LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: VITTORIO ZUCCONI,  (Letto 44282 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 09, 2011, 11:22:58 am »

USA

Quelle battaglie nella terra di nessuno che alimentano la frontiera dell'odio

Gli insulti nei blog dell'ultradestra: "È una venduta comunista".

Il suo collegio elettorale è quello al confine con il Messico dove ogni notte transitano e spesso muoiono i clandestini che tentano di entrare nel Paese dei loro sogni

di VITTORIO ZUCCONI

ERA da poco passato mezzogiorno, nell'Arizona dove il sangue bolle più in fretta del tè e le pistole parlano più forte della legge, quando Gabrielle Giffords, una parlamentare democratica, è stata abbattuta da un proiettile in testa sparato a bruciapelo all'aperto 1, durante un comizio. Almeno altre 17 persone presenti sono state raggiunte nella tempesta di proiettili sparate da una pistola mitragliatrice.

Sei sono morte e tra loro un bambino di nove anni. Ore e ore di intervento disperato al cervello dell'onorevole Giffords nell'ospedale della città di Tucson, l'hanno lasciata in condizione critiche, prima data per morta, poi in fin di vita, poi con buone prospettive di sopravvivere secondo l'annuncio del chirurgo.

È stato un mezzogiorno di fuoco autentico, da western della nuova politica impazzita, davanti a un negozio di alimentari in un modesto shopping center, in queste località un tempo chiamate "territori del New Mexico", non per caso utilizzate dal cinema come fondale per la storia di violenza e di giustizia sommaria che hanno costruito la frontiere del west e del sud ovest. Nei dubbi, e nelle speranze, che ancora circondano la sorte di questa donna rieletta alla Camera dei Deputati appena tre mesi or sono dopo una furibonda battaglia elettorale contro uno dei più fanatici campioni del "partito del tè" più estremo che ha richiesto tre giorni di riconteggio per assegnarle
il seggio per pochi voti, l'attentato sembra quasi una notizia attesa, un evento tragicamente prevedibile nel clima arroventato di odio che gli ultimi anni, e l'avvento del movimentismo degli ultrà della destra gonfi di rabbia, hanno generato.

Il collegio elettorale della Giffords è l'ottavo, che copre la terra quasi di nessuno fra i Messico e l'Arizona, il luogo dal quale transitano ogni notte, e spesso muoiono, i clandestini che corrono fra i cactus e i serpenti a sonagli seguendo le guide, i coyote, che spesso li abbandono a morire di sete. L'avversario della Giffords, il repubblicano Jesse Kelly, aveva ottenuto l'investitura della santa patrona dei nuovo ultrà, la cacciatrice di renne Sarah Palin, e poche settimane prima del voto aveva organizzato una "pubblica sparatoria" invitando i partecipanti a "eliminare la Giffords anche con i fucili". Non è lui, Kelly lo sconfitto, ad essere stato arrestato come sospetto per la sparatoria, e l'identità del possibile attentatore che doveva possedere armi automatiche per compiere una tale strage, è tenuta segreta. Ma questa, nell'Arizona dell'estrema frontiera davanti all'immigrazione legale e illegale, nello stato dove tutto si arroventa come la sabbia del deserto di Sonora che separa Tucson dal Messico, è la febbre che sta divorando di rabbia e di odio i cittadini e sta infettando l'America. E la storia americana insegna che appiccare incendi di rabbia e di odio ideologico o razziale inevitabilmente conduce all'omicidio politico.

L'indignazione e le condanne ufficiali che hanno accompagnato le ore di attesa per l'esito dell'intervento sulla Giffords e la sorte dei molti feriti gravi, la definizione di "attacco spregevole" venuta dal presidente Obama che è stato avvertito mentre assisteva con la figlia Malia a un incontro di basket e di "gesto insensato contro tutti noi" diffusa dal nuovo presidente della Camera appena insediata, il repubblicano moderato John Boehner non cambiano e non cambieranno nulla in quell'Arizona che vive il dramma insolubile dell'immigrazione e la lotta politica nel forno di passioni eccitate dalla diffusioni universale di armi. Insieme con l'Alaska e il Vermont, l'Arizona permette il trasporto di armi da fuoco nascoste senza licenza e le armi hanno il difetto di sparare e uccidere facilmente.

L'incontro politico, il piccolo comizio che la Giffords aveva organizzato in un anonimo centro commerciale di Tucson, una città di un milione di abitanti dove ormai i "bianchi non di origine ispanica" sono il 49% della popolazione, dunque minoranza, non aveva nessuna pretesa di speciale protesta, ma semmai di conferma della popolarità della deputata, forte di una posizione che ovunque apparirebbe fortemente centrista, ma che nell'allucinazione xenofoba o anti democratica che ha afferrato tanti cittadini, dovevano sembrare scandalosamente di sinistra.

Tra il pubblico che assisteva all'incontro, c'erano bambini, madri con neonati, latinos e persino un giudice della Corte Federale, la più alta magistratura. Anche il bambino e il giudice sono stati uccisi.

La piccola Kennedy dell'Arizona, la deputata, è sposata con un ufficiale dell'aeronautica in servizi attivo, Kelly, che ha combattuto in Iraq ed è parte della squadra di aviatori impiegati dalla Nasa per spedizioni nello spazio. Aveva sempre votato per il rifinanziamento dell'occupazione e delle guerra in Iraq e Afghanistan, aveva applaudito la decisione di utilizzare la Guardia Nazionale, l'esercito territoriale che ogni Stato arma, per controllare la frontiera con il Messico ad appena 100 chilometri da Tucson, ma era - e forse questa è la "colpa" che ha mosso il criminale - dichiaratamente ambientalista, favorevole al finanziamento pubblico delle ricerche sulle staminali embrionali e contraria alla inaudita legge dell'Arizona che permette alla polizia di arrestare chiunque appaia, si noti, appaia come un immigrato senza documenti. Questo in una città e in uno stato, dove il 33 per cento della popolazione, una persona su tre, ha sangue latino nelle vene. In Arizona, nella contea di Mariposa, regna da anni come un commissario politico, il famigerato sceriffo Arpajo, implacabile persecutore di forestieri.

Sui blog dei fanatici di destra, come nella campagna elettorale furibonda condotta dal campione sconfitto del "partito del tè", la Giffords era stata variamente descritta come "un clown", un "perfetto esempio degli idioti che ci governano da Washington", una "comunista venduta ai trafficanti di uomini", "un'assassina di bambini non nati" (gli embrioni) o, trattandosi di una donna, come l'immancabile "puttana delle lobby".

Si saprà domani soltanto quali danni abbia fatto il proiettile che attraversato il cranio di Gaby Giffords, anche se il capo del team di neurochirurghi che l'hanno operata sono "ottimisti" sulla sopravvivenza di una donna colpevole di null'altro che di non essere una fanatica xenofoba. Sembra quasi una piccola ricompensa del destino, il fatto che il capo dei chirurghi che potrebbero averle salvato la vita sia un straniero, un immigrato venuto da lontano.

(09 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2011/01/09/news/frontiera_odio-10997465/?ref=HREA-1
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« Risposta #46 inserito:: Marzo 12, 2011, 10:52:48 am »

LE IMMAGINI

Quel mare sulla terra nel mondo rovesciato

di VITTORIO ZUCCONI


VEDIAMO l'acqua che brucia e la terra che si liquefa. Lo sanno da sempre i figli giapponesi di Amaterasu, la dea del sole, che la vendetta della Terra disordinata viene dallo stesso mare che li ha creati. Sono infatti le immagini dell'acqua che divora e che brucia le loro risaie ben ravviate, le loro cittadine precisine, i loro capannoni e serre allineate come soldatini del Tenno, quelle che raccontano meglio la catastrofe giapponese.
Guardate come avanza l'onda lenta e lurida nella piana di Miyagi, la prefettura dove si trova Sendai, trascinando barche e tetti, detriti confusi e irriconoscibili, fiamme in movimento che bruciano sull'acqua, come inghiotte pigramente, senza sforzo, l'ordine impeccabile della campagna e dei quartieri industriali creato in generazioni di sacrifici e fatica. Si lascia alle spalle una distesa grigia e piatta dalle quale spuntano soltanto qualche alberello spoglio e quale scheletro di edifici più robusti ancora in piedi. Un'altra immagine torna subito agli occhi: la Hiroshima dell'agosto 1945.

L'epicentro è stato nell'oceano e contro la spallata dello tsunami - una parola giapponese, come taifun, il tifone, in acque dove ancora oggi spuntano e sprofondano isole vulcaniche come i mostri dei film, non ci sono difese né norme edilizie. Gli uffici della Nhk, la Rai nipponica, sono stati i primi a riprendere e trasmettere le sequenze delle scosse e si vedono monitor di computer, fortunatamente tutti a cristalli liquidi e senza tubi catodici, che crollano in grembo agli impiegati e alle impiegate, mentre i cartelli sospesi
ballano frenetici, ma niente davvero crolla nei grandi palazzi, perché i regolamenti e le precauzioni tengono a Tokyo o nel centro di Sendai.

Ma il lunghissimo muro bianco di schiuma che arriva da est, dal Pacifico, e si muove verso i villaggi della costa rotolando su un acqua perfettamente piatta e intimidita dal mostro prima di mangiarsi i paesi, ha l'andatura e l'implacabilità di quelle onde del Mar Rosso che avrebbero coperto i soldati del Faraone all'inseguimento del popolo di Mosè. Ci sono, nelle sequenze che una nazione di videocamere e di fotomaniaci ha girato in grande abbondanza, quello che possiamo soltanto immaginare accadde sotto la diga del Vajont.
Le casette begioline di due, tre piani al massimo, oggi costruite di cemento e mattoni, non più di legno come erano fino alla guerra, sono sollevate e trasportare sopra altre casette, quando l'acqua sfonda la diga sulle colline e si allarga nella piana. Il Giappone da decenni è la nazione con più dighe al mondo, corsi d'acqua deviati e incanalati in argini di cemento, con chiuse costruite da governi ansiosi di regolare un'orografia inquieta e selvatica, che produce puntuali piene e frane nelle stagioni degli uragani e dei tifoni trascinando a valle i mama san e papa san con le loro avare risaie. Ma quando le briglie di cemento armato cedono l'effetto è quello che vediamo nella piena che porta a valle battelli e barchetti, furgoncini e utilitarie, camion e anche quei Suv che s'illudevano di sfidare la rabbia della terra.

Sono tutti i simboli del Giappone moderno quelli che sono sradicati e sommersi come il modernissimo aeroporto di Sendai, gettati o risucchiati come quella barchetta presa nell'immenso maelstrom, il gorgo che la sta inghiottendo come una briciola nel fondo del lavandino, in un fermo immagine che toglie il respiro. Nel nord, i due eterni amici nemici dell'umanità si alleano, scatenando l'esplosione e poi l'incendio di una raffineria che vomita milioni di litri di carburante in fiamme tra le acque che li circondando, anche qui riesumando ricordi di tragedie belliche navali, di grandi unità che affondano colpite nel fuoco del loro carburante che continua ad ardere consumando i marinai che si gettano dal relitto.
Le scene che il grande sisma di Sendai, la città dove la nazionale italiana di Trapattoni andò i ritiro nei Mondiali del 2002, sono in sostanza filmati di una guerra senza guerra, tutti riconducibili a Hiroshima, ai bombardamenti incendiari che divorarono Tokyo per giorni, a quelle invasioni di nemici che si riversavano sulle spiagge dell'Impero come le muraglie dello tsunami ieri, verso rive difese da soldati che sapevano di poter soltanto morire di fronte alla strapotenza dell'avversario. Sapendo che nessuno sarebbe arrivato, nel 1945 come nel 2011 a salvare il soldato Yoshi dall'assalto venuto da male.

Con l'immancabile spettro dell'orrore nucleare che quelle centrali, particolarmente dense nell'area colpita, proiettano fra notizie inquietanti di fughe radioattive e difficoltà di raffreddamento dei reattori e annunci di allarme nucleare.
C'è un onda gonfia che porta sul pelo grappoli di automobili e automezzi chissà perché tutti bianchi, che in Giappone è il colore dei riti funerari, forse parte di una "flotta" aziendale. Galleggiano come insetti morti con le ruote nere all'aria, destinati a scivolare via sulle rapide artificiali create dalle strade e dalle pendenze inghiottite. Si vede un grosso battello fluviale con la prua diritta da vecchio incrociatore, bianco anch'esso, navigare in una perfetta deriva in linea retta. Supera velocissimo tutti i detriti, i camioncini con le zampe all'aria, le barchette più leggere e sbandate, come una nave ammiraglia di una flotta involontariamente suicida filando verso una cascata artificiale che finirà per spezzarlo.

Non si vedono invece, ma ci saranno, le immagini della ricostruzione che avverrà, come avvenne nel grande terremoto del Kanto, la piana di Tokyo, 80 anni or sono, a Hiroshima, oggi una città brutta, ma tornata grande e viva, a Kobe, che nel 1995 ebbe le sopraelevate schiacciate come frittate dal terremoto sopra sei mila morti, ma sappiamo che ci saranno.

Perché la lotta perenne di un popolo disperatamente razionale contro la natura fanaticamente irrazionale che lo circonda è ciò che ha fatto e continuerà a fare il Giappone.
 

(12 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/esteri
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« Risposta #47 inserito:: Marzo 20, 2011, 03:20:54 pm »

Vittorio ZUCCONI

20
mar
2011

Lo scatolone di sabbia (mobile)

Mi scrivono e mi chiamano amici molto agitati di fronte ai primi bombardamenti sulla Libia e nessuno di noi può sentirsi tranquillo, perchè – esattamente come nel caso di Fukushima – sappiamo benissimo come cominciare le guerre, o lanciare una reazione a catena, ma ancora non sappiamo come finirle. La legge delle “unintended consequences”, delle conseguenze impreviste e non volute, come la legge di Murphy o come la forza di gravità, non cessa mai di agire e contro di essa non c’è schermatura. Ho scritto un milione di volte che io non sono un pacifista, ma una persona pacifica e non violenta, che esiterebbe a imbracciare un fucile per difendere uno dei nipotini da chi osasse far loro male. Fra le tante guerre fatte a capocchia di cavolo, per interessi dinastici, per soldi o per falsi pretesti come fu l’invasione dell’Iraq, questa contro il sinistro clown Gheddafy che si faceva pagare da noi per fare lo sporco lavoro sui migranti e mandarli a morire nella sabbia o marcire in campi di lento sterminio, sembra, dico sembra, avere almeno una causa giusta e una legittimità internazionale. Lo conferma la posizione contraria della Lega Nord verso la quale coltivo il noto e bieco pregiudizio gramsciano (Comunista! Moralista! Terùn! Puritano viscido!): se non so bene quale opinione avere su qualcosa, penso il contrario di quello che pensano Borghezio o Calderoli e so di non sbagliarmi mai troppo. Ma anche una giusta causa non garantisce un giusto effetto.

da - zucconi.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Aprile 25, 2011, 07:44:43 pm »


L'INTERVISTA

"Il mio Wojtyla segreto ho vissuto con un santo"

Domenica prossima Giovanni Paolo II sarà beato. Joaquin Navarro-Valls, il giornalista e psichiatra spagnolo che per 22 anni è stato il portavoce del Papa, racconta il miracolo quotidiano do un uomo che ha saputo conquistare credenti e non credenti, gente comune e grandi della Terra. Il suo capolavoro? Credere sempre nell'happy end

di VITTORIO ZUCCONI

"Il mio Wojtyla segreto ho vissuto con un santo" Papa Giovanni Paolo II con Navarro-Valls
SONO seduto accanto a Gianni Agnelli, nella sede della Stampa estera. La segretaria mi porta un bigliettino scritto a mano: il Papa la vorrebbe vedere a pranzo. È uno scherzo. E quando sarebbe? Subito, tra un'ora". Fu un'ora che sarebbe durata ventidue anni per Joaquin Navarro-Valls, il giornalista e medico psichiatra spagnolo che sarebbe stato fino alla sera dell'addio alla vita di Giovanni Paolo II, il Beato Wojtyla dal primo maggio prossimo, il decoder quotidiano fra l'eterno e il quotidiano, fra la santità e il giornalismo. Nessun altro, salvo monsignor Dziwisz, oggi cardinale, e le suore di pietra che vidi pregare accanto alla salma esposta nella Sala Clementina, avrebbe trascorso tanto tempo, diviso tanti silenzi, tanti segreti e tante parole con Karol Josef Wojtyla, quanto Navarro-Valls. Una vita con il Papa, in perenne equilibrio tra la comunicazione pubblica e le stanze segrete, tra il sublime del messaggio e il purgatorio dei mass media.

Era il 1984.
"Davanti a me c'è il capo della Chiesa Cattolica, il successore di Pietro, di cui avevo letto alcuni testi ma che conoscevo soltanto da lontano, come giornalista. Mi chiede se avessi qualche idea per migliorare la comunicazione della Santa Sede".
In che lingua parlavate?
"In italiano. La vostra, anzi, la nostra lingua come aveva detto la sera della elezione, parlando
dalla Loggia".
Lei che idee gli propose?
"Gli dissi che non sapevo che cosa dire, così, su due piedi. E lui, ridendo: e lei me lo dica lo stesso. Lui taceva, mi studiava con il capo un po' piegato, quei suoi occhi taglienti, ironici, allegri, lo sguardo che mantenne anche quando gli occhi furono imprigionati nella maschera della sofferenza".

Per due decenni, fino a quando l'infermiera suor Tobiana Sobodka riferì di avere sentito il Papa mormorarle all'orecchio in polacco "... pozwólcie mi odejsc do domu Ojca...", "lasciatemi tornare alla casa del Padre", nella sera del 2 aprile 2005, Navarro-Valls avrebbe guardato ogni giorno in quegli occhi, cercando di capire quello che lui stesso non poteva capire, il mistero di un Pontefice destinato al cielo delle beatitudini cristiane.

"Me lo domandavo, agli inizi, anche io chi fosse, che cosa fosse il mistero di Wojtyla. Ha cambiato la storia della politica e della diplomazia, senza essere né un politico né un diplomatico. Ha rivoltato le premesse della filosofia dominante senza esercitare più la professione del filosofo, ha affascinato il mondo dei media prendendo posizioni impopolari. Voleva appassionatamente attirare l'attenzione sul messaggio, ma il mondo sembrava ossessionato dal messaggero. Credevano di amare il cantante, e non si rendevano conto, o non volevano ammetterlo, che in realtà erano attratti dalla musica".

Una musica che all'orecchio del tempo sembrava stonata.
"Perché suonava alla rovescia rispetto agli spartiti dominanti dell'epoca: il pessimismo e la cupezza della nostra esistenza e della nostra condizione umana dietro il benessere materiale del nostro piccolo spicchio di mondo, Europa e Americhe. Il messaggio di Giovanni Paolo II è radicale, rivolta quegli spartiti. Diceva: voi uomini siete molto meglio di quanto la cultura moderna vi faccia credere, siete molto meglio di quanto voi stessi crediate di essere. Dunque non abbiate paura di essere ciò che siete, creature divine".
Invadeva i teleschermi, li "bucava", occupava la televisione ormai divenuta satellitare, dunque globale. Lei non temeva, come curatore della sua immagine, di rischiare l'overdose?
"No, perché sapeva che il segreto per dominare la televisione e non lasciarsene dominare è semplicemente ignorarla, come scrisse il critico televisivo del New York Times quando andammo in America nel 1987. C'era il suo messaggio, c'erano le sue parole, e c'era la fusione tra la forza del suo messaggio e il vissuto esistenziale che si manifestava quando lo comunicava alla gente. Chi lo ascoltava sapeva che quanto diceva era vero. Il suo linguaggio e i suoi gesti esprimevano la verità".
Si preparava a questi eventi? Studiava le pose, gli angoli di ripresa, le luci, la scenografia e la sceneggiatura?
"Mai, neppure una volta. Per lui le telecamere, il trucco, le luci non esistevano. Questi atteggiamenti da personaggetti che si fanno spiegare come e dove devono guardare, se fissare l'obbiettivo o guardare fuori, se sorridere o sembrare seri, non lo sfioravano mai. I primi tempi mi preoccupavo, sapendo quanto la telecamera possa essere crudele. Ma per lui comunicare era far apparire la verità, non costruire un'apparenza".
La Curia diffidava?
"La Curia, come ogni organizzazione istituzionalizzata, può tendere alle volte a guardare verso il proprio interno. Lui la faceva guardare verso l'esterno".
Recalcitravano, le porpore?
"La Curia era non soltanto utile ma necessaria. E lui, come Papa, marcava la strada".
Una lunghissima strada. Duecento viaggi dentro l'Italia, poi in centosessanta nazioni fuori dall'Italia.
"Una volta mi disse una cosa che sembrava elementare: "Sa, nel passato era la gente ad andare in parrocchia. Oggi è il parroco che deve andare dalla gente". Questa, così apparentemente semplice, era una un'illuminazione straordinaria che lui portava con sé da una lunga esperienza nel proprio Paese".
Lei che è un credente, un uomo dell'Opus Dei, si rendeva conto di vivere accanto a un santo?
"Lo andavo comprendendo standogli accanto giorno dopo giorno, non avevo dubbi. La fede non l'ho avuta da lui ma accanto a lui il contenuto della fede si "vedeva", e lo metta tra virgolette perché questo andrebbe spiegato. Quello che cercavo di imparare era come la santità si sarebbe fatta carne in lui, in noi cristiani. Questo lo avrei scoperto soltanto nella convivenza quotidiana".
Per esempio?
"La preghiera. Per un credente, la preghiera spesso è un obbligo. Oppure il risultato di una convinzione fondata. Per lui era una necessità, un bisogno, come per noi respirare".
Aveva un preghiera preferita?
"Nutriva la sua preghiera con i bisogni degli altri. Gli arrivavano migliaia di messaggi di tutto il mondo, in tutte le lingue: una malattia, un problema famigliare, l'angoscia di un futuro senza futuro... L'ho visto in ginocchio per ore nella sua cappella con questi messaggi in mano: tutte le sofferenze umane come tema della sua conversazione con Dio. Penso che per se stesso non rimanesse alcuno spazio nella sua preghiera. Penso che lui non avesse delle "cose sue". Solo cose degli altri".
E c'era una costante nel parlare con Dio?
"Lui, che pure aveva riportato l'ottimismo nel mondo incupito e pessimista, custodiva un suo segreto. Era convinto che quello di cui veramente l'essere umano avesse più bisogno era la misericordia di Dio. Per questo la cerimonia di beatificazione avverrà il primo maggio, il giorno della Misericordia. Sembrerebbe un paradosso. Tanto fiducioso, tanto ottimista, lui che apriva orizzonti sterminati alla persona umana, eppure con il senso della limitatezza della creatura umana. L'ultima messa, celebrata nella stanza in cui morì, era già la messa della domenica, la messa della Divina Misericordia".
Come psichiatra, lei, dottor Navarro, è mai caduto nella tentazione di guardare Karol Wojtyla come a un paziente?
"Non c'era materia per considerarlo un paziente. E non c'era tentazione, semmai deformazione professionale, come il sarto che vede un abito o il calzolaio che guarda le scarpe e le valuta, per abitudine. Mi impressionava il magnifico equilibrio interiore tra tutte le sue virtù. Virtù che, quando coabitano in una sola persona, possono anche impazzire. In lui, questa pazzia delle virtù non c'era. Convivevano senza difficoltà. Per esempio: non sapeva perdere un minuto eppure non aveva mai fretta".
Neppure alla vigilia degli incontri più delicati?
"Nemmeno in queste occasioni. Semplicemente, metteva tutto se stesso nella preparazione di questi viaggi. Sapeva mortificarsi senza spettacolarità: rispetto al cibo, per esempio. Il rapporto con il cibo e con le bevande era di indifferenza, ne era quasi infastidito. Andavamo in paesi tropicali, caldissimi, umidi, come l'Indonesia. Era ovvia la disidratazione per il caldo. Il suo medico, io stesso, eravamo preoccupati per la perdita di liquidi. Lui, con straordinaria e discreta eleganza, ritardava di bere".
Dormiva bene, quando non soffriva?
"Voleva sempre che si viaggiasse di notte nei voli intercontinentali, per arrivare al mattino sul posto e avere così davanti a sé tutta una giornata di lavoro. Nel suo ultimo viaggio in Messico, e aveva ottant'anni, l'Alitalia gli aveva preparato un lettino dietro una tenda. Noi del seguito - laici, cardinali, monsignori - cercavamo di dormire almeno un po', raggomitolandoci nei sedili. Quando atterriamo, l'incaricato della compagnia mi avvicina e mi dice: noi avevamo preparato il lettino per il Papa, ma abbiamo visto che è intatto. Era troppo stretto, era scomodo? Non si preoccupi, lo rassicurai, è stato sveglio tutto il viaggio per prepararsi. Tredici ore di viaggio leggendo, studiando, pregando".
Mangiava anche poco?
"Non gli importava molto di ciò che aveva davanti. In certi periodi dell'anno faceva soltanto un pasto completo al giorno. E fino all'ultimo, il giorno prima di ordinare nuovi vescovi o sacerdoti, digiunava".
Potrebbe essere una definizione laica della santità il riuscire a vivere nell'equilibrio delle proprie virtù. Era questa serenità la radice, la causa del suo essere un uomo allegro, ironico?
"Era un uomo allegro, è verissimo. L'ironia era il suo tratto caratteriale più evidente. Ma la sua gioiosità non era quella banale delle persone che non sanno fare a meno della risata da barzelletta. Le fondamenta del suo carattere, che io definisco allegro, stanno tutte in due righe".
Di diari? Di confessioni?
"No, della Genesi. Dove si dice che siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza. È chiaro che se ci credi, ma se ci credi davvero davvero, allora, qualunque cosa accada, anche la tragedia più spaventosa, anche Fukushima, non cambia il fatto che il mio fine ultimo di creatura è il lieto fine, l'happy end. Non ce ne possono essere altri. Dio non può tradire le creature fatte a propria immagine e somiglianza. Se hai questa certezza, anche la sofferenza ha un senso".
Lo sentiva scherzare?
"Molto. Amava scherzare, stuzzicare e prendere affettuosamente in giro anche i suoi collaboratori, i parroci e i preti diocesani delle parrocchie romane che andava a visitare. Incontrandoli la sera prima, voleva sapere quanti vecchi, quanti bambini, quante donne incinte, quanti malati gravi fossero sotto le loro cure, per poi trovarsi preparato a tutto. Ma come, Santità, gli disse un cardinale quando già stava poco bene, vuole andare a visitare un'altra parrocchia romana? Guardi eminenza che forse lei dimentica che io sono il vescovo di Roma".
Cercava sempre il contatto con la gente?
"C'era una grande fisicità in lui, baciava le donne in fronte e coccolava i loro bambini, prendeva sottobraccio i vecchi, afferrava le mani di chi gliele tendeva. "Ma sei proprio tu quello che ho visto in televisione?", gli domandò un bambino colombiano sfuggito alla sorveglianza e corso sul palco del Papa. Prima che lo riacciuffassero, lui lo abbracciò e tolse al bambino quel dubbio - che a quella età doveva essere importante".
Un Papa prete, come sarebbe stato anche Luciani, da cui prese il nome, Giovanni Paolo. Aveva anche lui dubbi sulla morte improvvisa del suo predecessore, nel sonno, appena trenta giorni dopo l'elezione?
"No. Per lui, i sospetti erano letteratura, fiction, non lo interessavano. Mi raccontò invece di come ebbe la notizia della morte di Papa Luciani. Lo seppe dal suo autista, mentre quella mattina andava in visita pastorale a una parrocchia di Cracovia. Lui che era stato nel Conclave pochi giorni prima dovette sapere dall'autista che era morto il Pontefice che aveva eletto".
Come reagì?
"Sentì un'immensa tristezza invaderlo, poi lo assalì un'inquietudine enorme che lo scuoteva e che non riusciva a spiegarsi".
Forse un presentimento.
"Forse. Ma lui non ripartì per Roma, per il secondo Conclave in poche settimane, pensando di doverci restare come Papa. Non parlava mai di quei due Conclavi. Non disse mai se avesse ricevuto qualche voto anche nel Conclave che elesse Luciani".
Anche i santi si arrabbiano?
"Raramente, ma sì, se la ragione è giusta. Le uniche volte in cui l'ho visto arrabbiato, se arrabbiato è la parola corretta, erano sempre situazioni di violenza fisica o morale rivolta contro la gente, come la guerra nel Libano, o nei Balcani. Si tormentava, e tormentava noi chiedendoci che altro può fare il Papa per impedire una guerra. O come sarebbe poi stata l'invasione dell'Iraq, alla quale era molto contrario".
Lo disse pubblicamente.
"E anche privatamente. Quando incontrò George W. Bush, gli disse chiaramente: mister President, lei sa quale opinione ho della guerra in Iraq. Discutiamo di altro. Ogni violenza, contro uno o un milione, era una bestemmia diretta all'immagine e alla somiglianza di Dio. Non accettava che l'essere umano cercasse di risolvere le differenze con gli altri attraverso la violenza, come gli animali".
Molti grandi santi, antichi e moderni, hanno confessato di avere vacillato, di essere stati aggrediti da dubbi. Lo so che sembra una bestemmia, detta per un Papa e oggi un beato, ma Karol Wojtyla credeva davvero davvero, come dice lei, in Dio?
"Penso che possa rispondere qualsiasi persona che lo abbia visto e seguito. La sua fede la si vedeva. Alla fine ormai della sua vita, nel 2005, quando dovettero praticargli una tracheotomia all'ospedale Gemelli per permettergli di respirare e quindi non poteva parlare, in sala post-operatoria fece un gesto. Sembrava voler dire qualcosa che non poteva dire. La suora capì. Gli portò un cartoncino con un pennarello. Lui ci scrisse sopra con decisione, a grandi lettere irregolari: TOTUS TUUS. Era mettere per iscritto la sua accettazione di quello che Dio voleva per lui anche in quel momento".
Era rassegnato.
"No, era convinto della propria totale appartenenza a Dio, attraverso l'intercessione di Maria. Ho detto convinto, perché questa era stata la motivazione profonda di tutta la sua vita di Papa. Non voleva vincere, voleva convincere, come lui stesso era stato convinto dallo Spirito quando era un giovanotto che giocava a calcio come portiere e remava sul suo adorato kayak in Polonia".
Ma il duello contro l'Urss, i regimi, le burocrazie comuniste lo aveva pur vinto.
"Vincere non era una parola che appartenesse alla sua filosofia, al suo orizzonte interiore".
Eppure fu costretto a una sfida che al mondo apparve un duello senza quartiere attorno alle sorti della sua Polonia, nel 1980. Il tempo di Solidarnosc e di Lech Walesa...
"In quei anni di tensione Ronald Reagan gli scriveva molto, gli mandava a Roma l'ambasciatore Vernon Walters, ex generale, uno dei pochi ambasciatori americani che parlassero le lingue, poi il consigliere per la sicurezza nazionale Bob McFarlane. Reagan parlava allora della Russia come "l'impero del male": un'espressione che il Papa non avrebbe mai usato sapendo che il cristianesimo esisteva in Russia da mille anni prima. Era inevitabile vedere in loro due strade diverse. Il fine che muoveva Giovanni Paolo II non era l'America o l'anticomunismo, e neanche in fondo una qualsiasi forma di società neo capitalistica e libertaria idealizzata, bensì la dignità assoluta e trascendente della persona umana che è capace di scegliere il proprio destino. La sua originalità era la potenza dei valori antropologici universali e la fede incrollabile nella persona umana in quanto tale".
Forse perché il Papa non ha divisioni corazzate, come diceva Stalin.
"Aveva una forza diversa e il Cremlino se ne accorse presto. Non è molto noto ma, in quel 1980, i satelliti spia e gli Awacs fotografavano i movimenti delle truppe della Germania comunista che si dispiegavano sul confine occidentale della Polonia, da dove sarebbe partita l'invasione che tutti temevamo. Io ero a Varsavia in quei giorni e andavo a dormire convinto che mi sarei svegliato con i carri sovietici in strada. Era dicembre e Giovanni Paolo II scrisse una lettera personale e privata a Leonid Breznev".
Come Leone Magno con Attila? Per ordinargli in nome di Dio di non toccare la Polonia?
"No, sarebbe forse stato un errore, avrebbe fatto infuriare il Cremlino e offeso l'orgoglio dei sovietici. Gli scrisse, con grande chiarezza e con la conoscenza diretta che aveva di quei regimi e della loro mentalità, solo per ricordargli che appena cinque anni prima, nel 1975, lui stesso, Breznev, aveva firmato a Helsinki un trattato solenne in cui l'Urss si impegnava a non interferire negli affari interni di ogni altra nazione europea. Dunque, se avesse invaso la Polonia avrebbe violato la sua stessa parola, la parola dell'Unione Sovietica".
E Breznev rispose?
"Sì, ma non con una lettera, né per via diplomatica. La sua vera risposta fu la rinuncia all'azione di forza. Eppure Breznev sapeva, come sapevamo tutti, che lasciare la Polonia al proprio destino sarebbe stata la fine per la stessa Unione Sovietica e che il sogno del Papa, che era un'Europa dall'Atlantico agli Urali, ma senza il dominio di una potenza, si sarebbe inesorabilmente avvicinato".
La lettera segreta di Giovanni Paolo II fece quello che le potenze militari e la Guerra fredda non avevano saputo fare.
"Quando andammo a Praga nel 1990, pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, il presidente Vaclav Havel ricevette il Papa all'aeroporto e, da buon letterato, gli disse: "Io non so se so che cosa è un miracolo. Ma oggi mi sembra di vedere un miracolo"".
Un miracolo politico, diplomatico, strategico. Il profeta disarmato che distrugge la massima potenza militare del mondo.
"Questo era chiaro, ma non si deve pensare a lui come a un leader politico in abito religioso, deciso a cambiare regimi e confini. Non salì sulla cattedra di Pietro per liberare l'Europa dell'Est dal comunismo, ma per diffondere il messaggio dell'assoluta centralità della persona umana, della creatura, che esiste come tale perché ha un creatore, e in quella verità deve ritrovarsi. Questa era l'essenza postmoderna, post-ideologica, post-esistenzialista, dunque implicitamente post-marxista e leninista, l'essenza cristiana della sua predicazione".
Ci fu però un'altra risposta, un anno dopo la resa sovietica di fronte alla Polonia. In Piazza San Pietro. Il giorno 13 maggio del 1981. Ali Agca.
"La sofferenza era già entrata nella sua vita da anni ma probabilmente quello fu il suo primo incontro, brutale, inaspettato, con il dolore fisico: uomo robusto e sano, non lo aveva davvero mai affrontato. La prima di una serie tremenda di prove".
La corsa all'ospedale Gemelli, destinato a diventare il "Vaticano 2". Il complicato lavoro dei chirurghi sull'intestino, perforato da due dei quattro proiettili sparati dall'aggressore, con colostomia temporanea.
"Era ancora cosciente, sull'ambulanza. Perse i sensi arrivando in ospedale, per la perdita di sangue e il crollo della pressione sanguigna. Ma riuscì in un momento di lucidità a dire ai medici di lasciargli al collo lo scapolare, il rettangolo di stoffa dei carmelitani dedicato alla Vergine. Fu operato con lo scapolare addosso, quella volta e in tutti gli interventi successivi che dovette subire".
Ebbe la certezza dell'intervento provvidenziale, "materno" come lo definì, della Madonna per deviare le pallottole e non colpire organi vitali. Ci fu chi lo accusò di un peccato di superbia, per averlo pensato.
"È esattamente il contrario. Per una persona che ha il senso della totale dedizione alla Madonna, è semmai un riconoscere di aver ricevuto un dono e di avere un debito".
Ma qualche dubbio doveva averlo.
"Non sull'attentato ma sul possibile collegamento dell'attentato con il terzo segreto di Fatima. Per questo prima di far pubblicare quel testo anni dopo, mandò il cardinale Tarcisio Bertone, allora segretario della Dottrina della fede sotto il cardinale Ratzinger, in missione da suor Lucia, l'ultima superstite dei tre bambini che videro la Madonna. Voleva essere certo, sapere se l'ultimo segreto fosse davvero la profezia dell'attentato al Papa. Bertone chiese a suor Lucia se questa interpretazione fosse coerente con quello che la Madonna le aveva rivelato. Suor Lucia rispose di sì; che era coerente con quanto lei aveva scritto con l'ingenuità di una bambina di allora dieci anni che lo aveva visto attraverso questa immagine. Fece inviare a Fatima il bossolo di un proiettile sparato da Agca che ora è incastonato all'interno della corona della Vergine nel santuario".
Credette dunque alla "mano materna che aveva deviato un'altra mano". Ma chi aveva mosso invece la mano assassina di Agca? I servizi segreti bulgari appaltati da Mosca utilizzando una marionetta turca? Il Papa lo pensava?
"Rispondo con quello che disse lui stesso andando per la prima volta in visita in Bulgaria dopo la fine del regime: non considero il carissimo popolo bulgaro responsabile collettivamente".
Era un uomo solo, come si dice tanto spesso dei potenti e dei veri grandi?
"No, non lo era né di fatto né per carattere. Raramente era da solo o con il suo segretario, durante i pasti. Riceveva vecchi amici, collaboratori, intellettuali... Erano occasioni stupende per conversazioni informali. C'era nella sua vita sempre ampio spazio per l'interazione. Giovanni Paolo II non era mai solo, perché non voleva esserlo. Però questa facilità nei contatti umani non lo privava della solitudine riflessiva, il pensare da solo".
Nessun amico, nessun cardinale, neppure l'amatissimo cardinale Ratzinger, nessun addetto stampa possono però mai essere tua madre, tuo fratello.
"Ricordo che quando una volta gli domandai chi lo avesse accompagnato il giorno in cui fu ordinato sacerdote, lui mi rispose: "A quell'età avevo già perso tutte le persone che avrei potuto amare". Sul tavolino accanto al suo letto di morte c'era la piccola foto del padre e della madre che gli era stata regalata in uno dei viaggi all'estero".
L'incontro con la sofferenza morale era avvenuto molto presto, da ragazzo. La salita sul monte della sofferenza fisica sarebbe cominciata quel giorno in piazza San Pietro e non si sarebbe più fermata fino al morbo di Parkinson, l'umiliazione finale del suo messaggio, il male che colpisce la gestualità, l'espressività. Perché attendeste tanti anni, dodici, per ammettere che ne era stato colpito?
"Perché non ce n'era bisogno. Il Parkinson, con quel tremore incontrollabile alle mani e la rigidità dei muscoli facciali, è una malattia che qualunque studente di medicina del primo anno, qualunque persona che ne sia stata colpita o che abbia un parente che ne sia stato colpito, può diagnosticare guardando un minuto la persona che ne soffre. Lei pensa che è necessario presentare una persona incinta di sei mesi dicendo che è incinta? Lo si vede; è evidente. Anche nella patologia, Wojtyla non poteva e non voleva nascondere nulla".
Vedeste insieme, e a volte lei da solo, i cosiddetti grandi del mondo. Lei andò in missione a Mosca, poi a Pechino per coronare il sogno di un viaggio in Russia e in Cina...
"Che non si fecero....".
... e a Cuba dove invece riusciste.
"Parlai a lungo, dalle otto di sera alle due del mattino, con Fidel Castro, e così si sistemarono alcune precondizioni al viaggio del Papa. Nei colloqui privati non gli parlai mai della sua educazione presso i Gesuiti, fu lui a ricordarla a me".
Si rendeva conto, il Papa, che avrebbe celebrato messe in chiese in cui si mescolavano tranquillamente il cristianesimo con la santeria, le Madonne con i Serpenti di Mare?
"Lo sapeva benissimo. E questa conoscenza era una ragione in più per quel viaggio. La gente aveva bisogno delle sue parole, del suo insegnamento che non trovavano da nessuna parte per la scarsità del clero, l'isolamento cubano e le difficoltà di formarsi".
Le diceva tutto, sui suoi colloqui privati con capi di stato o di governo?
"Raccontava i termini dei colloqui e lasciava decidere che cosa era necessario dire all'opinione pubblica. Naturalmente faceva con tutti loro riflessioni profonde di carattere etico. Un giorno ricevette un capo di stato autocrate e violento. Uscendo, dopo il colloquio, commentò quasi tra sé: "Sembra quasi un agnellino"".
Come vedeva gli Stati Uniti, i suoi presidenti?
"Ammirava moltissime cose dell'America, l'apertura, la mobilità sociale, il senso religioso che pervade la vita e non solo la Costituzione. Ha conosciuto e incontrato cinque presidenti americani. Si comportava allo stesso modo con tutti, con Carter, con Reagan, con Bush padre, con Clinton, con Bush figlio. Di Bush giovane apprezzava, per esempio, la legge che ritirava i finanziamenti pubblici alla ricerca sulle staminali embrionali, non le guerre".
Dunque non poteva apprezzare molto Clinton, che era dichiaratamente pro aborto.
"Il presidente Clinton aveva una certa simpatia naturale. E Clinton, che ammirava Wojtyla, ha scritto: "Non vorrei mai fare una campagna elettorale contro di lui"".
E con Reagan?
"Si sono incontrati diverse volte. Parlavano in profondità ma avevano due missioni diverse anche se alla fine storicamente hanno coinciso. Erano come due linee parallele: la diplomazia della forza e la forza delle virtù".
Come guardava all'Italia, alla vita politica italiana?
"Con enorme tenerezza. In Italia facemmo più di duecento viaggi, visite, pellegrinaggi, e quella sua scelta celebre di rivolgersi alla folla in Piazza San Pietro usando l'italiano...".
... se sbaglio mi coriggerete?
"... Appunto. Fu la testimonianza di quell'affetto, del riconoscimento all'Italia che aveva donato mezzo millennio di papi. Seguiva la politica italiana ma non le scaramucce quotidiane. L'ho detto, non era un politico. Quando andò in Parlamento si rivolse alla nazione italiana, non a questo o quel gruppo; parlò di valori, non di destra o sinistra. Guardava spesso i titoli dei telegiornali alla sera e poi basta. Ma il capitolo di una sua amicizia italiana è tutto da ricordare".
Sandro Pertini.
"Sì, il presidente Pertini. Nel giorno dell'attentato, Pertini si fece portare all'ospedale Gemelli e restò in attesa dell'esito dell'intervento, come un parente prossimo, tempestando di domande medici e infermieri, lui che non era credente. Restò fino alle rassicurazioni dell'équipe dei chirurghi. Soltanto dopo cinque ore tornò al Quirinale".
Wojtyla ricambiò questo gesto?
"Ci provò. Quando seppe che l'ex presidente stava morendo, nel 1990, il Papa andò discretamente nell'ospedale dove era ricoverato. Chiese di vederlo, di parlargli per un'ultima volta perché lui sapeva che Pertini lo avrebbe voluto salutare".
Forse sperava in una conversione sul letto di morte.
"Questo non lo so. Non conosco i pensieri del Papa né quelli di Pertini. Forse voleva soltanto confortare un moribondo, da uomo a uomo. Se avesse voluto anche il conforto religioso, il Papa sarebbe stato lì, il prete accanto al moribondo".
Riuscì a vederlo, prima che morisse?
"No. Non lo lasciarono entrare nella stanza dell'amico. Quando il Papa si sentì negare il permesso, chiese soltanto che gli portassero una sedia. Se la fece sistemare nel corridoio sul quale dava la stanza del Presidente e rimase a pregare in silenzio e in solitudine, per il vecchio amico che se ne stava andando. Dopo parecchio tempo si alzò e disse che tutto era già fatto. E, altrettanto discretamente, tornò in Vaticano. Non volle dare nessuna pubblicità alla cosa".
C'era, anche in tanti che avrebbero voluto ascoltare la sua voce, la delusione per il suo conservatorismo dottrinale e inflessibile in materia di amore, di sesso, di omosessualità, di sacerdozio femminile, di celibato sacerdotale. Sembrava stridere così violentemente con la sua persona pubblica, con la fisicità di cui abbiamo parlato. Eppure era entrato in seminario a diciannove anni, dunque aveva visto e conosciuto la vita.
"Concordo con il giudizio di tanti studiosi - dentro e fuori la geografia cattolica - che il più originale contributo del pensiero di Wojtyla è la sua concezione della persona umana. Ne parlammo molto. Prima ancora di parlare di peccato, di legge divina, di morale, Wojtyla vedeva la natura umana, della quale tutti siamo portatori. Oggi, "natura umana" è un'espressione politicamente scorretta, si tende di più a parlare di "genere", di "costruzione sociale" come antagonista alla natura. Ma anche se la cultura prende origine nell'azione, questo non vuole dire che non sia naturale. E la natura umana ha una sua eloquenza evidente".
Negarlo sembra la negazione della libertà morale, dunque della salvazione?
"Giovanni Paolo II pensava che all'essere umano - e soltanto all'essere umano - appartiene anche il dover essere. Questo fa dell'uomo una "persona". Anche gli animali sono, ma non devono essere niente altro di ciò che sono; la loro perfezione è biologica. Nell'uomo la perfezione non è di natura biologica ma morale. Naturalmente si può rifiutare la questione del "dover essere" ma in questo caso l'uomo sta rifiutando se stesso, sta rifiutando di essere ciò che è".
Era quella intransigenza che i critici avvertivano dietro la sua personalità, la sua figura così affascinante?
"Non c'era nessuna contraddizione, se ci pensiamo. L'intransigenza morale, sui principi che hanno a che vedere con la verità, che non era intellettualmente negoziabile, si accompagnava sempre alla sua infinita, illimitata pietas, alla comprensione, alla tolleranza per la persona. La discussione è sulle idee e, alla fine, sulla verità; la persona merita di più che la discussione. E questo lo portava esattamente a quello di cui l'essere umano aveva per lui un bisogno assoluto: la misericordia, soprattutto quella divina".
Ma prima la devi accettare, questa misericordia?
"Certo e la puoi rifiutare, ma allora si entra nel vuoto della solitudine assoluta, nel buio più completo. Quando lo sentivo parlare, si vedeva insieme la profondità della sua fede e la ricchezza del suo pensiero. O se si vuole, della enorme ragionevolezza della religione e della fede".
Un uomo allegro che predicava non il diritto a non soffrire, come scrive oggi la scienza, ma quasi il dovere di soffrire?
"Direi piuttosto, l'inevitabilità della sofferenza. Con un realismo ottimista ma non ingenuo, pensava che imparare a vivere è anche imparare a soffrire. La sofferenza è l'ambito dell'umano, è la condizione del nostro essere, è ciò di cui abbiamo paura. Non soltanto la sofferenza fisica, ma quella spicciola, quotidiana, il figlio che ti fa penare, il sogno che non si avvera, l'amico che ti tradisce, il mondo che sembra impazzire, tutto quello che ci fa soffrire ma che non ci farà mai andare da un medico perché nessun medico può curare o lenire queste cose".
Eppure l'insegnamento della Chiesa sembra essere così spaventato da questo nostro corpo, dalle sue pulsioni, dai suoi desideri.
"Non per Wojtyla. E io penso nemmeno per la Chiesa. Non aveva nessuna paura del corpo. Accarezzava e benediva la pancia delle donne incinte, faceva sport - quando poteva, e cioè non con la frequenza necessaria - lottava tenacemente per tenere in funzione il proprio corpo anche quando era logoro e già non rispondeva agli impulsi. Amava il corpo perché con il corpo l'essere umano si inserisce nella storia: nella storia umana e in quella della salvezza. Ma a questo amore per il corpo si aggiungeva il rispetto che un corpo - il proprio e quello degli altri - merita proprio perché non è un ammasso di cellule ma la condizione storica della persona. Di tutto questo rimane un suo magnifico libro - Uomo e donna lo creò - che è già un classico non soltanto della letteratura cristiana ma anche del pensiero umano".
Anche a rischio di apparire crudeli, ingenerosi, verso chi risponde ad altri richiami, a chi vorrebbe scegliere la propria fine?
"Anche a rischio di questo perché la più terribile delle crudeltà sarebbe ingannare trattando gli altri come cose anziché come persone".
Un rischio che il successore, Papa Ratzinger, corre anche di più, non mostrando quella fisicità, quella corporeità che Wojtyla esprimeva.
"Ma questo è soltanto l'aspetto esteriore. Si dovrebbe riflettere su quanto profonda fosse la sintonia fra questi due uomini pur tanto diversi fra loro. Era stato lui a chiedere a Ratzinger, nel 1981, di venire a Roma, e poi a trattenerlo anche dopo l'età del pensionamento quasi, direi, contro la sua volontà".
Aveva bisogno di lui?
"Probabilmente, sì".
Si può parlare di un capolavoro del pontificato di Wojtyla?
"Per me, il suo capolavoro è stato quello che verrà confermato nella sua beatificazione. Il capolavoro che, con l'aiuto di Dio, lui ha compiuto in se stesso: aver detto di sì fino all'ultimo momento a tutto quello che Dio gli chiedeva. La sua totale disponibilità ad essere quello che Dio gli domandava che fosse, sia quando era un giovane uomo vigoroso sia quando non ce la faceva più. Quando voleva parlare alla finestra e non ci riusciva e si agitava prima di calmarsi. Totus tuus, non ce la faccio più, e subito dopo Totus tuus. Questo era il presagio di santità che vedevo in lui, come mi avevate chiesto all'inizio, fino al momento in cui si arrese all'ultima volontà divina, che era quella di tornare alla casa del Padre. Non scelse di morire. Scelse - ancora una volta nella sua vita - di accettare quello che un Altro aveva scelto per lui".
Erano le 21,37 del 2 aprile 2005, quando il tracciato cardiografico si appiattì e il dottor Buzzonetti, medico pontificio, certificò la fine. Alla finestra della sua stanza nel Palazzo apostolico, fu accesa la piccola candela della tradizione polacca per i morti. Suor Tobiana gli posò la mano sulla testa. Attorno al letto di morte del Papa, "senza che ci fosse stato prima un accordo" dice ora Joaquin Navarro-Valls, suore, infermieri, preti cominciarono a intonare il Te Deum laudamus, non una nenia funebre, ma l'inno cristiano più solenne e trionfale del ringraziamento. Ringraziamento non per una morte, ma per tutta la vita straordinaria nell'ordinario quotidiano che l'aveva preceduta.
La piazza, là sotto, era piena, ma silenziosa. Le voci del "Santo subito" avrebbero presto riempito quel silenzio.

(24 aprile 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 04, 2011, 05:09:39 pm »

4
mag
2011

Il processo impossibile

Vittorio ZUCCONI

Leggo che anche Massimo D’Alema, già premier italiano quando bombardammo la Jugoslavia ammazzando senza processi e sentenze, avrebbe preferito un Osama catturato e processato. Tesi che molti, e alcuni anche in buona fede, sostengono, trasversalmente ai partiti e alle opinioni. Proviamo a guardarla un po’ più a fondo con alcune domande:

1) Processo dove? Quale tribunale in quale nazione avrebbe avuto giurisdizione su di lui, visto che i crimini dei quali è imputata al Quaeda hanno colpito dozzine di Paesi in ogni continente? Forse che i morti a New York avrebbero dovuto avere precedenza sui morti in Kenya, in Marocco, in Tanzania, in Inghilterra, a Madrid ecc ecc? Non avremmo subito gridato ai “morti americani” che contano più degli altri? O avremmo portato in giro per il mondo, come un orrendo “Osama’s Traveling Circus” Osama e i suoi avvocati?

2) Quale governo, o governatore di stato nel caso degli Usa (l’11 settembre colpìNew York, la Virgina e la Pennsylvania) avrebbe accettato l’incubo di un processo e di una detenzione che avrebbe molto probabilmente prodotto azioni terroristiche per chiedere la liberazione del “profeta”? Come avremmo reagito se qualche gruppo jihadista avesse catturato un autobus pieno di scolaretti minacciando di sgozzarli tutti uno per volta con web cam per Internet se Osama non fosse stato liberato? Ci siamo già dimenticati gli anni delle BR, dei ricatti con lettere e comunicati ai giornali, che pure al confronto di al Quaeda erano boy scout?

3) Con quale procedura? Militare (corti marziali) o civile? Se militare, avremmo parlato di processo sommario, di “kangaroo court”, di giustizia da Far West, trovate un ramo alto e una corda. Se civile, l’imputato avrebbe avuto diritto, come qualsiasi uxoricida, rapinatore, serial killer, alle piene e totali garanzie offerte alla difesa. Non ci sarebbe stata scarsità di avvocati disposti a rappresentarlo affermando – come è giusto – che ogni imputato deve essere difeso nella pienezza del codice. Altrimenti perchè fargli un processo, se è soltanto una farsa come quella contro Saddam Hussein in Iraq?

4) Per quali reati specifici? Come sappiamo da Norimberga in poi, dimostrare “oltre ogni ragionevole dubbio” il reato di crimini contro l’umanità è difficilissimo e gli esiti sono spesso contraddittori. il Feldmaresciallo Keitel, un militare che sosteneva di avere fatto soltanto il proprio dovere agli ordini del capo dello stato, fu impiccato. Albert Speer, architetto e civile, senza il quale la macchina bellica del Reich si sarebbe inceppata e i Keitel non avrebbe avuto gli strumenti per compiere i loro crimini, se la cavò.

5) Avremmo dovuto usare testimonianze estorte con la tortura? No, perchè ogni tribunale civile vero le avrebbe considerate inammissibili. Pentiti? Ma non ci stanno disperatamente spiegando che i pentiti sono inattendibili? Saremmo ricaduti nella comoda trappola del “mandante morale” che tanti guasti ha fatto anche in Italia?

6) Con quale durata? Nessuno, nelle civiltà giuridiche serie, può fissare limiti temporali per un processo, che si svolge secondo i propri ritmi non in base a scadenze arbitrarie fissate con maggioranza parlamentari, come si vuol fare in Italia. Sarebbero stati necessari anni, sicuramente. Istruire e condurre un processo a un personaggio accusato di avere creato e diretto una struttura che ha patrocinato, ideato, organizzato, finanziato atti criminali per decenni in tutto il mondo non è il processo Bunga Bunga e neppure il caso Framzoni. Con quanti testimoni, per l’accusa e la difesa? Migliaia? Diecine di migliaia? A quali costi?

6) Come avrebbe usato quel pulpito l’accusato? Avrebbe sputtanato l’America, dicono i complottisti, ricordando a tutti di essere stato anche una creatura dei servizi Usa in funzione anti Urss negli anni 70 e 80 e i rapporti che la sua famiglia (non lui, come si blatera in rete) ebbe con i Bush e con altri pezzi da 90 euroamericani. Certamente lo avrebbe fatto, arricchendo la narrazione di prediche, profezie, balle, citazioni sacre, sceneggiate diretti a quel mondo mussulmano che lo stava già abbandonando da tempo, per rinfocolare il proselitismo. Ah ha, molti diranno, ecco la coda di paglia dell’Occidente. Piccolo pro memoria: in guerra, fredda o calda che sia, si formano sempre strane e sordide alleanze per sconfiggere il nemico comune (i nemici dei miei nemici sono i miei amici). Abbiamo già dimenticato che per abbattare Hitler e Mussolini, le democrazie occidentali si allearono con, e rifornirono di armi e soldi, uno dei peggiori criminali di massa della storia, tale Stalin, senza il quale sconfiggere i nazifascisti sarebbe stato molto più duro, se non impossibile?

7) Con quale pena? La forca? La siringa? La fucilazione? Certamente, ma soltanto se fosse stata dimostrata la sua colpevolezza perchè la colpa, nella nostra civiltà giuridica che non è quella tagliata con l’accetta del fallacismo islamofobo, il “siete tutti assassini”, è sempre individuale. Vi immaginate che cosa sarebbe accaduto se fra cinque, dieci, quindici anni, esauriti tutti gli appelli e i ricorsi ai quali avrebbe avuto pieno diritto, Osama bin Laden fosse stato condotto in un penitenziario (di nuovo: dove?) per l’esecuzione? Riuscite a concepire il circo tele-inter-giornalistico che – lo so per esperienza di casi ben più piccoli – sarebbe scoppiato nel mondo intero?

Fico Vi pare che la dirigenza politica degli Usa, da Obama in giù, non abbia considerato e valutato la possibilità di catturarlo vivo, riflettuto se sarebbe stato meglio, anche propagandisticamente (quella del terrorismo è una guerra ideologica, prima che armata) esibirlo in catene come il King Kong del Barnum?

La mia personale conclusione è, avendo assistito ad abbastanza “processi del secolo”, purtroppo, dico purtroppo perchè aborro la legge del taglione, che non esistevano alternative reali all’esecuzione sommaria sul posto. Una volta individuato il covo di Osama e avuta la certezza che lui era nascosto lì, il solo finale possibile era il colpo in testa.

da - zucconi.blogautore.repubblica.it/
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« Risposta #50 inserito:: Agosto 23, 2011, 10:28:59 am »

E per bandiera uno smartphone

di VITTORIO ZUCCONI

CI GUARDANO e ci sorridono da un tempo che conoscemmo e che abbiamo dimenticato, il giorno della liberazione.
Ce l'hanno fatta. La ragazza con lo hijab nero attorno al capo e gli occhiali "aviator", il bambino con il cappello a cono del piccolo Harry Potter del deserto, il vecchio beduino con la barba grigia e l'occhio incendiato dall'emozione, sono riusciti a vivere quel miracolo che chiamammo "Liberazione". Quel miracolo che la storia regala con estrema avarizia a chi se la sa conquistare.

Forse saranno liberi soltanto per un giorno, e quella felicità che la luce dipinge sui volti dei libici oggi potrà essere cancellata da nuove ombre di buio, perché la storia che ricomincia non è mai una garanzia di nulla e la guerra, neppure se vittoriosa, non è necessariamente una levatrice prodiga. Ma è impossibile non commuoversi e non invidiare una scintilla della loro ebbrezza. Perché in queste ore, dopo quarant'anni, la generazione dei giovani come dei vecchi che si erano forse rassegnati, hanno ritrovato un bene chiamato "speranza". Quella materia prima che per decenni è mancata a centinaia di milioni di prigionieri di regimi e governi torvi, soprattutto, ma non soltanto arabi, dal Nord Africa fino all'Asia Centrale. E che tanti europei e americani li credevano geneticamente, culturalmente incapaci di distillare. Molti di loro esibiscono l'arma letale che sta facendo tremare i tiranni e i tragici pagliacci in tutto il mondo e non sono l'immancabile
AK 47 né la bandoliera di proiettili alla "Viva Zapata" sulle spalle che un ribelle esibisce.
Guardatela: è il telefonino "smart" che la giovane donna con i Ray-Ban a specchio innalza sopra la testa per riprendere il video di se stessa in festa e che il partigiano con il mitra porta appeso al collo come un amuleto. È quell'apparecchio che attraverso i "tweets" e la posta elettronica, facebook e i social network ha trasformato un'altra sommossa tribale e locale, facilmente sopprimibile e ancora più facilmente occultabile dalla televisione, in uno scandalo mondiale, dunque in una mobilitazione internazionale. Neppure il petrolio, senza la miccia dei telefonini, avrebbe fatto esplodere Gheddafi.

La guerra civile libica si è combattuta fra le due immagini opposte e più simboliche di questo evento, la ragazza con lo "smartphone" e la "anchorwoman", la lettrice del tg con la pistola impugnata per la canna che vediamo sbraitare di resistenza fino alla morte quando già bussavano alla porta per arrestarla senza colpo ferire. Ci dicono, queste due immagini, che neppure la televisione dei servi, l'ultimo rifugio dei farabutti, la stampella magica dei bugiardi, è più sufficiente a garantire che un governo possa ingannare tutti, tutti i giorni. Lo "smartphone" fa tremare i regimi sulla piazza Tahiri del Cairo, in Siria, in Iran e come ben sa il Partito Comunista Cinese impegnato ogni giorno in un duello al "gatto col topo" fra la propaganda di stato e la comunicazione elettronica individuale.

Non sono neppure soltanto di giovani, o addirittura di bambini eccitati senza capire, i volti e le figure che queste cartoline dalla speranza ci inviano. Vediamo anche uomini, in grande maggioranza uomini, avanti negli anni, gente di mezza età abbondante, che erano giovani in quell'estate del 1969 quando Muammar Abi Minyar Abd Al Salom Al Gheddafi condusse la sua rivoluzione repubblicana. Probabilmente loro stessi, il vecchio Senussi dal volto magro e l'imam che predica urlando nelle foto, si agitavano nelle stesse vie di Tripoli scandendo il suo nome e agitando poi il "libretto verde" di un'altra speranza tradita, quella del nazionalismo pan arabo dei Nasser in Egitto, dei Saddam Hussein in Iraq, dei Boumedienne in Algeria e degli Assad in Siria.
Oggi vediamo lo stesso vecchio innalzare un ritratto dell'uomo al quale aveva inneggiato e che appare ridicolmente grottesco nel costume di scena da dittatore e condottiero, buttarlo nel falò di un altro predatore travestito da benefattore e gridare insulti contro di lui, mentre i suoi nipoti esibiscono cartoon con l'impiccagione del raìs, ridendo come se fossero a una festa per un mondiale di calcio. Ma non potrà stupire né scandalizzarci questo "tradimento", il solito scoprirsi tutti "anti" nel giorno della Liberazione, di fronte alle acrobazie dei governanti europei che avevano addirittura baciato quella stessa mano che poi avrebbero contribuito a tagliare.

Le cartoline della speranza naturalmente non ci dicono nulla del futuro, di che cosa aspetti questa gente che ha rifatto il percorso che noi europei prigionieri di regimi osceni appena ieri abbiamo fatto, abbattendoli anche grazie alle bombe e agli aerei dei liberators. Non lo possiamo dire perché all'album di questa felicità cruenta e insieme giocosa - la stessa che alcuni di noi ebbero la fortuna di vedere a Kuwait City nel 1991 e, del tutto effimera, a Bagdad nel 2003, perché nessun irakeno aveva preso le armi per deporre Saddam e nessuno sentì come propria la liberazione - manca ancora la foto più importante. Quella di Gheddafi.

Lo vediamo giustiziato in effigie, con il viso torturato e contorto nella smorfia involontaria di un poster che si accartoccia, ma l'uomo resta, in queste ore, uno spettro. Da quella foto, dalla sequenza della sua fine e del trattamento che gli verrà riservato dalla nazione che ha tiranneggiato per una generazione che ancora nessun obbiettivo, neppure di un cellulare, ha ripreso, capiremo molto. Nella speranza, questa volta nostra, di non rivedere l'orrore del Saddam impiccato in video o di un cadavere gonfio appeso a un lampione.

(23 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 16, 2011, 10:35:50 am »

15
ott
2011

Roma brucia: missione compiuta

Vittorio ZUCCONI

Se fossi nei trombettieri del governo, andrei molto cauto nell’approfittare di questa catastrofe, come ha fatto puntualmente il solito TGUno, seguito poi dallo stesso Berlusconi con un comunicato ridicolo e offensivo, nel quale esalta proprio quelle forze dell’ordine alle quali il decreto stabilità appena varato dal Consiglio dei Ministri ha tagliato 60 milioni di Euro.

Un governo che non sa garantire l’ordine e la sicurezza di una manifestazione autorizzata e pacifica nella propria capitale, che non sa prevedere e prevenire quello che tutti noi avevamo temuto, che permette a centinaia di professionisti dello sfascio di arrivare tranquillamente lungo il percorso annunciato della sfilata addirittura con “uniformi nere e maschere antigas” come dice una trafelata inviata del TGUno che si crede di essere a Kabul, dovrebbe dimettersi, invece di tentare di strumentalizzare le operazioni di questi spaccavetrine. Soprattutto se nello stesso giorno in nessun’altra capitale del mondo – nessuna – dove si sono svolte manifestazioni simili è accaduto nulla di lontanamente simile.

Come ha detto il corrispondente da Londra dello stesso TGUno, Antonio Capranica, correttamente informando e involontariamente mettendo in stato d’accusa la città e il governo italiani, “Londra non si è fatta trovare impreparata”. Roma invece sì. Completamente impreparata, nella più benevola delle ipotesi. E Roma chi è, se non chi amministra la città e governa la nazione?

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« Risposta #52 inserito:: Novembre 20, 2011, 05:15:17 pm »

19
nov
2011

Vittorio ZUCCONI

Pensare in Italia

Tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in queste “idi di Novembre” è bello e istruttivo, come avrebbe scritto il grande Giovannino Guareschi, ma la questione centrale per il nostro Paese non è sapere quanto pagheremo di Ici o quanti anni di contributi saranno necessari per andare in pensione a 110 anni. Sono problemi seri, umanamente gravi, ma individuali. La questione è sapere se le aziende italiane, dalle micro alle (poche) macro ritroveranno la creatività, la forza, le idee, le palle e i crediti (non c’è economia senza finanza, anche Jobs ebbe bisogno di essere finanziato per creare la Apple) per riprendere a vincere sui mercati, a competere, a crescere e quindi a creare quel lavoro che lo Stato, non essendo un produttore di ricchezza ma soltanto un consumatore e un redistributore di soldi non suoi, quando va bene, non può creare. Oggi le grandi fortune industriali e i grandi utili per generare nuovo lavoro si fanno con le idee (yes, marketing compreso, non è il demonio) con i frutti della ricerca, con il genio, con quelle cose che un tempo in Italia abbondavano, dai grandi carrozzieri agli stilisti di moda, dalle magliaie di Carpi ai salumieri lattai di Parma, dalla figurine Panini ai freni della Brembo. Guardate che cosa c’è scritto sul vostro iPhone o iPad: “disegnato in California, assemblato in Cina”. E’ meglio essere impiegati alla Apple o alla Google o alla Microsoft o lavorare alla Foxconn come schiavi per fabbricare quello che il “pensiero” altrui farà funzionare, ricordando che un PC, un telefonino, un server sono oggetti inutile se non hanno dentro un’intelligenza che li fa vivere? Questa è la nuova divisione globale del lavoro, tra chi “concepisce” e chi “assembla” le idee degli altri e questo è il limite fondamentale del boom cinese, che ancora non mi risulta abbia creato nulla che sia davvero “cinese”, a parte i salari da fame, le botte e la censura. Se l’Italia non si rimette a “inventare”, non ci saranno governi, coalizioni, elezioni, papocchi, manovre, uomini del destino, che potranno salvarci. Sforziamoci di cercare meno “posti” (che tanto non ci sono) e di farci venire più idee. Sono vent’anni che abbiamo smesso di pensare, paralizzati dalle paure della globalizzazione, della delocalizzazione, dell’immigrazione, dalla difesa di diritti sulla carta svuotati dalla realtà quotidiana, dell’Eurabia (dove è finita la “minaccia islamica”?) del mondo e di noi stessi. Non dobbiamo avere paura di rischiare e di investire nella nostra intelligenza. Non saremo mica tutti diventati Scilipoti, Renzo Bossi o Gasparri, cazzarola.

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« Risposta #53 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:55:54 pm »

 
LA STORIA

L'ultima lettera dal Vietnam "Mamma, che sporca guerra"

Consegnata agli Usa la missiva di un soldato morto 43 anni fa e mai spedita.

Il militare accusava i suoi: così quelle parole divennero propaganda usata dall'esercito di Hanoi 

di VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON - E finalmente Rambo divenne soltanto un inerme postino, perché c'è ancora posta per noi, dall'abisso del Vietnam. Ha impiegato 43 anni, la lettera alla madre del soldato Flaherty, spedita dal fronte dove lui fu ucciso nel 1969, per arrivare a destinazione ieri, nelle mani del ministro della Difesa Leon Panetta.

Panetta l'ha ricevuta a Hanoi per conto di quella donna che non c'è più. Ma dopo quasi mezzo secolo, l'ultima cartolina dal massacro è indirizzata alla famiglia America, all'umanità, non più alla sola famiglia del sergente Steve Flaherty: "Questa è un sporca guerra crudele - scriveva - ma spero che voi a casa riusciate a capire perché la combattiamo".

Furono quelle due parole, dirty war, sporca guerra, a impigliare la lettera del soldato nella rete della propaganda e a impedirne il recapito. Quando Steve Flaherty e il suo plotone finirono nella trappola di un'imboscata dell'esercito regolare Nord Vietnamita nell'"Hamburger Hill", la collina della carne trita, i soldati di Hanoi frugarono nelle sue tasche e trovarono la lettera alla madre che aveva scritto la sera prima di essere lanciato dagli elicotteri. I commissari politici capirono che quelle sue parole avrebbero potuto avere un valore psicologico prezioso e la lettera del soldato venne ripetutamente letta e usata.

Una sporca tattica per combattere una guerra sporca. "Non riuscivamo neppure a recuperare i corpi dei compagni caduti e i nostri zaini, perché
quando ci siamo ritirati, sono arrivati gli aerei e con le bombe e il napalm hanno incenerito tutto. Se ti chiama papà, digli che sono stato vicinissimo alla morte, ma sono scampato anche questa volta". Sarebbe stata l'ultima volta per il sergente Flaherty, da Columbia, South Carolina.

Di questa sua lettera mai arrivata, eppure letta più volte da Radio Hanoi e pubblicata sulla stampa simpatizzante nel mondo, non si era più saputo nulla fino allo scorso anno. Fu allora che un colonnello in pensione dell'esercito vietnamita ne fece menzione su un sito Internet dicendo di averla nelle proprie mani. Potenza della Rete, qualcuno al Pentagono notò questa menzione e cominciò un lavorio sotterraneo di contatti e di segnali per riaverla.

L'occasione sarebbe stata la visita ufficiale di Leon Panetta, il segretario alla Difesa nei primi giorni di questo giugno. L'esca sarebbe stato un quadernino con la copertina bordeaux che un soldato americano aveva trovato sul corpo di un nord-vietamita ucciso, un diario privato con la foto di una donna e qualche banconota del Nord comunista, conservato da un reduce intatto per 40 anni.

Lo scambio, fra Panetta e il collega vietnamita Phung Quang Tanh è avvenuto, infinitamente meno torvo del mercato degli emaciati prigionieri di guerra americani restituiti dai campi di prigionia, sicuramente meno macabro delle scatole di ossa che ancora oggi Hanoi periodicamente consegna all'ambasciata americana per rovistare e stabilire se fra esse ci siano i resti di quei 1.277 "Mia", dispersi ancora missing in action. Con il rischio di trovare, come accadde, anche ossa di cani e animali nelle scatole. Bastano le parole.

"Il nostro plotone era di 35 uomini e quando lo scontro è finito eravamo rimasti in 19. I soldati del Nva (l'esercito regolare del Nord) combattevano fino alla morte e quando ne era rimasto vivo uno solo non siamo riusciti a prenderlo prigioniero, perché si era imbottito di esplosivo e come ci siamo avvicinati a lui, si è fatto esplodere".

Dalla fine formale della guerra, con la resa di fatto firmata da Kissinger a Parigi nel 1973, il destino delle migliaia di dispersi è stato un dramma umano, e ideologico, costante nella storia americana del dopo Vietnam.
Le organizzazioni spontanee dei reduci, raccolte sotto le bandiere nere del movimento per i "Pow-Mia", prigionieri di guerra e dispersi, hanno marcato duro il Parlamento, nel sospetto, per loro la certezza, che ci fossero ancora piccole succursali segrete dell'infame "Hanoi Hilton", il campo di concentramento principale nella capitale, commilitoni usati come merce di scambio. Avventurieri e sciacalli avevano organizzato, o finto di organizzare, incursioni in Laos e in Vietnam ma i soli risultati veri furono la germinazione di falsi eroi in Technicolor, i Sylvester Stallone, i Chuck Norris, con lieto fine hollywoodiano.

Quarant'anni dopo la fine ufficiale della guerra, e ormai venti anni dopo la definitiva normalizzazione voluta da Bill Clinton nel 1993, la fiamma di sdegno dei reduci è ormai brace stanca, come i vecchi che la attizzano, essendo chiaro che Hanoi non ha più alcun interesse a nascondere prigionieri o resti umani. Lo scambio fra la lettera del soldato Flaherty e il calepino del milite ignoto vietnamita è tra le ultime, tenere manifestazioni di una guerra non più infinita. Tutto è cambiato. Portaci la posta, Rambo.
 

(06 giugno 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2012/06/06/news/ultima_lettera_vietnam-36626977/?ref=HRER2-1
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« Risposta #54 inserito:: Ottobre 04, 2012, 03:50:36 pm »

ELEZIONI USA

Il gol che cambia la partita Romney vince il primo dibattito

Un fiacco Obama surclassato nel primo faccia a faccia televisivo contro lo sfidante repubblicano.

Il presidente è rimasto passivo, a incassare i colpi portati dall'ex governatore del Massachusetts senza riuscire a incalzarlo.

Apparendo un "non leader"

di VITTORIO ZUCCONI


SE IL Presidente Barack Obama perderà la Casa Bianca il 6 novembre prossimo dovrà guardare al primo scontro con il repubblicano Mitt Romney come all'evento che ne ha segnato la sconfitta. Si sapeva, per averlo visto già nei duelli di quattro anni or sono prima contro Hillary Clinton nelle Primarie e poi contro John McCain per la presidenza, che Obama non è al meglio nei dibattiti, ma la sconfitta di stanotte di fronte a un Romney che sembrava in agonia ed ha fatto quello che la squadra in rimonta deve fare - attaccare, attaccare, attaccare - ha sorpreso anche i pessimisti. E ha fatto infuriare i sostenitori. La serata di Denver potrebbe essere stato il "game changer", il gol che cambia la partita nel quale i repubblicani e la Destra americana speravano.

Non si sarebbe potuto immaginare un peggiore regalo per il suo ventesimo anniversario di matrimonio caduto proprio in coincidenza con l'incontro. Obama ha incassato senza restituire i colpi, anche quando l'avversario palesemente si scopriva negando di avere detto quello che aveva detto in passato e rinnegando quelle posizioni sulle tasse, sulla sicurezza sociale, sulla sanità pubblica per gli anziani e i bambini, che erano stati i capisaldi della propria campagna.

Nel timore di apparire troppo aggressivo e poco presidenziale, Obama ha mostrato una passività che anche il "body language", le espressioni e i movimenti inconsci del corpo, confermavano. Non ha commessa gaffe, non ha detto enormità che resteranno nella storia americana. Ha subito
l'aggressività dell'altro senza reagire. Teneva gli occhi bassi. Lanciava sorrisi troppo larghi per essere sinceri. Si imbarcava in lunghe, complicate spiegazioni e giustificazioni del proprio operato alla Casa Bianca che lo hanno fatto apparire per quello che un Presidente non dovrebbe mai apparire: un "non leader".

I primi sondaggi, registrati a caldo dalle reti televisive indicano unanimemente in Romney il vincitore. Diranno i prossimi giorni, i quattro o cinque che servono perché gli effetti profondi, e non quelli epidermici, dei dibattiti si sedimentino nell'opinione pubblica e si traducano in spostamenti importanti nei sondaggi. E non si deve mai dimenticare che non sono i professionisti della politica, dell'informazione, dello "spin", della piega da dare agli eventi, quelli che decidono l'esito dei duelli né delle elezioni.

Ma nessuno si aspettava un Obama tanto fiacco e passivo, né un Romney così teatralmente, ma efficacemente vivo. La sedia vuota della candidatura repubblicana ha finalmente un uomo seduto sopra, mentre la poltrona dello Studio Ovale è sembrata deserta.

Non sono le cifre, le promesse, le acrobazie di cifre e di formule quelle che restano nella memoria degli spettatori nella case d'America. E' il senso di leadership che i concorrenti sanno trasmettere e in questo Obama ha fallito. L'America non elegge un amministratore di condominio, un economista, un ideologo, ogni quattro anni. Elegge colui che le appare come un leader, come qualcuno che la rappresenti, o che meglio finga di rappresentarla.

La sola buona notizia per il Presidente è che ci sono ancora due dibattiti, il prossimo fra una settimana, l'11 ottobre. E non potrà fare peggio di quanto abbia fatto ieri notte in Colorado.

(04 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/2012/10/04/news/il_gol_che_pu_cambiare_la_partita_romney_vince_il_primo_dibattito-43819145/?ref=HREA-1
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« Risposta #55 inserito:: Agosto 31, 2013, 09:23:09 am »

   
La maledizione dell'America

Alle armi anche il presidente Nobel per la pace. Odiata e indispensabile, la condanna dell'America a finire in prima linea. Non potrà nulla l'Onu, un sacco vuoto usato spesso per nascondere cattive intenzioni. La prepotenza americana è l'indicatore inverso dell'impotenza altrui

di VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON - La condanna e il privilegio di chiamarsi America. La felice maledizione della propria "eccezionalità". Stanno conducendo di nuovo gli Stati Uniti verso un'azione militare che nessuno a Washington davvero vuole, ma che tutti sanno essere ormai inevitabile.

Il paradosso storico di una nazione costruita per restare alla larga dai grovigli politici del mondo, per evitare ogni legame con altre nazioni oltre gli oceani, come scrisse nel proprio testamento spirituale il padre della patria George Washington, si ripresenta con implacabile puntualità in Siria.

È uno spettacolo insieme spaventoso e affascinante, come assistere a un'eruzione vulcanica o alla discesa di una valanga, vedere muoversi oggi con Barack Obama gli stessi meccanismi che negli ultimi 150 anni, da quando gli Stati Uniti sigillarono nel sangue fraterno la loro unità, hanno portato presidenti dopo presidenti, repubblicani come democratici, isolazionisti o interventisti a essere risucchiati nel gorgo delle crisi internazionali. Anche in Siria, come nei canali di Fiandra, come tra le dune della Normandia, come nelle paludi Indocinesi, come nei deserti d'Arabia, come in dozzine di altri angoli del mondo spesso sconosciuti anche ai soldati mandati a morire per loro, l'America non può più sfuggire al destino di essere America.

La spiegazione di comodo, quella che la faciloneria dell'ideologismo antiamericano sta risfoderando anche in questa giorni, è che l'interventismo Usa sia soltanto il braccio armato degli interessi commerciali, industriali e oggi finanziari degli americani, mentre una piccola, ma tenace setta di allucinati arriva ad accusarli addirittura di creare gli incidenti che giustificano l'azione armata, dalla distruzione delle Torri Gemelle fino alla fornitura di gas ai ribelli siriani per "autogasarsi" e così provocare la spedizione punitiva contro Assad. Ma se è vero che nella storia del mondo, come in quella americana, non mancano episodi di false provocazioni, come l'esplosione del Maine nel porto dell'Avana o l'incidente immaginario nel Golfo del Tonchino, spiegare con formule paleo marxiane o neo complottiste perché gli Usa si lascino risucchiare in azioni armate dalle quali non traggono né conquiste territoriali né bottini di guerra non spiega niente.

Non spiega soprattutto la specificità e la diversità della espressione di potenza militare come esercitata per gli ultimi 150 anni dagli Stati Uniti. Non ci sono precedenti, nella storia del mondo, di superpotenze che consumino tesori immensi e brucino migliaia di vite senza pretendere annessioni, tributi, cessioni totali di sovranità dai nemici vinti, come ha fatto l'America dopo il doppio intervento nella guerra dei Trent'Anni in Europa, fra il 1914 e il 1945. E neppure l'antimericano più allucinato può sostenere che dai 15 anni di emorragia in Vietnam, dai dodici in Afghanistan e dai dieci in Iraq, Washington abbia tratto vantaggi imperiali. Il Vietnam divenne interamente e trionfalmente comunista, l'Iraq è sempre più un satellite iraniano. E l'Afghanistan sta tornando a scivolare tre le mani del Taliban. Tutto questo mentre nel 2008, quando l'imperialismo yankee avrebbe dovuto conoscere la propria apoteosi, gli Stati Uniti hanno rischiato il collasso economico totale.

Eppure, di fronte a tragedie inqualificabili come quella in atto fra Assad e i suoi nemici, si alza immediatamente la richiesta di intervento americano, perché anche i meno teneri verso gli Usa sanno che se non si muovono i Marines, le superportaerei, i Seals, i missili Cruise, i droni del Pentagono, non si muoverà nessuno. Non potrà nulla l'Onu, che è un sacco vuoto di intenzioni politiche e di forza di persuasione che viene usato per nascondere la propria impotenza o le proprie cattive intenzioni, come quelle di Russia e Cina. Segretamente, inconfessabilmente, si punta sull'"eccezionalismo" americano, sulla disponibilità a intervenire con la violenza per impedire violenza, riservandosi naturalmente il diritto di accusare gli Usa di ogni nefandezza, a posteriori.

La prepotenza americana è l'indicatore inverso della impotenza altrui. Di fronte al vuoto di volontà, di determinazione, di semplice capacità d'azione, Washington si lascia risucchiare ancora e ancora, pur sapendo, come anche oggi i generali stanno dicendo a Obama, che una spedizione punitiva contro Assad è un salto nel buio dove i rischi superano di molto i possibili vantaggi. Ma l'America non può fare a meno di essere l'America, di sentirsi chiamata a rispondere e a indossare la responsabilità di essere insieme il protettore e la vittima, il poliziotto e il killer nella viltà del mondo. Anche Obama, il guerriero riluttante, il titolare di un Nobel per la Pace che fece sorridere anche lui nella evidente assurdità, sta camminando, come gli eroi di tragedie greche trascinati dal destino, verso quegli errori che riconobbe e rimproverò ai predecessori. Non subisce certamente la seduzione del teorico di quel "Nuovo Secolo Americano" che imbambolò Bush il Giovane, ma non ha scampo. Non c'è un'altra America, ma soltanto questa, la somma di tutti i successi e i disastri della storia contemporanea, sempre più sola, sempre meno amata, sempre più indispensabile.

(31 agosto 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/esteri/2013/08/31/news/la_maledizione_dell_america-65591869/?ref=HRER2-1
   
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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 22, 2014, 05:51:42 pm »

20
feb
2014

Non è Paese per ultras

Dal duello Kennedy-Nxon del 1960 alla sceneggiata Renzi-Grillo del 2014 (nella sala intitolata ad Aldo Moro, povero Moro) ci sono 54 anni e alcune migliaia di anni luce di cultura civica. Tutti i partecipanti a questi scontri, ormai divenuti show, si preparano battute precotte, “zinger”, stilettate verbali, controbattute e l’artificiosità dei duelli è ormai evidente. Ma una regola resta fissa da quel giorno del 1960 che cambiò per sempre il modo di fare campagna elettorale: la sbruffoneria e la buffoneria, il bullismo e l’aggressività, l’aria di sufficienza e si superiorità sono boomerang che tornano in faccia a chi li lancia, non importa quale sia la forza dei suoi argomenti.

L’aria infastidita e supponente di Al Gore di fronte a Giorgino Bush lo rese insopportabilmente antipatico e gli costò quelle migliaia di voti che persino nel suo stato, il Tennessee, lo fecero perdere e regalarono la Casa Bianca a Giorgino, ben prima che si scatenasse il sinistro ambaradan della Florida. L’aria paternalistica di Rick Lazio, repubblicano di New York che aggredì Hillary Clinton – una donna, per di più – nello scontro per il seggio senatoriale di New York 2000 distrusse le sue possibilità di vittoria.

La rabbia, la collera, il disprezzo per l’avversario sono ovviamente combustibile potente per lanciare un candidato o un partito verso i successi elettorali, perchè in ogni epoca o luogo ci saranno sempre abbastanza persone furiose con lo status quo sociale, “loro”, le caste vere o immaginarie, il vicino più fortunato con l’auto nuova e il praticello ben rasato, per costruirci sopra un castelletto di voti. Lo si è visto negli USA con il travolgente successo del “Tea Party”, estremisti e radicali decisi a tutto per rovesciare la “dittatura fiscale e statalista” e le vecchie cricche parlamentari, ma al momento di passare dalla furia alla proposta, dall’opposizione al governo, anche il “Tea Party” si è sgonfiato e si è marginalizzato. La rabbia non serve per governare.

Al momento dell’incontro per definire chi, fra i candidati, dovrà governare, il quadro di riferimento cambia drasticamente. Il pubblico “at large”, quello che osserva essendo fuori dai recinti di parte e chiede miglioramenti incrementali non rivoluzionari, vuole istintivamente, prima che razionalmente, vedere in quella donna o quell’uomo il capo famiglia, il leader che potrà guidare tutti verso un futuro più dignitoso, con saggezza. E se il capo degli ultras di curva piace moltissimo quando si tratta di inveire contro l’arbitro, i giocatori lazzaroni, la società, quei porci degli ultrà della curva opposta, la maggioranza degli spettatori non si sognerebbe mai di far di lui l’allenatore della squadra. Pur avendone devastato il nome, la sostanza di quello che la orrida destra italiana ripete rimane vero: l’Italia, come tutte le maggior nazioni sviluppate anche se zoppe, rimane un Paese di “moderati” che diffidano dei capipopolo da piazza e dei giacobini da reality show. Non un popolo controrivoluzionario nè rivoluzionario. Semplicemente un popolo a-rivoluzionario, capace di brevi collere e di lunghissima sopportazione.

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« Risposta #57 inserito:: Marzo 22, 2017, 12:50:23 pm »

Usa, incontro Trump-Merkel: lo spettacolo del Cafone in Chief Usa, incontro Trump-Merkel: lo spettacolo del Cafone in Chief
Il rifiuto villano di stringere la mano al capo del governo tedesco, è gesto lanciato come un osso ai più rabbiosi dei suoi fan, ostentato in una Casa Bianca dove i suoi predecessori hanno stretto le mani di nemici formidabili e reali, è pura teatralità da Reality TV che diventa sostanza politica

Di VITTORIO ZUCCONI
17 marzo 2017

CI SONO 60 mila militari americani, distribuiti in 37 basi e installazioni in quella Germania che oggi il Cafone in Chief, il presidente Trump, ha platealmente offeso rifiutando villanamente di stringere la mano al capo del governo tedesco, legittimamente e ripetutamente eletto, Cancelliera Angela Merkel. Ci sono 60 mila uomini e donne in uniforme delle Forze Armate Usa che ora sanno di essere in servizio, e di vivere in una nazione dove la persona che la governa non merita neppure la formale cortesia di una stretta di mano. Non più amici, alleati, ma occupanti di una repubblica governata da una Cancelliera ostile.

La spettacolare maleducazione di quel non gesto lanciato come un osso ai più rabbiosi dei suoi fan, ostentato in una Casa Bianca dove i suoi predecessori avevano stretto le mani di nemici formidabili e reali come i segretari del Pcus, dove persino Arafat e Rabin avevano trovato il coraggio per farlo, è pura teatralità da Reality TV che diventa sostanza politica. Il comportamento del discendente di un profugo tedesco cacciato dalla Baviera natale e ospitato in un'America ben diversa da quella fortezza nazionalista che lo sciagurato nipote sta costruendo, Friederich Drumpf, tradisce tutti i rischi storici di questa sceneggiatura trumpista.
 
Merkel a Trump: "Ci stringiamo la mano?", ma Donald la ignora
Come non sa, o finge di non sapere - ma il confine fra l'ignoranza, il bullismo, la furbizia bottegaia in lui è sempre molto labile - quelle basi militari, quelle migliaia di soldati stazionati in Germania, come in Italia, in Giappone, in Corea e in 80 nazioni del mondo non sono né missioni né povere vittime dello sfruttamento di alleati avari e profittatori che lesinano sulle spese per la difesa.

La loro presenza, giustificata tragicamente, e per nostre colpe, dalla Seconda Guerra Mondiale e poi dalla Guerra Fredda, è stata certamente la garanzia della inviolabilità dei confini europei coperti dall'ombrello della potenza Usa, ma insieme il segno, e gli avamposti dell'Impero americano. Sentinelle di quella Pax Americana che ha assicurato la più favolosa età dell'oro e dell'espansione per la nazione a stelle e strisce, almeno fino al suicidio della finanza impazzita.

Il Cafone in Chief, umiliando Merkel, dimentica una verità che i suoi predecessori conoscevano bene: che non è l'America a fare un favore a noi mantenendo basi, installazioni, radar, depositi di armi nucleari sui nostri territori, ma siamo noi, cittadini della Nato a fare un favore all'America in egual misura, assicurando con l'uso del nostro territorio che sull'Impero di Trump non tramonti mai il sole.

Con lo stolto nazionalismo e neoisolazionismo che ostenta, facendo credere che nei 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Usa siano stati truffati dagli avidi e astuti europei ed asiatici, Trump sta facendo esattamente il contrario di quello che ha promesso a quella minoranza di elettori che lo ha votato: sta rimettendo in discussione le fondamenta sulle quali la potenza, se non la grandezza, americana è stata costruita. Sega quel ramo della Nato sul quale l'America è seduta da due generazioni.

© Riproduzione riservata 17 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/03/17/news/usa_merkel_trump_commento-160808950/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P9-S1.6-T2
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« Risposta #58 inserito:: Aprile 09, 2017, 05:05:34 pm »

La roulette Trump
Fiero isolazionista, vendicatore delle vittime dei despoti o poliziotto nucleare?
Indifferente al dramma assicurazione sanitaria o favorevole all'assistenza?
Ogni mattina c'è da chiedersi quale numero uscirà nella lotteria delle personalità multiple del presidente Usa

Di VITTORIO ZUCCONI
09 aprile 2017

Scrivo queste righe nella sera della Costa Atlantica, mentre il presidente Trump dorme nel castello di sabbia in Florida, Mar-a-Lago. Per qualche ora, non molte perché Donald dorme il sonno dell'inquieto e non si sveglia mai oltre le cinque del mattino, possiamo stare tranquilli. Ma tra poco, la pallina ricomincerà a ruotare sulla roulette mentale di quest'uomo dalle personalità multiple e non sappiamo quale numero uscirà, quale Trump si sveglierà domenica.

Sarà il fiero isolazionista che non voleva fare "il presidente del mondo", ma occuparsi soltanto dell'America e che gli altri s'impicchino? Sarà il vendicatore delle vittime dei despoti, come i bambini siriani? Sarà il poliziotto nucleare che ha inviato una flotta a pattugliare le acque dell'Oceano al largo della Corea, minacciando un altro despota, il nordcoreano Kim Jong-un di lezioni militari preventive se insisterà con test missilistici e atomici? Sarà l'indifferente al dramma dell'assicurazione sanitaria nazionale, pronto a far collassare tutto l'impianto dell'Obamacare, come ha detto stizzito dopo il fallimento della sua controriforma o sarà quell'uomo che in anni passati si era detto favorevole al sistema sanitario canadese, di fatto un sistema di assistenza nazionale per tutti, alla maniera dell'Europa, finanziata dalle tasse?

A quale dei suoi consiglieri che si azzuffano fra di loro e cordialmente si detestano - il capo gabinetto Priebus, prodotto dell'establishment politico repubblicano, l'ideologo nazional svalvolato Bannon, il genero Kushner, il generale McMaster - presterà l'orecchio per un giorno, decidendo impulsivamente, istintivamente, senza pensare alle conseguenze e al dopo, come sta facendo dal primo giorno alla Casa Bianca, di guerra e pace?
Anche i suoi sostenitori, almeno coloro che non si bevono la spremuta di propaganda offerta ogni mattina dal suo ufficio stampa televisivo, la Fox News Network, cominciano a dare segni di nervosismo, manifestati nelle critiche esplose, proprio dalla destra, a quella cascata di missili Cruise su una base aerea siriana. C'è del metodo nella sua follia o Trump è un dissociato che cambia umore, opinione e strategia come il tempo a Londra, se non vi piace quello del mattino aspettate qualche ora perché prima di sera cambierà?

Quanto a lungo può vivere il mondo senza esplodere, vedendo una Casa Bianca trasformata in casinò, nel quale un presidente croupier lancia la pallina e noi giocatori impotenti aspettiamo con il fiato sospeso di vedere dove si fermerà, per oggi, per le prossime ore, fino a domani mattina, la "roulette Trump".
 
© Riproduzione riservata 09 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2017/04/09/news/la_roulette_trump-162539621/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T2
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 26, 2017, 05:11:27 pm »

L'ombra che segue Trump

Di VITTORIO ZUCCONI
26 maggio 2017

Per quanto veloce tu possa correre, per quanto lontano tu possa andare, non potrai mai sfuggire alla tua ombra. E le ombre che dal primo giorno del suo insediamento accompagnano Donald Trump lo hanno raggiunto anche nel suo pomposo svolazzare fra Medio Oriente, Bruxelles, Roma e Taormina. Lo ha raggiunto l’ombra del Russiagate, quella inchiesta ormai divenuta formale attraverso la nomina di un Procuratore Speciale, con la notizia uscita giovedì notte che il genero Jared Kushner, colui che accompagna ovunque il Presidente ed è la persona più influente alla Casa Bianca, è “persona d’interesse” nelle indagini, per incontri con emissari russi, sia di governo che privati (distinzione spesso priva di alcuna differenza nella Russia della cleptocrazia putiniana) nelle settimane di transizione fra Obama e suo suocero.

Kushner non è formalmente indagato né sospettato, ma finora nessuno dei “pezzi da novanta” della Casa Bianca era stato formalmente raggiunto dall’inchiesta. E il fatto che uno dei russi con i quali si è visto sia un banchiere di Mosca, dunque una persona che non avrebbe alcuno motivo diplomatico e ufficiale per arrivare tanto vicino al Presidente eletto, riporta un altro classico dei grandi “affaires” politico giudiziari americani: i soldi. Come già sussurrò “Gola Profonda” ai cronisti del Washington Post che nel 1973 cercavano di arrivare a Nixon, “follow the money’, seguite sempre la pista del danaro per arrivare alla verità.

Kushner, il marito della diletta Ivanka, è un milionario senza nessuna esperienza di amministrazione pubblica, padrone di decine di migliaia di appartamenti popolari affittati a quegli americani “dimenticati” che le sua società spremono fino all’ultimo centesimo, come ha rivelato una minuziosa inchiesta del New York Times con nomi e cognomi e sentenze. Nel gergo degli oppressi è uno “Slumlord”, un signore delle topaie che rendono fortuna a chi le sfrutta senza scrupoli.

Mentre il tarlo del Russiagate ricominciava a rosicchiare, un’altra Corte d’Appello, questa volta in Virginia, non nella “California di Sinistra” o nella West Coast “liberale” stronca per l’ennesima volta quei tentativi Trumpisti di discriminare sull’ingresso di viaggiatori con visti regolari – attenzione, non “clandestini” - il cosiddetto “Muslim Ban”. Con un voto schiacciante di dieci a tre, i magistrati hanno deliberato che: “L’autorità del Presidente non può essere incontrollata quando, come in questo caso, il Presidente la esercita attraverso un editto esecutivo che causa danni irreparabili a persone”. Sottolineo quella parola che dice tutto: “Editto”. Il Presidente, gli stanno dicendo tribunali dopo tribunali, non è un imperatore che possa governare per editto.

Quando, nelle prossime ore, Trump avrà finito di pavoneggiarsi sulla scena internazionale, di fare gaffe, di atteggiarsi a bullo magari con leader di nazioni marginali come il Montenegro, il premier che lui ha spintonato via a Bruxelles per essere in prima fila nella foto, scoprirà, rientrando a Washington che la sua ombra lo ha fedelmente seguito. E tutta la retorica e la pomposità dei sempre più inutili “summit’ non ha potuto, come era previsto, scollargliela di dosso. Nessuno può sfuggire alla propria ombra.

© Riproduzione riservata 26 maggio 2017

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