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Autore Discussione: Angelo PANEBIANCO.  (Letto 160785 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Giugno 05, 2010, 05:16:38 pm »

ERRORI SI’, MA TROPPA OSTILITA’

La fragilità di Israele


E’un noto circolo vizioso: l’ossessiva, e di per sé giustificata, ricerca di sicurezza da parte di chi vive in costante pericolo, può indurlo in errori che ne accrescono ancor di più l’insicurezza. È capitato ad Israele. Cadendo stupidamente nella trappola preparata dai simpatizzanti di Hamas e spargendo sangue, il governo israeliano ha fatto un regalo ai suoi nemici (e sarà un bene se ne pagherà il conto sul piano elettorale). E ha dato altra linfa alla generale ostilità per Israele, l’unico Paese al quale non si perdona niente. Pur essendo anche l’unico Paese che vive in permanente stato d’assedio dalla sua fondazione. Nulla misura la «popolarità» di Israele meglio dell’atteggiamento delle Nazioni Unite. Dove si passa spesso sopra ai delitti di qualunque sanguinario regime ma mai a quelli, veri o presunti, della democrazia israeliana. Lo si chiami pure lapsus freudiano ma molti ricordano la mappa del Medio Oriente che faceva mostra di sé all’Onu e sulla quale non v’era traccia di Israele. La volontà della maggioranza del Consiglio per i diritti umani di metterlo oggi sotto inchiesta (con i soli voti contrari di Stati Uniti, Italia e Olanda) è in linea con una consolidata tradizione onusiana di ostilità preconcetta verso quello Stato.

Alessandro Piperno (Corriere, 2 giugno) ha dato un giudizio che merita attenzione sui sentimenti odierni degli israeliani: «Mi sono fatto l’idea — scrive — che Israele sia un Paese in cui la gente, più o meno consapevolmente, si sente spacciata (...) Forse hanno capito di poter vincere qualche altra battaglia ma che alla lunga la guerra sarà perduta. Hanno constatato che la violenza non è più utile alla causa di quanto lo sia stata l’utopia del dialogo ». Contro la sopravvivenza di Israele giocano tre forze: la demografia, la geo-politica e i sentimenti di ostilità di tanta parte del mondo (rilevanti pezzi di Europa inclusi). La demografia, ossia i differenti tassi di crescita della popolazione ebraica e di quella arabo- israeliana. La geo-politica, ossia il declino della potenza americana e i suoi effetti sul Medio Oriente. La rottura dell’alleanza fra Turchia e Israele è parte di un più generale distacco dello Stato turco dal mondo occidentale, accelerato dalla perdita di potenza degli Stati Uniti. Israele ha fin qui dovuto la sopravvivenza alle sue armi e alla protezione statunitense. Se quest’ultima si indebolirà, le armi non basteranno ad assicurare la salvezza.

C’è poi l’avversione di tanta parte dell’opinione pubblica mondiale. Chi finge che il pregiudizio antisemita non c’entri nulla deve spiegare questa mancanza di equanimità verso la democrazia israeliana. E deve spiegare perché la legittima difesa dei palestinesi si accompagni spesso alla cecità di fronte alla natura dei movimenti islamisti e alla ferocia dei nemici di Israele. Ricordo una lettera che mi inviò un tale a seguito di un articolo sul conflitto arabo-israeliano. Dopo avermi accusato di negare l’evidenza, ossia la «natura criminale» di Israele, quel tale concludeva con una domanda: «Ma perché difende Israele, lei che non è nemmeno ebreo?».

Checché ne dicano i suoi nemici, Israele è una realtà fragile, precaria. Se un giorno venisse distrutto c’è chi brinderebbe anche in Europa. Ma quella tragedia anticiperebbe o accompagnerebbe una grande sconfitta occidentale: la vittoria di concezioni, modi di vita, istituzioni, antitetici ai nostri e a noi ostili.

Angelo Panebianco

04 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_04/panebianco-fragilita-israele_f043e192-6f98-11df-b547-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 27, 2010, 12:36:46 pm »

IL TEMA VERO: IL SUD ARRETRATO

La questione non e’ padana


Dalla Sicilia all’Alto Adige, tentazioni secessioniste non sono mancate.
Ora però andiamo a celebrare i centocinquanta anni dell’unità d’Italia mentre l’unità scricchiola più che mai. È un pessimo segno che la lotta politica (che ha sempre una dimensione simbolica) diventi competizione intorno a simboli nazionali: la bagarre nel consiglio comunale di Milano sulle «radici padane » della città, la polemica sull’esistenza o meno della Padania, le baruffe sull’inno di Mameli.

«Esiste» la Padania, intesa non come luogo geografico e nemmeno come semplice blocco di interessi, ma come vera nazione? Al momento sembra di no, tranne che nella mente dei militanti leghisti. Però, attenzione: le nazioni sono tutte, storicamente, comunità «inventate». Esistono o non esistono a seconda di quanti credono, o non credono, nella loro esistenza. Quando si scatena una competizione fra simboli e controsimboli non si può sapere come andrà a finire. Oggi la Padania non esiste sia perché l’imprenditore politico che ne possiede il copyright, Umberto Bossi, è ben lontano dall’avere, al Nord, la maggioranza dei consensi sia perché, a quanto sembra, nemmeno i cuori di molti elettori leghisti sono scaldati dalla Padania/ nazione. Votano Lega, stando ai sondaggi, per una varietà di motivi: economici (meno tasse e meno trasferimenti al Sud), antistatalisti (meno burocrazia centrale), di sicurezza (questione della immigrazione). Oppure perché solo i leghisti sono andati a parlare con loro nei paesi o nei quartieri. L’impacchettamento di questi variegati motivi, la loro ricomposizione entro un quadro simbolico coerente (la Padania) è un’operazione non ancora riuscita alla Lega ma non è detto che in seguito ciò non possa accadere.

Se la Padania (ancora) non esiste, che cosa fa scricchiolare l’unità nazionale? Il fatto che arrivino al pettine i nodi di un fallimento storico, dell’incapacità delle classi dirigenti di risolvere il problema del Sud. Non si può avere una «questione meridionale» che duri ininterrottamente per centocinquanta anni senza che, alla fine, ciò comporti gravi conseguenze politiche. Rispetto a ciò, la Lega è un effetto (il più appariscente), non una causa. Perché l’idea che il Sud sia una palla al piede che frena lo sviluppo del Paese, non circola solo fra i leghisti, ha una diffusione ampia. Per quale altro motivo, d’altra parte, il federalismo fiscale avrebbe potuto suscitare così tanto interesse?

Ne discende una logica conseguenza: è del Sud che ci si deve occupare. Perché se non si creano, e in fretta, le condizioni per uno sviluppo autonomo del Sud, saranno guai. Qui ci si scontra però con l’abulia delle classi dirigenti meridionali. Nelle regioni più disastrate non è in atto alcun piano di bonifica radicale delle istituzioni, niente che lasci intravedere una reale disponibilità a mutare comportamenti e abitudini. Nessuno crede che i servizi pubblici al Sud cesseranno, a breve, di essere scadenti e molto più costosi che in Lombardia o in Emilia, che tante scuole e Università del Sud smetteranno di distruggere capitale umano anziché crearlo o che le amministrazioni locali, con la loro inefficienza, cesseranno di frenare lo sviluppo.

Chi vuole difendere l’unità nazionale deve impegnarsi, con atti concreti, per cambiare le condizioni del Sud. Altrimenti, la lotta fra simboli e controsimboli avrà, alla fine, un esito scontato.

Angelo Panebianco

24 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_giugno_24/panebianco-editoriale-questione-padana_0da73670-7f4e-11df-a8d7-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Luglio 10, 2010, 11:24:27 am »

Vizi e pregiudizi contro lo sviluppo

Le tante bugie tra nord e sud


Non si verrà mai a capo della divisione Nord/Sud se non si aggrediranno certe costruzioni ideologiche che funzionano da schermo, che impediscono di vedere la realtà, e di fatto la legittimano e la perpetuano. Mi riferisco, in primo luogo, a quella «teoria del colonialismo interno» abbeverandosi alla quale sono cresciute intere generazioni di meridionali. È la teoria secondo cui, dall’Unità in poi, il Sud sarebbe stato vittima della colonizzazione, con annesso sfruttamento, del Nord. Come tutte le costruzioni ideologiche, la teoria mescola qualche verità e molte bugie. Essa ha dato luogo a una «sindrome da risarcimento» che ha legittimato per decenni un colossale trasferimento di risorse pubbliche dal Nord al Sud. Poco male se si fosse trattato di una «bugia utile», se fosse servita a colmare il divario, a creare nel Sud le condizioni per uno sviluppo economico auto-sostenuto. Ma quella strada ha portato solo a disastri: dilatazione della intermediazione politica, gonfiamento dei ceti politico- burocratici, parassitismo, corruzione, alimentazione della criminalità. Il contrario di ciò che serve allo sviluppo. Ma, nonostante l’evidenza, teoria del colonialismo interno e sindrome da risarcimento sono tuttora vive, influenzano gli atteggiamenti e i comportamenti di molti meridionali. Quale altra fonte di legittimazione potrebbe avere, ad esempio, la ventilata Lega del Sud?
ventilata Lega del Sud? Anche al Nord, naturalmente, abbondano stereotipi e costruzioni ideologiche. Nella diffusa idea che il Sud sia solo una palla al piede per lo sviluppo del Nord convivono verità (sull’oggettivo costo del Sud) e bugie. È falso che il Nord non pagherebbe alti prezzi facendo a meno del Sud. Amputata del Sud, quanto meno, l’Italia subirebbe un drastico declassamento in Europa, cesserebbe di essere uno dei quattro grandi Stati europei. È comunque ovvio che il Nord possiede le carte migliori. È un’asimmetria di cui le classi dirigenti del Mezzogiorno devono tener conto.
Il Sud ha di fronte due strade: la via «brasiliana» e la via «slovacca». Esistono certe interessanti analogie fra la storia dell’America Latina e quella del Sud d’Italia. Per un lungo periodo, le classi dirigenti latinoamericane coltivarono nei confronti degli Stati Uniti lo stesso atteggiamento di molti meridionali italiani nei confronti del nostro Nord. Attribuendo all’imperialismo yankee la causa del proprio sottosviluppo i latinoamericani si autoassolvevano da ogni responsabilità e, con i loro comportamenti, perpetuavano il sottosviluppo. Poi in alcuni Paesi (Brasile, Cile ed altri), le classi dirigenti si sono rinnovate rimuovendo alcuni degli antichi vizi. Anziché continuare ad imputare ad altri la colpa delle proprie disgrazie hanno inaugurato vere politiche di sviluppo che hanno dato in brevissimo tempo grandi frutti. Abbandonare la sciagurata teoria del colonialismo interno è necessario perché il Sud possa cominciare a seguirne le orme.
In alternativa, il Sud può scegliere la via slovacca. La Slovacchia era la parte più povera della Cecoslovacchia. Gli slovacchi tirarono troppo la corda, pretesero troppe risorse. Minacciarono anche la secessione. I cechi risposero: accomodatevi. E secessione fu. Sarebbe assai più utile per il Sud, e per l’Italia tutta, se il Mezzogiorno (magari sfruttando l’occasione del varo del federalismo fiscale) si decidesse ad imboccare la via brasiliana.

Angelo Panebianco

10 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_10/panebianco-bugie-nord-sud_2e713ebc-8be4-11df-9aa1-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Luglio 21, 2010, 11:15:31 pm »

Un consiglio (poco) superiore


Assai opportunamente il presidente della Repubblica ha posto il veto sul tentativo del Consiglio superiore della magistratura (Csm), che è ora in scadenza, di discutere di regole deontologiche in relazione a questioni come la nomina, fatta dagli stessi che compongono l’attuale Consiglio, di Alfonso Marra alla Corte d’Appello di Milano. Auspicando che sia il prossimo Csm ad occuparsene, Napolitano ha impedito che una eventuale presa di posizione del massimo organo di autogoverno della magistratura finisse per interferire con le indagini in corso. Di queste cose si occuperà, in seguito, il nuovo Csm, in un clima auspicabilmente più sereno. Resta, e resterà irrisolto, però, il problema rappresentato da una istituzione fondamentale del nostro sistema giudiziario, il Csm, che è destinata a non recuperare la sua antica credibilità senza seri interventi di riforma.

Carlo Federico Grosso, che del Csm è stato in passato membro laico, ha ricordato (La Stampa, 20 luglio) i due principali difetti del Consiglio: l’esasperato correntismo e i rapporti di scambio più o meno sotterranei con la politica. Notiamo che fra i due aspetti c’è una relazione: la competizione correntizia porta inevitabilmente le correnti ad intrecciare rapporti con le varie componenti della classe politica. Se il correntismo finisse, anche le relazioni con la politica potrebbero diventare meno opache. Ma, allo stato degli atti, far finire il correntismo è impossibile. Occorrerebbero quelle buone riforme, non solo del Csm ma della istituzione giudiziaria nel suo insieme, che, come è ormai abbondantemente provato, la classe politica non è in grado di attuare: la destra perché ha più intenti punitivi che riformatori nei confronti della magistratura, e la sinistra perché sa solo blandirla. Per ragioni diverse, né l’una né l’altra delle due componenti della classe politica è in grado di concepire e attuare un equilibrato progetto di riforma che sappia coniugare efficienza, funzionalità e rispetto dei principi liberali.

In questa situazione di stallo, però, da molti indizi risultano sempre più numerosi i magistrati che si rendono conto del fatto che, così come è, l’istituzione non funziona, che avrebbe bisogno di un forte rinnovamento. È più o meno ciò che succede in università. Molti di quelli che ci lavorano si rendono conto di quali siano i problemi ma nessuno di loro, singolarmente, può farci nulla. Forse bisognerebbe riportare indietro le lancette dell’orologio, ritornare ai tempi in cui i compiti del Csm erano più limitati. Il difetto del Csm, così come lo ha disegnato la Costituzione, è strutturale. È un organo i cui componenti sono eletti dagli stessi delle cui sorti decidono. Gli eletti si occupano, oltre che dei provvedimenti disciplinari che riguardano i loro elettori, anche delle loro nomine, trasferimenti, eccetera. Era inevitabile che, in queste circostanze, le correnti organizzate finissero per dominare il Csm e la lottizzazione diventasse, per diretta conseguenza, il criterio dominante nelle decisioni del Consiglio. Riportare fuori dal Consiglio (in organi giudiziari non elettivi) le valutazioni sulle capacità professionali e le decisioni su nomine e trasferimenti ridurrebbe, almeno in parte, verosimilmente, la pressione correntizia. Sarebbe un buon inizio. Per ridare al Csm il lustro e la credibilità perdute.

P.S. Tra i compiti del Csm ci dovrebbe essere anche quello di vigilare sulle dichiarazioni dei magistrati. Quella di ieri del pm di Caltanissetta, secondo il quale la verità sulle stragi sarebbe vicina e la politica potrebbe non reggerne l’urto, appare clamorosa e assai avventata. Cerchi la verità, ma non ne anticipi le conseguenze politiche.

Angelo Panebianco

21 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_21/consiglo-poco-superiore-panebianco-editoriale_31f1b120-9486-11df-91c3-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Agosto 01, 2010, 09:42:16 am »

IL RISCHIO DI RIPETERE L’ESPERIENZA DI PRODI

Governo del fare, che cosa resta?


I numeri sembrano dare ragione a Fini e torto a Berlusconi. Con un gruppo parlamentare di più di 30 deputati, più numeroso del previsto, il presidente della Camera è ora in grado, plausibilmente, di ridurre l’(ex) fortissimo governo Berlusconi nelle condizioni in cui si trovava il precedente, fin dall’origine debolissimo, governo Prodi: una maggioranza troppo risicata, margini di manovra troppo stretti, una navigazione parlamentare disseminata di ostacoli. Tanto più che Fini, pur promettendo formalmente una sorta di «appoggio esterno» al governo, ha messo in chiaro che intende tenersi le mani libere sui temi che contano, dalla «legalità» (leggi: intercettazioni e riforma della giustizia) alle questioni che toccano l’unità nazionale (leggi: federalismo fiscale). In queste condizioni, che cosa resterà, nei prossimi mesi, di quel «governo del fare » che Berlusconi aveva promesso ai suoi elettori? E, inoltre, sarà disponibile Bossi a mantenere il sostegno a un governo che risultasse privo della forza necessaria per attuare il federalismo fiscale?

E non è solo una questione di numeri parlamentari. Ci sono anche i tanti effetti collaterali della fine del Popolo della Libertà nella sua versione originaria. È l’intero sistema politico che viene rimesso in moto, con conseguenze imprevedibili. È da vedere se Berlusconi avrà la forza per predisporre argini sufficientemente alti a difesa del governo. La principale conseguenza «sistemica» della rottura fra Berlusconi e Fini potrebbe essere quella di ridare rapidamente peso politico e importanza a un «luogo», per lungo tempo messo da parte, anche se mai spazzato via del tutto, dal sistema bipolare: il centro. Vediamo perché. Con la fine del Popolo della Libertà suonano le campane a morto anche per il Partito democratico. Le due aggregazioni nemiche si sorreggevano a vicenda. La fine dell’una annuncia la fine dell’altra. Il Partito democratico, del resto, era ormai sfibrato da troppe sconfitte e da troppe risse interne. Adesso che il Popolo della Libertà si è diviso, non c’è più alcun collante che possa tenerlo insieme. Il segretario del Pd, Bersani, lo sa. Per questo avrebbe bisogno (ma difficilmente la otterrà) di una immediata crisi di governo che lo rimetta in gioco. Salgono le azioni di Casini (corteggiatissimo da Berlusconi) e dell’Udc. E il «centro» può diventare una calamita capace di attirare molti potenziali transfughi del Pd. È possibile che in tempi rapidi, qualche mese al massimo, il centro, ossia l’area parlamentare che sta in mezzo fra Berlusconi e la sinistra, diventi piuttosto affollato. Anche perché l’avvenuto indebolimento parlamentare del governo apre per quest’area spazi fino a ieri insperati di manovra e di negoziazione. Chi scrive pensa che, pur con tutti i difetti manifestati, il sistema bipolare sia il più utile per il Paese. L’attuale legge elettorale premia le coalizioni contrapposte ma le leggi elettorali difficilmente resistono a cambiamenti troppo radicali degli equilibri politici.

Nei prossimi mesi ci saranno due aspetti da tenere d’occhio. Si tratterà di capire, in primo luogo, se Berlusconi potrà ancora attingere a una qualche riserva di risorse che gli consenta di governare il Paese pur nelle mutate condizioni. Si tratterà, in secondo luogo, di valutare le conseguenze sistemiche della rottura fra Berlusconi e Fini. Bisognerà cioè capire se questo divorzio risulterà, alla fine, un episodio importante ma dagli effetti circoscritti oppure, come sembra più plausibile, il punto di avvio di una valanga destinata a investire e, forse, a travolgere l’intero sistema politico.

Angelo Panebianco

31 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_luglio_31/panebianco-governo-fini-berlusconi_56b886ec-9c64-11df-80c5-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Agosto 09, 2010, 10:08:31 am »

BERLUSCONI, L’OPPOSIZIONE E LA LEGA

Tre idee opposte di Repubblica

Al termine della votazione sulla sfiducia a Caliendo, un finiano avrebbe esclamato: «È finita la monarchia». È una perfetta descrizione del passaggio dei finiani allo schieramento antiberlusconiano. Non nel senso superficiale di una loro diversa collocazione parlamentare, ma nel senso profondo dell’adesione a una «idea di repubblica» opposta a quella incarnata da Berlusconi.

È dal 1994 che a scontrarsi in Italia non sono solo schieramenti che rappresentano interessi diversi. La violenza verbale che accompagna il conflitto è spiegata dal fatto che a duellare sono idee diverse di repubblica. Sono ben tre e si fronteggiano dagli anni Novanta. Il bipolarismo, però, risolvendo la politica in un confronto fra due soli schieramenti, ha obbligato le fazioni sostenitrici di due di esse a stipulare fra loro un’alleanza strumentale. Nessuna di queste tre idee di repubblica ha fin qui prevalso sulle altre. L’Italia è quindi, dagli anni Novanta, in una condizione di stallo politico. A scontrarsi sono, prima di tutto, la variante berlusconiana della «democrazia plebiscitaria» e la «democrazia acefala» (senza un leader) sostenuta dalla maggioranza dei suoi nemici. C’è poi in campo una terza idea di repubblica, incarnata dalla Lega, e definibile, a seconda dei gusti, federalista, nordista o separatista.

La democrazia plebiscitaria nasce sempre per la comparsa di un capo carismatico. La sua caratteristica è la fragilità. Dipende dalle sorti di un uomo. O trova uno sbocco istituzionale (presidenzialismo, premierato: forme di democrazia che rafforzino il vertice del potere esecutivo) oppure si dissolve quando egli esce di scena. «Plebiscitarismo» è per molti sinonimo di tirannia. In realtà, indica solo il rapporto diretto fra un leader e i seguaci. Può darsi in certi regimi autoritari come nelle democrazie che hanno istituzionalizzato la dimensione plebiscitaria. La democrazia plebiscitaria è «sul piatto» in Italia da quando c’è Berlusconi. Ricchezza, controllo di televisioni e carisma sono state le sue risorse. Ma Berlusconi, a differenza di de Gaulle e di altri capi carismatici, ha fallito (ammesso, ma non è sicuro, che i suoi scopi andassero oltre le situazioni contingenti), non ha saputo dare uno sbocco istituzionale alla democrazia plebiscitaria.

I suoi nemici gli hanno opposto la difesa della democrazia acefala. Se la democrazia plebiscitaria ruota intorno a un singolo leader, la democrazia acefala ha una struttura oligarchica (più capi che si controllano a vicenda). La cosiddetta Prima Repubblica ne è un esempio. In essa i leader che cercavano di elevarsi al di sopra del resto dell’oligarchia (Fanfani, Craxi) suscitavano forti resistenze e venivano prima o poi abbattuti. La Costituzione del ’48, consegnandoci un esecutivo debole, ha dato vita a una forma di «parlamentarismo integrale» (come lo chiamava Gianfranco Miglio) che è un perfetto abito istituzionale per la democrazia acefala. Se i fautori della democrazia acefala sono stati in grado, quanto meno, di resistere al ciclone Berlusconi è perché hanno dalla loro la forza della tradizione e, con essa, il sostegno dei custodi della tradizione, come magistrati e intellettuali.

Si noti un altro aspetto. La democrazia acefala, a differenza di quella plebiscitaria, mal si concilia con il bipolarismo. Il bipolarismo, effetto combinato dell'abbandono della proporzionale e dell'irruzione di un capo carismatico, è fragile perché incompatibile con la tuttora vigente forma istituzionale della democrazia acefala. E' probabilmente destinato a scomparire quando uscirà di scena Berlusconi. In questa incompatibilità fra bipolarismo e forma istituzionale della Prima Repubblica c'è anche il vizio d'origine del Partito democratico. Nato sulla scia del bipolarismo, può esistere solo grazie ad esso. Ma il conservatorismo costituzionale che impregna la sua cultura politica gli impedisce di puntare a uno sbocco istituzionale (una riforma della Costituzione) che superi la democrazia acefala, mettendo così in sicurezza il bipolarismo.

La terza idea di repubblica è quella leghista. Ha conseguito grandi successi (ha imposto il federalismo come tema prioritario dell'agenda politica) ma non ha ancora ottenuto la vittoria decisiva. Mentre democrazia plebiscitaria e democrazia acefala sono «progetti» nazionali, quella di Bossi è una rivendicazione regionale: il federalismo è la via per dare forza alle regioni del Nord. L'alleanza fra Berlusconi e Bossi e il conseguente compromesso fra due idee di repubblica, plebiscitaria e federalista, sono stati possibili ma non senza tensioni. Basti pensare alla potenziale incompatibilità fra l'individualismo (che è la vera cifra culturale del berlusconismo) e il «comunitarismo» leghista. Questa è anche la ragione per cui non penso che i leghisti possano assorbire facilmente il grosso dell'elettorato berlusconiano del Nord, anche dopo l'eventuale uscita di scena di Berlusconi.
Si potrebbe ora scommettere su una vittoria della democrazia acefala, per quanto mal messi siano i suoi sostenitori. Possiedono la forza della tradizione, un atout che può rivelarsi decisivo dato il fallimento di Berlusconi, la sua incapacità di dare un ancoraggio costituzionale alla democrazia plebiscitaria.

Sarebbe però una vittoria di Pirro. Per tre ragioni. Perché la democrazia acefala può essere resa stabile solo dalla presenza di grandi partiti, forti e radicati. Ma in Italia non li resuscita più nessuno. In secondo luogo, perché necessita di un ambiente internazionale protetto (come era, per l'Italia, quello della guerra fredda, della politica dei blocchi). Nel sistema internazionale fluido e iper-competitivo di oggi la democrazia acefala è poco attrezzata per fronteggiare le sfide. In terzo luogo, perché la nostra storica divisione Nord/Sud si è ormai troppo acutizzata e i conflitti che suscita non possono essere facilmente smussati e sopiti con le tecniche tipiche della democrazia acefala. Lo stallo, il conflitto fra opposte idee di repubblica, è destinato a continuare. Resti o no in scena Berlusconi.

Angelo Panebianco

09 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_09/panebianco-repubblica-berlusconi_b5cc1788-a37c-11df-9c56-00144f02aabe.shtml

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« Risposta #96 inserito:: Agosto 17, 2010, 09:05:19 pm »

RISCHIO DI CRISI SUL FEDERALISMO

Il compromesso più difficile

Forse la crisi di governo si verificherà a ottobre o, forse, l'esecutivo durerà, fra (pochi) alti e (molti) bassi, fino all'inizio del prossimo anno. Forse, il casus belli su cui si dissolverà formalmente la maggioranza sarà la giustizia, il terreno propagandisticamente propizio per campagne su temi come legalità e moralità. Ma sarà solo scena. Se crisi sarà, infatti, la ragione vera avrà a che fare con il federalismo, con la distribuzione delle risorse fra Nord e Sud. Non casualmente Bossi sta già mobilitando i suoi in vista di quello scontro. I finiani sanno bene, d'altronde, che i voti dovranno cercarseli al Sud. Sanno che avranno successo solo se riusciranno ad imporsi come una articolazione credibile di quella «Lega Sud» che - ormai è chiaro - non sarà mai un unico partito ma un'aggregazione politicamente eterogenea di molti partiti.

È il destino di tutte le forze politiche italiane. Partono per fare una cosa e finiscono per fare l'opposto. Ad esempio, i sedicenti «liberali» berlusconiani sono in realtà dei dirigisti. A loro volta, i sedicenti «riformisti» del Partito democratico sono in realtà dei conservatori. Allo stesso modo, i finiani volevano essere la «destra moderna e liberale» e faranno la Lega Sud.

È chiaro che quella fra Nord e Sud è la divisione che ormai più conta e che sta oscurando tutte le altre. Tre sono i possibili sviluppi. I primi due metterebbero a rischio l'unità nazionale. Solo il terzo potrebbe portare, col tempo, a una ricomposizione. La prima possibilità è che il federalismo sia imposto alle condizioni della Lega Nord. Il Sud interpreterebbe quella vittoria come una propria sconfitta, la legittimità del nuovo assetto sarebbe compromessa fin dall'inizio, le tensioni Nord/Sud crescerebbero ulteriormente. La seconda possibilità è una sconfitta della Lega Nord e il tramonto del progetto federalista. A ribellarsi, in questo caso, sarebbe il Nord (non solo quello che vota Lega). Il no al federalismo verrebbe interpretato come una prova della volontà del Sud di non rinunciare ai propri vizi, si tratti dei costi della politica locale o dei dissesti della sanità regionale. Anche in questo caso le tensioni fra Nord e Sud crescerebbero.

Coloro che pensano di ricreare i quieti equilibri (con annessi flussi di risorse) del passato, sbagliano i conti. Quegli equilibri non sono più ricostituibili. La terza possibilità è un compromesso soddisfacente per tutte le parti in campo: il Nord non abbandona il Sud al suo destino, il Sud accetta di iniziare un percorso, rigorosamente controllato, di bonifica amministrativa, unito a iniziative di stimolo (infrastrutture, defiscalizzazioni) per la crescita economica.

Pur necessario per salvaguardare l'unità nazionale, il suddetto compromesso è oggi meno probabile di quanto non apparisse un tempo. Per la sua natura di partito nazionale, radicato al Nord come al Sud, il Popolo della Libertà era nella condizione migliore per realizzare un compromesso soddisfacente. Ma, adesso, la rottura fra Berlusconi e Fini, e la prospettiva di una dura competizione fra i rispettivi partiti per i voti del Sud, rendono più difficile l'accordo. Sarà bene che i leader calcolino con attenzione le loro mosse. Se la prossima campagna elettorale si risolverà in uno scontro fra opposti egoismi regionali sarà poi difficile (chiunque vinca) rimettere insieme i cocci.

Angelo Panebianco

17 agosto 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_17/panebianco_compromesso_7e5e99c2-a9c3-11df-bd6c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Agosto 30, 2010, 04:31:10 pm »

LEGGE ELETTORALE E SISTEMA MAGGIORITARIO

Democrazia «bipolare», una discussione necessaria


Il sistema elettorale attuale piace a pochissimi, persino fra coloro che se ne sono avvantaggiati. Tutti sappiamo che arriverà prima o poi il giorno in cui verrà sostituito o cambiato. Difficilmente la legge elettorale che porta la firma di Roberto Calderoli e che è in vigore dal 2005 potrà resistere ancora per molti anni.

Al momento, tuttavia, è più facile pensare di cambiarla che riuscirci. Per due ragioni. Perché il nucleo centrale dell’attuale maggioranza di governo (berlusconiani e leghisti) non ha interesse a cambiarla. E perché gli avversari della legge vigente sono divisi, sono in radicale disaccordo fra loro, hanno idee diversissime su cosa mettere al suo posto. Non c’è niente di male in ciò e sarebbe anzi sorprendente il contrario. Le diverse leggi elettorali non sono neutre rispetto alle chance di affermazione delle varie fazioni in campo e dei loro progetti politici. A rischio di semplificare eccessivamente, possiamo dire che il confronto principale è fra coloro che vogliono sbarazzarsi del bipolarismo (la contrapposizione fra due soli schieramenti inaugurata nel 1994) e coloro che vorrebbero rafforzarlo.

I primi pensano a un cambiamento della legge elettorale vigente che faccia saltare il premio di maggioranza (lo chiamerebbero «sistema tedesco» ma la sostanza sarebbe questa). Eliminato il premio, che obbliga a formare coalizioni prima del voto, il bipolarismo verrebbe travolto. Si tornerebbe all’assetto della Prima Repubblica, con le coalizioni di governo che si formano in Parlamento dopo le elezioni.
C’è chi pensa che tale assetto favorirebbe la ricostituzione di un grande rassemblement parlamentare «centrista» dotato di una formidabile rendita di posizione: la possibilità di contrattare la formazione dei governi sia con la sinistra che con la destra.

Al momento, è anche l’idea di quella parte del Partito democratico che si immagina perdente in un nuovo scontro elettorale con Berlusconi e per questo affida le proprie fortune politiche future a improbabili scenari di «governi tecnici» e riforma elettorale (il solito «sistema tedesco») che — così essi sperano—colpisca l’attuale premier. C’è poi la posizione di chi difende il bipolarismo, ma pensa anche che la legge elettorale attuale (con le sue liste bloccate) lo assicuri malamente, sacrificando troppo della rappresentatività sull’altare della governabilità. Una governabilità, per giunta, neppure garantita, date le altissime probabilità, dovute ai cattivi marchingegni di questa legge, di maggioranze diverse fra Camera e Senato. Sta qui, mi sembra, il senso che i promotori hanno voluto dare all’appello a favore dell’uninominale maggioritario pubblicato dal Corriere due giorni fa e al quale anche chi scrive ha aderito.

Non è una operazione nostalgia, come indicano la quantità e qualità di consensi e di adesioni che l’iniziativa sta suscitando nel Paese.
Non è solo il tentativo di resuscitare un movimento che, grazie alle intuizioni di Marco Pannella (che fondò la Lega per l’Uninominale nel 1986) e di Mario Segni (Movimento per la riforma elettorale, del 1987), portò poi al referendum del 1993 e alla chiusura di una lunga fase storica. È soprattutto il tentativo di tenere viva un’idea di democrazia (maggioritaria, bipolare, tendenzialmente bipartitica) che ai promotori dell’appello pare tuttora più allettante dei disegni concorrenti. E anche per ricordare a tutti che quando, fra qualche mese o qualche anno, verrà messa mano alla legge elettorale, con quella prospettiva si dovrà comunque fare i conti.

Angelo Panebianco

30 agosto 2010
http://www.corriere.it/editoriali/10_agosto_30/panebianco_30214862-b3f6-11df-913c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #98 inserito:: Settembre 07, 2010, 12:26:04 pm »

LE SCELTE DI FINI DOPO LA ROTTURA NEL PDL

Destra moderna o Lega Sud?


Nell’origine delle cose si può leggere anche la loro fine. Ufficializzando la rottura con Berlusconi e la nascita di Futuro e Libertà, Gianfranco Fini ha chiuso con una esperienza, quella del Popolo della Libertà, cui aveva aderito, a ridosso delle elezioni passate, non per intima convinzione ma perché costretto dal diktat dell’attuale premier. Banalmente, non si può stare a lungo dentro un partito carismatico se si detesta (personalmente e politicamente) il capo di quel partito e se si è detestati (personalmente e politicamente) da lui. Fini ha fatto un discorso di respiro, come devono essere i discorsi fondativi di nuove formazioni politiche. Ma non ha rinunciato a qualche tatticismo. Come altri hanno già osservato, si è lasciato aperte tutte le strade, dal patto di legislatura (nella cui praticabilità credono in pochi) all’interruzione, entro qualche mese, di questa esperienza di governo. Ha negato con forza una sua disponibilità a fare ribaltoni, a uscire dal perimetro del centrodestra, ma ha anche offerto una sponda a quella parte di opposizione che, prima di andare a nuove elezioni, spera di cambiare la legge elettorale.

Nel discorso di Fini c’erano molte cose, anche fra loro piuttosto eterogenee. Alcune, già presenti nel programma originario del Pdl e poi abbandonate per strada (dalle liberalizzazioni alla abolizione delle province alla privatizzazione delle municipalizzate), corrispondono a temi molto popolari presso l’elettorato di centrodestra, anche se, significativamente, indigesti per la Lega. Altre (questione dell’immigrazione) erano direttamente finalizzate a ribadire quanto ormai sia grande la distanza che separa Fini dal partito di Bossi.
Altre cose ancora servivano a recuperare aspetti di una antica identità (l’omaggio a Almirante, a Tremaglia e a Tatarella) che, oltre a piacere a una parte dei militanti, potranno rivelarsi preziosi al momento della prova elettorale. È infatti possibile che alle prossime elezioni, tenuto conto della vischiosità dei comportamenti elettorali, Futuro e Libertà si trovi a prendere la maggioranza dei suoi voti nel vecchio bacino dell’Msi (Lazio, Campania, Sicilia, eccetera). Altre cose, infine (giustizia) servivano a ribadire le ragioni della definitiva consumazione del rapporto con Berlusconi e Forza Italia.

Sono rimasti, o così sembra a chi scrive, non del tutto chiariti nel discorso di Fini alcuni aspetti cruciali. Sarebbe utile se il presidente Fini volesse precisare meglio il suo pensiero. Il primo è un tema forse importante più sul piano dell’identità che su quello pratico. Non si capisce bene cosa farà Futuro e Libertà sulle questioni costituzionali. La destra berlusconiana, quella stessa destra di cui Fini è stato sodale per sedici anni, dal ’94 ad oggi, ha sempre suscitato formidabili resistenze a sinistra a causa della sua piattaforma (in senso tecnico) rivoluzionaria o revisionista. In sostanza, quella destra (anche Fini fino a poco tempo fa) non condivide l’impianto della Costituzione del ’48 e propugna (senza riuscire a realizzarli) radicali cambiamenti costituzionali: da qualche forma di presidenzialismo o premierato a mutamenti in profondità (separazione delle carriere dei magistrati, riforma del Csm) dell’ordinamento giudiziario.

Nel suo discorso di Mirabello, ma anche in certi suoi interventi precedenti, Fini ha dato la sensazione di avere totalmente abbandonato le istanze revisioniste (anche le sue battute sul Parlamento ridotto a dipendenza dell’esecutivo sembrano andare in quella direzione). Antiberlusconismo a parte, questo congedo dal revisionismo costituzionale è forse ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il «cesarismo» in generale, e quello berlusconiano in particolare. È corretta questa lettura? Futuro e Libertà sarà un partito totalmente «rappacificato» con la Costituzione del ’48? Come dicevo, il tema non è tanto importante dal punto di vista pratico (le riforme costituzionali, ormai è accertato, non si possono fare) ma lo è sul piano identitario. Anche la battuta di Fini sulla legge elettorale da cambiare non aiuta. Dire che si può scegliere fra l’uninominale e la reintroduzione delle preferenze è forse politicamente furbo (si strizza l’occhio all’opposizione) ma non serve a chiarire. Alla fin fine, come Fini sa, chi vuole l’uninominale pensa a un tipo di democrazia completamente diversa da quella di chi vuole la proporzionale con le preferenze (e, con essa, secondo un’antica formula non propriamente di destra, la «centralità del Parlamento»).

Il secondo tema riguarda il federalismo. Fini, va detto a suo merito, non ha eluso del tutto il problema. Ha riconosciuto che se, nella distribuzione delle risorse, si abbandona il criterio della spesa storica per passare a quello dei costi standard (architrave della riforma detta del federalismo fiscale) il Sud dovrà cambiare tanto del suo modo di usare le risorse pubbliche. Ma poi ha subito annacquato l’affermazione evocando il «federalismo solidale». Ma, come Fini sa bene, non c’è possibilità di introdurre veri cambiamenti se non si fanno pagare, nel breve termine, costi assai alti a tutta quella parte del Sud (ma anche a qualche pezzo del Nord) che vive grazie a un pessimo uso del denaro pubblico. Si può invocare quanto si vuole la «solidarietà » ma non c’è verso di introdurre il federalismo senza che questo comporti dolorose riconversioni. Il che non può non implicare, sotto il profilo politico, almeno nel medio termine, la destabilizzazione di settori rilevanti delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Quel che si capisce è che Fini chiede, su federalismo e Sud, un compromesso.
Ma sta a lui e ai suoi, allora, dimostrare che un compromesso «virtuoso» è possibile, che evocare la solidarietà non sia solo un espediente per difendere l’esistente. Sta a lui, in sostanza, dimostrare che Futuro e Libertà, anche su questo terreno, è la destra moderna che egli ha evocato, e non l’ennesima variante di una qualsiasi «Lega Sud».

Angelo Panebianco

07 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_07/panebianco-destra-moderna-lega-sud_4e881f8a-ba3e-11df-a688-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #99 inserito:: Settembre 14, 2010, 08:06:09 am »

Gli occhi chiusi dell'Occidente


Nei nove anni trascorsi dall’11 settembre la sfida del radicalismo islamista non è stata sconfitta. È stata fatta solo una disperata, e costosissima, opera di contenimento. Ma la minaccia è sempre lì. Come lo è la volontà di ampia parte del mondo occidentale di non prendere atto della natura del problema. Consideriamo alcuni episodi recenti. Un pazzo esibizionista, Terry Jones, col suo sproposito, poi rientrato, di bruciare il Corano, non dovrebbe fare primavera ma centinaia di migliaia di persone che, in Afghanistan, in Kashmir (almeno 18 persone uccise) e in altri luoghi, fanno della minacciata azione del suddetto pazzo un pretesto per prendersela con i cristiani e l’intero mondo occidentale, fanno primavera, eccome. La «loro» malattia dovrebbe essere, ma non è, il nostro primo argomento di discussione. Oppure prendiamo il caso dei tanti occidentali che vivono sotto scorta perché, avendo manifestato idee contrarie all’Islam, sono minacciati di morte dai fondamentalisti. Non si sono mai visti in giro molti slanci di simpatia per queste persone né molto sdegno morale per la loro condizione. Si teme forse l’accusa di islamofobia? O, ancora, prendiamo il caso del banchiere Thilo Sarrazin. Ha scritto che non desidera vivere in una Germania islamizzata, popolata da islamici che neppure imparano il tedesco. È stato oggetto di linciaggio morale e di provvedimenti punitivi. Perché? Non ha diritto alle sue opinioni? E perché quelle opinioni vengono esorcizzate anziché discusse? Qualche risposta, nel caso dell’Europa, ce la dà il combinato disposto di flussi migratori e di tendenze demografiche. Le comunità islamiche sono in grande crescita. Già oggi l’Islam è qui la seconda religione. Inoltre, il differenziale demografico fra musulmani e non musulmani fa sì che entro pochi decenni, se il trend non si invertirà, la maggioranza dei giovani europei, dai vent’anni in giù, sarà di religione musulmana. Uno dei più prestigiosi missionari italiani, padre Piero Gheddo (come riporta Il Foglio, 10 settembre), parla, come già lo storico Bernard Lewis, di un’Europa alle soglie di un grande cambiamento, sul punto di essere fortemente condizionata, nelle sue leggi e nei suoi costumi, dalle pressioni di comunità islamiche in espansione. Il disagio suscitato dalla crescente presenza islamica spiega il montare di opposti eccessi nelle nostre società: un odio cieco e irragionevole per i musulmani in generale e, insieme, le timidezze, la voglia di fingere di non vedere le prepotenze dei fondamentalisti e il pericolo che rappresentano. La crescita della presenza islamica è un fatto irreversibile. Ma non è stata scritta la parola definitiva su quali rapporti si affermeranno fra musulmani e società europee. Nascerà, come si spera, un Islam «europeo», ove religione e piena accettazione dei princìpi occidentali di convivenza civile riusciranno a convivere? Oppure, prevarranno il rifiuto, la separazione e il conflitto? L’esito dipenderà, almeno in parte, dalle scelte degli europei: dalla loro capacità di valorizzare il ruolo dei leader non fondamentalisti, a scapito dei fondamentalisti, delle comunità musulmane, e dalle regole di convivenza che riusciranno a varare e a fare rispettare.

E dipenderà anche dal loro impegno nel fronteggiare la sfida militare del radicalismo islamico nei molti luoghi in cui si manifesta. Poiché si ha a che fare con un sistema di vasi comunicanti, se il radicalismo islamico dovesse collezionare sconfitte nei vari angoli del mondo, ciò avrebbe effetti positivi sugli orientamenti prevalenti nelle comunità musulmane europee (fra i giovani, soprattutto). Così come effetti di segno contrario, negativi, avrebbero le vittorie del radicalismo islamico. Bisognerebbe però sbarazzarsi della tesi minimalista che molti hanno adottato in Occidente (e che contribuisce a spiegare, ad esempio, il tiepido appoggio europeo all’impegno Nato in Afghanistan): la tesi secondo la quale una minaccia globale non esiste, essendo i vari conflitti in cui opera il radicalismo islamico figli solo di circostanze e situazioni locali. Per cui serie sconfitte occidentali in Afghanistan, in Medio Oriente o nel Corno d’Africa non avrebbero implicazioni altro che per l’Afghanistan, il Medio Oriente o il Corno d’Africa. Le cose non stanno così. Non c’è differenza fra quanto accade oggi e quanto è accaduto in altre vicende del passato, dalle lotte fra cattolici e protestanti nell’Europa del XVI secolo allo scontro globale fra comunisti e anticomunisti nel XX secolo. Quei conflitti traevano sempre nutrimento da circostanze locali fra loro diversissime, ma erano poi unificati da ideologie comuni e da solidarietà transnazionali che si concretizzavano in appoggi, finanziamenti, flussi di combattenti da un luogo all’altro. E dalla presenza di vaste reti di simpatizzanti. Non c’è incompatibilità, oggi come in passato, fra le ragioni locali dei vari conflitti e gli scopi sovrannazionali delle ideologie che li connettono. Un’Europa che trova comodo abbracciare la tesi minimalista non è, a sua volta, di grande aiuto per una America, già indebolita dalla crisi, guidata da un’Amministrazione che si mostra sempre più oscillante e incerta, priva di una salda strategia ai fini del contenimento dell’islamismo radicale. Eppure, almeno un’occasione per discutere seriamente di islam e Europa e delle complesse ramificazioni del problema, gli europei potrebbero ora coglierla. L’occasione dovrebbe essere rappresentata dai negoziati con la Turchia (dopo il referendum, vinto dal partito islamico al potere, sulle modifiche della Costituzione). La Turchia dei prossimi anni ci servirà forse a scoprire il grado di compatibilità fra liberaldemocrazia e islam. L’abbandono dei tratti più autoritari dell’eredità di Ataturk (il ridimensionamento del ruolo politico dei militari) aprirà la strada a una conciliazione piena fra islam e democrazia? O la democratizzazione sarà la levatrice di nuove forme di islamismo autoritario? Il test ci riguarda da vicino. Per l’importanza geopolitica della Turchia. Ma anche per ciò che potrà dirci sui futuri rapporti fra le democrazia europee e le comunità musulmane.

di Angelo Panebianco

14 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_14/panebianco_ochi_chiusi_occidente_143cd00c-bfbe-11df-8975-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #100 inserito:: Settembre 18, 2010, 09:42:04 am »

IL PD SULL’ORLO DELL’IMPLOSIONE

Un partito senza identità


Seguendo le sorti del Popolo della Libertà anche il Partito democratico è sull’orlo di una implosione? La mossa di Walter Veltroni, l’aggregazione di un «movimento» di contestazione della segreteria, non è solo un episodio dell’annoso duello fra Veltroni e Massimo D’Alema. La gravità delle condizioni in cui versa oggi il Pd è tale che difficilmente l’esito potrà essere qualcosa di diverso da una frattura irreversibile. La ragione di fondo è che il Pd è un partito di opposizione che non riesce a trarre profitto, in termini di consensi, dalle gravi difficoltà della maggioranza di governo.

E non può trarne profitto perché non è un corpo sano ma malato. C’è qualcosa di drammatico, e di rivelatore sia dei limiti delle classi politiche sia delle tendenze profonde del Paese, nel fatto che tutti i tentativi di costruire grandi forze «riformiste» falliscano in Italia. L’operazione non riuscì negli anni Sessanta dello scorso secolo con l’unificazione socialista. Poi non riuscì a Craxi. Infine, non è riuscita al Partito democratico. Per un verso, non c’è, e non c’è mai stata, per così dire già «preconfezionata», una domanda di riformismo sufficientemente forte e ampia nell’elettorato di sinistra.

Per un altro verso, ci sono limiti nella cultura politica delle classi dirigenti della sinistra che le hanno sempre rese incapaci di creare, con le loro azioni, le condizioni perché quella domanda crescesse e si diffondesse. Alla debolezza dal lato della domanda hanno sempre corrisposto la fragilità e l’incoerenza dal lato della offerta. Si guardi a cosa è successo dopo le elezioni. Mandato via Veltroni, il Pd non è stato più capace di trovare un baricentro politico. Alla più conclamata che praticata «vocazione maggioritaria » di Veltroni (che commise il fatale errore dell’alleanza con Di Pietro) si è sostituita una sorta di rassegnata presa d’atto del carattere irrimediabilmente minoritario del Pd. Da qui la ricerca di alleanze purchessia, l’oscillazione fra velleitari progetti di Union sacrée contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici (alleiamoci con i centristi di Casini, magari offrendo loro anche la presidenza del Consiglio) e fumosi slogan (il nuovo Ulivo).

Risultato: il Pd è oggi un partito senza identità, alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola. Anziché elaborare proposte, costruirvi sopra una identità chiara, e solo dopo tessere le alleanze in funzione delle proposte e dell’identità, il Pd è partito dalla coda, dalle alleanze. Impantanandosi, non riuscendo a stabilire un rapporto forte con l’opinione pubblica. Dirlo è un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma è un fatto che nulla può dare il senso della crisi di un partito di opposizione più della sua paura di nuove elezioni. Si spezza il rapporto fra Berlusconi e Fini? La maggioranza è a rischio? Che altro dovrebbe allora fare il maggior partito di opposizione se non chiedere, a gran voce, elezioni immediate? E invece no. Per paura delle elezioni si trincera dietro il pretesto della urgenza di una riforma elettorale (dimenticandosi di spiegare perché, se era così urgente, non la fece quando aveva la maggioranza, all’epoca dell’ultimo governo Prodi). È un vero peccato. La democrazia italiana avrebbe bisogno di un solido partito di sinistra riformista, sicuro di sé, delle proprie ragioni, della propria identità. Ma non è questo oggi l’identikit del Partito democratico.

Angelo Panebianco

18 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_18/un-partito-senza-identita-angelo-panebianco_d395f316-c2e3-11df-824c-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #101 inserito:: Settembre 27, 2010, 09:41:50 am »

TROPPE FAZIONI, NESSUNA CHIAREZZA

Dalla parte di un elettore

Con la verifica parlamentare del 29 settembre il governo cadrà oppure sopravviverà senza che gli italiani che non siano addetti ai lavori abbiano avuto la possibilità di capire le autentiche ragioni della crisi politica in atto. E' difficile che gli elettori del centrodestra, questioni di case a parte, abbiano davvero compreso quali siano i motivi della rottura fra Berlusconi e Fini. Così come, d'altra parte, è improbabile che gli elettori del centrosinistra siano stati in grado di spiegarsi i perché dello scontro (poi provvisoriamente rientrato) fra Veltroni e Bersani.

Nei primi anni Settanta, ai tempi della Dc, la politica italiana era giudicata incomprensibile dall'allora segretario di Stato americano Henry Kissinger. Lo era anche per tanti italiani. E le cose non sono molto cambiate. Perché la politica italiana è così poco trasparente per gli elettori? Perché, in democrazia, il grado di trasparenza, di comprensibilità della politica, è inversamente proporzionale al numero di fazioni presenti nell'arena. Nei casi (storicamente rari) dei sistemi bipartitici, la politica è una attività relativamente trasparente: ci sono due sole fazioni in gara per la conquista del governo e gli elettori sanno, almeno per grandi linee, che cosa comporti la vittoria dell'una o dell'altra.

Nei sistemi multipartitici, per contro, la politica è un gioco più complicato, più difficile da decifrare. Ma ci sono gradazioni. Più il sistema multipartitico è frammentato (più alto è il numero di fazioni) meno ci si capisce. Sul numero delle fazioni incidono molte cose ma la più importante è il sistema costituzionale. Molto dipende dal grado di dispersione o di concentrazione del potere che le istituzioni democratiche favoriscono. Dove il potere è più concentrato (nelle mani di un premier come in Gran Bretagna o di un Presidente come in Francia) e il governo è il vero «comitato direttivo» del Parlamento, la frammentazione è contenuta. In questo caso, non c'è solo più efficienza nell'azione dell'esecutivo, c'è anche maggiore capacità degli elettori di comprendere cosa stia bollendo nella pentola della politica.

Il nostro è sempre stato un sistema democratico con tante fazioni e tanti poteri di veto sulle azioni dei governi. A causa delle circostanze storiche in cui esso nacque, perfettamente rispecchiate in un testo costituzionale che non contiene antidoti contro la frammentazione. Quando, nei primi anni Novanta, crollò il sistema partitico sorto con le elezioni del '48, si aprì una finestra di opportunità: iniziarono gli sforzi per passare da un sistema politico ad alta diffusione del potere ad un altro ove il potere fosse più concentrato. Il cambiamento della legge elettorale, l'adozione di un sistema maggioritario imperfetto, fu il primo passo in quella direzione. Il secondo passo fu la scelta dell'elezione diretta di sindaci e presidenti di regione e di provincia. Poi il cammino si interruppe. Non ci fu mai quella riforma della Costituzione che avrebbe dovuto coronare e stabilizzare per sempre il passaggio da un sistema democratico frammentato, con poteri dispersi, ad uno più coeso.

L'ingresso in politica di Silvio Berlusconi diede ad alcuni la speranza, e ad altri il timore, che quella concentrazione del potere che era impossibile attraverso una revisione costituzionale lo fosse per via politica. Berlusconi, dividendo il Paese in due, e utilizzando risorse extraistituzionali (carisma, ricchezza personale, televisioni), diede la falsa impressione che un processo irreversibile di ricomposizione fosse in atto. Ma era solo apparenza, un'illusione. Che si dissolverà del tutto quando Berlusconi uscirà di scena. La frammentazione non è scomparsa e, con essa, e grazie ad essa, nemmeno la scarsa comprensibilità della politica italiana.

D'altra parte, la dispersione del potere avvantaggia molti. Dove esistono tante fazioni e tanti poteri di veto, ogni detentore di rendite piccole o grandi sa di essere più protetto contro l'azione del governo. C'è sempre qualcuno, qualche fazione, a cui ci si può rivolgere per bloccare decisioni sgradite. La frammentazione rende la politica debole, tutela e garantisce lo status quo, rende difficili i cambiamenti che potrebbero fare bene al Paese ma male a certi interessi costituiti. Chi preferisce, e in questo Paese sono in tanti, un'eccessiva dispersione del potere, attribuendole virtù che non possiede, scambiandola per la variante italiana del meccanismo democratico dei pesi e contrappesi, ha il diritto di farlo. Ma non ha il diritto di lamentarsi se poi la politica risulta incomprensibile.

Angelo Panebianco

27 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_settembre_27/panebianco-dalla-parte-elettore_a11a1506-c9f6-11df-9db5-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #102 inserito:: Ottobre 04, 2010, 12:08:44 pm »

LA MAGGIORANZA E LA RIFORMA GELMINI

L’universita’ dimenticata

Il governo e la sua maggioranza, o ciò che ne resta, accumulano autogol. Non sono bastati la disastrosa gestione del conflitto fra Berlusconi e Fini e il suo impatto negativo, registrato dai sondaggi, sui consensi al governo. Adesso, la maggioranza è anche decisa a giocarsi credibilità e aperture di credito faticosamente ottenute, grazie al lavoro dei ministri migliori, presso settori qualificati dell’opinione pubblica. Mi riferisco al probabile affossamento della riforma universitaria. La riforma era in dirittura di arrivo (l’inizio della discussione alla Camera era prevista per il 4 ottobre). I capigruppo hanno deciso il rinvio al 14 ottobre.

Dieci giorni soltanto ma sufficienti per affossare il provvedimento. Infatti, il 15 ottobre comincia la sezione di bilancio e la discussione dovrà essere subito sospesa per almeno un mese. Non solo la riforma non arriverà in porto prima dell’inizio dell’anno accademico. Ma, probabilmente, a causa dei vincoli dei calendari parlamentari e delle risse nella maggioranza, finirà per slittare sine die (si veda la puntuale ricostruzione fatta oggi, su questo giornale, da Lorenzo Salvia). Con le probabili elezioni a primavera che ormai incombono, se ne riparlerà nella prossima legislatura.

La riforma del ministro Mariastella Gelmini è un ambizioso tentativo di ridare slancio all’istruzione superiore. Non è perfetta. Ci sono anche cose che non convincono. Ma è sicuramente il frutto di uno sforzo encomiabile di affrontare di petto i problemi dell’Università. Chi la rifiuta in blocco lo fa per faziosità ideologica oppure perché appartiene ai settori più conservatori del mondo universitario. Molti, però, fra gli universitari, si rendono conto che il provvedimento è indispensabile. I rettori più consapevoli della necessità della riforma e anche tanti professori la aspettano con più fiducia che apprensione. Ed è un merito della Gelmini e del suo lavoro. Anche gli imprenditori attendono il provvedimento essendo chiaro che miglioramenti sensibili del capitale umano (della preparazione dei nostri laureati) saranno necessari, nei prossimi anni, all’economia italiana. Il varo della riforma era insomma un test atteso da m o l t i p e r v a l u t a r e l’affidabilità dell’esecutivo.

Che fanno allora il governo (il «governo del fare» come piace definirlo al presidente del Consiglio) e la sua maggioranza? Rinviano la riforma e ne mettono a rischio l’attuazione. Mandano un altro pessimo segnale al Paese e mettono in difficoltà quei rettori che avevano dato fiducia alla Gelmini. Sembra difficile attribuire queste scelte sciagurate ad altro se non a una grave forma dimiopia politica. Varare una così importante riforma significherebbe dire al Paese: è vero, siamo immersi in risse continue, ma sappiamo anche, su questioni concrete come il destino dell’istruzione superiore, portare a termine i nostri progetti. Forse, ai capigruppo di maggioranza converrebbe ripensarci. Cosa resterà altrimenti? Solo la rissa quotidiana e la prospettiva, che non dovrebbe essere allettante per la maggioranza, di uscirne alla fine con le ossa rotte.

Angelo Panebianco

04 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_04/universita-dimenticata-editoriale-panebianco_d14d9270-cf73-11df-8a5d-00144f02aabe.shtml
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« Risposta #103 inserito:: Ottobre 23, 2010, 06:30:49 pm »

Il commento

Musulmani d'Europa


La dichiarazione del cancelliere Angela Merkel («il multiculturalismo è fallito») è stata interpretata da tutti come una constatazione di fatto sugli errori della politica dell'immigrazione tedesca degli ultimi decenni ma anche come il segnale di una svolta imminente. Anche in Germania, come in tutto il resto dell'Europa, la questione degli immigrati è ora un problema politico di prima grandezza: dare risposte incoerenti con le domande dell'opinione pubblica può significare perdere le elezioni. È la nuova grande questione che divide, e dividerà a lungo, le democrazie europee e che va ad aggiungersi alle più tradizionali divisioni sui temi economici.

Partiti anti-immigrati sorgono come funghi e fanno pienoni elettorali in tanti Paesi europei. Dove questo non accade è solo perché i partiti più tradizionali, già insediati, hanno indurito per tempo il loro approccio all'immigrazione. Due giorni fa, il Sole 24 Ore ha pubblicato un'utile inchiesta sulle politiche europee dell'immigrazione mostrando un quadro assai differenziato. Si va dai Paesi fino ad oggi più accoglienti, come la Svezia o l'Olanda (che però stanno sperimentando forti rivolte anti-immigrati) a quelli più chiusi come la Grecia. Ma non è difficile immaginare che le varie democrazie europee, adattandosi alle domande delle loro opinioni pubbliche, col tempo finiscano tutte per convergere su politiche selettive, che mettano più filtri, e più rigorosi, di quelli utilizzati nel recente passato.

C'è la reazione delle opinioni pubbliche ma c'è anche un'incertezza obiettiva su come fronteggiare il problema. Nessuna delle due strade fin qui adottate, quella originariamente francese dell'assimilazionismo (chi arriva deve spogliarsi della precedente identità per abbracciare identità e cultura del Paese ospitante) e quella, originariamente anglosassone, del multiculturalismo, sembra funzionare. Il multiculturalismo, soprattutto, ben prima che lo riconoscesse la Merkel, appariva più un sogno da idealisti che una politica realisticamente praticabile. Il multiculturalismo prevede infatti che le varie culture presenti sul territorio vengano preservate, anche con leggi apposite, e che le diverse comunità culturali si autogovernino per tutti gli aspetti che riguardano la tutela della propria identità. Una società multiculturale è una società segmentata, divisa in tante comunità culturali che, si suppone, non sentendosi minacciate nelle proprie tradizioni, siano in grado di coesistere pacificamente. Ma il punto è che una società siffatta è difficilmente compatibile con la democrazia. Salvo specialissime eccezioni, può essere tenuta insieme solo con un alto grado di coercizione, in modo non democratico. Per questo, il multiculturalismo non è una politica adatta per le democrazie europee. Gran Bretagna, Olanda, Germania avevano scelto quella strada e ne hanno verificato l'impraticabilità.
Ma se la via francese (l'assimilazionismo) è difficilissima e quella multiculturale impraticabile, che fare allora? Assistere passivamente al montare dei conflitti?

Il problema della maggiore o minore capacità di convivenza con la nuova immigrazione dipende non da uno ma da un insieme di fattori: la qualità e il rigore dei filtri predisposti (le politiche dell'immigrazione in senso stretto), i cicli economici, la capacità di offrire servizi agli immigrati che lavorano, la capacità di reprimere i comportamenti illegali, eccetera. Ma dipende anche dalle tradizioni di provenienza e appartenenza degli immigrati. È inutile girarci intorno. Ci sono immigrati che, per la tradizione di provenienza, possono trovare un loro ruolo nei Paesi ospitanti (e col tempo, potranno forse anche essere assimilati nel senso francese del termine. E, se non loro, i loro figli) con relativa facilità. Episodi di intolleranza, anche gravi, ci sono e ci saranno. Ma nel complesso, molti immigrati, soprattutto dell'Est europeo, riusciranno ad inserirsi con successo nelle società europeo-occidentali.
C'è però il caso dell'islam. Non è casuale che proprio ai musulmani (e non agli altri immigrati) si faccia sempre riferimento quando si constata il fallimento del multiculturalismo. Ciò che ovunque in Europa si teme è che una crescita eccessiva delle comunità musulmane, grazie anche al differenziale demografico, finisca per imporre le trasformazioni più forti nelle regole di convivenza delle società europee. La domanda di cui nessuno conosce la risposta è la seguente: cosa può succedere quando due grandi civiltà, altrettanto forti e orgogliose, come quella europea-cristiana (oggi anche liberale e democratica) e quella islamica, che si ispirano a principi e norme antitetiche, e che, anche per questo, si sono aspramente combattute attraverso i secoli, si trovano a condividere lo stesso territorio e lo stesso spazio politico? La risposta dipenderà in parte da noi europei, dagli atteggiamenti che assumeremo e dalle politiche che adotteremo. Ma, in larga parte dipenderà anche dalla evoluzione del mondo islamico. Se il ciclo fondamentalista (connesso al cosiddetto «risveglio islamico») che ha investito l'islam mondiale negli ultimi decenni non si esaurirà presto, dovremo attenderci aspri conflitti e fortissime tensioni anche in Europa (altro che pacifica convivenza multiculturale). Se invece quel ciclo, raggiunto un picco e punte di massima espansione, andrà ad esaurirsi, come è possibile che prima o poi accada, allora nasceranno forse esperimenti inediti e interessanti: la democrazia potrà misurare il proprio successo anche sulla sua capacità di favorire la piena adesione dei musulmani immigrati alle regole della società aperta e libera. Oggi ciò non appare probabile. Ma è lecito, per lo meno, sperarlo.

ANGELO PANEBIANCO

21 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #104 inserito:: Ottobre 26, 2010, 06:50:49 pm »

IL COMMENTO

Classe (per nulla) dirigente


Rivolte urbane, guerriglie notturne, sindaci alla mercé delle piazze. Di nuovo la Campania. Di nuovo l'immondizia. Governo, Regione, Napoli, si palleggiano le colpe e magari è vero che le responsabilità sono di tutti. Ma resta che la Campania non si sa tirare fuori da una situazione che, come ha scritto accoratamente Giuseppe Galasso su questo giornale (il 24 ottobre) umilia l'Italia intera. Il vero dramma del Mezzogiorno non consiste nei gravissimi problemi che lo attanagliano. Consiste nel fatto che le sue classi dirigenti (politici, imprenditori, professionisti, intellettuali) siano incapaci di cercare soluzioni e rimedi. Nel politichese di alcuni anni fa si sarebbero dette prive di «progettualità», fallite. Non perdono un colpo quando si tratta di accusare Roma, lo Stato, di avere «abbandonato il Sud»: un'espressione che testimonia di uno stato di minorità, psicologica e culturale (sono i minori quelli che non si possono abbandonare). Ma ne perdono tanti quando si tratta di lavorare per cambiare le cose.

Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia constatiamo che l'unità scricchiola, che si sentono rumori sinistri. Se non ci saranno novità la democrazia, così come funziona nel Mezzogiorno, e l'unità del Paese potrebbero presto entrare in rotta di collisione. L'esperienza storica ci dice che, spesso, la democrazia è un'ottima cura per molti mali: col tempo, fa fiorire una società civile basata sulla cooperazione e la fiducia, fa crescere il capitale umano e sociale, promuove lo sviluppo. Ma non ovunque. Di certo, sessant'anni di democrazia non hanno portato quei doni al Mezzogiorno. La democrazia è servita al Sud, più che per curarsi degli antichi vizi, per accrescere il proprio potere contrattuale nei confronti dello Stato e delle regioni più sviluppate.

Senza il Sud non si vincono le elezioni nazionali e questo dà a chi difende il Mezzogiorno così come è oggi una fondamentale arma di ricatto nei confronti di qualunque coalizione politica nazionale, di destra o di sinistra che sia. Le voglio proprio vedere, ad esempio, certe Regioni del Sud (quelle con i peggiori disastri nella Sanità) accettare senza fiatare il passaggio dalla spesa storica ai costi standard come prevede il progetto del federalismo fiscale, ben sapendo che ciò comporterebbe una drastica contrazione di risorse e l'obbligo di porre fine a sprechi e a parassitismo.

È in questo senso che unità del Paese e democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili. Non si può avere una questione meridionale perenne: alla lunga, si finisce per disfare ciò che il Risorgimento ha creato.

L'aspetto più grave non sta nella protervia dei maneggioni ma nei pensieri e nelle parole di tante persone per bene. Chiunque scriva di Mezzogiorno sa di cosa parlo. Quando si toccano questi argomenti si ricevono tanti messaggi dal Sud, spesso di professionisti o di insegnanti. Persone istruite, che fanno opinione nei rispettivi ambienti. Persone capaci di fare l'apologia del regno borbonico, di trattare Cavour e Garibaldi come criminali di guerra, di liquidare la storia dell'Italia unita come il frutto di un'odiosa colonizzazione. Questa forma di autoassoluzione, condita di leggende nere sull'unità d'Italia è, da sempre, la maledizione del Sud. Se non se ne libererà non cambierà mai nulla. E dei «doni» della democrazia resterà solo una capacità di ricatto sempre meno sopportata dal resto del Paese.

Angelo Panebianco

26 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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