso reperire le risorse necessarie per rimediare alle attuali, paurose, inefficienze del sistema, sia quello di molti altri servizi pubblici. Continueranno a farla da padrone le società controllate dagli enti pubblici, che in Italia poi significa i partiti e i loro clienti. Diventerà ancora più difficile ottemperare alle direttive europee che impongono di introdurre il principio di concorrenzialità nei servizi pubblici. Qui si apre un grosso problema. Per uno dei vincitori, innanzitutto, e cioè il Pd di Bersani. E, naturalmente, per il centrodestra. Comprensibilmente, quando si vince si è contenti e basta ma il problema di Bersani, nei prossimi mesi, passata l'euforia, sarà quello di trovare un equilibrio che gli consenta di smarcarsi dalla trappola massimalista in cui, proprio sulla questione dell'acqua, lo hanno spinto Vendola e Di Pietro. Il suo problema sarà quello di recuperare un profilo riformista che, oltre tutto, è più coerente con la sua storia personale. È certo che il Paese ha bisogno di privatizzazioni e anche di capitali privati nei servizi pubblici. E che l'alternativa, ossia un accrescimento della già altissima pressione fiscale, non è una soluzione gestibile. Se vorrà costruire una piattaforma di governo in grado di intercettare quella quota di elettori necessaria per vincere le elezioni politiche (che, ricordo, sono tutt'altra cosa rispetto alle amministrative o ai referendum) dovrà spegnere molti dei bollori statalisti che abbiamo visto esplodere incontrollati in questa campagna referendaria. Dovrà dimostrare che Vendola si sbaglia quando dice che con questi referendum è stata sconfitta la «cultura delle privatizzazioni». Perché se avesse ragione Vendola, se quella fosse la conclusione da trarre dalla vittoria dei «sì», allora vorrebbe dire che a sbagliarsi è stato Mario Draghi quando, nel suo recente discorso di commiato in Bankitalia, ha sostenuto che questo Paese non è necessariamente condannato al declino economico. A condannarlo al declino sarebbe la cultura politica prevalente. Nell'esito dei referendum sull'acqua c'è anche, oltre che una sconfitta, una lezione per il centrodestra. Come ha scritto Franco Debenedetti (Il Sole 24 ore, 14 giugno), logoramento personale di Berlusconi a parte, la delusione degli elettori del centrodestra è dipesa dal divario fra le parole e i fatti. Le parole a favore della drastica riduzione dell'invadenza dello Stato sono rimaste tali. I fatti sono andati, con poche eccezioni (la legge sull'acqua era appunto una di queste), in un'altra direzione. Non si sa chi, all'incombente tramonto dell'era berlusconiana, erediterà il centrodestra. Chiunque sia, è certo che se vorrà avere chance di vittoria dovrà dimostrare a quegli elettori delusi di avere imparato la lezione, di essere capace di ridurre la distanza fra il dire e il fare. E dovrà anche dimostrare, come non ha fatto il centrodestra in questa campagna referendaria, di essere pronto a difendere con risolutezza le cose in cui dice di credere. Angelo Panebianco 15 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_giugno_15/ Titolo: Angelo PANEBIANCO. La coperta dello Stato padrone Inserito da: Admin - Giugno 26, 2011, 10:54:57 pm I PENTITI DEL LIBERALISMO
La coperta dello Stato padrone Come sempre accade nelle fasi in cui si attendono grandi cambiamenti, c'è tanta confusione nei commenti che si leggono sul caso italiano. Il probabile tramonto della leadership di Silvio Berlusconi si carica di eccessive speranze di palingenesi (fra gli antiberlusconiani) e di eccessivi timori di catastrofi (fra i berlusconiani) e in entrambi i casi ciò non aiuta la lucidità delle analisi. Ma, spesso, nemmeno i commenti dei più pacati, quelli che trovano (giustamente) ridicole le attese palingenetiche o catastrofiche, riescono a fare sufficiente chiarezza sulle cause che stanno dietro all'attuale erosione dei consensi per l'uomo che dal 1994 è al centro della politica italiana. Ovviamente, tutti concordano (chi potrebbe non concordare?) sul fatto che l'immagine di Berlusconi sia stata logorata dalle inchieste giudiziarie e dai connessi scandali. Ma nessuno, in realtà, si accontenta solo di questa spiegazione. Ed è qui che comincia la confusione. Perché del declino di Berlusconi, logoramento di immagine a parte, vengono poi date due interpretazioni fra loro contraddittorie (qualche volta persino dallo stesso commentatore). Dobbiamo spiegare quel declino come il frutto di un fondamentale «riallineamento» politico-culturale che investirebbe non solo l'Italia ma l'intero mondo occidentale, un effetto della fine della cosiddetta «era liberista», quella nella quale si chiedevano meno Stato, più mercato, più privatizzazioni, più libertà economiche individuali? In questa prospettiva, il tramonto di Berlusconi si legherebbe a un cambiamento permanente, innescato dalla crisi economica mondiale, degli orientamenti dell'opinione pubblica, oggi più interessata alla protezione degli individui da parte dello Stato (come dimostrerebbe anche la domanda «statalista» che si è affermata nei recenti referendum sull'acqua) che non all'ampliamento delle libertà economiche a scapito dello Stato. Oppure, il declino di Berlusconi è dovuto alle sue tante promesse non onorate, al fatto che egli aveva garantito meno Stato e più libertà e non è riuscito - non ha saputo o non ha voluto - dare un effettivo seguito alle promesse? Potrebbe essere vera la prima spiegazione (fine del ciclo liberista) oppure potrebbe essere vera la seconda (mancata realizzazione della promessa liberista) ma non possono esserlo entrambe. Chi tira in ballo la fine del ciclo liberista fa una mossa giusta (collega quanto accade in Italia a più generali cambiamenti internazionali), anche se poi ne trae conclusioni affrettate o azzardate. Non è mai possibile spiegare tendenze o mutamenti di fondo in un Paese senza connetterli a quanto accade altrove e noi italiani dovremmo saperlo bene: la democrazia bloccata della Prima Repubblica sarebbe inspiegabile senza la guerra fredda e Mani Pulite non ci sarebbe stata senza il crollo del Muro di Berlino. Secondo questa interpretazione, oggi sostenuta da molti neokeynesiani, la crisi mondiale avrebbe rilanciato la necessità di tornare a quelle forme di embedded liberalism (un liberalismo economico guidato e tutelato dallo Stato e accompagnato da un forte intervento statale di segno ridistributivo) che caratterizzarono il mondo occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale fino alle rivoluzioni reaganiana e thatcheriana. In queste condizioni, un tardo epigono (in versione italiana) del reaganismo come Berlusconi avrebbe fatto definitivamente il suo tempo. Ma i sostenitori di questa tesi dimenticano che dell'embedded liberalism del primo dopoguerra mancano oggi le condizioni politiche (la guerra fredda e l'indiscussa leadership americana che tenevano unito il blocco occidentale). Ovviamente, la crisi ha scatenato una domanda di Stato e di forte regolazione statuale dell'economia ma sarà ancora così quando la crisi verrà definitivamente superata? E che accadrebbe se un repubblicano, assertore di ricette economiche opposte a quelle dell'attuale presidente, tornasse a guidare gli Stati Uniti al posto di Obama? Quali ripercussioni ciò avrebbe sull'Europa? Prima di parlare di fine definitiva di un ciclo o di un'epoca bisognerebbe forse aspettare un po'. C'è comunque un grano di verità in questa interpretazione: la crisi economica ha certamente inciso potentemente, in Italia come altrove, sugli orientamenti del pubblico. Ma, ciò nonostante, la spiegazione che fa perno sulle promesse non mantenute di Berlusconi resta ancora, a mio giudizio, la più plausibile. Si noti il paradosso: da un lato, si parla di fine del ciclo liberista ma, dall'altro, quasi tutte le ricette che vengono proposte per affrontare il caso italiano vanno nella direzione opposta. Al governo Berlusconi non si imputa un eccesso di liberalizzazioni e privatizzazioni, si imputa (giustamente) il contrario. Chi parla di «riforme» per rilanciare la crescita - da Bankitalia a Confindustria, fino alla recente relazione del presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà - fa sempre riferimento alla necessità di accrescere la competitività, e di rompere o indebolire i tanti mercati protetti. Che non è certo un modo per ampliare il peso dello Stato. Poiché gli equilibri della politica italiana si reggono da quasi vent'anni su Berlusconi e la divisione cruciale è fra berlusconiani e antiberlusconiani, se il berlusconismo finisce ciò non può non determinare un radicale cambiamento del sistema politico. Ma questo fatto indiscutibile non va confuso con l'idea che della libertà «dallo Stato» non importi più nulla a nessuno. Detto in altri termini, è improbabile che gli elettori delusi da Berlusconi diventino in futuro sostenitori di Nichi Vendola o di Rosy Bindi. Il conflitto fondamentale, nelle democrazie occidentali, riguarda il ruolo dello Stato. Ci sono, naturalmente, molte posizioni intermedie ma il «tono» del conflitto è dato dagli argomenti e dalle azioni di coloro che occupano gli estremi opposti di un continuum: a un estremo stanno coloro per i quali lo Stato va inteso come l'unico dispensatore autorizzato della «felicità», il demiurgo che deve assicurare benessere e sviluppo; all'altro estremo stanno coloro per i quali il compito dello Stato, più limitato ma altrettanto impegnativo, è di garantire le condizioni che consentano alle libere scelte e alla libera iniziativa dei singoli di generare benessere e sviluppo. Questo conflitto è destinato a continuare. Anche in Italia. Angelo Panebianco 26 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - corriere.it/editoriali/11_giugno_26/panebianco_coperta_stato_padrone_41914626-9fc6-11e0-9ac0-9a48d7d7ce31.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. I tre ostacoli che attendono Alfano Inserito da: Admin - Luglio 10, 2011, 05:09:59 pm LE PROVE CHE ATTENDONO ALFANO
I tre ostacoli che attendono Alfano Dentro il Pdl e anche fuori La nomina di Angelino Alfano a segretario del Popolo della libertà può essere diversamente interpretata. A seconda di ciò che si pensa sul destino dei partiti personalistici o carismatici. Se si ritiene che quei partiti siano sempre condannati a seguire la parabola dei loro leader fondatori, talché al declino politico del leader debba necessariamente seguire la disgregazione del partito, allora quella nomina può essere liquidata come una operazione-maquillage, il disperato tentativo di un vecchio capo in difficoltà di gettare un po' di fumo negli occhi dell'opinione pubblica. Se invece si pensa che quei partiti possano, qualche volta, sopravvivere al declino dei fondatori, allora il giudizio sarà diverso: si potrà ipotizzare l'inizio di una nuova fase, immaginare che sia in atto un tentativo di scongiurare la disgregazione dell'organismo politico favorendo una successione morbida, non traumatica, della leadership. Come ha scritto giustamente Stefano Folli sul Sole 24 Ore di ieri, la storia ha, in genere, più fantasia di noi, è sempre in grado di sorprenderci. L'esito non è scontato, né in un senso né nell'altro. Alfano deve fronteggiare difficoltà di vario ordine: su alcune può esercitare un certo controllo (nel senso che la sua azione può avere conseguenze decisive), su altre no. Le difficoltà riguardano il rapporto con Berlusconi, il rapporto con i maggiorenti del partito, e, infine, il rapporto con le forze politiche esterne, alleati e potenziali alleati. La nomina di Alfano significa che Berlusconi ha finalmente capito che solo predisponendo le condizioni per la successione potrà forse salvare la propria creatura politica. Non era scontato che lo capisse. Va a merito della sua intelligenza politica. Si tratta di vedere se saprà anche accettare che Alfano si conquisti quella, sia pure parziale, autonomia che sola può dare autorevolezza e forza al suo nuovo ruolo. Più facile a dirsi che a farsi, naturalmente, ma è la principale sfida che il neosegretario ha di fronte: conquistare sul campo autonomia senza entrare in rotta di collisione con il leader-fondatore. La seconda difficoltà riguarda il rapporto con i maggiorenti del partito. Lo hanno applaudito e acclamato ma è ovvio, e anche del tutto naturale, che cerchino di condizionarlo. Quanto più ci riusciranno, tanto meno efficace sarà la sua azione. Qui il problema di Alfano è riuscire a imporre un armistizio, la fine di quella guerra di tutti contro tutti che esplose ben prima delle recenti sconfitte (nelle amministrative e nei referendum) ma che da quelle sconfitte è stata ulteriormente esasperata. Qualcuno potrebbe sostenere che Alfano otterrà una certa autonomia (da Berlusconi) e riuscirà anche a imporsi sui maggiorenti del partito solo se riconquisterà quegli elettori che se ne sono allontanati, solo se riuscirà a dimostrare che il rapporto fra il partito e il suo elettorato non è definitivamente compromesso. Ma, in realtà, su questo aspetto, Alfano può ben poco. Che gli elettori delusi ritornino oppure no non dipende da lui, dipende da ciò che farà il governo da ora alla fine della legislatura. Il terzo fronte riguarda il rapporto con le altre forze politiche. Alfano deve impedire che si allarghino le crepe nel rapporto con la Lega e, contemporaneamente, deve cercare il massimo possibile di convergenza con il cosiddetto terzo polo e, soprattutto, con il suo leader di maggiore peso, Pier Ferdinando Casini. Su questo terreno la maggiore insidia per lui è data dai movimenti in atto tesi a far saltare il bipolarismo. Coloro che identificano il bipolarismo con il berlusconismo pensano che al declino del secondo debba anche corrispondere la fine del primo. Ma il problema per Alfano è che se salta il bipolarismo salta anche il Pdl. Se non contrasterà le manovre volte a spazzare via l'assetto bipolare allora sì che darà ragione a chi lo vede come una specie di esecutore testamentario del partito. Difficilmente Alfano potrà quindi esimersi, nei prossimi mesi, dall'avanzare una seria proposta di riforma elettorale che sia volta a mettere in sicurezza il bipolarismo. Conciliare tale proposta con la ricerca di convergenze con i potenziali alleati sarà il (difficilissimo) compito che egli dovrà comunque assumersi. Non dimentichi il precedente gollista. Il partito gollista, un puro partito carismatico, sopravvisse all'uscita di scena del suo fondatore anche grazie alle caratteristiche delle istituzioni politiche della Quinta Repubblica. In Italia una grande riforma delle istituzioni è esclusa. Resta però la legge elettorale e sarà quello il terreno su cui il Pdl giocherà, almeno in parte, le sue future chances di sopravvivenza. Chi spera che il possibile declino di Berlusconi porti con sé anche la disgregazione del Pdl e, per conseguenza, dell'intero centrodestra, e buona notte al secchio, non è in possesso, diciamolo, di irreprensibili credenziali democratiche. Dal momento che alla democrazia italiana servono, e serviranno anche in futuro, sia un grande partito di sinistra che un grande partito di destra. Per questo, il difficile tentativo di Alfano va seguito con interesse. Angelo Panebianco 04 luglio 2011 11:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_04/alfano-panebianco_9979ad9c-a5fc-11e0-89e0-8d6a92cad76e.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ora la dieta per la grassa politica Inserito da: Admin - Luglio 14, 2011, 03:39:41 pm NIENTE SCONTI A CASTA E DINTORNI
Ora la dieta per la grassa politica È sempre stato un argomento capace di suscitare l'indignazione dei cittadini. Ormai, però, è diventato anche qualcosa d'altro: un vincolo economico, una palla al piede per il Paese, una fonte di spesa improduttiva che sottrae risorse alla crescita. È il tema dei costi della politica. Una parte di questi costi è documentata e documentabile. Gian Antonio Stella, sul Corriere di ieri, ha mostrato quanto pesino sulle tasche del contribuente italiano, fra indennità, rimborsi, eccetera, i parlamentari, i consiglieri regionali e gli altri rappresentanti eletti. E il confronto con gli assai più contenuti stipendi dei rappresentanti statunitensi è risultato davvero istruttivo. I costi documentati sono peraltro solo la punta dell'iceberg. I dati precisi non sono facilmente reperibili ma è certo che il numero di coloro che in Italia vivono «di politica» (la cui fonte di reddito, cioè, deriva, direttamente o indirettamente, dalla politica) è enormemente cresciuto negli ultimi venti anni: c'è chi pensa che sia addirittura quadruplicato o quintuplicato. Non è affatto solo una questione di auto blu e di stipendi di rappresentanti eletti (che sono le cose che maggiormente colpiscono il cittadino). C'è molto, molto di più. Là fuori c'è un vero e proprio esercito, con famiglie a carico, di quelli che potremmo definire «professionisti politici occulti», persone che campano grazie al fatto che la politica (i partiti) li ha piazzati - a livello nazionale, regionale, locale - in consigli di amministrazione, all'interno di società pubbliche, e ovunque essa potesse allungare le mani. Persone che sono in quei posti, per lo più, non per le loro competenze ma per i loro legami politici. Scommetto che nemmeno al ministero dell'Economia sono in possesso di dati precisi sui «costi reali» della politica in Italia. Ma è certo che se questi costi potessero essere seriamente ridotti, si darebbe un bel colpo alla spesa pubblica improduttiva, si libererebbero risorse diversamente impiegabili. Solo che ciò è molto più facile a dirsi che a farsi. Per diverse ragioni, alcune tecniche, altre istituzionali, altre politiche. Fra le ragioni tecniche c'è, prima di tutto, come si è già accennato, il fatto che nessuno sa davvero quantificare con precisione questi costi. Soprattutto a livello locale, essendo gli enti locali comprensibilmente restii a fornire dati così «politicamente sensibili». E poi c'è il problema dei diritti acquisiti: tagliare con l'accetta questi costi significa in molti casi toccare emolumenti cui tutte quelle persone pensano di avere ormai diritto. Un taglio drastico scatenerebbe probabilmente una valanga di ricorsi. C'è anche una ragione istituzionale. La parte forse più consistente degli alti costi della politica chiama in causa la responsabilità delle classi politiche regionali e locali. Un intervento del centro (governo e Parlamento) si scontrerebbe con la difesa della propria autonomia da parte di molte strutture periferiche. Si renderebbe allora necessaria una complessa contrattazione fra centro e periferia del cui esito positivo sarebbe lecito dubitare. Ci sono poi le difficoltà politiche. I costi della politica sono rimasti fin qui un tema tabù sia con i governi di destra che con quelli di sinistra. Per due motivi. Perché qualunque governo voglia incidere seriamente su quei costi deve essere disposto a fronteggiare rivolte all'interno dei partiti che lo sostengono e negli enti locali controllati da quei partiti. E perché cercare di incidere su quei costi significa spostare gruppi e clientele (e quindi anche voti) verso i partiti avversari. Occorrerebbe davvero un accordo bipartisan, anzi un vero e proprio patto di ferro fra i partiti nazionali, per affrontare sul serio la questione. C'è infine un'ultima ragione che dipende dagli orientamenti dell'opinione pubblica. Bisogna dire che i cittadini hanno, sulla questione dei costi della politica, atteggiamenti contraddittori. Diciamo che quella dei cittadini italiani è, per lo meno, una indignazione «selettiva». Nulla lo prova meglio dei risultati dei recenti referendum sull'acqua, grazie ai quali è stata abrogata una delle pochissime leggi che sottraeva alle grinfie dei partiti il controllo su «posti» e prebende: nel caso specifico, le nomine in società preposte ai servizi pubblici. La questione dei costi della politica, infatti, si intreccia strettamente con quella del ruolo del potere pubblico. Quei costi (stipendi dei rappresentanti a parte) non sono sostanzialmente riducibili senza un consistente dimagrimento dello Stato e degli enti pubblici locali, senza spostare, tramite privatizzazioni, verso il mercato compiti gestionali e prerogative oggi in mano al «pubblico» (ossia, ai partiti). Ma non sempre il cittadino che si indigna è anche disposto a trarre le dovute conseguenze, a consentire con politiche di riduzione del peso dello Stato (che contribuirebbero ad abbattere quei costi). A parole, siamo (quasi) tutti d'accordo: i costi della politica vanno drasticamente ridotti. Passare all'azione richiederebbe però maggiore consapevolezza dei problemi da affrontare. Angelo Panebianco Angelo Panebianco 14 luglio 2011 08:06© RIPRODUZIONE RISERVATA da - Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il vento forte dell'antipolitica Inserito da: Admin - Luglio 24, 2011, 09:57:01 pm TRA RAGIONI VERE E DEMAGOGIA
Il vento forte dell'antipolitica Siamo, come molti pensano, alla vigilia di una nuova esplosione di antipolitica nel Paese? Un segnale forte, per la verità, c'era già stato: la trionfale elezione di Luigi de Magistris a sindaco di Napoli. Anche se Napoli non è certo rappresentativa dell'Italia intera, è però indubbio che in quella occasione abbiamo visto l'antipolitica in azione: con la sua condanna sommaria e generalizzata del cosiddetto ceto politico, di maggioranza e di opposizione. Luciano Violante, sul Foglio di giovedì, ha ricordato che la nostra storia è contrassegnata da periodiche esplosioni di rivolta contro la classe politica. Con intervalli all'incirca ventennali, e pur nella diversità dei contesti e delle circostanze: il fascismo, la resistenza, il sessantotto, mani pulite. È la politica che, non riuscendo a rinnovarsi e a dare al Paese una salda guida e una direzione di marcia, commette periodicamente suicidio, suscita contro se stessa forze che la travolgono. Aggiungo però che queste cicliche esplosioni non si spiegherebbero senza la presenza di alcune pre-condizioni culturali, senza certe costanti che sono tipiche della nostra tradizione. La più importante delle quali è la favola che si tramanda dall'Ottocento: quella di una società civile pura e incorrotta contrapposta a una società politica sede di ogni turpitudine. Non importa che quella rappresentazione sia una puerile bugia. Importa che essa determini di necessità un grado perennemente basso di legittimità della politica, e delle stesse istituzioni politiche (e che lasci il passo, nei momenti di crisi, alla loro delegittimazione aperta). Importa che sia creduta da tanti e che si trovino sempre dei nuovi demagoghi disposti a sfruttarla per i loro scopi. Importa il fatto che essa funzioni come una sorta di profezia che (periodicamente) si auto-adempie. Sapevamo tutti che in un sistema politico i cui equilibri, da più di un quindicennio, si reggono sulla leadership di un uomo, Silvio Berlusconi, il declino politico di quell'uomo avrebbe prodotto una sorta di Big Bang. E ora abbiamo scoperto che anche la seconda gamba su cui si è retto il sistema politico, la leadership di Umberto Bossi, vacilla. Qualcuno vedrà forse all'opera una sorta di nemesi. In modi diversi, infatti, sia Berlusconi che Bossi sono emersi sull'onda di movimenti antipolitici che essi hanno però incanalato entro il sistema democratico. Il loro declino riapre tutti i giochi e crea varchi attraverso i quali l'antipolitica, non necessariamente di segno democratico, potrebbe di nuovo dilagare con grande impeto. Non sarebbe travolta solo l'attuale maggioranza ma, probabilmente, anche l'opposizione (che è anch'essa, come mostra la vicenda Penati, in gravi difficoltà). Però la storia non è mai scritta in anticipo. Non è vero che quell'esito sia ormai ineluttabile. Occorrono certe condizioni. Se le decisioni prese dall'Europa sulla Grecia funzioneranno, se l'Unione monetaria si salverà, se l'Italia non finirà nel baratro come abbiamo temuto nei giorni scorsi, ecco che almeno una delle condizioni che agevolano l'esplosione di movimenti antipolitici non si realizzerà. Ci sono poi i margini di azione di cui comunque i politici ancora dispongono: spetta a loro farne un uso sapiente. Ad esempio, serve ormai solo ad accrescere l'impopolarità della politica evitare di aggredire la questione dei suoi costi. Quanto meno dal punto di vista simbolico è cruciale trasmettere al Paese l'idea che ai sacrifici che si chiedono ai cittadini corrisponda una disponibilità della politica a ridurre i propri privilegi. Sapendo, naturalmente, che (proprio perché non esiste quella società civile pura e innocente dipinta dai demagoghi dell'antipolitica), colpire i costi della politica, in certe aree del Mezzogiorno ma non solo, può significare innescare forme di ribellismo, fare inferocire clientele che dalla politica dipendono. Anche questo attiene al folklore antipolitico: «onesti cittadini» che mordono la mano da cui prendevano il cibo non appena si accorgono che le razioni si assottigliano. E c'è poi il ruolo della presidenza della Repubblica: la sua importanza, ai fini della tenuta del sistema politico, cresce in rapporto direttamente proporzionale all'indebolimento del governo. Così va oggi interpretata l'azione del presidente Napolitano: dalla richiesta all'opposizione di non contrastare una rapida approvazione della manovra economica al fine di rassicurare i mercati internazionali, al fermo richiamo ai magistrati contro i protagonismi che fomentano lo scontro con la politica. Un richiamo assai opportuno se si considera che non le inchieste giudiziarie ma il modo in cui spesso vengono condotte contribuisce a risvegliare i più bassi istinti di una parte del pubblico, a diffondere sgradevoli richieste di giustizia sommaria. In barba alla presunzione di non colpevolezza. C'è un'altra cosa che forse servirebbe per disinnescare certe spinte: fare una buona riforma elettorale. I sentimenti antipolitici sono oggi alimentati anche dalla polemica contro il cosiddetto «Parlamento dei nominati», ossia contro le liste bloccate. Non è meglio tornare a un sistema maggioritario (con un turno o due turni) con collegi uninominali? Il partito di maggioranza relativa, il Pdl (che avrebbe tutto da perdere se saltasse il bipolarismo) potrebbe farne oggetto di trattativa con la Lega: appoggeremo la vostra proposta di Senato federale solo a condizione che voi appoggiate una riforma elettorale così concepita. Troverebbe per strada anche il sostegno di una parte del Partito democratico. L'anti-politica è la malattia infantile della democrazia e l'Italia, con la sua salute perennemente cagionevole, è assai portata alle ricadute. Ma c'è ancora qualche margine per lasciare i paladini dell'antipolitica a bocca asciutta. Angelo Panebianco 24 luglio 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_luglio_24/panebianco-antipolitica-demagogia_5faf8afe-b5c5-11e0-b43a-390fb6586130.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Governi tecnici tra mito e realtà Inserito da: Admin - Agosto 01, 2011, 05:31:37 pm IL DIBATTITO SULL'EMERGENZA
Governi tecnici tra mito e realtà Il copyright non è italiano ma è diventata ormai una specialità italiana. È la formula del «governo dei tecnici», sempre invocata nei momenti di difficoltà della democrazia parlamentare. Non è il semplice governo di minoranza, fondato sulla benevola astensione delle principali forze parlamentari, cui sovente fanno ricorso le democrazie. È qualcosa di più e di diverso. È il governo dei «competenti». Implica sfiducia nella democrazia rappresentativa. Il sottinteso è che i politici, i rappresentanti eletti, siano incompetenti, gente che sa fare solo disastri. Nell'ideale del governo dei tecnici si esprimono i sentimenti anti-politici delle élite. Se «mandiamoli tutti in galera» è lo slogan che meglio riassume i sentimenti anti-politici del popolo, «facciamo un governo dei tecnici» è il programma anti-politico delle élite. La formula, che già Benedetto Croce, ai suoi tempi, aveva criticato con asprezza, torna oggi di attualità. Non poteva essere diversamente, stante le nostre tradizioni e il grave stato di salute della maggioranza berlusconiana. Possiamo identificare due categorie di sostenitori del governo dei tecnici. La prima è composta da quelli che vorrebbero sbarazzarsi di Berlusconi e sono alla ricerca di una qualunque risorsa che serva allo scopo. È stravagante che spesso gli stessi che oggi accarezzano l'idea di un governo dei tecnici si presentino, in altre fasi, come i paladini della democrazia parlamentare nella forma prescritta dalla Costituzione: è infatti difficile immaginare qualcosa di meno compatibile con la democrazia parlamentare del governo dei tecnici. Ma la loro posizione è comprensibile: lo scopo è politico (abbattere Berlusconi), i mezzi si equivalgono. La seconda categoria è più interessante. È composta da coloro che pensano che oggi in Italia bisognerebbe fare certe cose e che i politici, proprio perché vincolati agli elettori da un rapporto di rappresentanza, non siano in grado di farle. Spesso si tratta di persone sinceramente preoccupate per il destino del Paese. Ritengono che l'Italia sia in una situazione di emergenza e che la democrazia rappresentativa non sia in grado di farvi fronte con i normali strumenti. Il governo dei tecnici è per costoro quella «breve vacanza» dalla, e della, politica, che può servire per rimettere le cose a posto. I «tecnici» hanno infatti questo vantaggio rispetto ai politici: non devono rendere conto agli elettori, non hanno il problema di essere rieletti, possono prendere decisioni in totale libertà. Il punto debole del ragionamento è che senza un accordo politico fra forze parlamentari, un tale governo non può essere insediato né, una volta insediato, può decidere alcunché. Si torna così alla casella di partenza: non importa il pedigree tecnico di chi governa, a metterci la faccia, a rischiare i voti, sono sempre le forze parlamentari. Si tratti, che so?, di patrimoniale, o di qualunque altra misura impopolare si voglia immaginare, non c'è verso di evitare che siano i politici a rischiarci sopra le carriere. Nelle situazioni di emergenza, ci dice l'esperienza storica, le democrazie ricorrono talvolta a soluzioni di emergenza. Questo sarebbe il nostro caso solo se l'Italia precipitasse in una crisi di tipo greco. Ma solo i più pessimisti tra gli esperti prevedono un esito simile. È possibile, e forse anche probabile, che questo governo non riesca a completare la legislatura. Ma in tal caso, c'è da scommettere, sarà ancora una normale soluzione politica quella che si troverà in Parlamento o nelle urne. Angelo Panebianco 01 agosto 2011 11:55© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_01/panebianco-governi-mito-realta_79bbdd64-bbfe-11e0-9ecf-692ab361efb9.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Venti di mercato, bruschi risvegli Inserito da: Admin - Agosto 14, 2011, 11:03:08 am IL FERRAGOSTO NERO DELLA POLITICA
Venti di mercato, bruschi risvegli Se la guardiamo dal lato della politica, la crisi in cui siamo oggi immersi è una manifestazione virulenta di un problema tutt'altro che nuovo: il divario, tipico della vita internazionale, fra interdipendenza e controllo, fra l'universalismo dei mercati e il particolarismo della politica. In altre parole: i mercati sono internazionali e i governi sono nazionali. C'è sempre stata molta più interdipendenza economica di quanta il comando politico (frammentato, suddiviso fra un gran numero di governi) ne potesse controllare. Va ricordato, soprattutto in tempi di crisi, che questa è sempre stata una fortuna: senza quel divario non sarebbe mai potuta nascere la società aperta occidentale, e un rapace (e forse anche feroce) comando politico unificato controllerebbe le nostre vite. Quel divario genera però continui squilibri e periodiche crisi, alcune anche gravissime. In età contemporanea, è reso ancor più accentuato da due fenomeni: le ulteriori massicce dosi di interdipendenza economico-finanziaria e il fatto che il comando politico non sia solo frammentato (come è sempre stato in età moderna) ma anche condizionato, in Occidente almeno, dai vincoli imposti dalle regole democratiche. Questo significa che le risposte politiche alle crisi devono fare i conti con due problemi contemporaneamente: le naturali difficoltà di coordinamento fra una pluralità di governi e il fatto che ciascun governo subisce potentemente il condizionamento del suo elettorato. Una combinazione esplosiva, per giunta aggravata oggi da un drammatico ridimensionamento della leadership americana che esaspera le difficoltà di coordinamento fra i governi. È bene non perdere mai di vista questo complesso quadro generale anche quando si discute sulle misure adottate ieri in Italia. Perché l'amara verità è che se anche fossero giuste le soluzioni scelte, i sacrifici comunque imposti ai cittadini possono sempre essere vanificati, almeno nel breve termine, da errori politici commessi da altri governi (americano, tedesco, eccetera). Nessuno, e tanto meno l'Italia, è il solo padrone del proprio destino. In questo quadro di incertezza, l'unica cosa certa è che, almeno nel medio termine, le scelte che lasceranno maggiormente il segno, che potrebbero davvero avvantaggiarci, sono quelle tese a rimettere in moto la crescita: flessibilità del lavoro, liberalizzazioni, privatizzazioni. Se non verranno annacquate o abbandonate in corso d'opera, a causa della resistenza degli interessi colpiti, potrebbero dare una frustata salutare, fare cambiare ritmo a un Paese assuefatto da anni a condizioni di bassa crescita. Osservo che alle misure previste dovrebbero essere aggiunte sia riforme tese a ridurre i tempi della giustizia civile (una vera e propria palla al piede per lo sviluppo come ha ricordato qualche mese fa Mario Draghi) sia interventi (ma è la cosa, in assoluto, più difficile di tutte) volti alla drastica semplificazione delle procedure adottate dalle amministrazioni pubbliche a ogni livello: oggi i vincoli burocratici in ogni ambito ingessano e soffocano il Paese. Qui entra però in gioco la questione della democrazia: in primo luogo, i partiti che temono contraccolpi elettorali (si veda la posizione di Umberto Bossi sulle pensioni) tendono naturalmente a opporsi a misure vantaggiose per il Paese nel medio termine ma dannose per il partito nel breve. In secondo luogo, gli interessi lesi dalle misure predisposte dispongono di numerosi mezzi legali per bloccarle o distorcerle. E questo è tanto più vero in un Paese come il nostro, dove l'assetto istituzionale garantisce la permanente debolezza dell'Esecutivo e la presenza di innumerevoli canali e poteri di veto. Quei costituzionalisti che difendono il nostro assetto istituzionale così com'è dovrebbero riflettere sul fatto che l'unica ragione per cui la Francia ha fin qui mantenuto la tripla A, non è stata ancora declassata, è dovuta esclusivamente al suo particolare sistema costituzionale: un Presidente istituzionalmente fortissimo, un Parlamento debole, un numero assai ridotto di poteri di veto. Tutte cose che farebbero strillare tanti contro l'avvento di un «regime autoritario» se venissero proposte in Italia. Il vincolo esterno, il cosiddetto commissariamento imposto dalla Banca centrale europea, può essere una opportunità per il Paese e anche un asset che Berlusconi può personalmente giocarsi. È sempre stato difficile capire, in tutti questi anni, per quali ragioni Berlusconi avesse sostanzialmente rinunciato a imporre alla sua compagine governativa e alla maggioranza di impegnarsi in politiche «liberali» pro-crescita, perché avesse rinunciato a dare ossigeno alla libera iniziativa riducendo, tramite privatizzazioni e liberalizzazioni, il peso dello Stato nella economia e nella società. La sua è stata una scelta che gli ha forse consentito di durare, di galleggiare, di tenere insieme una maggioranza eterogenea, ma, alla fine, ne ha anche logorato il rapporto con gli elettori, quelli che lo avevano votato proprio perché si aspettavano da lui cose che non ha fatto. Questa è l'ultima occasione che gli si presenta per realizzare ciò che in un tempo lontano aveva promesso. Angelo Panebianco 13 agosto 2011 08:57© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_13/panebianco_brutti_risvegli_cc7df5fc-c575-11e0-88c8-3552ba0345da.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi dimentica l'emergenza Inserito da: Admin - Agosto 28, 2011, 05:11:45 pm CAMPAGNA ELETTORALE IMPROPRIA
Chi dimentica l'emergenza Due settimane fa eravamo sull'orlo dell'abisso. La drammaticità della situazione spinse il governo a varare una manovra «lacrime e sangue» tesa a rassicurare i mercati. In cambio, la Banca centrale europea accettò di trattenerci per i capelli investendo enormi cifre nell'acquisto dei nostri titoli pubblici. Sono passate solo due settimane e il senso dell'emergenza e dell'estrema fragilità della nostra situazione sembra svanito dall'orizzonte dei politici. A leggere le cronache e ad ascoltare ciò che dicono i politici che contano sembra che si sia trattato solo di un brutto scherzo. Le pensioni non si toccano e anche i tagli ai Comuni andranno, pare, in cavalleria. Come pure, a quanto sembra, la privatizzazione dei servizi pubblici locali (sempre per il veto della Lega). E si ha anche l'impressione che tutti o quasi gli interessi che si sono mobilitati in queste due settimane per evitare di essere colpiti otterranno in Parlamento una qualche soddisfazione o compensazione. Con queste premesse, la manovra potrebbe alla fine risolversi, quasi esclusivamente, in un aggravio di tasse. Si dice che la scelta della Cgil di proclamare uno sciopero generale sia irresponsabile ed è vero. Ma non è meno irresponsabile una maggioranza che, fingendo che l'emergenza sia ormai alle nostre spalle, sceglie la linea del galleggiamento, del tirare a campare. Come se non fossimo sotto osservazione permanente, come se non avessimo la gola scoperta, pronta per essere azzannata se le misure che il Parlamento varerà non saranno tali da convincere i mercati che questa volta facciamo sul serio, siamo davvero impegnati in un'opera di risanamento. Per la verità, la sensazione di non fare troppo sul serio l'avevano già data il giorno stesso in cui venne varata la manovra. La scelta di non blindarla con un voto di fiducia, lasciando al Parlamento l'eventuale compito di «migliorarla», non preannunciava nulla di buono. Poiché la regola generale è che i Parlamenti normalmente peggiorano, e non migliorano, i provvedimenti sottoposti loro dai governi. Soprattutto, quando si tratta di provvedimenti complessi sui quali i singoli deputati e senatori hanno, legittimamente, idee diverse, e che attivano la reazione di tutti gli interessi colpiti, grandi o piccoli che siano. Né basta dire, come ha fatto Berlusconi (e lo ribadisce un comunicato di Palazzo Chigi che annuncia l'incontro di domani fra il premier e Bossi), che l'importante è che le cifre complessive della manovra restino invariate. La qualità è altrettanto importante della quantità. I numeri potrebbero non cambiare ma il provvedimento potrebbe ugualmente peggiorare o migliorare. A seconda della natura dei correttivi introdotti. È possibile immaginare, a cifre complessive invariate, ad esempio, una manovra tutta giocata su nuove tasse, con probabili effetti depressivi per l'economia o, all'opposto, più spostata sul fronte dei tagli, delle privatizzazioni e delle dismissioni, e quindi, almeno potenzialmente, generatrice di crescita. Il difetto più grave del provvedimento così come era stato concepito dal governo (Francesco Giavazzi, Corriere , 15 agosto) consisteva nella debolezza e nella timidezza degli stimoli allo sviluppo. Compito dell'esecutivo, in questi giorni, dovrebbe essere quindi quello di guidare il Parlamento verso una revisione, davvero capace di rassicurare i mercati, in direzione pro-crescita. A giudicare da ciò che il dibattito politico ha fin qui prodotto è lecito essere scettici sull'esito finale. Angelo Panebianco 28 agosto 2011 10:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_agosto_28/chi-dimentica-l-emergenza-angelo-panebianco_fd7fa2c6-d147-11e0-b62d-1ebafd8b4f13.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Due letture per una crisi Inserito da: Admin - Settembre 09, 2011, 06:00:41 pm IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E TREMONTI
Due letture per una crisi Tutti noi italiani, compresi quelli che danno l’impressione di volere il contrario, abbiamo un vitale interesse a che la manovra finanziaria ora all’esame delle Camere sia tale da rassicurare i mercati. Sperando che alla fine il provvedimento licenziato dal Parlamento risulti credibile, si tratterà anche di capire se il caos a cui la politica italiana ha dato vita nelle ultime settimane, e che ha sconcertato i tanti che ci scrutano e che ci giudicano, potrà essere messo da parte e dimenticato. Ma che cosa è davvero successo in queste settimane? Possiamo leggere il suddetto caos in due modi. Se ci limitiamo a guardare la superficie, ciò che vediamo è un groviglio di campagne elettorali incrociate. Intorno alla manovra si è scatenata una danza macabra in cui vari esponenti del governo e della maggioranza hanno cercato di «posizionarsi » nel miglior modo possibile pensando al dopo Berlusconi (e qualcuno anche al dopo Bossi): i veti e i contro-veti, e i continui cambiamenti del provvedimento a cui abbiamo fin qui assistito sembravano rispondere, in tutto o in parte, a questa logica. Qualcuno dirà: è la politica, bellezza. Ma no: è la miopia politica, è quella particolare forma di stupidità a cui vanno soggetti i troppo furbi. Se la reazione dei mercati sarà violenta, non verrà spazzato via solo Berlusconi, verranno travolti anche tutti coloro che hanno fatto in queste settimane i loro giochi personali. Ma è possibile anche un’altra lettura, non necessariamente in conflitto con la prima, ma che scava più in profondità e che riguarda il vero vizio d’origine di questo governo. Esso consiste nella incapacità dimostrata da Berlusconi, in questa esperienza di governo, come, del resto, nella precedente (quella del 2001/2006), di imporre una propria egemonia, culturale prima ancora che politica, sulla compagine governativa nel suo complesso e, di riflesso, sulla maggioranza. Per capirlo consideriamo due aspetti della manovra: il cosiddetto «contributo di solidarietà», oggi parzialmente ridimensionato, e la prima versione della nuova «caccia all’evasore» con incorporato invito alla delazione generalizzata. Non considero qui la sostanza di tali provvedimenti: ad esempio, per quanto riguarda le misure anti- evasione nella formulazione originaria, sulla loro inefficacia da un lato e sulla loro illiberalità dall’altro, hanno ben scritto, rispettivamente, Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole 24 Ore e Antonio Polito e Piero Ostellino su questo giornale. Ma qui ci interessa un’altra circostanza: cosa c’entrano quelle cose con Berlusconi, con ciò che lui è, e con l’elettorato che lo ha fin qui seguito? La risposta è facile: nulla, assolutamente nulla. Eppure, è stato proprio il governo Berlusconi a proporle. Come spiegare questo mistero? Credo si spieghi così: Berlusconi ha sottovalutato, fin dall’inizio della sua esperienza, il fatto che avrebbe dovuto costruire «anticorpi» in grado di assicurargli una autentica egemonia sul governo a dispetto della grande eterogeneità politica che caratterizzava e caratterizza sia l’esecutivo che la maggioranza. Facciamo l’esempio più importante: il rapporto fra Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Si dice (ma nessuno è in grado di distinguere fra pettegolezzo e realtà) che fra i due sia ormai venuta meno la fiducia anche sul piano personale. Ma il vero mistero è come mai ciò non sia avvenuto già molto tempo fa. Oggi è diventato facile prendersela con Tremonti. Non è più forte come era un tempo e anche quelli che, per convenienza, fingevano di rispettarlo, ora cercano di colpirlo. Ma non va dimenticato che senza la sua durezza e il suo piglio saremmo già stati travolti nel 2008. Nella sua azione c’erano sì dei limiti, ma quei limiti non possono oscurarne i meriti. Il punto qui in discussione è però un altro. Riguarda il fatto che Berlusconi abbia appaltato fin dall’inizio a un intellettuale-politico di spessore, ma le cui idee di fondo non coincidevano affatto con le sue, la politica economica del governo. Eppure, fin dai tempi della campagna elettorale del 2008, era facile individuare le loro potenziali divergenze. Bastava aver letto La paura e la speranza, il libro che Tremonti pubblicò prima delle elezioni o avere ascoltato i suoi discorsi. Bastava considerare le sue posizioni su globalizzazione, fiscalità e ruolo dello Stato, o la sua polemica contro il «mercatismo», per capire che quelle tesi avevano ben poco a che fare con Berlusconi. Ma Berlusconi non se ne curò. Anziché fare del ministro dell’Economia, come di solito avviene, un proprio collaboratore in materia economica, egli accettò che Tremonti ne diventasse il dominus. La convenienza, certo, stava nel fatto che Tremonti, in questo modo, garantiva anche la fedeltà della Lega alla coalizione. Ma ogni scelta ha un prezzo. E il prezzo, per Berlusconi, è stato assai elevato: una politica economica interamente guidata, nel bene o nel male, da un altro, con il quale, per giunta, egli non poteva essere in vera sintonia. Berlusconi non si è neppure preoccupato di mettere in piedi a Palazzo Chigi una propria squadra di tecnici autorevoli che rispondesse soltanto a lui, e che, per lo meno, lo aiutasse a contrattare con Tremonti i contenuti dei provvedimenti. Arrivati al dunque, alla necessità di varare una manovra d’emergenza, Berlusconi si è ritrovato nell’impossibilità di prendere in mano la situazione, scavalcando o mettendo da parte i vari ministri, di impedire che la manovra prendesse strade a lui sgradite, e di assicurarne, pur in presenza della necessità di negoziare con i partner della coalizione, una certa coerenza. È stato il suo più grande limite. Ma questo limite, evidenziato dalle vicende di queste settimane, è a sua volta l’effetto finale di una catena di errori. Il fatto che solo in extremis, sfruttando le pressioni della Banca centrale europea e le sollecitazioni del presidente della Repubblica, Berlusconi sia riuscito a recuperare un certo personale controllo sulla manovra, non cancella il problema di fondo. C’è da sperare che ora non ne paghi il conto il Paese. Angelo Panebianco 09 settembre 2011 07:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_09/panebianco-due-letture-per-una-crisi_3d90c0ea-daa1-11e0-9c9b-7f60b377ee16.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un’altra legge elettorale Inserito da: Admin - Settembre 20, 2011, 05:24:35 pm IL REFERENDUM, IL PD E IL PDL
Un’altra legge elettorale La crisi, che è politica e finanziaria insieme, ci schiaccia sul presente, ci impedisce di ampliare il nostro orizzonte temporale. Ma, quale che sia la sorte a breve termine del governo Berlusconi, l’Italia ci sarà anche domani e con essa resteranno i suoi problemi. Pensare al futuro è necessario. Comunque la si giudichi, è rivolta al futuro l’iniziativa referendaria in corso tesa all’abrogazione della attuale legge elettorale. Imposta da Arturo Parisi a un Partito democratico che, nella sua dirigenza, era inizialmente contrario (e molti, nel Pd, lo sono tuttora), si propone di ripristinare quel sistema prevalentemente maggioritario con il quale abbiamo votato in tre elezioni consecutive: 1994, 1996, 2001. Non è un sistema perfetto (a causa della presenza di una quota proporzionale), ma è sicuramente migliore di quello oggi in vigore. L’iniziativa sta avendo un notevole successo ed è probabile che le cinquecentomila firme necessarie vengano raccolte. Al momento, fatta eccezione per alcuni sostenitori storici del maggioritario, primo fra tutti Mario Segni, si è mobilitata soltanto la sinistra. Il centrodestra è assente. Come mai? Come mai sono altrove gli esponenti del Pdl? Non è forse vero che l’iniziativa in corso punta a ripristinare quel sistema elettorale maggioritario, con collegi uninominali, grazie al quale Forza Italia (di cui il Pdl è l’erede) poté costituirsi e poi vincere due elezioni nazionali? Quando Angelino Alfano venne scelto da Berlusconi come segretario del Pdl scrissi (Corriere del 4 luglio) che, a mio parere, proprio sul tema della legge elettorale egli avrebbe dovuto giocare le sue carte più importanti. Perché al Pdl, tanto più ora che è sul punto di fronteggiare una crisi di successione, serve, per garantirsi la sopravvivenza, che il bipolarismo venga messo in sicurezza. E solo una legge maggioritaria può farlo. Perché dunque il Pdl è fermo, perché non ha colto l’occasione del referendum Parisi per battere un colpo, per fare una sua proposta di riforma maggioritaria? Nessuno, nel centrodestra, ha ancora l’ardire di difendere l’attuale legge elettorale. È difficile trovare buoni argomenti per difenderla. È soprattutto impossibile sostenere che il meccanismo delle liste bloccate abbia incontrato il favore dell’opinione pubblica o contribuito a rinsaldare il rapporto fra rappresentati e rappresentanti. Tutti sanno che lo status quo non potrà reggere ancora a lungo. Ci sono allora due sole possibilità: o un ritorno alla proporzionale, comunque camuffata (ci sono molti modi per camuffarla), o una nuova legge autenticamente maggioritaria. Nel primo caso, il Pdl andrebbe incontro a sicura disgregazione. Nel secondo caso, avrebbe maggiori chance di superare la crisi di successione, potrebbe continuare a essere la «casa comune» dei moderati italiani anche dopo l’uscita di scena di Berlusconi. Viene da pensare che il gruppo dirigente del Pdl si sia già rassegnato alla disgregazione, che, in particolare, sia pronto a concedere all’Udc di Casini—un partito coerentemente (e legittimamente) proporzionalista — il ritorno alla proporzionale, in cambio di una qualche forma di appoggio politico nell’ultima fase della legislatura. Sarebbe una scelta legittima. Ma si deve sapere che, in tal caso, alle prossime elezioni tanti partitini rissosi si contenderebbero le spoglie di quello che fu il grande partito del centrodestra. Forse — chissà? — a singoli esponenti del Pdl ciò potrebbe convenire. All’Italia sicuramente no. Angelo Panebianco 20 settembre 2011 10:33© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_20/panebianco-un-altra-legge-elettorale_21e74380-e345-11e0-91c7-497ab41fbb63.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una questione sotto traccia Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:56:19 am POLITICA E RUOLO DEI GIUDICI
Una questione sotto traccia Se Berlusconi, prendendo atto che il suo ciclo si è esaurito, che la sua posizione è ormai diventata insostenibile anche per l'immagine internazionale del Paese, lasciasse la guida del governo (ma senza favorire ribaltoni, i quali fanno male alla democrazia) si aprirebbe una possibilità: si potrebbe ricominciare a discutere - non dico serenamente ma, almeno, seriamente - del ruolo della magistratura in questo Paese. Al momento, con Berlusconi premier, ciò non si può fare: gli animi sono troppo incattiviti, le passioni troppo viscerali, le partigianerie troppo smaccate e cieche. Solo se Berlusconi lascia, si potrà forse ricominciare a discutere nel merito di cose come l'uso politico delle intercettazioni e la fine che hanno fatto, grazie al famoso circo mediatico-giudiziario, la tutela della privacy , la presunzione di non colpevolezza, eccetera eccetera. Chi pensa che, andato via Berlusconi, il rapporto fra la politica e la magistratura tornerà facilmente, e spontaneamente, alla normalità, simile a quello che si dà nelle altre democrazie occidentali, non conosce l'evoluzione di quei rapporti. Quando gli storici del futuro indagheranno sull'argomento sceglieranno probabilmente come data emblematica dell'inizio del «grande scontro» fra magistratura e classe politica, il 3 dicembre del 1985: l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga inviò al Consiglio superiore della magistratura una lettera in cui vietava al Consiglio stesso di mettere ai voti una censura nei confronti del presidente del Consiglio Bettino Craxi. Cossiga, Costituzione alla mano, negò che il Csm fosse dotato di un tale potere di censura. I settori più militanti della magistratura, spalleggiati dall'allora partito comunista, se la legarono al dito. Alcuni anni dopo, Cossiga diventò oggetto di un attacco concentrico della magistratura militante e del partito comunista. Come mai al Csm era passato per la testa di avere il potere di censurare un primo ministro? Perché negli anni precedenti, per varie ragioni (alcune leggi che avevano notevolmente rafforzato sia il ruolo del Csm sia i poteri delle Procure, il prestigio accumulato dalla magistratura durante la lotta al terrorismo), la magistratura, intesa come «corpo», si era notevolmente irrobustita. Al punto che i suoi settori più politicizzati ritenevano di essere ormai così forti da poter andare allo scontro aperto con la politica. L'occasione arrivò, grazie alla fine della guerra fredda, con le inchieste sulla corruzione, con Mani Pulite. La corruzione c'era ed era tanta (ma era «di sistema» e per questo avrebbe richiesto una soluzione politica, non penale: lo scrissi allora e non ho mai cambiato idea). Demolendo (ma selettivamente: il Pci si salvò) la vecchia classe politica, la magistratura inquirente aprì quel vuoto di potere da cui sarebbe nata la cosiddetta Seconda Repubblica. Il resto è semplicemente la storia d'Italia dal 1994 (anno dell'ingresso in politica di Berlusconi, nonché dell'avviso di garanzia, rivelato da uno scoop del Corriere , che lo raggiunse a Napoli nel mezzo di una conferenza internazionale) ad oggi. Poiché la presunzione di non colpevolezza dovrebbe valere per chiunque (anche, guarda un po', per Berlusconi) vedremo in futuro cosa diranno le sentenze (se sentenze ci saranno) in relazione alle inchieste più recenti. Ma il punto politico è che, solo se Berlusconi se ne va, le tante anomalie del rapporto fra magistratura e politica, il grave squilibrio che si è ormai da molto tempo determinato fra democrazia rappresentativa e potere giudiziario, potranno essere discussi senza che tutto venga subito ricondotto al conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani. Gli amici di Berlusconi ribatteranno: ma in questo modo la si darà vinta proprio ai quei settori della magistratura che dell'attacco al potere politico-rappresentativo hanno fatto la ragione stessa del proprio agire giudiziario. Non credo. La magistratura oggi non dispone più del prestigio di cui godeva all'epoca di Mani Pulite. La sua reputazione, stando ai sondaggi, non è cattiva come quella della classe politica ma ci va ormai molto vicino. Persino il più ottuso dei cittadini capisce che centomila intercettazioni per una inchiesta sono cose da pazzi (e il Csm zitto), persino il più fiducioso rimane disorientato vedendo Procure che si sbranano e inchieste che rimbalzano come palline da ping pong fra Napoli, Roma e Bari. La magistratura è ormai altrettanto logorata della classe politica. I magistrati dotati di più buon senso lo capiscono benissimo. Per questo non dovrebbe essere molto lontano il momento in cui diventerà possibile ristabilire alcune regole (per esempio, quella che vieta di intercettare, anche in modo indiretto, chi occupa cariche istituzionali) da tempo saltate. Serve alla magistratura, serve alla classe politica. E serve al Paese che, tra l'altro, ha il non piccolo problema di convincere gli investitori a fidarsi di nuovo di gente come noi. Angelo Panebianco 28 settembre 2011 07:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_settembre_28/panebianco-questione-sotto-traccia_0d89cb72-e991-11e0-ac11-802520ded4a5.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La soluzione del doppio voto Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2011, 06:08:44 pm QUALE LEGGE ELETTORALE
La soluzione del doppio voto Il successo della raccolta delle firme per il referendum abrogativo ha riaperto i giochi intorno alla legge elettorale. Nessuna decisione, naturalmente, verrà presa prima del gennaio prossimo, prima della sentenza della Corte costituzionale sull'ammissibilità del referendum. Se la sentenza sarà a favore dell'ammissibilità resteranno alla classe politica poche settimane per decidere il da farsi: andare al referendum, chiedere al presidente della Repubblica le elezioni anticipate o varare una nuova legge elettorale. Anche se la decisione, quale che sia, maturerà solo allora, conviene discuterne fin da adesso. Perché i termini del problema siano chiari a tutti. Sappiamo che al governo non conviene il referendum: l'insofferenza per l'attuale sistema elettorale è talmente diffusa nel Paese che la vittoria del «sì» sarebbe molto probabile. E sarebbe un'altra sberla (forse definitiva) per il governo e la maggioranza, arroccati nella difesa dell'indifendibile. Dunque, la vera scelta sarà fra elezioni anticipate (ammesso che il presidente della Repubblica le conceda) e una nuova legge elettorale. Poniamo che, ritenendo probabile una sconfitta, la maggioranza scarti l'opzione delle elezioni anticipate. Verso quale legge elettorale dovrebbe allora orientarsi? Il segretario del Pdl Alfano ha tentato, proprio sulla riforma elettorale, ma fin qui senza successo, di «agganciare» l'Udc di Casini. Anche in vista di una alleanza politica che il Pdl giudica vitale per le proprie sorti future. Solo che arrivare a un accordo fra Pdl e Udc è come quadrare il cerchio. Il Pdl deve salvare il bipolarismo, l'Udc deve farlo saltare. Come superare l'ostacolo? È sufficiente reintrodurre le preferenze? No, non scongiurerebbe il referendum e inoltre (come ha osservato Roberto D'Alimonte, Il Sole 24 Ore del 4 ottobre) non soddisferebbe Casini che ha bisogno, per mettere in soffitta il bipolarismo, di eliminare il premio di maggioranza. Men che mai ha senso proporre il «sistema spagnolo» (proporzionale con collegi piccoli che penalizzano le forze intermedie) perché anche questa soluzione è inaccettabile per Casini (e per la Lega). Come uscirne? Consiglierei ad Alfano e a Casini di leggere con attenzione la proposta di legge presentata il 30 luglio del 2010 dal senatore Stefano Ceccanti (del Pd). Ho avuto già occasione di parlarne ai lettori del Corriere (il 12 ottobre del 2010). Quella proposta prefigura una variante del sistema elettorale australiano: è un sistema maggioritario, con collegi uninominali, e si vota in un solo turno. Come in Gran Bretagna. Ma c'è una decisiva differenza: l'elettore ha a sua disposizione due voti, una prima scelta e una seconda scelta. In altri termini l'elettore, dopo avere votato per il candidato del partito con cui si identifica, può spendere un secondo voto per il candidato di un altro partito. Combina aspetti del maggioritario a un turno (britannico) e del doppio turno (francese). Salvaguarda il bipolarismo perché incentiva le alleanze prima del voto: solo se il partito A si allea col partito B può sperare di ottenere, sommandole, le prime scelte dei propri elettori e le seconde scelte (di una parte almeno) degli elettori del partito B. Al tempo stesso, proprio come nel sistema francese, è un meccanismo che non penalizza i partiti di medie dimensioni. Non li stritola come invece tende a fare il sistema britannico. Possiamo chiamarlo maggioritario con doppio voto. Per convergere su tale proposta sia il Pdl che l'Udc dovrebbero rinunciare a qualcosa: il Pdl dovrebbe mettere da parte la sua ostilità per i collegi uninominali (che verrebbero comunque reintrodotti in caso di vittoria dei «sì» al referendum). Casini, a sua volta, dovrebbe rinunciare alla proporzionale e al connesso sogno di ereditare i consensi in uscita da un Pdl rassegnato alla disgregazione dopo il ritiro di Berlusconi. Il sogno di Casini potrebbe avere senso solo se i tacchini risultassero felici per l'avvicinarsi del Natale, solo se il Pdl mostrasse una gran voglia di suicidarsi. Ma se così non fosse, allora Casini dovrebbe rivedere le sue posizioni e cercare una soluzione comunque buona per lui. Il sistema qui indicato non dovrebbe affatto sfavorirlo. Anche la Lega di Bossi non dovrebbe avere obiezioni. Il maggioritario con doppio voto incentiva le alleanze competitive: al Nord continuerebbe quindi ad esserci l'alleanza competitiva del passato fra Pdl e Lega. Infine, il Partito democratico: perché dovrebbe opporsi a una soluzione che gli garantisce la centralità a sinistra? Qualcuno ha avanzato l'obiezione secondo cui il sistema elettorale qui prospettato sarebbe «astruso». È un'obiezione ridicola. Che cosa c'è di più astruso dell'attuale legge elettorale? E non è forse astruso il cosiddetto «sistema ungherese» proposto da Bersani? Anche il maggioritario con quota proporzionale che verrebbe reintrodotto se vincessero i «sì» al referendum (e che è comunque, secondo me, di gran lunga preferibile all'attuale legge), quanto ad astruserie non scherzava: qualcuno ricorda il famigerato «scorporo», la formula inventata per annacquare in senso proporzionale gli effetti del maggioritario? Nessun adulto che non abbia una preparazione specifica può capire davvero come funzionano i suddetti sistemi elettorali. Ma può comprendere subito il funzionamento di un maggioritario che lascia all'elettore la facoltà di dare due voti. In omaggio a un'antica tradizione che negli ultimi tempi si va un po' appannando, e che consiste nel pensare prima di parlare, sarebbe utile se i protagonisti della politica ci ragionassero sopra un po' prima di negare che questo sistema possa servire al Paese. E forse anche a loro. Angelo Panebianco 09 ottobre 2011 10:24© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_09/la-soluzione-del-doppi-voto-angelo-panebianco_07049694-f24a-11e0-9a3e-cd32c10dad62.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'OPPOSIZIONE SENZA RISPOSTE Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2011, 05:16:39 pm ALLEANZE E PROGRAMMI DIVERGENTI
L'OPPOSIZIONE SENZA RISPOSTE Angela Merkel, nel suo colloquio con Giorgio Napolitano, ha chiesto, fra l'altro, chiarimenti sulle prospettive dell'Italia in caso di caduta del governo Berlusconi. Se andasse al governo, quali provvedimenti prenderebbe l'attuale opposizione? La domanda è sicuramente pertinente tenuto conto del grave stato di salute della maggioranza. Ma è destinata a rimanere priva di risposta. Per capire come mai occorre fare un passo indietro, occorre ricostruire le ragioni di quella che è forse la più deleteria delle tradizioni italiane: il politicismo , la tendenza a costruire alleanze e aggregazioni prescindendo da accordi chiari sulle policies , sulle politiche di governo. Il politicismo è una malattia tanto delle forze di governo che di quelle di opposizione. L'attuale maggioranza in difficoltà ha ripetutamente ricercato l'alleanza dell'Udc di Casini senza però mai chiarire che cosa tale nuova alleanza di governo avrebbe dovuto fare: per esempio, come potessero conciliarsi il federalismo di Bossi e l'antifederalismo di Casini. Il maggior partito d'opposizione, il Partito democratico, per parte sua, fa esattamente la stessa cosa. Bersani decide una alleanza con Vendola e Di Pietro i cui contenuti (quali politiche farebbe una tale variopinta compagnia?) possiamo certamente immaginare, conoscendo i protagonisti, ma che non vengono comunque esplicitati. E Massimo D'Alema, nella sua intervista al Corriere (Dario Di Vico, 16 ottobre), non ha forse invitato Casini a una alleanza di cui farebbe parte anche Vendola dimenticandosi però di spiegare su che cosa Vendola e Casini, una volta messi insieme in un governo, potrebbero convergere o concordare? È falso ciò che dicono i nemici del bipolarismo, ossia che queste forme di deteriore politicismo siano il frutto di un sistema bipolare mal funzionante. Il politicismo, infatti, è una tradizione che risale alla Prima Repubblica. All'epoca, in virtù della Guerra fredda, c'era un sistema politico bloccato. Il Pci, condannato all'opposizione perenne, si era specializzato nell'abbaiare alla luna e nel promettere agli elettori il paradiso in terra: tanto, non ci sarebbe mai stata alcuna verifica sulla sua capacità di mantenere le promesse. A loro volta, i partiti anticomunisti erano condannati a governare insieme. Non c'era bisogno di reali convergenze programmatiche, era sufficiente il possesso della tessera di appartenenza al «club occidentale». Era allora del tutto normale mettere insieme al governo il Diavolo e l'Acqua Santa, per esempio (e scusate l'ironia) Bettino Craxi e la sinistra democristiana. Lungi dal peggiorare le cose, semmai, il bipolarismo le ha migliorate: quanto meno, ha reso molto più difficile sostenere nel tempo il bluff politicista. Certo, oggi come nella Prima Repubblica, con il politicismo si possono vincere le elezioni. Ma c'è una fondamentale differenza rispetto ad allora: il bipolarismo è spietato con chi, una volta al governo, non mantiene le promesse. Alle elezioni successive gli elettori lo cacceranno a pedate. È questa, secondo me, la vera ragione per la quale tanti politici odiano il bipolarismo e guardano con nostalgia ai bei tempi in cui non c'era bisogno di render conto delle promesse fatte. È la combinazione fra bipolarismo e politicismo che spiega perché, dalle prime elezioni «bipolari» del 1994 fino ad oggi, chi vince le elezioni perde regolarmente le elezioni successive. Non c'è dunque speranza? Si continuerà anche in futuro con il vecchio andazzo: costruire alleanze fra i contrari, mettere insieme, per vincere, coalizioni ultra-eterogenee, sperando, una volta al governo, di sopravvivere il più possibile navigando a vista? Non è sicuro. Perché oggi le circostanze esterne sono diverse. A causa della crisi internazionale c'è ora sull'Italia, e promette di durare a lungo, una pressione internazionale fortissima. Le coalizioni eterogenee, condannate all'immobilismo a causa dei veti e contro-veti interni, diventano sempre più ingestibili. Ne sa qualcosa il governo Berlusconi che continua a rinviare il decreto sullo sviluppo a causa delle sue divisioni interne, e che proprio per questo rischia sempre più, ogni giorno che passa, il suicidio. La pressione esterna cambia le condizioni del gioco: il politicismo, anziché un atout , una opportunità, può diventare un rischio. È davvero molto interessante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo dentro il Partito democratico: esso si sta dilaniando fra posizioni, queste sì finalmente programmatiche, fra loro incompatibili: accettare o respingere le condizioni poste dalla Bce all'Italia in materia di privatizzazioni, liberalizzazione del mercato del lavoro, eccetera. Non sono quisquiglie. Coloro che, contro il responsabile economico del partito Stefano Fassina (e quindi anche contro il segretario Bersani), sostengono che il Pd dovrebbe sottoscrivere le tesi della Bce sanno benissimo che, ove accettata come linea ufficiale, la loro posizione renderebbe impossibile l'alleanza con la sinistra estrema di Vendola. Forse, alla fine, tutto si risolverà col solito politicismo, con un segretario che si colloca «al centro» pronto a dare un colpo al cerchio e uno alla botte (dando ragione a quelli che sostengono le tesi della Bce «ma anche» a quelli che le contrastano, agli amici della Cgil «ma anche» ai suoi nemici, eccetera). Ma si tratterebbe di un equilibrismo sempre più difficile da praticare: come spiegarlo alla Merkel e soprattutto ai mercati? Forse, proprio la gravità della crisi e la pressione internazionale potrebbero contribuire a rendere un po' più maturo il nostro bipolarismo. Maturità che arriverebbe se, anziché dare vita a grandi coalizioni politicamente eterogenee, i partiti che contano si orientassero verso «coalizioni minime vincenti»: sufficientemente grandi per vincere le elezioni e sufficientemente piccole per assicurare una certa coerenza programmatica. Ridotta all'osso questa mi sembra la vera posta in gioco nello scontro (anche generazionale) interno al Partito democratico. Si tratta della scelta fra una grande coalizione elettorale purchessia e una coalizione minima vincente. Angelo Panebianco 23 ottobre 2011 10:26© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_23/panebianco_opposizione-senza_048d3fa0-fd45-11e0-aa26-262e70cd401e.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Furbi e ipocriti, troppi paraocchi Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2011, 05:21:26 pm CONDIZIONI PER STARE IN EUROPA
Furbi e ipocriti, troppi paraocchi Eurolandia, l'Europa monetaria, è due cose contemporaneamente. È, prima di tutto, un tassello di quella costruzione europea che fu il frutto di una intuizione, oggi più valida che mai, dei padri fondatori: nell'epoca del gigantismo delle potenze, quelle già emerse e quelle emergenti (Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Russia e domani altre ancora), i vecchi Stati nazionali europei, singolarmente presi, non hanno più né taglia né risorse economicamente e politicamente sostenibili. Solo il futuro ci dirà se fu saggio o no dare vita all'euro prima di aver messo in piedi un governo europeo dell'economia. Ma una cosa è sicura: se crollasse l'euro il contraccolpo manderebbe in pezzi l'Unione Europea, azzererebbe sessant'anni di integrazione. Mario Monti, sul Corriere di ieri, ha ricordato a Berlusconi quanto sia essenziale anche per noi che quella impresa collettiva non fallisca. Se l'euro è un bene pubblico, che va a vantaggio di tutti gli europei, Eurolandia è però anche un ring. Su quel ring i lottatori meno preparati e allenati, e con il fisico in disordine a causa degli stravizi, sono destinati a prendere tante botte. Negli anni passati, in Italia sono circolate idee sbagliate su Eurolandia: si è pensato che l'euro fosse una cintura di sicurezza che ci avrebbe permesso di tenerci tutti i nostri vizi, che fosse un modo comodo per condividere, per «socializzare», i costi delle nostre inefficienze. Non era così, come i greci hanno già sperimentato. L'euro è un'altra cosa: è un modo per impedire ai peggiori di ricorrere a forme di concorrenza sleale (come le svalutazioni competitive) al fine di non pagare il costo dei propri vizi. È verissimo che, nel ring di Eurolandia, i più forti cercano di scaricare sui più deboli anche le loro difficoltà. Sarkozy ha interesse a mascherare i suoi gravi problemi prendendosela con l'Italia, e anche la Germania, il Paese leader, nonostante il suo cipiglio moralista, non ha poi tutte le carte in regola: i suoi governanti, mentre puntano (giustamente) il dito contro le nostre inadempienze, omettono di ricordare quanto i loro iniziali errori di fronte al focolaio greco siano stati determinanti nel favorire la propagazione dell'incendio. Però, è anche vero che quello del capro espiatorio non è un ruolo che venga assegnato a caso. Bisogna, per così dire, meritarselo. Occorrono ragioni oggettive. Noi non possiamo proprio lamentarci, tenuto conto che nel decennio trascorso dal varo della moneta unica non abbiamo fatto molto per venire a capo delle nostre debolezze. Serviva una cura d'urto e l'abbiamo sempre rinviata. Ora ci troviamo in una condizione di stallo, in una specie di trappola per topi. Come succede quando il futuro dipende in gran parte da decisioni politiche che vanno prese e si scopre di non potersi fidare né del governo né dell'opposizione. Non possiamo fidarci del governo perché è troppo debole e diviso per attuare davvero gli impegni che ha preso con l'Europa. Come hanno osservato Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere del 29 ottobre, la lettera d'intenti del governo Berlusconi assomiglia più a un programma elettorale che a un progetto operativo (nonostante Berlusconi si affanni a sostenere il contrario). Elenca cose che andavano fatte negli anni scorsi, quando il governo era molto più solido di oggi, quando Berlusconi godeva di alti consensi nel Paese, quando la Lega non era ancora con un piede dentro e uno fuori, quando il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia si parlavano. Dato lo stato della maggioranza, è purtroppo poco probabile (anche se la speranza è l'ultima a morire) che quelle cose vengano attuate. Se il governo non riuscisse a fare ciò che va fatto, sarebbe allora l'opposizione a raccogliere il testimone? Non pare proprio. Con l'eccezione dell'Udc di Casini, che fa storia a sé, gli altri oppositori, Partito democratico in testa, non rappresentano al momento una credibile alternativa di governo: se per «credibile alternativa di governo», nelle condizioni d'oggi, si intende il portatore di un progetto di riforme capaci di rilanciare lo sviluppo e di renderci meno deboli in Europa. La novità, anzi, è che, dopo avere per anni rivendicato la superiorità del proprio pedigree europeista rispetto a quello della destra, il Partito democratico mostra una crescente dissonanza fra gli interessi del nucleo duro (Cgil in testa) della propria base elettorale e i vincoli europei. Dalla reazione negativa agli impegni chiesti all'Italia nella lettera della Bce fino alla attuale mobilitazione (che fa tanto anni Settanta) contro una cosiddetta «libertà di licenziare» che, in quella forma, non è nei piani di nessuno, l'opposizione di sinistra non appare, al momento, un possibile interlocutore dell'Europa. Che sia anche per questo che il governo Berlusconi è sempre lì lì per cadere e non cade mai? Tra il «vorrei ma non posso» del governo e il «potrei ma non voglio» dell'opposizione, non si vedono spiragli. Sarebbe già tanto se, almeno, imparassimo tutti un paio di lezioni. La prima è che in una condizione di stretta interdipendenza europea e internazionale nessuno può fare a lungo il furbo. O rispetti le regole con cui ti sei impegnato a giocare o ne pagherai le conseguenze. Qualcuno dovrebbe spiegarlo bene alla Lega sul tema pensioni o ai sindacati sul tema flessibilità del lavoro. La seconda lezione è che l'ipocrisia è dannosa. Che senso ha ostentare il massimo rispetto per ciò che dice il presidente della Repubblica e poi fare l'esatto contrario di ciò che egli auspica? Non è forse questa una situazione di emergenza nella quale, isolando gli agitatori di piazza, maggioranza e opposizione dovrebbero cercare, come Napolitano ha tante volte chiesto, la massima convergenza possibile sulle cose da fare? La sola cosa buona delle situazioni di emergenza è che offrono un'occasione di rinsavimento, spingono a mettere da parte i paraocchi. Speriamo che non venga sprecata. Angelo Panebianco 31 ottobre 2011 08:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_ottobre_31/panebianco-furbi-ipocriti-troppi-paraocchi_35c845bc-0388-11e1-af48-d19489409c54.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tutte le spine dell’emergenza Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:35:27 pm TRE STRADE POSSIBILI NELL’INCERTEZZA
Tutte le spine dell’emergenza Come è inevitabile in un Paese che era e resta (e resterà) profondamente diviso, le interpretazioni sul come e il perché siamo piombati nella più grave crisi della nostra storia recente variano a seconda dei punti di vista e delle preferenze politiche. C’è chi punta il dito soprattutto sulla inadeguatezza e la perdita di credibilità del governo Berlusconi e chi, all’opposto, imputa la responsabilità della crisi alla volontà dei partner europei più forti di scaricare sull’Italia le loro difficoltà e inadempienze. Non solo entrambe le interpretazioni sono vere ma si completano a vicenda. Nel più rigoroso rispetto del copione: se ti indebolisci troppo, se perdi credibilità, gli altri addosseranno a te tutte le responsabilità, anche quelle che non hai. Il passaggio decisivo si è verificato quando Berlusconi, non riuscendo a piegare le resistenze interne al governo, ha rinunciato a varare il tanto promesso decreto sullo sviluppo. Ciò ha chiarito definitivamente al Paese e al resto del mondo che la sua leadership era esausta, ha segnalato quanto fosse ormai ai minimi termini la sua capacità di mantenere gli impegni presi. E il resto del mondo, durante la riunione del G20, ha presentato all’Italia il conto. Come, secondo le indiscrezioni raccolte dal Corriere, Gianni Letta avrebbe detto a Berlusconi, con il G20 tutto è definitivamente cambiato. Sia questione di ore, giorni o settimane, il governo Berlusconi non può più reggere. Come e con cosa sostituirlo? C’è una strada che, idealmente, dovrebbe essere percorsa al fine di mettere in sicurezza il Paese. E poi c’è la strada che la politica imboccherà realmente. È da sperare che lo scarto, il divario, fra la strada ideale (quella che occorrerebbe percorrere) e la strada reale (quella che la politica effettivamente sceglierà) non risulti alla fine troppo grande. Ciò che bisognerebbe fare è (ma solo a parole) semplice. Occorrerebbe un governo capace di attuare in breve tempo le riforme pro crescita che l’Europa (con la famosa lettera della Bce) ci ha chiesto di fare, un governo capace di allentare la pressione dei mercati, di portarci fuori dalla attuale condizione di emergenza, di mettere in sicurezza i conti e rilanciare lo sviluppo. Un governo fatto da chi? E con quale sostegno parlamentare? Un governo fatto da chi ci sta, da chi è disposto a impegnarsi nella politica impopolare (molto impopolare: si pensi al tema pensioni) necessaria per superare l’emergenza. Un governo siffatto, per essere credibile, dovrebbe godere di ampio sostegno parlamentare. Le forze politiche dovrebbero riconoscere che in una situazione di emergenza l’unica cosa che conta è venirne fuori prima possibile. Ciascun partito rilevante dovrebbe rinunciare a qualcosa: per esempio, sia la Lega di Bossi sia il Pd di Bersani dovrebbero rinunciare alla difesa di posizioni che sono molto sentite e strenuamente difese da segmenti importanti delle loro basi elettorali (il Pdl e l’Udc, almeno a parole, sono assai più aperti verso le richieste della Bce). Un governo siffatto dovrebbe essere a termine, attuare solo i provvedimenti richiesti dall’Europa, e tenersi invece alla larga da tanti altri temi su cui il conflitto sarebbe inevitabile (come la questione della legge elettorale). È possibile oggi un tale governo? Possibile lo è (tutto è possibile). Ma, temo, non è molto probabile. Perché? Perché quel governo potrebbe nascere solo se le forze politiche fossero disposte a mettere da parte le ragioni, tutt’altro che effimere o superficiali, delle loro profonde divisioni e reciproche avversioni, se fossero disposte a vivere, per qualche mese, in una sorta di limbo, a mettere fra parentesi la politica. Sapete perché, anche se quasi tutti capiscono che si tratta di una contraddizione in termini, il mito del «governo dei tecnici » è così duro a morire? Perché, quando ci si trova in situazioni gravi, ci si illude sempre di poter ricorrere a una soluzione che metta fuori gioco la politica: giusto il tempo necessario per superare l’emergenza. La cosa funziona, per lo più, solo nel mezzo delle guerre (e, a volte, nemmeno allora). Se quella indicata è la strada ideale, qual è l’ostacolo che, plausibilmente, ne devierà il cammino? L’ostacolo sta nel fatto che la competizione politica non può essere fermata. Neppure in condizione di emergenza. Come la nostra odierna situazione conferma. Le tre opzioni in campo, di cui si parla in queste ore (un governo di solidarietà nazionale, un governo di centrodestra allargato all’Udc, le elezioni anticipate), avrebbero, presumibilmente, effetti fra loro molto diversi sulle sorti dell’una o dell’altra forza politica. E nessuno può rinunciare a fare i propri calcoli. Difficilmente ad esempio, si può abdicare alla difesa degli interessi della propria base elettorale se si pensa che, comunque vada, le elezioni non siano troppo lontane nel tempo. Non ho prima citato a caso la questione della legge elettorale. Si ricordi che incombe un referendum. Se la Corte costituzionale darà il via libera voteremo a primavera per il ritorno del sistema maggioritario. Poiché viviamo nel mondo reale e non in un mondo ideale, nessuno riuscirebbe a disinnescare questa mina. Non casualmente, un governo di solidarietà nazionale interessa soprattutto a chi vuole far leva sull’emergenza per far saltare l’assetto bipolare, neutralizzare il referendum pendente, e ritornare alla proporzionale, facendo così, in prospettiva, le fortune politiche degli uni e le sfortune degli altri. Un governo di centrodestra allargato all’Udc avrebbe probabilmente altre conseguenze. E altre ancora, forse, discenderebbero dal ricorso immediato ad elezioni anticipate. Abbiamo una emergenza da affrontare. Potremo e dovremo affrontarla. Ma è anche realistico tener conto del fatto che la politica non va in vacanza e la lotta più o meno feroce per fare il pieno del «bottino » politico a spese dei concorrenti non cessa mai. Angelo Panebianco 07 novembre 2011 08:04© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_07/panebianco-tutte-spine-emergenza_d8192686-0907-11e1-a272-24f31f5e1b69.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le dimissioni di Berlusconi Inserito da: Admin - Novembre 13, 2011, 11:36:35 am Le dimissioni di Berlusconi
In salita, molto La strada è accidentata e per percorrerla non si devono fare errori. Il governo Monti può nascere e vivere solo grazie a «patti chiari». Bisogna dire tutta la verità e agire di conseguenza. Nelle situazioni di emergenza si ricorre a soluzioni di emergenza. Tale sarà, se nascerà, il governo Monti. Sarà un governo del Presidente e non un governo tecnico come assurdamente si continua a dire. I tecnici esistono, i governi tecnici no. Formalmente non c'è differenza fra un governo del Presidente e un normale governo parlamentare: anche il primo deve avere la fiducia del Parlamento salvando così le forme. La differenza è di sostanza: l'emergenza sposta, per un tempo che si intende (e si spera) limitatissimo, dal Parlamento alla presidenza della Repubblica il potere sovrano. In passato ne abbiamo già fatto esperienza. Fu il caso del governo Ciampi del 1993: il Parlamento era nel marasma per le inchieste sulla corruzione e il potere sovrano si trasferì, di fatto, nelle mani del presidente della Repubblica. Data la sua eccezionalità la soluzione adottata deve avere un chiaro limite temporale: i pochi mesi che servono per fare le cose necessarie (gli incisivi interventi da sempre promessi e mai attuati) al fine di rimettere in sicurezza il Paese. Dopo di che, il governo si dimette e la parola passa agli elettori. Il secondo errore da evitare è quello delle mezze misure: si fa un governo del Presidente ma, contemporaneamente, se ne contratta la composizione con i partiti. Il «toto-ministri» e l'emergenza non sono compatibili. Il presidente della Repubblica e Monti devono stabilire loro, autonomamente, la lista dei ministri scegliendoli fuori dai partiti, avendo cura di scartare quelle personalità che per la loro caratura politica potrebbero dare un segno, «di destra» o «di sinistra», al governo mettendo così qualche forza parlamentare in difficoltà. Ai partiti si deve chiedere un temporaneo sostegno esterno e nient'altro. Un altro errore da evitare (è il problema più delicato) riguarda la navigazione dell'esecutivo. Con i suoi provvedimenti, il governo Monti non dovrà dare l'impressione di penalizzare sistematicamente gli elettori di una parte rispetto a quelli dell'altra, mettendo così in una situazione insostenibile qualcuna delle forze che lo appoggiano. Qui conterà soprattutto la grande esperienza politica di Napolitano. Né si potrà permettere che il governo diventi la copertura di giochi che hanno finalità diverse da quelle di fronteggiare l'emergenza: se diventasse l'alibi che alcuni cercano per togliere definitivamente di mezzo il bipolarismo, le forze che il bipolarismo difendono avrebbero il diritto, e forse il dovere, di far saltare il banco. Da ultimo, occorrerà molto rispetto per i travagli dei partiti poiché essi sono chiamati in questa fase ad accettare lo scomodo ruolo dei comprimari. È insopportabile l'ipocrisia di chi parla con deferenza della democrazia ma poi mostra disprezzo per i politici alle prese con la questione del consenso. È il mestiere dei politici preoccuparsene. I governi del Presidente sono forzature del sistema costituzionale giustificate da situazioni eccezionali. Come quella che stiamo vivendo. Poi però la parentesi va chiusa e si deve tornare a quelle rispettabilissime e difficilissime attività che consistono nell'organizzazione del consenso e nella «caccia ai voti»: la democrazia, appunto. Angelo Panebianco 13 novembre 2011 10:12© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_13/editoriale-panebianco_2b7576d8-0dcf-11e1-a3df-26025bf830b6.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. IL RIMONTAGGIO DEI PARTITI Inserito da: Admin - Novembre 21, 2011, 05:30:58 pm LO SCUDO DEL GOVERNO TECNICO
IL RIMONTAGGIO DEI PARTITI Sembra di capire che al governo Monti siano affidate due fondamentali «funzioni», una manifesta e una latente. La funzione manifesta è quella enunciata dal neo presidente del Consiglio: affrontare l'emergenza con quei provvedimenti d'urto che la politica partitica, vincolata al consenso elettorale, non è stata fin qui in grado di prendere. Ma c'è anche, a prescindere dalla volontà del capo dell'esecutivo, una funzione latente: dare tempo al tempo, neutralizzare temporaneamente la dialettica maggioranza/opposizione al fine di offrire alla politica partitica la possibilità di scomporsi e di ricomporsi su nuove basi. Pier Ferdinando Casini, parlando all'assise del Terzo polo, non lo poteva dire meglio o più esplicitamente. È peraltro la ragione per cui in Spagna si è andati al voto e in Italia no: in Spagna la posta in palio era solo il governo, in Italia è la conformazione del sistema politico nel suo insieme. Per quanto riguarda la funzione manifesta, ossia la «missione» del governo Monti, si può forse scommettere che, a prescindere da quanto durerà l'esecutivo, essa si esaurirà di fatto in breve tempo. Nato per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti darà al Paese una cura d'urto che tutti ci auguriamo utile e che i partiti saranno comunque costretti a subire. Ma non è pensabile che questo stato di grazia possa durare più di qualche mese. Dopo di che, i partiti riprenderanno l'iniziativa. E si noti che non potranno non farlo dal momento che le elezioni del 2013 (o anche prima) diventeranno per loro sempre meno lontane: man mano che passerà il tempo, i calcoli sulle convenienze elettorali ne condizioneranno sempre più le scelte. Aggiungo (in Italia, date certe nostre poco commendevoli tradizioni, è opportuno dirlo) che ciò potrà scandalizzare solo coloro che pensano che la democrazia rappresentativa sia null'altro che un fastidioso impiccio. A quel punto il governo Monti, che duri o meno fino alla scadenza della legislatura, non potrà più fare molto. Ma oltre che un mezzo per fronteggiare l'emergenza, il governo Monti è anche uno scudo al riparo del quale, presumibilmente, si andrà ristrutturando il sistema dei partiti: quel famoso Big Bang che tutti si aspettano per effetto del tramonto dell'era berlusconiana. Qualcuno, non ricordo chi, ha spiritosamente osservato che l'era berlusconiana potrebbe essere stata solo un lungo intermezzo fra la fine della Dc e la sua rinascita. La Dc, ovviamente, non rinascerà ma che un grosso rassemblement parlamentare «centrista» si formi a breve termine per effetto di processi di scomposizione/ricomposizione delle forze politiche è possibile. Ed è anche in linea con le nostre tradizioni nazionali. D'altra parte, ancorché possibile, la formazione di un tale rassemblement non è sicura. Le fratture nella classe politica sono tali e tante che si può anche ipotizzare un diverso esito: la pura e semplice disgregazione del Pdl (e, per contraccolpo, anche del Pd) e la conseguente frantumazione dell'intero sistema dei partiti. Mentre nel primo caso (formazione di un rassemblement centrista) tutto dipenderebbe da come si decidesse di puntellarlo, e in particolare con quale legge elettorale, nel secondo caso (frantumazione) andrebbero definitivamente in cavalleria sia il bipolarismo che l'alternanza e un cupo futuro di accentuata instabilità politica ci attenderebbe anche dopo le elezioni. Si guardi alla Spagna, appunto. Stessa emergenza. Ma la Spagna si è potuta permettere il voto e noi no. Perché? Perché la Spagna, nonostante abbia una democrazia molto più giovane della nostra, dispone, a differenza di noi, di istituzioni sane. Lì la stabilità è garantita: chi vince governa e basta. Non è solo la legge elettorale che disincentiva la frammentazione, è un intero sistema istituzionale (fondato sul cancellierato, ossia sull'indiscusso primato del governo) che assicura la compattezza del corpo politico, il fatto che in esso vengano frustrate le spinte centrifughe. Forse, sarebbe bene smetterla di fare finta, come continuano a fare i cantori del parlamentarismo all'italiana, che le nostre siano le migliori istituzioni del mondo. Forse, bisognerebbe anche riconoscere quale sia (per parafrasare il grande giornalista britannico ottocentesco Walter Bagehot) il «segreto» della Costituzione italiana: la possibilità di ricorrere, ma solo per brevissimi periodi, quando i partiti siano resi impotenti dall'emergenza, a governi del presidente. Forse bisognerebbe almeno pensarci su e chiedersi se non sia il caso, fatto trenta, di fare anche trentuno, scegliendo la strada maestra della piena responsabilizzazione politica del presidente della Repubblica mediante l'elezione diretta. Solo che non lo faremo. Poiché le scelte chiare, e le decisioni nette, non sono nel nostro stile. Angelo Panebianco 21 novembre 2011 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_novembre_21/panebianco-partiti-rimontaggio_11d0c28c-140a-11e1-ab68-9c5b3cac959b.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il secondo tempo Inserito da: Admin - Dicembre 08, 2011, 05:11:02 pm Il secondo tempo Ci sono fasi in cui le esigenze della economia e quelle della politica sono in armonia e altre fasi, più frequenti, in cui sono in conflitto. Non è detto che ciò che sarebbe economicamente utile o necessario risulti anche politicamente praticabile. Il decreto Monti serve a fronteggiare l'emergenza e conferisce al governo l'autorevolezza necessaria per trattare da una posizione di relativa forza con i partner europei. Per questo i principali partiti, obtorto collo , sono costretti a sostenerlo. Ma questo momento magico non è destinato a durare: molto presto le esigenze della politica torneranno a prendere il sopravvento. E il governo Monti comincerà a navigare in acque parlamentari sempre meno tranquille. È questa circostanza, purtroppo, a rendere non del tutto plausibile la «politica dei due tempi» che l'esecutivo si è visto costretto ad adottare. Il decreto, oltre a un sensibile accrescimento (che ha di per sé effetti depressivi) della pressione fiscale sul ceto medio, contiene una seria riforma delle pensioni e qualche buona misura a favore delle imprese. Ma il grosso degli interventi pro crescita è rinviato a un secondo tempo. Sono rinviate quasi del tutto le liberalizzazioni. E non si parla per ora di privatizzazioni. È rinviata la riforma della disciplina del lavoro. Sono rinviati gli interventi più incisivi sui costi della politica. Mancano infine provvedimenti volti a colpire la palla al piede rappresentata dalla inefficienza della macchina amministrativa. Il governo Monti ha avuto sicuramente ottime ragioni (soprattutto, i tempi troppo stretti) per adottare questa strategia. Ma resta che tale scelta, per quanto necessitata, porta con sé due inconvenienti. Il primo riguarda il segno e la qualità del decreto Monti. Se le misure rinviate fossero state presenti nel decreto ciò avrebbe sicuramente ridotto il disagio dovuto all'accrescimento della pressione fiscale. Gli effetti depressivi sarebbero stati ampiamente compensati dalla generalizzata constatazione di una radicale svolta, di un irreversibile cambiamento. Finalmente, sarebbe stato a tutti chiaro che si stavano predisponendo le condizioni necessarie per fare riprendere al Paese il cammino dello sviluppo. Il secondo e più grave inconveniente consiste nel fatto che in Italia la politica dei due tempi, come sappiamo per lunga esperienza, è quasi sempre destinata all'insuccesso. Il governo Monti è figlio di circostanze eccezionali. E sono le circostanze eccezionali ad averne decretato la popolarità. Ma, come lo stesso Monti ha osservato, la popolarità del governo è destinata a ridursi a causa della amara medicina che esso ci deve somministrare. I partiti hanno subito il governo. Man mano che la sua popolarità diminuirà, rialzeranno la testa. E lo faranno perché, piaccia o meno, le regole della politica democratica lo imporranno. Sono i partiti che dovranno fronteggiare tra poco più di un anno, o anche prima, il giudizio degli elettori. Sono il Pdl e il Pd, soprattutto, che dovranno evitare di farsi cannibalizzare, rispettivamente, dalla Lega e dalla estrema sinistra. Disciplina del lavoro, liberalizzazioni, eccetera, incidono sulla carne dei partiti. Difficilmente, essi lasceranno al governo Monti, su questi temi, le briglie sciolte e la libertà che gli hanno lasciato nella prima fase. Il «secondo tempo» si svolgerà in un terreno assai più accidentato di quello in cui si è svolto il primo. Angelo Panebianco 7 dicembre 2011 | 8:49© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_07/secondo_tempo_panebianco_70a2ba70-209b-11e1-80f3-2318928b83f9.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2011, 04:06:07 pm LA LENTA E OPACA MACCHINA STATALE
Costa tanto produce poco Nel momento in cui si chiede che i conti bancari dei cittadini, e quindi le loro vite, risultino totalmente trasparenti agli occhi dello Stato, diventa lecito chiedersi se lo Stato sia poi altrettanto trasparente, nel suo operare, agli occhi dei cittadini. Basta chiederselo per capire subito che non è così: l'opacità, non la trasparenza, caratterizza la macchina amministrativa nelle sue operazioni quotidiane. L'opacità è tale che persino i ministri ignorano tanto di quella macchina. Si vogliono fare le privatizzazioni? Si vuole tagliare in modo intelligente (ossia, selettivo) la spesa pubblica? Si vogliono eliminare i sussidi alle imprese? Per fare queste cose occorrono vitali informazioni, bisogna conoscere la «macchina» dall'interno. Ma nemmeno il governo possiede quelle informazioni. Deve, prima di tutto, procurarsele. Ed è una operazione lunga, costosa, difficile, e probabilmente destinata all'insuccesso. Come mai? Da cosa dipende quella opacità? Perché lo Stato è una giungla impenetrabile? Perché è costituito da regolamenti e pratiche così complesse e barocche che solo i vecchi squali della burocrazia, gli amministratori di lungo corso, possiedono le capacità per muoversi in un simile ambiente, così oscuro e ostile per chiunque altro? I cittadini attribuiscono di solito ogni colpa di ciò che non va, delle disfunzioni quotidiane di cui hanno personale esperienza, alla classe politica. Non sanno che la classe politica è per lo più priva di cruciali risorse (dalle informazioni alla expertise amministrativa) e che altre istituzioni sono di fatto, quando si tratta dei meccanismi quotidiani di funzionamento dello Stato, molto più potenti. Si dice: «Il Parlamento è sovrano». Ma queste sono solo parole. L'alta burocrazia, i vertici delle strutture regionali, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato, contano assai più del Parlamento, e di qualunque governo, nella gestione della macchina amministrativa. Basta che scelgano di non cooperare, di fare resistenza passiva, e la classe politica viene ridotta alla impotenza. Il politico eletto, diceva il sociologo Max Weber, è di fronte all'amministratore di professione nella condizione del dilettante. Ma qui siamo andati molto più in là. Non è più solo una questione di dilettantismo contro professionismo. È questione di una macchina statale autoreferenziale, che dispone degli strumenti (a cominciare dal monopolio sulla interpretazione delle regole amministrative) necessari ai fini della propria difesa e riproduzione. Si badi che non sono solo in gioco interessi (l'interesse degli amministratori o delle magistrature amministrative a garantire l'incontrollabilità del proprio operare da parte di chiunque: governo, Parlamento, pubblica opinione). Pesano anche le tradizioni culturali. C'è un'intera cultura giuridico-amministrativa, cui danno un contributo essenziale tanti giuristi amministrativisti, che è quotidianamente mobilitata a difesa del mantenimento della complessità del sistema e, quindi, della sua opacità. Se vogliamo chiederci quale sia l'ostacolo principale al rilancio della crescita dobbiamo indirizzare la nostra attenzione sul peso morto rappresentato da una macchina amministrativa incompatibile con le esigenze di un Paese moderno. Nessuno sa, ad esempio, di quanto potrebbe scendere la pressione fiscale complessiva se quella macchina diventasse meno inefficiente e dispendiosa. La complessità e il barocchismo delle regole e delle procedure amministrative hanno potentissimi effetti negativi sulla società circostante: generano inefficienza, garantiscono tempi lunghi e anche lunghissimi agli interventi dello Stato (si pensi al settore delle infrastrutture), innalzano spaventosamente i costi economici, alimentano una condizione di incertezza giuridica che rende imprevedibili i comportamenti, impedisce la diffusione di rapporti reciproci di fiducia fra cittadini e amministrazioni, e funziona da moltiplicatore delle dispute. Gli amministratori si difendono dicendo che è comunque la politica a dettare le linee guida dei provvedimenti. Il che è vero. Ma sono loro a confezionare, e poi a interpretare, con il loro esasperato formalismo, quei provvedimenti. Per fare un esempio, apparentemente marginale, consiglierei al neo-ministro dell'Università, Francesco Profumo, che è anche un mio collega, di leggere con attenzione le norme da poco varate che regolano certi concorsi (per esempio, i concorsi da ricercatore). Scoprirà che il loro effetto principale è di fare prosperare l'industria dei ricorsi, di dare tanto lavoro agli avvocati e ai Tar. Sono certo che se, dopo avere letto quei regolamenti iper-barocchi, il ministro ne chiedesse conto a chi li ha messi a punto nei dettagli, si sentirebbe dire che quei regolamenti rispondono alla esigenza di garantire la «legalità» e la correttezza dei concorsi. Niente di più falso. Quelle norme nulla possono pro o contro la correttezza. La loro assurda complessità garantisce solo l'incertezza del diritto, l'opacità dei procedimenti, la moltiplicazione delle dispute. Non c'è quasi nessun ambito in cui operi l'Amministrazione che non abbia queste caratteristiche. Se la certezza del diritto è un fondamentale bene pubblico, allora è sicuro che il nostro sistema giuridico-amministrativo è congegnato in modo da garantire la perpetua indisponibilità di quel bene. Con costi altissimi per la società e benefici (in termini di opacità del loro operato) per gli addetti alla gestione quotidiana della macchina statale. Magari, quei giuristi amministrativisti che lavorano come consulenti dell'Amministrazione centrale e periferica qualche franca spiegazione sul perché ciò accade potrebbero forse darcela. Viviamo in tempi di antiparlamentarismo trionfante e il mio potrà sembrare un auspicio controcorrente. Ma trovo che i partiti, alla disperata ricerca di un ruolo nell'epoca del governo Monti, potrebbero rendere una grande servizio al Paese. Potrebbero, e dovrebbero, promuovere una commissione di inchiesta parlamentare con il compito di indagare sull'operato dell'Amministrazione (organi della giustizia amministrativa inclusi) e di segnalarne tutte le disfunzioni. Se non altro, per consentire una discussione pubblica sulle vere cause del nostro declino. Angelo Panebianco 18 dicembre 2011 | 9:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/11_dicembre_18/panebianco_costa-poco-produce-tanto_e913b108-2951-11e1-b27e-96a5b74e19a5.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un referendum, due tesi errate Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:22:47 pm Un referendum, due tesi errate
Domani la Corte costituzionale comincerà a discutere (la sentenza è attesa in settimana) sull’ammissibilità del referendum elettorale. È un referendum che ha lo scopo di abrogare l’attuale legge e di ripristinare quella precedentemente in vigore, vale a dire il sistema maggioritario, con collegi uninominali, corretto da una quota proporzionale, con cui abbiamo votato in tre elezioni generali: 1994, 1996, 2001. In punto di diritto non sembrerebbero esserci ostacoli alla ammissibilità. Così sostiene il manifesto firmato pochi giorni fa da 111 costituzionalisti, che rappresentano la schiacciante maggioranza dei titolari di cattedra di diritto costituzionale e di diritto pubblico. Coloro che temono il referendum, e pertanto si augurano che la Corte dichiari la non ammissibilità del quesito, hanno messo in circolazione due argomenti di cui è facile constatare la fragilità. Il primo è quello secondo cui, se la Corte si pronunciasse per l’ammissibilità e gli italiani votassero l’abrogazione della legge elettorale in vigore, ne verrebbe fuori un vuoto legislativo, ci troveremmo senza legge elettorale. È falso. Sarebbe come dire che se nel 1974 gli avversari del divorzio avessero vinto il referendum abrogativo, non avremmo più avuto un matrimonio regolato per legge, ci saremmo ritrovati nella Repubblica del libero amore. Naturalmente no (per fortuna o per sfortuna). Se fosse stata cancellata la legge istitutiva del divorzio ne sarebbe automaticamente seguito il ripristino della legge precedente. Punto e basta. E così accadrebbe anche se gli italiani scegliessero di abrogare l’attuale legge elettorale. Il secondo argomento inconsistente riguarda la presunta destabilizzazione del quadro politico (del governo Monti) che si produrrebbe nel caso la Corte dichiarasse il referendum ammissibile: i partiti, così si dice, piuttosto che affrontare il referendum, manderebbero a gambe all’aria il governo e porterebbero subito il Paese alle elezioni anticipate. Neppure questa tesi sta in piedi e non importa se viene sostenuta da tanti: una sciocchezza non cessa di essere tale solo perché continuamente ripetuta. La durata e la stabilità del governo Monti non hanno nulla a che fare con la questione del referendum. Si tratta di un governo del Presidente nato per fronteggiare l’emergenza euro. Durerà fin quando durerà l’emergenza: tre mesi, sei mesi, un anno, o quel che è. Difficilmente il governo Monti potrebbe arrivare alla scadenza naturale della legislatura nel caso in cui, per qualche miracolo, la crisi dei debiti sovrani fosse risolta con largo anticipo rispetto a quella data. È parimenti impossibile che esso cada con quella crisi ancora in corso. Va anche aggiunto che se i partiti volessero abbattere il governo solo per evitare il referendum, con una emergenza-euro non ancora risolta, dovrebbero vedersela col capo dello Stato. Con ben poche chance di ottenere le elezioni anticipate. Insomma, è all’andamento delle aste dei nostri titoli di Stato, alle decisioni che prenderà o non prenderà l’Europa, e all’andamento dell’economia nazionale e internazionale nei prossimi mesi, non certo al referendum, che bisognerà guardare per capire quanto durerà il governo. Il referendum potrà incidere solo sulle regole del gioco con cui si andrà a votare, quando si andrà a votare. Se venisse ammesso, e se poi gli italiani si pronunciassero a maggioranza contro la vigente legge elettorale, voteremmo in elezioni generali con un sistema prevalentemente maggioritario. Se non venisse ammesso, i partiti troverebbero il modo di rivedere l’attuale legge in senso proporzionale. Alla fin fine, la principale posta in gioco riguarderà il ripristino o meno dei collegi uninominali. Le dirigenze dei partiti non apprezzano il collegio uninominale. Pensano che renda i parlamentari così eletti poco docili e poco controllabili. Sarà questo il vero tema della riforma elettorale. Angelo Panebianco 8 gennaio 2012 | 12:55© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_08/panebianco-referendum-due-tesi-errate_652060ea-39d1-11e1-b6d5-d3e076de4b02.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il passaggio più insidioso Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2012, 11:44:54 pm I SINDACATI, IL MINISTRO E IL PD
Il passaggio più insidioso La ragione principale per cui i governi tecnici non esistono è che la politica non va mai in vacanza. Anche il governo Monti è obbligato a contrattare le sue scelte, implicitamente o esplicitamente, con le forze parlamentari dal cui consenso dipendono le sue possibilità di durata e di azione. La condizione di sussistenza del governo sta nella sua capacità di agire, imponendo al Paese i sacrifici necessari, senza dare l'impressione che il loro costo non sia distribuito equamente fra gli elettorati di riferimento delle forze parlamentari che lo sostengono. Può essere, ad esempio, che sia stato un errore non aver varato contestualmente le liberalizzazioni e la riforma del mercato del lavoro. Perché se il governo mostrasse maggiore timidezza nella riforma del lavoro di quella mostrata nel caso delle liberalizzazioni, ne deriverebbe un effetto boomerang: forti tensioni emergerebbero entro la grande coalizione parlamentare e la turbolenza politica potrebbe diventare incontrollabile. Con le liberalizzazioni sono state toccate, soprattutto, categorie di lavoratori autonomi che rappresentano una componente rilevante del bacino elettorale del Pdl. La riforma del mercato del lavoro, invece, va a toccare interessi che fanno parte della constituency elettorale del Partito democratico. Negli ultimi giorni si era diffusa l'impressione che il governo non stesse manifestando nel secondo caso la stessa grinta che, lodevolmente, aveva usato nel primo. Ad esempio, la settimana scorsa, il ministro del Lavoro e delle politiche sociali Elsa Fornero, di fronte alla dura opposizione dei sindacati, sembrava sul punto di ritirare il documento che il governo aveva preparato sulla riforma del lavoro (Enrico Marro, Corriere della Sera , 27 gennaio). Ieri, però, sia il ministro Fornero sia il premier Monti hanno rilanciato con forza il tema ribadendo che si tratta di una priorità assoluta per l'esecutivo. Abbiamo certamente bisogno della riforma incisiva (che, come dice Monti, combini flessibilità ed equità, protegga i lavoratori piuttosto che i posti di lavoro) promessa dal governo al momento del suo insediamento. Se però l'iter di riforma si arenasse il guaio sarebbe doppio. Per gli effetti economici negativi. E per le conseguenze politiche destabilizzanti. Se risultasse che al lavoro autonomo vengono imposti prezzi più alti che al lavoro dipendente, in virtù del superiore potere di interdizione di cui dispongono i sindacati, l'equilibrio politico su cui si regge il governo si spezzerebbe. Manca solo un anno alle elezioni e tutti, naturalmente, devono fare i loro calcoli. Quella del mercato del lavoro, peraltro, non è l'unica partita politicamente scottante ancora aperta. Le liberalizzazioni hanno fin qui colpito i «piccoli» ma hanno appena sfiorato i grandi, le banche in primo luogo. Si aspetta, con una qualche impazienza, il secondo round. E poi vale per le liberalizzazioni ciò che vale per il provvedimento di semplificazione burocratica testé varato. Non è solo il Parlamento che può vanificarne gli aspetti innovativi. In Italia sappiamo per lunga esperienza che le innovazioni possono essere neutralizzate o ammorbidite anche dopo l'approvazione parlamentare, quando si passa ai regolamenti attuativi. E c'è poi il capitolo, ancora da scrivere, delle privatizzazioni. Delle quali si può dire che oltre al vantaggio di aprire i mercati alla concorrenza, con i benefici collettivi che ne conseguono, hanno anche quello di non poter essere facilmente annullate dall'azione dei governi successivi. E anche questa sarà una partita che farà correre qualche rischio agli equilibri politici. Non sappiamo come verrà giudicato in futuro il governo Monti. Probabilmente, sarà considerato l'artefice di una autentica svolta nella storia del Paese oppure solo un intermezzo, a seconda che esso riesca o meno a fare in modo che i frutti della sua azione non assomiglino alla tela di Penelope, che non si possano archiviare con la stessa rapidità con cui sono nati. Angelo Panebianco 29 gennaio 2012 | 8:31© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_29/il-passaggio-piu-insidioso-angelo-panebianco_04ecb588-4a49-11e1-bc89-1929970e79ce.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le nostalgie fuori luogo Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2012, 10:38:36 am RITORNO AL SISTEMA PROPORZIONALE?
Le nostalgie fuori luogo Adesso che la sentenza della Corte costituzionale ha aperto un’autostrada di fronte a coloro che sono interessati a chiudere la stagione maggioritaria iniziata nei primi anni Novanta e a reintrodurre la proporzionale comunque camuffata, diventa tempo di bilanci. Che cosa resta di positivo di quella stagione? Due cose. La legge sulla elezione diretta dei sindaci. E il fatto che gli italiani, sia pure per poco, hanno potuto sperimentare ciò che non avevano mai conosciuto ai tempi della Prima Repubblica e che è la regola in altre democrazie: primi ministri e governi scelti tramite un confronto elettorale aperto fra forze politiche contrapposte anziché tramite giochi parlamentari post-elettorali. Il sistema non ha funzionato bene? Forse, ma occorre tempo (a volte, qualche generazione) perché le innovazioni vengano davvero assimilate, diventino parte della tradizione politica di un Paese e possano dare il meglio di sé. Non si è concesso alla rivoluzione maggioritaria il tempo necessario perché fosse assimilata. Soprattutto, non si è verificato ciò che i riformatori degli anni Novanta speravano: non c’è stato l’effetto- trascinamento allora auspicato. Non sono seguite (tranne nel caso dei governi locali) quelle trasformazioni istituzionali che avrebbero dovuto accompagnare il cambiamento della legge elettorale: non sono stati toccati i rapporti fra presidenza della Repubblica, governo e Parlamento, e i rispettivi poteri. Abbiamo così accoppiato—provocando gravi disfunzioni — una legge maggioritaria (che carica di una fortissima legittimazione, e di pari aspettative, i governi così eletti) a relazioni fra le suddette tre istituzioni rimaste invariate, più adatte all’epoca precedente, quando i governi, nati da accordi parlamentari, avevano legittimazione debole e precaria. Ma, si dice, il vero difetto stava nel fatto che con il maggioritario si formavano coalizioni eterogenee e rissose, con grave danno per la governabilità. Approfondiamo questo aspetto. In tutte le democrazie difficili (come è stata e continuerà ad essere la nostra) esistono molti estremisti, persone alla perenne ricerca di una leva per «rovesciare il tavolo ». Ne consegue che nelle democrazie difficili sarà sempre molto nutrito il numero di rappresentanti parlamentari degli estremisti. Che cosa deve farci la democrazia con questi rappresentanti? Nella logica maggioritaria li include, in quella proporzionale li esclude. I proporzionalisti propongono di tornare a un sistema nel quale i rappresentanti degli estremisti siano esclusi dalle combinazioni di governo. La proporzionale, a differenza del maggioritario, lo consente. A prima vista, sembra ragionevole. Ma c’è un problema. Poiché gli estremisti sono tanti, ne consegue che i partiti moderati non disporranno mai dei numeri necessari per alternarsi al governo, per formare coalizioni elettorali in grado di conquistare la maggioranza dei seggi. Risultato: l’esclusione permanente dei partiti estremisti determina l’impossibilità di alternanze per vie elettorali. Sbarrata quella possibilità, non resta che la formazione dei governi tramite accordi parlamentari tra partiti moderati. In concreto, significa che qualche partito sarà al governo sempre, quali che siano i risultati delle elezioni, nonché le sue performance governative. E significa che i governi che si formano (attraverso un gioco di inclusioni ed esclusioni dell’una o l’altra frazione moderata) saranno governi a debole legittimazione, privi di quel valore aggiunto che dà a un premier e al suo governo la vittoria elettorale. Inoltre, poiché la punizione degli elettori può essere elusa, i governi avranno vita breve (non ci saranno mai governi di legislatura), continuamente destabilizzati dalle ambizioni personali di questo o quel politico, o gruppo, provvisoriamente escluso dal governo. Così è stato nella Quarta Repubblica francese (1946-1958). Così è stato in Italia (dopo i governi della ricostruzione) fino al 1993. Così è sempre nelle democrazie difficili, gravate da un eccesso di estremisti. Oltre a una perenne debolezza e instabilità degli esecutivi, con la proporzionale c’è l’inconveniente che i partiti estremisti, sciolti dai vincoli delle coalizioni di governo, dispongono della libertà di manovra necessaria per mietere buoni raccolti elettorali. Invece, nella logica maggioritaria applicata alle democrazie difficili, gli estremisti vengono inclusi. La ratio è: fanno meno danni se sono dentro. Nelle coalizioni che la logica maggioritaria impone, i partiti estremisti possono essere controllati e, entro certi limiti, responsabilizzati. E non dispongono di sufficiente spazio di manovra per strappare troppi consensi ai moderati. Si può anche sperare che col tempo i bollori si spengano, che molta più gente, grazie al fatto che gli estremisti non sono troppo liberi di spararle grosse, si stanchi di loro scoprendo le virtù della moderazione. Non è sicuro che accada. Ma, almeno, in regime di maggioritario, una speranza c’è. Con la proporzionale, invece, tale possibilità è esclusa. Si tratta di un perfetto brodo di coltura per estremisti liberi dalle costrizioni del governo, l’ambiente più adatto per fare crescere opposizioni irresponsabili. Ai tempi della proporzionale, esistevano in Italia grandi partiti con un forte insediamento sociale. A differenza di altri, chi scrive non ne è mai stato un estimatore. Resta che quei partiti assicuravano una certa coesione sociale. Come si potrebbe evitare, con il ritorno alla proporzionale, un effetto marmellata, una condizione permanente di confusione e di precarietà, posto che quei partiti radicati di un tempo non sono più ricostituibili? Il futuro sarebbe scritto: instabilità, governi deboli e precari, ampi spazi per opposizioni irresponsabili. Varrà la pena di pensarci se e quando (come sembrano indicare i propositi che la politica sta manifestando) si metterà mano alla riforma elettorale. Angelo Panebianco 19 gennaio 2012 | 11:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_gennaio_19/proporzionale-nostalgie-fuori-luogo-panebianco_d1734f18-4247-11e1-9408-1d8705f8e70e.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La democrazia può anche fallire Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2012, 04:57:06 pm CRISI DEL DEBITO ED EFFETTI POLITICI
La democrazia può anche fallire Le crisi obbligano a bagni di umiltà. Con la più grave crisi dai tempi della Grande Depressione si è dissolta, almeno temporaneamente, l'arroganza intellettuale con cui in tanti (esperti, governi, autorità internazionali), fino a ieri, spiegavano il mondo e proponevano le loro infallibili ricette e previsioni sul futuro. Le crisi svelano ciò che resta di solito celato ma è vero anche in tempi più tranquilli: i fattori in gioco, fra loro interagenti, sono troppo numerosi perché siano possibili spiegazioni «onnicomprensive» nonché affidabili previsioni sul futuro stato del mondo. Soprattutto, restano imprevedibili gli esiti delle continue influenze reciproche fra politica e economia. Ciò non toglie però che se non si considerano quelle influenze reciproche si capisce poco o nulla della crisi in corso. Si pensi al viaggio di Mario Monti negli Stati Uniti. Il successo che il nostro primo ministro ha ottenuto nei suoi incontri col mondo politico e finanziario americano è stato forse un balsamo per il nostro (depresso) umore nazionale, ma è un fatto che dietro a quel successo c'è la paura americana (e la paura di Obama alla vigilia di elezioni presidenziali incerte) per l'evoluzione futura della crisi dell'euro, una crisi i cui esiti non dipendono «solo» dalla politica, dalle decisioni dei governi, ma «anche» dalla politica. Si appoggia Monti sperando che ciò serva a influenzare positivamente, oltre che il giudizio dei mercati, le scelte future dei governi, tedesco in testa. Nessuno sa se e come ciò avverrà. Oppure prendiamo il caso della Grecia, ormai preda di convulsioni violente. All'inizio della crisi, l'incendio greco poteva essere spento facilmente. Non lo fu per un veto tedesco, frutto, non di un capriccio di Angela Merkel, ma dell'orientamento dominante nella società tedesca. I tedeschi non volevano pagare il prezzo per l'errore, di cui erano corresponsabili, commesso quando la Grecia, senza averne i requisiti, fu ammessa nell'Europa monetaria. Oggi la Grecia è con le spalle al muro. Il suo probabilissimo fallimento promette conseguenze pesanti (di cui la Merkel ora si preoccupa) per l'Unione e per la stessa sostenibilità del sistema finanziario. Conseguenze ancor più pesanti riguardano la Grecia. Come tutto il resto, anche le rivoluzioni sono imprevedibili. Però, nessuno faccia oh!, nessuno assuma un'aria stupefatta, se in Grecia i sommovimenti raggiungeranno una intensità tale da minacciare le istituzioni democratiche. Nelle analisi dedicate alla evoluzione della crisi economico-finanziaria, è spesso poco soddisfacente, di rado illuminante, il trattamento dei fattori politici. Sovente, la politica è presa in considerazione più come un fastidioso ostacolo, fonte di ogni irrazionalità, che come una condizione da trattare con la stessa freddezza con cui si valutano le grandezze macro-economiche e i loro cambiamenti. In genere, si ragiona in questo modo: prima si identificano le cose che andrebbero fatte se la «razionalità» prevalesse; poi si aggiunge che, malauguratamente, fattori politici, come, ad esempio, le imminenti elezioni in vari Paesi, frenano i governanti, impediscono loro di fare le scelte razionalmente corrette. È un modo sbagliato di ragionare. La politica non è necessariamente un ambito dell'agire umano più irrazionale dell'economia. Semplicemente, opera secondo ragioni e logiche diverse. Se nelle fasi di espansione la ragion politica (che ha di mira il consenso) e la ragione economica possono sostenersi a vicenda, nelle fasi di crisi entrano facilmente in conflitto. Si aggiunga la specificità europea: con la moneta unica, a cui non ha fatto seguito l'integrazione politica, le regole della democrazia (l'unica che c'è, quella nazionale) e le regole imposte dall'Unione monetaria, sono entrate, a causa della crisi, in rotta di collisione. Il che spiega anche il fatto che i rapporti intergovernativi abbiano oscurato il ruolo (con la sola eccezione della Bce) delle istituzioni europee sovranazionali. E poiché, nonostante certa facile retorica europeista, gli elettori europei restano, a schiacciante maggioranza, avvinghiati come l'edera alle loro istituzioni democratiche nazionali (il che è peraltro comprensibile: più è vicino il potere del governo, più l'elettore può sperare, o illudersi, di influenzarlo), il dilemma appare, e forse è, insolubile. Il tutto aggravato dalla questione tedesca. In una lucida analisi Lucrezia Reichlin (sul Corriere dell'8 febbraio) ha scritto che le nuove regole del fiscal compact imposte dalla Germania all'Europa sono espressione di una crescente incompatibilità: fra una Germania esportatrice, proiettata fuori dall'area euro, sempre meno dipendente dai mercati europei, e il resto d'Europa condannato a uno sviluppo anemico anche a causa dei drastici aggiustamenti di bilancio imposti dai tedeschi. Se l'analisi è corretta, se la divaricazione fra gli interessi della Germania e di tutti gli altri europei è destinata ad aumentare con crescenti costi per questi ultimi, si può immaginare che si verifichino, in un prossimo futuro, potenti reazioni antitedesche (e, quindi, anti-europee) in molti Paesi. E sarà la democrazia, il meccanismo elettorale, il veicolo di quelle reazioni. Cosa potrebbe restare a quel punto dell'Unione è difficile dire. Senza contare i prezzi che dovrebbero pagare le varie democrazie europee: non è prevedibile, infatti, la natura dei movimenti politici che potrebbero affermarsi. Sarebbe una vera beffa del destino se dalla crisi in corso uscissimo non solo con una Europa a pezzi ma anche con istituzioni democratiche (nazionali), in alcuni Paesi almeno, indebolite o compromesse. Riflettere meglio sui rapporti fra politica e economia non garantisce che si trovino soluzioni ma è condizione necessaria per la ricerca, se c'è, di qualche via d'uscita. Il mondo è un posto complicato e opaco la cui evoluzione è largamente imprevedibile. Non c'è bisogno di ingannare il pubblico lasciando credere che se ne conosca la direzione di marcia o le ricette giuste per guidarlo. Meglio riconoscere onestamente la limitatezza delle nostre conoscenze e la necessità di fare uso del poco che sappiamo con la saggezza consentita dalle circostanze. Angelo Panebianco 14 febbraio 2012 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_febbraio_14/la-democrazia-puo-anche-fallire-angelo-panebianco_ae369c50-56d1-11e1-a6d2-3f65acf5f759.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La polveriera iraniana Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 05:30:46 pm I RISCHI DI GUERRA E L'ASSENZA DELL'EUROPA
La polveriera iraniana Fare i conti senza l'oste. L'Europa appare ormai da tempo ripiegata su se stessa. La crisi dell'euro, il fallimento di fatto della Grecia, i rischi corsi dall'Italia, le imminenti elezioni francesi, i gravi problemi della maggioranza di governo in Germania favoriscono l'introversione europea. L'Europa sembra cieca e sorda rispetto a ciò che si muove intorno a lei, ai pericoli incombenti e alle conseguenze che possono derivare da eventi esterni al perimetro dell'Unione. Organismo debilitato e in crisi l'Unione, e anche i suoi Stati più importanti, Germania in testa, sembrano rassegnati a un ruolo passivo e secondario nelle crisi esterne all'Europa. Come se parole quali «interdipendenza» o «globalizzazione», a forza di ripeterle, avessero perso il loro significato originario, come se fosse possibile isolare l'Europa dalle onde d'urto che provengono dall'esterno. Le divisioni che attraversano oggi il Vecchio continente hanno di mira solo i suoi equilibri interni: ad esempio, la lettera con cui dodici leader europei hanno chiesto vigorose misure per la crescita segnala il debutto di una coalizione contraria alle rigidità tedesche, alla politica di rigore senza sviluppo che la Germania sta imponendo all'Unione. Ciò è spiegabile alla luce della crisi che ha investito l'Europa. Meno spiegabile è invece la latitanza europea dagli scacchieri esterni nei quali si giocano partite che possono avere un grandissimo impatto sulla evoluzione della crisi europea. Meno spiegabile è il fatto che i capi di governo europei non abbiano ancora trovato tempo e modo per una presa di posizione collettiva su ciò che sta accadendo in Medio Oriente. Come se l'Europa potesse disinteressarsene. In Medio Oriente i venti di guerra stanno soffiando con sempre maggior forza. È probabile che Israele, sul quale pesa una minaccia esistenziale, una minaccia alla sua sopravvivenza, decida entro pochi mesi di attaccare l'Iran, di colpirlo prima che esso si doti di armamenti nucleari. La guerra è resa ancor più probabile per il fatto che in Iran è in corso una lotta senza esclusione di colpi fra due fazioni, entrambe nemiche di Israele ed entrambe sostenitrici del programma nucleare, quella che fa capo alla Guida suprema Khamenei e quella che fa capo al presidente Ahmadinejad. Come spesso accade in queste circostanze, la fazione più in difficoltà potrebbe scegliere di aggravare ulteriormente la crisi con Israele, innescando così il conflitto armato, nel tentativo di prevalere sulla fazione rivale. Si aggiunga il fatto che l'Iran corre il rischio, nei prossimi mesi, di vedere indebolita la propria posizione internazionale a causa della crisi, quasi certamente irreversibile, del suo principale alleato mediorientale, il regime siriano. E ciò può accrescere nei suoi governanti la tentazione dell'avventurismo. L'ondata che la guerra solleverebbe sarebbe gigantesca. Il prezzo del petrolio volerebbe alle stelle con un fortissimo impatto recessivo sull'economia internazionale. Negli scenari più cupi, però, il costo stimato del petrolio in caso di conflitto sarebbe addirittura il problema minore. Perché si aprirebbero, soprattutto per l'Europa, anche gravissimi problemi di sicurezza. L'estremismo islamico sciita-iraniano potrebbe avere interesse a colpire l'Europa per costringerla a esercitare pressioni su Israele. E troverebbe alleati, probabilmente, fra gli estremisti sunniti, anch'essi nemici di Israele. Si noti che l'evoluzione in Medio Oriente sarebbe negativa per noi europei sia nel caso che la guerra scoppiasse a breve termine sia nel caso che venisse rinviata nel tempo. Nella prima eventualità, ci sarebbe una immediata onda d'urto. E, inoltre, le conseguenze di medio-lungo termine sarebbero altrettanto gravi. Se la guerra scoppiasse ora e Israele vincesse allontanando da sé la minaccia nucleare, ciò sarebbe ottenuto al prezzo di un drastico indebolimento della potenza iraniana in Medio Oriente. Tolto di mezzo il loro storico nemico politico-religioso, i fondamentalisti sunniti, veri vincitori, fino ad oggi, delle cosiddette rivoluzioni arabe, diventerebbero molto più aggressivi. E con la loro accresciuta aggressività non solo Israele ma anche l'Europa dovrebbero fare i conti. Se invece la guerra non scoppiasse subito e l'Iran diventasse una potenza nucleare, la conseguenza non sarebbe solo un rischio permanente per la sopravvivenza di Israele: i regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, dovrebbero a loro volta rapidamente dotarsi di armi nucleari per riequilibrare l'Iran. Un Medio Oriente interamente nuclearizzato sarebbe un incubo per il mondo e per l'Europa in primo luogo. Ciò che davvero servirebbe a tutti, ma non c'è speranza di ottenerlo a breve termine, è un cambiamento di regime in Iran. Rassicurando così sia Israele che gli arabi sunniti. Obama e gli europei persero un'occasione d'oro quando, per miopia politica, non appoggiarono attivamente la rivolta antiregime in Iran del 2009. Fu l'unica buona occasione per rovesciare il regime teocratico nato dalla rivoluzione del 1979. E venne sprecata. Sarebbe stato più utile per tutti se gli occidentali avessero fatto per l'Iran in quella occasione ciò che hanno fatto (forse con eccessivo entusiasmo) per la Libia nel 2011, o almeno, senza arrivare all'intervento diretto, ciò che sta facendo oggi la Turchia a sostegno dei rivoltosi in Siria. Che i medici si diano da fare intorno al capezzale dell'euro va benissimo. Ma senza dimenticare che i pericoli che corriamo sono di varia natura. Dal Medio Oriente, come sempre, arrivano i più insidiosi. Angelo Panebianco 2 marzo 2012 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA da - Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le primarie senza futuro Inserito da: Admin - Marzo 09, 2012, 11:34:42 am Dopo il caso Palermo
Le primarie senza futuro È ovviamente la scoperta dell'acqua calda: in condizioni di massimo discredito dei partiti politici è probabile che le primarie indette da quegli stessi partiti siano vinte da outsider, da persone che si candidano «contro» i candidati ufficiali, contro i candidati sponsorizzati dai leader nazionali di partito. Il risultato palermitano delle primarie del centrosinistra conferma il trend: contro la candidata ufficiale, Rita Borsellino, sponsorizzata dalla segreteria nazionale del Pd (oltre che da Di Pietro e Vendola) vince un candidato «centrista» (ex Idv) che ha dietro di sé il sostegno del presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e del Pd locale alleato di Lombardo. La sconfitta della Borsellino arriva, come sappiamo, dopo una lunga serie di sconfitte di candidati ufficiali del Pd, da Milano a Napoli a Genova. Ciascuno di quei risultati si spiega, prima di tutto, alla luce di circostanze locali. Ma ci sono anche ragioni più generali. Discredito dei partiti a parte, giocano in questi risultati anche alcune anomalie, soprattutto la natura «bizzarra» delle primarie all'italiana. In primo luogo, non si tratta di gare ove ciascun candidato possa lottare «alla pari» (almeno in linea di principio) con gli altri candidati. Qui ci sono appunto «candidati ufficiali», sponsorizzati da apparati di partito. Col risultato che se l'apparato gode localmente di prestigio vincerà il candidato ufficiale (il caso di Piero Fassino a Torino) e se invece è screditato vincerà l'outsider. In secondo luogo, si tratta di primarie aperte che si svolgono in un contesto multipartitico, per giunta altamente frammentato. Ma mentre in contesti bipartitici le primarie possono risultare un utile strumento per selezionare gruppi dirigenti, è più difficile che ciò possa accadere in contesti multipartitici frammentati. Ciò detto, un merito, nella attuale situazione, l'istituzione delle primarie lo ha senz'altro: è uno dei pochi mezzi di collegamento rimasti fra i cittadini e la politica rappresentativa. Esile e distorto, certamente: dietro lo schermo della retorica democratica, può consentire a micro-frazioni di attivisti, non rappresentativi del più ampio elettorato, di condizionare i risultati. Ma in una fase in cui i partiti nazionali sono oscurati dal governo (detto) dei tecnici, le primarie, sia pure solo per la scelta di candidati locali, mantengono una loro utilità. Non è detto che si tratti di una istituzione destinata a durare. Forse, le primarie sopravvivranno per qualche tempo nelle competizioni locali, cittadine. Non avranno invece alcun futuro nella selezione dei gruppi dirigenti nazionali. Se ci sarà la prevista riforma elettorale in senso proporzionale, se si chiuderà l'epoca delle coalizioni contrapposte che chiedono il voto agli elettori l'una contro l'altra, allora di primarie nazionali non si parlerà mai più. Per una semplice ragione: se i governi si formano in Parlamento dopo le elezioni, allora i gruppi dirigenti dei partiti devono disporre della massima libertà di manovra (massima libertà di contrattare a destra e a manca gli accordi di governo) e nessuno potrà e dovrà disturbare i manovratori. Dunque: niente primarie nazionali. Sarà un bene o un male? Si vedrà. Di sicuro, però, dopo tante parole spese contro il «Parlamento dei nominati», sarà divertente vedere a quali contorsioni dialettiche dovranno sottoporsi coloro che si sono più impegnati in quella campagna per spiegarci in che cosa il prossimo Parlamento sarà diverso dall'attuale. Angelo Panebianco 6 marzo 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_06/panebianco-primarie-senza-futuro_4cd6cd2a-6754-11e1-894d-3b3e16fcb429.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Tra riscatti e ipocrisie Inserito da: Admin - Marzo 11, 2012, 10:58:39 am CASO NIGERIANO E MARÒ IN INDIA
Tra riscatti e ipocrisie Puoi anche non curarti della politica internazionale. Sarà comunque lei a scovarti e ad occuparsi di te. Le due vicende dei marò italiani sequestrati dalle autorità indiane e del blitz britannico in Nigeria, ci hanno messo improvvisamente di fronte, come ha rilevato ieri Franco Venturini sul Corriere, alle nostre fragilità e alle incertezze con cui noi italiani, non da oggi, ci muoviamo nelle acque torbide e pericolose della politica internazionale. Per sovrappiù, in questo particolare frangente, queste vicende ci costringono anche a interrogarci sui limiti, se ci sono, dei governi sprovvisti di un esplicito mandato politico degli elettori. Terrorismo, industria degli ostaggi, pirateria. Alla origine delle due crisi ci sono le nuove minacce alla sicurezza in un’epoca di globalizzazione. Con in più, in certi casi, la complicazione data dalle pretese di riconoscimento del proprio accresciuto status internazionale da parte delle nuove potenze extraoccidentali. Come mostra l’atteggiamento indiano nella vicenda dei soldati italiani. Nella crisi nigeriana, scontiamo le ipocrisie e le ambiguità con cui da troppo tempo copriamo, di fronte a noi stessi, certe nostre scelte di fondo. Noi abbiamo la fama di pagare i riscatti sempre e comunque. E, per lo più, neghiamo di farlo. Non è questa una responsabilità del governo Monti che ha semmai ereditato una prassi consolidata dai suoi predecessori. È plausibile che i britannici ci abbiano avvertito del blitz solo ufficiosamente, e non ufficialmente, perché temevano, oltre che fughe di notizie, anche una reazione negativa del governo italiano. È evidente che anche gli altri occidentali, quando non possono ricorrere alla forza, si adattano a pagare i riscatti. Ed è evidente che in questioni di questa natura occorrano flessibilità e discrezione. Ma, dato che l’industria dei sequestri continuerà a prosperare, dovremmo cominciare a chiederci se non sia il caso di fare qualche cambiamento nella nostra tradizionale linea di condotta. Per esempio, potremmo chiederci non tanto perché i britannici non ci abbiamo informato in tempo quanto perché, data la presenza di un ostaggio italiano, non ci fossero sul campo anche le nostre forze speciali. Come minimo, dovremmo chiederci se è poi davvero così «umanitaria» la politica del pagamento dei riscatti: quanto può contribuire quella politica ai sequestri prossimi venturi di operatori italiani? Nel caso nigeriano, più che di responsabilità specifiche del governo Monti, è di una responsabilità nazionale che bisogna parlare: c’è, ormai da anni, una emergenza legata ai sequestri ad opera di terroristi e di predoni. E noi non siamo stati ancora capaci di affrontare il problema senza ipocrisie. Diverso è il caso dei marò italiani. Qui gli errori del governo ci sono stati: diversi e gravi. Il primo è stato quello di non chiarire subito al comandante della nave (e forse anche all’armatore) che le conseguenze sarebbero state per loro assai pesanti se la nave fosse entrata nelle acque territoriali dell’India mettendo i nostri soldati alla mercé delle autorità locali. Gli errori del governo poi sono continuati. Come ha mostrato il grave ritardo con cui abbiamo coinvolto nella vicenda l’Unione Europea. E come ha mostrato l’inutile visita del ministro Terzi in India, giustamente stigmatizzata da tanti. Abbiamo dato l’impressione, anzi lo abbiamo persino dichiarato, che la vicenda dei marò non avrebbe dovuto comunque compromettere i nostri ottimi rapporti con l’India. Troppo zelo, nel momento sbagliato. È evidente che abbiamo interesse a coltivare, e anzi a intensificare, le nostre relazioni economiche con l’India. Ma dichiararlo nel mezzo di una crisi come questa finisce per dare a tutti l’impressione che il business sia comunque più importante del riportare a casa i nostri soldati. Lasciamo da parte la polemica politica che si è subito accesa, e nella quale prevale la propaganda. Dobbiamo riconoscere che l’Italia (e non il governo Monti in particolare) non ha ancora voluto fare apertamente i conti con le nuove sfide alla sicurezza. Sfide che mettono sempre in gioco la questione dell’uso della forza. Si tratti di terrorismo o di pirateria. Una questione, per noi, irrisolta. Potremmo, per cominciare, smetterla (siamo gli unici a farlo) di chiamare «operatori di pace» i nostri soldati di professione. Però, è anche possibile che qualche problema legato alla natura di questo governo, del governo Monti, ci sia effettivamente. Il governo Monti è nato per fronteggiare una emergenza economico-finanziaria e ha fin qui fatto bene il suo lavoro. Ma è anche giusto chiedersi se, di fronte a sfide internazionali di diversa natura, le sue capacità di reazione non siano troppo deboli. E se la debolezza non abbia qualcosa a che fare con la natura particolare del governo. Non è questione di tecnici o di politici. È questione di essere in possesso, oppure no, di un mandato elettorale e di avere intenzione, oppure no, di battersi per la propria riconferma alle elezioni che verranno. Perché questo problema conta così tanto nelle crisi? Perché i governanti che sono tali grazie a elezioni vittoriose, e che si battono per vincere anche quelle successive, sono costretti a una reattività di fronte alle crisi che sembra mancare ai governanti sprovvisti di mandato popolare. I primi sanno che sulle crisi possono anche giocarsi la rielezione. I secondi non si pongono il problema. Ciò non garantisce affatto, figurarsi, che i governanti eletti faranno bene. Ma, di sicuro, ci sarà su di loro una pressione, una costrizione imposta dalle cose (e dalla paura della punizione elettorale) che non è presente o, quanto meno, è meno visibile nel caso dei governanti non eletti. Angelo Panebianco 11 marzo 2012 | 8:56© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_11/panebianco-tra-riscatti-e-ipocrisie_3f21f6d8-6b4a-11e1-a02c-63a438fc3a4e.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Poteri di veto e costituzione Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:41:00 pm IL RUOLO DELLE PARTI SOCIALI
Poteri di veto e costituzione Gli specialisti dei problemi del lavoro discutono sulla efficacia o meno della riforma messa a punto dal governo Monti. Accrescerà davvero la flessibilità del mercato o accrescerà solo i contenziosi giudiziari? Favorirà l’occupazione o aumenterà gli oneri a carico delle imprese? A parte le valutazioni di merito c’è anche in gioco un problema che sarebbe riduttivo definire «politico »: perché investe gli equilibri del nostro sistema istituzionale, riguarda quella che con espressione abusata viene detta la «costituzione materiale». Il quesito è se ne sia parte integrante il potere di veto dei sindacati e, in particolare, della più forte organizzazione, la Cgil (a sua volta trainata dalla Fiom). Molti pensano che, almeno dagli anni Settanta dello scorso secolo, quel potere di veto sulle questioni del lavoro sia uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica. Da qui la diffusa convinzione, propria di chi confonde democrazia e costituzione materiale, secondo cui sfidare quel potere di veto equivalga a mettere in discussione la democrazia. Ricordiamo che prima di oggi, negli ultimi trenta anni, il potere di veto della Cgil è stato sfidato dai governi solo in due occasioni, una volta con successo e una volta no. Negli anni Ottanta fu il governo di Bettino Craxi ad ingaggiare un braccio di ferro con la Cgil sulla questione del punto unico di contingenza. In quella occasione, la Cgil perse la partita e la sua sconfitta consentì all’Italia di porre termine al regime di alta inflazione che l’aveva flagellata per più di un decennio. La seconda volta, il potere di veto della Cgil venne sfidato dal (secondo) governo Berlusconi proprio sull’articolo 18. L’allora segretario della Cgil, Sergio Cofferati, riuscì a mobilitare e a coagulare intorno a sé tutte le forze antiberlusconiane del Paese e la maggioranza parlamentare non seppe conservare la coesione necessaria. L’articolo 18 non venne toccato, il governo uscì sconfitto. In entrambe le precedenti occasioni, la mobilitazione della Cgil e dei suoi alleati aveva come bersaglio un chiaro, riconoscibile, «nemico di classe»: Craxi (socialista ma anche anticomunista) e Berlusconi. Adesso le cose sono assai più complicate persino per la Cgil. Il contesto, sia politico che economico, non l’aiuta. Monti e Fornero possono anche essere dipinti nelle piazze come nemici di classe. Ma si dà il caso che l’attuale governo sia un governo del Presidente, voluto e sostenuto da Giorgio Napolitano. Sarà alquanto difficile, e poco credibile, trattare da nemico di classe anche il presidente della Repubblica. Né aiuta la Cgil il contesto recessivo e i potenti vincoli esterni che incombono sull’economia italiana. La battaglia per conservare il potere di veto e, con esso, la potenza dell’organizzazione, si scontra con una congiuntura nella quale il giudizio dei mercati, delle istituzioni finanziarie e dell’Unione Europea sull’operato del governo e del Parlamento è decisivo e può farci facilmente ripiombare nella condizione di assoluta emergenza in cui eravamo solo pochi mesi fa. Dopo le elezioni amministrative, quando il provvedimento del governo approderà in Parlamento, vedremo se il potere di veto della Cgil ne uscirà ridimensionato o riaffermato. Sarà la cartina al tornasole per capire se ci saranno cambiamenti oppure no nella costituzione materiale della Repubblica. Chi definisce solo simbolica la questione dell’articolo 18 forse sottovaluta il fatto che, in genere, sono proprio gli esiti delle battaglie sui simboli a decidere queste cose. Angelo Panebianco 26 marzo 2012 | 9:15© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_marzo_26/panebianco-poteri-di-veto-e-costituzione_66113e8a-7701-11e1-93b9-89336e75ab45.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Partitocrazia senza partiti Inserito da: Admin - Aprile 02, 2012, 04:57:51 pm ISTITUZIONI E SPESA PUBBLICA
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere , 31 marzo), ribadendo che il circolo virtuoso della crescita economica non potrà mettersi in moto se non ci si decide a tagliare la spesa pubblica e ad abbassare le tasse (anziché continuare ad aumentarle), hanno anche osservato che ciò richiederebbe un contesto istituzionale appropriato. È difficile non mettere in relazione quella giusta osservazione con l'accordo di massima raggiunto dai leader di Pd, Pdl e Udc sulle riforme istituzionali. Un accordo di cui non sono ancora noti certi dettagli, ma la cui ispirazione di fondo è chiarissima. Almeno per chi conosce la storia e le tradizioni del Paese. L'accordo annunciato avrebbe potuto benissimo essere concepito negli anni Ottanta dello scorso secolo quando democristiani e comunisti erano ancora le forze dominanti. Proprio da quelle due esperienze provengono diversi protagonisti dell'accordo di oggi. E le tradizioni culturali non sono acqua. L'accordo previsto, con il ritorno alla proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento, assicurerà all'Italia un futuro di esecutivi deboli e brevi, di perenne instabilità (si veda l'ottima analisi di Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore del 28 marzo). Una condizione che abbiamo ben conosciuto per un quarantennio, all'epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Scordatevi per sempre i «governi di legislatura», quelli che durano per tutto l'intervallo che va da una elezione all'altra. Bene, anzi male. Ma che c'entrano le riforme istituzionali previste con l'impossibilità di tagliare seriamente la spesa pubblica? C'entrano. Perché la spesa pubblica potrebbe essere tagliata solo da governi istituzionalmente forti che possiedano tutti gli strumenti necessari per imporre le proprie scelte e che abbiano la certezza di durare per una intera legislatura. Governi come quello uscito dalle recenti elezioni in Spagna, ad esempio. Le riforme prospettate qui da noi vanno nella direzione opposta. Non ci si faccia ingannare dagli specchietti per le allodole, disseminati qua e là. Ad esempio, dalla prevista «sfiducia costruttiva». È un marchingegno (talvolta) utile per rafforzare i governi ma solo a due condizioni: che in Parlamento siano rappresentati pochissimi partiti, coesi e disciplinati, e che una sola Camera (e non tutte e due, come prevede invece l'accordo) sia abilitata a fiduciare o a sfiduciare gli esecutivi. Altrimenti, la «sfiducia costruttiva» è solo un pasticcio, una norma aggirabile con facilità. Non meno truffaldina di quella che prevede l'indicazione del candidato premier sulla scheda. Il bipolarismo, di cui ci si vuole sbarazzare, non è un ideale estetico. È una concretissima esigenza. Solo se la competizione politica ha una struttura bipolare, gli elettori possono esercitare il potere che la democrazia affida loro: quello di cacciare il governo che li ha delusi mettendo al suo posto l'opposizione. Inoltre, il bipolarismo è una condizione necessaria (ma non sufficiente, come abbiamo sperimentato in Italia negli ultimi diciotto anni) per avere governi forti. Il governo forte è, a sua volta, una necessità per una democrazia bene funzionante e molti problemi italiani sono sempre dipesi dalla debolezza istituzionale dei governi. Ma il bipolarismo, nei suoi diciotto anni di vita, non ha forse funzionato male? È vero ma fra le ragioni va anche ricordato l'attivo sabotaggio attuato dagli stessi che oggi ne denunciano con soddisfazione il fallimento. Non si può fare, come facemmo noi nei primi anni Novanta, una riforma maggioritaria e poi pretendere di non spazzare via le regole consociative su cui si regge il Parlamento. Non si può fare una riforma maggioritaria mantenendo però un sistema di finanziamenti che incentiva la frammentazione partitica. Non si può fare una riforma maggioritaria e poi negare ai primi ministri, come abbiamo sempre fatto, i poteri istituzionali di cui dispongono il premier britannico, il cancelliere spagnolo o il presidente francese. Noi abbiamo oggi una «partitocrazia senza partiti», raggruppamenti politici che hanno mantenuto l'antica funzione di uffici di collocamento, di distributori di posti e prebende (lo dico senza moralismi: tutti i partiti del mondo fanno anche questo) ma hanno perduto l'insediamento sociale, i forti legami con la società che avevano i partiti di un tempo. Partiti siffatti hanno bisogno, ancor più di quelli della Prima Repubblica, di contare sulla spesa pubblica come strumento di consenso elettorale. Nulla di meglio, allo scopo, di un ritorno al sistema proporzionale e alle pratiche spartitorie che esso favorisce. Perché rischiare, col maggioritario, di essere esclusi a lungo dal potere e, per conseguenza, dal controllo sulle risorse pubbliche? Ciò che realmente ci dice l'accordo sulle riforme istituzionali è che mentre il mondo esterno è drammaticamente mutato i nostri principali raggruppamenti politici, e le loro rispettive clientele, pensano come se nulla fosse accaduto negli ultimi venti anni. Alcuni addirittura raccontano che, ritornando ai vecchi riti, si potranno anche resuscitare quei legami fra partiti e società che non esistono più da tempo. Ciò però è falso: quei legami non sono ricostituibili. Perché, insieme al mondo esterno, è cambiata la società italiana. Una classe politica all'altezza delle sfide incombenti proporrebbe altro da quanto ci viene ora cucinato. Proporrebbe una buon legge elettorale maggioritaria, una drastica riforma del finanziamento dei partiti, e l'abbandono del parlamentarismo puro a favore o di un autentico sistema di cancellierato (autentico: non la caricatura da noi inventata che chiamiamo «modello tedesco») o di una qualche forma di presidenzialismo. Per assicurare alle cariche di governo un maggiore potere decisionale ma anche quel carisma che è stato definitivamente perduto dai partiti. E invece no. Ci propongono una versione della «Repubblica dei notabili». Una simil III Repubblica francese (ottocentesca) che soddisferà forse gli istinti manovrieri, e il gusto per gli intrighi parlamentari, di questo o quel leader, ma che non ci porterà da nessuna parte. Angelo Panebianco 2 aprile 2012 | 8:25© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_02/panebianco-partitocrazia-zenza-partiti_9cec8350-7c84-11e1-b9fa-a64885bf1529.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi alimenta l'antipolitica Inserito da: Admin - Aprile 10, 2012, 12:03:55 pm LE TRE CAUSE DEL DISCREDITO
Chi alimenta l'antipolitica Intervenendo sulla vicenda dei finanziamenti ai partiti il presidente della Repubblica ha ammonito che ciò che rischiamo è «la fine della democrazia e della libertà». Ad alcuni, quella di Napolitano, sarà parsa una forzatura retorica. Ma non lo è. Gli scricchiolii sono sempre più numerosi, il rischio c'è. Si consideri la contestuale presenza di tre elementi. In primo luogo, una crisi economica destinata a durare a lungo, per anni probabilmente, con tanti giovani disoccupati e l'impoverimento di molte famiglie. In secondo luogo, una condizione di generale discredito dei partiti e della classe politica professionale. Infine, l'incapacità di quella medesima classe politica di trovare rimedi adeguati per la crisi di legittimità che l'ha investita. È la sinergia fra questi tre fatti che può provocare conseguenze devastanti. Sbaglia chi crede che la crisi della Lega tolga semplicemente di mezzo uno dei principali strumenti di canalizzazione di umori antipolitici, che quella crisi sia un colpo all'antipolitica. Semmai, contribuisce a esasperarla. L'antipolitica è il convitato di pietra della politica italiana, si nutre del suo discredito, ne succhia il sangue, e può, in qualunque momento, esplodere in forme imprevedibili. Quando i sentimenti antipolitici diventano dominanti, e certamente lo sono oggi in Italia, aspiranti demagoghi di ogni genere si fanno avanti per intercettarli e assicurarsi un lauto bottino. Chi pensa che alle prossime elezioni politiche il gioco, e il pallino, resteranno interamente nelle mani delle vecchie oligarchie forse si illude. È possibile che la combinazione dei tre elementi suddetti (crisi economica, discredito della politica, inadeguatezza delle risposte al discredito) favorisca il successo di movimenti di protesta a vocazione autoritaria, già esistenti o in via di costituzione, non importa di quale colore politico. Con effetti di condizionamento sull'intera politica italiana. Soffermiamoci sulla inadeguatezza delle risposte della classe politica al discredito. Si prenda il caso dei rimborsi pubblici ai partiti. L'andazzo durava da anni. Quando finalmente è esplosa la vicenda Lusi i politici hanno solo finto di scandalizzarsi. Adesso che è scoppiato il caso della Lega sembrano decisi a muoversi. Per fare cosa? A quanto pare, per «riformare» il sistema dei rimborsi, stabilire controlli, regole, eccetera. Senza tener conto di due fatti che pesano come macigni: il primo è che il finanziamento pubblico che vogliono mantenere, sia pure riformandolo, ha un non emendabile vizio d'origine, è figlio di un grave vulnus alle regole democratiche. È stato messo in piedi aggirando, e annullando di fatto, i risultati di un referendum popolare che imponeva la fine del finanziamento pubblico (i radicali di Pannella, che lo hanno sempre denunciato, hanno ragione). Se il sistema viene solo «riformato», il vulnus e la connessa illegittimità restano intatti. Il secondo macigno è dato dal fatto che, essendo i partiti giunti a questo livello di impopolarità, è l'idea stessa di finanziamento pubblico (camuffato o meno da rimborso) che è diventato inaccettabile per il grosso dei cittadini-contribuenti, i quali, per giunta, sono soggetti a una pressione fiscale altissima. Occorrerebbe una rivoluzione, il coraggio di rinunciare ai soldi pubblici e di puntare sui finanziamenti privati (con tutti i paletti, i tetti, i limiti e i controlli che si vuole). Sulla base del principio: il cittadino, se vuole, «si paga» il partito che preferisce. Sarebbe un modo per assicurare che vivano (o si ricostituiscano) i partiti veri, capaci di mobilitare cuori e portafogli, e che muoiano invece le camarille oligarchiche in grado di sopravvivere solo come strutture parastatali, grazie ai soldi pubblici. Non si può fare? Sarebbe una cosa troppo «americana»? E allora tenetevi tutto il pacchetto: i soldi pubblici assieme al disgusto dell'opinione pubblica. Oppure prendiamo il caso delle riforme istituzionali su cui si è realizzato un accordo di massima fra Pdl, Pd e Udc. Luciano Violante, autore di quella bozza, non me ne voglia se dico che quello schema mi sembra, anche al di là delle sue personali intenzioni, un «Manuale di autodifesa per oligarchie partitiche in pericolo». Un manuale, aggiungo, che non può dare ciò che promette. È surreale, nelle attuali condizioni, puntare su una legge elettorale i cui scopi sono quelli di assicurare (come nella legge che si vuole sostituire) il controllo di pochi dirigenti sulle candidature e di ritornare all'epoca in cui i governi si facevano e si disfacevano in Parlamento, senza riguardo per la governabilità. In Italia, dal 1948 al 1992, in 44 anni, si succedettero 45 governi. Non c'è più nessun Muro di Berlino in grado di tenere in piedi un sistema politico così inefficiente. Se non fosse perché troppo preoccupati della propria sopravvivenza politica a breve termine, i politici italiani comprenderebbero che la sola strada rimasta per rimettere in sicurezza la democrazia consiste in un vero ampliamento dei poteri del governo (Cancellierato) o in un ampliamento dei poteri unito alla elezione diretta (Presidenzialismo). E in una legge elettorale coerente con lo scopo. Per iniettare più capacità decisionale nella democrazia e dare alle cariche di governo quel prestigio e quella forza perduti dai partiti e che questi ultimi potrebbero recuperare solo dopo anni di buon lavoro. Le democrazie muoiono di solito per eccesso di frammentazione, instabilità, incapacità decisionale, e per il discredito che, in certe fasi, colpisce i loro partiti. Oggi i partiti italiani vengono percepiti da tanti come un problema anziché una soluzione (ciò spiega la popolarità di Monti). Ai loro dirigenti converrebbe uscire dall'angolo mediante qualche risposta adeguata. Altrimenti, la democrazia potrebbe in breve tempo vacillare sotto l'urto di ondate di protesta sempre più impetuose e pericolose. Angelo Panebianco 10 aprile 2012 | 7:27© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_10/chi-alimenta-antipolitica-angelo-panebianco_d195a206-82cb-11e1-b660-48593c628107.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. RUOLO E FUTURO DEL PARTITO POLITICO Inserito da: Admin - Aprile 16, 2012, 11:48:16 am RUOLO E FUTURO DEL PARTITO POLITICO
Non più un principe ma un utile Sherpa L’Italia sta attraversando una fase in cui i sentimenti antipolitici sono virulenti. Ma che cosa è l’antipolitica? La sua essenza sta nel rifiuto della mediazione politica, di quella attività che consiste nell’aggregare interessi diversi e eterogenei a sostegno di decisioni su problemi collettivi. Le manifestazioni dell’antipolitica variano in funzione dei contesti e delle tradizioni. I suoi nemici, ovviamente, sono i politici, i professionisti della mediazione, giudicati troppo corrotti o troppo inefficienti o entrambe le cose. Se l’enfasi è sulla corruzione, l’antipolitica si nutre di argomentazioni etiche. In Italia conosciamo questa variante dai tempi di Mani Pulite. Più interessante è l’antipolitica fondata su accuse di inefficienza, di incapacità di risolvere i problemi collettivi. Può presentarsi in due versioni. I politici possono essere giudicati inefficienti perché incompetenti. In questo caso l’antipolitica si aggrappa a soluzioni tecnocratiche. Gran parte della popolarità del governo Monti si spiega così. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono troppo complessi per lasciarli nelle mani di politici ignoranti. La complessità esige competenza tecnica. La stessa democrazia rappresentativa può essere percepita come un impiccio. Nella seconda versione, i politici sono ancora una volta inefficienti ma non a causa della complessità. A causa del fatto che badano solo ai propri interessi. L’argomento della inefficienza si somma a quello della corruzione. Per questa forma di antipolitica i problemi collettivi sono semplici. Ogni uomo di buona volontà può risolverli. È l’argomento detto della «cuoca di Lenin ». Lo sostengono tanti demagoghi in tutto il mondo. La situazione italiana è esplosiva perché tutte le forme di antipolitica sono in questo momento presenti. È un brodo di coltura da cui può venir fuori qualunque cosa. Date le nostre tradizioni, la politica contro cui ci si scaglia è la «politica partitica », non quella delle istituzioni: ciò spiega perché, mentre i partiti hanno pessima fama, il presidente della Repubblica in carica, che pure viene dall’esperienza partitica, gode di generale stima. Ma sul ruolo dei partiti bisogna essere chiari. Perché la confusione è tanta (come mostra, ad esempio, un articolo di Alfredo Reichlin sull’Unità di sabato 14 aprile, che se la prende anche con questo giornale). Che i partiti siano necessari alla democrazia rappresentativa è un fatto indiscutibile. Non è invece indiscutibile che siano necessari i partiti come li abbiamo conosciuti in questo Paese. Dell’Italia repubblicana si è sempre detto che essa nacque sotto forma di «democrazia dei partiti». L’affermazione sarebbe stata pleonastica (in tutte le democrazie, infatti, ci sono i partiti) se non fosse per il particolare significato che ha sempre avuto quella espressione. Si riferisce al fatto che i partiti, in un’Italia iper-partigiana, hanno avuto per decenni un ruolo assorbente, totalizzante, in grado di dominare o controllare qualunque istanza si affacciasse alla vita pubblica. La si chiamasse «Repubblica dei partiti» (nella versione benevola) o «partitocrazia» (in quella malevola) la democrazia italiana si è caratterizzata per decenni come un luogo nel quale i partiti erano tutto e le istituzioni erano niente. Le istituzioni, per prima la presidenza della Repubblica, cominciano ad acquistare un peso via via crescente (si pensi a Pertini e poi a Cossiga) solo in coincidenza con l’aggravarsi della crisi dei partiti della (cosiddetta) Prima Repubblica. Il grande problema dei partiti attuali, intorno al quale i loro gruppi dirigenti si sono avvitati accrescendo così il proprio discredito, è che essi non hanno più quei fortissimi legami che hanno avuto per decenni con segmenti importanti della società e che consentivano loro di fare il bello e il cattivo tempo, ma non sono stati in grado di accettarlo e di ridisegnare la propria mission, la propria «ragione sociale». Non è vero che in una democrazia i partiti debbano essere per forza ciò che erano nell’Italia dei primi quaranta anni di storia repubblicana e che l’alternativa sarebbe la scomparsa dei partiti. Coloro che dalla crisi delle formazioni personali o carismatiche, da Berlusconi a Bossi, traggono ispirazione per sostenere che bisogna tornare ai partiti di un tempo, non solo fanno un sogno impossibile (quei legami fra partiti e società non sono ricostituibili perché è cambiata la società italiana). Fanno anche danni, si aggrappano a terapie sbagliate, alimentano l’antipolitica. La vicenda dei rimborsi elettorali (che rimborsi non sono affatto) è emblematica. Solo gruppi dirigenti che immaginavano di poter operare con la stessa arroganza del tempo che fu potevano concepire, di comune accordo, un simile sistema. L’antipolitica può essere contenuta solo se i partiti accettano di essere altro da ciò che sono stati, accettano di essere, come sono nelle democrazie meglio funzionanti, solo organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni. Il che richiede il contestuale rafforzamento dell’autonomia e dei poteri decisionali attribuiti alle istituzioni di governo. Compito dei partiti non è di essere, gramscianamente, i «principi». È di essere, più modestamente, gli sherpa, le strutture di supporto di coloro che si sfidano sul piano elettorale allo scopo di diventare, essi sì (ma con mandato a termine), i principi. Che altro sono i partiti in Francia o in Gran Bretagna? Si guardi alla esperienza di maggior successo degli ultimi venti anni, quella dei sindaci. Non tutte le ciambelle riescono col buco, naturalmente, ma è un fatto che spesso lo scontro frontale fra candidati sindaci, e la vittoria di uno di loro, rivitalizzano il rapporto politica-società, e danno anche ai partiti un ruolo che non avrebbero se non fossero stati il supporto del candidato vincente. Se si vuole sconfiggere l’antipolitica (nei suoi aspetti minacciosi per la democrazia) occorre che i partiti si rassegnino a un ruolo assai più modesto che in passato. Solo così i cavoli dei partiti e la capra della democrazia potranno essere salvati. Angelo Panebianco 16 aprile 2012 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_16/panebianco-non-piu-principe-ma-utile-sherpa_d8d0e04c-8782-11e1-99d7-92f741eee01c.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'antipolitica e i suoi antidoti Inserito da: Admin - Aprile 24, 2012, 05:27:37 pm ISTITUZIONI FORTI, GOVERNI AUTOREVOLI
L'antipolitica e i suoi antidoti Di quali istituzioni (e di quali partiti politici) avrebbe bisogno l'Italia per avviare una nuova stagione di crescita economica? Ha senso pensare istituzioni e partiti in questa chiave? Cominciamo col dire che sarebbe strano se non convenissimo tutti che rilanciare la crescita economica sia la nostra priorità nazionale, lo scopo primario a cui tutti gli sforzi dovrebbero tendere. Riavviare la crescita non serve solo a ridare prosperità al Paese, serve anche a mettere in sicurezza la democrazia. La decrescita provoca impoverimento e, superata una certa soglia, l'impoverimento fa correre rischi mortali alla democrazia. Nei prossimi anni, la competizione fra le forze politiche potrà riguardare, per l'essenziale, solo le differenti ricette per rilanciare la crescita, per invertire la tendenza, per porre termine a quella emergenza nazionale che è il declino economico. E ciò richiederà la capacità di ridurre drasticamente il debito, di abbattere (giunti a questi livelli di prelievo, non si tratta più semplicemente di «abbassare», ma di abbattere) le tasse, di aggredire, possibilmente col lanciafiamme, una burocrazia inefficiente e opprimente. Un compito del genere richiede istituzioni adeguate, dotate di un forte potere decisionale concentrato. Come si potrebbero altrimenti vincere le immense resistenze che, per esempio, si sprigionano a tutti i livelli contro qualunque ipotesi di riduzione della spesa pubblica o di semplificazione del quadro normativo? Dunque, è necessario irrobustire assai le istituzioni politiche accrescendone autonomia e potere decisionale. In concreto, si tratta di dare alla democrazia italiana ciò che non ha mai avuto: governi istituzionalmente forti. Ciò si può fare in vari modi, sono possibili diverse strade. Mi permetto di dissentire dall'onorevole Massimo D'Alema quando, in una intervista alla Stampa (del 22 aprile), dice che la sola scelta che abbiamo di fronte è fra il sistema parlamentare e quello presidenziale. In realtà, ci sono vari tipi di presidenzialismo, alcuni efficienti e altri no. E vari tipi di parlamentarismo, alcuni efficienti e altri no. Il nostro, simile a quello della IV Repubblica francese, è, come è noto, altamente inefficiente. La ragione per cui, su questo giornale, chi scrive ha criticato la bozza di accordo su legge elettorale e riforme istituzionali elaborata da Pd, Udc e Pdl, è che quel progetto non promette di darci ciò di cui abbiamo necessità: governi forti e stabili e drastica riduzione di quei diffusi e radicati poteri di veto che obbligano sempre i governi a compromessi al ribasso, ne bloccano le velleità riformatrici. In un quadro che fosse di rafforzamento delle istituzioni di governo, i partiti, che sono organismi parassitari (si adattano cioè alle istituzioni in cui operano), non potrebbero avere il ruolo di dominatori delle istituzioni, dovrebbero accettare di essere strutture di servizio e di supporto per candidati in lizza per la guida del governo. Si leggono molti commenti secondo cui la crisi dei partiti personali, da Berlusconi a Bossi, rilancerebbe l'idea del partito a guida «collettiva». Chi lo sostiene forse non sa che, nel caso dei partiti, ci sono solo due possibilità: o sono guidati da un leader (che si candida per la guida del governo) o sono guidati da una ristretta oligarchia. Quanto a struttura del potere, in altre parole, i partiti possono essere solo monocrazie o oligarchie. Davvero la soluzione alla crisi dei partiti personali sarebbe la rivitalizzazione del partito oligarchico? Nelle altre grandi democrazie europee, dove pure non si è verificata quella traumatica distruzione delle vecchie formazioni partitiche che noi abbiamo sperimentato nei primi anni Novanta, la politica democratica è competizione fra leader, sostenuti dai rispettivi partiti, per la conquista del governo. Ciò è inevitabile in tutti i casi in cui la democrazia si sposi con governi istituzionalmente forti. La concentrazione di potere nelle istituzioni di governo produce concentrazione di potere nei partiti. Chi vuole il partito a guida collettiva (ossia, oligarchico), ne sia consapevole o no, vuole anche ciò che non possiamo più permetterci: istituzioni di governo acefale, deboli e frammentate. Sembra che in Italia ci siano ancora troppi «intellettuali della Magna Grecia», così innamorati delle specificità italiane da non guardare con sufficiente attenzione a ciò che accade in altre democrazie. L'antipolitica è un sintomo e non la malattia, si gonfia se le classi politiche non riescono a dare risposte plausibili alle sfide. Date risposte plausibili (si tratti di finanziamento dei partiti, di costi degli apparati politico-amministrativi, di riforme istituzionali, ma anche di riduzione del debito, tasse, lotta alla burocrazia, efficienza dei servizi pubblici) e l'antipolitica riprecipiterà in quei bui e un po' maleodoranti scantinati in cui normalmente si nasconde. Angelo Panebianco 24 aprile 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_24/antipolitica-suoi-antidoti-panebianco_6f7b94e4-8dd0-11e1-839c-11a4cf6ed581.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. NON SOLO AMMINISTRATIVE Che significato dare al voto Inserito da: Admin - Maggio 06, 2012, 04:42:44 pm NON SONO SOLO AMMINISTRATIVE
Che significato dare al voto A volte i risultati delle elezioni amministrative anticipano quelli delle successive elezioni politiche e a volte no. Nel 1975 il successo del Partito comunista alle Amministrative anticipò la sua forte affermazione nelle elezioni politiche del 1976. Ma un analogo successo dell'erede del Pci, il Pds di Achille Occhetto, nelle Amministrative del 1993 non anticipò affatto il risultato delle Politiche del 1994 (il Pds venne allora sconfitto da Silvio Berlusconi). Quali che saranno gli esiti delle Amministrative parziali di oggi, nonché gli «insegnamenti» e i «presagi» che gli esperti in divinazione elettorale ne trarranno, difficilmente quegli esiti potranno darci i nomi dei vincitori e dei vinti delle elezioni politiche generali dell'anno prossimo, del 2013. Soprattutto se, come appare probabile, sarà andata in porto, nel frattempo, la riforma del sistema elettorale. Molte incognite pesano sul voto. C'è la questione della tenuta del Pdl. Una sua forte sconfitta potrebbe imprimere una accelerazione al processo di disintegrazione, già in atto da tempo, di quella formazione politica. Nessuno però potrebbe sapere come, in tal caso, andrebbe a riorganizzarsi quell'area politica e con quali chance di successo in vista delle elezioni del 2013. Né è dato di sapere cosa accadrà alla Lega. Da un lato, in quanto «grandi oppositori» del governo Monti, i leghisti dovrebbero intercettare una parte almeno della protesta che le politiche del governo alimentano. Dall'altro lato, però, la Lega si trova a fronteggiare uno scandalo di tale forza da averne terremotato i vertici investendo il suo stesso fondatore e capo carismatico. E anche il Pd ha i suoi problemi (dalle inchieste giudiziarie alla agguerrita concorrenza che subisce da parte di candidati locali che si collocano alla sua sinistra). Insomma, comunque vada, anche dopo che si saranno tenuti i ballottaggi, difficilmente l'incertezza e la confusione oggi regnanti si dilegueranno. La complessità della situazione è data dal fatto che il voto sarà influenzato da tre fattori il cui rispettivo peso resterà difficile da valutare. Peseranno, prima di tutto, come è ovvio (anche se i commenti del giorno dopo, tradizionalmente, tendono a dimenticarlo) le specificità locali. Molti elettori voteranno semplicemente con lo sguardo volto all'amministrazione della loro città. Troppo spesso, si attribuiscono valenze politiche generali a un voto che, come è naturale e giusto che sia, è condizionato da ragioni locali. Però, è anche vero che, soprattutto in tempi di crisi, una parte almeno degli elettori, anche in un voto amministrativo, risponde a stimoli e pressioni di ordine generale. La complicazione è data dal fatto che sono congiuntamente in atto due crisi, fra loro distinte, anche se collegate, entrambe suscettibili di influenzare il voto. C'è, in primo luogo, la crisi del sistema politico, determinata dalla fine (o dalla forte attenuazione) della ventennale contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani. È la crisi del bipolarismo all'italiana: ci si aspetta che essa inneschi a breve termine una ristrutturazione/ricomposizione delle forze politiche fin qui dominanti. Il voto amministrativo cade, cioè, nel mezzo di una confusa transizione di cui sono espressioni sia la presenza del governo detto tecnico (che si trova a svolgere, di fatto, il ruolo del traghettatore verso equilibri politici diversi da quelli del recente passato) sia la drammatica perdita di credibilità dei partiti esistenti. La seconda crisi è, naturalmente, quella economica: qui più che le specificità italiane giocano le dinamiche mondiali. E gioca ciò che l'Unione europea fa o non fa per contrastare la crisi (o si ritiene che debba fare o non fare). In Italia, come in molti altri Paesi, è cresciuto un sentimento di ostilità verso l'Europa, e verso la Germania, che dell'Europa è il dominus , che difficilmente mancherà di lasciare la sua impronta persino sulle nostre elezioni amministrative (parziali). Così come su qualunque altra elezione, nazionale o locale, che si tenga in qualunque altro Paese europeo. È, fra quelle in atto, la tendenza più pericolosa. L'Unione europea si è sempre retta sul consenso (passivo, quanto meno) dei più: se il consenso si riduce sensibilmente, come sta avvenendo oggi in molti Paesi europei, se il dissenso manifesto si gonfia oltre una certa soglia, l'Unione avrà a disposizione sempre meno risorse politiche per fronteggiare la crisi e trovare soluzioni. Non solo, come è più ovvio, la sfida per le Presidenziali in Francia fra Hollande e Sarkozy, ma persino una elezione di secondaria importanza come le nostre Amministrative odierne diventano altrettanti test sul futuro dell'Europa. Si è molto parlato di antipolitica, soprattutto con un occhio ai sondaggi che danno il movimento di Beppe Grillo in crescita, ma si è collegato il fenomeno solo alla crisi del sistema politico italiano, e al discredito dei nostri partiti. Ma questa è solo una faccia del problema. L'altra faccia è rappresentata dal fatto che gli umori antieuropei circolanti nel Paese (come in altri Paesi) sono alla ricerca di sbocchi politici, di rappresentanza. E, inevitabilmente, finiranno per trovarla. L'interdipendenza, anche politica, in Europa è ormai tale che persino elezioni comunali non sono senza effetti sugli equilibri europei. In fondo, vale per l'Europa ciò che vale per i partiti italiani. L'una e gli altri o riescono a trovare soluzioni credibili, serie, per i problemi che ci attanagliano o riceveranno schiaffi sempre più forti da elettori disorientati e alla ricerca di alternative più o meno illusorie. Angelo Panebianco 6 maggio 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_06/significato-voto-panebianco_a1629b54-9741-11e1-9a56-d67dd7427f23.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Casini e l'addio alle mani libere Inserito da: Admin - Maggio 18, 2012, 10:52:29 pm LE SCELTE SULLA LEGGE ELETTORALE
Casini e l'addio alle mani libere Si farà la riforma elettorale? E se sì, di che riforma si tratterà? Forse, potrebbe rispondere a queste domande il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Non tutto, ma molto, dipende da lui. Dipende, cioè, dalle scelte strategiche che Casini farà (o non farà) in materia di alleanze, in vista delle prossime elezioni. Cerchiamo di capire perché. Fino a questo momento, i lavori sulla riforma elettorale (la cosiddetta bozza Violante) sono stati condizionati dalla centralità che Casini, grazie alla nascita del governo Monti, ha provvisoriamente conquistato in Parlamento. Giocando su quella centralità Casini ha lavorato in questi mesi per un obiettivo: il varo di una legge proporzionale che, nelle intenzioni, gli avrebbe consentito di assumere in permanenza il ruolo di ago della bilancia della politica italiana, di avvantaggiarsi della rendita di posizione centrista. Per ragioni diverse, gli altri (Pd, Pdl) lo hanno fin qui assecondato. Il Pd lo ha assecondato perché influenzato dal progetto, che si attribuisce a Massimo D'Alema, di una futura alleanza con l'Udc. Il Pdl, a sua volta, lo ha assecondato ritenendo che con la proporzionale avrebbe forse potuto rendere meno catastrofica la prevista (dai sondaggi) sconfitta elettorale e rimanere comunque in gioco. Naturalmente, né il Pd né il Pdl, pur assecondando Casini, erano e sono disposti a rinunciare al ruolo di principali partiti del sistema politico. Da qui i tira e molla su premi di maggioranza, grandezza dei collegi (i collegi piccoli, di tipo spagnolo, premiano i partiti grandi, quelli grandi premiano i partiti medi e piccoli), soglie di sbarramento, eccetera. Quei tira e molla - e i malumori che circolano dentro i due maggiori partiti per il previsto ritorno alla proporzionale - hanno infine prodotto una situazione di stallo. Ma supponiamo che ora Casini cambi strategia. Preso atto, e lo ha già fatto, che il progetto del Terzo polo è fallito, constatato che le sue chance di diventare l'ago della bilancia non sono poi molte, e riconosciuto, infine, che se il sistema politico, dopo le elezioni, si incartasse come ha fatto quello greco sarebbero dolori per tutti, Casini potrebbe decidere di abbandonare la politica delle «mani libere» e di stringere una alleanza con il Pd o con il Pdl. Più plausibilmente con il Pdl visto che, fra i due partiti maggiori, è il più debole e quindi anche il meno coriaceo nelle eventuali trattative. A quel punto, fatto l'accordo, persino a Casini potrebbe convenire un sistema elettorale che salvi il bipolarismo (o un proporzionale di tipo spagnolo o, meglio ancora, un doppio turno di tipo francese) premiando le due alleanze politiche più forti. Basterebbe, ad esempio, convincere il Pdl che il doppio turno, in elezioni politiche, non lo mette necessariamente in posizione di svantaggio rispetto al Pd. Non è affatto detto, infatti, che, in elezioni ove la posta in gioco è molto alta, gli elettori di destra «votino meno» al secondo turno rispetto agli elettori di sinistra. E il doppio turno ha il vantaggio di premiare le alleanze e di punire chi va da solo. Tanto la concorrenza della Lega (a destra) quanto quella di Beppe Grillo (a sinistra) diventerebbero, col doppio turno, meno temibili. Come sarà il prossimo sistema elettorale? Dipenderà forse, in non lieve misura, da ciò che Casini deciderà di fare da grande. Angelo Panebianco 18 maggio 2012 | 8:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_18/casini-addio-mani-libere-panebianco_af726e52-a0a8-11e1-b2d7-87c74037ee6c.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Una distanza insostenibile Inserito da: Admin - Giugno 06, 2012, 04:49:08 pm TRA ÉLITE EUROPEE E GENTE COMUNE
Una distanza insostenibile Se cerchiamo le cause profonde della crisi dell'Europa, possiamo forse identificarne una più generale e una più specifica. La più generale consiste nel «ciclo generazionale». La più specifica nell'incapacità delle élite europeiste di fare i conti con le credenze del common man, dell'uomo comune europeo. Per ciclo generazionale si intende una regolarità tante volte all'opera nella storia. A una fase di grandi disordini (guerre interstatali e civili) segue una lunga fase di pace e ordine. Coloro che hanno vissuto l'età del disordine e ricordano le morti violente e il senso di costante insicurezza, coloro che sentono ancora, se chiudono gli occhi, l'odore della paura per la sopravvivenza propria e dei propri cari, si adoperano perché quei tempi non tornino più. Ne seguiranno sforzi individuali e collettivi tesi ad assicurare una forma di «pace perpetua» (dentro le società e fra le società affini), un ordine che si spera di costruire su basi solide. I figli di coloro che hanno vissuto nell'età del disordine ne continuano l'opera. Non hanno conosciuto direttamente quella età (o erano troppo piccoli per averne un ricordo distinto) ma sono stati influenzati dai racconti dei genitori. Da quei racconti hanno appreso che l'ordine societario è una fragile cosa, che l'età del disordine potrebbe tornare spezzando di nuovo vite e progetti di vita, sogni e desideri. L'ordine si mantiene grazie allo sforzo della nuova generazione. Possono anche insorgere, qua o là, minoranze violente (terrorismo) ma verranno sconfitte. I padri sono ancora lì a ricordare a tutti l'esperienza vissuta nell'età del disordine. Poi, a poco a poco, scompaiono tutti quelli che hanno avuto esperienza diretta di quei tragici tempi. Per i loro nipoti non c'è ormai differenza fra le guerre puniche e il nazismo o la Seconda guerra mondiale. Cose che appartengono a epoche lontane, che si studiano a scuola, irrilevanti per la loro personale esperienza. Le inibizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti si dissolvono. Non c'è più memoria dell'antica barbarie. Il rischio di una nuova età del disordine diventa elevato. La Comunità europea, e poi l'Unione, insieme alle altre istituzioni del mondo occidentale sono state per tanti una assicurazione contro il rischio del disordine. Più passa il tempo, più questa funzione dell'Europa comunitaria si indebolisce. Chi ritiene «impensabile» che in Europa possa tornare una età del disordine, simile a quella che la sconvolse nella prima metà del XX secolo, aderisce a una variante ingenua dell'ideologia del Progresso. La seconda causa della crisi riguarda la distanza, culturale prima che politica, fra le élite europeiste, le élite (politici, intellettuali) che ancora investono nell'integrazione europea, e una parte consistente dei cittadini comuni. È una distanza fra élite e popolo che si spiega, in parte, con la storia dell'integrazione europea. L'Europa fu voluta da élite illuminate. Fino alla moneta unica, l'integrazione fu un processo elitario. Gli elettori, certo, lo accettavano. Perché lo percepivano come una garanzia di ordine e ne ricavavano visibili benefici. Ma da quando il ciclo generazionale ha quasi completato il suo percorso e i benefici visibili sono diminuiti, la distanza fra élite europeiste e «popolo» (o una parte del popolo) è andata allargandosi. Il referendum irlandese sul fiscal compact dell'altro ieri è andato bene ma quante volte gli elettori dell'uno o dell'altro Paese hanno votato contro i desiderata dei leader europei? È vero che se crollasse l'euro la catastrofe economica sarebbe immane e forse molte delle nostre democrazie ne verrebbero travolte. Ma perché mai questo (giusto) ragionamento sembra avere poca efficacia politica? Forse perché (o anche perché) molti esponenti delle élite europeiste non sanno entrare in sintonia con il cittadino comune, non sono capaci di empatia. Sottovalutano, in primo luogo, la forza del nazionalismo. Quando si criticano il nazionalismo economico della Germania di oggi e i comportamenti che hanno portato la crisi dell'euro al limite della rottura, si dimentica che il nazionalismo economico è una sottocategoria del nazionalismo tout court , non ha vita autonoma. La maggior parte degli europei continua a identificarsi nella propria nazione. Il fatto che il nazionalismo non si manifesti con l'aggressività bellica di un tempo nulla toglie alla sua perdurante vitalità. Le élites europeiste sottovalutano, poi, l'importanza che mantengono per i cittadini le istituzioni della democrazia nazionale. Saranno anche meri simulacri, privi di potere effettivo, ma sono le uniche, perché più vicine a loro, che i cittadini pensano di potere influenzare. Se non si fa loro cambiare idea su questo punto diventa un esercizio sterile invocare l'integrazione politica sovranazionale. La proposta migliore l'ha avanzata l'ex ministro tedesco Joschka Fischer (su questo giornale, il 26 maggio). Creiamo - ha detto - una «euro-Camera», una sorta di Camera bassa, nella quale siano presenti sia le maggioranze che le opposizioni di ogni Stato dell'Eurozona. L'attenzione di mass media e opinione pubblica si concentrerebbe sulle alleanze che vi si creano e le decisioni che si prendono. È una buona idea: prende atto del fallimento dell'attuale Parlamento europeo e suggerisce una strada più coinvolgente. Ma è solo un esempio. È compito delle élite guidare gli altri cittadini con lungimiranza. Ma se, per mancanza di empatia e di attenzione ai loro umori e orientamenti, se ne allontanano al punto da non scorgerli più, allora il loro ruolo è finito. L'Europa corre lo stesso rischio. Angelo Panebianco 4 giugno 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_04/distanza-insostenibile-panebianco_7242e9b6-ae05-11e1-bd42-307990543816.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La tentazione nazionalista Inserito da: Admin - Giugno 12, 2012, 04:39:43 pm I PERICOLI DELL'UNIONE EUROPEA
La tentazione nazionalista La questione dell'Europa coincide con la questione della pace A grandi pericoli corrispondono grandi opportunità. Proprio perché la costruzione europea è oggi a rischio di distruzione esiste anche l'opportunità di darle nuovo slancio. Ha ragione l'ex cancelliere tedesco Helmut Kohl: la questione dell'Europa coincide con la questione della pace. Persino in un'epoca che si fa beffe della memoria storica si deve sapere che la storia d'Europa è una storia di guerre. Continuare a lavorare nel cantiere europeo, impedire che venga smantellato, serve soprattutto alla pace. Per discuterne utilmente bisogna però rimuovere alcuni ostacoli: pregiudizi, modi sedimentati di guardare la realtà, che la deformano. Alcuni anni fa, una studiosa di cose europee, Vivien Schmidt, scrisse che il funzionamento dell'Unione è stato a lungo un caso di policy without politics , di politiche pubbliche senza politica. L'Unione macinava quotidianamente «politiche» (agricola, commerciale, monetaria, eccetera) ma la «politica» - intesa come conflitto e competizione aperta fra visioni differenti - era esclusa dall'ambito europeo, restava relegata negli ambiti nazionali. Oggi, con la crisi dell'euro, le cose sono cambiate: la «politica» è entrata nelle felpate stanze dell'Unione. Ma un lungo periodo di policy without politics ha lasciato una impronta. Una eredità negativa è il carattere tradizionalmente stereotipato, ripetitivo, del dibattito pubblico sull'Europa. Un dibattito nel quale, a lungo, c'è stato spazio solo per due posizioni: l'europeismo acritico e l'antieuropeismo. O si era europeisti, e si accettavano supinamente, senza discutere, istituzioni, procedure e politiche generate dall'Unione, o si era antieuropeisti, nostalgici delle sovranità nazionali. Chiunque fosse convinto del valore della casa comune europea ma esprimesse dubbi su questo o quell'aspetto dell'integrazione, o della filosofia che la giustifica, si vedeva additato come antieuropeista. Ciò ha strozzato il dibattito, ha fatto male all'Europa. Gli antieuropeisti ci sono ma ci sono anche, per parafrasare Romano Prodi, gli «europeisti adulti», refrattari alle ortodossie e ai catechismi. Se si vuole salvare l'Europa se ne deve parlare senza tabù, liberamente. In un precedente articolo (Corriere , 4 giugno), ho scritto della distanza che separa le élite europeiste tradizionali dai cittadini comuni. Un effetto di tale distanza è che, spesso, queste élite tendono a imputare solo alle «classi politiche nazionali» le resistenze che impediscono una piena integrazione politica. Senza avvedersi di quanto forte sia sempre stata, su questo punto, la tacita solidarietà fra classi politiche nazionali e cittadini. Prendiamo il tema tabù per eccellenza: il nazionalismo. Per la concezione dell'Europa che chiamo «ortodossa» è impensabile che il nazionalismo (l'identificazione in quella «comunità immaginaria» che è la propria nazione) possa tuttora essere più forte della identificazione nell'Europa. Quando si ammette l'esistenza del nazionalismo (si veda l'articolo di Giuliano Amato, Emma Bonino e altri, «La spinta necessaria a un'Europa politica», Corriere , 6 giugno, che rappresenta al meglio la posizione ortodossa) lo si associa al «populismo». Come se, ad esempio, il nazionalismo in Francia riguardasse solo gli elettori lepenisti. Non è così. Non solo in Francia il nazionalismo è vivo e vegeto e ha fino a ora impedito ai suoi governi di sottoscrivere proposte di rafforzamento dell'Europa politica ma è vitale anche in molti altri Paesi. Non sono nazionalisti solo gli antieuropeisti dichiarati. Lo sono anche i governi, sostenuti dai rispettivi elettori, che non rinunciano ai vantaggi dell'Unione ma vogliono piegarla ai propri interessi nazionali. Sembra di tal fatta anche la recente proposta di Angela Merkel di una maggiore integrazione politica: il progetto di una «piccola Europa», che escluda i Paesi «non in ordine» secondo i criteri tedeschi. Non, si badi, un'Europa a leadership tedesca (che nessuno potrebbe sensatamente rifiutare) ma dominata dai tedeschi. Non si può più ignorare il peso del nazionalismo, bisogna farci i conti per impedire che distrugga l'Unione. Allo stesso modo, senza preconcetti, bisogna interrogarsi sugli ostacoli che hanno fin qui impedito di accrescere la rappresentatività delle istituzioni europee. Nessuno sa come potrebbe funzionare una democrazia sovranazionale multilinguistica di dimensioni continentali (la storia degli Stati Uniti d'America è assai diversa dalla nostra). E nessuno sa come convincere gli elettori a non rimanere abbarbicati alla democrazia nazionale. C'è un rapporto fra la distanza dell'elettore dall'arena rappresentativa per la quale vota e la sua sensazione di poter controllare i rappresentanti. Anche se, con l'integrazione, i governi e i parlamenti nazionali hanno perso il controllo su tante aree decisionali, molti elettori mantengono l'idea, o l'illusione, che sia più facile per loro condizionarli. Nell'intervento sopra citato, Amato, Bonino e gli altri firmatari criticano la mia affermazione secondo cui il Parlamento europeo ha fallito il suo scopo principale. Lo ribadisco: quella istituzione ha ben poco a che fare con la «sovranità popolare». Gli elettori che votano alle elezioni europee lo fanno più per lanciare messaggi ai partiti dei propri Paesi che per concorrere a formare un'inesistente «volontà popolare europea». Per questo mi è parsa una buona idea la proposta dell'ex ministro tedesco Joschka Fischer di creare una Camera bassa, limitata all'eurozona, ove siano rappresentate sia le maggioranze che le opposizioni di ciascun Paese. Per calamitare l'attenzione dell'opinione pubblica sulle alleanze che vi si stipulano e le decisioni che vi si prendono. Non ci serva la riproposizione di formule stantie. Servono nuove idee, e la ricerca di intelligenti alternative, per impedire che il cantiere comune europeo venga smantellato. Angelo Panebianco 12 giugno 2012 | 7:29© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_12/tentazione-nazionalista-angelo-panebianco_394dfaca-b44e-11e1-8aac-289273c95a39.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Moneta unica e democratica Inserito da: Admin - Giugno 21, 2012, 06:39:05 pm UNA QUESTIONE NON SOLO ECONOMICA
Moneta unica e democratica La crisi dell'euro ha rilanciato anche in Italia la tesi, che circola qua e là con sempre maggiore insistenza, secondo cui un'eventuale uscita dalla moneta unica, ancorché drammatica, sarebbe pur sempre meno dolorosa di una agonia prolungata e senza sbocchi. Meglio, pensano alcuni, fare da soli, tornare alla lira e alle svalutazioni competitive del passato, piuttosto che continuare a precipitare, senza reagire, nell'abisso in cui la crisi dell'euro sta trascinando l'Europa. Persone stimabilissime, da Paolo Savona ad Antonio Martino, lo pensano e lo dicono. Fermo restando che, di sicuro, l'infallibilità non ci appartiene, è però lecito ipotizzare che se l'euro crollasse, anche a voler prescindere dalle conseguenze economiche di un simile evento (per l'economia mondiale e quindi anche per noi), i contraccolpi politici sarebbero assai violenti per il nostro Paese. La ragione è che verrebbe meno quel famoso «vincolo esterno» in assenza del quale in Italia potrebbero correre forti rischi sia la democrazia politica che la stessa integrità dello Stato nazionale. Possiamo discutere quanto vogliamo sul vizio d'origine della moneta unica, una moneta non sorretta da quella unificazione politica che tanti oggi invocano pur sapendo che essa non è comunque a portata di mano. Ma il fatto è che, quali che siano stati gli errori commessi, giunti a questo punto, la fine dell'euro avrebbe forti probabilità di risolversi, per contraccolpo, in una catastrofica dissoluzione di quasi tutto ciò che è stato costruito in sessanta anni di integrazione europea. E l'Italia si ritroverebbe nelle condizioni di una zattera alla deriva nel Mediterraneo. Si può naturalmente pensare che ci sia molta esagerazione nella tesi secondo cui l'Italia necessitava prima e necessita oggi di stringenti vincoli esterni. Si può pensare che sia addirittura offensivo, o magari antipatriottico, dipingere un'Italia minorenne, incapace di gestirsi da sola, senza tutori e imposizioni esterne. Ma una più attenta osservazione della nostra storia postbellica nonché delle condizioni presenti del Paese, dovrebbe consigliare maggiore prudenza. Il patriottismo è un'ottima cosa ma a patto che non renda ciechi. Per tutto il periodo della guerra fredda la democrazia italiana sopravvisse più a causa dei vincoli esterni (la Nato e, per essa, il rapporto con l'America, la Comunità europea in subordine) che a causa delle sue tradizioni e della sua cultura politica. Senza bisogno di spingersi a sostenere che, durante la guerra fredda, la democrazia sopravvisse in Italia nonostante quelle tradizioni e quella cultura politica, non può essere negato il potentissimo ruolo stabilizzatore che ebbero le costrizioni esterne. Oggi, il rapporto con un'America sempre più lontana non funziona più come vincolo, non può più proteggerci da noi stessi. È rimasta solo l'Europa. Venisse meno anche quest'ultimo vincolo, che accadrebbe all'Italia? Si considerino due aspetti (che, sono, ovviamente, fra loro connessi): la condizione in cui versa la nostra democrazia politica e le vistose crepe che esibisce lo Stato nazionale. Per quanto riguarda la democrazia, basta leggere le cronache quotidiane: classe politica delegittimata, disaffezione di porzioni ampie dell'opinione pubblica nei confronti del Parlamento e di altri fondamentali istituti democratici, rischi gravi di ingovernabilità una volta che si sia chiusa la parentesi del governo detto tecnico. Nonché la noia infinita di una discussione sulle «urgentissime» riforme costituzionali che si trascina sterilmente da trenta anni (dagli anni Ottanta dello scorso secolo) e minaccia di durare per altri trent'anni. Quanto questo eterno discutere senza sbocchi operativi, senza costrutto, abbia contribuito a usurare linguaggi e simboli della democrazia è difficile stabilire. Altrettanto grave, e forse ancor più grave, è la condizione in cui versa lo Stato nazionale. Dopo centocinquanta anni di unità, il fallimento è evidente: la grande questione italiana, la questione meridionale, non ha mai trovato soluzione. La frattura Nord/Sud è più viva e forte che mai e, con essa, la distanza che separa certe regioni del Sud dal Nord d'Italia. Con la differenza che, un tempo, la speranza di venirne a capo mobilitava intelligenze, cervelli. Oggi non più. Non esiste più un pensiero meridionalista degno di questo nome. È subentrata la rassegnazione. Se verrà meno il vincolo europeo quanto tempo passerà prima che il conflitto territoriale esploda in forme incontrollabili? Immediati costi economici a parte, la fine dell'euro, trascinando nella rovina anche l'Unione, ci lascerebbe soli alle prese con tutti i nostri fantasmi. Non ci conviene. Nel calcolo dei costi e dei vantaggi, la bilancia continua a pendere dalla parte dell'Unione. Non siamo certo gli unici, ma siamo comunque fra coloro che hanno un vitale interesse a che la crisi dell'euro venga superata. Angelo Panebianco 21 giugno 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_21/moneta-unica-democratica-panebianco_322a2168-bb62-11e1-b706-87dd3eab4821.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il carroccio tra Po e Baviera Inserito da: Admin - Luglio 05, 2012, 11:59:06 am IL SENTIERO DEL NUOVO LEADER
Il carroccio tra Po e Baviera Come negli anni '92-93, la politica si è trasformata in un composto fluido, quasi gassoso. In attesa che si solidifichi di nuovo con nuove caratteristiche. La sola certezza è che fra un anno, dopo le prossime elezioni, la fisionomia della Italia pubblica sarà diversa da quella di oggi. Una buona spia dei movimenti in atto nel sistema dei partiti, ma anche della confusione che oggi regna, è data dalla svolta avvenuta nella Lega Nord. Ieri, al congresso di Assago, è nata la Lega di Roberto Maroni. Maroni, che ha il problema di dare un nuovo volto a un partito oggi diviso e in crisi, ha compattato i militanti ricorrendo a un linguaggio molto duro. Ha parlato di indipendenza del Nord come obiettivo strategico, ha ribadito l'opposizione frontale al governo Monti, ha adombrato gesti estremi come l'abbandono di Roma di parte dei leghisti. Per consolidare la sua leadership, Maroni deve difendersi da un doppio attacco, interno ed esterno. All'interno, deve tenere a bada i nostalgici del vecchio capo, di Umberto Bossi, che lo aspettano al varco, pronti ad accusarlo di svendere la Padania se cercherà accordi con i partiti «romani». All'esterno, deve impedire che gli elettori leghisti si facciano tentare dalle sirene anti-sistema di Beppe Grillo e, per questo, tiene alta la bandiera, anch'essa anti-sistema, dell'indipendentismo. Tutto ciò è comprensibile, nel senso che ne è chiara la logica politica. Tuttavia, Maroni è anche un leader troppo intelligente e abile per non sapere che non riuscirà a difendere il ruolo della Lega come sindacato territoriale, come assertore degli interessi del Nord del Paese (o di una sua parte), se non si «sporcherà le mani» cercando intese e accordi elettorali con altri partiti. Potrà anche aspettare che si faccia (e pare proprio che si faccia) la nuova legge elettorale ma, dopo, non potrà rinviare ancora a lungo la questione delle alleanze. La porta è stretta. Maroni ha il problema di riuscire a normalizzare la Lega, di trasformarla in un normale partito territoriale (modello Csu in Baviera) come i tanti che esistono in Europa: una via praticamente obbligata dopo la conclusione della fase rivoluzionario-carismatica dominata da Bossi. Non è però sicuro che quest'opera di normalizzazione sia possibile se Maroni non si rassegnerà a perdere (magari allo scopo di conquistare nuovi e diversi elettori) le componenti più estremiste del movimento e, soprattutto, se non sarà disposto a modificare molte posizioni leghiste su temi cruciali. Ad esempio, come sarà possibile ricucire i rapporti con il Pdl, che ha sostenuto e sostiene Monti, se su una serie di argomenti, dalle pensioni alle liberalizzazioni, alla riduzione della spesa pubblica (quella locale compresa), la Lega manterrà la sua tradizionale posizione di ostinato rifiuto? Se e quando una normale dialettica destra/sinistra si ricostituirà nel Paese, è probabile che, visti i livelli di tassazione raggiunti, la domanda principale degli elettori di destra, non solo al Nord, si concentri sulla riduzione delle tasse. Ma un programma di riduzione fiscale non sarebbe credibile, sarebbe velleitario e irresponsabile, se non fosse accompagnato da una politica di drastica contrazione e razionalizzazione della spesa pubblica, nazionale e locale. Se vorrà essere della partita, la Lega dovrà rinunciare al conservatorismo intransigente che ha per tanto tempo coltivato. Angelo Panebianco 2 luglio 2012 | 7:32© RIPRODUZIONE RISERVATA da http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_02/carroccio-tra-po-baviera-angelo-panebianco_3f4f2ef8-c407-11e1-8a5a-a551a87e60ad.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Chi ha paura della clessidra Inserito da: Admin - Luglio 15, 2012, 07:52:11 pm I TEMPI DELLA DEMOCRAZIA E I MERCATI
Chi ha paura della clessidra Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l'Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l'esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l'eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione. Per tenere a bada i mercati, rassicurare le opinioni pubbliche delle democrazie nordiche, e salvare la nostra appartenenza al club dell'euro, l'Italia si è inventata una misura-tampone, una soluzione d'emergenza: il governo detto tecnico. Ma la clessidra è spietata, il conto alla rovescia non può essere fermato. Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c'è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie. A parole, i partiti che oggi sostengono il governo Monti promettono che non disferanno ciò che esso ha iniziato. Ma perché dovremmo crederci? Perché dovremmo credere che la destra, se tornasse al governo, non si sbarazzerebbe subito della spending review per ricominciare con la gestione della spesa pubblica che l'ha sempre caratterizzata? E perché dovremmo credere alla sinistra quando dice che non abbandonerà la strada aperta dal governo Monti, essendo un fatto che quella strada è invisa ai sindacati ed è impensabile che la sinistra faccia alcunché senza disporre del placet sindacale? Che si parli di possibile «grande coalizione» (ossia, di un governo Monti bis) dopo le elezioni, la dice lunga su quanto siano consapevoli delle proprie inadeguatezze le stesse forze politiche. Come se ne esce? Una strada ci sarebbe. Difficilissima ed estranea alle nostre tradizioni. Per la prima volta, da quando esiste la democrazia in Italia, le forze politiche che contano dovrebbero applicare le istruzioni contenute nel «Manuale del Bravo Democratico». Il manuale del bravo democratico dice che le campagne elettorali non si conducono a colpi di promesse generiche ma di progetti specifici. Un progetto specifico è tale se chiarisce chi verrà premiato e chi verrà penalizzato. È tale se viene applaudito da alcuni e fa imbufalire altri. Esempi possibili di progetti specifici che una forza politica dovrebbe così annunciare agli elettori: se vinciamo le elezioni, entro trenta giorni dall'insediamento del governo, faremo tagli alla spesa pubblica per il valore di X nei comparti A, B, C, D, e ridurremo per l'ammontare corrispondente la pressione fiscale. O ancora: se vinciamo le elezioni, fatti salvi i servizi essenziali, dimezzeremo i trasferimenti dal Nord al Sud accompagnando il provvedimento con l'azzeramento del prelievo fiscale sulle imprese meridionali per tot numero di anni. Su tutti i principali temi di interesse pubblico i partiti dovrebbero proporre progetti. Ad esempio, in materia di Sanità, che fine hanno fatto i costi standard? O, nel caso della scuola, chi se la sente di proporre un dettagliato piano (il contrario del bla bla generico) per iniettare meritocrazia? Legare l'ammontare degli stipendi alla qualità dell'insegnamento è tecnicamente possibile, se esiste la volontà politica. Se una campagna elettorale venisse così condotta, si tratterebbe, in un certo senso, di una vittoria postuma di Ugo La Malfa (l'enfasi sui contenuti a scapito degli schieramenti era l'essenza della pedagogia politica di La Malfa). La «lamalfizzazione» delle forze politiche comporterebbe uno strappo radicale rispetto alla tradizione. In Italia, da sempre, le campagne elettorali vengono condotte combinando prese di posizione ideologiche contro il «nemico» e promesse generiche. L'ideologia (i vari «ismi»: l'anticomunismo, l'antiberlusconismo, eccetera) serve a compattare «i nostri», le promesse generiche, non scontentando nessuno, servono per sommare clientela a clientela. Passare dal metodo «ideologia + promesse generiche» al metodo «progetti specifici» sarebbe una rivoluzione: obbligherebbe, per esempio, a radicali cambiamenti di stile politico e comunicativo. Per istinto, per calcolo, per tradizione, e anche per capacità personali, i politici si preparano a fare la solita campagna all'italiana. Ma questa volta, forse, sbagliano i conti. Il discredito della politica, documentato dai sondaggi, ha superato il livello di guardia. Cambiare radicalmente stile comunicativo potrebbe essere l'unica possibile via d'uscita. E, inoltre, avrebbe un effetto rassicurante per il mondo che ci scruta dall'esterno. Ciò che si perderebbe presentando progetti in grado di far perdere voti antagonizzando potenziali clientele elettorali si guadagnerebbe in immagine di serietà e rigore. Ed è proprio la mancanza di serietà e rigore ciò che oggi tutti rimproverano alla politica. Senza contare il fatto che una campagna elettorale condotta a colpi di progetti specifici contrapposti consentirebbe agli elettori di capire quali siano le forze più credibili come continuatrici della politica di risanamento. La crisi mondiale, come ci viene ripetuto ogni giorno, ci obbliga, se vogliamo sopravvivere, a cambiare molte delle nostre abitudini. È arrivato il momento in cui anche alla politica conviene cambiare le sue. Angelo Panebianco 15 luglio 2012 | 8:11© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_15/chi-ha-paura-della-clessidra-editoriale-angelo-panebianco_28d1c820-ce43-11e1-9b00-18ac498483bd.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Troppi topi nel formaggio Inserito da: Admin - Luglio 23, 2012, 04:36:13 pm PRESSIONE FISCALE, SPESA PUBBLICA
Troppi topi nel formaggio Dobbiamo proprio sperare che la pressione dei mercati sul nostro Paese si attenui, che i pronostici più infausti si rivelino sbagliati. Se questo accadrà, finita l'estate, comincerà subito, di fatto, la (lunghissima) campagna elettorale. Quali temi la caratterizzeranno? A fronte di una pressione fiscale che ha raggiunto il 55% (e oltre), è facile scommettere che quello fiscale sarà l'argomento che più terrà banco. Tutti, o quasi tutti, diranno di voler ridurre le tasse. Nella schiacciante maggioranza dei casi si tratterà di bluff o di promesse da marinaio. Come riconoscere i bluff? Ci sono, sostanzialmente, due modi per bluffare in materia di tasse. Il primo è proprio di coloro che promettono drastiche riduzioni della pressione fiscale senza spiegare dove troveranno le risorse necessarie, senza spiegare come, dove, e di quanto, taglieranno la spesa pubblica al fine di mantenere la promessa. Questo è un bluff facile da scoprire, inganna solo chi vuole essere ingannato. Il secondo modo è più sottile, più subdolo: è proprio di coloro che attribuiscono la responsabilità dell'elevata tassazione vigente all'eccesso di evasione fiscale e, per conseguenza, promettono di colpire gli evasori fiscali al fine di ridurre le tasse. Anche se è molto popolare, condivisa da tanti, la tesi secondo cui per ridurre le tasse bisogna prima contenere l'evasione fiscale, è falsa. È vero infatti l'esatto contrario. Per contrastare, come è doveroso fare, l'evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l'evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell'evasione. Senza di che, nemmeno la più vigorosa e puntuta «lotta alla evasione» potrà mai ottenere seri e durevoli risultati. La controprova è data dal fatto che quando aumentano le tasse aumenta anche l'area dell'economia sommersa. Si tratta di un movimento a spirale: più crescono le tasse più cresce l'evasione. Abbassare sostanzialmente le tasse, passare da un regime di tasse alte a un regime di tasse basse, è sicuramente il mezzo più sicuro per contenere l'evasione. Oltre che falso l'argomento secondo cui non si possono ridurre le tasse se non si riduce prima l'evasione, ha anche il difetto di fare distogliere lo sguardo dalla principale causa del regime di tasse alte: la presenza di un amplissimo stuolo di rent-seekers , di cercatori e percettori di rendite che campano di spesa pubblica, che prosperano grazie a un sistema pubblico che combina alti costi di mantenimento e, soprattutto in certe zone del Paese, l'erogazione di servizi scadenti. È lì che si annidano i più strenui difensori del regime di tasse alte. La contrazione della spesa pubblica e, con essa, dell'area della rendita, brulicante, per usare una vecchia espressione di Paolo Sylos Labini, di «topi nel formaggio», è l'unica strada possibile per ridurre la pressione fiscale. Ma è anche una strada politicamente molto impervia. I percettori di rendita da spesa pubblica sono numerosissimi, e ciò li rende assai potenti, sanno come ricattare elettoralmente i partiti, tutti i partiti. Per giunta, hanno dalla loro parte le norme (o meglio: le prevalenti interpretazioni delle norme) e la giurisprudenza. La sentenza della Corte costituzionale che ha colpito le liberalizzazioni dei pubblici servizi locali è stata certamente accolta con applausi e brindisi da tutti i rent-seekers sparsi per la Penisola. Anche le iniziative, abbastanza timide fino ad oggi, del governo Monti in materia di spending review rischiano di infrangersi contro un sistema amministrativo e un sistema giudiziario costruiti per proteggere la rendita da spesa pubblica a scapito del mercato e dei consumatori. Se non si disbosca quella giungla la riduzione delle tasse resterà un sogno irrealizzabile. Ci sono coloro che, scambiando il sintomo con la causa, sono convinti che a provocare le guerre siano i mercanti d'armi (non è così naturalmente: i mercanti d'armi guadagnano grazie a guerre che hanno all'origine ben altre cause). Allo stesso modo, ci sono coloro che non comprendono, o fingono di non comprendere, che l'evasione fiscale è un deprecabile effetto, ma non la causa, delle tasse alte. Converrà guardarsi da costoro nella prossima campagna elettorale. Angelo Panebianco 23 luglio 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_23/troppi-topi-nel-formaggio-panebianco_e6b0498e-d483-11e1-9251-6da620bfc4cf.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. LA GERMANIA E GLI ALTRI. La sovranità dei debitori Inserito da: Admin - Agosto 01, 2012, 07:46:30 pm LA GERMANIA E GLI ALTRI
La sovranità dei debitori Nella sua storia il processo di integrazione europea ha combinato il nobile disegno di unificare il Continente, sia pure in un futuro indefinito, con misure pragmatiche, molto concrete, volte a risolvere i problemi man mano che si presentavano. È stata, fino alla crisi dell'euro, una storia di successo. Procedere, come si è sempre fatto, «per tentativi ed errori», e senza eccessi di politicizzazione dei problemi (che avrebbero scatenato conflitti), ha sempre aiutato l'integrazione. Almeno fino ad oggi. Anche la nascita dell'euro era avvenuta in questo modo: «Ci si imbarca e poi si vede». Si sperava che l'unificazione monetaria potesse trascinarsi dietro anche decisivi passi avanti sul piano dell'integrazione politica. Ma nessuno sapeva quando quei passi sarebbero stati compiuti. La crisi dell'euro ha cambiato tutto. Perché non è possibile uscirne con il tradizionale pragmatismo europeo, non è possibile superarla senza scelte di alto profilo politico. In gioco, niente di meno, ci sono la sovranità statale e i principi (e le procedure) della democrazia rappresentativa. Il Financial Times ha ospitato ieri l'autorevole parere di Otmar Issing, già membro del Consiglio della Banca centrale europea. In sintonia con l'opinione pubblica del suo Paese, Issing osserva che chiedere ai contribuenti tedeschi di ripianare, attraverso gli eurobond e in altre forme, i debiti dei Paesi dell'Europa mediterranea senza avere il diritto di esercitare uno stretto controllo sul modo in cui vengono impiegati i loro soldi, violerebbe il principio democratico del no taxation without representation (niente tasse se i cittadini-contribuenti non hanno il diritto di scegliere i rappresentanti). Perché mai i contribuenti tedeschi dovrebbero sborsare denaro senza che esistano i meccanismi per assicurare loro il controllo sul modo in cui quei soldi verranno spesi? Lungi dal favorire l'integrazione, ciò farebbe sorgere in Germania, secondo Issing, un risentimento così forte da portare alla dissoluzione dell'Unione. Piaccia o non piaccia, è una opinione «pesante» che non può essere ignorata. Si può però far osservare a Issing che i tax payers italiani potrebbero porsi un analogo interrogativo, di segno rovesciato, di fronte alla circostanza di una Germania che attualmente si finanzia a tassi negativi. Ma per capire la posizione dei tedeschi, d'altra parte, ci basta ricordare ciò che è accaduto poche settimane fa in Italia: di fronte a un quadro che si riteneva drammatico dei conti della Sicilia non si sono subito levate voci che chiedevano un commissariamento della Regione Siciliana da parte del governo? E che altro significava se non l'indisponibilità di molti contribuenti a continuare a pagare, senza poter esercitare alcun controllo, per le spese siciliane? L'esempio siciliano, naturalmente, riguarda il rapporto fra chi paga e chi spende all'interno di uno Stato nazionale. Nel caso europeo, la questione è ulteriormente complicata dall'assenza di uno Stato unitario. Ma, per l'essenziale, il problema è identico: chi paga deve essere titolare di un diritto di controllo sulle spese. Non si esce dalla crisi se non si trova il modo di conciliare due esigenze: garanzie per i tedeschi sull'impiego dei loro soldi, garanzie per gli altri che l'inevitabile perdita di sovranità che si prospetta non verrà usata dai più forti (come nel caso dei finanziamenti negativi) per indebolire ulteriormente i più deboli a proprio vantaggio. È un doppio e incrociato sistema di garanzie, in altri termini, quello che deve essere costruito. Non solo le rivoluzioni, ma anche le unificazioni incruenti non sono pranzi di gala. Angelo Panebianco 31 luglio 2012 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_luglio_31/sovranita-dei-debitori-angelo-panebianco_2a67cbaa-dad0-11e1-8089-ce29fc6fe838.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il dilemma dei centristi Inserito da: Admin - Agosto 07, 2012, 04:46:29 pm PROPORZIONALE E ALLEANZE DI GOVERNO
Il dilemma dei centristi Con l'annunciato ritorno alla proporzionale, ridiventerà lecito ciò che non lo era dopo il 1994: correre da soli alle elezioni e fare le alleanze di governo in Parlamento dopo il voto. Era il sistema della Prima Repubblica. Grazie a esso l'Italia riuscì a collezionare ben 45 governi in 44 anni (dal 1948 al 1992): un record negativo eccezionale. Allora però ce lo potevamo permettere: la democrazia italiana viveva di puntelli esterni. C'erano la guerra fredda, la Nato, la minaccia comunista, la conventio ad excludendum. C'è da dubitare che una democrazia così mal funzionante possa reggere a lungo nel burrascoso mondo in cui viviamo. Ma la politica è interessata solo al breve termine. E nel breve termine una legge elettorale proporzionale serve a tanti. Serve ai probabili sconfitti (il centrodestra) perché, a differenza delle leggi maggioritarie, consente di limitare le perdite, di rimanere in gioco. E serve a chi si è posizionato «al centro» (Pier Ferdinando Casini). Perché gli assicura una rendita di posizione, lo rende indispensabile in qualunque combinazione parlamentare. Può svolgere il ruolo del king maker quale che sia lo schieramento, di sinistra o di destra, con cui, dopo le elezioni, si troverà a trattare la formazione del governo. Facciamo un esercizio di fantasia, immaginiamo lo scenario del dopo elezioni (la storia poi, si sa, va per suo conto, ma disegnare scenari è un modo per dotarsi di una bussola artigianale). È probabile che l'alleanza Bersani-Vendola prevalga sul centrodestra nelle prossime elezioni. Non avrà però, verosimilmente, i numeri per governare. Dovrà fare i conti con Casini. Quanto potrà reggere il governo che si formerà? Nello «schema di gioco» di Bersani, a Casini spetterà la difesa della continuità con il governo Monti, a Vendola (ma anche a una parte del Partito democratico) spetterà rivendicarne la discontinuità. Con Bersani al centro che media fra le due componenti. Ma potrà mai reggere quello schema di gioco? Sicuramente no, se dovremo fare ricorso allo scudo anti- spread e accettare le rigide condizioni che ciò comporta: l'ala sinistra, vincolata a un programma di rigore e di tagli alla spesa che non è il suo, non potrebbe reggere a lungo il gioco. Ma anche senza scudo, e connesso commissariamento, lo schema di Bersani incontrerebbe grossi problemi. Non sarebbe facile per il governo, data la sua composizione, guadagnarsi la fiducia dei mercati. Le probabilità di fallimento nel giro di un anno sarebbero piuttosto alte. Figurarsi poi se all'assedio dei mercati dovesse sommarsi, poniamo, una improvvisa pressione politico-diplomatica dovuta al precipitare di una crisi militare (fra Israele e Iran) in Medio Oriente. Esaurito l'esperimento, Casini cercherebbe di smarcarsi, di cambiare cavallo, di aprire una trattativa con la destra (grazie anche al ridimensionamento politico di Berlusconi dovuto alla sconfitta elettorale). Potrebbe farlo, però, solo se esistessero in Parlamento i numeri necessari per rovesciare le alleanze. Ma se quei numeri non ci fossero? La benedizione rappresentata dal posizionamento al centro si trasformerebbe in una maledizione. Perché i centristi non potrebbero allora schivare le macerie del fallito esperimento di governo. La verità è che a Casini conviene solo una grande coalizione. La distribuzione delle forze in Parlamento che risulterà quando, a urne chiuse, si saranno contati i voti e proclamati i risultati, ci dirà se i centristi avranno ragioni per brindare o per essere spaventati. Angelo Panebianco 6 agosto 2012 | 9:47© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_06/dilemma-centristi-panebianco_ea3dc730-df86-11e1-a2e0-2a62fa6322b0.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'integrazione e gli interessi Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 06:45:16 pm LA PARTITA PER UN'EUROPA PIÙ UNITA
L'integrazione e gli interessi La discussione che si è aperta in Germania sulla opportunità di indire un referendum che superi i vincoli e gli ostacoli che la Costituzione tedesca pone ai progetti di maggiore integrazione in Europa, ci riporta forse alla realtà. La Germania, come qualunque altro Paese europeo di fronte alla crisi, è divisa sul da farsi: varie opzioni, anche contrapposte, si contendono il campo. Come sempre accade in tutte le democrazie (e, in realtà, in tutti i sistemi politici complessi, anche quelli autoritari, Cina inclusa). E ciò forse significa, contro certe interpretazioni troppo unilaterali che hanno dipinto la Germania come un compatto blocco di potere teso a distruggere le economie più deboli succhiando loro il sangue, che esistono margini di manovra e di trattativa più ampi di quelli fin qui immaginati, anche per i partner europei della Germania, Italia compresa. Disporre di margini di manovra richiede però due cose: la prima consiste nella capacità di perseguire con continuità intelligenti ed energiche politiche di risanamento interno (i compiti a casa). Senza di che, i margini di manovra, insieme alla credibilità, si riducono a zero. Si spera che i partiti, nell'imminente campagna elettorale, ne vogliano tenere conto. La seconda consiste nell'adozione di una visione più realistica di quella che è sempre circolata in Italia sulla natura dell'integrazione europea. Non c'è più tempo né spazio per quella retorica, spesso fondata sull'autoinganno e su idee di dubbia consistenza, che l'Italia pubblica ha tante volte abbracciato. Un europeismo adeguato ai tempi richiede che l'Unione venga guardata per ciò che è, senza fronzoli, miti e utopie. Cominciamo col ricordare, anche se ciò può dispiacere ad alcuni, che l'ideale di una Europa unita è un ideale freddo. Non abbandonare la strada dell'integrazione, perseverare nel cammino verso l'unificazione politica, serve sicuramente a tutti noi europei. «Serve», appunto. Il verbo scelto rimanda al carattere strumentale (o prevalentemente strumentale) di questo processo. L'integrazione europea ha infatti due scopi. In primo luogo, mantenere la pace in Europa (il che non sarebbe più garantito se l'Unione si disgregasse). In secondo luogo, assicurare anche agli europei, in un'epoca in cui potere e ricchezza sono collegati alle «taglie forti», in cui solo i giganti politici dettano legge, di godere di indipendenza (e quindi tutelare le proprie storiche libertà) e di influenza (e quindi incidere sulle scelte da cui può dipendere la futura prosperità delle nazioni europee associate). C'è poi da sbarazzarsi di un modo paradossale, e tuttavia diffusissimo in Italia, di guardare all'integrazione politica europea. In tanti resoconti, essa è stata troppe volte dipinta, con imperdonabile ingenuità, come se si trattasse di un processo apolitico. Molti ne parlavano, e tuttora ne parlano, come se l'integrazione politica non dovesse, a dispetto dell'aggettivo, mettere in gioco la politica, ossia quella competizione sempre aspra, spietata, per il potere, lo status e la ricchezza, che è tanta parte del materiale di cui è fatta la politica, e senza il quale la politica non c'è. Forse è proprio il fatto di avere così a lungo pensato l'integrazione politica in termini apolitici, di non avere capito in tempo che l'auspicata «costruzione di una Europa federale» non può avvenire senza essere accompagnata da una dura competizione che inevitabilmente genera, e genererà, vincitori e vinti (fra i Paesi e all'interno dei Paesi), a spiegare la sorpresa che ha colto tanti italiani quando hanno scoperto (ma guarda un po') che i tedeschi erano e sono molto attenti agli interessi loro, che i francesi, aggrappati al tabù della sovranità, devono alimentare la finzione di un «rapporto alla pari» con la Germania, eccetera, eccetera. Prima ci sbarazzeremo della visione irenica, apolitica appunto, dell'integrazione europea e prima e meglio potremo contribuire alla causa comune (l'integrazione) difendendo contemporaneamente, con la durezza necessaria, i nostri interessi. Purtroppo, bisogna dirlo, l'Italia non è ancora attrezzata per giocare al meglio questa complicata partita. Non solo perché, ovviamente, non si può difendere niente se non si è messo in ordine la propria casa, se non si è diventati efficienti e competitivi. Ma anche per una ragione culturale: per decenni, l'Italia pubblica ha creduto di potere sostituire l'europeismo al patriottismo («bruciato» dall'avventura fascista e dalla sconfitta della Seconda guerra mondiale), di fare del primo un surrogato del secondo. Non si è mai adeguatamente preparata per una partita in cui il problema è mantenere un ragionevole equilibrio fra le ragioni dell'europeismo e quelle del patriottismo; lavorare per la causa comune e, insieme, tutelare i propri interessi in una competizione in cui nessuno regala niente a nessuno. I nostri governi, naturalmente, badando pragmaticamente agli interessi, lo hanno sempre fatto. A volte bene e a volte male. Ma senza mai spiegarne fino in fondo condizioni e implicazioni alla classe politica nel suo insieme e all'opinione pubblica. I tempi richiedono che si adotti con rapidità una più appropriata prospettiva. Angelo Panebianco 13 agosto 2012 | 9:54© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_13/panebianco-integrazione-interessi_04dd0596-e505-11e1-97d9-de28e70d5d31.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Si fa presto a dire crescita Inserito da: Admin - Agosto 29, 2012, 04:49:13 pm UN OBIETTIVO, TROPPE DIVISIONI
Si fa presto a dire crescita A causa del fatto che, per lo più, non si vuole concedere all'avversario una qualche dignità, ma anche a causa di una diffusa ignoranza della storia patria, il nostro dibattito pubblico tende quasi sempre a immiserire e a banalizzare ciò che non dovrebbe esserlo: le nostre divisioni. Esse non sono alimentate, come ci fa comodo credere, solo da contingenti conflitti di interesse. Riflettono, e riproducono, contrapposizioni antiche. Le divisioni politiche contingenti occultano radicate, profonde, e probabilmente incomponibili, divisioni culturali. Siamo divisi praticamente su tutto e il fatto che il nostro sia ancora uno Stato unitario, per di più corredato di una (claudicante) democrazia, è una specie di miracolo. Usiamo le stesse parole ma diamo loro significati antitetici. Se prescindiamo per un momento dagli interessi in gioco, ad esempio, che altro è lo scontro sulle intercettazioni (diritto di cronaca contro diritto alla privacy) se non una divisione che chiama in gioco due idee radicalmente diverse, e cariche di storia, della libertà? La stessa cosa accade con un'altra parola che usiamo tanto, soprattutto da quando l'«oggetto» a cui si riferisce è sparito nel nulla: la parola in questione è «crescita». Tre partiti si confrontano e si scontrano sulla crescita. Il primo partito, più diffuso e ramificato di quanto si voglia credere, è quello dei nemici della crescita, dei fautori della de-industrializzazione del Paese. Varie pulsioni lo alimentano: la critica romantica della società industriale, un anticapitalismo che ha varie ascendenze culturali, utopie bucoliche, la sindrome «non nel mio giardino», il sogno di una società capace di eliminare il rischio, l'avversione per un sistema economico-sociale fondato sul continuo cambiamento. Ma anche i fautori della crescita sono divisi al loro interno. Qui i contrasti si fanno più sottili, non sono sempre immediatamente riconoscibili. Lo stesso governo Monti appare attraversato da questa divisione. E ciò si riflette nei provvedimenti che esso appronta. A confrontarsi e a scontrarsi sono il partito per il quale la crescita deve essere guidata dallo Stato, che pensa che il governo ne debba essere il deus ex machina , e il partito che la intende come il virtuoso sottoprodotto della libertà degli individui. Ne consegue che i due partiti, pur con alcune sovrapposizioni, attribuiscono compiti diversi al governo. Per il primo partito, il governo deve direttamente «farsi carico» della crescita. Per il secondo, invece, deve creare le condizioni perché siano i cittadini, con la loro libera attività, a farsene carico. Per dire, sia il segretario della Cgil Susanna Camusso nelle sue dichiarazioni che gli economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina nei loro editoriali sul Corriere auspicano la crescita ma i mezzi a cui pensano per ottenerla non sono propriamente gli stessi. Alla prima concezione, per esempio, è associata l'idea di «politica economica» (salvo ricordare che già nella prima metà dello scorso secolo l'economista Joseph Schumpeter ammoniva che la politica economica è in realtà «politica e basta») e, in tempi passati, anche di «programmazione»: il governo, oltre a manovrare la spesa pubblica, deve marcare stretto, da vicino, gli operatori economici, gli spetta il compito del direttore d'orchestra. Per la seconda concezione, invece, il governo, se vuole davvero la crescita, deve darsi due compiti essenziali: rendere efficienti (la miglior qualità possibile al costo più basso possibile) i servizi che gli spettano e mettere la società in condizioni di respirare, di non essere oppressa da un eccesso di regolamenti e tasse. Per la seconda concezione, non è compito del governo «promuovere» la crescita. Il suo compito è togliere gli ostacoli burocratici che impediscono alla libera attività dei cittadini di promuoverla. Se fossimo un Paese meno complicato di come la storia ci ha reso, il confronto politico e, massimamente, il confronto elettorale, sarebbero chiarificatori: sinistra e destra si sfiderebbero proponendo ai cittadini due diverse visioni dei mezzi necessari per rilanciare la crescita economica. Ma siccome siamo complicati, da noi tutto si confonde: talché, a destra, a sinistra e al centro, troviamo, mescolati, i fautori di entrambe le concezioni, i rappresentanti di entrambi i partiti. Per avere crescita serve dare impulso a un massiccio programma di opere pubbliche mantenendo la pressione fiscale al livello a cui è giunta oppure serve, prima di tutto e soprattutto, abbassare le tasse? La risposta qualifica l'interlocutore come appartenente all'uno o all'altro dei due partiti. Forse, inadeguatezza di molti protagonisti a parte, una delle ragioni per cui l'esperimento di bipolarismo politico è fallito in questo Paese è che, oberati dalle cattive abitudini e eredità della Prima Repubblica, non siamo riusciti a farne lo strumento per incanalare e contrapporre visioni della crescita (e connesse prassi di governo) chiaramente e inequivocabilmente alternative. Angelo Panebianco 29 agosto 2012 | 8:03© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_29/si-fa-presto-a-dire-crescita-panebianco_8d01b02e-f19a-11e1-975b-225a9f9609c6.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. I nostalgici dei governicchi Inserito da: Admin - Settembre 05, 2012, 03:39:18 pm INSIDIE DI UN RITORNO AL PROPORZIONALE
I nostalgici dei governicchi È una regolarità conosciuta: in tempo di pace gli stati maggiori elaborano piani di guerra sulla base dell'erronea convinzione che il prossimo conflitto sarà la fotocopia del precedente. Poi, quando la guerra scoppia, si scopre che essa è diversa e quei piani di guerra diventano carta straccia. Qualcosa del genere sembra accadere nella politica italiana. I politici sono impegnati nel riproporre dosi più o meno massicce di proporzionale nella legge elettorale. Contemporaneamente, danno a intendere che dalle prossime elezioni possano uscire responsi definitivi, vincitori e vinti, un governo di legislatura. Per questo, fra l'altro, si attardano a parlare di primarie. Ma ha ragione Romano Prodi ( Corriere , 3 settembre) quando, a proposito del Partito democratico, osserva che le primarie hanno senso solo quando, vigente un meccanismo maggioritario, si sceglie il candidato premier, uno che, se vincerà, avrà buone probabilità, salvo incidenti di percorso, di governare per cinque anni. Non hanno senso invece in regime di proporzionale, ove il nome del premier è deciso dai partiti mediante trattative parlamentari. Non si può prender congedo dal ventennio maggioritario, ritornare alla proporzionale, e poi pretendere che nella legislatura successiva ci sia un governo solo e basta. Quanti governi si succederanno dopo le elezioni del 2013: Due? Tre? Quattro? Si accettano scommesse. Se si affida ai partiti in Parlamento, anziché agli elettori, la formazione del governo, esso sarà poi in balia delle sempre mutevoli combinazioni parlamentari. Giustamente Francesco Giavazzi (sul Corriere di ieri) auspica che centrosinistra e centrodestra prendano impegni su cosa faranno in seguito. Ma dato il quadro politico che si delinea sarà difficile che i partiti possano rispettarli. Perché le politiche di governo dipenderanno, più che dagli impegni presi con gli elettori, dalle contrattazioni post elettorali. Senza contare che solo chi è sicuro che la propria identità resterà salda nel tempo può assumere un impegno oggi convinto di volerlo rispettare domani. E le identità future degli attori odierni sono incerte. Non esistono partiti per tutte le stagioni. Il Pd e il Pdl sono figli dell'epoca maggioritaria. È difficile che sopravvivano nella nuova stagione proporzionale. È più plausibile che nel corso della prossima legislatura si assista a scomposizioni e ricomposizioni lungo tutto l'arco parlamentare. C'è, a questo proposito, una certa congruenza fra la rivalutazione (che contraddice le ragioni della nascita del Pd) di Palmiro Togliatti, fatta dall 'Unità , e il ritorno alla proporzionale, preferenze incluse (forse). Si spiega col fatto che le «ragioni sociali» dei partiti del maggioritario sono venute meno. Il fallimento della stagione maggioritaria, di cui è stato un aspetto essenziale la mancata riforma della Costituzione, ci lascerà con governi ancor più deboli e precari dei precedenti. Ciò fa intravvedere scenari inquietanti. Se l'Unione europea reggerà, se ci saranno passi importanti sulla strada della integrazione politica, l'Italia non avrà governi abbastanza forti per trattare autorevolmente con i partners . Sarà un vaso di coccio e ne faremo tutti le spese. Se invece l'Europa si sfalderà, peggio ancora: senza leadership di governo forti, legittimate dal consenso popolare, ci ritroveremo presto alla deriva. Per durare nel tempo fronteggiando grandi sfide, di tutto hanno bisogno le democrazie tranne che di una successione di governicchi. Angelo Panebianco 5 settembre 2012 | 9:52© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_05/nostalgici-dei-governicchi-panebianco_22310508-f71a-11e1-8ddf-edf80f6347cb.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 03:35:34 pm LO SGUARDO MIOPE DELL'OCCIDENTE
Il giorno dopo l'11 settembre Dell'assalto al consolato americano a Bengasi e dell'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari si possono dare due interpretazioni. La prima fa riferimento al caos libico. Le elezioni di luglio, con la sconfitta degli islamici estremisti e la vittoria di una coalizione guidata da un filoccidentale (Mahmud Jibril) sono apparse rassicuranti agli osservatori occidentali, ma non hanno nascosto a lungo la realtà: il fatto che la Libia sia tecnicamente un failed State , uno Stato fallito, nel quale non esiste monopolio statale della forza e ove scorrazzano tante milizie armate fuori dal controllo del governo. La tragedia di Bengasi può essere letta, in questa prospettiva, come un episodio circoscritto, causato dalla natura della situazione libica. Ma c'è anche un'altra interpretazione possibile. È quella che fa dei fatti di Bengasi (come indica la rivendicazione di Al Qaeda) il possibile avvio di una nuova fase della guerra antioccidentale di un estremismo islamico-sunnita uscito rafforzato dalle cosiddette rivoluzioni arabe. Non bisogna dimenticare che le dimostrazioni antiamericane degli estremisti salafiti contro il presunto film blasfemo su Maometto cominciano in Egitto e rimbalzano in Libia qualche ora dopo. In Egitto governano oggi i Fratelli Musulmani ma i salafiti, l'ala più estremista dell'islamismo, ottennero, nelle prime elezioni del post Mubarak, un eccellente risultato elettorale. È una presenza che condiziona, e condizionerà, l'evoluzione politica. È solo ironia della sorte il fatto che si manifesti di nuovo l'ostilità antioccidentale in Paesi in cui, diplomaticamente (Egitto) o militarmente (Libia), l'Occidente si era speso a favore dei rivoluzionari e contro i vecchi dittatori? O è anche il frutto degli errori di lettura delle rivolte arabe dello scorso anno? Si pensi, per esempio, al fatto che gli occidentali non si avvidero che l'abbattimento della torva dittatura di Gheddafi avrebbe spalancato le porte, come è avvenuto, al dilagare dell'estremismo islamico nel Mali e in altre aree adiacenti. Ma si pensi, soprattutto, al fraintendimento del significato dei processi di democratizzazione che fu proprio di molti media occidentali quando scoppiarono le rivolte in Tunisia e in Egitto. Non si capì che la democratizzazione è un bene ma solo se non prende una piega illiberale. Dal momento che le democrazie illiberali possono essere persino più opprimenti delle dittature per le minoranze interne e, spesso, più pericolose sul piano internazionale. È il dilemma che ha oggi l'Occidente di fronte alla guerra civile siriana. È giusto appoggiare i ribelli ma solo a patto che siano i «ribelli giusti». Altrimenti, si passa dalla padella alle braci, da una dittatura sanguinaria a un regime, magari formalmente più democratico, ma altrettanto sanguinario. Vuoi in variante realista (i Fratelli Musulmani), vuoi in variante estremista, l'islamismo militante è in ascesa in Medio Oriente. Ne derivano due conseguenze. La prima è che gli Stati Uniti sono chiamati a valutare se le loro scelte strategiche non abbiano un urgente bisogno di revisione (l'uccisione di Stevens fa irrompere la politica estera in una campagna presidenziale che fin qui ha parlato soprattutto d'altro). Nell'undicesimo anniversario dell'11 Settembre gli Stati Uniti devono riconoscere che nemmeno la morte di Bin Laden ha fermato la minaccia. La seconda conseguenza è che l'Europa dovrà prepararsi a fronteggiare gli effetti, anche in casa propria, dell'ascesa islamista. Poiché la sicurezza è altrettanto vitale della difesa dell'euro e della crescita economica. Angelo Panebianco 13 settembre 2012 | 7:45© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_13/giorno-dopo-undici-settembre-panebianco_2fcef20a-fd60-11e1-ae02-425b67d1a375.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il labirinto delle vanità Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2012, 11:30:06 am PERSONALISMI E PROGETTI SMARRITI
Il labirinto delle vanità La discussione, che sarebbe stata altrimenti surreale, su un eventuale Monti bis dopo le prossime elezioni è il frutto della sfiducia degli altri governi e degli investitori internazionali nella capacità futura dell'Italia di perseverare nell'opera di risanamento. Dato il marasma in cui versa il fu-centrodestra non è il ritorno al potere di Berlusconi che si teme (una eventualità nella quale non crede nessuno, nemmeno Berlusconi). Piuttosto, come ha argomentato Antonio Polito ( Corriere , 29 settembre), sono le scelte che farà il probabile vincitore delle elezioni, il Pd, a preoccupare. Per le alleanze politiche (Vendola) e sociali (Cgil) di Bersani, e per la volontà conclamata degli uomini di Bersani di mandare in cavalleria, su punti decisivi, le riforme Monti, dalle pensioni al lavoro. Ma c'è dell'altro. Del futuro dell'Italia dovrebbero infatti preoccupare, più che i suoi prossimi equilibri politici, i suoi prossimi squilibri. L'esito, di volta in volta, può essere più o meno drammatico, ma sembra che l'Italia pubblica non possa fare a meno, periodicamente, di essere investita da devastanti crisi di legittimità: malversazioni e scandali superano il livello di guardia, la sfiducia dei cittadini nelle classi dirigenti diventa totale o quasi, le istituzioni rappresentative perdono ogni residuo alone di rispettabilità. È accaduto nella fase terminale della democrazia giolittiana e ciò aprì le porte al fascismo. È accaduto, di nuovo, con le inchieste sulla corruzione dei primi anni Novanta che spazzarono via i vecchi partiti (la cosiddetta Prima Repubblica). Sta accadendo, ancora una volta, oggi. C'è un elemento di somiglianza fra la crisi attuale e quella dei primi anni Novanta. Anche allora il passaggio fu scandito dalla presenza di governi detti tecnici (i governi Amato e Ciampi). Ma a colpire sono le differenze. Due in particolare. La prima è che negli anni Novanta il mondo viveva una fase di espansione economica. Oggi la crisi politico-istituzionale italiana è aggravata dalla contestuale recessione internazionale. Il che rende le prospettive della crisi piuttosto cupe. La seconda differenza è che nei primi anni Novanta c'era, per lo meno, una idea, una visione, un progetto (chiamatelo come volete) su come uscire dalla crisi. I referendum Segni sul sistema elettorale non erano semplicemente espressione della volontà di cambiare le regole del voto. Contenevano una implicita proposta di ristrutturazione radicale del sistema politico. Se la Prima Repubblica era stata partitocratica (dominata dai partiti) e ciò l'aveva alla fine condotta al fallimento, la Seconda avrebbe dovuto spostare il baricentro dai partiti alle istituzioni rappresentative. Se la Prima Repubblica aveva avuto il suo fulcro nel Parlamento (luogo privilegiato della mediazione partitica), la Seconda avrebbe dovuto rafforzare il ruolo del governo. Se la Prima Repubblica era stata segnata da endemica instabilità governativa, la Seconda avrebbe dovuto avere, come regola, governi di legislatura. Se la Prima Repubblica aveva dilatato l'area della rendita politica (da lì l'esplosione del debito pubblico), la Seconda avrebbe dovuto ridurre quell'area restituendo al mercato e alla società ciò di cui la politica si era impadronita. Si aggiunga che la contestuale emergenza della Lega Nord aveva creato anche una pressione per una ridistribuzione dei poteri, in linea di principio non sbagliata, dal centro alla periferia. È andato quasi tutto storto. Abbiamo avuto il bipolarismo, un governo di legislatura (il secondo governo Berlusconi), una legislatura interamente guidata dal centrosinistra ('96-2001) e abbiamo spostato alcuni poteri dal centro alla periferia. Ma l'area della rendita politica non si è ridotta, anzi si è dilatata ulteriormente. Inoltre, le riforme istituzionali che avrebbero dovuto stabilizzare il nuovo assetto o non si sono fatte (fallimento della Bicamerale) o sono state insufficienti (elezione diretta dei sindaci e presidenti di Regione). E anche il decentramento dei poteri è stato realizzato senza imporre al ceto politico locale l'onere della responsabilità, di fronte agli elettori, dell'uso del denaro pubblico. Il peso dell'intermediazione politica è cresciuto anziché diminuire. Possiamo attribuire alla inadeguatezza dei protagonisti, da Berlusconi, con il peso dei suoi interessi, al vasto popolo degli ex (ex democristiani, ex comunisti, ex fascisti) oberati da culture politiche condizionate dal passato, il fallimento di quel progetto. O possiamo (ma, guarda caso, sono quasi sempre i suddetti ex ad abbracciare questa tesi) attribuire il fallimento alla intrinseca debolezza del progetto, alla sua estraneità rispetto alla tradizione italiana. Ma, quale che sia la ragione del fallimento, resta una circostanza. Negli anni Novanta c'era almeno una idea, l'ipotesi di un percorso, per superare la crisi istituzionale. Oggi, a fronte di una nuova crisi istituzionale, non c'è nulla di nulla, non c'è uno straccio di visione, di ipotesi su come uscirne. C'è smarrimento e inerzia. E qualche tentativo, neppure convinto (come mostrano i propositi di riforma elettorale), di ritornare a vecchie formule e abitudini, già esperite e già fallite. La Prima Repubblica era dominata dalla Dc e dal Pci. Forse, non è propriamente un caso se all'attuale, pauroso, vuoto di idee corrisponde il fatto che, governo Monti a parte, diversi capi partito, o i loro uomini di punta, che si affannano intorno alla crisi istituzionale, provengano da quelle esperienze. Angelo Panebianco 2 ottobre 2012 | 8:18© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_02/labirinto-vanita-panebianco_a0f18f56-0c51-11e2-a61b-cf706c012f27.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Primarie vere giochi aperti Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:06:12 am BERSANI, RENZI E IL SILENZIO DI VELTRONI
Primarie vere giochi aperti Bloccando chi voleva imporre regole per le primarie così penalizzanti per Matteo Renzi da trasformare il sindaco di Firenze in un martire, facendogli in questo modo un grande, involontario favore politico, Pier Luigi Bersani, come tanti osservatori hanno rilevato, ha mostrato intelligenza e fiuto. E si è anche impegnato in una partita - le primarie - che se risultasse per lui un trionfo, lo emanciperebbe dal vecchio gruppo dirigente, gli darebbe una preminenza personale indiscutibile dentro il partito. Adesso è libero di concentrarsi sulla sfida con un avversario pericoloso come Renzi. Un avversario che difficilmente potrà vincere ma che potrebbe comunque imporre una forte ipoteca sul partito, condizionarne futuri equilibri e azioni. Gli osservatori pro Bersani dicono che Renzi sia solo un abile propagandista di se stesso e che il suo «programma» non vada al di là della proposta della rottamazione: una sfida generazionale senza contenuti. Ciò è vero ma non del tutto. Ci sono comunque accenni di programma nella campagna di Renzi ed hanno diversi punti di contatto con quel discorso del Lingotto con cui Walter Veltroni, nel 2007, avviò la navigazione del Partito democratico. Chi ricorda quel (notevole) discorso sa che Veltroni vi delineava il progetto di un forte rinnovamento, di una significativa discontinuità, rispetto alla tradizione della sinistra italiana. Poi, come spesso succede nelle cose di questo mondo, quella visione innovativa si scontrò con la dura realtà quotidiana della politica, e si perse per strada. Bersani è l'opposto del Veltroni del Lingotto: uno che non predica discontinuità ma che propone piuttosto l'adattamento della tradizione alle circostanze presenti. Date certe affinità, che esistono, c'è da chiedersi come mai Veltroni non abbia appoggiato Renzi. A maggior ragione, se si tiene conto della distanza che lo separa da Bersani, per tacere di D'Alema. Se lo avesse fatto, probabilmente, le chance di vittoria di Renzi nelle prossime primarie sarebbero cresciute. Si può azzardare una ipotesi: Veltroni non ha appoggiato Renzi perché, comprensibilmente, non ha voglia di fare la fine che fece il socialista Giacomo Mancini all'epoca del Midas (1976), quando l'emergente Bettino Craxi sbaragliò la vecchia oligarchia (dei De Martino, Lombardi, eccetera). In quel frangente, fu Mancini il king maker , colui che favorì la vittoria dell'emergente. Ma, dopo un breve lasso di tempo, venne egli stesso emarginato dalla nuova dirigenza del Psi. Se Renzi perde «bene», se Bersani vince ma solo di misura, allora la navigazione per il suo partito, dato per favorito alle prossime elezioni, diventerà ancor più perigliosa di quanto già non sia. Perché un Renzi forte non può non accentuare le difficoltà di quel partito nel predisporre una plausibile agenda di governo. L'eredità del governo Monti diventerà un peso del quale, per il Pd, non sarà facile sbarazzarsi. Un Renzi forte creerà problemi al segretario, e potenziale premier, Bersani su tutti i fronti. All'interno del partito, per la distanza che c'è fra Renzi e l'entourage del segretario. Nei rapporti con l'alleato Vendola, perché questi vuole azzerare scelte del governo Monti che Renzi difende strenuamente. E nei rapporti con la Cgil, per la stessa ragione. Queste sono le prime «vere», competitive, primarie nazionali del Partito democratico (in precedenza, ci si era limitati a fare plebiscitare un leader già deciso dal gruppo dirigente). Proprio perché sono vere lasceranno un forte segno. Angelo Panebianco 8 ottobre 2012 | 9:03© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_08/primarie-vere-giochi-aperti-angelo-panebianco_b8467240-1109-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La normalità è una chimera Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2012, 04:45:40 pm LA DEMOCRAZIA DELL'EMERGENZA
La normalità è una chimera Assumiamo che Pier Luigi Bersani non riesca a vincere le primarie del Pd al primo turno. Di fronte a tale eventualità, Bersani dovrebbe cominciare a preoccuparsi un po' meno dei voti che raccoglierà Matteo Renzi al primo turno e molto di più di quelli che si concentreranno su Nichi Vendola. Perché se Vendola otterrà un buon successo, una percentuale ragguardevole di voti al primo turno, allora sì che saranno guai per il Pd. Al secondo turno, nel ballottaggio fra Bersani e Renzi, i voti di Vendola rifluirebbero su Bersani e, se risultassero decisivi per la sua affermazione, il messaggio che verrebbe inviato urbi et orbi sarebbe inequivocabile: il Pd, dopo tanto peregrinare, è tornato alle origini, è di nuovo un partito di sinistra-sinistra grazie anche alla iniezione di anticapitalismo vendoliano. Il (fragile) equilibrio che Bersani ha fin qui tentato di mantenere fra le diverse istanze del partito si spezzerebbe. Il rischio di fare la fine della gloriosa macchina da guerra di occhettiana memoria diventerebbe forte. Anche a dispetto dello stato di marasma in cui versa oggi il centrodestra. D'altra parte, ci sono già segnali in quella direzione, dal crescente distacco dalle politiche del governo Monti (in coincidenza con la radicalizzazione della Cgil) alle battute, infelici ma rivelatrici, sul mondo della finanza. Difficilmente, un Pd così spostato a sinistra potrebbe ottenere i numeri per governare. Se, per ventura, e a dispetto dei santi, li ottenesse, si troverebbe comunque a fare i conti con l'allergia di una parte ampia del Paese che chiede sviluppo e non ideologia, con il giudizio negativo dei mercati, con i sospetti dell'Europa a guida tedesca. Giusto o sbagliato, c'è comunque un prezzo da pagare per fare parte del più ampio sistema europeo. Il problema del Pd (che, peraltro, grazie alla sfida di Renzi, sembra al momento l'unico partito tradizionale con un po' di vitalità) rispecchia il più generale problema della democrazia italiana in questo frangente. Una democrazia può benissimo, per fronteggiare situazioni di emergenza, adottare soluzioni eterodosse. Il governo detto tecnico è stato appunto una di queste soluzioni. Ma molto presto si dovrà tornare alla normalità, a governi fondati sulla legittimazione elettorale. Se non che, a pochi mesi dalle elezioni, le forze politiche che avrebbero dovuto preparare il Paese a questo rientro nella normalità non l'hanno fatto. Non sono state ancora capaci di fare una buona legge elettorale tale da favorire condizioni di governabilità. Così come non sono state capaci, nonostante scandali e discredito, di riformare radicalmente i meccanismi di finanziamento della politica. Normalmente, nelle fasi di crisi, sono gli elettori a sciogliere, con le loro scelte, i nodi più intricati. Ma possono farlo solo se vengono messi di fronte ad alternative chiare. Occorre che l'offerta politica sia congegnata in modo da consentirlo. Ciò che spaventa tutti, in Italia e fuori, è che, al momento delle elezioni, l'offerta politica risulti così destrutturata, così slabbrata, da non permettere la formazione di governi stabili. È comprensibile che i politici si preoccupino più del proprio destino che di quello che potremmo chiamare il «disegno più ampio». Ma ci sono anche momenti in cui la stessa sopravvivenza a breve termine del politico dipende dalla sua capacità di guardare lontano. Il problema è che c'è ormai poco tempo per ridare funzionalità, attraverso una chiara ristrutturazione dell'offerta politica, a una democrazia che sappia fare i conti con vincoli esterni sempre più stringenti. Angelo Panebianco 22 ottobre 2012 | 9:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_22/normalita-chimera-panebianco_4d760a46-1c0a-11e2-b6da-b1ba2a76be41.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Vacui riformatori veri resistenti Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2012, 06:07:09 pm IL BLOCCO DEGLI INTERESSI CONSOLIDATI
Vacui riformatori veri resistenti Sarebbe, in un certo senso, rassicurante attribuire le crescenti difficoltà parlamentari del governo Monti — dalla bocciatura dei tagli nella sanità allo stop sui tagli alle spese delle Regioni — solo alle fibrillazioni della campagna elettorale. Si potrebbe infatti dedurne che, se non fosse per la vicinanza delle elezioni, ci sarebbe più spazio per incidere sulla spesa e le sue disfunzioni. Ma non è così. Perché non sono solo i partiti ma un intero, variegato ma potentissimo, «blocco politico- amministrativo-giudiziario » a mettersi di traverso non appena si cerca di incidere (anche solo blandamente, come ha fatto fin qui, per lo più, il governo Monti) i bubboni del nostro sistema pubblico. Si pensi alle recenti sentenze della Corte costituzionale: dalla bocciatura dei tagli agli stipendi di magistrati e alti funzionari fino al «no» a un modesto provvedimento che mirava a ridurre i tempi della giustizia civile. Il premier Monti ha detto che l’Italia non ha bisogno di moderazione ma di «riforme radicali». Se non che, quel blocco politico- amministrativo-giudiziario di cui sopra è in grado di sabotare (con i più vari strumenti) persino le riforme blande. Figurarsi che cosa riuscirebbe a fare se qualche aspirante suicida politico si mettesse davvero in testa di fare tutte le «riforme radicali» che sarebbero necessarie: ne sa qualcosa il ministro Fornero che di riforme radicali, sfruttando la condizione di emergenza in cui si trovava l’Italia, è riuscita a farne almeno una, quella delle pensioni, e ha potuto constatare di persona quanto potente sia stato, e sia tuttora, il contrattacco. Per riforme radicali si devono intendere, logicamente, quelle capaci di modificare in profondità lo status quo. In Italia, significherebbe incidere sul sistema pubblico, ridurne il peso sulla società e, insieme, costringerlo a una maggiore efficienza, passare da un sistema pubblico grasso e inefficiente a uno magro e efficiente. Chi può avere la forza per fare una rivoluzione di questa portata? La resistenza degli interessi consolidati è tale che fare quella rivoluzione richiederebbe un «centro» (un governo), non forte ma fortissimo, così forte da piegare e sconfiggere gli innumerevoli poteri di veto che stanno a difesa di quegli interessi consolidati. Si consideri che i tanti cani da guardia che proteggono il sistema pubblico così come è vivono, per lo più, in un mondo tutto loro. Sono autarchici, se non autistici. Nulla può a loro importare degli stringenti vincoli europei o del fatto che, Europa o non Europa, se non si abbassano le tasse tagliando la spesa pubblica, non c’è possibilità di rilanciare la crescita, non c’è altro destino possibile se non il declino e l’impoverimento collettivo. La sola cosa che conta per quei cani da guardia è fare blocco intorno a supposti diritti acquisiti e a interessi consolidati, della più varia e diversa natura, ma tutti alimentati e garantiti attraverso la spesa pubblica. Non in tutte le democrazie ci sono poteri di veto così forti, ramificati e diffusi. Scontiamo in tutta la sua drammatica ampiezza il danno dovuto a un grande fallimento. Il fallimento di quella riforma costituzionale— di cui si parla inutilmente dalla fine degli anni Settanta dello scorso secolo — che, dando più forza istituzionale al governo, avrebbe dovuto, e potuto, spuntare le unghie dei troppi cani da guardia. ANGELO PANEBIANCO 27 ottobre 2012 | 8:43© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_27/vacui-riformatori-veri-resistenti-panebianco_1a405830-1ff6-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. INTERESSI VERI E TIFO PER OBAMA Inserito da: Admin - Novembre 11, 2012, 04:03:10 pm INTERESSI VERI E TIFO PER OBAMA
L'infantilismo degli europei C'è qualcosa che non va nel modo in cui tanti europei seguono gli eventi, si tratti delle elezioni americane o del Congresso del Partito comunista cinese, che condizioneranno le nostre sorti. Non solo il grande pubblico ma anche la ristretta opinione pubblica più attenta alle notizie, e con più mezzi per decifrarle, oscilla spesso fra il tifo insufficientemente motivato, o mal motivato, e l'indifferenza. Questi atteggiamenti verso ciò che di rilevante accade nel resto del mondo fanno dubitare che l'Europa possa diventare, in un prossimo futuro, qualcosa di diverso da ciò che è: un aggregato di governi e società tenuti insieme dalla convenienza ma senza un senso di comune appartenenza, senza volontà o possibilità di diventare una comunità politica. Prendiamo il caso delle elezioni americane. L'Europa tifava Obama. Bene. Ma perché? Con quali motivazioni? Che tifassero Obama i governi è comprensibile. Meglio avere a che fare con un'amministrazione già sperimentata, di cui si conoscono pregi e difetti, con cui c'è consuetudine. Ed è, in particolare, comprensibile che tifasse Obama il governo italiano. Anche per l'ottimo rapporto personale fra Monti e il presidente. Ma soprattutto perché Obama è nostro alleato nel contrasto alle rigidità tedesche. Governi a parte, perché gli europei tifavano per il presidente uscente? Per un insieme di motivazioni, dicono i sondaggi. Perché non apprezzavano il miliardario Romney (troppi soldi), perché Obama, anche se ha perso smalto, è l'anti Bush, uno che esce dalle guerre anziché entrarci (e che importa se, uscendone, può provocare altrettanti guai di chi ci entra), perché Obama è il campione delle minoranze, dell'America multiculturale (e ciò è popolare in Europa) e del politicamente corretto, perché, sui temi etici caldi, sembra più vicino all'Europa secolarizzata che all'America religiosa. C'è, come si vede, qualcosa di impolitico nel modo in cui tanti europei tifavano Obama: si trattava di un giudizio che prescindeva da considerazioni sui possibili effetti sull'Europa di una vittoria dell'uno o dell'altro candidato. Naturalmente, è vero che Romney era un candidato debole e nemmeno lui molto attraente dal punto di vista europeo. Non per le sue ricette economiche, forse migliori di quelle di Obama (come, ad esempio, in Italia ha bene argomentato Luigi Zingales sul Sole 24 Ore, 8 novembre), ricette che avrebbero potuto favorire una ripresa più forte dell'economia americana di quella che favorirà Obama, con ricadute positive anche per noi. Non era attraente per l'Europa perché pur essendo un repubblicano moderato era tuttavia condizionato da correnti del suo partito di ispirazione isolazionista, poco orientate a coltivare i legami transatlantici. Ma questa, che sarebbe un'ottima ragione politica, non figurava fra le motivazioni del tifo europeo per Obama. E sarebbe stato sorprendente il contrario, visto che Obama, nei suoi anni di governo, ha dato segnali di un interesse altrettanto scarso di quello di Romney per i legami transatlantici. È un punto sul quale non bisogna, come alcuni fanno, confondere le acque. Certo che Obama è stato, e sarà ancora, presente in Europa per sollecitare misure che evitino la crisi dell'euro: se va in malora l'euro va in malora anche la sua economia. Ma ciò ha a che fare con necessità connesse all'interdipendenza economico-finanziaria globale. Non ha a che fare con le scelte culturali, politiche e strategiche collegate a ciò che un tempo chiamavamo atlantismo: un rapporto di alleanza sia pure asimmetrica, e di solidarietà, politica e militare, oltre che economica, fra democrazie, fra America e Europa. E se questa considerazione appare a qualcuno astratta, o ideologica, o nostalgica, si consideri qualche concretissimo esempio. L'area esterna che più può influire negativamente sul futuro dell'Europa è il cosiddetto «Grande Medio Oriente», da dove si irradiano le infezioni connesse all'estremismo islamico, dal quale hanno origine robuste correnti migratorie verso l'Europa e dove sono ubicate risorse energetiche vitali. Ebbene, nel Grande Medio Oriente, Obama (uccisione di Bin Laden a parte) ha fin qui collezionato una impressionante serie di insuccessi. In parte dovuti alla obiettiva difficoltà delle situazioni ma in parte anche al suo fallimentare approccio. Con l'annunciato ritiro ha posto le premesse per la sconfitta occidentale in Afghanistan. Con le sue indecisioni a fronte della mezzaluna sciita (Iran, Siria, Iraq) ha disorientato i tradizionali alleati, dagli israeliani ai sauditi. Ha poi mostrato di non avere alcuna strategia di fronte ai movimenti islamisti (sunniti) già al potere in alcuni Paesi o sul punto di afferrarlo in altri. Il suo approccio è insicuro e incoerente anche per il fatto che il «jeffersonismo» che lo ispira (come Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori, Obama pensa che l'America debba coltivare la democrazia a casa propria e gli altri si arrangino) ha conseguenze negative per la politica estera americana in Medio Oriente e, in prospettiva, crea problemi anche all'Europa. Per esempio, dato l'agnosticismo dell'Amministrazione in materia di politiche di sostegno alla democrazia, è da dubitare che l'America sfrutterà gli aiuti all'Egitto come arma di pressione per impedire ai Fratelli Musulmani e ai salafiti di imporre la sharia , la legge islamica. Col rischio di fare dell'Egitto, con o senza elezioni, una dittatura islamica. E con gravissimo danno per le relazioni mediorientali. È giusto tentare di dialogare con chiunque, fosse pure il Diavolo. Ma senza perdere di vista che il dialogo, in tal caso, ha di rado esiti fruttuosi. Se è vero quanto alcuni prospettano, ossia che l'America del secondo Obama, preso atto degli insuccessi, sposterà ancor di più il suo baricentro geopolitico verso il Pacifico, lasciando a un'Europa che non è in grado di farlo di gestire il grosso dei dossier mediorientali (quello iraniano e pochi altri a parte), allora forse i guai sono solo all'inizio. E non rassicura il fatto che Hillary Clinton, forse la più legata alla vecchia scuola fra i responsabili della politica estera, lasci ora il Dipartimento di Stato. Agli europei converrebbe liberarsi di un certo infantilismo, cominciare a pensare politicamente, quando giudicano cosa accade in terra americana come nelle altre terre che contano. Angelo Panebianco 11 novembre 2012 | 8:50© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_11/infantilismo-degli-europei-panebianco_f9e8b8b4-2bd2-11e2-a3f0-bca5bc7cc62d.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le ambizioni dei moderati Inserito da: Admin - Novembre 18, 2012, 03:17:16 pm ILNUOVO POLO CATTOLICO-LIBERALE
Le ambizioni dei moderati Se diamo retta alla fotografia degli umori del Paese che oggi ci consegnano i sondaggi, alle prossime elezioni due forze politiche potrebbero riscuotere più consensi delle altre: l’alleanza Bersani- Vendola e il movimento Cinque Stelle. E poiché entrambe queste forze, sempre stando ai sondaggi che circolano, resterebbero al di sotto del trenta per cento dei suffragi, tutti coloro che non si riconoscono in nessuna delle due sarebbero drammaticamente sottorappresentati, consegnandosi all’astensione (che si prevede alta) o alla dispersione fra i tanti rivoli e frammenti in cui potrebbe sciogliersi il centrodestra berlusconiano. Davvero rischiamo di consegnare l’Italia a un «bipolarismo » Bersani-Grillo, con, in più, la drastica sottorappresentazione della maggioranza degli elettori? Dipenderà da ciò che accadrà «a destra» di Bersani, in quelle vaste praterie elettorali un tempo monopolizzate da Berlusconi. Riuscirà Angelino Alfano a limitare le perdite, e a tenere unito il suo gregge, garantendo così un futuro all’attuale Pdl? E quali caratteri avranno le nuove offerte politiche che emergeranno nel tentativo di sfondare nelle suddette vaste praterie? Non ancora una compiuta risposta ma, per lo meno, una seria indicazione potrebbe venire dall’appuntamento pubblico che oggi a Roma terrà a battesimo una nuova forza politica, voluta da Italia Futura di Luca Cordero di Montezemolo, dal ministro Andrea Riccardi e da altri, e che parte già potendo contare sull’appoggio della Cisl, delle Acli, e di diverse associazioni sia laiche che cattoliche. Il futuro di una nuova forza politica è sempre dettato da due fattori, uno «soggettivo » e uno «oggettivo». Conta ciò che quella forza decide di essere, l’identità che sceglie di darsi. E contano le condizioni esterne che ne influenzeranno il percorso. Insomma, conta sia ciò che quella forza politica «vuole» essere (la sua carta d’identità) sia ciò che essa «può» essere (e che dipende da opportunità e vincoli imposti dalle circostanze). L’identità di un nuovo movimento politico è definita dalla proposta che esso indirizza al Paese. Nessun movimento allo stato nascente può avere successo se la sua proposta e, di conseguenza, la sua identità, non sono chiare, comprensibili, definite. Quale sarà la proposta della forza politica che nasce oggi a Roma? Nell’attesa dei futuri sviluppi, si può solo ragionare sui pochi elementi in nostro possesso. Sappiamo che il nuovo movimento si presenterà come alfiere di un definitivo superamento della (cosiddetta) Seconda Repubblica, come punto di riferimento per chi cerca una via d’uscita dopo l’esaurimento della stagione berlusconiana. Ma ciò è troppo poco o troppo generico per configurare una proposta. Possiamo anche, conoscendo la qualità di alcune delle persone impegnate, in posizioni di rilievo, nel movimento (gli economisti Nicola Rossi e Irene Tinagli e altri), scommettere sul fatto che da esso usciranno «proposte » (al plurale), su economia, istruzione, eccetera, di sicuro interesse e di altrettanto sicura serietà. Ma la proposta (questa volta al singolare) che il movimento farà al Paese quale sarà? Da ciò che si capisce, sarà soprattutto la rivendicazione di una continuità con l’opera del governo Monti. Però, va notato che questa enfasi sulla continuità con il governo in carica può comportare sia vantaggi che svantaggi: poiché il governo Monti è stato ed è diverse cose, alcune luminose (il rigore sui conti) e altre meno (tante tasse e pochi tagli, niente liberalizzazioni, niente riforma dell’amministrazione). Rivendicare la continuità con Monti se non si distingue fra ciò che va e ciò che non va conservato, rischia di annacquare la proposta, di renderla ambigua, non incisiva. Vedremo come il neonato movimento scioglierà questo nodo. Specialmente sul versante liberale, dopo le tensioni, e forse il divorzio, da Oscar Giannino ed Emma Marcegaglia. Oltre alle scelte che il nuovo movimento farà, conteranno le circostanze. Anche a dispetto della volontà dei suoi proponenti esso potrebbe domani ritrovarsi ad essere nient’altro che un rassemblement neocentrista, alla ricerca continua di alleanze a destra e a manca. Per effetto della dissoluzione del vecchio bipolarismo destra/sinistra e del ritorno alla proporzionale. Con due conseguenze. La prima sarebbe quella di ritrovarsi nello stesso spazio occupato (ma, nel suo caso, si tratta di esplicita volontà) da Pier Ferdinando Casini. La seconda sarebbe quella, al di là delle migliori intenzioni, di rendere la propria proposta vacua e debole. Poiché è nella natura dei rassemblement neocentristi di non potersi permettere un profilo programmatico netto, dovendo essi barcamenarsi, a seconda dei numeri parlamentari, fra sinistra e destra. È evidente che, in questo caso, con una proposta debole, sarebbe difficile intercettare quell’elettorato ex berlusconiano oggi tentato più dall’astensione che dal voto. Anche per questa ragione il nuovo movimento dovrà assumere posizioni nette sulle questioni costituzionali ed elettorali. Quale assetto istituzionale caldeggerà (proporzionale o maggioritario? Parlamentare o presidenziale?)? Sarà difficile eludere il tema.La disgregazione del centrodestra apre grandi spazi. La conquista di quell’area richiede fortuna ma anche virtù: ambizione, coraggio, e scelte nette. Angelo Panebianco 17 novembre 2012 | 9:45© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_17/panebianco-le-ambizioni-dei-moderati_db6e59ca-307d-11e2-baec-20f01743e162.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Un referendum sulla sinistra Inserito da: Admin - Dicembre 02, 2012, 05:38:26 pm EFFETTI COLLATERALI DI UNA SFIDA
Un referendum sulla sinistra È stato detto, ed è vero, che, chiunque vinca le primarie, il Partito democratico sarà in futuro diverso da ciò che è stato. La sfida di Renzi lo ha già cambiato. Queste primarie non sono state solo uno strumento per la scelta del candidato premier. Sono state anche un referendum sul significato da dare alla parola «sinistra». Hanno assunto, grazie a Renzi, una forte valenza culturale, hanno investito i temi della tradizione e della identità. Sinistra, in Italia, è un termine che ha sempre avuto un significato diverso da quello che ha nei Paesi che non hanno conosciuto la presenza - per quasi mezzo secolo di vita democratica - di un grande partito comunista, radicato in tanti gangli vitali della società: un partito che, grazie anche al suo rapporto quasi monopolistico con i ceti intellettuali, era il solo legittimo giudice di cosa fosse o non fosse «sinistra». Al punto che persino Bettino Craxi, uomo del socialismo autonomista, privo di complessi di inferiorità nei confronti dei comunisti, poteva essere tranquillamente dipinto come uomo di destra. «Sinistra» erano il Pci e ciò che si muoveva nella sua orbita, ivi comprese quelle forze (una parte del Psi pre Craxi, la sinistra democristiana) sue sodali o che mostravano sudditanza, culturale e psicologica, nei suoi confronti. «Sinistra» erano le interpretazioni del mondo, del passato e del presente, e di ciò che era giusto o sbagliato, che si producevano entro quei confini politici. Crollato il Muro di Berlino, il Pci, ufficialmente, morì. Iniziò la fase post comunista. Ma la storia non fa salti. Dentro il «post» c'era tanta continuità. Sotto le nuove spoglie sopravviveva molto della vecchia organizzazione - con le sue regole, i suoi riti, le sue gerarchie, e le sue tesorerie - e anche del vecchio universo simbolico (come mostra il mantenimento delle antiche denominazioni: Unità , Festival dell'Unità, Istituti Gramsci, eccetera). E, naturalmente, venne preservato, sotto quell'ombrello, il grosso dei corposi interessi (sindacali e non solo) che facevano capo al vecchio Pci. Era inevitabile, dato che il cerchio dirigente e i quadri venivano da quella esperienza. Chi non era di quelle parti poteva facilmente accorgersi di queste continuità andando in giro, e annusando l'aria, nelle regioni rosse. Il Partito democratico nacque mettendo insieme vecchi amici: ciò che restava del post comunismo e dell'antica sinistra democristiana. Bisogna riconoscere a Walter Veltroni, il primo segretario del Pd, il merito di avere tentato di creare, almeno entro certi limiti, qualcosa di nuovo (del resto, era il solo che potesse permetterselo proprio perché veniva dalla tradizione comunista) ma l'operazione, difficile e forse impossibile, fallì. Data la storia pregressa, sono in buona fede quei sostenitori di Bersani che avversano Renzi perché lo giudicano «di destra». È effettivamente la prima volta che, all'interno di quel mondo, la tradizione post comunista subisce una sfida così dura da parte del rappresentante di una sinistra che non fa riverenze a quella tradizione e intende sbarazzarsene. Come mostra il fatto (lo ha osservato Pierluigi Battista sul Corriere del 29 novembre), che non c'è alcun tema programmatico - si tratti di welfare, scuola, lavoro, politica estera o altro - su cui Renzi non si sia contrapposto alla linea della continuità incarnata da Bersani. La vera sorpresa, ciò che nessuno si aspettava, è che proprio all'interno del popolo della sinistra (e nelle regioni rosse), fossero ormai così tanti quelli disposti a votare «sì» al referendum indetto da Renzi: «Vuoi tu abbandonare la tradizione e ridefinire l'identità della sinistra?». Che si tratti di una sfida, nonostante i bisbigli contrari, tutta giocata a sinistra è certo. Le rilevazioni fatte all'uscita dai seggi del primo turno hanno confermato ciò che si intuiva, ossia che, tra i votanti, la percentuale di ex elettori del centrodestra è stata bassa. Come era logico che fosse. Un ex elettore della destra potrebbe anche votare Renzi alle elezioni politiche (dato il marasma in cui versa il centrodestra) ma difficilmente potrebbe iscriversi alle primarie del, da lui detestato, centrosinistra. Senza contare che gli elettori di destra hanno scarsa propensione per forme di partecipazione diverse dal voto in regolari elezioni. Se, come appare probabile, vincerà Bersani, la tradizione verrà conservata. Ma con qualche rilevante novità. Bersani, premiato per il coraggio che ha avuto mettendosi in gioco (anche se non ne ha avuto abbastanza da varare regole per le primarie un po' più liberali), regolerà molti conti con la vecchia oligarchia e promuoverà uomini e donne giovani che, tuttavia, saranno figli e figlie della tradizione di cui egli è il garante. Però, il consenso che Renzi ha saputo raccogliere a sinistra non potrà restare senza effetti. Bersani, che è un abile politico, si troverà di fronte al difficile compito di dare qualche risposta anche alle domande di chi non si riconosce più in una tradizione che giudica ammuffita. L'errore che Bersani potrebbe commettere sarebbe quello di credere che basti vincere le prossime elezioni perché tutto, in qualche modo, si aggiusti. A leggere i segnali di queste primarie si arriva alla conclusione che non sarà così. ANGELO PANEBIANCO 2 dicembre 2012 | 9:58© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_02/un-referendum-sulla-sinistra-panebianco_74e21412-3c53-11e2-bc71-193664141fb2.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ma di moderato ci sarà assai poco Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2012, 05:55:47 pm UNA CAMPAGNA ELETTORALE POLARIZZATA
Ma di moderato ci sarà assai poco Se vivessimo nel migliore dei mondi possibili, anziché nel caos in cui siamo, potremmo affrontare le elezioni di febbraio senza grandi patemi d'animo. Nel migliore dei mondi possibili ci sarebbero due grandi partiti, l'uno di centrosinistra e l'altro di centrodestra, nessuno dei quali ricattato e condizionato da forze estremiste, che si contenderebbero l'elettorato di centro. Entrambi i partiti concorderebbero sul fatto che l'Italia non ha altre possibilità che rispettare gli impegni presi con i partner europei e che nulla serve di più, per rassicurare mercati ed Europa, della certezza che chiunque vincerà rispetterà gli accordi e governerà di conseguenza. Nel migliore dei mondi possibili i due grandi partiti si differenzierebbero fra loro solo perché, pur nel rispetto degli impegni presi, l'uno, quello di centrodestra, proporrebbe di ridurre la pressione fiscale su ceti medi e imprese tramite una contrazione della spesa pubblica mentre l'altro, quello di centrosinistra, proporrebbe risparmi che servano a migliorare la condizione dei ceti meno abbienti. Ma non viviamo nel migliore dei mondi possibili, la situazione è diversa. Le elezioni non si caratterizzeranno per una competizione fra grandi partiti tesi alla cattura dell'elettorato centrista. Saranno invece elezioni iperpolarizzate, e iperideologizzate, nelle quali l'elettorato di centro si troverà spiazzato e, forse, politicamente orfano. La scelta di Berlusconi di ricandidarsi smarcandosi da Monti e anticipando così di un mese la fine della legislatura è una scelta all'insegna della radicalizzazione. Berlusconi, alla ricerca di quel dieci o quindici per cento di voti o giù di lì che gli assegnano i sondaggi e che gli servono per restare in partita, dovrà fare (anche se egli dichiara oggi il contrario) una campagna di segno antieuropeo. Anche perché avrà Monti, con il suo ruolo di garante di fronte all'Europa, come uno degli avversari da contrastare. Gli elettori moderati, quelli che in anni passati avevano creduto alla sua promessa di rivoluzione liberale, se li è persi, è difficile che abbocchino ancora. Inoltre, si trova a fare i conti con una netta presa di distanza della Chiesa (si veda l'intervista del cardinale Bagnasco al Corriere di ieri). Dovrà pertanto cercare di fare il pieno degli «arrabbiati». Tanto più che la sua scelta si accompagna a una rinnovata alleanza con la Lega, un partito che ha combattuto il governo Monti e che, per giunta, nel modo intelligente che è proprio di Roberto Maroni, sta di nuovo perseguendo un progetto, sia pure soft, di secessione del Nord (per questo scopo, precisamente, gli serve togliere al Pdl anche la presidenza della Regione Lombardia). L'alleanza Berlusconi-Maroni sarà, non potrà non essere, una alleanza che userà toni e argomenti estremisti. Altro che convergenza al centro. A quell'alleanza se ne contrapporrà un'altra, quella dei grandi favoriti in queste elezioni, l'alleanza Bersani-Vendola. Nemmeno questa coalizione, per la verità, è fatta per tranquillizzare l'elettorato centrista. Perché in essa Bersani, un «montiano» (uno cioè consapevole dei vincoli europei) capeggia un aggregato ove abbondano gli antimontiani, da Vendola a Fassina, alla Cgil. Un aspetto significativo del caso italiano è dato dal fatto che certi argomenti antiglobalizzazione e antieuro (che sottendono una implicita richiesta di protezionismo e di autarchia) siano presenti sia a sinistra che a destra. A volte si fa fatica a distinguere, quando parlano di questi temi, un vendoliano da un leghista, un rappresentante della Fiom da certi esponenti dell'ala più estrema del berlusconismo. Non è tutta colpa loro: è proprio dei sistemi politici frammentati come il nostro di scoraggiare la responsabilità e favorire la demagogia. E resta, naturalmente, l'incognita Grillo. Non si può sapere quanti voti prenderà il Movimento Cinque Stelle e come e quanto ciò condizionerà gli equilibri politici futuri. In una democrazia che si avvia a una campagna elettorale all'insegna della polarizzazione, c'è il rischio che una vasta area di elettorato si ritrovi politicamente orfana. E che cosa accadrebbe con una eventuale candidatura Monti, di cui ha parlato ieri su queste colonne Antonio Polito? Le conseguenze potrebbero essere diverse. La prima è che in questo modo Monti punterebbe a una legittimazione democratica, che deve passare, per esser tale, attraverso il voto popolare. La seconda è che egli potrebbe offrire una sponda a un elettorato, probabilmente ampio, che in questo momento legge e rilegge il menu politico-partitico senza trovare un piatto che possa soddisfarne il palato. La terza è che cadrebbero certi alibi. Nessuno dovrebbe più nascondersi dietro a quell'oggetto misterioso, che si presta a tutte le possibili interpretazioni, denominato «agenda Monti». La misteriosa agenda Monti verrebbe sostituita da un chiaro programma con cui Monti, e chi lo segue, si presenterebbero alle elezioni. L'unico consiglio che forse si potrebbe dare a Monti, se davvero puntasse a catturare l'elettorato oggi politicamente orfano, sarebbe quello di fare qualche piccolo aggiustamento nella comunicazione. Va bene insistere, come egli fa, sulla lotta alla evasione fiscale. Ma forse bisognerebbe aggiungere qualche idea su come, attraverso quali tagli di spesa, ridurre le tasse che gravano su ceti medi e imprese. Perché senza una indicazione su questo punto egli difficilmente potrebbe catturare quell'elettorato, oggi oberato di tasse, che non ha più Berlusconi come punto di riferimento. E anche perché, senza una riduzione, graduale quanto si vuole, del carico fiscale, la ripresa economica da lui promessa potrebbe non arrivare mai. Angelo Panebianco 11 dicembre 2012 | 7:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_11/campagna-elettorale-Panebianco_91e3de34-435a-11e2-b89b-3cf6075586fe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Ma le elezioni sono italiane Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2012, 11:49:26 am L'EUROPA NELLE URNE
Ma le elezioni sono italiane La colpa più grave che hanno gli sfasciacarrozze, quelli che «dobbiamo uscire dall'euro», quelli che «senza l'Europa è meglio», è che spinge tutti gli altri ad adottare, per reazione, un atteggiamento altrettanto insensato: li spinge alla santificazione dell'Europa. Ma santificare l'Europa è un errore che si ritorce contro chi lo commette, lo rende troppo remissivo verso gli interessi altrui, di chi (oggi i tedeschi, ieri l'asse franco-tedesco) non ha alcuna remora a farli valere pesantemente. Non esiste Santa Europa. Le relazioni europee appartengono alla categoria dei giochi misti : i giocatori (europei) hanno alcuni interessi in comune e alcuni interessi divergenti. Il problema di ciascun giocatore, se è dotato di razionalità, è di contribuire a preservare gli interessi comuni senza rinunciare a difendere i propri nella competizione con gli interessi degli altri. Il rimprovero che, da quando è scoppiata la crisi dell'euro, si muove alla Germania è di far valere a tal punto i propri interessi da mettere a rischio quelli comuni. Il giocatore più forte risulta sprovvisto della duttilità necessaria per esercitare una vera egemonia (una egemonia è tale solo se procura vantaggi sia all'egemone che a tutti gli altri). Una critica altrettanto fondata si può rivolgere a quei Paesi che, non facendo le opportune riforme interne, contribuiscano a danneggiare gli interessi comuni europei. Con, in più, l'impossibilità di contrattare in modo efficace la difesa dei propri specifici interessi. La vera forza del governo Monti è stata quella di avere fatto un paio di riforme importanti, e di averne avviate altre, accrescendo così la propria capacità di contrattazione in Europa. La propaganda antitedesca degli sfasciacarrozze non può farci dimenticare che un problema tedesco esiste. Si tratti di fiscal compact o di unione bancaria, ogni decisione che prende l'Europa può essere solo «alla tedesca». La durezza della Germania nella difesa del proprio interesse nazionale fa il paio (segnalando una scarsa capacità egemonica) con la grossolanità dei suoi interventi politici. La plateale sponsorizzazione di Monti non gli ha fatto certo un favore. Anche agli italiani dà fastidio (come ha osservato Massimo Franco sul Corriere di ieri) sentirsi trattati come una colonia. Va ricordato a tutti che il 17 febbraio andremo a votare solo noi italiani. Per fortuna. Né va infine sottaciuto il grave danno che arrecherebbe alla fisionomia futura dell'Europa un ritiro della Gran Bretagna dalla Ue. Tutti sono soliti prendersela con l'euroscetticismo britannico. Ma quasi nessuno segnala che se quell'euroscetticismo ha molte cause, una di esse è l'ostilità per l'eccesso di dirigismo da cui è afflitta l'Europa carolingia. Non è così sicuro che la Gran Bretagna abbia fatto male dicendo un secco no al fiscal compact . Una sua uscita dalla Ue condannerebbe i liberali europei, pochi o tanti che siano, a non potere mai più sperare in una Europa meno dirigista. Né in una Ue ove la Germania risulti più condizionabile. Il passaggio è stretto: di là gli sfasciacarrozze, di qua gli acritici laudatori dell'Europa. Urge la ricerca di una via intermedia. Angelo Panebianco 16 dicembre 2012 | 8:34© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_16/le-elezioni-sono-italiane-panebianco_1bbfbbf8-474f-11e2-adc8-d4e6244fe619.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Le due strade di un leader Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2012, 06:26:38 pm IPOTESI SU UNA SVOLTA (SE CI SARÀ)
Le due strade di un leader Con il messaggio che il presidente del Consiglio, da ieri dimissionario, rivolgerà al Paese alla fine della settimana, salvo ripensamenti che sembrano prendere forza in queste ore, la svolta si sarà compiuta: Monti sarà diventato a tutti gli effetti un protagonista della campagna elettorale. Ma con quale ruolo? Con quali prospettive? Con quali ambizioni? Sulla carta, ci sono due possibilità. Monti potrebbe scegliere la strada più rischiosa e più ambiziosa, potrebbe porsi come il federatore di una vasta area di elettorato, che è delusa da Berlusconi, ma che vuole anche sbarrare il passo a un Partito democratico giudicato troppo sbilanciato a sinistra. Oppure, potrebbe immaginare per sé e per quelli che lo seguono un ruolo e un compito molto più modesti: rovinare solo in parte la festa al centrosinistra, puntare ad impedirgli di fare la maggioranza al Senato, costringerlo alla trattativa nel dopo elezioni. Detto in altre parole, Monti deve scegliere fra quelle che potremmo chiamare la vocazione maggioritaria e la vocazione alla trattativa. Forse, anche ciò che è accaduto a Melfi due giorni fa può essere letto nell'uno o nell'altro di questi due modi: Monti applaudito sia da Sergio Marchionne che dagli operai dello stabilimento - mentre la Cgil protestava fuori dai cancelli - è indicativo di cosa? Indica il fatto che a Melfi si è palesata, anche fisicamente, la contrapposizione fra due, assai diverse, ipotesi di governo, ciascuna sostenuta da un diverso blocco sociale? Oppure si è trattato solo di un messaggio implicito, e di una anticipazione, su temi che saranno oggetto di trattativa post-elettorale fra Monti e la sinistra? Se sceglierà la strategia della vocazione maggioritaria Monti dovrà sciogliere due nodi. Il primo riguarderà la natura del suo messaggio complessivo al Paese, diciamo il suo «programma di legislatura». Per attrarre ampio consenso non potrà presentarsi con un progetto solo emergenziale. Dovrà infondere speranza. Dovrà fare promesse certamente realistiche, ossia non demagogiche, che tuttavia, siano tali da convincere gli italiani che i sacrifici fatti non sono stati sopportati invano e che, in futuro, le cose miglioreranno sicuramente. Dovrà spiegare in che modo, con quali mezzi e quali tempi, sarà possibile ridurre la pressione fiscale, fare le necessarie dismissioni pubbliche, liberalizzare, privatizzare. Dovrà fare cioè della famosa agenda Monti qualcosa di diverso da un programma emergenziale tutto lacrime e sangue. Tra l'altro, una proposta che inviti alla speranza servirebbe a Monti anche per scrollarsi di dosso quell'immagine di uomo dell' establishment europeo lontano dal popolo, di freddo esponente di una tecnocrazia transnazionale senz'anima che i suoi avversari (a torto, ma non del tutto) gli hanno cucito addosso. Il Monti politico dovrà sbarazzarsi di quella immagine. Quanto più ambizioso sarà il progetto che Monti illustrerà al Paese tanto più crescerà l'intensità del conflitto fra lui e le altre forze, non solo Berlusconi, ma anche, e soprattutto, il grande favorito, il Pd di Bersani. Chi appoggia Monti è pronto a uno scontro frontale con un Pd che è certamente in grado di gettare sul campo di battaglia un gran numero di forze e di sostenitori? Il secondo nodo da sciogliere riguarderà la coalizione elettorale che a Monti farà riferimento. Dovrà essere tale da dare credibilità al progetto. Non potrà esserci un'evidente sproporzione fra il fine enunciato e il mezzo scelto per realizzarlo: all'ambizione del messaggio al Paese non potrà corrispondere uno strumento elettorale troppo gracile. La lista elettorale (o la coalizione di liste) dovrà essere rappresentativa di un blocco di forze ampio. Poiché tagliare fuori Berlusconi e la Lega non può significare anche tagliare fuori quel vasto mondo che un tempo si era affidato al Cavaliere. La composizione delle liste elettorali che si richiamano a Monti dovrà riflettere, per qualità e rappresentatività, questa cruciale esigenza. In caso contrario, se questi due nodi non verranno rapidamente sciolti nel senso indicato, vorrà dire che Monti si sarà affidato a una diversa strategia: quella giocata sull'idea di trattativa. Vorrà dire che sarà prevalso un calcolo, magari anche utile al Paese, ma assai più modesto: condizionare il Pd nella formazione del governo del dopo elezioni. Se così è, allora Monti dovrebbe riflettere su una circostanza: esistono prove abbondanti a sostegno della tesi secondo cui quando si parte con ambizioni troppo limitate è molto facile fallire, non ottenere nemmeno il poco che si immaginava di ottenere. Solo se le ambizioni sono davvero grandi, qualcosa, in un modo o nell'altro, si realizzerà. Angelo Panebianco Angelo Panebianco 22 dicembre 2012 | 7:25© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/12_dicembre_22/dimissioni-monti-panebianco_2847ed90-4c00-11e2-a778-2824390bcabe.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La necessaria trasparenza Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:40:06 am LE CARTE (TROPPO COPERTE) DEL PD
La necessaria trasparenza I sondaggi danno il Pd come il probabile vincitore delle elezioni. Però la campagna elettorale è lunga e ciò che accadde nel 2006 quando Romano Prodi, il grande favorito, vinse alla fine solo per un soffio, consiglia prudenza. Al momento, comunque, è plausibile ritenere che possa essere Pier Luigi Bersani il prossimo presidente del Consiglio. Bersani sta annunciando, da giorni, ogni giorno, le candidature, nel suo partito, di personalità di prestigio. Sarebbe utile se cominciasse anche a dare qualche informazione agli elettori sulla composizione del suo possibile governo. È vero che in campagna elettorale i partiti cercano di non scoprire troppo le carte. Ma è per lo meno lecito chiedere al favorito dai sondaggi di fare un po' di chiarezza su questo decisivo aspetto. Facciamo un esempio. Molti danno per probabile che Massimo D'Alema diventi il nuovo ministro degli Esteri. Poniamo che sia vero. D'Alema ha già ricoperto quell'incarico ed è un politico preparato e autorevole. Nulla da eccepire su questo. Ma c'è un ma. In un ambito che è strategico per la politica estera italiana, il Medio Oriente, D'Alema non ha mai fatto mistero di certe sue radicate convinzioni. Soprattutto, non ha mai fatto mistero della sua (chiamiamola eufemisticamente così) scarsa simpatia per Israele, e di una adesione alla «causa» palestinese così spinta da renderlo bene accetto anche ai gruppi più estremisti, dai palestinesi di Hamas agli sciiti di Hezbollah. Dovremo aspettarci da un eventuale governo Bersani una politica mediorientale non equidistante nel conflitto, ossia attenta agli interessi di tutti, ma nettamente sbilanciata a favore di una delle parti in causa? Politica estera a parte, molto si giocherà sul piano dell'economia e delle riforme di struttura. È facile scommettere che Bersani, da politico accorto, sceglierà un ministro dell'Economia ben accetto all'Europa e ai mercati, un tecnico di prestigio con il giusto pedigree e i giusti contatti internazionali. Se non che, la politica che più inciderà sul nostro futuro la faranno soprattutto altri ministeri, quelli che si occupano di lavoro e welfare, di istruzione, di pubblica amministrazione, di sanità. Sarebbe utile avere qualche anticipazione sui nomi di coloro che andranno ad occupare quelle poltrone. Soprattutto per capire quanto peseranno sulla politica del governo Bersani gli interessi del principale «azionista» del Pd: la Cgil. In tutti quei campi, quella del governo Bersani sarà una politica in cui non si muoverà foglia che la Cgil non voglia? Non basta qualche virtuosismo verbale per nascondere la più vistosa contraddizione con cui il Pd è entrato in questa campagna elettorale. Il gioco delle parti, e la divisione dei ruoli, fra Bersani l'europeista e Fassina l'operaista, che ha contraddistinto tutto il periodo del governo Monti, non potrà reggere ancora a lungo. Il caso del welfare è esemplare. Sappiamo tutti che è stata la politica del ministro Fornero, la riforma delle pensioni soprattutto (e anche, in parte, quella del lavoro), ciò che ha più convinto l'Europa della bontà delle ricette Monti. Ma si dà anche il caso che la politica della Fornero sia stata avversatissima dalla Cgil e dai politici (quasi tutti membri dell'entourage di Bersani) che alla Cgil fanno riferimento. Quando non ci sarà più Giorgio Napolitano a trattenere per la giacca il Pd, che fine faranno le riforme Fornero? Basterà il reclutamento di un prestigioso giuslavorista come Carlo Dell'Aringa a compensare e a neutralizzare il conservatorismo in materia di welfare e lavoro che è proprio della Cgil e dei suoi (tanti) amici del Pd? Non è forse proprio perché non ha più creduto nella possibilità di neutralizzare quel conservatorismo, ad esempio, che Pietro Ichino se ne è andato? Il ragionamento vale anche per altri ministeri ove pesano gli interessi Cgil. Per esempio, nel campo della scuola, ove la Cgil è tradizionalmente la punta di diamante del fronte conservatore contrario a qualunque forma di riqualificazione in senso meritocratico del corpo insegnante. Né risulta che il Pd abbia mai formulato, in materia scolastica, proposte in conflitto con i desiderata della Cgil. L'unica eccezione fu, molto tempo fa, Luigi Berlinguer, quando stava alla Pubblica Istruzione, e mal gliene incolse. E vale per la pubblica amministrazione, un altro ambito nel quale qualunque eventuale proposito modernizzatore si scontrerebbe subito con i veti sindacali. Il problema è reso ancor più acuto dall'(auto)ridimensionamento politico di Matteo Renzi. Dopo aver fatto sfracelli, conquistando quasi il 40 per cento dei consensi nelle primarie contro Bersani, Renzi ha scelto, per troppo tempo, di rimanere in silenzio. La notizia dell'ultima ora è che ha appena fumato il calumet della pace con Bersani. Collaborerà alla campagna elettorale. Ma forse i suoi sostenitori si aspettavano altro, si aspettavano che fosse il contraltare politico, entro il Pd, della linea Cgil/Vendola. Il suo ridimensionamento sembra privare quella linea di un solido contraltare interno. Poniamo che, dopo le elezioni, mancando la maggioranza al Senato, Bersani sia costretto a negoziare con Monti e i suoi la composizione del governo. A questi ultimi converrebbe esigere proprio quei ministeri, a cominciare dal welfare, nei quali, per chi vuole innovare, lo scontro con la Cgil è garantito. Alla fin fine, ciò converrebbe anche a Bersani. Difficilmente potrebbe durare a lungo un governo appiattito sulle posizioni sindacali. Né l'eventuale presenza di un tecnico di prestigio all'Economia riuscirebbe a nascondere per molto tempo, di fronte agli altri governi europei, l'incapacità di innovazione di coloro che staranno nelle retrovie. Angelo Panebianco 4 gennaio 2013 | 8:37© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_04/la-necessaria-trasparenza-angelo-panebianco_45da4bce-5636-11e2-9534-ad350c7cbb97.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Poteri e difetti di una leadership Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2013, 05:53:31 pm BERSANI TRA PARTITO E GOVERNO
Poteri e difetti di una leadership Tra tutte le risorse di cui dispone il Partito democratico in questa campagna elettorale, la sua ritrovata coesione interna, garantita dal saldo controllo esercitato da Pier Luigi Bersani, è la più importante. È come in guerra: l'esercito più coeso, guidato con mano ferma da un condottiero, ha più probabilità di vincere. È anche per questo che, forse, la sfida principale sarà di nuovo fra il Pd e il Pdl, partiti che dispongono di condottieri saldamente al comando. Ma come non era scontato che Berlusconi riuscisse a ricompattare di nuovo le schiere del centrodestra, non era nemmeno scontato che Bersani riuscisse a dare coesione al proprio partito, un tempo diviso in gruppi in accanita concorrenza. La storia del Pd degli ultimi anni è la storia della (ri)costruzione di una forte leadership. Una forte leadership è tale se riesce a rimotivare, restituendo loro una identità, gli iscritti e i militanti e se colui che la incarna è stato capace di indebolire gli altri maggiorenti del partito. Sono stati almeno tre i momenti significativi di questo processo. Il primo è simbolicamente rappresentato dalla «foto di Vasto» (Bersani con Vendola e Di Pietro). Con quella mossa Bersani diede una risposta positiva alla richiesta che, evidentemente, saliva dal grosso dei militanti e degli iscritti: «Dicci qualcosa di sinistra». Fu la presa d'atto che le ragioni fondanti del Partito democratico erano venute meno, che il Pd (D'Alema dixit) era «un amalgama mal riuscito». Il Pd era nato per rinnovare la tradizione della sinistra (la rottura con Rifondazione comunista decisa dall'allora segretario Walter Veltroni rispondeva a questa esigenza). Bersani prese atto del fallimento e mandò un chiaro segnale: il Pd sarebbe ritornato nell'alveo della tradizione. Ridare una marcata connotazione di sinistra al partito, in presenza di un evidente sbandamento e di una diffusa crisi di identità di iscritti e militanti, fu una mossa vincente. La base aveva finalmente trovato un leader pronto a ricostituire una identità collettiva. Il secondo passaggio fu rappresentato da una intelligente politica di reclutamenti. Il segretario si circondò di collaboratori giovani e, per lo più, capaci. Giovani dirigenti che rispondono a lui e che solo da lui dipendono. Ciò ha rafforzato molto la posizione del segretario a svantaggio del potere di veto e del ruolo degli altri dirigenti storici. Il terzo passaggio è rappresentato dalle primarie. Col senno del poi si può dire che Matteo Renzi, sfidando Bersani, e trasformando così le primarie, da rito un po' truffaldino quali erano state in passato, in primarie vere, ha dato al segretario una grande opportunità. Perché Bersani, vincendole, ha potuto rovesciare a proprio favore i rapporti di forza con il resto del gruppo dirigente. Si aggiunga il fatto (ma questo nessuno poteva allora immaginarlo) che, a primarie avvenute, la sfida di Renzi è stata rapidamente riassorbita. Si noti che è la prima volta che un segretario conquista tanto potere nel maggior partito della sinistra dai tempi del Pci: con le sue diverse sigle (Pds, Ds) il partito postcomunista non era mai stato altrettanto compatto, data la divisione fra dalemiani e veltroniani. Niente segnala meglio l'avvenuta ricostituzione di una forte leadership della rinascita, sotto nuove spoglie, dell'indipendentismo di sinistra. Esso ebbe una certa importanza ai tempi del Partito comunista. Segnalava la capacità del partito di attirare personalità di spicco, dell'accademia o delle professioni. A quelle personalità il Partito comunista chiedeva vivacità culturale e dipendenza politica. La vivacità era assicurata dalle qualità professionali che molte di quelle personalità possedevano. La dipendenza era inscritta nel fatto che il seggio su cui sedevano non era stato da loro conquistato in campagna elettorale, o comunque attraverso la lotta politica, ma concesso dal partito. L'inserimento nel «listino», la cooptazione di diverse personalità di elevato valore professionale, e anche (con qualche eccezione) prive di legami formali con il Pd, da parte di Bersani, riflette la ricostituzione di una forte leadership. Anche da loro, ci si attenderà vivacità culturale (che ci sarà certamente date le competenze e le qualità professionali in campo) e stretta dipendenza dal segretario. Un leader forte è come un direttore d'orchestra: gli altri suonano, chi meglio chi peggio, i diversi strumenti, ma è lui, e solo lui, che governa l'insieme. Se Bersani vincesse le elezioni, come tuttora prevedono i sondaggi, e diventasse capo del governo, sommando premiership e guida del partito, si troverebbe in una posizione invidiabile, che non è mai stata in precedenza di alcun leader della sinistra. Ma si troverebbe anche a fronteggiare un delicato dilemma. Egli è diventato un leader forte perché ha saputo ridare una identità al suo partito. Questa identità ha una marcata connotazione di sinistra (le polemiche sulle posizioni di Stefano Fassina, sulla Cgil, su Vendola ne fanno fede). Ma la forza così conquistata sarebbe sufficiente per consentirgli, come capo di un governo pesantemente condizionato dall'Europa e dai mercati, di infliggere ai propri sostenitori tutte le inevitabili delusioni senza con questo compromettere la propria leadership? C'è da scommettere che in caso di sua vittoria sarà la prima domanda che molti, in Italia e fuori, si porranno. Angelo Panebianco 13 gennaio 2013 | 8:44© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_13/poteri-e-difetti-di-una-leadership-angelo-panebianco_78da54d8-5d52-11e2-8540-81ed61eeac0a.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. La fiducia che non c'è Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:47:12 pm I CITTADINI E LO STATO
La fiducia che non c'è Più che gli economisti, al capezzale dell'Italia, servirebbero gli psicologi. La ripresa dei consumi interni, senza la quale non si esce dalla fase recessiva, è bloccata da una generalizzata crisi di fiducia, da aspettative negative sulle condizioni future. La campagna elettorale in corso non sta fornendo rimedi per modificare questi atteggiamenti. La vera causa della sfiducia nel futuro non è presente, se non marginalmente, fra i temi della campagna elettorale. Essa consiste nell'aggravamento - dovuto alla crisi economica - della tradizionale diffidenza dei cittadini nei confronti dello Stato, una diffidenza che, a sua volta, alimenta le aspettative negative di ciascuno sul (proprio) futuro. I politici parlano di «riforme» ma fingono di non sapere che lo Stato italiano è fin qui risultato irriformabile e che di tale irriformabilità c'è ormai generale consapevolezza. Pesano sia le nostre immarcescibili tradizioni amministrative sia tanti errori commessi, nel corso del tempo, dai governi (da tutti i governi). Prendiamo l'ultimo esempio: il Redditometro. Non ha importanza che adesso si dica che verrà applicato in modo blando. La frittata è fatta. Basta infatti leggere di che si tratta per chiedersi: «Ma in che mani siamo? Come ci si potrà mai fidare di uno Stato simile?». Bisognerebbe domandare a coloro che hanno materialmente compilato il Redditometro: «Ma voi, in coscienza, vi fidereste di voi stessi?». La crisi aggrava una antica e mai risolta sfiducia dei cittadini nello Stato (a sua volta, causa della sfiducia nelle prospettive future). Il successo di pubblico che hanno sempre ottenuto le puerili parole d'ordine sulla «riscossa della società civile» è una spia di quella sfiducia, unita al tentativo di identificare il capro espiatorio nei soli politici di professione e, in definitiva, nella democrazia rappresentativa. L'irriformabilità dello Stato dipende dal fatto che le tradizioni culturali (giuridiche, in particolare) del Paese, e una vasta ragnatela di interessi politici e burocratici, hanno impedito che l'amministrazione venisse investita da una rivoluzione liberale, capace di convertire la diffidenza in fiducia. Decenni di vita democratica sono serviti a poco. L'amministrazione dello Stato continua imperterrita a operare secondo antichi principi illiberali: retroattività delle norme, inversione dell'onere della prova (sempre a carico del cittadino), una prassi per la quale è vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso. La democrazia, semmai, accrescendo il numero degli interessi in gioco, ha aggravato i mali antichi. Ha favorito una proliferazione e una complicazione delle norme che esaltano la discrezionalità politico-amministrativa. Ogni tanto si sente invocare la semplificazione del quadro normativo. Ma sono parole al vento. Una vera semplificazione toglierebbe spazio alla discrezionalità e troppi interessi ne verrebbero danneggiati. C'è, sullo sfondo, anche il «tradimento dei chierici», dovuto all'attività di molti fra i giuristi che fanno i consulenti per l'amministrazione e a quei professori di diritto che hanno contribuito a forgiare le mentalità di coloro che nell'amministrazione operano. Ad alimentare la sfiducia, oltre alle tradizioni amministrative, concorrono gli errori dei governi. Ivi compresi quelli del «governo tecnico». Sarebbe ingeneroso accusare il governo Monti di non aver posto rimedio ai mali antichi sopra indicati. Ma è anche vero che non ci sono stati molti segnali che andassero in quella direzione. Forse anche perché del governo facevano parte vari esponenti di spicco dell'amministrazione. Nel caso del governo Monti, tuttavia, non si può parlare di tradimento dei chierici. Certi errori (che hanno contribuito all'incertezza e alla sfiducia) sono ascrivibili ad altre cause. Prendiamo il caso dell'Imu. Come si fa, in un Paese di proprietari di case, per giunta in una fase di caduta della domanda interna, a mettere una tassa la cui reale entità finale resta sconosciuta ai contribuenti per mesi e mesi? Puoi anche accettare di pagare una nuova tassa ma è obbligatorio che la sua entità ti sia immediatamente nota. In caso contrario, viene meno la capacità dei singoli o delle famiglie di fare calcoli e progetti, di prendere decisioni di spesa. Il fatto che l'entità della tassa che ciascuno doveva pagare sia rimasta avvolta nel mistero per troppo tempo ha contribuito all'incertezza, al rinvio delle spese e, quindi, alla «gelata» dei consumi. In questo caso, nell'errore, non hanno pesato le tradizioni giuridiche o gli interessi della burocrazia. L'ipotesi di chi scrive è che abbia giocato un ruolo, piuttosto, l'eccesso di macro-economisti presenti nel governo, persone addestrate a pensare in termini di modelli econometrici, di flussi, e di macro-grandezze, poco propense a mettersi nei panni dei consumatori o dei produttori, a ragionare sulle loro aspettative e sui (micro)comportamenti conseguenti. Le componenti che alimentano la sfiducia nel futuro, deprimendo l'economia e facendo di quella sfiducia una profezia che si auto-adempie, sono molte e complesse. La principale sembra consistere in un diffuso giudizio negativo sulla affidabilità dei governi (intesi in senso lato, strutture amministrative comprese). Se è questo il problema italiano, di questo dovrebbe occuparsi la campagna elettorale. Ma, di sicuro, ciò non accadrà. Angelo Panebianco 21 gennaio 2013 | 7:53© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_21/la-fiducia-che-non-ce-panebianco_0c8953e2-6397-11e2-9016-003bf863ea6b.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Il mal d'Africa degli Europei Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2013, 11:47:59 pm PARIGI ISOLATA IN MALI
Il mal d'Africa degli Europei C'è un qualche rapporto fra quanto accade in Mali e l'integrazione europea? Lasciare sola la Francia nella nuova guerra africana ha allontanato la realizzazione dell'Europa politica oppure fra le due cose non c'è alcun rapporto? Domande come queste cadono al di fuori del consueto repertorio di idee e ragionamenti di cui si nutre il senso comune europeista. Bisogna chiedersi: cosa potrebbe dare la spinta necessaria per realizzare l'unità politica europea? Davvero è sufficiente il desiderio di stabilizzare la moneta comune, di mettere in sicurezza i livelli di benessere raggiunti? Anche il manifesto pubblicato due giorni fa da questo giornale a favore di una Europa unita, e che porta in calce la firma di illustri intellettuali europei, non si discosta dalla tradizione, non chiarisce i motivi per cui dovremmo fare questa benedetta Europa unita: vi si dice solo che altrimenti l'Europa uscirebbe dalla Storia (un argomento troppo vago per mobilitare le persone) e, più prosaicamente, che non si riuscirebbe a salvare l'euro. Ma una reazione chimica così potente e drammatica quale quella che è sempre presente nella nascita di una nuova comunità politica, non si produce in quel modo. Le unificazioni politiche avvengono, quando avvengono, soprattutto perché rese necessarie da minacce alla sicurezza, alla vita, talvolta alla libertà, di centinaia, migliaia, o milioni, di persone coinvolte. C'è una ragione che spiega perché gli europeisti militanti glissino sulla questione della sicurezza: ha a che fare con le condizioni in cui prese l'avvio e poi si sviluppò, durante la Guerra fredda, l'integrazione europea. Quel processo fu reso possibile dal fatto che la sicurezza europea era, all'epoca, appaltata agli Stati Uniti e al suo braccio militare, la Nato. Non dovendo occuparcene direttamente e autonomamente ci abituammo a pensare a una integrazione europea disancorata dalla sicurezza. Nacque così anche la leggenda secondo cui l'unità politica sarebbe un giorno arrivata, quasi automaticamente, come coronamento dell'integrazione economica, come una mela matura che cade dall'albero: un modo, non dissimile da quello che un tempo veniva detto marxismo volgare, di trattare la politica quale mera sovrastruttura dell'economia. Non è così e ora che la sicurezza degli europei - per un insieme di ragioni che vanno dal declino della potenza americana alla natura delle nuove minacce alla sicurezza - non può essere più appaltata (o almeno non del tutto), sarebbe bene svegliarsi, cambiare registro. Nulla dovrebbe dimostrarlo meglio di quanto sta accadendo fuori dai confini dell'Europa, in aree ove sono in gioco aspetti vitali della sicurezza europea. Dodici anni dopo l'attacco dell'11 Settembre, appare chiaro che il mondo occidentale sta perdendo la battaglia per contenere la diffusione dell'islamismo radicale. Né la strategia di Bush né quella di Obama, pur diversissime, hanno dato i frutti sperati. In Afghanistan e in Pakistan la minaccia non è stata affatto debellata. Per parte loro, le rivoluzioni arabe, che tante speranze avevano suscitato, hanno accresciuto il pericolo. Nel più importante Paese arabo, l'Egitto, l'opposizione si scontra ormai quasi quotidianamente nelle piazze con il governo islamista, democraticamente eletto ma già nel mirino di Amnesty International per le continue violazione dei diritti umani. Nel frattempo, i salafiti dilagano nell'Africa subsahariana (aiutati anche dalla dabbenaggine esibita da noi occidentali nella vicenda libica). Cercano di creare nuovi Afghanistan in grado di minacciare chiunque, europei inclusi, ostacoli il loro disegno espansionista. La questione del Mali è diventata un test per capire che razza di Europa avremo in futuro. Abbiamo scelto di lasciare sola la Francia (dandole, al più, qualche sostegno logistico). In questo modo, l'intervento francese ha assunto le sembianze di una azione neo-coloniale volta soprattutto alla protezione degli interessi che Parigi coltiva in Niger e altrove. Avevamo una alternativa: prendere atto del vitale interesse europeo al contenimento dell'islamismo radicale, ammettere che spettava alla (potenziale) «comunità politica» europea nel suo insieme sventare la minaccia, «europeizzare» l'intervento militare in Mali (magari anche, a combattimenti conclusi, per dare qualche ragione di speranza ai Tuareg e aiutarli a liberarsi dall'abbraccio con gli islamisti). Per come si sono messe fin qui le cose, la Francia ne trarrà motivo per ribadire la propria indisponibilità all'unificazione politica in nome della Grandeur che essa continua a coltivare. Se avessimo fatto una diversa scelta, avremmo forse creato le condizioni per una maggiore solidarietà fra europei. Non sarebbe stato sufficiente per fare l'Europa unita, ma avremmo almeno cominciato a pensarci come una «comunità di destino» (necessaria pre-condizione dell'unificazione). Alle minacce si può rispondere in due modi. Si può fronteggiarle, impegnarsi in un vigoroso «bilanciamento» nei confronti delle forze sfidanti. Oggi, ciò richiederebbe dall'Europa uno sforzo collettivo. Oppure, si possono blandire le forze minacciose e cercare un accomodamento. È la strategia del bandwagoning (saltare sul carro del vincitore). Non richiede sforzi unificati e coordinati. Ciascuno la può praticare per suo conto. Per quanto sia scomodo, fastidioso e, forse, politicamente scorretto, di queste cose dovrebbero finalmente occuparsi coloro che credono nella necessità di una Europa unita. ANGELO PANEBIANCO 28 gennaio 2013 | 10:55© RIPRODUZIONE RISERVATA DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_gennaio_28/mal-africa-europei_32fdcd8a-6911-11e2-a947-c004c7484908.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Scarso rispetto per chi voterà Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2013, 09:21:42 pm LA FARSA DEI SONDAGGI «PROIBITI»
Scarso rispetto per chi voterà Cosa succede quando le autorità proibiscono la vendita di un bene del quale c’è una forte domanda? Si formerà un mercato nero. Una conseguenza è che si accentuerà il peso delle disuguaglianze. Sul mercato nero, infatti, il bene proibito costa molto di più di quanto non costasse nel mercato libero, prima che intervenisse il divieto. Chi possiede più risorse può permettersi l’acquisto del bene proibito, tanti altri no. Qualcosa di simile accade quando, come in Italia, si vieta la diffusione di sondaggi nelle due settimane che precedono il voto. I sondaggi continuano ad essere fatti, naturalmente. Ma dal momento in cui scatta il divieto di pubblicazione, solo una frazione della popolazione verrà a conoscenza dei risultati delle nuove rilevazioni demoscopiche: sono coloro che hanno accesso ai canali di informazione riservati alle élite. Le informazioni sugli orientamenti di voto spariscono dai media e entrano in un altro circuito, più ristretto, composto da coloro che godono del vantaggio sociale di poter accedere a canali personali e riservati. In questo modo, l’asimmetria informativa, il divario fra chi sa e chi non sa, fra i pochi che hanno accesso ai sondaggi e la maggioranza che ne è esclusa, si accentua. Perché in certi Paesi si proibisce, da un certo momento in poi, la pubblicazione dei sondaggi (pur sapendo che quel divieto provocherà la formazione di un circuito informale dominato dal chiacchiericcio fra i bene informati, una sorta di campagna elettorale nascosta e parallela) mentre in altri Paesi (come gli Stati Uniti) quella proibizione non c’è? La risposta plausibile è una soltanto. Il divieto di pubblicazione dei sondaggi è possibile dove non si ha paura di stabilire per legge che l’elettore è un bambinone immaturo, che va protetto dalle (supposte) cattive influenze dei sondaggi. Tutti noi siamo continuamente influenzati da tante cose. E le ragioni che spingono ciascun singolo elettore a votare in un modo o nell’altro (o a non votare) possono essere le più varie. Ma se si decide per legge che l’elettore è un immaturo suggestionabile il rischio è che qualcuno, un giorno, faccia anche il passo successivo, quello che discende logicamente dal primo: se l’elettore è un bambinone, perché mai dovremmo lasciargli il diritto di voto? Sullo sfondo si intravvede la cattiva coscienza di élite che non hanno mai saputo fare ben i conti con il suffragio universale e le conseguenze che ne discendono. Élite che hanno paura del popolo. E c’è la predilezione per i circuiti ristretti ove gli ottimati — qualcuno pensoso del bene comune, i più pensosi delle future distribuzioni di cariche — possano occuparsene al riparo dalla pressione popolare. La politica è solo una faccia della società. C’è una connessione fra l’ideale di una democrazia sotto tutela (che va difesa dal suo principale nemico: il popolo) e la pratica dei mercati protetti che impedisce la libera competizione. In queste condizioni, non fa meraviglia l’insorgenza di potenti movimenti di protesta. Meraviglia che qualcuno si meravigli. Angelo Panebianco 17 febbraio 2013 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_17/panebianco-scarso-rispetto-per-chi-votera_83fc3a72-78d0-11e2-a28b-a2fa92ae99be.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. Riforme per disperazione Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2013, 11:17:23 am Riforme per disperazione
Le elezioni hanno distrutto il vecchio bipolarismo, quello della cosiddetta Seconda Repubblica. Ma non hanno ricostruito. Dovremo forse attendere le prossime elezioni (al termine di una legislatura che è lecito immaginare brevissima) perché alla distruzione segua la ricostruzione, perché nuovi e più stabili equilibri si affermino. Entrambi i poli tradizionali (centrosinistra e centrodestra) dovranno passare attraverso cambiamenti radicali (di leadership, di assetti, di proposte, di identità). Berlusconi ha smentito, con la sua impressionante rimonta, chi lo aveva dato per finito. Ma il problema di come dare stabilità e coesione a un centrodestra che, per ragioni sia di età che di credibilità internazionale, Berlusconi non potrà ancora guidare a lungo, è sempre lì e attende soluzione. Anche perché la resurrezione di Berlusconi non ha comunque impedito al centrodestra (e al Pdl) di perdere diversi milioni di voti (fra astensioni e spostamenti verso Grillo). Una cosa le elezioni l'hanno però dimostrata: l'inconsistenza del progetto neocentrista. Monti e Casini devono ora prendere atto che non c'è alcun futuro al centro. Ancorché deboli, dispongono comunque di una quota di parlamentari che dà loro la possibilità, e il diritto, di trattare una qualche forma di onorevole resa con il centrodestra. Al quale probabilmente servirebbero degli «stati generali», o qualcosa di simile, ove possano essere discussi assetti futuri, leadership, proposte. In vista delle prossime, sicuramente vicine, nuove elezioni. Se il problema del centrodestra dopo Berlusconi resta aperto, altrettanto drammatica è la condizione del Partito democratico. Ha fatto definitivamente il suo tempo il personale politico che veniva dal vecchio Pci e dalla vecchia sinistra democristiana (le componenti dalla cui convergenza nacque quel partito). Insieme a esse, ha fatto il suo tempo quella continuità identitaria (le «radici») su cui aveva puntato tutto Bersani. Di fronte al Pd si aprono due strade, entrambe dolorose e difficili, al di là della proposta aperta di cui parla D'Alema in queste pagine. La prima è quella che alcuni, con una capacità trasformistica degna di Zelig, hanno subito indicato: prendiamo atto di avere sbagliato quando, alle primarie, abbiamo scelto la tradizione e l'identità (Bersani) al posto del cambiamento e della discontinuità (Matteo Renzi). Così però è troppo facile. La storia è spietata, non permette a nessuno di dire «avevamo scherzato, riportiamo indietro le lancette». Come se niente fosse accaduto. Renzi è un giovane brillante e avrà un futuro politico (che dovrà inventarsi di sana pianta). Ma, essendo intelligente, sa che quel capitolo è chiuso. Egli però resta comunque l'emblema di ciò che il Pd avrebbe potuto essere. Il simbolo di un rinnovamento che facendo piazza pulita della vecchia identità avrebbe potuto trasformare un partito statico, conservatore, in un partito dinamico, innovatore. C'è anche un'altra strada aperta per il Pd. Ancor più dolorosa della prima. Si tratta di prendere atto delle affinità esistenti fra gli orientamenti di molti dei propri elettori e il movimento di Grillo. È vero che Grillo ha preso voti da tutto l'arco politico. Ma, anche se non disponiamo ancora di serie analisi dei flussi elettorali, è chiaro che il Pd gli ha ceduto moltissimo sangue, forse più del Pdl (quest'ultimo colpito anche dall'astensionismo). Inoltre, se si guarda alle proposte che il Movimento 5 Stelle ha fin qui avanzato - e alla cultura politica che quelle proposte sottintendono -, è facile rendersi conto che ci sono più consonanze (per esempio, sulla questione cruciale dello spazio da dare, rispettivamente, al mercato e allo Stato) con gli orientamenti della sinistra che con quelli della destra. Lo stesso Bersani, del resto, lo ha implicitamente ammesso con la sua immediata apertura di credito al Movimento 5 Stelle. Il Pd, o almeno una parte di esso, potrebbe prendere atto che il suo futuro sta in una qualche forma di convergenza con un movimento politico che ha dimostrato di sapere dare rappresentanza agli insoddisfatti e agli esclusi. È vero che Grillo, come fanno sempre i movimenti politici che attaccano il vecchio establishment, rifiuta le categorie di Destra e Sinistra (ma i nomi non sono poi così importanti: potremmo anche ribattezzare quelle vecchie categorie Gianni e Pinotto) ma è anche possibile che, nel XXI secolo, la vecchia sinistra debba cedere il passo a nuove modalità di aggregazione e di azione, più efficaci nel rappresentare il disagio per certi effetti (per esempio, sul versante dell'impatto ambientale) dell'economia capitalistica di mercato. Ci sono temi pressanti (formare uno straccio di governo; eleggere il nuovo presidente della Repubblica) ma il problema dei problemi, quello di ridefinire gli assetti del centrodestra e del centrosinistra, non potrà essere nascosto sotto il tappeto. Il più importante banco di prova sarà la riforma della legge elettorale e delle istituzioni. Se la classe politica saprà giocarsi quella occasione alla grande, senza più i piccoli intrighi che hanno caratterizzato l'ultimo anno, nella piena consapevolezza di quanto potente sia stato il terremoto, allora forse si ripresenterà quella opportunità di uno scambio di alto profilo (sistema maggioritario a doppio turno contro elezione diretta del presidente della Repubblica) che, come ricordava ieri su questo giornale Antonio Polito, venne malamente bruciata, e sprecata, l'anno scorso. Se questo accadesse, alla distruzione di oggi seguirebbe la ricostruzione di domani. Angelo Panebianco 28 febbraio 2013 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/editoriali/13_febbraio_28/panebiano-riforme-per-disperazione_afa43a84-816e-11e2-aa9e-df4f9e5f1fe2.shtml Titolo: Angelo PANEBIANCO. L'AVVERSIONE ITALICA AI GOVERNI FORTI Inserito da: Admin - Marzo 06, 2013, 12:25:34 pm L'AVVERSIONE ITALICA AI GOVERNI FORTI Il fantasma senza tempo Chi pensa che la democrazia necessiti di governi forti, dotati di tutti gli strumenti istituzionali necessari per attuare le proprie promesse elettorali, è un pericoloso golpista, un fautore di disegni autoritari, un nemico della «vera» democrazia? Da più di trenta anni è sempre a questa domanda che siamo inchiodati tutte le volte che insorgono conflitti intorno a progetti di riforma costituzionale. Oggi, una classe politica con un piede nella fossa (come Grillo, graziosamente, le ricorda ogni giorno), potrebbe avere interesse a non dare a quella domanda la risposta che è fin qui sempre prevalsa. Senza una radicale ristrutturazione delle loro offerte politiche, centrosinistra e centrodestra non riuscirebbero a invertire la corrente, a riconquistare i consensi perduti. Ma la ristrutturazione dell'offerta politica è possibile solo se vengono cambiate le regole del gioco. Diversi editorialisti di questo giornale hanno ricordato, nei giorni seguiti alle elezioni, che la condizione di stallo in cui siamo potrebbe essere avviata a soluzione, se si realizzasse uno scambio virtuoso (fra sistema maggioritario a doppio turno e semi-presidenzialismo). Se si trovasse la volontà politica, basterebbero pochi mesi per fare tutto. Poi si tornerebbe a votare. Ma occorrerebbe un consenso almeno sul fatto che la democrazia necessiti di quella stabilità che solo governi istituzionalmente forti sono in grado di assicurare, e che maggioritario e semi-presidenzialismo servono a quello scopo. La Costituzione vigente fu redatta quando incombeva il fantasma del tiranno e il Paese era spaccato fra comunisti e anticomunisti. Si scelse di costruire un sistema di governo fondato sulla permanente debolezza degli esecutivi. E da lì non ci siamo mai schiodati. La fine della Guerra fredda aprì una «finestra di opportunità»: la riforma elettorale maggioritaria dei primi anni Novanta doveva favorire un cambiamento della forma di governo ma poi, con il fallimento della Bicamerale (il mancato accordo fra Berlusconi e D'Alema nella Commissione per le riforme costituzionali presieduta da quest'ultimo nel 1997), quella finestra si richiuse. Forse ora, proprio perché si trova con le spalle al muro, la classe politica potrebbe finalmente fare ciò che non seppe fare allora. Per riuscirci dovrebbe sconfiggere radicati e diffusi pregiudizi. Secondo i quali è un bene che l'Italia, unica fra le grandi democrazie europee, manchi dei requisiti istituzionali necessari per dare stabilità e forza ai governi. Tutte le volte che la nostra forma di governo viene messa in discussione, nel Paese parte la mobilitazione d |