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Autore Discussione: FASSINO...  (Letto 26947 volte)
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« inserito:: Giugno 15, 2007, 10:18:07 pm »

Fassino: «La gente è delusa. Serve uno scatto»

Ninni Andriolo


«Una riunione ottima. I Ds non sono affatto un partito allo sbando o nella bufera. Al contrario, siamo un gruppo dirigente solidale e consapevole dei passaggi delicati che abbiamo di fronte». Piero Fassino trae un bilancio del Comitato politico della Quercia. «Usciamo con l’obiettivo di realizzare uno scatto nell’azione di governo e uno scatto nella costruzione del Partito democratico», spiega il leader della Quercia.

Molti interventi, per la verità, hanno espresso preoccupazione per l’azione di governo. Le sorti del Pd, si è detto, non possono coincidere con quelle dell’esecutivo...
«So bene che c’è chi sostiene “puntiamo sul Pd, poi se il governo ce la fa, bene, altrimenti pazienza”. Ma questo è un ragionamento che non regge. Governo Prodi e Partito democratico sono due entità separate ma non separabili. È chiaro che l’azione di governo è una cosa e la costruzione del Pd un’altra, e che ciascuna di queste due dimensioni ha una propria autonomia. L’una, però, determina l’altra. Un’azione di governo efficace renderebbe più forte la costruzione del Partito democratico. E, reciprocamente, un Pd che nasca sullo slancio di una forte e larga partecipazione può dare al governo solidità e forza».

Ieri, però, è stata chiesta a Prodi qualcosa di più di uno scatto. Tra i Ds c’è disillusione, non crede ?
«Tutti gli interventi hanno mostrato grande condivisione della mia relazione e si sono mossi in sintonia con le indicazioni che ho dato. Partiamo da un giudizio che non minimizza l’esito delle elezioni. Queste hanno segnalato un disagio, una diffidenza, una estraneità dei cittadini verso la politica in generale. Tant’è che l’astensionismo ha colpito sia il centrosinistra che il centrodestra. È chiaro, però, che quel sentimento di estraneità ha penalizzato molto di più il centrosinistra».

Perché ad un anno appena dalle elezioni politiche?
« Intanto perché è evidente che il malessere dei cittadini si scarica nei confronti di chi governa. Quelle città del Nord che abbiamo perso sono le stesse che Berlusconi aveva perso nel 2002. Naturalmente, nel voto si è registrato anche un disagio e un malessere nei confronti della politica del governo. Anche se noi, in questi mesi, ci siamo sforzati di portare avanti un’azione coerente di cambiamenti, riforme e innovazione»

L’elettorato non l’ha vissuta così...
«Certo, le aspettative che i cittadini avevano non sono state corrisposte, nel senso che abbiamo misurato uno scarto tra ciò che siamo riusciti a fare e le attese della gente»

Anche i fischi di ieri al ministro Bersani sono un segno evidente del malessere diffuso, non crede?
«Le contestazioni rivolte a Bersani, come rappresentante del governo, nel corso dell’Assemblea di Confartigianato, non sono una sorpresa. Se ricordiamo bene, settori di lavoro autonomo avevano già espresso disagio molto forte nei confronti della Finanziaria. I fischi di oggi (ieri,ndr.) vengono da una categoria che non si sente coinvolta e riconosciuta, e che vive ogni provvedimento, anche quando può essere giusto, come atto di ostilità»

Nelle contestazioni, però, c’è anche il segno di resistenze corporative, egoismi, particolarismi...
«Certo. Io non mi sono mai illuso che la lotta all’evasione fiscale, che ci porta a scontrarci con interessi e furbizie, fosse un pranzo di gala. Proprio per questo è necessario un metodo di condivisione con quelle categorie che, in maggioranza, pagano le tasse e non vogliono eluderle. Con loro bisogna fare l’alleanza per sconfiggere chi evade. Se, al contrario, il messaggio che si trasmette è che basta essere artigiano o commerciante per essere considerato un evasore, immediatamente si determina un muro di incomunicabilità».

Lei, per la verità, il problema lo aveva segnalato all’epoca della Finanziaria, Non è che da allora le cose siano cambiate in meglio...
«Io avevo detto: “attenzione, c’è una criticità di rapporto con settori di lavoro autonomo, di impresa media e piccola, un disagio che si concentra soprattutto nel Nord”. Personalmente ho anche cercato di mostrarli i segnali d’attenzione, ma è evidente che non sono stati sufficienti. Questi ceti si attendono risposte concrete»

E i nuovi studi di settore lo sono?
«Io credo che il modo come è stata sviluppata la discussione in queste settimane non ha favorito il rapporto con il lavoro autonomo. Al di là del merito, visto che gli studi di settore sono uno strumento di lotta all’evasione fiscale, è emersa - anche questa volta - una difficoltà di comunicazione, di sedi di confronto e di condivisione, tra il governo e un settore importante e decisivo del mondo dell’impresa e del lavoro. Anche nel metodo, quindi, ci vuole uno scatto. Non si governa un grande Paese senza ricercare, tutti i giorni, la condivisione della società. Ma lo scatto serve innanzitutto sui tempi di decisione. I cittadini, infatti, misurano ogni giorno una distanza sempre meno sopportabile tra il tempo in cui vivono e il tempo delle scelte politiche. E uno scatto serve anche nei contenuti...»

Un banco di prova immediato è il Dpef, segretario...
«Dobbiamo dare risposte su più fronti. Sul fronte delle domande che ci vengono dal mondo dell’impresa, dell’innovazione e del lavoro. E su quello del disagio sociale, aumentando le pensioni basse, finanziando gli ammortizzatori sociali, mettendo mano al pacchetto casa, tutelando i redditi bassi. Lo scatto dobbiamo farlo intorno a questi fronti che vanno tenuti insieme. E c’è un tema che unifica questi campi: il nodo fiscale...»

Meno tasse?
«Abbiamo fatto una Finanziaria ambiziosa e per certi versi impopolare che, però, sta dando risultati: stiamo riducendo il deficit di bilancio e il debito pubblico, mentre cresce il prodotto interno lordo. Tutto questo ci mette in condizione, dalla prossima Finanziaria, di procedere alla riduzione fiscale. Dobbiamo dirlo e dobbiamo individuare le riduzioni fiscali da mettere in campo».

L’Unione europea, però, chiede coerenza nel risanamento dei conti pubblici, dove troverete i soldi per le politiche che lei auspica, segretario?
«Dobbiamo usare il cosiddetto Tesoretto lungo le tre linee di marcia già individuate dalla legge Finanziaria: risanamento, sviluppo e redistribuzione sociale. Si può e si deve procedere su quella strada con coerenza»

Nell’Unione, però, le posizioni sono diverse. Come farete a conciliare le proposte della sinistra radicale con quelle più riformiste?
«Io credo che intorno all’impianto che ho descritto si possa, e si debba, realizzare un maggiore grado di coesione del centrosinistra. Il voto ci dice che distinguersi non premia nessuno. Nella maggioranza è prevalsa una babele di linguaggi. Distinguersi non salva l’anima e non ti salva nemmeno i voti. Serve, al contrario, una politica che governa, sceglie, decide. L’accordo sulla Tav di mercoledì scorso ha dato un buon segnale. È possibile, quindi, farsi carico insieme dei problemi. Discuterli, cercare soluzioni praticabili che, una volta individuate, possano essere sostenute insieme. Una maggioranza non è una caserma, non si tratta quindi di vietare la manifestazione della propria opinione. Ma una maggioranza non può nemmeno essere un’armata Brancaleone. Serve un gioco di squadra».

Al momento, però, sembra addirittura prossimo il collasso del governo...
«Non è così. E, d’altra parte, ho detto con chiarezza che governi di larghe intese non sono praticabili, non appaiono realistici esecutivi istituzionali e non c’è una maggioranza di centrodestra, visto che anche in queste ore la Cdl manifesta le proprie divisioni. L’unica maggioranza che esiste, quindi, è quella di centrosinistra. Naturalmente dobbiamo essere consapevoli che questa maggioranza soffre al Senato di numeri esigui e che serve, quindi, grande coesione. Del centrosinistra, del governo e tra governo e gruppi parlamentari. In ragione tale da determinare una griglia di priorità intorno alle quali caratterizzare l’azione del governo».

Anche il Partito democratico sembra in affanno, come se ne esce?
Anche qui serve uno scatto. Tra quattro mesi eleggeremo l’Assemblea costituente. Abbiamo percorso una strada enorme, considerando che abbiamo cominciato a discutere di Pd soltanto un anno e mezzo fa. Adesso siamo nella fase cruciale e tutto ciò che abbiamo alle spalle ci sta portando a fondare il nuovo partito, chiamando a votare una moltitudine amplissima di cittadini».

La spinta propulsiva dei congressi Ds e Dl, però, sembra un ricordo...
«Dopo quei congressi, e con la straordinaria passione dimostrata dal nostro di Firenze, c’e stato - in realtà - il rischio di un ripiegamento autoreferenziale. Noi dobbiamo liberarcene subito, compiendo uno scatto. A patto, però, di tornare a motivare con chiarezza il perché del Pd. Abbiamo bisogno di una grande forza politica che dia risposte alle domande dei cittadini, alle loro aspirazioni, al loro bisogno di avere un Paese moderno e giusto. Dobbiamo dare respiro, profilo ed energia al progetto. Guai a frustrare la passione e l’entusiasmo che registro in tutta Italia. Il 14 ottobre oltre un milione di cittadini si dovrà recare ai seggi. Possono essere anche di più se saremo capaci di lavorare bene in questi mesi. Le quattromila feste de l’Unità sono un’occasione da non perdere. Come avvenne due anni fa, in preparazione delle primarie».

L’Assemblea costituente eleggerà un segretario politico?
«Approverà il manifesto del Pd, nella nuova versione rivista e corretta, e lo Statuto del nuovo partito. Eleggeremo anche il segretario politico che non sarà né una figura burocratica, né solo organizzativa. Ma un vero leader che affianchi, alla guida del Pd, il presidente del partito, che è anche Presidente del Consiglio».

Sul caso Unipol, in questi giorni, i Ds non hanno incassato grande solidarietà dai compagni di strada del Pd. Silenzio dalla Margherita e appoggio un po’ tiepido da Prodi...
«No, non è così. C’è stata la solidarietà chiara e inequivoca di Prodi. E c’è stata solidarietà da parte della Margherita e di tutti i dirigenti del centrosinistra».

La vicenda intercettazioni non inciderà sulla costruzione del Pd?
«È chiaro che il doppio scatto nell’azione di governo e nella costruzione del Pd sono resi più difficili, ma anche più necessari, dal clima torbido in cui viviamo. Stiamo subendo un’aggressione del tutto immotivata. La vicenda Unipol è nota da due anni. Nel gennaio 2006, quando esplose, noi riflettemmo a fondo. Facendo le autocritiche necessarie e riconoscemmo che c’era stato un di più di sovraesposizione, dettato tuttavia da ragioni politiche e non da convenienze di partito e tanto meno personali. All’epoca dei fatti, peraltro, noi non eravamo a conoscenza di molti aspetti discutibili con cui era stata gestita la vicenda. Quando ne siamo venuti a conoscenza abbiamo preso le distanze in modo netto e severo. Noi, allora, ci battemmo per affermare un principio politico di non discriminazione. Che il movimento cooperativo, cioè, potesse avere le stesse opportunità di qualsiasi altro attore economico. Guardammo con favore alla possibilità di una fusione Unipol-Bnl, perché un progetto di banca-assicurazione ci sembrava plausibile dal punto di vista industriale e imprenditoriale. Dopodiché non abbiamo compiuto alcun atto né di ingerenza, né di partecipazione alla vicenda. Perché non ne avevamo titolo e ruolo. Le telefonate confermano tutto questo...»

Confermano anche un certo tifo per Unipol...
«Le telefonate pubblicate dimostrano che io e D’Alema abbiamo avuto rapporti con Consorte solo al fine di essere informati sull’andamento della vicenda, dal momento che i giornali ne parlavano tutti i giorni. Con una girandola infinita di voci, illazioni, indiscrezioni. A conferma che il nostro comportamento è stato pulito e limpido c’è un dato: non risulta esserci alcuna telefonata mia a nessun altro che non fosse Consorte. Né con Fazio, né con Ricucci, né con Statuto, né con Coppola».

Latorre però con Ricucci parlava...
«Vorrei sottolineare che non è Latorre che chiama Ricucci, ma è Ricucci che chiama Latorre. Un tentativo di Ricucci di accreditarsi, cosa che non mi pare abbia sortito effetto. Perché, al di là di quella telefonata, nessuno di noi poi ha avuto rapporti né con Ricucci né con altri. Attenzione però. Le intercettazioni vanno gestite con prudenza. Non solo perché una telefonata è un fatto privato, ma perché la trascrizione di una telefonata è falsa in sé. Una stessa parola, infatti, a secondo del tono con cui la pronuncia, può essere ironica, seria, irritata, canzonatoria, una battuta o no. Le trascrizioni non ti danno il tono della voce e, dunque, offrono un testo sottoposto a interpretazioni che possono rivelarsi lontanissime dal vero».

Questo, però, non può valere solo per i politici...
«Attenzione, non si tratta di tutelare i politici o i parlamentari. Ma di salvaguardare i diritti di ogni cittadino. In questo caso, invece, c’è stata una violazione palese di fatti privati che ogni cittadino deve vedere rispettati. E che invece, con le procedure della magistratura di Milano, non sono stati rispettati. Siccome, però, noi non abbiamo nulla da temere - e le telefonate dimostrano l’assoluta trasparenza, correttezza e buona fede di quelle conversazioni - non ho alcuna preoccupazione. Quello che accade in questi giorni è inaccettabile. La verità è che la vicenda Unipol è l’ultimo episodio di una tendenza ricorrente alla destabilizzazione della politica italiana. Non sono alla ricerca né di complotti né di grandi vecchi, ma registro un tentativo costante di delegittimare la politica, di ridurre il ruolo delle istituzioni, di denigrare i singoli. Questo mi preoccupa. Ma non perché i Ds abbiano qualcosa da temere, visto che non c’è nessuna questione morale e non siamo al ‘92, come è stato scritto. Quello che temo, invece, è un serio indebolimento della democrazia italiana»


Pubblicato il: 15.06.07
Modificato il: 15.06.07 alle ore 9.04   
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« Ultima modifica: Aprile 13, 2008, 03:11:13 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 16, 2007, 10:23:31 pm »

POLITICA

L'ANALISI

Subito primarie e un vero leader o il Partito democratico affonda

di MARIO PIRANI


LA SINISTRA è in preda a una sindrome scaramantica. Rifiutando di discutere a fondo le dimensioni e soprattutto le cause della sua sconfitta, s'illude che questa non oltrepassi i confini municipali e non presenti, comunque, sintomi di tale gravità da meritare approfonditi dibattiti e pronte decisioni. Impressiona la perdita del senso di realtà come denota quella frase auto consolatoria, ripetuta ad ogni pié sospinto: "La spallata non c'è stata!". Quasi una giaculatoria rivolta al santo patrono perché il terremoto non ha spianato l'intero Paese e si possa tornare alle abituali occupazioni senza guardare se il sisma abbia scosso le fondamenta strutturali e i muri maestri, con l'incombere sempre in agguato di un crollo catastrofico improvviso. Al più si ripete a mo' di post scriptum l'altra frase dall'incomprensibile significato: "Ora il governo deve cambiare passo".

A tentare una analisi non restano che i bistrattati mass-media, col limite intrinseco della loro estemporaneità e soggettività. Nel caso in questione ho cercato di temperarne gli effetti rivolgendomi a due affermati studiosi sociali, particolarmente esperti dei flussi elettorali, Ilvo Diamanti e Nando Pagnoncelli. Il primo - che ne ha scritto già su Repubblica - invita a non limitare l'indagine sullo smottamento verificatosi in quasi tutto il Settentrione (con l'eccezione ligure, dove, peraltro, la vittoria è stata di una corta incollatura) ma a puntare la lente sull'Italia centrale (Emilia, Toscana, Marche ed Umbria) dove il recente voto amministrativo "ha intaccato a fondo il mito della immobilità politica delle zone rosse", tanto che nei comuni sopra i 15.000 abitanti l'Ulivo perde quasi l'8%. Un dato non dovuto ad un aumento della destra ma alla defezione assenteistica e di protesta di una componente non piccola di quello che un tempo si chiamava "zoccolo duro".

Alle criticità addebitabili alla fiscalità, all'ordine pubblico, all'emigrazione, si sono aggiunte la crescente impopolarità del governo e il ripiegarsi delle speranze suscitate dalla prospettiva del Partito democratico, allorquando tra infinite mediazioni, le nomenklature hanno imposto un tortuoso cammino di scarsissima attrattiva per arrivare alla meta.

L'interrogativo è se l'aprirsi di questa linea di faglia nei pilastri storici delle organizzazioni di sinistra sia o no prodromo di un futuro e rapido crollo, paragonabile a quello che ha ridotto al 4,6% il partito comunista francese.

L'analisi di Pagnoncelli, simile nei giudizi di fondo, è però segnata da una ipotesi più ottimistica. In primo luogo invita a non sottovalutare l'influenza dei fattori locali nei voti comunali, pur evidenziando il significato dell'astensionismo asimmetrico (che, cioè, ha colpito una sola parte politica e non tutto il corpo elettorale), prova della disaffezione marcata nei confronti dell'Unione e del governo. D'altra parte anche Berlusconi, ad un anno dalla vittoria del 2001, soffrì un calo di ben 14 punti, passando dal 59% al 44% nell'indice di gradimento. L'effetto fu attribuito ai contraccolpi dell'entrata in funzione dell'euro e alla Finanziaria. Il diagramma di Prodi parte, invece, dal 52% iniziale (maggio 2006) e sale al 56% nel luglio 2006 in coincidenza con i primi decreti Bersani sulle liberalizzazioni e con la vittoria ai Campionati del mondo. Crolla di venti punti nell'arco di tempo fra l'indulto e la Finanziaria, risale al 39 fra dicembre e gennaio e al 42% in aprile, immediatamente dopo i congressi Ds e Margherita, ma il rapido riemergere delle diatribe interne segna un ripiegamento fino al 37%, con un ulteriore scivolamento al 34 e mezzo in coincidenza con l'affare Visco-Speciale. Non sono state ancora valutate le conseguenze delle recenti intercettazioni e della rivolta fiscale di artigiani e piccoli industriali in seguito alle variazioni degli studi di settore.

Sempre secondo Pagnoncelli l'affievolimento marcato del consenso indica che le preoccupazioni del popolo di centro sinistra sono nell'ordine rappresentate dal fisco, dalla sicurezza e dal precariato, accompagnate dal convincimento che almeno sui primi due temi Prodi non sia in grado di dare risposte soddisfacenti. Coefficiente comune è anche l'insopportabilità per i dissidi ormai insanabili tra i vari partner dell'Unione e all'interno stesso dei partiti che ne fanno parte. Di qui l'insorgenza dell'anti politica e la speranza, continuamente rimessa in gioco, di una ritrovata unità attraverso il Partito democratico. Un soffio di ottimismo è, peraltro, offerto dall'analista che ricorda come, al momento delle elezioni politiche, una aliquota dei "disaffezionati" torna, in genere, a dare il voto allo schieramento di tradizionale appartenenza "turandosi il naso". Non è detto che questa reazione si verifichi comunque, e senz'altro non gioca nelle classi giovani.

Che fare in un frangente tanto rischioso in cui le ragioni di vita della sinistra sono in bilico su un crinale stretto e franoso? Non basta a consolidarlo il cemento dell'antiberlusconismo e neppure qualche concessione economica per tacitare provvisoriamente le sinistre di governo, emotivamente nostalgiche del vecchio ruolo di oppositori. L'acido corrosivo dell'antipolitica trova una inesauribile sorgente negli atti, nei comportamenti, nel linguaggio supponente di un ceto politico indistinguibile fra destra e sinistra, nella pervasività di una lottizzazione prepotente e priva di competenze, negli sprechi assurdi e offensivi a tutti i livelli della cosa pubblica. Solo una netta e proclamata rottura di continuità su questo terreno può rovesciare la tendenza in atto e ridare spinta propulsiva al centro sinistra. Il decalogo per il Palazzo, che ho suggerito su Repubblica, condiviso da ben 150.000 lettori, voleva rappresentare l'incitamento ad un gruppo di coraggiosi tra i propugnatori del Partito democratico a divenirne i mallevadori. Tutto si gioca ora sulla fondazione di questo partito ma esso darà anelito a un recupero di massa della buona politica solo se verranno rovesciate le premesse meschine su cui sembra reggere un asfittico compromesso. Altrimenti l'iniziativa si risolverà in una Cosa Tre, più deludente delle precedenti.

Due fasi ci appaiono indispensabili. Primo: invitare il popolo delle primarie dell'ottobre 2005 ad iscriversi e a votare per nuove primarie, ma primarie vere per un vero leader. Questa volta, quindi, non per manifestare il loro sostegno plebiscitario ad un candidato praticamente unico (la presenza di Bertinotti fu un abile inserimento di bandiera) ma per scegliere, fra vari candidati, quello destinato, in un primo tempo, a guidare il partito con l'autorevolezza, l'indipendenza e la piena legittimità che solo il voto diretto conferisce, e, quando verrà il momento, a concorrere come premier del futuro governo.

Secondo: organizzare le primarie in modo da rendere il partito libero, aperto e contendibile, non imbrigliato in partenza dai vecchi apparati. Se si seguisse la procedura di compromesso proposta, le primarie locali eleggerebbero solo i delegati all'assemblea nazionale; questa si svolgerebbe inevitabilmente sotto la regia della nomenklatura bipartitica Ds-Margherita, ed eleggerebbe un segretario precotto e dimezzato, esplicitamente escluso in partenza dalla candidatura a premier. Ad un segretario azzoppato corrisponderebbe un partito demotivato. Le primarie debbono, per contro, essere aperte a tutti assicurando in primo luogo la possibilità di iscriversi, versare il contributo fissato e votare il nome preferito attraverso Internet (esistono sperimentati metodi per escludere doppi voti e altre contraffazioni d'identità). È giustissimo procedere su scala circoscrizionale e, ancor meglio, regionale ma solo se la competizione non resta monca e artificiosa.

Per renderla completa è indispensabile che i nomi dei candidati nazionali alla premiership siano abbinati a liste locali di riferimento (oppure votati su una seconda scheda).

Se fin qui è stata, per contro, privilegiata la scelta che abbiamo definito monca la ragione c'è ma riguarda esclusivamente le preoccupazioni personali dei maggiori candidati, non certo il bene del futuro partito. Parleremo senza diplomazia: una votazione diretta alle primarie di ottobre è temuta da Prodi perché aprirebbe una vera dialettica tra l'azione di governo e il capo indiscusso del partito unificato di maggioranza, già designato futuro leader, con l'ombra di una successione in caso di crisi ; prospettiva ostica anche per Veltroni, che oggi tutti i sondaggi danno di gran lunga come l'unica carta con sufficienti possibilità di affermazione in future elezioni, ma che non ha certo interesse ad accollarsi una eredità negativa senza il lavacro del voto, in coda alla Legislatura attuale; non piace a D'Alema che vorrebbe fin d'ora sbarrare la strada Veltroni e svolgere il ruolo del kingmaker mandando avanti una donna come Anna Finocchiaro, in qualità, però, di segretario provvisorio e dimezzato.

Per Rutelli e Fassino valgono analoghe considerazioni con l'irrisolto dubbio se correre ad ottobre o alla vigilia della campagna elettorale. Tutte obiezioni da non prendere sottogamba perché hanno qualche fondamento. Bisogna, però, riflettere al fatto che esse, per quanto comprensibili, confliggono con le fortune del partito nascente che non può restare fino al 2011 senza una figura che lo regga con assoluta autonomia e piena legittimazione. O affrontare elezioni anticipate con un partito senza guida politica fino all'ultimo minuto.

E, allora? Credo che la risposta debba tale da sciogliere il dilemma: Prodi, Veltroni, Rutelli, Fassino e chiunque altro lo ambisca, concorra a primarie dirette fin da ottobre. Chiunque ottenga la maggioranza dei suffragi, sia esso il presidente del Consiglio, un vice presidente, il sindaco di Roma o chiunque altro, questi mantenga la carica istituzionale attuale, assumendo ad un tempo la direzione del partito con un vice segretario esecutivo, di sua scelta, per gli affari correnti. Nel caso di crisi, può correre l'alea di rinsaldare la maggioranza e proporre un nuovo governo, profondamente rivoluzionato e innovativo, oppure si punti ad un gabinetto istituzionale, con alla testa il presidente del Senato o un'altra personalità designata dal Capo dello Stato, con l'obbiettivo di definire una nuova legge elettorale ed andare alle urne.

Anche in questo caso scenderebbe naturalmente in campo per il centro sinistra il leader scelto a suo tempo alle primarie. Si può, infine, non far nulla e lasciarsi trascinare dall'andazzo corrente. La fine è prevedibile ma non sarà indolore.

(16 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 19, 2007, 12:02:04 pm »

L'osservatorio Fiducia, governo a -12 punti in un mese però l’Unione non ha perso consensi

Governo promosso solo dal 34% 

 
La percentuale, già poco elevata (46% a maggio scorso), di quanti ritengono «positivo» l’operato del governo appare nelle ultime settimane erodersi significativamente, sino ad abbassarsi attorno al 34%, vale a dire grosso modo il livello toccato a suo tempo da Berlusconi dopo due anni di governo. In realtà, il flusso odierno va suddiviso in due parti: per metà c’è stato un passaggio diretto da opinioni favorevoli a sfavorevoli, mentre i restanti hanno preferito sospendere il giudizio per rifugiarsi in questa occasione nel «non so».

Va sottolineato che questo risultato può dipendere da una situazione contingente, da un picco all’ingiù dovuto alle tensioni di questo periodo: solo successive rilevazioni ci potranno dire se si tratta di un vero trend.

Resta il fatto, che oggi circa due italiani su tre si dichiarano scontenti dell’azione dell’esecutivo. I giudizi personali sul presidente del Consiglio si collocano all’incirca sugli stessi livelli, con, come in passato, una ulteriore lieve erosione. Il calo di fiducia appare ovviamente maggiore tra chi si dichiara di centrodestra (-16%), ma è rilevante anche tra chi afferma di votare per il centrosinistra (-11%, con un’accentuazione ulteriore tra gli elettori di Rif. Com.). Ma esso appare particolarmente elevato (-14%) nel segmento cruciale che dice di non sapere oggi per quale partito o coalizione votare. Riguardo ai caratteri socioeconomici, l’erosione più intensa si manifesta tra i giovani, ove vi è addirittura un dimezzamento del consenso per l’esecutivo. Come si ricorderà, Prodi era riuscito, diversamente da molti suoi predecessori, amobilitare in qualche misura gli under 25: oggi questi sembrano essere tornati nella loro disillusione e apatia. Inoltre, com’era prevedibile il calo di popolarità si rileva maggiormente tra i lavoratori autonomi, tra i possessori di titoli di studio più elevati (che sono sempre i più critici), tra i residenti nei comuni di maggiore ampiezza: vale a dire in buona parte delle aree centrali del nostro tessuto sociale.

L’elemento più interessante del fenomeno è però un altro: la caduta di popolarità del governo non pare riflettersi, se non in misura contenuta, sulle intenzioni di voto per il centrosinistra. Beninteso, lo svantaggio rispetto al centrodestra resta elevato (10-12%), ma inferiore al divario tra giudizi negativi e positivi sul governo (32%) e, specialmente, senza spostamenti significativi nell’ultimo periodo. Ciò che suggerisce tra l’altro come i risultati delle amministrative costituiscano il frutto più del progressivo calo del centrosinistra maturato nei mesi precedenti (e puntualmente documentato dai sondaggi) che di mutamenti occorsi nelle ultime settimane.

Il trend recente di disaffezione dall’esecutivo è dunque legato all’accentuazione di un fenomeno diverso, che potremmo definire di scoramento. Vi è, certo, il disappunto derivante dalla diffusa percezione della mancata realizzazione di quanto promesso in campagna elettorale e ribadito in dichiarazioni successive. Ma ciò che più sembra preoccupare gli elettori è la visione del futuro. Il Governo appare, a torto o a ragione, imbrigliato nelle sue contraddizioni interne. Molti suoi componenti sembrano muoversi prevalentemente in un’ottica di breve periodo, cercando di raccogliere consensi in vista delle prossime elezioni, sempre più probabili. Agendo spesso in modo scoordinato, anche in contraddizione tra loro. E Prodi appare talvolta agli elettori come un nocchiero che tenta invano di tenere a bada il suo rissoso equipaggio. In questa situazione, buona parte degli italiani ritiene improbabile che l’esecutivo possa davvero realizzare ciò che si è impegnato a fare. E prova «scoramento », ancor più che delusione, di fronte al succedersi delle esperienze negative di Berlusconi e Prodi. Anche per questo, gli elettori di centrosinistra non appaiono per ora intenzionati, più di quanto non lo siano stati in occasione delle amministrative, a passare all’altro schieramento.

E’ facile concludere, ancora una volta, che occorrerebbe che Prodi imprimesse un mutamento di ritmo e, per quello che può, di coesione all’esecutivo. Il processo di formazione del Partito Democratico potrebbe aiutarlo molto.Mase agli occhi degli elettori dovesse risultare deludente o addirittura fallimentare, le conseguenze non potrebbero che ricadere anche sul governo.

Renato Mannhemier
19 giugno 2007
 
DA corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 01, 2007, 12:11:07 pm »

A Togliatti mancò il coraggio
Piero Fassino


Sono qui oggi a Levashovo per portare il saluto commosso mio e dei Democratici di Sinistra italiani e per onorare la memoria di una storia di terrore, di ingiustizia, di dittatura, ma anche e soprattutto per rendere onore a donne e uomini che hanno pagato con la vita e con atroci sofferenze la loro fede nella libertà e nella dignità. Donne e uomini accusati di colpe mai commesse, obbligati a confessioni false, violentati nei loro affetti familiari e nella loro dignità umana.

Donne e uomini accusati di colpe mai commesse, obbligati a confessioni false, violentati nei loro affetti familiari e nella loro dignità umana. Furono vittime innocenti e incolpevoli milioni di russi. Caddero sotto la repressone tantissimi ebrei. Subirono lo stesso destino tragico migliaia di soldati italiani e tra questi tanti alpini - internati come prigionieri di guerra a Tambov, Suzdal, Suslanger, Oranky, Bunkerlanger, Krinovaja - cui vennero fatte ingiustamente pagare le sofferenze inflitte al popolo russo dal fascismo.

E furono vittime anche molti che, provenendo da ogni parte d’Europa e anche da più lontano, avevano creduto nella ispirazione liberatrice della Rivoluzione di ottobre, avevano raggiunto l’Urss come "una terra promessa" impegnando ogni giorno la propria intelligenza, la propria competenza professionale, il proprio entusiasmo nella costruzione di una società nuova, in cui ognuno potesse essere libero e riconosciuto nelle sue aspirazioni di vita.

I crimini staliniani furono la manifestazione più atroce del comunismo, un regime dittatoriale che ha creduto di poter realizzare uguaglianza e giustizia separandole dalla libertà.

Proprio settant’anni di comunismo hanno dimostrato quanto impossibile e aberrante fosse quell’idea. E la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi sotto l’egida sovietica e la scomparsa dell’Urss testimoniano il fallimento del comunismo.

Non ci può essere uguaglianza e giustizia se non nella libertà. Una società che soffoca la libertà non è in grado neanche di realizzare giustizia sociale e uguaglianza. Nell’oppressione le disuguaglianze crescono, le ingiustizie si aggravano, la dignità umana viene umiliata.

La democrazia è un valore universale e insopprimibile e ogni obiettivo di giustizia e uguaglianza non può che essere realizzato nella libertà e nella democrazia.

Tra le vittime che ricordiamo qui oggi vi sono anche 1000 italiani, tra i quali un gruppo di 300 comunisti italiani internati nei gulag staliniani, assassinati senza colpa dalla macchina bestiale della violenza di stato sovietica. Donne e uomini che fuggivano dal fascismo e che si erano rifugiati in Unione Sovietica con l’ingenua speranza di essere protagonisti della creazione di una società nuova.

Tragedia nella tragedia, perché vittime prima ancora che della violenza della polizia segreta, della delazione dei loro stessi compagni, e della colpevole connivenza di quei dirigenti che - pur autorevoli come Togliatti - non ebbero il coraggio di sfidare la macchina oppressiva della dittatura.

Non tutti si sottrassero alla propria responsabilità morale e politica. Tra chi non si piegò anche Antonio Gramsci che si battè per sottrarre i suoi compagni a un destino tragico.

Siamo qui, oggi, insieme a Gabriele Nissim e a Luciana De Marchi, per testimoniare il valore esemplare della vicenda di suo padre Gino, un comunista italiano, amico di Gramsci, confinato in Urss dal partito nel ’21 perché ingiustamente accusato - e senza appello, anche dai suoi compagni - di aver collaborato con la Polizia Italiana. Incarcerato una prima volta in Unione Sovietica nel ’21, fu liberato e riabilitato grazie all’intervento di Gramsci. Nella bufera delle purghe staliniane, De Marchi fu riarrestato nel 1938, su delazione falsa di colui che credeva essere il suo più caro collaboratore, sottoposto a violenze fisiche e psichiche di ogni tipo e infine ucciso il 3 giugno di quello stesso anno dalla polizia segreta. Gino lasciava sua moglie e sua figlia Luciana di 13 anni allora, che è qui con noi oggi, e che cominciò subito, ancora bambina, una disperata battaglia di verità per rendere giustizia a suo padre, militante comunista sincero, ucciso per il tradimento dei suoi stessi compagni.

Una bambina prima e una donna poi, di straordinaria forza, la cui perseveranza ha permesso a tutti noi, oggi, di alzare la spessa coperta di ipocrisia che per troppi anni ha legittimato una storia di omissioni e falsità. La perseveranza di Luciana permette a tutti noi oggi di dire che c’è sempre la possibilità di dire di no alla falsità, alla violenza, alla dittatura. Noi oggi con la nostra presenza qui, vogliamo testimoniare che non dimenticheremo questo insegnamento, che non dimenticheremo mai la dignità morale di Luciana de Marchi, Lucia Bartashevic e Robert Barbetti e di quanti si sono battutu per riscrivere la verità sui loro cari e su tutti i compagni di sofferenza. Siamo qui perchè non cali mai l’oblio sulla storia dei totalitarismi del ’900, sui gulag di Stalin e su chi fu complice di questa terribile violenza contro l’umanità. Siamo qui a rendere onore a donne e uomini vittime della brutalità del comunismo.

Siamo qui perché nessuno e nulla sia dimenticato. E quel che è accaduto in quegli anni bui non accada mai più.

Pubblicato il: 30.06.07
Modificato il: 01.07.07 alle ore 10.18   
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 02, 2007, 08:02:41 pm »

Il ministro Bersani: prima la discussione poi le candidature Pd.

Letta: «Nessuno ci può fermare» Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio a Milano: «Tutti possono concorrere»

 
MILANO - Resta in primo piano all'interno della maggioranza il dibattito sul futuro Partito democratico. «Tutti possono concorrere, nessuno ci può fermare» ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Enrico Letta, intervenuto al Forum regionale Alla prova del nord insieme con il ministro dello Sviluppo Economico, Pierluigi Bersani, e il ministro delle Pari Opportunità, Barbara Pollastrini. Letta ha sottolineato che non è ancora il momento delle candidature per il Partito Democratico. «Oggi - ha spiegato - si è parlato di cose e di proposte, questo è il Partito Democratico. Ci stiamo muovendo, la sfida è rinnovare la politica». A chi gli chiedeva di possibili candidature, ha spiegato che il processo «è aperto, tutti possono concorrere».

«PRIMA DISCUSSIONE POI CANDIDATURE» Dello stesso parere il ministro per lo Sviluppo economico Pierluigi Bersani. «Sono molto convinto - ha detto - che ci voglia un po' di discussione, di pensiero sul percorso che dobbiamo fare. Vedo che tutto viene ridotto ai meccanismi di candidatura, alle liste, ma io non ho in testa questo tipo di problema». Immancabile la domanda da parte dei giornalisti su una sua possibile candidatura o su una candidatura del Nord. «Ci mancherebbe - ha risposto Bersani - che ci mettessimo a fare candidature del Nord, del Sud, dell'Est o dell'Ovest. Io non ho in testa questo problema. Quando ci saranno regole definite, vedremo come fare». Bersani ha spiegato di essere «alla ricerca di quali possano essere le forme perchè ci sia questa discussione».

02 luglio 2007
 
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 04, 2007, 07:41:22 pm »

Tagliamo le Province, altro che i cellulari
Mario Lancisi


 FIRENZE. «Se è questo il disegno di legge del governo sui costi della politica per la Toscana è una pacchia», sorride sornione un dirigente regionale. «Telefonini, auto blu... certo sono misure importanti, per carità, ma il vero problema del costo della politica è la riorganizzazione pubblica dell’amministrazione. La verità è che nel nostro Paese ci sono troppe istituzioni. Abbiamo un numero eccessivo di Province, di Comuni piccoli e di Comunità montane», sbotta Paolo Fontanelli, sindaco di Pisa e presidente dell’Anci.

 Se il disegno di legge che venerdì prossimo verrà varato dal governo è quello anticipato ieri (anche se il ministro Giulio Santagata si è affrettato a precisare che alcune anticipazioni non sono corrette) per la Toscana - Regione, Province e Comuni - sarà non un taglio, ma un taglietto, o addirittura «una pacchia», come l’ha definita un dirigente regionale. Vediamo perché.

 Così taglio i consiglieri. Nel ddl del governo, stando almeno alle anticipazioni, si prevede una riduzione del 10% dei consiglieri regionali, provinciali e comunali. Una bazzecola. Prendiamo il parlamentino toscano. La settimana scorsa è stato approvato un ordine del giorno che impegna il consiglio a ridurre il numero dei consiglieri entro un anno. Tra i partiti ci sono diverse ipotesi sul taglio dei consiglieri. C’è chi sostiene la necessità di un ritorno al numero di 50 consiglieri e chi punta su 55, ma il 10% previsto dal governo significa che la riduzione sarà solo di 6-7 consiglieri e quindi dagli attuali 65 si passerebbe a 58-59. Diverso sarebbe stato se non fossero stati aumentati i consiglieri: in quel caso da 50 sarebbero scesi a 45.

 E anche per quanto riguarda i consigli provinciali e comunali, il taglio del 10% si rivela poca cosa, soprattutto per enti locali di piccola e media grandezza come quelli toscani. «A Pisa i consiglieri comunali sono 40: portandoli a 36 si risparmia davvero poco», osserva Fontanelli.

 Cellulari gratis addio. E’ forse uno dei provvedimenti più popolari. Secondo il disegno di legge deve possederli solo chi deve garantire la reperibilità, ma non sarà difficile dimostrarla. «A Pisa ce li hanno solo gli assessori e alcuni dirigenti, ma la spesa è sotto controllo. Più esteso l’uso del telefonino per quanto riguarda la Regione. Lo possiedono gli assessori, i 65 consiglieri e 68 dipendenti. Nel 2006 la somma stanziata per le spese telefoniche fu di 539.194 euro, grosso modo un miliardo di vecchie lire. E’ già stato deciso che chi spende più di 500 euro dovrà pagare il 40% della bolletta. In sintesi: fino a 500 euro un consigliere paga solo il 20%, cioé 100 euro. Se spende 600 euro, per quei 100 euro in più dovrà pagare il 40%.
 Il sindaco sponsorizza l’auto. Anche qui si prevede una riduzione drastica quanto imprecisata. Molti Comuni però si sono già messi a dieta. Quello di Pisa ad esempio ha 3 auto blu: una per il sindaco, un’altra per gli assessori e una terza per i dirigenti. «Si tratta di costi esigui perché la mia è stata concessa da una concessionaria pisana in prestito come forma di sponsorizzazione. Poi c’è un’Alfa a noleggio. Insomma le concessionarie tendono oggi a prestare le loro auto come forma di promozione», spiega Fontanelli.

 Più fumo che arrosto. Zero conseguenze per la Toscana se dovesse passare un altro punto del ddl: quello cioé che prevede che l’indennità di risultato di un dirigente e di un manager non debba superare il 30%. Telefonini, auto blu e consiglieri - secondo Fontanelli - sono più fumo che arrosto. Fanno colpo sull’opinione pubblica, ma non producono risparmi consistenti. La vera scommessa è quella che riguarda i livelli istituzionali, sostiene il presidente dell’Anci toscana. Ma su Comunità montane e consigli di circoscrizione il governo sembra voler rinviare alla Finanziaria.
 Se dimezzo le Province. Lui, Fontanelli, invece una sua proposta corposa ce l’ha. A cominciare dalle province. «Si potrebbe fissare un tetto di abitanti tra 200-300 mila», spiega. Proviamo (noi, non il presidente dell’Anci, che non vuole inimicarsi i suoi colleghi presidenti di Provincia) ad assumere come metro i 300mila abitanti: in Toscana sparirebbero 5 province su 10: Praticamente la metà, e cioé Grosseto, Massa Carrara, Pistoia, Prato («una città-provincia», la definisce Fontanelli) e Siena. Così come 287 Comuni sono troppi, sostiene il presidente dell’Anci. «Bisogna assegnare alle Comunità montane le funzioni dei piccoli Comuni e favorire le forme associate dei servizi. Piccolo non è più bello e soprattutto non è risparmioso...», conclude Fontanelli.

(03 luglio 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 05, 2007, 12:23:51 am »

Addio Gayleft, viva Gaydem

Andrea Benedino - Anna Paola Concia


Eccoci, tutte e tutti, esercito di democratici ad affrontare una prova davvero speciale, quella di dare vita ad un partito nuovo, ad una nuova prospettiva per la politica italiana, ad un sogno nuovo, perché no? La candidatura di Veltroni ci dà una mano, e la dà soprattutto a chi, come noi, pensa che la politica sia fatta molto di piccoli gesti quotidiani, di una costruzione paziente di terreni comuni dove sperimentare lo stare insieme tra persone diverse, e che proprio quella diversità sia la ricchezza per «fare» un mondo nuovo. L'unica ricchezza. Noi, in questi anni, come Gayleft, tutti insieme, in tante città italiane, da Torino a Siracusa, da Trieste a Napoli, da Milano a Roma, da Verbania ad Avellino, da Bologna a Bari, abbiamo lavorato per cambiare la cultura politica dei Ds rispetto ai diritti civili, da non contrapporre ai diritti sociali, anzi, da tenere insieme, legare. Lo abbiamo fatto convinti che i diritti degli omosessuali siano innanzitutto diritti umani, e perché una società se vuole essere davvero civile deve fare i conti con questi diritti negati.

Lo deve fare. Perché i diritti umani SONO una priorità. Dietro l’angolo, altrimenti, c’è la barbarie. In questi anni, in questi mesi tante e tanti di noi hanno accettato la sfida di costruire il Pd. Tanti e tante, invece, tra noi di Gayleft hanno scelto di andarsene. È la vita, è la politica. Questi sono tempi di scelte. Ma noi sappiamo quanto l’esperienza del coordinamento degli omosessuali abbia inciso nella politica della sinistra, dei Ds, grazie al contributo di tutte e tutti i compagni e le compagne che nel territorio hanno lavorato sodo. Questo è il nostro patrimonio ed è patrimonio di tutti. Alcuni lo metteranno a disposizione della Sinistra Democratica, altri dentro la fase costituente del futuro Pd. Sapendo che la nostra è una battaglia comune, e più siamo ad incidere, anche in luoghi diversi, e più efficaci saremo.

La sfida che noi abbiamo scelto di raccogliere è quella del Partito Democratico. È una sfida difficile ed affascinante al tempo stesso: quella di contaminare quel progetto con la nostra cultura politica. Per arricchirlo. E per far sì che quel partito possa essere affascinante almeno per una parte di quel popolo di persone che ha affollato il 16 giugno scorso le strade di Roma e Piazza San Giovanni in occasione del Gay Pride, chiedendo alla politica italiana più coraggio nelle battaglie per i diritti e protestando per la tante, troppe timidezze di questi mesi.

In queste settimane sta nascendo in Italia Gaydem, un movimento di gay, lesbiche e transessuali per il Partito Democratico. L'idea non è nuova: il primo a lanciarla fu Franco Grillini ad ottobre del 2006 nel Convegno di Orvieto. Si tratta di una sfida importante, perché costringe tutti quanti, noi per primi, a rimettersi in gioco in nome di un progetto inedito, con l'obiettivo di attrarre entusiasmi nuovi e al tempo stesso di non disperdere alcuna delle forze già in campo.

Gayleft intende aderire con forza e convinzione a questo nuovo progetto politico e intende farlo fin da subito, promuovendo in ognuna delle tante città italiane dove siamo presenti i comitati promotori di Gaydem. Lavoreremo per tenere assieme quanta più gente possibile in questo nuovo progetto provando a mettere da parte ogni tipo di personalismo. Per arrivare pronti a ottobre, quando, con l’avvio del nuovo partito, parallelamente allo scioglimento dei Ds anche l’esperienza di Gayleft terminerà, per dar vita ad un cantiere nuovo, più grande e più aperto al confronto, soprattutto con quante e quanti arrivano da percorsi politici diversi da chi, come noi, ha in questi anni vissuto la propria militanza all’interno dei Democratici di Sinistra. Anche perché Gaydem potrà funzionare solo se sapremo perseguire nei fatti il massimo di apertura. Non ci nascondiamo le difficoltà che dovremo affrontare e sappiamo quanto sia concreto il rischio che negli equilibri del futuro partito continuino a prevalere i veti dei teo-dem su ogni battaglia di libertà. Ma sappiamo anche quanto Veltroni, nel suo discorso di mercoledì scorso, abbia segnato una svolta profonda, segnalando con preoccupazione il crescere dell’omofobia nella nostra società e indicando in una legge che riconosca «anche in Italia, come hanno fatto tutte le altre grandi democrazie... i diritti delle persone che si amano e convivono» una delle priorità programmatiche del nuovo partito.

Non concordiamo con chi dice che si è trattato di un «discorso di buon senso» che merita poco più che la «sufficienza». Se certe scelte sono state indicate con quella chiarezza non è stato di certo casuale, ma è dovuto alla grande insofferenza che l'opinione pubblica laica di centrosinistra sta dimostrando da mesi rispetto alle incertezze di un governo claudicante ogni qualvolta si parla di diritti civili e di temi eticamente sensibili. È dovuto alla consapevolezza, che evidentemente Veltroni ha maturato, che quell'insofferenza meriti risposte chiare e che il nuovo Partito Democratico può, anzi deve essere lo strumento per costruirle quelle risposte. Naturalmente anche Veltroni, come tutti, andrà richiamato alla coerenza e al coraggio nei prossimi mesi, e bisognerà lavorare perché questa spinta di innovazione non si spenga presto di fronte all'insorgere di nuovi eventuali veti clericali.

È per questo, principalmente per questo che noi questa sfida la vogliamo raccogliere: essere di sostegno alla speranza e di pungolo alla coerenza. Se ce la faremo o meno, però, dipenderà soprattutto da quante e da quanti, soprattutto non omosessuali, sapranno raccoglierla assieme a noi combattendo insieme.
Andrea Benedino e Anna Paola Concia sono portavoce nazionali Gayleft e componenti del Comitato Politico dei Ds

Pubblicato il: 04.07.07
Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.34   
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« Risposta #7 inserito:: Luglio 10, 2007, 05:28:21 pm »

10/7/2007 - L'INEDITO

Stalin a Togliatti: non attaccare i cattolici
 
Gli appunti raccolti dal leader del Pci in un incontro col dittatore al Cremlino nel ’49 sulla solita questione: "Si può forzare la situazione in Italia?".

E la solita risposta: "Impossibile"

MIRELLA SERRI


Da voi le cose vanno abbastanza bene», commenta S. La risposta a questa positiva constatazione sulla situazione italiana alla fine del 1949 è una domanda: «Si può forzare?». Con questo interrogativo Palmiro Togliatti si rivolgeva a S., ovvero a Josif Stalin, e chiedeva se era giunto il momento fatidico, se si doveva imboccare la via dello spargimento di sangue e della lotta armata per la conquista del potere in Italia. A riportare in luce questo inquietante dialogo in cui il Migliore si sigla con il nome di battaglia di Ercoli, sono sette paginette vergate proprio dal leader comunista. Con la sua calligrafia ordinata da professore di liceo d'altri tempi, Togliatti registra con frasi telegrafiche l'incontro avvenuto in Urss il 26 dicembre con il dittatore sovietico. Scrive con l'imparzialità dello stenografo che sdegna la prima e parla in terza persona e verga gli appunti che, fino a oggi mai interamente pubblicati, usciranno nel prossimo numero della rivista Ventunesimo secolo a cura di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky. I due studiosi li hanno ritrovati mentre lavoravano alla nuova edizione di Togliatti e Stalin. Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca (Il Mulino).

Uscito nel 1997, il libro è oggi arricchito da nuovi materiali ma già alla sua prima edizione aveva suscitato moltissime polemiche. Aveva ricostruito infatti per la prima volta la presenza fondamentale della longa manus di Stalin sulla svolta di Salerno del 1944 e sulla decisione di Togliatti, appena rientrato dall'Urss, di combattere i tedeschi e i fascisti a fianco del re e di Badoglio. Ora arriva anche la rivelazione del peso determinante di Stalin sulle scelte del 1949 che avrebbero potuto rivelarsi tragiche. «Alcune frasi di questo documento erano già state citate dallo storico Silvio Pons nel 1992», osserva Zaslavsky che nella nuova versione del libro ha ricostruito in particolare la strategia mediterranea dell'Urss. «A lungo si è cercato il resoconto verbalizzato in russo negli archivi sovietici. Poi si è capito il rebus. A differenza di quanto capitava di solito, questa volta non c'era stato un verbale redatto da un interprete. I due dialogavano nella lingua di Stalin e il resoconto è scritto da Togliatti».

L'ultimo momento in cui si riteneva che la Penisola avesse sfiorato l'ora X e fosse stata assai prossima allo sconvolgimento della lotta armata, era stato l'attentato a Togliatti del luglio 1948. Dopo un'imponente mobilitazione di massa aveva prevalso però la via della moderazione. L'altro fatidico incrocio con la possibilità di una violenta presa del potere era stata la sconfitta elettorale dell'aprile dello stesso anno. Nell'imminenza delle elezioni, il 23 marzo, durante un incontro segretissimo in un bosco vicino a Roma, Togliatti aveva chiesto lumi a Mosca tramite l'ambasciatore Kostylev. La reazione era stata immediata: «No ad azioni rivoluzionarie». Ma, al contrario di quel che si è sempre creduto, l'opzione-rivoluzione non era stata messa in cantina nel 1948. Togliatti coglie l'occasione di uno scambio riservato di opinioni con Stalin, durante i grandi festeggiamenti per il 70esimo compleanno del dittatore, forse nella dacia di Kuncevo forse al Cremlino.

Gli appunti presi dal Migliore sono contrassegnati da un paio di titoli: il primo è «questioni italiane» e l'altro «sulle condizioni economiche del Paese e dominio americano». Sotto le «questioni italiane» arriva la domanda se si può forzare. Stalin spiega che si potrà pensare a forzare la situazione solo in una prospettiva a lungo termine. I comunisti prima farebbero meglio a conquistarsi un posto al sole in un «governo di unità nazionale». «Anche Togliatti nonostante non rifiutasse la prospettiva rivoluzionaria non appariva molto convinto», osserva Zaslavsky. «Temeva che una guerra civile avrebbe inevitabilmente aperto le porte a una terza guerra mondiale. Ma proponeva agli “amici di Mosca” il quesito anche per essere coperto di fronte all'ala “massimalista” incarnata da Pietro Secchia che da tempo non dubitava della necessità dell'insurrezione immediata».

Il dittatore comunque dà lezioni a Togliatti. Mostra per esempio anche di temere più la Chiesa cattolica della Democrazia cristiana e ordina: «non attaccare religione. Potete anche credere al dio-gatto come gli egiziani», ammonisce. In ogni caso si dimostra prudente. «Era un grande statista e Togliatti ne interpretava le direttive da par suo. Ma a determinare l'opzione di Stalin è il quadro internazionale e dati fino a oggi mai recuperati. Per anni, per esempio, si è ritenuto che Stalin non avesse avuto nessun ruolo nella sollevazione comunista in Grecia», osserva lo storico, «pur evitando l'intervento militare diretto, invece, appoggiò la ripresa della lotta armata a partire dalla primavera del 1947. Era la prova generale per un'analoga iniziativa anche in Italia. Il fallimento dovuto alla determinazione americana fece scartare i piani che riguardavano la Penisola. Tito si stava nel frattempo mostrando sempre più indipendente. Fin dal 1948 Stalin non voleva “forzare” la situazione italiana poiché era iniziata anche la rottura con la Jugoslavia».

Se Stalin avesse dato il suo consenso? «Togliatti avrebbe obbedito. Nella cultura politica stalinista una critica aperta della suprema leadership era impensabile. Il moderatismo di Togliatti non sarebbe comunque bastato a evitare una nuova guerra civile. Se Stalin avesse deciso altrimenti avrebbe trovato entusiasti sostenitori della scelta rivoluzionaria sia in Secchia che in Pietro Nenni».

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Luglio 10, 2007, 10:10:41 pm »

Litigare costa

Vittorio Emiliani


Si pensava che tutte le forze politiche rispondessero insieme alle attese suscitate nell’opinione pubblica dalle denunce, per lo più fondate, sul costo crescente dell’apparato politico-parlamentare e sulla sua assai scarsa efficienza «produttiva» rispetto al resto d’Europa. Trent’anni fa i nostri parlamentari e i nostri sindaci erano decisamente i meno remunerati del continente, mentre oggi, specie i primi, sono in testa a quella graduatoria. Purtroppo quello scatto morale d’insieme, quella molla politica a capire l’indignazione, o, peggio, il rassegnato scetticismo, e quindi assenteismo politico, di massa, non c’è stato e non c’è tuttora. Ci sono state le solite polemichette di basso profilo fra maggioranza e minoranza, le solite battute e battutacce.

Ci sono soprattutto stati, sciaguratamente, i soliti litigi all’interno del centrosinistra e della sua compagine di governo. Che del resto col suo centinaio di ministri, vice-ministri e sottosegretari è l’emblema primo della moltiplicazione di poltrone e poltroncine.

La questione, certamente strategica, del costo eccessivo della politica riguarda tutte le forze in campo. Centrosinistra e centrodestra si sono infatti alternati al governo del Paese e si dividono il controllo di Regioni, Province, Comuni e loro aziende da quel 1994 seguito alle vicende di Tangentopoli. Con quali risultati? Probabilmente (ma v’è chi lo nega) col risultato di ridurre il coinvolgimento dei rappresentanti politici in traffici e affari illeciti. Sicuramente senza diminuire però, in modo tangibile, il costo della politica. Anzi, le remunerazioni dei parlamentari, dei governatori, dei sindaci e della marea di assessori e consiglieri hanno registrato, ad ogni livello, fino alle Circoscrizioni, vistosi incrementi (alcuni giustificati, molti no) proprio nell’ultimo quindicennio, o decennio: quello che si riferisce ad una cosiddetta Seconda Repubblica. La caduta del finanziamento pubblico dei partiti, la sua sostituzione con rimborsi elettorali e di altro tipo anche meno controllabili hanno moltiplicato, anche negli anni più recenti, i posti di potere, locale e nazionale, e quindi la massa delle prebende ad essi collegate.

Negli ultimi cinque anni - e qui dunque i due schieramenti hanno responsabilità bi-partisan - il numero dei dipendenti delle aziende pubbliche locali è aumentato del 7 per cento scarso, mentre, parallelamente, il numero delle imprese ha galoppato balzando da 405 a 889 (+119,5 per cento), come ha documentato Sergio Rizzo, autore con Gian Antonio Stella del volume La casta (Rizzoli), sul Corriere Economia del 25 giugno. Moltiplicando di conseguenza presidenti, vice-presidenti e consigli di amministrazione.

Di fronte a fenomeni di questa portata, in un Paese più responsabile del nostro, il governo centrale avrebbe assunto l’impegno di redigere a tempi rapidi, assieme a Regioni e ad Enti locali, un Libro Bianco e di definire, in base ad esso, tutte le misure di taglio e di contenimento, da attuare subito o, comunque, nel breve periodo.

Al contrario, il disegno di legge predisposto dal ministro per l’attuazione del programma, Giulio Santagata, portato in consiglio dei ministri venerdì scorso, ha riscosso parecchi dissensi da parte di chi lo voleva ben altrimenti incisivo. Di qui nuovi contrasti pubblici. Di qui il rinvio alla settimana entrante, dopo aver sentito pure gli enti locali. Ma possibile che questo Consiglio dei ministri non abbia sentito il dovere di evitare, di fronte al Paese, nuovi bisticci e nuove lacerazioni dopo quelli esposti al pubblico nell’ultimo anno?

D’accordo che una trentina di ministri fanno un numero doppio rispetto all’esecutivo francese e rispetto alla stessa (dimenticata) legge Bassanini, e tuttavia un po’ di senso delle istituzioni doveva consigliare atteggiamenti ben diversi, su misure tanto attese da una pubblica opinione fortemente indignata, oppure demotivata, frustrata (quando non già conquistata dal facile populismo dell’anti-politica).

I conflitti in atto, quotidianamente, sulla riforma pensionistica, per quanto spiacevoli (e peggio), hanno motivazioni profonde. Personalmente penso che un’altra crisi di governo simile a quella per le 35 ore risulterebbe, a dir poco, suicida. Ma i contrasti insorti sulle misure di «taglio» (per 500 milioni di euro) dei costi della politica, visti dal versante dei cittadini, confermano in modo desolante la lontananza ormai della politica «professionale» dall’opinione pubblica, dall’elettorato ancora attivo.

La Camera intanto ha annunciato risparmi per quasi 24 milioni di euro sui 1.053 complessivi di costo di Montecitorio, nemmeno il 2,3 per cento. Ma si apprende che in questi giorni scatta automaticamente un nuovo aumento annuale sui 4.000 euro lordi per ogni deputato. Ai nostri rappresentanti di ogni parte politica, e in primo luogo a chi ci governa, chiediamo, in questi stessi giorni, un altro scatto, questo non automatico: uno scatto di volontà politica, di dignità, di senso delle istituzioni, e, permettete, della realtà.


Pubblicato il: 10.07.07
Modificato il: 10.07.07 alle ore 9.52   
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 16, 2007, 12:09:51 am »

Fassino: «Centrosinistra unito per allargare l’Unione»

Simone Collini


«Il centrosinistra deve porsi l’obiettivo di garantire una più stabile governabilità», dice Piero Fassino. E, secondo il segretario Ds, per farlo sono necessarie innanzitutto due cose. La prima: «Ritrovare la compattezza necessaria». La seconda: «Guardare oltre i confini dell’Unione». Spiega il leader della Quercia che «non si tratta di sostituire un pezzo del centrosinistra con qualcun altro». Però «gli esigui rapporti di forza al Senato», da una parte, «i movimenti in corso nel centrodestra», dall’altra, «ci sollecitano a lavorare per costruire delle convergenze politiche più ampie».

Partiamo dalla “buona notizia”, come la definisce Mastella: l’Anm ha revocato lo sciopero. Come giudica, segretario Fassino, questa decisione dei magistrati?

«Come un riconoscimento allo sforzo che il governo ha fatto per rimuovere definitivamente la brutta controriforma Castelli e per sostituirla con una nuova legge sull’ordinamento giudiziario che consente alla magistratura di poter d’ora in avanti lavorare con maggiore serenità, maggiore certezza della propria azione, maggior rispetto della propria autonomia e indipendenza».

Veniamo alle altre notizie: proprio nelle votazioni sull’ordinamento giudiziario al Senato è venuta alla luce, ancora una volta, tutta la debolezza della maggioranza. Condannati a rimanere in questa condizione?

«L’esiguità dei seggi di maggioranza di cui dispone il centrosinistra al Senato ci ripropone quello che è il vero nodo che sta di fronte all’Unione. Da un lato, se si guarda alle politiche, non si può non vedere che c’è un’azione di governo che ogni giorno assume provvedimenti importanti, innova, riforma e cambia la vita del paese. Dall’altro, c’è una percezione da parte dei cittadini di una maggioranza debole, esposta più alle divisioni che non incline alla coesione, e ogni settimana sembra che il governo sia sull’orlo della crisi».

Non è così?

«Non è così, anche perché ad oggi maggioranze diverse in Parlamento non ce n’è. Tuttavia dobbiamo vedere che c’è una divaricazione tra le politiche che si attuano, utili ed efficaci per il paese, e la percezione diversa che ne ha l’opinione pubblica».

Percezione che si è fatta evidente al voto amministrativo di due mesi fa. Non dovevate far tesoro di quei risultati e cambiare passo?

«Sul fronte dell’azione di governo lo scatto c’è stato. Basterebbe pensare soltanto all’ultimo mese: abbiamo sottoscritto i contratti del pubblico impiego, deciso l’aumento delle pensioni basse, finanziato la riforma degli ammortizzatori sociali per ridurre la precarietà del lavoro, abbiamo finanziato con oltre 600 milioni di euro un piano consistente per le politiche giovanili, abbiamo rafforzato le politiche di sostegno alla competitività, varato il federalismo fiscale, e siamo ormai in dirittura d’arrivo anche per ciò che riguarda l’accordo sull’età pensionabile e il superamento dello scalone».

Gli elettori forse si aspettano anche una redistribuzione del reddito.

«Ma anche su questo piano ci stiamo muovendo. Adesso abbiamo aumentato le pensioni basse. Il Dpef e la Finanziaria che stiamo impostando per l’autunno saranno l’ulteriore conferma di uno scatto della politica economica sempre di più nella direzione dello sviluppo, degli investimenti, della crescita, ivi compresa la possibilità, dopo lo sforzo chiesto ai cittadini l’anno scorso per risanare i conti pubblici, di poter avviare con la prossima Finanziaria prime riduzioni fiscali».

Tutte cose dette, scritte e lette, e però la percezione dei cittadini su questo governo non sembra cambiare: perché?

«Perché tutto questo non può bastare se parallelamente non c’è uno scatto anche sul fronte della coesione della maggioranza. L’episodio che è avvenuto al Senato l’altro ieri è sintomatico. Se tutti i parlamentari del centrosinistra e tutte le forze politiche dell’Unione non sono consapevoli di quanto sia necessario far prevalere la coesione su distinzioni, anche legittime ma che vanno sempre graduate con lo scenario attuale e con i rapporti di forza, se non subentra una maggiore responsabilità da parte di ciascuno, una maggioranza così esigua in Senato è esposta tutti i giorni al rischio di incidenti. E ciascuno di questi episodi avvalora nell’opinione pubblica un’idea di fragilità del governo e della maggioranza che certamente non aiuta. Quindi innanzitutto il centrosinistra deve ritrovare quella compattezza, quello spirito di unità necessari a dare l’immagine di un governo forte».

Però non è che in questi mesi il governo al Senato sia andato sotto solo per un emendamento del centrosinistra. È più generale il problema, non crede?

«Ma infatti sono il primo a ritenere che la compattezza è necessaria ma non sufficiente. La verità è che noi siamo in presenza di un sistema politico fragile perché la legge elettorale imposta dal centrodestra alla vigilia delle elezioni ci ha consegnato equilibri più precari e una minore governabilità. E quindi torna di assoluta attualità il tema della legge elettorale».

Ora è d’attualità anche perché siamo alle battute finali della raccolta di firme per il referendum. La soluzione al problema arriverà dalle urne anziché dal Parlamento?

«Io non credo che il fatto che la raccolta delle firme e un referendum che molto probabilmente significhino necessariamente che non vi è più alcuno spazio per fare una nuova legge elettorale. Credo anzi che si debba tentare anche in queste settimane e poi alla ripresa dei lavori dopo le ferie estive di fare una nuova legge in Parlamento. D’altra parte i tanti cittadini che hanno firmato per il referendum lo hanno fatto perché hanno individuato in esso uno strumento per cambiare la legge elettorale. Noi abbiamo il dovere di cambiarla, ma cambiarla in meglio».

Il referendum non lo fa?

«Come sappiamo il referendum è soltanto abrogativo, potrà modificare la legge attuale in alcune sue parti, ma non ci consegnerà una nuova legge elettorale che effettivamente dia stabilità e governabilità al paese. Penso che dobbiamo mettere in campo ancora tutte le iniziative possibili per fare una buona legge».

Finora le discussioni non hanno portato a nulla.

«Le proposte sono molte, e diverse, ma io continuo a pensare che uno sforzo di tutte le forze politiche per trovare una legge elettorale che possa raccogliere un consenso vasto in Parlamento si debba e si possa fare».

I Ds continuano a sostenere il doppio turno alla francese?

«Secondo noi sarebbe il modello elettorale più efficace in un sistema bipolare di tipo pluripartitico. Però sappiamo bene che attorno a questa proposta non c’è ancora il consenso sufficiente. Allora cerchiamo altre soluzioni. Mi pare ad esempio che intorno a una legge elettorale di tipo tedesco sia possibile costruire un consenso ampio, sia di gran parte dei partiti del centrosinistra che di gran parte del centrodestra».

Una nuova legge elettorale avrà comunque riflessi sulla prossima legislatura. Al di là della necessaria compattezza, come si risponde ai problemi dell’oggi?

«La fragilità degli equilibri politici ci pone il tema di costruire convergenze politiche più ampie che possano consentire una maggiore governabilità. Non si tratta di mettere in discussione l’alleanza di centrosinistra che ha vinto le elezioni, che per quello che ci riguarda deve essere confermata. Però non possiamo non vedere che nel centrodestra si è prodotta una frattura: tra l’Udc da una parte e Fi e An dall’altra; e anche su molti temi concreti si sta producendo sempre di più una distinzione tra la Lega, da una parte, e Fi e An dall’altra. Quindi il tema di come il centrosinistra assuma un’iniziativa politica che interloquisca con quelle forze politiche di opposizione che stanno cercando nuove collocazioni è sicuramente da affrontare».

Questo vuol dire pensare a nuove maggioranze, o no?

«No, non si tratta di sostituire qualche pezzo del centrosinistra con qualcun altro. Noi ci siamo presentati agli elettori con una maggioranza di centrosinistra, abbiamo vinto con quella maggioranza, stiamo governando con quella maggioranza e dobbiamo continuare a farlo. Al tempo stesso dobbiamo però prendere atto che sono in corso movimenti con cui dobbiamo fare i conti. Anche perché dobbiamo sapere che in almeno due importanti regioni del nord, la Lombardia e il Veneto, la semplice riproposizione agli elettori di una coalizione di centrosinistra non è sufficiente per raccogliere la maggioranza dei consensi. Sono ormai 15 anni che in Lombardia siamo all’opposizione, e altrettanto in Veneto. E anche i dati elettorali delle amministrative di un mese fa ci dicono che se il centrosinistra non mette in campo un’iniziativa per allargare le sue alleanze in quelle realtà rischia di non riuscire a diventare mai maggioranza. Questo vale sul piano locale. Sul piano nazionale, gli esigui rapporti di forza al Senato ci sollecitano a lavorare per costruire convergenze più ampie».

Convergenze più ampie è diverso da centrosinistra di “nuovo conio”, o sbaglio?

«Non è chiaro che cosa voglia dire davvero l’espressione centrosinistra di nuovo conio. In ogni caso io dico che il centrosinistra, tutto insieme e unito, deve porsi l’obiettivo di garantire una governabilità più stabile, e per farlo abbiamo bisogno di guardare oltre gli orizzonti dell’Unione. Ma dobbiamo farlo tutti insieme, perché il problema di garantire la governabilità dell’Italia non ce l’ha soltanto l’Ulivo. Anche Rifondazione comunista deve fare i conti col fatto che con un voto o due di maggioranza governare è difficile, anche la sinistra radicale deve fare i conti col fatto che in Veneto e in Lombardia se non allarghiamo il campo rischiamo di restare all’opposizione per sempre».

Su quali temi vede possibili convergenze al di là dei confini dell’Unione?

«Penso che attorno al federalismo fiscale sia possibile realizzare una convergenza con la Lega. Che non significa che entra a far parte della maggioranza. Così come intorno a una legge elettorale di tipo tedesco mi sembrano possibili ampie convergenze al di là del centrosinistra».

Rutelli nel manifesto dei “coraggiosi” sostiene che è finita la stagione in cui la coesione del centrosinistra era garantita dall’antiberlusconismo. Non si starà consegnando un po’ troppo in fretta al passato Berlusconi?

«Io credo che in quella frase di Rutelli ci sia un richiamo al centrosinistra a non pensare che sia sufficiente, per avere il consenso dei cittadini, presentarsi come una coalizione che evita il ritorno di Berlusconi. Perché questo è troppo poco. Per evitare che la destra torni al governo abbiamo bisogno di attuare delle politiche in positivo, che diano risposte ai problemi degli italiani. È in quanto noi diamo risposte più convincenti e credibili di quelle che la destra ha dato che Berlusconi non torna. Questo mi pare sia il senso delle parole di Rutelli, e credo che questo passaggio del suo documento sia condivisibile».

E nel metodo, la presentazione di questo manifesto è condivisibile? I prodiani e la Bindi lo hanno contestato.

«Considero questo documento un contributo al dibattito, credo che non lo si debba enfatizzare più di tanto. D’altra parte, nelle prossime settimane è possibile che ci siano molti altri contributi. E sarà utile per la piattaforma politica e progettuale che dovremo presentare all’Assemblea costituente del 14 ottobre».

Avete approvato le regole per le primarie: obiettivo per quella data?

«Che vada a votare almeno un milione di persone. Se saremo in grado, come abbiamo fatto alle primarie del 2005, di allestire 10 mila seggi è un obiettivo alla nostra portata. E dal valore straordinario: in nessuna parte del mondo è mai nato un partito fondato da un milione di persone che votano per sceglierne il leader ed eleggere i delegati che poi approveranno lo statuto, il manifesto, daranno al partito la forma che gli è propria».

Come si fa a garantire che il Pd non sia né un partito dei gazebo e del leader né un partito il cui segretario è imbrigliato da organismi costituenti come quelli che si profilano all’orizzonte?

«Abbiamo scelto delle regole che ci consentono di avere un segretario nazionale e dei segretari regionali forti perché eletti direttamente dai cittadini. E al tempo stesso, però, la loro elezione avviene contestualmente all’elezione delle assemblee costituenti nazionale e regionali, che saranno una sede democratica, pluralistica nella rappresentanza, in cui si discuterà il manifesto del Pd, lo statuto, in cui si eleggeranno gli organismi dirigenti. Questo percorso ci consente un equilibrio giusto tra l’avere un leader forte, sia sul piano nazionale che sul piano regionale, e un partito democratico nella sua vita e nella sua rappresentanza».

Altre candidature, oltre a quella di Veltroni, sono auspicabili?

«La decisione di Veltroni di candidarsi è un segnale importante. Dopodiché, nessuno ha mai sostenuto che ci debba essere un solo candidato. È bene che ci sia una pluralità di candidati. A una condizione: chi ritiene di candidarsi lo faccia sulla base di motivazioni politiche esplicite, per cui gli elettori al momento del voto possano sapere di scegliere uno piuttosto che un altro sulla base di elementi politici di distinzione. Nelle scorse settimane è sembrato quasi che fossero necessari tanti candidati per dimostrare che siamo democratici. Il che è ridicolo».

E per quanto riguarda le liste?

«Vale per le liste quello che ho detto per i candidati. Ci siamo dati un regolamento che consente di avere più liste in competizione e anche più liste che sostengono lo stesso candidato segretario. Quindi una regola che sollecita al pluralismo. Purché la formazione di liste sia sulla base di piattaforme politiche e non sia gli amici di qualcuno contro gli amici di qualcun altro».



Pubblicato il: 15.07.07
Modificato il: 15.07.07 alle ore 14.42   
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« Risposta #10 inserito:: Luglio 26, 2007, 11:27:24 pm »

POLITICA

Il segretario dei Ds ribadisce la sua estraneità e annuncia: "Procedete pure"

Il leader della Cdl: "I nostri principi non cambiano in base alle persone"

Intercettazioni, Fassino sì all'utilizzo

Berlusconi: "Pronti a votare contro"

D'Alema: "Respingo le accuse, d'accordo con qualunque decisione della Giunta""

Per Mastella serve una normativa nuova: "Stop al clima di violenza"

 
ROMA - Che la magistratura utilizzi pure le intercettazioni sulla Bnl-Unipol: Fassino e D'Alema non si opporranno alla scelta del Parlamento. Lo hanno scritto al presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera a cui, nei giorni scorsi, il gip milanese Clementina Forleo ha chiesto di poter accludere al fascicolo penale anche le telefonate tra gli imputati e alcuni politici. Ribadendo la loro "totale estraneità a qualsiasi atto illecito", Fassino e D'Alema hanno espresso il loro parere favorevole all'uso delle intercettazioni. Berlusconi invece annuncia il suo no: "Noi - spiega l'ex presidente del Consiglio - abbiamo dei principi che sono sempre quelli, indipendentemente dalle persone che sono coinvolte. Questo sistema delle intercettazioni è inaccettabile". Giudizio non dissimile dal pensiero del ministro della Giustizia anche lui convinto che l'attuale normativa fa acqua: "Il Senato deve rimettere mano al ddl sulle intercettazioni già approvato in prima lettura dalla Camera. Non accetterò mai che ci sia nel paese questo clima di violenza", ha detto Clemente Mastella. "Vorrei che le intercettazioni servissero davvero a produrre giustizia".

Fassino: "Utilizzate le intercettazioni". Dopo lo scontro tra Piero Fassino e Fausto Bertinotti, il segretario dei Ds ha scritto alla Giunta per le autorizzazioni della Camera "ribadendo la sua totale estraneità a qualsiasi atto illecito o illegale che sia maturato nella vicenda Bnl-Unipol", e annuncia che chiederà alla Giunta di accogliere le richieste del Gip di Milano: "Sono unicamente interessato ad un pieno accertamento dei fatti - scrive Fassino - da cui non potrà che emergere la piena correttezza dei miei comportamenti. Per questo - aggiunge - condividerò ogni decisione che in questa direzione la Giunta voglia assumere, ivi compreso l'accoglimento dell'istanza del Gip Forleo".

D'Alema: "Accogliete pure l'istanza Forleo". Parole più o meno identiche sono state pronunciate anche dal vicepremier Massimo D'Alema, anch'egli citato nelle intercettazioni raccolte dalla magistratura milanese. In una lettera inviata al presidente della Giunta per le autorizzazioni della Camera, il ministro degli Esteri si dice "turbato e preoccupato" per le accuse "tanto gravi quanto palesemente infondate" che gli sono rinvolte nelle ordinanze del Gip e conferma la sua "assoluta estraneità ad atti illeciti": "Condividerò ogni decisione che il Parlamento intenda prendere, compreso l'accoglimento dell'istanza della dottoressa Forleo" di utilizzare le intercettazioni nell'indagine penale.

Berlusconi: "Voteremo no". Dal banco dell'opposizione, Silvio Berlusconi fa sapere invece che "in Aula, sulle intercettazioni, voteremo no".Per il leader di Cdl bisogna negare l'autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti le scalate ad Antonveneta, Unipol e Rcs. "Noi - spiega l'ex presidente del Consiglio al termine di una cena con i deputati azzurri - abbiamo dei principi che restano fermi, che sono sempre quelli, indipendentemente dalle persone che sono coinvolte. Questo sistema delle
intercettazioni è inaccettabile. Basta con uno stato di polizia fiscale e burocratico".

Mastella: "Serve una normativa nuova". Prendendo spunto dalla notizia della pubblicazione, domani, su un settimanale, di alcune intercettazioni che lo riguardano mentre parla con persone indagate dalla procura di Catanzaro nell'ambito dell'inchiesta che ha tirato in ballo anche il premier Prodi, Clemente Mastella, ministro della Giustizia, ha ribadito che "il problema delle intercettazioni è diventato una cosa seria", tale da indurre il Senato a rimettere mano al ddl sulle intercettazioni già approvato in prima lettura dalla Camera. "Non accetterò mai che ci sia nel
paese questo clima di violenza. Non vorrei - ha aggiunto - che le intercettazioni assumessero il sapore garantista di quando arrivava l'avviso di garanzia, per cui nell'opinione pubblica si conficcavano i chiodi della sconfitta dell'illegalità o dell'immoralità. Vorrei che le intercettazioni servissero davvero a produrre giustizia".

Divisioni tra i poli. Le ordinanze del gip Forleo dividono però entrambi i poli. Se l'Udeur annuncia il suo 'no' alla richiesta del Gip insieme a FI, l'Udc ribadisce il suo essere 'garantista' (''Lasciamo liberta' di coscienza ai nostri parlamentari'', ha detto Pier Ferdinando Casini), mentre An è favorevole all'autorizzazione. E nella maggioranza c'è chi sospetta che la Cdl stia provando "ad agganciare" la storia delle intercettazioni Unipol-Bnl a quella di Cesare Previti, alla Camera, e a quella Mitrokhin del tandem Mario Scaramella-Paolo Guzzanti, al Senato.

I tempi della decisione di Giunta. Difficile dire quando la Giunta si pronuncerà. C'è chi sostiene le scelte saranno prese dopo l'estate. Finora in agenda sono fissate per martedì solo le relazioni dei tre parlamentari incaricati di riferire sulla richiesta presentata dal gip di Milano.

(26 luglio 2007) 
da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Luglio 26, 2007, 11:30:35 pm »

«Non si può andare avanti con questo Stato di polizia fiscale»

Intercettazioni, Berlusconi: «Voteremo no»

Per il leader di Fi bisogna negarne l'uso.

Fassino e D'Alema scrivono alla Giunta: «Dia l'autorizzazione» 
 
 
ROMA -«Voteremo no in Parlamento alla richiesta di utilizzare le intercettazioni telefoniche di parlamentari». Lo conferma Silvio Berlusconi arrivando in un hotel romano per un pranzo con i parlamentari europei di Forza Italia alla chiusura dei lavori parlamentari in vista delle vacanze estive. Per Berlusconi bisogna negare l'autorizzazione a utilizzare le intercettazioni riguardanti le scalate ad Antonveneta, Unipol e Rcs. «Questo sistema è inaccettabile, basta interventi invasivi della Stato. Siamo sottoposti a un sistema di controllo dei telefoni che non ha pari in nessuna democrazia del mondo. Non si può andare avanti con questo Stato di polizia fiscale». «Non ha nessuna importanza - ha aggiunto Berlusconi - che possano essere D’Alema o Fassino a poter essere favoriti, noi restiamo sui nostri principi anche se riguardano due nostri "competitor"».

«CON FINI È TUTTO CHIARO» - «Nessun chiarimento, con Fini è tutto tranquillo», ha detto Berlusconi rispondendo a chi gli chiedeva dell’incontro che avrà giovedì pomeriggio con Gianfranco Fini, dopo le tensioni degli ultimi giorni. Autorevoli esponenti di An, invece, come Gasparri e Matteoli, hanno lasciato intendere che il partito potrebbe votare a favore alla richiesta dl gip di Milano Clementina Forleo.

«MI AUGURO CHE IL GOVERNO CADA IN AUTUNNO» - «Mi auguro che il governo Prodi cada nel prossimo autunno» ha aggiunto il leader di Forza Italia lasciando l'hotel nel quale ha pranzato con gli eurodeputati azzurri. L'ex premier ha sottolineato che «tre cittadini su quattro ritengono che Prodi presto cadrà. L'ultimo sondaggio in materia dimostra infatti che soltanto il 23% degli italiani conserva - ha concluso Berlusconi - la fiducia nel Governo».

DI PIETRO: «ATTENTI ALLA TRAPPOLA» - Immediata la reazione dell'Italia dei Valori alla dichiarazione dell'ex premier sulle intercettazioni. «Avevamo sperato in una scelta di sensibilità istituzionale» ha commentato a caldo Leoluca Orlando, portavoce nazionale dell'IdV. Più esplicito il ministro Antonio Di Pietro: «Il centrosinistra - ha detto - non cada nella trappola tesa da Berlusconi e dai suoi. Farsi paladino nel dire no alle intercettazioni dei giudici di Milano - continua Di Pietro - è solo il tentativo per mettere, sullo stesso piano, i parlamentari direttamente interessati di Forza Italia e quelli del centrosinistra. A me pare, invece, che ci sia una bella differenza; non fosse altro per il fatto che alcuni di essi che militano nelle fila del partito di Berlusconi sono già indagati». E sul caso Forleo interviene anche Erminia Mazzoni, capogruppo dell'Udc in commissione Giustizia della Camera. «L'anticipazione di un voto su una questione così delicata, come quella relativa all'autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni, ritengo produca effetti anche più gravi di una presunta anticipazione di sentenza» ha detto la Mazzoni. Un sostegno pieno alle parole di Belusconi arriva invece da Gianfranco Rotondi, segretario della Democrazia cristiana per le autonomie. «Voteremo no senza se e senza ma».

MASTELLA: «NO A UN CLIMA DI VIOLENZA» - «Non accetterò mai che ci sia nel paese questo clima di violenza che ritorna» ha detto il ministro della Giustizia Clemente Mastella. Intervenendo in Aula alla Camera. il Guardasigilli si è scagliato contro il rischio di un utilizzo politico delle intercettazioni, richiamando l'attenzione sul pericolo che un mancato atteggiamento di «rispetto tra politica e magistratura» possa tradursi in un «alterato rapporto dela democrazia nel Paese».
 
LE LETTERE DI FASSINO E D'ALEMA- Il segretario dei Ds, Piero Fassino, ha scritto alla Giunta per le autorizzazioni della Camera «ribadendo la sua totale estraneità a qualsiasi atto illecito o illegale che sia maturato nella vicenda Bnl-Unipol», e chiede che la Giunta proceda ad accogliere le richieste del gip di Milano. E una missiva alla Giunta per le autorizzazioni della Camera è stata inviata anche da Massimo D'Alema. Nella lettera inviata al presidente della Giunta Giovanardi, il vicepremier si dice «turbato e preoccupato» per le accuse «tanto gravi quanto palesemente infondate» che gli sono rivolte nelle ordinanze del Gip di Milano Clementina Forleo, confermando la sua «assoluta estraneità ad atti illeciti o disegni criminosi». D'Alema sottolinea di essere «interessato più di ogni altro» all'accertamento della verità e pronto a collaborare con la magistratura «indipendentemente dalle conclusioni della giunta». Per questo, il vicepresidente del Consiglio sottolinea che condividerà «ogni decisione che il Parlamento intenda prendere, compreso l'accoglimento dell'istanza della dottoressa Forleo».

MARTEDI' IL VOTO - Già martedì 31 luglio, la Giunta per le autorizzazioni della Camera potrebbe votare sulla richiesta all'uso delle intercettazioni di Piero Fassino, Massimo D'Alema e Salvatore Cicu formulata dal Gip di Milano Clementina Forleo. A renderlo noto è il presidente della Giunta Carlo Giovanardi (Udc).

26 luglio 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 29, 2007, 06:23:08 pm »

Fassino: «Sui Ds superato ogni limite»
Ninni Andriolo


«C´è una strumentalizzazione evidente e un´enfasi scandalistica oltre ogni limite, nella vicenda Unipol. È chiaro il tentativo di utilizzarla per fini politici».

Onorevole Fassino, strumentalizzazione perché oggi tocca ai Ds e non agli avversari dei Ds?
«Per la verità si sta inventando un nuovo reato: "concorso in conversazione telefonica". La pubblicazione continua delle mie telefonate con Consorte sta equiparando l´interesse spropositato dei media per il delitto di Cogne».

E non ce ne sarebbe il motivo? Le scalate bancarie dovrebbero rimanere top secret?
«Vogliamo ricostruire la dinamica della vicenda, vista l´enorme confusione di queste ore?.
La vicenda Unipol è nota in tutti i suoi passaggi. Così come è noto che i comportamenti dei dirigenti dei Democratici di sinistra sono stati lineari, limpidi e inequivocabili. Un primo dato che viene spesso dimenticato è che tra il 2002 e il 2005 uno dei temi cruciali del dibattito economico riguardava la fragilità del sistema bancario. La sollecitazione di allora di economisti, istituzioni finanziarie, commentatori politici era a promuovere progetti di aggregazione, fusione, integrazione che consentissero a un sistema bancario molto polverizzato di dare vita a gruppi di dimensioni adeguate ai mercati finanziari europei e mondiali. Quelli erano gli anni in cui Unicredito si espandeva enormemente, si allargava Intesa, nasceva Capitalia, la San Paolo acquisiva il Banco di Napoli e così via. Lo ricordo perché oggi sembra che il progetto di creare una banca tra Unipol e Bnl fosse una stravaganza... ».

In realtà si parlò anche di disegni politici collaterali ai Ds...
«Non c´erano né fini occulti, né finalità politiche. La fusione tra Unipol e Bnl era del tutto coerente con un processo più generale di riorganizzazione bancaria che in quegli anni investiva tutto il sistema. Voglio ricordare che una delle ipotesi di aggregazione di cui si discuteva apertamente, basta rileggere i giornali del tempo a partire dal Sole 24ore, era la fusione tra Bnl e Monte dei Paschi di Siena».

Che però non andò in porto...
«Ma non per ragioni di natura politica. Bnl e Monte dei Paschi venivano considerate due banche che per dimensioni, radicamenti territoriali e profilo, apparivano complementari e quindi potevano integrarsi. Le ragioni per le quali quel progetto non decollò riguardarono diversità d´impostazioni organizzative e di finalità strategiche dei dirigenti che non trovarono l´intesa. Fu allora che Unipol decise di continuare a perseguire l´obiettivo di un rapporto con Bnl. E non scelse quel fronte per un disegno politico, ma per realizzare un interesse industriale ed economico».

Unipol aveva già accordi con Bnl...
«Appunto. Perché Unipol era socio di Bnl-Vita, perché Unipol attraverso Finsoe era già azionista del progetto Monte dei Paschi e partecipe del progetto Bnl-Mps, perché Unipol aveva creato "Unipol banca" che voleva integrare in un istituto di maggiori dimensioni. Il fatto che Unipol decidesse con altri partner di perseguire la fusione con Bnl, quindi, non rispondeva a mire di potere politico. Unipol voleva costituire un grande polo bancario e assicurativo. Rilevo che allora per impedirlo si disse che mettere insieme banche e assicurazioni era un errore, mentre oggi non c´è grande gruppo bancario italiano che tra le sue strategie non abbia corpose attività anche nel capo assicurativo».

Le polemiche di questi anni, però, si basano sul fatto che il rafforzamento economico di Unipol avrebbe accresciuto l´influenza politica dei Ds. Le intercettazioni ne sarebbero la prova...
«Si tratta di polemiche consapevolmente strumentali. Era del tutto ovvio che un grande partito come i Ds seguisse con attenzione tutti i processi di fusione e di riorganizzazione del sistema bancario. Ed era ancora più ovvio che il nostro partito guardasse con attenzione a un processo che vedeva coinvolta una delle imprese principali del movimento cooperativo. Movimento cooperativo che, piaccia o non piaccia, è parte della storia della sinistra da 150 anni. Ed è diventato un soggetto economico di grande rilievo, con imprese che esercitano un ruolo leader in settori produttivi strategici. Questa nostra attenzione e questa nostra simpatia, però, non si è mai tradotta nemmeno per un istante in un´ingerenza nella realizzazione di quel progetto. Noi, al contrario, abbiamo tenuto sempre una posizione squisitamente politica, senza interferire né avere parte in nessuna delle scelte compiute dal gruppo Unipol».

Il movimento cooperativo non può essere considerato "il figlio di un Dio minore", ricordando una sua dichiarazione di allora...
«Esattamente. Noi abbiamo sostenuto il diritto del movimento cooperativo, e di una sua impresa, a godere delle stesse opportunità di qualsiasi altra impresa italiana, ivi compreso quello di poter essere presente nel sistema bancario. Tutto ciò ancora oggi non è accettato e non lo era quattro anni fa. Basti ricordare che il presidente degli industriali italiani, di fronte alla possibilità che Unipol diventasse un soggetto bancario e non solo assicurativo, chiese: "ma cosa vogliono queste cooperative? Si occupino di supermercati"».

Il tema però era quello dei diritti delle Coop, ma anche quello dei doveri. Ricorda la polemica sui vantaggi fiscali di cui godono le cooperative?
«Nel momento in cui sostenevamo che il movimento cooperativo dovesse avere gli stessi diritti, sostenevamo anche che dovesse rispettare le regole del mercato e una scrupolosa applicazione delle leggi. Tanto è vero che quando nei mesi successivi vennero alla luce da parte di dirigenti Unipol comportamenti disinvolti o scorretti non esitammo a dirlo con chiarezza. La nostra posizione era: "stesse opportunità, ma contemporaneamente nessuna condizione di privilegio". All´interno di questa visione dell´economia di mercato ci siamo battuti perché un´impresa del movimento cooperativo potesse realizzare il proprio progetto di espansione industriale e finanziaria. La nostra linea, quindi, è stata limpida e coerente».

Però c´è chi ipotizza scambi di favori tra i Ds e il governatore Fazio per coprire la scalata Unipol a Bnl...
«Quella di un nostro atteggiamento ambiguo e reticente verso Fazio è una delle tante sciocchezze che circolano e che non fanno i conti con i nostri comportamenti concreti e verificabili. I Ds furono la forza che per prima, dopo lo scandalo Parmalat, presentò un disegno di legge a tutela dei risparmiatori. Ma soprattutto i Ds si batterono con maggiore determinazione in Parlamento perché il mandato del Governatore della Banca d´Italia non fosse più a vita ma a termine, e perché la competenza sulla concorrenza tra istituti bancari venisse sottratta a Bankitalia e trasferita all´Antitrust. Riforme alle quali Fazio era assolutamente ostile. Quando riuscimmo a fare approvare in commissione quelle proposte, il Governatore andò da Berlusconi per chiedergli che il centrodestra in Aula sopprimesse quelle riforme. Cosa che puntualmente avvenne. Insomma, noi non abbiamo fatto alcuno sconto a Fazio. Tutt´altro».

Il Gip di Milano, in ogni caso, individua attraverso le telefonate tra dirigenti Ds e Consorte un disegno criminoso che va oltre il semplice tifo per Unipol. Strumentali anche le conclusioni del giudice Forleo?
«È un´accusa assolutamente priva di fondamento che la dottoressa Forleo ha formulato con espressioni censurate anche da buona parte della magistratura. Noi non siamo stati complici di alcun disegno criminoso. Le mie - ma anche quelle di D´Alema e di Latorre - sono telefonate per acquisire conoscenza su come evolvesse quel progetto. Nulla di più di questo. Acquisizione di conoscenza non per ingerirci o essere compartecipi della gestione di un progetto, visto che siamo un partito politico e non un´azienda. E io le conversazioni telefoniche le ho avute solo con Consorte, con nessun altro dei tantissimi protagonisti di quelle vicende. Non solo, nelle conversazioni con Consorte ho avuto sempre informazioni su cose tutte già note e tutte già avvenute. Non c´è nessun aspetto, quindi, che non sia corretto».

Lei fa a Consorte molte domande, però...
«Faccio molte domande sui dettagli perché il progetto Bnl-Unipol era oggetto, in quelle settimane, di una discussione pubblica sui giornali e venivano avanzati molti interrogativi e molti dubbi: se Unipol avesse sufficiente solidità finanziaria, se fosse giusto mettere assieme banche e assicurazioni, quale dovesse essere l´apporto di eventuali banche straniere e così via. Ecco, io mi informavo perché sui giornali se ne discuteva e perché su certi punti si concentravano coloro che erano ostili al progetto. Mi informavo per capire se le quelle obiezioni fossero figlie di un pregiudizio o avessero fondamento».

Il giudice Forleo, in realtà, sostiene che i politici furono complici di un´operazione molto più vasta che coinvolgeva Unipol-Bnl da una parte e Rcs-Antonveneta dall´altra...
«Faccio notare che nelle mie telefonate si parla unicamente della vicenda Bnl-Unipol e puramente in termini informativi. Io non parlo mai di Rcs-Antonveneta, né me ne parla Consorte. Il giudice dice che c´era un legame tra i protagonisti di queste vicende? Per quel che mi riguarda io non mi sono mai occupato né di Rcs né di Antonveneta. Né in quel momento ero a conoscenza dei rapporti che successivamente sono emersi tra i protagonisti delle diverse scalate. Di quale disegno criminoso sarei complice, allora?»

I Ds daranno via libera alla richiesta avanzata al Parlamento dal Gip di Milano, quindi?
«Noi non abbiamo nulla da nascondere. Abbiamo già detto alla Giunta per le autorizzazioni che quello che a noi interessa è l´accertamento della verità, perché siamo sicuri che da questa risulterà che i nostri comportamenti sono stati limpidi. Quindi, tutte le decisioni che la Giunta assumerà nella direzione della massima chiarezza e della massima trasparenza noi le condivideremo, ivi compreso l´accoglimento della richiesta del Gip di Milano».

Lei presenterà entro martedì la sua memoria difensiva?
«Per chi è chiamato in causa c´è la possibilità di presentare una nota con le valutazioni sulla vicenda. È un´opportunità, non è un obbligo, né un vincolo che debba condizionare la Giunta parlamentare che è assolutamente libera di decidere nei tempi e con le modalità che riterrà più opportuni».

Nessuna remora, quindi? La Giunta potrà votare martedì, come propone Giovanardi?
«La Giunta è sovrana, valuti lei quello che è opportuno fare. Noi siamo interessati all´accertamento della verità».

Segretario, all´inizio di questa intervista lei puntava il dito sulle strumentalizzazioni. A cosa si riferiva?
«La domanda da porsi è: "perché tanto clamore in questi giorni?". Le telefonate erano già state pubblicate in tre fasi successive, questa è la quarta. La vicenda Unipol-Bnl è stata sviscerata in tutti i suoi aspetti e non c´è un solo elemento di novità. Perché allora i giornali sono pieni nuovamente delle stesse conversazioni, con paginate su paginate di commenti e interviste?»

Lei ritiene che i lettori non abbiano il diritto di comprendere cosa comporti la richiesta del gip di Milano?
«Vedo un´esasperata ed eccessiva enfasi politica. Non può non colpire la violenza con la quale viene gestita quotidianamente la vicenda dai giornali. Quasi ci fosse il desiderio che questo caso travolga la politica, travolga una classe dirigente, mandi a casa delle persone. E, francamente, mi sembrano poco convincenti articoli che stabiliscono un parallelismo tra il ´92 di Tangentopoli e le vicende di oggi... ».

Si riferisce al fondo del Corriere della Sera di ieri, naturalmente...
«Sulle vicende di Tangentopoli gli aspetti giudiziari li ha già valutati la magistratura, mentre gli aspetti politici li indagheranno gli storici. E in ogni caso io sono pronto a tornare a discutere anche di quelle vicende, cogliendone errori e contraddizioni. Personalmente non sono mai stato giustizialista in nessun momento. Sono tra i pochi esponenti della sinistra che ha sempre guardato alla persona di Craxi senza alcun atteggiamento criminalizzante. Ma non posso condividere parallelismi del tutto inappropriati. Nella vicenda Unipol-Bnl, per ciò che riguarda gli uomini politici, non c´è una tangente, non c´è corruzione, non c´è concussione, non c´è un solo reato penale analogo a quelli di Tangentopoli. Solo paginate e paginate di telefonate. Per quel che mi riguarda, mi permetta la battuta, in Italia ci stiamo inventando un nuovo reato: il "concorso in conversazione telefonica", appunto. Detto ciò è chiaro che io mi interrogo sui problemi politici che pongono le vicende Bnl-Unipol e Rcs-Antonveneta».

E a quali conclusioni è giunto?
«Che quelle vicende ci obbligano ad affrontare in termini nuovi almeno tre nodi. In primo luogo le regole necessarie per rendere sempre più trasparente il rapporto tra politica ed economia; poi c´è da ridefinire il rapporto tra la politica e una giustizia che deve essere sempre più riconosciuta nella sua indipendenza perché questa sia garanzia di imparzialità... ».

Nel caso dell´inchiesta Unipol la magistratura non è imparziale?
«Non metto in discussione la buona fede dei singoli magistrati. Ma non possiamo non vedere che da troppi anni in Italia assistiamo a inchieste che rapidamente si trasformano in strumento di battaglia politica. Non mi riferisco solo al caso Unipol, basti pensare a quante volte lo stesso Romano Prodi è stato vittima di campagne di aggressione politica innestate su indagine della magistratura. Il terzo problema su cui mi interrogo, poi, riguarda il rapporto tra politica e informazione. Ecco, non mi si venga a dire che le paginate di questi giorni corrispondono soltanto al diritto di cronaca... ».

I giornali strumenti di manovre politiche, quindi? Berlusconi da Palazzo Chigi sosteneva la stessa cosa...
«Guardi, quando si pubblica per quattro volte la stessa intercettazione il diritto di cronaca è stato ampiamente risolto. C´è solo il delitto di Cogne che è stato reiterato più delle telefonate di Consorte. Ecco, è evidente che c´è un problema serio, che non è soltanto italiano. Non è vero che i media nella società di oggi assolvono soltanto alla funzione di informare e commentare i fatti. Oggi i giornali sono parte del sistema politico-istituzionale. Promuovono campagne, condizionano la formazione dei governi, orientano la formazione delle leadership, mettono spesso le priorità dell´agenda politica. Ci deve essere a questo punto un´assunzione di responsabilità. Non lo dico per prendermela con qualcuno. Ma perché voglio ricordare a tutti che una democrazia forte è tale perché ha un sistema di regole che consente a ciascuno di esercitare il proprio ruolo e la propria libertà nella responsabilità. E se non affrontiamo i nodi del rapporto politica-economia, politica-giustizia, politica-informazione, la nostra democrazia sarà sempre più esposta ai rischi delle derive populistiche, plebiscitarie e demagogiche. Destrutturate la democrazia implica conseguenze nefaste. E noi il Partito democratico lo stiamo costruendo per rafforzare la democrazia e per far vincere una nuova cultura politica. Perché, allora, nel momento in cui si fa lo sforzo di far nascere il Pd si usa la vicenda Unipol per delegittimare coloro che il partito democratico lo stanno costruendo?»

È più forte l´attacco al Partito democratico o ai Ds, nel timore che i Democratici di sinistra possano condizionarne linea e assetti della nuova formazione politica?
«Una cosa è certa l´attacco ai Ds c´è ed è violento. E non sfugge a nessuno che vi è in Italia chi ha teorizzato abbondantemente che il Partito democratico doveva nascere sulla liquidazione della sinistra. Chi la pensa così, vedendo ora che la sinistra non solo non viene liquidata ma è protagonista nel costruire il Pd, non si rassegna. E spera usando l´azione della magistratura di dare alla sinistra un colpo».

Il direttore del Corriere della Sera invita i dirigenti Ds a lasciarsi processare. Cosa risponde, segretario?
«Appunto, quelle parole sono "voce dal sen fuggita". A Mieli non interessa accertare la verità, ma processare in ogni caso i Ds e la loro classe dirigente. I giudici di Milano non dispongono ancora dell´autorizzazione a usare le telefonate che il direttore del Corriere della Sera ha già stabilito che bisogna fare un processo e ha anche già pronta la sentenza di condanna. È la dimostrazione che forse chi deve interrogarsi sulla correttezza dei propri comportamenti non siamo noi. Stia tranquilla, in ogni caso, la nostra gente. Stiano tranquilli i nostri dirigenti, i nostri iscritti, i nostri elettori. Assicuro ancora una volta che possono andare fieri della correttezza dei nostri comportamenti. Siamo un partito di donne e di uomini che possono sbagliare. Ma siamo persone perbene. Possiamo guardare negli occhi tranquillamente ogni italiano perché non abbiamo nulla di cui vergognarci».



Pubblicato il: 29.07.07
Modificato il: 29.07.07 alle ore 14.52   
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 24, 2007, 06:34:44 pm »

Allarghiamo l'orizzonte
Piero Fassino


Caro Walter, fin dall’inizio di questo affascinante progetto sono stato convinto che la sua originalità e fecondità consista nel duplice obiettivo di unire nel Partito Democratico storie e culture riformiste che per lungo tempo la storia ha diviso e, al tempo stesso, di non limitarci a unire quel che già c’è per allargare l’orizzonte a quella vasta parte di società italiana che guarda al Pd con la speranza di un forte rinnovamento della politica.

E d’altra parte la stessa scadenza del 14 ottobre la abbiamo concepita e voluta come un grande momento di legittimazione democratica e popolare del nuovo partito e come l’apertura di una nuova stagione della democrazia italiana. Come te penso che a questa ispirazione si debba essere tanto più coerenti oggi. Sbaglia chi riducesse il Pd al solo incontro tra i Ds e Margherita, quando l’esperienza dell’Ulivo di questi anni ci parla di una volontà di partecipazione ben più ampia di quel che i partiti da soli oggi rappresentano. E sbaglia, specularmente, chi cavalcando l’onda antipolitica del momento pensa il PD come la negazione di ciò che è esistito fin qui, ignorando che senza la determinazione dei partiti – e in primo luogo dei Democratici di Sinistra – il progetto del PD non avrebbe forse conosciuto la luce.

Per queste ragioni condivido spirito e proposte della tua lettera di ieri che vanno nella direzione di dare al PD quei caratteri di innovazione, apertura e radicamento indispensabili per far sì che davvero nasca un “partito nuovo” per cultura, progettualità, linguaggio e forma organizzativa.

Credo anch’io che il 14 ottobre sia una grandissima occasione per rinnovare la politica, riconquistare la fiducia dei cittadini e aprire così una stagione nuova per l’Italia. E, dunque, condivido con te che la formazione delle liste per l’Assemblea Costituente debba essere caratterizzata da un forte grado di rappresentatività e apertura, coinvolgendo accanto a esponenti politici e delle istituzioni nazionali, regionali e locali personalità significative della società italiana e dei suoi molti mondi, nonché un’amplissima presenza di donne e di giovani.

D’altra parte è questo l’obiettivo che abbiamo indicato alle nostre organizzazioni e su cui in tutta Italia i DS stanno lavorando: operare perché ovunque si sottopongano al voto degli elettori liste caratterizzate da composizione unitaria, pluralismo culturale, parità donne-uomini, rappresentatività sociale e apertura a competenze, saperi e professioni.

Per questo accolgo molto volentieri la rosa di personalità che proporrai di includere nelle liste che ti sostengono e mi batterò perché essa sia accolta nel modo più ampio possibile in tutte le liste alla cui formazione i DS concorrano. E naturalmente mi auguro che analoga apertura si realizzi nelle liste a sostegno degli altri candidati nazionali e nelle liste per le Assemblee Costituenti regionali.

Condivido altresì la tua sollecitazione a fare della elezione delle Assemblee Costituenti regionali e dei Segretari regionali l’occasione per dare al Pd carattere federale e regionalista.Il che significa evitare che la giusta e legittima competizione tra liste e candidati comprima le tante specificità territoriali e culturali di cui è ricco il nostro Paese e che nel Pd dovranno trovare piena valorizzazione.

Puoi contare, insomma, sulla nostra piena condivisione delle tue proposte e come sempre sull’impegno generoso e leale per dargli corso.

Pubblicato il: 24.08.07
Modificato il: 24.08.07 alle ore 11.14   
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« Ultima modifica: Settembre 19, 2007, 04:37:07 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #14 inserito:: Settembre 17, 2007, 12:25:42 pm »

POLITICA

Bologna, il comizio finale alla Festa nazionale dell'Unità

Una replica a Grillo: "Non si salva l'Italia mandando a quel Paese i partiti"

Fassino chiude l'ultima Festa diessina

"Adesso tocca a te, caro Walter"

 

BOLOGNA - Finisce con Fassino che fa gli auguri a Veltroni: "Adesso tocca a te, caro Walter" e i due che si abbracciano commossi sul palco dell'ultima festa dell'Unità targata Ds. Oggi, a Bologna, davanti a oltre cinquantamila persone, si è chiuso un altro pezzo di storia: quello delle Feste dell'Unità, del giornale comunista che fu del Pci. Una storia che i Ds avevano continuato e che, probabilmente, andrà avanti ancora ma i forme certamente diverse.

Non era un compito facile, quello di Fassino e molti, tra i quali Massimo D'Alema (che era sul palco insieme ad altri dirigenti Ds), gli hanno riconosciuto un ruolo importante e anche di sacrificio nella nascita del nuovo partito che forse aveva sperato di poter guidare: "In questa nuova storia che oggi comincia - ha detto - ci sarò anch'io, come tanti altri, per dare all'Italia quel Pd che sia capace di corrispondere alle esigenze che tanti cittadini ci chiedono". A chi gli domanda se abbia rimpianti, Fassino risponde: "No, ho fatto tutto quello che dovevo con la passione e la generosità che erano necessarie. Credo di aver contribuito, assieme a tanti, a realizzare gli obiettivi che solo qualche anche anno fa sembravano impensabili".

Il segretario Ds aveva alcuni temi obbligati dall'agenda e dai fatti e non si è sottratto: a partire dal "V-day" di Beppe Grillo, dalle probabili liste "benedette" dal comico genovese che nasceranno per ora a livello comunale e di tutte le polemiche degli ultimi giorni. Ma Fassino ha parlato anche di governo, delle regole del nuovo partito, di legge elettorale.

Grillo e il "V-day". "Non è mandando a quel paese i partiti che si salva l'Italia - ha detto Fassino -. La politica è anche quella cosa che può riempire degnamente una vita. A Beppe Grillo, che dichiara di voler distruiggere i partiti - ha proseguito - vorrei dire di guardare a questa Festa, alle nostre feste. Non può essere svilito l'impegno e la disponibilità di tanti". aliana sarebbe più debole". Per Fassino, inoltre, non si può ridurre il ruolo delle istituzioni ad una somma di sprechi e privilegi, quando ogni giorno migliaia di sindaci, di amministratori regionali e locali spendono le loro migliori capacità per rispondere alle attese dei cittadini: "C'è una politica pulita in Italia e noi sentiamo il dovere di metterla al servizio del Paese".

Le regole del Pd. Ma ad alcuni dei temi posti da Grillo, Fassino non si è sottratto. Almeno a quello della moralizzazione della politica: "Propongo - ha detto - che l'assemblea costituente del Pd, che sarà eletta il 14 ottobre, adotti già nella sua prima seduta regole e norme di comportamento vincolanti per tutti i suoi dirigenti ed esponenti istituzionali". "Soprattutto chi ricopre incarichi politici, istituzionali e pubblici - ha aggiunto - ispiri la propria condotta non solo al rispetto formale delle leggi, ma anche alla sobrietà dei comportamenti e al rispetto dell'etica pubblica". Ma qui, Fassino ha voluto parlare anche alla sua gente e rispondere a un grande cartello che diceva: "Cambierà il nome, cambieranno i componenti, ma in fondo al nostro cuore ci sarà sempre 'rosso vivo'': "Oggi - ha detto - 'democratico' significa essere progressista, riformista. Vuol dire essere di sinistra".

Governo, finanziaria e welfare. Fassino ha difeso Prodi e ha accusato l'opposizione di avvelenare il clima politico: "Se tra qualche settimana il ministro Padoa-Schioppa potrà presentare una Finanziaria 2008 più leggera, che, sostenendo la competitività e gli investimenti e proseguendo nel risanamento dei conti pubblici, potrà comprendere meno tasse - ha spiegato Fassino, - ebbene, ciò è il risultato dell'azione di questo primo anno di governo". E il segretario Ds ha polemizzato con chi (partiti o sindacati) attaccano l'accordo sul welfare: "Non si comprende il rifiuto manifestato da alcuni settori politici e sindacali. In ogni materia trattata nell'accordo di luglio, infatti si realizzano condizioni di maggiori certezze ed efficacia rispetto alle norme di oggi".

Legge elettorale. Fassino ha anche fornito la sua ricetta per la riforma della legge elettorale: "Una legge - ha spiegato - che riduca il numero dei parlamentari e riduca la esasperata frammentazione politica che vede oggi sedere in Parlamento 24 partiti. Una legge che rafforzi la democrazia dell'alternanza e restituisca agli elettori il diritto di scegliere gli eletti. E una legge che dia applicazione all'articolo 51 della Costituzione sulla parità uomo-donna, visto che oggi il 54 per cento delle donne italiane è rappresentato solo dal 17 per cento di elette".


(16 settembre 2007)

da repubblica.it
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