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Autore Discussione: Roberto TOSCANO.  (Letto 15752 volte)
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« inserito:: Aprile 02, 2013, 12:37:11 pm »

Editoriali
02/04/2013 - il dopo Ahmadinejad

Teheran, voglia di normalità

Roberto Toscano


Se analizzato sulla base di una rigida dicotomia democrazia/dittatura, il caso della Repubblica Islamica dell’Iran è sempre stato anomalo.

 

Il sistema politico-costituzionale nato con la rivoluzione del 1979 si caratterizzava infatti come ibrido, del resto come rivelato già dall’ossimoro «repubblica islamica»: un sistema teocratico in cui il Presidente viene eletto con voto popolare, ma in cui il suo potere è secondario e subordinato rispetto a quello esercitato da un Leader Supremo politico-religioso; dove il Leader Supremo viene eletto da un’Assemblea degli esperti formata dall’alto clero sciita, peraltro eletta a sua volta con voto popolare; dove esiste un Parlamento, il Majlis, anch’esso eletto con voto popolare. Un voto che, fino alla contestata rielezione di Ahmadinejad nel 2009, era universalmente considerato come autentico, così autentico e non predeterminato da produrre risultati imprevisti, dall’elezione del riformista Khatami nel 1997 a quella del populista Ahmadinejad nel 2005. Una vera democrazia, dunque? Non proprio, dato che le liste degli aspiranti candidati a tutte le elezioni (sia quelle presidenziali che quelle parlamentari) vengono vagliati dal Consiglio dei Guardiani.

 

Una specie di Politburo ideologico che elimina prima delle elezioni gli elementi che vengono considerati inaffidabili dal punto di vista sia della rivoluzione che della religione.  

 

Ma la politica in Iran esiste, e come. Vale quindi la pena considerare le forze in campo e le prospettive in vista delle elezioni presidenziali del prossimo giugno.

 

Due i dati principali. Da un lato la fine della «fase Ahmadinejad», e dall’altro la messa fuori gioco, a base di repressione e intimidazione, dell’ipotesi di cambiamento che nel 2009 aveva preso corpo con la candidatura di Mir-Hossein Mousavi, oggi ancora agli arresti domiciliari. Una candidatura, va detto, tutt’altro che anti-regime, se si pensa che Mousavi era stato Primo Ministro (carica successivamente abolita da una revisione della Costituzione) negli anni 80, e che il suo riferimento ideologico era un richiamo alla «autentica» rivoluzione e al suo fondatore Khomeini (sarebbe a dire come un leninista nella Russia di Breznev). Ma nel 2009 il sistema, incarnato nel Leader Supremo Khamenei, ritenne che il pericolo di una deriva eccessivamente aperturista e pluralista avesse raggiunto - soprattutto in relazione alla crescita di una classe media colta e desiderosa di vedere l’Iran trasformato in un «Paese normale»- livelli inaccettabili, e preferì escludere il cambiamento riconfermando il pur problematico Ahmadinejad.  

 

Già, perché Ahmadinejad, personaggio di secondo piano praticamente «inventato» da Khamenei nel 2005, ha ricoperto i suoi due mandati da Presidente in chiave di aperta insubordinazione nei confronti di quello che nella Repubblica Islamica è il vero potere, quello del «Rahbar». Ispirato dal messianismo sciita - con l’attesa del ritorno, per lui imminente, del Mahdi, il Dodicesimo Imam «occultatosi» nel IX secolo – Ahmadinejad è apertamente anticlericale, e implicitamente mette in dubbio il ruolo del Rahbar. Per fare un esempio riferito alla teologia cattolica, a che serve il Papa se Cristo sta per tornare sulla terra?

 

Ma lo scontro non è in realtà teologico, bensì politico e sociale. Ahmadinejad non è stato un nuovo Khomeini, ma piuttosto una sorta di Chavez iraniano (e infatti il suo rapporto con il Presidente venezuelano e’ stato particolarmente intenso e caloroso), capace di raccogliere consensi non certo fra le estese classi medie iraniane, ma piuttosto negli strati meno abbienti sia delle città che delle campagne.

 

Ahmadinejad sta terminando il suo secondo mandato in un clima di pesante scontro interno, con accuse incrociate di corruzione (probabilmente tutte ugualmente fondate) fra lui e i suoi oppositori nel regime, convinti che lo stile e il linguaggio di questo Presidente per molti versi impresentabile abbiano indebolito il sistema esasperando le divisioni interne.

 

A questo punto il sistema stesso, nel suo complesso, si sta chiedendo come, e con chi, rimettere le cose su un binario meno provocatorio, più razionale, più responsabile, meno disastroso per l’economia, un terreno - quest’ultimo - su cui gli iraniani denunciano sì l’effetto delle sanzioni, ma hanno ben chiaro il ruolo pesantemente negativo di una politica economica demagogica e inconsistente, fatta di misure «a singhiozzo», di ordini e contrordini. Questo è vero anche per quanto concerne la politica estera: non sono pochi quelli che nel regime ritengono assurdo e controproducente che Ahmadinejad abbia provocato il rigetto dell’opinione pubblica mondiale con il suo revisionismo sull’Olocausto, e la promozione a Teheran di una demenziale conferenza negazionista caratterizzata fra l’altro dalla partecipazione di neonazisti tedeschi, dell’ex Grand Wizard del Ku Klux Klan David Duke e di un gruppo di rabbini antisionisti.  

 

Le campagne elettorali in Iran sono estremamente brevi, e quella per le prossime presidenziali non è ancora formalmente iniziata, ma si fanno già i nomi di possibili candidati: da Ali Larijani, esponente di una vera e propria dinastia di politici conservatori (e grande nemico di Ahmadinejad) all’attuale sindaco di Teheran Qalibaf, ex alto ufficiale dei Pasdaran, essenzialmente un modernizzatore, apprezzato sia dai conservatori moderati che dai riformisti di regime. E c’è chi non esclude addirittura l’azzardata ipotesi che possa ripresentarsi Khatami, la cui stagione di pur limitata riforma viene oggi vista con comprensibile nostalgia da molti iraniani. E se vogliamo essere ancora più ottimisti, non dovremmo trascurare una candidatura di cui alcuni hanno parlato, anche se viene considerata estremamente improbabile proprio perchè anomala e potenzialmente troppo innovativa per il regime: quella dell’attuale Ministro degli esteri Ali Akbar Salehi che, alla luce della sua familiarità sia con l’America (ha un PhD del Massachusetts Institute of Technology) che con la questione nucleare (è stato rappresentante iraniano all’AIEA e Direttore dell’ente nucleare iraniano) sarebbe la persona più adatta per promuovere una soluzione della questione-chiave dei rapporti Iran-Stati Uniti.

 

Ahmadinejad non si potrà ripresentare, visto il limite dei due mandati presidenziali, ma ci si chiede in Iran se sarà in grado di trasmettere i consensi popolari di cui ancora gode ad un candidato capace di proseguire il suo progetto politico populista. Alcuni osservatori iraniani esortano e non scartare del tutto il suo ruolo e la possibilità di una certa continuazione di «ahmadinejadismo senza Ahmadinejad», sia per il sempre forte richiamo del risentimento sociale verso tutte le élites, e soprattutto nei confronti della élite clericale, odiata in Iran non solo dalle classi medie laicizzanti (e in parte «post-islamiche»), ma anche da molti iraniani che mantengono un profondo orientamento religioso.

 

Quale che sia il candidato che finirà per prevalere, resta vero che il regime, per fermare i pesanti segnali di declino oggettivo e perdita di consenso, dovrà cercare di risolvere due questioni fondamentali: da un lato mettere l’economia sul piano di uno sviluppo industriale interno, meno esposto alla dipendenza da petrolio e gas (Ahmadinejad ha invece smantellato l’industria nazionale, aprendo le frontiere ai prodotti cinesi) e dall’altro rompere l’isolamento internazionale e ottenere soprattutto dagli americani un riconoscimento che viene universalmente considerato dagli iraniani di tutte le tendenze come un passaggio obbligato verso la grande aspirazione di diventare un Paese «normale». Certo, questo dipenderà anche dagli americani (e in misura molto minore dagli europei), che dovranno essere capaci di trovare, sulla questione nucleare, formule in grado di soddisfare le necessarie garanzie di sicurezza ma anche di riconoscere agli iraniani i normali diritti derivanti dal Trattato di Non-proliferazione. Capaci, in altri termini, di applicare il reaganiano «Trust but verify», mentre finora hanno preteso dall’Iran, considerato irrimediabilmente inaffidabile, una sorte di permanente capitis diminutio.

 

Nonostante tutte le anomalie del meccanismo istituzionale iraniano e nonostante i limiti del potere reale della carica presidenziale, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica Islamica sarà comunque sia un importante segnale che l’occasione di una possibile svolta capace di scongiurare una nuova guerra in Medio Oriente e di aprire la via a una vita migliore, e più libera, per un antico, orgoglioso e importante popolo.

da - http://lastampa.it/2013/04/02/cultura/opinioni/editoriali/teheran-voglia-di-normalita-3hWL7B4TnTx7aFiDw7kIAN/pagina.html
« Ultima modifica: Luglio 22, 2013, 07:29:00 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 30, 2013, 04:39:45 pm »

Editoriali
30/06/2013

Perché Putin lancia la sfida a Obama

Roberto Toscano


La lunga sosta nell’area di transito di Sheremetyevo di Edward Snowden – responsabile delle clamorose rivelazioni del “Datagate” - ha palesemente esasperato Washington, già irritata per la sospettata complicità di Pechino con la mancata risposta delle autorità di Hong Kong alla richiesta di estradizione di quello che per il governo americano è oggi un traditore da catturare e giudicare. 

 

Il superamento della Guerra Fredda, per gli americani uno storico successo da preservare, viene oggi messo in dubbio da tutta una serie di episodi che fanno emergere un atteggiamento di aperta e spesso aggressiva sfida russa alla politica e agli interessi degli Stati Uniti.

Mosca continua ad appoggiare e rifornire di armi Assad, collabora solo parzialmente con le sanzioni occidentali all’Iran, continua ad opporsi con molta intransigenza ai piani americani per lo schieramento di un sistema antimissile in Europa, ha bloccato, dopo denunce di maltrattamenti ai minori, le adozioni di bambini russi da parte di coppie americane. E non mancano le polemiche a livello politico-ideologico, con aspre critiche di Putin e di alti esponenti governativi alla pretesa americana di giudicare la politica interna russa e in particolare di fornire sostegno a Ong indipendenti, oggi obbligate da nuove disposizioni di legge a registrarsi come «agenti stranieri».

 

No, la Guerra Fredda non sta ritornando. Mancano alcuni presupposti fondamentali: la contrapposizione di due ideologie globali; la forza militare dell’Unione Sovietica; la sua proiezione a livello mondiale ivi inclusa la capacità di stabilire alleanze «anti-imperialiste» con i rivoluzionari dei Paesi in via di sviluppo. 

Eppure quello che sta accadendo è importante, significativo e certo non superficiale. Dietro alle odierne contrapposizioni e polemiche vi sono fattori profondi che hanno a che vedere tanto con la politica interna russa che con le relazioni internazionali. Sono fattori che hanno preso corpo fin dalla prima fase della Russia post-sovietica, di quel periodo che in un diffuso sentire popolare sono gli umilianti anni di Eltsin: un periodo caratterizzato non solo dal virtuale collasso delle strutture dello Stato (con pesanti fenomeni di caos economico, miseria diffusa e insicurezza per i cittadini) ma anche dalla accettazione di una storica sconfitta, con il corollario di un passivo riconoscimento dell’egemonia americana. Mi colpì, nei colloqui che ebbi a Mosca nel 2000 con esperti di politica internazionale, il tono esasperato, quasi rabbioso, con cui – parlando di quel periodo umiliante – mi si ripeteva: «mai più».

 

Alla fine degli Anni 90 Vladimir Putin si è proposto, ed è stato accettato da un’ampia maggioranza dei cittadini, come il dirigente capace di riaffermare ordine interno e dignità internazionale attraverso un progetto politico che vede queste due dimensioni come profondamente legate. L’autodefinizione usata dagli ideologi del «putinismo», democrazia sovrana, appare al riguardo molto significativa nella misura in cui lega in modo originale (e inquietante per chi ha a cuore il pluralismo e teme il nazionalismo autoritario) assetto politico interno e proiezione internazionale. Sovranità dello Stato-nazione nel mondo, ma anche del Potere nel Paese. 

Nell’ultimo secolo non sono certo mancati in Russia profondi rivolgimenti: dallo zarismo al comunismo alla democrazia pluripartitica; dalla rivoluzione del 1917 alla fine dello Stato, e del sistema, sovietico nel 1991. Ma la continuità nel modo di concepire il potere è piuttosto impressionante e si vede oggi, ad esempio, come il problema del rispetto dei diritti umani in Russia non dipendesse esclusivamente dal comunismo.

Putin ha dato certamente priorità all’ordine interno – fra l’altro «spezzando le reni» agli oligarchi non allineati – ma nello stesso tempo deve costantemente dimostrare che, anche dopo la fine del bipolarismo Usa/Urss, la Russia conta, la Russia deve essere ascoltata, la Russia deve essere rispettata. Visto che non è probabile che l’America riconosca la Russia come interlocutore paritario, allora creare problemi all’America è il modo più efficace per ottenere comunque il riconoscimento di uno status non secondario.

 

Tutto ciò ha anche una valenza di politica interna, nella misura in cui l’affermazione della «diversità russa» anche dopo l’allineamento con il capitalismo permette di mantenere un’orgogliosa rivendicazione di identità fatta di tradizione, compresa quella religiosa. Vedere in televisione Vladimir Putin con una candela in mano in occasione della celebrazione della Pasqua ortodossa dà la misura dell’importanza di questa componente. E va aggiunto che anche per chi non ha rimpianti per la fine del comunismo la fine dell’Urss, grande potenza avversaria e interlocutrice dell’America, ha lasciato la bocca amara a molti cittadini russi. Questo spiega sia la per noi incomprensibile impopolarità di Gorbaciov sia un antiamericanismo diffuso, e non solo di regime. 

Chi scrive ha trascorso a Mosca, negli Anni 70, quattro anni – anni in cui quello che colpiva era la straordinaria popolarità dell’America presso la gente comune. I primi due appartamenti sovietici dove sono entrato, quello di uno studente e quello di un’anziana babysitter, avevano ciascuna una sola immagine sulla parete: lo studente aveva una foto di Ernest Hemingway e la babysitter la copertina di una rivista americana con l’immagine di John Kennedy. Non aspettiamoci oggi di trovare nelle case russe ritratti di personalità americane..

 

Non sarà certo facile per Washington affrontare il «problema Russia». Lo potrà fare soltanto con una sua inclusione, nella questione siriana ma non solo, e un suo riconoscimento non certo incondizionali ed indulgenti verso le derive autoritarie, ma sì rispettosi di un Paese e un popolo che – indipendentemente dalla natura del regime e dei suoi vertici – non possono rassegnarsi alla marginalità.

La Guerra Fredda non tornerà, ma a patto di evitare profezie catastrofiste, che tendono ad autorealizzarsi, e le pretese ormai oggettivamente insostenibili di egemonia unilaterale. 

da - http://lastampa.it/2013/06/30/cultura/opinioni/editoriali/perch-putin-lancia-la-sfida-a-obama-cSmtEwDYD2IBz4wIBC3iNP/pagina.html
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 06, 2013, 07:47:42 pm »

Editoriali
05/07/2013

Le rischiose incognite del dopo-golpe

Roberto Toscano


Il colpo di Stato dei militari egiziani ha diffuso un notevole – e comprensibile – sconcerto nelle opinioni pubbliche di tutto il mondo. 

 

Ma come? Due anni fa si era celebrato con grande entusiasmo il successo di un movimento di rinascita democratica iniziato in Tunisia, ma di cui l’Egitto era diventato il vero e più interessante fulcro, e solo un anno fa il governo del Presidente Morsi aveva fatto sperare che la democrazia nei Paesi musulmani potesse radicarsi su forze islamiste moderate. E ora, cosa sta accadendo? 

 

La risposta è tanto complessa quanto è stato semplice quell’entusiasmo, e si scompone lungo vari segmenti. In primo luogo, è vero che i Fratelli Musulmani sono una versione democratica dell’islamismo? Sì, se per democrazia intendiamo il radicamento popolare e la capacità di vincere elezioni. Ma le cose si fanno molto meno chiare se dalla conquista del potere ci spostiamo sulla sua gestione: qui vediamo che a partire dal suo insediamento il governo di Morsi ha dimostrato preoccupanti tendenze autoritarie, sia sotto il profilo della gestione del potere che sotto quello delle politiche. I Fratelli non sembra abbiano mai letto Montesquieu, dato che a loro sfugge completamente il concetto della divisione dei poteri (basta vedere il braccio di ferro di Morsi con il potere giudiziario) e, per quanto riguarda le minoranze, la tolleranza religiosa di cui hanno ostentatamente fatto professione si è tradotta piuttosto in passività nei confronti degli islamici più radicali e violenti e dei loro attacchi alla minoranza cristiana. E che dire poi del caos economico e del conseguente ulteriore deteriorarsi delle condizioni di vita della popolazione, soprattutto degli strati più sfavoriti? Vale la pena a questo punto chiedersi chi siano i milioni di egiziani che sono scesi a Piazza Tahrir, e altrove, per chiedere le dimissioni di Morsi. Non c’erano ovviamente soltanto i nostalgici di Mubarak, pure presenti, ma anche membri delle minoranze che temono l’aumento dell’intolleranza, laici che denunciavano segnali di islamizzazione strisciante, militanti sindacali e di partiti di sinistra preoccupati della deriva di una politica economica incapace di garantire sia efficienza che giustizia sociale e soprattutto cittadini comuni, senza particolari affiliazioni politiche, esasperati per le promesse non mantenute e per il deterioramento socio-economico del Paese.

 

Ecco il perché delle celebrazioni, dei fuochi artificiali che hanno salutato l’annuncio del colpo di Stato. Ed ecco anche spiegato il perché nella «foto di famiglia» post-golpe appaiano, oltre al Comandante in capo delle Forze Armate egiziane (e Ministro della Difesa) Al Sisi e ad altri alti ufficiali, anche il leader di opposizione Al Baradei e i leader delle comunità religiose, compreso lo sceicco della università islamica di Al Azhar, evidentemente non troppo convinto che il governo «islamico» fosse un vantaggio per l’Islam.

 

Già, ma adesso? Appare legittimo chiedersi, evitando di cadere in un ottimismo altrettanto ingiustificato di quello con cui avevamo salutato la «Primavera araba», quali siano ora le prospettive politiche che si aprono dopo che i militari sono intervenuti a interrompere traumaticamente il processo politico in corso. Certo, sembra che 20 milioni di egiziani avessero sottoscritto una petizione a favore delle dimissioni di Morsi – ma non è azzardato ritenere che quanto meno un numero equivalente di cittadini firmerebbe oggi una petizione a suo favore. Il consenso per i Fratelli Musulmani sarà probabilmente diminuito di fronte a difficoltà e fallimenti, ma certo non si è volatilizzato. Inoltre non ci si può limitare a considerare i Fratelli Musulmani, e bisogna chiedersi come reagiranno quei salafiti che non hanno mai smesso di criticare la «via democratica» dei Fratelli e che non potranno fare a meno, dopo l’interruzione manu militari dell’esperimento della democrazia islamica, di riaffermare la validità (e probabilmente anche la legittimità di una prassi violenta) della loro opzione radicale. Chi prenderà le redini del governo? I militari non sembrano intenzionati a gestire il potere direttamente, né sarebbero in grado di farlo. Più probabile che passino la mano a una figura come El Baradei, un liberal-democratico progressista, rispettabile e rispettato a livello internazionale dopo gli anni trascorsi al vertice della agenzia atomica di Vienna, l’Aiea. Ma su quale sostegno potrebbe contare una normalizzazione democratica? Concretamente, è forse possibile immaginare di governare l’Egitto senza, e anzi contro, i Fratelli Musulmani? Forse con una coalizione fra «partito militare», nostalgici di Mubarak, progressisti laici? E, al di là dell’entusiasmo per il rovesciamento di un Presidente incompetente ancor più che autoritario, quali sono le proposte concrete per rimpiazzarlo?

 

Purtroppo sembra che il colpo di Stato riporti la situazione politica egiziana all’incertezza che aveva caratterizzato il periodo immediatamente successivo al rovesciamento di Mubarak. Non si tratta solo di politica, e tanto meno di religione, ma di una situazione socio-economica disastrosa che non sarebbe onesto attribuire ad un solo anno di governo dei Fratelli Musulmani, ma che quel governo non solo non ha nemmeno cominciato a correggere, ma ha addirittura aggravato. 

 

Resta infine l’incognita sulla dimensione internazionale della questione egiziana, e questo sotto una duplice ottica. Da un lato vi è da chiedersi quali saranno le reazioni nella regione e nel mondo al colpo di Stato. Gli americani sembrano sia sconcertati che cauti, dato che da un lato non amavano Morsi, e non se ne fidavano del tutto, ma dall’altro giustamente temono l’aggravarsi del caos nel Paese e nello stesso tempo la caduta di quella ipotesi di «islamismo moderato» su cui ultimamente avevano ritenuto, per mancanza di alternative, di dover credere. In concomitanza con i disordini a Istanbul, i fatti del Cairo sembrano già segnalare tutte le contraddizioni e i limiti di un islam politico attraente in quanto diverso da quello radicale e violento. Il segnale dalle due piazze, Taksim e Tahrir, è per Washington inquietante anche al di là di Turchia ed Egitto.

 

Se infatti l’islamismo moderato risulta non sostenibile, se non è concepibile tornare ad appoggiare o quanto meno tollerare dittatori laici (come quell’Assad di cui si appoggia la caduta), e se le forze che sono sia democratiche che liberali risultano ancora deboli, oltre ad essere divise, quale politica è possibile?

E che dire dell’Europa, sempre più preoccupata del fatto che ormai l’instabilità dei Paesi sull’altra riva del Mediterraneo (pensiamo alla violenta anarchia della Libia post-Gheddafi) potrebbe risultare endemica e non reversibile se non sul lungo periodo? 

 

E in secondo luogo, quale sarà la politica estera del dopo-Morsi? L’esercito certo non è caratterizzato dall’antiamericanismo, dipendente com’è dagli aiuti militari americani e alla luce del fatto che i suoi quadri superiori (come lo stesso Al Sisi) si sono formati anche presso istituti militari americani. Ma nessun governo, soprattutto se fragile e minacciato dalla contestazione di un’opposizione islamica, potrebbe certo permettersi di abbandonare la retorica, se non la politica, anti-israeliana. Anzi, forse la sostanziale moderazione di Morsi nel campo della politica estera – resa possibile dalle sue credenziali islamiche - potrà risultare difficilmente sostenibile nella prossima fase. 

 

In Egitto, e non solo in Egitto, la primavera è sfiorita in fretta. Avremo tutti bisogno di molta saggezza e pazienza, ma anche determinazione, per far fronte a problemi, spinte e anche minacce che non mancheranno di prodursi. 

da - http://lastampa.it/2013/07/05/cultura/opinioni/editoriali/le-rischiose-incognite-del-dopogolpe-FZnwKo2efgFOQ8G03ortBJ/pagina.html
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 14, 2013, 11:45:11 pm »

Editoriali
14/07/2013

Obama perso nel labirinto mediorientale

Roberto Toscano

Gli entusiasmi e l’ottimismo che avevano salutato la rielezione di Barack Obama al suo secondo mandato presidenziale sembrano già rapidamente sfioriti. Ne ha preso il posto la sensazione di una sostanziale perdita di controllo su una complessa agenda internazionale cui si associano pesanti difficoltà politiche sul piano interno. 

 

Ancora una volta, le sfide di politica estera sono soprattutto quelle che provengono dal Medio Oriente, uno scacchiere internazionale che gli Stati Uniti non possono certo trascurare ma che sempre meno riescono non solo a gestire, ma nemmeno a interpretare in maniera coerente.

Il caso più clamoroso è quello dell’Egitto. La caduta di Mubarak non è stata certo orchestrata da Washington, ma è evidente che senza un chiaro segnale di via libera dell’amministrazione Obama ai militari egiziani il regime non sarebbe caduto. Prendendo atto delle spinte popolari emerse con la cosiddetta Primavera Araba, Obama - coerentemente con l’alto messaggio del suo discorso del Cairo del 2009, - non solo ha ritenuto chiusa la lunga stagione dell’appoggio alle dittature laiche, ma ha accettato l’ineludibile corollario di questa svolta: l’arrivo al potere dell’islam politico.

 

Obama ha preso atto di un fatto ovvio ma che in precedenza gli americani avevano preferito rimuovere: che laddove le popolazioni accolgono maggioritariamente il messaggio islamista la democrazia può solo essere islamica. Islamica moderata, auspicabilmente. Un’ipotesi che l’esperienza della Turchia sembrava confortare, con la sua combinazione di pluripartitismo, forte sviluppo economico, buoni rapporti con gli Stati Uniti.

Questa interpretazione risulta oggi in crisi profonda, e a Washington regnano non solo lo sconcerto, ma anche un’evidente confusione.

 

I Fratelli Musulmani si sono rivelati meno democratici di quanto non si sperasse, non solo e non tanto per una certa islamizzazione strisciante della società egiziana quanto per la concezione autoritaria del potere del Presidente Morsi, che ha dimostrato anche scarse doti di leadership.

Il suo rovesciamento da parte di un intervento militare non ha quindi sollevato troppi rimpianti a Washington. Vi è persino chi, per giustificare l’azione dei militari, nega addirittura che si sia trattato di un golpe. Il Paese – si argomenta - scivolava in un caos sempre più profondo, e l’intervento militare si giustifica quindi per fermare il degrado e tutelare la democrazia, che verrà presto ripristinata su basi più solide. Le prime misure dei militari sollevano tuttavia non pochi dubbi sulle loro effettive intenzioni. La «dichiarazione costituzionale», che dovrebbe delineare una road map per il ripristino della democrazia, attribuisce ai militari il fondamento stesso del potere in Egitto, tanto che un esperto di diritto pubblico egiziano alla George Washington University ha commentato il documento affermando: «Adesso è ufficiale: è un colpo di stato». Vi è poi la durissima repressione nei confronti dei Fratelli Musulmani, con arresti di dirigenti e l’uccisione, l’8 luglio, di decine di militanti. Secondo la versione ufficiale si sarebbe trattato di uno scontro a fuoco causato da un attacco armato contro i militari: curioso scontro, con oltre 50 morti e 400 feriti fra gli «attaccanti» e solo tre perdite fra militari. 

 

Per Obama il problema è ora decidere cosa fare dopo la fine prematura dell’esperimento della democrazia islamica in Egitto. 

Appoggiare un ritorno a un sistema autoritario basato sulle Forze Armate, una sorta di «mubarakismo senza Mubarak»? Sperare che i Fratelli Musulmani possano tornare a partecipare alla competizione politica, magari con altri leader e con maggiore realismo e competenza? Quello che è certo è che nessuno a Washington può pensare che, nonostante lo scontento e la delusione per la cattiva prova di un anno di governo islamista, l’islam politico egiziano sia finito, e tanto meno che si possa immaginare che le sparute e divise schiere dei laici filo-occidentali possano aspirare di costituire una forza politica capace di fornire una terza alternativa fra militari da una parte e islamisti dall’altra.

 

Per Obama, quindi, pessime notizie da Piazza Tahrir, ma anche da Piazza Taksim, dato che un altro tassello dell’opzione islamista moderata, quello turco, mostra anch’esso tutti i suoi limiti, nonostante la ben maggiore solidità dello stato turco e del governo Erdogan. Anche in Turchia, come in Egitto, gli «islamisti moderati» si sono rivelati tutt’altro che moderati nella loro concezione e gestione del potere, caratterizzate da pesanti elementi di autoritarismo. 

 

Ancora più drammatici i dilemmi che vengono dalla Siria, con un Obama attaccato da più parti per una sua presunta insensibilità al dramma umanitario della Siria, che in realtà si spiega con la sua riluttanza a coinvolgere l’America in una ennesima guerra in Medio Oriente. Una Siria dove ormai, vista la capacità di resistenza del regime di Assad (aiutato da Iran, Russia, e persino da combattenti Hezbollah), misure di sostegno ai ribelli che non comportino un intervento aereo diretto «stile Libia» avrebbero solo un valore simbolico. 

 

Ma non è solo questione di strategia militare. Il dilemma è politico. Assad non era certo un beniamino degli americani, ma Washington aveva dimostrato di saper convivere con un regime che garantiva da un lato la tranquillità del Golan, frontiera con Israele, e dall’altro il non-allineamento della Siria, retta da un regime laico, con il «jihadismo» sunnita. Quel jihadismo che, ivi compreso un gruppo esplicitamente affiliato ad Al Qaeda, oggi costituisce il nerbo centrale delle forze che combattono il regime siriano. Aiutare i ribelli, e trovarsi cosi in una bizzarra alleanza con Al Qaeda? E quale potrebbe essere la Siria del dopo-Assad? Probabilmente molto peggio della Libia del dopo-Gheddafi.

 

Dilemmi obiettivi, situazioni complesse rispetto alle quali nessuno può vantarsi di saper rispondere con ricette infallibili. L’America non è mai stata onnipotente, e oggi lo è meno che mai: per le difficoltà economiche; il disfarsi, in Medio Oriente, di antichi equilibri di potere difficilmente rimpiazzabili con nuovi assetti; il crescere delle resistenze di Russia e Cina all’egemonia americana; il potente risveglio di masse popolari che esigono benessere e giustizia a regimi corrotti ed autoritari.

 

A maggior ragione non è onnipotente il Presidente degli Stati Uniti, e soprattutto Obama, che deve fare i conti con un Congresso in larga parte ostile, come confermato nelle ultime ore dalla bocciatura da parte della Camera dei rappresentati di quel disegno di legge sull’immigrazione, già approvato dal Senato, su cui Obama ha puntato – dopo la riforma sanitaria – gran parte della sua agenda di politica interna. 

In un libro di dura critica della politica estera obamiana Vali Nasr - già diretto collaboratore di Richard Holbrooke e attualmente Rettore della School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University, - denuncia la perdita di centralità dell’America nel mondo, causata da cattive strategie e pessima gestione diplomatica (il libro si chiama «The Dispensable Nation» - la nazione di cui si può fare a meno, in contrasto con la definizione clintoniana della «nazione indispensabile»). 

 

Un libro difficilmente confutabile, un libro coraggioso e onesto, ma anche ingeneroso nei confronti di un Presidente forse troppo pronto al compromesso e incapace di ispirare il cambiamento (non è certo Kennedy e nemmeno Clinton), ma sinceramente progressista sia in campo internazionale che in quello interno. E, soprattutto, arrivato alla Casa Bianca dopo i disastri del «bushismo» e in una fase di oggettivo declino internazionale e aspra contrapposizione politica interna. Criticarlo è certo giustificato, ma senza dimenticare il contesto straordinariamente complicato in cui si sta svolgendo la sua presidenza.

Forse aveva ragione il settimanale umoristico americano «The Onion» quando nel 2008, nell’annunciare la sua elezione, intitolava: «Black Man Gets Worst Job» – A un nero, il peggiore di tutti i lavori.


DA - http://lastampa.it/2013/07/14/cultura/opinioni/editoriali/obama-perso-nel-labirinto-mediorientale-zY9VREG1VJX80Bx8binQ7L/pagina.html
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 22, 2013, 07:20:49 pm »

Editoriali
22/07/2013

Il cammino aperto da Mandela

Nella storia come Gandhi

Roberto Toscano

Nelson Mandela ci sta lasciando. In un certo senso ci ha già lasciato, con la perdita della coscienza e una sopravvivenza fisica solo permessa dalle moderne tecnologie mediche. Tra poco sarà il momento dei necrologi, che saranno di certo improntati alla celebrazione di una delle poche figure positive del nostro tempo, così carente di eroi e così affollato da personaggi poveri sia di principi che di carisma. La sua è una straordinaria vicenda politica ed umana: la lotta armata contro uno dei più spietati e disumani sistemi politici del XX secolo, l’Apartheid; oltre vent’anni di carcere; la costruzione di un Sudafrica per tutti basato non sulla sconfitta del nemico razzista, ma sul dialogo e l’esclusione della violenza. E tutto questo con uno stile inconfondibile fatto di pazienza e serena fermezza, e soprattutto con una stupefacente mancanza di odio e risentimento nei confronti di chi, oltre a macchiarsi di innumerevoli crimini di lesa umanità, gli avevano rubato oltre due decenni di vita.

 

Mandela è già nella storia, e non sembra possibile immaginare che un giorno qualcuno possa seriamente confutare la sua immagine di grande, straordinario, unico personaggio. Eppure il suo lungo addio non è solo il momento di celebrare il suo storico trionfo, ma anche di riflettere su quanto di triste, su quanta delusione, emerga dalla sua vicenda sia personale che politica. 

 

La famiglia, in primo luogo. A partire dalla per lui penosa vicenda, ormai molti anni fa, della moglie Winnie, vittima di sconsiderate ambizioni di potere oltre il limite della decenza e della legalità, il comportamento della famiglia di Mandela può solo essere definito come squallido e vergognoso.

 

Tentativi scoperti di lucrare sulla sua immagine, lotte interne fra figli e nipoti per impadronirsi di una eredità non certo morale, ma volgarmente materiale. Quello che è più triste è che manovre e intrighi sono continuati, anzi si sono accentuati, da quando è risultato evidente che la fine si avvicinava. 

 

Ma la delusione più grande deriva dal Paese. Contro ogni previsione, e soprattutto contro le sprezzanti certezze dei «realisti», l’arrivo al potere della maggioranza nera non ha comportato vendette e stragi di bianchi, e nemmeno la spaccatura del Paese. Con un modello che è poi stato ripreso in altre situazioni di transizione dopo la caduta di un regime repressivo, il Sudafrica di Mandela ha invece proposto di perseguire «Verità e riconciliazione» in alternativa alla sacrosanta ma devastante applicazione della giustizia. 

 

Ma oggi cos’è il Sudafrica? Tassi di disuguaglianza estremi e particolarmente indecenti dati altissimi livelli di corruzione. Una corruzione che caratterizza in particolare il partito di Mandela, quell’African National Congress – Anc, che ha condotto sia la resistenza contro l’Apartheid sia la difficile fase della transizione.

L’uguaglianza teorica di una democrazia pluripartitica e pluralista viene pesantemente smentita da una struttura socio-economica in cui la classe e il denaro battono la razza, nel senso che anche una minoranza di neri è entrata a far parte della élite, del privilegio.

 

Colpisce non poco registrare le accorate parole di Nadine Gordimer, una grande scrittrice che fin dagli inizi ha appoggiato la lotta contro l’Apartheid ed è stata qualcosa di più che semplice fiancheggiatrice dell’Anc, ma una militante attiva e coraggiosa. E’ infatti desolata la sua constatazione del crollo di tante speranze, e altrettanto desolata è la sua denuncia di una sorta di collasso morale molto più grave delle pur serie difficoltà economiche.

 

E allora? Si può forse dire che Mandela muore da sconfitto? Certo il Paese che ha sognato nei lunghi anni di detenzione, e ha poi costruito con grande visione politica, è diventato qualcosa di ben diverso, a partire dal presidente attuale, quello spregiudicato e demagogico Zuma che sembra più un’antitesi che non un successore di Mandela.

 

Ma la sua vittoria e la sua lezione restano, e vanno ben oltre il Sudafrica. La sua vittoria è quella di avere clamorosamente smentito uno dei più radicati luoghi comuni della politica, quello secondo cui solo la forza permette di prevalere, mentre in non violenti sono inevitabilmente sconfitti. E’ vero per il Sudafrica come è stato vero per la Polonia di Solidarnosc, e più recentemente per la caduta di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto: in tutti questi casi la pacifica protesta di massa ha prodotto risultati che la violenza non poteva certo conseguire.

 

Ma il paradosso della vittoria/sconfitta di Nelson Mandela non è poi così misterioso, così come non è misterioso in paradosso di quella Primavera Araba che ha conseguito, con la via pacifica, risultati molto concreti, come la caduta di regimi dotati di forti strumenti di repressione e anche capillari meccanismi di cooptazione e consenso.

 

La non violenza risulta una strategia vincente nel momento in cui la grande maggioranza della popolazione toglie a un regime la legittimazione, e con essa quel minimo di consenso di cui anche i regimi non democratici non possono fare a meno. Una strategia che risulta vincente quando le richieste di libertà e giustizia incompatibili con il mantenimento del potere diventano egemoniche, sia interclassiste che interrazziali, e spesso anche capaci di coinvolgere fedeli di religioni diverse.

 

Ma quella vittoria è solo l’inizio di un altro cammino. Un cammino che prende certo le mosse da un potente rifiuto, ma deve continuare con un paziente lavoro basato sulla qualità politica e sul rigore morale - 

quella qualità politica e rigore morale che spiegano il «miracolo Mandela». I leader, anche i più grandi, non sono eterni. Essi aprono un cammino, indicano una direzione, ma poi dirigenti e cittadini dovranno continuare la loro opera – e purtroppo non è detto che questo avvenga necessariamente.

 

Ma forse non si può dire lo stesso di Gandhi? Non è possibile mettere in dubbio la straordinaria grandezza di quella che sembrava la sua folle scommessa: sconfiggere il colonialismo inglese e conseguire l’indipendenza dell’India senza violenza. Ma possiamo forse dire che l’India di oggi era quella che Gandhi voleva? Proprio come l’attuale Sudafrica, tristemente, non ha molto a che vedere con il messaggio di Nelson Mandela.

 

E allora – in Sudafrica come in India, e forse dovremmo dire ovunque - non ci resta che riprendere il senso più profondo del messaggio dei nostri Padri (ad esempio quelli che hanno lanciato il sogno europeo) e continuare sul cammino da loro indicato, con chiarezza politica e soprattutto un sostenuto impegno morale. 

 

No, non è detto che Nelson Mandela muoia sconfitto.


da - http://lastampa.it/2013/07/22/cultura/opinioni/editoriali/il-cammino-aperto-da-mandela-TUohAexLY9SbAFWSpV13hP/pagina.html
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 16, 2013, 09:07:22 am »

Editoriali
15/08/2013

Il fallimento dell’islamismo moderato

roberto toscano


Quello che si temeva è avvenuto: l’esercito egiziano ha dato inizio - con l’uso delle armi e con l’impiego di mezzi blindati e bulldozer – alle operazioni per lo sgombero degli accampamenti allestiti dagli aderenti al movimento dei Fratelli Musulmani per protestare contro il colpo di Stato e l’arresto del presidente Morsi e di altri dirigenti del movimento. 

Si registrano già centinaia di vittime, sia al Cairo che in altre località, e fra i morti ci sono anche giornalisti stranieri (fra cui un cameraman di Sky). Vi sono pochi dubbi sull’esito della repressione militare. Gli accampamenti verranno di certo smantellati, e il potere del generale al-Sisi ne risulterà rafforzato. Intanto, è stato proclamato lo stato di emergenza, che fornirà all’esercito ulteriori strumenti di controllo e repressione. 

 

Diventa così sempre più difficile definire l’intervento militare come qualcosa di diverso da un colpo di Stato. 

Non si tratta di disquisizioni politologiche, ma di semplice constatazione di fatti reali – fatti che rendono insostenibile la tesi del “golpe per la democrazia”, a meno di non volere parafrasare quel colonnello americano che in Vietnam, dopo che un villaggio era stato raso al suolo dall’aviazione, aveva detto: “E’ stato necessario distruggere il villaggio per salvarlo”. 

 

Un golpe non certo democratico – scrive d’altra parte il professor Parsi sul Sole-24 Ore – bensì rivoluzionario. E cita il parallelo del «18 Brumaio» di Napoleone. Bonapartismo: in fondo niente di nuovo, e soprattutto niente di nuovo in Egitto, da Nasser (e prima di lui Neguib) a Sadat a Mubarak. Dovremmo quindi abbandonare i moralismi e rassegnarci al fatto che in una prospettiva storica la rivoluzione ha spesso bisogno di essere promossa con la violenza armata. La «levatrice della Storia», come dicevano i leninisti. 

 

Non credo che fosse quello che prevedevamo, e speravamo, quando avevamo salutato con grande simpatia ed entusiasmo la Primavera Araba. Colpisce anzi la sorprendente volubilità di gran parte dell’opinione pubblica occidentale che, dopo aver dato anche troppo credito all’ipotesi dell’islamismo moderato, adesso prende per buone le assicurazioni di un esercito che proclama la propria intenzione di difendere la rivoluzione e l’interesse nazionale, ma in realtà è impegnato nella restaurazione del proprio potere sia politico che economico. 

 

Certo, è assurdo – come ha fatto la Premio Nobel per la Pace yemenita Tawwakkul Karman – definire Morsi, personaggio mediocre, incompetente e autoritario, come un altro Mandela. Ma se le forze armate dovessero rovesciare tutti gli incompetenti con tendenze autoritarie avrebbero di certo un bel da fare, e non solo in Egitto.

Non sarà comunque facile, alla luce dello spargimento di sangue di oggi, e di quelli che probabilmente seguiranno (anche dopo le delusioni del governo Morsi i simpatizzanti dei Fratelli Musulmani sono pur sempre centinaia di migliaia), mantenere l’apertura di credito ai militari egiziani, quell’atteggiamento favorevole che, come scrive Adam Shatz nella London Review of Books, vede «un’improbabile coalizione di sostenitori del golpe, da Tony Blair a Bashar al-Assad, dai vertici dell’intelligence israeliana a, soprattutto, Arabia Saudita ed Emirati».

 

Diventerà anche difficile per i liberali egiziani, che hanno aderito al golpe in odio ai Fratelli Musulmani, continuare a sostenere i militari, almeno apertamente. Infatti, come aveva minacciato nel caso i sit-on fossero stati smantellati con la forza, ieri sera il vice presidente El Baradei si è dimesso. La questione islamista, in ogni caso, non è risolta. Ben diversa sarebbe stata una sconfitta elettorale, che avrebbe sanzionato un fallimento politico che ora viene mascherato, e addirittura nobilitato dalla brutale vittimizzazione degli islamisti prodotta dalla repressione violenta. 

 

E’ in ogni caso estremamente difficile poter sperare che la futura vicenda politica dell’Egitto possa sfuggire ad un perverso ciclo di violenza. E’ subito inquietante la notizia di attacchi a case, negozi e chiese di cristiani copti, per gli islamisti capri espiatori ideali. Faremmo anche bene a chiederci come mai i salafiti, islamisti radicali e apertamente antidemocratici che hanno sempre accusato i Fratelli Musulmani di essere degli illusi perché propongono una via pacifica all’islamismo, facciano parte della «improbabile coalizione» filogolpista.

 

Nulla di buono nemmeno per noi, sull’altra riva del Mediterraneo. Sembra che negli ultimi sbarchi di clandestini sulle nostre coste ci fossero molti siriani, ma anche egiziani. Non più quindi una emigrazione prodotta dalla miseria ma la fuga da conflitti e violenze. Il fatto è che siamo tutti, sia europei che americani, incapaci di individuare una linea politica sostenibile: i militari non tornano indietro, mentre una loro sconfessione aperta comporterebbe (soprattutto per Washington) la sospensione di aiuti senza i quali l’Egitto sprofonderebbe nel caos più totale. L’idea di un islamismo moderato ha subito un duplice colpo: da un lato il fallimento dell’esperienza di governo e dall’altro il rovesciamento violento di un governo islamista democraticamente eletto, che ha indebolito ulteriormente la già tenue ipotesi di una via pacifica.

 

I liberali, quelli che avevamo sperato potessero svolgere un ruolo importante dopo la caduta di Mubarak, sono numericamente deboli e vittime di una pesante contraddizione: come si fa a difendere democrazia e laicità con i carri armati? La crisi egiziana è solo all’inizio.


da - http://lastampa.it/2013/08/15/cultura/opinioni/editoriali/il-fallimento-dellislamismo-moderato-uDBWlHIXm3Mh2smEJmDQZJ/pagina.html
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 21, 2013, 07:28:24 pm »

Editoriali
20/08/2013

Arabi vs arabi la democrazia è un miraggio

Roberto Toscano


Non è passato molto tempo da quando i popoli arabi, pur profondamente diversi fra loro per strutture di potere e assetti socio-economici, trovavano una loro identità comune in una sorta di definizione per contrapposizione.

 

Da un lato si trattava della memoria storica, profondamente sentita a livello popolare, dell’umiliazione coloniale e neo-coloniale, e dall’altro dell’ostilità contro Israele, sentita come corpo estraneo la cui stessa esistenza era percepita come una perdurante sconfitta. 

 

Oggi le cose sono profondamente cambiate, e lo si è visto quando, nel 2011, le masse arabe scese in piazza contro i regimi dittatoriali in Egitto e Tunisia non bruciavano bandiere americane né davano voce al loro odio nei confronti del nemico sionista. Sembrò allora una promettente presa di coscienza del fatto che libertà politica e giustizia sociale potevano essere conseguite soltanto identificando il nemico principale: regimi la cui esistenza poteva solo in parte essere attribuita a forze esterne. 

 

Sarebbe tuttavia incauto rallegrarsi di questo segno di maturazione politica senza vedere quello che ha preso il suo posto nella coscienza collettiva dei popoli arabi.

 

Si sta infatti rapidamente aggravando un fenomeno che minaccia di essere devastante per ogni prospettiva non solo di cambiamento in senso democratico, ma di una semplice convivenza civile. L’ostilità verso un nemico esterno, che bene o male era servita a dare una minima coesione a Stati estremamente fragili, viene sempre più sostituita da una radicale, e spesso feroce, contrapposizione interna, da una spaccatura settaria che minaccia di trasformare gli Stati in crisi in Stati falliti.

 

Ovunque nel mondo la perdita di controllo prodotta dalla globalizzazione ha esasperato per reazione un’esigenza identitaria che mina la coesione delle comunità nazionali. Ma mentre in Europa il risultato è il rafforzarsi delle spinte centrifughe a livello territoriale (fino al separatismo), nel mondo arabo è la dimensione religiosa a definire tutta una serie di identità ostili e conflittuali.

 

Si parte dalla contrapposizione religione/laicità, che spinge a divisioni politiche inconciliabili soprattutto perché – con un equivoco che non è solo semantico ma profondamente concettuale – nel mondo islamico «laico» è equivalente ad ateo. La maturazione di un modo più corretto di impostare la questione, con il rafforzamento (come faticosamente è diventato possibile nel mondo cristiano) della opzione di una religiosità laica, non è certo per domani, anche se non mancano gli intellettuali islamici che stanno cercando di spingere in questa direzione. Nel frattempo i laici vedono da un lato un islamismo violento, wahabita nell’ideologia e jihadista nella prassi, e dall’altro un islamismo moderato (come quello dei Fratelli Musulmani o del partito Akp in Turchia) che temono voglia perseguire, anche se con mezzi pacifici, la stessa finalità di un’islamizzazione della società imposta con la legge. Un timore che arriva a portare, come oggi in Egitto e ieri in Turchia, sedicenti democratici a schierarsi a favore di dittature militari anche profondamente repressive, ma laiche. 

 

La seconda contrapposizione si riferisce alla spaccatura fra musulmani ed appartenenti ad altre religioni. Il Medio Oriente è stato sempre caratterizzato da una pluralità di comunità religiose che, anche in regimi non pluralisti, avevano finora mantenuto spazi di «agibilità» e un’integrazione di fondo con le maggioranze musulmane. Pensiamo soprattutto alle antiche comunità cristiane d’Oriente. I dittatori laici (Saddam, Mubarak, Assad e lo stesso Gheddafi) avevano, agli occhi di queste comunità, il non secondario merito di non discriminare nei loro confronti. Certo, opprimevano tutti i cittadini, ma non in quanto appartenenti o no all’Islam. In tutti i Paesi in cui i dittatori laici sono stati sostituiti da governi di maggioranza islamica (Iraq, Egitto, Libia), i cristiani hanno cominciato a sentirsi minacciati dagli islamisti più radicali, ma spesso con la connivenza o la passività degli islamisti moderati, mentre in Siria la presenza nello schieramento anti-Assad di gruppi wahabiti ha comprensibilmente aumentato l’avversione delle minoranze non islamiche nei confronti di un’ipotesi di caduta del regime e il sospetto nei confronti di una «democrazia islamica».

 

Ma la spaccatura più significativa, più generalizzata, più drammatica è quella fra sunniti e sciiti. Si tratta di uno scisma all’interno dell’Islam che ha radici antiche, visto che nacque per una disputa sulle modalità di successione al Profeta, e che nei secoli ha visto un alternarsi di periodi di quiescenza con periodi di feroce scontro non molto diversi da quelli che per secoli hanno caratterizzato il difficile rapporto fra cattolici e protestanti. 

 

I Paesi sunniti non hanno mai accettato che gli sciiti – tradizionalmente i dissidenti, i perdenti, i settari emarginati quando non perseguitati – acquistassero, con la rivoluzione iraniana del 1979, un riferimento sia ideale che materiale capace di renderli protagonisti, nonché pericolosi concorrenti dell’Islam maggioritario quando non agenti delle ambizioni dell’Iran. Questo era vero soprattutto nei primi anni dopo la rivoluzione, quando l’Iran non faceva mistero della propria intenzione di espandere la propria egemonia a tutto il mondo islamico. Un progetto ben presto rivelatosi poco realista, il che spiega una certa quiescenza della questione sunnita/sciita - una quiescenza che è durata fino alla caduta di Saddam, laico ma pur sempre sunnita. Quando gli americani hanno non solo imposto a Baghdad un nuovo sistema basato sulle elezioni e un governo maggioritario, ma hanno anche insistito per la strutturazione del sistema politico con riferimento alle tre comunità (sciiti, sunniti, curdi) diventava evidente che il governo iracheno sarebbe stato sciita. 

 

I Paesi sunniti tuttavia, e in primo luogo l’Arabia Saudita, non hanno mai accettato che a Baghdad ci fosse un governo sciita, per giunta amico degli iraniani. 

 

Il discorso sunnita sulla «Shia crescent» (la mezzaluna crescente sciita) agita lo spettro di un’espansione sciita che non sta nella realtà dei rapporti di forza, ma nasconde l’intenzione sunnita di rendere reversibile l’attuale status quo. Stiamo oggi assistendo a una vera e propria offensiva sunnita.

 

Non solo per l’Iraq, che infatti vede oggi un drammatico aumento del terrorismo sunnita – contro un governo sciita, va aggiunto, sempre meno democratico e sempre più repressivo – ma anche in relazione alla questione siriana. Gli alawiti, setta religiosa cui appartiene Assad, sono un «sottoprodotto» dello sciismo (l’Oriente è ricco di religioni e di sette spesso sincretiste), ma certo il dittatore siriano non è un paladino dello sciismo, bensì un tipico esponente, come suo padre, dell’ideologia del partito Baath, un partito laico nazionalista (e, a ben vedere, di tipo fascistoide) creato negli Anni 40 da un cristiano, Michel Aflaq.

 

Ma una delle ragioni del sostegno fornito dai Paesi sunniti (in primo luogo Arabia Saudita e Qatar) ai ribelli è il fatto che la Siria di Assad è l’anello di congiunzione fra Islam e Hezbollah, il movimento sciita più agguerrito, organizzato e politicamente abile, passato da movimento terrorista a partito politico senza mai abbandonare una significativa forza militare. In realtà, quindi, la Siria è anche, e forse soprattutto, terreno di scontro per la guerra civile sunnita-sciita, con Hezbollah che invia propri combattenti a sostenere Assad. E il pericolo è che lo scontro si estenda, come fanno temere recenti atti di terrorismo, all’interno del Libano, destabilizzando un Paese i cui fragili equilibri inter-comunitari sono garantiti, più che altro dallo spettro di un riaccendersi di una quindicennale guerra civile.

 

Se si aggiungono le sorti incerte della democrazia in Tunisia – dove laici, islamici moderati e islamici radicali non hanno ancora trovato un minimo di consenso – e l’incapacità della Libia del dopo-Gheddafi di emanciparsi dalla prepotenza delle milizie armate, il quadro del mondo arabo non è certo incoraggiante. 

 

Lo scontro fra arabi dovrà trovare una propria decantazione, un assestamento oggi imprevedibile e che comunque sarà diverso in ciascun Paese. Ma certo la realizzazione della promessa di democrazia e libertà della Primavera Araba non è per domani.

 

Forse è un miraggio, ma non nel senso di qualcosa di irreale bensì, come è in effetti il fenomeno del miraggio, il prodotto dell’illusione ottica che ci fa vedere vicino un oggetto del tutto reale, ma che è molto più lontano di quanto il nostro occhio creda di percepire.

da - http://lastampa.it/2013/08/20/cultura/opinioni/editoriali/arabi-vs-arabi-la-democrazia-un-miraggio-WzDlrzExNT9B7VWnoXhBGK/pagina.html
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 24, 2013, 04:34:42 pm »

Editoriali
24/08/2013

I dilemmi di un intervento

Roberto Toscano

In Siria, la cosiddetta «comunità internazionale» (a ben vedere, si tratta piuttosto di Usa e Ue) è forse alle soglie di un intervento militare, ma mai come in questo caso risulta evidente tutta la riluttanza dei Paesi che dovrebbero impegnare uomini e risorse imbarcandosi in un’impresa militare dalle problematiche motivazioni e soprattutto dalle imprevedibili conseguenze.

Lo strazio del popolo siriano viene ormai da lontano, e le perdite umane hanno superato la quota centomila, senza contare i milioni di profughi nei Paesi limitrofi. Perché non si è fatto nulla finora, e perché invece una decisione di agire potrebbe essere presa nei prossimi giorni? 

La questione fondamentale si riferisce all’uso delle armi chimiche, che già un anno fa era stato definito dal presidente Obama come una «linea rossa» il cui attraversamento avrebbe imposto una reazione di tipo militare. Le foto pubblicate negli ultimi giorni non lasciano dubbi sulla quantità di vittime (per maggiore strazio, anche tanti bambini) i cui corpi sono apparentemente intatti, rafforzando il sospetto che siano morti come effetto dell’impiego di armi chimiche. Il regime siriano, di cui è ben noto il possesso di grandi depositi di questo tipo di armi e che sarebbe difficile sospettare di scrupoli morali, nega di essere responsabile, e ritorce l’accusa sui ribelli. Ma l’accusa è resa poco credibile dal fatto che le forze anti-Assad non dispongono né di aerei né di missili, mentre le armi chimiche non si possono impiegare senza questi vettori. Per quanto riguarda il principale sospetto, d’altra parte, sorge un dubbio di natura politica: possibile che, sapendo che proprio l’impiego delle armi chimiche è stato individuato come possibile giustificazione di un intervento, il governo di Assad (che fra l’altro ultimamente non sta perdendo terreno militarmente, ma anzi appare in vantaggio rispetto ai ribelli) abbia deciso di correre il rischio di impiegare contro civili armi chimiche, fra l’altro a poca distanza dalla capitale, e anzi a pochi chilometri da dove alloggiano gli ispettori inviati dalle Nazioni Unite per indagare sulla denuncia di precedenti episodi di utilizzo di armi chimiche?

Si impone quindi un immediato chiarimento, senza aspettare i tempi lunghi che caratterizzano la burocrazia Onu, e soprattutto senza tergiversazioni da parte del governo siriano. L’intervento di Mosca, che ha esortato il suo alleato siriano a collaborare immediatamente con l’indagine, rivela tutta la drammatica urgenza della situazione.

Obama vede che ci si sta avvicinando alla sua «linea rossa», eppure ieri mattina, in una sua intervista alla Cnn, non ha fatto mistero delle sue esitazioni, quando ha detto che bisogna stare molto attenti a non buttarsi a capofitto in situazioni difficili impegnandosi in «interventi costosi» che potrebbero «aggravare nella regione i risentimenti nei nostri confronti». Ancora più esplicitamente, ha aggiunto: «Si esagera quando si pensa che gli Stati Uniti possano in qualche modo risolvere all’interno della Siria quello che è un complesso problema settario». 

Prudenza ed esitazioni che non mancheranno di far salire il tono delle critiche nei confronti di un Presidente accusato ormai apertamente di essere responsabile di una perdita di prestigio e di credibilità di un’America che, sotto la sua guida incerta, rifiuta di esercitare il proprio ruolo al vertice del sistema internazionale. 

A criticare Obama non è solo la destra repubblicana, ma anche ormai parte dei commentatori di orientamento progressista, che attaccano Obama definendo la sua politica estera come una ritirata generalizzata, soprattutto dal Medio Oriente. 

Certo, è moralmente comprensibile, di fronte agli orrori della guerra in Siria, esclamare «bisogna fare qualcosa!», ma come si fa a dire che sia ingiustificato, e sintomo di scarsa capacità politica se non addirittura di carenza di sensibilità morale, chiedersi, come fa Obama, come intervenire, con quali prospettive, con quali conseguenze?

Mai come di fronte al caso siriano è diventato importante distinguere etica della convinzione da etica della responsabilità. Seguendo l’imperativo categorico della prima, mettiamo certo a tacere la nostra coscienza, ma in fin dei conti ci laviamo le mani dalle conseguenze della nostra azione. I romani dicevano fiat justitia, pereat mundus: va fatta giustizia, anche se il mondo dovesse perire. 

Vengono in mente i criteri della «guerra giusta» – un’elaborazione etico-giuridica che ha lontani radici romane, ma che è stata sviluppata nella dottrina della Chiesa cattolica – in particolare: mancanza di mezzi diversi dalla guerra per conseguire gli stessi risultati, esistenza di serie prospettive di successo, e soprattutto il fatto che l’uso delle armi non produca danni peggiori di quelli del male che la guerra mira ad eliminare. 

Non è difficile immaginare quali siano le considerazioni che in questo momento si stanno facendo alla Casa Bianca, e anche ai più alti livelli politici nell’Unione Europea. Nessuno sembra meno perplesso, meno incerto di Obama, a parte la Francia che, in ricordo del suo passato di potenza coloniale nel Levante e probabilmente desiderosa di ripetere il suo exploit libico, non chiederebbe di meglio se non di poter dimostrare, schierandosi in prima fila contro lo spregevole dittatore siriano, di essere pur sempre una Grande Potenza. 

La Libia, appunto, dove l’intervento militare occidentale ha eliminato Gheddafi, ma dove non è arrivato in sostituzione nemmeno un simulacro di democrazia, e dove la popolazione è soggetta alla prepotenza armata delle milizie. 

Sempre nel caso libico, poi, sono emerse tutte le contraddizioni dell’applicazione concreta del principio dell’«intervento umanitario». Un intervento che è moralmente inattaccabile ed anche legalmente sostenibile – esistono precise norme internazionali contro il genocidio – laddove si verifica per proteggere civili innocenti dalle stragi di un potere assassino (come sarebbe dovuto accadere nel 1994 nel caso del Rwanda, quando quasi un milione di persone sono state sterminate senza che si ritenesse necessario intervenire), ma che certo cambia di segno quando si verifica in sostegno ad una delle parti che si confrontano in una guerra civile. In Siria non si è intervenuti all’inizio, quando Assad represse con la violenza pacifiche manifestazioni di protesta, e si dovrebbe intervenire oggi, quando nel corso di uno scontro militare vengono messi in atto (dalle due parti, anche se con ogni evidenza principalmente da chi ha strutture militari organizzate) crimini di guerra e crimini contro l’umanità. 

Sconfiggere il dittatore – fino a ieri, va detto, cordiale interlocutore dei Paesi che oggi dovrebbero contribuire a rovesciarlo militarmente – ma per sostituire il suo regime con chi e con quali forze politiche? Passare, come nell’Iraq del dopo-Saddam, da una dittatura laica ad un feroce scontro settario? Come sempre accade quando le sorti di un Paese si decidono con lo scontro militare, nello schieramento anti-Assad stanno prevalendo quelli che combattono meglio, non quelli che darebbero più garanzie per una futura Siria di pace, rispetto dei diritti umani e convivenza fra comunità: i salafiti, e un gruppo, Al Nusra, apertamente schierato con Al Qaeda. E’ concepibile che gli aerei della Nato possano fare da sostegno aereo a combattenti di Al Qaeda?

E infine, come facciamo a non chiederci quali prospettive si aprirebbero nell’intera regione se si verificasse un intervento militare occidentale? 

E allora, andiamoci piano a criticare Obama, e in particolare ad ironizzare sul suo richiamo alla necessità di un’azione della comunità internazionale condotta sul piano politico-diplomatico e non militare.

Il punto di partenza è che né Assad né i ribelli possono pensare di prevalere sul terreno militare, e di conseguenza la prosecuzione dello scontro militare può soltanto portare alla devastazione del Paese. 

Si devono coinvolgere nella soluzione gli Stati che appoggiano materialmente, e non solo politicamente, le due parti in lotta: da una parte Russia e Iran, e dall’altra Arabia Saudita, Turchia, Qatar. Solo loro, e non certo un’America e un’Europa prive di strumenti reali, potranno convincere le parti dell’inevitabile rinuncia al loro obiettivo massimo di eliminazione totale dell’avversario e accettare un compromesso, che dovrà probabilmente comportare, fra l’altro, l’uscita di scena di Assad ma non dell’attuale regime, e garanzie alle minoranze (alawiti, cristiani) che temono il prevalere delle tendenze sunnite più radicali.

Un cammino difficile, ma certo meno disastroso e in fondo più realista di quello di un’internazionalizzazione, con un intervento americano ed europeo, dello scontro militare.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/24/cultura/opinioni/editoriali/i-dilemmi-di-un-intervento-SFB8MsfKTi3zpf28Y4y3YL/pagina.html
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 01, 2013, 11:36:47 am »

Editoriali
01/09/2013

Effetto Cameron a Washington

Roberto Toscano

Nel suo difficile secondo mandato presidenziale Barack Obama si era ultimamente bloccato, a causa della vicenda siriana, su un insolubile dilemma. Da un lato, le pressioni per «fare qualcosa» di fronte all’ orrenda strage di civili con armi chimiche si erano fatte politicamente e anche moralmente insostenibili, ma dall’altro restavano sempre fortissimi i dubbi di un Presidente che è certo possibile criticare per una serie di motivi, ma che sarebbe infondato accusare di spiriti bellicosi. Anzi, non vi è dubbio che Obama ha posto fra le prime finalità della sua presidenza quella di mettere fine alle guerre di George W. Bush, e che l’idea di dare inizio a un’altra guerra nel Medio Oriente andasse contro tutti i suoi principi e i suoi programmi.

Anche se Obama aveva ultimamente tenuto a limitare le finalità di un intervento alla sola punizione di un regime internamente illegittimo e internazionalmente illegale, ormai si pensava, tuttavia, di essere inevitabilmente a poche ore di distanza da un’azione militare americana contro la Siria.

 

E invece il suo discorso di sabato 31 agosto ha riservato una clamorosa sorpresa. Obama può attendere, può rinviare un’azione di cui evidentemente riteneva di non poter fare a meno ma di cui non era affatto convinto. 

Paradossalmente, se lo ha potuto fare, annunciando che un eventuale attacco dovrà ricevere l’approvazione del Congresso (che non sarà in sessione fino al 9 settembre), è stato a causa della sconfitta politica di Cameron. Il Parlamento inglese ha infatti respinto a sorpresa la mozione governativa a favore di un intervento militare contro il regime siriano. La bocciatura parlamentare è assolutamente clamorosa, se si pensa che gli inglesi sono sempre stati al fianco degli Stati Uniti in tutti gli episodi di conflitto militare, dall’Afghanistan all’Iraq alla Libia. Cameron ne ha preso doverosamente atto, mentre il leader dell’opposizione laburista, Ed Milliband , ha dichiarato – dando così corpo ad un sentimento evidentemente diffuso nella classe politica britannica, e ancora di più nell’opinione pubblica – che l’alleanza con Washington rimane, ma «qualche volta saremo d’accordo su quello che gli americani fanno e su come lo fanno, altre volte noi faremo le cose in modo diverso». Il cambiamento è radicale, se si pensa alla storica «alleanza a due» Usa-Uk molto più reale e profonda di quella basata su qualsiasi quadro multilaterale.

 

Non è un mistero che le origini di questa presa di distanze vadano fatte risalire alla guerra in Iraq, una guerra giustificata sulla base di accuse, ben presto rivelatesi infondate, secondo cui Saddam stava per dotarsi di armi nucleari. Il capo dell’intelligence britannica scrisse in un rapporto su una sua visita a Washington alla vigilia della guerra, «qui i fatti vengono aggiustati alla politica che si è deciso di applicare». Anche se oggi gli indizi contro Assad sono meno labili di quelli che esistevano contro Saddam, non può non risultare inquietante sentire dal Segretario di Stato Kerry che Washington ha «un alto grado di fiducia» nella colpevolezza dei governativi mentre l’ipotesi che i responsabili siano invece i ribelli risulta «altamente improbabile». Siamo al di sotto di un grado di certezza che forse si imporrebbe prima di lanciare missili e bombardieri, tanto più che non è ancora pronto il rapporto degli ispettori delle Nazioni Unite che hanno investigato sul terreno. Colpisce che John Negroponte, Director of National Intelligence con Bush ai tempi della guerra in Iraq, si chieda: «Che fiducia abbiamo delle nostre informazioni? Abbiamo una base sufficiente per agire? Anche sull’Iraq eravamo sicuri, e ci siamo sbagliati».

 

Di fronte a questa presa di posizione del Parlamento britannico, diventava difficile per Obama sfidare il Congresso, dove i repubblicani avevano negli ultimi giorni chiesto al Presidente di poter decidere sull’impiego della forza militare. L’esempio del rispetto, a Londra, del potere esecutivo nei confronti del potere legislativo è giunta come una vera e propria sfida, politicamente imbarazzante per i parlamentari americani, pur storicamente usi ad una lunga acquiescenza, nonostante il dettato costituzionale, alle decisioni del Comandante in capo, il Presidente.

A giudicare dal suo discorso, Obama ha ritenuto (possiamo sospettare non senza un certo inconfessabile sollievo) di dovere accedere a questa richiesta dei repubblicani, e ha quindi, in un certo senso, demandato al Congresso la responsabilità di una scelta che non si sentiva né di compiere né di respingere. 

Si tratta però solamente di un rinvio, mentre restano, sulla vicenda siriana, numerose e forti perplessità, soprattutto un quadro indiziario che lascia ancora qualche dubbio ed interrogativi sulla legalità internazionale di un’azione militare.

 

Ma i dubbi più pesanti, gli interrogativi più drammatici, sono quelli che si riferiscono al contesto regionale e alle conseguenze di un intervento militare americano sullo scontro a più livelli attualmente in atto. Come ha scritto infatti Anthony Cordesman, del Centro Studi Strategici e Internazionali di Washington, non si tratta più di uno scontro di civiltà, bensì di uno «scontro nella civiltà», con Sunniti contro Alawiti, Sunniti contro Sciiti, e anche scontro, all’interno dei Sunniti, fra moderati e radicali.

In questo contesto, alleanze e allineamenti diventano sempre più difficilmente leggibili, e quindi ancora più pericolosamente destabilizzanti. Un aspetto particolarmente inquietante si riferisce al Libano, un Paese dagli equilibri sempre precari, con Hezbollah non solo appoggia Assad, ma combatte direttamente in territorio siriano. La risposta sunnita si è recentemente tradotta in azioni terroriste che minacciano di riaccendere lo scontro fra fazioni libanesi. 

 

Nel frattempo anche in Israele gli avvenimenti siriani non possono che creare pesanti incertezze. E’ certo allettante la prospettiva che si spezzi – con la caduta di Assad - il collegamento fra Hezbollah, l’unica vera minaccia militare per Israele, e il suo padrino iraniano. Ma gli israeliani non possono sottovalutare la prospettiva di trovarsi sulla frontiera del Golan non piu’ gli Assad, che hanno di fatto garantito lunghi anni di stabilità, ma un governo che potrebbe avere una forte, se non dominante, presenza di islamismo radicale, se non addirittura di Al Qaeda.

Infine l’Iran, anch’esso posto di fronte a dilemmi di non facile soluzione, soprattutto in questo momento di passaggio dalla presidenza Ahmadinejad a quella Rohani. Un attacco americano al suo alleato siriano non comporterebbe probabilmente un coinvolgimento militare di Teheran, ma senza dubbio rafforzerebbe le tendenze meno dialogiche, più oltranziste, rendendo molto difficile il cammino al dialogo e alla normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti che sembra caratterizzare il team fra Rohani e il suo ministro degli esteri Zarif. 

 

Ma proprio ora, se vogliamo invertire questa tendenza verso un’incontrollabile proliferazione di conflitti, dovrebbe imporsi un ben altro cammino. Quello della ricerca di una soluzione all’atroce guerra civile siriana resa possibile dall’azione che Iran e Russia da un lato, e Turchia, Arabia Saudita e Qatar dall’altro, dovrebbero esercitare rispettivamente su regime e anti-regime per spingerli ad una realistica moderazione.

Forse esiste ancora un possibile scenario positivo. Il Consiglio di sicurezza, invece di schierarsi di fatto contro una sola delle due parti in conflitto, dovrebbe imporre a entrambi i contendenti, sulla base dell’Art. 39 della Carta, un cessate il fuoco che a sua volta dovrebbe permettere la ricerca di una soluzione politica, in particolare con il rilancio dell’intesa di maggio fra Kerry e Lavrov. E’ un errore pensare che il Capitolo VII della Carta contenga solo l’ipotesi di un’azione militare (Art. 42): «fare qualcosa» e «fare la guerra» non sono affatto coincidenti, né politicamente né dal punto di vista del diritto internazionale.

 

Il rinvio dell’attacco americano fornisce quanto meno la possibilità di evitare un totale esautoramento delle Nazioni Unite, dato che comunque gli americani non attaccheranno prima che siano resi noti i risultati della missione degli ispettori Onu. Anche questo va elencato fra i risultati del rinvio. 

In ogni caso, ora o fra nove giorni, va confermato che per risolvere i dilemmi che ci presenta la crisi siriana, e che non sono solo del Presidente Obama, non dovremmo mai perdere di vista – come ha detto con chiarezza intellettuale e coraggio politico il ministro degli Esteri Bonino – due riferimenti irrinunciabili: diritto internazionale e interessi nazionali, fra cui quello di garantire pace e stabilità evitando azioni che, quale che sia la loro motivazione, rischiano di produrre ulteriori squilibri e ulteriori sofferenze umane. 

da - http://lastampa.it/2013/09/01/cultura/opinioni/editoriali/effetto-cameron-a-washington-SxuDpF6KVKqqNnkNv9FIeK/pagina.html
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 28, 2013, 04:18:17 pm »

Editoriali
26/09/2013

Obama-Rohani il dialogo ha molti nemici


Roberto Toscano

Il giorno dopo l’apertura della sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con gli attesi interventi dei Presidenti di Stati Uniti ed Iran, c’è chi si concentra non su quello che è stato detto, ma piuttosto su quello che non è avvenuto: l’incontro (che si immaginava potesse essere «casuale» e pilotato nello stesso tempo) fra Obama e Rohani. 

 

Certo, una foto vale più di molte parole per segnare una svolta politica, ma sembra di poter condividere quello che ha detto Stephen Walt, professore di Harvard, quando ha osservato che questo è il momento dello statecraft, non dello stagecraft (delle doti degli uomini di Stato e non di spettacolo) e anche il commento del Ministro degli esteri iraniano Zarif, che ha auspicato che «si smetta di comportarsi come venditori di tappeti». 

 
Ebbene, né Obama né Rohani si sono comportati come venditori di tappeti, bensì come politici prudenti ma anche disposti a rischiare per districare quel nodo di ostilità e sospetti che dal 1979 impedisce fra Stati Uniti e Iran anche quel minimo di rapporti che normalmente intercorrono anche fra Paesi radicalmente contrapposti. 

La convinzione che si tratti di disponibilità reali non la si ricava certo da una cieca fiducia nella loro ostentata buona volontà, ma dalla realistica considerazione dei loro reciproci interessi.

 

Obama, che si sta a fatica liberando dalla micidiale eredità delle guerre di Bush, non ha nessuna intenzione di scivolare nel coinvolgimento in un intervento militare contro il regime siriano, e sa che le chiavi di una soluzione negoziata a quell’atroce guerra civile, una guerra che nessuna delle due parti riesce a vincere, sono sia a Mosca che a Teheran, due Paesi che appoggiano Assad ma che perseguono finalità che vanno ben oltre il dittatore siriano. Putin non vuole rinunciare ad un’influenza russa in una Siria del post-Assad e vuole impedire, preoccupato del radicalismo islamista nel proprio territorio, una Siria in mano ai jihadisti. E l’Iran? Per l’Iran, e per il suo nuovo presidente, la partita va ben oltre la Siria e la stessa regione medio-orientale. L’Iran persegue da un lato il riconoscimento della propria legittimità politico-istituzionale e – cosa che è molto importante nella tradizionale cultura persiana -, il rispetto. Obama ha dimostrato di averlo capito, quando nel suo discorso ha escluso esplicitamente che l’America persegua un cambio di regime in Iran e, parlando della questione nucleare, ha definito la sua soluzione «un passo essenziale sulla strada di un rapporto diverso, basato su interessi reciproci e sul mutuo rispetto». Ma, e qui le cose si complicano, l’Iran, oltre ad una normalizzazione dei rapporti internazionali indispensabile per la propria economia, ambisce anche ad essere riconosciuto come importante potenza regionale. Lo ha detto in modo non ambiguo Rohani, quando ha deplorato «gli sforzi tesi a privare soggetti regionali del loro naturale campo d’azione». 

 

Paradossalmente non è sulla questione nucleare che Obama e Rohani troveranno gli ostacoli maggiori ma sulla questione medio-orientale nel suo complesso, su quel «campo d’azione» rivendicato dall’Iran che qualcuno ritiene tutt’altro che naturale, e comunque inaccettabile.

 

Sarebbe fare un torto agli israeliani ritenere che davvero credano che l’Iran ha tendenze suicide da realizzare con lo sviluppo di ordigni nucleari e il loro uso per la distruzione di Israele (fra l’altro sterminando insieme ebrei e palestinesi, e distruggendo uno dei luoghi più sacri dell’Islam, Gerusalemme/Al Quds). La loro vera preoccupazione è che la normalizzazione dei rapporti Washington-Teheran faccia uscire gli iraniani dall’attuale isolamento, permettendo loro di fare sentire il loro peso nella regione sul piano politico e diplomatico, e non solo – come ora – con l’appoggio a Hezbollah, strumento importante ma limitato. In questo gli israeliani sono del tutto allineati con i sauditi, impegnati in una partita globale che arriva fino al Pakistan a sostenere con fondi, operazioni di intelligence e aiuti militari una vasta offensiva sunnita contro lo sciismo e in particolare lo sciismo impiantato su base statuale in Iran e Iraq. Un’offensiva apparentemente religiosa, ma che in realtà riflette obiettivi di natura geopolitica. 

 

Anche senza la stretta di mano, la partita Iran-Usa si è comunque aperta, e nei prossimi giorni prenderà corpo in un negoziato sul nucleare che finalmente vedrà gli americani (in concreto con un faccia-a-faccia Kerry-Zarif) impegnati nella ricerca di una soluzione che non potrà se non riproporre l’unico schema possibile: riconoscimento del diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio ma con limitazioni quantitative e con l’applicazione di forme di controllo ed ispezione internazionale particolarmente stringenti.

 

Ma sono in troppi i soggetti che temono la normalizzazione Usa-Iran: Israele, con Netanyahu che parla di Rohani come «lupo vestito da agnello» e traccia improbabili paralleli Iran-Nord Corea, l’Arabia Saudita, disgustata da quella che ritiene l’imperdonabile ingenuità del presidente americano e pretenderebbe invece il suo appoggio a una sistematica politica di rollback di iraniani, sciiti, Fratelli Musulmani.

 

E vi è poi il Congresso americano, dove Obama troverà, nel suo intento di risolvere la questione iraniana senza il ricorso alla forza (da notare l’assenza nel suo discorso all’Onu dell’ormai canonico riferimento al fatto che «tutte le opzioni rimangono sul tavolo») tante ostilità quanto quelle che deve affrontare per la realizzazione del suo programma in politica interna.

 

Da ultimo, ma non meno pericoloso, è il potenziale sabotaggio che può venire dalle correnti più radicali all’interno della Repubblica Islamica. Come ha scritto ieri un iraniano-americano, «i lupi di Teheran si sono forse ritirati nelle loro tane, ma restano pronti a saltare addosso a Rohani appena commetterà un primo passo falso».

 

Anche il regime iraniano, come il sistema americano, si presenta con due possibili registri. L’aquila che simboleggia la Repubblica americana è raffigurata con un ramoscello d’ulivo in una zampa e un fulmine nell’altra. Per la Repubblica islamica, invece, il riferimento tende ad essere religioso, ma si articola anch’esso su un’alternativa binaria. È molto singolare ed interessante, che – per interpretare la frase del Leader Supremo sulla necessità di applicare in questa fase «una flessibilità eroica» – si sia risaliti al VII secolo e al secondo imam sciita, Hassan che, come narrato in un libro tradotto dall’arabo dallo stesso Khamenei, accettò per il bene della causa sciita un compromesso con i nemici, ovvero quelli (sunniti) che si opponevano alla successione al Profeta per discendenza familiare e sostenevano il tradizionale metodo di elezione tribale.

 

Ma Hassan venne poi ucciso, e il fratello Hossein, terzo imam sciita, scelse invece di combattere anche se in condizioni di disperata inferiorità e fu sconfitto e ucciso nella battaglia di Karbala – tragico e mitico evento fondatore dello sciismo che viene ricordato dai fedeli nella annuale rievocazione dell’Ashura con un dolore sempre rinnovato. Kayhan, quotidiano ultraconservatore molto vicino a Khamenei, ammonisce: «Oggi nessuno è in grado di imporre al mondo islamico la pace che Hassan accettò allora. E se cercheranno di esercitare troppe pressioni, si tornerà a Karbala».

 

Dialogo e compromessi sono sia necessari che possibili. Ma non sarà un percorso facile, né per Barack Obama né per Hassan Rohani.

da - http://lastampa.it/2013/09/26/cultura/opinioni/editoriali/obamarohani-il-dialogo-ha-molti-nemici-jET61QO6DnaXWf3Q1g5HPL/pagina.html
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 06, 2013, 12:29:55 am »

EDITORIALI
05/10/2013

Le nostre responsabilità

ROBERTO TOSCANO

Ieri è stata la giornata del dolore e della vergogna, e forse avrebbe dovuto essere anche quella del silenzio della umana pietas. 
Da oggi siamo chiamati, tutti, a trasformare la nostra attonita pietà in una presa di coscienza attiva delle nostre responsabilità. 
Il realismo che ci dice che l’ecatombe di Lampedusa è stata prodotta da un sistema non solo immorale, ma anche irrazionale e insostenibile. 
Come si fa infatti a pensare che il mondo possa procedere senza crescenti disastri, atrocità e violenze se non verranno corrette le contraddizioni e le disarmonie che sempre più lo caratterizzano?
Vi è chi cerca di essere ottimista e sottolinea che, ad esempio, la povertà assoluta interessa oggi uno su cinque abitanti del mondo, mentre nel 1980 ne colpiva uno su due. Vero, ma le migrazioni dei disperati – se pensiamo al solo fattore economico – non sono direttamente proporzionali alla povertà assoluta, quanto piuttosto alla disuguaglianza. E la disuguaglianza, pure laddove si registra una crescita del Pil e un aumento delle aspettative di vita, non è in diminuzione, bensì in aumento, sia all’interno dei singoli Paesi che a livello internazionale.
E non si tratta solo di povertà. Anzi, se vogliamo davvero capire perché si rischia la vita per approdare sulle coste del mondo sviluppato, dobbiamo renderci conto che la vera ragione di questo tragico fenomeno va ricercata nella violazione dei diritti umani. L’emigrazione economica esiste di certo, e si regge appunto sul funzionamento delle leggi dell’economia: per fare un solo esempio, dal momento dell’inizio della crisi economica globale si è registrata un’inversione del flusso migratorio dall’America Latina alla Spagna. Se non c’è lavoro, gli «immigrati economici» non arrivano o ritornano ai propri Paesi d’origine.
Ma come si fa a dimenticare quelli che, dall’Afghanistan alla Siria, fuggono dalla guerra? E poi, abbiamo presente come si vive in Somalia, da dove veniva buona parte delle vittime di Lampedusa? Da oltre vent’anni non esiste uno Stato somalo, e il Paese è in balia di milizie e gruppi criminali. Chi fugge dalla Somalia non vuole vivere meglio, vuole vivere. E vuole che i propri figli abbiano una scuola e non siano esposti agli orrori dell’anarchia, regno dei violenti e dei corrotti di solito molto più atroce, per la gente comune, di una dittatura.
Sarebbe ora di prendere atto del fatto che i diritti umani, secondo principi e norme ormai universalmente riconosciuti, non si riferiscono soltanto alla libertà politica o religiosa, ma anche a una serie di livelli minimi in campo economico e sociale.
E la nostra responsabilità?
E’ nella nostra parte del mondo che vengono prese le decisioni fondamentali, sia economiche che politiche, che determinano il quadro globale in cui proliferano le distorsioni , le ingiustizie, le violenze. Ma se è legittimo discutere sull’entità della nostra colpa «attiva» diventa impossibile farlo se spostiamo il discorso sulle colpe di omissione. Basti pensare alla drastica riduzione delle risorse che i Paesi sviluppati stanziano per l’aiuto allo sviluppo. E’ vero infatti che la vera soluzione del problema che oggi stiamo drammaticamente registrando dovrebbe risiedere nell’estensione dello sviluppo economico ai Paesi e alle regioni meno sviluppate. Non si tratta solo di entità delle risorse, bensì anche – e probabilmente soprattutto – di come queste risorse vengono impiegate, e a beneficio di chi. Purtroppo la cinica definizione secondo cui l’aiuto allo sviluppo comporta «trasferire i soldi dei poveri dei Paesi ricchi (prelevati con le tasse) ai ricchi dei Paesi poveri» ha un suo tragico fondamento, se pensiamo che la corruzione che i donatori troppo spesso, per convenienza politica o economica, non contestano comporta la scandalosa appropriazione da parte di cricche al potere di risorse che dovrebbero essere destinate a venire incontro alle esigenze degli strati sociali più svantaggiati. 
E’ certo vero che non si possono accogliere tutti quelli che cercano disperatamente di sfuggire alla non-vita della violazione dei diritti più fondamentali (primo fra tutti quello di far vivere la propria famiglia, i propri figli), ma si tratta di un’obiezione capziosa, se non indecente.
Visto che non possiamo fare tutto, sarebbe quindi giustificato non fare niente, non fare meglio, molto meglio?
Nel nostro caso, dobbiamo certo stare attenti a non pensare di scaricare le nostre responsabilità dicendo «ci pensi l’Europa», ma anche l’Unione Europea non può scaricare le sue responsabilità sull’Italia, tanto più se si pensa che l’Italia non è, per la maggior parte di chi cerca di sbarcare sulle nostre coste, la destinazione ultima, ma solo il transito verso altri Paesi Ue. In teoria la nostra frontiera è la frontiera dell’Unione, ma da questa realtà non sembra si stiano ancora traendo tutte le logiche conseguenze dal punto di vista sia normativo che operativo. E’ legittimo che l’Italia lo pretenda.
Ma è difficile non essere pessimisti, vi è sempre più chi cerca la legittimazione della politica prevalentemente sul piano della sicurezza e della tutela dei «nostri» contro «gli altri», degli autoctoni contro gli stranieri. E’ appena uscito un importante studio di Demos, un centro studi britannico, che ha il titolo:
Backsliders. Measuring Democracy (Regressioni. Misurare la democrazia) dove si passano in rassegna i segnali secondo cui in numerosi Paesi europei si registrano crescenti difficoltà per lo stesso mantenimento di quelle conquiste democratiche che erano fino a poco tempo fa considerate come definitivamente acquisite. Si registra addirittura, ormai in molti Paesi, il montare, sulla base della retorica anti-immigranti, della xenofobia e addirittura di partiti apertamente razzisti, premessa – ce lo insegna la storia – di derive antidemocratiche. 
I poveri morti di Lampedusa ci chiamano moralmente in causa, ma anche ci ammoniscono sul nostro stesso futuro.

Da – lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 23, 2013, 04:28:43 pm »

Editoriali
23/11/2013

La frattura che si allarga nell’Islam

Roberto Toscano

Non vi è dubbio che l’Islam sia oggi percepito in Occidente in chiave di minacciosa conflittualità, e – per alcuni - addirittura di sfida globale alla pari di quella che per gran parte del secolo scorso era costituita dal comunismo sovietico. Vi sono molte semplificazioni in questa tesi, soprattutto in quanto essa presuppone, arbitrariamente, l’esistenza di un Islam non solo unificato, ma compatto sulle posizioni più militanti.

La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti.

E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi.

Per secoli, e con poche eccezioni, gli sciiti sono stati non solo numericamente minoritari, ma anche perseguitati e oppressi dalla maggioranza sunnita, socialmente svantaggiati e discriminati, i perpetui sconfitti. La loro identità religiosa, e prima ancora culturale, è basata appunto su una sconfitta (la battaglia di Karbala, mitica per gli sciiti come per i serbi lo è un’altra sconfitta, quella della battaglia di Kossovo Polje), sul rifiuto dell’ingiustizia e la contrapposizione al potere. I sunniti da parte loro hanno sempre dato per scontato di essere detentori dell’ortodossia islamica contro l’eresia della religione sciita, considerata deviante per la sua fondamentale ispirazione messianica (l’attesa del ritorno del Dodicesimo Imam), la presenza, ignota al sunnismo, di un clero strutturato gerarchicamente e il culto per una varietà di santi e martiri che dall’ortodossia sunnita viene considerato una deviazione dal rigoroso monoteismo dell’Islam. 

La rivoluzione khomeinista del 1979 ha riportato la contrapposizione fra sciiti e sunniti alla sua prima, e primaria, radice politica. Una rivoluzione certo, ma anche un ritorno, dopo la parentesi laica e «occidentalizzante» della dinastia Pahlevi, allo sciismo come religione di Stato introdotta in Persia nel Cinquecento dalla dinastia safavide.

 Lo «sciismo al potere» – e per di più nella Persia, un Paese di cui gli arabi hanno storicamente temuto le costanti pulsioni egemoniche – ha da allora costituito una sorta di scandalo, un’anomalia che a distanza di oltre trent’anni i sunniti, e in primo luogo l’Arabia Saudita, continuano a ritenere inaccettabile.
Ma cosa spiega oggi la recrudescenza di questa contrapposizione che si sta riproducendo con estrema violenza dal Libano al Pakistan?

Il punto di rottura è stata la caduta, nel 2003, di Saddam Hussein e l’instaurazione di un governo sciita a Baghdad. Se infatti lo spegnersi della spinta rivoluzionaria dell’Iran khomeinista aveva aperto una possibilità di «modus vivendi» con il mondo sunnita, e in primo luogo i sauditi, è stata la «perdita dell’Iraq» che ha fatto scattare una sorta di allarme rosso.

Non si tratta di religione, certo. Quello di Saddam era un regime sostanzialmente laico, ma era visto come un baluardo contro l’Iran, che il dittatore iracheno aveva anche cercato di sconfiggere nella lunga guerra degli Anni 80.

Che i sauditi non abbiano mai accettato che in Iraq ci fosse un governo che rappresentava la maggioranza sciita del Paese viene dimostrato dal fatto che non abbiano mai aperto un’ambasciata a Baghdad. La democrazia non è certo un criterio. Per i sauditi, sia si tratti dell’Iraq che del Bahrein, il fatto che gli sciiti siano una maggioranza non implica che sia accettabile che governino.

E’ importante sottolineare che lo scontro sunniti-sciiti, pur non essendo certo unilaterale, è oggi doppiamente asimmetrico. Da un lato infatti è l’Arabia Saudita ad essere palesemente all’attacco, con il sostegno ai gruppi sunniti più radicali, dagli jihadisti che cercano di rovesciare Assad ai Talibani (e l’ostilità invece agli islamisti sunniti più moderati, come i Fratelli Musulmani in Egitto), mentre l’Iran si accontenta oggi di difendere uno status quo che ha come punti fondamentali, oltre al governo Maliki in Iraq, la Siria di Assad e Hezbollah in Libano. Dall’altro va detto che, a differenza dalla rivendicazione saudita della leadership del sunnismo, la dimensione sciita è tutt’altro che centrale nella strategia dell’Iran, che punta invece su alleanze che non hanno necessariamente a che vedere con le affinità religiose: Assad è un dittatore laico e gli alawiti sono una setta solo lontanamente collegata allo sciismo; Teheran appoggia Hezbollah, sciita, ma anche Hamas, sunnita. Per i sauditi, a differenza dagli iraniani, è il radicalismo religioso ad essere veicolo e strumento ideologico di una strategia politica – e geopolitica. 

La lotta è sempre più senza esclusione di colpi, e minaccia in particolare di estendersi dalla Siria al Libano. 

Gli iraniani, lasciandosi andare ad un riflesso condizionato o piuttosto ad uno scontato intento propagandistico, hanno accusato Israele di essere dietro all’attentato alla loro ambasciata a Beirut, ma gli osservatori più attenti ritengono che la pista porti in un’altra direzione, quella dei servizi sauditi.

Certo, quello che è clamoroso è che, in questa fase in cui l’Iran cerca di percorrere la via diplomatica per superare un isolamento ormai insostenibile sia politicamente che economicamente, i sauditi si trovino ormai in totale sintonia con Israele, anche nella violenta irritazione nei confronti di Washington, da loro accusata di eccessiva disponibilità nei confronti di Teheran.

 

In realtà quello che traspare, nelle posizioni saudite, è un’insicurezza di fondo causata non solo dalle incertezze dell’alleato americano, ma anche dalle prospettive in campo energetico (l’avvicinarsi degli Stati Uniti all’autosufficienza energetica avrà di certo una pesante ripercussione, e non solo di natura economica, su Riad) e anche da equilibri interni che sarebbe difficile ritenere immutabili, soprattutto per il fattore generazionale e per una strisciante evoluzione culturale che mette sempre più in crisi il rigido controllo tradizionalista su politica e costumi. 

Senza questa incertezza, la «minaccia persiana» potrebbe essere ridimensionata e gestita dai sauditi sulla base di un combinazione di dialogo e «containment» e di una diplomazia attiva ed agile che dovrebbe sostituire l’inquietante bandiera della leadership dell’Islam sunnita.

Sarebbe questa, assieme ad una per quanto graduale democratizzazione interna, la vera modernizzazione di un Paese che dovrebbe costruire il proprio futuro, invece di temerlo.

Da - http://lastampa.it/2013/11/23/cultura/opinioni/editoriali/la-frattura-che-si-allarga-nellislam-5clyCU5caSbapukjpW2vIL/pagina.html
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 19, 2014, 05:57:09 pm »

Editoriali
19/01/2014

Le critiche sbagliate a Obama
Roberto Toscano

Le critiche al presidente Obama sembrano diventate negli Stati Uniti uno sport molto popolare. Lo criticano i progressisti, delusi da una performance presidenziale molto al di sotto delle entusiasmanti promesse che avevano caratterizzato la sua prima campagna elettorale. Lo criticano soprattutto i conservatori, secondo cui Obama sarebbe in politica interna un pericoloso liberal (anzi, un socialista) e in politica estera un debole paragonabile a Carter, per di più impegnato a diminuire la potenza dell’America attraverso l’abbandono del suo ruolo imperiale.

Oggettivamente la delusione dei progressisti non può tanto riferirsi a quello che Obama ha effettivamente realizzato come presidente. La sua risposta alla crisi economica, certo a lui non imputabile, non solo è stata sostanzialmente efficace, ma è stata basata su misure espansive, e addirittura su provvedimenti di temporanea nazionalizzazione, piuttosto che sull’austerità che ha caratterizzato le politiche anticrisi in Europa. E, quali che siano stati i compromessi sul piano legislativo e gli errori emersi in fase di applicazione della riforma della sanità, resta pur vero che Obama ha saputo tradurre in realtà l’antica aspirazione progressista di garantire una copertura a tutti i cittadini americani.

L’equivoco dei progressisti è stato quello di non capire chi fosse in realtà Barack Obama. Obama è un autentico liberal dal punto di vista ideologico, ma come persona è un centrista, nel senso che il suo modo di intendere non solo la politica in generale, ma il suo stesso ruolo di Presidente, è centrato sulla sistematica ricerca del consenso, di un punto intermedio fra posizioni contrastanti. Tutti gli inquilini della Casa Bianca hanno sempre retoricamente proclamato di voler essere «i Presidenti di tutti gli americani». Obama ci crede davvero. 

La disgrazia per lui è quella di trovarsi di fronte un’opposizione ben diversa da quella con cui avevano avuto a che fare i suoi predecessori democratici, cioè un partito repubblicano sottoposto all’egemonia del radicalismo del Tea Party, e come conseguenza un Congresso in cui la ricerca di compromessi bi-partisan, un tempo normali nella prassi parlamentare americana, è diventata praticamente impossibile. 

E vi è di più. Il segreto inconfessabile è che nei confronti di Barack Obama esiste un’ostilità profonda dovuta non solo alla politica (in quanto liberal, per molti americani un epiteto che squalifica) e alla cultura (è senza dubbio un intellettuale, categoria tradizionalmente impopolare), ma anche e forse soprattutto alla razza. Qualche tempo fa, in un’intervista pubblicata sulle pagine di questo giornale, lo scrittore Paul Auster diceva: «Non ho mai visto un odio così ottuso contro un Presidente».

Proprio così, al punto che Obama viene considerato da molti americani non solo inaccettabile politicamente, ma addirittura illegittimo. Il 20 per cento degli americani è convinto che sia musulmano, e una percentuale analoga pensa, nonostante i documenti anagrafici, che non sia nato negli Stati Uniti e quindi non avrebbe potuto diventare Presidente. 

Il paradosso del rigetto di Obama sulla base del pregiudizio razziale è dato dal fatto che sarebbe davvero difficile dire che la sua presidenza si stia caratterizzando per un’impronta, o una sensibilità, «afro-americane». Obama in realtà non è un african-american, ma piuttosto è africano e americano, essendo figlio di un keniota immigrato negli Stati Uniti per ragioni di studio e di un’americana bianca. Non lo è soprattutto culturalmente, essendo stato cresciuto dalla madre e dai nonni materni, che lo chiamavano Barry. La comunità nera degli Stati Uniti, pur entusiasta per la sua elezione alla Casa Bianca, non lo sente epidermicamente come un brother (a differenza da come viene vista Michelle, autentica e calorosa sister) e forse ha qualche inconfessata nostalgia per Bill Clinton che, per la sua straordinaria sintonia ed empatia con gli afro-americani, era definito «il primo presidente nero».

Le critiche principali nei confronti di Barack Obama si riferiscono alla politica estera, e anche in questo caso accomunano, seppure con valenze di segno opposto, sinistra e destra. Per quanto riguarda il campo progressista, sarebbe difficile negare che Obama ha mantenuto la promessa di mettere fine alle disgraziate iniziative militari di George W. Bush. Gli americani si sono effettivamente ritirati integralmente dall’Iraq e stanno per farlo, anche se non è ancora chiaro in che misura, dall’Afghanistan. Ma la svolta rispetto agli anni di Bush è ben lungi dall’essere completa. Guantanamo, nonostante le promesse di Obama, rimane in funzione, certo per l’opposizione del Congresso, ma anche per lo scarso vigore del Presidente nel portare avanti il progetto di chiusura. I droni continuano a volare e a colpire (ormai con un bilancio che ascende a varie centinaia di morti, fra cui non pochi civili innocenti) dall’Afghanistan allo Yemen. E che dire poi del sistema di intercettazione delle comunicazioni, un sistema indiscriminato, indifferente ai limiti della privacy, diretto non solo contro potenziali terroristi ma a 360 gradi, anche nei confronti di Paesi amici e dei loro massimi leader?

Su questo va detto che Obama ha due giorni fa preannunciato una serie di misure tese a limitare il sistema di intercettazioni, prendendo atto così dell’ineludibile impatto delle rivelazioni di Snowden, che quindi non è forse un criminale, ma qualcuno che, pur violando la legge, ha sollevato un problema reale ed indotto il sistema a riformarsi.

Le critiche più radicali si riferiscono alla politica estera nei confronti del mondo arabo-islamico. In primo piano troviamo quella che è oggi la partita più importante: la trattativa sulla questione nucleare iraniana, un tema su cui in Senato è emersa una bi-partisanship anti-Obama, con un numero di senatori democratici che, sensibili alle pressioni israeliane (e della potente Aipac), potrebbero votare con i repubblicani per introdurre, con effetti devastanti sulla trattativa, nuove sanzioni. 

Sull’Afghanistan, di fronte alle cupe prospettive che si aprono in vista del ritiro degli americani e degli altri contingenti Isaf, si accusa Obama di essere tentato dalla «opzione zero», ovvero da un ritiro totale. 

In Iraq, la recrudescenza – ai limiti della guerra civile – della contrapposizione sunniti-sciiti suscita numerose critiche rivolte ad un ritiro affrettato che ha lasciato spazio ad un inquietante rilancio della presenza di Al Qaeda.

Critiche pesanti anche nei confronti della politica nei confronti dell’Egitto, dove Obama viene da alcuni accusato di avere abbandonato troppo precipitosamente l’alleato Mubarak e di avere commesso l’errore di una sostanziale apertura di credito nei confronti di quei Fratelli Musulmani che erano sembrati l’unico passaggio verso una democratizzazione del Paese, rivelandosi poi sia autoritari che inetti.

Durissime anche le critiche – in questo caso provenienti, in modo del tutto convergente, dal campo liberal e da quello conservatore – per quella che viene considerata un’ingiustificabile passività nei confronti della tragedia senza fine di una Siria dilaniata, con i liberal che denunciano l’insensibilità nei confronti della tragedia umanitaria e i conservatori che accusano Obama di permettere la sopravvivenza del tiranno Assad e di conseguenza il trionfo del suo padrino, il regime iraniano, e di Hezbollah.

Le incertezze non sono certo mancate, eppure i critici di Obama non sembrano in grado di offrire un’alternativa credibile e sostenibile alla sua politica. L’unipolarismo americano e la pretesa di imporre con lo strumento militare la propria politica ovunque, erano una nefasta illusione, dato che i nodi politici che caratterizzano l’area che va dall’Afghanistan al Nord Africa non possono certo essere sciolti dall’esterno. Quanti anni ancora di occupazione americana sarebbero stati necessari per creare un Iraq stabile e pluralista o un Afghanistan con stato di diritto e democrazia?

Obama sta soltanto prendendo atto del fatto che non esiste alternativa ad una diplomazia che conta anche su elementi di potenza, sia militare che economica, ma che deve anche riconoscere i limiti, e valutare con realismo le prospettive di successo, i prezzi da pagare, la sostenibilità delle strategie. 

Si può essere d’accordo con Graham Fuller, già vice del National Intelligence Council della Cia, che ha scritto recentemente sul New York Times: «Può darsi che la presunta debolezza di Obama e le sue incertezze non siano se non il primo barlume di saggezza nell’oscuro tunnel delle disastrose politiche che hanno caratterizzato i decenni trascorsi da quando abbiamo raccolto un calice avvelenato – quello di essere la sola superpotenza mondiale».

Da - http://lastampa.it/2014/01/19/cultura/opinioni/editoriali/le-critiche-sbagliate-a-obama-D2U3BjoxTIEr5AI6SYQpcM/pagina.html
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 19, 2014, 11:42:44 am »

Editoriali
19/02/2014 - il caso dei due marò
Italia e India, la tempesta perfetta

Roberto Toscano

Il ministro Bonino richiama per consultazioni, dopo l’ennesimo rinvio da parte della magistratura indiana, il nostro ambasciatore a Delhi - gesto che nella prassi diplomatica segna un netto inasprimento del clima fra Italia e India. Se avevamo finora pensato che l’interesse di entrambi i Paesi a preservare buone relazioni in campo sia politico che economico avrebbe potuto/dovuto facilitare una soluzione non traumatica del caso marò, oggi si profila la concreta possibilità che, al contrario, il caso si ripercuota sul piano generale dei rapporti fra i due Paesi con pesanti conseguenze negative per entrambe le parti.

Potremmo certo elencare, a questo punto, tutti gli errori commessi, a partire da quel disgraziato ingresso della petroliera «Enrica Lexie» nel porto indiano dopo l’incidente, e anche le occasioni mancate, come il rinvio a giudizio davanti a un tribunale italiano dei nostri due militari, cosa che avrebbe fornito una base giuridica difendibile alla decisione di non rimandarli in India dopo il «permesso» su cauzione a recarsi in Italia.

Se però il caso è diventato una terribile tempesta perfetta, le ragioni non vanno ricercate soltanto in un insieme di decisioni e comportamenti rispetto ai quali si giustifica una lucida autocritica.

Ma piuttosto in una serie di fattori che da noi non dipendono e che hanno determinato in via principale lo sfavorevolissimo quadro in cui la nostra diplomazia ha dovuto operare. Partiamo dal modo di rapportarsi dell’India al resto del mondo, centrato su un concetto di sovranità ombroso e ottocentesco che deriva da una combinazione di orgoglio nazionale, tipico di un Paese di antichissima cultura e recente indipendenza, e dell’insicurezza derivante da debolezze strutturali (dalle infrastrutture alla burocrazia alle tensioni fra diverse comunità) che contraddicono le sue grandi e per altri versi giustificate ambizioni. 

Anche i nostri giornali hanno parlato del recente episodio dello scontro frontale con gli Stati Uniti in relazione ai guai giudiziari di una console indiana a New York, fermata dalla polizia dopo la denuncia di una collaboratrice domestica indiana, apparentemente sfruttata in contraddizione con gli impegni assunti con le autorità di immigrazione al momento della richiesta del visto. In rappresaglia il governo indiano ha sottoposto l’Ambasciata degli Stati Uniti a Delhi a vere e proprie angherie capaci addirittura di indebolire la sicurezza dei diplomatici americani. Il caso si è risolto quando gli americani – pur non rinunciando all’azione sul piano giudiziario - hanno fatto un passo indietro permettendo alla funzionaria indiana di lasciare il Paese.

Si potrebbe a questo punto suggerire alle nostre autorità di intraprendere, visto che quella del dialogo si è rivelata infruttuosa, la via delle ritorsioni, fra l’altro messa in atto dagli indiani stessi quando reagirono alla decisione, poi rientrata, di non rimandare i marò in India sequestrando di fatto, contro ogni norma internazionale, il nostro ambasciatore a Delhi. Non è ben chiaro, tuttavia quali ritorsioni potrebbero essere messe in atto: quando ad esempio si parla della possibilità di bloccare gli accordi in campo commerciale dell’Unione Europea con l’India si trascura il fatto che gli interessi in gioco sono probabilmente più europei che indiani, di modo che non sembra molto logico minacciare azioni che danneggerebbero più la parte europea che quella indiana.

I dubbi principali sull’esito di eventuali ritorsioni riguardano però la politica indiana. Le ritorsioni servono, per definizione, a introdurre un disincentivo all’intransigenza e a indurre l’interlocutore ad una maggiore flessibilità. Il problema è che il Partito attualmente al governo, il Congress Party, è paralizzato dal fatto che al suo vertice siede «l’italiana», una Sonia Gandhi che ritiene per ragioni politiche di non potere dare alcun segnale di indulgenza nei confronti dell’Italia. Questo non solo per evitare eventuali dubbi sulla sua scelta di diventare indiana (dubbi che, dopo la sua lunga, totale dedizione al Paese di adozione sembrerebbero facili da accantonare), ma per non riaprire una vecchia questione, quella del «caso Bofors», una storiaccia di corruzione per forniture militari in cui le accuse principali pesavano su un faccendiere italiano, tale Quattrocchi, notoriamente intimo della coppia Rajiv-Sonia. Vecchia questione, peraltro richiamata da un più recente scandalo italo-indiano, quello delle accuse rivolte a Finmeccanica di avere ottenuto un’importante commessa per la fornitura di elicotteri pagando consistenti tangenti. 

Ma vi è di più, e di peggio. Un caso come quello dei marò apre lo spazio, da noi come in India, per accese campagne nazionaliste certo poco favorevoli a compromessi, dato che si ritiene sia in gioco l’onore nazionale, e non solo le concrete sorti delle persone coinvolte. 

Anche se in India le notizie sul caso non occupano le prime pagine dei giornali, va detto che sembra difficile pensare che l’attuale governo possa permettersi di apparire come poco determinato nel difendere le posizioni indiane su un caso internazionale in una fase, come quella attuale, di campagna elettorale, per di più con uno sfidante come Narendra Modi, iper-nazionalista e anche più radicale del mainstream del suo partito, il BJP. 

Dietro i ripetuti rinvii indiani non vi è quindi soltanto il cattivo funzionamento di una macchina giudiziaria anche peggiore di quella di cui noi ci lamentiamo nel nostro Paese, ma anche la speranza di poter rimandare a dopo le elezioni una decisione che inevitabilmente risulterebbe, se aperta alle tesi italiane, attaccabile sul piano politico interno o, se fondata invece sull’intransigenza, costosa sotto il profilo dei rapporti con l’Italia e in parte anche con l’Unione Europea.

E allora? Nessuna prospettiva, nessuna strategia che abbia una qualche possibilità di successo?

Sembra a questo punto difficile che l’India rinunci alla propria giurisdizione riconoscendo l’«immunità funzionale» degli accusati in quanto militari in servizio (immunità che la nostra Cassazione riconobbe al militare americano che aveva causato la morte a Baghdad del funzionario dei nostri servizi, Nicola Calipari) e quindi sembra restare solo la via della «internazionalizzazione» della questione. Per questo motivo non sembra opportuno focalizzare la nostra azione contro l’applicazione del SUA Act, che in realtà potrebbe risultare utile proprio per una possibile internazionalizzazione. Il SUA Act indiano è stato infatti emanato in applicazione di un Convenzione internazionale firmata a Roma nel 1988 («Suppression of unlawful acts against maritime navigation»). Un trattato internazionale che, pur essendo applicabile a casi di terrorismo, è in realtà molto più ampio, dato che si rivolge a qualsiasi «atto illegale» compiuto in violazione della libertà di navigazione marittima. Tutti gli atti di terrorismo sono «atti illegali», ma non tutti gli «atti illegali» sono terrorismo. È sulla interpretazione e applicazione dei trattati internazionali (e non del diritto penale di un qualsiasi Paese) che è infatti possibile percorrere i terreni dell’arbitrato obbligatorio e della pronuncia di un tribunale internazionale.

Il problema in questo caso sarebbero comunque i tempi, certo non rapidi una volta avviato un procedimento internazionale. Non sarebbe accettabile prolungare ulteriormente la situazione di «domicilio coatto», in cui già da troppo tempo sono mantenuti i nostri due militari senza che, paradossalmente, siano stati formulati precisi capi di accusa nei loro confronti.

Da - http://lastampa.it/2014/02/19/cultura/opinioni/editoriali/italia-e-india-la-tempesta-perfetta-TCiicqillXbNumxRX1hpHJ/pagina.html
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 24, 2014, 07:07:19 pm »

Articolo tratto dall'edizione in edicola il giorno 23/02/2014.
Un’agenda dall’Europa ai Balcani

La mancata conferma, contro le previsioni della vigilia, di Emma Bonino al vertice della politica estera italiana è stata certamente una sorpresa, e non fra le più gradite. 

Ci mancheranno di certo la sua esperienza e gli ottimi contatti stabiliti da lungo tempo con i principali interlocutori politici in Europa e nel mondo. 

Diciamo pure che nel campo della politica estera non si sentiva il bisogno, comprensibile in altri settori dell’attività di governo, di discontinuità.

E tuttavia, in una fase politica in cui anche gli scettici non hanno alternative alla speranza, faremmo bene a non sottovalutare chi è stato chiamato a sostituirla, Federica Mogherini. Non si tratta soltanto del suo curriculum, della sua preparazione, ma anche di quella sensibilità ed equilibrio che, soprattutto in una fase di crisi multiple come quella attuale, sono altrettanto essenziali dell’esperienza. Vale la pena a questo riguardo andare a vedere, o rivedere, il suo blog, dove ad esempio troviamo interventi sugli eventi di queste ultime settimane, dalla crisi ucraina al referendum svizzero – interventi da cui si intravede quella combinazione di passione e prudenza che sono indispensabili per operare nel campo delle relazioni internazionali. 

La prova, comunque, non sarà facile. Le sfide, complesse e pesanti.

Prima fra tutte, quella di rivendicare il giusto spazio per la politica estera all’interno delle attività del governo. Paradossalmente, in un momento in cui i meccanismi della globalizzazione fanno sì che buona parte delle condizioni reali in cui si svolge la nostra vita concreta vengono determinate al di fuori dei nostri confini, la politica italiana riserva alle questioni internazionali uno spazio quasi residuale. Basta vedere quanti (pochi) politici abbiano competenze internazionali, senza parlare della conoscenza delle lingue, e quante (poche) risorse vengano assegnate alla politica estera. Il più difficile dei negoziati per i nostri Ministri degli esteri è spesso quello che si svolge in sede di Consiglio dei ministri.

Ma quali sono le priorità di politica estera che la nuova ministra dovrà affrontare?

Cominciamo ovviamente dall’Europa, riferimento assolutamente primario, decisivo, essenziale. Non si tratta soltanto delle questioni strettamente comunitarie, del permanente negoziato che si svolge a Bruxelles, ma della politica estera in senso proprio. 

Pensiamo ad esempio – ed ecco una delle sfide più attuali anche per l’Italia – alla crisi ucraina. L’Unione Europea non può offrire oggi all’Ucraina né una concreta prospettiva di adesione né un aiuto economico sufficiente a far fronte alle sue disastrate condizioni. Eppure se si riuscirà a fermare la corsa del Paese verso il precipizio della guerra civile o addirittura di una frammentazione territoriale questo avverrà soltanto grazie al determinante ruolo della diplomazia europea. Una diplomazia in un certo senso classica, fatta di una combinazione di mediazione e pressione. E soprattutto che tiene conto della necessità di fermezza nei confronti della pretesa russa di condizionare pesantemente le scelte ucraine, ma anche di evitare provocazioni, pericolose e controproducenti, nei confronti di un Paese cui sembra giusto riconoscere legittimi interessi sia economici che di sicurezza.

In un suo recentissimo blog Federica Mogherini, di ritorno da Kiev, così descriveva le sue reazioni agli eventi della piazza Maidan: «Mi auguravo che Unione Europea e Russia riuscissero ad esercitare le proprie responsabilità e ad evitare la guerra civile», e metteva l’accento sulla necessità di un dialogo con la Federazione Russa. Ma non sarà facile. Il compromesso raggiunto a Kiev è ancora molto fragile, esposto com’è – anche dopo l’uscita di scena del delinquenziale Yanukovich - da una parte alle manovre di una classe dirigente corrotta e dall’altra alle spinte radicali di chi, dopo il sangue versato, non accetta mediazioni e compromessi. Infine, va ricordato che l’Ucraina rimarrà comunque un Paese profondamente diviso.

Realisticamente, la partita ucraina si giocherà forse più a Mosca che a Bruxelles, ed è quindi da auspicare che l’Italia, che non ha mai smesso di mantenere buoni contatti con la Russia, sappia giocare un proprio ruolo non secondario nella ricerca di soluzioni sostenibili e non traumatiche alla «questione ucraina».

È caratteristica del nostro tempo che le priorità di politica estera vengano dettate dalle «breaking news». Sarebbe però consigliabile per noi, come per gli altri Paesi, guardare anche al domani se non al dopodomani, e mettere in atto strategie preventive nei confronti delle crisi annunciate. Molto spesso le sorprese non dovrebbero essere tali, ma si spiegano solo con il corto respiro di una politica senza analisi e senza programmazione. Pensiamo ad un’area che oggettivamente è stata ed è per noi prioritaria: i Balcani. Sollevati dalla fine del conflitto che ha accompagnato la frammentazione della Jugoslavia, abbiamo trascurato i segnali non equivoci del fatto che fine della guerra non significava pace, se per pace intendiamo un’autentica convivenza e l’emergere di entità statuali sostenibili sia dal punto di vista politico che economico. I disordini degli ultimi giorni in Bosnia dovrebbero richiamarci ad una drammatica realtà che forse ci aveva fatto comodo non vedere.

Anche qui sarà necessario un attento lavoro diplomatico. E anche qui non basterà – non è mai bastato – contare sull’attrattiva di una futura adesione all’Unione Europea. Certo, la prospettiva rimane importante, ma il tragitto dalla situazione attuale ad una futura adesione assomiglia ad una corsa ad ostacoli, se non alla traversata di un deserto irto di pericoli. Dovremmo pensare a che fare oggi per impedire che la catastrofe politica, economica e sociale della Bosnia riaccenda la violenza. Possiamo farlo, contando sulla credibilità acquisita dall’Italia grazie ad una protratta presenza di nostri militari e civili.

Dai Balcani al Mediterraneo, una dimensione della nostra politica estera che nelle dichiarazioni dei nostri politici, ma purtroppo non nella realtà, è sempre stata centrale, prioritaria. Anche qui servirà una maggiore capacità sia di azione che di previsione. Non dovremmo più orientare la nostra politica su interessi immediati di corto respiro. Ricordate l’«amico Muhammar» ? L’attuale disastro libico, dannoso per i nostri interessi economici e per la nostra sicurezza, fa seguito a una politica presentata come prova di realismo, senza tenere conto del fatto che il realismo senza capacità di previsione non è realista. 

Le speranze della «Primavera araba» hanno lasciato il posto al violento caos libico, all’atroce guerra civile siriana, al colpo di stato egiziano. Ci resta soltanto la speranza tunisina, e l’Italia – così vicina alla Tunisia non solo geograficamente - dovrebbe impegnarsi a pieno non solo per sostenerla, ma per aiutarla a trasformarsi in un attraente esempio di governabilità, libertà e benessere. Perchè allora non includere la Tunisia fra le primissime visite del nuovo Ministro?

Programmare il futuro, elaborare strategie. Ma in politica estera bisogna anche far fronte a situazioni impreviste ed imprevedibili, a crisi inattese. Mi riferisco in particolare al «caso marò», verificatosi in circostanze (natura e fase della politica indiana) fra le più sfavorevoli, e che sarà il primo e più urgente fra i dossier della nuova responsabile della Farnesina. Difficile a questo punto prevederne gli sviluppi, ma probabilmente – di fronte agli inaccettabili tempi lunghi della giustizia indiana e al rifiuto di riconoscere l’immunità funzionale dei nostri sottufficiali – non ci resterà se non esperire la via di un ricorso ad istanze internazionali, in particolare all’arbitrato. Una via da avviare al più presto e perseguire con grande fermezza – una fermezza che tuttavia non deve essere considerata in contrasto con l’obiettivo di mantenere, o forse sarebbe più giusto dire ristabilire, con l’India, nel reciproco interesse di entrambi i Paesi, buoni rapporti.

Roberto Toscano

Da - http://lastampa.it/2014/02/23/cultura/opinioni/editoriali/unagenda-dalleuropa-ai-balcani-g8CaPb9GwrPV43TmFVpk2L/premium.html
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