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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144696 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 10, 2009, 03:34:48 pm »

Intervista all'ex segretario dell'udc: «archiviare ogni radicalismo»

«Persi 7 punti, no a reazioni consolatorie Intesa con Casini prima che torni col Pdl»

Follini: «Bisogna scendere dal trattore Di Pietro. Se sarà un revival della sinistra i cattolici cambieranno rotta»
 

Senatore Follini, condivide la reazione unanime del suo partito al voto, definito «rassicurante»?
«No. Sento reazioni assolutamente consolatorie. Abbiamo perso 7 punti, 4 milioni e rotti di voti, un impressionante numero di bandierine locali; eppure ascolto un parco analisi troppo indulgente. Vengo dalla scuola di una volta, in cui l'analisi del voto era un rito penitenziale. Scrupoloso e coscienzioso. Vedo che ora è diventata la prosecuzione della campagna elettorale con altre parole, appena più sobrie. Diciamo invece le cose come stanno».

Diciamole.
«Berlusconi ha perso. Non è la fine, ma forse è l'inizio della fine. Nel suo tessuto di consenso si è aperta per la prima volta una smagliatura. Berlusconi ha chiamato un referendum su di sé, tecnica per lui collaudata, e l'ha perduto: il suo elettorato non ha risposto alla chiamata alle armi. E' la prima volta che il premier vistosamente sbaglia l'interpretazione politica del paese».

Il Pd l'ha indovinata?
«No. Nel momento in cui si apre una fenditura tra Berlusconi e una parte del suo popolo, il Pd dovrebbe essere affacciato sul confine, capace di argomenti e parole convincenti per quell'elettorato lì, che comincia a essere un po' smarrito. Ovvio che se invece si fa il canonico partito della sinistra italiana quell'elettorato non riusciremo mai a portarlo dalla nostra parte».

Cosa dovrebbe fare invece il Pd?
«Archiviare l'antiberlusconismo e ogni altra forma di radicalismo. Scendere dal trattore di Di Pietro, il nostro pifferaio di Hamelin che ci porta ad annegare. Realizzare che, ogni volta che si scava un fossato più profondo con l'altra metà del campo, in quel fossato siamo noi che ci impantaniamo. Non riprendere il risiko delle alleanze a sinistra, che non ci porterebbe da nessuna parte».

Dopo l'addio di Veltroni, lei disse al Corriere che, se il Pd non avesse avuto uno scatto, i cattolici avrebbero dovuto dar vita a un altro partito. E' ancora di questa idea?
«Se passa la linea del socialismo europeo, se il Pd diventa la quarta edizione del Pci, è chiaro che il percorso dei cattolici dovrà essere un altro. Siamo ancora in tempo a cambiare rotta, a fare del Pd un ragionevole punto d'equilibrio, e un interlocutore per chi non ci ha votato finora. Ma dobbiamo guardare oltre il cortile. Compiacerci e chiuderci in difesa della roccaforte del 26,1% significa certificare un ruolo minoritario».

Alle primarie si profila un confronto tra Franceschini e Bersani. Lei con chi sta?
«Sono spettatore interessato. Ma sull'idea del partito dico la mia. Non intendo partecipare né a un revival della sinistra, né un'infatuazione serracchiana».

Franceschini almeno le è piaciuto?
«Ha dovuto risalire una china molto ripida e scivolosa. Ho rispetto per le difficoltà che ha incontrato. Vedo però un'eccessiva preoccupazione di coltivare il nostro orticello, anziché cominciare a seminare nell'orto degli altri».

Ma al congresso di ottobre lei cosa farà?
«Sosterrei solo chi fosse interprete di un cambiamento di rotta. Se la rotta restasse questa, farei fatica ad applaudire».

Pare una chiamata in campo per Enrico Letta.
«Mi auguro che Letta in campo lo sia già».

Come vede il «partito della nazione» di Casini?
«Casini ha aumentato i suoi voti ed è per noi un interlocutore prezioso: oggi con l'Udc, domani con il partito che farà. Mi auguro solo che non si chiami "partito della nazione", che è una buona intenzione ma un ossimoro politico. La nazione è una, il partito è parte per definizione».

Potrebbe essere più generoso con un vecchio amico.
«Guardi che sto parafrasando Sturzo, che per lo stesso motivo negava potesse esistere un partito della Chiesa, per definizione una e universale».

E se fosse Berlusconi a dialogare con Casini?
«Finora ha fatto di tutto per tenerlo fuori. Se si ravvederà al punto da cambiare politica, noi dobbiamo ravvederci prima e meglio di lui».

Cosa le fa credere che per Berlusconi possa essere l'inizio della fine?
«E' stato lui stesso a mettere il suo privato e la sua persona al centro dello spazio pubblico. Così si è reso diverso dagli altri e molto più affascinante, ma anche più vulnerabile. Oggi, per contrappasso, questo diventa il suo limite. Quanto accadrà ora, dipende da lui. Se dovesse ricorrere alla tecnica di dare fuoco alle polveri, la fine potrebbe essere drammatica. Se riuscisse a rilanciare l'azione di governo, lo scenario sarebbe ben diverso. In ogni caso, il Pd deve prepararsi. Vale a dire cambiare, e profondamente».


Aldo Cazzullo
10 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Giugno 16, 2009, 04:22:53 pm »

In uscita «Non sarò Clemente», il libro del leader dell'Udeur

Mastella: «Dissi no ai "Dico", mi chiamò il Papa, pensai a uno scherzo»

Le memorie dell'ex ministro: «Berlusconi preferiva Casini a me. Pier Ferdinando rideva a ogni sua battuta»


«Vaso di coccio tra vasi di ferro»: così si descrive Clemente Mastella. Stanco di esse­re additato come il simbolo di una politica deteriore, il neoeletto del Pdl ha scritto le sue memorie, Non sarò Clemente (in uscita da Rizzoli). Una galleria di ritratti, magi­stralmente messi in fila dal coautore Marco Demarco. Da Moro a D’Alema, da De Mita a Berlusconi. Compreso Ratzinger, che rega­la a Mastella la soddisfazione più grande: «Mi schierai per il no ai Dico, le unioni tra omosessuali. Prodi arrivò a minacciare con­seguenze sulla mia permanenza al gover­no: 'O firmi anche tu per i Dico, o te ne vai'. Tenni duro. E un giorno mi arrivò una telefonata dal Vaticano. Mi passarono la se­greteria del Santo Padre. Subodorai uno scherzo, e quando sentii quella voce dall’ac­cento teutonico pensai a Fiorello. Ma poi mi convinsi che era davvero il Papa. Voleva esprimermi il suo apprezzamento per la mia posizione».

Con il Cavaliere la prima volta fu nell’87, in piazza del Gesù: «La Dc chiamò proprio lui a occuparsi, insieme con altri, della pro­paganda. Ci riunimmo in tre: De Mita, Ber­lusconi e io». Ma i consigli del re delle tv non persuadono il segretario: «Cleme’, ma chi mi hai portato?». Sette anni dopo, nel ’94, è Mastella ad andare ad Arcore, con Ca­sini: «L’unico che rideva a tutte le barzellet­te di Berlusconi. A me, ma anche a D’Ono­frio e a Confalonieri, capita di apprezzarne al massimo tre o quattro a serata; lui no, Berlusconi raccontava e il bel Pier riusciva a ridere disinvoltamente dieci volte su die­ci. Comunque sia, andammo ad Arcore. Da Linate, centomila lire di taxi. Vista la nota riluttanza di Casini per i conti da saldare, pagai io, naturalmente...». Berlusconi non voleva Mastella ministro. «Fu Bossi a insi­stere. Fece questo ragionamento: noi sia­mo un governo di centrodestra, il sindaca­to si scatenerà; meglio affidare il ministero del Lavoro a un ex democristiano».

De Mita fu un padre padrone: «Ero il por­tavoce, ma in tv doveva apparire solo lui. Durante le direzioni Dc, quando arrivavano le telecamere dovevo abbassarmi o nascon­dermi dietro le scrivanie per non farmi ri­prendere. Una volta citai Claudio Baglioni in un discorso del segretario sugli anziani: 'I vecchi sulle panchine dei giardini/ suc­chiano fili d’aria a un vento di ricordi...'. De Mita mi chiese se ero impazzito. Lui, per alleggerire i discorsi, al massimo citava Bu­nuel». Cossiga? «Il più intelligente dei de­mocristiani, colto quasi al pari di Moro, di cui però non aveva la sensibilità e la capaci­tà di comprendere lo spirito dei tempi». Ga­va? «Si faceva baciare l’anello e riceveva av­volto nella nuvola di fumo del suo sigaro. Ma oggi l’erede del laurismo è Bassolino». Pannella? «Mi querelò perché dissi in tv che gozzovigliava nei villaggi vacanze du­rante il suo sciopero della fame in Africa; ma avevo un testimone, il direttore del vil­laggio». Andreotti? «Il migliore dei media­tori tra i cittadini e lo Stato. Casini e io fum­mo i soli ad assistere alla prima udienza del processo di Palermo. La sera, in albergo, stavamo per decidere di rinunciare. Telefo­nai a Sandra. Mi disse: 'Passami Pier'. Po­chi minuti e Casini cambiò idea: 'Sandra ha ragione, non possiamo più tirarci indie­tro' ».

Sulla sua vicenda giudiziaria e sulla cadu­ta di Prodi, Mastella ripete quanto raccontò un anno fa al Corriere: «Feci come il casto­ro citato da Gramsci. Un tempo il castoro era molto ricercato dai cacciatori, perché dai suoi testicoli si ricavava una sostanza ritenuta miracolosa. Così, quando si senti­va braccato, se li strappava e li gettava ai cacciatori, per aver salva la vita. Anch’io, braccato, mi sono tagliato i testicoli; e ho lasciato il ministero della Giustizia». La tesi di Mastella è che su di lui, cerniera tra i due schieramenti e anello debole dell’Unione, si sia concentrata ogni sorta di malevolen­za, a cominciare da quella dei magistrati ­punta di lancia De Magistris, regista Di Pie­tro - contrari alla sua riforma della giusti­zia. L’ex ministro spiega con la teoria della persecuzione anche le foto che lo ritraeva­no a bordo dell’aereo di Stato, diretto verso il Gran Premio di Monza: «L’aereo era lì per il vicepresidente del Consiglio. Ma Rutelli nelle foto non c’era. C’ero solo io, con mio figlio». Quanto a Prodi, «da presidente del­­l’Iri fu interrogato da Di Pietro: probabil­mente da lì è nata quella soggezione nei confronti dell’ex pm; una soggezione visibi­le a ogni occasione, a ogni riunione del con­siglio dei ministri». A volere Prodi all’Iri, scrive Mastella, era stato De Mita, «che ben presto cominciò a diffidare di lui. Romano, così almeno mi diceva, gli sembrava più di­sponibile alle sollecitazioni di Craxi e di An­dreotti che alle sue. E’ probabile che Prodi abbia trasferito su di me la sua speculare sfiducia nei confronti di De Mita».

Il periodo nel centrosinistra è il più bur­rascoso. Da D’Alema che lo convoca a Palaz­zo Chigi - «Clemente, qui gira la notizia di una banca americana che avrebbe messo sul tuo conto cinquanta milioni di euro» ­alla tormentata partecipazione alle prima­rie dell’Ulivo: «Gli elettori si muovevano in gruppo, spesso spostandosi su piccoli bus. Saltavano da paese a paese, da quartiere a quartiere, e ogni volta votavano. Ci credo che i registri con gli elenchi non sono mai saltati fuori». Ma sono mille le storie di un personaggio che conquista Moro spedendo la prima confezione di quei dolcetti ormai noti come «mastellini», arriva vergine a 28 anni ma al referendum sul divorzio tradi­sce le consegne della Chiesa e si astiene, battezza di persona con la saliva il figlio Pel­legrino che pare in punto di morte per la febbre altissima, riceve i clientes di Ceppa­loni anche all’alba, si tormenta consultan­do i blog «dementemastella», «mastellatio­dio », «mastellacadente» e «mastellainpa­stella », respinge «una giornalista famosa che tentò di sedurmi e poi andò a dire in giro che ero gay», porta per la prima volta Baudo, Elisabetta Gardini ed Enrica Bonac­corti ai congressi Dc, rivendica di aver avu­to un ruolo nell’elezione di Cossiga al Quiri­nale («nel voto preliminare dei parlamenta­ri Dc ebbe il 60% dei voti, ma io diedi la no­tizia che aveva avuto l’80») e nell’assunzio­ne di David Sassoli in Rai, di essersi occupa­to di Cocciolone abbattuto in Iraq, di aver fatto votare per una volta Dc la Carrà «co­munista da sempre»...


Aldo Cazzullo
16 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Giugno 23, 2009, 10:08:56 am »

I RISULTATI DEI BALLOTTAGGI

Franceschini in campo «Il Pd è salvo. Comincia un percorso»

Oggi la candidatura: punterò sui giovani


ROMA—«Questo è solo l’inizio. Ricordiamoci qual era il mandato che ho ricevuto a febbraio: salvare il partito, evitare la disgregazione. E cominciare un percorso. Eccoci qui: il partito è salvo, ed è ancora in grado di vincere. Ora il percorso deve continuare. Comincia una nuova stagione».

Ormai pareva un segreto di Pulcinella, ma ancora ieri mattina Dario Franceschini metteva le mani avanti: «Non ho ancora deciso se candidarmi alle primarie del Pd. Dipende anche dal risultato dei ballottaggi ». E a chi annotava che la bassa affluenza lasciava prevedere un successo del centrosinistra, rispondeva: «E chi lo dice? Qualcuno sa chi sono quelli che non vanno a votare? Aspettiamo. Vediamo se la drammatizzazione di Berlusconi ha funzionato o no. Tentiamo di capire se l’inversione di tendenza a nostro favore è possibile».

Quando, la sera, si profilano vittorie per il centrosinistra quasi dappertutto e la sconfitta (ma solo dopo un testa a testa) a Milano, Franceschini ormai ha deciso. Non dà l’annuncio: quello lo riserva per oggi. Ma dietro le quinte il leader «provvisorio» parla ormai da candidato alla riconferma con un forte vento favorevole. «Dal voto è venuta una chiara richiesta di cambiamento, di rinnovamento anche dentro il nostro partito — ragiona lontano dalle telecamere —. Pensiamo solo alle preferenze per le Europee. Tutti parlano della Serracchiani, e giustamente, perché ormai Debora è diventata un simbolo. Ma pochi parlano di Francesca Barracciu, che in Sardegna ha preso 116 mila voti di preferenza su 170 mila voti di lista. David Sassoli ha superato i 400 mila voti nel Centro, Rita Borsellino ne ha presi 200 mila in Sicilia, il sindaco di Gela Crocetta è arrivato a 140 mila…». Nomi che Franceschini non ascrive automaticamente alla sua parte: «Non sono personalità calate dall’alto, sono state scelte dagli elettori»; ma non c’è dubbio che, avendoli voluti in testa alle liste, intenda cogliere «la richiesta di rinnovamento che viene dalla nostra base» e farne un’arma nella campagna per le primarie. «Nuova stagione» e volti nuovi.

Il confronto, ragiona Franceschini, va fatto con cinque mesi fa, quando gli fu affidato un partito a pezzi. «Oggi il Pd si è dimostrato vitale, in grado di tornare a vincere, di raccogliere il voto della maggioranza degli italiani». E il raffronto, prosegue il segretario, va fatto anche con quindici giorni fa. «Andate a rileggervi i giornali del 5 giugno. Parlavano di un Pdl al 45%, pronto a conquistare tutte le grandi città. Invece ai ballottaggi è battuto quasi dappertutto. Non mi illudo certo che la destra sia sconfitta definitivamente. Ma certo la luna di miele è finita. Il primo anno di solito è il momento di massimo consenso dei governi; a un anno dall’insediamento, l’elettorato dà chiari segni di disaffezione verso il governo Berlusconi. Sia con il voto sia con l’astensione; in parte fisiologica, in parte da interpretare come un segno di distacco dal capo. Certo, anche in seguito alle vicende di questi giorni. Comincia il declino del Cavaliere».

Qualcuno, non solo a destra (ad esempio il direttore del Riformista Antonio Polito), ha rimproverato a Franceschini una campagna un po’ troppo radicale: partito con un «tra moglie e marito non mettere il dito », è arrivato a un «affidereste i vostri figli a Berlusconi?». Una critica che il segretario Pd rigetta: «La chiave della mia campagna è stata un’altra domanda: "Volete risvegliarvi in un Paese con un padrone assoluto?". Questo sarebbe successo, se Berlusconi avesse superato il 40% e il Pd avesse perso tutte le città. Non è accaduta né una cosa né l’altra».

E’ qui, sostiene Franceschini, il bilancio di questi cinque mesi di segreteria: «Ho cominciato con un Pd diviso e con un Berlusconi arrembante che annunciava scissioni nelle nostre fila, facendo pure i nomi; e ora il quadro è rovesciato. Loro sono in difficoltà, noi siamo uniti. Stravinciamo in tutto il centro, compresa Ferrara, casa mia. Al Nord teniamo Torino e Padova, e a Milano recuperiamo 10 punti. Al Sud vinciamo in tutte le città principali: Bari, Cosenza, Potenza».

La campagna per le primarie, dice il segretario, non deve riportare il Pd all’indietro, ai giorni delle risse e delle rivalità personali: «Gli elettori non ce lo perdonerebbero». Franceschini vuole evitare spaccature e polemiche personali. Per fortuna, fa notare, non ci saranno Ds contro Margherita, visto che il cattolico Dario avrà come primo sostenitore l’ex diessino Veltroni, mentre l’altro cattolico Enrico Letta si è già schierato con Bersani. Si aprirà una fase nuova, in cui si dovrà da una parte rinnovare il gruppo dirigente del partito, dall’altro elaborare una strategia per tornare a governare. A chi gli chiede se questa legislatura arriverà alla fine, Franceschini risponde di non avere fretta: «L’imprevisto non è prevedibile. Dobbiamo prepararci a vincere le prossime elezioni politiche quando saranno; ragionando come se Berlusconi durasse quattro anni». Il lavoro del segretario è solo all’inizio: «Ora comincia un altro tipo di lavoro. Allargare, espandere, trattare alleanze ». Il risultato dell’accordo elettorale con l’Udc, nota Franceschini, è ottimo: «Il Pd insieme con Casini vince a Torino, Bari, Brindisi e pure Alessandria, che pareva un’impresa impossibile. Si tratta di costruire un’alternativa a Berlusconi ». Cominciando dal rinnovamento del Pd: un partito da aprire ai giovani e ai nomi già noti ma appena arrivati in politica.

Aldo Cazzullo
23 giugno 2009

da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Giugno 27, 2009, 07:30:07 pm »

L’intervista: «.Lui il più adatto a guidare un partito alternativo alla destra»

Bindi: «Sostengo Bersani ma niente ticket .Non promuovo il segretario»

L’ex ministro: «Basta con la storia che noi sappiamo governare e il Pdl no, non è più vero»
 

Rosy Bindi, come le sembra il risul­tato elettorale?
«Sconfitta con onore a Milano. Perdi­ta dolorosa di Prato. Recupero del Pd rispetto al primo turno delle ammini­strative. Forse è iniziata la fine dell’era Berlusconi; ma la destra è radicata nel paese, l’assioma per cui noi siamo ca­paci di governare mentre loro non han­no classe dirigente non è più sostenibi­le. Il Pd è vivo. Ma i toni trionfalistici mi sembrano davvero fuori luogo».

Che giudizio dà della segreteria Franceschini?
«La sua linea di competizione all’in­terno dell’opposizione era giusta. Non mi pento di averlo sostenuto. Ma sareb­be troppo generoso dire che il bilancio è positivo. Abbiamo perso quattro mi­lioni di voti e molte amministrazioni locali. Non me la sento di bocciare Franceschini, ma neppure di promuo­verlo ».

Giuliano Amato vi chiede di evitare divisioni, e di rinviare le primarie.
«E perché mai? Noi non ci stiamo di­videndo. Ci sarà una sana competizio­ne. Dopo due anni di prova, e dopo tre tornate elettorali concluse con una sconfitta, è tempo di decidere sul ruo­lo del partito, sulla sua identità, sul suo progetto di società. Per questo il Pd ha bisogno di un congresso vero e di primarie vere, non come quelle del­­l’altra volta».

L’altra volta lei si candidò. Perché dice che non erano vere?
«Per il motivo che indicai già allora: Veltroni era sostenuto da tutto e dal contrario di tutto. Infatti tentò di segui­re più di una linea politica, la propria e quelle degli altri. Abbiamo usato le pri­marie da apprendisti stregoni, rischian­do di buttarle via. Ora dobbiamo con­solidarle ad ogni livello e usarle bene. Io non mi candiderò, ma concorrerò con le mie idee a far emergere un nuo­vo segretario».

Lei quindi sosterrà Bersani?
«Sì. È un sostegno non improvvisa­to, bensì costruito e preparato nel tem­po; anche perché mi è stato richiesto. Sosterrò Bersani con un gruppo di per­sone che due anni fa appoggiò la mia corsa alle primarie, insieme abbiamo scritto un documento con le proposte che qualificano la nostra scelta».

Proprio lei, prodiana e ulivista, si schiera con l’uomo di D’Alema?
«A parte il fatto che sono un’estima­trice di D’Alema, anche se talvolta non ne condivido idee e fatti, Bersani è di Bersani. Sono testimone dell’autono­mia della sua candidatura e a Bersani chiedo proprio di fare la sintesi tra lo spirito dell’Ulivo e l’idea di partito radi­cata nella cultura politica italiana. Il Pd come lo intendo io è un partito davve­ro plurale».

Ma perché non va bene il segreta­rio che c’è già? Perché non France­schini?
«Perché Bersani mi pare più adatto a costruire un partito che si presenti co­me alternativo a questa destra, a rico­struire il centrosinistra, e a restituirgli la credibilità di una forza di governo. Non possiamo permetterci un partito che stia anni a bagnomaria. I voti si prendono se ci si presenta come un partito capace di aggregare e di gover­nare. E anche di porre con forza, nel momento più cupo del berlusconi­smo, la questione morale: sapendo che il conflitto di interessi l’abbiamo an­che dentro casa nostra».

A cosa si riferisce?
«Il voto ci ha rivelato più di un caso in cui il nostro modello di governo ne­gli enti locali è stato rifiutato dagli elet­tori. A cominciare dalla Campania».

Franceschini propone un rinnova­mento del gruppo dirigente. E molti giovani, dalla Serracchiani in giù, gli sono vicini.
«Non c’è dubbio che il nuovo segre­tario dovrà costruire il Pd con i giova­ni e per i giovani. Non dobbiamo avere timore di mettere al centro i grandi te­mi della sinistra: la dignità del lavoro, la mobilità sociale, l’uguaglianza, le nuove generazioni, e anche le donne, così umiliate dal comportamento del presidente del Consiglio. Ma dico no al nuovismo. Non si può dire 'tutti a ca­sa, tranne me'. Le novità non si inven­tano, né si costruiscono ad arte. Le no­vità emergono dalla battaglia politica, dall’esperienza, anche dagli errori e dalle sconfitte, non dalla scelta di volti accattivanti che vengono bene in tv; che poi così nuovi alla politica non so­no. Né mettendo in lista gente simpati­ca che passa per caso, come si è fatto alle elezioni del 2008. Franceschini è stato il vice di Veltroni; non può chia­marsi fuori da quella stagione».

Lei è molto severa con Veltroni, che ora sta per rientrare in campo a due anni dal Lingotto.
«Il suo ritorno non mi convince per­ché al Lingotto si è sbagliato tutto. Vel­troni di fatto si candidò a presidente del Consiglio, quando c’era già un pre­sidente del Consiglio del suo partito. E la 'vocazione maggioritaria' si è tra­sformata in vocazione alla solitudine».

Bersani le ha chiesto anche di farle da vice?
«No. Un altro errore di Veltroni fu il ticket. Non è in questa fase che si deci­dono queste cose».

Anche Letta appoggia Bersani, a condizione che mandi in archivio la socialdemocrazia.
«La socialdemocrazia è già stata ar­chiviata dalle elezioni europee. In Ita­lia poi un vero partito socialdemocrati­co non c’è mai stato, e da certi punti di vista è una fortuna. Piuttosto, nessuno pensi ora di fare la Cosa 4, cioè l’ennesi­ma evoluzione del partito storico della sinistra italiana».

Però lei, cattolica, sostiene un uo­mo che viene da quella storia.
«Proprio perché vengo dal cattolice­simo democratico, scommetto sulla contaminazione delle culture; come avevo fatto già due anni fa, quando la mia candidatura fu sostenuta da un gruppo che andava da Franca Chiaro­monte a Giovanni Bachelet. Voglio un partito che non si limiti a innestare il liberalismo sulla socialdemocrazia, ma sia il compimento dell’Ulivo. La diffe­renza la fa proprio la presenza dei cat­tolici ».

L’accordo con l’Udc è indispensabi­le? Che farà Casini secondo lei?
«Indispensabile è ricostruire un nuovo centrosinistra. Il Pd ha vinto con l’Udc, come a Bari e Torino, senza l’Udc, come a Bologna, e con l’Udc schierata dall’altra parte, come a Pado­va. Il Pd si deve porre il problema del centro e della sinistra; ma anche l’Udc si deve porre il problema del proprio futuro, fin dalle prossime regionali. Credo che Casini coltivi ancora il so­gno di essere protagonista di un cen­trodestra di tipo europeo, senza Berlu­sconi. Ma credo pure si stia rendendo conto che la fine di Berlusconi passa attraverso una sconfitta politica, che Casini può infliggergli solo alleandosi con noi. A quel punto vedremo se ri­nuncerà al suo antico sogno e se, accet­tando il bipolarismo, la presenza del­l’Udc nel centrosinistra sarà duratu­ra ».

Per Berlusconi è davvero l’inizio della fine?
«Il declino è cominciato, e credo lo sappia anche lui. Di sicuro lo sa il suo partito».

E Prodi? Anche lui sosterrà Bersa­ni?
«Il padre fondatore è una risorsa e un patrimonio per tutti. Da Prodi ci si attende un grande contributo di idee e di passione»

Aldo Cazzullo
27 giugno 2009
da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 25, 2009, 11:20:20 am »

Il segretario pd: «Dico no a maggioranze e governi non decisi dagli elettori»

«Se vince Bersani bipolarismo a rischio»

Franceschini: «Ci sono gli ingredienti per una fine anticipata della legislatura»

 
MILANO - «Dal congresso del Pd e dal suo esito non passa soltanto il futuro del partito, che pure è una cosa im­portante. Passa anche il futuro as­setto della politica italiana dopo Berlusconi; e quindi la questione ri­guarda tutti. Sento il dovere di pen­sare cosa succederà dopo la chiusu­ra di un’epoca, che può essere o fi­siologica, con la fine della legislatu­ra, o traumatica. Abbiamo il dove­re di pensare che dopo Berlusconi non venga azzerato l’orologio e non si ricominci tutto da capo; co­me se il bipolarismo e l’alternanza di governo non fossero una con­quista di tutti, che ha reso più mo­derno e più semplice il paese, ma fossero legati solo all’esistenza di Berlusconi come leader o come av­versario. Il che sarebbe un dram­ma».

Segretario Franceschini, sta di­cendo che se vince Bersani si tor­na indietro, alla Prima Repubbli­ca?
«In questi anni di transizione dal ’94 a oggi, con tutti gli scontri e i limiti che abbiamo visto, due co­se sono state condivise dai due campi: la nascita di uno schema bi­polare, centrodestra e centrosini­stra che si alternano al governo; e la nascita del Pd prima e del Pdl poi. Si è passati da un bipolarismo fondato su coalizioni eterogenee, frammentate, litigiose, a un bipola­rismo più europeo, con due grandi partiti alternativi e alcune forze in­termedie. Ma non dobbiamo crede­re che questo sistema sia acquisito per sempre, come se fosse consoli­dato da decenni. Dobbiamo pensa­re che questo sistema vada salva­guardato; perché non riguarda so­lo la politica, ma anche le istituzio­ni, l’economia, la competitività, l’aggancio all’Europa».

Il bipolarismo è davvero in peri­colo secondo lei?
«Io prendo un impegno: garanti­re che questo schema sopravviva a Berlusconi. Invece a volte ho l’im­pressione che, se questo schema non si consolida, possa scattare un meccanismo per cui, finito Berlu­sconi, la politica italiana si rimette in moto su binari antichi e, attra­verso cambi di legge elettorali o at­traverso scelte politiche, torni uno schema in cui le maggioranze e i governi non sono più decisi dagli elettori ma sono variabili e mobili.
Il bipolarismo italiano e il campo riformista non sono nati in funzio­ne anti-Berlusconi; corrispondono a un assetto globale, tipico delle de­mocrazie di tutto il mondo.
Ma se noi sbagliamo rischiamo di perde­re questa conquista».

Lei ne parla come se il Cavalie­re non avesse ancora un lungo mandato davanti a sé.
«Del dopo-Berlusconi dobbia­mo cominciare a occuparci. Nes­sun uomo di buonsenso può pen­sare che si ricandidi a fine legisla­tura; è una scadenza inevitabile. Ma ci sono tutti gli ingredienti per una fine traumatica anticipata. L’autunno sarà il momento di mas­simo impatto della crisi: piccole e medie imprese che non riaprono perché hanno finito credito e liqui­dità, lavoratori dipendenti o auto­nomi con redditi ormai totalmente insufficienti, decine di migliaia di lavoratori dipendenti o autonomi che perdono il lavoro e si trovano a zero euro senza ammortizzatori. Una situazione che si prospetta esplosiva dal punto di vista socia­le, con deficit, spesa pubblica, debi­to pubblico in aumento...».

Berlusconi le replicherà che lei fa del pessimismo ai limiti del di­sfattismo.
«Non è pessimismo; è realismo. Inutile pensare di risolvere il pro­blema nascondendolo. A fronte di una crisi gravissima, c’è un presi­dente del Consiglio profondamen­te indebolito sia rispetto alla sua credibilità nel Paese, sia rispetto al­la sua forza nella coalizione. Quan­do cominciano i processi di inde­bolimento, non si fermano più. E noi dobbiamo ragionare affinché ciò che abbiamo raggiunto nella stabilizzazione dell’assetto politico del paese non finisca con Berlusco­ni».

Quale può essere lo scenario, se al congresso e alle primarie le sue idee non prevarranno?
«Tutto potrebbe tornare a essere elastico e possibile, con alleanze non dichiarate agli elettori che le scelgono ma frutto di accordi parla­mentari, cui potranno essere dati nomi nobili — governo di conver­genza, grande coalizione — ma che di fatto smontano una conqui­sta. Perché bipolarismo e alternan­za non sono garantiti, come qual­cuno pensa, da una legge elettora­le, per quanta influenza abbia. Il bi­polarismo sopravvive a qualsiasi legge se ci sono due grandi partiti alternativi. Se invece — consape­volmente o inconsapevolmente— scomponi questi grandi partiti e torni a un sistema centro-sinistra e centro-destra, con il famoso trat­tino, tutto torna in movimento; non ci sono più due grandi partiti avversari, ma prevale il vecchio schema con la sinistra da una par­te e il centro del centrosinistra dal­­l’altra».

Sta dicendo che teme per l’inte­grità e la tenuta del partito?
«Tenuta in quanto contenitore no. Penso però che il Pd, per esse­re se stesso, debba coltivare le pro­prie diversità, viverle come una ric­chezza e non come un limite.
Per questo credo non debba esserci in nessun modo una parte che preva­le sull’altra. L’arcipelago di posizio­ni che sostengono la mia ricandida­tura, laici e cattolici, persone che provengono da storie diverse, aree più moderate e aree più a sinistra, è la garanzia che il Pd continui a essere un grande partito».

Bersani rivendica di poter par­lare di partito di sinistra.
«Io sarei cauto nell’uso delle pa­role. Sinistra è una parola e una storia nobilissima, cui io sono an­che legato. Da ragazzo ero nella si­nistra Dc con Zaccagnini, e ricordo convegni in cui si discuteva se con­siderarci sinistra della Dc o sini­stra nella Dc. Conosco la forza, l’or­goglio della parola sinistra. Ma so pure che c’è una parte degli eletto­ri e dei gruppi dirigenti del Pd che non si riconosce solo in quella pa­rola. O il partito resta la casa di tut­ti, liberal, cattolici, laici, ambienta­­listi, oppure diventa un’altra co­sa».

Anche Bersani ha con sé cattoli­ci come Letta e Bindi.
«Ma non c’è dubbio che nello schieramento che lo sostiene ci sia un’identità organizzativamente e politicamente prevalente. Provia­mo a rovesciare il ragionamento: se per assurdo un’identità di cen­tro esercitasse una egemonia sulle altre, chi si sente di sinistra rimar­rebbe volentieri?».

Una scissione?
«Non necessariamente. Se si la­scia aperto uno spazio, il vuoto sa­rà riempito. Io non escludo una fu­tura alleanza con l’Udc. Ma voglio un Partito democratico che non ri­nuncia a competere direttamente con il Pdl, che non ha bisogno di appaltare a qualcuno la funzione di parlare con i mondi produttivi, di conquistare il voto mobile. Vo­glio un Pd che rappresenti l’eletto­rato di sinistra ma competa al cen­tro. L’esito del nostro congresso peserà sull’intera politica italiana: se consolidiamo il Pd, reggerà an­che il Pdl dopo Berlusconi; se il Pd si scomponesse, anche il Pdl scom­parirebbe e tutto ricomincerebbe da capo».


Aldo Cazzullo
23 luglio 2009
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« Risposta #50 inserito:: Luglio 27, 2009, 05:00:13 pm »

«E' la città degli archistar e della chimica velenosa»

Brunetta: Venezia svenduta e mercificata

La colpa è del «marchio» Cacciari

Il ministro: basta con la volgarità di quegli enormi cartelloni pubblicitari

 
«Venezia oggi è la città dei magnati e dei centri sociali. Degli archistar e del­la chimica vecchia e velenosa. Dei tyco­on e dei giocatori del casinò. Una città mercificata e svenduta da una classe di­rigente che ha alzato bandiera bianca su Palazzo Grassi e sulla Punta della Do­gana, rinunciando a qualsiasi proget­tualità per il futuro, inalberando enor­mi cartelloni pubblicitari che non han­no uguali al mondo per volgarità. Una classe dirigente in fuga, come l’aristo­crazia veneziana che si arrese a Napole­one senza sparare un colpo. Eppure il Rinascimento di Venezia è possibile. È il momento giusto, perché i veneziani non ne possono più del declino di Ve­nezia; gli italiani stessi non ne possono più di una Venezia parassitaria, che non serve all’Italia. Il primo passo non sarà chiedere altri soldi; sarà ripartire da una nuova base economica».

Un anno fa, appena insediato, il mi­nistro Renato Brunetta raccontava al Corriere la sua formazione veneziana, quando vendeva «gondoete de plasti­ca » ai turisti. Ora denuncia «la mercifi­cazione e la svendita» della sua città. Ed espone quello che appare un pro­gramma da sindaco: «È una visione costruita nel tem­po, e mi piacerebbe molto realizzarla. Prima o poi la re­alizzerò. Ora faccio un altro mestiere, ho un altro impe­gno. Ma sono pronto a costrui­re, o contribuire a costruire, il nuovo Rinascimento di Vene­zia ». Brunetta parte da una pro­spettiva storica: «Il problema della città negli ultimi due secoli è stato trovare — dopo i fasti del­la Serenissima e della 'città mon­do', come la chiamava Braudel— una sua peculiare base economica. Nel lungo declino, c’è un unico momento di grande speranza: la Venezia di Volpi. Sintesi tra la nuova industria chimica di Porto Marghera, che produce lavo­ro, redditi, ricchezza di massa, e la nuo­va industria culturale della Biennale e della Mostra del Cinema, che produce immaginario, comunicazione, turi­smo. Quella di Volpi è stata l’ultima esperienza strategica, che fece di Mar­ghera uno dei più grandi poli industria­li al mondo, con 40 mila operai. Ora sia­mo a meno di un quarto dell’occupazio­ne, senza investimenti e senza futuro, con produzioni che nessun altro al mondo vuole più, neanche il Qatar. Ma pure l’altro pezzo del modello volpiano è entra­to in crisi, a causa di scelte sbagliate, miopi, provinciali. Il risultato è che sul turismo di qualità prevale il turismo di massa, che ha basso valo­re aggiunto e alto consumo sociale e ambientale: ti costa più di quanto rende».

La crisi, sostiene Brunetta, ha un responsabile: «La clas­se dirigente di centrosinistra che governa Venezia da qua­si vent’anni, con il marchio di Massimo Cacciari. Se si confronta la Venezia di oggi con quella dei primi Anni ’90, si vede che il degrado è continuato, e le poche cose buone, come il Mose, sono avvenute contro la volontà di questa classe dirigente. È prevalsa una cultura ideolo­gica, clientelare, passiva, as­sistenzialistica, con le punte aberranti dei centri sociali, priva della visione necessaria, incapa­ce di chiudere la storia gloriosa ma fini­ta della chimica e della petrolchimica a Marghera. Si vive un’agonia lenta, mentre ci vorrebbe il coraggio di dire: basta petrolio in laguna, basta ciclo del cloro; facciamo le bonifiche, ma in mo­do pragmatico, non fondamentalista come chiedono i Verdi, che vorrebbero piantare le erbette medicinali. Il polo industriale di Marghera va salvato, per­ché nella nuova Europa Venezia è tor­nata al centro dei traffici tra Est e Ovest, tra il Nord e il Sud del Mediterra­neo. Dobbiamo puntare su altre produ­zioni, sul terziario, sul quaternario: por­to, logistica, un waterfront come a Lon­dra, nuova residenza, tempo libero, de­sign. E un welfare che sostenga i giova­ni, e in questo modo la demografia».

Ma sono soprattutto la cultura, la Biennale, la nuova Punta della Dogana a non convincere il ministro. «Vedo una mercificazione della città, frutto di radicalismo chic di sinistra e di provin­cialismo. Dare a Pinault pezzi impor­tanti di Venezia denota un’inadeguatez­za culturale e strategica. Non sono na­zionalista, la colpa ovviamente non è di Pinault, che va ringraziato per aver investito su Palazzo Grassi e restaurato la Punta della Dogana. La colpa è di una classe dirigente che in maniera mi­ope e provinciale ha alzato le mani da­vanti al magnate e al tycoon di turno, anziché trovare soluzioni all’altezza di quelle di un Volpi. Si governa a vista, si distrugge la città, si vendono i gioielli di famiglia per pagarsi un sociale sem­pre più parassitario».

La Biennale di quest’anno è stata molto elogiata. «La Biennale, pur nel­l’intelligenza di tanti presidenti, vive una vita difficile e stentata, laddove po­trebbe essere un enorme polo di attra­zione, se non fosse il fiore all’occhiello di un intellighentsia esogena ma il por­tato di una base culturale ed economi­ca anche locale». E la Mostra del Cine­ma? «Tra elitismo, ideologismo e paras­sitismo acuto, è diventata la sorella po­vera di Cannes e Berlino. Costa solo e non produce». Quest’anno sarà conte­stata. «In questo Belpaese si confondo­no cultura e spettacolo. La cultura è un bene pubblico, e va finanziata dallo Sta­to: scuole, conservatori, musei. Ma per­ché bisogna foraggiare il cinema? La contestazione nasce da un mondo vi­ziato da troppi soldi, da troppo Stato e da troppa poca cultura. Lo stesso vale per il teatro e l’opera lirica. Che conte­stino pure. Ha ragione Bondi: colpire le clientele, valorizzare forme di spetta­colo che si avvicinino il più possibile al bene pubblico».

Su Venezia, Brunetta propone di «ri­cominciare da capo. Mi piace parlare di un quadrifoglio. Rilanciare Marghe­ra e dare finalmente dignità di città a Mestre. Completare il Mose. Fare la me­tropolitana sublagunare, un anello in­visibile perché costruito in fondo alla laguna che risolve l’insularità di Vene­zia, collegando aeroporto, ferrovia, Li­do, Giudecca. E completare quello che Renzo Piano chiama il Magnete: il siste­ma viario intorno all’aeroporto. L’attua­le classe dirigente veneziana è contra­ria a tutti e quattro i petali del quadrifo­glio. Che invece dev’essere la premessa su cui poi costruire il Rinascimento cul­turale della mia città».

Aldo Cazzullo
27 luglio 2009
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« Risposta #51 inserito:: Agosto 22, 2009, 10:13:06 pm »

Nazioni e soccorsi

L'ex colonia e i nostri doveri di dare asilo


Due punti non dovrebbero essere in discussione: la moderna tratta degli schiavi tra la Libia e l’isola di Lampedusa va interrotta; non per questo i naufraghi che sfuggono al pattugliamento, chiunque siano, possono essere lasciati morire in mare. La storia della tragedia del Canale di Sicilia è ancora da scrivere; di certo emergono— e non per la prima volta— pesanti responsabilità di marinai maltesi.

C’è però un aspetto ineludibile, che ci riguarda. Se c’è un popolo che noi italiani abbiamo il dovere storico e morale di soccorrere, è il popolo eritreo. Perché della storia e dell’identità italiana, di cui finalmente si discute senza pregiudizi, gli eritrei fanno parte da oltre un secolo; così come noi apparteniamo alla loro, al punto da averla plasmata. Il nome stesso — Mar Eritreo era per i greci il Mar Rosso—fu suggerito a Francesco Crispi da Carlo Dossi, capofila della scapigliatura lombarda e collaboratore dello statista siciliano. Ma l’Eritrea è se possibile qualcosa di più della prima colonia italiana; senza l’intervento del nostro esercito e della nostra amministrazione, forse non sarebbe mai esistita come unità politica e culturale, e le tribù che abitavano l’altopiano sarebbero rimaste per sempre alla mercé dell’impero abissino.

Proprio questo legame particolarissimo consentì agli eritrei di godere solo dell’aspetto positivo del colonialismo— il centro dell’Asmara è una vetrina dell’architettura italiana della prima metà del Novecento, mentre la ferrovia Massaua-Asmara fu distrutta dai bombardamenti inglesi —, e di evitare le pagine nere, dalla repressione in Libia ai bombardamenti sull’Etiopia. Ma è soprattutto la fratellanza d’armi ad aver coniato tra i due popoli un vincolo di solidarietà, che in questi giorni dovrebbe morderci la coscienza. I prigionieri di Adua, cui il negus fece tagliare il piede destro e la mano sinistra in quanto sudditi ribelli, rei di aver combattuto accanto agli italiani. I centinaia di militi ignoti sepolti nel cimitero di guerra di Cheren, dove avevano resistito agli attacchi britannici. Il libro di Montanelli, intitolato appunto XX battaglione eritreo.

Il sacrificio di migliaia di ascari, da quelli del 1896 ai loro nipoti che ancora dopo la resa del Duca d’Aosta all’Amba Alagi continuarono a combattere nelle bande irregolari di Amedeo Guillet, l’ultimo eroe d’Africa. E la traccia che di tutto questo è rimasta nella cultura collettiva: gli acquerelli di Caccia Dominioni, i fez rossi sulle copertine della Domenica del Corriere, le fotografie degli sciumbasci— gli ufficiali indigeni — in gita premio nella Roma del 1912, accolti alla stazione Termini dalla folla entusiasta (e rivisti nella recente mostra al Vittoriano). Una memoria che non va confusa con le disavventure del regime fascista, ma affonda le sue radici nell’Italia risorgimentale e porta frutti ancora oggi.

Basta sbarcare all’Asmara per toccare con mano il profondo legame che ancora unisce gli eritrei all’Italia, dai caffè ai modi di dire, dall’urbanistica alla toponomastica, che celebra nomi in Italia dimenticati, i testimoni antichi del nostro mal d’Africa cui erano dedicati i battaglioni eritrei: il primo, contrassegnato dal colore rosso, intitolato a Turitto; il secondo, azzurro, a Hidalgo; il terzo, cremisi, a Galliano; il quarto, nero, a Toselli. Da quasi vent’anni, come ha documentato sul Corriere Massimo A. Alberizzi, l’Eritrea è schiacciata dal tallone di Afeworki, l’uomo che parve un liberatore e si è rivelato un aguzzino del suo popolo, sfiancato da una guerra impari con l’Etiopia. È normale che, alla ricerca di un Paese d’asilo, gli eritrei guardino all’Italia, dove già vive una comunità molto attiva.

Salire sulle imbarcazioni degli scafisti criminali non può essere il modo di raggiungere le nostre coste. Così come è indispensabile che il governo prosegua nella politica di collaborazione con la Libia, che palesemente deve coinvolgere anche le autorità maltesi. Questo non ci esime dal dovere di accordare soccorso e, se del caso, asilo; tanto più se alla deriva sono i discendenti dei nostri antichi fratelli d’arme.

Aldo Cazzullo
22 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #52 inserito:: Agosto 31, 2009, 03:30:28 pm »

Il direttore dell’«Osservatore Romano» e lo scontro tra mondo cattolico e politica

Vian: rivendico di non aver scritto sulle vicende private del Cavaliere

«Santa sede-governo, rapporti eccellenti. Avvenire? Qualche scelta imprudente»


«E’ vero, sulle vicende private di Silvio Berlusconi non abbiamo scrit­to una riga. Ed è una scelta che riven­dico, perché ha ottime ragioni». Dice Gian Maria Vian, direttore dell’Osser­vatore Romano, il quotidiano del Pa­pa, che «il giornalismo italiano pare diventato la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Segno che la politica, in tutti i suoi schieramenti, è piuttosto debole. Infatti da alcuni mesi la contesa tra partiti sembra svolgersi soprattutto sui giornali, che hanno assunto un ruolo non sol­tanto informativo, come mostrano le vicende anche degli ultimi giorni. Ma forse — aggiunge Vian — non si è data sufficiente attenzione al fatto che, il giorno stesso in cui è esploso il caso del direttore di Avvenire, su Repubblica Vito Mancuso ha attacca­to, con molte approssimazioni stori­che e una durezza insolita, il cardina­le segretario di Stato, presentando co­me un appuntamento politico una ce­rimonia religiosa antica di sette seco­li, che quest’anno rivestiva una solen­nità particolare dopo la tragedia di un terremoto da trecento morti. Co­sì, nel giro di quattro ore, l’Osservato­re ha risposto con un editoriale che ha chiarito il significato della Perdo­nanza e ribadito che non ci occupia­mo di polemiche contingenti. Quan­to alla rinuncia del presidente del Consiglio, che è stato rappresentato da Gianni Letta, si è trattato di un ge­sto concordato, di responsabilità isti­tuzionale da entrambe le parti. Tanto più che i rapporti tra le due sponde del Tevere sono eccellenti, come più volte è stato confermato. Anche sul nostro giornale, che per la prima vol­ta, l’anno scorso, ha intervistato, in­sieme agli altri media vaticani, sia il presidente della Repubblica sia il pre­sidente del Consiglio». L’Osservatore Romano non si è mai occupato delle vicende di Berlusconi anche perché, spiega il direttore, «negli ultimi due anni il giornale è cambiato. Prima c’erano una o anche due pagine di cronaca italiana e un’altra di cronaca di Roma. Siamo un giornale piccolo, anche se impor­tante. Proprio su richiesta del nostro 'editore' abbiamo triplicato lo spa­zio delle informazioni internazionali. E, in genere, il quotidiano della Santa Sede oggi non è solito entrare negli scontri politici interni dei diversi Sta­ti, a cominciare dall’Italia. Preferia­mo dedicarci ad analisi di ampio re­spiro, piuttosto che seguire vicende molto particolari, controverse e di cui spesso sfuggono i contorni preci­si, come quelle italiane degli ultimi mesi».

Sul caso che riguarda il direttore di Avvenire, non è certo in discussione la solidarietà personale con Dino Bof­fo. Vian, che lo conosce da quindici anni ed è stato editorialista del gior­nale dei cattolici italiani, gliel’ha espressa per iscritto, il giorno stesso. E’ un dato però che la linea dell’Osser­vatore Romano non sia stata la stessa del giornale dei vescovi, e taluni edi­toriali di Avvenire molto critici verso il governo abbiano destato sconcerto Oltretevere: «Non si è forse rivelato imprudente ed esagerato — si chiede Vian — paragonare il naufragio degli eritrei alla Shoah, come ha suggerito una editorialista del quotidiano catto­lico? Anche nel mondo ebraico, fer­ma restando la doverosa solidarietà di fronte a questa tragedia, sono sta­te sollevate riserve su questa utilizza­zione di fatto irrispettosa della Sho­ah. E come dare torto al ministro de­gli Esteri italiano quando ricorda che il suo governo è quello che ha soccor­so più immigrati, mentre altri – pen­so per esempio a quello spagnolo – proprio sugli immigrati usano di nor­ma una mano molto più dura? Mi sembra davvero un caso clamoroso, nei media, di due pesi e di due misu­re » .

Anche l’informazione religiosa, de­nuncia Vian, tende ad appiattirsi sul­le tendenze deteriori di quella politi­ca, anch’essa un tempo in genere più ampia e approfondita. «Sono stato ac­creditato in sala stampa vaticana dal 1975 al 2007, e ricordo quindi benissi­mo il direttore Federico Alessandri­ni, in precedenza vicedirettore del­­l’Osservatore: un gentiluomo d’altri tempi sempre disponibile a spiegare le cose, che aveva tutta la preparazio­ne per farlo e interlocutori giornalisti ben più preparati e tuttavia desidero­si davvero di capire. Oggi, invece, sembra aperta la caccia al prelato, me­glio se cardinale, e preferibilmente per una battuta polemica. E così si fi­nisce anche per ripiegare su figure di ecclesiastici, magari autorevoli ma or­mai ritirati, oppure che non hanno il ruolo istituzionale per parlare a no­me della Santa Sede, come ha dovuto precisare l’attuale successore di Ales­sandrini, il gesuita Federico Lombar­di. Mentre, per fortuna, mi sembra che questa abitudine non sia così dif­fusa tra i vaticanisti non italiani». Vian non fa nomi, ma non è impossi­bile vedere dietro le sue parole il pro­filo del cardinale Lozano Barragán per la sanità e di monsignor Sgreccia per la bioetica, entrambi emeriti. «Ora, per esempio, dei migranti ha la responsabilità un diplomatico come l’arcivescovo Vegliò, che ha dimostra­to sensibilità e prudenza; certo, se si mette in discussione il suo ruolo o, peggio, si dicono enormità sul suo conto, come è stato fatto frettolosa­mente e con impudenza, lui ha tutto il diritto di reagire, anche con ener­gia, come ha fatto».

Ma i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede, ribadisce Vian, «sono buoni. Berlusconi è stato il pri­mo a chiarire che non sarebbe anda­to a Viterbo per la prossima visita del Papa, quando ha capito che la sua pre­senza avrebbe causato strumentaliz­zazioni. L’incontro dell’Aquila è salta­to per non alimentare le polemiche, ma era stato previsto proprio per se­gnare simbolicamente un impegno comune, dello Stato e della Chiesa, per le popolazioni colpite dal terre­moto. Con la presenza del cardinale Bertone a rappresentare Benedetto XVI, che è anche primate d’Italia. No, nelle relazioni tra Repubblica Italiana e Santa Sede non cambia nulla».

Aldo Cazzullo
31 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #53 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:15:04 pm »

L’intervista Il ministro degli Esteri: ho telefonato al direttore di Avvenire il primo giorno.

Ma il premier non è il mandante dell’attacco

«Alla Lega né Lombardia né Veneto Sul fine vita no a leggi da Stato etico»

Frattini: voto agli immigrati? Sto con Fini, chi paga le tasse sia rappresentato



Ministro Frattini, al di là delle espres­sioni diplomatiche sui «rapporti eccellen­ti », come sono davvero le relazioni tra go­verno e Vaticano, e tra governo e Chiesa italiana?

«Nella sostanza, c’è una costante condi­visione di valori tra il governo di centrode­stra e la Santa Sede: vita, famiglia, equili­brio tra rigore e accoglienza sull’immigra­zione. Io stesso mi sono sentito costretto a intervenire, quando la Lega è passata da un eccesso all’altro: prima espressioni fuo­ri luogo, come quelle sugli 'esponenti reli­giosi cattocomunisti che hanno perso il cat­to e restano comunisti'; poi la rivendicazio­ne di essere 'custode dei valori cristiani'. Fu il governo Berlusconi, con me alla Far­nesina, a battersi per inserire nella Costitu­zione europea le radici cristiane. Non mi sento di non essere garante e custode delle radici cristiane, almeno quanto la Lega».

Sull’attacco a Boffo che idea si è fatto?

«Ho telefonato al direttore di Avvenire il giorno stesso. Il rispetto per la privacy e la dignità deve valere per tutti, anche per i personaggi pubblici. Respingo però le stru­mentalizzazioni politiche della sinistra, che usa la vicenda co­me se Berlusconi ne fosse il mandante. In­vece il presidente ha spiegato in pubblico, e in privato, di non aver incoraggiato e neppu­re parlato con Feltri».

Resta una tensione innegabile.

«Ma prima il diretto­re dell’ Osservatore Ro­mano e poi il cardinal Bertone hanno ribadi­to la sintonia tra il go­verno e la Santa Sede. Quanto alla possibili­tà che all’interno del sistema dei poteri va­ticani si sia aperto un contrasto, se il Santo Padre dice che questo non è, non è».

Ora si teme che la maggioranza, per re­cuperare i rapporti con il Vaticano, sia ar­rendevole sui temi dell’autunno, dalla legge sul fine vita alla scuola privata.

«Comprendo questa preoccupazione. È necessario darle risposta, discutendo nelle sedi in cui il Pdl discute. Il vicepresidente dei senatori, Quagliariello, in queste ore af­fronta il tema dei valori con monsignor Fi­sichella. La prossima settimana, al semina­rio del Pdl a Gubbio, mi farò portatore di un’iniziativa. Berlusconi ci ha lasciato liber­tà di coscienza. Il Pdl colga l’occasione per elaborare le sue idee, avanzare le sue pro­poste, come ha fatto la Lega sui dialetti. Parliamo anche noi al nostro elettorato, ali­mentiamo il dibattito politico. In questo modo il partito rafforzerebbe il governo».

Fini tenterà di cambiare la legge sul fi­ne vita approvata dal Senato. Lei che ne pensa?

«Penso che il testo del Senato possa esse­re migliorato. Io sono per la tutela della vi­ta senza se e senza ma. Ma lo stesso risulta­to può essere raggiunto ripulendo aspetti normativistici e procedurali. Una tema co­sì delicato come la vita e la morte non può essere affidato per intero allo Stato. Uno dei valori dell’insegnamento della Chiesa è la rilevanza della società. Credo sia possibi­le depotenziare alcuni aspetti statualistici della legge».

Sino a rimuovere il divieto di sospende­re l’idratazione?

«Nella sostanza, non ho dubbi che ac­qua e cibo non siano una cura, ma un mo­do per dare la vita. Una cosa però è la so­stanza, un’altra la regolazione delle forme e delle procedure: stabilire con una legge come si debba fare evoca lo Stato etico e mi lascia qualche perplessità. È proprio quest’allergia alla statualità e all’iperregola­zione a spiegare che uomini come Sacconi e come me, di cultura riformista, siano sen­sibili a queste istanze più di uomini che vengono dalla Dc».

E sui finanziamenti alle scuole priva­te?

«L’anno scorso la Gelmini si batté come una leonessa, ma si fece poco e tardi; per Tremonti la blindatura dei conti era la prio­rità. Quest’anno credo che il sacrificio fi­nanziario vada tentato».

Dalla Dc viene Rotondi, che con Bru­netta propone di riconoscere i diritti del­le coppie di fatto. Un binario morto della legislatura?

«Credo di sì. Perché verrebbe colorito con un segno anticristiano e anti-Santa Se­de, e come tale cavalcato a torto dai laici­sti. Piuttosto reagiamo con più forza, come facciamo con gli scafisti, agli attacchi con­tro gli omosessuali. Stabiliamo un’aggra­vante per i delitti a fini omofobici, dai pe­tardi alle coltellate. Se aggredisco qualcu­no perché gay sarò punito più severamen­te » .

Fini è isolato dentro il Pdl?

«Fini non si è isolato. Rivendica il ruolo di presidente della Camera. Il suo predeces­sore Bertinotti ha fatto molto di peggio. Fi­ni e la sua fondazione Farefuturo arricchi­scono il dibattito nel Pdl. Ricordiamoci che, quando infuriava il gossip contro Ber­lusconi, Fini reagì con lealtà».

È d’accordo sul voto amministrativo agli immigrati?

«Chi paga le tasse, chi parla l’italiano, chi rispetta la Costituzione e la bandiera, deve avere il diritto di rappresentanza. Notaxation without representation ; come possiamo riscuotere tasse, se non ricono­sciamo a chi le paga il diritto di essere rap­presentato? Il Pdl deve lavorare in modo or­ganico su un’integrazione non solo securi­taria. Purtroppo, temo che se oggi sottopo­nessimo a un esame la conoscenza della lingua e della Costituzione degli extraco­munitari che sono in Italia anche da più di cinque anni, non molti lo passerebbero. Ma se ci sono uomini e donne che amano l’Italia, perché dobbiamo considerarli stra­nieri? Con tutti gli italiani che non amano il loro Paese...».

A chi si riferisce?

«A chi, per attaccare il capo del governo, infanga l’Italia all’estero presentandola co­me un Paese di corrotti e offuscatori della libertà di espressione».

Neppure la Lega ha dato grandi prove di patriottismo.

«La Lega è sempre stata un alleato fede­le. Magari alza la voce, ma poi vota con il governo; è accaduto anche sulla missione in Afghanistan. Se poi la Lega si cala nel ter­ritorio, monta i gazebo, va davanti alle scuole e ai cancelli delle fabbriche, noi non dobbiamo criticarla, ma accettare la sfida».

Tra sette mesi si vota: la Lega chiede tre Regioni.

«Ha titolo negoziale per rivendicarle. Ma non può avere la Lombardia, dove For­migoni come coprotagonista della vittoria per l’Expo 2015 non potrà essere estromes­so. Né il Veneto, dove la Lega è già talmen­te rappresentata in Province e Comuni che non vale la pena vanificare l’accordo con l’Udc, che si può fare su Galan. Il Piemonte è un altro discorso».

Il rilancio del Pdl passa anche dal coor­dinatoreunico?

«Il triumvirato è nel nostro statuto, ma come soluzione provvisoria. Ha funziona­to per evitare una fusione a freddo. Però va considerato appunto una soluzione provvi­soria » .

Meno peggio Bersani o Franceschini?

«Ho una certa considerazione personale per Bersani, che ha commesso gravi errori politici, ma ha un’immagine. Franceschini non ha fatto altro che cavalcare l’antiberlu­sconismo più estremo».

I giornali riferiscono voci su D’Alema «mister Pesc», in pratica ministro degli Esteri dell’Unione europea.

«Una cosa che non sta né in cielo né in terra. E credo che D’Alema lo sappia».

Marcello Dell’Utri, in un’intervista a Paola Di Caro del «Corriere», ha riferito che Berlusconi la predilige perché «a Frattini dici una cosa il mattino, e la sera l’ha fatta». Lo accolse come un compli­mento?

«Fui felice di leggerlo. Se la persona con cui collaboro mi dice di fare una cosa, la faccio. Se ritengo vada fatta in modo diver­so, lo dico».

E Berlusconi accetta di essere contrad­detto?

«Se gli spiego il motivo, sì. Io non sono nel gruppo della prima ora: Berlusconi mi trovò a Palazzo Chigi, dove avevo lavorato con Ciampi. All’evidenza, Berlusconi si è trovato bene, e io pure. Anche se gli do an­cora del lei».

Aldo Cazzullo
03 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 16, 2009, 10:46:40 pm »

L’intervista - Il responsabile dell’Economia indica il suo percorso per il futuro: la fedeltà al programma non è un optional ma un elemento fondamentale dell’etica politica

«Il Pdl discuta sulle idee di Fini Serve tregua, congresso pd decisivo»

Tremonti: la nuova maggioranza di Casini durerebbe 10 minuti. Il voto anticipato? Irreale


Ministro Tremonti, nel Palazzo della politica si parla di complotti, di elezioni anticipate, di nuove maggio­ranze. Lei che ne pensa?
«Da un po’ di mesi, più che un Palaz­zo sembra una caverna».

Caverna?
«La caverna di Platone. Nella caver­na di Platone gli uomini non vedono la realtà, ma le ombre della realtà pro­iettate sulle pareti. Vedono immagini, profili, stereotipi, imitazioni della real­tà. Il mondo esterno, la realtà, è una cosa; l’immagine della realtà, vista dal profondo della caverna, è un’altra. C’è una drammatica asimmetria tra la real­tà del Paese e del governo e la rappre­sentazione che se ne fa. Dal lato della realtà, c’è la realtà, certo con tutte le sue complessità: negatività ma anche positività, crisi ma anche crescente co­esione sociale. Dal lato della caverna, è l’opposto o il diverso. Non solo non si vede l’essere, ma a volte si confonde l’essere — quello che è — con il dover essere — quello che si immagina deb­ba essere —; o con il voler essere, cioè quello che per proprio conto e torna­conto si vorrebbe fosse».

Chi lo vorrebbe? A chi si riferisce? Ai media? Alle opposizioni? Alle éli­tes?
«Il prodotto del lavoro politico del­le élites è oggi un po’ come una nave in bottiglia. La nave è perfetta finché sta dentro la bottiglia; e l’involucro della bottiglia è anche la stampa, che tende a fornire una rappresentazione perfetta della nave. Però è una nave che affonda appena la metti non dico in mare aperto, ma nella vasca da ba­gno. Perché, come diceva quel tale, i fatti sono testardi...».

Quel tale è Stalin?
«Da ultimo. Mi pare che prima lo avesse detto Hegel. Ma può essere che sbagli, perché milito in una formazio­ne politica priva di 'legittimazione cul­turale'. A chi pensa davvero non serve un 'pensatoio'. Un certo lavorio cultu­ral- politico ricorda l’ironia di Barthes sul lavoro a merletto delle signorine di buona famiglia, parodia borghese del lavoro finto al posto del lavoro ve­ro. Cosa vuole: con rispetto per i mer­­letti, l’ozio è il padre dei vizi. All’oppo­sto, chi lavora non ha tempo per rica­mare. Passiamo dal ricamo alla realtà. Crisi in greco vuol dire discontinuità. E discontinuità è anche opportunità. Nelle strutture del reale, abbiamo para­dossalmente un dividendo positivo della crisi in termini di ritorno dell’eti­ca, di consolidamento della coesione sociale. Questo non significa l’assenza della crisi; anzi, proprio perché c’è la crisi abbiamo la riduzione del conflit­to e l’avvio dell’economia sociale di mercato. All’opposto, nella sovrastrut­tura c’è il contrario di quello che è il Paese e di quello che è nel Paese, il ten­tativo ossessivo di rottura. Da una par­te si chiede giustamente la celebrazio­ne dei 150 anni dello Stato; dall’altra parte c’è una caduta del senso dello Stato, con un eccesso di violenza che non corrisponde all’interesse naziona­le ».

Si riferisce agli attacchi a Berlusco­ni?
«Esattamente. Mi riferisco a una campagna che è orchestrata come un’ordalia paragiudiziaria, tra l’altro senza che alla base vi sia alcun elemen­to giudiziario. Domande e sentenze. L’appello al tribunale dell’opinione pubblica. Il farsi dei giornali giudici».

La stampa fa il suo mestiere: dare notizie, e commentarle.
«Un conto è il potere della stampa come contropotere, a tutela della liber­tà dei cittadini contro l’eccesso, con­tro il 'detournement ' del potere esecu­tivo. Questa è la funzione essenziale della libera stampa: rappresentare i fat­ti non orchestrarli, non sostituirsi al popolo nel gioco democratico».

Non crede che Berlusconi abbia fatto il gioco dei suoi critici, deciden­do di alzare la voce e rispondere col­po su colpo?
«Chi avrebbe fatto diversamente? A un’azione corrisponde una reazione. Mi chiedo piuttosto: tutto questo è nel­l’interesse del Paese? Io non credo che lo sia. Ora basta. Credo che nell’inte­resse nazionale sia fondamentale usci­re dalla caverna e guardare la realtà. E il governo è nella realtà, non nella ca­verna. Per quello che fa, e per come gli italiani valutano e vedono quello che fa. Non è un caso che questo governo attraverso la crisi abbia aumentato il suo consenso. Se la democrazia è un referendum quotidiano, la realtà corri­sponde positivamente al governo e il governo corrisponde alla realtà, più di tutto il resto. E se c’è una formula per uscire è che, fatto il congresso del Pd, riparta davvero organicamente l’oppo­sizione politica».

Franceschini o Bersani pari sono?
«Non voglio danneggiare nessuno dei due con la mia preferenza. L’impor­tante è il congresso. Una svolta positi­va democratica può essere data pro­prio dalla ripartenza dell’opposizione in Parlamento. Non tanti e diversi, ma 'un' interlocutore responsabile con cui parlare su ciascun tema».

In Parlamento c’è un’altra maggio­ranza possibile?
«Per risolvere i grandi problemi, co­me ha indicato l’esperienza dell’ulti­mo governo Prodi, servono grandi nu­meri. Prodi aveva piccoli numeri, e per di più litigiosi. Quelli che parlano oggi non hanno neanche i numeri».

Casini dice che una nuova maggio­ranza si trova in dieci minuti.
«Non credo. In ogni caso, se fosse, durerebbe a sua volta dieci minuti».

Chiede il «time out», quindi? Sem­bra volerlo anche Franceschini, quando nota che «il caso escort ha danneggiato anche il Pd».
«Non lo chiedo io. Lo chiede l’inte­resse del Paese. Può essere un contri­buto positivo del congresso dei demo­cratici ».

Anche l’ombra delle elezioni antici­pate esiste solo nella caverna?
«Certo. Il governo Berlusconi è sta­to eletto sulla base di un programma elettorale. La fedeltà al programma non è un optional; è un elemento fon­damentale dell’etica politica. Un gover­no senza programma o un program­ma senza governo non sono quello che serve al Paese e non sono quello che è nel nostro cuore e nella nostra mente».

La Lega non pesa forse troppo sul governo?
«La Lega è l’unico alleato che abbia­mo. La sintesi politica la fanno, e sem­pre bene, i due leader, Berlusconi e Bossi».

Fini rivendica più democrazia in­terna al Pdl. È davvero isolato?
«La macchina politica è un po’ co­me un computer. È fatta da hardware e da software. È fatta dagli apparati, che vanno dalla base verso i vertici— dagli amministratori locali agli organi di presidenza — e da idee e principi, simboli e messaggi. Fini ha posto tut­te e due le questioni: quella dell’hard­ware e quella del software. Ci sono nella politica contemporanea due for­me di hardware, e corrispondono al­l’alternativa non casuale tra 'Partito della libertà' e 'Popolo della libertà'. La scelta, nell’alternativa tra partito e popolo, è stata nel senso del popolo. Partito è una struttura novecentesca; popolo è una forma diversa di fare po­litica. Ma è politica, appunto, e non dogmatica o scolastica. Il fatto che sia popolo e non partito non esclude dun­que in radice forme comunque utili e necessarie di organizzazione. E queste possono e devono essere attivate in forma sempre più intensa e organica, per scadenze, temi, decisioni; su que­sto credo che nessuno, neanche il pre­sidente Berlusconi, sia contrario. Si può assumere anzi che questa formu­la non riduca ma rafforzi la sua leader­ship ».

Fini pone anche una questione di idee e principi.
«Giusto. Un computer ècorpus mecanicum , che resta inerte, senza il software. E su questo campo, in que­sto mese, si è sviluppata l’azione di Fi­ni. Ed è su questo, su immigrazione, interesse nazionale, tipo di patria, glo­balizzazione, catalogo dei valori e dei principi, che non solo tra Fondazioni ma dentro il Pdl si può e si deve aprire una discussione, dove vince chi con­vince. Una discussione preparata ma­gari anche da un nuovo centro studi. Questo non vuol dire cambiare il pro­gramma elettorale, ma capire il pro­gramma elettorale».

Crisi: siamo nella fase della paura o della speranza?
«Siamo in zona prudenza. La paura è finita, ed è finita perché sono scesi in campo i governi. Nel mondo, un’enorme massa di debiti privati è stata girata sui debiti pubblici, e que­sto trasferimento è stato decisivo per eliminare la sfiducia. Non è che così i problemi sono stati tutti risolti, ma la catastrofe è stata evitata, ricostruendo una base fiduciaria indispensabile al­l’economia. Proprio perché alla platea dei debitori privati si è sostituita la so­vranità degli Stati. Il ritorno degli Stati può essere positivo anche perché por­ta con sé il ritorno delle regole neces­sarie per evitare crisi future. E il 'di­scorso sulle regole', nell’agenda inter­nazionale, l’ha posto il governo Berlu­sconi ».

L’Italia però ha un enorme debito pubblico, che continua a crescere.
«La crescita del debito pubblico ita­liano è causata solo dalla decrescita dell’economia, ed è comunque per la prima volta negli ultimi decenni infe­riore alla velocità di crescita degli altri debiti pubblici. Secondo le proiezioni, questo differenziale fondamentale ne­gativo dell’Italia si chiuderà, in rappor­to con gli altri grandi Paesi europei, nei prossimi anni. In più abbiamo un enorme stock di risparmio e l’Italia non ha un’economia drogata dalla fi­nanza ma la seconda manifattura d’Eu­ropa. I confronti non si fanno sul pas­sato, quando la crescita degli altri era drogata da un eccesso di debito priva­to, ma sul futuro. Un futuro che è tut­to da scrivere».

Ma per affrontarlo, vi ricordano in molti, servono le riforme strutturali.
«La riforma delle riforme è il federa­lismo fiscale. Non è il progetto di una forza politica, ma il futuro dell’Italia. Che rischia di essere un Paese troppo duale. Il Centro-Nord, 40 milioni di abitanti, un medio-grande Paese euro­peo, da solo produce più ricchezza del­la media europea. Il Meridione d’Ita­lia, 20 milioni di abitanti, grande co­me Portogallo e Grecia messi insieme, sta invece sotto la media europea. Mai come nel 'caso Italia' vale il discorso di Trilussa sulla statistica dei due pol­li. Non solo. In Italia di polli ce ne so­no tre: c’è anche il terzo pollo, il pollo dell’evasione dell’illegalità della crimi­nalità. Metà del governo della cosa pubblica è in Italia fuori dal vincolo democratico fondamentale:no taxa­tion without representation . È questo il caso tipico dello 'Stato criminoge­no', che produce irresponsabilità, amoralità, evasione fiscale. Ed il Sud ne soffre di più. Possibile che sia così difficile trovare al Sud un amministra­tore che non abbia la moglie o la sorel­la, un parente o un compare proprieta­rio di una clinica? La Calabria non ha quasi più i bilanci, le giunte di Campa­nia e Puglia sono quel che sono. Il fe­deralismo fiscale è la risposta che chiu­derà la questione meridionale — oggi più che mai questione nazionale — e produrrà le risorse per le altre rifor­me ».

Aldo Cazzullo
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« Risposta #55 inserito:: Settembre 22, 2009, 08:38:00 am »

Un gesto semplice e una cattiva lezione


« I bambini sono troppo piccoli e non capiscono». «La circolare è arrivata in ritardo». «Senza un’adeguata riflessione sarebbe solo retorica». «Le missioni di pace si fanno con i medici, non con i soldati…».

C’è sempre un motivo, tutt’altro che buono, per evitare un gesto semplice ma importante. Quasi tutte le scuole d’Italia ieri mattina si sono fermate per un minuto di silenzio, in memoria dei sei soldati caduti a Kabul. Ma altri presidi si sono rifiutati di accogliere la disposizione del ministro.

Quando la settimana scorsa Mariastella Gelmini ha denunciato, in un’intervista al Corriere , la persistenza di aree di militanza politica nella scuola, si sono levate contro di lei molte critiche. Ora appare chiaro che il ministro non aveva torto; e bene ha fatto a chiedere scusa alle famiglie dei caduti, anche a nome di coloro che hanno negato quel minimo segno di dolore e rispetto.

Resta l’amarezza per una scuola che (sia pure con molte eccezioni) riesce a trasformare anche un’occasione di unità nazionale in un punto di divisione; e soprattutto si ostina a leggere qualsiasi vicenda attraverso le lenti della politica, peggio ancora dell’ideologia.

Tra le varie giustificazioni, colpisce quella della direttrice di una scuola romana: ogni caduto sul lavoro, non soltanto i militari, dovrebbe essere commemorato.

L’obiezione è sottile, perché incrocia un’attitudine dell’opinione pubblica: mai come questa volta l’Italia ha reagito al lutto come un Paese normale, piuttosto che come un Paese emotivo. Ma proprio questa «normalità» implica che il rimpianto e la gratitudine per i soldati, uccisi in una missione di pace che conducevano in nome e per conto di tutti noi, unisca anziché dividere. Mentre quasi l’intero Paese si fermava, mentre in qualche aula si faceva come se nulla fosse accaduto, nella basilica di San Paolo fuori le Mura i familiari si congedavano dai loro cari senza strepiti, senza invettive contro lo Stato e i suoi rappresentanti, ma con un dolore silenzioso. Quel dolore è stato — anche per i bambini e i ragazzi rimasti, senza loro colpa, seduti nei banchi — la migliore delle lezioni; e anche i piccoli l’hanno capita benissimo.

Aldo Cazzullo
22 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #56 inserito:: Settembre 23, 2009, 06:08:06 pm »

L’ex ministro socialista: Berlusconi mi aveva scippato la mia vecchia corrente del Psi

De Michelis consulente di Brunetta

«Io, un padre che torna ai figli»

«Renato? Non è mai stato povero come dice. Chi vendeva gondolette faceva i soldi»


ROMA - «Mi sono ricongiunto con i miei figli. Berlusconi mi aveva scippato la mia vecchia corrente del Psi... Ora ci siamo ritrovati». Venticinque anni fa, Gianni De Mi­chelis era il ministro e Renato Brunet­ta il consigliere. Ora la situazione si è rovesciata. Brunetta, dopo aver defi­nito il maestro «la migliore intelligen­za politica degli ultimi cinquant’an­ni», l’ha assunto come consulente. A prezzo adeguato? «Macché. Quarantamila euro lordi l’anno: praticamente volontariato - sorride De Michelis, capello corto e pancia ridimensionata -. Però sono felice di dare un contributo di idee». E Brunetta a che punto è nella classifi­ca delle intelligenze? «Fascia alta. In­ventore, e faticatore. Ero ministro del Lavoro durante la trattativa sulla sca­la mobile, lo chiamai e gli dissi: 'Re­nato, stanotte non si dorme. Per do­mattina voglio un dossier con tutte le nostre proposte ai sindacati'. All’alba aveva scritto il 'libretto rosso': forse il miglior testo di politica del lavoro degli Anni 80 in Europa. Certo, a vol­te l’intelligenza gli scappa».

Come nel­la sparata sul golpe delle élite? «Tut­t’altro. Brunetta ha lanciato un allar­me, e ha fatto benissimo. Lasciarci travolgere per la seconda volta, come nel ’92, sarebbe imperdonabile. An­che Craxi aveva fatto come Brunetta, quando alla Camera chiamò tutti i partiti a corresponsabili di Tangento­poli; dopo però non fu conseguente.
Si accucciò, e uso questo verbo non a caso». Che c’entra Cuccia? «Era l’uo­mo più potente d’Italia, e certo non amava il sistema politico del tempo. Eppure Mani Pulite si poteva chiude­re in due mesi: noi socialisti avevamo Palazzo Chigi, la Giustizia, la Difesa, vale a dire i servizi e i carabinieri. Do­vevamo fare subito il decreto per de­penalizzare il finanziamento illecito. Invece ci dividemmo: Martelli tentò di fregare me e Bettino, Amato badò a salvare la ghirba. Con un cane da guardia come Brunetta, Berlusconi non finirà così».

Anche adesso voi socialisti non sie­te messi male. «In effetti. Agli Esteri c’è Frattini, cresciuto alla corte del no­stro 'grand-commis' Nino Freni e portato da Martelli.
Poi c’è la Boni­ver, che capisce la politica estera. A Palazzo Chigi c’è Bonaiuti, un amico: lui era proprio demichelisiano. Capo dei deputati è Cicchitto, che ha una finissima cultura marxista; certo più di Bersani, che qualunque cosa dica dà sempre l’impressione di averla ap­presa dal bignamino. Alla Cgil c’è Epi­fani, che nel Psi è sempre stato alla mia destra, prima demartiniano poi craxiano. All’Economia c’è Tremonti, cresciuto con Reviglio e Formica. Fu Sacconi a farmelo conoscere, nell’85: mi parlò della 'lex mercatorum', e io che ho studiato chimica rimasi im­pressionato. Ma i miei figli sono ap­punto Sacconi e Brunetta».

Com’era Brunetta da giovane? «Non così povero come dice». Non vendeva gondoete di plastica? «Sì. Pe­rò le bancarelle di Lista di Spagna, di fronte alla stazione, erano le più am­bite di Venezia: chi le aveva faceva i soldi. Comunque non c’è dubbio che Renato si sia fatto da solo. Comin­ciammo a lavorare insieme nel ’77. Avevamo appena conquistato la mag­gioranza al Petrolchimico, la Mirafio­ri del Nord-Est, e facemmo un gran­de convegno, invitando anche Cefis. Gli dissi: 'Renato, stanotte non si dor­me. Per domattina voglio la relazio­ne'. All’alba era già ciclostilata in 200 copie. Cefis rimase colpito dal livel­lo ».
Aveva il complesso dell’altezza? «Un pochino. Ma gli servì per emerge­re».

«Sacconi invece lo conosco dal '72. Faceva il maestro di tennis. Giocava da fondocampo, come Barazzutti: se­conda categoria; una promessa. Pre­valse la politica. Nel ’79 ci presentam­mo in cop­pia, io numero 1 e lui 13, e lo fe­ci entrare alla Camera. Brunetta inve­ce era candidato sempre a Venezia centro, dov’eravamo schiacciati tra i commercianti democristiani e i por­tuali comunisti, e non veniva mai eletto. Si arrabbiava: 'Gianni, non hai capito che il migliore sono io?'. Il tempo gli ha reso giustizia». Sacconi racconta di una vostra fuga per timo­re di un golpe, uno vero. 'Il Pci stava all’erta, e noi discutevamo su dove espatriare. Maurizio proponeva la Ju­goslavia.
Gli risposi che ci avrebbero rimandati indietro; meglio la Svizze­ra, come Lenin».

«Già allora i miei due figli erano molto diversi. Sacconi è metodico tanto quanto Brunetta è esplosivo. Maurizio ha un metodo di lavoro più tradizionale, strutturato, simile al mio: uno più uno fa due. Renato è l’opposto. Ho già partecipato a una decina dei suoi staff-meeting: ci sono 35-40 persone, giovani e veterani co­me Davide Giacalone, lui ascolta e nel giro di un’ora decide. Il fatto che si sia messo in casa una personalità ingombrante come la mia significa che non ha paura di nulla. Altri prefe­riscono essere circondati da persone che non li valgono». Si riferisce a Ber­lusconi? «Berlusconi nel 2001 mi dis­se che non poteva candidarmi perché ero 'impresentabile'. Ma non gliene ho mai voluto, e l’ho appoggiato fino al 2007. Ho cercato di salvare una pre­senza autonoma dei socialisti, non ci sono riuscito. Silvio fa bene a reagire così agli attacchi: muoia Sansone con tutti i filistei, se necessario». Finirà la legislatura? «Non vedo motivi per cui non debba finirla. Però non sarà giu­dicato dalla durata, ma da come l’Ita­lia uscirà dalla crisi. Resto convinto che, in questa fase, questo paese si go­verna solo con una grande coalizio­ne. Magari l’avesse fatta Prodi nel 2006. A proposito, il ministro delle Partecipazioni Statali che portò a Pa­lazzo Chigi la nomina di Prodi alla presidenza dell’Iri ero io...».

Aldo Cazzullo
23 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 11, 2009, 07:33:07 pm »

IL CASO

E «Barbarossa» sbanca a Legnano

In platea fazzoletti verdi e applausi

Cinema gremito di famiglie con bambini. «Papà, il Bossi è quello con l'elmo?»

DAL NOSTRO INVIATO


LEGNANO — «Papà, ma il Bossi è quello con l'elmo?». «No tesoro, quello è Alberto da Giussano». «Appunto: allora è lui il Bossi». «No: è Raz Degan. L'attore che piace alla mamma». «Ma il Bossi, quello che piace a te, quando arriva?». «Arriva, arriva: La Padania ha scritto che ha una particina...». Tra Legnano e Cerro Maggiore, dove il 29 maggio 1176 la Lega lombarda sconfisse il centralismo imperiale, oggi c'è un gigantesco cinema multisala, uno dei primi e dei più grandi del Nord Italia; e ovviamente danno «Barbarossa». Come vedere «Baarìa» a Bagheria. La sala 7, trecento posti quasi tutti prenotati, è già piena: a mezz'ora dall'inizio il cronista compra il penultimo biglietto, in prima fila, sotto il megaschermo. All'ingresso si è accolti da armigeri con scudi, lance e tutto: non sono i «vecchi Galli» citati da Bossi, ma i figuranti del palio di Legnano, dove ogni anno viene messa in scena la battaglia. Chi ha già il biglietto si rilassa con una birra e una fajita di pollo all'American Restaurant Crazy Bull, tra le targhe dell'Interstate Texas 20 e dell'Oklahoma Road 611. Ci sono anche la griglieria argentina «El Gringo», il kebab, la crêperie, il sushi-bar, il wine-bar e il fast-food cinese «Shanghai Quick».

Più che un «non luogo», la multisala è ormai un «super luogo», di quelli che sostituiscono la piazza e il paese come posto d'incontro; di padano non c'è nulla; tranne, stasera, il film. «E' tempo che tutti i comuni lombardi si uniscano in una Lega!» proclama Alberto da Giussano, e la sala approva: «Sì!». «Questa terra appartiene a noi lombardi fin da quando abbiamo memoria!». Applauso. Non è tanto tifo politico, quanto rivendicazione di identità. Visti anche i fazzoletti verdi, ma soprattutto famiglie con bambini anche piccoli, come quello che tormenta il padre: «E' lui il Bossi?». «No, lui è Barbarossa». Gli organizzatori del palio di Legnano sono in giacca e cravatta. Il film è zeppo di allusioni politiche, magari non volute, ma che sollecitano i più appassionati. «Roma è debole e malata», infatti si dà al Barbarossa — «Sire, Roma è ai vostri piedi» —, ed è pure devastata dalla peste. Cremona e Ferrara tradiscono: «Comunisti!» sibila una voce nel buio. Delusione per i guerrieri con gli scudi crociati: praticamente il simbolo della Dc; sollievo all'apparizione del Carroccio trainato da buoi. Ma la discussione più accanita si accende in sala per stabilire quale sia la chiesa che si intravede dietro le mura di Milano. «E' Sant'Ambroeus». «No, è san Babila. Sant'Ambrogio ha il portico davanti». Poi il traditore, che ha il volto del cattivo di Hollywood per eccellenza, F. Murray Abraham, apre in effetti «la grata di Sant'Ambrogio» e risolve la questione. «Papà, è lui il Bossi?». Il padre ora si spazientisce: «No, Bossi è buono».

Una signora lamenta che gli accenti degli attori non siano lombardi, «con tutte quelle esse sibilanti da Centro-Sud»; il che è vero. Il film riesce noiosetto, con le frequenti grida di «libertà!» a evocare il Mel Gibson di Braveheart, ma solletica l'orgoglio settentrionale — «se riuscirai a dominare il Nord Italia diventerai il sovrano più potente d'Europa» — e gli spettatori lo seguono in tensione crescente. Verona, Novara, Vercelli, Como, Bergamo, Pavia sono schierate allora come oggi con la Lega. E ovviamente si giura a Pontida. Un signore in tuta che ha fatto la comparsa a cavallo nella battaglia indica fiero alla fidanzata: «Io sono quello lì, accanto all'Alberto». Qualcuno registra la carica con il telefonino. L'applauso finale sull'ultimo «libertààà!» dopo oltre due ore e mezza non è liberatorio ma convinto. Mentre scorrono i titoli di coda — «i comuni padani avevano così ottenuto la loro indipendenza...» — i commenti sono soddisfatti. I più critici sembrano gli organizzatori del palio, apolitici, che però discettano di costumi, fibbie, finimenti, speroni.

Raz Degan, confermano le signore, è bellissimo. «A me piace più l'Alberto da Giussano del Butti» sbotta un marito seccato, che insiste per portare la compagnia a rendere omaggio alla statua che lo scultore romantico eresse sulla piazza di Legnano. Ma il grosso si ritrova al piano terra della multisala, in gelateria, alla focacceria ligure, alla piadineria, «alla Pizz@ Communication», al distributore di pupazzi di Hello Kitty, o davanti al menu Poldo della paninoteca. Bossi non si è capito bene dove fosse; qualcuno ipotizza che la Padania abbia fatto uno scherzo; ma un ragazzo che spiega di conoscere bene «il capo» svela il segreto. Bossi è uno dei nobili padani che ha giurato a Pontida; il regista Martinelli non l'ha messo in primo piano, ma a guardar bene si vede che è lui; «il capo» ha pure raccontato, molto divertito, che alla fine era rimasto incastrato nel costume medievale, e proprio non riusciva a toglierselo. Si vorrebbe concludere la serata al karaoke, ma purtroppo è già chiuso. Un cartello informa che tutto è pronto per la festa di Halloween. A voltarsi indietro, la scritta luminosa che si vede fin dall'autostrada informa che la multisala è della Medusa; pure quella, cioè, di Berlusconi.

Aldo Cazzullo

11 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 13, 2009, 09:20:05 am »

L'INTERVISTA

Pansa: sì, è ora di fermarsi

Sento aria di anni Settanta

«Come allora ci sono due blocchi che si odiano, cattivi maestri e firmaioli»


«Sottoscrivo dalla prima riga all'ultima l'editoriale di Ferruccio de Bortoli, e anche la sua replica a Eugenio Scalfari e Marco Travaglio. È il momento di fermarci. Di stabilire una tregua. Nel Paese, e anche tra i giornali».

Perché ne è convinto, Giampaolo Pansa? «Perché l'aria che sento circolare in Italia mi ricorda molto quella dell'inizio degli anni '70. Non dico sia la stessa. Però, come i vecchi cani da caccia, vengo messo in allarme. Perché, essendo abbastanza anziano, rammento quel che ho visto allora».

A cosa si riferisce in particolare? «Autunno 1970. A Genova nasce una banda rossa, la XXII ottobre, che rapisce Sergio Gadolla, figlio di un imprenditore, per averne un riscatto. Marzo 1971: la stessa banda di Genova uccide un fattorino, Alessandro Floris, nel corso di una rapina. Nel maggio 1972 a Milano, tanto per ricordarlo, viene assassinato il commissario Luigi Calabresi. Nel 1973 le Br, che l'anno prima hanno rapito e fotografato con una pistola alla guancia il capo del personale della Sit Siemens, compiono altri sequestri-lampo e appiccano incendi nelle fabbriche milanesi. Il primo sequestro di lunga durata è del 1974: Mario Sossi resta nel carcere brigatista per un mese. Sempre nel 1974, a Padova, le Br uccidono due persone nella sede del Msi… Sono cose che ho seguito di persona, come cronista della Stampa di Ronchey e del Corriere della Sera di Ottone».

È sicuro di non sentire la suggestione di un passato che ci pare sempre destinato a ripetersi? «Il vissuto, come ci insegna l'esistenza, ti torna sempre in mente, se non sei portato al black-out, alla rimozione. Tocchi pure ferro. Ma nell'Italia di oggi ritrovo cinque situazioni identiche ad allora. Il Paese è diviso in due blocchi che si odiano, si scomunicano a vicenda, si combattono senza esclusioni di colpi. Vedo in giro molto pregiudizio, cose gridate senza riscontri, condanne morali pronunciate senza autorità. Personalmente mi sono già vaccinato da solo: quando sono usciti i miei libri revisionisti, la sinistra mi ha subito dato del fascista, senza aver nemmeno letto nulla di quello che scrivevo. Ma se allarghiamo le nostre vicende personali, e le collochiamo nel quadro dell'Italia di oggi, è una roba che fa spavento. Senza precedenti negli ultimi quarant'anni, tranne forse il culmine di Tangentopoli».

Quali sono le altre «situazioni identiche» ai primi anni '70? «L'imperversare dei cattivi maestri. Quelli che intossicano l'aria. Soprattutto quelli di sinistra. Scrivono che Berlusconi è come Mussolini, che la democrazia in Italia sta morendo, che non c'è più la libertà di stampa. Ancora: la ricomparsa dei firmaioli. Si stende un proclama e i cervelloni di sinistra lo firmano o mandano lettere su lettere ai giornali. Se non fosse grottesco, mi incuterebbe un timore. Ce le ricordiamo o no le 800 e più firme in fondo all'appello contro Calabresi "torturatore" di Pinelli? La famosa intellighentia di sinistra troppe volte ha tradito i doveri degli intellettuali: distinguere, non fare confusione, non aizzare le reazioni delle persone più semplici». Oggi sui giornali non ci sono appelli contro commissari di polizia, ma per la libertà di stampa e la dignità delle donne, dopo l'attacco di Berlusconi a Rosy Bindi. «Berlusconi ha fatto male. Guai a prendere in giro una donna. Me l'ha insegnato una volta per sempre mia madre, negli anni '40. Ma come si fa a trasformare una battutaccia scema in un delitto pubblico, da sanzionare con le firme e con le magliette? Un po' di misura ci vuole».

Ma dietro la «battutaccia» c'è la vicenda delle escort a Palazzo Grazioli. E ci sono le querele del premier ai giornali. «L'ho scritto sia sul Riformista sia su Libero: sono convinto che Berlusconi sia cotto. Di lui non mi frega assolutamente nulla: non l'ho mai votato, non mi piace, nel 1990 ho scritto un libro contro di lui persino troppo duro, "L'intrigo", sulla guerra di Segrate. Credo che Silvio Berlusconi sia arrivato alla fine della corsa, per due volte gli ho consigliato di dimettersi. Penso si sia comportato in modo folle: tutti possono andare con le escort, se hanno soldi e non hanno una signora che li controlli; l'unico che non può farlo è il presidente del Consiglio. Berlusconi è colpevole. Detto questo, dobbiamo fucilarlo? Appenderlo per i piedi, come Mussolini con la Petacci?».

Quali potrebbero essere le conseguenze, secondo lei, qualora la tregua non ci fosse? «Il ritorno della violenza, anche a sinistra. È accaduto un fatto che mi ha colpito, pure se non ha "bucato" le cronache, che legittimamente si occupano di capire se Berlusconi starà o no in piedi e chi guiderà il disgraziatissimo Pd. Alla fine di settembre è morto per infarto a Torino il magistrato Maurizio Laudi, un galantuomo, che aveva indagato su anarchici ed estremisti rossi. Il giorno dopo sui muri c'erano decine di scritte contro di lui. La Stampa ne ha pubblicato le foto: "Laudi è morto, un boia in meno". Un'oscenità. L'altro giorno a Pistoia c'è stata l'ennesima spedizione punitiva contro Casa Pound, l'associazione di destra, con tanto di scontri con la polizia…».

Ma cosa c'entra la violenza con le polemiche dei giornali? «Questa è la quinta e ultima analogia tra i primi anni '70 e oggi. È cominciata la guerriglia tra giornali, e va ben oltre il confronto tra opinioni diverse. Un conto è scrivere in modo secco e duro; è anche mia abitudine. Ma se cominciamo a farci la guerra, ad accusarci a vicenda di cose che non abbiamo fatto né scritto, le conseguenze possono essere serie. Ce lo insegna la storia del nostro Paese».

Aldo Cazzullo

13 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #59 inserito:: Ottobre 26, 2009, 04:40:25 pm »

L'intervista

Cicchitto: «Collegialità sulle scelte economiche, Tremonti lo capisca»

«Vedo somiglianze con il ’92-’94.

Ma i capi di Dc e Psi non avevano il sostegno popolare di Berlusconi»


ROMA - Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati Pdl, divide queste giornate tra la gestione della crisi politica nel centrodestra e il lancio della sua nuo­va Fondazione Riformismo e libertà, che sarà presentata all’inizio di no­vembre a Roma (con Francesco For­te a guidare il comitato scientifico).

Presidente Cicchitto, che succe­de nella maggioranza?
«C’è un confronto sulla politica economica: come coniugare il rigo­re — indispensabile per un Paese che ha un debito pubblico doppio di quello della Germania — e la dimi­nuzione del carico fiscale sulle picco­le e medie imprese per tenere in pie­di l’occupazione. Una discussione molto seria, che è stata impropria­mente personalizzata».

L’impressione è che nel partito e nel governo ci sia un’aperta insoffe­renza nei confronti di Tremonti e del suo asse con la Lega.
«Non è così. Siamo tutti consape­voli della figura di Tremonti, e an­che del suo ruolo politico. Figura e ruolo che non sono in discussione. Anche Tremonti però dev’essere con­sapevole che la politica economica non può essere monopolio di nessu­no » .

Tremonti sarà d’accordo?
«Nessuno mette in dubbio quanto è stato fatto finora. Ma adesso occor­re una seconda fase, incentrata sulla crescita. In un partito da 270 deputa­ti, che è il primo al Nord come al Sud e ha ministri di peso, la politica economica è oggetto di discussione e di gestione collegiale, sotto la lea­dership di Berlusconi; che poi è l’uo­mo che prende i voti».

Si parla di Tremonti vicepre­mier.
«Tremonti non ha bisogno di pen­nacchi. Al Tesoro ha già un peso su­periore a qualsiasi altro ministro. Un ruolo così importante non va ribadi­to o appesantito da un’altra carica, che in un governo di coalizione spo­sterebbe gli equilibri».

Come vede l’ipotesi di elezioni anticipate?
«La escludo. La via maestra è go­vernare per i prossimi quattro anni. Anche se dobbiamo essere consape­voli che l’anomalia italiana non è ri­solta, e anzi siamo di fronte a una ra­dicalizzazione dello scontro».

Qual è l’anomalia?
«Esistono forze finanziarie, edito­riali, giudiziarie e politiche che non hanno accettato il verdetto del 2008 e ricorrono a mezzi impropri per far saltare il quadro politico. Una situa­zione che ha elementi di somiglian­za con quella del ’92-’94».

Quella volta il quadro politico saltò.
«La differenza è che i leader della Dc e del Psi non avevano un forte consenso popolare; oggi invece Ber­lusconi è sostenuto da grandi masse di cittadini».

Non le pare che Berlusconi, pre­mier ed editore, sia parte dell’ano­malia?
«No. L’anomalia italiana è la so­pravvivenza nella parte maggiorita­ria della sinistra di un grumo irrisol­to di comunismo, che si è mutato in giustizialismo. Il metodo e le finalità sono sempre le stesse: demonizzazio­ne dell’avversario, volta alla sua eli­minazione » .

Non potrebbe essere proprio la maggioranza a offrire una tregua?
«Non abbiamo voluto noi l’imbar­barimento. È vero, sarebbe indi­spensabile un disarmo bilaterale nel campo degli attacchi personali: tutte le forze politiche e giornalisti­che dovrebbero smettere di seguire questo metodo di lotta politica. Ma vedo il rischio di un’ulteriore escala­tion ».

Come si sta muovendo Fini?
«Fini ha una dimensione istituzio­nale che rispetto e apprezzo. E atten­do con curiosità il suo prossimo li­bro. Invece non condivido le analisi 'tranquillizzanti' sviluppate da setto­ri originariamente di destra, dal Se­colo d’Italia alla fondazione FareFu­turo , che puntano all'omologazione in chiave bipartisan della situazione italiana a quelli di altri Paesi euro­pei » .

Di qui la destra, di là la sinistra. Non sarebbe male.
«Magari. Purtroppo non è così, a causa della linea prevalente nell’op­posizione. Per questo l’analisi è illu­soria, determinata anche da com­plessi d’inferiorità verso la sinistra, che non hanno alcuna ragione d’es­sere. Pensiamo piuttosto a costruire un grande partito interclassista, che dialoga con la Chiesa ma non le è su­bordinato, che rivendica il Risorgi­mento e l’unità nazionale e non per­mette alla sinistra di impossessarse­ne in modo strumentale».

Bossi dice che l’accordo per le Re­gionali è fatto: il Veneto alla Lega.
«Gli annunci servono a marcare una posizione contrattuale migliore. Ma la ripartizione delle Regioni non è ancora stata definita».

La Lega può averne due?
«La candidatura in una regione del Nord e in una del Centro-Nord mi pare una soluzione ragionevole».

Le primarie del Pd sono state un successo
«Sono state una scimmiottatura impropria e plebiscitaria delle prima­rie vere. In America si vota per il can­didato presidente, non per il segreta­rio del Partito democratico. Da noi Franceschini ha fatto appello a dipie­tristi e girotondini, per sovvertire la decisione degli iscritti. E con una mossa razzista e antifemminista si è messo al fianco un nero in quanto nero, e una donna in quanto don­na » .

Preferisce Bersani?
«Se non altro sappiamo cos’è: un ex comunista, formatosi nelle regio­ni rosse, depurato da elementi auto­ritari. Spero ad esempio che venga ri­visto il 'no' alla nostra proposta di incontro sulla giustizia».


Aldo Cazzullo

26 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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