Editoriali
03/10/2012
Un atto di trasparenza di fronte agli scandali
Franco Cardini
Sembra che i media abbiano deciso, all’apertura della seconda udienza contro Paolo Gabriele, di dare ampio spazio alle dichiarazioni sui presunti maltrattamenti ai quali sarebbe stato sottoposto durante la reclusione nella Città del Vaticano: chissà, può darsi che a qualcuno il richiamo agli abusi abbia fatto tornare in mente qualche vetusto cliché sulle prigioni dell’Inquisizione. L’ex maggiordomo di Benedetto XVI ha infatti dichiarato di essere stato soggetto a pressioni psicologiche, di essere stato rinchiuso durante i primi giorni di detenzione, all’incirca una ventina, in una cella molto angusta, al punto da essere impossibilitato ad allargare le braccia, e di aver dovuto sopportare tali condizioni con la luce accesa 24 ore su 24. Il Promotore di giustizia della Santa Sede, Nicola Picardi, ha avviato un accertamento sugli eventuali abusi, e le notizie delle ultime ore cominciano a far trapelare che una base di verità in quanto dichiarato ci sarebbe, ma che le condizioni di tale detenzione vanno contestualizzate. In un comunicato della Gendarmeria vaticana si legge infatti che certe misure sarebbero state adottate al fine di «evitare eventuali atti autolesionistici dell’imputato e per esigenze di sicurezza», con il detenuto consenziente; mentre le dimensioni ridotte della cella non sarebbero insolite rispetto agli standard di altri Paesi, e comunque si spiegano con il fatto che una cella più ampia era in fase di ristrutturazione. Per contro, Gabriele avrebbe usufruito di pasti in compagnia dei Gendarmi, con i quali ovviamente lo legavano pregressi rapporti di conoscenza, dell’ora d’aria e di vari momenti di socializzazione, di visite mediche, di incontri con familiari e assistenti spirituali, mentre avrebbe rifiutato di accedere alla palestra.
Il dato che salta agli occhi, mettendo a confronto accusa e difesa, e ovviamente nell’impossibilità di pronunciarsi sulle ragioni dell’uno o degli altri, è quello, di fronte a necessità del genere, delle strutture della Città del Vaticano, che è sì uno Stato sovrano, ma che evidentemente non è dotato di un sistema carcerario. Se Gabriele fosse condannato, infatti, è del tutto probabile che dovrebbe scontare la sua pena nelle carceri italiane, secondo il concordato esistente tra i due Stati. Il che, però, ci porta a una seconda constatazione: lo scandalo dei cosiddetti Vatileaks non è certo il più grave che il papato abbia vissuto nella sua storia; la Roma pontificia ha visto complotti, intrighi, crisi ben peggiori di questa, ma generalmente si è scelto di risolverli mettendo il più possibile la sordina rispetto a quanto non si stia facendo oggi. Il processo pubblico, con il botta e risposta sulle condizioni di detenzione, sulle considerazione di Gabriele a proposito della – è il suo parere – inadeguatezza e disinformazione di Benedetto XVI, rappresentano un fatto inedito. Fino a che punto dettato dalla volontà di mostrare che i panni sporchi vaticani non si lavano per forza in famiglia, o invece dalla necessità di far fronte al fatto che i furti di documenti compiuti da Gabriele non sono stati trasmessi a una qualche intelligence estera, ma sono invece finiti nel libro di Gianluigi Nuzzi, è cosa difficile a dirsi.
A parte le notizie, di rilievo tutto sommato modesto, sulle condizioni di detenzione, le prime due udienze del processo non ci pare abbiano offerto molto. Paolo Gabriele nega di aver avuto dei complici, come molti ipotizzano, e ammette solo di aver subito delle «suggestioni»; dichiara però genericamente di non essere il solo ad aver passato informazioni alla stampa in questi ultimi anni, e dice di non aver ricevuto soldi o benefici in cambio dei documenti trafugati, insistendo così sulle motivazioni già addotte in passato: l’essere stato spinto dalla constatazione dell’inadeguatezza del pontificato attuale, dovuta all’ingenuità di Ratzinger e ad alcuni cattivi consiglieri che lo circondano.
Al di là di quello che arriverà a chiarire il processo, gli avvenimenti di questi ultimi mesi (dall’allontanamento di Ettore Gotti Tedeschi alle tensioni intorno alla figura del cardinale Bertone) suggeriscono che non tutto si esaurirà in esso. Città del Vaticano può essere uno Stato piccolo e inadeguato a detenere un recluso, ma la sua limitatezza non va confusa con il potere e lo status del pontefice, che sono ben altra cosa. La trasparenza del processo non arriverà a mostrare di sicuro quali sono le vere tensioni in atto, le questioni sul tappeto. Per arrivare a conoscerle sarà forse opportuno mettere da parte il folklore sulle celle vaticane e le condizioni del detenuto Gabriele.
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http://lastampa.it/2012/10/03/cultura/opinioni/editoriali/un-atto-di-trasparenza-di-fronte-agli-scandali-FfYU22QCMR2XVW0SWiJRKN/index.html