LE RADICI DEL NORDEST

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 LE RADICI DEL NORDEST
 
 
C'è stato un momento in cui metà dei piatti che si vendevano in Italia avevano sul fondo il marchio veneto "Tognana".

Adesso i Tognana non producono più piatti, li comprano già fatti e li vendono. Anche il Nordest è cambiato, da terra dove si produceva di tutto sta diventando terra dove soprattutto si consuma. Aldo Tognana, 87 anni, dinastia di mattoni e porcellane, dice che ha riscoperto l'uomo da quando nel 2000 ha ceduto il controllo delle aziende: «Se vedevo un cliente pensavo subito se fosse un buon pagatore, oggi mi domando se è un uomo vero».
 
È appena rientrato da Torino dove ha parlato per un'ora all'assemblea nazionale degli imprenditori cattolici e la gente si è alzata in piedi per applaudirlo: «Forse perché non era l'antipolitica...».

Poco fascista: «Da studente fui espulso dal Partito perché avevo scarso spirito fascista». Partigiano cattolico e democristiano nelle brigate di Enrico Mattei, il futuro fondatore dell'Eni; è stato tra i comandanti che hanno liberato Treviso e si è battuto perché in quei giorni drammatici in città non si consumassero vendette e ritorsioni. Ha fatto politica, con poca fortuna; ha amato lo sport con più fortuna, dal pugilato al calcio, alla bicicletta: ha organizzato i mondiali di ciclismo del 1985 nel Veneto.

Vive nella casa di famiglia alle porte di Treviso, immersa nel verde rotto dalle sculture di Murer e di Benetton padre e figlio. Una casa costruita nell'Ottocento dove c'erano la fornace e la fabbrica. Si sposta tra quadri dipinti dalla zia Rachele che aveva un senso perfetto del colore e della terra del Sile, un volto di donna di Campigli, un bronzo di un atleta antico di oltre duemila anni, con gli occhi d'oro, raccolto come se fosse pronto allo scatto. Dice che ama la sua età: «Prendo i giorni per quelli che vengono. La vecchiaia non è dare anni alla vita, ma vita agli anni».

Quando è nato?

«Sono arrivato dopo sei sorelle, era il 12 marzo 1920. L'ultima è morta di "spagnola" che era appena finita la Grande Guerra. I miei genitori hanno incominciato a fare figli nel 1909 e hanno smesso nel 1923 con mio fratello Alessandro».

Da dove venivano i Tognana?

«Era una famiglia di imprenditori e arrivava dalla Svizzera. L'ho scoperto grazie al parroco di Santa Maria Maggiore di Treviso che era di Chiavenna e mi ha raccontato che d'estate era stato in una vallata verso il confine con la Svizzera e lì aveva trovato la scritta Ca' Tognana. Sono andato a vedere, ho fatto ricerche. Papà mi diceva: «Siamo mezzo svizzeri», io credevo scherzasse. Nel Settecento c'era stato un terremoto da quelle parti, la gente si era trovata in difficoltà, molti avevano commerci con i veneziani e sono scesi a Venezia. I miei avi sapevano fare mattoni e da Venezia si sono trasferiti a Treviso che è zona di argille per i mattoni e hanno costruito una fornace».

Sempre mattoni?

«No, siamo sempre andati avanti. Io ho iniziato la mia attività del 1946, con mio fratello, nelle stoviglierie da tavola: prima la maiolica, poi la porcellana. Da questa azienda accanto alla casa sino alla fabbrica di Casier, poi un'altra a Monopoli in Puglia, un'altra ancora in Germania. C'è stato un momento in cui eravamo i più grossi produttori di porcellana in Italia».

Tognana bambino degli Anni Venti?

«Ho fatto le elementari a Sant'Antonino, poi dalla quarta elementare mio papà ha voluto che andassi a studiare al Collegio Pio X, il rettore monsignor Meneghetti mi ha fatto saltare la quinta, ho guadagnato un anno. Facevo più in fretta degli altri, anche al liceo ho fatto seconda e terza in un anno, a 17 anni ero già all'università, a 22 anni ero laureato in ingegneria civile a Padova col professor Guido Ferro che poi è stato per vent'anni rettore magnifico. Andavo a scuola in bicicletta: venti chilometri ogni giorno».

Avrebbe voluto gareggiare in bicicletta?

«Ho amato sempre la bicicletta. Quando hanno messo il contachilometri, in un anno e mezzo ho percorso 17 mila chilometri. D'estate andavamo in montagna. I passi dallo Stelvio al mare li ho fatti tutti. Correvo in bicicletta da dilettante, ero un bindiano anche se molti tifavano per Learco Guerra. Come sono stato con Bartali e non con Coppi. Molti anni dopo con Pinarello che faceva biciclette abbiamo costruito la squadra "Tognana-Pinarello" di dilettanti, è durata 18 anni, abbiamo vinto molte gare e abbiamo portato molti al professionismo, tra loro almeno due campioni»,

Due campioni?

«Sì, li ho portati personalmente alla Legnano. Adriano Durante era un velocista che ha vinto al Giro sette tappe e ha vinto anche al Tour. Non era facile, a quel tempo vinceva tutto un certo Merckx e se avanzava qualcosa c'era sempre Marino Basso. Poi ho portato Schiavon che è stato anche maglia rosa al Giro d'Italia. Non è stato fortunato, con i guadagni di corridore si era comprato un terreno sul quale lavorava con passione. Un giorno si è capovolto il trattore che stava guidando ed è morto straziato là sotto. Seguendo loro due avevo la scusa per andare al Giro e al Tour e anche ai campionati del mondo, perché Durante ha vestito più volte la maglia azzurra. Mi piaceva Durante, aveva le gambe ma non aveva la testa, una volta ha perso la Milano-Sanremo, poteva battere addirittura Eddy Merckx, era davanti, non doveva fare altro che andare dritto, si è complicato la vita tentando di tagliare la strada al belga. Ha stupidamente allungato...».

Ha organizzato un mondiale di ciclismo...

«Sono stato presidente della Finanziaria che ha organizzato i campionati del mondo su strada e su pista nel 1985, la pista a Bassano del Grappa, la strada sul Montello. Abbiamo fatto tutto in tre anni. Per l'inaugurazione a Bassano ho chiamato il regista Giuliano Montaldo che ha organizzato in pochi giorni la rievocazione della Grande Guerra sul Grappa, tutti dilettanti con le biciclette del tempo, quelle a ruota fissa, che andavano sull'Altipiano e sul Carso. Quell'edizione la vinse sul traguardo di Giavera del Montello il più vecchio di tutti, l'olandese Joop Zoetemelk che aveva quasi quarant'anni, ma aveva vinto un Tour e anche una medaglia d'oro alle Olimpiadi».

Il più grande in bicicletta?

«Il più grande che ho visto in azione è stato Eddy Merckx, imbattibile. Ma ho visto anche Fausto Coppi. Una volta l'ho incontrato perché volevo invitarlo a correre a Treviso, mi ha dato appuntamento in albergo a Milano, si era appena fatto massaggiare, aveva la struttura fisica di un uomo che non sembrava nato per la bicicletta: le gambe sottilissime, un petto che appariva carenato come negli uccelli per attraversare il vento. Impressionante la sensazione di fragilità che dava e poi la potenza che esprimeva sui pedali».

Non soltanto ciclismo tra le passioni?

«Subito dopo la guerra sono stato presidente del Treviso Ring, avevamo aperto una palestra in Piazza Indipendenza. C'erano pugili bravi allora, gente che voleva sconfiggere la fame col pugilato. Come il nostro Egisto Peire che è stato campione italiano dei pesi leggeri e vinse anche il guanto d'oro. Avevo organizzato una serata, mancava il pugile previsto in cartellone e c'era una riserva che voleva combattere a tutti i costi ma non era all'altezza. Niente da fare, quello salì sul ring e in un minuto era disteso a terra senza sensi. Ho avuto paura, sembrava morto. È stato allora che sono passato al ciclismo».

E il pallone?

«Lo sport mi è sempre piaciuto tutto e da giovane ho avuto anche la fortuna di poter seguire la Nazionale di calcio o le gare di automobilismo. Ho visto correre Nuvolari e Varzi, andavo di notte a vedere passare la "Mille Miglia". Non c'era la televisione, ai mondiali di calcio del 1954 in Svizzera non sono voluto mancare. Da bambino conoscevo tutte le formazioni a memoria, nel 1934 quando abbiamo vinto i mondiali a Roma battendo 2-1 la Cecoslovacchia non ho perso una partita alla radio. Ricordo perfettamente la formazione: Combi; Rosetta, Caligaris; Varglien I...».

L'abbiamo lasciata appena laureato in ingegneria, ha mai fatto l'ingegnere?

«No, mai. Avevo appena finito l'università ed ero già a Potenza al corso per allievi ufficiali, sono stato laggiù sino a luglio, quando gli americani sono sbarcati in Sicilia ed è caduto Mussolini. Ci avevano ordinato di preparare la difesa di Metaponto con i nostri cannoni con le ruote di ferro e i camion a trazione a catena. Un giorno hanno portato in caserma un autoblindo catturato agli americani e quando lo abbiamo visto abbiamo capito che la guerra era perduta. Siamo stati tre giorni pronti all'azione, andavamo a letto senza nemmeno toglierci le scarpe. Ci sono stati 101 allarmi aerei in sette mesi. Quando è arrivato l'ordine era per dirci: "Tutti a casa"».«Sono tornato a Treviso e alla nascita della Repubblica Sociale con altri amici abbiamo pensato che fosse il momento di difenderci, sono sorte le prime brigate partigiane. Non ero stato fascista, il federale che mi aveva espulso dal PNF dopo la guerra ha aperto un negozio di casalinghi a Belluno e veniva a rifornirsi da me e l'ho aiutato a tirarsi su. Io avevo la responsabilità della "Brigata Treviso" che agiva in pianura. Gli alleati ci buttavano i rifornimenti, noi dovevamo soprattutto bloccare i vagoni pieni di nostri soldati deportati in Germania. Sono scampato sei volte a rastrellamenti, mi sono rifugiato in montagna».

Il giorno del bombardamento di Treviso...

«Il 7 aprile 1944 ero in città, era l'una, trecento fortezze che sganciavano le bombe, una dietro l'altra. Avevo la fidanzata, Linda mia moglie, che abitava dall'altra parte della città, sono andato a cercarla in bicicletta tra le macerie: morti, brandelli di corpi, braccia di qua, teste di là. Era il venerdì santo, nei due giorni successivi si è visto di tutto, toglievano dai rifugi corpi irrigiditi nella disperazione e nel terrore. Si sono tutti accorti di morire. C'era chi individuava in quei mucchi un familiare, avevano il carrettino dietro la bicicletta e si portavano il morto a casa».

Lei era a capo della brigata che la liberato Treviso alla fine di aprile del 1945.

«Abbiamo occupato la città e chiuso le porte. Avevamo paura che tornassero i tedeschi e aspettavamo gli alleati. Il nostro comando era in collegamento con quelli del Cln di Padova e Venezia. Io andavo e tornavo in bicicletta, una sera si è affiancato a me un soldato tedesco con un pastrano che gli arrivava ai piedi, credeva di essere protetto viaggiandomi accanto ma dalle mura hanno incominciato a sparare, per poco non colpivano anche me. Il tedesco ha svoltato di scatto in viale Cairoli ed è sparito. Io ero uno dei tre del comando piazza. Quando sono scesi i partigiani dal Cansiglio e dalle montagne sono incominciate le retate. Una mattina passo il ponte di Santa Margherita e non c'era più neppure il parapetto sul Sile. Era tutto sporco di sangue, di notte avevano portato lì prigionieri fascisti e no e li avevano uccisi e gettati nel fiume. Gli Alleati sono arrivati di sera dal viale Monte Grappa, dove c'è la porta Santi Quaranta. Sono arrivati nella piazza dei Signori vuota, prima una jeep con un ufficiale che percorre Cal Maggiore e si ferma davanti a me e mi chiede in inglese chi è il comandante. Rispondo orgoglioso: «Ci siamo liberati». Il giorno dopo c'è stata la sfilata per le vie di Treviso».

Cosa accadde in quei giorni?

«Dipendevo dall'Associazione Volontari della Libertà, il mio capo diretto era Enrico Mattei che è arrivato a guerra finita con Mario Ferrari Aggradi. In città c'erano tutti i comandanti delle varie divisioni partigiane, dalla Osoppo alla Nannetti. Mi avevano messo a disposizione una "Fiat 500 Topolino" e con quella dovevo girare tra i reparti, avevo l'incarico di tenere calmi i comandanti, evitare esecuzioni sommarie, vendette. Dovevo andare alla Cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera dove dicevano che la banda di "Falco", capo partigiano, avesse ucciso decine di fascisti dopo processi sommari. Incontrai "Falco" sulle scale della prefettura, sapeva del mio incarico, mi disse: «Cosa vieni a fare? Non farti vedere altrimenti faccio fuori anche te». Molti di questi non hanno mai pagato, sono scappati in Sud America mescolati ai nazisti».

Finita la guerra?

«Ho incominciato l'attività con mio fratello, dalle terraglie alla porcellana, con incursioni nel vetro, ero tra i proprietari della Venini. Un giorno ho portato a Murano tutti gli amici, dal generale Capuzzo al prefetto. Il generale comandava i lagunari e ci mise a disposizione un motoscafo dell'esercito, quando l'imbarcazione si è accostata quello che stava sul pontile e aspettava i soliti turisti che comprano, ci ha guardato, ha visto che eravamo tutti non di primo pelo e ha detto: «Mi ga tu portà i reduci de a guera de Crimea?». Poi sono entrato nell'associazione Industriali, ero stato tra i fondatori nel 1946, sono diventato presidente succedendo al commendator Serena».

E oggi?

«Trovo una grande differenza tra la situazione di allora e quella di oggi. Erano anni di pieno sviluppo, ci sono stati problemi e tensioni di ogni genere dal 1968 agli Anni Ottanta: scontri duri con i sindacati, scioperi, paura del terrorismo. Ma abbiamo sempre mantenuto quel rapporto per cui gli imprenditori erano sì attenti ai loro affari, ma anche alla società, all'ambiente, alle famiglie. Hanno collaborato per lo sviluppo della regione. Poi è sorto il famoso Nordest che adesso, però, con tutto questo sparpagliamento di imprese, col problema dei trasporti, sappiamo cosa significa. Si sono dimenticati di coinvolgere gli industriali verso la società civile. Oggi nel Veneto, e lo vediamo anche dai nostri rappresentanti, non si è formata quella classe dirigente necessaria per garantire la crescita di una regione ricca. Dirigere un'azienda è un conto, essere classe dirigente è diversa cosa. Adesso molti, anche tra gli industriali, urlano contro i politicanti che abbiamo, ma si dimenticano di aver fatto ben poco per lavorare per la società».

Aldo Tognana e la politica?

«Appena finita la guerra ero già nel primo Consiglio Comunale di Treviso, sono stato aggregato alla Democrazia Cristiana ed ero tra i più giovani. In quel Comune su 40 consiglieri ben 39 erano laureati; c'erano quattro primari d'ospedale, i migliori avvocati, un giudice, ingegneri. Abbiamo fatto il piano di ricostruzione della città che era ridotta in macerie».

Nel 1994 lei ha provato a diventare sindaco di Treviso?

«Una domenica mi sono piovuti a casa tutti i maggiorenti della città, cinque partiti che cercavano un candidato a sindaco. Dissi: a parte l'età, ho il lavoro, non bisogno di mettermi in mostra, la famiglia è contraria. Il lunedì ho accettato e sono diventato il candidato del centrosinistra e mi sono accorto che avevo la mia seconda figlia candidata nella Lega e infatti è stata per qualche anno presidente del Consiglio comunale. Mi scontrai con Gentilini, nel primo turno ero in vantaggio col 45\% dei voti. Al ballottaggio ho capito che molti dei miei amici industriali non erano con me, si sono uniti a Gentilini e io sono rimasto con i voti di prima. Così è finita la mia esperienza. Oggi le cose non vanno bene, quando alla gente tocchi le tasche si ribella, può persino cavalcare l'antipolitica. Per me non è una battaglia di idee, ma economica».

Colpa degli italiani?

«Gli italiani sono gli stessi che ho conosciuto quando ero giovane e c'era il fascismo: riempivano le piazze e si entusiasmavano di fronte a una persona che li convinceva facilmente. Credono che questa persona sia quella che risolve tutti i problemi. Vedo oggi persone che vanno a sentire Grillo o urlano davanti a una Brambilla. Mi domando: a che livello culturale siamo?».

Ha paura del tempo?

«Non prendo impegni a lunga scadenza. Nessuno invecchia solo per il fatto di aver vissuto un lungo numero di anni, ma perché ha disertato gli ideali».
 
da gazzettino.quinordest.it

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Vicenza, il candidato Pd dice "No Dal Molin"



Dario Fo al corteo "No Dal Molin"Domenica si vota anche in nove capoluoghi di Provincia per rinnovare i consigli comunali. La battaglia più interessante, oltre a Roma, è a Vicenza dove la vicenda dell'allargamento della base americano Dal Molin è l'argomento principe della campagna elettorale.

Con un'importante novità, in controtendenza con la politica nazionale. Il coordinamento dei comitati cittadini nei giorni scorsi ha promosso un convegno nel quale ha chiesto ai candidati sindaco di firmare un impegno a battersi contro la costruzione della nuova base americana.

Achille Variati, candidato sindaco per il Pd e alcune liste civiche (già sindaco con la Dc e poi con il centrosinistra dal 1990 al 1995) lo ha firmato e ha detto di voler revocare, se sarà eletto, la «delibera-vergogna» approvata dal consiglio comunale e di voler indire subito un referendum. In diverse interviste il candidato del Pd ha ribadito che l'errore più grande commesso dal sindaco di Forza Italia Enrico Hullweck è stato quello di «non ascoltare la città. Credo sia utile per l'amministrazione che verrà, il governo che verrà e per gli americani capire qual è il parere prevalente in città». Per Variati «il sindaco sarà l'interprete» di quel parere perché in questi anni «la politica e chi l'ha rappresentata in comune o a Roma non ha voluto bene a questa città».

Oltre a Variati hanno firmato il documento del coordinamento i candidati sindaco della Sinistra Arcobaleno, Ciro Asproso, di «Vicenza comune a 5 stelle», Davide Marchiani e di «Riscossa democratica», Franca Equizi.

Cinzia Bottene leader del Comitato "No Dal Molin" invece non ha firmato: «Abbiamo dimostrato con i fatti il nostro impegno contro il Dal Molin e continuiamo a farlo anche pagando di persona», ha spiegato.

La sfida di Variati rimane però impari. I 112 mila vicentini danno l'addio senza rimpianti al forzista Enrico Hullweck che dopo i due mandati è candidato al Parlamento per il Pdl. Ma la sua "sostituta" Amalia Lia Sartori (Pdl, Lega, Vicenza Viva) gode dei favori del pronostico.

L'obiettivo è quello di arrivare al secondo turno e lì approntare un apparentamento con la sinistra: il "No" al Dal Molin potrebbe esserne la base.

Proprio in giornata Walter Veltroni è intervenuto sulla questione. «Gli impegni presi non possono essere disattesi», ha detto intervenendo alla trasmissione Radio anch'io, ha risposto alla domanda di un radioascoltatore che gli chiedeva cosa pensasse della vicenda della base aerea Usa a Vicenza. «Naturalmente - ha proseguito Veltroni - ci saranno delle necessarie consultazioni tra le autorità Usa e le autorità amministrative della città di Vicenza, per poter trovare le compatibilità che sono necessarie». 


Pubblicato il: 11.04.08
Modificato il: 11.04.08 alle ore 16.25   
© l'Unità.

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In provincia di Rovigo.

Gli amici: mancanza di rispetto. Si sente male in discoteca e muore

Ma gli altri continuano a ballare

La 29enne aveva una malformazione congenita.

Il titolare: «Spegnere la musica sarebbe stato peggio»


MILANO - Si è sentita male al bar della discoteca e si è accasciata a terra, a pochi passi dalla ressa dei ballerini. La musica non si è fermata e attorno a lei tutti hanno continuato a ballare, mentre su un divanetto si consumava la sua agonia. E' morta così, a 29 anni, E.M., una ragazza originaria di Lendinara, in provincia di Rovigo. E ora è polemica sul comportamento del gestore, che non ha fermato il divertimento dei giovani.

MALFORMAZIONE CONGENITA - E' accaduto nelle prime ore dell'alba di sabato in una discoteca di Arquà Polesine (RO). La giovane soffriva di una malformazione congenita al cuore che la costringeva a continui controlli medici e cure. La giovane è stata colta da malore mentre stava parlando con alcuni amici vicino al bar. Improvvisamente una smorfia di dolore è comparsa sul suo viso e la ragazza si è accasciata al suolo. Soccorsa, è stata fatta stendere su un divanetto in attesa dell'arrivo dell'ambulanza, che è arrivata circa mezz'ora dopo. Poi è stata trasportata d'urgenza all'ospedale, dove però i medici non hanno potuto che constarne la morte.

IL TITOLARE: «VOLEVO EVITARE LA CALCA» - Dal momento in cui la ragazza si è sentita male all'arrivo dei soccorsi sono passati una trentina di minuti, ma nel frattempo all'interno della discoteca la musica ha continuato a ribombare e pare che nessuno si sia accorto di nulla. Un particolare, quello della musica, che ha suscitato forti perplessità da parte degli amici della giovane. Il titolare del locale, Gaudenzio Ferrari, si è giustificato rilevando che sarebbe stato forse più pericoloso accentrare l'attenzione di tutti i presenti su quanto stava avvenendo e che in un primo tempo pareva un semplice svenimento. «La ragazza - ha detto - sembrava svenuta e se avessi dato ordine di spegnere la musica si sarebbe creata calca attorno alla giovane, e forse sarebbe stato peggio».

Redazione online
16 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it

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Vicenza. 16 società in mezza Europa per evadere 10 milioni di euro in Italia

Agivano nel settore immobiliare e del tessile e utilizzavano prestanome soltanto per creare somme di denaro in nero
                     
 
 VICENZA (8 febbraio) - Un'evasione fiscale internazionale nel settore del tessile e della compravendita immobiliare è stata scoperta dalla guardia di finanza di Bassano del Grappa (Vicenza) che ha recuperato 9 milioni di euro sottratti all'erario, contestato oltre un milione di Iva non versata e ha denunciato quattro persone per associazione a delinquere finalizzata alla frode fiscale.

A capo dell'organizzazione, secondo i militari delle fiamme gialle, C.A., residente nel bassanese il quale, dal 2003 ad oggi, avrebbe utilizzato 16 sedici società sparse per l'Italia, Austria e paesi del nordest Europa, al cui vertice stavano prestanomi che emettevano ed utilizzavano fatture per operazioni inesistenti e una serie di conti correnti bancari aperti in Italia e all'estero.

Per i finanzieri l'unico scopo era quello di movimentare consistenti somme di denaro verso l'estero, al fine di creare scorte finanziare in nero e di sottrarre i proventi all'imposizione fiscale in Italia indirizzandoli su paesi a fiscalità agevolata.

Gli accertamenti, coordinati dalla Procura di Bassano del Grappa, hanno portato i finanzieri a chiedere anche rogatorie in Austria dove è stata sequestrata documentazione che ha fatto emergere l'esistenza di due società cartiere, dedite esclusivamente all'emissione delle fatture false utilizzate in Italia, e di altre 170 società, facenti capo a un prestanome e collaboratore del capo dell'organizzazione..
 
da ilgazzettino.it

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Le famiglie non pagavano la retta, negata la mensa

Bambini a pane e acqua Il sindaco sotto accusa

Vicenza, si mobilitano dalla Caritas ai partiti


ROMA — «Le regole sono regole per tutti e vanno rispettate. Il mondo non può essere dei furbi». Non arretra di un passo Milena Cecchetto, il sindaco leghista di Montecchio Maggiore. Anche ieri in questo paese della provincia di Vicenza otto bambini delle elementari e della materna, due italiani e sei stranieri, si sono dovuti accontentare di un menu differenziato. Non pasta alla zucca, hamburger, insalata e frutta come tutti gli altri. Ma una bottiglietta d’acqua ed un panino. «Riduzione del pasto», così l’ha chiamata il sindaco, perché i genitori dei piccoli non avevano pagato la retta della mensa. Ed il Comune ha deciso di ripianare un buco da 150 mila euro accumulato proprio per i pranzi distribuiti nelle scuole. Una scelta che ha provocato tantissime proteste. La Caritas di Vicenza è pronta a mettere mano al portafoglio per coprire le spese di quelle otto famiglie. E chiama alla «mobilitazione affinché nessun bimbo debba essere umiliato nella propria dignità, ancor prima che nei suoi bisogni primari». Stasera alle 19 e 30, davanti al municipio di Montecchio, le associazioni degli immigrati hanno organizzato una simbolica cena a pane ed acqua. L’iniziativa è di Ousmane Condè, originario della Guinea, cittadino italiano da pochi mesi e candidato alle regionali in Veneto per Sinistra ecologia libertà: «Nemmeno le bestie — dice — si comportano così e affamano i loro cuccioli. Sarebbe questo il partito dell’amore? ».

Paolo Ferrero — portavoce della Federazione della sinistra— ha scritto al prefetto di Vicenza per chiedergli di intervenire su una vicenda che «viola la Costituzione e la convenzione Onu sui diritti dell’infanzia ». Protesta pure il Pd che con Daniela Sbrollini parla di «esempio del livello al quale possono arrivare gli amministratori leghisti». Ed anche le associazioni dei consumatori fanno sentire la loro voce.
L’Aduc chiede di scogliere l’amministrazione comunale di Montecchio per «violenza contro l’infanzia », mentre il Codacons propone un punizione simbolica: una settimana a pane ed acqua per il sindaco. La Lega si difende con Manuela Dal Lago, vicentina e vice capogruppo del Carroccio alla Camera che parla di «attacchi pretestuosi e infondati». Un fuoco incrociato ancora più fitto visto che in Veneto, per le Regionali, il centrodestra schiera come candidato presidente proprio un leghista, il ministro Luca Zaia. Anche per questo il sindaco di Montecchio derubrica tutto a «polverone elettorale». Dice che i genitori di quegli otto bambini «non hanno nemmeno compilato il modulo di iscrizione alla mensa». E garantisce che «se non faranno i furbi e sono davvero indigenti il Comune se ne farà carico, come fa già adesso con 80 famiglie ». Ma dopo i titoli dei giornali ed i servizi dei tiggì, oggi a Montecchio nessuna «riduzione del pasto».

Anche per gli otto piccoli morosi il menu prevede primo, secondo, contorno e frutta.

L. Sal.
24 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it

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