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Autore Discussione: Marzio BREDA. -  (Letto 17772 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 15, 2014, 04:38:13 pm »

Dimissioni di Silvio Berlusconi, non serve una commissione d’inchiesta

Di Marzio Breda

Una commissione parlamentare d’inchiesta per verificare la vecchia teoria del «golpe» rilanciata da Berlusconi dopo le rivelazioni dell’ex segretario del Tesoro Usa, Tim Geithner? Un’ipotesi tutta elettorale e montata sul nulla. E non solo per il fatto che qualcuno, tra i falchi di Forza Italia, potrebbe magari essere tentato di chiamare come testimoni il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, o la cancelliera Angela Merkel o chissà chi altro, dei vertici Ue, coprendoci di ridicolo. Ma perché sarebbe sufficiente un minimo di memoria storica, per smontare una simile pretesa. Tanto più se si pensa di giocare d’azzardo fino in fondo, a costo di associare il capo dello Stato al presunto schema di trame e manovre incrociate di cui ha fatto cenno - ma quasi mordendosi la lingua come chi sa e non può dire - lo stesso premier detronizzato.

Basterebbe ricordare come andarono le cose in quell’autunno 2011, quando il Cavaliere cominciò a parlare dei «traditori irriconoscenti» che facevano evaporare la sua maggioranza, ammettendo con «tristezza e dolore» l’estrema difficoltà del proprio governo. Basterebbe che, in un soprassalto di sincerità, Berlusconi ricostruisse ciò che disse a Napolitano la sera dell’8 novembre, presentandosi al Quirinale con un’aria provatissima e chiedendogli «che cosa debbo fare?», per sentirsi rispondere quel che ormai era ovvio: «Non ci sono ragioni per continuare...».

Basterebbe che non negasse di aver accettato e avallato lui stesso, dopo aver confermato quattro giorni più tardi le dimissioni e mentre i suoi gruppi parlamentari si guardarono bene dal chiedere un reincarico, la nomina di Mario Monti a Palazzo Chigi, per evitare uno scioglimento delle Camere destinato ad avere «ricadute dirompenti».

Basterebbe che ammettesse quanto era nel frattempo accaduto in Europa, dove si scontrava con un crescente clima di ostilità del quale aveva però sempre evitato di fare cenno al suo rientro a Roma. Ecco, basterebbe questo per domandare - e questa sì sarebbe una cosa utile - la ricostruzione di una verità storica su cui alcune zone d’ombra gravano davvero.


15 maggio 2014 | 08:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_15/dimissioni-silvio-berlusconi-non-serve-commissione-d-inchiesta-35c20254-dbfa-11e3-8893-5231acf0035c.shtml
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 10, 2014, 11:12:40 am »

Dopo la festa del D-Day
Napolitano: da Merkel e Obama simpatia e rispetto per l’Italia
Il presidente parla degli incontri in Normandia: «Ho colto fiducia verso il nostro giovane presidente del Consiglio»

Di Marzio Breda

«Unpredictable», imprevedibile. Così gli hanno detto Barack Obama e Angela Merkel, commentando compiaciuti il risultato del voto per il Parlamento di Strasburgo che si è avuto in Italia, uno dei pochissimi Paesi dell’Unione dove le forze di governo si siano imposte - e con un largo margine - sull’agguerrito fronte dei populisti e degli euroscettici. Un esito inimmaginabile, dunque, racconta al Corriere Giorgio Napolitano, all’indomani del rientro al Quirinale dalla Normandia, descrivendo «il buon clima», politico e umano, che ha respirato venerdì a Sword Beach, durante le celebrazioni per il settantesimo anniversario dello sbarco alleato. Una «svolta positiva», insomma, quella registrata negli ultimi mesi a Roma. Che diversi interlocutori, in particolare la Cancelliera tedesca e il presidente americano, hanno come sempre associato a parole affettuose, pronunciate in una chiave «molto espansiva» verso di lui (e il repertorio, lo sappiamo, comprende la capacità di giudizio, il contributo di valutazione e consiglio, la saggezza...), ripromettendosi poi tutti e tre di sentirsi presto. «Quando vuoi mi chiami, sai dove trovarmi». Ma, ciò che più contava, dal punto di vista di Napolitano, è che tanto la Merkel quanto Obama gli hanno fatto capire con chiarezza di nutrire serie attese sulle nostre immediate prospettive. Diciamo pure che coltivano una motivata «fiducia». Così che lui stesso, spiegando un po’ la direzione che da noi si è imposta per la stessa forza delle cose, si è con loro dichiarato «contento del fatto che a Roma si stia mettendo in campo una nuova generazione di uomini di governo».

Futuro, presente, passato. Nella riflessione del capo dello Stato tutto si tiene, quasi per un effetto invertito di circolarità e rincorsa del tempo. Lo ha «emozionato», ad esempio, vedere proiettati sui maxischermi drammatici spezzoni di pellicole sul D-Day e sulla progressiva liberazione dell’Europa, nei quali apparivano anche i volti di alcuni italiani che hanno fatto la storia dalla parte giusta. Vale a dire dalla parte di quanti decisero di impugnare le armi e di battersi contro il nazifascismo: una scelta che ha contribuito a restituirci l’onore. «Sì - racconta il presidente della Repubblica -, mentre Hollande teneva il suo discorso, citando pure l’Italia, scorrevano immagini filmate nei diversi Paesi occupati di allora, dove c’era stata la Resistenza. C’era De Gaulle, naturalmente. Ma apparivano pure, e con i nomi proiettati in evidenza, Ferruccio Parri e Luigi Longo, quando sfilarono a Milano, il 25 aprile 1945. E altri ancora, tra i quali ho scorto Raffaele Cadorna, il comandante del Corpo volontari della libertà, e il capo partigiano dell’Ossola, il socialista Giovanni Battista Stucchi». Ecco, anche per gesti di attenzione come questi, è stata «memorabile per tutti, e positiva e gratificante per l’Italia», la giornata vissuta venerdì sull’insanguinata costa a Nord della Francia dai rappresentanti dei 19 Paesi «che contribuirono alla vittoria finale». Tanto memorabile che ieri pomeriggio Napolitano ha voluto stendere di proprio pugno un appunto, per riassumerne il significato che le va attribuito.

C’erano, scrive, ricostruendo la scena, «in primo luogo Gran Bretagna, Stati Uniti, Russia, ma insieme tutte le Nazioni che hanno sofferto le odiose vicende dell’aggressione e dell’occupazione tedesca in Europa»... «E l’Italia», annota, sottintendendo quanto accaduto nelle precedenti celebrazioni, «questa volta, non poteva mancare». Di qui l’invito che gli era stato rivolto dal collega Hollande, «anche con parole di esplicito riferimento» al suo «personale legame con la tradizione dell’antifascismo». Sanata l’amnesia sul peso e sul valore che ebbe la nostra lotta di liberazione «nel duro periodo dell’oppressione nazista», il presidente rammenta che «d’altronde, due giorni prima dello sbarco in Normandia, le forze alleate avevano liberato Roma, con il prezioso concorso della Resistenza che aveva operato nella capitale, pagando duramente il suo coraggio con l’orribile massacro delle Fosse Ardeatine». Non basta. Napolitano aggiunge che «la peculiarità della posizione dell’Italia nel 1944 stava nell’essersi formato nel nostro Paese, cioè nell’Italia già liberata, un nuovo governo legittimo, che rompendo col fascismo, dopo aver firmato l’armistizio con le forze alleate, aveva dichiarato guerra alla Germania e aveva schierato l’Italia a fianco degli alleati come Paese cobelligerante». E quel governo, insiste nella propria rievocazione (che sembra concepita a uso di un certo revisionismo storico, sempre teso a minimizzare il ruolo dei soldati in divisa tricolore accanto ai partigiani), «aveva al tempo stesso promosso la rinascita dell’esercito italiano, i cui primi nuclei ebbero il loro battesimo di fuoco nella battaglia di Mignano Montelungo».

È per tutti questi motivi, spiega il capo dello Stato, che si è sentito «pienamente» a suo agio, sulla spiaggia di Normandia - dopo aver ricevuto tra l’altro anche «attestazioni affettuosissime di apprezzamento dalla Regina Elisabetta per l’accoglienza ricevuta due mesi fa al Quirinale» - «in un clima di incancellabile solidarietà che ci univa tutti». Un riconoscimento reciproco e una vicinanza tali da «propiziare anche un atteggiamento disteso che ho colto in particolare nei brevi scambi di battute sia con la cancelliera Merkel sia con il presidente Obama sia con il nuovo presidente ucraino Poroshenko, che avevano - prima e dopo la colazione - dialogato con il presidente Putin». Per stare alle sue sensazioni, la diplomazia, anche in una stagione di crisi internazionale acuta e che scuote in profondità l’atlante geopolitico come avviene per la partita tra Kiev e Mosca, ritrova le proprie ragioni sul ricordo di una dura battaglia combattuta insieme 70 anni fa, nel nome della civiltà. Di più: il follow up , il seguito, di questo tipo d’incontri va oltre. Infatti, osserva ancora Napolitano, tornando tra il presente e il futuro dell’Italia, «nei rapidi colloqui con la cancelliera tedesca e con il presidente americano ho colto echi di simpatia per il nostro nuovo giovane presidente del Consiglio, che entrambi avevano incontrato alla vigilia... e ho colto sempre un’attenzione rispettosa per il ruolo dell’Italia in Europa».

8 giugno 2014 | 08:22
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_08/napolitano-merkel-obama-simpatia-rispetto-l-italia-ba41e77e-eed3-11e3-9927-6b692159cfdc.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 24, 2014, 05:42:36 pm »

Il quirinale
Statali, giudici, corruzione
Ecco i punti del Colle
Il «Decretone» va cambiato. Serviranno almeno due provvedimenti urgenti
Le critiche su pubblica amministrazione e giustizia

Di Marzio Breda

C’era l’ansia (e l’ambizione) di offrire agli italiani, stretti nella morsa della crisi, risposte rapide, anzi, rapidissime. Si voleva dimostrare che il governo interveniva in tempi record su più fronti, inserendo in extremis la questione morale riesplosa con gli scandali Expo e Mose. Solo che - e ricordarlo rievoca la saggezza dei proverbi - la fretta fa spesso incespicare in qualche incidente di percorso o in qualche trappola. Figuriamoci se si pretende di imporla a chi lavora in un cantiere delicatissimo com’è quello dove si formano le leggi. Così è successo che, quando il decreto di «misure urgenti per la semplificazione e la crescita del Paese» (questa la definizione d’origine, ribattezzata dai mass-media alla stregua di «riforma della pubblica amministrazione») il 13 giugno è arrivato al Quirinale per una prima verifica, anche stavolta gli uffici giuridici della presidenza della Repubblica si sono trovati di fronte a uno dei soliti decreti-omnibus già censurati in passato da Giorgio Napolitano.

Un provvedimento monstre, insomma. Disomogeneo per materie e oggetto. Senza indici né relazioni tecniche e illustrative ad accompagnarlo. Dilatato in 82 articoli e lungo 71 pagine, che spaziavano dal pubblico impiego alla magistratura, dall’avvocatura dello Stato alle scuole di formazione dei dipendenti pubblici, dalle invalidità delle patologie croniche alle fonti rinnovabili, dalla disciplina degli appalti alla mozzarella di bufala campana, dal rilancio del settore vitivinicolo e del made in Italy all’efficientamento energetico delle scuole, dalle bonifiche alla tracciabilità dei rifiuti, dalla disciplina degli appalti al processo civile, amministrativo, contabile e tributario...

… La bozza
Lo schema del decreto, che mutuava fra l’altro una parte di testi precedentemente elaborati dall’esecutivo nei settori dell’agricoltura e dell’ambiente, aveva via via condensato norme su altri campi. Su tutte ne campeggiavano alcune ispirate a una doppia esigenza, assai sentita dall’opinione pubblica: 1) il bisogno di far scattare al più presto il cosiddetto «ricambio generazionale», a partire dagli apparati dello Stato, anche per far fronte al problema della disoccupazione dei giovani; 2) il bisogno di avviare un più concreto ed efficace contrasto alla corruzione. Questo lo si associava poi a una serie di disposizioni per far ripartire l’economia, agevolando le imprese con una sequenza di interventi mirati. Temi e materie differenti, per le quali i criteri di necessità e urgenza non avevano il medesimo impatto. Di qui il suggerimento, girato al governo, di «spacchettare» quantomeno in due distinti provvedimenti (in adesione a un ovvio principio di coerenza) la bozza uscita dal Consiglio dei ministri.
Ma non si limitavano a questo, le «osservazioni» recapitate dal Colle a Palazzo Chigi nove giorni fa. Sulla base di una prassi antica, che risale all’alba della Repubblica e che ha avuto nel tempo definizioni diverse (interlocuzioni riservate, collaborazione istituzionale, scambio di esperienze, un additivo di sorveglianza, moral suasion, ecc.), gli uffici tecnici del presidente compiono un monitoraggio cooperante delle proposte legislative «in itinere», in modo da evitare aspetti di precaria costituzionalità e appianare in anticipo situazioni di conflitto potenziale, tenendole lontane dai punti di crisi. Ossia quelle tensioni che puntualmente si verificano quando un capo dello Stato, dopo averla soppesata fino alle virgole, si sente «costretto» a non controfirmare una legge, rinviandola alle Camere per una nuova deliberazione.

I punti critici
E in questo caso, forse proprio per la smania di bruciare le tappe, di «criticità» ce n’erano parecchie, nel decreto-legge approntato dal governo. Su tutte, quelle che riguardavano la riforma con un taglio del 90 per cento delle «propine» spettanti agli avvocati dello Stato (onorari peraltro già ridotti dalla legge di Stabilità) e la soppressione di sezioni staccate dei Tar. Due capitoli che hanno carattere di «norme ordinamentali» e che andrebbero dunque riportati in un disegno di legge.

Particolarmente complessa, perché deve armonizzarsi anche con le direttive comunitarie e le sentenze europee, la parte sul «ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni». Qui, se pure risulta legittima (e oggi quasi inevitabile) la ratio di lenire in questo modo la piaga della disoccupazione giovanile, è intervenuta l’opposizione dei magistrati, contrari all’abrogazione del «trattenimento in servizio» (che in certi casi oggi può trascinarsi fino a 5 anni) oltre il limite dei settant’anni di età. Le toghe avevano paventato il rischio che la ghigliottina della quiescenza obbligatoria potesse creare improvvisi vuoti di organico, con relativa decadenza di molti processi e un caos aggravato nella gestione della giustizia. Il Colle aveva consigliato la soluzione di un regime transitorio, indicato in un anno, e la consultazione degli organi di autogoverno dei giudici, rimettendo comunque l’intera disciplina al legislatore.

Le Authority
Problematico pure il cruciale articolo che sopprime l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici e definisce le funzioni dell’Autorità nazionale anticorruzione (quella che il premier vuole affidare al giudice Raffaele Cantone). Perché la decadenza immediata della prima amministrazione, indipendente, rischierebbe di trasformare il presidente della seconda, altrettanto indipendente, in una sorta di «commissario straordinario». Pericolo intravisto e segnalato già all’inizio della gestazione del decreto e, a quanto pare, scongiurato senza danni e delegittimazioni. Su questo stesso piano qualche aspetto scivoloso presentava anche la norma con cui si assegnava al prefetto di provvedere alla temporanea gestione di un’impresa appaltatrice sulla quale gravino gravi fattispecie penali o rivelatrici di fenomeni corruttivi, con lo scopo di completare l’esecuzione del contratto d’appello. Una disposizione che potrebbe innescare una catena di contenziosi per sospetto d’incostituzionalità (per violazione dell’articolo 41 della Carta) e che quindi richiederebbe presupposti applicativi più stringenti e tassativi.

Sono solo alcuni esempi delle criticità di un decreto in cui gli analisti messi al lavoro da Napolitano hanno individuato parecchie «norme di carattere ordinamentale». Il che significa, per capirci, norme collegate a obiettive esigenze di rigore finanziario e di sviluppo, o comunque essenziali per l’economia, che normalmente dovrebbero essere approvate attraverso un disegno di legge. Certo, se il governo - dopo aver letto e metabolizzato nel testo finale tutte le controdeduzioni ricevute - vuole farne dei punti assolutamente qualificanti della propria azione e intende dare attraverso di essi un messaggio simbolico al Paese, il Quirinale non ne farà una questione di lana caprina. Li avallerà.

24 giugno 2014 | 06:55
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_giugno_24/statali-giudici-corruzione-ecco-punti-colle-f18ba890-fb59-11e3-9def-b77a0fc0e6da.shtml
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 26, 2014, 08:22:31 am »

La sponda del Colle per andare oltre la parola austerity
Di Marzio Breda

Il primo avvertimento Napolitano lo lanciò in febbraio, quando disse al Parlamento di Strasburgo che «non regge più una politica di austerità a ogni costo» e che l’epoca del rigore per il rigore va chiusa per cambiare l’immagine di «un’Europa intrappolata». Era un anticipo della nostra linea nel semestre di guida europea. Adesso, mentre Renzi duella con la commissione per un compromesso su pochi decimali, il capo dello Stato rincara. Alza uno scudo sul governo, ragionando con gli studenti su come i cittadini percepiscono la Ue. «Dopo anni di politiche restrittive, disoccupazione giovanile dilagante e una recessione che rischia di diventare stagnazione, è giusto sollecitare uno spostamento di attenzione verso le esigenze della ripresa e dello sviluppo pur senza far venir meno gli equilibri di bilancio».

Ecco la lancia che il capo dello Stato spezza in favore della manovra italiana, definendo «grave che ci si accapigli su uno 0,1 per cento» e «grave che non si parli» della costruzione europea come di una serie di successi. Polemiche, queste ultime, agitate da chi considera la Ue «qualcosa di nebuloso, ubicato dalle parti di Bruxelles», un moloch di tecnocrati, «un peso». Polemiche, aggiunge, cui partecipa gente «competente, poco competente, per nulla competente». Confida il presidente: «Ho dato una rapida lettura alla bozza di documento di Bruxelles e ho notato che il termine austerità stavolta non compare». Forse perché «è parso opportuno non dar spazio alle polemiche». O perché qualcuno aveva «complessi di colpa». E, rispetto al disorientamento dell’opinione pubblica, questo dipende dal fatto che «il tema è stato ridotto a un dilemma tra rigore e impegno per la crescita». Tanto che «ha preso piede un atteggiamento di estraneità, contestazione e rifiuto». Così, «sembra che l’Ue appartenga ad apparati tecnico-burocratici che farebbero calare dall’alto direttive di difficile comprensione a carattere economico». Ma, sentenzia l’europeista critico Napolitano, «l’Europa non è una strana creatura, un mostro che impone leggi inapplicabili».

25 ottobre 2014 | 09:04
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_25/sponda-colle-andare-oltre-parola-austerity-9624112e-5c14-11e4-a063-152f34c0ded7.shtml
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« Risposta #19 inserito:: Novembre 03, 2014, 06:09:38 pm »

I giudici al Quirinale
Processo Stato-mafia
Meglio l’udienza pubblica

Di Marzio Breda

Arrivati a questo punto - e a nostro avviso non bisognava proprio arrivarci, se non altro per le pesantissime ricadute che era inevitabile ne scaturissero - conviene davvero che l’udienza di domani al Quirinale escluda la stampa? Soprattutto, conviene alla massima istituzione del Paese? Chi rischia di ricevere maggior danno dalla blindatura che è stata decisa? Certo, se si sta a quanto prevede il codice di procedura penale (articoli 502 e 147, ultimo comma), in casi speciali come questo le riprese e le trasmissioni dei dibattimenti a porte chiuse «non possono essere autorizzate».

Un ostacolo giuridico che sarebbe però bene superare. Stavolta, infatti, davanti a un evento come la trasferta romana dei giudici di Palermo per raccogliere la testimonianza del presidente della Repubblica su un capitolo (peraltro assai marginale) della presunta trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia, garantire l’esercizio «dal vivo» del diritto di cronaca sarebbe, oltre che sacrosanto, opportuno. Anche per Giorgio Napolitano. Il quale, dopo aver fornito ai magistrati per iscritto un anno fa ogni spiegazione su ciò che ora si vuole ripeta, da mesi punta l’indice contro le interpretazioni strumentali, le illazioni fuorvianti, gli inquinamenti della realtà suggeriti da una campagna culminata nella morte per infarto del suo consigliere, Loris D’Ambrosio, e in una sfida tra poteri. Una sfida che aveva costretto il capo dello Stato a sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, dalla quale ha avuto ragione. Una sfida che è proseguita con la provocatoria pretesa, per fortuna poi lasciata cadere, di far addirittura «entrare» in videoconferenza nello studio del presidente i boss Riina e Bagarella. E che adesso, con la salita sul Colle di una Corte d’assise impegnata su un’ipotesi processuale così devastante, segna l’ultimo passaggio di una prova di forza senza precedenti. Potenzialmente in grado di lesionare il prestigio e l’autorevolezza del supremo organo costituzionale.

Si sa che, a cose fatte, la deposizione del capo dello Stato sarà resa disponibile per intero, con verbali e registrazioni Dvd cui i cronisti potranno accedere. Ma, visto che al Quirinale si è sempre recriminato, e con buoni motivi, sui pericoli di una spettacolarizzazione del processo (il che potrebbe da domani tradursi in letture manipolate e virali del senso di un sospiro, di una risposta a voce incrinata, di un silenzio), perché non lasciar «parlare le parole», insieme alle immagini? Perché non consentire ai cittadini di seguire l’udienza in diretta, alla tv o su Internet, e di confrontarla con i resoconti e gli approfondimenti dei quotidiani, in maniera che si formino una libera opinione?

Non sarebbe il modo per togliere alibi a certi professionisti di una controinformazione a caccia di scandali, a costo di inventarli piegando la verità senza riguardo per nessuno, e che da giorni strepitano su una censura preventiva, studiata per oscurare chissà quali patti e complicità? E su questo piano, basta pensare che la testimonianza del presidente è stata accostata perfino al caso Clinton-Lewinsky.

Lo ripetiamo: nonostante le «porte chiuse», non ci sarà alcun segreto sulla deposizione di Napolitano. Ma chi ha esperienza del mondo e della politica sa che il quarto potere, quando gioca sul vittimismo, può trasformarsi in un contropotere pronto a deragliare perfino dalle regole base della deontologia.

27 ottobre 2014 | 08:45
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_27/processo-stato-mafia-meglio-l-udienza-pubblica-a757edba-5da1-11e4-8541-750bc6d4f0d9.shtml
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 09, 2014, 12:11:26 pm »

Il retroscena
L’addio di Napolitano: «Non ce la faccio più»
L’annuncio a fine anno. Non vuole sciogliere lui le Camere nel caso di voto anticipato
All’origine anche motivi di salute come avrebbe confidato all’amico Alfredo Reichlin

Di Marzio Breda

L’ultimo che ha creduto di convincerlo è stato Matteo Renzi, una settimana fa. «Presidente, la prego di rivedere le sue decisioni e di restare più di quanto vorrebbe. Siamo in una fase critica per le riforme e non solo. C’è bisogno di lei, come garanzia per tutti, finché non usciremo dall’emergenza». Questa la richiesta. Ma, anche se il premier aveva vestito le proprie parole con toni insistenti e, anzi, quasi accorati, la risposta non è cambiata: un no secco. Giorgio Napolitano è rimasto irremovibile, dopo che già da qualche tempo ripeteva di voler interrompere presto il secondo mandato al Quirinale.

Si era detto e scritto (anche sul Corriere, in diverse circostanze, benché Napolitano non gradisse «lo sterile gioco» delle supposizioni) che dalla chiusura del semestre italiano di guida dell’Ue, il prossimo 31 dicembre, ogni giorno sarebbe stato plausibile, come data per un congedo anticipato del capo dello Stato. Nessun grande mistero, nessuna vera incognita. Certo, molti tendevano a far slittare nella tarda primavera - ma non oltre il suo novantesimo compleanno, il 29 giugno - l’orizzonte che il presidente era disposto a darsi. Altri, più drasticamente, stringevano i tempi a gennaio, basta pensare a Emanuele Macaluso, che già il 18 marzo scorso aveva profetizzato le dimissioni dell’«amico Giorgio» nel giro di «poco più di sei mesi». Ieri la questione è stata rilanciata per via mediatica, con una perentoria indicazione: Napolitano lascerà il Colle entro fine anno.

Per come si sono messi troppi fattori, è ormai un’ipotesi più che sensata. Infatti, per il presidente il limite di «sostenibilità» di un incarico così gravoso, sia sul piano istituzionale sia su quello personale, sembra ormai sul serio alle soglie di esaurirsi. Forse senza possibilità di ripensamenti, a costo di dover certificare un fallimento - in questo caso del Parlamento - rispetto alla speranza di potersene andare lasciando il Paese più «in ordine» di un anno fa. Sulle sue scelte incombe anzitutto un problema di «sostenibilità» fisica, perché Napolitano è da mesi perseguitato da una serie di disturbi e acciacchi che gli impongono fastidiose terapie e lo fanno dormire poco e male. Tanto da confidare di recente ad Alfredo Reichlin, coetaneo e sodale di una vita: «Non ce la faccio più».

Guai su cui potrebbe forse anche passare sopra, per un altro po’, a un paio di condizioni. Se vedesse che il percorso delle riforme costituzionali, certo non brevissimo, fosse costruttivamente imboccato. E se si riuscisse a varare rapidamente almeno un nuovo sistema elettorale (da realizzare per legge ordinaria, dunque attraverso un itinerario meno problematico), in grado di sostituire il relitto legislativo che resta in piedi dopo la sentenza della Consulta sul famigerato Porcellum. Ma su entrambi questi fronti, che erano fra le precondizioni da lui poste per accettare un reincarico comunque a termine, nonostante i suoi continui richiami la politica è impantanata.


Non solo. Con i due maggiori partiti impegnati in reciproche prove di leadership e con intermittenti fibrillazioni su alleanze fondate solo su calcoli di convenienza, tra la seconda metà di gennaio e febbraio potrebbe accadere di tutto. Anche che il governo dichiari forfait, magari sulla base di qualche nuovo sondaggio, ciò che ucciderebbe la legislatura. E Napolitano, si sa, non vuole firmare uno scioglimento delle Camere che renderebbe l’Italia ingestibile per alcuni mesi, provocando un lungo stallo proprio quando l’Europa si aspetta da noi scelte concrete e convincenti sull’economia. Andandosene prima, il presidente metterebbe quantomeno l’intero sistema dei partiti di fronte alle proprie responsabilità.

Se tale scenario è davvero fondato e se non dovessero intervenire variabili che nessuno azzarda, la procedura potrebbe essere questa. A fine dicembre, durante l’incontro con le alte cariche dello Stato o nel messaggio agli italiani di fine anno, il preannuncio delle imminenti dimissioni. Poi, nel giro di qualche settimana, le dimissioni formali. Da quel momento scatterebbero i 15 giorni previsti per la convocazione delle Camere e la designazione delle deputazioni regionali, prima che i cosiddetti «mille elettori» (ma sono qualcosa di più) comincino a votare per il nuovo inquilino del Quirinale. E scatterebbe pure, anche se le prassi costituzionali non sono univoche, la supplenza da parte della seconda carica dello Stato. Cioè del presidente del Senato, Piero Grasso. Uno schema che impone un’osservazione inquietante: se un lampo non illuminerà i politici, il successore di Napolitano rischierebbe di essere eletto da un Parlamento in articulo mortis.

9 novembre 2014 | 08:13
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_09/addio-napolitano-non-ce-faccio-piu-806acf00-67de-11e4-b22b-88ac3d1bfff6.shtml
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:32:42 pm »

Scenari
L’agenda del presidente
Cosa farà il capo dello Stato

Di Marzio Breda

Il conto alla rovescia per la successione a Napolitano è cominciato l’8 novembre, quando è esplosa la notizia che il presidente avrebbe annunciato la chiusura del secondo mandato entro la fine dell’anno. Da quel giorno è partito l’inevitabile totonomi, fatto rimbalzare dai partiti sui mass-media più per bruciare eventuali candidature che per sondarne la praticabilità. Ma da allora a Montecitorio è scattata anche la gara a indovinare la data delle dimissioni.

C’è chi ha dato per vincenti le pressioni del premier affinché il capo dello Stato rinvii ogni decisione, azzardando la sua uscita dal Quirinale a metà maggio. E chi ha invece tagliato corto dando per sicuro il congedo già a dicembre. Per districarsi in questa rincorsa di profezie, nella quale la politica fa il proprio gioco, un po’ di chiarezza la offre il programma - confermato - messo a punto per il prossimo mese dal Colle.

L’11 e il 12 Napolitano sarà a Torino per un vertice italo-tedesco. Il 16 riceverà le alte cariche dello Stato, mentre il 18 toccherà al corpo diplomatico. Tra il 22 e il 23 farà visita al comando operativo interforze e il 31, infine, rivolgerà gli auguri agli italiani in tv. Ce n’è abbastanza, insomma, per dire che prima di gennaio non lascerà. Del resto, se lo facesse, le prevedibili fibrillazioni parlamentari metterebbero a rischio la legge di Stabilità.

28 novembre 2014 | 10:25
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DA - http://www.corriere.it/opinioni/14_novembre_28/napolitano-agenda-presidente-d4bf99a4-76df-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 01, 2015, 04:28:34 pm »

IL MESSAGGIO DI GIORGIO NAPOLITANO
Il Colle e il bilancio-memorandum
La dura chiamata alla «ripartenza»
Le parole del capo dello Stato modulate a tratti con i toni dell’estremo avvertimento.
Poi il congedo inaspettatamente confessate per un uomo così riservato

Di Marzio Breda

Il coraggio d’impegnarsi in una «missione nazionale» è quello che, nel suo ultimo messaggio da capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha chiesto agli italiani a partire dal 2015. Una missione che deve coinvolgere l’intero Paese (dagli esponenti dei partiti e delle istituzioni, al suo stesso successore e alla gente comune) su due fronti. Quello del «rinnovamento» del Paese, attraverso le riforme messe in cantiere dal governo. E quello della lotta contro la corruzione, attraverso l’impegno a «bonificare il sottosuolo marcio della società». È questo il punto politico dell’appello, modulato a tratti con i toni dell’estremo avvertimento, e dunque anche con durezza espressiva. Ecco le condizioni del suo bilancio-memorandum per far davvero ritrovare all’Italia fiducia in se stessa, battere l’antipolitica e il qualunquismo, superare la crisi economica e del lavoro e conquistare, insomma, una «ripartenza».

Le note personali
Ma c’erano anche note personali, inaspettatamente confessate per un uomo riservato come lui, nel congedo dopo nove anni al Quirinale. Come quando ha motivato il passo indietro con «i segni dell’affaticamento dovuti all’età». O come quando, esortando il Paese a «mettercela tutta», ha detto di aver sempre «fatto del proprio meglio», nel doppio mandato in cui si è sforzato di difendere l’unità nazionale e di evitare, soprattutto nel drammatico 2013, le intermittenti «instabilità che tanto ci penalizzano». Ora, dopo che sulla sua seconda elezione si era aperta «una finestra per tempi eccezionali» (così l’aveva definita lui stesso), è tempo di tornare alla normalità. Il che significa, dato che questo invito è indirizzato in particolare al Parlamento, dare «una prova di maturità e responsabilità» nel prossimo voto per il nuovo presidente. Ancora poche settimane e, dopo il 13 gennaio, tutti gli italiani potranno verificare se tale appello sarà rispettato.

1 gennaio 2015 | 13:52
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_01/colle-bilancio-memorandum-dura-chiamata-ripartenza-7ab80c78-91b2-11e4-806a-37197f7d806f.shtml
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 18, 2015, 06:45:55 am »

Al colle per nove anni
Quirinale, l’addio di Napolitano: «Ho sorriso poco, scusatemi»
Le parole dell’ex presidente al suo staff. Ora si apre la successione: il 29 la prima seduta dei grandi elettori

Di Marzio Breda

«Scusatemi se vi sono sembrato, o se proprio non sono stato, abbastanza sorridente con voi. Sappiate però che vi sono davvero grato, e che vi avrò sempre cari per l’aiuto che mi avete dato in questi anni straordinari e che mi hanno cambiato molto, in profondità». Si è veramente liberato da un certo modo di essere, sia nel privato come sulla scena pubblica, soltanto nelle ultime ore al Quirinale, Giorgio Napolitano. E questo saluto ai collaboratori più stretti lo dimostra, perché scioglie un autocontrollo così assiduo e severo da farlo a volte apparire non solo poco partenopeo, ma quasi disumano perfino. Mentre stavolta l’empatia con chi lo circonda scatta sul serio e ciò che pensa glielo si legge nel volto. «Ne abbiamo passate, eh, presidente? Del resto, si sa: nessuna istituzione è un’isola del sublime», dice un suo consigliere, uscendo dallo studio dove sono appena state firmate le dimissioni e citando un’efficace battuta del costituzionalista Mario Fiorillo.

È davvero così: sono stati due mandati straordinari, e anche duri e difficili, quelli di Napolitano al vertice della Repubblica. Una stagione sulla quale ha lasciato il segno, specie nell’ultimo biennio, una logorante catena di attacchi e polemiche. Tensioni continue, che si sovrapponevano al già delicato e complicato lavoro «d’ufficio», e che adesso è dissolta. Il capo dello Stato è nello studio alla Vetrata e lì aspetta che il segretario generale Donato Marra completi il giro fra Palazzo Madama, Montecitorio e Palazzo Chigi per formalizzare il congedo. Questione di mezz’ora.

Beve un caffè con lo staff. Gli mostrano qualche titolo dei giornali, ma soprattutto gli fanno scorrere le ultime lettere giunte al Quirinale dall’Italia e dal mondo. Parecchie hanno sul mittente i nomi di capi di Stato e di governo. Una è del Papa, «bellissima, un grande onore». Una porta il cartiglio dell’Eliseo ed è di François Hollande, affettuosa e piena di riconoscimenti, con un’aggiunta a mano: «Caro Giorgio, la Francia è orgogliosa di averti avuto come amico». La conferma che la cura con cui ha coltivato i rapporti internazionali produce sempre buoni dividendi. Gratificanti per lui, certo, ma soprattutto per il Paese, commenta.

Il presidente legge e passa oltre, siglando qualche missiva personale dettata alle segretarie la sera prima e aggiungendo alcune risposte da far spedire con urgenza, quando arriva Clio. È un po’ scocciata per aver «preso freddo nei saloni giù sotto», dov’era rimasta ad aspettare, convinta che le procedure fossero più brevi. Anche lei ha un’espressione fra il sollievo e un vago smarrimento. In fondo termina per entrambi una lunga parentesi e negli sguardi che dedica al marito si coglie l’attenzione apprensiva di chi vuol capire come stia prendendo quest’ultimo passaggio. Lo vede piuttosto provato. Un po’ in affanno, se non spossato. E questo forse la preoccupa.

A chi l’affianca, la first lady (espressione che peraltro non le è mai piaciuta, perché troppo pomposa) non domanda il classico «abbiamo preso tutto?» di quando si sta per completare un trasloco. Sa che ogni documento e oggetto è stato controllato e chiuso negli scatoloni da settimane. «Questo va agli archivi del Quirinale... questo negli uffici di Palazzo Giustiniani... questo a casa».

Una selezione alla quale, per quanto riguarda le carte e i libri, ha voluto sovrintendere lo stesso presidente. Dal suo studio privato, cosiddetto «alla palazzina», si è voluto portare dietro alcuni volumi acquistati in tempi remoti, dai quali non si è mai separato e che a volte sfogliava come per prendere ossigeno. Per esempio, una raccolta di versi di Eugenio Montale, una di Giuseppe Ungaretti: passioni della giovinezza, assieme al teatro e alla musica, cui è ritornato sempre, quasi all’insegna del principio psicoanalitico del «regredire per progredire», cioè ricordare il passato per immaginare il futuro. E ciò che gli staffieri che lo accompagnavano l’altro ieri nell’ultima ricognizione hanno notato è che Napolitano, prima di spegnere la luce e chiudere la porta, si è girato intorno e ha «salutato» la stanza con la mano. Proprio un ciao ciao al piccolo dipinto di Giovanni Fattori che sta accanto alla scrivania, al tavolo intorno al quale convocava le riunioni del mattino, alla copia della Costituzione sempre in vista su un leggio.

A quel «libro sacro» della Repubblica ha rivendicato di essersi tenuto fedele in ogni momento. Insomma, nella logica descritta da Vincenzo Cuoco durante la rivoluzione di Napoli del 1799, secondo cui «alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini»: e gli ordini - come ripeteva spesso pure Ciampi - sono naturalmente le istituzioni, che gli uomini devono tutelare con passione, virtù morali e impegno. L’impegno che aveva messo lui quando nel 2011 ha tenuto a battesimo il governo di Mario Monti e poi, una volta rieletto, quelli guidati da Enrico Letta e Matteo Renzi. Una «invenzione» del tutto sua il primo, mentre sugli altri due ha esercitato una sorta di alto patronato affidando loro la missione delle riforme.

Lo hanno criticato molto, anche per questo oltre che in certe battaglie sulla giustizia, ma ora il presidente non ci pensa. Scende nel cortile d’onore senza più pronunciare parole, concentrato sull’addio. Ed è qui che il suo sorvegliatissimo carattere e la sua autodisciplina a non mostrare le emozioni hanno un secondo cedimento. Sarà per gli onori del cerimoniale, che stavolta sono dedicati proprio a lui, sarà per l’inno di Mameli che echeggia da un’ala all’altra del palazzo, fatto sta che si commuove visibilmente. Tanto da abbandonarsi ad affettuosità che neppure i suoi più intimi collaboratori gli hanno mai visto fare. Li abbraccia e li bacia tutti, uno a uno. Distribuendo qualche pacca sulla spalla a chi di loro ha gli occhi lucidi e addirittura abbandonandosi a qualche carezza. E nella piazza del Quirinale, mentre la macchina scende verso il quartiere dove l’ormai ex capo dello Stato torna ad abitare, ha il risarcimento della gente comune, che lo applaude e grida il suo nome.

15 gennaio 2015 | 07:43
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/quirinale-addio-napolitano-ho-sorriso-poco-scusatemi-05e8ebae-9c81-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 24, 2015, 10:56:08 am »

Arrigo Levi: «Quando Napolitano nel 2013 mi disse che stava male»
Il secondo mandato del Presidente: «Insistevano, lui buttò sul tavolo un plico di referti. Poi si sentì obbligato a cedere e non ho più sentito un cenno alle sue paure»

Di Marzio Breda

Giorgio Napolitano ha chiuso il secondo mandato in una condizione paradossale e amara. Dopo aver accettato una rielezione che gli era stata chiesta da un largo fronte di partiti e che fu consacrata dagli applausi dell’intero Parlamento, è stato quasi di continuo sotto attacco. Politicamente e mediaticamente. Considerando a posteriori quella sua scelta, ne è valsa la pena?
«Certo che ne è valsa la pena, perché c’era in gioco l’interesse nazionale. Cioè qualcosa che per lui contava più di qualsiasi prezzo ci fosse da pagare». Così dice Arrigo Levi, inviato e corrispondente nelle capitali di mezzo mondo, saggista e infine consigliere del Quirinale nelle stagioni di Ciampi e Napolitano, essendo amico di entrambi. Abituato a cogliere anche da piccoli dettagli la verità di un uomo, racconta un episodio illuminante per capire in quale chiave il senso dello Stato sia da applicare all’azione di questo presidente ormai vicinissimo al congedo.

«Era un giorno di metà aprile del 2013 e mi presentai nel suo studio per sentire che cosa pensava delle tante pressioni, dei partiti ma non solo, affinché restasse al suo posto. Se insistono, come fai a dire di no?, gli domandai. E lui, di solito molto misurato, quel giorno ebbe uno sfogo. Buttò sul tavolo un plico di referti medici, e mi disse: ma allora non hai capito? Non sai che non sto bene? Che ho altro cui pensare? Ecco perché sono indisponibile».

Poi però cambiò opinione.
«Sì, passate ventiquattr’ore si sentì obbligato a cedere. Sciolse la riserva e fu rieletto. Da allora sembrò dimenticare tutto. Si rimise al lavoro e non ho mai più udito dalla sua bocca neppure un cenno alla stanchezza o alle preoccupazioni personali. Né tantomeno alle polemiche venute dopo. Sono persone, lui come Ciampi, di una stoffa particolare. Appartengono alla generazione che viene dall’antifascismo e che si identifica in una concezione del dovere molto forte. Se si fosse sottratto a quella chiamata nel nome della Patria - e so di usare un’espressione fuorimoda e spesso carica di valenze retoriche - Napolitano avrebbe vissuto il proprio ritiro come una diserzione. Insomma, era indispensabile che rimanesse al suo posto per la salute della Repubblica. Per fortuna, con grande sacrificio, ha onorato l’impegno».

Resta curioso che, nel Paese in cui trionfa l’epos giovanilistico e il premier Renzi cita di continuo il mito di Telemaco, ci si sia affidati a una persona che viaggiava già verso i novant’anni. Quale significato simbolico si può ricavarne?
«Mi mette un po’ a disagio una questione del genere, dato che sono quasi coetaneo di Napolitano», dice Levi, con una punta di civetteria. «Credo che nei momenti di svolta si riconosca il valore dell’esperienza e della continuità. Non dimentichiamolo: un anno e mezzo fa l’Italia era paralizzata da una crisi politica senza precedenti, una crisi di sistema. Era logico, dato che stavamo attraversando tempi eccezionali, ricorrere a qualcuno che avesse vissuto una lunga parabola dentro le istituzioni, anche se il suo vecchio percorso politico era lontano da quello di molti».

Inutile ricordarle che le radici di Napolitano nel Pci sono state il pretesto di intermittenti recriminazioni del centrodestra. Mentre dalla sinistra più estrema gli si imputava un’eccessiva arrendevolezza verso Berlusconi, con l’accusa di averlo salvato quando i suoi governi vacillavano.
«È trascorso molto tempo da quando il Pci era un problema in Italia e non lo è più da almeno vent’anni. In ogni caso Napolitano non è mai stato condizionato da quel passato, a lui interessava la stabilità del Paese. Perciò, evocare Berlusconi in un bilancio della sua doppia presidenza, significa parlare di cose completamente irrilevanti. Berlusconi ha rappresentato un fenomeno politico interessante e originale, da studiare perché ha coinvolto molti italiani, magari ossessionandoli per un verso o per l’altro. Ma credo di poter dire che, per gente come Napolitano e Ciampi, l’ex Cavaliere non sia mai stato un’ossessione. Semmai, verrebbe da dire, un incidente nella storia della Repubblica».

E lo stesso vale per Grillo e per altri protagonisti dell’antipolitica?
«Mi sembra che valgano gli stessi dubbi, che pongo senza arroganza. Quanto sono significative queste figure, che hanno magari una presa sull’opinione pubblica, nella vicenda nazionale? Sono dei patrioti? Quale impronta possono lasciare nell’identità di un Paese e nelle sue istituzioni? Davvero si può ritenere che la Storia si esprima attraverso di loro? Non siamo forse troppo schiacciati sul presente e troppo pronti a inventarci un mito, o un incubo, al giorno?».

Ragionamenti che Arrigo Levi estende alle critiche rivolte a Napolitano per la sfida con certi settori della magistratura. Le liquida con un’alzata di spalle: «Non credo, assolutamente, che un uomo come lui abbia fatto nulla che deragliasse dai principi repubblicani, che si sia mosso fuori da una piena consapevolezza dei suoi doveri. Lo dimostra la tranquillità - in quel caso ben più che un dono di carattere - con cui ha affrontato quella prova di forza». Che è stata «dura», e il consigliere Levi lo ammette, «ma che non va sovrastimata».

Per lui bisognerebbe dunque relativizzare e contestualizzare criticamente quegli snodi sui quali la politica si è dilaniata. Quando Napolitano inventò il governo «tecnico» di Mario Monti e poi tenne a battesimo le «larghe intese» di Enrico Letta e, per ultimo, l’esecutivo «di scopo» (e lo scopo erano le riforme) di Matteo Renzi. Tre esempi in cui si è contestato al presidente di essere andato oltre i suoi poteri costituzionali. Polemiche malposte pure queste, per Levi. Che le respinge perché maturate «nella mente di chi ha una memoria breve». Basta riandare indietro nel tempo, spiega, per trovare «molti precedenti» di capi dello Stato che, nei periodi di crisi, «hanno colmato i vuoti della politica con scelte penetranti e incisive».

In definitiva: «Era, ed è, loro compito prendere certe decisioni, senza curarsi di ciò che vorrebbero le maggioranze o le opposizioni, ma avendo come unica bussola un’idea di patriottismo repubblicano».

15 gennaio 2015 | 09:25
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/arrigo-levi-giorgio-napolitano-rielezione-malato-a57dac44-9c8c-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml
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« Risposta #25 inserito:: Febbraio 04, 2015, 08:02:45 am »

Il programma

Mattarella, che presidente sarà
Alle Fosse Ardeatine il richiamo all’unità contro il terrore.
E prepara i punti chiave del discorso di martedì

Di Marzio Breda

ROMA «Il pensiero va soprattutto e anzitutto alle difficoltà e alle speranze dei nostri concittadini...». Se le prime frasi e i primi atti anticipano già il segno di una presidenza, Sergio Mattarella ieri il proprio sigillo l’ha lasciato. Semplice e sgombro di quelle euforie plateali e di quei sorrisi smaniosi di visibilità che tante volte sono andati in scena in casi simili. Lo dimostra la chiusa - «è sufficiente questo, grazie» - con cui si è sottratto ai cronisti subito dopo aver ricevuto da Laura Boldrini e Valeria Fedeli, giunte insieme da Montecitorio, la notizia ufficiale dell’elezione.

Inutile appostarsi con registratori e telecamere negli angoli strategici della sua geografia quotidiana. Il suo programma è chiaro ed è riassunto in quelle 18 stringatissime parole e nel significato di quella visita solitaria (su una Fiat Panda, seduto accanto all’autista) che ha voluto poi compiere alle Fosse Ardeatine, luogo simbolico delle tragedie che hanno attraversato l’Italia nel Novecento. Insomma: sta dalla parte della gente che soffre e che vorrebbe confidare in un futuro migliore. Dalla parte del Paese che si ritrova più depressa, esausta e impaurita da questa lunga stagione di crisi e alla quale vorrebbe offrire una nuova speranza.

Ecco la missione del settennato che si aprirà martedì. Mattarella l’ha spiegato nel pomeriggio alla dozzina di vecchi collaboratori e amici che lo hanno raggiunto negli uffici della Consulta. Assieme a loro ha abbozzato i punti chiave del discorso d’insediamento di martedì a Montecitorio. Un discorso che sarà una sorta di manifesto programmatico (ma, beninteso, «non un programma di governo», spiegano i suoi). Tre dovrebbero essere gli snodi principali, oltre ai ringraziamenti per un voto che ha unito sul suo nome i due terzi dei parlamentari: 1) l’impegno a svolgere un ruolo di garanzia verso tutti, come del resto prevede la Costituzione, anche nella logica di ridurre i conflitti e far cessare la rincorsa alla reciproca delegittimazione di cui i partiti sono prigionieri da anni; 2) la spinta a far procedere il cantiere delle riforme, nel convincimento che la nostra Magna Charta non è un totem intoccabile, ma va comunque revisionata con innovazioni ponderate; 3) l’incoraggiamento a reagire al pessimismo e a superare certe debolezze strutturali fronteggiando incisivamente i troppo lunghi collassi dell’economia e tenendo conto dei primi spiragli di ripresa che già si colgono.

Concetti che svilupperà in quella forma asciutta, senza furbizie retoriche e senza cercare una superficiale empatia con chi lo avvicina, tipica del suo stile sia quando parla sia quando scrive. Parecchi hanno giocato nei giorni scorsi sul culto della riservatezza, sulla ritrosia davanti alla macchina mediatica e sull’estrema laconicità di Mattarella. Insistendo perfino sui toni bassi e monocordi con cui si esprime ed evocando un «grigiore assoluto».

Un modo per suggerire che a tanta discrezione e mitezza fatalmente corrisponderà una certa debolezza - sinonimo di noia per chi dovrà occuparsi di lui - nel modo in cui eserciterà le funzioni da capo dello Stato. Una tesi secondo la quale si dà per scontato un suo deciso passo indietro rispetto agli scatti in avanti compiuti dai suoi predecessori e al loro interventismo che li ha fatti magari percepire più giocatori (o addirittura dei «sabotatori dadaisti del sistema» come fu definito Cossiga) che arbitri. Si scommette dunque che riporterà la presidenza a quella formula di autorità disarmata, se mai i capi dello Stato sono stati solo questo, andata in scena nella Prima Repubblica.

Profezia con ogni probabilità sbagliata. Lo dimostra la storia ruggente del Quirinale negli ultimi venticinque anni, che di arretramenti su una cifra da notabili muti non ne ha visti mai e difficilmente ne vedrà con lui. E poi basta squadernare la sua biografia per sincerarsene: vi si trovano diverse tracce di dure prese di posizione e di giudizi politici taglienti, quando gli è parso giusto doverne dare. Lo conferma del resto un intimo del neopresidente: «Nessuno cada nell’inganno. La sua è la mitezza di chi è forte. Una raffinatezza espressiva molto palermitana, semmai. E di sicuro non è un uomo moralmente disposto a cambiare opinione o a ripararsi in una comoda e dimessa neutralità, quando sono in gioco valori non negoziabili della democrazia».

Altro che un cattolico timido e passatista, quindi. Un credente, sì, e che tiene molto alla dimensione religiosa. Ma con un saldo ancoraggio alla dimensione laica dello Stato. Un politico cresciuto alla scuola di Aldo Moro e dei suoi discepoli, animatore del rinnovamento della vita pubblica in Sicilia e promotore di quella «primavera di Palermo» che anticipò tante cose di quanto accaduto dopo in Italia. Uno che, anche se l’incarico di giudice costituzionale può averlo abituato a essere un «legislatore negativo» (nel senso di sentenziare ciò che non può essere, di una legge) si sforzerà di accompagnare senza conservatorismi le riforme per la modernizzazione dell’Italia.

Questo dobbiamo aspettarci da Sergio Mattarella, se vogliamo azzardare qualche ipotesi su che tipo di presidente sarà. Cioè poche parole e molti sforzi per produrre fatti, entrando anche nella cronaca più stringente attraverso qualche richiamo all’unità. Come è accaduto ieri, dopo la tappa alle Fosse Ardeatine. Con una frase di per sé evocativa dei suoi ancoraggi e dei suoi auspici. «L’alleanza tra Nazioni e popolo seppe battere l’odio nazista, razzista, antisemita e totalitario di cui questo luogo è simbolo doloroso. La stessa unità in Europa e nel mondo saprà battere chi vuole trascinarci in una nuova stagione di terrore».

1 febbraio 2015 | 08:28
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/mattarella-che-presidente-sara-f123f1d6-a9e2-11e4-a06a-ec27919eedf1.shtml
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« Risposta #26 inserito:: Febbraio 06, 2015, 11:15:16 am »

Le scelte di Mattarella: innovare per non tradire la Costituzione
La preparazione del discorso, ci sarà «tanta Italia» e si parlerà dei «bisogni della gente comune».
Napolitano gli ha parlato del sollievo per il modo in cui è avvenuta l’elezione Le tre parole d’ordine saranno: difficoltà, speranze e unità del Paese

Di Marzio Breda

ROMA - «È stato un bell’incontro, amichevole e anzi affettuoso, come sempre con lui. Sa, con Sergio Mattarella ci conosciamo e stimiamo da molti anni. Oggi ci tenevo a spiegargli che la conclusione del voto di sabato, al quarto scrutinio e con quel largo consenso sul suo nome, mi ha liberato da una preoccupazione».

Giorgio Napolitano ha appena congedato il suo successore, andato a rendergli visita a casa, in via dei Serpenti, a pochi passi dalla Consulta, e confida la cosa che più gli premeva dirgli. Parlargli cioè di un timore che lo aveva tormentato per settimane. «Sì, la preoccupazione - che alcuni avevano espresso in pubblico e che ovviamente sentivo anche io - che la mia decisione di dimettermi potesse aprire una fase molto turbolenta per le elezioni del nuovo capo dello Stato. E gli ho sottolineato che in realtà le mie dimissioni, motivate da concrete ragioni personali, erano state un atto di fiducia nella maturità e nella responsabilità del Parlamento e delle forze politiche...».

In effetti erano in tanti a credere che le sfide per la leadership in corso nei diversi schieramenti, unite a esplicite ansie di sabotaggio, avrebbero potuto produrre un clima di tensione e di inconcludenza. Facendo magari chiudere la partita del Quirinale con un risultato problematico, se non proprio deludente. «Appunto. Il risultato è invece coerente con quell’elemento che avevo messo in luce nel mio messaggio di fine anno. Intendo il passaggio in cui avevo chiesto un ritorno alla normalità - o regolarità - nella vita delle istituzioni, perché non si poteva prolungare una soluzione eccezionale come quella che venne adottata nel 2013». Insomma, il rischio di uno sbocco divisivo è caduto e ora c’è chi profetizza che Mattarella si muoverà, da capo dello Stato, sulle orme tracciate da lei e, prima, da Ciampi. «Già, si indicano tre figure, in parte diverse e in parte assolutamente convergenti, per indicare uno stesso intento di fondo. E anch’io penso che la centralità di una certa linea, che ho condiviso con il mio predecessore, non sarà abbandonata».

Scommessa abbastanza facile, quella di Napolitano. Lo dimostra la scaletta del discorso d’insediamento previsto per domani che il nuovo presidente della Repubblica sta scrivendo, affiancato da un gruppo di collaboratori e amici chiusi da due giorni con lui al Palazzo della Consulta. Ci sarà «tanta Italia», dentro. Ci saranno «i bisogni della gente comune e squarci di vita reale», trattati in una chiave tesa a sviluppare le tre parole d’ordine - chiamiamole così - che ha indicato l’altro giorno, nella telegrafica ma chiarissima dichiarazione di quando è stato eletto: difficoltà, speranze e unità del Paese. La sua azione istituzionale sarà concentrata soprattutto su questi temi. Ai quali si accosterà con la sensibilità e la partecipazione propria di chi ha avuto una formazione da cattolico-democratico, basata sugli insegnamenti di Aldo Moro e Leopoldo Elia, tanto per stare a due suoi antichi maestri.

Ma un capitolo importante del messaggio dei Mattarella davanti alle Camere («piuttosto asciutto», promettono dallo staff) sarà riservato anche alla controversa e delicata questione delle riforme. Riforme in campo economico, sulle quali premerà perché senza una modernizzazione su questo fronte non potremo risollevare da una crisi che morde le famiglie italiane da ormai troppo tempo. E riforme costituzionali, ovviamente, visto che il percorso per un engeenering della Carta è ormai aperto e abbandonarlo a metà dell’opera sarebbe una dissipazione di energie e di coraggio. Ne parlerà nella logica che ha sempre predicato, da docente universitario e da giudice costituzionale, oltre che da politico: bisogna «innovare per non tradire». Insomma: quel «patto che ci lega» che fu scritto dai padri costituenti va aggiornato tenendone però vivo lo spirito, che altrimenti evaporerebbe.
Ecco il punto su cui, senza per il momento entrare nel merito di quanto Matteo Renzi ha fatto finora votare, insisterà. Come insisterà pure sull’ancoraggio europeo di un’Italia che ha da mesi messo nell’agenda dell’Ue l’urgenza di una flessibilità per la crescita contro l’austerità a tutti i costi. Guarda caso ne parlò per primo Napolitano, al Parlamento di Strasburgo, il 3 febbraio di un anno fa.

2 febbraio 2015 | 07:48
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_02/scelte-mattarella-innovare-non-tradire-costituzione-982a6b00-aaa5-11e4-87bf-b41fb662438c.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Febbraio 06, 2015, 11:20:59 am »

Il nuovo presidente

Dossier, missioni, udienze politiche Così Mattarella prepara l’agenda
La prima notte da solo nel palazzo.
Poi al lavoro nello studio con la storica segretaria

Di Marzio Breda

ROMA - L’altra sera, quando gli amici e i collaboratori se ne sono andati e gli staffieri si sono congedati, il presidente ha cominciato a sperimentare quale solitudine lo aspetta nei prossimi sette anni. Si è chiuso nell’appartamento dove hanno abitato i suoi predecessori, al secondo piano della palazzina che papa Clemente XII commissionò all’architetto Ferdinando Fuga, all’estremo angolo sud del Quirinale, e prima di mettersi a letto ha dovuto arrangiarsi in tutto. Valige a parte, anche per le telefonate. E pur considerando che Sergio Mattarella è da tempo abituato a star da solo, si può dare per scontato un suo sottile disagio, dovendo muoversi in spazi enormi e sontuosi, dove nelle 24 ore si alternano rimbombi estranei (lo sbatter di tacchi, lo zoccolio dei cavalli, gli squilli di tromba) e alienanti silenzi. Non per nulla Cossiga ripeteva che «quel palazzo isola» e che lui ci aveva vissuto «con l’oppressiva sensazione d’essere la comparsa di un film storico... in costume».

La prima uscita
Tutto si è rianimato ieri mattina, quando il capo dello Stato è sceso nel suo studio per affrontare la prima giornata di lavoro sul Colle. C’è parecchio da fare: dossier da chiudere, programmi da definire, udienze da calendarizzare. La prima uscita è per stamane, a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, ma lì il cerimoniale non ha messo in conto che parli. Mentre la prossima settimana andrà a Palazzo dei Marescialli, per presiedere un delicato plenum del Consiglio superiore della magistratura. L’unico altro appuntamento sicuro si proietta lontano, al 26 febbraio, giorno d’arrivo sul Colle del segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg. Per il resto l’agenda di Mattarella è ancora da riempire. Di sicuro, è prevedibile a breve un faccia a faccia con Matteo Renzi, per una verifica sull’attività parlamentare e sul percorso delle riforme. Mentre restano da definire le date degli incontri chiesti martedì da Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.

Il viaggio in Sicilia
E anche per quanto riguarda i viaggi fuori Roma, l’unico al momento prevedibile sarà in Sicilia (ma privatissimo), per recarsi sulla tomba della moglie Marisa, a Castellamare del Golfo, e poi a Palermo, per prendere da casa qualche libro e alcune carte personali.

Sono in molti a chiedere già a Mattarella, appena insediato, interventi censori o di sostegno ai provvedimenti messi in cantiere dal governo. Ci sono in ballo materie controverse: l’Italicum, la riforma del Senato, il decreto fiscale, le misure per l’economia. Si pronuncerà a modo suo, facendo una prudente economia di parole, probabilmente attraverso una moral suasion preventiva con le diverse forze politiche e con lo stesso Palazzo Chigi. E, appunto, senza fuochi d’artificio verbali. Del resto, quello di essere sempre sotto pressione è un po’ il destino di ogni capo dello Stato: le opposizioni pretendono che faccia quel che loro non riescono a fare, la maggioranza che la tuteli come primo partigiano del governo. Atteggiamenti che, se non s’imporrà la «correttezza» da lui chiesta a tutti l’altro ieri, potrebbero rendere difficile la sua opera di «arbitro imparziale».

Le lettere di ringraziamento
Per il momento la sua priorità è capire fino in fondo come funziona la «macchina» del Quirinale e comporre la squadra che dovrà assisterlo. La prima persona che lo affianca è la sua vecchia segretaria di quando dirigeva Il Popolo: Leandra Tobini. Alla quale ha dettato le prime risposte alle tante lettere d’apprezzamento ricevute nelle scorse ore. Gli hanno fatto piacere, dicono i suoi collaboratori. «Perché dimostrano che il senso profondo del suo messaggio è stato compreso».

5 febbraio 2015 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/dossier-missioni-udienze-politiche-cosi-mattarella-prepara-l-agenda-1ac77502-ad04-11e4-8190-e92306347b1b.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:46:32 am »

Il commento

Italicum, Colle verso il sì
L’ipotesi di osservazioni alla riforma
La ratifica dipende da ipotesi di palese incostituzionalità che nel caso dell’Italicum (per quanto si possano sospettare detestabili ricadute politiche) è molto difficile identificare

Di Marzio Breda

È probabile che uno con la sua formazione e il suo stile abbia sofferto il metodo usato da Renzi per imporre la legge elettorale, con continui scontri in Aula e strappi con lo stesso partito di maggioranza. Ma da oggi il problema del presidente della Repubblica è quello di entrare nel merito della legge, per decidere se approvarla o no.

E la ratifica, si sa, dipende da ipotesi di palese incostituzionalità, che nel caso dell’Italicum (per quanto si possano sospettare detestabili ricadute politiche) è molto difficile identificare. Del resto, basta rileggersi i requisiti segnalati come indispensabili nel 2014 dalla Consulta - di cui Mattarella faceva parte - nella sentenza che bocciava il Porcellum, per sincerarsi che il nuovo sistema quei criteri di base li rispetta. Un raffronto che dovrebbe dunque legare le mani al capo dello Stato, deludendo chi nelle ultime settimane ha tentato di fare sponda su di lui, la minoranza pd anzitutto.

Nell’Italicum, comunque, ci sono almeno un paio di punti «politicamente critici», con potenziali ricadute che potrebbero indurre il presidente a qualche approfondimento in più e magari ad alcune osservazioni, che potrebbe rendere pubbliche o in coda alla legge stessa (sulla scia della prassi inaugurata da Napolitano e ormai accettata) o attraverso un’esternazione ad hoc. Eccoli: 1) la cosiddetta clausola di salvaguardia, che subordina e rende efficace la norma a partire dalla riforma delle Camere; 2) il bipartitismo perfetto cui di fatto si ambisce e che cadrebbe in un quadro politico nel quale uno dei due contendenti (il centrodestra) è in condizioni di grande debolezza. Ora, posto che ciò possa spingere a un utile e semplificatorio rassemblement, non va trascurata la coincidenza che intanto crescono le forze antisistema (come il Movimento 5 Stelle) .

5 maggio 2015 | 08:11
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_05/italicum-mattarella-colle-verso-si-osservazioni-1333043a-f2ed-11e4-a9b9-3b8b5258745e.shtml
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:05:18 pm »

Il primo del capo dello stato
Mattarella, un messaggio poco “politico”. Con l’accento sulla legalità
La crisi, la disoccupazione, il terrorismo, l’immigrazione, l’inquinamento: le emergenze del passaggio verso il 2016 nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica

Di Marzio Breda

Le ricadute della crisi, la disoccupazione, il terrorismo, l’immigrazione, l’inquinamento… Ci sono quasi tutte le emergenze di questo passaggio verso il 2016, cruciale per una ripartenza del Paese, nel messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Un messaggio poco politico (anche se, si sa, tutto è politica) e molto attento invece alla vita concreta delle persone, nel tentativo di infondere comunque fiducia. Questioni affrontate - in un monologo colloquiale durato meno di venti minuti - con quella sensibilità sociale che fa parte della formazione umana e intellettuale di Sergio Mattarella.

Diversi gli spunti che lo dimostrano. Un esempio. Quando parla del lavoro che manca, problema acutissimo per i giovani di ambienti svantaggiati e specialmente al Sud, il capo dello Stato ricorda, sia pur senza evocarla, la paralisi di quella «mobilità sociale» che negli anni Sessanta/Settanta aveva consentito l’accesso all’università, all’epoca non costosa quanto oggi, a milioni d’italiani fino ad allora esclusi. Effetto di una crisi ancora non risolta, anche se - e Mattarella lo riconosce, con sicuro sollievo del premier Matteo Renzi - «la condizione economica dell’Italia va migliorando e le prospettive appaiono favorevoli».

Nella stessa prospettiva di tenere insieme la trama sociale di un Paese che resta comunque in difficoltà va letta la sua dura denuncia dei guasti provocati dall’evasione fiscale e contributiva. Un danno che da solo vale 7 punti e mezzo di Pil, cioè, secondo l’inedita citazione di uno studio di Confindustria, «più di trecentomila posti di lavoro». Ecco: la ripresa dovrebbe offrire per lui strumenti nuovi per affrontare dossier dolenti come questo o come la tutela dell’ambiente o, perfino, la minaccia portata dal terrorismo fondamentalista. Un approccio diverso serve poi a proposito delle continue ondate di flussi migratori, che per il presidente vanno «governati» con un sano equilibrio. Vale a dire: con spirito di «accoglienza», ma anche «con rigore». Distinzione non da poco, dati gli estremismi che ormai quotidianamente si accavallano, nell’approccio con questo dramma epocale.

Aspri i riferimenti alla «questione morale», riaperta dai recenti scandali, con inquinamenti mafiosi pure nella sfera politica. La legalità, del resto, si delinea ormai come l’autentica mission di questo settennato, se non altro perché il capo dello Stato sente di poter esprimersi a nome della «quasi totalità dei nostri concittadini… che credono nell’onestà e pretendono correttezza». Anche, è la sua puntualizzazione, severa e fortemente politica, «da chi governa, a ogni livello».

31 dicembre 2015 (modifica il 31 dicembre 2015 | 21:39)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_31/mattarella-messaggio-poco-politico-l-accento-legalita-eee26426-afe9-11e5-98da-4d17ea8642a3.shtml
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