Arlecchino
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« Risposta #255 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:23:41 pm » |
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Il prezzo dei voti Le riforme che (forse) non avremo Di Ernesto Galli della Loggia Un governo che in Italia provi a fare certe riforme si espone a un rischio quasi sicuro: quello di perdere le elezioni. Da noi assai più che altrove dato il tipo di compenetrazione tutta particolare che si è stabilita tra lo Stato e la società. Il governo Renzi mi pare esserne consapevole, e infatti si regola di conseguenza. Quando dico certe riforme intendo quelle che dovrebbero cercare di cambiare il modo d’essere e/o di funzionare di alcuni ambiti e di alcune legislazioni che rappresentano vere e proprie criticità in cui ci dibattiamo da decenni, ma che sono sempre lì come altrettante insuperabili colonne d’Ercole della nostra vita collettiva, o che lo stanno ormai diventando. Penso ad esempio all’organizzazione e al funzionamento della pubblica amministrazione e alla sua super blindatura costituita dal contratto del pubblico impiego; penso alla fitta rete di tutele legislative di cui godono i gruppi più vari (farmacisti, tassisti, notai, ordini professionali di ogni genere, ma anche aziende e rami di attività economica), all’organizzazione della magistratura e della giustizia, alla legislazione sugli appalti e sulla spesa pubblica che con i mostruosi percorsi a ostacoli che prevede sembra fatta apposta per conferire un enorme potere di blocco e di ricatto alla burocrazia e alla politica; penso al sistema fisiologico e diffuso dappertutto degli sperperi più incredibili. Ma penso anche a riforme meno clamorosamente urgenti ma assolutamente necessarie, quali per esempio quella dei programmi scolastici, fermi a una stagione ideologica ormai tramontata, ovvero alla riforma altrettanto urgente negli studi universitari del sistema di laurea del tre+due, rivelatosi una vera catastrofe. Come si vede, si tratta di riforme che però presentano elettoralmente uno o l’altro di questi due gravi aspetti negativi: o colpiscono nel proprio personale interesse vasti gruppi di ceto medio, forti, oltre che della loro quota di voti, di ramificate influenze sociali e di una conseguente capacità di ritorsione e di boicottaggio; ovvero di riforme che spaccano ideologicamente l’opinione pubblica. O che fanno talvolta le due cose insieme. Appare del tutto logico, quindi, che in vari decenni nessun esponente politico si sia voluto bruciare cimentandosi con esse. Pur essendo tutti perfettamente consapevoli che proprio tali riforme sono quelle che davvero servirebbero per rimettere in moto l’Italia su basi nuove, che solo tali riforme farebbero voltare davvero pagina al Paese. Anche Renzi, ahimè, a dispetto del suo empito attivistico-oratorio-riformistico, sembra intenzionato a tenersi lontano dalle materie elettoralmente scottanti. Basta considerare le principali misure finora adottate o messe in cantiere dal suo governo. Escludendo evidentemente le misure che in realtà costituiscono esborso di quattrini e/o agevolazioni economiche di varia entità e destinazione (bonus, abolizione delle tasse sulla casa e dell’Imu agricola, sblocco dei cantieri fermi, eccetera), sono tre le riforme propriamente dette, avviate o compiute dal governo attuale: il Jobs act, la riforma del Senato, la riforma della legge elettorale. Quanto al primo provvedimento, esso innova sì ma non colpisce alcun interesse costituito, dal momento che o migliora le condizioni contrattuali già in vigore o si applica a contratti di lavoro che vedono la luce solo dopo la sua entrata in vigore. La riforma del Senato, dal canto suo, ha aperto sì un contenzioso violentissimo, ma tutto interno al ceto politico: la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, infatti, è largamente indifferente o vede con favore la fine del bicameralismo. Lo stesso, o quasi, può dirsi della progettata riforma della legge elettorale: se ne appassionano moltissimo i parlamentari (che a ragione vi vedono scritto il loro destino) ma sì e no un paio di milioni di elettori politicizzati; a tutti gli altri essa interessa poco o nulla. In complesso, insomma, si tratta di riforme che pur oggettivamente importanti, tuttavia si presentano come elettoralmente innocue o destinate quasi sicuramente a favorire la linea governativa. È così che dopo circa due anni l’Italia renziana appare ancora, per gran parte, l’Italia corporativa, taglieggiatrice e classista di sempre, con il suo Stato burocratico, anchilosato e intellettualmente torpido. L’Italia incapace di smantellare strutture soffocanti, di abolire leggi inutili o nocive, di cancellare privilegi, di immettere un largo e spregiudicato soffio rinnovatore nel suo vecchio, troppo vecchio, organismo. E ciò accade, paradossalmente, proprio quando essa è guidata dal gruppo dirigente più giovane e apparentemente dinamico della sua storia. Il quale, però, sembra diventato tanto cautamente accorto oggi, nel gestire il potere, quanto fu invece coraggiosamente audace a suo tempo allorché si trattò di conquistarlo. 7 dicembre 2015 (modifica il 7 dicembre 2015 | 07:28) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_07/riforme-che-non-avremo-editoriale-galli-loggia-69014eb4-9caa-11e5-9189-eea9343a1b14.shtml
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« Risposta #256 inserito:: Dicembre 13, 2015, 06:38:16 pm » |
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Il declino delle élite L’Europa senza più statisti Di Ernesto Galli della Loggia Stasera, in Francia, la classe politica di governo - Hollande o Sarkozy o entrambi, non importa - penserà di aver vinto le elezioni. E così di aver fatto il proprio dovere, di avere alla fine sconfitto la minaccia del «populismo», sia pure con l’aiuto di una legge elettorale dallo strepitoso premio di maggioranza, contro la quale, peraltro, non mi sembra che si sia levata in questa occasione neppure la più timida critica da parte dei sacerdoti nostrani del proporzionalismo. Partita chiusa, dunque: la vita ricomincia, la democrazia europea ha vinto. Ma ha tutta l’aria di essere una vittoria che lascia il tempo che trova. La partita vera, infatti, si è appena aperta. È la partita, di cui in Francia è andata in scena solo una mano, che vede il nostro continente alle prese con una condizione storica nuova e sempre più difficile. Una stagnazione economica di lungo periodo sta erodendo implacabilmente l’intero tessuto sociale (a cominciare per esempio dal rapporto tra le generazioni), e insieme i margini di tutte le politiche sociali; la costruzione dell’Unione europea, d’altra parte, mostra sempre di più le sue contraddizioni e specialmente la sua incapacità di esistere su un qualunque terreno politico; per la prima volta negli ultimi quindici secoli, poi, una grande migrazione si rovescia da altri continenti sulle nostre contrade, creando problemi e tensioni interne di ogni tipo; ai confini d’Europa, per finire, esplodono conflitti di una vastità ma soprattutto di una qualità inedite quanto temibili. Una grande potenza, la Russia, si fa intanto di nuovo minacciosamente sentire alle sue porte, e viceversa il Grande Protettore di sempre, gli Stati Uniti, appare solo desideroso di tenersi il più lontano possibile da tutto. Viviamo oggi in un’Europa che finisce di risvegliarsi dal sogno del lungo e felice dopoguerra, e improvvisamente si scopre se non vicina a un punto di rottura, certamente davanti a una drammatico cambiamento di scenari storici. Un cambiamento di fronte al quale le sue classi politiche appaiono, quale più quale meno, tutte quante immerse in una sconsolante mediocrità, incapaci di comprendere ciò che sta succedendo, di immaginare risposte adeguate, sorde ai nuovi orientamenti e alle nuove domande che nascono nell’opinione pubblica. Anche la cancelliera Merkel, che è quanto di più vicino esista all’immagine di uno statista europeo, non riesce in realtà a sottrarsi ad una visione sostanzialmente sempre germanocentrica. Ci si può meravigliare se i sistemi politici e istituzionali nei quali le classi politiche europee sono abituate da decenni a farla da padrone raccolgono tra i cittadini una fiducia e un consenso sempre minori? Di tutto questo ci parla l’esempio della Francia, a dispetto della soddisfazione d’obbligo di cui farà mostra il vincitore di stasera: del declino delle élite politiche europee. Nel lontano 1945, subito dopo la fine della guerra mondiale, la democrazia continentale poté contare per la sua nascita e il suo primo radicamento su una generazione di capi e di quadri selezionati e ammaestrati dalla terribile lezione della vittoria dei totalitarismi, e dalle vicende della grande politica in anni di ferro e di fuoco; una generazione cresciuta in una quotidianità di vita spesso aspra, fatta di pochi beni e di molte letture, di passione per le idee, trascorsa tra la gente comune. Fu la generazione dei De Gasperi, dei Mendès France, degli Adenauer, degli Schuman, degli Ollenhauer, dei Nenni, nel bene e nel male anche dei Togliatti e dei Tito: politici abituati a organizzare il mondo intorno a una visione generale fondata su valori forti. Seguirono, negli anni 60-70 e fino alla fine del secolo, uomini che avevano ancora fatto a tempo a sentire l’eco, e spesso più che l’eco, della temperie mondiale tra le due guerre: anche se perlopiù usciti dalla dura selezione delle piazze e dei comizi, dell’attività di governo, dallo scontro nelle assemblee. I Fanfani, i Kohl, i González, i Berlinguer: cresciuti sulle orme dei predecessori ne conservarono in qualche modo le idealità, seppure con l’accresciuta scaltrezza, tinta di cinismo, di un partitismo ormai maturo. Anche per questa scaltrezza, ma specialmente per la pronta intelligenza delle cose alte come di quelle basse, per lo stile istituzionale sostenuto, per l’alto registro della sua eloquenza, François Mitterrand resta nel ricordo il massimo e ultimo statista di quella stagione della democrazia europea. Poi c’è stato il dopo, il tempo che viviamo: senza più statisti, affollato solo da politici. Da politici in genere selezionati da nulla se non dal caso o dall’obbedienza, passati attraverso nessuna prova, trovatisi scodellata la pappa già bella e pronta: abituati più che a convincere una riunione di militanti o di elettori, ad ammaliare un pubblico televisivo. Ci guidano élite politiche, classi di governo, fisiologicamente prive di qualunque originalità coraggiosa, altamente omogeneizzate nella banale convenzionalità delle idee eguali dominanti a destra come a sinistra. Élite politiche, classi di governo, composte di uomini e donne nella cui formazione si sente l’assenza, comune ormai a tutta la nostra cultura, della storia - della lezione di alta drammaticità e della tensione etica che è propria della narrazione storica - a pro, invece, della consequenziarietà ingannatrice di troppi ragionamenti economici. Uomini e donne che sono figli di società come le nostre: ricche, indulgenti, permissive, psicologicamente e culturalmente lontane mille miglia dall’idea del tragico e della lotta. Dall’idea che la politica possa avere qualcosa a che fare con Dio e con la morte. L’Europa, insomma, affronta il momento forse più gravido di scelte della sua storia recente con le élite politiche più mediocri della sua non lunga vicenda democratica. Stasera, quando l’uno o l’altro celebrerà sui nostri schermi la propria inutile vittoria, Hollande e Sarkozy ce lo rappresenteranno, c’è da giurarci, in modo inarrivabilmente patetico. 13 dicembre 2015 (modifica il 13 dicembre 2015 | 08:17) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_13/europa-senza-piu-statisti-f117ae94-a167-11e5-80b6-fe40410507f1.shtml
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« Risposta #257 inserito:: Dicembre 23, 2015, 06:15:50 pm » |
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Lo scatto necessario Il governo e il Sud che non c’è Di Ernesto Galli della Loggia Mi chiedo, ascoltando come tutti noi i suoi discorsi, se al nostro presidente del Consiglio è mai capitato di trascorrere più di una notte in qualche città dell’Italia meridionale, se conosce appena un poco quella parte del Paese. Se ha mai visto, per esempio, il terrificante panorama di Catanzaro o il centro antico di Palermo; se ha mai dato più di un’occhiata all’ininterrotta conurbazione napoletana che si stende da Pozzuoli a Castellammare. O, chessò, se per andare a Potenza o a Nuoro invece di un comodo elicottero ha mai preso un treno. (Non voglio chiedergli se ha mai provato - così, tanto per provare, per carità - a farsi una tac in un ospedale calabrese: sono convinto però che molti calabresi glielo chiederebbero volentieri). Penso che la risposta a tutte queste domande sia no, e credo di non sbagliare. Del resto è la maggior parte dell’intera classe dirigente italiana che ormai non sa più che cosa sia il Sud; che sempre più spesso neppure vi mette piede. E forse non solo essa: sono convinto che anche per la maggior parte dei giovani veneti o lombardi Lecce o Siracusa suonino come nomi di località esotiche e remote. Si salvano solo i luoghi di vacanza: il Salento, Carloforte o Positano come le Maldive, insomma. L’addio al Mezzogiorno prima che culturale è stato ideologico e politico. È cominciato a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando la centralità sempre maggiore del tema della legalità ha preso a fare del Sud, patria delle maggiori organizzazioni criminali europee, se non mondiali, il terreno del negativo e del male per antonomasia. Rapidamente tutto ciò che riguardava il Sud, a cominciare dalla sua classe politica, ha acquistato un sapore di imbroglio, di corruzione, di raccomandazioni. Certo: il resto d’Italia non era da meno. Però lo era di meno. E così, chiusa la Cassa del Mezzogiorno - nell’opinione corrente divenuta unicamente simbolo di spreco e di sottogoverno, mentre invece è stata anche molte altre cose buone - stanziare soldi per il Sud è diventato sempre più problematico politicamente, alla fine impossibile. Il Sud è uscito dall’agenda dei governi. L’ordinamento regionale ne ha completato la rovina. Non solo perché lo ha ancora di più rinchiuso nella gabbia delle sue pessime tradizioni politiche, ottimamente rappresentate specie dai gruppi dirigenti locali. Ma perché ha frantumato la sua immagine unitaria: ciò che ne faceva, per l’appunto, una grande «questione» agli occhi del Paese. Il Mezzogiorno è sparito: il suo posto è stato preso dalle Regioni meridionali. L’ordinamento regionale, poi, è valso potentemente a diffondere l’idea che il Sud, autogovernandosi, era ormai una cosa a parte, un soggetto politico a sé, che non aveva più alcun bisogno di aiuto da altri: «Ci sono le loro Regioni con sempre più poteri: che se la vedano loro». La concomitante, progressiva delegittimazione del ruolo imprenditoriale dello Stato, voluta con particolare forza anche dall’Unione Europea, ha fatto il resto. Così, nella sostanziale indifferenza degli italiani (compresa, tragicamente, gran parte degli stessi meridionali e delle loro scellerate rappresentanze parlamentari), il Mezzogiorno è giunto dov’è oggi: sull’orlo del collasso. Da anni il suo distacco dal Nord non fa che accrescersi, sicché ormai, per esempio, il gap economico tra la Lombardia e la Calabria è maggiore di quello tra la Germania e la Grecia. È a rischio povertà nel Sud un individuo su tre (nel Nord uno su dieci). Il tasso di disoccupazione al 20 per cento è più del doppio della media nazionale (quello giovanile supera il 30 per cento). Oltre il 18 per cento delle famiglie ha difficoltà nell’approvvigionamento idrico. In Regioni come la Sicilia, la Sardegna, la Campania la percentuale degli studenti che non terminano il quinquennio dell’istruzione superiore si aggira intorno al 40 per cento (la media nazionale, altissima, è di circa il 25). In tutto il Mezzogiorno, infine, non c’è una sola sede universitaria definita «di qualità»: il che in parte spiega anche perché nell’ultimo decennio le immatricolazioni negli atenei meridionali siano diminuite di oltre il 27 per cento (nel Nord dell’11). Ciò che colpisce di questa situazione è la sostanziale assenza di una reazione forte e continua da parte dell’opinione pubblica meridionale e di chi dovrebbe darle voce. Mancano larghi dibattiti, autocritiche, progetti: mancano gruppi attivi, iniziative di mobilitazione duratura, leader moderni e capaci. Le eccezioni sono la conferma della regola. È la società civile del Mezzogiorno che si direbbe ormai disanimata, svuotata di energie, perfino quasi di risorse intellettuali desiderose e capaci di parlare al Paese, come pure in passato tante volte essa ha fatto. In queste condizioni le continue richieste di fondi per i casi più vari che dal Sud si muovono allo Stato finiscono inevitabilmente per apparire più che altro come la richiesta di inutili mance. Specie se poi vengono soddisfatte. Come stupirsi allora se nella «narrazione» di Renzi il Sud non ci sia? Senza il Sud, però, è difficile che possa esserci una «narrazione» dell’Italia, tanto più un progetto per il suo futuro. Senza il Sud infatti non esiste neppure l’Italia, esiste un’altra cosa, un altro Paese. È questo un punto cruciale - e insieme il punto più debole, mi pare - del discorso del nostro presidente del Consiglio. Se ci si propone di governare l’Italia per dieci anni - come pare che egli voglia fare - allora è impossibile farlo solo da Firenze (al massimo con una propaggine a Milano e dintorni). Così come è impossibile farlo ripetendo e twittando raffiche di «rimbocchiamoci le maniche», «la svolta è vicina», «siamo ripartiti» o incitamenti simili. Sembra necessario qualcosa di più: qualcosa che guardi più lontano e più in alto, che risponda a questioni di fondo. Che connetta il passato con il futuro, i pochi con i molti, chi ha di più con chi ha di meno, il Nord con il Sud, appunto. 21 dicembre 2015 (modifica il 21 dicembre 2015 | 08:34) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_dicembre_21/governo-sud-che-non-c-e-74ba6972-a7ac-11e5-927a-42330030613b.shtml
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« Risposta #258 inserito:: Dicembre 30, 2015, 06:15:07 pm » |
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Gli atenei Università, calano le matricole un declino da fermare Per la prima volta nella storia italiana diminuisce il numero degli iscritti, il 20% in meno nell’ultimo quinquennio. Cala anche il numero dei docenti, mentre la spesa statale per gli atenei resta ferma da dieci anni Di Ernesto Galli della Loggia Per la prima volta nei 150 anni della sua storia l’Italia vede diminuire il numero degli studenti immatricolati all’università (meno il 20 per cento nell’ultimo quinquennio). Ciò avviene in concomitanza con una forte contrazione quantitativa che colpisce tutta la nostra istituzione universitaria. Più o meno nello stesso periodo, infatti, i docenti sono diminuiti del 17 per cento, e all’incirca della stessa percentuale il personale amministrativo, mentre l’ammontare dei finanziamenti ordinari che lo Stato versa agli atenei segna una diminuzione di ben il 22,5 per cento in termini reali. La spesa statale per borse di studio è ferma da dieci anni a 160 milioni annui (quindi cala in termini reali). In sostanza, rispetto al totale della spesa pubblica il comparto universitario è quello che ha fatto segnare negli ultimi anni la maggiore riduzione del personale e della spesa stessa. Il brillante risultato di questa politica di vero e proprio disinvestimento in un settore come quello dell’istruzione superiore e della ricerca - che peraltro in ogni occasione tutti si affannano a definire cruciale, importantissimo, decisivo - è che oggi l’Italia è all’ultimo posto in Europa per numero di giovani provvisti di laurea. Il ministro Giannini conosce certamente queste cifre. Nel caso contrario non ha che da dare un’occhiata al rapporto della Fondazione Res curato da un valente economista come Gianfranco Viesti, dedicato per l’appunto alle condizioni dell’università italiana. Dove un dato drammatico emerge, insieme a quello della forte contrazione del finanziamento statale: la crescente disparità di condizioni fra atenei del Nord e atenei del Sud. Il calo delle immatricolazioni nel Sud e nelle Isole è, per esempio, più che doppio rispetto al Nord del Paese (e riguarda, fatto significativo, specialmente i giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti). Cresce poi il numero degli studenti meridionali che si iscrivono nelle università centro-settentrionali (il fenomeno inverso è quasi inesistente, com’è inesistente la mobilità all’interno dell’area meridionale). Al Sud, una percentuale di studenti oscillante tra il 17 e il 25 per cento a seconda delle sedi abbandona gli studi, contro una percentuale nel Centro-Nord del 12-15 per cento. Infine, il numero dei posti nei corsi di dottorato, la possibilità di assunzione di nuovi docenti, le loro possibilità di carriera, tutti questi fattori vedono gli atenei del Mezzogiorno più o meno gravemente indietro rispetto a quelli del resto del Paese. Ora, se è del tutto fisiologico che in un Paese esistano sedi universitarie più dotate e altre meno, è viceversa sicuramente patologica una situazione come quella italiana dove in tutto il Sud non si registra neppure un centro universitario di eccellenza (un buon dipartimento qua e là non serve a cambiare il quadro), mentre questi, invece, sono tutti concentrati al Nord con qualche oasi fortunata al Centro. Il nostro sistema universitario soffre insomma di una doppia criticità. Da un lato esso vede da anni le proprie risorse diminuire (mentre in Francia, Germania e Spagna avviene il contrario); dall’altro esso si presenta sempre più come un sistema differenziato, con un Sud che arretra progressivamente. Ancora una volta due Italie, dunque, e ancora una volta sempre più lontane: un giovane nato a sud del Tevere (in questo caso bisognerebbe forse dire a sud dell’Arno) è destinato, novanta probabilità su cento, a studiare in un’università di serie B. Anche in questo ambito la prima spiegazione va cercata in un divario storico di partenza tra le due parti del Paese. Al quale si sono poi aggiunte nel Sud le ben note condizioni economiche ambientali sfavorevoli, la povertà dei circuiti culturali locali, élite politiche cittadine e regionali quasi sempre prive di visione e di capacità, la peste del baronato con punte record di clientelismo accademico e non. Un peso tutto particolare ha avuto infine una legislazione sciagurata che, facilitando il reclutamento del corpo docenti all’interno di una stessa sede universitaria, ha impedito quella circolazione su base nazionale dei professori che prima era la regola. Gli atenei meridionali si sono trovati così come rinchiusi irreparabilmente nei propri mali e nei propri vizi, condannati a una progressiva subalternità. Una subalternità che peraltro è stata ancor più accentuata dalla scelta politica compiuta dalle autorità ministeriali negli ultimi anni. I soldi non sono tutto, è vero, ma senza soldi non si può fare quasi nulla, senza soldi non si va molto lontano. Detta in poche parole, la scelta politica di cui dicevo è consistita nel decidere di distribuire i fondi statali ai vari atenei in misura differenziata, premiando quelli che adempivano meglio a una serie di condizioni. Specificare in dettaglio è in questa sede impossibile. Basterà dire che di fatto tali condizioni (livello delle tasse richieste agli studenti, quantità e qualità della produzione scientifica dei docenti, livello delle attrezzature, livello di internazionalizzazione) sembrano studiate apposta per premiare gli atenei che sono già ai primi posti e ricacciare così ancora più indietro quelli che sono agli ultimi. Ciò che infatti da anni, come si è visto, sta regolarmente avvenendo, a danno soprattutto delle sedi meridionali. Ma paradossalmente ciò sta avvenendo senza che nessuno lo abbia discusso veramente. Senza che nessuno abbia discusso la questione cruciale. Vale a dire: che cosa si deve fare del sistema universitario italiano? Come deve essere? Puntare su poche sedi già oggi in buona posizione per cercare di farne dei veri centri di eccellenza di livello europeo può essere giusto, ma che fare allora delle altre e quali caratteristiche queste debbono avere? Ed è giusto che le sedi di eccellenza siano tutte o quasi concentrate in un triangolo della Pianura padana? Infine: si può immaginare un qualunque futuro per il sistema universitario riducendogli progressivamente i fondi come si fa ormai da troppo tempo? Da ultimo una postilla: questo non vuole essere uno di quei piagnistei da «gufo» che tanto dispiacciono al nostro presidente del Consiglio. Al contrario: è un invito proprio a Matteo Renzi perché rivolga la sua attenzione a una questione cruciale per il Paese e intervenga come, se vuole, sa fare. Se gli servono idee, ammesso che egli pensi di averne bisogno, stia sicuro che in circolazione ce ne sono di ottime. 30 dicembre 2015 (modifica il 30 dicembre 2015 | 08:53) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/cronache/15_dicembre_30/universita-calano-matricole-declino-fermare-17ae7d06-aec6-11e5-8a3c-8d66a63abc42.shtml
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« Risposta #259 inserito:: Gennaio 10, 2016, 04:22:29 pm » |
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Diritti e doveri Integrare senza sensi di colpa Di Ernesto Galli della Loggia Quando da molte parti s’invoca verso gli immigrati una politica volta all’integrazione, di che cosa parliamo in realtà? Che cosa intendiamo esattamente? E per cominciare: in che cosa pensiamo che gli immigrati debbano integrarsi? Lo ha detto chiaramente l’altro ieri la cancelliera Angela Merkel: vogliamo che gli immigrati assorbano «i fondamenti culturali del nostro vivere insieme», che essi s’integrino, cioè, nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi. Ma cos’altro rappresenta tutto questo, mi chiedo, se non una cultura, nel caso specifico la nostra cultura? L’integrazione, insomma, è integrazione in una cultura, l’adozione di fatto (volontaria o involontaria non importa) dei suoi tratti caratteristici di fondo, della sua visione del mondo. O è questo, o semplicemente non è. Ma se le cose stanno così bisogna allora rendersi conto delle conseguenze che ne derivano. In particolare del fatto che un tale progetto d’integrazione è radicalmente contraddittorio, per non dire incompatibile, con l’idea e la prassi del multiculturalismo. Quel multiculturalismo che invece in Occidente moltissimi ancora considerano la linea guida da seguire nel rapporto con l’immigrazione: anche perché espressione del «politicamente corretto». Questo multiculturalismo all’insegna del «politicamente corretto» è alimentato da decenni dal pregiudizio che la nostra civiltà si sarebbe macchiata di misfatti di qualità e quantità superiori a tutte le altre, e quindi si sente in dovere della più esasperata attenzione verso ogni minoranza o gruppo non occidentale, percepito per definizione come potenziale vittima di soprusi. Esso non solo può essere protagonista di episodi di ridicolaggine assoluta (ma significativa), di cui di recente hanno dato notizia i giornali, come la protesta del campus dell’Università di Yale contro l’intitolazione di un edificio al presidente americano Wilson perché a suo tempo «favorevole alla supremazia bianca», ovvero come la protesta sempre di un gruppo di studenti dell’Ohio, mobilitatisi in grande stile contro l’indebita «appropriazione culturale» di cui si sarebbe macchiata la caffetteria del loro college preparando dei piatti etnici ma scostandosi dalla loro preparazione tradizionale. Esso ha avuto sicuramente una parte non piccola anche nel comportamento timido fino all’omissione della polizia di Colonia la notte dell’ultimo dell’anno, così come dell’occultamento per giorni della notizia di quei fatti da parte dei media tedeschi, o delle infelici, ridicole, dichiarazioni del sindaco della città. Il multiculturalismo consiste nell’idea che in una società possano / debbano convivere senza problemi culture diverse. Anche molto diverse. Il guaio è che la cultura non è come un cappotto, che uno può infilarsi o sfilarsi a piacere. Quando se ne possiede una, e si ha intenzione di mantenerla, è molto difficile, pressoché impossibile, adottarne insieme un’altra. Se si crede in certi valori, è difficilissimo farne propri allo stesso tempo anche altri. Se per esempio è radicata dentro di me una certa idea dell’altro sesso e dei rapporti tra i due, una certa idea del rapporto tra la religione e lo Stato, una certa idea del mio passato storico, del suo significato e del suo rapporto con quello altrui, e se, come è ovvio, da ognuna di queste idee discendono comportamenti conseguenti, come potrò mai integrarmi davvero in un’altra cultura? Come potrò mai essere in certo senso due persone diverse contemporaneamente? Non a caso una società realmente multiculturale - che non è quella che ci fanno vedere nei film dove tutti contenti mangiamo insieme il cous cous o indossiamo una pittoresca djellaba, ma è caratterizzata da una molteplicità paritaria di culture - questa società non esiste in alcun luogo del pianeta. In ogni società vi è una cultura dominante, cioè quella che determina il quadro delle regole generali. Regole che - va sottolineato con forza - anche nel caso delle attuali società democratiche, direi anzi soprattutto in queste, non sono mai neutre, quindi condivisibili (e perciò osservabili) da tutti senza problemi. Esse, invece, rappresentano e tutelano sempre determinati modelli di vita, determinati valori, frutto di una determinata storia, specialmente religiosa. Bisogna quindi avere il coraggio di dirlo e soprattutto di farlo capire a chi viene tra noi, non nascondendo che ciò vale soprattutto per coloro che provengono dal mondo islamico. Per gli immigrati integrarsi implica necessariamente la rinuncia a una parte più o meno importante della propria cultura. Perlomeno significa accettare che l’ambito d’influenza di essa - per esempio di alcuni modi tradizionali d’intendere la propria fede religiosa - incontri dei limiti più o meno significativi. Abbiamo il dovere di offrire agli immigrati protezione e opportunità, eguaglianza e godimento dei diritti. Dobbiamo facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro (anche magari con percorsi di favore), soprattutto garantendoli dallo sfruttamento di padroni e imprenditori senza scrupoli (ciò che facciamo poco e male). In parecchi casi non dobbiamo esitare a concedere anche la nazionalità. Ma non dobbiamo esitare a chiedere, e se necessario a imporre - anche grazie a nuove disposizioni, a eventuali nuovi e più penetranti poteri ai servizi sociali o alle autorità di polizia locale e non - alcune regole. Che per esempio dopo un certo periodo di tempo per ottenere il permesso di soggiorno sia necessario dimostrare il possesso della lingua italiana. Che la predicazione nei luoghi di culto non debba avere carattere politico. Che all’interno dei nuclei familiari le mogli debbano avere accesso alla lingua italiana e godere piena libertà di movimento (ciò che oggi in un gran numero di casi non avviene). Che l’obbligo scolastico dei minori sia rigorosamente osservato per entrambi i sessi. Che le adolescenti non siano rispedite nei Paesi d’origine per contrarre matrimoni combinati (come invece è attualmente frequente). Sono solo pochi esempi di un genere di questioni e di problemi che le classi politiche del nostro continente devono affrontare subito con la massima decisione e lungimiranza. Se finora l’Unione Europea ha fatto poco o nulla in questo ambito, il governo italiano ci pensi da solo. Abbia immaginazione e fermezza, soprattutto non abbia paura di avere coraggio: da ogni punto di vita non ha che da guadagnarci. 10 gennaio 2016 (modifica il 10 gennaio 2016 | 07:41) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_10/immigrrati-migranti-integrare-senza-sensi-colpa-editoriale-63e372c0-b764-11e5-8210-122afbd965bb.shtml
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« Risposta #260 inserito:: Gennaio 14, 2016, 07:38:15 pm » |
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MULTICULTURALISMO. Prospettive Tra le leggi e i valori esiste una corrispondenza nelle società democratiche Il rischio è credere che sia reale il mondo levigato e confortevole dove regna la morale del politicamente corretto In India essere cattolico è un’impresa che può costare anche la vita Di Ernesto Galli della Loggia Sarebbe buona norma che prima di criticare un testo lo si leggesse con un minimo di attenzione. Mi sorprende che invece Carlo Rovelli — per giunta uno scienziato di vaglia — si sia fatto prendere dalle sue emozioni e dai suoi pregiudizi obiettando a cose che io non ho mai scritto.A differenza di quanto egli mi attribuisce non ho mai scritto, infatti, che «la nostra società deve essere guidata da un sistema di valori e dalle regole dettate (corsivo mio) dai comportamenti socialmente ammessi». Ho scritto di condividere l’opinione della cancelliera Merkel secondo cui chi immigra da noi deve integrarsi «nel sistema di valori, di regole e di comportamenti socialmente ammessi che vigono da noi». Come si vede una cosa ben diversa da quella immaginata da Rovelli (non ho mai pensato né scritto, cioè, che debbano essere i comportamenti socialmente accettati a dettare le regole. E mi chiedo: può specialmente un uomo di scienza permettersi una simile leggerezza? Può farne l’architrave del suo ragionamento senza accorgersi dell’errore?). Il fraintendimento ora detto, chiamiamolo benevolmente così, consente a Rovelli, che vi insiste più e più volte, di prodursi in una lunga discettazione sulla necessità che le nostre società siano «regolate dalle leggi, non da sistemi di valori e giudizi individuali su cosa siano comportamenti socialmente ammessi», sdegnandosi adeguatamente del fatto che io, invece — secondo l’opinione che egli manipolando le mie parole mi attribuisce — auspicherei il contrario. Evviva le leggi, abbasso i valori: questo è la sostanza del punto di vista di Rovelli, convinto, si capisce benissimo, di esprimere in tal modo una visione altamente democratica e razionale come si conviene a un vero scienziato. Peccato però che in questo caso si tratti di un punto di vista e di una visione sbagliati. Le leggi di una qualunque società, infatti, derivano da null’altro che dai suoi valori. E da dove altro se no? Salvo rarissimi casi tra le une e gli altri non vi può essere che una sostanziale coincidenza: pena, altrimenti, la non osservanza delle prime o la necessità di dure misure repressive per ottenerne il rispetto. «Le leggi vengono discusse dalla politica» scrive Rovelli. Appunto: e su che cosa egli crede che verta tale discussione, che cosa crede che rispecchi la sua conclusione in un testo legislativo, se non ciò che pensa, che crede, che spera chi vive in quella società? Cioè i suoi valori? Valori che poi, naturalmente, non possono non influenzare in modo significativo anche i comportamenti socialmente ammessi. In ogni società — e tanto più direi nelle società democratiche — tra leggi, valori e comportamenti c’è una sorta di necessaria circolarità, di necessaria corrispondenza (esattamente come io avevo scritto nella frase da Rovelli manipolata). L’evidente scarsa dimestichezza di Rovelli con tali argomenti si manifesta in pieno quando egli si mette a parlare della cultura in generale e di quella della nostra penisola in particolare (ma in fin dei conti lo capisco: non si può possedere in eguale misura la bibliografia sui neutrini e quella sulla storia d’Italia). Cultura è una parola complessa, dalle molte accezioni; un po’ come filosofia. Ebbene Rovelli parla di cultura come chi a proposito di filosofia parlasse allo stesso modo della filosofia idealistica e della «filosofia del parmigiano», cioè non distinguendo la sostanziale differenza tra gli usi diversi dello stesso termine. Certo che «ogni cultura non è mai unica», come un po’ alla buona scrive Rovelli. Certo che ogni cultura degna di questo nome si forma attraverso la confluenza nel proprio alveo di influssi e ibridazioni. Ma l’alveo è decisivo, per l’appunto. E ogni alveo è diverso da un altro. Dunque, credere che l’Italia sia un esempio preclaro di multiculturalismo solo perché della sua identità fanno parte cose diverse come il Rinascimento toscano e l’Illuminismo milanese, o perché Peppone e don Camillo votavano partiti opposti, è un’idea di un’approssimazione e di un’ingenuità che un minimo, ma proprio un minimo, di preparazione sull’argomento sarebbe stata sufficiente ad evitare. La verità è che non ci si può mettere a sentenziare su queste cose in modo impressionistico, basandosi su un buon liceo e sulla lettura dei giornali. È come se io mi mettessi a disquisire sui «buchi neri» o a dire la mia sugli anelli di Saturno. Egualmente è di un’ingenuità e di un’approssimazione intellettuali da far cadere le braccia credere, come il mio interlocutore crede, che la cultura italiana di oggi sia profondamente diversa da quella dei nostri nonni. Cioè, bisognerebbe dedurne, che la cultura di un Paese — quella vera, quella profonda, frutto di innumerevoli stratificazioni a cominciare da quella religiosa — cambi ogni settanta, ottanta anni. Non è così. Ciò che cambia è semmai il costume, caro Rovelli, il costume, non la cultura, non i tratti dell’identità e dei suoi valori di fondo. Sono cose assai diverse, come lei sa, e la conoscenza dovrebbe consistere innanzi tutto nella capacità di distinguere. Che dire infine di New York, Shanghai o Mumbai additate in queste righe quali eden di una «tolleranza serena delle diversità», della «convivenza pacifica», di «un senso civico comune», di «una nuova identità plurale»? Ma ha mai provato chi scrive tali cose a passeggiare di notte nel Bronx o a tenere un comizio antigovernativo su un marciapiede del Bund? Ed è mai venuto a conoscenza che, certamente non nei quartieri centrali di quella grande città, ma sicuramente in moltissime zone dell’India, essere cattolico è, per esempio, un’impresa a rischio che si può pagare con la vita, ovvero, per dirne un’altra, che lo stupro delle giovani donne è pratica diffusa, molto spesso ancora oggi impunita? Ma andiamo, di che cosa stiamo parlando? La verità è che il multiculturalismo di cui parla Rovelli e che suscita la sua entusiastica adesione non ha molto a che fare con nulla di reale, con la storia, con le culture, con i problemi reali (da lui infatti del tutto ignorati perché, immagino, attribuiti a pure «superstizioni» che il progresso prima o poi cancellerà). È un multiculturalismo da vip lounge aeroportuale, un multiculturalismo da campus di Yale, da prestigiose summer school riservate ai «migliori studenti», come egli scrive. Un mondo levigato e confortevole dove regna il politically correct che lo obbliga a credere che esistano leggi disincarnate dettate da una morale universale mentre — che bello! — in una strada da qualche parte «i giovani di tutto il mondo si parlano». È il mondo al riparo del mondo dove solo può vivere in un cieca autoreferenzialità l’idillio buonista di tante élite intellettuali dell’Occidente, avvolte nel compiacimento dei privilegiati che neppure sospettano di esserlo. 13 gennaio 2016 (modifica il 13 gennaio 2016 | 07:55) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_13/tra-leggi-valori-esiste-corrispondenza-societa-democratiche-3655aa54-b9bb-11e5-b643-f344dc24c117.shtml
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« Risposta #261 inserito:: Gennaio 27, 2016, 11:28:50 am » |
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Renzi rompe gli equilibri in un Paese che cambia Di Ernesto Galli della Loggia Curiosamente non ha suscitato molta attenzione il dissidio che nei giorni scorsi ha opposto il presidente del Consiglio da un lato e, pressoché contemporaneamente, la Banca d’Italia e il ministero degli Esteri dall’altro. La prima colpevole, agli occhi di Renzi, di non avergli saputo fornire in tempo le analisi e i consigli in grado di evitare la crisi bancaria che ha fatto scendere in piazza migliaia di risparmiatori; il secondo costretto a digerire la sostituzione del nostro rappresentante presso la Ue — finora un ambasciatore di carriera giudicato però troppo morbido nei confronti di Bruxelles — con un ambasciatore politico quale l’ex viceministro Calenda. Eppure pochi episodi fanno capire altrettanto bene quanto l’Italia è cambiata. Banca d’Italia e ministero degli Esteri non sono istituzioni qualunque. Ognuna a suo modo ha rappresentato una quintessenza della statualità italiana e della sua vicenda storica. Non solo per la loro funzione, ma perché in entrambi i casi questa funzione si è per così dire incarnata in una specifica ideologia e in un altrettanto specifico «spirito di corpo». Fatti di una tradizione e di una cultura, di norme stilistiche e di principi di azione loro propri. Per le istituzioni italiane un caso rarissimo. Nella prima Repubblica Banca centrale e Diplomazia sono state chiamate a gestire un’idea d’Italia che era, com’è ovvio, l’idea delle culture politiche dominanti, ma che con qualche aggiustamento si combinava senza troppi problemi con quella delle loro rispettive tradizioni L’idea di un'Italia «occidentale» e insieme europeista (sebbene con qualche inevitabile «giro di valzer»), ben conscia di certe sue storiche peculiarità, soprattutto guidata da una classe politica sufficientemente preparata e decisa a stabilire una consonanza collaborativa con l’alta amministrazione. Per mezzo secolo Esteri e Banca centrale hanno dunque rappresentato e gestito ognuna per la sua parte questa Italia, e lo hanno fatto, hanno potuto farlo, con un forte ruolo in prima persona, con la responsabilità di attori diretti. Negli anni 90, con la fine contemporanea della «guerra fredda» e della prima Repubblica, tutto però ha cominciato a erodersi. Ha cominciato a prendere forma un’altra Italia, quella in cui viviamo. Un Paese che inediti scenari internazionali costringono a punti di riferimento sempre più mobili e incerti anche se al medesimo tempo, e contraddittoriamente, lo stesso si trova sempre più ingabbiato dalle regole europee. Un Paese dagli equilibri politici mutevoli, governato da una classe politica slegata da ogni passato che perlopiù ignora; attraversato da pulsioni di rabbia, da improvvisi movimenti d’opinione, da oscure voglie di rovesciamenti di fronte. Per più di un verso l’Italia attuale appare insomma costretta a navigare a vista, alle prese con una difficile ridefinizione degli interessi nazionali, nel mentre si è incrinato quello stesso rassicurante perimetro della sovranità nazionale entro il quale proprio la Banca d’Italia e la nostra Diplomazia hanno tradizionalmente sviluppato la propria identità e del quale sono state addirittura tra i massimi presidi. Oggi l’una e l’altra si trovano prive della possibilità d’interloquire con vere culture politiche di riferimento (tutte ormai ridotte a informi gelatine di idee sparse), con veri partiti. Viceversa la crescente, impetuosa personalizzazione del sistema politico non solo italiano le pone sempre più direttamente a contatto con la solitaria figura del leader, del capo del governo (i ministri essendo ormai figure minori: nel caso degli Esteri quasi un comprimario). Il leader: con le sue mutevoli esigenze, la necessità di mantenersi sulla cresta dell’onda e magari in sintonia con i sondaggi, la sua voglia di accentrare nelle proprie mani le decisioni, con il suo naturale desiderio di successi visibili e immediati. Specialmente se questo leader si chiama Matteo Renzi. Si capisce come l’insieme delle condizioni fin qui dette possa essere adoperato non solo al fine di porre per così dire «fuori fase» la Banca centrale o il ministero degli Esteri, non solo per restringere, come di fatto in certa misura sembra avere già ristretto, i margini di autonomia dell’una e dell’altro, ma anche per intaccare il senso e soprattutto la certezza della loro missione istituzionale. E si capisce allora il significato del dissidio che ha opposto entrambi al presidente del Consiglio. Un dissidio che non manca di avere anche un evidente risvolto stilistico: da un lato la contegnosa sobrietà rivestita di grisaglia di Palazzo Koch, da un lato l’inglese fluente e una certa esterofilia blasé della Farnesina, dall’altro, invece, gli abiti troppo stretti, la voglia un po’ provinciale di far bella figura e il fare spiccio e risoluto di Renzi. Un dissidio che alla fine sembra l’indizio di un vero e proprio cambio di fase storica nella geografia del potere italiano e dei suoi rapporti interni. E che forse annuncia qualcosa ancora di più: l’avvento di una «gente nova» e del suo comando al posto delle élite di un tempo e delle loro istituzioni. 25 gennaio 2016 (modifica il 26 gennaio 2016 | 04:45) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_gennaio_25/renzi-rompe-equilibri-un-paese-che-cambia-b9a6430a-c3a7-11e5-b326-365a9a1e3b10.shtml
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« Risposta #262 inserito:: Agosto 09, 2016, 06:02:41 pm » |
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Quei notabili locali tra soldi e potere La crisi sistemica di molti istituti di credito non è solo un fatto economico, ma pure un capitolo di storia sociale del Paese: una radiografia spietata che svela il lato oscuro delle classi dirigenti sul territorio, il sogno di dominio delle oligarchie più periferiche Di Ernesto Galli della Loggia La crisi del nostro sistema bancario non è solo un fatto economico, è anche un capitolo di storia sociale del Paese. Parlo in riferimento ai tanti istituti medi e piccoli — ma pure a una banca come il Monte dei Paschi, ad esempio — la cui crisi costituisce una radiografia spietata del potere locale italiano. Essa ci racconta infatti nel modo più crudo che cosa sono e come si comportano le oligarchie che dominano nella periferia italiana e che attraverso i loro esponenti troviamo ogni volta alla testa degli istituti in bancarotta. Svelandoci che cosa realmente è l’Italia dei tanto esaltati «territori». Carige, Banca Etruria, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, CariFerrara, CariChieti, Monte Paschi: c’è dentro mezza Penisola: anzi tutta quanta se si considera la lunga lista di banche minori (quasi tutte di credito cooperativo) che la Banca d’Italia ha commissariato nei mesi scorsi e che vede una massiccia presenza di banche del Mezzogiorno. Causa e modalità dello sconquasso sono più o meno sempre le medesime. La storia è sempre la medesima. È una storia di gruppi di comando locali installatisi alla testa degli istituti, i quali in sostanza si perpetuano cooptando via via i propri membri. Sono in genere formati da qualche imprenditore non sempre brillantissimo, da qualche nome più o meno «illustre» tratto perlopiù dal ceto possidente tradizionale, da un pugno di professionisti affermati con vasti giri di contatti e di «agganci», da una vecchia gloria superammanicata o da qualche astro in ascesa della politica locale. Troviamo sempre infine due o tre alti dirigenti di banca perlopiù di oscura origine ma capaci — capaci per intenderci, allo stesso modo che può dirsi capace di un meccanico che trucca le automobili —: uomini, questi ultimi (donne non se ne trovano mai), dall’ambizione accesa, che sanno come muoversi nelle pieghe dei bilanci e perciò rendersi necessari, che capiscono al volo di chi bisogna essere amico e a chi conviene concedere un fido a occhi chiusi. Tutti quanti naturalmente, si può immaginare, «conoscono» qualcuno a Roma, frequentano nella loro città i luoghi, le cerimonie e le occasioni che contano, sanno destreggiarsi bene tra Regione e Palazzo di Giustizia, sono in ottimi rapporti con il Comune, con la Camera di Commercio e l’Unione industriale. Non sono l’élite d’altra parte? È di questi campioni del notabilato di tante città e province italiane che sono stati formati i consigli di amministrazione, i comitati di presidenza, i collegi dei Sindaci, che hanno portato alla rovina un bel gruppo di istituti bancari e depredato decine di migliaia di loro più o meno incolpevoli concittadini. Perché lo hanno fatto? È molto semplice: per arricchirsi, per arricchirsi sempre di più. E insieme per accrescere la propria influenza, per avere più cariche, più relazioni importanti, per diventare più potenti e così magari ancora più ricchi. Soprattutto più ricchi. Posso dirlo senza perciò apparire un cupo moralista? Se c’è una cosa che colpisce da quanto sta emergendo dalle inchieste giudiziarie in corso è la dimensione appropriativa senza l’ombra di uno scrupolo, l’indifferenza a qualsiasi straccio di etica della responsabilità, che sembrano congeniali al notabilato di cui sopra. Questa voglia mai sazia di soldi e di potere, di mettere le mani su una villa o su un affare, l’incapacità di fermarsi. Così come colpisce l’ovvia convinzione dell’impunità sostanziale, di farla franca in qualunque caso, che con ogni evidenza permeava i sullodati signori del credito. Una convinzione fondata su un dato di fatto — che in Italia i potenti in galera seppure ci vanno ci restano sì e no qualche settimana — ma soprattutto sull’intreccio delle relazioni sociali: quello stesso intreccio che così di frequente ha determinato l’erogazione dei crediti facili presto rivelatisi inesigibili ma sempre rinnovati fino all’ultimo. L’intreccio delle relazioni, dicevo: in una certa provincia italiana ci si conosce tutti, specie tra quelli che contano. Insieme si progettano affari e vacanze, cene e consulenze, si stabiliscono matrimoni e ordini del giorno. E naturalmente si è pronti a scambiarsi favori, a chiudere un occhio quando va chiuso. Anche da parte di chi, come le Procure della Repubblica, avrebbe invece il dovere di tenerli spalancati. «Che cosa ci si può aspettare da un Paese così?» viene malinconicamente da chiedersi. E viene da pensare al film della sua storia unitaria, al film degli ultimi 150 anni, che ormai sempre più spesso sembra riavvolgersi al contrario. Infatti è contro questa riottosa «società civile» intimamente sorda a ogni richiamo all’interesse generale, e contro i suoi animal spirits autocentrati e ciecamente acquisitivi, che da sempre se l’è dovuta vedere lo Stato italiano. Ed è contro di essa che tanto spesso sono sembrati naufragare i suoi tentativi di far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e più civili. Tentativi che oggi più che mai sembrano vani nel momento che a questo Stato è venuta meno l’arma della politica, e insieme quella sua preziosa appendice democratica rappresentata dai partiti, che in passato si è rivelata decisiva per imporre la propria volontà alle periferie. Per tenerle insieme, per legarle a un progetto capace di guardare lontano, oltre i loro confini e i loro interessi immediati. Oltre i consigli d’amministrazione bancarottieri e gli arricchimenti personali. 6 agosto 2016 (modifica il 6 agosto 2016 | 21:45) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/16_agosto_07/quei-notabili-locali-soldi-potere-a910a6ee-5c0d-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml
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« Risposta #263 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:38:25 am » |
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Interviste Luca Falcone @lucafalc1 · 2 giugno 2017 Galli della Loggia: “Da Craxi al governo Moro: ecco le occasioni perse dalla politica” Ernesto Galli della Loggia nel suo libro “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica” incrocia la storia d’Italia attraverso la sua biografia Professor Ernesto Galli della Loggia nel suo libro “Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica” (Il Mulino, pp. 355, 24 euro) è centrale il tema del cambiamento. Cambiare idea è inevitabile, ma perché nel nostro Paese viene considerato un tradimento? “Ciò è dovuto all’egemonia culturale prodotta da una politica ideologizzata che in maniera manichea ha diviso il mondo tra il bene e il male assoluto. Il marxismo ha aperto la strada a questo meccanismo, il resto l’ha fatto lo storicismo. Se la storia va verso la nostra parte, chi la pensa diversamente da noi va contro la storia. E per farlo deve avere degli interessi materiali particolari, altrimenti non si giustifica la cosa. A ciò, nel secondo dopoguerra, si è legato anche un processo di idealizzazione positiva della triade Resistenza-Repubblica-Costituzione con una forte caratura etica. Chiunque osasse criticare qualcosa di questa triade si poneva automaticamente fuori, e quindi da un punto di vista morale tradiva”. A proposito del cambiamento del sistema politico italiano, lei indica nel volume due grandi occasioni perse. Una, all’inizio degli anni ‘60, col primo centrosinistra e il fallimento del riformismo di Aldo Moro. La seconda con Craxi, negli anni ‘80, soprattutto per un generale ostracismo – in particolare del Pci – nei confronti del leader socialista. “Sì, credo che quelli siano stati due snodi fondamentali in cui i principali protagonisti, la Democrazia cristiana, il Pci e il Partito socialista, paralizzarono la modernizzazione del nostro sistema politico. Nel primo caso i socialisti, bloccati da ‘un vorrei ma non posso’, persero l’opportunità col Governo Moro di incidere davvero sul piano delle riforme. Dal lato della DC, gli errori furono tutti addebitabili ad Aldo Moro che, troppo spaventato da questa alleanza di centrosinistra, mise il freno a qualsiasi tipo di vera riforma. E, infine, i comunisti – sia negli anni ‘60 che negli ‘80 – non capirono la reale portata storica del momento e non seppero elevare il livello della loro azione oltre l’allarme sull’incombente fascismo. Quanto al tentativo di Craxi, il suo errore fu, dopo aver indicato la strada della grande riforma, metterla da parte e, in più, dopo l’87 non saper cogliere il momento per un’apertura alta e generale al Pci che avrebbe potuto creare le basi di un grande polo di sinistra riformista”. Il suo libro incrocia la storia d’Italia attraverso la sua biografia. Lei ha spesso sollevato il tema dell’egemonia culturale della sinistra e del Pci nella vita del Paese. Quali le cause? “I comunisti sono stati i più bravi – per merito di Togliatti – a scegliere di puntare sulla cultura. Dal cinema, ai giornali, alla radio: hanno capito che quelli erano gli strumenti per condizionare la società ed esercitare il loro potere. Prima c’era stato il fascismo e la cultura di orientamento liberal-democratico era già stata messa in crisi. Il primo esodo degli artisti e degli intellettuali avvenne allora. Dopo la fine della guerra ci fu il secondo. Questa volta verso il Pci, che aveva capito prima e più degli altri l’importanza di quell’elemento”. Perché in Italia per gli intellettuali è stato così difficile fare i conti veri prima col fascismo all’inizio del secondo dopoguerra e poi, dopo il 1989, col comunismo? “Col fascismo doveva fare i conti tutta la società. Ci occupiamo degli intellettuali perché scrivendo lasciano tracce con i loro testi, ma erano in tanti ad avere qualcosa da farsi perdonare e fu così che tutti si perdonarono tra loro. Nel libro racconto il caso emblematico di Guido Leto – capo della famigerata Ovra, la polizia politica fascista – che, dopo ‘incredibili vicissitudini’ tra la caduta del fascismo e la fine della guerra, nel 1951 tornò tranquillamente alla sua brillante carriera nella polizia dell’Italia repubblicana. Cosa diversa fu, invece, col comunismo. Venne posta una netta distinzione tra quanto avvenne in Italia e quello che successe in Urss. C’era un velo di silenzio sulla realtà sovietica, tanto i comunisti italiani erano diversi. Questo permise di distinguere e “non vedere”. Come stanno gli intellettuali in Italia oggi? Tutti rifugiati nel “privato”? “Semplicemente non contano più. Non hanno un ruolo di rilievo nella società e per questo non prendono più la parola come avveniva nel passato. E’ un bene, forse. Finalmente conquistiamo la normalità. Una normalità grigia e fatta di silenzio. Il clima è cambiato, anche perché non ci sono più le ideologie al centro della scena”. Nel testo pone una distinzione tra l’uso politico e la vocazione pubblica della storia. Molti i casi di sfruttamento a fini politici e culturali di falsificazioni della storia. Come giudica il dibattito sulla cosiddetta post-verità, in cui secondo qualcuno non è vero ciò che è vero ma è vero ciò che è virale? “E’ una corbelleria. Non esiste dibattito. Non ci sono parole. E’ una cosa che non esiste la post-verità”. Sono passati 17 anni dalla morte di Craxi. Nel suo libro lei dedica pagine importanti al tentativo (e agli errori) della sua riforma del sistema politico italiano. Siamo pronti per un dibattito maturo su quell’argomento o anche qui prevalgono elementi di tipo morale nel giudizio? “Mi sembra che non siamo pronti per un dibattito maturo. O meglio: anche in questo caso prevale la doppia verità. Chiunque si approcci in maniera seria e approfondita al tema, pensa che quello sia stato un tentativo positivo di cambiare il sistema politico. Poi però nessuno lo dice in pubblico o lo scrive, perché sulla figura di Craxi ancora prevale solo l’elemento giudiziario. In questo caso l’egemonia culturale è di chi ha elevato a unico criterio di valutazione non la storia e la politica, ma la fedina penale delle persone, anche perché, forse, non si possiedono gli strumenti culturali ed intellettuali per approfondire alcuni fenomeni”. Non si può negare che uno degli ultimi tentativi di cambiamento del sistema politico italiano sia stato quello di Matteo Renzi, naufragato nelle urne del 4 dicembre. Lei scrive: “Cambiare è stato un tabù nella Prima Repubblica, per poi diventare un mantra senza effetto nella Seconda”. Dobbiamo rassegnarci all’impossibilità della politica di cambiare il Paese dalle fondamenta? “Rassegnarsi mai. Dovremmo però smetterla di dirlo e provarle a fare davvero. Non torno sugli errori e le insufficienze di Matteo Renzi. Certo è che per molti anni sarà difficile che qualunque politico si avvicini di nuovo al tema delle riforme di sistema. Ma è sbagliato, perché questo Paese ha il disperato bisogno di farle. Non possiamo neanche dire che in alternativa rischiamo il declino, perché già ci siamo dentro con tutti i piedi. Bisogna intervenire per evitare che il declino ci travolga del tutto”. Da - http://www.unita.tv/interviste/galli-della-loggia-libro/
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« Risposta #264 inserito:: Gennaio 02, 2018, 06:55:46 pm » |
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IL CASO ITALIANO Gli apparati pubblici e il declino dello Stato È naturale chiedersi se la nostra crisi non sia anche crisi dell’intero vertice amministrativo-giuridico, delle sue qualità e diciamo pure della sua etica Di Ernesto Galli della Loggia Sarebbe sciocco mettere sotto accusa istituzioni chiave dello Stato sulla base di poche seppur comprovate inadeguatezze, di singoli casi di malcostume, di sensazioni necessariamente generiche. Ma sarebbe altrettanto, se non più, sciocco tacere dell’impressione negativa che lasciano nel pubblico recenti notizie di cronaca riguardanti la Banca d’Italia, la Consob, e il Consiglio di Stato. Innanzi tutto perché in tutti questi casi ci troviamo di fronte a istituzioni di vertice in qualche modo rappresentative (al meglio!) di tutto un insieme; e poi perché l’impressione negativa di cui ho detto, lungi dal nascere solo da queste ultime vicende appare corroborata da indizi che si succedono ormai da tempo. Come si capisce, è difficile essere precisi, dal momento che si tratta di un’impressione dai contorni ancora sfumati e dai contenuti non molto definiti. Ma forte è la sensazione che le istituzioni di cui sopra stiano smarrendo il senso della loro tradizione, che su di esse gravi sempre più il pericolo della perdita di quelle doti di capacità e di rigore che fin qui sono state parte essenziale della loro realtà e della loro immagine. Forte è la sensazione che in coloro che lavorano al loro interno stia venendo meno la consapevolezza del proprio ruolo. Del suo rilievo pubblico, nonché delle qualità personali e culturali che sono necessarie. Le cose sembrano stare proprio in questa maniera poco esaltante. Ma se questa è oggi l’impressione che danno istituzioni come la Banca d’Italia e il Consiglio di Stato, allora è naturale chiedersi che cosa dovrà mai esserne di tutto il resto del nostro apparato statale: dell’alta burocrazia, dei suoi uffici, dei suoi capi. È naturale chiedersi, in una parola, se ormai la crisi italiana non sia anche crisi dell’intero vertice amministrativo-giuridico in senso lato dello Stato ( dalla Consob al Csm, al Consiglio di Stato, all’Anvur, al Consiglio Superiore dei lavori pubblici e così via seguitando), delle sue qualità e capacità di servizio, dei modi che ne regolano il reclutamento e il funzionamento. E diciamo pure la parola: della sua etica. Il fatto è che tra le molte fratture che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ce n’è stata una, silenziosa ma importantissima, che ha riguardato l’élite pubblica del Paese, quella che vede fianco a fianco la politica e l’amministrazione (intendendo con il termine anche le varie magistrature). Prima del 1994 si era stabilita tra le due una notevole convergenza. Terminato negli anni 60 il difficile periodo di assestamento del nuovo regime repubblicano e liberatisi i vertici dello Stato dalle scorie fasciste, la politica, ancora memore delle usurpazioni della dittatura, aveva pian piano imparato a rispettare (e in buona misura anche ad apprezzare) le autonome competenze dell’alta amministrazione e delle alte magistrature. Le quali a loro volta avevano appreso a contare, per la difesa della propria autonomia e la salvaguardia del proprio standard etico-culturale, su una parte della cultura cattolica ma specialmente sul forte abito di moralità pubblica rappresentata dalla tradizione laico-repubblicana nonché, a motivo del proprio ruolo di opposizione, da quella comunista: entrambe molto influenti e ascoltate rispettivamente nel governo e nel Paese. Personalità politiche come Andreatta, La Malfa, Amendola, sono state i custodi simbolo di questo ethos politico-amministrativo. Che aveva un nome un po’pomposo che oggi suona quasi umoristico: senso dello Stato. La rottura del ’92-’94 ha cambiato tutto. Ha spezzato il filo di una tradizione che bene o male risaliva ai padri fondatori e ai loro ideali. A partire da quella data è rapidamente giunta al potere una classe politica sempre più simile a quello che ormai stava divenendo la media del Paese: culturalmente slegata da qualsiasi passato, priva di visione, immersa nell’atmosfera economicistica dei tempi; moralmente disinvolta e indifferente alle regole. Una classe politica, infine, che perlopiù imbevuta di euro-universalismi e dei miti della globalizzazione, nulla poteva realmente sapere di quell’ideologia dello Stato nazionale e dei suoi interessi che alla fin fine è ancora oggi l’ideologia essenziale che sorregge ogni funzione pubblica. Era soprattutto una classe politica nuova, agli occhi della quale governare non voleva più dire amministrare quanto specialmente comandare; che negli apparati dello Stato non cercava tanto degli interlocutori intelligenti quanto degli esecutori obbedienti. È accaduto così che nella seconda Repubblica i vertici dello Stato, l’alta burocrazia, i grand commis e le alte magistrature, perduto il precedente rapporto con una sfera politica addestrata e consapevole, si siano trovati in certo senso abbandonati a se stessi. Presi nell’alternativa tra la tentazione di un’impossibile autonomia sempre sul punto di divenire separatezza autoreferenziale da un lato, e dall’altro la richiesta di una subalternità compiacente prossima a una vera complicità. Tra il credersi arbitri dei destini collettivi e il farsi servi-padroni della politica. Ed è accaduto che in questa stessa malefica alternativa si siano trovate le istituzioni che essi rappresentavano. Lo Stato della seconda Repubblica soffre da vent’anni del virtuale scollamento tra l’élite degli apparati pubblici e l’élite politica, la cui causa principale sta nel mutamento radicale che ha investito tanto la sfera della politica e le sue idee che la dimensione del governare. Un mutamento al quale però quegli apparati non possono andare dietro perché esso implica più o meno direttamente la negazione della loro funzione. 30 dicembre 2017 (modifica il 31 dicembre 2017 | 07:23) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da - http://www.corriere.it/opinioni/17_dicembre_31/gli-apparati-pubblici-declino-stato-20eb5102-ed9c-11e7-99fc-afe197c02437.shtml
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